par Christopher Gérard
Honneur au confrère Olivier Maulin, qui, dans une magnifique chronique littéraire (Valeurs actuelles du 31 août dernier), attirait l’attention de ses lecteurs sur un écrivain qualifié, à juste titre, d’immense. Dithyrambiques, Maulin & Gérard ? Bluffés, partisans ?
Que nenni ! En près de trois cents pages, Patrice Jean, philosophe qui enseigne dans un lycée de Saint-Nazaire, livre avec L’Homme surnuméraire un grand roman, qui restera tant que subsistera, horresco referens, une élite raffinée. Double, et même triple, ce roman se révèle celui d’un virtuose de la narration, qui parvient sans peine aucune à enchâsser deux récits complémentaires en gommant toute trace d’échafaudage. Le premier narre la trahison vécue par un père de famille, agent immobilier de son état, un brave homme que sa femme et ses enfants trouvent trop ringard à leur (détestable) goût et abandonnent au bord du chemin comme un animal de compagnie qui aurait fait son temps. Pour pouvoir fréquenter des charlatans de l’Université, sa femme le quitte sur les conseils de sa meilleure amie, une écervelée ; de honte, ses enfants ne lèvent même plus leur regard sur lui. Serge Le Chenadec est ce petit-bourgeois de province, ce rescapé du monde d’avant ostracisé et nié par des mutants et qui, un moment tenté par le suicide (Quai Voltaire, à deux pas de l’appartement où se donna la mort Henry de Montherlant), vivra une sorte de miracle en retrouvant une amie de lycée, Chantal, vieille fille sans charme qui pratique, elle, le plus pur amour oblatif. Mais cette belle histoire n’est qu’un roman… qui agit, et comment !, sur les personnages de l’autre roman contenu dans l’œuvre. Ceux-ci, des intellectuels prolétarisés (une enseignante et un nègre, pardon un rewriter), dérivent, l’une en acceptant les avances d’un immonde mandarin de l’imposture matérialiste et égalitaire, le Grand Universitaire (traduit en vingt-quatre langues) qui annone Derrida & Genette à tout bout de champ, l’autre en pasteurisant, narines bouchées, des chefs-d’œuvre de la littérature, expurgés de tout élément sexiste, xénophobe, blablabla. Sombreront-ils avec leur époque ?
Roman subversif en diable, L’Homme surnuméraire tranche, entre autres, par le calme courage avec lequel son auteur pulvérise le dispositif académique de contrôle littéraire, ses stratégies d’intimidation, son stérilisant jargon, ses cuistres, mixtes de Trissotin, Tartuffe et Torquemada naguère dénoncés par Michel Mourlet. Entre les technocrates de la culture, hommes de pouvoir pratiquant la morbide accumulation d’un savoir désincarné, et les hommes en trop, grains de diamant qui rayent les rouages de la méga-machine, Patrice Jean choisit le camp de la liberté, suivant en cela les traces de Gombrowicz, cité en exergue du roman : « l’art devra se débarrasser de la science et se retourner contre elle ». Souvent hilarant, toujours émouvant, il excelle dans l’art de la satire, par le truchement d’une ironie suprêmement socratique et d’un style limpide. Plus grave, il défend, contre l’abaissement spirituel, un héritage fondé non sur le morcellement et la séparation post-modernes, mais bien sur « l’agglomération, la construction, la permanence ».
L’Homme surnuméraire ? Un splendide exemple de subversion classique, un livre romain.
Christopher Gérard
Source : archaion.hautetfort.com
Patrice Jean, L’Homme surnuméraire, Editions rue Fromentin, 276 pages, 20€.




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Antoine a donc choisi l’obscurité, décevant ainsi son épouse, qui le largue (et cesse de jouer au mécène) et, bientôt, sa fille Blandine, que viendra consoler l’attentionné Thomas. Il vivote dans un HLM de la Grand’Mare (hilarants tableautins du « vivre-ensemble ») et se contente de CDD à la médiathèque Arthur Rainbow (!), l’un des décors du roman – prétexte pour l’auteur à une description aussi comique que glaçante du dispositif d’infantilisation des masses et de leur encadrement « culturel ». Notre bibliothécaire tranche d’avec ses jeunes collègues, acquis à la culture du divertissement et conscients de leur rôle dans le dressage « citoyen » de leurs usagers. Il fera, ô surprise, l’objet d’une dénonciation en règle pour un article littéraire de sa revue consacré à un écrivain qui, dans un français parfait, ose évoquer l’actuel chaos migratoire et ses conséquences sans l’enthousiasme ni la cécité de commande. 

3) Tale conoscenza non è sapere se non è innanzitutto uno stato dell’essere; lo stato dell’essere è vedere l’Invisibile, che è l’Indicibile, ma per colui che è Essere non è che l’Uno, l’Istante che è fuori dal tempo: colui che vive nella dimensione dello Spirito è nel tempo pur essendo, nella radice, fuori dal tempo, vedrà il Divenire che è Essere, come indica l’enigmatico sorriso dell’Apollo di Veio, Egli, sorridendo della nostra stupidità, accenna, svela e rivela la Verità: l’Assoluto, il Divino è semplicemente ciò che tu vedi e che sei! Tu però non lo sai!
Si conosce solo ciò che si è e si è solo ciò che si conosce. Gli Dei non esistono a priori (per fede) ma esistono solo se si conoscono e si conoscono solo se si esperimentano, quindi esistono solo per colui il quale li esperimenta, cioè li vive e quindi li conosce; nel senso che, pur esistendo da sempre, per colui il quale non li conosce Essi non esistono. Tale è il significato della frase: “I Greci non credevano negli Dei; poiché li vedevano!”
Nel corpo della cultura europea scorre sangue «pagano». A muovere dal Settecento, filosofi, storici delle religioni e artisti, si sono prodigati nel tentativo di far riemergere le sorgenti più arcaiche della nostra cultura, richiamando l’attenzione sul suo effettivo ubi consistam. Anzi, questo sforzo è ancora in corso: si pensi, tra i tanti esempi che si possono fare in tema, alla valorizzazione del mondo pre-cristiano, presentata, nella propria opera, da Evola o, più recentemente, da autori quali Marc Augé e Alain de Benoist. Un ruolo rilevante, in tal senso, nel secondo decennio del «secolo breve», lo ha svolto il filologo svevo e storico delle religioni, Walter Friedrich Otto. Il suo lavoro più noto, Gli Dei della Grecia, fu in qualche modo preparato da un libro che egli pubblicò nel 1923, Spirito classico e mondo cristiano, di cui è recentemente apparsa la seconda edizione italiana, per i tipi de L’arco e la Corte (per ordini: arcoelacorte@libero.it, pp. 174, euro 15,00). Si tratta, come ricorda Giovanni Monastra, nell’informata e stimolante Prefazione, di un testo nel quale l’autore mostrò, in tutta la sua forza e con invidiabile spessore erudito, l’attrazione empatica per il mondo classico e, in particolare, per la religiosità ellenica.
In Spirito classico e mondo cristiano, sono presenti: «lampeggianti intuizioni e utili indicazioni che consentono di vedere con occhi nuovi il mondo religioso ellenico» (p. 13). Otto cerca, in ogni modo, di far parlare i Greci e i loro dei, con la voce che gli fu propria. Fino ad allora, infatti, il clamore millenario prodotto dalla cultura dei vincitori, nella contesa storica sviluppatasi nel IV secolo d.c., quella cristiana, aveva impedito di cogliere il senso ultimo della visione del mondo ellenica. La critica al cristianesimo di Otto è radicale, i toni polemici decisamente aspri, in alcuni passaggi rasentano l’invettiva. Per questo, successivamente, il filologo non si riconobbe del tutto in tali affermazioni e non volle che questo studio fosse nuovamente pubblicato (la precedente edizione italiana uscì nel 1973, ad insaputa della figlia dello studioso). Il libro è scritto sotto il segno di Nietzsche. Come il filosofo dell’eterno ritorno, anche Otto distinse l’originario insegnamento del Cristo, insieme a Socrate considerato ultimo esempio di vita persuasa, dalla successiva dottrina cristiana, esito del travisamento teologico operato dalla tradizione paolino-agostiniana. In ogni caso, quale idea ha Otto della religio greca?
I Greci, al contrario, non conobbero mai la fides, la loro religio della forma era, in realtà, un susseguirsi di esperienze, di realizzazioni del sacro, da parte dell’uomo. Il tratto politeista consentiva loro di apprezzare i diversi volti dell’Uno e di viverli, di farne esperienza. A ciò contribuivano il mito e il culto. Nel secondo: «è l’uomo che si innalza al Divino, vive e agisce in comunione con gli dei; nel mito è il divino che scende e si fa umano» (p. 21). Il rapporto uomo-dio si manifestava, come rilevato da Rudolf Otto, nell’endiadi Io-Esso. Si trattava, pertanto, di una relazione centrata sull’ethos, sul modo d’essere (Evola avrebbe detto “razza dello spirito”) e non sul pathos, sulla dimensione emotiva e sentimentale. Il trionfo del cristianesimo rese esplicito che il mondo antico aveva perso la propria anima, vale a dire quest’atteggiamento paritetico degli uomini nei confronti degli dei. Ecco perché alla «buona novella» aderirono gli ultimi, i diseredati e le donne, che divennero strumenti mortiferi per lo spirito classico. In quel frangente, pochi tentarono una resistenza. Si ersero in pochi, ricorda Otto, sulle rovine di un mondo al tramonto per proclamarne la grandezza, tra essi Giuliano Imperatore. Monastra ipotizza, e la cosa va segnalata, che Evola, avrebbe potuto trarre il titolo del suo, Gli uomini e le rovine, proprio da un passo del libro del filologo tedesco, che certamente lesse.