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vendredi, 24 avril 2015

LUOGHI SANTI E “STATO ISLAMICO”

LUOGHI SANTI E “STATO ISLAMICO”

Claudio Mutti

Ex: http://www.eurasia-rivista.org  

timbuktu-rare-manuscripts-burned-by-islamic-radicals-2013.jpgSecondo una definizione complessiva che intende sintetizzare quelle fornite dai vari studiosi, la geopolitica può essere considerata come “lo studio delle relazioni internazionali in una prospettiva spaziale e geografica, ove si considerino l’influenza dei fattori geografici sulla politica estera degli Stati e le rivalità di potere su territori contesi tra due o più Stati, oppure tra diversi gruppi politici o movimenti armati”(1).
Per quanto grande sia il peso attribuito ai fattori geografici, permane tuttavia il rapporto della geopolitica con la dottrina dello Stato, sicché viene spontaneo porsi una questione che finora non ci risulta aver impegnato la riflessione degli studiosi. La questione è la seguente: sarebbe possibile applicare anche alla geopolitica la celebre affermazione di Carl Schmitt, secondo cui “tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”(2)? In altre parole, è ipotizzabile che la stessa geopolitica rappresenti la derivazione secolarizzata di un complesso di concetti teologici connessi alla “geografia sacra”?
Se così fosse, la geopolitica si troverebbe in una situazione per certi versi analoga non soltanto alla “moderna dottrina dello Stato”, ma alla generalità delle scienze moderne. Per essere più espliciti, ricorriamo ad una citazione di René Guénon: “Separando radicalmente le scienze da ogni principio superiore col pretesto di assicurar loro l’indipendenza, la concezione moderna le ha private di ogni significato profondo e perfino di ogni interesse vero dal punto di vista della conoscenza: ed esse son condannate a finire in un vicolo cieco, poiché questa concezione le chiude in un dominio irrimediabilmente limitato”(3).
Per quanto riguarda in particolare la “geografia sacra”, alla quale secondo la nostra ipotesi si ricollegherebbe in qualche modo la geopolitica, è ancora Guénon a fornirci una sintetica indicazione al riguardo. “Esiste realmente – egli scrive – una ‘geografia sacra’ o tradizionale che i moderni ignorano completamente così come tutte le altre conoscenze dello stesso genere: c’è un simbolismo geografico come c’è un simbolismo storico, ed è il valore simbolico che dà alle cose il loro significato profondo, perché esso è il mezzo che stabilisce la loro corrispondenza con realtà d’ordine superiore; ma, per determinare effettivamente questa corrispondenza, bisogna esser capaci, in una maniera o nell’altra, di percepire nelle cose stesse il riflesso di quelle realtà. È per questo che vi sono luoghi particolarmente adatti a servire da ‘supporto’ all’azione delle ‘influenze spirituali’, ed è su ciò che si è sempre basata l’installazione di certi ‘centri’ tradizionali principali o secondari, di cui gli ‘oracoli’ dell’antichità ed i luoghi di pellegrinaggio forniscono gli esempi esteriormente più appariscenti; per contro vi sono altri luoghi che sono non meno particolarmente favorevoli al manifestarsi di ‘influenze’ di carattere del tutto opposto, appartenenti alle più basse regioni del dominio sottile”(4).
Non è dunque detto che una traccia della “geografia sacra” non sia individuabile in alcune caratteristiche nozioni geopolitiche, che potrebbero essere perciò schmittianamente considerate “concetti teologici secolarizzati”. Si pensi, ad esempio, ai termini Heartland (“territorio cuore”) e pivot area (“area perno”), i quali, riprendendo alcune rappresentazioni d’origine asiatica che circolavano nei circoli fabiani frequentati da Mackinder, richiamano in maniera esplicita il simbolismo del cuore ed il simbolismo assiale e ripropongono in qualche modo quell’idea di “Centro del Mondo” che gli antichi rappresentarono attraverso una varietà di simboli, geografici e non geografici. Più volte ci si è offerta l’occasione per osservare che, se la scienza delle religioni ha mostrato che l’homo religiosus “aspira a vivere il più possibile vicino al Centro del Mondo e sa che il suo paese si trova effettivamente nel centro della superficie terrestre”(5), questa idea non è scomparsa con la visione “arcaica” del mondo, ma è sopravvissuta in modo più o meno consapevole in contesti storico-culturali più recenti(6).
D’altra parte, fra i termini geografici ve ne sono alcuni che le culture tradizionali hanno utilizzato per designare realtà appartenenti alla sfera spirituale. È il caso del termine polo, che nel lessico dell’esoterismo islamico indica il vertice della gerarchia iniziatica (al-qutb); è il caso di istmo, che nella versione araba (al-barzakh) indica quel mondo intermedio cui si riferisce anche l’espressione d’origine coranica “confluenza dei due mari” (majma’ al-bahrayn), “confluenza, cioè, del mondo delle Idee pure col mondo degli oggetti sensibili”(7).
Ma è lo stesso concetto di Eurasia che può essere assegnato alla categoria dei “concetti teologici secolarizzati”. Da una parte, infatti, la cosmologia indù e buddhista rappresenta l’Asia e l’Europa come un unico continente che ruota intorno all’asse della montagna cosmica; dall’altra, il più antico testo teologico dei Greci, la Teogonia esiodea, considera “Europa (…) ed Asia”(8) come due sorelle, entrambe figlie di Oceano e di Teti, sicché esse appartengono alla “sacra stirpe di figlie (thygatéron hieròn génos) che sulla terra – allevano gli uomini fino alla giovinezza, insieme col Signore Apollo – e coi Fiumi: questa sorte esse hanno da Zeus”(9).
In relazione a quanto esposto dalla teologia greca, vale la pena di notare che tra le sorelle di Europa e di Asia figura anche Perseide, il nome della quale è significativamente connesso non solo a quello del greco Perseo, ma anche a quello di Perse, figlio di lui e progenitore dei Persiani. Ascoltiamo ora il teologo della storia: “Ma dopo che Perseo, figlio di Danae e di Zeus, giunse presso Cefeo figlio di Belo e sposò la figlia di lui Andromeda, gli nacque un figlio, al quale mise nome Perse; e lo lasciò lì, perché Cefeo si trovava ad esser privo di figliolanza maschile. Da lui dunque [i Persiani] ebbero nome”(10).
La stretta parentela dell’Asia con l’Europa è proclamata infine anche dal teologo della tragedia, il quale nella parodo dei Persiani ci presenta la Persia e la Grecia come due “sorelle di sangue, di una medesima stirpe (kasignéta génous tautoû)”(11), mostrandoci “gli assolutamente distinti (i Due che, in Erodoto, non possono non muoversi guerra) come alla radice inseparabili”(12). Tale è il commento di Massimo Cacciari, al quale l’immagine eschilea, rappresentativa della radicale connessione di Europa e di Asia, ha fornito lo spunto per concepire il progetto di una “geofilosofia dell’Europa”.
Altri hanno cercato di andare oltre, tracciando le linee di una “geofilosofia dell’Eurasia”. Ad esempio Fabio Falchi, accogliendo la prospettiva corbiniana dell’Eurasia quale luogo ontologico della teofania (13), ambisce a fare della posizione geofilosofica il grado di passaggio a quella “geosofica, la quale è compiutamente intellegibile se, e solo se, sia posta in relazione con la prospettiva metafisica”(14).

* * *

Se è vero che a volte nella geopolitica si possono cogliere alcune remote risonanze di motivi e nozioni appartenenti al simbolismo geografico delle culture religiose, è anche vero che il fattore religioso riveste una notevole importanza tra gli oggetti dell’analisi geopolitica. Il recente numero di “Eurasia” dedicato alla “geopolitica delle religioni” (n. 3 del 2014) ha appunto inteso mostrare come in diverse zone della terra il suddetto fattore costituisca, tra le altre cose, un parametro imprescindibile della geopolitica, specialmente nel caso di alcune odierne aree di crisi e di conflitto quali l’Ucraina, l’Iraq, la Palestina.
Il caso particolare del cosiddetto “Stato Islamico”, che insieme col caso ucraino è oggetto di più approfondita analisi in questo numero di “Eurasia”, impone all’attenzione dell’osservatore geopolitico un altro tema di rilievo: quello dei luoghi sacri, delle città sante, dei centri religiosi, delle mete di pellegrinaggio.
I luoghi di culto e i monumenti religiosi sono infatti un obiettivo privilegiato della furia distruttrice dei miliziani del sedicente “Califfo” Abu Bakr al-Baghdâdî, i quali li considerano centri di apostasia e di politeismo. Nei territori da loro controllati, infatti, sono state devastate o demolite moschee (sia sunnite sia sciite), chiese cristiane, tombe di profeti, di maestri spirituali e di uomini pii. Per limitarci a pochissimi casi emblematici, ricordiamo che a Mossul sono stati abbattuti il mausoleo del profeta Yunus e quello di San Giorgio; a Tikrit sono state fatte saltare in aria la Chiesa Verde (principale testimonianza della comunità assira, risalente al VII secolo) e la moschea dei Quaranta Santi (Wâlî Arba’în), una delle più significative testimonianze dell’architettura islamica del XIII secolo; ad Aleppo è stata ridotta in polvere la Moschea Khosrofiya, costruita nel 1537 dal grande Sinan; a Samarra è stato distrutto il mausoleo di Imam al-Dur, costruito nel 1085.
La matrice ideologica di tali azioni è evidente. Esse costituiscono una replica delle distruzioni dei siti storici e cultuali dell’Islam perpetrate in Arabia dai wahhabiti, in base alle teorie che condannano la dottrina dell’intercessione (tawassul) e assimilano all’idolatria la pia visita ad un luogo in cui sia sepolto un profeta o un santo. Nella penisola arabica le devastazioni più gravi dei siti aventi rilievo religioso o storico ebbero inizio nel 1806, quando l’esercito wahhabita occupò Medina: allora furono abbattute parecchie moschee e venne distrutto il cimitero di Baqi’ (Jannat al-Baqi’), dove riposavano i resti mortali di importanti figure degli esordi dell’Islam. In quella circostanza, perfino il sepolcro del Profeta Muhammad rischiò la distruzione. Il 21 aprile 1925 gli Ikhwân di ‘Abd el-‘Azîz ibn Sa’ûd demolirono altri monumenti della tradizione islamica, tra cui le tombe dei familiari del Profeta. In seguito, per effetto di una fatwa emessa nel 1994 da ‘Abd el-‘Azîz ibn Bâz, mufti del regime wahhabita saudiano, sono state distrutte circa sei centinaia di cimiteri, sepolcri, moschee, oratori e siti religiosi ultramillenari, tra cui la casa natale del Profeta a Mecca e la sua casa di Medina.
Se in Arabia, in Iraq e in Siria i luoghi santi e i monumenti religiosi sono oggetto della furia wahhabita e takfirita, in Palestina l’esistenza dei santuari islamici è minacciata dal regime d’occupazione sionista. Già nel 1967, quando si impadronirono di Gerusalemme, i sionisti avviarono un programma di scavi sotto il Monte del Tempio, a sud e sudovest, in un terreno appartenente al waqf che gestisce le moschee del Haram al-sharîf. “Gli scavi, diretti da un gruppo di eminenti archeologi israeliani, furono finanziati, in parte, da filantropi ebrei e in parte dalla Chiesa di Dio, un’istituzione fondamentalista che aveva sede a Pasadena in California e ramificazioni in tutto il mondo; era diretta da un certo Herbert Armstrong, che affermava di essere uno dei messaggeri di Dio in terra”15.
L’obiettivo finale degli scavi finanziati dai “filantropi ebrei”, guidati dal Rabbinato e patrocinati dal regime sionista è la demolizione della moschea di al-Aqsa e della Cupola della Roccia, le quali sorgono sulla stessa area su cui dovrebbe sorgere il Nuovo Tempio del giudaismo.

*Direttore di “Eurasia”.

NOTE
1. Emidio Diodato, Che cos’è la geopolitica, Carocci, Roma 2011.
2. Carl Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, trad. it. di P. Schiera, in: C. Schmitt, Le categorie del politico, a cura di G. Miglio – P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, p. 61.
3. René Guénon, La crisi del mondo moderno, Edizioni dell’Ascia, Roma 1953, p. 66.
4. René Guénon, Il regno della quantità e i segni dei tempi, Edizioni Studi Tradizionali, Torino 1969, pp. 162.
5. Mircea Eliade, Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino 1967, p. 42.
6. Claudio Mutti, La funzione eurasiatica dell’Iran, “Eurasia”, 2, 2012, p. 176; Idem, Geopolitica del nazionalcomunismo romeno, in: M. Costa, Conducator. L’edificazione del socialismo romeno, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2012, pp. 5-6.
7. Henry Corbin, L’immagine del Tempio, Boringhieri, Torino 1983, p. 154. Sul barzakh, cfr. Glauco Giuliano, L’immagine del tempo in Henry Corbin, Mimesis, Milano-Udine 209, pp. 97-123.
8. Esiodo, Teogonia, 357-359.
9. Esiodo, Teogonia, 346-348.
10. Erodoto, VII, 61, 3.
11. Eschilo, Persiani, 185-186. Su questa immagine, cfr. C. Mutti, L’Iran in Europa, “Eurasia”, 1, 2008, pp. 33-34.
12. Massimo Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994, p. 19.
13. “L’Eurasia è, oggi e per noi, la modalità geografico-geosofica del Mundus imaginalis” (Glauco Giuliano, L’immagine del tempo in Henry Corbin, cit., p. 40).
14. Glauco Giuliano, Tempus discretum. Henry Corbin all’Oriente dell’Occidente, Edizioni Torre d’Ercole, Travagliato (Brescia) 2012, p. 16.
15. Amos Elon, Gerusalemme, città di specchi, Rizzoli, Milano 1990, p. 256.

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Iceland’s Economic Revolution

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F. William Engdahl

Ex: http://journal-neo.org

Iceland’s Economic Revolution

Icelanders are a proud stubborn people with more than 1200 years of history, rugged Scandinavian stock, living in one of the most beautiful natural areas of our Earth. In 2001 her government made a colossal series of disastrous decisions that resulted in the worst banking crisis in history.

Prime Minister Davíð Oddsson, enchanted with Milton Friedman’s free market ideas, implemented a course of tax cuts, cut the corporate income tax to 18%, abolished the net wealth tax, lowered the personal income tax and inheritance taxes and privatized the banking system, introducing financial deregulation along lines of the United States, for a nation with a population of a mere 239,000 citizens. He also entered a free trade agreement with the EU. Oddsson joined the charmed circles of Bill Clinton, of George H.W. Bush, who was invited to Rekyjavik to go salmon fishing. He became a regular at Bilderberg meetings. It seems it all went to his head.

Oddsson went on to become head of the Iceland National Bank in 2005 where he fed the megalomania of the three deregulated banks by in effect printing money at unprecedented rates, flooding the economy with liquidity, until he was de facto fired in 2009 by an act of parliament in the wake of the worst banking crisis in Iceland’s history.

Since the outbreak of the Iceland banking collapse and economic crisis in 2008, in the wake of the September 2008 US Lehman Bros. crisis, Icelanders, exercising their centuries-long tradition of direct democracy, took to the streets demanding fundamental change.

Oddsson’s pals in the small country’s newly-deregulated private banks had abandoned caution to the winds as they decided Reykjavik was destined to become the new Wall Street, an emerging world financial center.

By the outbreak of the global financial crisis, the three banks had combined assets equal to more than 11 times of the Icelandic GDP. They held foreign debt in excess of €50 billion, compared with Iceland’s gross domestic product of €8.5 billion. The inexperienced Iceland bankers had financed their staggering growth by borrowing on the interbank market mainly from UK and Holland banks.

The government’s main priority was to insulate the nation’s population and economy from the effects of the wanton lending abuses of the three banks, something the present Greek government was elected to do for its citizens, to the horror of German Finance Minister Wolfgang Schäuble and others. By November 2008 Iceland’s unemployment had tripled in a matter of two months.

Decisive action

When the dust settled, relative to the size of its economy, Iceland’s systemic banking collapse ranked as the largest experienced by any country in economic history. By the October 2008 the country’s three major banks–Glitnir bank, Landsbanki and Iceland’s largest bank, Kaupþing were placed into state receivership, nationalized.

That was the same time US Treasury Secretary Henry Paulson, who deliberately triggered the Lehman crisis, categorically refused nationalizing the criminal Wall Street banks, contemptuously stating, “Nationalization is socialism; we don’t do that here.” It was a lie at best as Paulson, with carte blanche control over an unprecedented $700 billion Troubled Asset Recovery Fund, bailed out AIG, Goldman Sachs and his old buddies on Wall Street with “socialized” losses dumped on American taxpayers.

Unlike Greece or Ireland or other EU countries or the USA, the Iceland Parliament and government refused to give unlimited state guarantee to save the private banks.

They nationalized them instead, creating a “Good bank-Bad bank” model loosely based on the successful Swedish 1992 experience with Securum. All domestic assets of the three banks were placed in new publicly-owned domestic versions of the banks. All foreign liabilities of the banks, which had expanded with subsidiaries in the UK and Netherlands, went into receivership and liquidation. British and Dutch bank counterparties and governments shrieked howls of protest, threatening Iceland with being blackballed and forever cut off from further credit by the world. The government also imposed currency controls.

The Parliament established an Office of Special Prosecution to investigate allegations of criminal fraud by government and bankers. People responsible went to prison. Baldur Guðlaugsson, Permanent Secretary of the Ministry of Finance went to prison for insider trading; the president of Glitnir bank went to prison for tax fraud; the president of Kaupthing Bank got 5 ½ years prison; former Prime Minister Geir H. Haarde was indicted.

Iceland decided to go it alone and focus on rebuilding her devastated real economy. The results are quite opposite the results in the EU where the brutal IMF and ECB and EU austerity policies have turned a banking crisis into a major economic crisis across the EU.

By March 2015, according to the IMF itself, “Overall, macroeconomic conditions in Iceland are now at their best since the 2008-9 crisis. Iceland has been one of the top economic performers in Europe over the past several years in terms of economic growth and has one of the lowest unemployment rates… Iceland’s strong balance of payments has allowed it to repay early all of its Nordic loans and much of its IMF loans while maintaining adequate foreign exchange reserves.” The report added, “This year, Iceland will become the first 2008-10 crisis country in Europe to surpass its pre-crisis peak of economic output.”

Revolution in banking next?

The most dramatic and heartwarming development from the Iceland financial crisis however is the Prime Minister’s proposal to revolutionize the country’s money creation process. The first country in the present world to consider such bold action, Prime Minister Sigmundur Davíð Gunnlaugsson commissioned a major report, on reform of the monetary system to prevent future crises. The report, issued by Progressive Party parliamentarian and chair of the parliament’s Committee for Economic Affairs and Trade, Frosti Sigurjónsson, examined the very taboo subject of how private commercial banks are able to create money “out of thin air.”

The report considers the extent to which Iceland’s history of economic instability has been driven by the ability of banks to ‘create money’ in the process of lending.

They went to the Holy of Holies of the secrets of banking since the Bank of Amsterdam first introduced systematic fraud into credit lending in the late 1700’s before it went bankrupt—fractional reserve banking. That simply means a bank lends many times over its deposit or equity base. If there is a crisis of confidence and depositor bank runs, under fractional reserve banking, the bank goes under.

The Frosti report concluded its examination of the link between Iceland bank lending up to September 2008 and the severity of the crisis. Their conclusion was that, “the fractional reserve system may have been a long term contributing factor to various monetary problems in Iceland, including: hyperinflation in the 1980s, chronic inflation, devaluations of the Icelandic Krona, high interest rates, the government foregoes income from money creation, and growing debt of private and public sectors.”  That’s a strong indictment and accurate.

It described the stages of every bank crisis since at least 1790 when the Bank of Amsterdam went bankrupt after a run: “A bank’s stock of cash and Central Bank reserves (both assets of the bank) is small compared to total deposits (the banks’ liability). A rumor that a bank may be in difficulty can therefore cause customers to withdraw their deposits in panic (a bank run). A bank run forces the bank to sell assets quickly to fund payouts to depositors. Such a sudden increase in the supply of assets can lead to a fall in market prices, putting other banks into trouble, and the whole banking system may follow.”

Sovereign Money System

The report to the Prime Minister concludes that a revolutionary change in control of credit is needed to control the greed and voracity of the private banks. They call for something known as a Sovereign Money System. As they note, “In a Sovereign Money system, only the central bank, owned by the state, may create money as coin, notes or electronic money. Private commercial banks would be prevented from creating money.”

The report further notes a major positive gain from implementing the Sovereign Money System. The private banks would not make huge profits by buying and selling Government debt at taxpayers’ expense as the government must pay private bondholders interest on that debt: “By delegating the creation of money to private commercial banks, the Central Bank of Iceland, and thereby the state, foregoes considerable income that it would otherwise earn from creating new money to accommodate economic growth.”

They describe how it would function: “In a Sovereign Money system, private banks do not create money. Instead this power is in the hands of the Central Bank, which is tasked with working in the interest of the economy and society as a whole. In the Sovereign Money system, all money, whether physical or electronic, is created by the Central Bank. Although commercial banks will no longer create money, they will continue to administer payments services for customers and will make loans by acting as intermediaries between savers and borrowers.”

And a critical provision: “The payments service will consist of Transaction Accounts held by individuals and businesses. The funds in Transaction Accounts will be electronic sovereign money created by the Central Bank. Transaction Accounts are risk free, as they are kept at the Central Bank, and interest-free as they are not available to the bank to invest. The Central Bank will be exclusively responsible for creating the money necessary to support economic growth. Instead of relying on interest rates to influence money creation by banks, the Central Bank can change the money supply directly. Decisions on money creation will be taken by a committee that is independent of government and transparent in its decision-making, as is the current monetary policy committee.”

That very system was proposed by Chicago economist Irving Fisher and others during the 1930S Great Depression in the USA. The lobby of the bankers managed to kill it.

Wow! Were the US Congress to enact such legislation as Iceland is now discussing to adopt they would return the power over money creation away from the privately-owned Federal Reserve to the elected Congress as specified in the US Constitution, Article 1, Section 8, “The Congress shall have the power to coin Money, regulate the Value thereof…”

The key to the entire Iceland proposal is that the central bank is a State-owned central bank or a Public Bank, as Iceland has. So long as we relegate the power of money creation to central banks privately owned like the Federal Reserve, we ultimately end up in a system of recurring financial collapse, depression, unemployment.

A move to such a Sovereign Money System is not at all difficult technically. It requires only political will of governments to act in the interests of their citizens and nations. Russia would become de facto invulnerable to the ravages of the US Treasury Economic Terrorism Office and Greece could walk away from her unpayable debts to the ECB and IMF and get about rebuilding her real economy.

F. William Engdahl is strategic risk consultant and lecturer, he holds a degree in politics from Princeton University and is a best-selling author on oil and geopolitics, exclusively for the online magazine “New Eastern Outlook”.
First appeared: http://journal-neo.org/2015/04/21/iceland-s-economic-revolution/

Cinéma: les enfants terribles de Big Brother

Cinéma: les enfants terribles de Big Brother

Œuvre contre-utopique par excellence, 1984 de George Orwell a depuis longtemps connu une prospérité indéniable dans les salles obscures. Pas tant en termes d’adaptation qu’en celui d’influence. D’Alphaville de Jean-Luc Godard à Matrix des frères Wachowski, en passant par Brazil de Terry Gilliam et Equilibrium de Kurt Wimmer, partons à la rencontre des rejetons orwelliens.

Publié en 1948, le célèbre roman d’Orwell nous propulse dans une société totalitaire où la liberté individuelle n’existe pas ; les personnes sont broyées, conditionnées, enrégimentées, sous la coupe d’élites déshumanisées y faisant la loi pour leur propre intérêt.

1984 est aujourd’hui devenu le terme générique pour ceux qui veulent, sous forme de fable, pourfendre tous les totalitarismes ou formes totalitaires de domination, et pas seulement le communisme ou le fascisme que l’auteur a connu et combattu. Comme le note François Bordes, « Orwell est, en effet, devenu, une sorte d’imago, une projection fantasmatique. Son visage se confondrait alors avec l’image inconsciente d’un maître perdu, d’un penseur de gauche pur et « adorable », au sens étymologique, c’est-à-dire que l’on peut adorer et prier dans l’espoir de retrouver une explication du monde. » (« French Orwellians ? La gauche hétérodoxe et la réception d’Orwell en France à l’aube de la Guerre froide », Agone, n° 45, mars 2011)

Transpositions éclectiques

Le cinéma n’échappe pas à cette réappropriation (parfois malencontreuse) du roman d’Orwell. Laissons de côté les adaptations des deux Michael (Anderson en 1956, Radford en 1984) pour se concentrer sur les références – explicites ou non – présentes dans certaines œuvres de science-fiction.

« Il arrive que la réalité soit trop complexe pour la transmission orale. La légende la recrée sous une forme qui lui permet de courir le monde », annonce la voix caverneuse au début d’Alphaville (1965) de Godard. Réalité d’un monde déshumanisé, mécanique et froid comme le carrelage des grands ensembles des années 1960, préfigurant l’horreur urbaine dans toute sa splendeur (et faisant songer aux décors uniformes et glacés de THX 1138 (1971) de George Lucas). Légende d’un cinéma luttant contre la disparition de l’art et de la conscience dans les sociétés consuméristes post-modernes, avides de technologies et de contrôle. La réalité, c’est aussi une bureaucratie étouffante et kafkaïenne, à l’instar de celle de Brazil (1985), dans laquelle déambulent des humains plus soumis qu’autonomes qui, s’ils ne sont pas prisonniers de cuves remplies de liquide amniotique comme dans Matrix (1999) n’en demeurent pas moins esclaves (souvent inconscients) du système qui les écrase. Dans tous les cas, la surveillance est proportionnelle au bonheur/Bien universel proclamés par l’État/parti totalitaire.

Violence mécanique contre lutte biologique

À l’instar de Winston déclarant, dans 1984, « Je comprends COMMENT ; je ne comprends pas POURQUOI », il ne faut jamais dire « pourquoi » mais « parce que » dans Alphaville. Ou quand les finalités du système nous obsèdent et nous échappent inlassablement. Le « pourquoi » étant la question légitime de tout homme libre désirant trouver un sens à l’absurdité du monde, quand le « parce que » découle de la logique implacable d’individus devenus machines qui ne savent rien mais calculent, enregistrent et se contentent de tirer des conséquences. La conséquence de cette logique ? La force comme seule et unique réponse. « Ici, il n’y a pas de pourquoi », répond le nazi d’Auschwitz à Primo Levi, qui venait de lui demander pourquoi il lui avait arraché le glaçon qu’il espérait lécher pour étancher sa soif.

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Brazil, de Terry Gilliam

Le Parti de 1984 se livre à l’élimination systématique des opposants, réels ou potentiels : on « épure », on arrête ou on « vaporise » à tout va. Les gens non assimilables par le système sont exterminés. Dans Matrix, les machines de Zero One dissolvent et recyclent les humains inutiles pour nourrir les vivants. Une logique identique, en quelque sorte, à celle de Soleil Vert (1973) de Richard Fleischer. Dans Alphaville, on condamne des hommes à mort pour avoir agi de façon illogique : pleurer la mort de sa femme est synonyme d’une rafale de mitrailleuse dans le bide. On exécute également les « anormaux » dans un théâtre en forme de chaise électrique géante, puis on les jette aux ordures pour laisser la place à de nouveaux condamnés. La solution écologique extrême pour régler le problème démographique en somme… Néanmoins, certains peuvent être guéris à grands coups de propagande. On les envoie donc dans… un HLM (Hôpital de la longue maladie) !

Une autre caractéristique de cette violence est l’impérialisme exponentiel. Tout totalitarisme maintient un état de guerre permanent et total en fédérant la masse contre un ennemi objectif en vue de réaliser un paradis terrestre (la fin de l’histoire ou la pureté de la race). Dans 1984, cela se traduit par les conquêtes extérieures se réalisant à travers la guerre aux deux autres États totalitaires (l’Estasia et l’Eurasia).

« Il y a partout la même structure pyramidale, le même culte d’un chef semi-divin, le même système économique existant par et pour une guerre continuelle. » (1984)

Se considérant d’une race supérieure, Alpha-60, l’ordinateur tout puissant d’Alphaville, ne trouve rien d’illogique à détruire l’homme ordinaire et à écraser les peuples « inférieurs » des autres galaxies. Devant la sidération de Lemmy Caution (« c’est impensable, une race entière ne peut être détruite »), l’ordinateur fasciste prétend tout calculer pour que l’échec soit impossible. Et Caution de rétorquer : « Je lutterai pour que cet échec soit possible », notamment en liquidant les savants fous qui « serviront d’exemple terrible à tous ceux qui prennent le monde pour un théâtre où la force technique et le triomphe de cette force mènent librement leur jeu. »

Novlangue variable et temps malléable

alphaville.jpgAlphaville de Jean-Luc Godard

Dans 1984, le parti manipule le langage à sa guise. Le déplacement des mots déréalise la réalité : c’est le but de la novlangue qui, en supprimant des mots et en les contractant, rend abstraite la réalité qu’ils décrivaient et détruit la pensée qui les sous- tendait. C’est le cas notamment des termes majeurs comme « honneur, justice, moralité, internationalisme, démocratie, science, religion. » La vérité historique est détruite : les rectifications sont des rectifications mensongères et les nouvelles statistiques sont des corrections de statistiques fantaisistes. La substitution d’un non-sens à un autre. Tout est incertain, le passé est aboli dans la mesure où on peut le réécrire au gré des besoins de la politique quotidienne.

Au sein d’Alphaville, des mots maudits disparaissent, remplacés par des nouveaux : « pleurer », « lumière d’automne » et « tendresse » sont supprimés au nom de la rationalité. Personne ne sait plus ce que veut dire le mot « conscience ». Natacha cherche en vain sa signification dans la Bible, seul livre autorisé, transformé en dictionnaire et réduit au strict logique minimum. Comme le dit cyniquement Alpha-60, « La signification des mots et des expressions n’est plus perçue. Un mot isolé ou un détail isolé dans un dessin peuvent être compris mais la signification de l’ensemble échappe. »

« Le mot « guerre », lui-même, est devenu erroné. Il serait probablement plus exact de dire qu’en devenant continue, la guerre a cessé d’exister. […] Une paix qui serait vraiment permanente serait exactement comme une guerre permanente. [C’est] la signification profonde du slogan du parti : La guerre, c’est la Paix. » (1984)

Le roman de George Orwell accorde également une importance considérable à la question du temps car il représente un enjeu aux yeux du pouvoir. Maîtriser le temps, c’est assurer sa domination sur les citoyens en régissant tous les instants de leur vie. Les individus se trouvent dépossédés de toute appréhension personnelle du temps : non seulement ils ne décident pas de la façon de l’occuper, mais ils ne peuvent pas non plus se repérer dans l’histoire, puisque celle-ci fait l’objet de falsifications. Ils sont donc livrés, pieds et poings liés, à la structure du temps imposée par le Parti de façon autoritaire. En affirmant un présentisme absolu et indiscutable (« personne n’a vécu dans le passé, personne ne vivra dans le futur. Le présent est la forme de toute vie ») l’ordinateur Alpha-60 est celui qui contrôle le passé et donc l’avenir, le présent et donc le passé.

Huxley en contre-champ

Orwell, qu’on a tendance à mettre à toutes les sauces, n’est pourtant pas la seule référence du cinéma de science-fiction contestataire. L’influence du Meilleur des mondes (1932) d’Aldous Huxley est tout autant primordiale chez les cinéastes de la seconde moitié du XXe siècle.

Dans ce roman, l’État mondial impose le bonheur à tous ses sujets grâce à l’abondance des biens renouvelables, la satisfaction des sens, la liberté sexuelle, la suppression de toute privation, de toute émotion, le soma euphorisant, etc. Les hommes sont donc heureux dans l’ordre matériel. C’est là une grande différence avec l’anticipation sombre d’Orwell dans laquelle le Parti a une soif insatiable de pouvoir total sur tout être humain. De plus, l’auteur de 1984 s’inspire davantage de la contre-utopie archétypale du Russe Evguéni Ivanovitch Zamiatine, Nous autres (1920), que du Meilleur des mondes, car la soif de pouvoir, le sadisme et la cruauté sont absentes du roman d’Huxley, tandis que Zamiatine avait perçu ce côté irrationnel, barbare et fanatique du totalitarisme, essentiel selon Orwell.

On trouve ainsi l’inspiration du Meilleur des mondes dans Bienvenue à Gattaca (1997) d’Andrew Nicol pour la dimension eugéniste. Chez Huxley, les bébés naissent en flacons par portées de jumeaux pouvant atteindre 16 012 individus, tous identiques, ne possédant aucune curiosité intellectuelle. Dans le film génial de Nicol, le génotype des enfants est pré-sélectionné avant leur naissance et conditionne leur vie future, professionnelle comme sentimentale.

nous-autresDe son côté, Equilibrium (2002) de Kurt Wimmer explore l’annihilation des sentiments à coups de drogue permanente. Le prozium du film, censé protéger les hommes de leurs passions destructrices, renvoie au soma du livre qui réduit tous les obstacles entre le désir et la satisfaction et permet de se libérer de la réalité au profit du rêve.

Dans THX 1138 (déjà cité), le bonheur est obligatoire et le consumérisme est l’unique horizon indépassable : « Achetez plus et soyez heureux. » Cependant, l’interdiction des actes sexuels renvoie davantage à la ligue Anti-sexe de 1984. Les influences de ces deux colosses se croisent et se complètent couramment.

Alphaville, quant à lui, fait directement écho à la caste suprême du Meilleur des mondes : les Alphas. Les sujets de l’État mondial imaginé par Huxley, répartis en castes immuables (alpha, bêta, gamma, delta et epsilon) dès leur mise en flacon, ne questionnent jamais la légitimité de la place et des tâches qui leur sont assignées. Le pouvoir absolu choisit, dirige, réprime et neutralise tout ce qui pourrait menacer l’ordre. À ce titre, Alphaville, cité des êtres supérieurs dénués d’émotion inutiles, est bien le « monde des meilleurs ».

Enfin, et pour compléter ce sombre tableau, l’art, qui se nourrit de tragédies, de larmes, d’angoisses, de passions violentes, n’a pu survivre dans le monde du signe de T (comme le modèle de voiture T de Ford), pas plus que dans celui de Big Brother. La littérature fait peur à l’institution car le patrimoine culturel, le pouvoir des mots pourraient contrecarrer la soumission aux stéréotypes officiels, susciter une pensée personnelle, déstabiliser le discours d’autorité. La littérature véhicule une représentation du monde ancien qu’il faut détruire. Elle informe, éveille, aiguise l’esprit critique, transmet de génération en génération des textes qui restent toujours vivants. On brûle donc les tableaux dans Equilibrium, les livres dans Fahrenheit 451 (1966) et lorsque Alpha-60 demande à Lemmy Caution : « Savez-vous ce qui transforme la nuit en lumière ? », celui-ci répond : « la poésie ».

L’amour comme acte politique

Et l’espoir dans cette armada de cauchemars ? Le seul recours au monde inhumain est incarné par le rebelle, l’opposant, le dissident, le fugitif, le réfractaire, les prolétaires des bas-fonds de Londres d’Orwell, les sauvages de la réserve d’Huxley. Et, plus que tout, c’est l’amour qui constitue l’acte révolutionnaire par excellence face à la machine totalitaire. Dans 1984, tout amour, tout lien érotique, toute tendresse, donc toute fusion intime personnelle, est prohibé car échappant à l’emprise de l’État. Comme pour I-330 dans le roman de Zamiatine et, de manière plus ambiguë, pour Lenina dans celui d’Huxley, c’est une femme qui incarne la rébellion, la possibilité de la dissidence, tout simplement parce que, malgré ses travers et ses manques, elle incarne la vie, le vivant, ce qui est par définition et essence impossible à totalement canaliser. Ainsi, l’embrassement de Winston et Julia « avait été une bataille, leur jouissance une victoire. C’était un coup porté au Parti. C’était un acte politique. » L’amour, cette  « chose qui ne varie ni le jour ni la nuit, dont le passé représente le futur, […] une ligne droite qui pourtant, à l’arrivée, a bouclé la boucle » : la réponse à l’énigme de Caution, Alpha-60 ne pourra la trouver sous peine de devenir humain (« mon semblable, mon frère ») et donc de s’autodétruire.

« Le commandement des anciens despotismes était : « Tu ne dois pas ». Le commandement des totalitaires était : « Tu dois ». Notre commandement est : « Tu es ». » (1984)

On se souvient également du baiser de Trinity qui ramène Néo d’entre les morts au beau milieu du chaos final, perturbant la logique mécanique des agents de la matrice. C’est aussi Natacha qui prononce lentement « Je…vous…aime », les derniers mots du film de Jean-Luc Godard, se sauvant elle-même de l’aliénation mentale. Une fin infiniment plus optimiste que celle de 1984 où les anciens amants, après un passage terrifiant au Ministère de l’Amour, ont retourné leur amour réciproque pour celui, véritable, envers Big Brother. En ce sens, Brazil est plus fidèle à la contre-utopie d’Orwell avec un faux espoir final des plus déprimants.

Le feu de la subversion

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Matrix Revolutions

Dans Le Meilleur des mondes, John le Sauvage, face à l’humiliant esclavage d’une structure sociale fermée et étouffante, réitère son droit à la transgression. « Je n’en veux pas du confort. Je veux Dieu, je veux de la poésie, je veux du danger véritable, je veux de la liberté, je veux de la bonté. Je veux du péché. » Le « droit d’être malheureux » qu’il revendique en toute lucidité participe de la condition et du bonheur d’être un homme véritable.

Demeurer un homme en refusant la perfection mathématique de la raison instrumentale c’est également ce que fait Lemmy Caution, en répliquant à l’un des 14 milliards de centres nerveux composant Alpha-60 qui trouvent logique de le condamner à mort : « Je refuse de devenir ce que vous appelez normal. […] Allez vous faire foutre avec votre logique ! »

Nos desserts :

Jean Soler rend son sourire à Homère

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Bernard Revel:

Photo Bernard Revel

« Le Sourire d’Homère » de Jean Soler, Editions de Fallois, 236 pages, 18 euros.

jean-soler-couv.jpgAuteur d’ouvrages éclairants sur les origines du Dieu unique, le Roussillonnais Jean Soler avait consacré dans « La violence monothéiste » un chapitre au « modèle grec », véritable livre dans le livre et magistrale synthèse qu’il met en parallèle avec son exploration du « modèle hébraïque ». On devine sans peine sa préférence pour une civilisation que deux vers de Pindare résument admirablement : « N’aspire pas, chère âme, à la vie immortelle, mais épuise le champ du possible ». Aussi n’est-il pas étonnant qu’après avoir consacré tant d’années à démonter sans les œillères de la foi les « vérités » de la Bible, il se soit à nouveau tourné avec plaisir vers sa chère Grèce antique dont il enseigna jadis la langue injustement délaissée aujourd’hui. Avec une évidente jubilation, il s’est lancé dans la relecture des œuvres d’Homère qui, il y a 2.900 ans « ont inauguré la littérature occidentale ». Jean Soler a le rare talent de dépoussiérer les textes anciens pour en tirer la signification profonde. Si la Bible n’est pas sortie grandie de l’exercice, il n’en est pas de même de l’Iliade et l’Odyssée, ces deux épopées bien connues mais peu lues, auxquelles son livre donne une résonance actuelle qui rend tout son sens au mot de Charles Péguy : « Homère est nouveau ce matin ».

D’une œuvre comptant 28.000 vers, Jean Soler extrait une douzaine de thèmes qui illustrent la pensée grecque. Son point de départ est le bouclier d’Achille sur lequel le dieu forgeron Héphaïstos a ciselé des tableaux qui sont une représentation complète de l’univers grec. Un univers circonscrit dans la voûte céleste et le fleuve mythique Océanos. « La pensée grecque est une pensée des limites », relève Jean Soler. « L’aspiration à l’infini n’est pas grecque ». Dans les illustrations du bouclier apparaissent les valeurs essentielles de la Grèce : la démocratie en germe dans l’agora, le théâtre dans le chœur, le goût du travail dans des scènes montrant des ouvriers, des paysans, des artisans. Dans la Bible, au contraire, le travail est un châtiment infligé par le Créateur. Voilà qui ne viendrait pas à l’esprit des dieux grecs puisqu’ils travaillent eux aussi. Ils habitent l’Olympe situé dans le monde terrestre. Ils sont immortels mais ils ont les qualités et les défauts des humains. « Le monde réel des hommes prime sur le monde imaginaire des dieux », affirme Jean Soler constatant qu’Homère ne prend pas ceux-ci au sérieux. Ils ne sont qu’une divinisation, « plus poétique que religieuse », de phénomènes naturels. « Un dieu qui possède sur la terre une île où il élève du bétail : nous sommes là plus près d’un conte pour enfant que d’une doctrine religieuse. Et nous restons de grands enfants, comme le public d’Homère, quand nous aimons entendre des contes pareils ».

Les Grecs pourraient goûter sans souci le bonheur de vivre en Méditerranée s’il n’y avait la guerre. Elle est au cœur de l’Iliade. Homère montre les hommes tels qu’ils sont, cruels, violents, sanguinaires. Ceux qui l’écoutent sont avides de récits de batailles, de combats, et la guerre de Troie qui dure dix ans en fournit à profusion. Les scènes réalistes d’Homère évoquent pour Jean Soler « les désastres de la guerre » peints pas Goya. « Il n’y a pas de belle mort, de mort glorieuse dans l’Iliade », note-t-il. Ni Achille ni Ulysse ne rêvent de mourir en héros. Ils rêvent d’une vieillesse heureuse dans leur chère patrie. « Il ne faudrait pas me forcer beaucoup pour me faire dire, dans le langage d’aujourd’hui, qu’Homère est un auteur antimilitariste », commente-t-il malicieusement.

Car rien ne vaut le plaisir de la vie. C’est pourquoi les Grecs ont fait « le choix de la clairvoyance ». Et notamment vis-à-vis des dieux qui, bien que partout chez Homère, n’existent que dans l’imaginaire. Donc, pas de lois tombées du ciel (commandements, interdits sexuels ou alimentaires, paradis perdu, peuple élu, etc.). Mais cela n’empêche pas d’aimer le bien et le beau. Jean Soler met en avant, dans les œuvres homériques, les liens du sang et de la patrie, l’importance de la parole, du jeu, l’amitié, le sens de l’honneur, l’hospitalité. Et surtout, cela n’empêche pas d’être curieux, de vouloir comprendre. Les Grecs sont de grands penseurs, des découvreurs, des inventeurs, cherchant toujours, comme le préconisait Pindare, à épuiser le champ du possible. Aucun dieu ne leur a interdit l’arbre de la connaissance. Ce qui caractérise Homère et qu’exprime ce « sourire » dont l’éclaire Jean Soler, c’est « l’amour de la vie ». Il est donc urgent de le lire et de le relire en dépit de ses traducteurs français qui ont trop tendance à rendre pompeux son style « simple et naturel ». Jean Soler trouve le procédé inadmissible : « Quand Homère écrit bateau, pourquoi traduire par nef ? Pourquoi dire, au lieu d’épée, glaive ? au lieu de bronze, airain ? au lieu d’eau, onde ? au lieu de maison, manoir. Au lieu d’entendre ouïr ? etc. » Avis aux futurs traducteurs. En attendant, suivons la prescription du bon docteur Soler. Contre le fanatisme et l’extrémisme, pour l’amour de la vie et de l’intelligence, il nous souffle la recette : « Faire des cures d’Homère ».

Bernard Revel