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lundi, 15 septembre 2008

Klages e la mistica del primordiale

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La mistica del primordiale

Autore: Luca Leonello Rimbotti

Tommaso Tuppini, <I>Ludwig Klages. L'immagine e la questione della distanza Credeva che l’Amore, forza cosmica ancestrale, fosse impersonale e assoluto. Che vagasse nell’etere, come un’energia che proveniva dai mondi della creazione. Klages non era un visionario. O almeno, non solo. Era un filosofo-poeta contro l’epoca moderna. Nella società della tecnica vedeva la negazione della vera identità dell’uomo, che secondo lui proveniva dalle leggi primitive dell’esistenza, da ciò che lui chiamava anima. Anima è l’origine, è il segreto della vita, è il sigillo che ogni uomo e ogni popolo si porta dietro come un simbolo. Anima è la fusione con la natura, è la voce silenziosa degli avi, che non sappiamo più percepire. Tipico dell’epoca moderna è il voler andare contro l’anima, il voler costruire ideali artificiali, rapporti sociali falsi, utopie ingannatrici. Contro la purezza originaria della vita e contro l’armonia primordiale degli uomini e delle cose è sorto un giorno quel vizio assurdo che è lo spirito, cioè la ragione, l’intelletto razionalista. Energia distruttrice delle radici cosmiche dell’uomo, lo spirito ha in ogni epoca edificato imposture: tra queste, la coscienza repressiva invece dell’anima libera, la volontà tirannica invece della libertà senza limiti di spazio, la storia invece del tempo senza tempo.

Si capisce subito che in Klages rintoccano alcune eco di Nietzsche: la celebrazione delle origini e delle radici, la nostalgia di un’epoca mitica - quella dei “Pelasgi” - in cui gli uomini erano potenze dell’universo prive di angosce e paure, padroni di se stessi e dei propri istinti sovrani.

Nostalgia per l’epoca in cui sorsero i miti delle antiche civiltà, quando l’intuito, l’inconscio e le percezioni sensitive non erano ancora stati repressi dalle armi di distruzione della perversa intelligenza: il concetto, il giudizio, il criticismo. Quella era la vera vita: liberazione degli istinti e delle sensazioni, senza complessi, senza colpe, senza nessuna idea del “peccato”. Questo dell’uomo razionalista è invece il trionfo dell’anti-vita artificiale, che crea i mostri della tecnica e del progresso materiale.

La vita come estasi. Se l’uomo fosse in grado di tornare alla magia dell’origine, potrebbe sbarazzarsi di tutti i fardelli angosciosi che impone la schiavitù della modernità, che ha robotizzato i cervelli e isterilito le anime. La libera psiche è Eros, amore cosmico, distacco romantico dai vuoti interessi terreni. Nel suo libro famoso Dell’Eros cosmogonico, risalente al 1922, Klages celebrò l’Amore totale, il magnete che attrae magicamente due poli anche lontani tra loro, al di là della semplice sessualità, come un moto unitario di natura e un legame di sangue: “Il compimento consiste nel destarsi dell’anima, ed il destarsi dell’anima è contemplazione, ma essa contempla la realtà delle immagini originarie; le immagini originarie sono anime del passato che appaiono; per apparire esse hanno bisogno del legame con il sangue di chi è ancora vivo ed ha ancora un corpo”. In questo “mistico sposalizio” tra anima e “demone generatore” si compie, alla maniera platonica, secondo Klages, la trasformazione del semplice uomo in uomo assoluto, cosmico.

Klages amava la cultura romantica, che pensava per simboli, e che assegnava ai sentimenti il primo posto nella scala dei valori. Ma amava anche Goethe, la sua ricerca dei fenomeni originari come manifestazione del divino. Goethe era poeta, romanziere, scienziato. Ma uno scienziato che credeva ai fenomeni intuitivi, alla magia che è in natura. Ad esempio, il suo romanzo sulle Affinità elettive - in cui rappresentò il caso di una gravidanza condizionata dalla forza psichica del pensiero d’amore, al di là delle normali leggi biologiche - piacque moltissimo a Klages, che giunse a considerare Goethe come un maestro di sapienza inconscia, un poeta delle possibilità magnetiche della psiche umana. Non dunque il solare, l’olimpico genio che siamo abituati a conoscere, ma una sorta di mago indagatore dei segreti dell’anima e dei poteri occulti racchiusi nelle energie di Madre Natura.

Ritroviamo questi temi nella recente traduzione italiana di un piccolo libro di Klages del 1932, Goethe come esploratore dell’anima (editore Mimesis), in cui Goethe diventa quasi un sacerdote neo-pagano. Egli, studiando ad esempio la metamorfosi delle piante, in realtà aveva penetrato il mondo delle segrete potenze primordiali: i mutamenti, le polarità, i magnetismi. Klages, con mentalità irrazionale e religiosa, vede dunque nel genio di Goethe non semplicemente un grande poeta o un grande romanziere, ma un uomo capace di avvicinarsi al cuore divino della vita. Scienziato mistico e non razionalista, Goethe diventa agli occhi di Klages il massimo profeta di un ritorno alla natura e alle sue leggi di attrazione tra simili e di differenziazione universale. Klages amò la natura, fu un “ecologista” ante-litteram, ma non così profano e banale come i “verdi” del nostro tempo materialista. Nel suo capolavoro del 1929, Lo spirito come avversario dell’anima - un tomo di oltre mille pagine che fece epoca - Klages scrisse che “chi distrugge il volto della terra, uccide il cuore della terra e priva della loro ’sede’ le potenze che ora si sono dileguate nell’etere”.

Gli dèi sono fuggiti dal mondo perché l’uomo ha profanato la terra e desacralizzato la natura. Ma attenzione: tutto questo non era soltanto letteratura. Era molto di più. Nella rivalutazione dell’irrazionale e dell’inconscio c’era una guerra dichiarata al mondo razionalista, indifferenziato, democratico, ateo, materialista. Giampiero Moretti ha scritto che nell’idea di Klages di coniugare Goethe con Nietzsche c’era inciso il destino dell’Europa, “forse fin dai suoi primi albori, ad esempio, fin dal momento in cui le figure del guerriero e del sacerdote-poeta presero due strade diverse, spesso in lotta tra loro”.

Ora tutto è più chiaro. Molto oltre la mediocrità della new-age attuale, e con tanta profondità culturale in più, Klages fece parte di quella ribellione tradizionalista al mondo moderno che fu pensata in Europa come un’arma di difesa della terra, del sangue, dell’istinto, dell’origine mitica, del simbolo ancestrale, dell’identità mistica di popoli e gruppi umani. Una cultura politicamente vinta e dispersa. Ma non abbastanza da non lasciarci immaginare che possa presto o tardi riemergere, proprio come una di quelle occulte leggi della vita studiate da Goethe.

* * *

LUDWIG KLAGES: L’IRRAZIONALISMO INNANZI TUTTO

Nato a Hannover nel 1872, filosofo, psicologo e grafologo, Klages visse e insegnò a Monaco, dove conobbe Stefan George - il maggior poeta tedesco dell’epoca - entrando nel George-Kreis, il famoso sodalizio di cui facevano parte molti intellettuali di valore (tra gli altri, Bertram, Wolfskehl, Kantorowicz, Gundolf). Collaborò alla prestigiosa rivista di George “Blätter für die Kunst“, alla cui ideologia romantico-estetizzante si formarono intere generazioni di giovani tedeschi. Nel 1899 formò un suo gruppo culturale, i Kosmiker, vicino alle idee dell’antichista Johann Jakob Bachofen e di Alfred Schuler, il visionario studioso di Nietzsche e di Roma antica. Distaccatosi nel 1904 da George, Klages fondò il “Seminario di Psicodiagnostica”, che gli dette la notorietà. Il senso ideologico di questo ambiente consisteva nel recupero dei valori “dionisiaci” e tellurici, con una rivalutazione dell’irrazionalismo e degli aspetti esoterici della vita e della persona umana. Autore prolifico e originale, durante il Terzo Reich fu nominato Senatore dell’Accademia Tedesca di Monaco ma, a partire dal 1938, rimase appartato per l’inimicizia che gli portarono Alfred Rosenberg e i seguaci dell’ideologia volontarista e virilmente eroica, egemone all’interno della cultura nazionalsocialista. Epurato nel 1945, morì nei pressi di Zurigo nel 1956. Tra le sue opere tradotte in italiano: L’anima e lo spirito (Bompiani, Milano 1940); Dell’Eros cosmogonico (Multhipla, Milano 1979); Perizie grafologiche su casi illustri (Adelphi, Milano 1994); Stefan George, in S.George-L.Klages, L’anima e la forma (Fazi, Lucca 1995); L’uomo e la terra (Mimesis, Milano 1998). Di prossima pubblicazione è la riedizione de I Pelasgi presso le Edizioni Herrenhaus di Seregno. Si tratta di un capitolo dell’opera principale di Klages, Der Geist als Wiedersacher der Seele (Lo spirito come avversario dell’anima), mai tradotta in italiano.

Tratto da Linea del 21.III.2004.


Luca Leonello Rimbotti

jeudi, 19 juin 2008

Evola, l'antimoderno

EVOLA, L’ANTIMODERNO

 

Julius Evola è uno di quegli uomini della riflessione, che siam soliti chiamare filosofi, di cui spesso si sente parlare anche a sproposito all’interno di certi ambienti culturali, ma che, fondamentalmente viene dai più completamente accantonato. Come si è avuto modo di spiegare in più circostanze e come è sempre bene ribadire, ogni pensatore vive di sé e degli altri che con lui si pongono in confronto. Non è possibile inquadrare né tantomento catalogare nelle strettoie di un incartamento becero ed infantile, la portata straordinaria di ciò che ogni uomo del pensiero ci offre con le proprie osservazioni, con le proprie intensità e con le proprie sensazioni, sempre inserite nel tempo e figlie di un divenire, che non può disconoscere la sua essenzialità ontologica. Se un grande insegnamento la filosofia cosiddetta continentale ci ha dato, è proprio quello connesso al carattere prospettico e impersonale della realtà che ci circonda: senza dilungarci troppo sul valore fondamentale della riflessione ermeneutica dobbiamo comunque osservare il contesto in cui Evola storicamente si inserisce, il tratto storico-teoretico che tutta la riflessione occidentale ha vissuto come compimento della parabola cominciata decenni prima con l’irruenza antimetafisica di Friederich Nietzsche, forgiata attraverso la fenomenologia di Husserl, portata a concretizzazione da Heidegger e proseguita da Gadamer, senza che niente venisse scalfito dai mille eventi che avevano nel frattempo radicalmente cambiato la situazione europea (due guerre mondiali, indipendentismi, processo di Norimberga, terrorismo, sessantotto e via dicendo).

La reazione contro la metafisica tradizionale, il ritorno ai pre-socratici (Eraclito, Parmenide, Anassimandro…), la decostruzione dell’antropocentrismo, il superamento del rapporto soggetto-oggetto, la critica della Ragione, il nichilismo quale fenomeno onto-storico e destino improcrastinabile di un’umanità ormai irretita nell’ambito dei vecchi e degenerati schemi del pensiero occidentale (la sottile linea antropocentrico-escatologica che legava platonismo, ebraismo, cristianesimo, illuminismo, empirismo, marxismo ed idealismo), il circolo ermeneutico come unica fonte di conoscenza, il rifiuto del mondo della tecnica quale dominio scellerato ed invasivo della volontà di potenza ai danni del mondo reale e tradizionale, erano tasselli su cui tutto il pensiero Novecentesco si è mosso, sin dai suoi albori. La morte di Nietzsche, avvenuta esattamente nell’anno 1900, e le sue profetiche e terrorizzanti parole (“Quella che vi sto per raccontare è la storia dei prossimi due secoli…”), hanno segnato indubbiamente un’epoca che ha vissuto sulla paura e sulla desolazione completa, in ogni angolo della cultura, filosofico, ovviamente, letterario, artistico, umanistico e politico. Per quanto, stracitato e spesso chiamato in causa anche oltre gli stessi intenti dell’autore, basti pensare all’importanza rivestita da un testo fondamentale come “Il tramonto dell’Occidente” di Oswald Spengler. Proprio da quest’ultimo, Julius Evola sembra particolarmente colpito, nel momento in cui, comincia a formarsi. La tormentata e controversa personalità del filosofo romano, stava attraversando un periodo particolarmente tragico, al momento del ritorno (nel 1919) dal fronte.

Vicino al suicidio, affermò (come leggiamo nel suo Il cammino del cinabro), di aver rinunciato a questo gesto, dopo l’illuminazione in seguito alla lettura di un testo buddhista. Questo incontro, sulle stesse orme che mossero anni prima Schopenauer, non si esimerà dall’essere foriero di una nuova impostazione, che lo porterà a conoscere l’induismo e le teorie dell’Uno, così tanto sconosciute nel profondo e così tanto occidentalizzate, commercializzate e spudoratamente violentate nel corso degli ultimi decenni dalla cosiddetta new age o next age. A questo interesse si accompagnano i mai sopiti spunti esoterici e gnostici che lo hanno accompagnato. Testi come Imperialismo Pagano e soprattutto il più conosciuto Rivolta contro il mondo moderno, pubblicato in piena era fascista, non gli valsero le simpatie, ma anzi gli procurarono diverse noie e pure delle censure. Fu scomodo, per molti gerarchi, per quei cosiddetti fascisti della seconda ora, quelle fazioni conservatrici e burocrati, soggiunte a Fascismo ormai assestato e definito. La sua visione del resto ha sempre rimarcato un carattere sovra politico, anzi impolitico, che poco aveva a che spartire con la brutale normalità istituzionale ed amministrativa, e che mirava in alto, verso la più pura teoresi di quel mondo della Tradizione, da lui decantato e osannato. Ma cosa era in realtà questa Tradizione? E a cosa si contrapponeva?

Fu nel dopoguerra, e precisamente nel 1951 che Evola, venne chiaramente coinvolto nel processo al movimento paramilitare ai FAR, organizzazione neofascista, quale presunto teorico e intellettuale di riferimento. Fu naturalmente assolto con formula piena, malgrado l’isteria antifascista di tutto il dopoguerra avesse persino portato sul banco degl imputati, una persona totalmente estranea ai fatti, senza prove, senza legami espliciti o meno, ma solo sulla base di una presunta connessione intellettuale. Da quel tipo di difesa e da quel distacco intrapreso verso tutto ciò che riguardava la dimensione politica nel senso più strettamente partitico del termine, possiamo subito capire che le origini del pensiero evoliano, nascevano molto più indietro e avevano radici ben salde in una sorta di filosofia della storia, che (non di rado ispirata da Guenon), rileggeva il passato del corso temporale attraverso una disamina chiara e precisa, che poneva in netto contrasto due principi: il mondo della Tradizione da un lato, ed il mondo dell’antiTradizione dall’altro. L’umanismo nel mezzo, a far da mezzavia, era indicato come il momento critico, il punto dell’irreversibilità antitradizionale, nel quale vengono poste le basi per lo sviluppo del cosiddetto homo hybris, nel quale scompare ogni richiamo al Sacro, ogni senso gerarchico, ogni assoluto.

La trascendenza, quale mezzo di coglimento per l’uomo della Tradizione, svanisce sotto i colpi del laicismo, sotto i colpi dei miti del progresso e dell’homo faber fortunae suae, tipici della tendenza trionfante all’interno della pur vasta cultura umanistico-rinascimentale. L’individualismo trasudante e baldanzoso, che uscì fuori da questa rivoluzione catastrofica, si traslò sul piano più strettamente ideologico nel liberalismo, nell’anarchismo sociale, nel marxismo e nel totalitarismo, sia democratico sia dittatoriale. Riprendendo Guenon, l’umanismo era esattamente la sintesi del programma che l’Occidente moderno aveva ormai inteso seguire, per mezzo di una vasta opera di riduzione all’umano dell’ordine naturale: qualcosa di presuntuoso e sconvolgente, la cui precisa critica mostra chiaramente i punti di contatto con la Genealogia della morale affrontata da Nietzsche e con i Saggi di Heidegger. La Rivolta evoliana è qualcosa che, probabilmente resta indietro rispetto ai maestri tedeschi, e in parte paga ancora un lascito terminologico alla metafisica che invece Egli intendeva abbattere, ma indubbiamente il valore, il nisus, il punto ottico di osservazione teoretica pare quasi essere lo stesso.

Il progresso è niente altro che una “vertigine”, un’illusione, con la quale l’uomo moderno viene ammaliato e ingannato: una auto illusione, che lo porta in una dimensione di progressivo oblio dell’essere autentico (ancora Heidegger, come vediamo), in favore dell’ormai avvenuto e sempre più imbattibile matrimonio con l’antropomorfizzazione del mondo. La Tradizione, con i suoi valori gerarchici (“dall’alto verso l’alto”), con il suo carattere cosmologico e ciclico (indistinzione uomo-natura, homo hyperboreus e circolarità storica – ancora Nietzsche con l’eterno ritorno), con la sua concezione sacrale-trascendentale, si mostrava come la sola vera arma in condizione di opporsi alla degenerazione causata dai miti metafisici, antropocentrici e razionalistici, e da fenomeni sociali quali il progressismo, la secolarizzazione, il laicismo e l’ateismo materialista. “Umanistica è quella cultura nella quale principio e fine cadono entrambi nel semplicemente umano: è quella cultura priva di qualsiasi riferimento trascendente o in cui tale riferimento si riduce a vuota retorica, che è priva di ogni contenuto simbolico, di ogni adombramento di una forza dall’alto. È umanistica la cultura profana dell’uomo costituitosi a principio di sé stesso, quindi metafisicamente anarchico e intento a sostituire a quell’eterno, a quell’immutabile e a quel super-personale, di cui egli ha finito col perdere il senso, i fantasmi vari e mutevoli dell’erudizione o dell’invenzione dell’intelletto o del sentimento, dell’estetica o della storia”: in queste riflessioni potremmo sintetizzare il pensiero più radicale ed interiore di Evola, osservando in esse il carattere tradizionale, che lo portò a negare la validità del darwinismo, dell’evoluzionismo e dell’ugualitarismo, in favore di una weltanschauung forgiata sui significati antichi di imperialità, gerarchia e razzismo (o meglio ancora, razzialismo) spirituale.

La morte di Dio, annunciata dal folle deriso nella Gaia Scienza di Nietzsche, è un punto di partenza ineludibile, per comprendere cosa significhi nel profondo la perdità dell’ordine, il senso di sconforto per l’abbattimento dei valori tradizionali e il senso di disorientamento, quale destino onto-storico (il nichilismo come ospite indesiderato) di una civiltà autodistruttiva come quella umana, appunto, affidatasi volitivamente a nuovi (dis)valori, in aperto contrasto con quella che è l’essenza più autentica dell’ordine naturale del mondo, abbandonando ogni senso atemporale ed ontologico del pensiero, e sviluppando una concezione calcolante, transeunte e mercantile della ragione umana, finalistica e teleologica, individualista e materialista. Pensare di poter ricondurre il suo pensiero alla mera dimensione politica, sarebbe una violenza inaccettabile, così come tentare di elasticizzarne le asperità o le parti più scomode. Di fronte ad un grande uomo del pensiero, abbiamo sempre un grande tesoro, forte di un’apertura semantica continuamente attingibile e sempre esplorabile attraverso nuove chiavi di lettura. Non chiudiamone il raggio, non limitiamoci a ciò che più interessa ad ognuno di noi, non compriamone una parte per buttarne via delle altre: non siamo al mercato, non siamo mercanti, non siamo clienti. Siamo uomini.

Comunità Militante Perugia
Associazione Culturale Tyr
http://www.controventopg.splinder.com

mercredi, 11 juin 2008

Unheilig - Maschine

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Unheilig - Maschine

 

“[D]e industrie is niet alleen de toepassing van de wetenschap, toepassing waarvan die laatste – op zichzelf – totaal onafhankelijk zou moeten zijn. Zij wordt er de bestaansreden en de rechtvaardiging van, zodanig dat hier nogmaals de normale betrekkingen omgekeerd blijken te worden. Datgene waarop de moderne wereld al haar krachten heeft toegepast, zelfs wanneer ze heeft beweerd aan wetenschap op haar manier te doen, is in werkelijkheid niets anders dan de ontwikkeling van de industrie en het ‘machinisme’. En door zo de materie te willen beheersen en haar naar hun gebruik te buigen zijn de mensen er alleen in geslaagd zich er de slaven van te maken. Zoals we in het begin zeiden: niet alleen hebben ze hun verstandelijke (als het nog toegelaten is zich van dat woord te bedienen in een dergelijk geval) ambities beperkt tot het uitvinden en bouwen van machines, maar ze zijn uiteindelijk zélf machines geworden. Inderdaad, de ‘specialisatie’ – zo geroemd door bepaalde sociologen onder de naam ‘arbeidsverdeling’ – heeft zich niet alleen opgedrongen aan geleerden, maar ook aan technici en zelfs aan arbeiders, en voor die laatsten is elke verstandelijke arbeid op die manier onmogelijk gemaakt. Heel anders dan de ambachtslui van vroeger, zijn zij niets anders dan de bedieners van machines. Zij vormen als het ware één geheel ermee. Zij moeten onophoudelijk – op een volledig mechanische manier – bepaalde gedetermineerde bewegingen herhalen om het minste tijdverlies te vermijden. Altijd dezelfde en altijd volbracht op dezelfde manier. Zo willen het tenminste de Amerikaanse methodes die aanzien worden als de hoogste graad van ‘vooruitgang’. Inderdaad, het gaat er alleen om zoveel mogelijk te produceren. Men bekommert zich weinig om de kwaliteit, het is enkel de kwantiteit die belangrijk is. We komen eens te meer terug op dezelfde vaststelling die we al gemaakt hebben in andere domeinen: de moderne beschaving is waarlijk wat men een kwantitatieve beschaving kan noemen, wat niets anders is dan een andere manier om te zeggen dat zij een materiële beschaving is”.

René Guénon, La crise du monde moderne, p. 153