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lundi, 06 octobre 2014

Engels e Marx omofobi e sessisti

Engels e Marx omofobi e sessisti (e non lo sapevano…)

marx_engelsLa struggente lettera di Lorenzo “Voroshilov”Altobelli, pubblicata su questa testata il 13 agosto 2014 (cfr.  Cronaca di una espulsione annunciata) mi ha fatto fare un piccolo salto indietro nel tempo, quando la sinistra comunista era conformata allo stalinismo e, come in una chiesa, si operava per ghettizzare, processare ed espellere i dissidenti, gli “apostati”, gli “eretici”. Non solo: nell’URSS, dopo l’omicidio di Sergej Kirov, importante dirigente del Partito Comunista a Leningrado, iniziò una vasta operazione di epurazione che con procedimenti giudiziari sommari, colpì anche semplici cittadini, non iscritti al PCUS, considerati ostili al regime e alla linea imperante, imposta attraverso il cosiddetto “centralismo democratico”: dico “cosiddetto” perché nei partiti comunisti in Europa occidentale (il PCI ad esempio), vi era libertà per i membri del partito di discutere e dibattere sulla linea politica e una volta che la decisione del partito era stata presa dal voto della maggioranza, tutti i membri si impegnavano a sostenere in toto quella linea. Quest’ultimo aspetto rappresenta il centralismo, almeno come lo intendeva Lenin.

Invece il nostro caro Lorenzo è stato vittima di una concezione staliniana e – mi si conceda – kafkiana del centralismo, ed espulso dalla federazione giovanile del partito comunista a cui era iscritto. Non faremo il nome, per rispetto nei suoi confronti, del partito a cui era iscritto. Ma il caso è simile: perché nel PCUS stalinista la linea era imposta dal capo, il quale era la fonte unica della Verità Assoluta: chi sgarrava veniva arrestato e obbligato a fare ammenda del crimine ideologico, come essere sionista, trockijsta, socialdemocratico, anarchico, elemento reazionario e piccolo borghese ecc.

Qual è stato il “crimine” ideologico di cui si è macchiato il povero Lorenzo? Ha forse detto che negli Stati Uniti d’America di Obama si sta realizzando, grazie al suo New Deal, il socialismo? Ha elogiato forse la Fondazione Italiani Europei di D’Alema come vera esegesi del socialismo, sostituendo la Repubblica e il Fatto Quotidiano all’ormai defunta Unità (nelle cui feste Togliatti è stato sostituito da De Gasperi)? Ha pubblicato un articolo dove il kibbutz  e l’espropriazione di territorio palestinese sono elogiati come via somma per la sinistra del domani?

Peggio cari miei! Peggio! Gramsci gli ha gettato i Quaderni dal carcere addosso, rinnegandolo! Togliatti si sta rigirando nella tomba per questo “crimine”! Secchia sta oliando il mitra, pronto a risorgere dal sepolcro per giustiziarlo a Dongo! Lorenzo, da marxista, ha semplicemente fatto riflessioni marxiste: ha postato sulla sua bacheca Facebook un video, dove viene mostrato una sorta di corteo del Gay Pride con, nelle prime file, modelli che marciano muovendo «il proprio corpo in un certo modo per fare un certo tipo di passetto», ancheggiando in maniera “provocante” e femminile. [1]

Il commento? L’analisi, marxista fino al midollo spinale – dove non si critica l’omosessualità, ma il piegarsi di certi personaggi alle regole di mercato – è la seguente:

 

 «I modelli che sfilano su quella passerella sono ormai stati ridotti anche loro alla stessa stregua delle modelle e dei modelli, cioè di uomini e donne eterosessuali, oggetto delle ferree leggi di mercato, della pubblicità e della mercificazione, da parte di un capitalismo che tutto mercifica, che tutto deve trasformare in plus-lavoro e quindi in plus-valore. Ma guardali bene! E riporta alla tua mente le sfilate di vari modelli/e! Il loro è solo in parte un modo naturale di sfilare! In che senso? Il/la modello/a sfila in modo elegante, a volte anche spregiudicato, restando però in certi precisi canoni di grazia ed appunto, come già detto, eleganza. In questo caso invece siamo di fronte ad un modo di camminare forzato, estremamente aggressivo, con ancheggiamenti esageratamente pronunciati e giochi gestuali particolarmente aggressivi, veloci e teatrali, soprattutto nella parte finale del video. Per non parlare dei pantaloni, così attillati, fini e di maglio largo, da offrire completamente il senso di nudità completa delle parti intime maschili, che vengono esposte in modo volgare e pornografico». [2]

 

Lorenzo – si noti bene – non contestava né l’orientamento sessuale dei modelli né tanto meno il diritto di questi a battersi per ottenere miglioramenti delle loro condizioni di cittadini e di lavoratori ma la riduzione a spettacolo dell’omosessualità, trasformata in una baracconata, così come avviene anche nei Gay Pride, ridotti a carnevalate peraltro del tutto inutili nella capacità di incidere seriamente sui diritti della comunità LGBT.

I soggetti, in sintesi, concedendosi a tale manifestazione, si stavano riducendo a oggetti mercificati. Mancava solo l’etichetta col prezzo appiccicato sulle magliette! Né più, né meno.

Un crimine? Oggi dire a un uomo che egli sta vendendo la sua forza lavoro ad un capitalismo selvaggio che tutto mercifica, lo stesso capitalismo che rende precarie le vite dei giovani (idem per il sottoscritto), che manda in pensione le persone sempre più in la con l’età dopo averle spremute come agrumi, che cancella le più elementari leggi sul mondo del lavoro, non è più sinonimo di marxismo, comunismo, socialismo, ecc. Vuol dire essere fuori moda, out, “vecchi dentro”, matusa, nonni, ecc.

Questo, però, se rivolgo il mio discorso all’eterosessuale maschio che si automercifica. Ma se le stesse critiche vengono rivolte alla femmina o alla comunità LGBT, apriti cielo!

Si è etichettati come reazionari, fascisti, catto-integralisti, talebani, mostri, satanassi con coda, forcone, corna, baffetti e pizzo e voce satanica alla Ignazio La Russa! E il tutto, anche se non  si ha nessun atteggiamente ostile né contro la comunità LGBT – che non è diversa da nessuno! – né contro le donne.

Ma Lorenzo ha avuto l’ardire di attaccare la fonte stessa dell’“omosessualismo”: il femminismo!

E, fulmini & saette! La Gestapo/Stasi del genderismo femminista ha tuonato contro di lui.

Perché se si attacca il femminismo si attacca una “santa istituzione” della sinistra postsessantottina, ed è come – per il buonismo boldrinesco – sparare sulla Croce Rossa, prendendosela con i “più deboli”, coi “poveretti”, cioè le femmine. Ma è veramente così?

Nulla di più falso!

L’ideologia femminista è – se usassimo una terminologia veteromarxiana – un’ideologia borghese. Se utilizzassimo una terminologia moderna la potremmo definire “arma di distrazione di massa”, un mezzo utilizzato dai poteri forti di allora e di oggi (soprattutto tramite le ex studentesse e contestatrici di un tempo che, conseguite lauree e master, siedono nei CdA delle multinazionali a rafforzare la status quo del vigente ordine costituito) per indebolire un movimento operaio in ascesa creando contraddizioni di genere inesistenti.

Insomma, parlando dell’Italia degli anni ’70, per paradosso il femminismo/fricchettonismo fece al movimento operaio molto più male che non l’offensiva padronale o la “strategia della tensione”.

In base al ragionamento neofemminista, la donna appartenente ai ceti “bassi”, grazie a quel clima teso a creare questa nuova forma di razzismo, molto più subdolo dell’etnopluralismo sbandierato dai neofascisti & neodestristi, fra il compagno lavoratore e la “principessina” Grace Kally o la ricca Miss Kennedy, moglie dell’uomo che iniziò il conflitto in Vietnam, col femminismo inizia a sentirsi più in sintonia con queste due: che diamine, Kennedy non tradiva forse la “first lady” con Marilyn Monroe, anch’essa ridotta a donna-oggetto dal fallocentrismo?

Insomma, al bando la lotta di classe! Trionfi la giustizia di genere e l’interclassismo (ideologia “corporativista” per eccellenza, dato che gli interessi di Marisa, casalinga e lavoratrice a tempo pieno con due marmocchi da accudire e un marito che torna a casa la sera stanco e stressato dal lavoro, non collimano affatto con quelli della moglie dell’imprenditore membro dell’Assolombarda/Confindustria: tutt’al più con Luisella, la cameriera dei ricchi di turno, ma li si va oltre la “lotta di genere” e si rientra forzatamente nell’incipit de Il manifesto del partito comunista: «La storia dell’uomo è storia di lotta di classe»).

E tanti saluti a Miss. Boldrini, che si occupa di questi e altri temi “impellenti” ma dimentica di denunciare inghippi d’altro “genere” che riguardano il mondo del lavoro che il suo premier sta affossando col Jobs Act & Co.! L’articolo 18? Ma va! E’ più attuale il sessismo e il femminicidio! E le “morti bianche”? Ma dove!). Il neofemminismo

 

 «Ha fatto logicamente gli interessi stessi del capitale spaccando il movimento operaio della fine anni degli ’70, tra uomini da una parte, i presunti oppressori, e le donne dall’altra, le presunte vittime. Cosa ci sia di marxista in questa visione del mondo, proprio non riesco a capirlo…»

 

No Lorenzo, il marxismo è tutt’altra cosa! Qui vengono presi singoli casi incresciosi (perchè la violenza, da parte maschile o femminile è sempre sbagliata) utilizzati dalla stampa di turno per distrarre e parlare d’altro, e non di diritti del lavoratore, tanto per cambiare. Quindi, da maschio, rigirando la frittata lanciata dalle femministe, e denunciando come Lorenzo il carattere interclassista e borghese dell’ideologia “di genere” (che inizia col femminismo e si conclude col cosiddetto “genderismo”, la messa in discussione dei due generi in nome della creazione di un “altro” indistinto. Genitore 1 e 2 non vuol dire nulla, è un attentato ad ogni certezza per manipolare l’immaginario collettivo e il bambino: non è certo così che lo si educa a tollerare le differenze, ma lo si plasma a diventare quel “un altro” indistinto che dovrebbe decidere quello che vuole essere, “un altro” totalmente sradicato e privato di ogni identità), denuncio il carattere “sessista” e “anticostituzionale” di queste ideologie, sentendomi discriminato, umiliato e sessualmente molestato!

Parlare di “femminicidio” significa dimenticare l’uguaglianza giuridica delle persone davanti alla legge, per mettere uno dei due generi sul piedistallo, elevandolo al privilegio: un tempo vi erano la nobiltà e il clero, ora il genere femminile per una società femminilizzata.

Con il “femminicidio” si esce dal solco della formula «La legge è uguale per tutti» creando guarentigie particolari per un genere rispetto all’altro: «C’è un codice per il maschio e un codice separato – e privilegiato – per le donne». L’importante è dire che “TUTTI” i maschi sono portatori sani di un gene distruttivo che è… il loro pene!

Si, avete capito bene! Il tutto, spacciando tale ideologia per marxismo.

Se io, maschio, ammazzo un altro maschio avrò una condanna, ma se uccido una donna la condanna sarà peggiore. Insomma, un tale diceva che «dove c’è uguaglianza c’è ingiustizia»… peccato che il tale sia Werner Sombart, economista corporativista appartenente alla “Rivoluzione conservatrice” e autore di un saggio dichiaratamente reazionario ripubblicato nel 1977 dalle Edizioni di Ar di Franco Freda intitolato “L’ordinamento per ceti” (p. 24), che proponeva una comunità organica, olistica e differenziata al suo interno per ordini e ceti, ognuno dotato di appositi diritti e privilegi.

E’ questa la società a cui auspicano le femministe?

Intendono, superato il dominio dei ceti nobiliari “di sangue” e “di spada” (un dominio senz’altro iniquo), e l’affermazione di quello borghese “di censo”, dove l’uomo conta per quello “che ha” (altrettanto iniquo), instaurare un diritto privilegiato per le donne, un “diritto di genere”?

Insomma, cosa rende le femministe tanto diverse dai nobili e dal clero reazionario contro cui si scagliarono giacobini e sanculotti?

Quelle masse ebbero il coraggio di prendere la Bastiglia e di iniziare una nuovo corso, mentre oggi chiunque, come il nostro Lorenzo “Voroshilov” Altobelli, denuncia una mutazione antropologica all’interno della sinistra, viene denunciato dai suoi stessi “compagni” ormai ottenebrati, come reazionario, come potatore sano di violenza maschilistica, omofobico-fallocentrica!

Insomma, oggi Robespierre verrebbe pestato dalle femministe e il re (dopotutto è maschio e “fascio”) condannato, mentre la “povera” regina Maria Antonietta, vittima dello stesso paternalismo “di genere”, verrebbe salvata, in quanto donna, accomunata a Josephine, povera piccola fiammiferaia parigina. Insomma, dal revisionismo si è passati direttamente al “negazionismo” interclassista… di bassa leva.

Il Sessantotto, movimento che ha avuto i suoi aspetti positivi e negativi, si caratterizzò come un fenomeno generazionale capace di mettere in discussione le evidenti contraddizioni della società borghese, produsse una vera e propria rivolta contro le strutture sociali e culturali di allora e le vecchie consuetudini e convinzioni morali e culturali di tutti, giovani e non.

Quella Contestazione introdusse però un elemento allogeno all’interno della sinistra, una nuova cultura modernista e funzionale all’individualismo capitalistico, con forti presupposti di matrice liberal, cresciuta e sviluppatasi nei campus americani, impregnati di ideologie neoradicali, fra cui il neofemminismo.

Aspetti che colse anche Pier Paolo Pasolini, intellettuale “controcorrente”, ostracizzato dai reazionari di allora perché omosessuale ma anche dai “progressisti” e che stalinisticamente fu espulso dal PCI per il suo orientamento sessuale, proprio perché capace di mettere in discussione una modernizzazione in grado di sradicare le molteplici culture presenti nel nostro paese e creare il nuovo “homo consumans”.

Ebbene, tale cultura liberal, contestata da Pasolini, trattato alla stregua di un “comunista reazionario” (ma oggi elevato a “icona gay”: ve lo immaginereste marciare, tutto impellicciato, truccato, con abiti aderenti e pantaloni in pelle, ad un Gay Pride per il matrimonio gay, lui che arrivò a criticare aborto e divorzio da posizioni antimaterialiste e antiindividualiste?)-, mise in discussione anche Marx, “classista”, troppo “morale”, troppo poco interessato ai diritti individuali, e così “grigio”… troppo poco “arcobaleno”.

La Contestazione, come già detto, introdusse nella sinistra e nella società nuovi imput liberal, fra cui il neofemminismo, che in Europa, per fare breccia in una certa intellighenzia “di sinistra”, formatasi magari negli ambienti comunisti, si tinse di rosso: consiglio a riguardo l’illuminante lettura del testo Le filosofie femministe (Milano, Mondadori, 2002, 251 pp., 10,00 euro), scritto dall’attivista femminista Adriana Cavarero e da Franco Restaino (un “femministo”, mi si conceda il neologismo, cioè un maschio schierato armi e bagagli con la causa femminista e genderista, che quasi si vergogna di essere di sesso maschile), docenti rispettivamente di Filosofia politica all’Università di Verona e di Filosofia teoretica all’Università di Roma Tor Vergata; un testo “fazioso” ma utile a illustrare questo processo che trasforma Marx ed Engels in due “femministi” e “omosessualisti” ante litteram. Nel testo è evidente la filiazione fra le due culture sopra citate e la forzatura con cui i due autori cercano di far indossare il fazzoletto rosso al movimento femminista, un movimento che nel mondo anglosassone è anticomunista e antimarxista e per il quale Marx ed Engels e addirittura Freud, sono giudicati “fallocentrici” e “paternalistici”. Peggio: il cambio di contraddizione, dalla classe al genere, funzionale al liberismo, è palese in molte autrici citate. Il neofemminismo – data la sua funzionalità nel favorire l’ideologia ultraindividualista – inizia a cavalcare l’omosessualità, sostenendo addirittura che l’eterosessualità è un’invenzione del “maschilismo paternalista” per sottomettere la donna, e la “penetrazione” (cioè il normale coito!) è un mezzo per opprimerla. Franco Restaino, commentando autori come D. H. Lawrence, Henry Miller, Norman Mailer e il «noto scrittore omosessuale “lanciato” da Sartre, Jean Genet, nota che i loro scritti si caratterizzano per la denuncia dell’atteggiamento «patriarcale e sessista» dei rapporti uomo/donna o all’interno del rapporto omosessuale (???). Il neofemminismo radicale, quindi, ha come referenti soggetti completamente altri rispetto al marxismo:

 

 «Non la classe, non la razza, ma il sesso, quindi, sta all’origine della “politica”, cioè dei rapporti di potere e di dominio nella società e fra gli individui. Gli atti sessuali, quindi, sono innanzitutto non atti di piacere o di procreazione ma atti politici, atti nei quali di perpetua la supremazia maschile sulla donna in tutti i momenti della storia e in tutte le forme istituzionali (la principale è quella della eterosessualità) e con tutti i mezzi (dalle “lusinghe” del “mito” della donna alle “minacce” di violenza sessuale)». [3]

 

Anne Koedt (1941), nel saggio Il mito dell’orgasmo vaginale (1968) va oltre, e contesta sia Marx che Freud e la sua scienza che mette al centro del suo discorso l’arma “inventata” per perpetrare violenza sulla donna: il pene (come se alle donne facesse schifo fare del sesso eterosessuale)! Dalle sue tesi – che da Freud ci conducono direttamente al reparto psichiatrico dell’ex manicomio di Mombello, a Limbiate (Mi), nel settore “camicia di forza” – si arriva a questa conclusione, che sta al marxismo come Adolf Hitler sta all’ARCI. Per l’autrice stabilire che l’orgasmo vaginale è un mito, avrebbe conseguenze per l’uomo (lo destabilizzerebbe), per la donna (la “libererebbe”) e per la società (composta da uomini e donne ormai destabilizzati). Per i primi, li renderà coscienti di essere «sessualmente superflui se la clitoride è sostituita alla vagina come il centro del piacere della donna», mentre la donna – non è una mia invenzione, lo dice la Koedt – potrà affiancare l’eterosessualità, che servirà a mero scopo procreativo per non far estinguere la razza umana, col lesbismo e/o la bisessualità. [4] Anne Koedt scrive che «Lo stabilimento dell’orgasmo clitorideo come fatto minaccerebbe l’istituzione eterosessuale. Esso infatti indicherebbe che il piacere sessuale è ottenibile sia dall’uomo sia da un’altra donna, facendo così dell’eterosessualità non un assoluto ma un opzione». [5] Viva la franchezza! Così, mentre Marx auspica ad una società dove maschi e femmine sono giuridicamente uguali, cittadini/e liberi/e di una comunità dove tutto viene condiviso per il bene comune, dove tutti divengono padroni dei mezzi di produzione e dove nessuno verrebbe mai ghettizzato per il suo orientamento, le “ziette” acide & sessiste alla Boldrini vogliono ridurre il maschio a mero “schiavo/toro da monta” per non far piombare la società – ormai femminilizzata – all’estinzione, mentre la donna, sempre più mascolinizzata e androgina, amministra lo stato e si diverte, divenendo o lesbica o bisessuale o quel che vuole lei. Lei si “libera”, mentre il maschio è sottomesso! Il passo successivo lo si ha nel maggio 1970, quando un sottogruppo del movimento femminista, le femministe lesbiche, fanno irruzione in un teatro in cui si stava rappresentando un testo femminista, occupando il palco. Nascono così le Radicalesbian, le “nonnine” delle Pussy Riot & Femen (le “eroine” stipendiate da Georges Soros), che diffondono un testo intitolato “La donna-identificata donna” che, partendo dalle analisi della Koedt, radicalizza tale messaggio, ci fa arrivare direttamente al “genderismo”, cioè alla relativizzazione delle differenze di genere fra uomo e donna che, guarda caso, parte sempre dalla colpevolizzazione del maschio eterosessuale: «In una società in cui gli uomini non opprimessero le donne e l’espressione sessuale fosse libera di seguire i sentimenti, le categorie di omosessualità e di eterosessualità scomparirebbero». [6] 

La messa in discussione del genere è evidente nel saggio Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica (1980), di Adrienne Rich che, con la scusa di difendere il diritti della donna, arriva a sostenere che l’eterosessualità è una forzatura indotta da una società patriarcale, e arriverà a definire le soggettività o identità lesbiche col termine “ambiguo” di “non-donne” e “non-uomini”… insomma, oltre ad una spersonalizzazione assoluta, ecco le origini della messa in discussione del concetto di “mamma” e “papà” che ritroviamo in politiche “genderiste” che hanno creato termini marziani (e non marxiani) tipo “genitore 1” e “genitore 2”, una politica che cerca di corrodere il marxismo, com’è evidente nel saggio del 1974 di Gayle S. Rubin Lo scambio delle donne. Note sulla “economia politica” del sesso, dove Engels è letteralmente preso per la barba e tirato dentro ad un discorso senza capo né coda cercando di forzare il suo famoso saggio scritto del 1884, “L’origine della famiglia, della proprietà e dello Stato”, in chiave lesbo-femminista, mettendo in discussione il concetto di sesso-genere. [7] Insomma, ecco le radici di tutto! Approfondiremo in futuro…

Tornando al “caso Altobelli” – ma gli Altobelli sono tanti nella sinistra radicale italiana, tutti accusati dal politically correct di omofobia e “paternalismo di genere”, processati in quanto maschi dal “neostalinismo femmino-genderista” che non sventola più la bandiera rossa, ma quella arcobaleno, a cui non serve più la gelida durezza dell’acciaio zdanoviano ma usa la femminilizzazione della società che impone nuove mode – notiamo che egli, marxista-leninista doc, oggi non sarebbe il solo ad essere processato dalla neosinistra occidentale. Sì, oggi Altobelli non dovrebbe passare da solo le forche caudine del politicamente corretto e chiedere venia, perdono, cospargendosi il capo di cenere per aver denunciato l’inghippo del genderismo. Al suo fianco vi sarebbero i due padri nobili del socialismo scientifico, due a cui ancora molti si appellano nelle file di Sel e di quella risciacquatura di piatti che è l’odierna sinistra vendola-luxuriana fatta di poeti che inviano i loro amichetti in Russia a denunciare “Il Mostro”, dimenticando che negli States di Obama c’è la pena di morte, differenza etnica, di genere, di ceto, di classe e di tutto, insomma, il darwinismo sociale puro, per dire che “loro” avrebbero detto di “Sì” alla legge Taubira, e anzi, loro avrebbero ufficiato le nozze fra “individuo 1” maschio/femmina e “individuo 2” maschio/femmina, benedicendo senz’altro la loro adozione a distanza e il loro parto eterologo, anch’esso a distanza, magari effettuato con un’indigena (in affitto) del Terzo mondo in nome del cosiddetto progresso.

Di chi sto parlando? Al banco degli imputati, “rei” di omofobia – documentata! – chiamo alla sbarra, ammanettati, il qui presente Karl Marx e l’amico – oh, sono solo amici, niente battute con doppi sensi – Friederich Engels! Cosa?? Sì, avete capito bene!

 Anche Marx ed Engels erano omofobici & sessisti! Dal loro carteggio le prove che inchiodano i filosofi più “odiati” (e citati “ad cavolum”) dalla paladina delle donne… l’amazzone Laura “Wonder Woman” Boldrini

 Marx ed Engels sono per ogni marxista che si rispetti due punti fermi. Nell’iconografia sovietica erano al primo posto, prima addirittura di Lenin, fondatore dello Stato socialista e ideologo del marxismo-leninismo, una variante della dottrina marx-engelsiana. Persino in era stalinista e post-stalinista l’iconografia dell’URSS non variava di una virgola: Stalin era così “umile” da mettersi in fondo alla fila nel pantheon dei padri del socialismo. Primi, però, sono sempre i due tedeschi: Marx ed Engels. Idem per la vecchia socialdemocrazia, che pur contestando a Lenin la sua visione “elitista” e “centralista”, vedeva nei due filosofi i “fari” dell’esegesi di ciò che avveniva nel mondo. Questo è il Novecento. Oggi, però, Marx ed Engels, se qualcuno spulciasse nel carteggio fra i due filosofi, verrebbero severamente espulsi da qualunque partito che anche lontanamente si battesse per la liberazione delle masse. I due filosofi, nelle lettere, si scambiavano salaci battute volgari – Orsù, mica erano radical-chic! Mica indossavano cachemire e andavano a cena con Valeria Marini & Pippo Franco, “sovseggiando” (con erre moscia che fa molto “salotto chic”) champagne & caviale durante la presentazione di un’antologia di poesie scritte da un poeta sconosciuto morto durate un corteo di protesta per difendere i diritti della mosca bianca tze-tze! E non avevano i rasta sulla barba! –, attaccando gli avversari con appellativi che oggi porterebbero Vendola, Ferrero, Diliberto, Ferrando e magari anche lo stalinissimo Rizzo, ad espellere i due dai partiti per “scarsa vigilanza”, “omofobia”, “paternalismo”, “odio di genere” e per non aver appoggiato Vladimir Luxuria.

Paradosso? Giudicate un po’ voi!

Engels, in una lettera inviata all’amico da Manchester il 22 giugno 1869, parlò addirittura dell’esistenza di “lobby gay” (oggi si verrebbe espulsi per direttissima e paragonati ai nazisti runo-muniti di Pravy Sektor che parlano ancora di “complotto ebraico”) scrivendo che

«I pederasti iniziano a contarsi e scoprono di formare una potenza all’interno dello Stato. Mancava solo un’organizzazione, ma secondo questo libro sembra che esista già in segreto. E poiché contano uomini tanto importanti nei vecchi partiti ed anche nei nuovi, da Rösing a Schweitzer, la loro vittoria è inevitabile. D’ora in poi sarà: “Guerre aux cons, paix aux trous de cul”. È solo una fortuna che noi personalmente siamo troppo vecchi per avere timori, se questo partito vincesse, di dover pagare tributo corporale ai vincitori. Ma le giovani generazioni!». [8)

La frase in francese va tradotta con «Guerra alle fi…, pace ai buchi del c…»… ! Il 21 luglio 1868, in una lettera relativa al libro scritto di Carl Boruttau (1837-1873), Gedanken über Gewissens Freiheit (1865), inviato all’amico Engels, in cui si discuteva della libertà sessuale, Marx scriveva: «Chi è questo incalorito Dr. Boruttau, che rivela un organo così sensibile all’amor sessuale?» e l’amico rispondeva (23 luglio 1868) «Del Dr Boruttau dal caloroso membro non so altro se non che “ha commercio” anche con i lassalliani (frazione Schweitzer). La cosa più buffa è il “francese” della sua dedica a un’anima gemella a Mosca». La lettera è il commento a un libro (forse Incubus) che Karl Heinrich Ulrichs, il primo militante omosessuale, aveva inviato a Marx, che l’aveva “girato” a sua volta all’amico Engels. Che ne approfitta per insultare i seguaci di Ferdinand Lassalle, a capo dell’ala nazionalista e corporativista dei socialisti di allora (combattuta da Marx e da Engels), qui insultati come presunti omosessuali. Anche il destinatario moscovita della dedica scritta in cattivo francese è accusato di omosessualità. [9] Il nostro “omofobico/fallocratico” Engels scrive in una lettera inviata a Sorge, dell’11 febbraio 1891, in cui Hasselmann è insultato tranquillamente come Arschficker, cioè “rompiculo”. [10] Proseguiamo. In un’altra lettera del carteggio, oltre a denunciare la “lobby gay”, Engels scrive:

«Incidentalmente, solo in Germania era possibile che un tizio simile apparisse [riferito a Karl Heinrich Ulrichs], trasformasse la sozzura in una teoria e invitasse: “introite” [“entrate”] eccetera. Sfortunatamente non era ancora abbastanza coraggioso da confessare apertamente di esser “lo”, e deve ancora operare coram publico, “dal davanti”, ma non “dal fronte dentro”, come una volta dice per errore. Ma aspetta solo che il nuovo codice penale nord-tedesco riconosca i droits de cul. E sarà tutto diverso. Per le povere persone “del davanti” come noi, con la nostra infantile passione per le donne, le cose si metteranno male». [11]

Ecc. ecc. Insomma, che cattivo ‘sto Engels: si vantava di essere una «persona “del davanti” […], con [una] infantile passione per le donne»… Chissà come verrebbe criminalizzato dall’Asse Vendola-Boldrini-Luxuria, che, con sguardo acido e schifato, gli urlerebbero: «Maschilista! Sessista! Putiniano! Odi le compagne del «Collettivo per l’autocoscienza e la liberazione dal maschio fascista»! Moooostroooo! Gesù – l’ha detto il dott. “teologo” Vip Elton John, “esperto” in materia – sarebbe per le nozze gay e le adozioni “d’altro genere”!»…e via bestemmiando!  

Qui non si vuole attaccare Engels per la sua “omofobia”, dato che era un uomo dell’ ‘800 e quindi tutto va storicizzato. L’omofobia è senz’altro sbagliata e settori consistenti della sinistra – si pensi allo stalinismo – si macchiarono di tale bruttura. [12] Ma volendo ironizzare un po’ – fermo restando che nessuno giudicherebbe mai nessuno per il suo orientamento sessuale – qui vogliamo far riflettere il lettore invitandolo a rileggere gli scritti di Altobelli, perché oggi Lorenzo, per aver criticato il genderismo e non l’omosessualità in quanto tale, è stato espulso dai neostalinisti del politically correct, lo stesso che oggi metterebbe alla gogna il duo Engels-Marx per essere quello che erano, uomini dell’800 o, peggio ancora, che manipola quotidianamente i loro scritti (o che ormai li ha buttati al macero a partire dalla svolta della Bolognina, non per sposare Keynes, ma Obama), trasformandoli in fricchettoni romantici dell’epoca o in liberali illuministi “de sinistra”. Insomma, sono sicuro che i due, se fossero vivi oggi, nel XXI secolo, pur di non dare soddisfazione a tali inquisitori, scapperebbero lontano un miglio, gambe in spalla, dalle sezioni/circoli/club dei partiti cosiddetti “marx-engelsiani” d’oggi o da un qualunque centro sociale o circolo ARCI “de sinistra” presente nel territorio italiano-europeo. I due, il giorno delle elezioni, probabilmente organizzerebbero una bella gita al lago o altro, ma non voterebbero mai Bertinotti, Vendola o Ferrero, l’elogiatore delle “compagne” Pussy Riot! L’odierna sinistra, maestra di anacronismo/revisionismo, travisa il pensiero dei due filosofi, sposandolo con ideologie liberal-individualiste atte a manipolare l’individuo e il suo esser “animale comunitario”. Oggi in sintesi, mi duole ammetterlo, un marxista – pur condannando l’omofobia e ogni violenza/sfruttamento ai danni di donne e uomini, non solo donne – sarebbe distante anni luce dall’odierna sinistra, ormai funzionale al sistema e declassata a stampella dell’odierna eurocrazia liberista.



[3] Franco Restaino, Il pensiero femminista. Una storia possibile, in Adriana Cavarero e Franco Restaino, Le filosofie femministe, Milano, Mondadori, 2002, p. 36.

[4] Ibidem.

[5] Anne Koedt, The Myth of the Vaginal Orgasm, in M. Schneir (a cura di), The Vintage Book of Feminism, Ldon, 1995, pp. 371, 372, cit. in Franco Restaino, Il pensiero femminista. Una storia possibile, in Adriana Cavarero e Franco Restaino, Le filosofie femministe, cit., p. 39.

[6] The Woman – Identified Woman, New York, 1970, in in M. Schneir (a cura di), The Vintage Book of Feminism, London, 1995, p. 163.

[7] Franco Restaino, Il pensiero femminista. Una storia possibile, in Adriana Cavarero e Franco Restaino, Le filosofie femministe, cit., p. 41.

[8] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere Complete, vol. 43, Lettere 1868-1870, lett. n. 195, pag.349, Editori Riuniti, Roma, 1975. Johann Baptist von Schweitzer (1833-1875), socialista, fu condannato nel 1862 a due anni di carcere per “proposte omosessuali”. Cfr. Hubert Kennedy, Johann Baptist von Schweitzer: the queer Marx loved to hate, i “Journal of Homosexuality”, a. XXIX, n. 2-3, 1995, pp. 69-96.

[9] Nel testo originale della lettera, in tedesco, c’è un gioco di parole tra schwüle e schwul [finocchio].

[10] Marx-Engels Werke, Band 32, Diet Verlag, Berlin (Pankow) 1965, vol. 38, pp. 30-31, ed. it. Opere, vol. 43, Editori Riuniti, Roma 1972.

[11] Carteggio Marx-Engels, Editori Riuniti, Roma 1972, vol. 5, p. 325.

[12] Fabio Giovannini, Comunisti e diversi. Il Pci e la questione omosessuale, Bari, Dedalo, 1981.

Warum Sprachen sterben

Warum Sprachen sterben

von Niels Krautz

Ex: http://www.blauenarzisse.com

 Rund 3.000 Sprachen sind weltweit laut der UNESCO vom Aussterben bedroht. Es geht um weit mehr als Exotik: Sterben die Sprachen, verschwinden auch die Völker.

Es gibt viele von ihnen: nicht nur in Europa, sondern auch in Asien, Amerika und Ozeanien. Aber keiner muss in die Ferne schweifen. Auch hier in Deutschland sind sie zu sehen, auf Schildern, in Ämtern und in Schulen. In Europa und Vorderasien heißen sie unter anderem Aragonesisch, Istriotisch, Gälisch oder auch Karaimisch. Sie muten meist etwas seltsam an und man hört sie kaum noch. Die Rede ist von bedrohten Sprachen und Dialekten.

Manche Ursprachen leben bis heute fort

Vor circa 50.000 Jahren entwickelte sich laut dem US-​amerikanischen Linguisten Merritt Ruhlen in Afrika die erste Sprache der Menschheit, welche nur aus einigen Lauten zusammengesetzt war. Anderen Forschern zufolge soll der gemeinsame Vorfahre von Mensch und Neandertaler die ersten Worte bereits vor rund 500.000 Jahren geäußert haben. Im Laufe der Jahrhunderte hat sich unsere Sprache immer weiter gewandelt. Neue Wörter kamen hinzu, die Räume flossen ineinander über. Oder sie wurden umgewandelt, um der jeweiligen Sprache besser zu dienen.

Allein der germanische Sprachraum umfasst nicht nur Europa, sondern auch Teile Amerikas und Vorderasiens. Aus ihm bildeten sich tausende von Dialekten heraus und dazu viele Sprachen, die wir heute noch abgewandelt sprechen. Doch zahlreiche von ihnen gingen im Lauf der Jahrhunderte verloren. Oder sie wurden so stark verändert, dass ihre Ursprungsform kaum noch zu erkennen ist.

Das Sterben der Sprachen ist kein Schicksal

Man könnte meinen, es sei der Lauf der Welt, dass Sprachen kommen und gehen. Doch das stimmt nicht ganz. In der modernen Welt halten sich Sterben und Neuentstehen nicht mehr in der Waage. Fast 2.000 Sprachen existieren weltweit, die von weniger als 1.000 Menschen gesprochen werden. In Amerika und Australien sind sogar 100 bis 200 vom Aussterben bedroht. Die Vorherrschaft einiger weniger Sprachen übt zunehmenden Druck auf andere aus. Englisch ist sicher eine der dominantesten davon. Auch die Mobilität der Volksgruppen und enge Kontakte der sozialen Netzwerke spielen dabei eine große Rolle.

Diese Entwicklung lässt sich am Beispiel der irischen Sprache – Gaeilge in der seit 1948 geltenden Orthografie – betrachten. Durch die große Hungersnot im 19. Jahrhundert und die darauf folgende Emigration zahlreicher Iren in die neue Welt reduzierte sich die Anzahl der Irisch sprechenden Menschen um 1,5 Millionen.

Das Irische konnte vorerst gerettet werden

Eltern brachten ihren Kindern die englische Sprache näher, damit sie in der besetzten Heimat bessere Chancen auf einen Arbeitsplatz hatten. Dadurch verdrängte Englisch zunehmend die irische Sprache. Sie wurde in der Öffentlichkeit nur noch als Sprache der Unterschicht angesehen.

Wiederbelebungsmaßnahmen wurden nach der Unabhängigkeit Irlands im Jahre 1922 eingeleitet, als sich das Land von der englischen Herrschaft befreite. Verschiedene Fördervereine des Irischen entstanden, zum Beispiel der „Conradh na Gaeilge“, was soviel heißt wie „Liga des Irischen”. Der Zensus von 2006 ergab jedoch, dass nur noch 1,66 Millionen Menschen, also 40,8 Prozent der Bevölkerung, irisch sprechen konnten. Davon waren höchstens 70.000 Muttersprachler, welche die Sprache aber nicht täglich gebraucht haben. Irland versucht daher die sinkende Tendenz der Irisch sprechenden Einwohner zu bremsen. Schilder, Amts– und Straßennamen wurden mit der englischen sowie der irischen Sprache beschriftet. In den Schulen wird in der eigentlichen Landessprache unterrichtet. Eine kleine Trendwende wurde damit zumindest geschaffen.

In Japan blieb die Sprachpolitik erfolglos

Die Förderung der gälischen Sprachen, wozu auch Irisch zählt, sind länderübergreifend. Denn auch Länder wie Schottland, Wales oder die Bretagne haben sinkende Zahlen, der die keltischen Dialekte sprechenden Bevölkerung zu verzeichnen und versuchen, diese Tendenz zu stoppen.

Ein drastisches außereuropäisches Beispiel ist die Sprache der Ainu. Dieses Volk lebt auf der Insel Hokkaido an der Nordspitze der japanischen Hauptinsel. Die Ainu unterscheiden sich ethnisch, kulturell und auch sprachlich von den Japanern. Ende der 1980er Jahre soll es nur noch 15 kompetente Ainu-​Sprecher gegeben haben. Daher kann die Sprache als nahezu ausgestorben gelten. 1997 jedoch erließ Japan das Ainu-​Gesetz, welches die Förderung und Unterstützung der Ainu-​Sprache und des kulturellen Erbes dieses kleinen Volkes beinhaltete. Doch viele Sprachwissenschaftler fürchten, dass der Verlust dieser einzigartigen Sprache nicht mehr aufzuhalten sei trotz der Bemühungen der japanischen Regierung.

Sprachimperialismus führt zum Sprachmord

Ein Großteil dieser Forscher sieht den Kulturimperialismus vieler großer Nationen des 19. Jahrhunderts als ausschlaggebend für das Sprachsterben an. Kleinere Völker wie die Ainu und die Iren sind folglich die Leidtragenden der Kulturdominanz großer Volksgruppen. Zu Recht sprechen viele von einem sogenannten „Linguizid“, einem „Sprachmord“.

Durch die stark ausgeprägte Dominanz des US-​amerikanischen Englisch in Nordamerika stehen auch dort viele kleinere Ureinwohnersprachen vor dem Aussterben. Es handelt sich also nicht nur um ein Sprach-​, sondern auch ein Kultursterben. Die Sprachgruppe des ehemals großen Stammes der Schoschonen, der in der mittleren USA beheimatet ist, gilt laut dem UNESCO Atlas of the World’s Languages in danger als stark bedroht. Denn es gibt nur noch ein paar tausend Menschen, die diese traditionsreiche Sprache sprechen. Doch bisher wurde kein landesweites Gesetz erlassen, welches das Sprachsterben indigener Völker verhindern könnte. Vor allem die Vereinten Nationen verabschiedeten eine Vielzahl internationaler Gesetze, welche die Rechte indigener Völker bewahren sollten. Ob sich die nationalen Regierungen daran zwangsläufig halten müssen, steht freilich auf einem anderen Blatt.

Auch in Deutschland stirbt die Sprachvielfalt

Das Sprachsterben und auch das Dialektsterben bleiben jedoch nicht nur ein Problem kleinerer Völker und Kulturen. Denn auch in Deutschland ist der Dialekt rückläufig. Der starke Einfluss hochdeutscher Medien und die Mobilität der Bevölkerung vermischen die verschiedenen Dialektvarianten. Daher gibt es einen starken Rückgang aller gesprochenen Dialekte in Deutschland. So wurden 2009 13 deutsche Regionalsprachen, darunter auch Kölsch und Bairisch, von der UNESCO als vom Aussterben bedroht gemeldet.

200 Sprachen sind demnach während der letzten Generationen ausgestorben, etwa 1.700 sind ernsthaft gefährdet, etwa 600 werden kaum noch gepflegt. Der stellvertretende Direktor des „Living Tongues Institute“ für bedrohte Sprachen in Washington, Robert Harris, erklärte: „Wenn wir eine Sprache verlieren, verlieren wir Jahrhunderte menschlichen Denkens über Zeit, Meerestiere, Rentiere, essbare Pflanzen, Mythen, Musik, das Unbekannte und das Alltägliche.“ Stirbt eine Sprache, dann verschwindet weitaus mehr als ein paar Vokabeln.

Bild: Zweisprachiger Wegweiser in Irland /​flickr​.com /​wolfgangplusk /​CC BY-​NC-​ND 2.0

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Ambiguïtés turques

Recep-Tayyip-Erdogan.jpg

Ambiguïtés turques

par Jean-Paul Baquiast
Ex: http://www.europesolidaire.eu/
 
Aux yeux des Européens un tant soit peu avertis, la Turquie demeure une énigme enveloppée de mystère, pour paraphraser la formule de Churchill. Ceci explique que les efforts des Etats-Unis pour pousser l'Union européenne à intégrer la Turquie n'aient pas encore eu d'échos. Mais le mystère, ou si l'on préfère, les ambiguïtés de la Turquie en font que s'accroitre.
 
Obama, ce grand stratège, l'avait le 15 septembre incluse, apparemment sans guère la consulter, dans les 50 Etats qu'il voulait engager dans la guerre contre le soi-disant Etat islamique (Isis). A ce jour, le rôle de la Turquie dans cette coalition hétéroclite demeure, lui aussi, une énigme enveloppée de mystère. On a pu à juste titre parler d'ambiguïté turque. Ceci pour deux raisons

La première est que la Turquie, comme son gouvernement actuel (les opposants, militaires comme magistrats voire blogueurs étant en prison ou menacés de poursuites), demeure fondamentalement les bastions d'un islamisme de plus en plus conservateur, mais néanmoins conquérant. Le mythe d'un président Erdogan champion d'un islamisme modéré a depuis longtemps fait long feu. Le mariage adultère entre la religion et la politique a une fois de plus révélé ses effets néfastes pour la démocratie et ses valeurs, notamment le droit des femmes à l'égalité. Il est aujourd'hui pratiquement devenu impossible à une femme, autre qu'une touriste, de circuler dans une ville turque non voilée et d'échapper aux harcèlements .

La seconde tient à la question du Kurdistan. Malgré les affirmations officielles, la Turquie craint comme la peste la constitution d'un grand Kurdistan indépendant qui l'amputerait d'une partie de son territoire et de son influence régionale. Elle ne peut donc pas participer à une coalition comportant des représentants et combattants provenant du Kurdistan irakien semi-autonome. Elle soupçonne non sans raisons que reconnaître la légitimité de la lutte des peshmergas contre Isis, voire les armer, renforcerait l'audience du parti laïc des Travailleurs Turcs (PKK) que le gouvernement n'a cessé de combattre, plus ou moins ouvertement.

Or aujourd'hui, pour contrer l'influence du PKK et faire repousser indéfiniment la création d'un Grand Kurdistan, il semble que le gouvernement et ses services secrets encouragent des minorités kurdes engagées aux cotés de l'Isis dans la lutte contre les Américains et leurs alliés européens. C'est ainsi qu'une manifestation de "soutien au peuple syrien" qui s'est vite transformée en manifestation de soutien à Daesh (Isis)) vient d'avoir lieu à Istanbul en Turquie, sous les yeux de policiers turcs parfaitement passifs, sinon plus. .

Manifestations de soutien

« En traversant les rues du quartier Fateh à Istanbul, les manifestants ont arboré les drapeaux et des slogans Daesh, et affirmaient vouloir soutenir ceux qui ont combattu pour le jihad en Irak et en Syrie et qui sont tombés en martyre pour Dieu », ont rapporté des médias turcs, selon le journal égyptien al-Ahram. Les manifestants ont également scandé des slogans hostiles à l'impérialisme américain.

L'appel à ce rassemblement a été lancé par un mouvement turc qui se fait appeler le Hezbollah turc. Il y a de tout chez les Kurdes, bien sûr. Il s'agit en fait d'une organisation kurde armée qui a été fondée à la fin des années 1970 du siècle dernier pour faire face au PKK. Elle s'est fait remarquer par sa violence non seulement contre ce dernier, mais aussi contre ceux qui s'opposent à elle.

Le PKK n'est pas dupe. Il a lancé une mise en garde au gouvernement turc l'accusant de mener une guerre contre le peuple kurde, et menaçant de reprendre la lutte armée à partir du mois prochain. Il s'était précédemment élevé contre le refus turc de laisser passer des combattants kurdes vers la région syrienne de Hassaké pour prêter main forte à la communauté kurde persécutée par Isis.

On pourrait en conclure que la Turquie n'est pas prête à renoncer aux bonnes relations non-dites qu'elle entretient avec les islamistes de l'Isis. Voici encore un nouveau souci pour Obama, et aussi d'ailleurs pour nous-mêmes Européens. Nous ne pouvons pas oublier les frontières communes et les liens commerciaux nombreux que nous entretenons avec la Turquie, non plus que le nombre considérable de travailleurs turcs employés en Europe, notamment en Allemagne. On sait d'ailleurs que la police allemande a du récemment intervenir dans certains villes pour interdire la circulation de véhicules proclamant avoir imposé la sharia dans ces villes et rappelant la nécessité du port, tant de la barbe islamique pour les hommes que du voile intégral pour les femmes.

NB

Voir aussi un article encore plus pessimiste traduit de Moon of Alabama
http://www.vineyardsaker.fr/2014/10/02/syrie-plans-turquie-autres-pensees-confuses/

 

Post-scriptum au 03/10.La presse: Le Parlement turc a approuvé jeudi 02 à une très large majorité une motion autorisant l'intervention de l'armée turque en Syrie et en Irak,. A suivre donc, pour apprécier le degré d'engagement de l'armée. Celle-ci, nous l'avons rappelé, est restée traditionnellement laïque, malgré les répressions ...Sera-t-elle soutenue par le président Erdogan?

Jean Paul Baquiast

Perspectives pour l'année 2030...

Perspectives pour l'année 2030...

par Frédéric Malaval

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Nous reproduisons ci-dessous un point de vue de Frédéric Malaval, cueilli sur Polémia et consacré aux années 2030, qui, pour l'auteur, seront probablement une période de basculement du système...

 

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Année 2030

De plus en plus de Français attendent un changement drastique, pas seulement de politique, mais de société. Une majorité cependant ne le souhaite pas, confortant à chaque élection les partis dits de gouvernement. Jamais le fossé entre ces deux catégories n’a paru aussi large.

Aussi se pose désormais la question, non pas de la nature du changement, mais du moment de ce changement. La réponse avancée par ce texte est que les conditions seront réunies autour des années 2030, soit dans quinze ans.

Pour argumenter cette prophétie nous allons – brièvement – nous intéresser aux évolutions majeures que le territoire français européen a connues depuis 1945. Cette rétrospective sera nourrie d’une approche écologique, donc écosystémique. Aussi, avant de s’accorder sur ces grandes mutations, devons-nous exposer sommairement les fondements de l’écologie et particulièrement de la dynamique des populations, néologisée en « démécologie ». En effet, la conclusion avancée par ce texte repose essentiellement sur la prise en compte des conséquences de la vague démographique qualifiée de baby-boom sur notre société.

Ecologie

Pourquoi recourir à l’écologie pour tenter d’estimer les conditions d’un changement majeur de la société française ? Une réponse est que l’écologie permet de l’envisager comme un écosystème. Ce modèle, pierre angulaire de cette discipline, est la résultante d’interactions entre des populations entre elles et avec leur milieu. La conséquence en est des rapports trophiques, c’est-à-dire que les uns fournissent les ressources aux autres et réciproquement. La taille d’une population dépend donc des ressources auxquelles elle accède. Exemple : les lions mangent des zèbres qui mangent de l’herbe. S’il n’y a pas beaucoup d’herbe, il n’y a pas beaucoup de zèbres et donc pas beaucoup de lions. C’est très schématique. De ces interactions découlent la croissance ou la décroissance de la population concernée. Ces changements sont modélisés par les équations de Lotka-Volterra. Appelées aussi « modèles proie-prédateur », ces équations sont couramment utilisées pour décrire la dynamique de systèmes biologiques dans lesquels des populations interagissent.

La nature d’un écosystème quel qu’il soit est donc largement définie par les rapports entre des populations interagissant entre elles. Cette approche transposée à l’analyse des écosystèmes artificiels que sont par nature les sociétés humaines, surtout à nos latitudes septentrionales, permet d’identifier la ou les populations, ou la ou les classes de population, déterminantes comme facteurs structurants de l’écosystème. C’est un des préalables à toute tentative d’estimer leurs évolutions. Deux phénomènes paraissent incontournables si on étudie sur une période longue la société organisée sur le territoire français : la vague baby-boom d’une part, la vague migratoire extra-européenne d’autre part.

Cette vague baby-boom aura pesé comme aucune autre jusqu’alors sur les structures de notre pays, en tant que juvéniles, adolescents, jeunes gens, puis adultes. Ils n’ont pas fait beaucoup d’enfants.

Le baby-boom

La vague baby-boom commence au milieu des années 1940 pour se terminer au début des années 1960. Les chiffres sont connus, il n’est pas nécessaire de revenir dessus. Relevons simplement que ce baby-boom a concerné essentiellement une population européenne, donc de race blanche, et que cette croissance a suscité d’énormes inquiétudes, peut-être à l’origine de l’atonie démographique qu’elle a assumée. Né à la fin de cette vague, je me rappelle très bien que nos manuels de géographie au collège envisageaient 100 millions d’habitants à l’horizon 2000. Nous en sommes loin. Si croissance il y a eu, elle n’est pas due à la population de souche mais aux apports migratoires extra-européens, surtout africains, et à leurs développements sur le territoire de la France européenne.

En étudiant plus finement la croissance de la population de souche, il appert que cette vague baby-boom est venue compenser les déficits démographiques de la fin du XIXe et de la première moitié du XXe. S’il y a eu croissance de la population aborigène ensuite, cela est dû à l’augmentation de la durée de la vie, conséquence de la surartificialisation de notre écosystème. Cette surartificialisation a permis à des gens âgés ou malades de vivre alors qu’ils auraient été condamnés dans un contexte moins artificialisé, donc plus naturel. Il est à peu près évident que le nombre de reproducteurs de souche, c’est-à-dire les adultes en âge de se reproduire naturellement et d’élever leur progéniture jusqu’au stade de reproducteurs, est, aux variations près, à peu près stable depuis la moitié du XIXe siècle.

Mais au sein de cette population – c’est-à-dire au regard de l’écologie, un ensemble d’individus semblables –, cette vague baby-boom est surreprésentée dans les composantes de la population… de souche. Nous parlerons plus loin de l’immigration extra-européenne, mais avant cela il est nécessaire de saisir le rôle que cette génération a eu dans la structuration de notre écosystème France. Son poids démographique a été en effet décisif pour conduire les mutations que les uns déplorent et que les autres louent.

De 1945 à aujourd’hui

En 1945, le territoire français vient de subir deux événements fondamentaux. Le premier est la débâcle de 1940 ; le second est la submersion US de 1944. Une conséquence majeure est que la classe dirigeante française issue des rapports de force endogènes est éliminée dans l’après-guerre. Exécutions, condamnations, ostracisations caractérisent cette Epuration conduite sous l’œil des autorités US. Mais cela pose un problème : excepté quelques figures entrées au Panthéon de l’histoire de la République, notre pays n’a plus les cadres pour le diriger.

Fort opportunément, les Etats-Unis et leurs affidés locaux vont engager un processus de promotion méritocratique dans les couches les plus modestes de la population indigène ou installée récemment. C’est l’époque du « J’suis parti de rien, regardez c’que j’suis devenu… » moqué dans un sketch aux mille lectures associant Guy Bedos et Michel Sardou (*). Ce processus s’amplifiera avec l’arrivée dans ce mouvement de la génération baby-boom qui opportunément adhérera sans retenue à l’américanisation de la société française. Simultanément, un travail de sape méthodique détruit les reliquats de la société française traditionnelle ayant survécu aux secousses d’après-guerre.

Du baby-boom au papy-boom

Les membres de cette génération nés à partir de 1945 ont aujourd’hui environ 70 ans. Dans nos sociétés hyper-médicalisées, c’est l’âge auquel les soucis sérieux commencent à handicaper les individus jusqu’alors en bonne santé. Pour un homme, il restera en moyenne 12 ans à vivre et pour une femme 17 ans. Mais les effets de l’âge obligent à lever le pied, la vigueur d’antan n’est alors plus qu’un souvenir. Pour la génération baby-boom née au début des années 1960, cela signifie qu’à partir de 2030, nous n’aurons plus l’énergie pour structurer la société française que notre poids démographique a permis car nous serons alors dans la tranche des 70 ans. Le papy-boom sera alors la conséquence de ce baby-boom ayant fait la société française depuis 1945.

En effet, cette vague démographique est à l’origine de toutes les mutations que notre territoire a connues depuis la fin de la guerre. A cette époque leur arrivée a obligé à concentrer beaucoup ressources sur eux : allocations familiales, écoles, etc., puis, à l’âge pré-adulte, ils ont fourni d’importants contingents aux dirigeants de Mai-68 à l’origine de la société libérale-libertaire ayant sapé les fondements de la société française traditionnelle. Ce sont eux qui depuis portent alternativement aux affaires des gouvernements mondialistes sous étiquette UMP-PS. Ce sont eux qui, pour satisfaire leurs ambitions sociales, ont accepté l’immigration extra-européenne chargée d’occuper, entre autres, les espaces sociaux qu’ils ont désertés. Ce sont eux qui se sont construit des rentes à tous les niveaux. Ce sont eux qui n’ont pas eu d’enfants, préférant parler de sexe plutôt que de supporter pendant des années les réveils nocturnes pour cauchemar ou pipi au lit. Etc. Mais ils ont travaillé, beaucoup travaillé, permettant un développement économique sans précédent.

C’est cette génération qui aura véritablement fait l’histoire du territoire de 1945 à 2030 dont il faut maintenant envisager la fin, ouvrant l’espace à toutes les possibilités. Une des plus importantes à prendre en compte est le changement radical de la population vivant sur le sol de la Ve République. En effet, l’immigration extra-européenne a coïncidé avec cette vague démographique endogène. Ces immigrés sont majoritairement arrivés à partir des années 1970, époque où la génération baby-boom, elle, entrait dans la maturité.

Aujourd’hui, les immigrés – envisagés comme des personnes de souche extra-européenne –, qu’ils aient ou non la citoyenneté française, sont évalués à une quinzaine de millions en France européenne. Ce chiffre est peut-être plus bas ou plus haut. Il n’existe pas de statistique lisible sur ce thème. C’est une population majoritairement jeune, ayant profondément bouleversé la physionomie de la population française historique, à quasiment 100% européenne jusque dans les années 1970. On ne développera pas ici les raisons de cette présence, mais on admettra seulement qu’ils représentent environ de 20 à 25% de la population résidente actuelle. Les couches âgées étant majoritairement de souche, ce pourcentage ne peut que croître dans les années suivantes, même en bloquant les apports extérieurs. De nombreuses écoles de grandes métropoles n’ont plus de sujets de souche européenne dans leurs effectifs.

Pendant ce temps, la génération baby-boom arrive à son terme. Ceux nés à partir de 1945 commencent à mourir ou ne sont pas bien en forme ; ceux nés autour de 1960 n’ont plus qu’une quinzaine d’années devant eux. Après, l’effet structurant de cette génération va s’estomper brutalement, laissant aux forces sociales en émergence la possibilité de se déployer.

Quel avenir après 2030 ?

Autant il est envisageable d’estimer le moment des bifurcations écosystémiques majeures, autant il est quasiment impossible de savoir quelles formes elles prendront. L’Ecologie a bien quelques certitudes sur les principes de fonctionnement des écosystèmes, mais cette science est encore balbutiante et n’est pas reconnue par des institutions inféodées aux espérances de la Modernité mondialiste. Donc, on ne peut prétendre à la même rigueur scientifique que des disciplines installées antérieurement. Mais, selon l’adage : « La philosophie précède la science », rien n’empêche d’être imaginatif. Alors philosophons…

La pensée cardinale de l’Ecologie est que toute manifestation du vivant est la résultante d’interactions avec le Milieu ayant engendré les formes et comportements identifiés. Résultat de millénaires de sélection naturelle, nos patrimoines génétiques sont donc très conservateurs et nous portent à engendrer le semblable. C’est le principe de la reproduction. Ce réductionnisme génétique est une des conclusions majeures des travaux menés par les sociobiologistes. Donc les formes divergentes, si elles n’ont pas surmonté les filtres de la sélection naturelle, disparaîtront au même titre que celles incapables de s’adapter aux mutations écosystémiques. L’Ecologie nous enseigne aussi que toute population – rappel : ensemble d’individus semblables – favorise la survie de ses reproducteurs. Donc, si un non-reproducteur n’a aucune vocation à soutenir les reproducteurs, il disparaît. L’Ecologie thermodynamique garantit, en outre, que les écosystèmes les plus stables sont ceux les plus efficaces énergétiquement. Cela signifie que toute organisation énergivore sans contre-partie écosystémique avérée est condamnée à plus ou moins brève échéance. Une autre certitude de l’Ecologie est qu’une population donnée croît jusqu’à atteindre un état d’équilibre avec le territoire dans lequel elle s’insère et dont elle est issue. Les excédents sont rapidement lissés. Limitation des ressources, anomalies climatiques, prédation, conflits, épidémies, etc., contribuent à cet équilibre fluctuant.

Les humanistes postulent que l’Homme échappe aux lois de la nature et ils invoquent un réductionnisme naturaliste pour contester les vues des écologues. Ces derniers répondent que nous pouvons effectivement en retarder un temps la portée par une surartificialisation de nos pratiques sociales, mais que cela ne pourrait être durable. Pour illustrer cet antagonisme irréductible de la philosophie occidentale, imaginons le futur d’une pomme lancée en l’air… Elle retombe sur le sol. Tout le monde s’accorde là-dessus. Imaginons maintenant un humain lancé en l’air dans les mêmes conditions. Il retombera lui aussi sur le sol. Si cet humain est mis dans un aéronef, il pourra se maintenir en l’air, mais alors aux conditions déterminées par cet aéronef. Si ce dernier défaille, alors notre bonhomme retournera par terre avec toutes les conséquences imaginables. L’artificialisation de l’écosphère est le biais permettant de suspendre temporairement les manifestations de lois de la nature irrépressibles. Cependant, si cette artificialisation se révèle dangereuse, elle sera limitée. Une crise, quelle qu’elle soit, viendra rétablir les équilibres transgressés fragilisant l’avenir des populations concernées.

Pour éclairer ces quelques perspectives jetées en vrac, et tout en étant conscient que cela risque de déranger le lectorat de ces lignes, c’est ainsi qu’il faut se poser la question de l’islamisation potentielle des sociétés historiques d’Europe de l’Ouest. Si l’Islam porte en lui des réponses écosystémiques favorisant la perpétuation des populations de souche européenne confrontées aujourd’hui à des pratiques délétères, alors demain nous serons musulmans. Si nous trouvons en nous les forces pour surmonter les défis actuels, alors nous ne serons pas musulmans. Mais quoi ?

On a quinze années pour l’imaginer.

Frédéric Malaval (Polémia, 27 septembre 2014)

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Insubmersible Japon...

Insubmersible Japon...

Le troisième numéro de la revue Conflits, dirigée par Pascal Gauchon, et dont le dossier est consacrée au Japon, vient de sortir en kiosque.

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Au sommaire :

ENTRETIEN Martin Motte: La « Jeune École» de la géopolitique Propos recueillis par Pascal Gauchon

PORTRAIT Ahmet Davutoglu, prophète de l'ottomanisme Par Tancrède Josseran

POLÉMIQUE Fêtons Waterloo! Par Pierre Royer

ENJEUX Europe des régions ou Europe contre les régions Par Hadrien Desuin

ENJEUX Un État fantôme dans la Corne de l'Afrique Par Tigrane Yégavian

ENJEUX La route du Grand Nord sera-t-elle ouverte? Par Jean-Marc Huissoud

GRANDE STRATÉGIE La Suède: géopolitique d'une grande petite puissance Par Éric Mousson-Lestang

BATAILLE La Marne. La première bataille des peuples Par Pierre Royer

IDÉES Jean-Baptiste Duroselle Une pensée française Par Thibaut Mardin

SYNTHÈSE Chine, Inde, Russie Par Frédéric Pichon

GRANDE CARTE Chine, Inde, Russie

 

DOSSIER Insubmersible Japon

N'enterrez pas le Japon Par Pascal Gauchon

LE MOT DU PHILOSOPHE Par Fdéric Laupies

L'Archipel face au monde Par Jean-Marie Bouissou

Le pays qui ne fait pas (vraiment) repentance Par Thierry Buron

Soft Power Defense Par le Vice-Amiral Fumio Ota

Japon: une armée comme les autres? Par Guibourg Delamotte

Un pays entouré d'ennemis? Par Michel Nazet

Les Abenomics, une thérapie de choc pour le Japon? Par Cédric Tellenne

Le pays où le vieillissement n'est pas une catastrophe Par Julien Damon et Pascal Gauchon

L'identité japonaise au risque de la mondialisation

PAYSAGE Le Kenroku-en, l'âme du Japon de l'envers Par Yves Gervaise

L'HISTOIRE MOT À MOT "Wakon yosaï" Par Pierre Roye

 

* * *

RECENSION Robert D. Kaplan: Le réalisme appuyé sur la géographie Propos recueillis par Christophe Révelllard

ENJEUX Réarmement mondial, désarmement de l'Europe Par John Mackenzie

CHRONIQUES livres/revues/internet/cinéma/tv/jeux

GÉOPO-TOURISME Bruxelles, capitale de quoi? Par Thierry Buron