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mercredi, 26 novembre 2008

Yukoku: un film de Mishima

Yukoku : un film de Mishima

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Yukoku, l'unique film réalisé par l'écrivain japonais Yukio Mishima sur la base de sa nouvelle intitulée Patriotisme, et qui était jusqu'à présent introuvable, fait l'objet d'une édition en DVD chez Montparnasse.

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Yukoku (Patriotisme) : un film extraordinaire laissé par l'un des plus grands écrivains du siècle. Maudit, détruit, pratiquement oublié dans son propre pays, ce film produit en 1966 est ressorti au Japon grâce à une copie miraculeusement retrouvée en 2005. La présente édition réintroduit en Europe des images quasi inédites, qui font partie intégrante de la construction mythique de soi-même à laquelle Mishima a dévoué sa vie. Suivant exactement la narration d'une nouvelle écrite quelques années plus tôt, Patriotisme, ce film montre de façon stylisée la dernière étreinte amoureuse et le seppuku d'un jeune lieutenant entièrement dévoué à l'honneur samouraï, le Bushido : répétition de la mort spectaculaire que l'écrivain choisira, le 25 novembre 1970, à Tokyo. Film ultra-esthétique, cinéma wagnérien, prolongement filmique du théâtre Nô ou encore document historique, Yukoku occupe une place unique dans l'art cinématographique du XXè siècle.

La forza revoluzionaria del mito politico

 La forza revoluzionaria del mito politico

 

 

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La possibilità che hanno i popoli di correggere l’andamento della storia attraverso crisi rivoluzionarie riposa tutta nella capacità di conservazione del loro patrimonio di energie irrazionali. Nessuna ribellione a uno status quo avvertito come ingiusto o degradante è mai avvenuta per le vie razionaliste della dialettica. Si ebbe una rivoluzione francese soltanto quando alle teorie borghesi degli illuministi subentrò la capacità di Danton e Saint-Just di gestire emotivamente le masse. E si poté avere una rivoluzione bolscevica soltanto quando alle inerti elucubrazioni marxiane tenne dietro il calore bruciante della parola leniniana e della sollevazione del popolo nel nome di un’utopia mitica. Ancora più chiaramente, tale processo è leggibile nel caso dei fascismi europei, nati dalla catastrofe del mito nazionale, dalla messa in pericolo liberal-comunista della tradizione mitopoietica del popolo, e infine dalla volontà propriamente rivoluzionaria - cioè correttrice verso le origini - di far risorgere, potenziato, il mito accomunante dell’immobile, eterna comunità di popolo.

 

 

Tutto ciò ha fatto parlare dell’apparizione moderna del mito politico come di una insorgenza di religiosità civile nel bel mezzo dell’ateismo e dell’agnosticismo moderni. Religioni politiche: esse hanno riempito il vuoto lasciato dalla crisi del cristianesimo attraverso la gestione di retaggi e atavismi riattivati tra le masse, una volta che queste furono abbandonate da un decrepito sistema di fede trascendente, che lasciava insoddisfatte le domande popolari di nuova identificazione. In questo, giacobinismo e comunismo non furono in nulla diversi dal nazifascismo, se non come casi patologici di contraddizione in termini: per poter passare dalla fase dell’insurrezione a quella della costruzione rivoluzionaria, dovettero far ricorso a uno strumentario mitico e irrazionalistico di stampo para-religioso e in quanto tale estraneo, e anzi opposto, ai presupposti “scientifici” del loro stesso progressismo di partenza. Dalla statue elevate alla Dea Ragione alla mummia di Lenin nella Piazza Rossa, e fino alle mitologie millenaristiche del nazionalismo puritano americano, noi vediamo che il progressismo riesce ad esprimere potenziale mobilitatorio soltanto dando vita alla sua massima contraddizione e smentendo esplicitamente se stesso. Quando dall’amministrazione si passa alla politica, il ricorso all’inconscio e all’irrazionale giacenti nel popolo è l’unica arma a disposizione per attivare un cambiamento che sia sostanza e non apparenza.

 

 

Nel caso del progressismo - giacobino, liberale, comunista - si può parlare di uso strumentale del repertorio mitico. Si tratta del ricorso a patrimoni che la ragione e la “religione” del progresso hanno sempre demonizzato e colpevolizzato, definendoli scorie di un passato oscurantista condannato dalla luce della modernità. Nel caso invece del nazifascismo si ha la piena consapevolezza che l’utilizzo del mito politico atto a riconsacrare il popolo non è strumento occasionale per ricompattare masse altrimenti allo sbando (il richiamo al “mito americano” in occasioni elettorali; il ricorso alla “grande guerra patriottica” da parte dei sovietici), ma elemento strutturale di un sistema di potere che apertamente dice di voler attingere ai bacini memoriali collettivi. Lo sposalizio ideologico fra la tradizione ancestrale e la modernità è il tratto tipico dei fascismi, che hanno sempre abbinato l’identità storica del popolo con il suo moderno risveglio. Nel caso del nazionalsocialismo, il marxista ebreo-tedesco Ernst Bloch parlò non a caso di romanticismo del paganesimo eroico. C’era anzi, in questa sua definizione risalente agli anni Trenta, una punta di “invidia per un movimento che, diversamente dal comunismo, era riuscito a promuovere il solidarismo di massa attraverso il ridestarsi del «residuo arcaico emozionale», sapendo per di più «trasformare gli inizi mitici in inizi reali, i sogni dionisiaci in sogni rivoluzionari». Massimo scorno, quest’ammissione di efficiente realismo proprio nei fanatici dell’irratio, per un marxista “oggettivo” di stretta osservanza sovietica, costretto a verificare che l’arsenale di “scientificità” marxista rimaneva inservibile dinanzi alla richiesta popolare di ritorno all’identità tradizionale, pienamente soddisfatta dalla NSDAP nei modi plebiscitari che la storia conosce.

 

 

Nella struttura del Terzo Reich, infatti, sono ancor meglio visibili che negli altri fascismi europei le compiute categorie del mito politico in azione: attivazione del patrimonio culturale tradizionale; promozione di una religiosità etnica estranea ai confessionalismi dogmatici; mistica dell’offerta eroica di sé per il bene della comunità di stirpe. Conosciamo gli studi di Emilio Gentile sul Fascismo come religione politica capace di saldare a lungo un popolo, storicamente individualista come l’italiano, attorno ai simboli unificanti della gloria nazionale, secondo le vie del mito eroico racchiuso dal culto del Littorio. Nel caso del nazionalsocialismo sia ha una radicalizzazione di tale impostazione, essenzialmente grazie alla natura del germanesimo moderno, ben più dell’italianità in grado di serbare memoria attiva del proprio comunitarismo storico.

 

 

Basti, a testimoniare di questo, il mito del sangue. Divenuto, nel Terzo Reich, l’archetipo di un sistema di solidarismo sociale incentrato sulla rianimazione di antiche testimonianze della mistica religiosa tedesca. La Theologia Deutsch, ad esempio, che nell’epoca pre-protestante veicolò l’ideologia della divinizzazione dell’uomo e di un sotteso sovrumanismo, secondo modi semiereticali di contestazione della trascendenza cristiana, fu alla fine la fonte di riferimento immediata per il mito del sangue nazionalsocialista. È stato anni fa Manuel Garcìa Pelayo, nel suo classico Miti e simboli politici, a rimarcare che nella concezione di Alfred Rosenberg - che nel Mito del XX secolo riconobbe ampiamente il suo debito culturale verso il mistico duecentesco Meister Eckhart - si riconosce con tutta evidenza la linea ideologica che corre dalla religiosità renana medievale sino alla rievocazione del mistero del sangue, quale compare nella pubblicistica filosofica nazionalsocialista. «Ora il sangue, secondo la dottrina nazista - ha scritto Pelayo - non è un fatto puramente fisiologico, ma qualcosa di misterioso che reca in seno proprietà morali, intellettuali…il sangue è anche un fatto di natura spirituale, che si dispiega in creazioni culturali come la filosofia, l’arte, la scienza, le forme sociali». Quest’affermazione, da sola, è tra l’altro sufficiente a liquidare tutte le speculazioni che da anni si vanno facendo intorno allo specioso problema di una supposta alternativa tra “razza del sangue ” e “razza dello spirito”, in cui si sono incartati a suo tempo Julius Evola e alcuni suoi zelanti seguaci ancora oggi. Il mito politico nazionalsocialista legato al valore sublimante del sangue era essenzialmente un’invocazione di purificazione mistica: «Con la difesa del sangue si difende al tempo stesso il divino che c’è nell’uomo», affermava Rosenberg, riecheggiando Meister Eckhart nel suo incitamento alla creazione di una neue Adel, una nuova nobiltà predisposta a «diventare dio». Il sostrato gnostico che si agitava nei fondali della percezione nazionalsocialista permetteva formulazioni di irrazionalismo idealistico di tale portata, che spesso gli storici non hanno esitato a parlare di vera e propria mistica. Il dualismo agitato tra il demoniaco ricatto materialista dell’epoca moderna e l’anelito purificante di ripercorrere le origini diveniva rivoluzione: «Questa rivoluzione tanto misticamente o metafisicamente concepita nelle sue origini ebbe come soggetto storico il partito nazionalsocialista», sintetizza Pelayo. Non diversamente, Eric Voegelin osservò, in La politica: dai simboli alle esperienze, che la teologia politica del nazionalsocialismo ripeteva attitudini etiche di tipo religioso, lavorando i materiali ancestrali con le tecniche messe a disposizione dal mondo moderno: «La creazione del mito e la sua propaganda attraverso la stampa e la radio, i discorsi e le cerimonie comunitarie, le adunate e le marce, il lavoro pianificato ed il morire il battaglia, sono le forme intramondane dell’unio mystica».

 

 

Ma Voegelin si è spinto ancora oltre, concedendo al nazionalsocialismo una sostanza di autenticità come movimento non soltanto politico, ma propriamente religioso, in cui il simbolo è allo stesso modo segno di identità terrena e segnacolo di promessa ultraterrena: «La formulazione del mito…si approssima al simbolismo vero e proprio inteso come dominio di figure dotate di significato all’interno delle quali esperienza pratica intramondana ed esperienza interiore ultraterrena si uniscono in un’unità comprensibile». Riesce a questo punto più agevole dare pieno credito all’interpretazione del “mito ariano” operata da Philippe Lacoue-Labarthe e Jean-Luc Nancy nel loro Il mito nazi, allorquando parlano di un «mito del Mito» all’interno del nazionalsocialismo. Come presso i Greci antichi, vi fu nella Germania di allora un convergere di immagine e parola, Mythos e Logos, sogno e realtà, simbolo metafisico e politica. Il mito rimane irreale se non è vissuto, così come la proclamazione mistica abbisogna della pratica ascetico-eroica per avverarsi, fino al visionarismo e fino all’iniziazione estatica, che le religioni ben conoscono e le religioni politiche più radicali come il nazionalsocialismo ugualmente ebbero a fondamento. Quando si parla di delirio mistico, si può egualmente parlare di comunità religiose in rapimento, del visionarismo di una Teresa d’Avila, come di masse percosse da entusiasmo emotivo. Si ha in questi casi, come ribadiscono Lacue-Labarthe e Nancy, il verificarsi dell’Anschauen, da cui quella Weltanschauung, quel vedere-oltre il reale e penetrare nel mito cosmico, che fece del nazionalsocialismo un singolarissimo fenomeno storico titolato a «svolgere la funzione stessa di una religione». Rosenberg parlava del mito politico come di un sogno atavico che si rianima, Goebbels indicava nell’impossibile la realizzazione politica del nazionalsocialismo, Hitler evocava le potenze della Provvidenza e del Destino: tutti andavano sondando l’anima occulta e misteriosa del popolo. Talmente marcata fu la sostanza di questo profetismo neo-gnostico, che i due storici francesi vedono nel mito politico nazionalsocialista nulla di meno che una sorta di epifania del sacro: «…questo “vedere” proprio di un “sogno” attivo, pratico, operativo, costituisce il cuore del processo “mitico-tipico”, che diviene così il sogno reale del “Reich millenario”».

 

 

Luca Leonello Rimbotti

 

Entretien avec Günter Maschke (1991)

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Lande de Lünebourg (Allemagne)

 

Archives de "Synergies Européennes" - 1991

Entretien avec Günter Maschke

 

propos recueillis par Dieter STEIN et Jürgen LANTER

 

Q.: Monsieur Maschke, êtes-vous un ennemi de la Constitution de la RFA?

 

GM: Oui. Car cette loi fondamentale (Grund­gesetz)  est pour une moitié un octroi, pour une autre moitié la production juri­dique de ceux qui collaborent avec les vain­queurs. On pourrait dire que cette constitu­tion est un octroi que nous nous sommes donné à nous-mêmes. Les meilleurs liens qui entravent l'Allemagne sont ceux que nous nous sommes fabriqués nous-mêmes.

 

Q.: Mais dans le débat qui a lieu aujourd'hui à propos de cette constitution, vous la défen­dez...

 

GM: Oui, nous devons défendre la loi fon­damentale, la constitution existante car s'il fallait en créer une nouvelle, elle serait pire, du fait que notre peuple est complètement «rééduqué» et de ce fait, choisirait le pire. Toute nouvelle constitution, surtout si le peu­ple en débat, comme le souhaitent aussi bon nombre d'hommes de droite, connaîtrait une inflation de droits sociaux, un gonfle­ment purement quantitatif des droits fon­damentaux, et conduirait à la destruction des prérogatives minimales qui reviennent normalement à l'Etat national.

 

Q.: Donc, quelque chose de fondamental a changé depuis 1986, où vous écriviez dans votre article «Die Verschwörung des Flakhelfer» (= La conjuration des auxiliaires de la DCA; ndlr: mobilisés à partir de 1944, les jeunes hommes de 14 à 17 ans devaient servir les batteries de DCA dans les villes al­lemandes; c'est au sein de cette classe d'âge que se sont développées, pour la première fois en Allemagne, certaines modes améri­caines de nature individualiste, telles que l'engouement pour le jazz, pour les mouve­ments swing et zazou; c'est évidemment cette classe d'âge-là qui tient les rênes du pouvoir dans la RFA actuelle; en parlant de conjuration des auxiliaires de la DCA, G. Maschke entendait stigmatiser la propen­sion à aduler tout ce qui est américain de même que la rupture avec toutes les tradi­tions politiques et culturelles européennes). Dans cet article aux accents pamphlétaires, vous écriviez que la Constitution était une prison de laquelle il fallait s'échapper...

 

GM: Vu la dégénérescence du peuple alle­mand, nous devons partir du principe que toute nouvelle constitution serait pire que celle qui existe actuellement. Les rapports de force sont clairs et le resteraient: nous de­vrions donc nous débarrasser d'abord de cette nouvelle constitution, si elle en venait à exister. En disant cela, je me doute bien que j'étonne les «nationaux»...

 

Q.: Depuis le 9 novembre 1989, jour où le Mur est tombé, et depuis le 3 octobre 1990, jour officiel de la réunification, dans quelle mesure la situation a-t-elle changé?

 

GM: D'abord, je dirais que la servilité des Allemands à l'égard des puissances étran­gères s'est encore accrue. Ma thèse a tou­jours été la suivante: rien, dans cette réuni­fication, ne pouvait effrayer la France ou l'An­gleterre. Comme nous sommes devenus terriblement grands, nous sommes bien dé­cidés, désormais, à prouver, par tous les moyens et dans des circonstances plus cri­tiques, notre bonne nature bien inoffensive. L'argumentaire développé par le camp na­tio­nal ou par les établis qui ont encore un pe­tit sens de la Nation s'est estompé; il ne s'est nullement renforcé. Nous tranquilisons le mon­de entier, en lui disant qu'il s'agit du processus d'unification européenne qui est en cours et que l'unité allemande n'en est qu'une facette, une étape. Si d'aventure on rendait aux Allemands les territoires de l'Est (englobés dans la Pologne ou l'URSS), l'Autriche ou le Tyrol du Sud, ces braves Teu­tons n'oseraient même plus respirer; ain­si, à la joie du monde entier, la question allemande serait enfin réglée. Mais trêve de plaisanterie... L'enjeu, la Guerre du Golfe nous l'a montré. Le gouvernement fédéral a payé vite, sans sourciller, pour la guerre des Alliés qui, soit dit en passant, a eu pour ré­sultat de maintenir leur domination sur l'Al­lemagne. Ce gouvernement n'a pas osé exiger une augmentation des impôts pour améliorer le sort de nos propres compa­trio­tes de l'ex-RDA, mais lorsqu'a éclaté la guer­re du Golfe, il a immédiatement imposé une augmentation et a soutenu une action militaire qui a fait passer un peu plus de 100.000 Irakiens de vie à trépas. Admettons que la guerre du Golfe a servi de prétexte pour faire passer une nécessaire augmenta­tion des impôts. Il n'empêche que le procédé, que ce type de justification, dévoile la dé­chéance morale de nos milieux officiels. Pas d'augmentation des impôts pour l'Alle­ma­gne centrale, mais une augmenta­tion pour permettre aux Américains de massacrer les Irakiens qui ne nous mena­çaient nullement. Je ne trouve pas de mots assez durs pour dé­noncer cette aberration, même si je stig­ma­tise très souvent les hypo­crisies à conno­ta­tions humanistes qui con­duisent à l'inhu­ma­nité. Je préfère les dis­cours non huma­nistes qui ne conduisent pas à l'inhuma­ni­té.

 

Q.: Comment le gouvernement fédéral au­rait-il dû agir?

 

GM: Il avait deux possibilités, qui peuvent sembler contradictoires à première vue. J'ai­me toujours paraphraser Charles Maur­ras et dire «La nation d'abord!». Première possibilité: nous aurions dû parti­ciper à la guerre avec un fort contingent, si possible un contingent quantitativement su­périeur à ce­lui des Britanniques, mais ex­clusivement avec des troupes terrestres, car, nous Alle­mands, savons trop bien ce qu'est la guerre aérienne. Nous aurions alors dû lier cet engagement à plusieurs conditions: avoir un siège dans le Conseil de Sécurité, faire sup­primer les clauses des Nations Unies qui font toujours de nous «une nation ennemie», fai­re en sorte que le traité nous interdisant de posséder des armes nu­cléaires soit rendu caduc. Il y a au moins certains indices qui nous font croire que les Etats-Unis auraient accepté ces conditions. Deuxième possibilité: nous aurions dû refu­ser catégoriquement de nous impliquer dans cette guerre, de quelque façon que ce soit; nous aurions dû agir au sein de l'ONU, sur­tout au moment où elle était encore réticente, et faire avancer les cho­ses de façon telle, que nous aurions dé­clenché un conflit de grande envergure avec les Etats-Unis. Ces deux scénarios n'appa­raissent fantasques que parce que notre dé­gé­nérescence nationale et politique est désor­mais sans limites.

 

Q.: Mais la bombe atomique ne jette-t-elle pas un discrédit définitif sur le phénomène de la guerre?

 

GM: Non. Le vrai problème est celui de sa lo­calisation. Nous n'allons pas revenir, bien sûr, à une conception merveilleuse de la guer­re limitée, de la guerre sur mesure. Il n'empêche que le phénomène de la guerre doit être accepté en tant que régulateur de tout statu quo devenu inacceptable. Sinon, de­vant toute crise semblable à celle du Ko­weit, nous devrons nous poser la question: de­vons-nous répéter ou non l'action que nous avons entreprise dans le Golfe? Alors, si nous la répétons effectivement, nous créons de facto une situation où plus aucun droit des gens n'est en vigueur, c'est-à-dire où seu­le une grande puissance exécute ses plans de guerre sans égard pour personne et impose au reste du monde ses intérêts parti­culiers. Or comme toute action contre une grande puissance s'avère impossible, nous aurions en effet un nouvel ordre mondial, centré sur la grande puissance dominante. Et si nous ne répétons pas l'action ou si nous introduisons dans la pratique politique un «double critère» (nous intervenons contre l'Irak mais non contre Israël), alors le nou­veau droit des gens, expression du nouvel ordre envisagé, échouera comme a échoué le droit des gens imposé par Genève jadis. S'il n'y a plus assez de possibilités pour faire ac­cepter une mutation pacifique, pour amorcer une révision générale des traités, alors nous devons accepter la guerre, par nécessité. J'a­jouterais en passant que toute la Guerre du Golfe a été une provocation, car, depuis 1988, le Koweit menait une guerre froide et une guerre économique contre l'Irak, avec l'encouragement des Américains.

 

Q.: L'Allemagne est-elle incapable, au­jourd'hui, de mener une politique extérieure cohérente?

 

GM: A chaque occasion qui se présentera sur la scène de la grande politique, on verra que non seulement nous sommes incapables de mener une opération, quelle qu'elle soit, mais, pire, que nous ne le voulons pas.

 

Q.: Pourquoi?

 

GM: Parce qu'il y a le problème de la culpa­bilité, et celui du refoulement: nous avons refoulé nos instincts politiques profonds et naturels. Tant que ce refoulement et cette cul­pabilité seront là, tant que leurs retom­bées concrètes ne seront pas définitivement éliminées, il ne pourra pas y avoir de poli­tique allemande.

 

Q.: Donc l'Allemagne ne cesse de capituler sur tous les fronts...

 

GM: Oui. Et cela appelle une autre question: sur les monuments aux morts de l'avenir, inscrira-t-on «ils sont tombés pour que soit imposée la résolution 1786 de l'ONU»? Au printemps de cette année 1991, on pouvait re­pérer deux formes de lâcheté en Allemagne. Il y avait la lâcheté de ceux qui, en toutes cir­constances, hissent toujours le drapeau blanc. Et il y avait aussi la servilité de la CSU qui disait: «nous devons combattre aux côtés de nos amis!». C'était une servilité machiste qui, inconditionnellement, voulait que nous exécutions les caprices de nos pseudo-amis.

 

Q.: Sur le plan de la politique intérieure, qui sont les vainqueurs et qui sont les perdants du débat sur la Guerre du Golfe?

 

GM: Le vainqueur est inconstestablement la gauche, style UNESCO. Celle qui n'a que les droits de l'homme à la bouche, etc. et estime que ce discours exprime les plus hautes va­leurs de l'humanité. Mais il est une question que ces braves gens ne se posent pas: QUI décide de l'interprétation de ces droits et de ces valeurs? QUI va les imposer au monde? La réponse est simple: dans le doute, ce sera toujours la puissance la plus puissante. A­lors, bonjour le droit du plus fort! Les droits de l'homme, récemment, ont servi de levier pour faire basculer le socialisme. A ce mo­ment-là, la gauche protestait encore. Mais aujourd'hui, les droits de l'homme servent à fractionner, à diviser les grands espaces qui recherchent leur unité, où à dé­truire des Etats qui refusent l'alignement, où, plus sim­plement, pour empêcher cer­tains Etats de fonctionner normalement.

 

Q.: Que pensez-vous du pluralisme?

 

GM: Chez nous, on entend, par «pluralis­me», un mode de fonctionnement politique qui subsiste encore ci et là à grand peine. On prétend que le pluralisme, ce sont des camps politiques, opposés sur le plan de leurs Welt­an­schauungen, qui règlent leurs différends en négociant des compromis. Or la RFA, si l'on fait abstraction des nouveaux Länder d'Al­lemagne centrale, est un pays idéolo­gi­quement arasé. Les oppositions d'ordre con­fessionnel ne constituent plus un facteur; les partis ne sont plus des «armées» et n'exi­gent plus de leurs membres qu'ils s'en­ga­gent totalement, comme du temps de la Ré­pu­blique de Weimar. A cette époque, comme nous l'enseigne Carl Schmitt, les «totalités parcellisées» se juxtaposaient. On naissait quasiment communiste, catholique du Zen­trum, social-démocrate, etc. On pas­sait sa jeunesse dans le mouvement de jeu­nesse du parti, on s'affiliait à son association sportive et, au bout du rouleau, on était en­terré grâce à la caisse d'allocation-décès que les core­li­gionnaires avaient fondée... Ce plu­ralisme, qui méritait bien son nom, n'existe plus. Chez nous, aujourd'hui, ce qui do­mine, c'est une mise-au-pas intérieure com­plète, où, pour faire bonne mesure, on laisse subsister de petites différences mineures. Les bonnes consciences se réjouissent de cette situation: elles estiment que la RFA a résolu l'énigme de l'histoire. C'est là notre nouveau wilhel­mi­nisme: «on y est arrivé, hourra!»; nous avons tiré les leçons des er­reurs de nos grands-pères. Voilà le consen­sus et nous, qui étions, paraît-il, un peuple de héros (Hel­den),  sommes devenus de véri­tables marc­hands (Händler),  pacifiques, amoureux de l'argent et roublards. Qui plus est, la four­chette de ce qui peut être dit et pensé sans encourir de sanctions s'est ré­duite conti­nuel­lement depuis les années 50. Je vous rappel­lerais qu'en 1955 paraissait, dans une gran­de maison d'édition, la Deutsche Verlags-Anstalt, un livre de Wilfried Martini, Das Ende aller Sicherheit,  l'une des critiques les plus pertinentes de la démocratie parle­men­taire. Ce livre, au­jourd'hui, ne pourrait plus paraître que chez un éditeur ultra-snob ou dans une maison minuscule d'obédience ex­trê­me-droitiste. Cela prouve bien que l'es­pace de liberté intel­lectuelle qui nous reste se rétrécit comme une peau de chagrin. Les cri­tiques du sys­tème, de la trempe d'un Mar­tini, ont été sans cesse refoulés, houspillés dans les feuilles les plus obscures ou les cé­nacles les plus sombres: une fatalité pour l'intelligence! L'Allemagne centrale, l'ex-RDA, ne nous apportera aucun renouveau spirituel. Les intellectuels de ces provinces-là sont en grande majorité des adeptes exta­tiques de l'idéologie libérale de gauche, du pacifisme et de la panacée «droit-de-l'hom­marde». Ils n'ont conservé de l'idéologie of­ficielle de la SED (le parti au pouvoir) que le miel humaniste: ils ne veu­lent plus entendre parler d'inimitié (au sens schmittien), de con­flit, d'agonalité, et four­rent leur nez dans les bouquins indigestes et abscons de Stern­berger et de Habermas. Mesurez le désastre: les 40 ans d'oppression SED n'ont même pas eu l'effet d'accroître l'intelligence des op­pressés!

 

Q.: Mais les Allemands des Länder centraux vont-ils comprendre le langage de la réédu­cation que nous maîtrisons si bien?

 

GM: Ils sont déjà en train de l'apprendre! Mais ce qui est important, c'est de savoir re­pérer ce qui se passe derrière les affects qu'ils veulent bien montrer. Savoir si quel­que chose changera grâce au nouveau mé­lan­ge inter-allemand. Bien peu de choses se dessinent à l'horizon. Mais c'est égale­ment une question qui relève de l'achèvement du processus de réunification, de l'harmo­ni­sa­tion économique, de savoir quand et com­ment elle réussira. A ce mo­ment-là, l'Alle­ma­gne pourra vraiment se demander si elle pourra jouer un rôle poli­tique et non plus se borner à suivre les Alliés comme un toutou. Quant à la classe politique de Bonn, elle es­père pouvoir échapper au destin grâce à l'u­nification européenne. L'absorption de l'Al­le­magne dans le tout eu­ropéen: voilà ce qui devrait nous libérer de la grande politique. Mais cette Europe ne fonc­tionnera pas car tout ce qui était «faisable» au niveau eu­ro­péen a déjà été fait depuis longtemps. La cons­truction du marché inté­rieur est un bri­colage qui n'a ni queue ni tête. Prenons un exemple: qui décidera de­main s'il faut ou non proclamer l'état d'urgence en Grèce? Une majorité rendue possible par les voix de quelques députés écossais ou belges? Vouloir mener une poli­tique supra-nationale en con­servant des Etats nationaux consolidés est une impossi­bilité qui divisera les Européens plutôt que de les unir.

 

Q.: Comment jugez-vous le monde du con­servatisme, de la droite, en Allemagne? Sont-ils les moteurs des processus domi­nants ou ne sont-ils que des romantiques qui claudiquent derrière les événements?

 

GM: Depuis 1789, le monde évolue vers la gauche, c'est la force des choses. Le natio­nal-socialisme et le fascisme étaient, eux aussi, des mouvements de gauche (j'émets là une idée qui n'est pas originale du tout). Le conservateur, le droitier  —je joue ici au terrible simplificateur—  est l'homme du moin­dre mal. Il suit Bismarck, Hitler, puis Adenauer, puis Kohl. Et ainsi de suite, us­que ad finem. Je ne suis pas un conserva­teur, un homme de droite. Car le problème est ailleurs: il importe bien plutôt de savoir comment, à quel moment et qui l'on «main­tient». Ce qui m'intéresse, c'est le «main­te­neur», l'Aufhalter,  le Cat-echon  dont par­lait si souvent Carl Schmitt. Hegel et Sa­vi­gny étaient des Aufhalter  de ce type; en poli­ti­que, nous avons eu Napoléon III et Bis­marck. L'idée de maintenir, de contenir le flot révolutionnai­re/­dis­s­olutif, m'apparait bien plus intéressante que toutes les belles idées de nos braves conservateurs droitiers, si soucieux de leur Bildung.  L'Aufhalter  est un pessimiste qui passe à l'action. Lui, au moins, veut agir. Le conservateur droitier ouest-allemand, veut-il agir? Moi, je dis que non!

 

Q.: Quelles sont les principales erreurs des hommes de droite allemands?

 

GM: Leur grande erreur, c'est leur rous­seauisme, qui, finalement, n'est pas telle­ment éloigné du rousseauisme de la gauche. C'est la croyance que le peuple est naturel­lement bon et que le magistrat est corrup­ti­ble. C'est le discours qui veut que le peuple soit manipulé par les politiciens qui l'op­pres­sent. En vérité, nous avons la démo­cratie to­tale: voilà notre misère! Nous avons au­jour­d'hui, en Allemagne, un système où, en haut, règne la même morale ou a-morale qu'en bas. Seule différence: la place de la vir­gule sur le compte en banque; un peu plus à gauche ou un peu plus à droite. Pour tout ordre politique qui mérite d'être qualifié d'«or­dre», il est normal qu'en haut, on puis­se faire certaines choses qu'il n'est pas per­mis de faire en bas. Et inversément: ceux qui sont en haut ne peuvent pas faire cer­taines choses que peuvent faire ceux qui sont en bas. On s'insurge contre le financement des partis, les mensonges des politiciens, leur corruption, etc. Mais le mensonge et la cor­ruption, c'est désormais un sport que prati­que tout le peuple. Pas à pas, la RFA devient un pays orientalisé, parce que les structures de l'Etat fonctionnent de moins en moins correctement, parce qu'il n'y a plus d'éthi­que politique, de Staatsethos,  y com­pris dans les hautes sphères de la bureau­cratie. La démocratie accomplie, c'est l'uni­ver­salisa­tion de l'esprit du p'tit cochon roublard, le règne universel des petits ma­lins. C'est précisément ce que nous subis­sons aujour­d'hui. C'est pourquoi le mécon­tentement à l'égard de la classe politicienne s'estompe toujours aussi rapidement: les gens devinent qu'ils agiraient exactement de la même fa­çon. Pourquoi, dès lors, les politi­ciens se­raient-ils meilleurs qu'eux-mêmes? Il fau­drait un jour examiner dans quelle mesure le mépris à l'égard du politicien n'est pas l'envers d'un mépris que l'on cul­tive trop souvent à l'égard de soi-même et qui s'ac­com­mode parfaitement de toutes nos pe­tites prétentions, de notre volonté générale à vou­loir rouler autrui dans la farine, etc.

 

Q.: Et le libéralisme?

 

GM: Dans les années qui arrivent, des crises toujours plus importantes secoueront la pla­nète, le pays et le concert international. Le libéralisme y rencontrera ses limites. La pro­chaine grande crise sera celle du libéra­lisme. Aujourd'hui, il triomphe, se croit in­vincible, mais demain, soyez en sûr, il tom­bera dans la boue pour ne plus se relever.

 

Q.: Pourquoi?

 

GM: Parce que le monde ne deviendra ja­mais une unité. Parce que les coûts de toutes sortes ne pourront pas constamment être externalisés. Parce que le libéralisme vit de ce qu'ont construit des forces pré-libérales ou non libérales; il ne crée rien mais consomme tout. Or nous arrivons à un stade où il n'y a plus grand chose à consommer. A commen­cer par la morale... Puisque la morale n'est plus déterminée par l'ennemi extérieur, n'a plus l'ennemi extérieur pour affirmer ce qu'elle entend être et promouvoir, nous dé­bouchons tout naturellement sur l'implosion des valeurs...  Et le libéralisme échouera par­ce qu'il ne pourra plus satisfaire les be­soins économiques qui se font de plus en plus pressants, notamment en Europe orientale.

 

Q.: Vous croyez donc que les choses ne changent qu'à coup de catastrophes?

 

GM: C'est exact. Seules les catastrophes font que le monde change. Ceci dit, les catas­tro­phes ne garantissent pas pour autant que les peuples modifient de fond en comble leurs modes de penser déficitaires. Depuis des an­nées, nous savions, ou du moins nous étions en mesure de savoir, ce qui allait se passer si l'Europe continuait à être envahie en masse par des individus étrangers à notre espace, provenant de cultures radica­lement autres par rapport aux nôtres. Le problème devient particulièrement aigu en Allemagne et en France. Quand nous au­rons le «marché in­térieur», il deviendra plus aigu encore. Or à toute politique ration­nelle, on met des bâtons dans les roues en invoquant les droits de l'homme, etc. Ceci n'est qu'un exemple pour montrer que le fossé se creusera toujours davantage entre la capacité des uns à prévoir et la promptitude des autres à agir en con­séquence.

 

Q.: Ne vous faites-vous pas d'illusions sur la durée que peuvent prendre de tels processus? Au début des années 70, on a pronostiqué la fin de l'ère industrielle; or, des catastrophes comme celles de Tchernobyl n'ont eu pour conséquence qu'un accroissement générale de l'efficience industrielle. Même les Verts pratiquent aujourd'hui une politique indus­trielle. Ne croyez-vous pas que le libéralisme s'est montré plus résistant et innovateur qu'on ne l'avait cru?

 

GM: «Libéralisme» est un mot qui recouvre beaucoup de choses et dont la signification ne s'étend pas à la seule politique indus­triel­le. Mais, même en restant à ce niveau de po­litique industrielle, je resterai critique à l'é­gard du libéralisme. Partout, on cherche le salut dans la «dé-régulation». Quelles en sont les conséquences? Elles sont patentes dans le tiers-monde. Pour passer à un autre plan, je m'étonne toujours que la droite re­proche au libéralisme d'être inoffensif et inefficace, alors qu'elle est toujours vaincue par lui. On oublie trop souvent que le libéra­lisme est aussi ou peut être un système de domination qui fonctionne très bien, à la condition, bien sûr, que l'on ne prenne pas ses impératifs au sérieux. C'est très clair dans les pays anglo-saxons, où l'on parle sans cesse de democracy  ou de freedom,  tout en pensant God's own country  ou Britannia rules the waves.  En Allemagne, le libéralisme a d'emblée des effets destruc­teurs et dissolutifs parce que nous prenons les idéologies au sérieux, nous en faisons les impératifs catégoriques de notre agir. C'est la raison pour laquelle les Alliés nous ont octroyé ce système après 1945: pour nous neutraliser.

 

Q.: Etes-vous un anti-démocrate,

Monsieur Maschke?

 

GM: Si l'on entend par «démocratie» la par­titocratie existente, alors, oui, je suis anti-démocrate. Il n'y a aucun doute: ce système promeut l'ascension sociale de types hu­mains de basse qualité, des types humains médiocres. A la rigueur, nous pourrions vi­vre sous ce système si, à l'instar des Anglo-Sa­xons ou, partiellement, des Français, nous l'appliquions ou l'instrumentalisions avec les réserves né­cessaires, s'il y avait en Allemagne un «bloc d'idées incontestables», imperméable aux effets délétères du libé­ra­lisme idéologique et pratique, un «bloc» se­lon la définition du ju­riste français Maurice Hauriou. Evidemment, si l'on veut, les Alle­mands ont aujourd'hui un «bloc d'idées in­contes­tables»: ce sont celles de la culpabilité, de la rééducation, du refoulement des acquis du passé. Mais contrairement au «bloc» dé­fini par Hauriou, notre «bloc» est un «bloc» de faiblesses, d'éléments affaiblissants, in­ca­­pacitants. La «raison d'Etat» réside chez nous dans ces faiblesses que nous cultivons jalousement, que nous conservons comme s'il s'agissait d'un Graal. Mais cette omni­pré­sence de Hitler, cette fois comme cro­que­mitaine, signifie que Hitler règne tou­jours sur l'Allemagne, parce que c'est lui, en tant que contre-exemple, qui détermine les règles de la politique. Je suis, moi, pour la suppres­sion définitive du pouvoir hitlérien.

 

Q.: Vous êtes donc le seul véritable

anti-fasciste?

 

GM: Oui. Chez nous, la police ne peut pas être une police, l'armée ne peut pas être une armée, le supérieur hiérarchique ne peut pas être un supérieur hiérarchique, un Etat ne peut pas être un Etat, un ordre ne peut pas être un ordre, etc. Car tous les chemins mènent à Hitler. Cette obsession prend les formes les plus folles qui soient. Les spécula­tions des «rééducateurs» ont pris l'ampleur qu'elles ont parce qu'ils ont affirmé avec succès que Hitler résumait en sa personne tout ce qui relevait de l'Etat, de la Nation et de l'Autorité. Les conséquences, Arnold Gehlen les a résumées en une seule phrase: «A tout ce qui est encore debout, on extirpe la moëlle des os». Or, en réalité, le système mis sur pied par Hitler n'était pas un Etat mais une «anarchie autoritaire», une alliance de groupes ou de bandes qui n'ont jamais cessé de se combattre les uns les autres pendant les douze ans qu'a duré le national-socia­lisme. Hitler n'était pas un nationaliste, mais un impérialiste racialiste. Pour lui, la nation allemande était un instrument, un réservoir de chair à canon, comme le prouve son comportement du printemps 1945. Mais cette vision-là, bien réelle, de l'hitlérisme n'a pas la cote; c'est l'interprétation sélective­ment colorée qui s'est imposée dans nos es­prits; résultat: les notions d'Etat et de Nation peuvent être dénoncées de manière ininter­rompue, détruites au nom de l'éman­cipa­tion.

 

Q.: Voyez-vous un avenir pour la droite en Allemagne?

 

GM: Pas pour le moment.

 

Q.: A quoi cela est-il dû?

 

GM: Notamment parce que le niveau intel­lectuel de la droite allemande est misérable. Je n'ai jamais cessé de le constater. Avant, je prononçais souvent des conférences pour ce public; je voyais arriver 30 bonshommes, parmi lesquels un seul était lucide et les 29 autres, idiots. La plupart étaient tenaillés par des fantasmes ou des ressentiments. Ce public des cénacles de droite vous coupe tous vos effets. Ce ne sont pas des assemblées, soudées par une volonté commune, mais des poulaillers où s'agitent des individus qui se prétendent favorables à l'autorité mais qui, en réalité, sont des produits de l'éducation anti-autoritaire.

 

Q.: L'Amérique est-elle la cible principale

de l'anti-libéralisme?

 

GM: Deux fois en ce siècle, l'Amérique s'est dressée contre nous, a voulu détruire nos œu­vres politiques, deux fois, elle nous a dé­claré la guerre, nous a occupés et nous a ré­éduqués.

 

Q.: Mais l'anti-américanisme ne se déploie-t-il pas essentiellement au niveau «impolitique» des sentiments?

 

GM: L'Amérique est une puissance étran­gè­re à notre espace, qui occupe l'Europe. Je suis insensible à ses séductions. Sa culture de masse a des effets désorientants. Certes, d'aucuns minimisent les effets de cette cul­ture de masse, en croyant que tout style de vie n'est que convention, n'est qu'extériorité. Beaucoup le croient, ce qui prouve que le pro­blème de la forme, problème essentiel, n'est plus compris. Et pas seulement en Alle­ma­gne.

 

Q.: Comment expliquez-vous la montée du néo-paganisme, au sein des droites, spécia­lement en Allemagne et en France?

 

GM: Cette montée s'explique par la crise du christianisme. En Allemagne, après 1918, le protestantisme s'est dissous; plus tard, à la suite de Vatican II dans les années 60, ça a été au tour du catholicisme. On interprète le problème du christianisme au départ du con­cept d'«humanité». Or le christianisme ne repose pas sur l'humanité mais sur l'a­mour de Dieu, l'amour porté à Dieu. Au­jour­d'hui, les théologiens progressistes attri­buent au christianisme tout ce qu'il a jadis combattu: les droits de l'homme, la démo­cra­tie, l'amour du lointain (de l'exotique), l'af­faiblissement de la nation. Pourtant, du christianisme véritable, on ne peut même pas déduire un refus de la poli­tique de puis­sance. Il suffit de penser à l'époque baroque. De nos jours, nous trou­vons des chrétiens qui jugent qu'il est très chrétien de rejetter la distinction entre l'ami et l'ennemi, alors qu'el­le est induite par le péché originel, que les théologiens actuels cherchent à mini­mi­ser dans leurs interpré­tations. Mais seul Dieu peut lever cette dis­tinction. Hernán Cor­tés et Francisco Pizarro savaient encore que c'était impossible, con­trairement à nos évêques d'aujourd'hui, Lehmann et Kruse. Cortés et Pizarro étaient de meilleurs chré­tiens que ces deux évêques. Le néo-paga­nis­me a le vent en poupe à notre époque où la sécularisation s'accélére et où les églises el­les-mêmes favorisent la dé-spi­ritualisation. Mais être païen, cela signifie aussi prier. Demandez donc à l'un ou l'autre de ces néo-païens s'il prie ou s'il croit à l'un ou l'autre dieu païen. Au fond, le néo-paga­nisme n'est qu'un travestissement actualisé de l'athéis­me et de l'anticléricalisme. Pour moi, le néo-paganisme qui prétend revenir à nos racines est absurde. Nos racines se si­tuent dans le christianisme et nous ne pou­vons pas reve­nir 2000 ans en arrière.

 

Q.: Alors, le néo-paganisme,

de quoi est-il l'indice?

 

GM: Il est l'indice que nous vivons en déca­dence. Pour stigmatiser la décadence, notre époque a besoin d'un coupable et elle l'a trou­vé dans le christianisme. Et cela dans un mon­de où les chrétiens sont devenus ra­rissi­mes! Le christianisme est coupable de la dé­cadence, pensait Nietzsche, ce «fanfaron de l'intemporel» comme aimait à l'appeler Carl Schmitt. Nietzsche est bel et bien l'ancêtre spirituel de ces gens-là. Mais qu'entendait Nietzsche par christianisme? Le protestan­tis­me culturel libéral, prusso-allemand. C'est-à-dire une idéologie qui n'existait pas en Italie et en France; aussi je ne saisis pas pourquoi tant de Français et d'Italiens se réclament de Nietzsche quand ils s'attaquent au christianisme.

 

Q.: Monsieur Maschke, nous vous remer­cions de nous avoir accordé cet entretien.

 

(une version abrégée de cet entretien est pa­rue dans Junge Freiheit n°6/91; adresse: JF, Postfach 147, D-7801 Stegen/Freiburg).                

mardi, 25 novembre 2008

Una victoria con sabor amargo

Una victoria con sabor amargo

La oposición se quedó con la vidriera política de la capital, Caracas, en una elección donde el Partido Socialista Unido de Venezuela se impuso con holgura en 17 de 23 estados (otros dos todavía no presentaban numero firmes). El oficialismo es la principal fuerza política a nivel territorial y recuperó más de un millón de votos de los perdidos en el fallido referéndum constitucional de 2007.

Disimulado estupor en el comando del Partido Socialista Unido de Venezuela y caras desencajadas de goce en un improvisado comando unitario de una oposición desunida, es la postal de una Caracas que se fue a dormir tarde con un brusco y -para muchos- inesperado escenario a partir de los primeros días del 2009. La sorpresa la dio la directora del Consejo Nacional Electoral, Tibisay Lucena, quien pocos segundos antes de las doce de la noche, confirmó que la alcaldía mayor de la ciudad quedaría en manos de Antonio Ledezma, ex dirigente del partido Acción Democrática.

El otro resultado recibido con preocupación en el cuartel del oficialismo fue en el vecino estado Miranda, donde Enrique Capriles Radonski, ex alcalde del municipio Baruta, procesado por el sitio violento sobre la embajada de Cuba durante el golpe de 2002, se impuso con cierta comodidad sobre el candidato del oficialismo y alguna vez vicepresidente de Hugo Chávez, Diosdado Cabello.

Si ese es el lado medio vacío del vaso, el lado medio lleno es el mapa de toda Venezuela que quedó, como le gusta decir al presidente Chávez “rojo rojito”: el Partido Socialista Unido de Venezuela (PSUV) se impuso en 17 de 23 estados, recuperando las gobernaciones de Aragua, Guárico y Sucre, y manteniendo Anzoátegui, Barinas, Bolívar, Yaracuy, Cojedes, Falcón, Guárico, Lara, Mérida, Monagas, Portuguesa, Trujillo, Vargas y Sucre, así como en el municipio Libertador de Caracas.

En términos numéricos, el PSUV recuperó parte del potencial electoral perdido el año pasado, cuando se impuso por un puñado de votos el NO a la reforma constitucional propuesta por el presidente Chávez, en lo que constituyó la primera derrota electoral del proyecto bolivariano. En diciembre pasado, el No triunfó con 4.379.392 votos, mientras que esta vez la suma de los votos a los candidatos del PSUV superó los 5.600.000.

Alta participación

A las cuatro de la tarde del domingo, cuando el sol todavía pegaba fuerte en Caracas, el CNE dio por formalmente cerrados los comicios regionales en Venezuela. Fue apenas una declaración formal, porque en la mayoría de los centros comiciales todavía se registraban largas colas de electores esperando su turno para votar.
La ley electoral venezolana es clara: los centros de comicios deben permanecer abiertos mientras haya ciudadanos esperando su turno. Y los había, y muchos. Y con mucha paciencia. En varias zonas del Este y el Sur de Caracas, ya bien entrada la noche seguían los colegios abiertos y sobre las 10.00 pm, más que tarde para los madrugadores caraqueños, aun se votaba en zonas populares. Lo mismo sucedía en varios estados, en especial en otras ciudades grandes, como Maracaibo.

Sólo viendo las largas colas extendidas hasta la noche, se sabía que la participación rompería récords para una elección donde no estaba en juego la figura presidencial. En el primer parte con casi todos los votos contados, el CNE confirmó la cifra: 65,45%

Elección compleja

En Sucre, en el este de Caracas y asiento de Petare, uno de los asentamientos populares más grandes de América Latina, los ciudadanos debieron elegir once opciones: gobernador del estado Miranda, alcalde mayor de Caracas, alcalde de Sucre, legisladores del estado y representantes citadinos, en votos por nombres y por lista.
Una recorrida de Rebelión por ese distrito verificó cómo el voto se hizo lento y complejo para los más viejitos y para los más humildes. Otra variable también fue evidente: por la mañana, detenidos por unas nubes que amenazaban con descargar un “palo de agua” -denominación local para los aguaceros-, fueron muchos los que se quedaron en casa.
Así, los primeros sondeos para el PSUV eran preocupantes . Fue cuando la militancia redobló esfuerzos y llegaron más -junto al sol oportuno de la tarde- a los colegios electorales. La afluencia dio frutos y al atardecer los números empezaron a cambiar, aunque no alcanzaron para revertir los malos resultados en Miranda y la alcaldía mayor de Caracas.

Los siguientes resultados corresponden al 95.67% de la transmisión en un promedio nacional:

Distrito Capital
Antonio Ledezma 52.45%
Aristóbulo Istúriz 44.92%

 

Municipio Libertador - Caracas
Jorge Rodríguez 53.05%
Iván Stalin González 41.92%

Anzoátegui
Tarek William Saab 55.06%
Gustavo Marcano 40.50%

Apure
Jesús Aguilarte 56.48%
Miriam de Montilla 26.54%

Aragua
Rafael Isea 58.56%
Henry Rosales 40.17%

Barinas
Adán Chávez 49.63%
Julio Cesar Reyes 44.58%

Bolívar
Francisco Rangel 46.97%
Andrés Velásquez 30.47%

Cojedes
Teodoro Bolívar 51.53%
Alberto Galíndez el 40.36%

Delta Amacuro
Lisetta Hernández 55.54% Pedro
Rafael Santaella 25.85%

Guárico
Lenny Manuitt 33.68%
Willian Lara 52.08%

Mérida
Marcos Díaz 54.62%
Williams Dávila 45.11%

Lara
Henry Falcón 73.15%
Pedro Pablo Alcántara 14.85%

 

Miranda
Henrique Capriles Radonsky 52.56 %
Diosdado Cabello 36.74%

Monagas
Jose Briceño 64.79%
Domingo Urbina 15.41 %

Sucre
Enrique Maestre 56.08%
Eduardo Morales 42.62%

Falcón
Stella Lugo: 55.27 %
Gregorio Graterol: 44.49%

Nueva Esparta
Morel Rodríguez: 57,64
William Fariñas: 41,69%

Portuguesa
Wilmar Castro Soteldo 57%
Jovito Villegas 27.28%

Trujillo
Hugo Cesar Cabezas 59.47%
Henrique Catalán 27%

Vargas
Jorge García 61.56%
Roberto Smith 32.18%

Yaracuy

Julio César León Heredia, 57.46%
Filipo Lapi 29.26%

Zulia
Gian Carlo Di Martino 45.02%
Pablo Pérez 53.59%

Nouveautés sur le site "Theatrum Belli"

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Bonjour,

Veuillez trouver ci-dessous les dernières publications du blog THEATRUM BELLI (http://www.theatrum-belli.com/ ).


Le "storytelling" de guerre ou l'art de formater les esprits (1/2)

« Des éclats de verre et des débris de meubles brisés jonchent le sol de la pièce. Par une brèche percée dans l'un des murs, on aperçoit la ville, la circulation sur le pont qui enjambe le fleuve, les moineaux qui se dispersent dans la brume... Une musique arabe et les voix des marchands remontent d'une rue commerçante en contrebas. À côté de moi, le commandant Paul Tyrrell scrute avec son...

Cette note a été publiée le 23 novembre 2008

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Le "storytelling" de guerre ou l'art de formater les esprit (2/2)

Des « armes de distraction massive » Pour Richard Lindheim, le vice-président de Paramount Digital Entertainment qui fut à l'origine de l'ICT, si la génération du Viêt-nam était celle de la télévision, les jeunes soldats d'aujourd'hui ont grandi avec les jeux vidéo. Selon une étude de l'armée, 90% des 75.000 jeunes qui rejoignent l'armée chaque année ont déjà utilisé des jeux...

Cette note a été publiée le 23 novembre 2008

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A l'école de l'élite militaire afghane

Une trentaine de soldats afghans grimpent en courant la pente raide de la "colline de l'homme perdu", fusil d'assaut à bout de bras, dans un nuage de poussière. "Hondo" les observe, avec le regard de l'expert : "Les Afghans sont rustiques, parfaitement adaptés à leur environnement ; ce sont des combattants inépuisables : le matin à 5 heures, ils sont à l'entraînement." Le commandant...

Cette note a été publiée le 22 novembre 2008

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Rafale en Afghanistan

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Cette note a été publiée le 22 novembre 2008

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Un militaire français tué en Afghanistan

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Cette note a été publiée le 22 novembre 2008

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Un turboréacteur de missile à peine plus grand qu'un stylo

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Cette note a été publiée le 22 novembre 2008

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Une "EFO" pour l'Afghanistan

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Cette note a été publiée le 22 novembre 2008

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L'Armée de Terre commande 560 nouveaux systèmes SITEL

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Cette note a été publiée le 22 novembre 2008

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La guerre culturelle

 

Cette note a été publiée le 21 novembre 2008

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L'Europe redoute la naissance d'une "Opep du gaz"

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Cette note a été publiée le 20 novembre 2008

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Course aux ressources naturelles : la troisième guerre mondiale a déjà commencé : la RDC en fait déjà les frais

Le contrôle des ressources naturelles sera, en ce 21ème siècle, au centre de nombreux conflits armés. On est encore loin d'un tableau attestant d'une guerre mondiale. Mais, les ingrédients pour y arriver sont bien là. A l'Est de la RDC où se livre depuis une dizaine d'années une grande razzia pour le contrôle des ressources naturelles en témoigne, avec l'entrée en scène de...

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Tsahal reste prête à frapper l'Iran

L'élection de Barack Obama suscite l'inquiétude de ceux qui redoutent de voir les États-Unis laisser Téhéran se doter de la bombe atomique. "C'est alors que le soleil s'est arrêté." Exactement comme il s'arrêta pendant vingt-quatre heures dans la Bible, à la demande de Josué, afin de permettre à l'armée d'Israël de vaincre ses ennemis amorites. À l'époque, Leev Raz y avait vu...

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Le "syndrome de la guerre du Golfe" confirmé par un rapport US

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Police/Gendarmerie : main dans la main ?

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Cette note a été publiée le 17 novembre 2008

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Attaques au mortier d'insurgés afghans

 

Cette note a été publiée le 16 novembre 2008

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Génération Irak (1/3)

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Cette note a été publiée le 16 novembre 2008

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Apocalypse Now Redux (1979 et 2001)

Les services secrets militaires américains confient au capitaine Willard la mission de trouver et d'exécuter le colonel Kurtz dont les méthodes sont jugées "malsaines". Kurtz, établi au-delà de la frontière avec le Cambodge, a pris la tête d'un groupe d'indigènes et mène des opérations contre l'ennemi avec une sauvagerie terrifiante. Au moyen d'un patrouilleur mis à sa disposition, ainsi...

Cette note a été publiée le 16 novembre 2008

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Un séminaire pour faire avancer le projet d' "ERASMUS militaire"

Un séminaire de haut niveau s'est déroulé les 13 et 14 novembre 2008 à Paris sur "l'initiative européenne pour les échanges de jeunes officiers" , plus connu sous le nom d' "ERASMUS militaire" puisque ce projet s'inspire du célèbre programme européen d'échanges étudiants. Ce séminaire sera ouvert par le secrétaire d'État français à la défense et aux anciens combattants, Jean-Marie...

Cette note a été publiée le 16 novembre 2008

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Les événements en RDC depuis une "Google map"

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Cette note a été publiée le 14 novembre 2008

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R. Steuckers: entretien-éclair sur l'actualité

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SYNERGIES EUROPEENNES – Ecole des cadres – Bruxelles – novembre 2008

 

Entretien-éclair avec Robert Steuckers sur l’actualité

 

Propos recueillis par Dimitri Severens

 

Q.: Obama vient d’être élu président des Etats-Unis. Son mandat apportera-t-il le changement escompté par les électeurs américains et espéré par la majorité des Européens, lassés par l’unilatéralisme des “néo-cons” qui ont colonisé le Parti Républicain au pouvoir depuis huit ans?

 

RS: L’hebdomadaire “Marianne”, de Paris, a récemment publié une double page qui nous enseigne de manière très didactique ce qu’Obama a vraisemblablement l’intention de faire. Les Démocrates américains et les “think tanks” qui se profilent derrière eux semblent parier, et c’est inquiétant pour nous Européens, sur un rapprochement avec la Chine, un rapprochement que la crise financière rend quasi inéluctable. Il est plus que probable que nous affronterons bientôt un tandem sino-américain, expression d’un voeu très ancien qui remonte déjà à 1848, quand, après la défaite du Mexique, les Etats-Unis devenaient une puissance pleinement bio-océanique, avec une façade atlantique face à la Vieille Europe, et une façade pacifique, face à un Japon encore plongé dans son isolement et une Chine en plein déclin, après les guerres de l’opium que lui avaient livrées la France et l’Angleterre. L’espoir américain, en ce milieu du 19ème siècle, était de coloniser indirectement cet immense marché chinois comptant déjà des millions de consommateurs potentiels.

 

L’émergence de ce tandem sino-américain, nous pouvons le pronostiquer en repérant le retour au pouvoir des “Clinton Boys” et surtout, celui, en coulisses, de Zbigniew Brzezinski. N’oublions pas, tout de même, que sa politique, depuis plus d’une trentaine d’années, vise avant toute chose à endiguer la Russie (et hier l’Union Soviétique), jugée ennemi absolu, et que, pour parfaire cet endiguement, il faut immanquablement se concilier la Chine. C’était d’ailleurs la raison qui avait poussé Kissinger et Nixon, en 1971 et 1972,  à renouer avec Pékin, un épisode de l’histoire contemporaine dont on a oublié quelque peu les tenants et aboutissants. Un tandem sino-américain, renforcé par l’alliance complémentaire de tous les turcophones selon une autre stratégie suggérée par Brzezinski, impliquerait, par voie de conséquence, la satellisation escomptée, mais non pour autant garantie, du Kazakhstan. Cette stratégie générale, dont le pilier est justement le tandem sino-américain, permet d’occuper et de neutraliser au bénéfice de Washington, toute l’Asie centrale, tout le “coeur du monde”  (selon la terminologie de Sir Halford John Mackinder). Nous aboutirions ainsi à la concrétisation du fameux “mongolisme” géopolitique, cher à Brzezinski, permettant d’installer un gigantesque verrou territorial de l’Egée au Pacifique. L’Europe occidentale et centrale, son coeur germanique et danubien, serait bloquée au niveau des Balkans et de la Méditerranée orientale, comme le voulait la stratégie de l’équipe Clinton-Albright, lors de la guerre contre la Serbie. La Russie, elle, serait bloquée et endiguée du Caucase au fleuve Amour, comme l’a toujours voulu la stratégie d’endiguement mise au point par Mackinder et Homer Lea dans la première décennie du 20ème siècle, deux classiques qu’il est bon d’avoir pour livres de chevet, faute de parler dans le vide.

 

Ce verrou de l’Egée à l’Amour a bien entendu pour objectif de limiter au maximum le contact terrestre entre la Russie et l’Iran, soit à le limiter aux seules côtes de la Caspienne, gardées, s’il le faut par de tierces puissances turcophones comme l’Azerbaïdjan, le Turkménistan et le Kazakhstan (qui n’ont pas répondu au chant des sirènes américaines jusqu’ici…). Autre objectif, déjà mis en oeuvre lors des guerres menées par l’Empire britannique en Afghanistan dans les années 40 du 19ème siècle: empêcher toute liaison terrestre entre l’Inde et la Russie, de façon à détacher, aujourd’hui, l’Inde de son hinterland continental et de l’inféoder, en tant que “rimland” et immense marché potentiel, à la thalassocratie américaine dominante. Cette stratégie risque évidemment de trouver sa pierre d’achoppement dans la rivalité sino-indienne pour le Tibet et dans la nécessité vitale, pour la Chine, de capter l’eau des réserves phréatiques tibétaines, le cas échéant en détournant les eaux des fleuves, notamment celles du Brahmapoutre. La diplomatie américaine devra déployer des trésors d’ingéniosité pour aplanir ce contentieux et pour aligner l’Inde sur sa politique. Déjà quelques signaux, en apparence anodins, annoncent que l’on va lâcher le Tibet: notamment, cette semaine, un article du “Time” déplore l’émiettement de l’opposition tibétaine qui, du coup, ne vaut plus qu’on la soutienne.

 

Comme les néo-cons de l’équipe Bush, les nouveaux conseillers d’Obama veulent, eux aussi, et avec une égale opiniâtreté, inclure l’Ukraine et la Géorgie dans l’OTAN. L’adhésion de l’Ukraine correspond à la stratégie générale préconisée depuis toujours par Brzezinski et au pari de l’équipe Bush jr sur la “Nouvelle Europe”. En effet, l’inféodation définitive de l’Ukraine, avec ou sans la Crimée, avec ou sans ses provinces orientales russophones et russophiles, permet, de concert avec une réactivation du tandem turco-américain dans la région pontique, de concentrer tous les atouts de l’ancienne géopolitique ottomane dans la région et de conjuguer ceux-ci à une réactualisation du projet de ‘Cordon sanitaire” de Mackinder et Curzon. Les pays Baltes, la Pologne, la Hongrie, la Roumanie et, dans une moindre mesure, la Bulgarie, sans compter les micro-puissances musulmanes des Balkans, se verraient ajoutés à un bloc anatolien solide en Méditerranée orientale et surplombant la Mésopotamie. Ce bloc séparerait la “Vieille Europe” de la Russie et, joint à une alliance “turcophone” en Asie centrale, à la Mongolie et à la Chine permettrait de créer un espace correspondant plus ou moins à l’ensemble des conquêtes mongoles au moment de leur extension maximale.

 

La présence, sur la masse continentale eurasienne, d’un verrou d’une telle ampleur, empêcherait toute coopération entre les empires structurés, reposant sur la stabilité sédentaire (et non plus sur la non durabilité nomade), disséminés sur ce grand continent qu’est le “Vieux monde” ou “l’hémisphère oriental”.

 

Face à ce projet, qui a gardé toute sa cohérence de Mackinder à Brzezinski, donc sur un très long terme, l’Europe, expliquent de concert “The Economist”, “Time” et “Newsweek” n’a pas une politique qui tienne la route. On l’a bien vu lors de la “Guerre d’août” en Géorgie: Merkel avait émis au printemps de fortes réticences quant à l’adhésion de l’Ukraine et de la Géorgie à l’OTAN; après la victoire des troupes russes, elle déclare à Tbilissi qu’elle est en faveur de cette adhésion, pour répéter son “Nein” initial vers le milieu de l’automne. Nous l’avons toujours dit: le personnel politique européen aurait dû, depuis longtemps, depuis le rapprochement sino-américain de 1971-72 et depuis le retour en force de la pensée géopolitique avec Colin S. Gray aux Etats-Unis juste avant l’avènement de Reagan, apprendre à jongler avec les concepts de cette discipline à facettes multiples et surtout à redécouvrir les linéaments de la géopolitique européenne, théorisée par Haushofer et ses collaborateurs. Rien de cela n’a été fait donc l’Europe en est à cultiver des espoirs stupides et niais face à l’avènement d’une nouvelle équipe au pouvoir à Washington, qui serait parée de toutes les vertus, tout simplement parce qu’elle est “démocrate”.

 

Q.: Et la crise financière dans tout cela? Ne va-t-elle pas freiner les appétits impérialistes de la grande thalassocratie d’Outre-Atlantique? Ne va-t-elle pas plonger le monde dans l’immobilisme, faute de moyens?

 

RS: La plus belle analyse de la situation a été posée Niall Ferguson, historien britannique et professeur à Harvard, dans l’entretien qu’il a accordé à l’hebdomadaire allemand “Der Spiegel” (n°46/2008) et que nous avons commenté lors d’une réunion récente de l’école des cadres de “Synergies Européennes” à Bruxelles et à Liège. La crise, dit-il, lors de ses prochaines retombées, va frapper plus durement l’Europe que les Etats-Unis. Quant aux pays contestataires et producteurs de pétrole, tels la Russie, l’Iran et le Venezuela, qui envisageaient de faire front à l’unilatéralisme américain de l’équipe Bush, ils risquent d’être les victimes de la chute des prix du pétrole. La crise permet donc de disloquer la cohésion de ce nouveau front. Ensuite, Ferguson démontre la communauté d’intérêt entre la Chine et les Etats-Unis: la Chine a des dollars, rappelle-t-il, dont les Américains ont besoin pour se renflouer, et les Etats-Unis sont un marché dont les Chinois ne peuvent plus se passer. L’équipe derrière Obama semble l’avoir compris. C’est la raison pour laquelle Ferguson estime que les Etats-Unis risquent bien de sortir vainqueurs de la crise, en perdant certes quelques plumes, mais beaucoup moins que leurs concurrents européens. Et le tour serait joué!

 

Le programme restera le même, sur le fond: encerclement de la Russie, endiguement (surtout économique) de l’Europe, mais sans plus heurter de front les musulmans et les Chinois. En effet, on reprochait à Bush d’avoir sérieusement abîmé la vieille alliance entre la Turquie et les Etats-Unis, d’avoir perdu énormément de crédit au Pakistan et d’avoir déplu aux masses arabes, tous pays confondus. La politique anti-chinoise générant, dans un tel contexte, une inimitié de trop, difficile à gérer. L’Europe entrera dans une phase d’affaiblissement et de ressac parce que l’équipe d’Obama, comme celle de Bush avant lui, excitera la “Nouvelle Europe” du nouveau “Cordon sanitaire” à la Curzon, contre la “Vieille Europe” plus favorable à un rapprochement avec la Russie, conflit interne à l’Europe qui ruinera les efforts d’intégration européenne entrepris depuis plusieurs décennies. Cette politique générale d’endiguement et d’affaiblissement téléguidé se fera par le biais d’une alliance Etats-Unis/Chine/monde musulman wahhabite-sunnite comme au temps de Clinton. Car la même équipe revient aux affaires, surtout Madeleine Albright et Brzezinski. Les Etats-Unis, avec la crise, ne peuvent plus se permettre d’entretenir la quadruple hostilité qu’avait soulevée contre l’Amérique l’équipe sortante de Bush: hostilité à l’islam en général (même si cette hostilité était plus “fabriquée” par les médias que réelle), à la Chine, à la Russie et à la “Vieille Europe”, à qui on interdisait toute diplomatie internationale indépendante et conforme à ses intérêts propres. La géostratégie néo-conservatrice avait trouvé ses limites: elle s’était fait trop d’ennemis et perdait de ce fait de la marge de manoeuvre. Les démocrates vont se choisir des alliés et tabler sur les atouts sentimentaux que fait naître un président métis pour séduire l’Afrique, que Washington veut arracher à l’influence européenne depuis la seconde guerre mondiale, et pour mieux faire accepter les politiques américaines dans le monde musulman, malgré les réticences déjà observables suite à la nomination de Rahm Emanuel comme secrétaire général de la Maison Blanche; en Turquie, on prépare, semble-t-il, la succession d’Erdogan, qui a branlé dans le manche, en poussant en avant un homme formé aux Etats-Unis, un islamiste dit “modéré”: Numan Kurtulmus. L’avenir nous dira si cet économiste prendra le relais de l’équipe de l’AKP ou non à Ankara. Au Pakistan, les tentatives de se concilier à nouveau le pouvoir à Islamabad heurtent les Indiens, surtout après la nomination d’Ahmed Rashid et de Shuja Nawaz, tous deux d’origine pakistanaise, dans l’équipe du Général Petraeus en Afghanistan. 

 

L’électorat démocrate est plus varié, sur les plans religieux et idéologique, que l’électorat républicain, où les sectes protestantes, presbytériennes et puritaines, donnent irrémédiablement le ton, mais dont les idées ne sont guère exportables, tant elles paraissent étranges au reste du monde et rebutent.

 

L’avenir pour l’Europe n’est pas plus rose avec Obama que sous Bush. Tout porte même à penser que ce sera pire: la cohésion intellectuelle de la géopolitique de Brzezinski est bien plus redoutable que l’affrontement tous azimuts préconisé par la géopolitique offensive et unilatéraliste des néo-conservateurs, dénoncée dans “Foreign Affairs” comme “entravant tout raisonnement stratégique solide”. Pour nous, le combat doit continuer, pour rétablir le bloc euro-russe et, ainsi, une cohésion qui doit rappeler celle de la “Pentarchie” européenne du début du 19ème siècle. 

 

Revolta contra a Arquitectura Moderna

Revolta contra a Arquitectura Moderna

 Ex: http://inconformista.info/

«A arquitectura pré-modernista foi concebida para aproveitar a luz solar para o aquecimento e iluminação dos edifícios (e as brisas, que também são produzidas pela acção solar no ar, para o arrefecimento). O desenvolvimento dessas técnicas tradicionais foi uma acumulação lenta e dolorosa de experiências ao longo de séculos. Foi a abundância anómala de petróleo e gás baratos na nossa época que permitiu aos construtores, e sobretudo aos arquitectos, preocupados com questões de estilo, afastarem-se das práticas tradicionais que tiravam partido da energia solar passiva. O século XX foi a era das curtain walls de vidro nos prédios de escritórios, das janelas que não abriam (ou que não existiam), das fachadas em titânio e de outras façanhas da moda destinadas a decorar os edifícios para proclamar o génio ousado e criativo de quem os concebia. Este comportamento narcisista só foi possível numa sociedade com uma energia barata, na qual pouco mais importava na arquitectura do que a moda e o estatuto associados a um lugar de vanguarda. Num museu concebido por Frank Gehry, pouco importava que entrasse ar ou luz, porque era para isso que serviam o ar condicionado e os focos de halogéneo. O que importava era que a cidade fosse abençoada com um objectivo da moda criado por um xamã célebre. Ora, nada está mais sujeito a desvalorizar-se por deixar de estar na moda do que uma coisa que só é valorizada por ser moderna.»

James Howard Kunstler
in "O Fim do Petróleo - O Grande Desafio do Século XXI", Bizâncio, 2006.

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Claudio Risé: la destinée est en nous

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Claudio RISE:

La destinée est en nous

 

Le code de l'âme de Hillman bouleverse les instruments de la psychologie et nous apprend que

nous sommes porteurs, depuis le début, de l'empreinte d'un caractère individuel pourvu de

traits indélébiles. De Canetti à Kissinger, les parcours d'une vocation.

 

Freud dehors, Platon dedans. Dans son dernier ouvrage Le code de l'âme (Adelphi), James Hillman, perturbateur génial des banalités psychologiques, a enfin lancé une idée qui lui tournait dans la tête depuis des années et qui se flairait déjà un peu dans ses livres précédents. Il s'agit de la « théorie du gland ». La voici. Nous ne sommes pas le résultat des traumatismes subis pendant notre enfance ou des névroses de nos parents. Nous sommes autre chose. « Nous portons, imprimée en nous depuis le début, l'image d'un caractère précis et individuel, pourvu de traits indélébiles ». Comme le gland du chêne, qui porte en soi la “chênitude” de l'arbre qu'il va peut-être devenir. C'est pour récupérer cette image, porteuse d'une destinée, qu'on a recours à l'analyse. Le problème est que la panoplie des analystes (qui est, après tout, celle de Freud, utilisée aussi par les disciples de Jung) est contaminée par les toxines des théories qui voient la vie comme déterminée par les traumatismes de l'enfance.

 

Ainsi cette image innée qui nous montrerait notre vocation, notre “chênitude” personnelle, ne fait jamais surface, car l'intuition imaginaire, la faculté qui nous permettrait de la voir, reste enlisée dans la fange des névroses et des pathologies, encombrées, de surcroît, par l'idée d'évolution de la personnalité, alors que rien n'évolue: dans le “gland” il y a déjà tout. Comme le disait Picasso: « Je n'étudies pas, je ne fais que suivre ! ». Ou comme le dit Hillman: « Nous devons lire notre vie à l'envers, mais en abandonnant l'idée d'évolution et en recherchant plutôt la forme originaire qui est dans le “gland”, et si nous réalisons cette forme originaire (comme le disait Jung qui l'appelait “essence”), nous réalisons notre vie.

 

C'est la recherche de cette forme qui ressort de nos actes les plus impulsifs, les plus inconsidérés, actes pleins de vie, que la psychologie, par contre, estime malsains ou névrosés. Comme quand le petit Elias Canetti (prix Nobel de la littérature en 1981), fasciné par les caractères imprimés des journaux que son père lisait chaque jour, mais pas encore autorisé à apprendre, mendiait auprès de sa cousine Laurica (qui allait déjà à l'école) la permission de voir ses cahiers qui contenaient « ces lettres de l'alphabet qui étaient la chose la plus fascinante que j'eus jamais vue ». Et voilà qu'un jour, la cousine ne lui permet pas de voir l’écriture, alors le petit Canetti va chercher une hache: « Je voulus la tuer... je levai la hache et, en la brandissant devant moi, je répétai en marchant: je vais tuer Laurica, je vais tuer Laurica... ».

 

Quand quelqu'un voit devant soi l'image de son propre “gland”, il n'y a pas d'échappatoire possible: il doit le réaliser. « Canetti —dit Hillman— devait absolument s'emparer des lettres et des mots: comment aurait-il pu devenir écrivain ? C'est le démon, le génie, l’ange qui le veut. Ce qui se passe dans nos institutions pour l'hygiène mentale  —dit toujours Hillman— où les psycholeptiques sont distribués avec moins de retenue que les préservatifs, aurait suffi à transformer toutes les “éminentes personnalités”, devenues telles parce que fidèles à leur “gland”, en de pauvres hères sans personnalité depuis leur plus tendre enfance. Par contre, il faut que la psychologie jette ses bases dans l'imagination des personnes au lieu de prendre en considération ces dernières seulement pour des calculs statistiques ou pour des classements diagnostiques ». Pour seconder cette opération Hillman déploie sous les yeux étonnés du lecteur des centaines d'histoires d'éminences, aussi bien dans la réussite que dans l'échec, qui surent reconnaître leur propre “gland” et y rester fidèles, en dépit de toute hygiène mentale ou psychologico-évolutive.

 

Et voilà la petite Judy Garland (racontée par sa sœur) qui, à l'âge de deux ans, voit le numéro des Blue Sisters, trois petites sœurs entre cinq et douze ans. « Quand la plus petite des Blue Sisters commença à chanter... elle resta collée à la chaise comme en transes. Dans sa tête d'enfant, elle savait déjà exactement ce qu'elle voulait ». « Six mois plus tard, à deux ans et demi  —raconte Hillman— on lui fit faire un numéro avec ses deux plus grandes sœurs; après le numéro, toute seule, elle commença à chanter Jingle Bells, accompagnée par l'enthousiasme du public qui n'arrêtait pas de la rappeler sur scène. Et elle répondait en chantant et en faisant tinter ses clochettes de plus en plus fort, jusqu'au moment où son père dut la ramener de force... Le public l'adora instantanément ».

 

« Ne pensez surtout pas à des narcissismes maternels ou paternels  —met en garde Hillman—  j'attribuerais plutôt l'incroyable magnétisme de Frances Gumm (c'était son véritable nom), âgée de deux ans et demi à l'éclosion, sous les lumières du spectacle, du “gland” de Judy Garland, laquelle, pour commencer sa vie sur Terre, avait choisi précisément cette famille d'artistes et cette situation-là. Mais il faut aussi savoir que chaque “gland” exige son tribut. Pour Judy, le prix était: lavages d'estomac, chantage, gorge coupée avec des tessons de verre, scènes abominables en public, prise de tranquillisants, méchantes cuites, sexe sans discernement, perte d'un toit, désespoir profond... Mais le terrain de son “gland” était Somewhere over the rainbow, au delà de l'arc-en-ciel. Jusqu'à la fin, quand elle montait sur les planches bouffie par l'alcool, chancelante, troublée et en proie à la terreur, c'était cette chanson-là qui enchantait son auditoire, en entraînant l'artiste et son public vers les étoiles ».

 

Grande Judy ! Mais Grand James Hillman, dans ce livre ! Car aucun psychologue n'a jamais été en mesure de voir aussi nettement et aussi clairement la beauté de ce que nous appelons, avec hauteur, “pathologie” et qui n’est, en fait, que la réalisation d'une destinée, le déroulement exact du rôle qui nous a été confié, de la Moira, comme l'appelaient les Grecs de l'Antiquité. Hillman évite la chambre mortuaire de la psychologie et son langage, tout à la fois ordinaire et hautain, ne cache pas au lecteur que l'unicité du “gland” et la particularité absolue du démon qui le protège et l'illumine nous offre… un abîme de solitude... être vivants veut dire aussi être seuls ». Et aujourd'hui, en plus d'être quelque chose de difficile à vivre, comme cela l'a toujours été, c'est aussi être politiquement incorrect. « Tu dois socialiser, tu dois faire partie d'un groupe quelconque, tu dois participer. Colle-toi à un téléphone... ou alors demande à ton toubib qu’il te prescrive du Xanax (Prozac) ». Et puis il y a les théologies qui viennent d'Orient, ou d'Occident. « D'où qu'elles viennent, elles transforment subtilement le sens de la solitude en péché de solitude, en exaspérant le sentiment de malheur. Le désespoir devient vraiment insoutenable quand on cherche à s'en sortir ».

 

Mais regardons-la, ou mieux, éprouvons-la, cette solitude. Qu'est qu'on y trouve ? « Mélancolie, tristesse, silence... le substrat même des chansons de Judy Garland, du langage de son corps, de son visage, de ses yeux... cela rappelle au “gland” ses origines... Où sont ces origines ? Nous ne le savons pas car le lieu dont il est question dans les mythes et les cosmologies a disparu des mémoires ». « A force de vouloir rendre tout pathologique et psychologique, les Dieux, pour nous, sont devenus des maladies... Dionysos, nous dit-on, était un être obscène, Apollon était un être obsessionnel, tant et si bien que l'univers mythique, transcendent, l'univers d'où vient le “gland”, nous paraît, à nous Occidentaux modernes, rationnels et sécularisés, extrêmement éloigné, hors d'atteinte, beaucoup plus que lorsqu’il devait le paraître à Platon ». Et pourtant: « Judy Garland, alcoolique, droguée, ravagée, savait réveiller chez tous ceux qui l'écoutaient une sorte de pressentiment de ce qu'eux aussi dans un coin enfoui de leur âme, auraient espéré atteindre: l'image que chaque exilé porte en soi, dans son cœur, accompagné par le mélancolique souvenir de tout ce qui n'est pas de ce monde ». Ce serait donc une bonne thérapie, celle qui nous permettrait de reconnaître cette mélancolie, de lui rendre hommage sans essayer de la déloger à coup d'antidépresseurs. Le “gland”, c'est-à-dire nous, notre destinée, a une origine transcendante. C'est pourquoi ceux qui l'ont reconnu et réalisé refusent la biographie, ils ne veulent pas être racontés à travers une série de statistiques. Parce qu'ils savent bien ce que c’est, être différent.

 

Henry James mit le feu à ses journaux intimes dans le jardin, comme Dickens. A 29 ans (!) Freud avait déjà détruit ses journaux, et il disait: « Quant aux biographes, qu'ils se débrouillent. Je m'amuse beaucoup en pensant aux gaffes colossales qu'ils commettront ». D'autres personnages aiment raconter des faits absolument faux, régulièrement démentis par les témoins... Comment est-ce possible ? ». C'est, bien sûr, le “gland”, qui ne veut pas être diminué au niveau d'événements dus au hasard ou à la simple chronologie des choses, comme si la vie pouvait se résumer à l'affirmation banale qui veut que d'une chose en dérive forcément une autre.

 

Voici donc Henry Ford, qui raconte comment, lorsqu'il était enfant, il se faisait prêter les montres de ses voisins pour les démonter et pouvoir ainsi observer comment elles fonctionnaient. Il fit placer dans sa chambre un banc de travail d'horloger et il aimait raconter qu'adolescent, il avait souvent travaillé la nuit. Sa sœur nia les faits: jamais aucun voisin ne lui avait prêté de montre, jamais il n'avait réparé quoi que ce soit, jamais il n'avait eu de banc d'horloger dans sa chambre !

 

Et que dire de Henry Kissinger qui, interviewé sur son enfance passée à Furth, en Allemagne, en pleine période nazie, lui, juif, raconta: « Cette partie de mon enfance n'est pas significative pour ma vie. Pour les enfants, certaines choses ne sont pas tellement importantes ». En revanche, sa mère se souvient très bien de la peur et de l'effroi de ses fils quand des escouades de jeunes nazis passaient en défilant devant la maison. La biographie de Kissinger psychotise, dénonce le mécanisme du négationnisme et fait la relation entre la politique et ses jeunes années. Hillman pose la question: « Qui est l'auteur de cette vie, est-ce Kissinger ou est-ce son biographe ? Voilà un exemple typique de psycho-histoire. » En fait, le futur secrétaire d'Etat, l'homme de pouvoir capable d'affronter et de maîtriser les intrigues de la Maison Blanche, d'affronter les Breznev et les Mao Tsé Toung, d'ordonner les contrôles et les interceptions les plus dangereux et de proposer les bombardements contre l'ennemi, ne pouvait pas s’être senti menacé par un troupeau de garçons blonds en bas de laine. Pour le enfants, certaines choses ne sont pas tellement importantes parce que grâce à son “gland” Henry n 'avait jamais été l’enfant que sa mère avait devant les yeux.

 

Et l’on pourrait continuer ainsi encore longtemps... avec, par exemple, Léopold Stokowski, le compositeur, qui raconte quand son grand-père lui offrit son premier violon (en réalité son grand-père mourut avant sa naissance et Léopold ne joua jamais du violon), ou avec Léonard Bernstein, qui parle de son enfance misérable (ses parents étaient millionnaires !!!). C'est toujours le “gland” qui raconte son mythe, sa vérité, la seule qui compte. La dernière fois que je vis James Hillman, tout de blanc habillé, élégant, parfait, assis à la terrasse de l'Hôtel Tamaro d’Ascona, sur le Lac Majeur, je lui demandai ce qu'il préparait. « Je fais de l'ordre dans mes idées ­—me répondit-il en levant sa tête d'oiseau curieux—  je ne suis plus si jeune... ». Un travail de maître, James. Un très joli “gland”. Bien sûr, c'est le tien, mais maintenant, il est à la disposition de tout le monde. J'espère qu'on en fera quelque chose de bon !

 

Claudio RISÉ.

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lundi, 24 novembre 2008

Jean Markale le celtisant est mort

Jean Markale le celtisant est mort

 

Auteur d’une centaine d’ouvrages, notamment sur les Celtes, Jean Markale est mort hier matin, à l’hôpital d’Auray. Il avait quatre-vingts ans.

De son vrai nom Jacques Bertrand, Jean Markale avait, avant de se lancer dans l’écriture, exercé, pendant vingt-cinq ans, le métier de professeur de lettres classiques dans un collège parisien. Mais, en 1979, fort de son succès avec « La femme celte » (Payot), il avait arrêté l’enseignement et était venu s’installer à Camors, près d’Auray, le pays de ses ancêtres. C’est là qu’il écrira, à une cadence pour le moins soutenue, tous ses livres. Ses grandes spécialités : les Celtes, le mythe du Graal, l’histoire de la Bretagne, l’ésotérisme et les énigmes historiques. Autant de thèmes qu’il a développés à satiété et exploités sous différentes formes, en particulier à travers des « cycles » qui lui permettaient de laisser libre cours à sa verve épique et à son imagination.

Son manque de rigueur scientifique était, d’ailleurs, le reproche que lui faisaient ses nombreux détracteurs. Mais Markale s’en moquait : « Je préfère être considéré comme poète plutôt que comme chercheur ».

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Découvertes de monnaies celtiques et germaniques

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Découverte de monnaies d’or et d’argent celtiques et germaniques au Limbourg néerlandais


Paul Curfs est l’un de ces hommes qui a pour passe-temps de se promener avec un détecteur de métaux. En mars de cette année, près de son domicile dans la région de Maastricht, son appareil a émis le signal habituel en passant au-dessus d’une masse métallique. Il a découvert ainsi un première piécette d’or, ornée d’un cheval stylisé. Deux jours plus tard, il découvre, à proximité immédiate de sa première trouvaille, quelques pièces supplémentaires, presque identiques à la première, qu’il a tout de suite apportées au service archéologique de la région, dirigé par le conservateur Wim Dijkman. Celui-ci a pris immédiatement conscience de la grande importance historique de ces monnaies. Après l’ensemencement au printemps du champ de maïs et la récolte estivale, il a fallu attendre les courtes vacances de la Toussaint pour y délimiter une superficie à prospecter de 15 m sur 30 m, puis découvrir encore quelques pièces et, enfin, à 65 cm dans le sol, le reste, concentré, du trésor. Celui-ci est le plus important de cette sorte à avoir été exhumé jusqu’ici hors du sol néerlandais. Dans la même région, il y a huit ans, on avait trouvé à Heers (Limbourg flamand) 102 monnaies provenant des Eburons et de quelques autres peuples celtiques.


Quelles conclusions tirent les archéologues néerlandais de cette découverte?


  • Les monnaies ont été vraisemblablement enterrées dans une besace de tissu ou de cuir; les labours profonds en ont exhumé quelques-unes et les ont dispersé autour de la cachette initiale;


  • Ces monnaies datent du premier siècle avant l’ère chrétienne, à l’époque où les tribus celtiques de nos régions résistaient aux troupes de César, lors du soulèvement des Eburons et des Atuatuques (Aduatiques);


  • Les 39 pièces d’or découvertes relèvent de la tribu des Eburons, menés à l’époque par leur fameux chef Ambiorix, dont la statue se dresse à Tongres;


  • Les 70 monnaies d’argent proviennent des tribus germaniques voisines, qui habitaient entre Meuse et Rhin;


  • Cette découverte prouve que les Eburons et les Germains de Rhénanie avaient partie liée dans la résistance aux légions romaines et entretenaient des contacts très étroits entre eux; selon le prof. Nico Roymans: “Ce trésor de monnaies a peut-être servi à acheter une alliance contre les Romains”;


  • Le Prof. Roymans constate que dans les environs immédiats du site, où Curfs a découvert les monnaies, il n’y a aucune trace d’habitation; on a donc enfoui cet or et cet argent dans une zone inhabitée, probablement pour empêcher qu’on les dérobe ou qu’un ennemi s’en empare;


  • Le Conservateur Dijkman remarque que les deux types de monnaie présentent, sur une face, un même motif, soit un triskèle celtique; les monnaies celtique d’or présentent, sur leur autre face, un motif hippique, imité des anciennes monnaies grecques; les pièces germaniques d’argent présentent, sur le côté pile, une pyramide de cercles ou d’anneaux, dont on ne connaît pas encore la signification.


Un trésor qui devrait permettre d’élucider davantage l’alliance entre Ambiorix et les Germains de Rhénanie, qu’évoque la “Guerre des Gaules” de César.


Source: “Het Laatste Nieuws”, 14 novembre 2008, pp. 2 & 6.

(résumé: Robert Steuckers).

M. Eemans: Soliloque d'un desperado non nervalien

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Archives de "Synergies Européennes" - 1998

Marc. Eemans :

Soliloque d’un desperado non nervalien

 

Au cours d'une retraite de quelque quinze jours en l'île d'Egine, dans le golfe saronique, où j'ai fêté mes quatre-vingt-dix ans loin de tout cérémonial, j'ai longuement pu me pencher sur bien des choses de ma vie, tout en faisant un petit bilan de ce que l'on appelle le "mouvement surréaliste", auquel j'ai participé durant un bon moment.

 

Quel gâchis !

 

Ce qui aurait pu être une chose fort belle, une vraie révolution dans le domaine de l’esprit, sur le plan de la poésie et des arts n’a été finalement que le prolongement, l’aboutissement, vers 1924, des divers ismes de la fin du siècle dernier et du premier quart du nôtre. Tout cela dans le vase clos des cafés littéraires de Paris. Que d’apéritifs, que de palabres, que d’ukases et que de proclamations de politiques de gauche…

 

Le surréalisme n’a finalement pu que décevoir tous ceux qui y avaient mis tous leurs espoirs. Il y eut bien des fidèles jusqu’au bout, mais aussi que de défections et d’exclusions. Il y eut également des grands talents tels que Breton, Aragon, Eluard, Ernst, Dali et bien d’autres encore.

 

Des chefs-d’œuvre ? Toutefois, chose paradoxale, les vrais grands poètes surréalistes ne furent pas surréalistes dans le sillage de Breton. Ce furent des outsiders. Et je pense alors à un Saint-John-Perse et un Patrice de la Tour du Pin, mais quelle horreur ! Patrice de la Tour du Pin, un poète “christique” ! Ah, son angélologie et sa mysticité, mais aussi ses mythes et légendes celtiques, cette Ecole de Tess… J’ai eu l’honneur de me compter parmi ses fidèles.

 

André Breton, bien que parti du symbolisme de Mallarmé, de Gustave Moreau, voire de Gide et de Pierre Louÿs, n’en avait pas moins passé par le dadaïsme, le communisme, le trotskisme. Il a même été “citoyen du monde”, disciple d’un farfelu américain.

 

Quant à moi ? Je n’ai guère l’esprit grégaire. Je ne suis point fait pour les ukases, pour proclamer avec Pirandello “à chacun sa vérité”. Par ailleurs “sans dieu ni maître” (Mesens), formé dès l’enfance au merveilleux, aussi bien gréco-romain, germanique que chrétien, de même féru de symbolisme aussi bien français que néerlandais ou allemand, avec une bonne dose d’intérêt pour la mystique et l’ésotérisme, sans oublier mon intérêt pour la tragédie des Cathares (Otto Rahn et René Nelli), ainsi que pour l’Ahnenerbe (“Héritage des ancêtres”).

 

Qu’allais-je faire dans le cénacle surréaliste bruxellois où j’allais me heurter à l’ostracisme anti-art de Paul Nougé qui “nous a fait tant de tort” (Mesens) ? J’y ai perdu mon amie Irène, mais aussi gagné la jalousie de René Magritte (mes peintures étaient alors plus chères que les siennes ! Plus tard, Paul Delvaux aura également à souffrir de la même jalousie) et l’amitié de deux fidèles compagnons de route, E. L. T. Mesens, mon premier marchand de tableaux (Galerie L’Époque) et mon deuxième marchand (hélas raté), Camille Goemans (faillite de la Galerie Goëmans de la Rue de Seine à Paris).

 

Au-delà du surréalisme…

 

Après le court épisode surréaliste (1926-1930), ce fut pour moi un “au-delà du surréalisme” avec une traversée du désert, qui dure toujours, et aussi une assez grande dispersion dans mon activité aussi bien artistique qu’intellectuelle avec par surcroît la difficile quête du gagne-pain quotidien.

 

Mon apport au surréalisme bruxellois ? Quelques dizaines de peintures, des dessins et deux ou trois gravures. Elles ou plutôt “ils” auraient contribué (selon José Vovelle) à la naissance du surréalisme néerlandais (Moesman). N’oublions pas l’édition en 1930, de l’album Vergeten te worden, à ce jour  —paraît-il—  le seul recueil surréaliste en langue néerlandaise…

 

Je reviens à ma difficile quête du pain quotidien et ma dispersion intellectuelle, surtout due à une insatiable curiosité de même qu’à un aussi insatiable besoin d’activité.

 

D’abord ma quête du nécessaire pain quotidien. Quelques tentatives dans le domaine publicitaire (comme Magritte), collaboration dans le domaine du design, comme on dit aujourd’hui, avec mon ami l’ensemblier hollandais Ewoud Van Tonderen, finalement le journalisme et l’édition avec un passage dans la propagande touristique avec l’ami Goemans.

 

Ensuite ma dispersion intellectuelle. Bien que ne connaissant point une note de musique, elle fut à la fois musicologique et chorégraphique, en collaboration avec les réputés musicologues Kurt Sachs (juif exilé allemand, directeur de la collection de disques L’anthologie sonore), Charles Van den Borren, bibliothécaire à la bibliothèque du Conservatoire de Bruxelles, et son beau-fils américain, le jeune chef d’orchestre Safford Cape.

 

Grâce à mon amie Elsa Darciel, future professeur au même Conservatoire, nous avons reconstitué les “Basses-Danses de la Cour de Bourgogne”, d’après un précieux manuscrit du XVe siècle, de la Bibliothèque Royale de Bruxelles.

 

L’aventure de la revue «Hermès»

 

Côté poétique, philosophique et mystique : fondation en 1933, avec René Baert et Camille Goemans, de la revue “métasurréaliste” Hermes, pour l’étude comparée de la poésie, de la philosophie et de la mystique, avec une brillante collaboration internationale, mais qualifiée par les surréalistes bruxellois de revue de “petits curés” ou de fascistes en dépit de collaborateur à peu près tous agnostiques, d’autres marxistes ou juifs. Un secrétaire de rédaction de marque : Henri Michaux.

 

Toutefois, quelques supporters de qualité : Edmond Jaloux, Jean Paulhan, Ungaretti, T. S. Eliot, etc.

 

Ma principale contribution : un numéro spécial consacré à la mystique des Pays-Bas, mais les mystiques musulmane, hindoue, chinoise et tibétaine ou grecque et scandinave ne furent point oubliées, et puis il y eut également les premières traductions de Martin Heidegger et de Karl Jaspers. N’oublions pas le symbolisme et les romantiques anglais et allemands.

 

Notre manque d’information dans le domaine italien, nous fit —hélas— ignorer un effort à peu près parallèle, mais tout aussi “confidentiel” que le nôtre, celui de Julius Evola et de ses amis du groupe “Ur”.

 

Autres exemples de ma dissipation intellectuelle d’alors sont mon intérêt pour les théories du R. P. Jousse S. J. sur l’origine purement rythmique du verbe et son application au langage radiophonique dont Paul Deharme, l’époux de la poétesse surréaliste Lise Deharme (la “Dame aux gants verts” de Breton) tâchait alors de faire l’application dans ses spots publicitaires à la radio.

 

Plus grave, du point de vue surréaliste tout au moins, fut ma présence à un colloque néo-thomiste à Meudon, chez Raïssa et Jacques Maritain, sur le thème de la distinction entre mystique naturelle et surnaturelle.

 

Moins compromettante, toujours du point de vue surréaliste, fut ma correspondance avec le poète grec Angelos Sikelianos concernant la restauration des Jeux Delphiques.

 

Les années sombres…

 

En septembre 1939, la guerre mit brusquement un terme à la revue Hermes et en mai 1940, avec l’invasion de la Belgique, au gagne-pain de ses deux directeurs.

 

L’effort fut repris après la guerre par André de Renéville avec ses Cahiers de l’Hermès (deux seuls numéros remarquables) et par une nouvelle revue Hermès qu’il faut, hélas, considérer comme pirate, celle de Jacques Masui… Il existe toujours, dans le prolongement de celle-ci avec le logo de 1933, une “Collection Hermès” aux éditions Fata Morgana. Pour moi, un vrai mirage.

 

Durant la guerre et l’occupation de la Belgique, les deux directeurs de la revue devinrent, quelle erreur et quelle horreur pour d’aucuns, des collaborateurs culturels, mais aussi des résistants culturels sur nombre de points, dans certains journaux et périodiques contrôlés par l’occupant. Cela leur coûta cher : pour René Baert, la vie (par assassinat) et pour moi quelque quatre ans de camp de concentration belge, à la suite d’un procès devant un tribunal illégal et selon une loi que les communistes considéraient (lorsqu’ils en étaient victimes) comme “scélérate”, c’est-à-dire “rétroactive”.

 

J’ai appartenu par ailleurs à, disons une loge intellectuelle secrète, fondée au XVIIe siècle, à laquelle avait également appartenu Pierre-Paul Rubens, appelée “Les Perséides”. Elle avait pour but la réunion, tout au moins sur le plan intellectuel, des anciennes “XVII Provinces” (ou états bourguignons), séparées à la suite de la guerre de religion du XVIe siècle.

 

Durant la dernière guerre, les “Perséides” furent particulièrement actifs. Ils entrèrent même dans la résistance thioise et la clandestinité.

 

Sur le plan légal, ils obtinrent des autorités occupantes non-nazies (car la Belgique a été surtout occupée et gouvernée par des non-nazis) qu’il n’y eut point d’art “dégénéré” en Belgique.

 

Dans la clandestinité, ils parvinrent à rétablir des liens intellectuels avec les Pays-Bas rompus durant l’occupation (je passai maintes fois outre frontière !). Il y eut également des réunions plus ou moins clandestines. L’une d’elles fut dénoncée à la Gestapo et plusieurs des “Perséides”, dont moi, faillirent subir un séjour forcé dans quelque camp de concentration nazi…

 

Après la tourmente

 

La traversée du désert n’en devint que plus pénible après ma libération. Heureusement des amis fidèles vinrent à mon secours dont Jean Paulhan et Patrice de la Tour du Pin, de même que le Prix Nobel T. S. Eliot, sans parler de l’éditeur flamand Lannoo et les éditions néerlandaises Elsevier en la personne de son représentant à Bruxelles Théo Meddens qui me prit à son service jusqu’à ma pension à l’âge de soixante-cinq ans. Ce fut un vrai sauvetage in extremis. Aux éditions Elsevier (plus tard Meddens), j’eus l’occasion de publier une trentaine de livres consacrés à l’histoire de l’art ou de collaborer étroitement avec nombre de personnalités éminentes, telles que le professeur Leo Van Puyvelde et le musicologue Paul Collard (me voilà redevenu musicologue !). Je pus également renouer avec la chorégraphie grâce à ma fidèle amie Darciel.

 

Je pus également compter sur la neutralité, voire l’amitié d’Irène Hamoir et surtout sur celle de E. L. T. Mesens. Quant aux surréalistes d’après-guerre, ce fut la guerre ouverte, la diffamation par pamphlets odieux, même à propos d’expositions à l’étranger (Lausanne, La Femme et le surréalisme, où un ancien prisonnier d’Auschwitz et de Dachau, le Hongrois Carl Laszlo, un marchand de tableaux de Bâle) (sic ; ndlr : nous avons reçu ce texte après le décès de Marc. Eemans ; nous ne l’avons pas modifié, y compris cette phrase apparemment inachevée).

 

Puisque nous parlons de peinture, je rappellerai la fondation du groupe “Fantasmagie” consacré à l’art fantastique et magique. Mais ce mouvement dont je fus un des fondateurs sombra vite dans l’occultisme de pacotille en récoltant des membres au hasard des rencontres de bistrots de son “pape” Aubin Pasque qui avait déjà été l’inventeur d’un “surréalisme du canard sauvage” qui n’a existé que dans son imagination, mais auquel ont cru certains historiens du surréalisme en Belgique, dont David Sylvestre qui m’a interrogé un jour à son sujet…

 

Mais côté poésie ? Je n’ai jamais cessé de pratiquer de la poésie, appelons la “métaphysique et la mythique”, avec des recueils aussi bien en langue néerlandaise que française.

 

Artiste maudit

 

Du côté peinture, mes adversaires en ont profité, hélas, pour me boycotter, de sorte qu’on peut me classer parmi les  “artistes maudits” et certainement proscrits. Point d’œuvres dans les musées, si ce n’est pas un don ou un legs. Point d’expositions officielles, pas de rétrospectives, pas de subsides, etc. etc.

 

A présent, vieux, malvoyant, quasi sourd et ne marchant plus que fort difficilement et avec une canne de berger grec (car je demeure fidèle au mythe grec), je ne suis qu’un “gibelin” comme disent mes amis italiens. Je me demande, en vrai desperado, si je ne suis pas un raté et certainement un marginal qui n’a plus qu’à disparaître…

 

Heureusement que dès 1972, feu mon ami Jean-Jacques Gaillard, peintre surimpressionniste et swedenborgien, lui aussi quelque peu maudit pour avoir eu l’audace de dénoncer la grande fumisterie de l’art de Picasso, cela en pleine Académie Thérésienne, heureusement, dis-je, que l’ami Jean-Jacques m’ait prédit (belle consolation !) “une gloire posthume tristement magnifique”, y ajoutant qu’“une gloire tardive est préférable à une gloire rapide qui vieillit vite”.

 

Feu mon ami allemand, l’histoire d’art Friedrich Markus Huebner, grand admirateur de l’art flamand, de son côté m’a proclamé “l’éloquent interprète des expériences intemporelles”… Serais-je donc, moi aussi “intemporel” ?

 

Marc. EEMANS.

(20 juin-10 septembre 1997).

(précision : les inter-titres sont de la rédaction).  

Sur "La démocratie contre elle-même" de M. Gauchet

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Sur "La démocratiecontre elle-même" de Marcel Gauchet

Le livre de Marcel Gauchet est au chevet de tous les membres de l'école des cadres de "Synergies Européennes" en pays francophones. Voici une sélection d'une analyse et d'un compte rendu, afin de permettre aux futurs postulants de s'initier à cette pensée complexe et profonde, qui a été qualifiée, par l'un de ces médiocres vigilants du parisianisme républicain, citoyen, etc., de "néo-réactionnaire". Raison de plus pour la lire.

1) Analyse de Jean Zin : http://www.globenet.org/transversales/grit/gauchet3.htm

2) Compte rendu du livre rédigé par Marc-Olivier Padis, Automne 2002 : http://gauchet.blogspot.com 

Comment rendre compte de la complémentarité des textes réunis dans ce volume, parus tout d’abord dans la revue dont Marcel Gauchet est le rédacteur en chef, Le Débat, entre 1980 et 2000 ? Écologie, école, religion, psychologie, droit ou politique : faut-il choisir un de ces fils conducteurs pour suivre l’auteur dans son exploration de notre démocratie ? Dans sa préface, M. Gauchet rappelle trois directions d’investigation du terme « démocratie ». La démocratie renvoie en effet à un phénomène historique qui ne se limite pas à une forme de régime politique. Radicalisant l’intuition d’Alexis de Tocqueville, selon laquelle la démocratie constitue aussi un état social (caractérisé par le principe de l’égalité), M. Gauchet montre qu’il s’y joue en effet un type de rapport social particulier mais encore « une nouvelle manière d’être de l’humanité » (p. XVIII de l’introduction). Cela signifie que les leçons de la théorie politique et de la sociologie sont appelées à s’ouvrir vers une «anthropologie démocratique » à même de restituer le phénomène dans son ampleur. C’est pourquoi il n’y a pas à choisir entre les domaines d’étude cités mais à conjuguer ce qu’ils nous font comprendre pour saisir cet insaisissable condition démocratique qui est la nôtre.

À la fin du premier texte repris dans ce recueil, « Les droits de l’homme ne sont pas une politique », M. Gauchet présentait les difficultés inhérentes à cette curieuse contradiction dans les termes que représente la «société des individus». Comment fonder un système politique sur une déclaration des droits et un individu théoriquement posé comme délié des autres et souverain de lui-même ? Cela n’est possible qu’au prix d’une occultation d’une série de paradoxes. Le premier est que, pour acquérir son autonomie comme individu, chacun de nous est dépendant du développement de l’État et que celui-ci passe par la construction de catégories générales et abstraites, c’est-à-dire par une anonymisation de la personne qui contraste avec l’attachement à la singularité du sujet moderne. Deuxièmement, nous jouissons de la liberté des Modernes qui, à l’opposé de la liberté des Anciens ne se définit plus par la participation à la vie politique mais, au contraire, par la capacité à se retirer de la sphère publique pour se consacrer aux intérêts privés. Cela signifie que nous risquons de laisser dépérir les institutions démocratiques à force de liberté démocratique. Enfin, l’individualisme comme affirmation de la singularité de chacun se heurte à l’évidence toute opposée d’une banalisation des conduites, d’une standardisation des pensées et des comportements. Ce conformisme individualiste met en cause la capacité des démocraties à former des individus qui soient encore à la hauteur des responsabilités et des devoirs qu’impose le fonctionnement démocratique. Ce texte de 1980 se présente bien comme un programme de travail développé par la suite, rôle que la construction du présent recueil suggère comme contrat de lecture.

On peut en effet suivre ces indications en observant que les textes rassemblés ici reprennent cette série de contradictions qui risquent de provoquer le retournement de « la démocratie contre elle-même ». Les trois textes sur la religion (« Fin de la religion ? », janvier-février 1984 ; « Sur la religion, un échange avec Paul Valadier », novembre-décembre 1984 ; « Croyances religieuses, croyances politiques », mai-août 2001) se placent dans le fil de l’interrogation sur la composition politique des sociétés modernes et, par conséquent, sur l’émergence de la notion d’individu et sur l’établissement de l’État. En effet, quand le principe de l’organisation de la société et de la légitimation du pouvoir ne dérivent plus de la présence surplombante et incontestée d’un ordre divin, c’est le temps de l’État qui vient comme principe d’extériorité organisatrice de la communauté humaine. L’interrogation au long cours sur l’histoire de la religion (qui a fait l’objet de l’ouvrage Le désenchantement du monde : une histoire politique de la religion, paru en 1985) se motive doublement : il s’agit, d’une part, de comprendre comment s’est opérée la translation du principe de fondation politique du monde des dieux à la communauté des hommes et, d’autre part, de savoir ce qu’il advient de la religion dans ce monde qui en est sorti et dans lequel elle ne joue plus qu’un rôle subsidiaire.

La deuxième incertitude qui pèse sur l’homme des démocraties concerne la construction de la personnalité. D’où une interrogation sur le lieu de formation qu’est l’école et sur la psychologie de cet être voué à se méconnaître fondamentalement parce qu’il vit sur le mythe de l’auto-institution, aussi improbable théoriquement qu’impossible pratiquement (« L’école à l’école d’elle-même. Contraintes et contradictions de l’individualisme démocratique », novembre-décembre 1985 ; « Le niveau monte, le livre baisse », novembre-décembre 1996 ; « Essai de psychologie contemporaine I et II », mars-avril et mai-août 1998). L’enjeu est ici de spécifier l’individualisme dont on parle tant et, ce faisant, de caractériser les changements récents, parfois rapides, de la psychologie. Mais l’interrogation fondamentale reste la même puisqu’elle consiste à observer la manière dont se construit la relation aux autres dans un contexte normatif en recomposition. Certes, le monde de l’égalité induit une perte de légitimité des hiérarchies et des contraintes. On peut en tirer la conclusion, trop rapide, d’une décontraction générale des rapports sociaux, d’une baisse théorique de la conflictualité. Or, c’est bien l’inverse qui se produit, mais avec la naissance d’une violence d’évitement qui vient se substituer à la violence de contact. Ce trouble de la relation aux autres se traduit à la fois par une angoisse d’avoir perdu les autres et par une peur des autres. Il faut donc s’interroger sur la manière dont se présente cette relation à soi et aux autres qui marque un âge de la personnalité largement différent, plus sans doute que nous ne sommes capables de l’admettre, des formes historiques que nous avons connues jusqu’à présent. Cet individu, on l’a vu, vit dans un rapport nouveau à la conflicutalité, au sein de la société, face aux institutions, avec les autres mais aussi en lui-même. On rejoint ici un champ d’investigation de M. Gauchet sur l’histoire de la psychiatrie et la manière dont des pathologies spécifiques de l’individu moderne se modèlent en même temps que l’émergence des systèmes démocratiques.

Le troisième sous-ensemble de textes est consacré au paradoxe du désinvestissement politique, dont les risques sont apparus évidents ce printemps (« Pacification démocratique, désertion civique », mai-août 1990 ; « Sous l’amour de la nature, la haine des hommes », mai-août 1990 ; « Les mauvaises surprises d’une oubliée : la lutte des classes », mai-août 1990 ; « Le tournant de 1995 ou les voies secrètes de la société libérale », septembre-octobre 2000). L’objet d’étude est ici plus directement politique et l’inquiétude plus manifeste : absence de débat civique, politique impuissante, privatisation des attentes… Le recueil invite à une lecture en forme de récapitulation, qui donne au premier texte un statut prophétique rétrospectif et au texte de 2000, dont le titre est une volontaire réponse au premier («Quand les droits de l’homme deviennent une politique »), une tonalité crépusculaire. Il s’agit désormais moins de relever une ambivalence de la condition démocratique (peut-être parce qu’il n’y en a plus) mais d’approfondir le paradoxe qui veut que l’exercice de la démocratie recule avec l’avancée de ses principes, que les mœurs ne s’accordent pas aux institutions. Par une ruse supplémentaire de l’histoire, c’est par le droit, qui a valu la réhabilitation de la démocratie au moment du combat totalitaire contre l’illusion communiste, et sous couvert de triomphe radieux des principes juridiques, que la démocratie entre, selon l’auteur, dans un âge de léthargie.

L’avertissement de la fin du premier article était en effet nettement formulé : «les droits de l’homme ne sont pas une politique dans la mesure où ils ne nous donnent pas prise sur l’ensemble de la société où ils s’insèrent. Ils ne peuvent devenir une politique qu’à la condition qu’on sache reconnaître et qu’on se donne les moyens de surmonter la dynamique aliénante de l’individualisme qu’ils véhiculent comme leur contrepartie naturelle ». En vingt ans, on aurait finalement vu plutôt un renforcement de la dynamique individuelle et de ses illusions corrélatives. D’où le risque de voir devenir hégémonique une conception de la démocratie « qui sacralise à ce point les droits des individus où elle se fonde qu’elle sape la possibilité de leur conversion en puissance collective » (introduction p. XXVII). Cela n’empêche en rien l’hypothèse qu’un cycle correctif ne s’enclenche mais sa réalisation est reportée à d’hypothétiques lendemains, comme une ouverture vers une histoire qui n’est jamais déterminée à l’avance. Car l’auteur refuse un pessimisme sans perspectives et désigne ce qu’il voit comme une forme nouvelle d’antipolitique pour mieux retrouver « une politique démocratique digne de ce nom ».

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La Fontaine: le savetier et le financier

Jean de la Fontaine : Le savetier et le financier

Un savetier chantait du matin jusqu'au soir:
C'était merveille de le voir,
Merveille de l'ouïr: il faisait des passages,
Plus content qu'aucun des sept sages.
Son voisin, au contraire, étant tout cousu d'or,
Chantait peu, dormait moins encore.
C'était un homme de finance.
Si sur le point du jour parfois il sommeillait,
Le Savetier alors en chantant l'éveillait;
Et le Financier se plaignait
Que les soins de la Providence
N'eussent pas au marché fait vendre le dormir,
Comme le manger et le boire.
En son hôtel il fait venir
Le chanteur, et lui dit: or, ça, sire Grégoire,
Que gagnez-vous par an ? Par an ? ma foi, monsieur,
Dit avec un ton de rieur
Le gaillard Savetier, ce n'est point ma manière
De compter de la sorte; et je n'entasse guère
Un jour sur l'autre: il suffit qu'à la fin
J'attrape le bout de l'année:
Chaque jour amène son pain.
Et bien, que gagnez-vous, dites-moi, par journée?
Tantôt plus, tantôt moins: le mal est que toujours,
(Et sans cela nos gains seraient assez honnêtes)
Le mal est que dans l'an s'entremêlent des jours
Qu'ils faut chommer: on nous ruine en Fêtes.
L'une fait tort à l'autre: et monsieur le Curé,
De quelque nouveau Saint charge toujours son prône.
Le Financier riant de sa naïveté,
Lui dit: je vous veux mettre aujourd'hui sur le trône.
Prenez ces cent écus: gardez-les avec soin,
Pour vous en servir au besoin.
Le Savetier crut voir tout l'argent que la terre
Avait, depuis plus de cent ans,
Produit pour l'usage des gens.
Il retourne chez lui: dans sa cave il enserre
L'argent et sa joie à la fois.
Plus de chant: il perdit la voix
Du moment qu'il gagna ce qui cause nos peines.
Le sommeil quitta son logis,
Il eut pour hôtes les soucis,
Les soupçons, les alarmes vaines.
Tout le jour il avait l'oeil au guet: et la nuit,
Si quelque chat faisait du bruit;
Le chat prenait l'argent. A la fin le pauvre homme
S'en courut chez celui qu'il ne réveillait plus.
Rendez-moi, lui dit-il, mes chansons et mon somme,
Et reprenez vos cent écus.

Jean de la Fontaine, Le savetier et le financier, Fable II, Livre Huitième.