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samedi, 21 février 2009

Simone Weil, la filosofia che si fa vita

Simone Weil, la filosofia che si fa vita 

Articolo di Marco Iacona
Dal Secolo d'Italia di martedì 3 febbraio 2009
È da tempo che stiamo riproponendo su queste pagine quegli autori di frontiera che rappresentano al meglio quella nuova sintesi verso la quale, nel suo esito post-totalitario, il Novecento auspicava nel profondo. È il caso di figure come Charles Peguy, Hannah Arendt, Albert Camus o l’Ernst Jünger del secondo dopoguerra. Figure nel cui pensiero si conciliava l’apparentemente inconciliabile: la spiritualità e la trasformazione politica, la libertà e la tradizione, la battaglia per i diritti sociali e l’adesione al principio di realtà. È questo anche, e soprattutto, il caso di Simone Weil, di cui proprio oggi ricorre il centenario della nascita. In Italia fu Adriano Olivetti a tradurne per primo alcune opere già nei secondi anni Quaranta e saranno, successivamente, Cristina Campo, Alfredo Cattabiani e Augusto Del Noce a valorizzarne l’importanza filosofica, in particolare la riscoperta moderna del platonismo. Un editore non di sinistra come Rusconi pubblicherà il fondamentale La Grecia e le intuizioni precristiane e, infine, le edizioni Adelphi di Roberto Calasso ne tradurranno quasi l’intera opera a cominciare dalle Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale. Una pensatrice, la Weil, che sfugge a qualsiasi facile classificazione di natura ideologica: da ebrea si avvicinò alla fede cattolica, socialista e molto legata al sindacalismo rivoluzionario scoprirà che una vera rivoluzione s’invera nella religione, studiosa di livello sceglierà di andare a lavorare in fabbrica per sperimentare la questione sociale del Novecento.
Nata a Parigi nel 1909, allieva del filosofo Alain, fu all’inizio insegnante di liceo e militante sindacale e politica nell’ambito cristiano-anarchico e intrattenendo vari contatti internaziopnali, ospitando anche per un breve periodo il leader antistalinista Trotzkij. Fu poi esule in America, infine a Londra. Affetta da tubercolosi, morì nel sanatorio di Ashford in Inghilterra nel 1943 a soli 34 anni lasciando un’immensa produzione scritta che verrà pubblicata postuma. Il suo pensiero è caratterizzato da un forte principio di realtà, nonché dall’esigenza di ancorarlo al contesto sociale e politico di appartenenza (del quale sperimentava, spesso in prima persona, le condizioni). L’analisi filosofica di Simone Weil, asistematica e irregolare, difficilmente collocabile all’interno delle correnti tradizionali, ha purtroppo finito per passare in secondo piano rispetto al vissuto dell’autrice. Ci si trovava immedrsi, a suo dire, in un mondo moderno dove nulla è a misura dell’uomo, dove tutto è squilibrio e la società è collettività cieca, trasformata in una macchina per comprimere cuore e spirito e per fabbricare l’incoscienza. Separando il lavoro dalla conoscenza, la società moderna e soprattutto la società industriale, avervano aumentato enormemente la complessità della sua organizzazione, ponendo quindi le condizioni per un potere sempre più forte che tende a riprodursi anche là dove è stata fatta una rivoluzione. Emerge, già da queste sue analisi, il grande contributo weiliano a quel pensiero anti-totalitario e post-totalitario che è ancora oggi l’orizzonte sul quale si muove il dibattito pubblico. Ma veniamo a lei. Il suo stesso volto da eterna e pensosa giovane – i suoi occhi così grandi in un ovale imperfetto – ricorda una poesia triste, una poesia che raramente si legge in pubblico ma che ciascuno di noi ama ripetere fra sé e sé, alla ricerca di sottili verità. Verità umili e sofferte da sgranare come i chicchi di un Rosario. Come dicevamo, Simone oggi avrebbe cento anni, un’età patriarcale impossibile da raggiungere da una come lei che la vita la sudò fino all’ultima goccia. Nata e cresciuta in un mondo colmo di afflizioni ed ella stessa di salute cagionevole, interpretò la vita al pari di un vero grande scrittore contemporaneo, mescolando la teoria alla pratica, la fede – quella con la F maiuscola – alla parola, la speranza alla fatica, il lavoro al sublime pensiero. E mescolando, sopra ogni cosa, la cerca delle più grandi verità (così come viene fuori dai suoi Quaderni), alla preziosa ma passiva attesa che saranno esse stesse – le verità – a manifestarsi nel cuore degli uomini prima o dopo. Ci ha lasciato oltre che la forza di un pensiero innalzato sulle fondamenta della realtà sociale, l’immagine di una tenue dolcezza (e di un amore sincero): la compagna di una scelta di vita che obbliga al rispetto, quasi all’adorazione, da qualsiasi parte – quella scelta di vita – la si contempli e da qualsiasi parte si scelga d’ammirarla. La sua vita è stata un romanzo interrotto, forse, nel capitolo più bello. Simone Weil era stata tentata dal marxismo (ma mai scritta ad alcun partito), anarco-sindacalista e rivoluzionaria, una donna pugnace dunque che era partita volontaria per la guerra di Spagna già nel ’36, militando ovviamente fra le fila degli anarchici. Di professione era stata una insegnate di filosofia nei licei francesi fino al 1934, fino a quando cioè aveva capito che occupare una comoda sedia (pontificando su questo e quello), sarebbe stato solo un pratico lasciapassare per una buona carriera. Redditizia e borghese. Una carriera dimentica della rilevanza e della dignità dell’altro da sé, con la voce “giustizia” confinata all’interno di un freddo manuale di storia ad uso scolastico. Così aveva deciso di rimettersi in gioco, d’inventarsi salariata della Renault di Parigi per conoscere e toccare con mano le condizioni della classe operaia. Per dividere e condividere le sofferenze di chi a quel tempo sembrava davvero riassumere i mali di quella fetta di genere umano chiamato Occidente. Ovvio che i temi ricorrenti negli scritti della Weil (tutti usciti postumi a cura di padre Joseph-Marie Perrin e del grande pensatore cattolico Gustav Thibon con la collaborazione di Albert Camus), fossero quelli della miseria, della schiavitù e dell’oppressione. Ed altrettanto ovvio che uno dei suoi rimedi per porre fine alle condizioni sfavorevoli dei più deboli fosse quel vero, sano, umanismo calpestato da qualsiasi rivoluzione in qualunque epoca storica.
Nel 1934 Simone aveva scritto Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, una critica contro il capitalismo industriale; in esso aveva posto al centro della società il valore del lavoro non più rigidamente diviso in lavoro manuale e lavoro intellettuale, causa profonda secondo lei di ingiustizia. In Oppressione e libertà invece aveva denunciato alcune forme di varia oppressione, quella dovuta all’uso della forza, quella dovuta al capitale e quella dovuta appunto alla divisione del lavoro. Un giorno però messa a dura prova da un’esperienza professionale e di vita (il lavoro in fabbrica appunto), nella quale il semplice apporto volontaristico sembrava non essere più sufficiente, la giovane Weil imprime alle sue riflessioni e ai suoi modi una direzione in senso affatto teologico. Cristo? Sì il Cristo dei Vangeli venuto a redimere l’uomo… Lui poteva mostrarsi quale “pietra angolare”, capace di dar ragione alle sue sofferenze, capace di motivare le sue sopportazioni e di assegnare un significato alle infinite realtà e con esse al passato filosofico e al visto e al non-visto. Nel 1937 (non a caso ad Assisi), c’è così la svolta nella vita dell’agnostica Simone Weil. Quella crisi mistica che la condurrà a cercare anche con estrema durezza verso se stessa, una conoscenza diretta della Verità e della Bellezza, dunque – per lei – della divinità. La conoscenza di quel Dio la cui vicinanza è condizione essenziale perché l’uomo sconfigga l’infelicità che lo possiede, di quel Dio di fronte al quale è opportuno annullarsi e annullare il proprio io (“decreando” quello che lui ha creato limitandosi, cioè noi stessi). Di quel Dio che non va cercato, perché si incontra semplicemente non amando tutto ciò che Egli stesso non è. Di quel Dio che, infine, si manifesterà se impariamo ad accettarlo così com’è; e del resto come è opportuno che Egli stesso venga accettato.
Dal momento in cui Simone indirizza se stessa verso l’immenso fronte della spiritualità – e dal momento in cui sembra scrollarsi di dosso gli interessi più superficialmente politici a vantaggio di una riflessione sul senso dell’esistenza e del “noi fra gli altri” – i suoi studi si arricchiranno di pagine e pagine di testi sacri, dalle religioni orientali al Corano, dalla Bibbia alla Bhagavad-Gita. Scritti ancora poco conosciuti e tutti ancor meno studiati da molti filosofi di casa nostra. La Weil condiva però la sua forte attenzione verso le condizioni materiali dell’uomo con un altrettanto vigoroso pessimismo sociale. Le società contemporanee sono soltanto delle macchine, diceva, ove più nulla è fatto e pensato per essere a misura d’uomo. Quelli passati a lavorare in fabbrica – e poi dopo come contadina – saranno senz’altro anni duri ma decisivi per la sua formazione. D’altra parte, ed ancora dal punto di vista del pensiero della Weil, nessuna società giusta potrà fare a meno di fondamenta etico-religiose e di una tensione continua verso quei principi supremi – in primo luogo il Bene – che fanno di un popolo una società e che non possono basarsi sui requisiti di un determinismo a sfondo materialista che informa quasi tutta la filosofia di Marx. Un Marx a questo punto ben lontano dalle realizzazioni weiliane (chi ci dice che il proletario giunto al potere non opprima com’egli stesso era oppresso in precedenza?).
Ma la Chiesa di Roma, per una Simone concentrata sul rapporto fra creazione, fede e libertà, non è meno colpevole di quei regimi totalitari del Novecento contro i quali la scrittrice si era schierata per estrema coerenza (da ebrea fu costretta a fuggire dalla Francia di Vichy a rifugiarsi per poco tempo in America, e poi stabilirsi in Inghilterra ove morì). Una Chiesa nel cui grembo Simone non entrerà mai, rimandando il battesimo e con esso l’ingresso ufficiale nella comunità dei cristiani, rifiutando tutto quel che di feroce e oppressivo era stato avallato dalla Chiesa fino a quel dato momento. Ma forse Simone – morta troppo giovane – non ebbe il tempo per fare il passo definitivo.
Oppressione, debolezza e sofferenza: è questo il trinomio di tragica concretezza steso dalla professoressa Weil sulla lavagna della nostra e della sua contemporaneità, ed è questo il filo biografico che unisce la sua vita da esclusa a buona parte della primo Novecento. A un certo punto della sua vita Simone non riuscì – o semplicemente non volle – sottrarsi a una fine terribile, morire d’inedia per solidarietà con gli ebrei che morivano nella tristissima Europa degli anni Quaranta vittime della hitleriana “soluzione finale”. Magra e quasi del tutto irriconoscibile, era l’estate del 1943. Fu il gesto estremo di chi nella sua vita e col suo pensiero aveva dato pochi punti di riferimento. L’atto finale di chi con la morte aveva voluto cancellare gli unici rimasti che non fossero l’amore per il Dio universale e per la dignità dell’uomo.
Marco Iacona è dottore di ricerca in "Pensiero politico e istituzioni nelle società mediterranee". Si occupa di storia del Novecento. Scrive tra l'altro per il bimestrale "Nuova storia contemporanea", il quotidiano "Secolo d'Italia" e il trimestrale "la Destra delle libertà". Per il quotidiano di An nel 2006 ha pubblicato una storia del Msi in 12 puntate. Ha curato saggi per Ar e Controcorrente edizioni. Nel 2008 ha pubblicato: "1968. Le origini della contestazione" globale" (Solfanelli).

Drechos humanos vs. Derechos ciudadanos

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Derechos humanos vs. Derechos ciudadanos

 

 

                                                                                       Alberto Buela (*)

 

Hace ya muchos años el pensador croata Tomilslav Sunic realizaba la distinción entre derechos humanos y derechos de los pueblos tomando partido por estos últimos.

No es para menos, los derechos humanos tienen un anclaje filosófico en la ideología de la ilustración de corte político liberal mientras que los derechos de los pueblos fundan su razón de ser en el historicismo romántico de corte popular.

Hoy ya es un lugar común - luego de la afirmación de Proudhon (1809-1965), el padre del anarquismo, “cada vez que escucho humanidad sé que quieren engañar” - cuestionar la incoherencia de la Ilustración en materia política, así como la exaltación de la razón humana como “diosa razón”.

Este pensamiento ilustrado sufre una metamorfosis clara que va desde sus inicios con el laicismo libertario de la Enciclopedia y el racionalismo, pasa por el socialismo democrático y desemboca en nuestros días en el llamado “progresismo” que se expresa en la ideología de la cancelación como bien lo hace notar el muy buen pensador español Javier Esparza: “ que consiste en aquella convicción según la cual la felicidad de las gentes y el progreso de las naciones exige cancelar todos los viejos obstáculos nacidos del orden tradicional” [1]

 

La gran bandera del pensamiento “progre” es y han sido los derechos humanos donde ya se habla de derechos de segunda y tercera generación. Esta multiplicación de derechos humanos por doquier ha logrado un entramado, una red política e ideológica que va ahogando la capacidad de pensar fuera de su marco de referencia. Así el pensamiento políticamente correcto se referencia necesariamente en los derechos humanos y éstos en aquél cerrando un círculo hermenéutico que forma una ideología incuestionable.

Esta alimentación mutua se da en todas las formulaciones ideológicas que se justifican a sí mismas, como sucedió con la ideología de la tecnología en los años sesenta donde la tecnología apoyada en la ciencia le otorgaba a la ciencia un peso moral que ésta no tenía, hasta que la tecnología llevaba a la práctica o ponía en ejecución los principios especulativos de aquélla.

Se necesita entonces un gran quiebre, una gran eclosión, el surgimiento de una gran contradicción para poder quebrar esta mutua alimentación. Mutatis mutandi, Thomas Khun hablaba de quiebre de los paradigmas, claro que no para hablar de este tema, sino para explicar la estructura de las revoluciones científicas.

 

Los derechos humanos tal como están planteados hoy por los gobiernos progresistas están mostrando de manera elocuente que comienzan a “hacer agua”, a entrar en contradicciones serias.

En primer lugar estos derechos humanos de segunda o tercera generación han dejado o han perdido su fundamento en la inherencia a la persona humana para ser establecidos por consenso. Consenso de los lobbies o grupos de poder que son los únicos que consensuan, pues los pueblos eligen y se manifiestan por sí o por no. Aut- Aut, Liberación o dependencia, Patria o colonia, etc. Es por eso que hoy se multiplican por cientos: derecho al aborto, al matrimonio gay, a la eutanasia, derecho a la memoria por sobre la historia, a la protección a las jaurías de perros que por los campos matan las ovejas a diestra y siniestra (en la ciudad de La Paz- Bolivia hay 60.000 perros sueltos) [2]. Cientos de derechos que se sumaron a los de primera generación: a la vida, al trabajo, a la libertad de expresión, a la vivienda, al retiro digno, a la niñez inocente y feliz, etc.

Ese amasijo de derechos multiplicados ha hecho que todo el discurso político “progre” sea inagotable. Durante horas pueden hablar Zapatero y cualquiera de su familia de ideas sin entrar en contradicciones manifiestas y, por supuesto, sin dejar de estar ubicado siempre en la vanguardia. La vanguardia es su método.

Pero cuando bajamos a la realidad, a la dura realidad de la vida cotidiana de los ciudadanos de a pié de las grandes ciudades nos encontramos con la primera gran contradicción: Estos derechos humanos, proclamados hasta el hartazgo, no llegan al ciudadano. No los puede disfrutar, no nos puede ejercer.

El ciudadano medio hoy en Buenos Aires no puede viajar en colectivo (bus) porque no tiene monedas, es esclavizado a largas colas para conseguirlas. Es sometido al robo diario y constante. Viaja en trenes desde los suburbios al centro como res, amontonado como bosta de cojudo. Las mujeres son vejadas en su dignidad por el manoseo que reciben. Los pibes de la calle y los peatones sometidos al mal humor de los automovilistas (hay 8000 muertes por año). Llevamos el record de asesinatos, alrededor de 12.000 al año. Los pobres se la rebuscan como gato entre la leña juntando cartón y viviendo en casas ocupadas en donde todo es destrucción. Quebrado el sistema sanitario la automedicación se compra, no ya en las farmacias, sino en los kioscos de cigarrillos. El paco y la droga al orden del día se lleva nuestros mejores hijos, mientras que la educación brilla por su ausencia con la falta de clases (los pibes tienen menos de 150 días al año).

 

Siguiendo estos pocos ejemplos que pusimos nos preguntamos y preguntamos ¿Dónde están los derechos humanos a la libre circulación, a la seguridad, a la dignidad, a la vida, al trabajo, a la vivienda, a la salud, a la moralidad pública, a los 180 días de clases que fija la ley?. No están ni realizados ni plasmados y  no tienen ninguna funcionalidad político social como deberían tener. Así los derechos humanos en los gobiernos progresistas son derechos “declamados” no realizados. Es que este tipo de gobiernos no gobiernan sino que simplemente administran los conflictos, no los resuelven.

En este caso específico que tratamos aquí los derechos ciudadanos mínimos han sido lisa y llanamente conculcados. La dura realidad de la vida así nos lo muestra, y el que no lo quiera ver es porque simplemente mira pero no ve.

La gran contradicción de lo políticamente correcto en su anclaje con los derechos humanos en su versión ideológica es que estos por su imposibilidad de aplicación han quedado reducidos a nivel de simulacro. Hoy gobernar es simular.

 

Y acá surge la paradoja que en nombre de una multiplicidad infinita de derechos humanos, estos mismos derechos de segunda o tercera generación han tornado irrealizables los sanos y loables derechos humanos del 48 que tenían su fundamento en las necesidades prioritarias de la naturaleza humana. Han venido a ser como el perro del hortelano que no come ni deja comer. Todo esto tiene solo una víctima, los pueblos, las masas populares que padecen el ideologísmo de los ilustrados “progres” que los gobiernan.

Un ejemplo final lo dice todo: año1826, primer presidente argentino González Rivadavia, un afrancesado en todo menos en la jeta de mulato resentido, alumbró 14 cuadras de la aldea que era Buenos Aires, en la cuadra 15 los perros cimarrones se comían a los viandantes. Siempre el carro delante del caballo.

 

 

 

(*) alberto.buela@gmail.com

 



[1] Esparza, Javier: “Para entender al zapaterismo: entre el mesianismo y la ideología de la cancelación”, Razón Española Nº 153, Madrid, enero-febrero 2009, p.10

[2] Hay quienes hablan hoy de “derechos humanos de los animales” un verdadero hierro de madera.

Ossendowski, l'ultimo avventuriero

Ossendowski, l’ultimo avventuriero

Francesco Boco

Ferdynand Ossendowski (1876-1945)

L’avventura non è cosa da minimalismo postmodernista. Il fatto che la maggioranza della produzione letteraria e cinematografica contemporanea, nonché l’educazione scolastica, eviti di addentrarsi negli inquietanti reami dell’autentica avventura, ha un che di significativo. Il grande avventuriero dei fumetti, Mister No, non viene più pubblicato, se non raramente, e in libreria le cose non vanno meglio. Solo qua e là emerge qualche perla di vita vissuta, qualche libro in cui si respirano il profumo del muschio e del vino forte, del tabacco trinciato e dei fiori al mattino, ma per il resto tutto tace. Certo, c’è chi prova ad affrontare l’argomento, chi s’impegna, ma nei libri come nei film, la vera avventura viene dal profondo, perché è una questione di sapienti, e non di dotti. Di quei folli, per dirla con Kerouac, che preferiscono bruciarsi che spegnersi lentamente.

Il viaggio avventuroso rappresenta un mito per i giovani inquieti, per coloro i quali sentano il bisogno di una ricerca fuori dagli schemi. La cultura di un Pasolini, tanto per dire, non potrebbe mai concepire il viaggio in sé come un’esperienza di vita, un’occasione di crescita e riflessione, perché il viaggio, in questa mentalità, è semplice tragitto, una questione burocratica da espletare che deve condurre ad una meta precisa.

Ma i grandi viaggiatori non sono coloro che raggiungono molte mete, sono quelli che invece visitano molti luoghi, conoscono genti e storie, si perdono, volutamente, durante il percorso, come dei viandanti in cerca della saggezza. Nietzsche fu un grande viaggiatore e un avventuriero del pensiero, altri, specie dopo di lui, furono solo principianti della vita, impauriti dall’esistenza preferirono ritirarsi nel buio del loro studiolo. Per dirla con il provocatorio Deleuze, il pensiero nietzscheano, il vero pensiero non-conformista, è il riflesso della vita, è frutto dell’esperienza, cresce e si sviluppa nella terra e nel tempo. Perciò la biografia del filosofo tedesco è così importante.

«La terra e il cielo cessavano di respirare. Il vento non soffiava più, il sole si era fermato. In un momento come quello, il lupo che si avvicina furtivo alla pecora si arresta dove si trova; il branco di antilopi spaventate si ferma di botto [...]; al pastore che sgozza un montone cade il coltello di mano [...] Tutti gli esseri viventi impauriti sono tratti involontariamente alla preghiera e attendono il fato. Così è accaduto un momento fa. Così accade sempre quando il Re del Mondo nel suo palazzo sotterra prega e scruta i destini di tutti i popoli e di tutte le razze». Così, con la straordinaria capacità evocativa che gli è propria, narra della sua ricerca della mitica Agartha sotterranea, centro spirituale che alcuni sembrano collocare a Lhasa, il celebre avventuriero Ferdinand Ossendowski (1878-1945). Il racconto si svolge in Mongolia nel 1921; il palazzo dove prega il Re del Mondo si trova nel regno di sotterra, un territorio immenso nascosto alla vista degli uomini e popolato da esseri semidivini, vero e proprio centro spirituale del pianeta. Quel regno esiste fin dalla notte dei tempi: per tutto il remoto periodo denominato dai miti “Età dell’Oro” aveva prosperato alla luce del sole con il nome di “Paradesha” (in sanscrito Paese supremo, da cui Paradiso ); poi, nel 3102 a.C, all’inizio del Kali Yuga della tradizione indù (il termine significa Età Nera e designa il periodo in cui viviamo), i suoi abitanti si erano trasferiti nel sottosuolo per evitare di essere contaminati dal male, e il nome della loro terra era stato trasformato in Agharti, “l’inaccessibile”. La sua opera più conosciuta Bestie, uomini e dèi, tuttora ristampata, viene citata da Guénon nell’introduzione al libretto dedicato precisamente alla figura esoterica del Re del mondo.

Corto Maltese. Corte Sconta detta Arcana

Corto Maltese. Corte Sconta detta Arcana

In quelle stesse pagine, Ossendowki, descrive la figura leggendaria del barone Roman Fiodorovic von Ungern Sternberg, a cui negli anni diversi hanno rivolto il loro interesse, fino alla recente pubblicazione del testo La cosacca del barone von Ungern da parte de Le librette di controra. Terrore dei bolscevichi, questo condottiero dei “bianchi” controrivoluzionari, oppose una strenua resistenza ai sovietici, guadagnandosi sul campo la fama di “sanguinario”. Il suo mito si diffuse a tal punto, che in una delle sue storie più belle, Corte Sconta detta arcana, Hugo Pratt lo rappresenterà in modo assai evocativo, e alla sua figura, negli anni immediatamente successivi alla sua morte, si ispirò ad esempio il film russo Tempeste sull’Asia.

Naturalmente le avventure dello studioso Ossendowski non si limitarono a quanto narrato nel famoso libro edito dalle Mediterranee, ma già nel 1899 viaggiò nelle steppe siberiane, tra i monti Abakani e la città di Biisk, in un percorso che ebbe sempre come sfondo il Lago Nero e la selvaggia natura siberiana. Una recente pubblicazione per Le librette di controra, Il lupo del Lago Nero, raccoglie tre racconti avventurosi dell’autore polacco, che si collocano negli anni precedenti a quanto descritto in Bestie, uomini e dèi.

Immagini vivide di tradizioni primordiali, questo riesce a trasmettere con grande efficacia l’autore. Una steppa selvaggia e battuta dal vento, in cui si incrociano i destini di piccole comunità. Con il gusto del vero avventuriero Ossendowski ci prende per mano e ci conduce in mondo di misteri e di grandi profondità. In cui a usanze precristiane si uniscono talvolta le superstizioni di fanatici santoni e in cui l’amore e la passione sono vissuti come devozione nei confronti di un signore.

La scrittura è vigorosa e asciutta, elegante nella sua efficacia, capace di tenere desto l’interesse lungo tutta la lettura, che scorre rapida e piacevole. Non mancano i colpi di scena, a completare un quadro in cui a farla da padrone è la natura selvaggia della steppa siberiana, un paesaggio che sembra vivere con i suoi abitanti, come se l’ordine degli uomini e quello della natura, in condizioni particolari, possano entrare in contatto. Ecco allora il cielo turbinare e ribellarsi alla pazzia del santo apocalittico, o ancora fare da sfondo vivido alle discussioni erotiche tra l’autore e la sua devota prima moglie. Un contatto con la natura che d’altronde si respira anche nei romanzi avventurosi di un altro grande, Knut Hamsun, autore di Pan e Fame, che scrisse: «Era in uno strano stato d’animo, invaso dalla soddisfazione, con ogni nervo teso e una musica nel sangue. Si sentiva parte della natura, del sole, delle montagne e di tutto il resto; alberi, erba e paglia gli infondevano col loro fruscio il senso del proprio Essere. L’anima gli divenne grande e sonora come un organo, non dimenticò mai più come quella dolce musica gli si infondesse nel sangue».

Jon Krakauer, Nelle terre estreme

Jon Krakauer, Nelle terre estreme

Il sublime non ha bisogno di orpelli per manifestarsi, e l’Ossendowski riesce alla perfezione a raffigurare un mondo di tradizioni e riti perduti. Ma ciò che più colpisce, è che è tutto vero.

La fortuna, per chi non voglia accontentarsi della letteratura per animi tiepidi, è che periodicamente in libreria compaiono libri davvero capaci di emozionare e sollecitare la voglia di andare scoprire il mondo. È stato così con lo straordinario Nelle terre estreme di Krakauer, da cui è stato tratto anche un film. La storia di un giovane americano che decide di lasciarsi la vecchia vita di comodità alle spalle, per vivere una vita selvaggia e rischiosa nella natura del Nord America. Anche questa è una storia vera, che non ebbe un “lieto” fine. E ancora più recente è l’uscita del libro di Ernst Jünger Visita a Godenholm che, come altre dello stesso autore, è un’avventura in gran parte immaginaria, scritta da un grande avventuriero e viaggiatore del secolo scorso, all’inquieta ricerca della vera libertà..

In occasione di un’intervista televisiva il grande Andrea G. Pinketts ha detto di preferire agli scrittori come Leopardi, chiusi nella loro torre d’avorio, quelli che scendono nelle strade, che vivono la vita autentica e vivono pericolosamente, perché lì si trovano quelle emozioni genuine capaci di strapparci all’abitudine. La vita sottocasa ci sta aspettando.


Francesco Boco

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J. Marlaud et le renouveau païen en France

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Archives de SYNERGIES EUROPÉENNES - VOULOIR (Bruxelles) - Mai 1986

Robert Steuckers:

Jacques Marlaud et le renouveau païen en France

Le néo-paganisme européen est une jungle de concepts; pour le comprendre sous tous ses angles, il faut une connaissance approfondie des mythologies européennes, des théologies qui, sous une couverture chrétienne, renouent avec le non-dualisme anté-chrétien (Sigrid HUNKE), des littératures populaires et romantiques qui traduisent de manière romanesque ou poétique des fragments de cette vision inépuisable de l'immanence du divin. La tâche n'est pas mince et l'on n'est pas prêt de découvrir, à l'étal des libraires, une encyclopédie définitive de ce monde foisonnant de diversité.

Heureusement, Jacques MARLAUD vient de combler cette lacune, partiellement seulement (mais c'est une première étape),  avec son livre, Le Renouveau païen dans la pensée française (réf. infra). La démarche de MARLAUD débroussaille la partie française contemporaine de ce continent oublié qu'est le paganisme. Sa démarche est ainsi limitée dans le temps ("la pensée contemporaine") et dans l'espace (la France). Son point de départ est la mise en évidence d'une antithèse philosophique: celle de l'idée païenne contre la pensée rationalisante. Aux schémas des rationalismes, MARLAUD oppose le retour du mythe, donc d'un polythéisme, plus apte à saisir la multiplicité du réel. Pour lui, l'utopisme et la désacralisation du monde sont les produits de l'individualisme, avatar idéologique du principe religieux judéo-chrétien du "salut individuel". A l'ère post-rationnelle, le substrat païen resurgit, à travers la croûte, le superstrat judéo-chrétiens. Les modes de vie imprégnés de christianisme, le moralisme rigide, les normes sociales sont désormais battus en brèche et ne créent plus de consensus. Et si le consensus de demain en venait à se référer au "substrat" plutôt qu'au "superstrat"?

Le résultat de ce grouillement néo-païen, c'est l'émergence progressive d'une "philosophie de l'affirmation inconditionnelle du monde", dit Jacques MARLAUD. Elle se repère chez Clément ROSSET, mais seule- ment dans le chef de l'individu et non à l'échelle collective, non chez ceux qui ont volonté de bâtir une autre Cité, imperméable aux absolus étrangers au substrat, aux absolus moribonds du superstrat d'hier.

Après avoir esquissé les grandes lignes de ce néo-paganisme, MARLAUD passe en revue les écrivains contemporains qui se situent dans cette mouvance: MONTHERLANT, GRIPARI (père d'un nihilisme déculpabilisateur qui se gausse avec espièglerie des rationalisations moralisatrices), PAUWELS le Faustien qui a "vacillé" à cause de la reaganite affligeant les médias parisiens et, enfin, Jean CAU l'anti-bourgeois qui a donné un visage enchanteur à cet existentialisme que CAMUS et SARTRE avaient rendu si lugubre.

MARLAUD survole alors la littérature française et y repère les germes de paganisme. Dans ce survol, il n'omet pas le divin RABELAIS. Et pour terminer, il passe en revue le travail de la "Nouvelle Droite" qui a popularisé, en France, les thématiques du paganisme et des racines indo-européennes. Un livre à lire pour fonder le consensus de demain...

R.S.

Jacques MARLAUD, Le Renouveau païen dans la pensée française (Préface de Jean CAU), Le Labyrinthe, Paris, 1986, 271 pages, 145 FF.