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samedi, 22 mai 2010

Carlo Michelstaedter: il coraggio dell'impossibile

Carlo Michelstaedter: il coraggio dell'impossibile

di Miro Renzaglia

Fonte: secolo d'italia


«So che faccio cose inopportune e a me non convenienti». Avrebbero potuto essere le parole iniziali del recente intervento di Gianfranco Fini alla direzione nazionale del Pdl e, invece, sono quelle di Sofocle che troverete in epigrafe alla prefazione della tesi di laurea di un giovane studente di Gorizia, Michelstaedter, di cui quest'anno ricorre il centenario della morte, avvenuta per suicidio il 17 ottobre 1910, proprio alla vigilia della discussione accademica.
E quella tesi, mai discussa appunto, è diventata negli anni una delle opere di filosofia più enigmatiche e affascinanti del nostro panorama sapienziale novecentesco, portandone lo stesso titolo voluto dall'autore: La persuasione e la retorica. È il testo unico che ci ha lasciato. Oddio, proprio unico non è: fra poesie ed epistolario non c'è praticamente riga vergata dal goriziano che non abbia visto luce editoriale. Compreso quel Dialogo della salute e altri scritti sull'esistenza che viene riproposto da Mimesis (pp.210, € 16,00), a cura e con l'approfondito saggio introduttivo di Giorgio Brianese, docente di Ontologia dell'esistenza e Propedeutica filosofica all'Università Ca' Foscari di Venezia.
«Carlo Michelstaedter - afferma Brianese - scrisse il Dialogo della salute nel 1910, mentre lavorava alla stesura della tesi di laurea, e lo concluse il 7 ottobre. Dieci giorni dopo si sarebbe tolta la vita. Cosa può significare riflettere, dialogando socraticamente, sulla salute trovandosi nel contempo in prossimità di una morte volontaria? Non si creda che Michelstaedter, nelle sue pagine, irrida il nostro "stato mortale", come sembra fare il custode del cimitero nella pagina che apre il Dialogo. Piuttosto egli c'invita a essere pienamente
noi stessi ritrovando la verità profonda della nostra esistenza: chi ha la "salute" può guardare in faccia persino la morte, la quale "di fronte a lui è senz'armi". Perché l'oscurità, per lui, "si fende in una scia luminosa", ed egli "sa godere la luce del sole"». La persuasione e la retorica, la salute e la morte, l'essere e il divenire, l'esistenza e il nulla, sono queste le dicotomie intorno alle quali il pensiero di Carlo Michelstaedter si arrovella, concentrandosi sull'unico fattore che le risolva tutte in un colpo solo e alla radice: la libertà. La libertà di essere autentici in sé senza lasciarsi ingabbiare in uno qualsiasi dei ruoli che «la comunella dei malvagi», o della società che tutto omologa, pretende di assegnarci. Come per Nietzsche, anche per lui il campione della mistificazione della libertà resta Platone (e Aristotele), con la sua repubblica perfetta e ideale dove a ognuno è affidato una funzione e, soprattutto, una finzione: quella di essere «liberi di essere schiavi». Schiavi delle convenzioni, del possesso di cose e virtù omologate, della carriera, del successo, del denaro e, soprattutto, schiavi del futuro. Quel futuro che rinviandoci continuamente ad un sole dell'avvenire sempre prossimo e successivo ci espropria dell'unica vera libertà che abbiamo: quella di essere qui e di esserlo adesso. È la «via della salute»: «Ci son cose che distruggono la salute stessa e del corpo e dell'anima, contro le quali né forza fisica vale né animo libero, cose che ti tolgono appunto questa libertà e questa forza e ti tengono debole e miserabile in lor balìa […]. Quale forza fisica o quale virtù ti potrà mai salvare dalla morte? No: val meglio coglier l'attimo che fugge, sani o malati, e fuggire con lui, quando che voglia il caso» (dialogo 2). L'oraziano carpe diem, quindi: cogli il giorno, prendi l'attimo, vivi il presente e quam minimum credula postero, confida il meno possibile nel domani, sembra essere la ricetta dell'uomo in salute, del persuaso. Sennonché a dettare l'ode di Orazio è quel «dio del piacere», quella «philopsichia», che Michelstaedter aborrisce reputandola responsabile di creare l'illusione che una sopravvivenza qualsiasi sia la vita stessa nella pienezza del suo significato. Così non è e, infatti: «Quando si parla comunemente dei "piaceri" come di posizioni determinate che danno il piacere, siamo ormai nella posizione ammalata: e andiamo a cercare il piacere per sé, a sfruttare la nostra posizione verso una cosa per avere un sapore che in quanto lo andiamo a cercare non lo abbiamo più. Vogliamo godere due volte di noi: non più "godo - perché sono" - ma "son io che godo", e in realtà non godiamo più» (dialogo 8).
Carlo Michelstaedter vede con chiarezza dov'è il trucco e lo svela: tutto ciò che crediamo vita non è altro che una serie infinita di espedienti per sfuggire al dolore. E il principio del piacere è il primo fra tutti gli inganni. Ma il dolore è vita e la fuga dal dolore
non è altro che fuga dalla vita, rinviando all'infinito del verbo divenire, l'essere vivo. Ha ragione Brianese quando osserva che sussiste in Michelstaedter un principio di contraddizione, o di non risoluzione, quando pretende attingere per il suo apologo sulla "salute" e sulla "persuasione", sia da Eraclito, profeta del panta rei, tutto scorre, e quindi del "divenire" che da Parmenide maestro dell'immobilità dell'"essere in quanto è". Ciononostante, non fu il primo a tentare una sintesi avendo come predecessore Empedocle e contemporaneo quel Nietzsche che vaticinava nell'eterno ritorno il punto di massima approssimazione del divenire all'essere. La massima nicciana: «Si diviene ciò che si è», avrebbe potuto essere sottoscritta, l'avesse conosciuta, anche dal goriziano. Ed entrambi, riconoscenti intellettualmente a Schopenhauer, partivano dal suo assunto secondo il quale: «Reale è solo il dolore», perché noi: «Sentiamo il dolore, non l'assenza di dolore». Ed è la lotta contro il dolore, non la fuga in derivati anestetizzanti, che insegna a vivere. È, come appare elementare, una lotta di liberazione e non di supina accettazione della sofferenza, magari come via salvifica all'ultraterreno: «Davanti al tiranno (dolore) io sono senza colpa», dirà Nietzsche. Con Michelstaedter che invoca: «Il coraggio di sopportare / tutto il peso del dolore».
Che uno (l'ex professore basilese) sia morto pazzo, e l'altro (lo studente goriziano) suicida, nonostante fossero due menti votate entrambe alla "salute", forse non depone molto in favore del fatto che le loro teorie fossero facilmente e
felicemente praticabili. E Giorgio Brianese, almeno nel caso di Michelstaedter, non manca di rilevarlo con un certo grado di pessimismo realista: «La persuasione è dunque l'ideale limite al quale l'uomo non potrà mai giungere, ma al quale non per questo deve rinunciare a tendere. La rettorica è ciò che si sa che va negato, la persuasione è ciò che si sa che va attuato; e tuttavia la persuasione è impossibile e la rettorica risulta vincente». Ma di nuovo e tuttavia, quando il palio della partita che si gioca «a ferri corti con la vita», è la libertà stessa di autodeterminarsi uomini, anziché ciechi e assuefatti ingranaggi di un sistema che ce ne espropria, varranno per sempre i versi del sommo Dante: «Libertà vo cercando, ch'è si cara, / come sa chi per lei vita rifiuta...». O, se si preferisce e come sembra più appropriato in questa conclusione, con le parole di Carlo Michelstadter stesso: «Il coraggio dell'impossibile è la luce che rompe la nebbia, davanti a cui cadono i terrori e il presente divien vita».

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lundi, 19 avril 2010

Les thèses postsionistes de Shlomo Sand sur "l'invention du peuple juif"

Robert STEUCKERS :

Les nouvelles thèses postsionistes de Shlomo Sand sur « l’invention du peuple juif »

 

Brève conférence prononcée à la tribune du « Cercle de Bruxelles », le 16 mars 2010

 

shlomosand_1240433954.jpgShlomo Sand, historien israélien attaché à l’Université de Tel Aviv, ancien étudiant de l’Ecole des hautes études en sciences sociales de Paris, par ailleurs spécialiste de l’œuvre de Georges Sorel, a sorti en 2008 un ouvrage aux éditions Fayard, intitulé Comment le peuple juif fut inventé, dont la réception, d’abord timide, vient d’être « boostée » par la sortie de l’ouvrage en livre de poche, dans la collection « Champs » chez Flammarion, où vient également de sortir son volume précédent, datant de 2006 et intitulé Les mots et la terre – Les intellectuels en Israël. Ces deux livres sont de véritables pavés dans la mare, dans la mesure où ils bouleversent bien des idées reçues, des vérités propagandistes ou des certitudes religieuses, juives ou autres. Tout ouvrage secouant de la sorte autant de certitudes établies mérite évidemment la lecture. Mais une lecture, si possible, qui resitue la matière dans son contexte, dans le contexte de son éclosion au sein des débats qui animent depuis près d’un quart de siècle la scène intellectuelle israélienne, voire de la diaspora juive toute entière.

 

D’abord, et j’anticipe ici mon exposé qui sera prononcé bientôt à Genève pour le Cercle Proudhon, il me paraît nécessaire de redéfinir ce qu’est le sionisme et de le resituer dans le contexte de son émergence dans la diaspora du 19ième siècle et sur la terre palestinienne. Généralement, l’historiographie simpliste véhiculée par les médias et le monde journalistique nous campe un conflit binaire, opposant, d’une part, les protagonistes d’un intifada permanent et, d’autre part, une armée israélienne condamnée à perpétuité à des opérations musclées de maintien de l’ordre. Ce conflit binaire, où les uns comme les autres se parent de toutes les vertus et diabolisent leurs adversaires, n’est pas aussi schématique qu’on en est venu à le croire au fil de centaines sinon de milliers d’émissions télévisées qui ne brillent généralement pas par la profondeur de leurs analyses. Si le sionisme et le nationalisme palestinien sont aujourd’hui les forces les plus visibilisées du conflit israélo-arabe, on omet de tenir compte de bon nombre de facteurs qui ont pourtant contribué à sa genèse et qui influent encore et toujours, directement ou indirectement, sur son déroulement.

 

L’actuel conflit israélo-palestinien ne peut se comprendre dans sa plénitude que si l’on connaît bien toutes les étapes du développement de l’idéologie et de la pratique sionistes ; tous les aléas du nationalisme palestinien, lancé par le Mufti de Jérusalem à la fin des années 20 du 20ième siècle pour se poursuivre après 1948 avec la création du Fatah, avec les vicissitudes de son histoire et avec la création assez récente de son ennemi, le Hamas ; toutes les positions successives des multiples représentants de la dynastie hachémite, depuis leur engagement aux côtés de l’empire britannique pendant la première guerre mondiale avec le fameux Lawrence d’Arabie, avec les tentatives de Fayçal de se faire proclamer roi de Syrie en se heurtant aux Français dans les années 20, avec la politique des rois jordaniens, issus du même clan, en 1948 et face aux réfugiés palestiniens après le désastre arabe de juin 1967 ; toute l’évolution du nationalisme grand-syrien (dont le Mufti fut au départ un adepte), depuis la grande révolte des années 20 jusqu’aux positions d’Hafez El-Assad et de son successeur. On oublie généralement que la notion de Palestine était bien floue sous l’empire ottoman et qu’on parlait plutôt de vilayet et de sandjak de Damas ou de Jérusalem, englobant ces entités administratives de la Sublime Porte dans un ensemble grand-syrien, bien plus vaste dans ses dimensions.

 

Cinq vagues d’immigration juive en Palestine

 

Le sionisme va s’affirmer après cinq vagues d’immigrants juifs.

La première de ces vagues commence en 1881, immédiatement après l’assassinat du Tsar Alexandre II, qui déclenche, partout dans l’empire russe, des débordements antijuifs.

La seconde vague arrive après l’échec de la révolution russe de 1905, consécutive à l’effondrement de l’armée et de la marine russes face au Japon, nouvelle puissance dans la zone pacifique. Cette immigration de 1905 est fortement teintée de socialisme révolutionnaire et de marxisme. Elle tentera d’infléchir l’idéologie sioniste dans un sens socialiste, voudra faire d’une Palestine fortement judaïsée, par l’effet du Retour, un modèle de société idéale, un système de nouveaux phalanstères socialistes et égalitaires qu’aurait été le réseau des kibboutzim. Elle heurtera la sensibilité traditionnelle des habitants autochtones, musulmans, chrétiens et juifs (l’ancien peuplement, dit « Vieux Yishuv »), créant de la sorte les premiers ferments de l’hostilité que voueront et la population arabe musulmane/chrétienne et les traditionnalistes juifs à l’endroit des nouveaux immigrants.

La troisième vague arrive après la révolution russe de 1917 et compte, cette fois, bon nombre de non communistes, de libéraux voire de conservateurs dont certains se mueront, tendances de l’époque obligent, en nationalistes virulents.

La quatrième vague arrive après la prise du pouvoir en Allemagne par les nationaux-socialistes et lorsque l’attitude générale à l’endroit des juifs se détériorera dans des pays comme la Pologne, la Hongrie ou la Roumanie.

La cinquième vague arrive après 1945. On connaît l’épisode du navire « Exodus », dont on a tiré des films et qui fait désormais partie de la mythologie sioniste. Elle consiste essentiellement en « personnes déplacées » qui fuient surtout les systèmes soviétisés qui s’instaurent en Europe centrale et orientale.

 

Shlomo_Sand.jpgL’hétérogénéité relative de ces cinq vagues d’immigration en Palestine fait du sionisme une idéologie à facettes multiples. Certains historiens comptent jusqu’à une trentaine de nuances, exprimées par des partis, des groupes, des cénacles, etc. Grosso modo, pour faciliter la suite du présent exposé (qui n’est pas consacré au sionisme et à ses nuances), disons qu’émergent, dès la création de l’Etat d’Israël une gauche, incarnée par Ben Gourion et centrée autour du Mapai socialiste/travailliste. En théorie, cette gauche souhaite une fusion entre les immigrants juifs et les Arabes autochtones. Après 1948, cette fusion n’aura jamais lieu car personne ne la désirait vraiment : ni les immigrants juifs venus d’Europe et ayant vécu dans des Etats modernes, au style de vie très différent de celui des naturels du pays, ni les Arabes qui adoptent le « rejectionnisme » préconisé par le Mufti de Jérusalem. Cette gauche travailliste restera longtemps au pouvoir, jusqu’en 1977, lors de l’avènement d’une nouvelle coalition de droite, le Likoud, mené par Menahem Begin.  

 

Jabotinsky et l’émergence de la droite sioniste

 

Face à cette première gauche travailliste, qui s’est désintégrée progressivement, à coup de querelles et de scissions, au cours des années 70 après la guerre du Yom Kippour, une droite sioniste voit le jour dès les années 20, principalement sous l’impulsion d’un idéologue, très féru de littérature, surtout de littérature russe, Vladimir Jabotinsky, issu de la diaspora juive de Lituanie (Vilnius). Cet idéologue majeur de la première droite sioniste pose un constat que les historiens ont ultérieurement qualifié de « pessimiste ». Pour lui, la fusion judéo-palestinienne, annoncée à cors et à cris par la propagande des gauches sionistes, n’aura jamais lieu, en dépit des vœux pieux d’une gauche idéaliste, rousseauiste et phalanstérienne. Jabotinsky édulcorera son langage au fil des décennies, ne basculera jamais dans un extrémisme violent et demeurera toujours fidèle à l’alliance anglaise, contrairement à certains de ses fidèles, qui se détourneront de lui, et déclareront la guerre aux Anglais, pariant parfois sur une alliance tactique avec les futures puissances de l’Axe Rome/Berlin. Au sein de son mouvement, baptisé « révisionniste » dans les années 20 et 30 du 20ième siècle, parce qu’il « révisait » les positions du sionisme de gauche, émergera donc assez rapidement une scission, dite « maximaliste », portée par des figures plus aventurières telles Avraham Stern, qui préconisera, à l’instar de l’IRA irlandaise, la révolte générale contre la présence mandataire anglaise et finira assassiné par les services secrets britanniques, le 12 février 1942. Arrivé en Palestine dans les bagages de l’armée polonaise du Général Anders, Menahem Begin prend le relais de Stern et, autour d’une nouvelle structure, le LEHI, relance dès 1944  (donc avant la défaite finale de l’Axe !!) la lutte contre les Britanniques, encore en guerre contre les Allemands en Italie et en Normandie. L’inspiration du LEHI, dont Shamir faisait également partie, provient, comme celle de Stern, du nationalisme irlandais de Michael Collins et du terrorisme russe de la fin du 19ième siècle  (avec, en sus, d’autres sources, russes, polonaises, françaises/blanquistes, etc.). Ce qui étonne l’observateur européen actuel, habitué aux et abruti par les schémas véhiculés par les médias, c’est la proximité de cette droite sioniste avec les mouvements totalitaires allemands et italiens et les contacts qui ont eu lieu entre les services de ces pays et les militants sionistes de droite. Le sionisme actuel, en fait, ne peut pas se donner un brevet d’antifascisme pur ou même d’antinazisme, alors qu’il souhaite, officiellement, que la planète entière s’en donne un.  

 

L’idéologie postsioniste est née du choc ressenti par une bonne moitié de l’opinion publique israélienne lors de l’accession du cartel de Begin au pouvoir en 1977. La filiation idéologico-politique de Begin remonte au Betar, à l’Irgoun et au LEHI. Shamir, lui, était intimement lié au LEHI, successeur du Groupe Stern, inspiré par l’IRA et par la pratique des assassinats mise au point par Michael Collins (et dont procède également le dernier assassinat en règle commis, semble-t-il, par des agents du Mossad contre un leader du Hamas dans les Emirats). Pour l’opinion israélienne inféodée ou influencée par les travaillistes du Mapai, c’était comme si, en 1977, les « fascistes » ou les « terroristes » avaient pris le pouvoir en Israël. Certes, on ne parle pas de « fascisme » à l’endroit de Begin, Shamir et des autres likoudistes, mais de « sionisme militariste ».

 

L’arrivée au pouvoir du Likoud provoque un choc politique et moral

 

Toutes les questions posées par l’école postsioniste sont tributaires de ce choc politique et moral de voir arriver les anciens de l’Irgoun et du LEHI aux commandes d’un Etat qui aurait dû incarner et réaliser les aspirations utopiques des socialistes révolutionnaires russes du 19ième siècle. Les recherches de cette école ont commencé par un examen méticuleux des archives relatives aux événements de 1948, lors du heurt entre sionistes et armées arabes quelques mois avant la proclamation de l’Etat d’Israël. Pour l’école postsioniste, l’année 1948 ne se solde pas par la fuite de masses arabes palestiniennes, incitées par le Mufti et ses partisans à quitter leurs terres mais par une véritable épuration ethnique perpétrée par des maximalistes sionistes formant le noyau dur des milices juives de la Palestine mandataire, futurs cadres de l’armée israélienne. Dans un deuxième temps, les historiens postsionistes vont explorer l’univers mental et idéologique du Betar, du Groupe Stern et de l’Irgoun (ce sera la tâche principale de l’historien Colin Shindler, attaché à diverses universités anglaises). De cette manière, le passé occulté de Begin ou de Shamir a été mis en exergue. Le but était évidemment de leur nuire politiquement et de faire jouer le réflexe antifasciste pour, à terme, ramener la gauche du Mapai au pouvoir. Cette stratégie s’est montré infructueuse sur l’échiquier politique israélien car l’Etat hébreu vit désormais une alternance démocratique semblable à celle d’autres pays de la sphère occidentale. La tentative de déstabiliser la deuxième droite sioniste a permis l’éclosion d’une historiographie nouvelle qui, elle, déstabilise l’Etat tout entier, au point que des actions sont menées pour ôter la parole à certaines figures de proue du postsionisme universitaire, comme le professeur Ilan Pappe, qui, sous diverses pressions et menaces, n’a pas pu donner une leçon publique à une tribune académique de Munich au début de cette année 2010 (Ilan Pappe est l’auteur d’un livre récemment publié chez Fayard en traduction française sur l’épuration ethnique en Palestine en 1948 et l’auteur, auprès de la Cambridge University Press, d’un livre très érudit :  A History of Modern Palestine, 2006, 2nd ed.).  

 

Le postsionisme, très critique à l’égard de ce que l’on appelle désormais la « narration sioniste », s’est développé parallèlement à un retour offensif du quiétisme chez les religieux orthodoxes, dont les racines plongent dans le « Vieux Yishuv ». Pour éviter ainsi l’alliance des modérés du Mapai, attentifs aux recherches des historiens postsionistes, et des quiétistes religieux, qui gripperait la machine étatique et militaire de l’Etat hébreu, on a réanimé une force déjà présente en filigrane dans le cartel de Begin, celle d’un autre fondamentalisme ultra-orthodoxe juif, s’alignant lui, non sur le quiétisme du « Vieux Yishuv » mais sur une surenchère ultra-sioniste.

 

Une reprise des thèses de Koestler sur la « Treizième tribu »

 

Le postsionisme a en quelque sorte ouvert une boîte de Pandore : dans les milieux intellectuels israéliens, on assiste à une course à la surenchère dans la volonté de réfuter les mythes de l’histoire israélienne et juive. La seconde offensive du postsionisme ne s’attaque plus seulement aux mythes entourant l’année 1948, année de la fondation officielle de l’Etat d’Israël. Il remet en question, comme dans le livre de Shlomo Sand, la notion même de « peuple juif ». Pour les exposants de cet aspect-là du postsionisme, l’idée d’un « peuple juif » est pure fiction. En somme, cette veine du postsionisme reprend mutatis mutandis la fameuse thèse de la « treizième tribu », énoncée jadis par Arthur Koestler et qui avait fait grand scandale. Pour Koestler, le gros du peuple juif ne descendait pas des « Judéens », théoriquement chassés en 70 et en 135 par les Romains mais des Khazars, peuple turco-mongol installé entre Volga et Don et converti volontairement au judaïsme avant l’an 1000. La masse des juifs d’Europe orientale et surtout de l’empire russe descendrait en fait, non pas d’immigrants juifs venus de l’antique Judée, mais de ces masses de Khazars convertis. Le scandale apporté par ce livre de Koestler, pour les sionistes, vient surtout de l’impossibilité de justifier le mythe de l’Alya, du Retour à la terre des origines.

 

C’est donc ce thème, déjà ancien, que Shlomo Sand reprend aujourd’hui. Dans son livre Comment le peuple juif fut inventé, il commence par évoquer des cas concrets, comme celui d’un jeune anarchiste espagnol de Barcelone, qui, errant en France après la victoire franquiste, et à Marseille en particulier, finit par se retrouver armé dans un kibboutz à faire le coup de feu contre les Palestiniens. Il est devenu citoyen israélien sans avoir jamais été frotté au judaïsme et sans avoir les moindres racines « judéennes », justifiant un éventuel « alya ». Sand évoque ensuite l’histoire de Chotek, pauvre juif de Pologne qui subit les mécanismes d’exclusion de la synagogue parce que sa mère, plongée dans la misère, ne peut payer une place dans l’enceinte du lieu de culte. La plupart de ces exclus, pour pauvreté, basculaient dans le communisme, ou dans le sionisme communiste, et finissaient par abandonner la religion juive voire par embrasser un athéisme virulent, à l’instar de Koestler qui, lui, ne l’a pas fait par pauvreté mais par option idéologique.

 

Une méthode critique de tous les essentialismes

 

La méthode de Sand rejette ce qu’il appelle l’ « essentialisme ». Il démontre que le sionisme procède du même essentialisme que les autres nationalismes européens, notamment le nationalisme allemand. Pour le nationalisme allemand, l’essence première de la germanité réside dans le rassemblement des tribus libres autour d’Arminius, voire de Marbod, qui partent combattre les Romains et défont les légions de Varus dans la Forêt de Teutoburg. Le sionisme est, pour Sand, une transposition dans l’univers mental du judaïsme de la démarche intellectuelle qui a généré cette « narration germanique ». La fondation du peuple juif ne procédant pas, évidemment, des tribus rassemblées sous le commandement d’Arminius mais des tribus regroupées sous la houlette du Roi Salomon, de biblique mémoire. 

 

Si de telles « narrations » s’incrustent dans la mentalité d’une population, elle finira par vouloir exclure tout ce qui n’appartient pas à la matrice hypothétique de cette narration, tout ce qui ne relève pas de cette « essence ». En posant cette hypothèse, Sand reste un homme de gauche, la caractéristique majeure de toute gauche, dans cette perspective, est de rejeter de telles « essences » ou d’en montrer la vacuité. Shlomo Sand se réfère à la notion de citoyenneté, autre réflexe de gauche, telle qu’elle a été définie par l’historien allemand de l’empire romain, Theodor Mommsen. Pour celui-ci, toutes les composantes de l’empire romain fusionnaient dans le service à l’empire, ce service conférant l’honneur de la citoyenneté. Pour Mommsen, c’est ce modèle romain de citoyenneté que devait adopter le nouvel empire allemand né en 1870. Au sein de cet empire, les composantes bavaroises, prussiennes, wurtembergeoises, hessoises, mecklembourgeoises, brandebourgeoises, rhénanes, franconiennes, etc. devaient fusionner pour former une nation de citoyens, tout en abjurant les « folklores désuets ». Les juifs de l’empire allemand devaient procéder de la même manière que leurs concitoyens rhénans ou bavarois, etc., et mettre entre parenthèse leurs spécificités, devenues inutiles et relevant, de ce fait, d’un « folklore désuet ».

 

Un monothéisme qui n’a rien d’absolu

 

Dans le sillage du romantisme européen et germanique en particulier, des historiens juifs ont créé, explique Sand, une « mythistoire » qui débouchera sur le sionisme. Celui-ci est donc une pure construction de l’esprit comme est aussi construction de l’esprit le monothéisme, posé comme intransigeant et prêté au peuple juif « mythistorique ». Pour justifier sa démonstration, Sand rappelle que la Bible évoque un royaume de Judée (celui de Salomon et de sa postérité) et un royaume d’Israël, situé plus au nord, en Galilée ou dans le Sud du Liban et de la Syrie actuels. Le royaume de Judée est présenté comme « pur », comme matrice de toute l’histoire juive postérieure et comme modèle antique de l’Etat rêvé et réalisé par les sionistes. Le royaume d’Israël est posé comme syncrétique et plus avancé en matière de civilisation. Il a aussi été, visiblement, plus puissant. Les sources assyriennes en font mention, avant que l’empire assyrien ne l’absorbe dans son orbe. Syncrétique, ce royaume d’Israël demeure largement païen et ne pratique pas un monothéisme absolu : Jéhovah est bien là, mais comme patron des autres dieux, à l’instar du Jupiter romain ou du Zeus grec. A ses côtés, on honore Baal, Shamash et surtout la belle déesse Astarté.

 

La Judée, province reculée et davantage sous influence égyptienne qu’hellénique, ne sera absorbée dans l’empire assyrien que deux siècles plus tard. Les mythes qui entourent ce petit royaume, peu mentionné dans les sources antiques, sont des inventions tardives pour les historiens postsionistes : ainsi, Salomon et ses somptueux palais n’auraient jamais existé et relèverait de la « mythistoire ».  Sand , p. 172 : « Les mythes centraux sur l’origine antique d’un peuple prodigieux venu du désert, qui conquit par la force un vaste pays et y construisit un royaume fastueux, ont fidèlement servi l’essor de l’idée nationale juive et l’entreprise pionnière sioniste. Ils ont constitué pendant un siècle une sorte de carburant textuel au parfum canonique fournissant son énergie spirituelle à une politique identitaire très complexe et à une colonisation territoriale qui exigeait une autojustification permanente. Ces mythes commencèrent à se fissurer, en Israël et dans le monde, ‘par la faute’ d’archéologues et de chercheurs dérangeants et ‘irresponsables ‘, et, vers la fin du 20ième siècle, on eut l’impression qu’ils étaient en passe de se transformer en légendes littéraires, séparées de la véritable histoire par un abîme qu’il devenait impossible de combler. Bien que la société israélienne fût déjà moins engagée, et que le besoin d’une légitimation historique qui servit sa création et le fait même de son existence allât en s’amenuisant, il lui était encore difficile d’accepter ces conclusions nouvelles, et le refus du public face à ce tournant de la recherche fut massif et acharné ».

 

La Bible quitte le rayon de la théologie pour devenir un livre historique

 

De même, p. 178 : « La Bible, considérée pendant des siècles par les trois cultures de religion monothéiste, judaïsme, christianisme et islam, comme un livre sacré dicté par Dieu, preuve de sa révélation et de sa suprématie, se mit de plus en plus, avec l’éclosion des premiers bourgeons d’idée nationale moderne, à servir d’œuvre rédigée par des hommes de l’Antiquité pour reconstituer leur passé. Dès l’époque protonationale protestante anglaise, et plus encore parmi les colons puritains d’Amérique et ceux d’Afrique du Sud, le Livre des livres devint, par anachronisme nourri d’imagination enflammée, une sorte de modèle idéal pour la formation d’un collectif politico-religieux moderne (…). Et si les croyants juifs ne s’y étaient presque pas directement plongés par le passé, les intellectuels de l’époque des Lumières en ont inauguré une lecture laïque qui alla en s’élargissant. Cependant, (…) ce n’est qu’avec l’essor de l’historiographie protosioniste, dans la seconde partie du 19ième siècle, que la Bible a clairement joué un rôle clé dans le drame de la formation de la nation juive moderne. Du rayon des livres théologiques, elle est passée à celui de l’histoire, et les adeptes de la nation juive ont entrepris de la lire comme un document fiable sur les processus et les événements historiques. Plus encore, elle a été élevée au rang d’une ‘mythistoire’, qui ne saurait être mise en doute parce qu’elle constitue une évidente vérité. Elle est donc devenue le lieu de la sacralité laïque intouchable, point de départ obligé de toute réflexion sur les notions de peuple et de nation. La Bible a principalement servi de marqueur ‘ethnique’ indiquant l’origine commune de femmes et d’hommes dont les données et les composantes culturelles laïques étaient complètement différentes, mais qui étaient détestés en raison d’une foi religieuse à laquelle il n’adhéraient pratiquement plus. Elle fut le fondement de l’intériorisation de la représentation d’une ‘nation’ antique dont l’existence remontait presque à la création du monde dans la conscience du passé d’hommes qui furent déplacés et se sont perdus dans les labyrinthes d’une modernité rapide et décapante. Le giron identitaire douillet de la Bible, malgré son caractère de légende miraculeuse, et peut-être grâce à lui, a réussi à leur procurer un sentiment prolongé et presque éternel d’appartenance que le présent contraignant et pesant était incapable de fournir. Ainsi l’Ancien Testament se transforma-t-il en un livre laïque, enseignant aux jeunes enfants quels furent leurs ‘antiques aïeux’ et avec lequel les adultes eurent tôt fait de partir glorieusement vers des guerres de colonisation et de conquête de la souveraineté ».

 

Cette démonstration conduit également à considérer l’exil juif comme une invention « mythistorique ». Sand, p. 183, nous apprend que Rome ne pratiquait jamais l’expulsion générale de tout un peuple vaincu, tout au plus l’Urbs pratiquait-elle des expulsions partielles et ciblées. L’idée d’un exil provient des exagérations de l’historien latin antique de souche juive, Flavius Josèphe, qui, comme tous ses homologues historiens de l’antiquité, gonfle démesurément les chiffres : les campagnes romaines de Titus auraient fait 1,1 million de morts rien qu’à Jérusalem et, après la bataille, le général romain aurait fait 97.000 prisonniers ; la Galilée  aurait compté, à l’époque, plus de trois millions d’habitants (p. 184). Toute approche raisonnable de l’histoire antique de la région donnerait un chiffre maximal d’un million d’habitants, vu l’aridité du sol. Avant l’arrivée de la deuxième vague d’immigrants juifs dans la première décennie du 20ième siècle, les vilayets constituant l’actuelle Palestine comptaient à peine 400.000 habitants. En 132-135, à la suite de la révolte du zélote Bar Kochba, la persécution aurait été plus féroce encore mais rien n’indique une expulsion généralisée de la population. Sur cet épisode, aucun historien n’a écrit quoi que ce soit. Nous n’avons donc pas, sur cette révolte postérieure aux campagnes de Titus, d’exagérations de l’acabit de celles de Flavius Josèphe. On sait seulement que Jérusalem sera débaptisée et portera le nom romain d’Aelia Capitolina. Pour Sand, le terme « exil » signifie « soumission politique ». Les communautés juives de l’antiquité, dans le bassin méditerranéen ou en Mésopotamie ou dans la péninsule arabique, sont donc des communautés exclusivement religieuses et n’ont pas de bases ethniques.

 

Les conversions forcées du Royaume des Hasmonéens

 

Sand réfute également l’idée que les royaumes judaïques de l’antiquité ne pratiquaient pas le prosélytisme et ne procédaient pas à des conversions forcées, si bien qu’il est impossible de dire que tous les juifs  de la diaspora, avant le sionisme, étaient des descendants de « Judéens », expulsés de Judée par le « méchant Titus » (les guillemets sont de Sand). Sand prend l’exemple du royaume des Hasmonéens, le plus important royaume juif de l’antiquité. Ce royaume avait été fortement hellénisé, au point de déplaire aux Macchabées, les fondamentalistes de l’époque, qui ne toléraient aucun syncrétisme ni aucune fusion avec d’autres traditions. La révolte des Macchabées nous apprend, outre la haine féroce que vouent les fondamentalistes à tout syncrétisme impérial ou politique, que le monothéisme de ce royaume des Hasmonéens n’était pas strict, au sens où nous l’entendons aujourd’hui lorsque nous évoquons les intégristes des religions monothéistes. Pour Sand, le monothéisme hasmonéen était un monothéisme imparfait, c’est-à-dire un monothéisme qui s’était borné à limiter le nombre de dieux. Ce monothéisme lâche, l’hellénisme omniprésent dans le bassin oriental de la Méditerranée et l’universalisme, qui en découlait, s’opposaient au tribalisme juif de l’époque. L’espace du Proche Orient du temps des Hasmonéens était un espace impérial, rassemblant des populations et des ethnies diverses et hétérogènes, exactement comme de nos jours. En cas de conflit, ce royaume hasmonéen convertissait de force, ou tentait de convertir par la contrainte, les peuplades vaincues, leur imposant parfois la circoncision forcée. Sand constate que l’historiographie sioniste rejette ou escamote le fait que constituent ces conversions forcées au judaïsme car, une fois de plus, elles tendent à prouver que tous les adhérents à la confession mosaïque ne descendent pas de « Judéens purs ».

 

On a souvent dit que la conversion forcée ou le prosélytisme n’appartenaient pas à la tradition juive talmudique. C’est vrai mais ce refus de tout prosélytisme date seulement d’après 135, d’après la défaite des zélotes de Bar Kochba, quand il n’y avait plus moyen de convertir de force des tribus voisines ou des résidents étrangers. En 104 av. J. C., Aristobule, roi juif hellénisé, conquiert la Galilée et convertit de force une tribu, probablement arabe, ou au moins sémitique, les Ituréens, au judaïsme de son propre royaume. Nous avons donc encore un démenti : les Ituréens ont été fondus dans la masse juive sans avoir jamais séjourné dans l’espace restreint du petit royaume de Juda.

 

La lecture du livre de Sand nous apporte encore beaucoup d’autres éclairages sur l’invention du peuple juif et nous permet de reléguer au rayon des mythes sans consistance, non pas seulement ceux du sionisme laïcisé ou non, mais aussi tous ceux des monothéismes contemporains, notamment ceux que véhiculent, à grands renforts médiatiques, les biblismes américains, sud-africains ou protestants qui injectent dans le discours politique des absurdités religieuses, en dépit des leçons de l’histoire, des gestes impériales avérées ou des découvertes de l’archéologie. Le biblisme américain est surtout préoccupant, vu le poids considérable qu’il pèse sur le processus démocratique aux Etats-Unis, puissance hégémonique planétaire, et, partant, sur les processus de décision qui affecte, ipso facto, la vie politique de tout le globe. Le travail d’un Sand permet aussi de critiquer la transposition d’un biblisme ou d’un sionisme juifs dans le mental de protestants de souche anglo-saxonne, qui n’ont aucun lien « ethnique » avec la Palestine. Biblisme et sionisme protestants sont, au même titre que le sionisme fabriqué au 19ième siècle, sinon plus encore que ce sionisme, des fictions sans consistance ou des aberrations entachées de fanatisme.

 

Une réhabilitation de la notion d’empire

 

Indirectement, Shlomo Sand réhabilite la notion équilibrante et apaisante d’empire, en valorisant le syncrétisme hellénistique des Hasmonéens au détriment de l’exclusivisme judéen, repris par les sionistes, en avançant comme modèle l’idée de citoyenneté romaine mise en évidence par Mommsen et, simultanément, l’idée d’une citoyenneté impériale allemande après 1870. En effet, une idée impériale nouvelle et rénovée pourrait seule apporter la paix à un Proche Orient fragmenté par les tribalismes, les exclusivismes et les fictions politiques. Reste à savoir si une notion de citoyenneté, de mommsenienne mémoire, pourra s’appliquer de manière transrégionale en Europe ou déboucher sur une omni-citoyenneté européenne, incluant ou excluant les migrations récentes, survenues pendant les « Trente Glorieuses » et poursuivies par les regroupements familiaux. La volonté de certains de nous ramener non pas à une Judée mythique du Roi Salomon ou à une Germanie d’Arminius mais à une Arabie du 7ième siècle ne se heurte-t-elle pas à cette notion apaisante de citoyenneté impériale ? La question demeure ouverte et cet idéal, préconisé par Sand, débouchera-t-il sur une concrétisation voulue par des optimistes, frères en esprit des sionistes phalanstériens du début du 20ième siècle, ou échouera-t-il parce que des pessimistes auront finalement raison dans leurs analyses sans concession ni fard contre les tenants d’éthiques socialistes de la conviction ?   

 

Robert Steuckers.

 

Sources :

Shlomo SAND, Comment le peuple juif fut inventé, Fayard, Paris, 2008.

Shlomo SAND, Les mots et la terre – Les intellectuels en Israël, Flammarion, coll. « Champs », n°950, 2010.

Colin SHINDLER, A History of Modern Israel, Cambridge Université Press, 2008.

          

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samedi, 17 avril 2010

Il caso Némirovsky: vita, morte et paradossi di un'ebvrea antisemita

Il caso Némirovsky:
vita, morte e paradossi di un’ebrea antisemita

di Stenio Solinas

Fonte: il giornale [scheda fonte]

 Cinque anni fa la Francia riscoprì all’improvviso una scrittrice che aveva dimenticato. Si chiamava Irène Némirovsky, era una russa di origine ebraica, era morta in un campo di concentramento nell’estate del 1942. Per un caso straordinario, le figlie avevano custodito fino a quel 2004 una valigia che conteneva la produzione letteraria materna, dattiloscritti, diari, appunti, e fra essi c’era il manoscritto del romanzo a cui Irène aveva lavorato dal giorno della disfatta bellica della Francia, giugno-luglio 1940, fino in pratica al momento in cui i gendarmi francesi si erano recati nella sua casa di campagna e l’avevano portata via. Suite française era il titolo scelto e per quanto nei piani della sua autrice esso prevedesse ancora un volume, relativo a come quel conflitto sarebbe finito, era omogeneo e a sé stante nelle due parti che lo componevano. Pubblicato a mezzo secolo di distanza, il romanzo ebbe un successo clamoroso, vinse dei premi, riportò alla ribalta il nome Némirovsky.

Anche in Italia il suo è stato un caso letterario. È Adelphi, infatti, l’editore che ne ha comprato i diritti e da Il ballo a David Golder, da Jézabel a Come mosche d'autunno a, appunto, Suite francese, ogni titolo si è rivelato un successo e ha contribuito a fare del suo autore uno dei più venduti e dei più citati. Poiché nel corso della sua vita Irène scrisse una decina di romanzi e una quarantina di racconti, il fenomeno è destinato a continuare nel tempo.

Adesso ancora Adelphi manda in libreria La Vita di Irène Némirovsky di Olivier Philipponnat e Patrick Lienhardt (traduzione di Graziella Cillario, pagg, 516, euro 23), uscita due anni fa in Francia da Grasset, una biografia molto ben documentata grazie alla quale del personaggio sappiamo praticamente tutto, compreso il forte tasso autobiografico della sua produzione, in pratica una sorta di reinvenzione artistica della sua famiglia, degli ambienti in cui visse, dei suoi gusti, delle sue passioni e dei suoi odii. E tuttavia, in questo saggio, così come nel successo che ha arriso a quanto finora è stato via via pubblicato, resta un elemento di ambiguità che nessuno si decide veramente a sciogliere e sul quale vale la pena di riflettere. Lo facciamo con tutta la delicatezza del caso, ma crediamo ne valga la pena.

Il fatto che la Némirovsky, intellettuale ebrea di origine, per quanto convertita al cattolicesimo, sia stata una vittima della «soluzione finale» hitleriana, potrebbe spiegare di primo acchito il perché di tanto interesse di pubblico e di critica: una sorta di risarcimento postumo per un nome che pure, negli anni Trenta, aveva goduto di risonanza, una sorta di mea culpa nei confronti di chi si era identificata con la Francia, la sua lingua, la sua storia, la sua cultura, e dalla Francia in fondo era stata abbandonata e poi tradita... Nel 1929 David Golder, il suo romanzo d’esordio per Grasset, vendette 60mila copie, ebbe una riduzione teatrale e una cinematografica, quest’ultima per la regia di Julien Duvivier, che andò persino alla Mostra del Cinema di Venezia del 1932...

E però, se si va più a fondo, un po’ tutta la narrativa della Némirovsky è un susseguirsi di ritratti e di ambienti in cui la «razza ebraica», come si sarebbe detto un tempo, non appare nella sua luce migliore, ma è spesso e volentieri un concentrato di avarizia e di cupidigia, di odio e di crudeltà, di disordine sociale e morale, di incapacità e/o non volontà di assimilazione, di vera e propria «razza a parte» insomma, nemica a tutti e in fondo nemica anche a se stessa...

C’è di più: russa di nascita (Kiev, 1901), la Némirovsky fugge dal suo Paese nel momento in cui i bolscevichi prendono il potere: la sua famiglia appartiene alla buona borghesia degli affari, lei ha l’educazione classica di chi fra istitutrici e lezioni private non si mischia al contatto promiscuo delle scuole pubbliche, passa le vacanze sulla Costa Azzurra, soggiorna ogni anno a Parigi... È una «russa bianca», insomma, con un padre banchiere e finanziere, una madre che pensa soltanto alle toilettes e agli amanti, un treno di vita che l’esilio, prima in Finlandia, poi in Svezia, infine in Francia, non muta più di tanto: appartamento sulla Rive droite, in pratica affacciato sugli Champs Elisées, studi alla Sorbona, estati a Biarritz o a Dauville... L’anticomunismo, insomma, è un dato acquisito, qualcosa che Irène respira fin da ragazza: ha fatto in tempo a vedere lo scoppiare della rivoluzione, i processi sommari, i saccheggi e i massacri. Non lo dimenticherà mai.

Infine, c’è un altro elemento da aggiungere al puzzle finora composto e alla ambiguità che lo circonda. Nel suo decennio letterario la Némirovsky scrive in linea di massima per testate che appartengono al largo spettro della destra francese, ha Robert Brasillach fra i suoi critici più entusiasti, ma anche più avvertiti quanto alla sua arte, ai suoi pregi e ai suoi difetti, frequenta Paul e Hélene Morand... Non è una scrittrice di politica, certo, non si interessa più di tanto alle ideologie, certo, ma è naturaliter di quel mondo borghese, antiparlamentare, antidemocratico, anticomunista, con qualche simpatia per il fascismo, con molte perplessità sul nazionalsocialismo, nazionalista e quindi attento al suolo, al sangue, alla radici, che è il mondo della destra francese della prima metà degli anni Trenta.

La Némirovsky, insomma, faceva parte di quel milieu di ebrei antisemiti di cui oggi non si riesce quasi più ad avere un’idea, ma che fra le due guerre mondiali esistette e spesso fu intellettualmente maggioritario: un atteggiamento etico ed estetico, il disprezzo per l’oro e per l’usura, per chi era considerato un senza patria, per chi rimaneva chiuso nel suo piccolo mondo di tradizioni e di riti.

Siamo di fronte, dunque, a un destino particolarmente tragico perché la Némirovsky è, come dire, vittima dei suoi «amici», non dei suoi nemici. Nelle lettere che Michel Epstein, il marito, scriverà a Otto Abetz, il potente capo della cultura tedesca in terra di Francia, si sottolinea in fondo proprio questo: l’essere anticomunista, il non avere tenerezza per gli ebrei, il fatto che i suoi libri continuino a essere pubblicati, che insomma non sia nella lista nera degli scrittori da dimenticare... Non è nazista Irène, certo che no, e non può sapere quale tragedia politica e morale sarà il nazismo, e il suo iniziale credere in Pétain non vuol dire augurarsi sterminio da un lato, sudditanza dall’altro. Abituati a ragionare con la testa del presente sulla realtà del passato, si fa fatica a capire le scelte di campo, le motivazioni, le speranze e le illusioni. Irène non penserà mai di mettersi in salvo perché crede di essere già in salvo: fa parte dell’intellighentia, di una nazione che ama e difende i suoi scrittori, è legata da sentimenti di amicizia con intellettuali e politici che ora godono di un peso maggiore rispetto agli anni di pace, è, insomma, nella stessa barca dei «vincitori».
Perché dovrebbero buttarla a mare, perché le dovrebbero fare del male? È per questa ambiguità che non si salvò. È questa ambiguità che ancora oggi fa velo a cosa veramente fu la Francia (e non solo la Francia) di ieri.


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lundi, 15 mars 2010

Perspectives juives sur le sionisme

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990

Perspectives juives sur le sionisme

par le Rabbi MAYER-SCHILLER

 

herzl.jpgLa tendance du discours public contemporain est de tout simplifier à outrance. Les idées qui, jadis, étaient sujettes à des controverses très nuancées sont présentées aujourd'hui au public en termes manichéens, où tout est noir ou tout est blanc, de façon à pouvoir s'incruster dans l'esprit appauvri de l'homme moderne, dont les capacités d'attention sont désormais limitées. Nos contemporains, qui subissent sans cesse le bombardement massif des médias audio-visuels, ont besoin d'idées présentées selon un mode rapide, fluctuant.

 

Ce sont là des circonstances malheureuses qui frappent l'humanité en général et que l'on doit, en particulier, déplorer quand sont décrites les attitudes juives à l'encontre du sionisme politique. Si l'on croit les chaînes de communications populaires, on en vient à penser que le sionisme a toujours reçu l'appui absolu, aveugle et désintéressé de tous les Juifs. Rien n'est moins vrai.

 

Les perspectives juives

 

Dans cet article, fort bref, je présenterai plusieurs alternatives et critiques juives à l'endroit des principaux courants du sionisme politique. On s'en apercevra: les défenseurs des idées que je vais présenter ne sont souvent pas d'accord entre eux sur toute une série de questions essentielles. Ces désaccords, ces divergences, sont précisément le thème de mon article. Le sionisme, tel qu'il se présente aujourd'hui aux yeux du monde, est objet d'une très grande attention chez ceux auxquels il s'adresse en premier lieu: les Juifs.

 

Les critiques juives de l'idéologie sioniste dominante actuellement peuvent se répartir en trois catégories: 1) les critiques «éthiques-humanitaires»; 2) les critiques orthodoxes religieuses; et 3) les critiques «patriotiques», c'est-à-dire celles qui veulent que les Juifs s'identifient à leur nouvelle patrie dans les pays occidentaux.

 

Les critiques «éthiques-humanitaires»

 

Les fondateurs du mouvement sioniste politique sont de purs produits de la culture européenne du tournant du siècle. Distinguons d'abord le sionisme politique, qui n'a jamais cessé de défendre l'idée d'une souveraineté politique juive sur la Palestine, de l'amour naturel et de la vénération que les Juifs traditionalistes ont toujours éprouvé pour la Terre Sainte. Ce sentiment a conduit les Juifs orthodoxes, au cours des siècles, à entreprendre des pélérinages vers les lieux saints de la Palestine et à y établir de petites colonies vouées à la prière et à l'étude et qui ne cultivaient aucune aspiration politique. Au tournant du siècle, les sionistes d'Europe ont élaboré des plans pour que se constitue une patrie juive en Palestine, sans égards pour la population indigène. C'était typique pour l'époque colonialiste. Le destin et les droits à l'auto-détermination des peuples du tiers-monde n'étaient guère pris en considération dans l'Europe colonisatrice d'avant la Grande Guerre.

 

Mais quand ces sionistes de la première heure se sont aperçu du nombre réel d'Arabes vivant dans le pays, ils se divisèrent en trois tendances différentes. Je les classerai par ordre d'importance sur le plan quantitatif.

 

Il y avait d'abord les «sionistes travaillistes». C'est la faction principale du sionisme qui a tenu les rênes du pouvoir en Israël jusqu'il y a peu. Elle cherche une sorte de compromis avec les Arabes. Elle a accepté le plan de partition de la Palestine en deux Etats (1947). Elle a toujours estimé que l'obstination rendait impossible tout compromis. Aujourd'hui encore, quelques-uns de ses membres, élus à la Mapai Knesset  sont en faveur d'une solution à deux Etats. La seconde faction est celle dite du «sionisme révisionniste». Elle a toujours été militante. Elle a sans cesse réclamé l'ensemble de la Palestine alors sous mandat et croyait arriver à ce but par le terrorisme. Ce groupe existe encore aujourd'hui au sein de la coalition qu'est le Likoud, dirigé par Yitzhak Shamir. Il appelle de ses vœux le «Grand Israël», en refusant, par principe, de négocier avec les Palestiniens. Le troisième groupe, que l'on a appelé tantôt les «sionistes culturels» ou les «sionistes éthiques», a senti d'emblée que la politique du mouvement à l'égard des Arabes était mauvaise. Martin Buber, mort en 1964 et figure de proue de la philosophie juive contemporaine, chef de file du mouvement Brit Shalom  (Diète de la Paix), écrit: «Les Arabes sont le test que Dieu a envoyé au sionisme». Les «sionistes éthiques» estiment que l'immigration juive vers la Palestine et l'installation de colonies juives dans ce pays ne peuvent s'effectuer que sur base d'une conciliation fraternelle avec les Palestiniens. Toutes les mesures que ces derniers pourraient ressentir comme des impositions immorales ne devraient pas être concrétisées.

 

Ahad Ha'Am, un intellectuel s'inscrivant dans la tradition du «sionisme culturel», se lamentait, dans les années 20, après qu'un rapport lui était parvenu, relatant les attaques vengeresses de Juifs contre des Arabes innocents en Palestine: «Les Juifs et le sang!... Notre sang a été versé au quatre coins du monde pendant des milliers d'années, mais, jusqu'ici nous n'avions jamais fait couler le sang des autres... Qu'allons-nous dire maintenant si cette horrible nouvelle s'avère exacte?... Est-ce cela le rêve du retour à Sion: maculer son sol d'un sang innocent? Si c'est cela le Messie, alors je ne souhaite pas assister à son arrivée!».

 

Jusqu'à présent, cette troisième perspective, celle du «sionisme éthique», s'est opposée à la politique choisie par le gouvernement israëlien à l'encontre des Palestiniens. Jadis, la plupart des «sionistes culturels» prônaient un Etat uni bi-culturel mais, de nos jours, où les attitudes collectives se font plus intransigeantes de part et d'autre, ils sont généralement en faveur de la solution dite des «deux Etats». Les adeptes contemporains du «sionisme culturel/éthique» se retrouvent dans des organisations comme «La Paix Maintenant», dans des partis politiques comme le Mapam, le CRM ou dans certaines factions des Travaillistes. Le «sionisme éthique» n'est pas monolithique: on le retrouve également dans une organisation comme celle du Rabbi Elmer Berger, American Jewish Alternatives to Zionism (Alternatives juives-américaines au sionisme), qui s'oppose globalement à l'Etat d'Israël; ou dans une revue américaine, intitulée Tikkum, qui réclame un plan dûment conçu, élaboré avec le souci de ne heurter personne, prévoyant une solution à deux Etats. Cette troisième perspective a son commun dénominateur dans le constat que le sionisme dominant, le sionisme réel, et les pratiques de l'Etat hébreux remettent en question les principes de base de la morale et de l'humanisme. Répétons-le: la plupart de ces gens sont des sionistes convaincus; ils estiment que les Juifs doivent avoir une patrie mais tiennent compte des revendications opposées des Palestiniens. Ils réclament la justice pour tous et veulent un compromis qui puisse apporter la paix et la sérénité.

 

Les Orthodoxes religieux

 

Dès les débuts du sionisme politique, de larges factions de la Judaïté orthodoxe s'y sont opposées. L'antagonisme qu'elles nourissaient était à facettes multiples, mais toutes étaient centrées autour des considérations suivantes: 1) Etablir une souveraineté politique juive en Terre Sainte est profondément illégitime avant la fin messianique des temps, que seul Dieu décidera; 2) le sionisme est un mouvement essentiellement séculier qui cherche à substituer le «nationalisme» à la religion; 3) le sionisme, avec sa propension à vouloir la guerre, provoquera une dégradation dangereuse des rapports entre Juifs et Gentils.

 

Après la création de l'Etat d'Israël en 1948, les Juifs anti-sionistes se sont divisés en deux camps. Le premier, incarné principalement dans le parti Agudat Israël,  tant en Israël qu'ailleurs dans le monde, a conservé son absence d'enthousiasme à l'encontre du sionisme, mais a choisi de le reconnaître malgré tout et de participer au gouvernement. Son idéologie se préoccupe essentiellement de questions religieuses mais est en faveur de tous les compromis territoriaux afin de faire la paix avec les Palestiniens.

 

Le second camp anti-sioniste est celui que l'on nomme du nom générique de Kanaïm  (les Zélotes). Il refuse de reconnaître l'Etat d'Israël qu'il juge intrinsèquement mauvais. Les groupes partageant cette philosophie sont: le groupe Satmar,  disséminé dans le monde entier, le Toldot Aron  à Jerusalem, le Neturei Karta  et tous ceux qui sont affiliés à l'autorité rabbinique traditionnelle d'Aidah Haredis en Israël.

 

Notons que les deux sentiments que nous venons de décrire regroupent presque la totalité de tous les Juifs orthodoxes d'orientation traditionnelle. Le sionisme politico-religieux, principalement représenté au cours de ces dernières décennies par le mouvement Mizrahi,  a toutefois été moins engagé sur le plan religieux que ses adversaires anti-sionistes. Au cours des deux ou trois dernières décennies, surtout depuis la guerre de 1967, une fraction du sionisme religieux s'est développée en s'associant à des colons de la rive occidentale du Jourdain pour former le mouvement militant connu sous le nom de Gouch Emounim,  qui veut le «Grand Israël». Contrairement au mouvement Mizrahi,  déjà ancien, ils adoptent ouvertement des attitudes religieuses. Bien évidemment, ces sionistes néo-religieux sont condamnés tant pas le mouvement Agudat Israël  que par les Kanaïm.

 

Les mouvements patriotiques

 

Bon nombre de Juifs d'Europe occidentale se sont opposés au sionisme parce qu'ils voyaient en lui un mouvement qui érodait le patriotisme et le loyalisme à l'égard de la nation-hôte. Le Rabbi Samson Raphaël Hirsch, chef de file religieux en Allemagne au XIXième siècle, s'est fait l'avocat passionné du patriotisme juif à l'endroit de la nation-hôte. Sa position reflétait, de façon typique, les positions de ses contemporains. Par exemple, l'American Reform Jewry  n'a mis un terme à sa dénonciation constante du sionisme que juste avant la seconde guerre mondiale. Selon les tenants du «patriotisme juif», les Juifs vivant en dehors d'Israël, parmi les autres nations, ne pourraient être qu'anti-sionistes ou, au moins, non sionistes. L'émigration vers Israël ne serait qu'une option parmi d'autres options.

 

La seconde guerre mondiale

 

Les terribles souffrances endurées par la Judaïté européenne sous le joug des Nazis et de leurs alliés, souvent acceptées passivement par le gros de la population non nazie, ont changé de façon significative l'attitude des Juifs à l'égard du sionisme. Depuis la guerre, beaucoup de Juifs considèrent Israël comme une nécessité, comme un havre potentiel sûr où fuir au cas où de nouvelles persécutions diaboliques s'enclencheraient.

 

Cette peur, profondément enracinée, n'est pas un simple fantasme. Elle est née des terribles événements d'il y a cinquante ans. Depuis 1945, le «patriotisme juif», critique à l'égard du sionisme, s'est de lui-même mis en sourdine. Les Juifs ont hésité à mettre leur destin entre les mains de peuples susceptibles de se retourner contre eux. Cette peur, héritée du passé, joue également un rôle dans le refus du gouvernement israëlien de faire confiance aux Palestiniens, même si ceux-ci ont montré beaucoup de bonne volonté récemment.

 

Quel futur?

 

Les efforts des sionistes non impérialistes pour influencer le gouvernement israëlien, pour l'amener à un compromis avec les Palestiniens, ne progresseront que dans la mesure où les Juifs commenceront à sentir que les non Juifs ne leur veulent pas de mal. C'est là que doivent jouer les non Juifs possédant un sens clair, aigu, de leur propre identité: eux seuls peuvent contribuer à déconstruire les peurs juives précisément parce que ce sont eux que les Juifs craignent le plus.

 

Pour leur part, les Juifs vivant au sein des nations européennes doivent garder à l'esprit que ces nations sont des communautés soudées par des identités, possédant une culture propre, des normes de comportements distinctes, etc. Et que toutes les tentatives pour préserver ces identités, cultures, normes, etc., pour les promouvoir et les enrichir ne doivent pas être contrecarrées ou ne doivent pas susciter la peur. Ensuite, il faudrait que les Juifs qui optent pour le sionisme adhèrent aux variantes non impérialistes de cette idéologie.

 

Respect et sympathie

 

Les «troisièmes voies» sont des voies réclamant le respect mutuel entre les peuples et la sympathie réciproque. Tous ceux qui veulent apprendre sincèrement à connaître l'Autre, quel qu'il soit, sont appelés à élaborer les paramètres d'une coexistence harmonieuse, non oblitérante.

 

Rabbi MAYER SCHILLER,

New York.

(article tiré de Third Way,  Nr. 2, June 1990; adresse de la revue: P.O. Box 1243, London, SW7 3PB).

 

Suggestions de lecture

 

Pour une bonne présentation du sionisme éthique, lire Martin Buber, Un pays, Deux peuples. Ou, pour une illustration de la même thématique mais plus actualisée, lire le livre d'Uri Avnery, My Friend the Enemy (Mon Ami, l'Ennemi). Pour comprendre la position de Naturei Karta, lire The Transformation  de Cyril Domb. Dans Horeb, le Rabbi Samson Raphaël Hirsch traite de la totalité du judaïsme mais nous trouvons, dans son livre, bon nombre d'éléments pertinants quant à notre propos. Le «sionisme culturel» d'Ahad Ha'Am a été abordé par son disciple Hans Kohn dans Zion and the Jewish National Idea,  dont on peut se procurer une photocopie à la rédaction du magazine britannique Third Way  (P.O. Box 1243, London, SW7 3PB).   

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jeudi, 14 janvier 2010

Rabbi Mayer Schiller : un mouvement qui repose sur des principes

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1992

 

 

Colloque de «Third Way», Londres, 21 juin 1992

 

Un mouvement qui repose sur des principes

 

par Rabbi Mayer-Schiller

 

Le 21 juin 1992, à Londres, c'est le Rabbi Mayer-Schiller qui a présidé le colloque international organisé par le mouvement de Patrick Harrington, «Third Way». En conclusion, il a prononcé un long discours, disponible sur vidéo-cassette (cf. encart), dont la teneur équivalait au message qu'il avait écrit quelques semaines plus tôt pour la revue du mouvement et que nous reproduisons ici.

 

La notion de «troisième voie» désigne une alternative au capitalisme comme au communisme; pendant longtemps, cette expression a été en vogue chez un certain nombre d'intellectuels européens. Au fil des années, elle a été utilisée par une grande diversité de théoriciens, représentant des idées très différentes les unes des autres. Ce qui les unissait? Le sentiment que quelque chose avait fait fausse route dans les domaines de la politique, de l'économie, du social et de la religion, du moins en Occident. Tous devinaient que des solutions radicales s'imposaient pour mettre fin aux implications de ce déraillement.

 

Pour ce journal et l'organisation qu'il représente, l'expression «troisième voie» recouvre un large éventail d'idées et de programmes traitant des questions les plus importantes de notre temps. Parmi ces idées, un engouement pour le distributisme, un militantisme régionaliste, la démocratie à l'échelon local, l'écologie, les questions de la morale traditionnelle, l'auto-détermination pour toutes les nations, une acceptation des différences d'ordre racial et/ou ethnique, et bien d'autres positions encore. Mais ces prises de position ne sont pas dues au hasard: elles reposent sur des postulats de base. Ceux-ci font l'objet de mes réflexions dans le cadre du présent article.

 

La matière et le sens

 

Au cours des décennies passées, nous avons pu observer que les dichotomies traditionnelles, opposant une «droite» à une «gauche», ont souvent été surmontées. Malgré les querelles bruyantes qui agitent la scène politique ou philosophique, malgré les disputes où l'on cherche à savoir ou à établir comment découper au mieux le gâteau de l'économie nationale, selon une recette capitaliste ou une recette socialiste, il y a, finalement, peu de désaccords entre les politiciens de l'établissement qui, tous, croient que c'est par des moyens purement matériels que l'on va atteindre le bien-être social ou le bonheur. Voilà sans doute le dogme fondamental des hiérarchies qui dominent notre époque.

 

A cette croyance matérialiste qui veut que le bonheur des hommes ne réside que dans l'acquisition de confort physique, dans une monstration ridicule de biens de consommation ou dans les amusements aussi stériles qu'éphémères, s'opposent une série de doctrines, dérivées de sources multiples. Parmi ces sources, mentionnons les fois religieuses traditionnelles d'Europe, les convictions de ceux qui pensent que les différentes formes de romantisme représentent les sommets de la spiritualité humaine, et, enfin, les idées des tenants du mouvement communaliste ou communautaire qui sentent que le don fait aux autres, les soins apportés à l'autre, accordent à l'homme altruiste, qui donne ou soigne, le maximum de bonheur. En tenant compte de ces perspectives qui mettent en relief l'âme, le caractère, de l'homme plus que sa valeur marchande et matérielle, nous pouvons comprendre que bon nombre de critiques de la modernité, d'alternatives qui entendent se substituer à cette dernière et qui ont été classées par l'opinion publique soit à «gauche» soit à «droite» de l'échiquier politique, convergent en fait sur l'essentiel. Quelques exemples? Tant la droite catholique traditionnelle que la nouvelle gauche née à la fin des années soixante rejettent le matérialisme et l'égoïsme au nom de la communauté et estiment que le but de la vie réside dans l'acceptation de valeurs et dans un vécu façonné au départ de ces valeurs. Axiologie implicite et explicite qui s'oppose, évidemment, à la folie acquisitive de notre temps. De manière similaire, les anciens codes de comportement du gentilhomme ou du chevalier mettent l'accent sur l'honneur (ce qui est aussi, d'une certaine façon, le caractère). Pour me résumer, je rappelerais une parole d'Eric Fromm qui disait qu'il valait mieux "être" qu'"avoir": formulation cryptique de cette foi, diffusée à travers tout le kaléidoscope des idéologies ou des religiosités.

 

Les mouvements de «troisième voie» s'inscrivent, en dernière instance, dans un filon philosophique qui postule que la quête du bonheur, chez l'homme, repose sur la qualité de l'expérience existentielle et non sur la quantité. Toutes les positions que prennent ces mouvements, indépendamment de l'étiquette qu'ils se donnent dans le cadre où ils agissent, qu'ils soient ancrés dans les traditions patriotiques, qu'ils révèlent un sens puissant des liens et des obligations qui lient l'homme à son passé, qu'ils soient portés par un désir ardent de concrétiser les devoirs moraux de l'individu vis-à-vis de son prochain en voulant la justice sociale et économique pour tous: autant de démarches essentiellement éthiques, morales ou spirituelles qui sont radicalement opposées à la vision matérialiste du réel.

 

Small is beautiful

 

Le mouvement «Third Way», en Grande-Bretagne, croit que la plupart de nos problèmes sociaux immédiats, à l'échelon de la commune, peuvent trouver une solution au niveau local, car les personnes directement concernées par un problème ou un dysfonctionnement social ou institutionnel, sont davantage motivées. Cette volonté de centrer les préoccupations politiques du citoyen au niveau local est l'un des aspects pratiques du programme de «Third Way» en Grande-Bretagne.

 

L'aliénation ressentie par l'homme occidental contemporain, le cynisme stérile qu'il expérimente tous les jours, ont plusieurs causes. L'une de ces causes  —philosophes et théologiens en ont beaucoup parlé—  c'est que les sources normatives du «sens», respectées par les générations précédentes, soit Dieu, la famille, la patrie et la communauté, ont perdu leur pouvoir de donner cohésion à la société, sous les coups du sécularisme, du libéralisme et du capitalisme. L'autre cause, c'est que, nous sommes tous envahis par le sentiment de ne plus avoir aucun pouvoir sur la marche des choses. Nous n'avons plus prise sur la gestion des structures qui gouvernent nos existences. Ce rôle actif, qui, théoriquement, devrait être l'apanage de tous les citoyens sans exception, a été usurpé par les gouvernements, toujours plus distants et irresponsables, par les media, qui ne visent plus que le profit immédiat et l'amusement simpliste, par les écoles, source de la domination exercée par l'établissement sur la jeunesse, et par les consortiums économico-commerciaux nationaux et internationaux, dépourvus de toutes attaches locales, ethniques et historiques.

 

C'est en posant un constat similaire que les mouvements de troisième voie ont voulu dépasser ce désenchantement, ressenti par nos contemporains, et rendre aux peuples le contrôle sur leurs propres affaires, sur les phénomènes et les événements qui affectent leur vie quotidienne. Quand le mouvement Third Way en Grande-Bretagne se fait l'avocat du distributisme, du régionalisme, de la démocratie locale, etc., il veut faciliter ce processus de retour général à l'autonomie. Dans cette optique, si la «révolution» préconisée par Third Way triomphe, les hommes et les femmes d'aujourd'hui retrouveront confiance: ils sentiront qu'ils exerceront à nouveau un contrôle sur leurs destinées personnelles et retrouveront les liens solides qui les unissent à leurs communautés et à leurs semblables.

 

L'auto-détermination pour tous

 

L'homme ne se réalise que dans le cadre d'une communauté, où les rythmes essentiels de sa propre existence ont une signification pour tous ceux qui l'entourent. Tous les éléments qui participent à la genèse d'une culture autonome (p. ex.: une histoire commune, la proximité géographique, l'adhésion aux mêmes symboles ou à une même mythologie, le fait de chanter les mêmes chants, de partager les mêmes us et coutumes, d'adhérer aux mêmes règles de politesse, etc.) nous communiquent apaisement, donnent du sens et posent un but dans l'existence. En détruisant ces pierres angulaires de la nationalité, on a éliminé les bases concrètes du sentiment d'«être chez soi», sentiment stabilisateur, dont nous avons tous besoin.

 

En toute logique, les mouvements de troisième voie favorisent l'auto-détermination pour tous les peuples de la Terre et considèrent que les transferts massifs de populations diverses dans les centres industriels sont des expériences négatives pour toutes les ethnies concernées. De toute évidence, en déclarant cela, les mouvements de troisième voie se placent sur un terrain dangereux. En Amérique, par exemple, les différentes strates de la population se scindent sur des bases raciales, ethniques et parfois religieuses, alors que le gouvernement tente de maintenir une paix fragile entre elles. Mais quand on prend en compte les statistiques qui donnent une image du présent et de l'avenir de l'Amérique, on espère que cette paix pourra se maintenir, mais il y a lieu d'en douter.

 

Dans les Iles Britanniques, Third Way milite pour un programme de rapatriement volontaire des immigrés, subsidié par le gouvernement. Cet engagement, le mouvement le justifie de deux façons:

1) Il vaut mieux, pour tous les peuples, que chaque ethnie ait sa place dans le monde et vive son mode de vie propre.

2) Mais cette vision diversifiée et diversifiante ne peut en aucun cas être imposée aux hommes. Si l'on veut rester réaliste, il faut envisager ce rapatriement volontaire sur base d'une entente mutuelle. Car aussi longtemps que les hommes, de quelque ethnie, race ou nationalité qu'ils soient, demeurent prisonniers de l'égoïsme fondamental que nous imposent les media, tous les discours réclamant l'auto-détermination ou le respect des identités resteront pure vanité.

 

Le nationalisme selon Third Way

 

Enfin, il me semble opportun de parler des domaines dans lesquels les mouvements de troisième voie se sont distingués des autres formes de nationalisme (y compris des formes qui mettent l'accent sur les structures locales, par opposition aux structures stato-nationales).

Le premier de ces domaines, c'est le dialogue que prône Third Way avec les tenants de la foi judaïque. En résumé, nous pouvons dire que le mouvement s'est donné pour objectif de combattre toutes les formes de bigoterie et entend mettre un terme au conflit, au malentendu et à la méfiance réciproque qui existent depuis plusieurs siècles entre les juifs et les patriotes européens. Cette volonté fait de Third Way un mouvement unique en son genre parmi les nationalistes de Grande-Bretagne, vu que tous les autres veulent promouvoir des programmes qui sont, explicitement ou implicitement, antisémites. On peut effectivement parler d'un «nouveau cours», qui connaîtra bien entendu des hauts et des bas, qui démarera cahin-caha, mais, après une période initiale de scepticisme, un nombre croissant de juifs et de nationalistes abandonneront leurs vieux stéréotypes.

 

L'approche que fait Third Way de la religion juive est typique de la démarche plus générale du groupement, qui met davantage l'accent sur le vécu et les affinités existentielles que sur les doctrines strictes et figées. En effet, Third Way est un mouvement d'optimisme, de réceptivité et d'espérance. Contrairement à d'autres nationalistes, qui voient le monde comme un lieu où se déroulent en permanence d'inévitables conflits, où l'on se bat sans rémission et où la haine est le maître-sentiment, où la victoire finale n'appartient qu'au plus fort ou au plus rusé, Third Way estime que les multiples composantes de l'humanité sont capables de coopérer sur base du respect mutuel. C'est là une différence marquante qui révèle une manière de concevoir les affaires internationales mais aussi une tentative de dialoguer avec les autres groupes ethniques et les autres races qui vivent dans l'Europe d'aujourd'hui. D'où, surgit inévitablement la question, question capitale: faut-il regarder l'autre comme nous étant en principe et a priori antagoniste? Ou faut-il engager le dialogue avec lui dans un esprit de compréhension mutuelle? En somme, Third Way ne considère pas que les intérêts des divers peuples du monde soient fondamentalement contradictoires.

 

Conclusion

 

Ce que je viens d'écrire ici ne constitue qu'une très brève esquisse des positions et des principes défendus par Third Way. Beaucoup de bonnes gens pourront certes critiquer l'un ou l'autre des points que je viens d'évoquer; il n'en demeure pas moins vrai que Third Way nous suggère une nouvelle perspective politique et une nouvelle vision du monde qui offrent une alternative sérieuse aux doctrines de l'établissement, tout en évitant le négativisme des tentatives similaires que nous avons connues dans le passé. Nous devons effectivement abandonner les réductionnismes dans tous les débats publics et encourager l'homme occidental à se consacrer aux choses supérieures.

 

Rabbi MAYER-SCHILLER.    

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jeudi, 03 décembre 2009

Israël, le Likoud et le rêve sioniste

zionism_1.jpgArchives de Synergies Européennes - 1998

 

Israël, le Likoud et le rêve sioniste

 

Le terme “sioniste”, en devenant un concept polémique voire une injure politique, ne désigne plus clairement une réalité politique, idéologique et historique. En entendant le terme “sioniste” dans la seule acception polémique qu’a inaugurée le conflit de Palestine, nos contemporains ne parviennent plus à saisir ce qu’a été cette idéologie avant la création de l’Etat d’Israël, dans les mouvements clandestins, et quelles ont été ses évolutions et ses mutations au cours de l’histoire israëlienne. A l’occasion du 50ième anniversaire de l’Etat d’Israël, il nous a semblé bon de conseiller la lecture d’un ouvrage de Colin Shindler, Israel, Likud and the Zionist Dream. Power, Politics and Ideology from Begin to Netanyahu  (réf. infra). L’étude de Shindler commence en 1931, l’année où Zeev Vladimir Jabotinsky et ses camarades s’imposent lors du 17ième Congrès sioniste et lancent le “sionisme révisionniste” (qui obtient 21% des votes, contre 29% pour le Mapai modéré de Ben Gourion).  En apprenant ces résultats, Chaim Weizmann, président de l’OSM (“Organisation Sioniste Mondiale”), est amer et ne mâche pas ses mots: pour lui, le “révisionnisme” est une gesticulation haineuse, de type hitlérien. Le clivage entre la gauche et la droite sionistes s’approfondit: le Mapai travailliste (fusion de l’Achdut Ha’avoda et de Hapoel Hatzair) s’oppose à la droite dont le noyau dur est le Betar de Jabotinsky, qui rejette le socialisme, “idéologie faible qui induit l’homme à ne plus déployer d’efforts, à cesser de combattre, de chercher le meilleur”. Et il ajoute: «[Dans le socialisme] la position de chacun serait régulée automatiquement, rien ne pourrait plus être changé, on cesserait de rêver, l’esprit ne se projetterait plus en avant et toutes les impulsions constructives de l’individu disparaîtraient». De même, Jabotinsky rejette injustement l’humanisme “dialogique” de Martin Buber, qu’il a verbalement agressé à plusieurs reprises: “ce provincial typique dans ses allures, un soi-disant penseur de troisième zone, qui énonce neuf dixièmes de phrases tordues pour une seule véhiculant une idée, qui n’est pas la sienne et n’a pas de valeur”. Jabotinsky reproche à Buber de “rêver” et de ne suggérer à la jeunesse juive que le rêve, sans concrétude aucune. Accusé de fascisme par les socialistes, Jabotinsky, toutefois, n’adhère pas à la formule italienne du fascisme et n’accepte pas, a fortiori, l’antisémitisme national-socialiste. Seuls quelques groupes, tel le Brit Ha’Biryonim, ont cultivé une certaine admiration pour Mussolini et même Hitler, tout en admirant les sicarii du Ier siècle de notre ère, qui assassinaient les collaborateurs juifs de Rome.

 

Le sionisme israëlien futur, dont celui du Likoud, sera un dérivé de ce “sionisme révisionniste” explique Shindler. Première étape dans l’évolution du “révisionnisme” sioniste: celle de la constitution de la “New Zionist Organization” (fondée en 1935) qui donne ensuite naissance à deux groupes armés, qui adopteront des politiques quelque peu différentes: l’Irgoun et le Groupe Stern. La différence entre les deux groupes de la “nouvelle organisation sioniste” repose surtout la façon de combattre la présence britannique en Palestine. Faut-il chasser les Anglais par la force ou composer avec eux? L’Irgoun s’était fait l’avocat d’une révolte immédiate contre les Britanniques en Palestine sous l’impulsion de Begin, apôtre de la désobéissance civile sur le modèle gandhiste. Après l’épisode de la “Nuit de cristal” en novembre 1938 et quand éclate la seconde guerre mondiale, Jabotinsky place sa confiance dans la diplomatie britannique et dans la personnalité de Churchill. Cette nouvelle option pro-britannique provoque d’âpres débats au sein de l’Irgoun. David Raziel, commandant militaire de l’Irgoun, opte également pour l’alliance avec Londres contre l’Axe et veut attendre la fin de la seconde guerre mondiale et l’élimination du national-socialisme en Europe, tandis que le Groupe Stern (plus tard le “Lehi”) veut démarrer la révolte juive avant la fin de la seconde guerre mondiale. Il avait fait des propositions à Mussolini à la fin des années 30: selon ce plan, les sionistes devaient s’allier avec l’Italie pour chasser les Anglais de Palestine, former un Etat hébreu de facture corporatiste et satellite de l’Axe et placer les lieux saints de Jérusalem sous la protection du Vatican. Cette proposition n’eut pas de lendemains, de même que l’offre faite à Hitler de recruter 40.000 soldats juifs d’Europe orientale pour chasser les Britanniques de Palestine. Hitler a préféré jouer la carte arabe. Néanmoins, Stern sabote le recrutement de soldats juifs de Palestine pour l’armée britannique. La police britannique abat Stern le 12 février 1942, éliminant le plus radical des sionistes anti-britanniques, ce qui laisse le champ libre à la politique pro-alliée de Jabotinsky et Raziel (qui meurt à la suite d’un raid aérien). Ya’akov Meridor prend sa succession à la tête de l’Irgoun et opte également pour la carte alliée et l’“armistice” avec les Britanniques.

 

Avraham Stern était un homme qui ne faisait pas confiance en Londres et s’inspirait de plusieurs sources: surtout l’IRA irlandaise, mais aussi l’action de Garibaldi en Italie, les sociaux-révolutionnaires russes et, sur le plan de la tradition juive, les animateurs de la révolte contre Rome. Stern s’est successivement adressé à Pilsudski en Pologne, à Mussolini et à Hitler pour demander leur appui contre les Britanniques, sous prétexte que ceux-ci sont les ennemis n°1 du rêve sioniste et que “les ennemis de nos ennemis sont nos amis”. Dès 1944, Begin, sûr de la défaite de l’Axe, donne l’ordre de commencer “la Révolte” contre l’administration britannique et de mettre un terme à l’“armistice”. Après 1945, les successeurs de Stern, c’est-à-dire le triumvirat Eldad, Yellin-Mor et Yitzhak Shamir, s’inspirent des terroristes russes du XIXième siècle, de Netchaïev et de Narodnaïa Volnia, demeurent anti-occidentaux et anti-britanniques et cherchent l’appui de l’URSS de Staline. Idéologiquement, explique Shindler, en dépit de la lutte commune contre l’administration britannique, l’Irgoun et le Lehi (= Groupe Stern) ne pouvaient pas fusionner: le Lehi était très jaloux de son indépendance et refusait tout contrôle par Begin. La carte soviétique du Lehi renouait avec la tradition de Stern (“les ennemis de nos ennemis sont nos amis”). Le Lehi considérait que Staline était le nouvel adversaire principal de l’Empire britannique, après la double disparition de Mussolini et de Hitler. A ce titre, le Vojd soviétique pouvait être considéré comme un allié du futur Israël. Yellin-Mor joue une carte plus bolchevique que ses compagnons: il garde une ligne anti-impérialiste radicale et appelle les sionistes à se joindre à tous les mouvements arabes anti-britanniques de la région. Begin, qui a été interné en URSS dans le goulag, est réticent. Shamir, lui, prend pour modèle Michael Collins, chef militaire de l’IRA, au point de prendre, en souvenir du chef irlandais, le nom de code de “Michael” dans la clandestinité. Il prône une lutte sans compromis contre Londres et entend déployer une propagande pro-sioniste en Amérique, pour créer un mouvement favorable à la création d’Israël comme De Valera et Connolly l’avaient fait pour l’Irlande. La littérature sur l’IRA devient lecture obligatoire pour les militants du Lehi. Shindler rappelle que David Raziel connaissait l’histoire de l’IRA par cœur et qu’Avraham Stern avait traduit en hébreu en 1941 le livre de P. S. O’Hegarty, The Victory of Sinn Fein.

 

Avec l’assassinat de Lord Moyne, ami personnel de Churchill, la Haganah de Ben-Gourion coopère avec les Britanniques et contribue à démanteler partiellement l’Irgoun. Le Lehi, plus clandestin, est relativement épargné. Begin est horrifié au spectacle de l’Haganah tuant des Juifs pour le service d’une puissance tierce. En novembre 1945, seulement, après le refus du nouveau gouvernement travailliste britannique de mener une politique pro-sioniste inconditionnelle, les trois forces (Haganah, Irgoun, Lehi) acceptent un armistice et cessent de se combattre mutuellement. Cette trêve durera jusqu’en août 1946, où Ben Gourion dénoncera les campagnes sanglantes de l’Irgoun (Hôtel King David, Deïr Yassin, etc.).  

 

Après 1948, Begin initie un processus d’alliances et de fusions avec les divers éléments de droite et les factions dissidentes des milieux travaillistes: ainsi son mouvement Herout devient le Gahal en 1965 et le Likoud en 1973. Bien qu’ayant dû accepter l’armistice avec les Britanniques pendant le seconde guerre mondiale, Begin n’a jamais admis leur politique de donner la rive occidentale du Jourdain à l’Emir Abdoullah de Jordanie dans les années 20 ni celle des Nations-Unies de donner ce même territoire aux Palestiniens en 1947. Dans cette revendication, Begin est demeuré fidèle à Jabotinsky qui réclamait pour les Juifs tous les territoires à l’Ouest du Jourdain (la Judée et la Samarie). S’il a redonné le Sinaï à l’Egypte de Sadat, Begin n’a jamais lâché la Cisjordanie, qu’il percevait comme un glacis pour protéger le peuplement juif de Palestine, refuge ultime en cas de nouvelles persécutions en Europe. La conquête du Sud-Liban par Sharon est dans la logique de cette idéologie d’Israël-camp-retranché. 

 

Yitzhak Shamir prend le relais dans le Likoud, bien qu’il soit issu du Groupe Stern anti-britannique. Shamir est un pragmatique, pour qui les pages de la seconde guerre mondiale et de l’opposition des Juifs au mandat britannique sont définitivement tournées, même si la saga du combat sioniste armé et clandestin doit toujours être donnée en exemple aux jeunes générations de “sabras”. Le salut de la droite israëlienne ne réside à ses yeux que dans le Likoud, les autres partis étant trop modestes numériquement. Shamir refuse de rester dans les cercles et petits partis issus du nationalisme anti-britannique, c’est-à-dire du Lehi et de ses satellites. Shamir s’allie donc aux pragmatiques du Likoud, rassemblés autour de Moshe Arens.

 

Avraham Stern a toutefois légué à Shamir l’idée d’un “Très Grand Israël”, du Nil à l’Euphrate. Raison pour laquelle, en dépit de son pragmatisme et de son refus de s’enfermer dans les petits partis dérivés du Lehi, Shamir est resté un adversaire des accords de Camp David. L’idéologie et la pratique de Shamir a donc sans cesse oscillé entre le maximalisme de Stern et le pragmatisme de Ben Gourion, dont il ne partageait pourtant pas la théorie d’une fédération de deux Etats, l’un palestinien, l’autre juif. Shindler rappelle que les actions du Groupe Stern et du Lehi ont toujours été mûrement réfléchies et n’ont jamais été des gestes spectaculaires et irréfléchis. Face à Begin, qui aimait “mélodramatiser” ses interventions et rappelait sans cesse le sort tragique des Juifs d’Europe, Shamir demeurait plus austère dans ses propos mais pratiquait dans le dialogue avec les Palestiniens une “approche immobile”, disant de lui-même qu’il aurait pu faire traîner les négociations pendant dix ans s’il l’avait fallu.

 

Netanyahu est aujourd’hui l’héritier de cette idéologie complexe, qui a pour point commun de faire vivre et survivre coûte que coûte l’Etat d’Israël dans un environnement hostile, mais où des inimitiés anciennes sont bien présentes, focalisées autour des concepts de “Petit Israël” (avec la Cisjordanie) ou de “Très Grand Israël” (du Nil à l’Euphrate).

 

L’ouvrage de Shindler est important, pour connaître tous les méandres de l’histoire du sionisme et d’Israël, pour prendre acte de la complexité de la question palestinienne.

 

Benoît DUCARME.

 

Colin SHINDLER, Israel, Likud and the Zionist Dream. Power, Politics and Ideology from Begin to Netanyahu, I. B. Tauris, London/New York, 1995, 324 p., $39.50, ISBN 0-85043-969-9.

mercredi, 25 novembre 2009

Avraham Burg: du sionisme au post-sionisme

avraham-burg-lenfant-terrible-judaisme-L-2.pngAvraham Burg : du sionisme au post-sionisme

 

Le père d’Avraham Burg, Josef Burg (1909-1999), a participé à la plupart des gouvernements israéliens depuis l’émergence de l’Etat hébreu sur la scène politique internationale jusqu’à sa retraite en 1986. Il appartenait à un courant religieux du sionisme, l’idéologie fondatrice d’Israël. Son fils, Avraham Burg, a, lui aussi, toujours été un pilier de l’Etat hébreu. En 1995, il est devenu président de la « Jewish Agency », qui réglait les questions d’immigration en Israël, puis de la « World Zionist Organization ». Jusqu’en 2003, il a été le porte-paroles de la Knesseth. Aujourd’hui, cet homme, trempé depuis sa plus tendre enfance dans l’ambiance sioniste militante, est devenu l’enfant terrible d’Israël, le symbole d’une intelligentsia juive critique à l’endroit de ce sionisme fondateur. Ses critiques sont parues récemment en Allemagne, dans un ouvrage au titre volontairement provocateur : Hitler besiegen – Warum Israel sich endlich vom Holocaust lösen muss (= « Vaincre Hitler – Pourquoi Israël doit enfin se détacher de l’Holocauste ») et dans un entretien accordé à la revue juive indépendante d’Allemagne, Semit – Unabhängiges jüdische Zeitschrift, publiée par Abraham Melzer. John Mearsheimer, qui avait co-publié naguère un ouvrage qui analysait en profondeur les arcanes du lobby pro-Israël, écrit : « Tous ceux qui se soucient de l’avenir d’Israël, doivent lire ce livre ». Qu’en est-il ? Le DNZ de Munich nous en parle. En voici une version française :

 

Le livre d’Avraham Burg, ancien porte-paroles de la Knesseth, vient de paraître et s’intitule Hitler besiegen. Fils de Josef Burg, qui fut longtemps ministre de l’intérieur en Israël, Avraham Burg prend désormais ses distances par rapport au sionisme et remet ses thèses fondamentales en question.

 

Comme son père, qui avait quitté Dresde en 1939 pour émigrer vers la Palestine, Avraham Burg, né à Jérusalem en 1955, est un homme qui a joué un rôle important dans la représentation de l’Etat hébreu et dans la défense des intérêts israéliens. De 1999 à 2003, Avraham Burg a été le porte-paroles du parlement d’Israël. En coopération avec Israel Singer, à l’époque directeur du « World Jewish Congress », et avec Edgar Bronfman, alors président de ce même WJC, c’est lui qui a dirigé les négociations, assez tendues, avec les banques suisses, pour récupérer les sommes qui auraient été, dit-on, retenues par ces dernières, au détriment de clients juifs. En évoquant cette affaire, Avraham Burg écrit aujourd’hui : « Cette campagne a eu plus de succès qu’on ne l’avait escompté et a une fois de plus justifié l’existence du WJC, qui en est sorti renforcé ». Rappelons également qu’Avraham Burg a servi son pays comme officier dans une brigade parachutiste, mais après son service militaire s’est engagé dans le mouvement pacifiste « Peace Now ».

Regarder l’avenir et non se retourner vers le passé

 

hitlerbeseigen.jpgSon nouveau livre (280 pages, 22,90 euro, Campus Verlag, Frankfurt a. M.) révèle toutefois une certaine déchirure. D’une part, Avraham Burg est très fier de nous dire « qu’Israël est devenu la construction étatique juive la plus puissante de tous les temps » mais, d’autre part, il craint que le fait d’avoir systématiquement dépossédé les Arabes de leurs droits menace la paix et pourrait avoir des conséquences effroyables. Il pense que les exagérations du pouvoir israélien et la démesure des agressions qu’il perpète finiront tôt ou tard par avoir des effets menaçant pour l’existence même d’Israël. Pour Burg, Israël est désormais un Etat solidement établi et puissant mais semble nier cette réalité ; Burg écrit, à ce propos : « [Israël] dissimule cette gloire derrière de perpétuelles lamentations, parce que jadis nous avons subi un holocauste. Sans cesse, à cause de la Shoah, nous voulons une armée de plus en plus performante ; nous voulons davantage de moyens, que les contribuables d’autres pays doivent nous fournir et, de plus, nous exigeons le pardon automatique pour tous nos excès. Nous voulons être hissés au-dessus de toute critique et tout cela parce qu’un Hitler a régné jadis pendant douze ans ». Burg réclame pour ses concitoyens israéliens une voie vers l’avenir plutôt qu’un regard en permanence tourné vers le passé : il veut qu’ils se décident pour un monde meilleur.  Dans certains segments du judaïsme orthodoxe, pour autant qu’ils soient liés au nationalisme israélien, notre auteur voit une menace pour la paix mondiale.

 

En Israël, une véritable « industrie de la Shoah » s’est développée et la « shoahisation » serait, d’après Burg, devenue la seconde nature des Israéliens. Là, l’ancien porte-paroles de la Knesseth reconnaît : « Je rêve de la paix et je suis prêt à payer un prix élevé pour qu’elle advienne, et j’espère ardemment que mon pays cessera un jour de fouler aux pieds toutes les valeurs pour lesquelles nous nous étions engagés lorsque nous étions une minorité persécutée ».

 

Avraham Burg plaide pour que justice soit faite au peuple allemand. L’Allemagne, nous dit-il, a vécu un véritable traumatisme national : « … à cause de l’humiliation que les puissances victorieuses de la première guerre mondiale ont infligée à l’Allemagne, un pays qui n’avait pas réussi à sortir avec succès de la compétition entre les grandes puissances impérialistes d’Europe. L’Allemagne est ainsi devenue la nation la plus blessée et le plus humiliée d’Europe ». 

Le rituel de Yad Vashem

 

Dans ce livre, qui fourmille d’informations inédites et intéressantes, nous percevons le doute angoissant de l’auteur quand il analyse la situation politique actuelle. La politique de l’Etat israélien aujourd’hui n’est certes pas responsable de l’antisémitisme mais a contribué à faire augmenter partout la haine des juifs. Burg tient pour acquis que la Shoah revêt une importance capitale dans la mémoire de la nation, mais il nie l’hégémonie qu’elle exerce sur tous les aspects de la vie quotidienne juive, et si cette hégémonie n’existait pas, les Juifs eux aussi transformeraient ce souvenir sacré, et qui devrait en tous les cas de figure demeurer sacré, en objet de moqueries sacrilèges. Plus Israël reste ancré dans le passé marqué par Auschwitz, plus il éprouvera des difficultés à s’en libérer.

 

Avraham Burg décrit ensuite l’obligation qu’ont tous à aller visiter le sanctuaire de Yad Vashem : « Nous avons là un lieu du souvenir pour toutes les victimes, pour nous tous, et tous les visiteurs doivent y venir et prendre le deuil avec nous. C’est un rituel de la nouvelle religion israélienne. Les hôtes de l’Etat atterrissent à l’aéroport Ben Gourion, se rendent rapidement à leur hôtel, pour s’y rafraîchir, pour mettre un costume noir, se nouer une cravate ou se coiffer d’une kippa de velours comme un rabbin ou un cardinal, avant qu’on les amène illico à Yad Vashem à Jérusalem. Ils prennent des mines compassées, ils sont là un bouquet à la main et ils baissent la tête. Un chantre entonne la prière pour les morts, ‘Dieu plein de miséricorde’. Ils font trois pas en arrière puis s’engouffrent à nouveau dans leurs limousines et reviennent à la réalité, l’objet de leur visite, à la politique et à la diplomatie ».

 

Plus de soixante ans après sa mort, Hitler exerce toujours une influence sur les juifs américains : « Israël joue le rôle d’un cowboy et les juifs américains lui offrent une aide stratégique, dans le mesure où ils forcent chaque gouvernement américain à soutenir Israël. Et pour cette raison, Israël soutient le gouvernement américain, s’il est à son tour soutenu par les organisations juives, qui, elles, soutiennent Israël et reçoivent en retour un soutien de l’Etat hébreu ».

Des racines allemandes et libérales

 

A l’évidence, l’auteur est issu d’une famille juive allemande et libérale. On l’aperçoit clairement à la lecture de phrases comme celle-ci : « Otto von Bismarck a été le père fondateur du IIème Reich allemand. Au début des années 70 du 19ème siècle, il a pu réaliser un rêve qu’il caressait depuis plus de vingt ans. En quelques mois, il a vaincu l’armée de Napoléon III et a fondé l’Empire allemand à Versailles en France. Par cet acte, il a hissé l’Allemagne au même rang que les autres puissances européennes. La plupart des Allemands, y compris ceux qui étaient de confession juive, ont perçu l’unification des pays allemands comme un acte de libération historique, à valeur quasi messianique ».

 

Lorsqu’Avraham Burg présenta sa future femme à son père, alors ministre de l’intérieur de l’Etat d’Israël, celui-ci se fâcha : « Comment ça ! Tu m’as dit qu’elle était française ! Mais ce n’est pas vrai, elle est des nôtres ! Elle est d’Alsace ! Bismarck nous a rendu l’Alsace et la Lorraine en 1871 ! Strasbourg nous appartient ! ».

 

La critique générale de Burg porte en fait sur la « double morale » : « Au lieu de nous conduire comme une grande puissance, lorsque nous attaquons, et comme un petit pays fragile, lorsque nous sommes attaqués ou critiqués, nous nous présentons toujours comme une superpuissance. Konrad Adenauer, le premier chancelier de l’Allemagne d’après-guerre, a dit un jour, que le judaïsme mondial était une grande puissance… Nous, les Israéliens juifs, nous sommes le noyau de la puissance juive dans le monde ».  

Les exagérations nuisent à la cause d’Israël

 

vaincrehitler.jpgAvraham Burg craint surtout les nuisances que les exagérations peuvent entrainer : « Nous avons fait de la Shoah un moyen au service du peuple juif. Nous en avons même fait une arme, qui est plus puissante que les forces armées israéliennes ».  Et, plus loin : « L’holocauste nous appartient, et tous les autres crimes du monde sont des maux normaux, ne relèvent pas d’un holocauste. Et comme ils ne relèvent pas de l’holocauste, dit le juif, ils ne me concernent pas ».

 

Ce type de parti-pris unilatéral met notre auteur en colère : « Israël et le peuple juif nient tous les autres assassinats de masse, car nous nous sommes emparé de la Shoah et nous l’avons monopolisée. Ce refus d’empathie participe du moyen que nous sommes donné : tous les autres assassinats de masse en viennent à être minimisés, nous les posons comme dépourvus de signification et nous les ignorons ». Israël, conclut Burg, doit abandonner Auschwitz. Et, pour finir : si Israël se libère de son obsession de la Shoah et de son exclusivisme, alors le monde tout entier sera plus libre.

 

(article paru dans DNZ, Munich, n°44/2009). 

mercredi, 21 octobre 2009

Israël deviendra-t-il un Etat normal?

carte_israelGD.jpgIsraël deviendra-t-il un Etat “normal”?

 

Intéressante contribution de Roger Cohen dans les colonnes de l’International Herald Tribune du vendredi 16 octobre 2009. Question initiale de Cohen: “Israël est-il un Etat parmi les autres Etats?”. Dans un sens, oui, car il en possède la plupart des attributions. Dans un autre, non, car soixante ans après sa création, Israël n’a toujours pas de frontières stables, de constitution bien établie, de paix durable. Israël, écrit Cohen, vit dans un état d’exception permanente et fait de cette exception son fétiche. Pour Cohen, Israël devrait pouvoir affronter le monde tel qu’il est, même s’il est décevant, et ne pas s’appesantir sur le monde d’hier. Roger Cohen: “L’holocauste représentait la quintessence du mal. Mais  il s’est déroulé il y a soixante-cinq ans. Ceux qui l’ont perpétré sont morts ou vont très bientôt mourir. Le prisme holocaustique  pourrait être bien déformant... L’histoire éclaire mais elle aveugle aussi”.

 

Roger Cohen émet ces réflexions un peu amères après le discours tenu par Benjamin Netanyahou à la tribune des Nations Unies en septembre dernier. Ce discours était truffé de références déclamatoires portant sur l’Allemagne nazie, l’Iran actuel et Al Qaïda (sans qu’il n’ait fait la distinction qui s’impose pourtant à tout observateur sérieux: Al Qaïda représente un extrémisme sunnite, ennemi mortel, en bon nombre de circonstances, de l’Iran chiite, tout amalgame relevant de la propagande à bon marché sinon de la farce pure et simple). Devant tous ces croquemitaines, passés et présents, Israël était posé comme un courageux petit résistant solitaire qui, selon les propos mêmes de Netanyahou, représentait “la civilisation contre la  barbarie, le 21ème siècle contre le 9ème siècle, ceux qui sanctifient la  vie contre ceux qui glorifient la mort”. Du pur lyrisme, effectivement, avec un condiment d’apocalypse.

 

Pour Roger Cohen, ce type de discours est “facile, tonitruant et inutile”: “Il y a diverses civilisations présentes au Moyen Orient, dont les attitudes face à la religion et à la modernité varient mais toutes sont à la recherche d’un accord entre elles”. Face à cette volonté générale, bien qu’assez diffuse, Israël se cramponne à son statut d’exception. La stratégie d’Obama, pourtant, vise à masquer le sentiment américain qui veut que les Etats-Unis, eux aussi, sont “exceptionnels” dans le monde car cette idée d’une “grande mission civilisatrice” des Etats-Unis ne fait plus du tout l’unanimité et provoque de plus en plus souvent une levée de boucliers ailleurs dans le monde. Cohen: “Obama tente d’infléchir Israël pour qu’il se donne une image de soi plus prosaïque et plus réaliste”.

 

Reste la question nucléaire: Obama cherche à faire adhérer Israël au traité de non-prolifération. Car, en effet, comment concilier l’intransigeance américaine face au programme nucléaire iranien et l’indifférence face à l’arsenal nucléaire israélien, non déclaré? Le monde risque d’accuser les Etats-Unis de pratiquer un double langage, d’opter pour une politique de deux poids deux mesures. Obama aurait ce type d’ambiguïté en horreur. Le secrétaire américain à la défense, Robert Gates, quant à lui, dit que la meilleure façon d’avoir à terme un Iran sans armes nucléaires est de lui montrer qu’il n’est plus menacé par personne dans la région. Israël doit dès lors abandonner partiellement les mythes qui lui ont conféré cette d’idée d’exception, exprimée  encore récemment par Netanyahu à la tribune des Nations Unies. Bref, Israël doit se débarrasser de sa mentalité obsidionale. Cohen: “Le Moyen Orient a changé. Israël doit changer aussi. Dire ‘plus jamais’ est certes une nécessité mais le dire est simultanément une manière inadéquate de faire face au monde moderne”.

 

Si Israël doit se débarrasser de sa mentalité obsidionale, et partant, des mythes qui la fondent et la consolident, l’Europe, elle aussi, ne devrait-elle pas se débarrasser de mythes incapacitants, remontant à l’époque de l’holocauste et qui paralysent encore et toujours son processus d’unification? Roger Cohen demande cet effort à Israël, dans le cadre réduit de l’Etat hébreu, mais sa requête pourrait aisément déborder ce cadre réduit et s’adresser à tout le sous-continent européen.

 

(source: Roger COHEN, “An ordinary Israel”, in : “International Herald Tribune”, Oct. 16., 2009).

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mardi, 02 juin 2009

G. Maschke: "Der subventionierte Amoklauf"

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Dossier "Günter Maschke"

 

Der subventionierte Amoklauf

Raphael Gross: Carl Schmitt und die Juden

Günter Maschke - http://www.jungefreiheit.de/

Nullus est liber tam malus, ut non aliqua parte prosit – Kein Buch ist so schlecht, daß es nicht in irgendeiner Beziehung nütze, pflegte Plinius d. Ä. (23–79) seinem Neffen und Adoptivsohn, dem jüngeren Plinius (61–113) tröstend zu sagen. Doch dank der nie genug zu preisenden Gnade unser aller Sterblichkeit ward es dem rastlos lesenden Gelehrten nicht vergönnt, Raphael Gross‘ "Carl Schmitt und die Juden" aufzuschlagen, und blieb es dem Admiral der Römischen Flotte versagt, vor den Untiefen dieser nicht auszulotenden Seichtigkeit zu erschaudern.

Wir sind einiges gewohnt und wissen, daß, wer sich die Füße an Carl Schmitt abstreift, gute Gesinnung beweist und es deshalb auf Kenntnisse und Genauigkeit nicht ankommt, handelt es sich doch um "ein politisch-moralisches Integrationsritual". Dem Pingeligen wird an dieser treffenden Bemerkung Vilmos Holczhausers das Wort "Ritual" stören. Denn so einig sich die zahllosen Schmitt-Verfolger waren, sind und sein werden – bisher streifte ein jeder seine Füße auf die eigene, gar zu individuelle Manier ab. Ein mächtig-weiser Ordner mußte kommen, auf daß sich das üppig geförderte, volkspädagogisch so erfreuliche Gewusel in ein wirkliches Ritual verwandele, auf daß aus dem Chaos Schöpfung werde. Nun ist er da, der große Liturgiker, der in genialer Einfachheit, mit einer einzigen Position und keinem Begriff, die Wirrnis beendet und gelassen sein Fiat lux spricht: überlebensgroß Herr Gross.

Herr Gross weiß etwas, das alle wissen, doch bringt er‘s nicht übers Herz, diese seine Sonderstellung zu verschweigen: Carl Schmitt war Antisemit. Das war er tatsächlich, wenn es auch für geraume Zeit (oder für immer) unklar bleiben wird, wie sein Antisemitismus funktionierte bzw. wie er sich zusammensetzte. Vor 1933 lassen sich keine antisemitischen Bemerkungen Schmitts finden, sieht man von dem harmlosen Spott auf Walther Rathenau in den "Schattenrissen" (1913) ab, der gleichwohl Gross erzürnt. Gross aber schließt aus dem Fehlen antisemitischer Bemerkungen auf deren "stillschweigende Allgegenwart" (so Thomas Wirtz in einer glänzenden Kritik in der FAZ vom 31.7., die ihren Gegenstand zu ernst nimmt). Sei vor 1933 ein antisemitisches Bekenntnis "einfach unklug" gewesen, so habe sich 1933 der wahre Schmitt entpuppt. Dessen Antisemitismus aber könne nicht reduziert werden auf einen mit nationalsozialistischen Girlanden umdekorierten, christlichen Anti-Judaismus. Doch gab es genug Professoren, auch Juristen, wie etwa Axel Freiherr von Freytagh-Loringhoven, die vor 1933 aus ihrem Antisemitismus keinen Hehl machten, ab 1933 es jedoch vorzogen, zu schweigen (der Vergleich fällt hier nicht zugunsten Schmitts aus). Wie es aber um Schmitts Antisemitismus auch stand, wie sehr man von Schmitts "Glossarium" aus den Jahren 1947/51 auch schockiert sein mag: die entsprechenden Textstellen und Fakten lassen sich auf wenigen Seiten ausbreiten. Wir kennen auch längere Aufsätze über die von Schmitt geleitete "Judentagung" (3. bis 4. Oktober 1936 in Berlin) und es sind auch ausführliche Studien, etwa über die Hintergründe dieser Tagung, denkbar.

Doch eine solche Arbeit leistet Gross nicht. Er will statt dessen das gesamte Werk Schmitts, das 1910 mit "Über Schuld und Schuldarten" einsetzt und erst 1983 mit dem Interview des italienischen Juristen Fulco Lanchester, "Un giurista d‘avanti a se stesso" (Quaderni costituzionali, 1/1938, Seite 5–34), endet, als bloßen Ausfluß, als getarnte Anwendung, als fachwissenschaftlich nur verbrämte Polemik wider den /die Juden verstehen. Gross möchte uns weismachen, er verfüge über den Universalschlüssel zu einem Haus, dessen Türen er noch nicht einmal von weitem gesehen hat. Denn Schmitts Werk ist in erster Linie Staatstheorie, Völkerrecht und Politikwissenschaft, es ist eng verbunden mit damaligen konkreten Problemen, und es bleibt verbunden mit weiter andauernden Fragen; was Schmitt von den Juden dachte, ist für ein Verständnis seiner Schriften nicht einmal von tertiärer Bedeutung. Selbst die beliebt gewordene Debatte um seine "Politische Theologie" führt zu nichts, verkennt man, daß sie im bloß Metaphorischen verharrt, – sie wird nur für soo wichtig erachtet, weil sie zu Spekulationen reizt, die sich inzwischen als Karikaturen fort und fort reproduzieren. Achselzuckend bemerkt Thomas Wirtz: "Der Jude als Artfremder (ist) der einzylindrige Motor, der Schmitts Werk über mehr als sechs Jahrzehnte am Laufen gehalten habe; ihn zu vernichten sei der Antrieb seiner langen und weit gestreuten Produktion gewesen." Weshalb ist noch niemand auf die Idee gekommen, das Werk Jean Bodins als eine Camouflage seines Hasses auf die Hexen und seiner Forderung, diese zu foltern und zu töten, zu deuten?

Solche Methode ist wissenschaftlich unsinnig (eigentlich sollte hier stehen "irrsinnig", aber was tue ich nicht alles für meinen Redakteur?) und nicht unverwandt der Verfahrensweise des Herrn Omnes, Napoleon aus seiner Körpergröße zu erklären. Für Gross sind alle Begriffe Schmitts, auch die so typischen Gegensatzpaare Nomos–Gesetz, Legalität–Legitimität, Land–Meer, Norm –Befehl, Macht–Recht, aber auch Beschleunigung, Katechon, Antichrist substantiell antisemitische Begriffe, die stets den Feind Schmitts, die Juden, im Visier haben. (Wie steht es mit "Verfassung-Verfassungsgesetz" oder mit "institutioneller Garantie"?). Wer der Moderne ablehnend oder auch nur skeptisch gegenübersteht (die bei Gross wenig mehr ist als die jüdische Emanzipation, ansonsten aber als schnurstrackser Weg zum Heil erscheint), der sollte sich vorsehen. Denn wenn es stimmt, daß die Juden besonders begabte Agenten der Moderne sind, sprich der Beschleunigung, Abstrahierung, Quantifizierung, Entortung, dann hat man auf derlei Hirnwebereien gefälligst zu verzichten. Da die jüdischen Juristen besonderem Wert auf die "formale" Legalität legen, ist schon jede Kritik an deren Alleinherrschaftsanspruch und jede Suche nach einer tragfähigen Legitimität verdächtig und gehört in den Orkus. Da die Vorstellungen vom Kommen des Antichrist antisemitisch getönt sein können, ist jedes Erschrecken vor dem Pax et securitas, mit dem der Mensch dem Menschen ausgeliefert wird, ist jedes Entsetzen vor einer rein quantitativen, nihilistischen Ordnung würgender Immanenz "böse" und "gefährlich".

"Gefährlich" ist übrigens ein Lieblingswort Gross‘, der sich hier gänzlich dem gouvernantenhaften Wissenschaftsbetrieb der BRD eingliedert. Und da der Nomos auch die Kritik des jüdischen Gesetzes beinhaltet (und weil es ihm um die Erhaltung der konkreten Völker als "Gedanken Gottes" zu tun ist?), ist er letztlich nichts als eine aufgetakelte antisemitische Spekulation. Wie fruchtbar und aufschließend ein Gedanke auch sei, – wenn er zu einer antisemitischen Conclusio führen kann, hat man sich seiner zu entschlagen. Am grauenvollsten ist für Gross natürlich das "Feinddenken", die Unterscheidung von Freund und Feind. Diese banalité supérieure impliziert jedoch auch zwingend, daß man nur mit einem Feind Frieden schließen kann, – solch simple Einsicht Schmitts, die auch das Urteil spricht über eine Welt, in der es keine Feinde mehr geben soll und die gleichzeitig vom Frieden schwätzt, entgeht Gross wie so vielen anderen. Über die Struktur, die Entwicklung, die lignes de force von Schmitts Werk, über deren Zusammenhang mit den Fragen, die die Menschen des 20. Jahrhunderts quälen und ängstigen (und die die des 21. Jahrhunderts noch ganz anders quälen und ängstigen werden!), erfährt man selbst bei Jürgen Fijalkowski, Mathias Schmitz oder Graf Krockow mehr.

Gross verplempert statt dessen seine Seiten mit schülerhaften Nacherzählungen, sei es der Deutung des Erbsündendogmas, einiger Thesen Kelsens, der Vorstellungen vom Nomos bei Albert Erich Günther und Wilhelm Stapel (die flugs mit denen Schmitts ineinsgesetzt werden), der Überlegungen de Maistres und Donoso Cortés‘ usw. Schwupp sind wieder 20–30 Seiten geschrieben, die das Herz des linksliberalen Bildungsspießers erfreuen (weil dieser meint, sich der Lektüre der betreffenden Autoren entschlagen zu können, da er wähnt, Gross habe diese wirklich sorgfältig gelesen: "Echo kommt vor jedem Wort"). Dieses hilflose Proseminaristen-Verfahren verwehrt es Gross, Schmitt dort zu kritisieren, wo es angebracht ist. Weil Schmitt sich lobend über de Maistres angebliche Thesen zur "Souveränität" und zur "Entscheidung" äußert, entgeht es Gross, daß der Savoyarde stets an "Wahrheit" interessiert war, daß für ihn die "Entscheidung" nur effektiv war im Dienste dieser einen, zwar bedrohten, jedoch unbezweifelbaren Wahrheit: Wichtig war, wie entschieden wurde, nicht, wie Schmitt gerne schrieb, daß. De Maistre war weder ein "Dezisionist", noch glaubte er, daß es nur auf eine "Entscheidung" ankomme, gleichgültig, wie diese beschaffen sei. (Ob mit letzterem Schmitt während seiner dezisionistischen Phase wirklich erfaßt ist, muß hier auf sich beruhen). Ähnliches gilt für Schmitts Deutung von Donoso, der nicht, wie Schmitt erklärte, die Diktatur forderte, weil er die Legitimität für erledigt hielt, sondern nur die Diktatur im Namen der Legitimität bejahte. Schmitt hat sich diese (und andere!) Autoren aufs Bedenklichste zurechtgeschnitzelt und sie gewaltsam zu seinen Vorläufern ernannt; dies zu demonstrieren (was freilich schon geschah), wäre ein sinnvolles Unterfangen gewesen.

Gross‘ in der Regel unholde Unwissenheit verrät sich auch, weist er dem Katechon eine zentrale Bedeutung für die katholische Theologie zu, – als wäre dieser in den Dogmatiken und Handbüchern nicht beinahe inexistent und als hätte nicht der schärfste katholische Kritiker Schmitts, Alvaro d‘Ors, die Entbehrlichkeit dieses Begriffes für ein christliches Geschichtsbild dargelegt: der Christ muß wollen, daß Sein Reich komme und darf gar nicht um Aufschub bitten. Gross hat keine Ahnung von Katholizismus, weiß aber, daß Schmitt "eigentlich" kein Katholik war.

Besonderes Augenmerk widmet Gross Hans Kelsen. Die Kontrapunktik Kelsen–Schmitt ist in der Sekundärliteratur beliebt und gibt ja tatsächlich einiges her. Sieht man jedoch von Schmitts "Politischer Theologie" (1922) und von Kelsens Polemik "Wer soll der Hüter der Verfassung sein?" (Die Justiz, 1930/31, Seite 576–628) gegen Schmitts "Der Hüter der Verfassung" (als Aufsatz zuerst 1929) ab, so bezieht sich Schmitt sehr selten auf Kelsen, Kelsen auf Schmitt so gut wie nie. Was Schmitt angeht, so ist die Ursache bekannt: er hielt Kelsens Werk schlicht für langweilig und banal und sprach allenfalls abfällig von den "ewigen Trivialitäten Kelsens".Laut Gross aber hat Schmitt Kelsen fanatisch verfolgt. Beklagte sich dieser 1934, im Vorwort zur "Reinen Rechtslehre", über die "schon an Haß grenzende Opposition gegen die ‚Reine Rechtslehre‘, so fingiert Gross, daß sich dies auf Schmitt beziehe, von dem in Kelsens Schrift nirgendwo die Rede ist.

Gross sieht nur Antisemiten und Antisemitisches

Viel schärfer als von Schmitt wurde Kelsen von dem Wiener Völkerrechtler Hold v. Ferneck oder von dem protestantischen Antinazi Rudolf Smend attackiert, geradezu brutal aber von Hermann Heller (vgl. dessen "Die Souveränität", 1927), der nota bene Jude, Sozialist und Emigrant war. Über diese und andere Kritiker Kelsens schweigt Gross. Jeder Zweifel jedoch, der gegenüber der "Reinen Rechtslehre" geäußert wird, die für Gross eine potenzierte Heilige Schrift ist, verrät schurkischen Antisemitismus, so daß – folgt man der Logik Gross‘ – der Jude Heller ein weitaus bösartigerer Antisemit sein muß als Schmitt. Kurz darauf erfahren wir, daß Kelsen "sich der Gefahr bewußt (war), die seiner relativistischen Weltanschauung von seiten der politisch-religiösen Theorie Schmitts" drohe und werden auf Kelsens "Staatsform und Weltanschauung" (1933, S. 29 f.) verwiesen, wo es jedoch um Jesus und Barabas geht und die "Volksabstimmung" (sich äußernd in der Forderung des jüdischen Pöbels, daß Pilatus Jesus kreuzigen lassen solle und nicht den Barabas) Kelsen nur dann als "ein gewaltiges Argument gegen die Demokratie" erscheint, "wenn die politischen Gläubigen (...) ihrer Wahrheit so gewiß sind wie der Sohn Gottes"; von Schmitt ist auch hier nirgendwo die Rede. Gross verfährt noch einmal so und macht den Leser glauben, daß Kelsen mit einer Passage aus "Der soziologische und der juristische Staatsbegriff" (Ausgabe 1928) auf eine Kritik Schmitts antworte, – doch gibt es weder diese Kritik noch einen von Kelsen auch nur erwähnten Carl Schmitt.

Eine weitere, noch üblere Methode Gross‘ darf man "assoziatives glissando" nennen: Wenn "selbst ein liberaler Theologe, wie Adolf v. Harnack" den Alten Bund mit dem Neuen für unvereinbar hält (als wenn vom Christentum aus etwas anderes möglich sei, Dialog hin, Hans Küng her!), so ist dies für Gross die Vorstufe zu Ernst Jüngers und Carl Schmitts Sorge, daß "durch die Exterminierung der Juden deren Moral nun frei und virulent" geworden sei. Von Sympathie für die Juden zeugen derlei Aussagen nicht, aber sie stehen in einem strikten Gegensatz zur Forderung, daß man sie ausrotte – Gross aber rückt sie in die Nähe dieser Forderung. Aufweis der Unvereinbarkeit von Altem und Neuem Bund und Ablehnung des Allgemeinwerdens der jüdischen Moral ist für ihn gleichbedeutend mit klammheimlicher Bejahung des Massenmordes!

So wie Antisemiten einer bestimmten Spezies nur Juden und Jüdisches sehen, so sieht Gross nur Antisemiten und Antisemitistisches. Wo Gross auch hintapert: Der Antisemitismus war schon da und hat die Landschaft vermint. Wenn aber dem der Grosschen Prosekution Unterworfenen gerade mal keine antisemitischen Gedankengänge nachzuweisen sind, so hat er sich ihnen doch hingegeben, "trotzdem" und "eigentlich": Hoch leben die Moskauer Trotzkistenprozesse! Gleichwohl schimpft Gross auf "Verschwörungsphantasien" und "-theorien" und vergißt, daß ohne Verschwörungen, die weder in Biarritzer Hotels noch auf Prager Friedhöfen stattfinden müssen, das Politische und die Politik gar nicht denkbar sind und daß "Verschwörung" seit Jahrzehnten ein seriöses Thema der Geschichtsschreibung und politischen Wissenschaft (nicht nur) in den romanischen Ländern ist.

Man mag erwarten, daß Gross etwas über die Ursachen des Antisemitismus sagt, d. h. über die Realitäten, die ihn provozierten; daß diese Realitäten verzerrt wahrgenommen werden können, kann nur bewiesen werden, wenn man sie untersucht. Doch Gross sieht nur jahrtausendealtes Vorurteil, ewigen Wahn, ein permanentes Kopfkino, eine geheimnisvolle, sich unaufhörlich aus dem Nichts erneuernde Urzeugung. Die ausgedehnte, jüdische Selbstkritik nicht nur vor und nach 1933, der Kampf der assimilierten deutschen Juden gegen die einströmenden Ostjuden zwecks Eindämmung des Antisemitismus u. a. m., – dies alles gibt es für Gross nicht. Bei Theodor Herzl lesen wir: "In den Bevölkerungen wächst der Antisemitismus täglich, stündlich und muß weiter wachsen, weil die Ursachen fortbestehen und nicht behoben werden können. – Die causa remota ist der im Mittelalter eingetretene Verlust unserer Assimilierbarkeit, die causa proxima die Überproduktion an mittleren Intelligenzen, die keinen Abfluß nach unten haben und keinen Aufstieg – nämlich keinen gesunden Abfluß und keinen gesunden Aufstieg. Wir werden nach unten hin zu Umstürzlern proletarisiert, bilden die Unteroffiziere aller revolutionären Parteien und gleichzeitig wächst nach oben unsere furchtbare Geldmacht". (Herzl, "Gesammelte zionistische Werke", Band I, 1923, Seite 39 und 41) Ein Vertreter dieser furchtbaren Macht bemerkt derweil zu einem anderen: "Was die antisemitischen Sympathien betrifft, so sind die Juden selbst hieran schuld und haben die Aufregung ihrem Dünkel, ihrer Überhebung und namenlosen Frechheit zuzuschreiben". (Meyer Carl Rothschild an Gerson von Bleichröder, 16. September 1875, zitiert nach: Fritz Stern, Kulturpessimismus als politische Gefahr, 1963, Seite 92). Friedrich Meinecke kam 1946 in "Die deutsche Katastrophe", gedruckt mit Erlaubnis der US-Besatzer, zu dem Ergebnis: "Zu denen, die den Becher der ihnen zugefallenen Macht gar zu rasch und gierig an den Mund führten, gehörten auch viele Juden. – Die Juden, die dazu neigen, eine ihnen einmal lächelnde Gunst der Konjunktur unbedacht zu genießen, hatten mancherlei Anstoß erregt seit ihrer vollen Emanzipation. Sie haben viel beigetragen zu jener allmählichen Entwertung und Diskreditierung der liberalen Gedankenwelt, die seit dem Ausgange des 19. Jahrhhunderts eingetreten ist" (Seite 53 und 29). Wer nicht von den Ursachen des Antisemitismus reden will, sollte auch von diesem schweigen, und schweigen sollte auch der, der sich weigert, dessen Realitätskern zu untersuchen, weil wahnhafte Reaktionen möglich sind. La verdad es siempre deliciosa.

Daß gerade "der assimilierte Jude der wahre Feind" sei, diese Wendung Peter F. Druckers aus seinem Buche "The end of economic man" (New York 1939) schreibt Gross Schmitt zu: Dieser hatte in seinem "Glossarium" (Seite 17/18) den Satz Druckers nicht klar genug als Zitat gekennzeichnet. Das Motiv für seinen Amoklauf findet Gross also in der sachlichen Feststellung eines jüdischen Intellektuellen! Schmitts oft verblüffende Nachlässigkeit im Umgang mit Zitaten, auch mit historischen Herleitungen, biographischen Behauptungen oder angeblichen Nachzeichnungen der Ideen anderer, die in Wirklichkeit Verzeichnungen sind, – hier wird sie rüde abgestraft, wobei sich der Abstrafer freilich selbst disqualifiziert: Gross warf keinen einzigen Blick in das von Schmitt immerhin deutlich genannte Buch Druckers.

Zweifel am Zustand der akademischen Welt

Die groben Schnitzer, die oft kleinen, dann aber Gross‘ Ignoranz und stultitia offenbarenden Irrtümer, die Nichtkenntnis selbst der Literatur, die ihm bei seinem Feldzug zupaß käme, – man findet kein Ende. Schreibt Schmitt etwa über Hitler: "Er wollte sich mit Gewalt in die weltbeherrschende Schicht und in ihr Arcanum eindrängen; er wollte es ihnen nicht entreißen, sondern nur daran beteiligt werden; er wollte aufgenommen werden in den feinen Club, endlich einmal ein ganz großer Herr sein, ein Lord. Jenes Arcanum aber lag tatsächlich in der Idee der Rasse" (Glossarium, Seite 157; bei Gross, Seite 358), so "beschrieb Schmitt sich damit selbst als einen Verführten des nationalsozialistischen Arcanums"! Gross kennt gar einen Bruder Schmitts namens "Georg", von dem selbst das schlaue Carlchen nichts wußte. Einen Aufsatz jedoch, dessen Autor Gross‘ Bösartigkeiten nicht erreicht, ihn aber wegen seiner Konfusion anregen könnte, straft er mit Nichtachtung: Jean-Luc Evrard, Les juifs de Carl Schmitt, in: Les Temps Modernes, November/Dezember 1997, Seite 53–100.

Der Text hat Gross "viele Jahre beschäftigt", – die tropisch wuchernde Fülle an Fehlern, Verschleifungen, Insinuationen, ganz zu schweigen von der grundsätzlichen Unergiebigkeit des Themas, lassen sich vielleicht auch damit erklären. Doch der Skandal liegt nicht darin, daß wieder einmal ein miserables Buch über Schmitt geschrieben wurde (unter den ca. 200 Monographien liegt die Gross‘ wohl im untersten Vierzigstel), sondern daß Gross eine ganze Heerschar von Beratern, Hinweisgebern, Helfern zur Seite stand, ganze 45, so ich richtig zählte. Hier finden sich bedeutende Gelehrte, wie Reinhart Koselleck, leidliche Kenner wie Dirk van Laak, ein Anti-Schmitt-Maniaque wie Bernd Rüthers. Einige dieser 45 Leute aus Deutschland, Österreich, Israel, Frankreich, den USA sollen sogar das Manuskript gelesen haben. Man muß also einmal mehr am intellektuellen wie am moralischen Zustand der akademischen Welt verzweifeln.

Gross wurde auch über Jahre hinweg von mehreren Stiftungen gefördert. In den deutschsprachigen Ländern fließen für jüdische Stipendiaten keineswegs Milch und Honig – sie stürzen vielmehr kataraktartig auf die Antragsteller herab. Jacob Taubes‘ Diktum, daß die jüdische Intelligenz in der BRD sich in einer Situation befinde, in der sie bis auf die Knochen korrumpiert werde, bewahrheitet sich ein weiteres Mal. Na also! Etwas kann man immer lernen, hätte der ältere Plinius gejauchzt. Ein jiddisches Sprichwort weiß es noch: Gott bewahre uns vor jüdischer Chuzpe, jüdischen Mäulern und jüdischem Köpfchen.

 

Raphael Gross: Carl Schmitt und die Juden. Suhrkamp Verlag, Frankfurt/M. 2000, 441 Seiten, geb., 54 Mark

lundi, 01 juin 2009

Perspectives juives sur le sionisme

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990

 

Perspectives juives sur le sionisme

 

 

par le Rabbi MAYER-SCHILLER

 

La tendance du discours public contempo­rain est de tout simplifier à outrance. Les idées qui, jadis, étaient sujettes à des con­tro­verses très nuancées sont présentées au­jourd'hui au public en termes mani­chéens, où tout est noir ou tout est blanc, de façon à pouvoir s'incruster dans l'esprit ap­pauvri de l'homme moderne, dont les capa­cités d'at­­tention sont désormais limitées. Nos contemporains, qui subissent sans cesse le bombardement massif des médias audio-vi­suels, ont besoin d'idées présentées selon un mode rapide, fluctuant.

 

Ce sont là des circonstances malheureuses qui frappent l'humanité en général et que l'on doit, en particulier, déplorer quand sont décrites les attitudes juives à l'encontre du sionisme politique. Si l'on croit les chaînes de communications populaires, on en vient à penser que le sionisme a toujours reçu l'ap­pui absolu, aveugle et désintéressé de tous les Juifs. Rien n'est moins vrai.

 

Les perspectives juives

 

Dans cet article, fort bref, je présenterai plu­sieurs alternatives et critiques juives à l'en­droit des principaux courants du sio­nisme politique. On s'en apercevra: les dé­fenseurs des idées que je vais présenter ne sont sou­vent pas d'accord entre eux sur toute une série de questions essentielles. Ces désac­cords, ces divergences, sont précisé­ment le thème de mon article. Le sionisme, tel qu'il se présente aujourd'hui aux yeux du mon­de, est objet d'une très grande atten­tion chez ceux auxquels il s'adresse en pre­mier lieu: les Juifs.

 

Les critiques juives de l'idéologie sioniste do­minante actuellement peuvent se répartir en trois catégories: 1) les critiques «éthiques-humanitaires»; 2) les critiques orthodoxes religieuses; et 3) les critiques «patriotiques», c'est-à-dire celles qui veulent que les Juifs s'identifient à leur nouvelle patrie dans les pays occidentaux.

 

Les critiques «éthiques-humanitaires»

 

Les fondateurs du mouvement sioniste poli­tique sont de purs produits de la culture eu­ropéenne du tournant du siècle. Distinguons d'abord le sionisme politique, qui n'a jamais cessé de défendre l'idée d'une souveraineté politique juive sur la Palestine, de l'amour naturel et de la vénération que les Juifs tra­ditionalistes ont toujours éprouvé pour la Ter­re Sainte. Ce sentiment a conduit les Juifs orthodoxes, au cours des siècles, à en­treprendre des pélérinages vers les lieux saints de la Palestine et à y établir de petites colonies vouées à la prière et à l'étude et qui ne cultivaient aucune aspiration politique. Au tournant du siècle, les sionistes d'Europe ont élaboré des plans pour que se constitue une patrie juive en Palestine, sans égards pour la population indigène. C'était typique pour l'époque colonialiste. Le destin et les droits à l'auto-détermination des peuples du tiers-monde n'étaient guère pris en consi­dé­ration dans l'Europe colonisatrice d'avant la Grande Guerre.

 

Mais quand ces sionistes de la première heu­re se sont aperçu du nombre réel d'A­rabes vivant dans le pays, ils se divisè­rent en trois tendances différentes. Je les classerai par ordre d'importance sur le plan quan­titatif.

 

Il y avait d'abord les «sionistes travail­lis­tes». C'est la faction principale du sio­nisme qui a tenu les rênes du pouvoir en Is­raël jusqu'il y a peu. Elle cherche une sorte de compromis avec les Arabes. Elle a ac­cepté le plan de partition de la Palestine en deux E­tats (1947). Elle a toujours estimé que l'ob­stination rendait impossible tout com­pro­mis. Aujourd'hui encore, quelques-uns de ses mem­bres, élus à la Mapai Knesset  sont en faveur d'une solution à deux Etats. La se­conde faction est celle dite du «sionisme révisionniste». Elle a toujours été militante. Elle a sans cesse réclamé l'ensemble de la Palestine alors sous man­dat et croyait arri­ver à ce but par le terro­risme. Ce groupe existe encore aujourd'hui au sein de la coalition qu'est le Likoud, di­rigé par Yitzhak Shamir. Il appelle de ses vœux le «Grand Israël», en refusant, par principe, de négo­cier avec les Palestiniens. Le troisième grou­­pe, que l'on a appelé tantôt les «sio­nis­tes culturels» ou les «sionistes éthiques», a sen­ti d'emblée que la politique du mouve­ment à l'égard des Arabes était mauvaise. Martin Buber, mort en 1964 et fi­gure de proue de la philosophie juive contem­po­rai­ne, chef de file du mouvement Brit Shalom  (Diète de la Paix), écrit: «Les Arabes sont le test que Dieu a envoyé au sio­nisme». Les «sio­nistes éthiques» estiment que l'immi­gra­tion juive vers la Palestine et l'instal­la­tion de colonies juives dans ce pays ne peu­vent s'effectuer que sur base d'une con­ci­liation fraternelle avec les Palesti­niens. Tou­­tes les mesures que ces derniers pour­raient ressentir comme des impositions im­morales ne devraient pas être concréti­sées.

 

Ahad Ha'Am, un intellectuel s'inscrivant dans la tradition du «sionisme culturel», se lamentait, dans les années 20, après qu'un rapport lui était parvenu, relatant les at­ta­ques vengeresses de Juifs contre des Arabes innocents en Palestine: «Les Juifs et le sang!... Notre sang a été versé au quatre coins du monde pendant des milliers d'an­nées, mais, jusqu'ici nous n'avions ja­mais fait couler le sang des autres... Qu'allons-nous dire maintenant si cette horrible nou­velle s'avère exacte?... Est-ce cela le rêve du retour à Sion: maculer son sol d'un sang in­nocent? Si c'est cela le Mes­sie, alors je ne souhaite pas assister à son arrivée!».

 

Jusqu'à présent, cette troisième perspective, celle du «sionisme éthique», s'est opposée à la politique choisie par le gouvernement is­raëlien à l'encontre des Palestiniens. Jadis, la plupart des «sionistes culturels» prô­naient un Etat uni bi-culturel mais, de nos jours, où les attitudes collectives se font plus intransigeantes de part et d'autre, ils sont généralement en faveur de la solution dite des «deux Etats». Les adeptes contempo­rains du «sionisme culturel/éthique» se re­trouvent dans des organisations comme «La Paix Maintenant», dans des partis politiques comme le Mapam, le CRM ou dans cer­tai­nes factions des Travaillistes. Le «sionisme éthique» n'est pas monolithique: on le re­trou­ve également dans une organi­sation com­me celle du Rabbi Elmer Berger, Ame­ri­can Jewish Alternatives to Zionism (Al­ternatives juives-américaines au sio­nisme), qui s'oppose globalement à l'Etat d'Israël; ou dans une revue américaine, in­titulée Tik­kum, qui réclame un plan dûment conçu, élaboré avec le souci de ne heurter personne, prévoyant une solution à deux Etats. Cette troisième perspective a son commun déno­mi­nateur dans le constat que le sionisme dominant, le sionisme réel, et les pratiques de l'Etat hébreux remettent en question les principes de base de la morale et de l'hu­ma­nisme. Répétons-le: la plupart de ces gens sont des sionistes convaincus; ils estiment que les Juifs doivent avoir une pa­trie mais tiennent compte des revendica­tions opposées des Palestiniens. Ils récla­ment la justice pour tous et veulent un com­promis qui puis­se apporter la paix et la sé­rénité.

 

Les Orthodoxes religieux

 

Dès les débuts du sionisme politique, de lar­ges factions de la Judaïté orthodoxe s'y sont opposées. L'antagonisme qu'elles nou­ris­saient était à facettes multiples, mais toutes étaient centrées autour des considéra­tions sui­vantes: 1) Etablir une sou­veraineté poli­tique juive en Terre Sainte est profondément illégitime avant la fin messianique des temps, que seul Dieu déci­dera; 2) le sionisme est un mouvement es­sentiellement séculier qui cherche à substi­tuer le «nationalisme» à la religion; 3) le sionisme, avec sa propen­sion à vouloir la guerre, provoquera une dé­gradation dange­reuse des rapports entre Juifs et Gentils.

 

Après la création de l'Etat d'Israël en 1948, les Juifs anti-sionistes se sont divisés en deux camps. Le premier, incarné principa­lement dans le parti Agudat Israël,  tant en Israël qu'ailleurs dans le monde, a conservé son absence d'enthousiasme à l'encontre du sionisme, mais a choisi de le reconnaître mal­gré tout et de participer au gouverne­ment. Son idéologie se préoccupe essentiel­lement de questions religieuses mais est en faveur de tous les compromis territoriaux afin de faire la paix avec les Palestiniens.

 

Le second camp anti-sioniste est celui que l'on nomme du nom générique de Kanaïm  (les Zélotes). Il refuse de reconnaître l'Etat d'Israël qu'il juge intrinsèquement mau­vais. Les groupes partageant cette philoso­phie sont: le groupe Satmar,  disséminé dans le monde entier, le Toldot Aron  à Je­ru­salem, le Neturei Karta  et tous ceux qui sont affiliés à l'autorité rabbinique tradi­tion­nelle d'Aidah Haredis en Israël.

 

Notons que les deux sentiments que nous venons de décrire regroupent presque la to­talité de tous les Juifs orthodoxes d'orien­tation traditionnelle. Le sionisme po­litico-re­ligieux, principalement représenté au cours de ces dernières décennies par le mou­vement Mizrahi,  a toutefois été moins engagé sur le plan religieux que ses adver­saires anti-sionistes. Au cours des deux ou trois dernières décennies, surtout depuis la guerre de 1967, une fraction du sionisme re­ligieux s'est développée en s'associant à des colons de la rive occidentale du Jourdain pour former le mouvement militant connu sous le nom de Gouch Emounim,  qui veut le «Grand Israël». Contrairement au mouve­ment Mizrahi,  déjà ancien, ils adoptent ou­vertement des attitudes religieuses. Bien évidemment, ces sionistes néo-religieux sont condamnés tant pas le mouvement Agudat Israël  que par les Kanaïm.

 

Les mouvements patriotiques

 

Bon nombre de Juifs d'Europe occidentale se sont opposés au sionisme parce qu'ils vo­yaient en lui un mouvement qui érodait le pa­triotisme et le loyalisme à l'égard de la na­­tion-hôte. Le Rabbi Samson Raphaël Hirsch, chef de file religieux en Allemagne au XIXième siècle, s'est fait l'avocat pas­sion­né du patriotisme juif à l'endroit de la nation-hôte. Sa position reflétait, de façon ty­pique, les positions de ses contemporains. Par exemple, l'American Reform Jewry  n'a mis un terme à sa dénonciation constante du sionisme que juste avant la seconde guer­re mondiale. Selon les tenants du «pa­triotisme juif», les Juifs vivant en dehors d'Is­raël, parmi les autres nations, ne pour­raient être qu'anti-sionistes ou, au moins, non sionistes. L'émigration vers Israël ne se­rait qu'une option parmi d'autres options.

 

La seconde guerre mondiale

 

Les terribles souffrances endurées par la Judaïté européenne sous le joug des Nazis et de leurs alliés, souvent acceptées passive­ment par le gros de la population non nazie, ont changé de façon significative l'attitude des Juifs à l'égard du sionisme. Depuis la guerre, beaucoup de Juifs considèrent Is­raël comme une nécessité, comme un havre potentiel sûr où fuir au cas où de nouvelles persécutions diaboliques s'enclencheraient.

 

Cette peur, profondément enracinée, n'est pas un simple fantasme. Elle est née des terribles événements d'il y a cinquante ans. Depuis 1945, le «patriotisme juif», critique à l'égard du sionisme, s'est de lui-même mis en sourdine. Les Juifs ont hésité à mettre leur destin entre les mains de peuples sus­ceptibles de se retourner contre eux. Cette peur, héritée du passé, joue également un rô­le dans le refus du gouvernement israë­lien de faire confiance aux Palestiniens, mê­me si ceux-ci ont montré beaucoup de bonne volonté récemment.

 

Quel futur?

 

Les efforts des sionistes non impérialistes pour influencer le gouvernement israëlien, pour l'amener à un compromis avec les Pa­lestiniens, ne progresseront que dans la me­­sure où les Juifs commenceront à sentir que les non Juifs ne leur veulent pas de mal. C'est là que doivent jouer les non Juifs pos­sédant un sens clair, aigu, de leur propre identité: eux seuls peuvent contribuer à dé­construire les peurs juives précisément par­ce que ce sont eux que les Juifs craignent le plus.

 

Pour leur part, les Juifs vivant au sein des nations européennes doivent garder à l'es­prit que ces nations sont des communau­tés soudées par des identités, possédant une cul­ture propre, des normes de compor­te­ments distinctes, etc. Et que toutes les ten­tatives pour préserver ces iden­tités, cul­tu­res, normes, etc., pour les pro­mouvoir et les enrichir ne doivent pas être contrecarrées ou ne doivent pas susciter la peur. Ensuite, il faudrait que les Juifs qui optent pour le sio­nisme adhèrent aux va­riantes non im­pé­rialistes de cette idéologie.

 

Respect et sympathie

 

Les «troisièmes voies» sont des voies récla­mant le respect mutuel entre les peuples et la sympathie réciproque. Tous ceux qui veulent apprendre sincèrement à connaître l'Autre, quel qu'il soit, sont appelés à élabo­rer les paramètres d'une coexistence har­monieuse, non oblitérante.

 

Rabbi MAYER SCHILLER,

New York.

(article tiré de Third Way,  Nr. 2, June 1990; adresse de la revue: P.O. Box 1243, London, SW7 3PB).

 

Suggestions de lecture

 

Pour une bonne présentation du sionisme éthique, lire Martin Buber, Un pays, Deux peuples. Ou, pour une illustration de la mê­me thématique mais plus actualisée, lire le li­vre d'Uri Avnery, My Friend the Enemy (Mon Ami, l'Ennemi). Pour comprendre la position de Naturei Karta, lire The Trans­for­mation  de Cyril Domb. Dans Horeb, le Rabbi Samson Raphaël Hirsch traite de la to­talité du judaïsme mais nous trouvons, dans son li­vre, bon nombre d'éléments per­tinants quant à notre propos. Le «sionisme cultu­rel» d'Ahad Ha'Am a été abordé par son disciple Hans Kohn dans Zion and the Jewish Natio­nal Idea,  dont on peut se pro­curer une pho­to­copie à la rédaction du ma­gazine britan­nique Third Way  (P.O. Box 1243, London, SW7 3PB).   

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vendredi, 29 mai 2009

La presse juive sous le III° Reich

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SYNERGIES EUROPÉENNES - JUILLET 1988

La presse juive sous le IIIième Reich

Recension: Herbert FREEDEN, Die jüdische Presse im Dritten Reich,  Jüdischer Verlag bei athenäum, 1987, 203 S., 48 DM.

Le livre de Freeden lève le voile qui cachait jusqu'ici l'histoire de la presse juive sous le Troisième Reich et les débats que celle-ci a véhiculé. La presse juive dont il est question ici n'est pas la presse progressiste, non spécifiquement juive de l'époque de Weimar, que certains polémistes nationalistes avaient affublé du titre de Judenpresse.  Il s'agit d'une presse, propre à la communauté israëlite allemande, qui n'a cessé de paraître qu'à la fin de 1938. Cette presse comptait 65 journaux et revues dont le tirage global mensuel s'élevait à un million d'exemplaires. Elle dérivait de deux matrices bien distinctes:

1) une presse libérale ou socialiste cosmopolite, orchestrée par de jeunes intellectuels juifs, qui avaient trouvé dans le journalisme des postes que la société wilhelmienne n'avait pas voulu leur confier dans l'enseignement ou le fonctionnariat;

2) une presse traditionnelle, confessionnelle et homilétique, dirigée et contrôlée par le rabbinat. Sa fonction était de renforcer la conscience juive, de façon à accentuer une "ségrégation culturelle positive", et de transmettre des informations générales au public juif. Une question importante était débattue après la proclamation des "lois de Nuremberg": rester ou émigrer? Les sionistes ne réclamaient pas une émigration massive vers la Palestine et les non-sionistes n'excluaient par pour autant la possibilité de l'Aliyah  (retour à la "terre promise"). D'autres pariaient sur la Tchuva,  le retour à la religion. Beaucoup d'intellectuels et les anciens combattants, notamment ceux qui s'exprimaient dans Der Schild,  réaffirmaient haut et fort leur patriotisme allemand. Du côté des autorités, Ernst Krieck, recteur de l'université de Francfort, plaide pour la constitution d'une autonomie populaire (völkisch)  juive au sein du Reich, qui reprendrait à son compte le refus sioniste de l'émancipation-assimilation, destructrice d'identité. On s'aperçoit, grâce à la recherche de Freeden, quelle densité prenait le débat éternel sur la question juive à l'ombre du drapeau à croix gammée. A relire au moment où en France des polémistes simplificateurs cherchent à créer une histoire juive aseptisée et abstraite.

(Robert STEUCKERS).

 

jeudi, 28 mai 2009

H. J. Schoeps - Preussischer Patriot und bekennender Jude

Hans-Joachim Schoeps

Preußischer Patriot und bekennender Jude

Hans-Joachim Schoeps – geboren vor 100 Jahren

Ex: http://eisernekrone.blogspot.com/





„Mich bewegt sehr und richtet auf, daß es noch immer Konservative gibt, die die Tradition nicht abbrechen lassen, sondern die den Bogen schlagen wollen – von vorgestern nach übermorgen.“
„...stelle ich fest, (...) daß es füglich bei mir keine Entwicklung gegeben hat. Ich bin immer Konservativer, Preuße und Jude gewesen.“

Preußischer Patriot und bekennender Jude



Heute, am 30. Januar 2009, ist der 100. Geburtstag des deutsch-jüdischen Wissenschafters, Publizisten und Patrioten Hans-Joachim Schoeps. Ein bleibendes wissenschaftliches Vermächtnis, das die engeren Betätigungsfelder seiner Studien überschreitet und als Institution überdauert, ist die von ihm gegründete Gesellschaft für Kulturwissenschaft in Potsdam. Ein weiteres, die gemeinsam mit dem Religionswissenschafter Ernst Benz (siehe unsere Würdigung "Der Adel der menschlichen Seele" - von der deutschen Mystik bis zum Übermenschen) ins Leben gerufene „Zeitschrift für Religions- und Geistesgeschichte“. Seine gesammelten wissenschaftlichen und publizistischen Werke sind in einer 16-bändigen Ausgabe im Olms-Verlag zwischen 1990 und 2005 als Nachdrucke erschienen. Schwerpunkt seiner Forschungen, insbesondere als Professor für Religionsgeschichte in Erlangen, war zum einen das Judentum, insbesondere auch im Verhältnis zum frühen Christentum, man kann sagen Randfragen der Judaistik, die aber eine gewisse Brisanz sowohl für Christen wie Juden besitzen. Und zum anderen, der Staat Preußen, von diesem her auch das, was man als „deutsche Frage“ sich zu bezeichnen angewohnt hat. Insbesondere sein sowohl wissenschaftlichen Ansprüchen wie allgemeinverständlicher Darstellung gerecht werdendes Buch „Preußen. Geschichte eines Staates“ (1) ist als geschichtliche Einführung bis heute unübertroffen. Eine von Schoeps veranstaltete Preußen-Anthologie „Das war Preußen. Zeugnisse der Jahrhunderte“ wurde im übrigen von Julius Evola ins Italienische übersetzt. (2)
Da Hans-Joachim Schoeps nicht nur distanzierter Forscher gewesen ist, sondern sowohl Juden- wie Preußentum als die beiden Koordinaten seines eigenen Lebens betrachtet hat, wurde für ihn ein politisches Engagement als Nationalkonservativer, Monarchist und jüdischer Patriot geradezu zur Pflicht. Seine wesentliche Prägung hat Schoeps durch die bündische Jugendbewegung (3) und deren Deutung durch Hans Blüher erfahren; Schoeps war es dann auch, der Blühers zentrales Werk, „Die Rolle der Erotik in der männlichen Gesellschaft“, nach dem Zweiten Weltkrieg im Klett-Verlag neu herausgegeben hat. Blühers christlichem Antijudaismus hat er sich im „Streit um Israel“, einer in Briefform gehaltenen Auseinandersetzung auf höchstem Niveau, in direkter Konfrontation gestellt. (4) Für seinen Versuch, einem patriotischen, aber nicht „assimilierten“ (also letztlich apostatischen) Judentum auch im deutschen Aufbruch von 1933 einen Platz zu behaupten, gegen die de facto bestehende Allianz von Nationalsozialismus und Zionismus, die eine solche Position für unmöglich erklärt hat, wurde er Zeit seines Lebens und über den Tod hinaus angefeindet und hat sich gar noch von dem CSU-Klampfensänger Wolf Biermann als „Heil-Hitler-Jude“ anpöbeln lassen müssen. 1970 veröffentlichte Schoeps die Dokumente dieses Beharrungskampfes unter dem Titel „Bereit für Deutschland. Der Patriotismus deutscher Juden und der Nationalsozialismus“.
In Zeiten der beinahe vollständig vollzogenen Identifikation des Judentums mit dem Zionismus ist die Voraussetzung für das Verständnis des inneren wie äußeren Ringens eines „deutschbewußten Juden und jüdischbewußtes Deutschen“ (5), der den Zionismus mindestens ebenso entschieden ablehnte wie die Assimilation, und der auch niemals das zionistisch besetzte Palästina besuchte („Erst wenn der Messias gekommen ist, reise ich“), so gut wie nicht gegeben. Dazu kommt, daß Schoeps auch keineswegs ein Haredi, oder wie der eigentlich diffamierende Ausdruck heißt: „ultraorthodoxer“ Jude, dem man solchen messiaserwartenden Antizionismus selbst von Zionistenseite in gewissem Rahmen noch nachsieht, (6) gewesen ist, sondern große Sympathien für das Judenchristentum der Ebioniten (7), also eine spezielle jüdisch-christliche, vom Heidenchristentum unterschiedene Frömmigkeit hegte, und auch den, nach unserer Ansicht eigentlich traditionellen, den Talmud ablehnenden Karäern, die von den „orthodoxen“ Juden aber als häretisch betrachtet werden, Interesse entgegenbrachte.
1950 schreibt Schoeps über sein Verhältnis zu den zeitgenössischen Juden: „Die Juden glauben ja garnicht so [er bezieht sich auf sein eigenes, 1938 erschienenes Buch „Grundlehren des jüdischen Glaubens“]. Die glauben entweder an garnichts oder an Geld oder an den israelischen Staat. Und die Orthodoxen (=Rechtgläubigen) sind orthoprax und verketzern den Glauben überhaupt als Gojim naches. [...] Ich repräsentiere die Juden so wenig wie diese den jüdischen Glauben. Die Mentalität, die mir als jüdisch entgegentritt, wohin ich mich wende, ist mir so fern und fremd – ich gestehe häufig antipathisch. [...] Es kommt hinzu: 95-100% der in Europa lebenden Juden sind Zionisten, d.h. sie geben sich der nationalistischen Seuche hin, die ich wie die Pest hasse. Ich bin der Meinung, daß die Welt – wenigstens meine Welt – daran zugrundegeht.“ (8)
Nicht nur der zionistischen, sondern auch der mystisch-magischen Strömung, Kabbala und deren Wiederentdeckung und –belebung durch Gershom Scholem oder Oskar Goldberg, stand er ablehnend gegenüber. Dabei stehen sich kabbalistische Ekstase und zionistischer Aufbruch nicht so fern wie es scheinen mag. Sie haben in der Bewegung des „falschen Messias“ Sabbatai Zwi einen Kreuzungspunkt, der zugleich Schoepsens persönliche „Familientragödie“ darstellt. „Vieles ist möglich, aber Pseudomessianismus darf es in unserer Familie nie wieder geben. Kein biederer Protestant kann auch nur von ferne ahnen, was das Prinzip ‚sola fide’ ins Jüdische übersetzt beinhaltet. In meinem Fall tat sich ein Abgrund auf. Es hätte ja bedeutet, daß ich dem feigen Betrüger Sabbatai Zewi (Schapse Z’wi), an den meine Vorfahren auch nach dessen Selbstverrat vom 15. September 1666 inbrünstig geglaubt haben, weshalb man sie die ‚Schepse’ nannte, nachträglich Indemnity erteilt hätte. Das durfte ich nicht. (...) Adolf Hitler war doch nur ein dummer Mörder. Der Schapse Z’wi nach 1666 übertrifft ihn an Gemeinheit. – Und diesem Manne haben wir geglaubt. Im übrigen ist es von zweitrangiger Bedeutung, ob zum Prinzip ‚sola fide’ im Namen von Sabbatai Zewi, Martin Luther oder gar Karl Marx aufgerufen wird.“ (9) Der Verdacht gegenüber Gnostizismus und Mystizismus, das Gesetz ebenso außer Kraft zu setzen, wie die Zionisten das Verbot der Errichtung eines staatlichen Gebilde vor dem Erscheinen des Messias (tatsächlich haben die Sabbatianer als erste zu einer Einwanderungsbewegung nach Palästina aufgerufen), schmiedet in Schoeps Weltanschauung das Gesetz des Judentums (ohne seine ghettomäßige Ausgestaltung im orthodoxen Talmudjudentum) an den gerechten Staat Preußen. Die Problematik liegt hier offen als luthersche Ambiguität vor uns: die Gewissens- und Glaubensverinnerlichung im Verhältnis zur äußeren legitimen Autorität. Eine Flucht aus dieser Spannung kann zum Rückfall in das „Heidentum“ führt, auf den an den Beispielen Nationalsozialismus und Zionismus noch einzugehen ist.
In seiner Religionsgemeinschaft isoliert, brachte sich Schoeps als Vorsitzender monarchistischer und stockkonservativer Verbände vollends ins Abseits des Zeitgeistes. Auch die bundesdeutschen Konservativen dachten nicht daran, ihm zu folgen. Caspar von Schrenck-Notzing konnte mit einigem Recht schreiben: „Als Historiker Preußens war Schoeps am erfolgreichsten. Wenig Erfolg beschieden war ihm jedoch bei dem Versuch der Übertragung dieses Konservativismus in die Gegenwart.“ (10)
Paradox erscheint es da, daß er dennoch zum (Doktor-)Vater einer „Neuen Rechten“ oder eines neuen Nationalismus werden konnte. Durch seine Dissertanten Robert Hepp, (11) Hans-Dietrich Sander, (12) Hellmut Diwald und andere (13) wirkt sein politisch-wissenschaftlicher Einfluß, wenn auch eher untergründig und selektiv, fort.
Das Verständnis für seine Person hat sich bis heute nicht gerade erhöht. Dabei könnte Schoeps gerade wegen seiner Außenseiterstellung als Ausnahmegestalt ein Licht auf die Widersprüche und auch innere Größe einerseits der preußischen Geschichte und andererseits der zumeist mehr beschworenen als analysierten deutsch-jüdischen Symbiose werfen.

Nationalsozialistischer und zionistischer "Baalskult"



Schoeps bekannte, daß ihm alles „Völkische“, ob Nazismus oder Zionismus – die er zumindest diesbezüglich ausdrücklich auf die gleiche Stufe stellte - widerwärtig sei und seiner wie jeder politischen Theologie als biologische Theologie oder Bio-Theologie entgegenstünde. "Das goldene Kalb ist Symbol des baalischen Jungstiers, die angebetete Zeugungskraft der Allnatur, niemand anderes als der Blut- und Bodengötze. Überall wo die biologischen Kräfte vergottet werden, Rasse, Blut und Boden letzte Werte sind, ist der kanaaitische Baal am Werk."(14) In Nazismus wie Zionismus, in jedem völkischen Biologismus. Das historische Israel der Sinai-Gesetzgebung habe immer mit dem Baalskult gekämpft, so Schoeps.
Wenn man Baal, der solaren Gottheit Syriens, Gerechtigkeit widerfahren lassen will, so ergänze ich, muß man jedoch anerkennen, daß die im äußeren Kampf zwischen Juden- und Heidentum entgegenstehenden Gestalten beide korrekte und konkrete Ausprägungen der einen Tradition sind. Wenn allerdings das „auserwählte Volk“ im Sinne eines Monotheismus, diese Erwählung (15) als Selbstvergottung mißversteht, weil es den Bund zwischen Gott und Israel so versteht wie die Syrer ihre Beziehung zu Baal, so liegt eine monströse Entartung und Verkehrung der monotheistischen Sendung vor, wie umgekehrt dann auch, wenn ein heidnisches Volk – oder ein neuheidnisch gedachtes wie im Fall des Nationalsozialismus – sich als ein auserwähltes Volk analog Israel zu erheben versucht. In beiden Fällen kommt es zu der von Schoeps am Beispiel des zionistischen Judentums beklagten Hybris: „Denn auch das Judentum selber trägt die Möglichkeit des baalischen Selbstmißverständnisses von der Sinai-Gesetzgebung bis zum letzten Zionistenkongreß in sich – und immer dann wird der Abfall zum Baal akut, wenn das Bekenntnis statt zum ewigen Gott zur Ewigkeit des eigenen Volkes und seines – welches Mißverständnis – auserwählten Bluts sich Bahn bricht.“ (16) Mit dem historischen Baalskult und seine Umwandlung in den Sol Invictus des römischen Imperiums hat dieser beschriebene Vorgang offensichtlich wenig bis nichts zu tun. (17)
Schoeps spricht in Bezug auf das Buch „Wir Juden“ des Zionisten Joachim Prinz von „nackter Lebensverherrlichung und Diesseitsbejahung ohne Ausblick auf ein anderes, und sei es auch nur wie bei Nietzsche durch das Medium des schlechten Gewissens hindurch, daß ein anderes besseres Wissen verdrängt worden ist.“ (18) Da springt doch die Nähe zu der Unterscheidung von Leben und „Mehr-als-Leben“ ins Auge, die der Baron Julius Evola gerade als „Heide“ getroffen hat. (19) Evola stand wie auch Schoeps der „Konservativen Revolution“ nahe, auch wenn diese nach Schoeps „ein Unbegrif des Publizisten Armin Mohler“ sein soll. (Der Begriff wurde in Wirklichkeit auch von dem von Schoeps geschätzten Edgar Julius Jung explizit und affirmativ verwendet.) Die Kritik von Schoeps an der völkischen Bewegung, inklusive des „jüdisch-völkischen“ Zionismus, ist nicht von einem exklusiv jüdischen Standpunkt zu verstehen. Er wird auch nicht nur selbstverständlich von einem Christen geteilt werden müssen, sondern ist allgemein der Unterschied zwischen Tradition als Überlieferung von einem übernatürlichen und überindividuellen Ausgangspunkt her und der modernen Auffassung – mit bereits manchen antiken Vorläufern – von dem bloß natürlichen, animalischen Ursprung des Menschen und einem Kollektivismus der Pseudoüberwindung des Individualismus, dem Kollektiv-Individualismus, der die geordnete Wirklichkeit (den Kosmos) de facto nihilistisch negiert, so viel er auch an zu bloßem Tand werdenden Mythen der Überlieferung in Beschlag zu nehmen versucht (im Fall des biologistischen Nationalsozialismus die germanische Mythologie und im Fall der Zionisten die biblische Geschichte Israels.)
Schoeps Deutschtumsbekenntnis ist genausowenig völkisch-biologisch wie sein jüdisches. Gerade angesichts des völkischen Aufbruchs 1933, dessen begrenzte Gültigkeit Schoeps „um die Wahrung des bedrohten Volkskörpers willen“ anerkannte - was ihm heute als unverzeihlich vorgeworfen wird -, hat er die eigentliche deutsche Sendung als Erbe des mittelalterlichen Reichs hervorgehoben, die „Leibwerdung eines objektiven Ordnungsauftrages“, der geschichtlich stets „in einem übervölkisch-staatlichen Bezirk seine Ansatzpunkte gefunden“ hat. Als Wesensbestandteil des „preußisch-deutschen Staatsethos“ bezeichnet Schoeps in seiner dialektischen Sprache das „sich vor einem Objekt Verantworten“. Aber „im Bekenntnis zu Blut und Rasse droht die Gefahr einer Selbstverabsolutierung, die echter Objektverantwortung nicht mehr zu bedürfen scheint, weil es fraglich wird, ob die übersteigerte Verherrlichung der eigenen völkischen Art die in der staatlichen Ebene liegende Frage nach der geschichtlichen Sinnerfüllung oder Sinnverfehlung überhaupt noch zu konzipieren vermag.“ (20) Diese an das „Dritte Reich“ gerichteten Sätze entfalten aber auch ihre erschreckende Aktualität, wenn man die selbstgerechte und autistische Haltung des Zionistenstaats gegenüber der Weltöffentlichkeit betrachtet, es wird einem klar, daß von einem solchen Standpunkt, der das Volk an die Stelle Gottes gesetzt hat, aus keine Selbstkritik, keine Korrektur des eingeschlagenen Weges mehr möglich ist, ohne das Projekt insgesamt zu negieren. Dies ist der von Schoeps diagnostizierte molochitische, also letztlich selbstverschlingende Zug, dessen Zug die reine nihilistische Vergötzung der eigenen Macht ist. „Verfallenheit an die Naturmagie und nie zu sättigender Machttrieb - also Baal und Moloch in einer Gestalt - manifestieren sich im modernen Götzen, der mit Hilfe magischer Bannformeln und kultischer Riten ganze Lebensräume unter seine Gewalt bringt.“ (21)
Dies war nach Schoeps Ansicht im nationalsozialistischen, antipreußischen Großdeutschland der Fall - tatsächlich hat ja ein süddeutsch-österreichisches Pseudopreußentum all das zum Vorbild eigener Machtausübung genommen, was Preußenkarikaturen entspringt und in der Tat eine Projektion der Barbarei des englischen Imperialismus war (wir würden aber eine ergänzende, leider unterlegene Strömung im Dritten Reich anerkennen, für die etwa Carl Schmitt, Christoph Steding und auch Julius Evola stehen.) Bemerkenswert ist daher die sachliche und wenig dramatisierende, sondern scheinbar einer pessimistischen Grundstimmung entsprechende Bilanz von Schoeps, dessen Eltern in deutschen Konzentrationslagern ums Leben gekommen sind: „In Deutschland hat man ja gesehen, was dabei herauskommt, wenn ein Volk nationalistischen Kräften ausgeliefert wird und sich füglich von Gott und den sittlichen Gesetzen emanzipiert. Sie fragen mich, wie ich als Jude das deutsche Verhalten in der Hitlerzeit religiös beurteile? Ich kann nur sagen: folgerichtig und normal. Denn das steht eben zu erwarten, wenn sich Nationalismus und Technik verbünden. Ich habe mich über die ‚deutschen Greuel’ niemals gewundert, sie entsprechen ja nur der Abgründigkeit der menschlichen Existenz. Ich habe mich höchstens über die Zeiten gewundert bzw. sie bewundert, wo die Greuel gebändigt werden konnten wie etwa im Hl. Allianz genannten Staatenbund christlicher Monarchien. In der Zeit des hochseligen Königs Friedr. Wilh. IV. gab es zum letzten Mal pax christiana, die auch immer pax judaica ist.“ (22) Diese Bändigung des unter der Ordnung verborgenen Chaos ist für Schoeps in der biblischen Schöpfung verankert, wo dem Tohuwabohu (dem Wüsten und Leeren) von Gott die Ordnung aufgeprägt wird, ohne daß diese chaotischen Mächte aber völlig beseitigt werden: „Das Gesetz ist überhaupt nur gegeben worden, weil im Anfang das Chaos war, und die Menschen nahmen es an, weil sie im Chaos nicht untergehen wollten. Nur auf diesem Untergrund hat die gesetzliche Lebensordnung ihren tiefen Sinn. (...) Mir scheint die Verbürgerlichung der Religion hat uns Juden allesamt vergessen lassen, daß die Welt unheimlich, vielleicht sogar tückisch ist. Warum nimmt die jüdische Theologie Genesis 1,2 nie ernst? Da ist doch die Rede vom Tohu-wa-bohu, in das die Ordnungen der Schöpfung hineingelegt worden sind. Man sollte sich mit dem Besitztitel der Auserwählung nicht darüber hinwegtäuschen, daß unter der Schöpfungswelt noch immer das Tohu-wa-bohu liegt – als der grollende Abgrund. Wie hat man das vergessen können? Kann man denn ernstlich das Gesetz erfüllen, es sei denn auf der Flucht vor den Elementargewalten einer höchst unsicheren Welt?“ (23)
Diese tief in der Bibel verankerte konservative Grundhaltung, die fern allen „revolutionären jüdischen Geistes“ und der messianischen Verneinung der bestehenden Ordnung ist, bildet den einen, traditionsgebundenen Strom des Judentums, der geschichtlich leider oft nicht der dominante gewesen ist.

Um die Reichstheologie



Nach diesen negativen Bestimmungen gilt es die positive politische Theologie – Reichstheologie – ins Auge zu fassen, von der Schoeps nicht nur meinte, daß jüdische Deutsche ihren Anteil daran haben könnten, sondern aufgrund der Kontinuität der Reichsvorstellung vom alten Israel an, sogar in besonderer Weise. Die Herleitung des Reichs nicht von Rom, sondern von Jerusalem, stieß erwartungsgemäß auf Widerspruch in Plettenberg, beim konservativ-revolutionären Exegeten der „Politischen Theologie“, Carl Schmitt.
„23.5.48
[...] Begegnung mit Joachim Schoeps: Erst durch Cramer von Laue [Schüler von C.S.] , dann jetzt durch den (mir als erster Sonntagsmorgengruß entgegenspringenden) Satz aus dem Blüherschen Streitgespräch um Israel 1933 (S. 50): 'Und dies (daß die jüdische Auserwähltheit das Vorbild des mittelalterlichen Reiches war) ist auch der Grund, warum ein gläubiges Judentum kaiserlich (nicht königlich) gestimmt ist!' Nein, Joachim Schoeps, das ist nicht der Grund! Der Grund liegt in Joh. 19, 15, und das christliche Reich der Kaiser des Mittelalters hatte eine Legitimation als ein katechon [Original in griechisch] nach 2. Tess. 6/7.“
So Carl Schmitt in seinem Glossarium. (24) Schoeps könnte auch darauf verweisen, daß die Übernahme des Erzengels Michael als Engel des deutschen Volkes (herabgesunken zum charakteristischen „deutschen Michel“), die Kontinuität des israelischen Reichsgedanken belegt. Carl Schmitt könnte einiges für seine christliche Rechtfertigung des Imperiums vorbringen. Letztlich muß man wohl feststellen, daß beide politischen Theologien im mittelalterlichen Reich verbunden oder überlagert gewesen sind, sich aber in den katholisch-protestantischen bzw. österreichisch-preußischen Gegensatz auseinanderentwickelt haben.
Drei Jahre nach dem erwähnten Tagebucheintrag Schmitts kam es, angestoßen durch die Zusendung eines Aufsatzes über Donoso Cortés durch Schoeps, zu einem kurzen Briefwechsel zwischen den beiden politisch-theologischen Kontrahenten. Schmitt in einer ersten Reaktion an Armin Mohler, in einem Brief vom 25.8.1951: „Ich bin überrascht, dass er sich an der gegen mich gerichteten Verschwörung des Totschweigens nicht beteiligt.“ (25) Wenig später gibt es ein persönliches Treffen, von dem Schmitt dann Mohler in einem Brief vom 12.11.1951 berichtet: „Vorige Woche habe ich Prof. Schoeps persönlich kennen gelernt; darüber gelegentlich mehr. Er hat mir gut gefallen.“ (26)
Im bereits erwähnten „Streit um Israel“ ist der Streitpartner nicht Schmitt, sondern konkret Blüher, und richtet sich der Stoß gegen ein (ausschließlich) „blutshaftes“ Verständnis von Deutschsein, von der her eine „jüdisch-preußische Symbiose“ immer nur widernatürlich erscheinen kann. So heißt es kurz nach der von Schmitt monierten Stelle: „das mittelalterliche Reich, das sacrum imperium, war gegründet durch den sakralen Ordnungsauftrag; der Kaiser als der ‚wahre Nachbildner Davids’ – so heißt es sogar noch in der Augsburgischen Konfession – sollte einstehen für Gerechtigkeit und Frieden. Im Reiche ist das Kaisersein ein Amt, wie der im kaiserlichen Dienste stehende Adel in ausgezeichneter Weise ein Amtsadel ist und damit im Gegensatz zum heidnischen Schwertadel und analog zum Priestertum eine geistige Angelegenheit. Und nur dasjenige Preußen, das sich als Erben des mittelalterlichen Kaiserreiches weiß, hat geschichtliche Bedeutung und echte Sachbeziehung zu den Positionen des Offenbarungsglaubens. Mir geht es stets nur um das ‚geistige’ Gebilde Preußen und nicht um das naturale, das letzten Endes immer nur die Objektivation eines bluthaft-vitalen Seins, einer ganz bestimmten, in Norddeutschland vorzugsweise beheimateten Struktur darstellt. In Ihren [Blühers] Darstellungen wittere ich aber immer wieder diese naturale Verkehrung [...]“ (27)
Schoeps hat auf verschiedene Weise versucht, die Möglichkeit des „preußischen Juden“ als „legitime historische Figur“, mehr noch: als „überzeugende Figur“ zu begründen. Der schwächste Ansatz ist der bei einer allgemeinen „Seelenverwandtschaft“ zwischen dem Bewohner der Wüste und der norddeutschen Weite. Die spezifisch preußische Beharrung der geprägten Form – sinnbildlich im Kasernenbau - angesichts der alles auflösenden Weite der Landschaft hat er sehr plastisch herauszuarbeiten verstanden, aber was soll dem von hebräischer Seite entsprechen - etwa das Wanderheiligtum des Bundeszelts? Stärker vermag auf den ersten Blick die Parallele zwischen dem jüdischen Gesetzesgehorsam und der preußischen Pflichtauffassung („das moralische Gesetz in uns“) einzunehmen. Hier sehen wir im übrigen wieder Schmitt auf der anderen Seite, der des Urteils, christlich-personalistisch als Entscheidung nicht als bloße Anwendung gedacht, gegenüber dem – bei Schmitt sicher auch jüdisch konnotierten - Gesetz. (28) Ganz am Rande sei vermerkt, daß die Sharia des Islam, zumindest in der dschafaritischen Rechtsschule, gerade weil das islamische Gesetz nicht so explizit und detailliert aufgelistet aufzufinden ist wie die mosaischen Gesetze, sondern in den Rechtsquellen, inklusive der Vernunft, aufgesucht werden muß und einer persönlichen Führung bedarf (Quelle der Nachahmung) die Vorzüge der beiden Systeme zu vereinen vermag, und die Nachteile – Starrheit bzw. Willkürlichkeit – vermeidet. (29)
Das Verhältnis von auctoritas und veritas kann für Schoeps aber auch in Preußen problematisch werden, wenn die „unbedingten Gehorsam“ verlangende Obrigkeit selbst keine – göttliche – Autorität über sich mehr kennt, der Staat also absolut wird. Für Schoeps eine heidnische Entartung, gegen die gerade das Festhalten am mittelalterlichen Reichsgedanken, das Gottesgnadentum, mobilisiert wird. Der moderne, rein säkulare Staat kann von ihm daher nur als die Monstrosität - das "kälteste Ungeheuer" Nietzsches - gesehen werden, die er auch ist, ob er sich nun nationalsozialistisch, bolschewistisch oder liberalistisch maskiert.
Die Linie zwischen einem totalen Staat als einzige Vermittlung des Göttlichen und einem totalen Staat anstelle des Göttlichen ist natürlich eine feine, aber nicht wirklich die zwischen jüdisch-christlich und heidnisch. So kann Franco Freda, den platonischen Staat vor Augen, heidnischer Apologet des „wahren Staates“ in seiner „Auflösung des Systems“ (30) schreiben: „Betonen wir nochmals daß die Wirklichkeit dessen, was heilig und göttlich ist, und die Heiligkeit dessen, was die wirkliche politische Struktur ist, das Fundament des wahren Staates bilden muß: denn wenn sich ein Staat, ein politisches Regime nicht durch das Faktum legitimeren läßt, daß es eine spirituelle Gültigkeit besitzt, spirituelle Ziele verfolgt, kann es nichts Organisches und Zentriertes repräsentieren: es wird nichts als eine tote, materialistische und soziale Anhäufung sein, resultierend aus der allen Organismen ohne Lebenskraft eigenen Erstarrung.“ Freda führt den Bruch „zwischen dem sogenannten laikalen Bereich des Staates und der abstrakten Ebene des ‚spirituellen’, der gegenüber diesem autonom bleibt“, einer moralischen „Welt des Gewissens“ einerseits und einer ausschließlich „profanen und laikalen, von jener göttlichen Potentialität ausgeschlossenen“ andererseits – man vergleiche Carl Schmitts „Leviathan“! – auf „die jüdisch-christliche Infektion vor zweitausend Jahren “ zurück. Die von Schoeps auf die kaiserlich-reichische Linie bis David und von Schmitt auf die katechontische Funktion des römischen Imperiums zurückgeführte sakrale Dimension des Staates als Ordnungserhalter gegenüber dem materialistischen Chaos, wird von Freda also gerade als das Heidnische angesehen (gegen alle Neuheiden, die nach der Trennung von Diesseits und Jenseits, gerade das Jenseits als christlich-jüdische „Erfindung“ wegstreichen.) Wir sehen uns scheinbar einer babylonischen Sprachverwirrung der Politischen Theologie gegenüber, die sich mit Hilfe der von René Guénon erörterten Doktrin lösen läßt. Nicht im exklusiven Rückgang auf das Königtum Davids, nicht allein auf das getaufte römische Kaisertum nach Konstantin, nicht auf die ausschließlich heidnisch-platonische Tradition, sondern auf die gemeinsame primordiale Stiftung durch den "König der Welt", in der biblischen Gestalt der Priester-König Melchisedek, der Gerechtigkeit und Frieden durch Herrschaft gewährleistet.

Martin A. Schwarz


(Alemannia Judaica - Der jüdische Friedhof in Erlangen)

(1) Berlin: Propyläen 1966, zahlreiche Neuauflagen.
(2) Schoeps, Das war Preußen. Zeugnisse der Jahrhunderte. Eine Anthologie; Honnef: Peters 1955; ital.: Questa fu la Prussia. Testimonianze sul prussianesimo; Rom: Volpe 1965. Die Übersetzung erschien unter Evolas üblichem Übersetzerpseudonym Carlo d’Altavilla.
(3) Die nicht wenige Fragen aufwerfende Identifikation des (Männer-)Bündischen mit dem jüdischen B’rith, Bund Gottes mit den Menschen, bleibt in unserer Darlegung ausgeblendet. Es sei nur bemerkt, daß Schoeps hier sein jüdisch-deutsches Bekenntnis so weit ins Metaphysische trägt, daß man an die Schwelle der Frage gelangt, ob man nach Schoeps überhaupt wirklich voll und ganz Deutscher sein kann als Nicht-Jude. Jedenfalls beansprucht er als Jude Deutscher zu sein und als Deutscher Jude.
(4) Hans Blüher / Hans Joachim Schoeps, Streit um Israel. Ein jüdisch-christliches Gespräch. Hamburg: Hanseatische Verlagsanstalt 1933.
(5) So der Titel der einzigen ihm gewidmeten Monographie:
Richard Faber, Deutschbewusstes Judentum und jüdischbewusstes Deutschtum. Der Historische und Politische Theologe Hans-Joachim Schoeps; Würzburg: Königshausen und Neumann 2008. Faber, dessen Bücher oftmals monomanisch um interessante bis abseitige Themen der Kultur- und Ideengeschichte, vorzüglich der konservativ-revolutionären bis faschistischen, kreisen, selten analytisch, sondern suggestiv und selbstreferentiell, immer auf der Suche nach der „Pointe der Pointe“, die sich aber oft nur dem als Pointe erweist, der schon weltanschaulich von Faber eingelullt nur mehr auf die Bestätigung wartet. Der als Dissertant von Mohammed Rassem (Freund Sedlmayrs und Bewunderer Schoeps) zu Jacob Taubes gewechselte Faber hat sich ein gewisses Feeling für die „Konservative Revolution“ erlesen, das seinem Faible fürs Faschistenriechen entgegenkommt. Die Grundthese seiner zahlreichen, anscheinend schnell heruntergeschriebenen Bücher ist gegen Mohler gerichtet und besagt, daß die „Konservative Revolution“ primär römisch gewesen sei und nicht nietzscheanisch-antirömisch.
Ich will nicht leugnen, daß diese kurze Würdigung von Schoeps der Faberschen Arbeit manche Hinweise verdankt, die es gegen den politisch-korrekten Strich Fabers zu bürsten galt. Zum Titel und der Formulierung ist noch zu sagen, daß Schoeps weitaus mehr preußisch als deutsch gewesen ist, oder anders gewendet, Deutschtum ganz von Preußen her gedacht hat.
(6) Im zionistisch besetzten Palästina sind die Haredim vom Wehrdienst befreit, siedeln sich aber schwer bewaffnet als kolonialistische Vortrupps in noch vorwiegend arabisch besiedeltem Land an – theoretisch antizionistisch, praktisch ultrazionistisch, mit talmudistischer Chutzpah das Göttliche Verbot umgehend, das sie mit dem Mund weiter bekennen.
(7) Siehe z.B.: Schoeps, Judenchristentum und Gnosis; u.a. zu finden in: Schoeps, Ein weites Feld. Gesammelte Aufsätze; Berlin: Haude & Spener 1980. Schoeps entwirft Ebioniten und Gnostiker (Marcioniten) als zwei geradezu idealtypische Gegensätze, wobei Gnosis unter dem Gesichtspunkt der Ablehnung des Schöpfergottes gesehen wird (also mit der universalen Gnosis als esoterischer Wahrheit jeder echten Tradition absolut nichts gemeinsam hat.) Für die Ebioniten war Jesus vor allem als Erfüllung des Gesetzes, d.h. als (vollkommener) Gerechter relevant und nicht als Messias-König. Es ist von der ebionitischen Auffassung auch nicht weit zu Schoeps’ preußischen Staat als Gerechtigkeit auf Erden, gegen den keine Auflehnung möglich ist.
(8) Brief an Schalom Ben Chorim, 18.3.1950, in: Julius H. Schoeps (Hg.), Auf der Suche nach einer jüdischen Theologie. Der Briefwechel zwischen Schalom Ben Chorim und Hans-Joachim Schoeps; Frankfurt am Main: Athenäum 1989, S. 56. Orthographie beibehalten.
(9) Schoeps, Ja – nein – und trotzdem. Erinnerungen – Begegnungen – Erfahrungen; Mainz: v. Hase & Koehler 1974; S. 139 f.
(10) Criticón, Nr. 28, 3./4.1975, S. 55.
(11) Hepps Dissertation „Politische Theologie und theologische Politik“ atmet natürlich unmittelbar, aber auch seine erste Veröffentlichung „ Selbstherrlichkeit und Selbstbedienung. Zur Dialektik der Emanzipation“ noch den Schoepschen Geist, des Denkens „von oben“ und ist mit großem Vergnügen zu lesen, anders als seine in die „Politische Biologie“ wenn auch nicht „Bio-Theologie“ abdriftende, allerdings auf einem realen Problem beruhende „Endlösung der deutschen Frage“, die ihn berühmt und wohl auch berüchtigt gemacht hat.
(12) In der Schoeps-Dissertation „Marxistische Ideologie und allgemeine Kunsttheorie“ ist bekanntlich die verschwiegene Beziehung von Walter Benjamin und Carl Schmitt erstmals aufgedeckt worden. „Der nationale Imperativ“ ist bereits durch den Titel preußisch konnotiert, wieweit auch der Sandersche Nationalismus in der Substanz mehr preußisch als völkischnational ist, wäre aufzuzeigen. Aber sicher hat Sander auch in die andere Richtung ausgeschwungen, als dialektischer Denker, dem es um die Totalität von Idee und Wirklichkeit angelegen ist. Sanders „Auflösung aller Dinge“ hat schließlich nochmals das Skandalon des Blüher/Schoeps-„Streits um Israel“ aufgenommen, eindeutig auf der Blüher-Seite anknüpfend. Sanders Kollege Robert Hepp hat dieses Buch einer scharfen (unveröffentlichten) Kritik unterzogen, ohne explizit die Schoepsche Gegenposition zu beziehen.
(13) Zu nennen wären etwa noch: Werner Maser (Frühgeschichte der NSDAP), Günther Deschner (die deutsche Gobineau-Rezeption), Hans-Joachim Schwierskott (über Moeller van den Bruck.)
(14) Schoeps, Was ist der Mensch? Philosophische Anthropologie als Geistesgeschichte der neuesten Zeit; Göttingen: Musterschmidt 1960, S. 325.
(15) Für das richtige, traditionsgemäße Verständnis dieses Begriffs, siehe: Charles-André Gilis, La profanation d'Israël selon le droit sacré; o.O. o.J (=2003); Neuauflage: Paris: La Turban noir 2008.
(16) Ebd., S. 325, zitiert nach Faber, S. 40.
(17) Vgl. für eine korrekte Darstellung: Franz Altheim, Der unbesiegte Gott. Heidentum und Christentum; Hamburg: Rowohlt 1957; auszugsweise auch hier:
Der unbesiegte Gott (2) - Helios von Emesa.
(18) Schoeps, „Bereit für Deutschland!“ Der Patriotismus deutscher Juden und der Nationalsozialismus. Frühe Schriften 1930 bis 1939. Eine historische Dokumenation; Berlin: Haude & Spener 1970; S. 175.
(19) Und im übrigen hat Evola auf dieser Basis seine „Rassentheorie“ entwickelt, die dementsprechend nicht unter die Kritik der Rasseverherrlichung fällt, da diese bei Schoeps wie allgemein unter Rasse eben gerade „Blut“ und Biologie versteht. Der immer wieder vorgebracht Vorwurf, Evola hätte eine nationalsozialistische Rassetheorie vertreten ist daher völlig falsch. Eher schon läßt sich fragen, warum das „Mehr-als-Leben“ gerade mit dem aus der Biologie stammenden Wort Rasse belegt werden soll, was tatsächlich nicht einsichig ist.
(20) Ebd., S. 106.
(21) Schoeps, Was ist der Mensch?, S. 327.
(22) Brief an Schalom Ben-Chorin, 18.3.1950, in: Auf der Suche, S.55.
(23) Schoeps, Bereit, S. 151.
(24) Carl Schmitt, Glossarium. Aufzeichnungen der Jahre 1947-1951; Berlin: Akademie 1991, S. 153.
(25) Armin Mohler (Hg.), Carl Schmitt – Briefwechsel mit einem seiner Schüler; Berlin: Akademie 1995, S. 101.
(26) Ebd., S. 109.
(27) Schoeps/Blüher, S. 50 f.
(28) Carl Schmitt, Gesetz und Urteil. Eine Untersuchung zum Problem der Rechtspraxis; München: Beck 1912; Neuauflage für März 2009 vorgesehen.
(29) Exkurs: Schoeps und der Islam

In seinem Buch „Gottheit und Menschheit. Die großen Religionsstifter und ihre Lehren“ (Stuttgart: Steingrüben 1950) nimmt Schoeps auch zum Islam Stellung, es hat aber den Anschein, dies geschähe mehr der Vollständigkeit halber als von Interesse oder Kompetenz her. Schoeps reiht einige der Platitüden der Orientalistik über den unoriginellen, allzumenschlichen usw. Propheten des Islam aneinander und charakterisiert den Islam als in seinem Prädestitationsdenken und seiner Schicksalsgläubigkeit „calvinistisch“, was genauso sinnvoll ist, wie das Christentum – unter Ausblendung all seiner anderen Strömungen – als calvinistisch zu bezeichnen. Tatsächlich schreibt Schoeps auch von der entgegengesetzten „pantheistischen“ Strömung, die Einseitigkeit durch eine zweite ergänzend. Denn in Wirklichkeit ist Ibn Arabi als wichtigster Vertreter des esoterischen Islam genausowenig pantheistisch wie Shankara, Meister Eckart oder Lao-Tse, deren grundsätzliche Identität mit seiner „Mystik“ oder vielmehr Gnosis aufgezeigt werden kann. Auch das beklagte „allzumenschliche“ also anscheinend unethische Verhalten des Propheten muß hinterfragt werden, denn es beruht auf einigen späten Hadithen. Träte uns Muhammad als fehlerlose Idealgestalt entgegen, wären die Orientalisten sofort bei der Stelle, um den geschichtlichen Wahrheitsgehalt dieser Stellen in Zweifel zu ziehen. Tatsächlich sind diese Berichte über Fehler und unmoralisches Verhalten aber Hadithen – vorwiegend aus der „Hadithfabrik“ von
Abu Huraira - zu entnehmen, die die Rechtfertigung des unislamischen Verhaltens der Umayyaden-Kalifen bezweckten, in deren Dienst die Hadithverfasser standen. Schiiten anerkennen keinen einzigen dieser Hadithe.
Von dieser Ausgangsbasis aus zweiter Hand – eben der westlichen Orientalistik – ist es dann schon bemerkenswert, daß Schoeps' eigenes Urteil durchaus die Größe des Islam erkennt: „Wäre Muhammed nur ein verschlagener Schlaukopf oder ein Sozialreformer oder ein religiöser Fanatiker gewesen, so hätte er niemals die Wirkung ausgeübt, die er hervorgebracht hat und die durch seinen Tod in keiner Weise aufgehalten wurde. So wirkt eben doch eine echte, original konzipierte Religionsidee. Muhammed war der große Reformer Arabiens; die Strenge und Nüchternheit, die den staatlich-politischen Sinn schärfen und ausbilden half, trägt bei ihm die Zeichen seiner Herkunft aus der Wüste. Auf seine religionsgeschichtliche Bedeutung hin geurteilt, ist der Islam der bisher letzte, ganz große Versuch zur Errichtung einer theokratischen Herrschaft in der Welt gewesen. Von der altrömischen Zeit abgesehen ist die Durchdringung des staatlichen öffentlichen und privaten Lebens mit der Religion, die Verbindung und der Zusammenschluß beider, niemals wieder ideell so eng gewesen wie in der Stiftung Muhammeds: dem Islam.“ (S. 125)
(30) Franco Giorgio Freda, La disintegrazione del sistema, Padova: Edizioni di Ar 2000 (EA: 1969); eigene Übersetzung, unveröffentlicht.

„Bereit für Deutschland!“

„Zionisten wie Nazis sind völkische Bewegungen, die von unten her den Staat aufbauen wollen. Wir denken grundsätzlich von oben her: Königtum und Obrigkeit von Gottes Gnaden.“
Brief an Schalom Ben-Chorin, 18.3.1950

„Hat man es mit Personen zu tun, die - Gott behüte - selbständige Denker sind und daher in keine der üblichen Schubfächer und Klassifizierungen hineinpassen, dann bezeichne man sie einfach als 'faschistisch' oder 'faschistoid', denn das macht bei minderbemittelten Leuten immer großen Eindruck. Gerade das Letztere ist ein wichtiger Punkt, der mit dem atemberaubenden Bildungsgrad der heutigen 'Journaille' zusammenhängt. Es ist ihr in der Regel gar nicht möglich: 'nationalistisch', 'reaktionär', 'konservativ', 'preußisch' zu unterscheiden, weil sie nicht weiß, daß jede dieser Bezeichnungen höchst verschiedenartige Phänomene und Sachverhalte deckt. Beispielsweise bedeutet konservativ das Gegenteil von reaktionär und preußisch das Bekenntnis zum Antinationalismus.“
Ja - Nein - und trotzdem

dimanche, 17 mai 2009

Hans-Joachim Schoeps

Karlheinz WEISSMANN - http://www.sezession.de/

Vor einhundert Jahren wurde der Historiker Hans-Joachim Schoeps geboren

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Vor einhundert Jahren, am 30. Januar 1909, wurde Hans-Joachim Schoeps in Berlin geboren. Er kam als Sohn eines renommierten Berliner Arztes zur Welt, studierte nach dem Schulabschluß in Heidelberg, Marburg, Berlin und Leipzig Germanistik, Geschichte und vergleichende Religionswissenschaft. 1932 wurde er zum Dr. phil. promoviert. Gleichzeitig hatte er das Erste Staatsexamen abgelegt, konnte aber im folgenden Jahr wegen der nationalsozialistischen Machtübernahme nicht mehr in das Referendariat eintreten; aus denselben Gründen scheiterte auch der Versuch, sich zu habilitieren.

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Schoeps war in den zwanziger Jahren mit der Jugendbewegung in Berührung gekommen und hatte Kontakt zu verschiedenen Gruppen der „Konservativen Revolution“. Er gehörte damit zu dem kleinen Kreis deutsch-jüdischer Intellektueller, die dieser Bewegung nahestanden, so etwa Rudolf Borchardt, Ernst Kantorowicz und Hans Rothfels. Verbindungen bestanden vor allem zu Zeitschriften wie Die Tat, in der 1930 ein erster im eigentlichen Sinn politischer Aufsatz aus seiner Feder erschien, und Der Ring, die nachhaltig durch die Ideen Moeller van den Brucks geprägt war. Bemerkenswert ist auch, daß Schoeps die unter Konservativ-Revolutionären verbreitete Einschätzung  des Nationalsozialismus teilte, wenn er einerseits den „aufgeregten Kleinbürger Hitler“ verabscheute, andererseits meinte, daß man nur in der HJ noch „Gläubigkeit, Begeisterung und Leidenschaft“ finde, wenngleich sie für die falschen Ziele eingesetzt würden. Diese Bemerkungen stammen aus einem Brief, den Schoeps im November 1932 an den von ihm – trotz seiner scharf antijüdischen Position – hoch verehrten Hans Blüher schrieb. Beide hatten in Korrespondenzform ein Streitgespräch geführt, das noch 1933 unter dem Titel Streit um Israel als Buch veröffentlicht wurde. Darin betonte Schoeps einerseits sein Deutschtum im Sinne des preußischen Staatsethos, andererseits seine jüdische Identität. Diese verstand er allerdings nicht im zionistischen Sinn – das jüdische „Weltvolk“ war seiner Meinung nach im Jahre 70 mit der Zerstörung des Tempels und Jerusalems untergegangen –, sondern theologisch, wobei er neben dem Bundesschluß am Sinai auch die Möglichkeit anerkannte, daß Gott mit anderen Völkern ähnliche Bünde abgeschlossen habe.

Und was nun gar heute alles konservativ ist: Dieses vermickerte Kleinbürgertum, das Ruhe und Ordnung will, die Leute, die Angst haben, daß man ihnen ihre Geldsäcke klaut – aber darüber hinaus für keinen Sechser Haltung und Courage. – Schoeps 1932

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Dieser „theonome Konservatismus“ ähnelte sehr stark der in den zwanziger Jahren von evangelischen Theologen entwickelten „Volksnomoslehre“ und führte Schoeps mit seinen politischen Vorstellungen in eine weltanschauliche Position zwischen allen Fronten. Daraus erklärte sich letztlich seine heute so stark irritierende Bemühung, für die deutschen Juden im „Dritten Reich“ eine selbständige Position als „Stand“ zu erreichen, weshalb er von Regierungsstellen ebenso wie von den an „Dissimilation“ interessierten Zionisten wie von der Emigration mit Feindseligkeit verfolgt wurde.

Der von Schoeps zu Ostern 1933 gegründete „Vortrupp. Gefolgschaft deutscher Juden“ sollte zusammen mit anderen konservativen jüdischen Organisationen, vor allem dem „Nationalverband deutscher Juden“, trotz dauernder Zurückweisung die patriotische Einsatzbereitschaft der verfemten Minderheit demonstrieren, hatte damit aber keinen Erfolg. Im Dezember 1938 mußte Schoeps fluchtartig das Land verlassen und emigrierte nach Schweden. Seine Eltern kamen in den Lagern ums Leben, sein Vater, der während des Ersten Weltkriegs als Regimentsarzt des Garde du Corps gedient hatte, konnte bis zum Schluß nicht glauben, daß eine „nationale Regierung“ Hand an ihn und seine Familie legen würde.

Die erzwungene Muße im skandinavischen Exil nutzte Schoeps, um seine Studien zur vergleichenden Religionsgeschichte fortzusetzen. Er arbeitete als Dozent an der Universität Uppsala und soll bei seiner Rückkehr mehr als dreizehn Kilogramm Manuskriptpapier bei sich gehabt haben, Material für sieben wissenschaftliche Werke. Den häufig kommunistisch orientierten Gruppen des Exils stand er ablehnend gegenüber. Unermüdlich versuchte er die Differenz zwischen Deutschland und dem NS-Regime klarzustellen. Insofern war es nur konsequent, daß er unmittelbar nach Kriegsende in das zerstörte Deutschland zurückkehrte. Er habilitierte sich 1946 in Marburg und wurde ein Jahr später auf den eigens geschaffenen Lehrstuhl für Religions- und Geistesgeschichte an der Universität Erlangen berufen, zeitgleich begann er mit der Herausgabe der Zeitschrift für Religions- und Geistesgeschichte.

Schoeps‘ Vorstellung von „Geistesgeschichte“ knüpfte zwar an Dilthey an, verstand sich aber darüber hinausgehend als „Zeitgeistforschung“. In mehr als drei Jahrzehnten publizierte er zahreiche Monographien und Sammelwerke auf diesem Gebiet. Dabei zeichneten sich sehr deutlich zwei Schwerpunkte ab: die Geschichte des Urchristentums – insbesondere der „Judenchristen“ – und die Geschichte des preußischen Staates, vor allem seiner konservativen Denker.

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Dieses Interesse am „anderen Preußen“ hing vor allem mit der Sympathie zusammen, die Schoeps nach wie vor der konservativen preußischen Tradition entgegenbrachte. Fast alle seine politischen Stellungnahmen in der Nachkriegszeit müssen aus diesem Zusammenhang heraus verstanden werden. Bereits seine Rede zum 250. Jahrestag der ersten preußischen Königskrönung, dem 18. Januar 1951, über „Die Ehre Preußens“ (so der Titel der gedruckten Fassung) sorgte für Aufsehen. Zu Beginn der Ansprache hieß es: „Ich möchte mit der Feststellung beginnen, daß wir eines teuren Toten hier gedenken, der, vom Strome der Geschichte zum Licht getragen, in diesen Strom wieder zurückgetaucht ist. Staaten werden immer nur durch die Kräfte getragen und erhalten, durch die sie geschaffen worden sind. Preußen war ein königlicher Staat, und darum mußte Preußen sterben, als sein Königtum dahinstarb. Preußen hat am 9. November 1918 zu bestehen aufgehört und nicht erst 1933 oder gar 1945. Als durch Beschluß des Alliierten Kontrollrates vom 25. Februar 1947 der Staat Preußen, dessen Stammlande damals aber zum großen Teil unter fremder Herrschaft standen, offiziell aufgelöst wurde, haben alle alten Preußen dies als einen seltsamen Akt der Leichenschändung empfunden.“

Eine ähnlich irritierende Wirkung wie das Plädoyer eines deutschen Juden für den preußischen Staat hatten auch Schoeps’ später erhobene Forderung nach Einrichtung eines „Oberhauses“ und sein Eintreten für die Wiederherstellung der Monarchie. Je weiter sich die Linkstendenzen in der westdeutschen Gesellschaft in den sechziger Jahren verstärkten, desto schärfer wurde Schoeps im Ton und desto weniger schützte ihn seine jüdische Herkunft. Die Angriffe kamen dabei von verschiedenen Seiten: einmal von dem notorischen Ariel Goral, der Schoeps in einem Flugblatt wegen seiner Bemühungen um den jüdischen „Stand“ zwischen 1933 und 1936 als „braunen Juden“ beschimpfte, und zum anderen von der APO, der endlich eine Handhabe gegen den Konservativen zur Verfügung stand, der schon verschiedentlich energische Maßnahmen gegen den neuen linken Extremismus verlangt hatte und sich jetzt als „erfahrener Faschist“, „Nazi-Jude“ oder „jüdischer Obersturmbannführer“ verunglimpft sah.

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Auf Unterstützung brauchte Schoeps nicht zu hoffen. Die Philosophische Fakultät seiner Universität hatte schon 1968 eine Solidaritätserklärung mit 33 gegen 5 Stimmen abgelehnt. Der „Fall Schoeps“ erregte bundesweit Aufsehen und zog jetzt Angriffe auch in der überregionalen Presse, etwa in Zeit und Spiegel, nach sich. Schließlich nahm unter der neuen sozialliberalen Regierung das Verteidigungsministerium die Vereinbarung über eine Sonderausgabe des Buches Preußen. Geschichte eines Staates für die Bundeswehr zurück. Schoeps geriet in den folgenden Jahren immer weiter in die Isolation.

Als er im Wintersemester 1976/77 zur Emeritierung anstand, versuchte er alles, um eine geplante Umwidmung seines Lehrstuhls zu verhindern. Im Rahmen der Vereinbarung zwischen der katholischen Kirche und dem bayerischen Staat über die sogenannten Konkordatslehrstühle war vorgesehen, an die Stelle des Erlanger Lehrstuhls für Religions- und Geistesgeschichte einen solchen für Politische Wissenschaften treten zu lassen.
Alle Versuche von Schoeps, das – und damit die Beschädigung seiner intellektuellen Hinterlassenschaft – zu verhindern, schlugen fehl, bis es ihm gelang, durch direkte Intervention bei der bayerischen Regierungsspitze wenigstens zu erreichen, daß die Geistesgeschichte im Rahmen der künftigen Lehrveranstaltungen einen besonderen Schwerpunkt bilden sollte. Vor allem auf Betreiben des landläufig als „konservativ“ geltenden Historikers Michael Stürmer wurde nach dem Tod von Schoeps am 8. Juli 1980 das noch bestehende „Seminar für Religions- und Geistesgeschichte“ liquidiert, sein Lehrstuhl eingezogen beziehungsweise umgewidmet und 1994 sogar die Bibliothek – darunter neunhundert von den Erben leihweise übergebene Titel – an ein Antiquariat verkauft.

Die ’Überwindung der Massengesellschaft’ wird in unserem Geschichtsraum vielleicht überhaupt nur noch vom Geist, von den Ideen und Institutionen des Preußentums her möglich sein. Denn Preußen war der einzige deutsche Staat, der mehr als ein Staat war, mit dem sich eine Idee verknüpft hat, durch die Menschen gebunden wurden und noch heute gebunden werden können. … Derlei ist heute vollkommen unzeitgemäß – aber gefordert. Gerade die Unzeitgemäßheit ist paradoxerweise die größte Chance für Preußens Wiederkehr. Erst in der Zukunft wird man das klar erkennen können. – Schoeps 1982

Man hat Hans-Joachim Schoeps immer wieder seine unkritische Haltung gegenüber der preußischen Vergangenheit vorgeworfen, seinen anachronistischen Royalismus, und selbst Wohlwollende glaubten, daß er sich allzu sehr nach Schnallenschuh und Perücke am Hof zu Sanssouci sehnte. Aber damit trifft man nicht den Kern der Sache. Hier hat einer mit bemerkenswerter Unbeirrbarkeit nicht nur daran festgehalten, daß es möglich sein müsse, Deutscher und Jude, Preuße und Jude zu sein, sondern auch darauf beharrt, daß „unser armes Land“ seine Wunden heilen lassen sollte und daß ohne die preußische Substanz staatliche Existenz gar nicht möglich sei. Damit war er in der ersten Nachkriegszeit durchaus repräsentativ für eine starke Minderheit der Deutschen, die eine Totalrevision der Geschichte für unwahrscheinlich hielt, dann akzeptabel, weil ihm Herkunft und Schicksal einen gewissen Schutz gewährten, schließlich einsam wie jeder, der im Ernst auf dem Wert der preußischen Lektion beharrte.


jeudi, 09 octobre 2008

Note sur Otto Weininger

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Note sur Otto Weininger (1880-1903)

 

 

«Quel homme étrange, énigmatique, ce Weininger!», écrivait August Strindberg à son ami Artur Gerber, immédiatement après le suicide d'Otto Weininger, âgé de 23 ans. «Weininger mi ha chiarito molte cose» [= “Weininger m'a éclairé sur beaucoup de choses”], avouait Mussolini dans son long entretien avec Emil Ludwig. Pour Ernst Bloch, l'ouvrage principal de Weininger, Sexe et caractère,  était “une unique anti-utopie contre la femme”, Weininger était dès lors un “misogyne extrême”, un misogyne par excellence. Theodor Lessing posait le diagnostique suivant: il voyait en Weininger la typique “haine de soi” des Juifs. Rudolf Steiner voyait en lui un “génie décadant”. Il fut admiré par Karl Kraus, Wittgenstein et Schönberg; Mach, Bergson, Georg Simmel et Fritz Mauthner l'ont lu et l'ont critiqué. Son ouvrage principal a connu quelque trente éditions, a été traduit en vingt langues; en 1953, il a même été traduit en hébreu malgré son antisémitisme. Plus d'une douzaine de livres ont été consacrés jusqu'ici à Weininger seul.

 

Otto Weininger est né en 1880 à Vienne. Très tôt, il a été marqué par le souffle, d'abord fort léger, de la décadence imminente. C'était la Vienne fin de siècle, avec Hofmannstahl, Schnitzler et Nestroy, Wittgenstein et le Cercle de Vienne, l'empiro-criticisme et la psychanalyse freudienne, Mahler et Schönberg, Viktor Adler et Karl Lueger: une grande richesse intellectuelle, mais marquée déjà du sceau de la fin. L'effervescence intellectuelle de Vienne semble d'ailleurs se récapituler toute entière dans la personne de Weininger: il développe des efforts intellectuels intenses qui finissent par provoquer son auto-destruction. Et il a fini par se suicider le jour de sa promotion, ce Juif converti au protestantisme, ce philosophe qui était passé du positivisme à la métaphysique mystique et symbolique; en peu d'années, cet homme très jeune était devenu une sorte de Polyhistor qui naviguait à l'aise tant dans l'univers des sciences naturelles que dans celui des beaux arts, qui connaissait en détail toutes les philosophies d'Europe et d'Asie, qui savait toutes les langues classiques et les principales langues modernes d'Europe (y compris le norvégien, grâce à son admiration pour Ibsen).

 

Pourquoi ce jeune homme si brillant s'est-il tiré une balle dans la tête le 4 octobre 1903, quelques mois après la parution de son ouvrage principal, dans la maison où mourut jadis Beethoven?

 

«Seule la mort pourra m'apprendre le sens de la vie», avait-il un jour écrit. Et il avait dit à son ami Gerber: «Je vais me tuer, pour ne pas devoir en tuer d'autres». Bien qu'il ait toujours considéré que le suicide était un signe de lâcheté, il s'est senti contraint au suicide, tenaillé qu'il était pas un énorme sentiment de cul­pabilité. Ce qui nous ramène à son œuvre et à sa pensée, où la catégorie de la culpabilité occupe une place centrale. La culpabilité, pour Weininger, c'est, en dernière instance, le monde empirique.

 

Après avoir rapidement rompu avec le néo-positivisme de Mach et d'Avenarius, Weininger développe tout un système métaphysique, une philosophie dualiste au sens de Platon et des néo-platoniciens, du chris­tianisme et de Kant. D'une part, nous avons ce monde de la sensualité, de l'espace et du temps, c'est-à-dire le Néant. De l'autre, nous avons le monde intelligible, soit le monde de la liberté, de l'éthique et de la logique, de l'éternité et des valeurs: le Tout. Le monde empirique, selon Weininger, n'a de réalité que sym­bolique; c'est pourquoi, inlassablement, il approfondit la signification symbolique de chaque chose empi­rique, de chaque plante, de chaque animal, au fur et à mesure qu'elle se révèle à son regard mystique. Ainsi, la forêt est le symbole du secret; le cheval, le symbole de la folie (on songe tout de suite à cette ex­périence-clé de Nietzsche, se jetant au cou d'une cheval à Turin en 1889!); le chien, celui du crime; et ce sont justement des cauchemars, où des chiens entrent en jeu, qui ont tourmenté Weininger, tenaillé par ses sentiments de culpabilité, immédiatement avant son suicide.

 

Ce qui est caractéristique pour tous les efforts philosophiques de Weininger, est un élément qu'il partage avec toutes les autres philosophies dualistes, soit une nostalgie catégorique pour l'éternité, pour le monde de l'absolu et de l'immuable. En guise d'introduction à cette métaphysique, citons, à partir de son ouvrage principal, cette caractérologie philosophique des sexes, aussi bizarre que substantielle. Cette caractérologie reflète finalement son dualisme métaphysique fondamental. Le principe masculin est le re­présentant du Tout. Le principe féminin, le représentant du Néant. Cette antinomie, posée par Weininger est à la source de bien des quiproquos. En fait, il ne parle pas d'hommes et de femmes empiriques, mais d'idéaltypes. Tout être empirique contient une certaine combinaison de principe masculin et de principe féminin, de “M” et de “F” comme Weininger les désigne. Cette notion d'androgyne, il la doit à Platon (Sym­po­sion)  et il cherche à expliquer, par les différences dans les combinaisons entre ces deux élé­ments, quelles sont les lois régissant les affinités sexuelles, notamment l'homosexualité et le féminisme.

 

Sur base de son analyse des deux idéaltypes, Weininger voulait jeter les fondements d'une psychologie philosophique et remettre radicalement en question la psychologie de tradition anglo-saxonne, qu'il ju­geait être dépourvue de substance. Le principe “M” est donc l'idée platonicienne de l'homme et le véhicule du génie, qui, grâce à sa créativité, sa logique et son sens de l'éthique, participe au monde intelligible. Le principe “F”, en revanche, n'est que sexualité, au-delà de toute logique et de toute éthique; en fin de compte, il est le Néant et la culpabilité qui tourmente le principe masculin. Le principe “F” est incapable d'amour, car tout amour véritable naît d'une volonté de valeur, ce qui manque totalement au principe fé­minin. En conséquence, pense Weininger, la véritable émancipation de la femme serait justement de dé­passer et de transcender ce principe féminin; le raisonnement de Weininger est très analogue à celui de Marx dans La question juive,  quand l'auteur du Capital donne ses recettes pour résoudre celle-ci.

 

Weininger consacre tout un chapitre au judaïsme et, en lisant, on s'aperçoit immédiatement qu'il ne s'agit pas seulement d'une manifestation de “haine de soi”, typiquement juive, mais, bien plutôt d'une analyse profonde, introspective et psychologique de l'essence du judaïsme. Weininger pose la question de savoir si sont exactes les théories qui affirment que les Juifs constituent le plus féminin et le moins religieux de tous les peuples; certaines de ses analyses en ce domaine, comme du reste dans les chapitres sur le crime et la folie, la maternité et la prostitution, l'érotisme et l'esthétique, sont magistrales, véritablement géniales, mais aussi, en bien des aspects, déplacées, naïves ou exagérément exaltées.

 

Ce qui en impose dans l'œuvre de Weininger, c'est qu'il tente de penser à fond et d'étayer son anti-fémi­nisme et de l'inclure dans un système métaphysique de type néo-platonicien. Certes, il y a eu des doc­trines anti-féministes à toutes les époques, et qui n'exprimaient pas seulement une quelconque misogy­nie, mais qui apercevaient clairement que le féminisme était une de ces idéologies égalitaires qui entravait le chemin des femmes vers une réelle affirmation d'elles-mêmes. Mais, à l'exception des idées de Schopenhauer, jamais l'anti-féminisme n'a été esquissé avec autant de force et de fougue philosophiques que chez le jeune philosophe viennois.

 

Mladen SCHWARTZ.

(texte issu de Criticón, n°64, mars-avril 1981; trad. française: Robert Steuckers).

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lundi, 18 août 2008

Une histoire des Juifs de Pologne

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Entre étoile de David et drapeau rouge : une histoire des Juifs de Pologne

 

Par Johannes BIEBERSTEIN

 

Le livre de Holger Michael, intitulé « Zwischen Davidstern und Roter Fahne » (Entre étoile de David et Drapeau rouge), décrit l’histoire des Juifs de Pologne au cours du vingtième siècle. Avant 1939, la minorité juive de Pologne, avec ses trois millions de ressortissants, constituait environ 10% de la population totale du pays et parlait pour l’essentiel le Yiddish. Elle s’organisait comme une vaste association religieuse, disposant de « droits dits corporatifs », permettant notamment de lever une sorte d’impôt pour le culte. A cette vaste communauté organisée appartenaient aussi les « membres non croyants de la nation juive ».

 

L’auteur du livre est un slaviste dûment diplômé de l’Université de Leipzig, ancien collaborateur de l’Académie de Berlin-Est, qui, depuis la chute du régime SED communiste, vit au Kazakhstan, où il enseigne l’allemand. Pour lui, sur le plan politique, la « force populaire », la « Volksmacht », constitue le seul ordre politique légitime, qui a été renversé par la « restauration bourgeoise », autrement dit par les « droites » en 1989/1990. Mais bien que Holger Michael s’aligne sur une position marxiste « orthodoxe », selon laquelle le nationalisme constitue les prémisses de l’antisémitisme et donc est derechef le mal principal de tout ce qui arrive, nous lirons son ouvrage avec grand profit.

 

On peut dire, en effet, qu’il aborde un sujet brûlant et important, parce que sous la dictature rouge, ni la haine à l’encontre des Juifs ni la critique légitime que l’on pourrait adresser aux Juifs communistes (ni bien d’autres critiques) ne pouvaient être articulées. Cette minorité juive, numériquement faible mais capable de marquer l’histoire, a joué un rôle spectaculaire tant en 1920 dans le cadre du « Comité révolutionnaire polonais » de Bialystok, installé par les Soviétiques, que dans le gouvernement en exil de la « Fédération des Patriotes Polonais » (le ZPP), créé en 1943, également sous le patronage des Soviétiques. Dans l’appareil stalinien polonais, dans les départements de la sécurité et dans les bureaux qui déterminaient l’idéologie à suivre, les communistes juifs étaient souvent représentés de manière disproportionnée. Holger Michael estime, pour sa part, que cette disproportion est acceptable, vu les souffrances indicibles subies par le peuple juif, mais, en l’acceptant, il en minimise les effets tragiques pour les autres et ignore les persécutions perpétrées par ce qu’il appelle la « Volksmacht ». Mais en opérant ce tour de passe-passe, Holger Michael omet de reconnaître clairement la dynamique de l’antisémitisme polonais, qu’il combat par ailleurs. Antisémitisme qui ne fit que se renforcer, même après 1945, parce que les Juifs communistes étaient perçus, en Pologne, comme les valets de l’occupant russe-soviétique cordialement détesté.

 

La valeur de ce livre réside dans la présentation objective et claire de l’histoire sociale des Juifs en Pologne, surtout pendant l’entre-deux-guerres. En s’appuyant sur des données statistiques, l’auteur explique que les 10% de la population totale, que constituait la minorité juive en Pologne, représentait également 50% de la grande bourgeoisie du pays. Les Juifs polonais étaient également surreprésentés dans les professions libérales, comme celles d’avocat ou de médecin. Dans l’armée, on trouvait aussi des rabbins militaires.

 

Le livre nous apporte également beaucoup d’informations intéressantes sur les organisations juives et non juives. Parmi les organisations juives, la plus importante était le parti « Agudat » des juifs orthodoxes. Il avait mis sur pied des écoles juives et des séminaires pour former des rabbins et parvenait à glaner jusqu’à 40% des voix lors d’élections municipales. Le « Parti Populaire Juif », plus petit, s’affirmait en revanche comme anti-clérical et représentait la bourgeoisie juive assimilée. A côté de ces deux principales formations politiques, on trouvait aussi en Pologne une pléthore de petits partis juifs socialistes, qui couvraient tout l’éventail des tendances possibles et imaginables, tout en se partageant en deux camps discernables : celui de ceux qui étaient sionistes et celui de ceux qui ne l’étaient pas.

 

Au Comité central du parti communiste polonais athée, on trouvait également un « Bureau Juif Central ». Ce parti communiste, section du Komintern, essuyait souvent les insultes des autres communistes, notamment lorsqu’on l’appelait « Judokommune », « judéo-communiste », un terme chargé de haine, équivalent à l’allemand « jüdischer Bolschewismus » (« bolchevisme juif »). Les chapitres que consacre Holger Michael aux rapports entre la société et les partis polonais, d’une part, et les Juifs, d’autre part, sont des plus intéressants, même s’ils contiennent parfois des critiques très dures à l’encontre des catholiques et des nationalistes polonais, qui, eux aussi, dans leurs cénacles les plus extrémistes, avaient réclamé l’instauration de « Lois de Nuremberg ». En revanche, Holger Michael se montre très positif à l’égard du Maréchal Jozef Pilsudski, pourtant partisan d’un gouvernement autoritaire. Pilsudski, à ses yeux, étaient un ancien social-démocrate proscrit ; il n’avait aucun profil religieux distinct, ne se souciait guère des différences entre confessions, et n’a jamais manifesté ouvertement des tendances antisémites.

 

Dans le chapitre qu’il consacre à la catastrophe d’entre 1939 et 1945, Holger Michael revient sur l’attitude controversée des Polonais à l’endroit des Juifs poursuivis et traqués par les nationaux-socialistes et glorifie la résistance juive. Les chapitres consacrés aux survivants et à ceux qui entamèrent l’épopée de l’Exodus, apportent des informations nouvelles et intéressantes. En Pologne, quelque 100.000 juifs ont survécu, auxquels il faut ajouter 200.000 personnes qui avaient pu se sauver en se réfugiant en Union Soviétique. Après l’expulsion des Allemands de Silésie, de Poméranie et de Posnanie, ces survivants se sont principalement installés en Silésie.

 

Pendant la guerre, en Union Soviétique, s’était constitué un « Comité de Libération National Polonais » (PKWN) qui fit que, pour la première fois dans l’histoire, un gouvernement polonais fut constitué, comptant en son sein des citoyens de confession israélite. Or, en dépit de cette innovation, l’époque dite stalinienne fut marquée par une importante vague d’émigration juive. La dictature communiste apparaissait aux Polonais comme la dictature d’une minorité et les partisans non communistes, toujours armés, provoquèrent une guerre civile en Pologne, qui fit rage pendant quelques années, et connut ses excès antisémites. On se souvient surtout du pogrom de 1947 à Kielce, qui fait l’objet d’âpres controverses aujourd’hui en Pologne.

 

Alors que, dès 1945, la vie culturelle et associative juive pouvait se redéployer sans frein, l’exode massif fit qu’en 1950 déjà les deux tiers des Juifs de Pologne avaient émigré en Palestine ou en Occident, ce qui eut pour effet d’éteindre complètement la vie culturelle juive.

 

Les autorités communistes ont accepté la situation et l’ont même promue, parce qu’elles ne s’intéressaient en fait qu’aux seuls communistes. On ne se souvient guère d’une évidence politique pourtant patente : Staline a soutenu au départ la création de l’Etat d’Israël contre les Britanniques impérialistes et contre les Arabes « réactionnaires ». En Silésie, les autorités communistes avaient toléré l’installation d’un camp d’entraînement de la Haganah en 1947/48, où 2500 juifs polonais subissaient une formation militaire avant de s’engager dans la lutte en Palestine. On se rappellera aussi qu’un pont aérien amenait sans cesse des armes de Prague à Tel Aviv.

 

Ce qui fut tragique et malsain dans la vie politique polonaise, c’est que tant le mouvement indépendantiste polonais que les nationaux-communistes polonais étaient animés de nettes tendances antisémites. Ce qui eut pour effet d’amener de très nombreux juifs de Pologne à émigrer, décimant du même coup les communautés des survivants d’après 1945. Ensuite, beaucoup de juifs communistes, qui avaient cru que le socialisme allait avoir la fonction d’un « médecin » qui guérirait les Polonais de leur antisémitisme, ont basculé dans le camp de la dissidence anti-soviétique. Quelques-uns d’entre eux ont contribué à la chute de la dictature marxiste en s’engageant dans les rangs de Solidarnosc.

 

Johannes BIEBERSTEIN.

(article tiré de « Zur Zeit », Vienne, n°12/2007; trad. franç.: Dimitri Severens)

Références : Holger MICHAEL, Zwischen Davidstern und Roter Fahne, Kai Homilius Verlag, Berlin, 2007.

mercredi, 23 juillet 2008

Quand l'US Army pillait les trains d'or juif en Bavière...

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Quand l’US-Army pillait les trains d’or juif en Bavière en 1945

L’an dernier le Congrès américain et la Maison Blanche ont mis sur pied une commission, qui devait rechercher les valeurs ayant appartenu aux victimes de l’holocauste et voir si ces valeurs ne s’étaient pas retrouver sur le territoire des Etats-Unis. Le président du Congrès juif mondial, Edgar Bronfman a été nommé président de cette « Presidential Advisory Commission on Holocaust Assets » (= « Commission Consultative présidentielle sur les avoirs de l’holocauste »). L’élite politique des Etats-Unis estimait qu’elle avait un devoir à remplir : au cours des dernières années, l’Amérique a accusé de nombreux pays (ndt : la Suisse , la Suède , l’Autriche, la Belgique , etc.) de s’être enrichis indûment en s’appropriant toute ou partie de la fortune des victimes juives du national-socialisme. Ces pays ont été cloués au pilori par les médias. L’élite politique américaine voulait prouver qu’elle acceptait une enquête en Amérique même ; on pensait que l’Atlantique était un fossé bien large, que l’Europe était loin et que la Commission —mon Dieu !— ne trouverait rien in God’s own country !

Vers le 15 octobre 1999, une commission d’études a publié un rapport provisoire sur la direction du représentant du Ministre américain des finances, Stuart Eizenstat. Le lendemain, le résultat révélé par ce rapport provisoire faisait la une de tous les grands quotidiens américains. La Commission s’était penchée sur un cas devenu quasi légendaire, celui du « train d’or hongrois ».

A la fin de l’automne 1944, quand les troupes soviétiques, progressant depuis la Transylvanie , se mettent à franchir les frontières de la Petite Hongrie du Traité du Trianon, Adolf Eichmann, officier SS, prend des mesures de protection exceptionnelles à Budapest. Il réquisitionne plusieurs trains pour évacuer ce qu’il y a lieu d’évacuer vers l’Ouest ; la destination de ces trains est la Suisse neutre. Dans l’un d’eux ont été entreposées les réserves d’or de la Banque nationale de Hongrie ; dans un autre convoi, ont été entassées les peintures et les sculptures du Musée National hongrois.

A la fin de la guerre, ces deux trains ont été rapatriés en Hongrie. Un troisième train contenait les objets de valeur appartenant à plus de cent mille Juifs de Hongrie, qui furent ensuite déportés. Il s’agissait d’œuvres d’art, d’argenterie, de porcelaine, de tapis précieux, de bijoux, de diamants bruts, d’objets en cristal, de collections de monnaies et de timbres postaux, ainsi que des lingots d’or et deux serviettes pleines contenant de la poussière d’or, sans compter de très nombreuses montres et des appareils photographiques.

Des généraux américains se sont partagé le butin contenu dans 24 wagons !

Ce troisième train n’est jamais arrivé en Suisse. Le 16 mai 1945, quelques jours après la fin des hostilités en Europe, des soldats américains découvrent ce train à l’abri dans un tunnel près du village de Werfen. Il s’agissait de 24 wagons plombés (deux autres wagons avaient déjà auparavant été pillés par des soldats français). Le contenu des 24 wagons a été ensuite amené dans un dépôt de l’US Army à Salzbourg. Comme des inventaires avaient été dressés, le gouvernement hongrois a pu procéder à une évaluation du contenu : le trésor fabuleux du « train d’or » s’élevait à 204 millions de dollars américains (au cours de 1945). Si l’on adopte le cours du change que le Congrès Juif mondial a imposé aux banques suisses, cette somme correspondrait aujourd’hui à près de 2 milliards de dollars américains.

Une partie de ces biens a immédiatement été envoyée en Allemagne et confiée aux organisations juives, qui les ont mis aux enchères, pour obtenir des liquidités, qui ont été utilisées pour soigner et soulager les innombrables « personnes déplacées ». Plus tard, 1181 peintures ont été confiées par les autorités américaines à l’Etat autrichien, quand l’Autriche était encore considérée comme une nation alliée. Mais une part considérable de ces biens du « train d’or » est tombée aux mains de généraux américains, qui avaient installé leurs quartiers dans les villas et les châteaux de l’aristocratie autrichienne.

Le premier à s’être emparé de ces biens fut le Commandant des troupes américaines d’Autriche occidentale et Commandant de la Place de Salzbourg, le Général Major Harry J. Collins. Il donna un ordre de réquisition, où il commanda pour sa résidence et pour son wagon personnel de chemin de fer, des services de cristal et de porcelaine pour 45 personnes, 30 jeux de nappes et de serviettes de lin, 12 candélabres d’argent, 13 tapis d’Orient, 60 jeux d’essuies de bain. Et cet homme avide de beaux objets a ajouté : « tout doit être de la meilleure qualité, être du travail fait main par des artisans du plus haut niveau ». Quatre autres généraux se sont servi dans les masses de biens volés ; leurs patronymes sont cités dans le rapport remis récemment aux autorités américaines : Hume, Luade, Howard et Linden.

On n’a pas pu savoir ce que sont devenus ces objets de valeur après le départ des Américains hors d’Autriche, mais on peut imaginer que la Commission poursuivra son enquête… Son président y veille et on sait qu’il est un dur à cuire qui ne se laissera jamais intimidé. Ce qui restait du « train d’or » a été distribué via les magasins de l’administration militaire ou a purement et simplement été subtilisé.

L’existence du « train d’or » était connue depuis des années. On lui a même consacré des livres. L’auteur de l’un de ces livres, Kenneth D. Alford, cite un certain Capitaine Howard A. MacKenzie, qui a formulé une simple remarque sur le sort du « train d’or » : « … la seule différence entre Allemands et Américains en ce qui concerne les pillages réside en ceci : les Allemands ont dressé avec précision l’inventaire des patrimoines pillés, tandis que chez les Américains régnait la libre entreprise incontrôlée ».

Entre le gouvernement américain et le régime communiste hongrois, eut lieu une longue bataille juridique, assez stérile, où, finalement, le gouvernement communiste hongrois n’a rien reçu. Pour justifier cela, les services américains utilisaient généralement l’argument qu’une restitution ne serait pas possible, car les propriétaires des pièces ne pouvaient plus être retrouvés. Dès le premier jour de la publication du rapport provisoire de la Commission , la communauté juive de Budapest s’est manifestée et a réclamé la restitution des biens ou un dédommagement. La Commission elle-même a recommandé au gouvernement américain de payer des dommages et intérêts. Dans l’avenir, c’est certain, une pénible bataille juridique va s’éterniser et on entendra encore souvent parler du « train d’or » de Hongrie.

Il faut procéder à un examen critique du rôle de l’US Army

Vu le rôle peu glorieux de l’armée américain dans ce cas, cette révélation servira sans doute de leçons aux médias américains, si prompts à désigner les autres à la vindicte de l’opinion publique mondiale. Les donneurs de leçons d’Outre-Atlantique auront l’occasion de méditer le vieux dicton anglais : « When you live in a glass-house, you don’t throw stones » (= Quand on vit dans une maison de verre, on ne s’amuse pas à lancer des cailloux).

Ivan DENES.

(texte issu de Junge Freiheit, n°43/1999).   

 

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