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samedi, 12 décembre 2009

Joseph Roth e il mito dell'impero

Roberto Alfatti Appetiti

http://robertoalfattiappetiti.blogspot.com/

joseph-roth.jpgJoseph Roth e il mito dell’impero

Dal mensile Area, marzo 2003

Sono trascorsi cinquanta anni da quando Longanesi pubblicò in Italia La marcia di Radetzky, il libro capolavoro che Joseph Roth scrisse nel 1932. «Il più bel canto del cigno del vecchio impero austriaco», lo aveva definito Heinrich Böll. Eppure l’iniziativa editoriale si dimostrò un vero fallimento.

Il grande scrittore austriaco, lo strenuo difensore dei valori tradizionali in rivolta contro il suo tempo, era morto da poco più di dieci anni (il 27 maggio del 1939) ma era stato già dimenticato, per non dire rimosso, dalla storia letteraria europea. Ancora negli anni Sessanta il suo nome, ad eccezione degli ambienti accademici e di pochi pionieri (in Italia Claudio Magris), era quasi sconosciuto. Prima che Adelphi rendesse giustizia a Roth, pubblicando negli anni Settanta e Ottanta le sue opere, nel passato solo pochi editori fieramente controcorrente come Longanesi e Vallecchi avevano proposto qualche suo titolo, restituendogli una temporanea e circoscritta popolarità. La grande editoria preferiva investire quasi esclusivamente su autori “politicamente corretti” e certo la «gloria letteraria dei monarchici» (come lo ha definito Soma Morgenstern nel suo Fuga e fine di Joseph Roth, Adelphi 2001), l’antidemocratico Roth, non poteva considerarsi organico al verbo progressista. Per Roth la democrazia altro non era che «lo stratagemma» che le dittature, il proletariato e i nazionalismi volevano utilizzare per raggiungere le proprie mire, generando «solo brutalità in un mondo in trasformazione».

Galiziano di Brody, era nato il 2 settembre 1894 da genitori ebrei, aveva studiato germanistica a Vienna e partecipato alla prima guerra mondiale. Giornalista prolifico e apprezzato (oltre mille articoli scritti tra le due guerre), ha vissuto la sua travagliata vita di pendolare delle lettere tra Berlino, Vienna, Francoforte e Parigi, dove si stabilì in esilio dal 1933 e morì che non aveva neanche quarantacinque anni. Roth era cresciuto nel mito unificante e multiculturale dell’impero austroungarico, nel quale «non si distinguevano uomini di diverse nazionalità perché ognuno parlava tutte le lingue». La struttura antinazionalista della monarchia asburgica aveva lasciato un segno indelebile nella sua formazione. Il mescolarsi per le strade di tedesco, polacco, ucraino, yiddish, e le differenze etniche, rappresentavano una ricchezza, un patrimonio da custodire gelosamente e di cui il tutore era il vecchio imperatore Francesco Giuseppe, «onnipresente tra i suoi sudditi come Dio nell’universo». Il cuore pulsante dell’impero non era Vienna, che pure ospitava la residenza imperiale, ma le grandi periferie, come quella orientale da cui lui proveniva. Era proprio il «tragico amore» dei Paesi della Corona per l’Austria a nutrire la capitale. Bastava che suonasse la Marcia e in qualsiasi angolo dell’impero ci si trovasse l’identità comune si affacciava in tutti i cuori: «Tutti i concerti in piazza cominciavano con la marcia di Radetzky. Gli arcigni tamburi rullavano, i dolci flauti zufolavano e i benigni piatti squillavano. Sui visi di tutti gli ascoltatori spuntava un sorriso compiacente e trasognato, mentre nelle loro gambe il sangue frizzava. Erano fermi e credevano di marciare».

Come ha scritto Maria Sechi nel suo Invito alla lettura di Roth (Mursia 1994), Roth rimproverava alla borghesia occidentale di aver commesso «un vero crimine: aver distrutto la tradizione, la legge e l’ordine» di quella che riteneva una grande civiltà. Nell’industrializzazione, capace solo di produrre «imbrogli e illusioni» e nell’offensiva della tecnica vedeva un «un’ulcera» che finiva per ridurre l’uomo ad automa, a pedina, ad ingranaggio di un processo massificante. Il mondo era irreversibilmente malato, minato nelle sue fondamenta dalla spinta dei nascenti nazionalismi, come denuncia nella Radetzkymarsh: «L’epoca non ci vuole più! Questa epoca vuole creare degli Stati nazionali indipendenti! La gente non crede più in Dio. La nuova religione è il nazionalsocialismo. I popoli non vanno più nelle Chiese. Vanno nei circoli nazionalisti. La nostra monarchia è fondata sulla religiosità: sulla credenza che Dio abbia eletto gli Asburgo a regnare su tali e tanti popoli cristiani».

Da giovane aveva provato simpatia per il socialismo, non per convinzioni marxiste ma per un sentimento di naturale vicinanza ai poveri. “Joseph il rosso”, era stato soprannominato, ma un viaggio in Russia nel 1926-27, come inviato del Frankfurter Zeitung, gli aveva aperto gli occhi, tanto da fargli commentare: «E’ una grande fortuna che io abbia fatto questo viaggio in Russia: altrimenti non avrei mai conosciuto me stesso». «Sono partito bolscevico e sono tornato monarchico», ironizzava. Il suo era un «anticomunismo patologico», sentenziò sprezzantemente Ludwig Marcuse. Trovò l’URSS un deserto spirituale, «tutte le sue simpatie per quel paese erano di colpo svanite», ha scritto Soma Morgenstern. «Mai ho sentito così intensamente di essere un europeo, un mediterraneo se vuole, un romano e un cattolico, un umanista e un uomo del rinascimento», scrisse ad un amico al suo ritorno. «Detestava apertamente le convinzioni politiche ed il fanatismo» dei comunisti. Ai suoi occhi il socialismo si era macchiato di una imperdonabile colpa: aver contagiato di materialismo la Russia, creando le premesse per l’affermazione in quella regione della società e dei valori borghesi e trasformando un popolo religioso in una massa anonima di piccoli borghesi ambiziosi: «Ebbene questo è proprio il caso in cui la beffa della storia è palese. Questa storia che dovrebbe liberare il proletariato, che ha come scopo la creazione dello Stato e dell’umanità senza classi, questa teoria, la dove viene applicata per la prima volta, fa di tutti gli uomini dei piccoli borghesi. E, per colmo di sfortuna, fa le sue prime prove proprio in Russia, dove i piccoli borghesi non sono mai esistiti. In Russia, appunto, il marxismo si presenta soltanto come una componente della civiltà borghese europea. Anzi, sembra quasi che la civiltà borghese abbia affidato al marxismo il compito di farle da battistrada in Russia».

Il suo individualismo lo portava a respingere ogni forma di collettivismo. In una lettera all’amico e mentore Stephan Zweig accusò il socialismo di aver generato il fascismo e il nazionalsocialismo, anticipando così con grande lungimiranza le successive tesi di Ernst Nolte. Il suo era un profondo risentimento verso la modernità incalzante, nei confronti della quale si sentiva profondamente estraneo, se non dichiaratamente ostile. Lo scrive senza equivoci nelle prime pagine de La Cripta dei Cappuccini: «Io non sono un figlio del mio tempo, anzi, mi riesce difficile non definirmi addirittura suo nemico. Non che io non lo capisca, come tante volte sostengo. Questa è solo una scusa di comodo. Per indolenza, semplicemente, non voglio essere aggressivo o astioso, e perciò dico che una cosa non la capisco quando dovrei dire che la odio o la disprezzo. Ho l’orecchio fine, ma faccio il sordo. Mi pare più elegante fingere un difetto che ammettere di aver sentito rumori volgari».

E probabilmente, fosse stato ancora in vita, avrebbe ignorato anche lo sprezzante giudizio che di lui diede Italo Alighiero Chiusano nel 1979 su La Repubblica: «Ormai si può parlare da noi di un’ondata Roth, con entusiasmi che sarà bene lasciar sfogare per la simpatia che il personaggio merita e per il suo indubbio valore letterario, ma che più tardi bisognerà ridurre ai limiti reali. Chi mette Joseph Roth alla pari di Kafka, Mann, Brecht, Musil, lo costringe ad un confronto che egli non può sostenere». Niente di più falso, quel confronto Roth lo ha sostenuto e continua a sostenerlo con grande dignità, nonostante la diffidenza di buona parte del mondo editoriale e culturale “che conta”. La dimostrazione più lampante è offerta dal fatto che persino La Repubblica abbia recentemente inserito nella sua “Biblioteca” una delle opere di questo grande scrittore reazionario, e proprio La Cripta dei Cappuccini (1938), che con La Milleduesima notte e il Leviatano (queste ultime pubblicate solo postume) può essere considerata una delle opere maggiormente nichiliste e antimoderne per eccellenza.

La Cripta è un romanzo aspro, amaro, struggente. E’ il libro dell’addio ad un’epoca che sembrava eterna e che invece andava incontro ad un repentino tramonto: «La morte incrociava già le sue mani ossute sopra i calici dai quali noi bevevamo, lieti e puerili». Il protagonista è Francesco Ferdinando Trotta, un giovane rampollo di una famiglia di recente nobiltà, che attraversa l’esperienza bellica trovando al suo ritorno una Vienna irriconoscibile. E’ un personaggio in buona parte autobiografico. Anche Roth ha partecipato alla Grande Guerra come volontario e come ufficiale. Era andato in guerra per «uno strano motivo che solo Conrad potrebbe spiegare […] come i vecchi scapoli, che, non potendo sopportare la solitudine, contraggono matrimonio». Anche Roth aveva provato un forte senso di smarrimento appena tornato dal fronte, nell’accorgersi di come tutto attorno a lui fosse cambiato, e suoi sono senz’altro i sentimenti espressi dal giovane Trotta: «Tutti noi avevamo perso rango, posizione e nome, casa e denaro e valori: passato, presente, futuro. Ogni mattina quando aprivamo gli occhi imprecavamo alla morte che invano ci aveva attirato alla sua festa grandiosa. E ognuno di noi invidiava i caduti. Riposavano sottoterra e la primavera ventura dalle loro ossa sarebbero nate le violette. Noi invece eravamo tornati a casa disperatamente sterili, coi lombi fiaccati, una generazione votata alla morte, che la morte aveva sdegnato». I valori in cui aveva creduto non avevano più cittadinanza: «Allora, prima della Grande Guerra […] non era ancora indifferente se un uomo viveva o moriva. Se uno era cancellato dalla schiera dei terrestri non veniva subito un altro al suo posto per far dimenticare il morto ma, dove quello mancava, restava un vuoto, e i vicini come i lontani testimoni del declino di un mondo ammutolivano ogni qual volta vedevano questo vuoto». Si sentiva a disagio in quel nuovo sistema politico che andava affermandosi. Trotta si trova in un caffè quando apprende la notizia della costituzione di un nuovo governo popolare tedesco. «Da quando ero rimpatriato dalla guerra mondiale, rimpatriato in un paese pieno di rughe, mai avevo avuto fiducia in un governo: figuriamoci poi, in un governo popolare. Io appartengo ancora oggi – nell’imminenza della mia probabile ultima ora, io, un uomo, posso dire la verità – a un mondo palesemente tramontato, nel quale pareva naturale che un popolo venisse governato e che, dunque, se non voleva cessare di essere popolo, non poteva governarsi da solo. Ai miei orecchi – spesso avevo sentito che li chiamavano reazionari – suonò come se una donna amata mi avesse detto che non aveva affatto bisogno di me, che poteva fare l’amore con sé sola, e che anzi doveva farlo, e invero al solo scopo di avere un bambino». Non resta altro da fare al protagonista, e Roth sceglie per lui un finale simbolico. Trotta, come ultimo atto, si reca a portare l’ultimo omaggio al suo imperatore: «La Cripta dei Cappuccini, dove giacciono i miei imperatori, sepolti in sarcofaghi di pietra, era chiusa. Il frate cappuccino mi venne incontro e chiese: Che cosa desidera? Voglio visitare il sarcofago del mio imperatore Francesco Giuseppe, risposi. Dio la benedica, disse il frate e fece sopra di me il segno della croce. Dio conservi!, gridai. Zitto!, disse il frate. Dove devo andare, ora, io, un Trotta?».

Lo stato d’animo del giovane Trotta è lo stesso degli altri personaggi dei romanzi “politici” di Roth, Hotel Savoy, La ribellione, Fuga senza fine, Zipper e suo padre. Sono reduci incapaci di affrontare la nuova esistenza, animati da delusione, risentimento, rabbia, senso di impotenza. Il Conte Xaver Morstin, nella novella Il busto dell’imperatore (1934) esprime tutta la sua amarezza: «I capricci della storia hanno distrutto anche la gioia personale che veniva da ciò che io chiamavo patria. Ai loro occhi io sono considerato un cosiddetto Vaterlos, un senza patria. Lo sono sempre stato. Ahimè! C’era una volta una patria, una vera, una cioè per i senza patria, l’unica possibile. Era la vecchia monarchia; ora sono un senza patria che ha perduto la vera patria dell’eterno viandante». Anche dopo la caduta dell’impero il vecchio imperatore restava «una figura al di fuori di tutto ciò che è normale», e come tale da venerare. «Nessuna virtù ha stabilità in questo mondo eccettuato una sola: l’autentica devozione. La fede non ci può ingannare perché non ci promette nulla sulla terra. Applicato alla vita dei popoli ciò significa che invano essi ricercano le cosiddette virtù nazionali. Per questo io odio le Nazioni e gli stati nazionali. La mia vecchia patria, la monarchia sola era una grande casa con molte porte e molte stanze per molte specie di uomini. La casa è stata suddivisa, spaccata, frantumata. Là io non ho più nulla da cercare. Io sono abituato a vivere in una casa, non in una cabina».

Analogo destino di «senza patria» è quello di Franz Tunda, protagonista di Fuga senza fine (1928). Il giovane ufficiale asburgico, dopo essere stato prigioniero di guerra dei russi, lasciata con la divisa l’identità militare, si sente fuori posto ovunque. Fuggito rocambolescamente da un lager siberiano, capita casualmente tra i guerriglieri comunisti. Lì conosce una giovane militante, Natascha. Per amore ne sposa la causa, anche se la rivoluzione socialista «non gli era simpatica, gli aveva rovinato la carriera e la vita». Ma Natascha «non voleva saperne della sua bellezza, si ribellava contro se stessa, riteneva la sua femminilità una ricaduta nella concezione borghese della vita e l’intero sesso femminile un residuo ingiustificato di un mondo vinto, agonizzante». Tunda si accorge presto che la rivoluzione è diventata prassi burocratica, una «disciplina senza sentimento». Finisce per stabilirsi a Parigi, «senza nome, senza credito, senza rango, senza titolo, senza soldi e senza professione: non aveva né patria né diritti». Dice Tunda, e a parlare è naturalmente Roth: «Io so soltanto che non è stata, come si dice, la inquietudine a spingermi, ma al contrario un’assoluta quiete. Non ho nulla da perdere. Non sono né coraggioso né curioso di avventure. Un vento mi spinge, e non temo di andare a fondo». Significativo è anche qui il finale scelto da Roth per chiudere il romanzo: «A quell’ora il mio amico Franz Tunda, trentadue anni, sano e vivace, un uomo giovane, forte, dai molti talenti, era nella piazza davanti alla Madelaine, nel cuore della capitale del mondo, e non sapeva cosa doveva fare. Non aveva nessuna professione, nessun amore, nessun desiderio, nessuna speranza, nessuna ambizione e nessun egoismo. Superfluo come lui non era nessuno al mondo». L’unica possibilità è la “fuga”, una “fuga senza fine”. Non c’è alcun velleitarismo in Roth, non c’è speranza di improbabili rivalse, la partita è persa, ma la resa non significa accettazione e omologazione. La sua narrazione non è politica in senso stretto, è più che altro sentimentale: «tutti i cambiamenti della carta geografica d’Europa non avevano cambiato i sentimenti dei popoli», dice Morstin/Roth.

A partire dagli anni Trenta, deluso dall’attualità, Roth si è limitato a rievocare con nostalgia e grande capacità suggestiva il mondo di ieri, una civiltà europea «frantumata», per affermare la sua identità, per crearsi un rifugio individuale. Più tardi la simpatia per la monarchia si intrecciò con la sua discussa conversione al cattolicesimo. Aveva trovato nell’universalismo del cattolicesimo l’unico collante che potesse ergersi a baluardo dei suoi valori, assumendo quello che era stato il ruolo unificante dell’impero: «la Chiesa romana in questo marcio mondo è l’unica ormai in grado di dare, di conservare una forma».

Un importante contributo all’approfondimento della personalità di Roth è arrivato grazie alla biografia Fuga e fine di Joseph Roth, che raccoglie la preziosa e affettuosa testimonianza di uno dei suoi migliori amici, Soma Morgenstern (galiziano anche lui, romanziere apprezzato da Musil, dopo la morte di Roth venne internato in un campo di concentramento francese e morì dimenticato da tutti a New York nel 1976). Ci lascia un ritratto completo di luci e ombre sulla vita dello scrittore, ci presenta un Roth insolente e ingrato, geniale e un po’ impostore, infantile e lucidissimo nei suoi giudizi sull’epoca e sui suoi contemporanei, ora aggressivo ora vulnerabile, decisamente affascinante: «vestiva con particolare eleganza, quasi da bellimbusto. I suoi capelli biondi avevano la scriminatura nel mezzo, e il suo monocolo suscitò stupore nel nostro gruppetto». «Se fosse stato francese», scrive Morgenstern, «e avesse vissuto qualche altro anno, sarebbe diventato una leggenda». E ne spiega i motivi: sapeva creare atmosfera attorno a sé, viveva, si ubriacava, lavorava, tutto in pubblico e «disseminava opinioni iconoclaste» che creavano regolarmente scandalo. Come scrive ancora Morgenstern, Roth parlava di Otto d’Asburgo, pretendente al trono austriaco, con sincera devozione, come si trattasse dell’imperatore, solo «per acquietare i suoi dubbi sulle probabilità di una realizzazione storica di quel sogno». In realtà non aveva fiducia nella politica e finì per ritenere lo stesso pretendente al trono «troppo poco legittimista» per i suoi gusti. Frequentava gli ambienti monarchici, ma più che altro perché divideva con gli altri esuli lo status di orfano di un mondo scomparso.

Dopo lo sfacelo dell’impero si rifugiò nell’alcool, perché così «la vita diventa più facile» e «talvolta libera l’animo umano». A chi gli rimproverava il suo vizio, rispondeva ironicamente che era divenuto alcolizzato «per incarico divino». «La salute! Puah!», si scherniva, mentre faceva di tutto per accellerare il suo incontro con la morte. «Ecco quel che veramente sono; cattivo, sbronzo, ma in gamba», si definì con autoironia. Continuò a scrivere altri libri, sempre lavorando nei tavoli dei caffè. Opere che possiedono, come ha scritto Gian Antonio Stella nella prefazione a Giobbe, romanzo di un uomo semplice (il libro del 1930 che il Corriere della Sera ha inserito nella sua “Biblioteca”), una particolare «forza immaginifica, così gonfia e possente da dare talora le vertigini». Il suo ultimo racconto, scritto negli ultimi giorni di vita e pubblicato solo postumo, è tra i più noti, anche grazie ad una recente trasposizione cinematografica. La leggenda del Santo bevitore può essere considerato un po’ come il suo testamento spirituale. Il protagonista è Andreas Kartak, un uomo smarrito, perso al mondo, un clochard. Uno sconosciuto gli offre un prestito chiedendo in cambio solo l’impegno a restituire la somma alla piccola Santa Teresa nella Chiesa di Santa Maria di Batignolles. Andreas non userà quel prestito per redimersi, per cambiare vita. Al contrario, come Roth, va incontro al suo destino, quasi incoraggiando la sua stessa rovina. Quando la morte sta per sopraggiungere ha un unico pensiero, quel prestito da rendere alla giovane Santa, dimostrando uno spiccato senso dell’onore, lo stesso che ha animato l’intera vita di quel fedele servitore dell’Imperatore che fu Joseph. «Conceda, conceda Dio a tutti noi, noi bevitori, una morte così facile e così bella», questo è l’ultimo auspicio di Andreas. E Roth morirà, come il suo ultimo personaggio, dopo l’ultima e fatale crisi di delirium tremens in un ospedale per i poveri.

vendredi, 09 octobre 2009

Michel, l'Archange impérial germanique

Michael-Statue.jpgManfred MÜLLER:

Michel, l’Archange impérial germanique

 

 

Sur les pèlerins et les combattants michaëliques dans l’histoire allemande

 

 

Mai 1945: l’Allemagne est au fond de l’abîme. Le pays est en grande partie détruit. Des millions de soldats ont été tués au combat, sont portés disparus, sont prisonniers ou ont péri en fuyant les provinces de l’Est ou en en étant expulsés. Pour bon nombre d’Allemands, cette année fatidique signifie aussi l’effondrement de tout un monde spirituel. Beaucoup de catholiques allemands, qui suivaient alors scrupuleusement les étapes du cycle liturgique, ont tout de suite remarqué que les Alliés ont imposé la capitulation inconditionnelle de la Wehrmacht à la date du 8 mai. C’est le jour où l’Eglise fêtait l’apparition de l’Archange Michel dans les montagnes de Gargano en Apulie. Saint Michel, que beaucoup d’Allemands considéraient alors comme “l’Ange des Allemands” et l’honoraient à ce titre, se serait-il  détourné de son peuple, à l’heure fatidique où il était livré à des vainqueurs sans pitié?

 

Dans la situation de guerre si critique de l’année 1945, certains avaient encore placé des espoirs en “l’Ange des Allemands”. Franz Führmann, originaire du Pays des Sudètes, national-socialiste qui passera après guerre au communisme, pour devenir un auteur à succès en RDA, nous rappelle dans son oeuvre une scène étonnante: son père, national-socialiste convaincu,  avait intériorisé, lors des combats du Volkssturm, les conceptions religieuses contenues dans un “Chant à Saint Michel” du prêtre-poète autrichien Ottokar Kernstock:

“... zieh voran dem Heere, es gilt die deutsche Ehre, St. Michael, salva nos!”

(“... marche en tête de l’armée,  car l’honneur allemand est en jeu, Saint Michel, sauve-nous!”).

Franz Führmann rappelle que son père lui avait confié en 1945 son espoir: l’Archange ferait un geste en ultime instance pour sauver le Reich en perdition; c’est en ces mots qu’il rappelle les paroles paternelles: “L’Ange des Allemands fendera le ciel de son épée et descendra pour sauver son peuple, à la dernière heure, au moment où la nuit sera la plus noire”.

 

Cet engouement allemand  pour l’Archange remonte loin, aux débuts du moyen-âge. Sur le Monte Sant’Angelo, dans les montagnes de Gargano en Apulie, l’Archange Michel serait apparu entre 490 et 493. Dans une grotte de la montagne, en cette région où avaient prospéré les cultes antiques, l’archéologie peut prouver des correspondances entre ces cultes païens et le culte ultérieur et christianisé de Saint Michel. Un sanctuaire michaëlien s’est établi là, qui attire encore les pèlerins de nos jours (et aussi les touristes...). Parmi les innombrables pèlerins qui ont porté leurs pas là-bas, nous comptons quelques empereurs allemands.

 

Les Empereurs pèlerins au Monte Sant’Angelo

 

Othon le Grand a escaladé la montagne dédié à l’Archange lors de son troisième voyage en Italie. Il avait tenu à remercier l’Archange car, en 955, il avait pu battre définitivement les Hongrois à Lechfeld près d’Augsbourg. Il avait préservé ainsi les peuples christianisés de notre continent de la peur des raids dévastateurs des Hongrois. Lors de la bataille, l’image de l’Archange avait été portée à l’avant, sur l’étendard impérial du Roi des Allemands. La victoire de Lechfeld, qu’emporta Othon et ses guerriers michaëliques, jetta les bases d’une rénovation complète de l’institution impériale en Europe de l’Ouest, portée désormais par les Allemands (Translation Imperii ad Germanos).

 

Le deuxième pèlerin impérial allemand à Gargano fut Othon III. En février 999, le jeune Othon, âgé de 19 ans, escalada la montagne pieds nus depuis la plaine jusqu’à la grotte, en empruntant des sentiers abrupts et caillouteux: une épreuve très douloureuse pour un jeune monarque délicat et sensible. Cet exercice de pénitence cadrait bien avec la religiosité exaltée et enthousiaste de cet empereur, surtout à un moment de l’histoire européenne où les esprits étaient hantés par l’idée d’une fin du monde: en l’an 1000, le monde devait s’écrouler, croyait-on, et, lui, l’Empereur romain-germanique aurait alors pour tâche de conduire la chrétienté dans son ensemble vers le Christ apparaissant pour prononcer le Jugement Dernier.

 

En 1022, Henri II se rend à son tour à la grotte de Gargano. En 1137, Lothaire III de Supplinburg se trouve à proximité du site michaëlien avec une armée allemande. Le 8 mai de cette année, le jour même où l’Archange serait apparu à Gargano auparavant, Lothaire parvient à battre les Normands et à leur arracher le castel solidement fortifié du Monte Sant’Angelo et, ainsi, à garantir la domination impériale-germanique en Italie du Sud.

 

Très probablement, l’Empereur Frédéric II Hohenstaufen aurait, lui aussi, visité le sanctuaire de la montagne dédiée à l’Archange. Frédéric, qui, selon les critères médiévaux, était un “libre-penseur” sur le trône impérial, a donc été fasciné par la grotte cultuelle, qui, rappelons-le, attire encore et toujours pèlerins et touristes.

 

Le culte de Michel, le guerrier qui terrasse Satan, est venu du Sud, par l’intermédiaire des Lombards qui l’ont transposé en Bavière, et de l’Ouest, par l’intervention des missions irlandaises et anglo-saxonnes, qui l’ont généralisé dans l’Empire franc. La caste guerrière des Lombards, peuple germanique, avait été vivement impressionnée par la figure lumineuse de l’Archange, vigoureux combattant contre le Dragon et maître dirigeant des batailles. Les Lombards s’élançaient au combat avec son effigie sur leurs étendards. Chez les autres peuples germaniques de l’Empire franc puis du Saint Empire Romain de la Nation Germanique, le souvenir d’Odin, maître dirigeant des batailles lui aussi, a sûrement facilité l’adoption du culte michaëlique.

 

L’histoire du culte de Saint Michel est une thématique extrêmement complexe; quoi qu’il en soit, l’idée d’un “Ange des Allemands” s’est propagée en Allemagne aux 19ème et 20ème siècles.

 

Pendant la deuxième guerre mondiale, de nombreux jeunes Allemands qui avaient, dans les organisations de la jeunesse catholique, appris de leurs aumôniers l’importance de Saint Michel, ont servi dans la Wehrmacht, portés par les vertus que représentait l’Archange: la bravoure et la fidélité dans la défense de la patrie. Ces vertus correspondaient à celles que l’on a toujours traditionnellement attribuées à l’Archange, patron des Allemands. En  septembre 1939, on pouvait lire dans un journal de l’Eglise catholique, dans le ton de l’époque: “Toujours, quand des temps durs ont frappé notre peuple... lorsque l’âme et le corps du peuple ont tremblé sous les coups puissants du destin, alors, du fond du coeur du peuple allemand, une figure s’est dressée, qui, par décret divin, est l’ange protecteur de ce peuple, et, par suite, est intimement apparenté à l’essence la meilleure de ce peuple. Alors se dresse Saint Michel, flamboyant dans sa volonté de défendre le peuple qui est sous sa protection, avec son épée et son bouclier, le voilà lumineux à la tête des Allemands. Ceux-ci, alors, le suivent et, sous sa direction, partent vers le combat et la victoire”.

 

Le père jésuite Friedrich Muckermann qui, de son exil, avait durement combattu Hitler, parfois en se fourvoyant terriblement, voyait encore, après la guerre, en l’Archange Michel, “l’Ange des Allemands”: “Tous ceux qui ont lutté pour une Allemagne chrétienne, avant Hitler, et sous Hitler, mèneront encore ce bon combat après Hitler. Car telle est la Voie allemande! Avec Dieu et avec Saint Michel!”. Dans les milieux protestants, la figure de “l’Ange des Allemands” était connue également. Ainsi, par exemple, Bernt von Heiseler, qui appartient à la “génération du front”, publie un poème en 1957 dédié “A l’Archange Michel”. La dernière strophe dit:

“Hilf den alten Kampf bestehen

den dein Volk schon oft bestand,

Erzanfänglicher der Engel

Michael, bewahr dies Land!”

 

(“Aide-nous à soutenir l’antique combat

que ton peuple à si souvent mené,

toi, l’Ange des débuts immémoriaux,

toi, Michel, protège ce pays!”).

 

Manfreed MÜLLER.

(article paru dans “DNZ”, Munich, n°25/2001; trad. franç.: Robert Steuckers, 2009).

lundi, 06 juillet 2009

Wann war das Dritte Reich?

Wann war das Dritte Reich?

Betrachtungen zu Beginn und Ende der Imperii auf deutschem Boden

von Richard G. Kerschhofer - http://www.ostpreussen.de/

Von wann bis wann existierte das Dritte Reich. Von 1933 bis 1945, werden viele sagen und vielleicht ergänzen, von der Machtergreifung am 30. Januar 1933 bis zur Kapitulation am 9. Mai 1945. Leider unrichtig, wie zu zeigen ist. Außerdem ist Hitlers Bestellung zum Reichskanzler nicht „die Machtergreifung“, denn die war ein Vorgang, der lange vor 1933 begonnen hatte und sich danach noch fortsetzte. Bis alle gleichgeschaltet oder ausgeschaltet waren.

Begonnen haben kann das Dritte Reich erst nach dem Ende des Zweiten Reiches – doch wann war das? Ebenfalls eine schwierige Frage. Der Anfang hingegen ist eindeutig: Das Zweite Reich, das „Wilhelminische Deutschland“, begann am 18. Januar 1871, als König Wilhelm I. von Preußen zum Deutschen Kaiser ausgerufen wurde.

Ebenso eindeutig sind die Eckdaten beim „Ersten Reich“, auch „Altes Reich“ genannt. Es begann am 2. Februar 962, als der zum deutschen König gewählte Sachsenherzog Otto I. von Papst Johannes XII. in Rom zum Kaiser gekrönt wurde. Dieses Reich ist später als „Sacrum Imperium“ belegt, dann als „Sacrum Romanum Imperium“ – Heiliges Römisches Reich – und am Beginn der Neuzeit wurde „deutscher Nation“ hinzugefügt. Es endete am 6. August 1806, als Kaiser Franz II. die Reichskrone niederlegte. Er hatte bereits 1804 das Erzherzogtum Österreich zum Kaisertum gemacht und war Kaiser Franz I. von Österreich geworden. Aber durfte der Kaiser das Reich beenden? Ob er durfte oder nicht – er mußte, auf Druck Napoleons.

Das Alte Reich war kein Nationalstaat, nicht einmal ein Staat im modernen Sinn – und schon lange vor Napoleon nur mehr eine Fiktion. Goethe läßt in Auerbachs Keller den einen Saufkumpan ein Spottlied auf dieses Reich anstimmen. Ein anderer bringt ihn zum Schweigen: „Ein garstig Lied! Pfui! Ein politisch Lied.“ Aber das wahrhaft Garstige war der dynastische Egoismus deutscher Fürsten, der das Reich in den Untergang trieb und die Anrainer zum Raub von Reichsgebiet einlud.

Das Erste Reich nannte sich nie „Erstes Reich“, denn kein Reich nimmt an, daß danach noch eines kommt. Auch das Zweite Reich nannte sich nicht „Zweites Reich“, denn für die allermeisten war es keine Wiedergeburt des Ersten Reiches. Es war ein weltliches Reich, keines „von Gottes Gnaden“, und es verkörperte nur die „kleindeutsche Lösung“, war also eher ein „großpreußisches Reich“.

Woher stammen dann die Ausdrücke „Erstes Reich“, „Zweites Reich“, „Drittes Reich“ und „Tausendjähriges Reich“? Sie kommen allesamt aus der Religion. Sie hängen zusammen mit dem „Millenarismus“ (lateinisch) oder „Chiliasmus“ (griechisch), mit dem Glauben an die Wiederkunft des Messias. Für „Drittes Reich“ steht auch „Tausendjähriges Reich“ – wobei „tausendjährig“ nach Ablauf des ersten Jahrtausends nicht mehr wörtlich genommen wurde, sondern soviel wie „ewig“ bedeuten sollte.

Erstmals in politischem Sinn verwendete diese Ausdrücke der deutsche Kulturhistoriker und Politiktheoretiker Arthur MOELLER VAN DEN BRUCK in seinem Buch „Das dritte Reich“ (1923). „Parteigenosse“ war er keiner und er starb schon 1925. Ob man ihn als „Wegbereiter“ bezeichnen kann, ist Geschmackssache, aber sicher erleichterte er die Arbeit nationalsozialistischer Ideologen. „Drittes Reich“ und „Tausendjähriges Reich“ paßten trefflich in das mythisch-mystische Gedankengebäude, das der religionsartigen Überhöhung einer durchaus weltlichen Politik diente. „Drittes Reich“ wird heute zwar pauschal für die NS-Zeit verwendet, war aber nicht mehr als ein Schlagwort der Propaganda. Es hatte nie ein Territorium und war nie ein Völkerrechtssubjekt.

Eines ist noch offen: Wann endete das Zweite Reich? Sicher nicht 1918, wie das die Nationalsozialisten sahen. Denn 1918 wie 1933/34 änderte sich jeweils nur die Regierungsform. 1938 entstand ein „Großdeutsches Reich“, das beinahe den großdeutschen Vorstellungen des 19. Jahrhunderts entsprach. Aber auch wenn im „Anschluß-Gesetz“ (RGBl Nr. 28 vom 18.3.1938) „Großdeutsches Volksreich“ steht – völkerrechtlich blieb es wie 1918 das „Deutsche Reich“.

Der Ausdruck „Drittes Reich“ war jetzt nicht mehr erwünscht und ab 10. Juli 1939 auf Weisung von Goebbels den Medien sogar untersagt. „Großdeutsches Reich“ findet sich im Gesetz zur Einverleibung der Rest-Tschechoslowakei (RGBl Nr. 47 vom 16.3.1939) und in anderen amtlichen Texten. Jener Erlaß der Reichskanzlei, der das Deutsche Reich auch formell in „Großdeutsches Reich“ umbenannte (RK 7669 E vom 26. Juni 1943), wurde aber nicht mehr publiziert. „Großdeutsches Reich“ stand nur auf den Briefmarken.

Anders als das Heilige Römische Reich Deutscher Nation wurde das Deutsche Reich nie durch irgendeinen Formalakt für beendet erklärt – nicht durch die Kapitulation, nicht durch die Besatzungsmächte, nicht durch Gründung der Bundesrepublik Deutschland und der Deutschen Demokratischen Republik, ja nicht einmal durch den „Zwei-Plus-Vier-Vertrag“. So wurde die Bundesrepublik zwar Rechtsnachfolgerin des nie für tot erklärten Reiches – mit allen daraus erwachsenen Nachteilen. Friedensvertrag gibt es aber keinen. Und auch Österreich hat nur einen „Staatsvertrag“ mit Einschränkungen der Souveränität, darunter das „Anschlußverbot“.

jeudi, 28 mai 2009

H. J. Schoeps - Preussischer Patriot und bekennender Jude

Hans-Joachim Schoeps

Preußischer Patriot und bekennender Jude

Hans-Joachim Schoeps – geboren vor 100 Jahren

Ex: http://eisernekrone.blogspot.com/





„Mich bewegt sehr und richtet auf, daß es noch immer Konservative gibt, die die Tradition nicht abbrechen lassen, sondern die den Bogen schlagen wollen – von vorgestern nach übermorgen.“
„...stelle ich fest, (...) daß es füglich bei mir keine Entwicklung gegeben hat. Ich bin immer Konservativer, Preuße und Jude gewesen.“

Preußischer Patriot und bekennender Jude



Heute, am 30. Januar 2009, ist der 100. Geburtstag des deutsch-jüdischen Wissenschafters, Publizisten und Patrioten Hans-Joachim Schoeps. Ein bleibendes wissenschaftliches Vermächtnis, das die engeren Betätigungsfelder seiner Studien überschreitet und als Institution überdauert, ist die von ihm gegründete Gesellschaft für Kulturwissenschaft in Potsdam. Ein weiteres, die gemeinsam mit dem Religionswissenschafter Ernst Benz (siehe unsere Würdigung "Der Adel der menschlichen Seele" - von der deutschen Mystik bis zum Übermenschen) ins Leben gerufene „Zeitschrift für Religions- und Geistesgeschichte“. Seine gesammelten wissenschaftlichen und publizistischen Werke sind in einer 16-bändigen Ausgabe im Olms-Verlag zwischen 1990 und 2005 als Nachdrucke erschienen. Schwerpunkt seiner Forschungen, insbesondere als Professor für Religionsgeschichte in Erlangen, war zum einen das Judentum, insbesondere auch im Verhältnis zum frühen Christentum, man kann sagen Randfragen der Judaistik, die aber eine gewisse Brisanz sowohl für Christen wie Juden besitzen. Und zum anderen, der Staat Preußen, von diesem her auch das, was man als „deutsche Frage“ sich zu bezeichnen angewohnt hat. Insbesondere sein sowohl wissenschaftlichen Ansprüchen wie allgemeinverständlicher Darstellung gerecht werdendes Buch „Preußen. Geschichte eines Staates“ (1) ist als geschichtliche Einführung bis heute unübertroffen. Eine von Schoeps veranstaltete Preußen-Anthologie „Das war Preußen. Zeugnisse der Jahrhunderte“ wurde im übrigen von Julius Evola ins Italienische übersetzt. (2)
Da Hans-Joachim Schoeps nicht nur distanzierter Forscher gewesen ist, sondern sowohl Juden- wie Preußentum als die beiden Koordinaten seines eigenen Lebens betrachtet hat, wurde für ihn ein politisches Engagement als Nationalkonservativer, Monarchist und jüdischer Patriot geradezu zur Pflicht. Seine wesentliche Prägung hat Schoeps durch die bündische Jugendbewegung (3) und deren Deutung durch Hans Blüher erfahren; Schoeps war es dann auch, der Blühers zentrales Werk, „Die Rolle der Erotik in der männlichen Gesellschaft“, nach dem Zweiten Weltkrieg im Klett-Verlag neu herausgegeben hat. Blühers christlichem Antijudaismus hat er sich im „Streit um Israel“, einer in Briefform gehaltenen Auseinandersetzung auf höchstem Niveau, in direkter Konfrontation gestellt. (4) Für seinen Versuch, einem patriotischen, aber nicht „assimilierten“ (also letztlich apostatischen) Judentum auch im deutschen Aufbruch von 1933 einen Platz zu behaupten, gegen die de facto bestehende Allianz von Nationalsozialismus und Zionismus, die eine solche Position für unmöglich erklärt hat, wurde er Zeit seines Lebens und über den Tod hinaus angefeindet und hat sich gar noch von dem CSU-Klampfensänger Wolf Biermann als „Heil-Hitler-Jude“ anpöbeln lassen müssen. 1970 veröffentlichte Schoeps die Dokumente dieses Beharrungskampfes unter dem Titel „Bereit für Deutschland. Der Patriotismus deutscher Juden und der Nationalsozialismus“.
In Zeiten der beinahe vollständig vollzogenen Identifikation des Judentums mit dem Zionismus ist die Voraussetzung für das Verständnis des inneren wie äußeren Ringens eines „deutschbewußten Juden und jüdischbewußtes Deutschen“ (5), der den Zionismus mindestens ebenso entschieden ablehnte wie die Assimilation, und der auch niemals das zionistisch besetzte Palästina besuchte („Erst wenn der Messias gekommen ist, reise ich“), so gut wie nicht gegeben. Dazu kommt, daß Schoeps auch keineswegs ein Haredi, oder wie der eigentlich diffamierende Ausdruck heißt: „ultraorthodoxer“ Jude, dem man solchen messiaserwartenden Antizionismus selbst von Zionistenseite in gewissem Rahmen noch nachsieht, (6) gewesen ist, sondern große Sympathien für das Judenchristentum der Ebioniten (7), also eine spezielle jüdisch-christliche, vom Heidenchristentum unterschiedene Frömmigkeit hegte, und auch den, nach unserer Ansicht eigentlich traditionellen, den Talmud ablehnenden Karäern, die von den „orthodoxen“ Juden aber als häretisch betrachtet werden, Interesse entgegenbrachte.
1950 schreibt Schoeps über sein Verhältnis zu den zeitgenössischen Juden: „Die Juden glauben ja garnicht so [er bezieht sich auf sein eigenes, 1938 erschienenes Buch „Grundlehren des jüdischen Glaubens“]. Die glauben entweder an garnichts oder an Geld oder an den israelischen Staat. Und die Orthodoxen (=Rechtgläubigen) sind orthoprax und verketzern den Glauben überhaupt als Gojim naches. [...] Ich repräsentiere die Juden so wenig wie diese den jüdischen Glauben. Die Mentalität, die mir als jüdisch entgegentritt, wohin ich mich wende, ist mir so fern und fremd – ich gestehe häufig antipathisch. [...] Es kommt hinzu: 95-100% der in Europa lebenden Juden sind Zionisten, d.h. sie geben sich der nationalistischen Seuche hin, die ich wie die Pest hasse. Ich bin der Meinung, daß die Welt – wenigstens meine Welt – daran zugrundegeht.“ (8)
Nicht nur der zionistischen, sondern auch der mystisch-magischen Strömung, Kabbala und deren Wiederentdeckung und –belebung durch Gershom Scholem oder Oskar Goldberg, stand er ablehnend gegenüber. Dabei stehen sich kabbalistische Ekstase und zionistischer Aufbruch nicht so fern wie es scheinen mag. Sie haben in der Bewegung des „falschen Messias“ Sabbatai Zwi einen Kreuzungspunkt, der zugleich Schoepsens persönliche „Familientragödie“ darstellt. „Vieles ist möglich, aber Pseudomessianismus darf es in unserer Familie nie wieder geben. Kein biederer Protestant kann auch nur von ferne ahnen, was das Prinzip ‚sola fide’ ins Jüdische übersetzt beinhaltet. In meinem Fall tat sich ein Abgrund auf. Es hätte ja bedeutet, daß ich dem feigen Betrüger Sabbatai Zewi (Schapse Z’wi), an den meine Vorfahren auch nach dessen Selbstverrat vom 15. September 1666 inbrünstig geglaubt haben, weshalb man sie die ‚Schepse’ nannte, nachträglich Indemnity erteilt hätte. Das durfte ich nicht. (...) Adolf Hitler war doch nur ein dummer Mörder. Der Schapse Z’wi nach 1666 übertrifft ihn an Gemeinheit. – Und diesem Manne haben wir geglaubt. Im übrigen ist es von zweitrangiger Bedeutung, ob zum Prinzip ‚sola fide’ im Namen von Sabbatai Zewi, Martin Luther oder gar Karl Marx aufgerufen wird.“ (9) Der Verdacht gegenüber Gnostizismus und Mystizismus, das Gesetz ebenso außer Kraft zu setzen, wie die Zionisten das Verbot der Errichtung eines staatlichen Gebilde vor dem Erscheinen des Messias (tatsächlich haben die Sabbatianer als erste zu einer Einwanderungsbewegung nach Palästina aufgerufen), schmiedet in Schoeps Weltanschauung das Gesetz des Judentums (ohne seine ghettomäßige Ausgestaltung im orthodoxen Talmudjudentum) an den gerechten Staat Preußen. Die Problematik liegt hier offen als luthersche Ambiguität vor uns: die Gewissens- und Glaubensverinnerlichung im Verhältnis zur äußeren legitimen Autorität. Eine Flucht aus dieser Spannung kann zum Rückfall in das „Heidentum“ führt, auf den an den Beispielen Nationalsozialismus und Zionismus noch einzugehen ist.
In seiner Religionsgemeinschaft isoliert, brachte sich Schoeps als Vorsitzender monarchistischer und stockkonservativer Verbände vollends ins Abseits des Zeitgeistes. Auch die bundesdeutschen Konservativen dachten nicht daran, ihm zu folgen. Caspar von Schrenck-Notzing konnte mit einigem Recht schreiben: „Als Historiker Preußens war Schoeps am erfolgreichsten. Wenig Erfolg beschieden war ihm jedoch bei dem Versuch der Übertragung dieses Konservativismus in die Gegenwart.“ (10)
Paradox erscheint es da, daß er dennoch zum (Doktor-)Vater einer „Neuen Rechten“ oder eines neuen Nationalismus werden konnte. Durch seine Dissertanten Robert Hepp, (11) Hans-Dietrich Sander, (12) Hellmut Diwald und andere (13) wirkt sein politisch-wissenschaftlicher Einfluß, wenn auch eher untergründig und selektiv, fort.
Das Verständnis für seine Person hat sich bis heute nicht gerade erhöht. Dabei könnte Schoeps gerade wegen seiner Außenseiterstellung als Ausnahmegestalt ein Licht auf die Widersprüche und auch innere Größe einerseits der preußischen Geschichte und andererseits der zumeist mehr beschworenen als analysierten deutsch-jüdischen Symbiose werfen.

Nationalsozialistischer und zionistischer "Baalskult"



Schoeps bekannte, daß ihm alles „Völkische“, ob Nazismus oder Zionismus – die er zumindest diesbezüglich ausdrücklich auf die gleiche Stufe stellte - widerwärtig sei und seiner wie jeder politischen Theologie als biologische Theologie oder Bio-Theologie entgegenstünde. "Das goldene Kalb ist Symbol des baalischen Jungstiers, die angebetete Zeugungskraft der Allnatur, niemand anderes als der Blut- und Bodengötze. Überall wo die biologischen Kräfte vergottet werden, Rasse, Blut und Boden letzte Werte sind, ist der kanaaitische Baal am Werk."(14) In Nazismus wie Zionismus, in jedem völkischen Biologismus. Das historische Israel der Sinai-Gesetzgebung habe immer mit dem Baalskult gekämpft, so Schoeps.
Wenn man Baal, der solaren Gottheit Syriens, Gerechtigkeit widerfahren lassen will, so ergänze ich, muß man jedoch anerkennen, daß die im äußeren Kampf zwischen Juden- und Heidentum entgegenstehenden Gestalten beide korrekte und konkrete Ausprägungen der einen Tradition sind. Wenn allerdings das „auserwählte Volk“ im Sinne eines Monotheismus, diese Erwählung (15) als Selbstvergottung mißversteht, weil es den Bund zwischen Gott und Israel so versteht wie die Syrer ihre Beziehung zu Baal, so liegt eine monströse Entartung und Verkehrung der monotheistischen Sendung vor, wie umgekehrt dann auch, wenn ein heidnisches Volk – oder ein neuheidnisch gedachtes wie im Fall des Nationalsozialismus – sich als ein auserwähltes Volk analog Israel zu erheben versucht. In beiden Fällen kommt es zu der von Schoeps am Beispiel des zionistischen Judentums beklagten Hybris: „Denn auch das Judentum selber trägt die Möglichkeit des baalischen Selbstmißverständnisses von der Sinai-Gesetzgebung bis zum letzten Zionistenkongreß in sich – und immer dann wird der Abfall zum Baal akut, wenn das Bekenntnis statt zum ewigen Gott zur Ewigkeit des eigenen Volkes und seines – welches Mißverständnis – auserwählten Bluts sich Bahn bricht.“ (16) Mit dem historischen Baalskult und seine Umwandlung in den Sol Invictus des römischen Imperiums hat dieser beschriebene Vorgang offensichtlich wenig bis nichts zu tun. (17)
Schoeps spricht in Bezug auf das Buch „Wir Juden“ des Zionisten Joachim Prinz von „nackter Lebensverherrlichung und Diesseitsbejahung ohne Ausblick auf ein anderes, und sei es auch nur wie bei Nietzsche durch das Medium des schlechten Gewissens hindurch, daß ein anderes besseres Wissen verdrängt worden ist.“ (18) Da springt doch die Nähe zu der Unterscheidung von Leben und „Mehr-als-Leben“ ins Auge, die der Baron Julius Evola gerade als „Heide“ getroffen hat. (19) Evola stand wie auch Schoeps der „Konservativen Revolution“ nahe, auch wenn diese nach Schoeps „ein Unbegrif des Publizisten Armin Mohler“ sein soll. (Der Begriff wurde in Wirklichkeit auch von dem von Schoeps geschätzten Edgar Julius Jung explizit und affirmativ verwendet.) Die Kritik von Schoeps an der völkischen Bewegung, inklusive des „jüdisch-völkischen“ Zionismus, ist nicht von einem exklusiv jüdischen Standpunkt zu verstehen. Er wird auch nicht nur selbstverständlich von einem Christen geteilt werden müssen, sondern ist allgemein der Unterschied zwischen Tradition als Überlieferung von einem übernatürlichen und überindividuellen Ausgangspunkt her und der modernen Auffassung – mit bereits manchen antiken Vorläufern – von dem bloß natürlichen, animalischen Ursprung des Menschen und einem Kollektivismus der Pseudoüberwindung des Individualismus, dem Kollektiv-Individualismus, der die geordnete Wirklichkeit (den Kosmos) de facto nihilistisch negiert, so viel er auch an zu bloßem Tand werdenden Mythen der Überlieferung in Beschlag zu nehmen versucht (im Fall des biologistischen Nationalsozialismus die germanische Mythologie und im Fall der Zionisten die biblische Geschichte Israels.)
Schoeps Deutschtumsbekenntnis ist genausowenig völkisch-biologisch wie sein jüdisches. Gerade angesichts des völkischen Aufbruchs 1933, dessen begrenzte Gültigkeit Schoeps „um die Wahrung des bedrohten Volkskörpers willen“ anerkannte - was ihm heute als unverzeihlich vorgeworfen wird -, hat er die eigentliche deutsche Sendung als Erbe des mittelalterlichen Reichs hervorgehoben, die „Leibwerdung eines objektiven Ordnungsauftrages“, der geschichtlich stets „in einem übervölkisch-staatlichen Bezirk seine Ansatzpunkte gefunden“ hat. Als Wesensbestandteil des „preußisch-deutschen Staatsethos“ bezeichnet Schoeps in seiner dialektischen Sprache das „sich vor einem Objekt Verantworten“. Aber „im Bekenntnis zu Blut und Rasse droht die Gefahr einer Selbstverabsolutierung, die echter Objektverantwortung nicht mehr zu bedürfen scheint, weil es fraglich wird, ob die übersteigerte Verherrlichung der eigenen völkischen Art die in der staatlichen Ebene liegende Frage nach der geschichtlichen Sinnerfüllung oder Sinnverfehlung überhaupt noch zu konzipieren vermag.“ (20) Diese an das „Dritte Reich“ gerichteten Sätze entfalten aber auch ihre erschreckende Aktualität, wenn man die selbstgerechte und autistische Haltung des Zionistenstaats gegenüber der Weltöffentlichkeit betrachtet, es wird einem klar, daß von einem solchen Standpunkt, der das Volk an die Stelle Gottes gesetzt hat, aus keine Selbstkritik, keine Korrektur des eingeschlagenen Weges mehr möglich ist, ohne das Projekt insgesamt zu negieren. Dies ist der von Schoeps diagnostizierte molochitische, also letztlich selbstverschlingende Zug, dessen Zug die reine nihilistische Vergötzung der eigenen Macht ist. „Verfallenheit an die Naturmagie und nie zu sättigender Machttrieb - also Baal und Moloch in einer Gestalt - manifestieren sich im modernen Götzen, der mit Hilfe magischer Bannformeln und kultischer Riten ganze Lebensräume unter seine Gewalt bringt.“ (21)
Dies war nach Schoeps Ansicht im nationalsozialistischen, antipreußischen Großdeutschland der Fall - tatsächlich hat ja ein süddeutsch-österreichisches Pseudopreußentum all das zum Vorbild eigener Machtausübung genommen, was Preußenkarikaturen entspringt und in der Tat eine Projektion der Barbarei des englischen Imperialismus war (wir würden aber eine ergänzende, leider unterlegene Strömung im Dritten Reich anerkennen, für die etwa Carl Schmitt, Christoph Steding und auch Julius Evola stehen.) Bemerkenswert ist daher die sachliche und wenig dramatisierende, sondern scheinbar einer pessimistischen Grundstimmung entsprechende Bilanz von Schoeps, dessen Eltern in deutschen Konzentrationslagern ums Leben gekommen sind: „In Deutschland hat man ja gesehen, was dabei herauskommt, wenn ein Volk nationalistischen Kräften ausgeliefert wird und sich füglich von Gott und den sittlichen Gesetzen emanzipiert. Sie fragen mich, wie ich als Jude das deutsche Verhalten in der Hitlerzeit religiös beurteile? Ich kann nur sagen: folgerichtig und normal. Denn das steht eben zu erwarten, wenn sich Nationalismus und Technik verbünden. Ich habe mich über die ‚deutschen Greuel’ niemals gewundert, sie entsprechen ja nur der Abgründigkeit der menschlichen Existenz. Ich habe mich höchstens über die Zeiten gewundert bzw. sie bewundert, wo die Greuel gebändigt werden konnten wie etwa im Hl. Allianz genannten Staatenbund christlicher Monarchien. In der Zeit des hochseligen Königs Friedr. Wilh. IV. gab es zum letzten Mal pax christiana, die auch immer pax judaica ist.“ (22) Diese Bändigung des unter der Ordnung verborgenen Chaos ist für Schoeps in der biblischen Schöpfung verankert, wo dem Tohuwabohu (dem Wüsten und Leeren) von Gott die Ordnung aufgeprägt wird, ohne daß diese chaotischen Mächte aber völlig beseitigt werden: „Das Gesetz ist überhaupt nur gegeben worden, weil im Anfang das Chaos war, und die Menschen nahmen es an, weil sie im Chaos nicht untergehen wollten. Nur auf diesem Untergrund hat die gesetzliche Lebensordnung ihren tiefen Sinn. (...) Mir scheint die Verbürgerlichung der Religion hat uns Juden allesamt vergessen lassen, daß die Welt unheimlich, vielleicht sogar tückisch ist. Warum nimmt die jüdische Theologie Genesis 1,2 nie ernst? Da ist doch die Rede vom Tohu-wa-bohu, in das die Ordnungen der Schöpfung hineingelegt worden sind. Man sollte sich mit dem Besitztitel der Auserwählung nicht darüber hinwegtäuschen, daß unter der Schöpfungswelt noch immer das Tohu-wa-bohu liegt – als der grollende Abgrund. Wie hat man das vergessen können? Kann man denn ernstlich das Gesetz erfüllen, es sei denn auf der Flucht vor den Elementargewalten einer höchst unsicheren Welt?“ (23)
Diese tief in der Bibel verankerte konservative Grundhaltung, die fern allen „revolutionären jüdischen Geistes“ und der messianischen Verneinung der bestehenden Ordnung ist, bildet den einen, traditionsgebundenen Strom des Judentums, der geschichtlich leider oft nicht der dominante gewesen ist.

Um die Reichstheologie



Nach diesen negativen Bestimmungen gilt es die positive politische Theologie – Reichstheologie – ins Auge zu fassen, von der Schoeps nicht nur meinte, daß jüdische Deutsche ihren Anteil daran haben könnten, sondern aufgrund der Kontinuität der Reichsvorstellung vom alten Israel an, sogar in besonderer Weise. Die Herleitung des Reichs nicht von Rom, sondern von Jerusalem, stieß erwartungsgemäß auf Widerspruch in Plettenberg, beim konservativ-revolutionären Exegeten der „Politischen Theologie“, Carl Schmitt.
„23.5.48
[...] Begegnung mit Joachim Schoeps: Erst durch Cramer von Laue [Schüler von C.S.] , dann jetzt durch den (mir als erster Sonntagsmorgengruß entgegenspringenden) Satz aus dem Blüherschen Streitgespräch um Israel 1933 (S. 50): 'Und dies (daß die jüdische Auserwähltheit das Vorbild des mittelalterlichen Reiches war) ist auch der Grund, warum ein gläubiges Judentum kaiserlich (nicht königlich) gestimmt ist!' Nein, Joachim Schoeps, das ist nicht der Grund! Der Grund liegt in Joh. 19, 15, und das christliche Reich der Kaiser des Mittelalters hatte eine Legitimation als ein katechon [Original in griechisch] nach 2. Tess. 6/7.“
So Carl Schmitt in seinem Glossarium. (24) Schoeps könnte auch darauf verweisen, daß die Übernahme des Erzengels Michael als Engel des deutschen Volkes (herabgesunken zum charakteristischen „deutschen Michel“), die Kontinuität des israelischen Reichsgedanken belegt. Carl Schmitt könnte einiges für seine christliche Rechtfertigung des Imperiums vorbringen. Letztlich muß man wohl feststellen, daß beide politischen Theologien im mittelalterlichen Reich verbunden oder überlagert gewesen sind, sich aber in den katholisch-protestantischen bzw. österreichisch-preußischen Gegensatz auseinanderentwickelt haben.
Drei Jahre nach dem erwähnten Tagebucheintrag Schmitts kam es, angestoßen durch die Zusendung eines Aufsatzes über Donoso Cortés durch Schoeps, zu einem kurzen Briefwechsel zwischen den beiden politisch-theologischen Kontrahenten. Schmitt in einer ersten Reaktion an Armin Mohler, in einem Brief vom 25.8.1951: „Ich bin überrascht, dass er sich an der gegen mich gerichteten Verschwörung des Totschweigens nicht beteiligt.“ (25) Wenig später gibt es ein persönliches Treffen, von dem Schmitt dann Mohler in einem Brief vom 12.11.1951 berichtet: „Vorige Woche habe ich Prof. Schoeps persönlich kennen gelernt; darüber gelegentlich mehr. Er hat mir gut gefallen.“ (26)
Im bereits erwähnten „Streit um Israel“ ist der Streitpartner nicht Schmitt, sondern konkret Blüher, und richtet sich der Stoß gegen ein (ausschließlich) „blutshaftes“ Verständnis von Deutschsein, von der her eine „jüdisch-preußische Symbiose“ immer nur widernatürlich erscheinen kann. So heißt es kurz nach der von Schmitt monierten Stelle: „das mittelalterliche Reich, das sacrum imperium, war gegründet durch den sakralen Ordnungsauftrag; der Kaiser als der ‚wahre Nachbildner Davids’ – so heißt es sogar noch in der Augsburgischen Konfession – sollte einstehen für Gerechtigkeit und Frieden. Im Reiche ist das Kaisersein ein Amt, wie der im kaiserlichen Dienste stehende Adel in ausgezeichneter Weise ein Amtsadel ist und damit im Gegensatz zum heidnischen Schwertadel und analog zum Priestertum eine geistige Angelegenheit. Und nur dasjenige Preußen, das sich als Erben des mittelalterlichen Kaiserreiches weiß, hat geschichtliche Bedeutung und echte Sachbeziehung zu den Positionen des Offenbarungsglaubens. Mir geht es stets nur um das ‚geistige’ Gebilde Preußen und nicht um das naturale, das letzten Endes immer nur die Objektivation eines bluthaft-vitalen Seins, einer ganz bestimmten, in Norddeutschland vorzugsweise beheimateten Struktur darstellt. In Ihren [Blühers] Darstellungen wittere ich aber immer wieder diese naturale Verkehrung [...]“ (27)
Schoeps hat auf verschiedene Weise versucht, die Möglichkeit des „preußischen Juden“ als „legitime historische Figur“, mehr noch: als „überzeugende Figur“ zu begründen. Der schwächste Ansatz ist der bei einer allgemeinen „Seelenverwandtschaft“ zwischen dem Bewohner der Wüste und der norddeutschen Weite. Die spezifisch preußische Beharrung der geprägten Form – sinnbildlich im Kasernenbau - angesichts der alles auflösenden Weite der Landschaft hat er sehr plastisch herauszuarbeiten verstanden, aber was soll dem von hebräischer Seite entsprechen - etwa das Wanderheiligtum des Bundeszelts? Stärker vermag auf den ersten Blick die Parallele zwischen dem jüdischen Gesetzesgehorsam und der preußischen Pflichtauffassung („das moralische Gesetz in uns“) einzunehmen. Hier sehen wir im übrigen wieder Schmitt auf der anderen Seite, der des Urteils, christlich-personalistisch als Entscheidung nicht als bloße Anwendung gedacht, gegenüber dem – bei Schmitt sicher auch jüdisch konnotierten - Gesetz. (28) Ganz am Rande sei vermerkt, daß die Sharia des Islam, zumindest in der dschafaritischen Rechtsschule, gerade weil das islamische Gesetz nicht so explizit und detailliert aufgelistet aufzufinden ist wie die mosaischen Gesetze, sondern in den Rechtsquellen, inklusive der Vernunft, aufgesucht werden muß und einer persönlichen Führung bedarf (Quelle der Nachahmung) die Vorzüge der beiden Systeme zu vereinen vermag, und die Nachteile – Starrheit bzw. Willkürlichkeit – vermeidet. (29)
Das Verhältnis von auctoritas und veritas kann für Schoeps aber auch in Preußen problematisch werden, wenn die „unbedingten Gehorsam“ verlangende Obrigkeit selbst keine – göttliche – Autorität über sich mehr kennt, der Staat also absolut wird. Für Schoeps eine heidnische Entartung, gegen die gerade das Festhalten am mittelalterlichen Reichsgedanken, das Gottesgnadentum, mobilisiert wird. Der moderne, rein säkulare Staat kann von ihm daher nur als die Monstrosität - das "kälteste Ungeheuer" Nietzsches - gesehen werden, die er auch ist, ob er sich nun nationalsozialistisch, bolschewistisch oder liberalistisch maskiert.
Die Linie zwischen einem totalen Staat als einzige Vermittlung des Göttlichen und einem totalen Staat anstelle des Göttlichen ist natürlich eine feine, aber nicht wirklich die zwischen jüdisch-christlich und heidnisch. So kann Franco Freda, den platonischen Staat vor Augen, heidnischer Apologet des „wahren Staates“ in seiner „Auflösung des Systems“ (30) schreiben: „Betonen wir nochmals daß die Wirklichkeit dessen, was heilig und göttlich ist, und die Heiligkeit dessen, was die wirkliche politische Struktur ist, das Fundament des wahren Staates bilden muß: denn wenn sich ein Staat, ein politisches Regime nicht durch das Faktum legitimeren läßt, daß es eine spirituelle Gültigkeit besitzt, spirituelle Ziele verfolgt, kann es nichts Organisches und Zentriertes repräsentieren: es wird nichts als eine tote, materialistische und soziale Anhäufung sein, resultierend aus der allen Organismen ohne Lebenskraft eigenen Erstarrung.“ Freda führt den Bruch „zwischen dem sogenannten laikalen Bereich des Staates und der abstrakten Ebene des ‚spirituellen’, der gegenüber diesem autonom bleibt“, einer moralischen „Welt des Gewissens“ einerseits und einer ausschließlich „profanen und laikalen, von jener göttlichen Potentialität ausgeschlossenen“ andererseits – man vergleiche Carl Schmitts „Leviathan“! – auf „die jüdisch-christliche Infektion vor zweitausend Jahren “ zurück. Die von Schoeps auf die kaiserlich-reichische Linie bis David und von Schmitt auf die katechontische Funktion des römischen Imperiums zurückgeführte sakrale Dimension des Staates als Ordnungserhalter gegenüber dem materialistischen Chaos, wird von Freda also gerade als das Heidnische angesehen (gegen alle Neuheiden, die nach der Trennung von Diesseits und Jenseits, gerade das Jenseits als christlich-jüdische „Erfindung“ wegstreichen.) Wir sehen uns scheinbar einer babylonischen Sprachverwirrung der Politischen Theologie gegenüber, die sich mit Hilfe der von René Guénon erörterten Doktrin lösen läßt. Nicht im exklusiven Rückgang auf das Königtum Davids, nicht allein auf das getaufte römische Kaisertum nach Konstantin, nicht auf die ausschließlich heidnisch-platonische Tradition, sondern auf die gemeinsame primordiale Stiftung durch den "König der Welt", in der biblischen Gestalt der Priester-König Melchisedek, der Gerechtigkeit und Frieden durch Herrschaft gewährleistet.

Martin A. Schwarz


(Alemannia Judaica - Der jüdische Friedhof in Erlangen)

(1) Berlin: Propyläen 1966, zahlreiche Neuauflagen.
(2) Schoeps, Das war Preußen. Zeugnisse der Jahrhunderte. Eine Anthologie; Honnef: Peters 1955; ital.: Questa fu la Prussia. Testimonianze sul prussianesimo; Rom: Volpe 1965. Die Übersetzung erschien unter Evolas üblichem Übersetzerpseudonym Carlo d’Altavilla.
(3) Die nicht wenige Fragen aufwerfende Identifikation des (Männer-)Bündischen mit dem jüdischen B’rith, Bund Gottes mit den Menschen, bleibt in unserer Darlegung ausgeblendet. Es sei nur bemerkt, daß Schoeps hier sein jüdisch-deutsches Bekenntnis so weit ins Metaphysische trägt, daß man an die Schwelle der Frage gelangt, ob man nach Schoeps überhaupt wirklich voll und ganz Deutscher sein kann als Nicht-Jude. Jedenfalls beansprucht er als Jude Deutscher zu sein und als Deutscher Jude.
(4) Hans Blüher / Hans Joachim Schoeps, Streit um Israel. Ein jüdisch-christliches Gespräch. Hamburg: Hanseatische Verlagsanstalt 1933.
(5) So der Titel der einzigen ihm gewidmeten Monographie:
Richard Faber, Deutschbewusstes Judentum und jüdischbewusstes Deutschtum. Der Historische und Politische Theologe Hans-Joachim Schoeps; Würzburg: Königshausen und Neumann 2008. Faber, dessen Bücher oftmals monomanisch um interessante bis abseitige Themen der Kultur- und Ideengeschichte, vorzüglich der konservativ-revolutionären bis faschistischen, kreisen, selten analytisch, sondern suggestiv und selbstreferentiell, immer auf der Suche nach der „Pointe der Pointe“, die sich aber oft nur dem als Pointe erweist, der schon weltanschaulich von Faber eingelullt nur mehr auf die Bestätigung wartet. Der als Dissertant von Mohammed Rassem (Freund Sedlmayrs und Bewunderer Schoeps) zu Jacob Taubes gewechselte Faber hat sich ein gewisses Feeling für die „Konservative Revolution“ erlesen, das seinem Faible fürs Faschistenriechen entgegenkommt. Die Grundthese seiner zahlreichen, anscheinend schnell heruntergeschriebenen Bücher ist gegen Mohler gerichtet und besagt, daß die „Konservative Revolution“ primär römisch gewesen sei und nicht nietzscheanisch-antirömisch.
Ich will nicht leugnen, daß diese kurze Würdigung von Schoeps der Faberschen Arbeit manche Hinweise verdankt, die es gegen den politisch-korrekten Strich Fabers zu bürsten galt. Zum Titel und der Formulierung ist noch zu sagen, daß Schoeps weitaus mehr preußisch als deutsch gewesen ist, oder anders gewendet, Deutschtum ganz von Preußen her gedacht hat.
(6) Im zionistisch besetzten Palästina sind die Haredim vom Wehrdienst befreit, siedeln sich aber schwer bewaffnet als kolonialistische Vortrupps in noch vorwiegend arabisch besiedeltem Land an – theoretisch antizionistisch, praktisch ultrazionistisch, mit talmudistischer Chutzpah das Göttliche Verbot umgehend, das sie mit dem Mund weiter bekennen.
(7) Siehe z.B.: Schoeps, Judenchristentum und Gnosis; u.a. zu finden in: Schoeps, Ein weites Feld. Gesammelte Aufsätze; Berlin: Haude & Spener 1980. Schoeps entwirft Ebioniten und Gnostiker (Marcioniten) als zwei geradezu idealtypische Gegensätze, wobei Gnosis unter dem Gesichtspunkt der Ablehnung des Schöpfergottes gesehen wird (also mit der universalen Gnosis als esoterischer Wahrheit jeder echten Tradition absolut nichts gemeinsam hat.) Für die Ebioniten war Jesus vor allem als Erfüllung des Gesetzes, d.h. als (vollkommener) Gerechter relevant und nicht als Messias-König. Es ist von der ebionitischen Auffassung auch nicht weit zu Schoeps’ preußischen Staat als Gerechtigkeit auf Erden, gegen den keine Auflehnung möglich ist.
(8) Brief an Schalom Ben Chorim, 18.3.1950, in: Julius H. Schoeps (Hg.), Auf der Suche nach einer jüdischen Theologie. Der Briefwechel zwischen Schalom Ben Chorim und Hans-Joachim Schoeps; Frankfurt am Main: Athenäum 1989, S. 56. Orthographie beibehalten.
(9) Schoeps, Ja – nein – und trotzdem. Erinnerungen – Begegnungen – Erfahrungen; Mainz: v. Hase & Koehler 1974; S. 139 f.
(10) Criticón, Nr. 28, 3./4.1975, S. 55.
(11) Hepps Dissertation „Politische Theologie und theologische Politik“ atmet natürlich unmittelbar, aber auch seine erste Veröffentlichung „ Selbstherrlichkeit und Selbstbedienung. Zur Dialektik der Emanzipation“ noch den Schoepschen Geist, des Denkens „von oben“ und ist mit großem Vergnügen zu lesen, anders als seine in die „Politische Biologie“ wenn auch nicht „Bio-Theologie“ abdriftende, allerdings auf einem realen Problem beruhende „Endlösung der deutschen Frage“, die ihn berühmt und wohl auch berüchtigt gemacht hat.
(12) In der Schoeps-Dissertation „Marxistische Ideologie und allgemeine Kunsttheorie“ ist bekanntlich die verschwiegene Beziehung von Walter Benjamin und Carl Schmitt erstmals aufgedeckt worden. „Der nationale Imperativ“ ist bereits durch den Titel preußisch konnotiert, wieweit auch der Sandersche Nationalismus in der Substanz mehr preußisch als völkischnational ist, wäre aufzuzeigen. Aber sicher hat Sander auch in die andere Richtung ausgeschwungen, als dialektischer Denker, dem es um die Totalität von Idee und Wirklichkeit angelegen ist. Sanders „Auflösung aller Dinge“ hat schließlich nochmals das Skandalon des Blüher/Schoeps-„Streits um Israel“ aufgenommen, eindeutig auf der Blüher-Seite anknüpfend. Sanders Kollege Robert Hepp hat dieses Buch einer scharfen (unveröffentlichten) Kritik unterzogen, ohne explizit die Schoepsche Gegenposition zu beziehen.
(13) Zu nennen wären etwa noch: Werner Maser (Frühgeschichte der NSDAP), Günther Deschner (die deutsche Gobineau-Rezeption), Hans-Joachim Schwierskott (über Moeller van den Bruck.)
(14) Schoeps, Was ist der Mensch? Philosophische Anthropologie als Geistesgeschichte der neuesten Zeit; Göttingen: Musterschmidt 1960, S. 325.
(15) Für das richtige, traditionsgemäße Verständnis dieses Begriffs, siehe: Charles-André Gilis, La profanation d'Israël selon le droit sacré; o.O. o.J (=2003); Neuauflage: Paris: La Turban noir 2008.
(16) Ebd., S. 325, zitiert nach Faber, S. 40.
(17) Vgl. für eine korrekte Darstellung: Franz Altheim, Der unbesiegte Gott. Heidentum und Christentum; Hamburg: Rowohlt 1957; auszugsweise auch hier:
Der unbesiegte Gott (2) - Helios von Emesa.
(18) Schoeps, „Bereit für Deutschland!“ Der Patriotismus deutscher Juden und der Nationalsozialismus. Frühe Schriften 1930 bis 1939. Eine historische Dokumenation; Berlin: Haude & Spener 1970; S. 175.
(19) Und im übrigen hat Evola auf dieser Basis seine „Rassentheorie“ entwickelt, die dementsprechend nicht unter die Kritik der Rasseverherrlichung fällt, da diese bei Schoeps wie allgemein unter Rasse eben gerade „Blut“ und Biologie versteht. Der immer wieder vorgebracht Vorwurf, Evola hätte eine nationalsozialistische Rassetheorie vertreten ist daher völlig falsch. Eher schon läßt sich fragen, warum das „Mehr-als-Leben“ gerade mit dem aus der Biologie stammenden Wort Rasse belegt werden soll, was tatsächlich nicht einsichig ist.
(20) Ebd., S. 106.
(21) Schoeps, Was ist der Mensch?, S. 327.
(22) Brief an Schalom Ben-Chorin, 18.3.1950, in: Auf der Suche, S.55.
(23) Schoeps, Bereit, S. 151.
(24) Carl Schmitt, Glossarium. Aufzeichnungen der Jahre 1947-1951; Berlin: Akademie 1991, S. 153.
(25) Armin Mohler (Hg.), Carl Schmitt – Briefwechsel mit einem seiner Schüler; Berlin: Akademie 1995, S. 101.
(26) Ebd., S. 109.
(27) Schoeps/Blüher, S. 50 f.
(28) Carl Schmitt, Gesetz und Urteil. Eine Untersuchung zum Problem der Rechtspraxis; München: Beck 1912; Neuauflage für März 2009 vorgesehen.
(29) Exkurs: Schoeps und der Islam

In seinem Buch „Gottheit und Menschheit. Die großen Religionsstifter und ihre Lehren“ (Stuttgart: Steingrüben 1950) nimmt Schoeps auch zum Islam Stellung, es hat aber den Anschein, dies geschähe mehr der Vollständigkeit halber als von Interesse oder Kompetenz her. Schoeps reiht einige der Platitüden der Orientalistik über den unoriginellen, allzumenschlichen usw. Propheten des Islam aneinander und charakterisiert den Islam als in seinem Prädestitationsdenken und seiner Schicksalsgläubigkeit „calvinistisch“, was genauso sinnvoll ist, wie das Christentum – unter Ausblendung all seiner anderen Strömungen – als calvinistisch zu bezeichnen. Tatsächlich schreibt Schoeps auch von der entgegengesetzten „pantheistischen“ Strömung, die Einseitigkeit durch eine zweite ergänzend. Denn in Wirklichkeit ist Ibn Arabi als wichtigster Vertreter des esoterischen Islam genausowenig pantheistisch wie Shankara, Meister Eckart oder Lao-Tse, deren grundsätzliche Identität mit seiner „Mystik“ oder vielmehr Gnosis aufgezeigt werden kann. Auch das beklagte „allzumenschliche“ also anscheinend unethische Verhalten des Propheten muß hinterfragt werden, denn es beruht auf einigen späten Hadithen. Träte uns Muhammad als fehlerlose Idealgestalt entgegen, wären die Orientalisten sofort bei der Stelle, um den geschichtlichen Wahrheitsgehalt dieser Stellen in Zweifel zu ziehen. Tatsächlich sind diese Berichte über Fehler und unmoralisches Verhalten aber Hadithen – vorwiegend aus der „Hadithfabrik“ von
Abu Huraira - zu entnehmen, die die Rechtfertigung des unislamischen Verhaltens der Umayyaden-Kalifen bezweckten, in deren Dienst die Hadithverfasser standen. Schiiten anerkennen keinen einzigen dieser Hadithe.
Von dieser Ausgangsbasis aus zweiter Hand – eben der westlichen Orientalistik – ist es dann schon bemerkenswert, daß Schoeps' eigenes Urteil durchaus die Größe des Islam erkennt: „Wäre Muhammed nur ein verschlagener Schlaukopf oder ein Sozialreformer oder ein religiöser Fanatiker gewesen, so hätte er niemals die Wirkung ausgeübt, die er hervorgebracht hat und die durch seinen Tod in keiner Weise aufgehalten wurde. So wirkt eben doch eine echte, original konzipierte Religionsidee. Muhammed war der große Reformer Arabiens; die Strenge und Nüchternheit, die den staatlich-politischen Sinn schärfen und ausbilden half, trägt bei ihm die Zeichen seiner Herkunft aus der Wüste. Auf seine religionsgeschichtliche Bedeutung hin geurteilt, ist der Islam der bisher letzte, ganz große Versuch zur Errichtung einer theokratischen Herrschaft in der Welt gewesen. Von der altrömischen Zeit abgesehen ist die Durchdringung des staatlichen öffentlichen und privaten Lebens mit der Religion, die Verbindung und der Zusammenschluß beider, niemals wieder ideell so eng gewesen wie in der Stiftung Muhammeds: dem Islam.“ (S. 125)
(30) Franco Giorgio Freda, La disintegrazione del sistema, Padova: Edizioni di Ar 2000 (EA: 1969); eigene Übersetzung, unveröffentlicht.

„Bereit für Deutschland!“

„Zionisten wie Nazis sind völkische Bewegungen, die von unten her den Staat aufbauen wollen. Wir denken grundsätzlich von oben her: Königtum und Obrigkeit von Gottes Gnaden.“
Brief an Schalom Ben-Chorin, 18.3.1950

„Hat man es mit Personen zu tun, die - Gott behüte - selbständige Denker sind und daher in keine der üblichen Schubfächer und Klassifizierungen hineinpassen, dann bezeichne man sie einfach als 'faschistisch' oder 'faschistoid', denn das macht bei minderbemittelten Leuten immer großen Eindruck. Gerade das Letztere ist ein wichtiger Punkt, der mit dem atemberaubenden Bildungsgrad der heutigen 'Journaille' zusammenhängt. Es ist ihr in der Regel gar nicht möglich: 'nationalistisch', 'reaktionär', 'konservativ', 'preußisch' zu unterscheiden, weil sie nicht weiß, daß jede dieser Bezeichnungen höchst verschiedenartige Phänomene und Sachverhalte deckt. Beispielsweise bedeutet konservativ das Gegenteil von reaktionär und preußisch das Bekenntnis zum Antinationalismus.“
Ja - Nein - und trotzdem

jeudi, 18 décembre 2008

Nationalisme, concert européen impérial, nouvelle droite et renouveau catholique

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1994

Nationalisme, concert européen impérial , nouvelle droite et renouveau catholique

Entretien avec Robeert STEUCKERS - Propos recueillis par Xavier Cheneseau

Animateur des revues «Vouloir» et «Orientations» (qui ont pris peu à peu la place d'«Eléments» dans le public de la «Nouvelle Droite», pouvez-vous nous dire comment vous percevez le retour des nationalismes en Europe?

Le terme «nationalisme» recouvre une quantité d’aspirations politiques, parfois divergentes. Alors, je commencerai par mettre les choses au point: pour moi, le «nationalisme», en tant qu’idéologie et pratique politiques, dérive tout naturellement du mot «nation»; au sens étymologique, c’est-à-dire au sens premier, le mot «nation» contient la même racine que «naître» (du latin «nascere»/«nasci», «natus»). La nation est donc la grande famille dans laquelle je nais, et aussi le sol où cette grande famille s’est épanouie. La nation est donc le peuple et le pays au sens charnel du terme. Toute autre définition de la nation est pour moi abusive, tronquée ou extrapolée. Donc fausse. Comme l’Europe est faite de multiples nations, voisines les unes des autres, le philosophe, l’historien ou le militant qui pensent en termes de nationalité déploient automatiquement une pensée qui accepte la variété, la diversité, la multiplicité, la pluralité et s’en réjouissent. Il veut un monde fait d’une infinité de coloris et non un monde de grisaille, comme nous en connaissons dans les banlieues de nos grandes villes. Cette définition de la nation postule que je dois admettre que l’autre veuille gérer son destin local à sa manière. Mais cette multiplicité est difficile à gérer à l’échelle de notre continent, surtout à l’heure où de vieux peuples réclament une structure étatique propre et une voix dans le concert européen. De cette revendication peut jaillir un nouveau désordre, si toutes ces entités politiques, les vieilles comme les nouvelles, se ferment sur elles-mêmes et se refont la guerre au nom de querelles anciennes. Mais si l’on se place directement au niveau européen, au niveau de notre civilisation, et que nous acceptons que cette civilisation s’exprime par une grande variété de modes et de façons, on s’efforcera automatiquement d’élaborer un droit des gens capable de gérer cette diversité sans heurts. Et ce droit des gens s’inspirera des techniques impériales (propres au Saint-Empire médiéval), des modalités fédéralistes de gestion de l’Etat (Suisse, RFA) et acceptera les clauses de la CSCE quant à la protection des minorités linguistiques. En effet, le retour des nationalismes n’est pas tant un retour à l’Etat fermé qu’une volonté de se débarrasser des centralismes trop contraignants et des modes de gestion propres au communisme marxiste-léniniste et au technocratisme libéral occidental. Aujourd’hui, grâce aux nouvelles technologies de communication, le centralisme rigide d’autrefois n’est plus de mise. L’homme du 21ième siècle devra faire face à cette triple nécessité: nécessité géopolitique de concevoir l’unité de l’Europe, nécessité éthique de respecter les diversités productrices de richesses et nécessité pratique de mettre les appareils politiques au diapason des nouvelles techniques de communications.

 

Ces nationalismes peuvent-ils déboucher sur l'émergence d'un Empire européen?

 

Il me semble qu’il est encore trop tôt pour parler d’«Empire européen». D’abord parce que la logique impériale, qui est fédérale, et fonctionne selon le principe de subsidiarité, n’est pas également répartie en Europe. Il subsiste des zones rétives à cette logique de pacification intérieure du continent. Je crois qu’il faut d’abord travailler au sein d’une structure qui existe et qui est la CSCE (qui regroupe tous les pays européens, Russie comprise, plus les Etats-Unis et le Canada). L’idéal, ce serait que la CSCE évolue vers un concert civilisationnel européen et euro-centré, que les Etats-Unis et le Canada s’en retirent pour concentrer leurs efforts sur l’ALENA (Association de Libre-Echange Nord-Américaine). Les Etats d’Amérique du Nord (USA, Canada et Mexique) auront une longueur d’avance: tous trois sont effectivement gérés par un système fédéral. Ce qui facilite les choses. La CEE, c’est-à-dire l’Europe de Maastricht est insuffisante. La fermer sur elle-même est une erreur géopolitique et une injustice sociale à l’égard des pays de l’Est. De plus, sur le plan stratégique et militaire, cette CEE n’est pas viable. La seule entité géostratégiquement viable à très long terme, c’est l’union stratégique des pays européens et asiatiques de la CSCE, reposant sur une interprétation du droit des gens qui accepte les différences culturelles, les gère et les cultive. L’erreur de la CEE a été de vouloir uniformiser l’économie avant d’arriver à un accord inter-européen sur les principes de droit (droit des gens et droit constitutionnel). Le travail de la CEE a été de déconstruire les barrières douanières en tous domaines. Il est évident que c’était peut-être nécessaire dans certaines grosses industries (le charbon et l’acier, d’où la CECA) mais nullement en agriculture. Résultat, nous avons partout en Europe des zones périphériques déshéritées, incapables de sortir de la mélasse puiqu’elles ne peuvent plus recourir à la technique des barrières douanières pour protéger l’emploi chez elles. De surcroît, globalement, l’Europe n’est pas indépendante sur le plan alimentaire, ce qui la met à la merci des puissances exportatrices de céréales (les Etats-Unis). La CSCE est intéressante parce qu’elle repose prioritairement sur le droit et non sur l’économie. Et ce droit règle notamment des problèmes de minorités, qui sont des entités collectives porteuses de culture. Si un «Empire européen» doit advenir —mais je préfère parler d’un concert européen intégré— il reposera sur la généralisation d’un droit constitutionnel de type fédéral, sur la défense de toutes les minorités linguistiques et culturelles et sur l’effort concret de parvenir à l’indépendance alimentaire.

 

Longtemps la «Nouvelle Droite» s'est présentée comme païenne, comment voyez-vous le renouveau du catholicisme en Europe et dans le monde?

 

Je tiens beaucoup à préciser que le paganisme, pour moi, dès le départ, n’a jamais été la volonté de forger un comportement religieux nouveau, mais essentiellement une défense des humanités gréco-latines et l’étude des racines culturelles de tous les autres grands goupes ethniques européens. Ces «humanités» nous dévoilaient une conception du droit et de l’Etat (des «res publicae», des choses publiques: notons le pluriel!) qui pourrait parfaitement nous inspirer encore aujourd’hui. Je rappelle aux zélotes d’une religion caricaturale et sulpicienne que les notions de droit, propres aux Romains, aux Grecs et aux Germains, sont plus anciennes que la religion chrétienne et que ce sont eux qui forment véritablement l’armature de la civilisation européenne. Bien sûr, j’ai toujours reproché aux cercles de la Nouvelle Droite de ne jamais avoir exploré cette veine-là et d’avoir voulu rétablir un culte païen, en ne tenant pas compte du fait que l’Europe pré-chrétienne était animée par une religion de la Cité, c’est-à-dire une religion éminemment politique et non prioritairement esthétique, morale ou éthique. En voulant théoriser une «éthique païenne» ou recréer ex nihilo une «esthétique païenne», avant de rétablir le droit romain ou germanique dans sa plénitude et dans son sens initial, les vedettes les plus bruyantes de la «Nouvelle Droite» ont fait du christianisme inversé, ont tout simplement joué, comme des adolescents irrévérencieux, à renverser les tabous de leur éducation catholique. C’était stupide et peu constructif. Quant au renouveau catholique, je suis sceptique. Evidemment, plusieurs revues italiennes, plus ou moins proche du Vatican (Il Sabato, 30 Giorni), publient des textes de grande valeur, qui renouent avec les grands principes généraux de la politique romaine et abandonnent les chimères de Vatican II ou de mai 68. Par ailleurs, la dépravation morale contemporaine, due aux excès de matérialisme socialiste ou capitaliste, rend attirantes la religion en général et l’idée de communauté fraternelle en particulier. Mais, je ne suis pas prêt à parier pour un catholicisme qui voudrait réduire à néant les acquis du protestantisme ou le caractère sublime de l’orthodoxie gréco-byzantine et russe ou reprendre une croisade contre l’Islam ou dénaturer le vieux fond gréco-celto-romano-germano-slave. Chez les catholiques, il faut retenir, à mon sens, mais en laïcisant ces intuitions et en les ramenant à leur matrice juridique romaine:

1) L’idée d’un œkumène européen, animé par une nouvelle synthèse spirituelle (ce qu’avait voulu réaliser le Tsar Alexandre Ier après la parenthèse napoléonienne).

2) La notion de forme politique basée sur la famille (mais non plus la famille nucléaire actuelle ou évangélique, mais la “gens” au sens romain ou la “Sippe” au sens germanique). Carl Schmitt est le penseur qui a théorisé la notion de «forme politique catholique (au sens d’universel)». Il faut le relire.

2) Reprendre, en les laïcisant, les linéaments du catholicisme social, tant dans sa variante corporatiste que dans sa variante sociologique (Othmar Spann).

3) En France, s’inspirer des études de Stéphane Rials et de Chantal Millon-Delsol, pour y généraliser un droit inspiré par la subsidiarité.

Le renouveau catholique ne saurait être, pour mes camarades et moi-même, le triste guignol intégriste avec ses monstrations esthétiques et ses vaines recherches d’une vérité éthique; ce qui fait urgence, c'est bien le retour à une forme romaine du politique, valable pour toute l’Europe. Un véritable renouveau catholique devrait abandonner la fibre religieuse évangélique, renoncer à toute forme de bigoterie, sphères où désormais les pires simagrées psycho-pathologiques sont possibles, où ont sévi les pires vecteurs de l’anti-politisme, pour redevenir purement et pleinement religiosité politique. Il ne faut retenir du message catholique que ce qui a amélioré et perfectionné le vieux fond politico-juridique romain (au sens pré-impérial, républicain, du terme). Méditons en ce sens Caton l’Ancien.

 

 

mardi, 18 novembre 2008

De Rijksgedachte versus Jacobijns nationalisme

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De Rijksgedachte versus Jacobijns nationalisme

Deze tekst is niet bedoeld om de lezer te overladen met historische gegevens of namen en termen waar men niets mee kan aanvangen. Het is wel de bedoeling te wijzen op een aantal tekortkomingen die liggen in het streven naar een natiestaat voor elk volk. Die tekortkomingen worden in belangrijke mate geformuleerd door personen die de zogenaamde Rijksgedachte genegen zijn. Velen hebben jammergenoeg een broertje dood aan ideologische kwesties, nochtans een uiterst belangrijke zaak indien wij in debat treden met andersdenkenden. Op het eerste zicht lijkt dit onderwerp iets dat niet onmiddellijk bruikbaar is in dagdagelijkse discussies over politiek en maatschappij. De termen “Rijk” en “Rijksgedachte” komen bij velen oubollig of soms zelfs verdacht over. Ten onrechte.

Het Jacobijnse nationalisme is als kind van de Franse revolutie en het Verlichtingsdenken een ideologie die dan ook de meeste gebreken uit dit modernisme heeft overgenomen. Om te beginnen is het zo goed als onmogelijk en zelfs onwenselijk dat elk volk in de wereld z’n eigen staat(je) krijgt. We zouden dan naar een wereld met naar schatting 5000 staatjes evolueren waarvan vele zo goed als onleefbaar zouden zijn. Het is verkeerd te denken dat culturele, sociaal-economische, historische, geopolitieke,… grenzen steeds kunnen samenvallen. Een noodzakelijke voorwaarde is dat we vertrekken vanuit Europees perspectief. Een nationalist in Europa kan het zich zeker in de 21ste eeuw niet langer permitteren enkel met het eigen volk of z’n eigen staat(svorming) bezig te zijn.

De Rijksgedachte komt tegemoet aan een vraag die in Europa al eeuwen gesteld wordt: hoe kunnen we een evenwichtige, niet op dwang gebaseerde orde vestigen die volkeren en culturen van Europa volledig hun identiteitsbeleving waarborgt en hun verlangens en belangen op een stabiele, duurzame wijze federeert? Tegenover een Jacobijnse Europese superstaat en het “Europa van de nationale staten” ontwikkelde zich vooral bij regionalisten en volksnationalisten de visie van het “Europa der volkeren”. In feite zijn deze drie opvattingen nefast voor Europa en haar volkeren! Buiten het feit dat het “Europa der volkeren” vaak neerkomt op een verdediging van volksstaatjes die intern uniformiseren (een gelijkheid nastreven ten nadele van streekeigenschappen zoals dialecten), is het zo dat men bij aanhangers van het “Europa der volkeren” meestal een gebrek aan visie vaststelt over hoe het Europese geheel moet gebundeld worden en kan functioneren. Die bundeling kan in elk geval beter niet op economische grondslagen gefundeerd zijn zoals de huidige EU. Het primaat van het economische is een punt van overeenkomst in de socialistische en liberale ideologie. Europa heeft nood aan een politieke eenmaking, en die is van een hogere orde dan het economische marktgebeuren.

 Een “Europa van nationale staten” is in de praktijk een bestendiging van de macht van de nationale staten met hun soms tegenstrijdige belangen waardoor de Europese cultuurgemeenschap nooit een vuist kan maken tegen externe bedreigingen. Het is dan ook in belangrijke mate anti-Europees. Een unitaire Europese superstaat is onwenselijk omdat dit de culturele, historische, sociaal-economische,… verschillen tussen de Europese volkeren volledig negeert en hen fundamentele rechten op hun niveau ontneemt door een overdreven centralisering van de macht. Zowel het “Europa van de 100 vlaggen” enerzijds als het confederale Europa van de nationale staten of één unitaire Europese superstaat anderzijds, zijn in het nadeel van zowel de Europese volkeren, als van een sterk en stabiel Europa. De ideale oplossing ligt ergens tussenin, en kan onmogelijk een beroep doen op de staatsnationalistische erfgenamen van de Jacobijnen.   

Daarom is het van belang de Rijksgedachte als uitgangspunt te nemen voor een hedendaags, sterk Europa dat de diversiteit van z’n volkeren garandeert en deze volkeren op de juiste niveaus verenigt. “In dit Europees Rijk moet de eigenheid der volkeren –niet der staten en staatjes- weer tot uiting komen. In dit Rijk zal de “heimatkultuur” weer een voorname plaats moeten krijgen. (…) Het moet samengesteld worden uit levende, volkse, kultuurkringen waarin de volkse eigenheid weer tot volle bloei kan komen. Deze geest moet ook in de Nederlanden terug levend worden.” [1] Binnen een Europees imperium vindt geen uniformisering plaats, niet ieder volk bekomt hetzelfde (zoals in het “Europa der volkeren”) maar wel “elk het zijne”. Een Europees Rijk is niet op te vatten als een territorium maar wel als een orde en een Idee. Het is een open systeem waar volkeren vrijwillig in toetreden. Binnen dit Europees Rijk is het perfect mogelijk dat grenzen, culturen, talen en economische systemen veranderen. Europa is nooit “af” maar verkeert voortdurend in een wordingsproces. Om de betekenis van de Rijksgedachte ten volle te kennen zijn een aantal begrippen noodzakelijk:

1. De organische natie:

Een organische visie op wat een natie is, betekent het aanvaarden dat men als persoon niet buiten een aantal determinismen kan: niemand kan z’n ouders en geboorteplaats kiezen, niemand kan z’n moedertaal en basisopvoeding kiezen. Doordat geen enkele persoon als een geïsoleerd wezen geboren wordt, maakt iedereen vanaf de geboorte deel uit van een welbepaalde gemeenschap. Elke persoon vormt een “orgaan” van het grotere lichaam, de gemeenschap. Dit natiebegrip maakt zoiets als naturalisaties in feite onmogelijk. Tegenover dit organisch natiebegrip kan met het Jacobijnse anorganische natiebegrip plaatsen. Binnen deze visie kan een individu tot een natie gaan behoren als hij/zij voldoet aan een aantal voorwaarden die de staat oplegt en die door politici naar hartelust veranderd kunnen worden. Ook nationalistische partijen zoals N-VA en Vlaams Blok volgen –jammergenoeg- deze Jacobijnse visie: als een vreemdeling zich assimileert (onze taal leert en onze gebruiken, waarden, normen,… aanvaart) kan hij/zij deel uitmaken van de natie. In een organische visie daarentegen kan een neger of een Chinees dan ook geen Vlaming worden. Integenstelling tot het Jacobijnse nationalisme waar enkel de band tussen individu en natie(-staat) in rekenschap wordt genomen, wordt in een organische visie op “natie” ook aan tussenstructuren belang gehecht: regio’s, gemeenschappen, gemeenten en wijken. De samenleving wordt aanzien als opgebouwd uit concentrische cirkels rond een persoon.

In een organische opvatting is het dan ook evident dat de volkeren, regio’s en Rijksdelen samenwerken en elkaar aanvullen waar mogelijk. Ze zijn niet enkel een culturele, etnische familie. Doordat culturele, economische, geopolitieke,… grenzen niet kunnen samenvallen en er grensoverschrijdende realiteiten bestaan, is het noodzakelijk dat lokale gemeenschappen en structuren zelf samenwerkingsverbanden kunnen aangaan met elkaar, bijvoorbeeld via verdragen. Een goed voorbeeld daarvan is wat wij in ons land kennen als intercommunales (los van het financieel profitariaat dat er voor vele politici mee samengaat). Enkel wanneer het afsluiten van dergelijke samenwerkingsverbanden (tussen “de organen”) risico’s inhoudt voor het groter Rijksgeheel (“het lichaam”), moet een centrale leiding een dergelijke mogelijkheid tot ontwrichting onmogelijk maken.

2. Federalisme:

Federalisme kan hét “organisatiesysteem” bij uitstek zijn voor een Europees imperium. Dit federalisme dient per definitie organisch en asymmetrisch te zijn. Dit betekent dat de relaties tussen de deelstaten onderling en tussen hen en het Rijk niet allemaal gelijk zijn. Deze ongelijkheid impliceert geen discriminatie maar wel het ten volle respecteren en uitdragen van de culturele en historische eigenheden van een regio. Het statuut van deelstaten kan onderling erg verschillend zijn. Er is dus minder bestuurlijke eenvoud maar in het Rijksdenken krijgen cultureel-etnische factoren voorrang op bestuurstechnische. Het federalisme dat men vandaag in de meeste zichzelf federaal noemende staten terugvindt is vals. Dit geldt zeker voor de belgische staat, waar het federalisme enkel dient om deze staat langer in leven te houden. Het feit dat belgië geen asymmetrische regeringen verdraagt ( noemenswaardig verschillende coalities op federaal en deelstatelijk niveau) zegt voldoende.

3. Subsidiariteitsbeginsel:

Dit beginsel heeft z’n wortels in de katholieke maatschappijvisie en moet een antwoord geven op de vraag waar het best een beslissingsbevoegdheid ligt in een hiërarchie. Kern van het subsidiariteitsprincipe is dat het beleid en de beslissingen geen vorm mogen krijgen op een hoger niveau (verder van de bevolking verwijderd) dan strikt noodzakelijk. Er wordt vanuit gegaan dat de beslissingen genomen worden door hen die er direct belang bij hebben en er het meest de gevolgen van ondergaan. In tegenstelling tot het Jacobijnse denken over de natiestaat, wordt in het Rijksdenken geen enkel niveau als absoluut gesteld. Ieder bestuursorgaan heeft een aanvullende taak volgens een welbepaalde hiërarchie van basis naar top. Dat de huidige EU-bureaucratie zich ondermeer bezighoudt met pakweg het gewenste gewicht van een koekjesdoos, stemt tot nadenken over haar bevoegdheden en het verwaarlozen van het subsidiariteitsbeginsel.

De Rijksgedachte is in feite de verderzetting van de Romeinse imperiale traditie waar Julius Evola reeds op wees. Een Rijks-Europa mag onder geen beding zich afkeren van macht en het willen verwerven ervan. "Als Europa geen macht wil zijn zal het de macht van een buiten-Europese staat ondergaan – de macht van de USA” zo stelde Luc Pauwels het.[2] Er moet evenwel op gewezen worden dat het verdedigen van de vorming van een Europees imperium geenszins een pleidooi betekent voor Europees imperialisme, het is wel imperiaal. Dit betekent dat Europa intern stabiliteit en harmonie moet nastreven, maar extern niet aan machtsuitbreiding kan gaan doen in de zin van agressiepolitiek of veroveringsdrang.

Conclusie: De Rijksgedachte biedt een uitweg voor een sterk eengemaakt Europa zonder dat de culturele verscheidenheid binnen Europa verloren dreigt te gaan. Het biedt een antwoord op de kwestie van het Amerikaans cultuurimperialisme en het vasthouden aan belangen van Jacobijnse nationale staten die Europa niet verder willen zien gaan dan een intergouvernementele confederatie. De Rijksgedachte ligt in het verlengde van onze solidaristische en nationaal-konservatieve visie. Door toepassing van de verscheidene beginsels die de Rijksgedachte schragen, kunnen Jacobijnse nationale staten meer en meer uitgehold worden. Rijksdenken komt tegemoet aan etnisch nationalisme dat identiteitsbescherming vooropstelt. Het botst met burgerlijk nationalisme dat gebaseerd is op waarden van 1789. Het is juist dat de Rijksgedachte op zich voorlopig weinig bruikbaar is in dagdagelijke politiek. De visie en begrippen die er de grondslag van vormen zijn echter zeer zeker bruikbaar.

Fritz

Bronnen:

De Herte R., Oui à l’Europe fédérale. In : Eléments, nr.96, nov. 1999, p.3
De Hoon F., Christoph Steding, de Rijksgedachte en de Nederlanden. In: TeKoS, nr. 47, 1987, pp.39-48
Pauwels, L., Maastricht: ja toch. Over de lange weg van de liberale E.E.G. naar de Europese Rijksgedachte. In: TeKoS,
Steuckers, R., Définir la subsidiarité. In : Nouvelles des Synergies Européennes, nr.17, jan. 1996, pp.19-21
De Hoon F., Christoph Steding, de Rijksgedachte en de Nederlanden. In: TeKoS, nr. 47, 1987, p.44
Pauwels, L., Maastricht: ja toch. Over de lange weg van de liberale E.E.G. naar de Europese Rijksgedachte. In: TeKoS

mardi, 04 novembre 2008

J.C. Albert-Weil: Veillons au salut de l'Empire!

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Veillons au salut de l'Empire!

 

«Le grand Empire, l'Empire central, l'Imperium, par opposition à l'Occident»

(Jean-Claude Albert-Weil, Sont les Oiseaux, 1996)

 

Fiction: en juillet 1940, Hitler parvient à forcer la main au général Franco qui laisse passer les troupes allemandes sur son territoire. Gibraltar tombe et les panzers, après avoir traversé le Maroc et l'Algérie, foncent sur Le Caire. 300.000 prisonniers français sont libérés et commis aux moissons. La popularité du vieux maréchal est au zénith. Un débarquement allemand a lieu en Irlande du Sud. Malte tombe aux mains des paras de la Luftwaffe de Goering. Churchill est mis en minorité et remplacé par Lord Halifax, qui fait la paix, en échange des puits de pétrole du Moyen Orient, qui restent sous contrôle britannique. Pourquoi faire la guerre dans ces conditions? Le succès de l'opération Barbarossa est quasi complet et, rapidement, les troupes de l'Axe font jonction dans le Caucase. Par un coup d'audace inouï (Skorzeny?), Vladivostok tombe. C'est la panique au Japon, qui se rapproche des Américains. Dans l'Empire, c'est le délire: d'ailleurs, à Berlin, on joue Sartre à guichets fermés! Dans cette atmosphère de triomphalisme, l'épuration ethnique dont sont victimes les Juiffss prend heureusement fin et l'Empire favorisera même, pour gêner les Anglais, la naissance d'un Etat hébreu, armé par l'Allemagne. A Berlin, l'aile modérée menée par Bibbentrop, le cher Otto Tabetz, ou Krommel élimine les “natzis” forcenés. Une fausse explosion nucléaire, vers 1943, calme les Américains, qui se contentent d'armer la résistance soviétique (Staline combat toujours en Yakoutie). Une vraie bombe, que le Führer obtient grâce à ses réseaux d'espions (juiffss?) aux Etats-Unis, assure définitivement la neutralité américaine. Hitler meurt le 30 décembre 1946, à la veille du réveillon. Speer, l'amiral Panaris et surtout Gersdorff entreprennent une première “dénatzification” et, de 59 à 78, Stendel, le Führer suivant, proscrit le racisme et le remplace par le différentialisme critériologique: les Juiffss sont incités à collaborer ou à émigrer en Israël, où ils forment une tête de pont de l'Empire.

 

L'existencisme: doctrine impériale

 

Mais le grand Führer, c'est Gessler (1978-1993): avec lui, l'Empire décolle. La Panfoulia, grande autostrade de Duinkerke à Vladivostok draine des millions de Volkswagen et l'élite du Parti se détend à l'hôtel Heidegger, un gigantesque paquebot planté sur le Mont Blanc. L'aide sociale est généralisée, mais jamais en argent: distributeurs de nourriture, soins médicaux, vêtements, tout est gratuit, et de qualité (pas d'engrais chimiques, d'élevage aux hormones, d'où un taux de cancer ridiculement bas dans l'Empire). Les sciences atteignent un niveau inouï: manipulations génétiques, chirurgie esthétique, drogues diverses... et la fameuse base secrète de Tsarskoïe Sélo!

 

La doctrine impériale est appelée “existencisme”, elle garantit le droit aux plaisirs sexuels les plus raffinés pour tous les citoyens. La publicité est interdite, l'intrusion télévisuelle limitée (TV interdite les samedis et dimanches de la Norvège à la frontière coréenne, interdiction de toute permanence médiale: après un an, les journalistes cèdent leur place et changent de service; pas de femme de minlstre qui bave à l'écran!), le sport spectacle est banni (un joueur de l'équipe de Milan est vraiment né dans cette ville... de parents milanais), l'endettement exagéré est illégal. Des lois favorisent les PME et forcent les gens à faire réparer tout appareil un certain nombre de fois, d'où l'existence de castes de réparateurs prospères et heureux. Toutes ces lois saines et de bon sens déclenchent la fureur de la presse “ploutocrato-ergono-aliénée-croyancialo-marxo-cosmopolito-médiacrato-religio-éthico pseudo-égalitaire-hyperdémographico-universo-droit de l'hommesque-planèto-destructive”.

 

L'Empire est résolument non humaniste et rejette sagement les droits de l'homme, qui ne sont jamais que “les droits du client”: “droit de chier des litanies de progénitures débilo-crédulo-proliférantes, pulluliques, malsaines, ivres de tuer leur prochain ou de leur passer la Grande Maladie”. Car la Maladie, venue de l'Ouest est interdite dans l'Empire: un corps d'élite veille et nettoie, liquidant impitoyablement malades infiltrés par les démothalassocrates, agents d'influence de la pourriture utilitairo-protestante et militants nationalistes (des Gagaouzes aux Vourdalaks). Pas question d'affaiblir l'Empire! Les chrétiens, et les croyeux  de tous poils, sont l'objet d'une attention toute spéciale: les chefs n'ont pas oublié leur rôle de pourrisseurs de l'Empire romain. On ne les laissera pas recommencer! Et des villes entières reparlent latin, la langue des origines. On y sacrifie à Jupiter... Gessler le Grand a compris qu'il n'y avait que deux manières de gérer l'humanité: les couilles pleines, à l'anglo-saxonne (frustration/culpabilisation-ambition-production), ou les couilles vides, à l'européenne (satisfaction-réalisation-assomption). Dans l'Empire, il est difficile de les garder pleines longtemps: des esclaves de Hollande ou du Kouban, expertes et motivées, sont fidèles au poste.

 

Ainsi parla Gessler...

 

Une monnaie unique, le franmark européen, est garantie par d'immenses réserves d'or, au contraire de l'immonde dollar usaïque, fabriqué à partir de rien, manipulé au dépens de populations ignorantes, abruties par un plouto-démocratisme hypermédiatisé. Les différences sont exaltées: pulpeuses Kalmouks et beaux Italiens peuvent bien se payer des orgasmes cosmiques, mais, attention, pas de métis! L'immigration est bien entendu interdite: «Autrefois, un peuple qui rentrait dans un autre, c'était clair, c'était une invasion... Peut-on aujourd'hui laisser librement les peuples qui n'ont aucune discipline nataliste et qui se multiplient à l'infini se répandre chez nous avec leurs drogues et maladies, chez nous qui réglementons nos naissances? La partie n'est pas égale! C'est s'abandonner à la catastrophe, à la barbarie, à l'effacement radical... Suicidons-nous collectivement tout de suite pour laisser la place aux autres, et qu'on n'en parle plus...». Ainsi parla Gessler, quatrième Führer de l'Empire. Dans ce monde braziloïde, un cauchemar pour les cosmopoliens et le rêve pour tous les autres, on suit l'ascension de Carl, membre de la DPSE (l'ordre beige), mais fréquentant, de Degrellstadt à Paris (Boulevard Céline) la fine fleur de l'aristocratie impériale: Lily Jünger, cette chère Pamela Horthy, l'exquis Vlady Vlassov, Anne-Ingrid de Munsbach-Lothringen et, bien sûr, le Protonotaire Parvulesco.

 

Patrick CANAVAN.

 

J. C. ALBERT-WEIL, Sont les oiseaux, Ed. du Rocher, 1996, 149 FF.

lundi, 06 octobre 2008

Europe: terre d'empires?

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Europe: terre d'empires?

 

Dans le numéro 14 de notre bulletin, je lisais avec satisfaction une étude, assez longue, de notre ami Lucien Favre, intitulée «Géopolitique, Politique étrangère, sécurité et défense en Eurasie». L'auteur a là une démarche tout-à-fait “synergétiste”: il guide notre réflexion sur les points essentiels de la future puis­sance que nous souhaiterions devenir. Mais l'audace de sa démonstration se fonde, on l'aura senti en la lisant, sur l'usage affirmé du terme “Eurasie”. Mis à part quelques spécialistes de l'histoire diplomatique, quelques officiers des services spéciaux, quelques slavistes qui connaissent le vieux rêve “eurasiste” de certains philosophes, écrivains et publicistes russes, personne, en Occident, ni dans les médias qui ne racontent plus rien d'essentiel, ni a fortiori dans le vaste public, n'est capable de définir correctement cette notion. Ce flou recèle bien des dangers. Ce qui nous oblige à prendre des précautions. Afin qu'il ne soit pas utilisé n'importe comment, ressassé comme une incantation ou une formule magique, comme le prisent les sectaires et les angoissés qui cherchent à tout prix des prétextes pour se rendre intéressants et pour attirer sur eux l'attention de quelques pâles journalistes manipulés et foireux, en mal de copies et désireux de découvrir un nouveau “Grand Satan”.

 

En effet, le mouvement SYNERGIES EUROPÉENNES n'a nullement l'intention de fabriquer un ersatz de romantisme, de manier un leitmotiv pour choquer le public et le prendre à rebrousse-poil. Un séminaire de SYNERGIES décidera cet hiver de l'usage que nous ferons du terme “Eurasie” dans nos discours à con­notations géopolitiques.

 

D'ores et déjà, nous orienterons nos réflexions sur les faisceaux de faits suivants:

 

* Le terme Eurasie est une notion géographique désignant les terres sibériennes, nord-asiatiques et centre-asiatiques où la Russie a exercé sa souveraineté, qui ont été peuplées de Russes. Et où la Russie est sciemment revenue, par la force des armes et par l'audace de ses cosaques, sur des territoires qui avaient été indo-européanisés à un moment ou un autre de l'histoire (Scythes, Parthes, Sakhes, Pré-Indiens, Tokhariens, etc.). La Russie a été la puissance mo­derne qui a sécurisée ces terres, afin qu'elles ne servent plus de tremplin aux invasions turco-mongoles. Personne en Europe n'a d'ailleurs intérêt à ce que cet espace redevienne la zone de rassemblement d'adversaires de notre famille de peuples.

 

* Il existe une institution internationale, garante de l'application des “droits de l'Homme”, qui couvre tout le territoire de l'Eurasie, c'est-à-dire de l'Europe et de l'ancienne URSS: c'est l'OSCE. Il convient de ren­for­cer prioritairement cette institution. François Mitterrand et Jacques Attali avaient naguère appelé de leurs vœux un espace de paix dans cette très vaste région du monde. Attali parlait plus exactement de «Marché Commun Continental» (MCC). Même si leurs visions n'ont pas été suivies d'effets, à cause d'événements comme ceux de Tchétchénie ou du Tadjikistan, il convient de revenir sur leurs discours, de les dépouiller des niaiseries idéologiques qu'ils ont été obligé de prononcer, political correctness oblige et parce qu'ils n'ont pas eu le courage de briser la dictature des médias, de dénoncer leur travail de manipu­lation au profit de la seule superpuissance subsistante. Tout cela pour dire que les spéculations sur l'Eurasie ne sont pas le seul fait de groupuscules “extrémistes”, comme aiment à le faire accroire les con­servateurs atlantistes et les petits journalistes médiocres qui leur servent de relais. L'«Eurasisme» préoccupe les chanceleries. Tout autant que nous.

 

* Récemment, les Presses universitaires d'Oxford en Angleterre ont sorti ou ressorti les ouvrages de l'historien britannique Peter Hopkirk sur le travail incessant des services secrets de tous les pays pour contrôler les masses continentales centre-asiatiques. Russes, Allemands, Japonais, Turcs et Britanniques ont, au moment de la révolution bolchevique, tenté de se rendre maîtres de l'espace turco­phone et des espaces immédiatement adjacents. Les prodigieuses aventures de Ungern-Sternberg, d'Enver Pacha, de Wilhelm Wassmuss, de von Niedermayer, de MacDonnell, etc. hantent toujours les imaginations, depuis John Buchan (Greenmantle)  jusqu'au livre de Jean Mabire sur Ungern-Sternberg. Les puissances ont toujours voulu se rendre maîtresses de la “Route de la Soie”: lors de l'effondrement de l'Empire tsariste, elles ont joué ce que Hopkirk nomme le “Grand Jeu”, afin de s'emparer de cette zone stratégique de première importance. Avec l'effondrement de l'URSS, le “Grand Jeu” peut à nouveau se jouer et bien fol serait celui qui refuserait d'en prendre acte et de tenter d'y avancer ses pions. Inutile de vous dire que les livres de Hopkirk retiendront toute notre attention.

 

* Enfin, comme cette “Route de la Soie” traverse un territoire musulman, les puissances qui tentent de la contrôler, jouent forcément une “carte musulmane”, développent un “discours islamophile”. Dans un tel contexte, une islamologie, fondée sur un sens aigu de la Realpolitik et des impératifs géopolitiques, est indispensable. Et doit impérativement se démarquer de cette islamophilie marginale, maniée par des ser­vices spéciaux tentant de compléter leurs fiches, de repérer les fanatiques niais capables de commettre n'importe quelles bavures et de recruter, si besoin s'en faut, des poseurs de plastic, afin de démontrer aux yeux des masses, qui ignorent tout du “Grand Jeu”, que le Diable est parmi eux. SYNERGIES EUROPÉENNES sera donc très attentive au dis­cours du ministre allemand des affaires étrangères, Klaus Kinkel (cf. Der Spiegel, 45/1995), qui entend développer un “dialogue critique” avec l'Iran et les autres puissances islamiques. Cette notion de “dialogue critique” s'ancre bien dans la logique de l'OSCE et vise à jouer le “Grand Jeu” en gardant la tête froide, en refusant certains a priori idéologiques, en respectant les convictions religieuses des peuples concernés, en apaisant les passions vectrices de chaos. Toute politique de discussion avec l'une ou l'autre puissance musulmane, dont l'Iran, doit s'inscrire dans un cadre aussi rigoureusement dé­fini que celui que nous propose Kinkel, tenir compte de cette institution qu'est l'OSCE. Les politiques de boycott absolu sont des gamineries politiques et géopolitiques, au même titre que tous les discours issus de l'éthique de la conviction, contraire diamétral de l'éthique de la res­ponsabilité. Et tant pis pour les puissances européennes qui n'ont pas la maturité de pratiquer un “dialogue critique”. Elle rateront le train de l'histoire. Et imploseront lamentablement en croyant détenir une vérité, “rationnelle” et “politiquement correcte”.

 

Dans le cadre de SYNERGIES, deux questions se posent: l'Eurasie est-elle une terre européenne et asiatique, est-elle plus vraisemblablement une terre d'Europe incluant la partie asiatique de la Russie, au­quel cas il faudrait parler d'Empire Eurasien? On sent très bien que deux écoles coexistent dans le réseau SYNERGIES: Pour l'une, il n'est pas de bloc européen qui n'incluerait à la fois son Occident et son Orient, de Reykjavik à Vladivostok. L'autre estime que les différences, à tous niveaux, sont telles entre l'Orient et l'Occident de ce vaste espace, qu'elles excluent un avenir maîtrisé conjointement et préfère envisager un continent “bicéphale”, régi par deux blocs impériaux, l'un européen, l'autre russe/eurasiatique, liés en­semble par d'étroits accords culturels, défensifs et économiques.

 

Quoi qu'il en soit, pour tous les “synergétistes”, une chose est certaine: notre avenir réside dans la cons­titution et la consolidation d'un bloc aux dimensions impériales, mais organisé par des structures fédé­rales, maintenant les identités comme ciment cohésif des sociétés, et vivifié par une paedia insufflant des valeurs fortes, garantes de l'indépendance et de la puissance du bloc politique. Ces propositions sont toutes réalisables dans une OSCE, débarrassée des discours larmoyants et obsolètes de l'idéologie soft. Car toujours nous maintiendrons les deux dimensions de notre programme: IMPÉRIUM et SUBSIDIARITÉ.

 

Gilbert SINCYR.

mercredi, 10 septembre 2008

Sur Rudolf Pannwitz

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Robert STEUCKERS:

 

Rudolf Pannwitz: «mort de la terre»,

Imperium Europæum et conservation créatrice

 

L'idéalisme du philosophe et poète allemand Rudolf Pannwitz constitue pour l'essentiel une rupture avec les idéaux positivistes de la «Belle Epoque»: il rejette l'Etat, le mercantilisme, la révolution, l'argent, le capitalisme et le lucre. Pourquoi? Parce que le concours de toutes ces forces négatives conduit à la “mort de la Terre”. Devant ce pandemonium, l'homme du XXième siècle, écrit Pannwitz, doit poser l'“acte salvateur”, qui consiste à ne plus penser à son seul profit, à prendre conscience du danger que court son âme, à  se rendre compte que l'histoire, en tant que jeu funeste, est toute relative, à vouer un culte mystique au Tout, au Cosmos.

 

Comment ce faisceau d'idéaux essentiellement poétiques a-t-il pu générer une idée d'Europe, surtout s'il rejette explicitement l'histoire? Et sur quels principes repose donc cette idée an-historique d'Europe? Elle repose sur une mystique et une pratique “telluriques”, où la Terre est le réceptacle du sacré, voire le Tabernacle du sacré. Ensuite, sur une critique de l'argent qui, par sa nature intrinsèquement vagabonde, arrache hommes et choses à la Terre, à leur lieu, m'arrache en tant que personne à mon lieu, au lieu où des forces qui me dépassent m'ont placé pour y jouer un rôle, y accomplir une mission.

 

Cette critique de l'argent vagabond s'accompagne d'un plaidoyer pour l'autarcie à tous les niveaux: domestique, communal, régional, impérial. Cette mystique tellurique et ce rejet radical du pan-vagabondage que généralise l'argent conduit à une vision pacifique de la politique et de l'Europe, qui est tout à la fois anti-nationaliste et napoléonienne, parce que l'aventure militaire napoléonienne a, par une sorte de ruse de l'histoire, éliminé de vieux antagonismes inter-européens, donc créer les conditions d'un imperium pacifique en Europe. Aux nationalismes qu'il juge bellogènes, Pannwitz oppose une vision continentale européenne pacifique et mystico-tellurique, opposée aux pratiques anglaises du libre-échangisme et du “divide ut impera” et au nationalisme allemand, auquel il reproche d'être né au moment où la Prusse se met au service de l'Angleterre pour combattre le projet continental napoléonien. Pannwitz, pourtant très allemand dans son tellurisme, reproche à la pensée allemande en général, de facture kantienne ou hégélienne, d'absoluiser les concepts, tout comme la Prusse a hissé au rang d'absolus les démarches de ses fonctionnaires et de ses administrateurs.

 

Selon Pannwitz, la renaissance culturelle de l'Europe passe nécessairement par une revalorisation des plus beaux legs du passé: l'Imperium Europæum sera cette Europe tournée vers la Beauté; il adviendra, pense Pannwitz, après la Grande Guerre civile européenne de 1914-18, où s'est perpétré le plus grand forfait de l'histoire des hommes: «le viol du corps sacré de la Terre».

 

L'Imperium Europæum ne pourra pas être un empire monolithique où habiterait l'union monstrueuse du vagabondage de l'argent (héritage anglais) et de la rigidité conceptuelle (héritage prussien). Cet Imperium Europæum sera pluri-perspectiviste: c'est là une voie que Pannwitz sait difficile, mais que l'Europe pourra suivre parce qu'elle est chargée d'histoire, parce qu'elle a accumulé un patrimoine culturel inégalé et incomparable. Cet Imperium Europæum sera écologique car il sera «le lieu d'accomplissement parfait du culte de la Terre, le champ où s'épanouit le pouvoir créateur de l'Homme et où se totalisent les plus hautes réalisations, dans la mesure et l'équilibre, au service de l'Homme. Cette Europe-là n'est pas essentiellement une puissance temporelle; elle est, la “balance de l'Olympe”».

 

La notion-clef de l'œuvre de Pannwitz est celle de “Terre” (Die Erde). Si la “Terre” est signe d'anti-transcendance chez Nietzsche, d'idylle dans la nature virginale, elle est aussi —et sur ce point Pannwitz insiste très fort—  géopolitique substantielle. Quand on décrypte la vision critique de Pannwitz sur l'histoire européenne de son temps, on constate qu'il admet: 1) que l'Allemagne se soit dotée d'une flotte, sous la double action de l'Amiral Tirpitz et de l'Empereur Guillaume II, car cette flotte était destinée à protéger l'Europe du “mobilisme” économique et monétaire anglais (et américain) et n'était pas a priori un instrument de domination; 2) l'Europe est une “Terre de culture” qui en aucun cas ne peut être dominée par la Mer (ou par une puissance qui tire sa force d'une domination de l'espace maritime) ou par ses anciennes colonies qui procéderaient ainsi à une Gegenkolonisation. On comprend tout de suite que les Etats-Unis sont directement visés quand Pannwitz dénonce cette “contre-colonisation”; 3) les thalassocraties sont un danger sinon le  danger car a) elles développent des pratiques politiques et économiques qui vident le sol de ses substances; b) elles imposent une fluidité qui dissoud les valeurs; c) elles sont des puissances du “non-être”, qui justement dissolvent l'Etre dans des relations et des relativités (remarques qui ont profondément influencé le Carl Schmitt de l'après-guerre qui écrivait dans son journal  —édité sous le titre de Glossarium—  que tout nos livres deviennent désormais des Logbücher, car le monde n'est plus terre mais océan, sans point d'ancrage possible, où tout quiconque arrête de se mouvoir coule); d) sous la domination des thalassocraties, tout devient “fonction” et même “fonctions de fonctionnement”; dans un tel contexte, les hommes sont constamment invités à fuir hors des concrétudes tangibles de la Terre.

 

Chez Pannwitz, comme chez le Schmitt d'après-guerre, la Terre est substance, gravité, intensité et cristallisation. L'Eau (et la mer) sont mobilités dissolvantes. “Continent”, dans cette géopolitique substantielle, signifie “substance” et l'Europe espérée par Pannwitz est la forme politique du culte de la Terre, elle est la dépositaire des cultures, issues de la glèbe, comme par définition et par force des choses toute culture est issue d'une glèbe.

 

L'état de l'Europe, à la suite de deux guerres mondiales ayant sanctionné la victoire de la Mer et de la mobilité incessante, postule une thérapie. Qui, bien entendu, est simultanément une démarche politique. Cette thérapie suggérée par Pannwitz demande: 1) de rétablir à tous niveaux le primat de la culture sur l'économie; 2) de promouvoir l'édification intérieure des hommes concrets (par une démarche qui s'appelle l'Einkehr, le retour à soi, à sa propre intériorité); 3) de lancer un appel à la “Guerre Sainte des Vivants” pour empêcher l'avènement de “Postumus”, figure emblématique de celui qui fuit l'histoire (réhabilitée par Pannwitz après 1945), qui capitule devant l'Autre (l'Américain), qui se résigne; 4) de donner enfin une forme à l'Homme qui, sans forme, se perd dans l'expansion conquérante et dans l'hyper-cinétisme de cette mobilité introduite puis imposée par les thalassocraties; sans forme, rappelle Pannwitz, l'homme se perd aussi dans les dédales d'une vie intérieure devenue incohérente (en ce sens notre poète-philosophe annonçait l'avènement d'un certain “New Age”).

 

Humanité et nationalisme

 

Pannwitz ne place aucun espoir dans l'«Humanité», c'est-à-dire dans une humanité qui serait homogénéisée à la suite d'un long processus d'unification mêlant coercition et eudémonisme. Il ne place pas davantage d'espoir dans un nationalisme qui signifierait repli sur soi, enfermement et répétition du même pour les mêmes. Le seul “nationalisme” qui trouve quelque grâce à ses yeux est celui de De Gaulle. Pour guérir l'Europe (et le monde) de ses maux, il faut créer des espaces de civilisation impériaux; la version européenne de cet espace de civilisation est l'«Imperium Europæum». Pour y parvenir, les élites vivant sur cet espace doivent pratiquer l'Einkehr, c'est-à-dire procéder à une «conservation créatrice»; de quoi s'agit-il? D'un plongeon dans le soi le plus profond, d'un retour aux racines. Les nations, les ethnies doivent aller au tréfond d'elles-mêmes. Car elles vont y découvrir des formes particulières, incomparables, intransmissibles, du sacré. Elles cultiveront ce sacré, offriront les créations de cette culture du sacré à leurs voisins, recevront celles que ceux-ci auront ciselées; les uns et les autres accepteront ces facettes diverses d'un même sacré fondamental, opèreront des “greffes goethéennes” pour obtenir en bout de parcours une Oberkultur der Kulturen.

 

Pannwitz était hostile au national-socialisme, héritier de ces formes de nationalisme allemand qu'il n'aimait pas. Mais il est resté discret sous le IIIième Reich. Il reprochait surtout au national-socialisme de ne pas être clair, d'être un fourre-tout idéologico-politique destiné surtout à acquérir des voix et à se maintenir au pouvoir. En 1933, Pannwitz quitte l'Académie Prussienne comme Ernst Jünger. Il choisit l'exil dans une splendide île dalmate, où il restera pendant toute la seconde guerre mondiale, sans subir aucune pression, ni des autorités occupantes italiennes, ni du nouveau pouvoir croate ni de l'administration militaire allemande; en 1948, il s'installe en Suisse. Pendant cet exil adriatique, il n'a pas formulé de critique charpentée du national-socialisme car, écrivait-il à l'un de ses nombreux correspondants, ce serait “perdre son temps”. En fait, en dépit de l'extrême cohérence de sa dialectique terre-mer, Pannwitz a été totalement incohérent quand il a jugé la politique européenne depuis son île dalmate. Il accumulait les contradictions quand il parlait de l'Angleterre puis des Etats-Unis dont il espérait la victoire contre les armes allemandes: par exemple, en pleine crise tchécoslovaque, il écrit que les Tchèques doivent s'appuyer sur les Anglais, mais à partir de septembre 1939, il répète que les Français sont “fous” de faire la politique des Anglais. Pourquoi les Tchèques auraient-ils été raisonnables de faire ce que les Français auraient eu la “folie” de faire quelques mois plus tard?

 

Il n'empêche: la dialectique terre-mer, que l'on retrouve solidement étayée dans l'œuvre de Carl Schmitt, demeure une matière de réflexion importante pour tous les européistes. De même, la nécessité de recourir aux tréfonds de soi-même, de pratiquer l'Einkehr.

 

Robert STEUCKERS.

(extrait d'une conférence prononcée lors de la 3ième université d'été de la FACE, juillet 1995).

 

Bibliographie:

- Rudolf PANNWITZ, Die Krisis der europäischen Kultur, Verlag Hans Carl, Nürnberg, 1947.

- Alfred GUTH, Rudolf Pannwitz. Un Européen, penseur et poète allemand en quête de totalité (1881-1969), Klincksieck, Paris, 1973.