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jeudi, 23 avril 2009

E morto Giano Accame

È morto Giano Accame

http://www.ilmessagero.it/

Giano Accame (foto Ansa)
ROMA (16 aprile) - Giano Accame si è spento a Roma. La notizia della morte dello storico, giornalista e scrittore nato a Stoccarda il 30 luglio del 1928 è stata data dal figlio Nicolò. La camera ardente, allestita presso la casa-studio di Accame in Lungotevere dei Mellini 10 a Roma, verrà aperta questo pomeriggio a partire dalle 15.

I funerali si svolgeranno sabato prossimo alle 10.30 a Roma, nella chiesa di Santa Maria della Consolazione al Foro romano.

Accame, giornalista, studioso, direttore del Secolo d'Italia ìtra l'88 e il '91, è stato uno degli intellettuali di primo piano della destra italiana e avrebbe compiuto 81 anni il 30 luglio. Aveva un record unico tra i giovani di Salò: si arruolò la mattina del 25 aprile 1945: «la sera ero già in galera. Non ho mai fatto il miles gloriosus anche per questo. Avevo 16 anni», disse in una recente intervista.

Accame, nato a Stoccarda ma cresciuto a Loano, ha avuto un percorso molto particolare nella destra. Fu tra i relatori al convegno sulla Guerra rivoluzionaria, nel '65, che gettò le base teoriche della strategia della tensione, dirigente del Movimento sociale italiano fino al '68, tra i più stretti collaboratori di Randolfo Pacciardi, padre del presidenzialismo italiano, nell'esperienza effimera dell'Unione democratica per la Nuova Repubblica, anticipatrice del dibattito sulla repubblica presidenziale. E' stato poi redattore delle più importante riviste della destra - da Il Borghese, al Fiorino e L'Italia settimanale - collaboratore de Il Sabato, Lo Stato, Pagine Libere, Letteratura.

Durissima fu in principio la sua critica a Gianfranco Fini che parlava del fascismo come male assoluto ma Accame negli ultimi tempi leggeva gli avvenimenti politici e la confluenza con Forza Italia nel Pdl come un necessario fatto imposto dai tempi. Collocava dunque questa svolta nell'orizzonte del superamento delle ideologie, «oltre la destra, oltre la sinistra - disse ricordando lo slogan sempre caro alla destra sociale dell'Msi - il vero ambito in cui si muove questa fusione è quello della de-ideologizzazione, una scelta che è positiva ma che impone nuove analisi, nuovi modi di essere, nuove sfide. Lo globalizzazione non è stata quel fenomeno negativo che oggi si tende a raffigurare».

«Per me è veramente una scomparsa gravissima, per me è stato un maestro», ha detto il sindaco di Roma Gianni Alemanno. «Ho offerto alla famiglia di allestire la camera ardente in Campidoglio - ha detto Alemanno - loro però preferiscono tenerlo a casa». «È stato un intellettuale di grandissimo spessore - ha concluso - che ha attraversato tutta la storia del dopoguerra, con posizioni sempre molto ricche e significative. È stato uno dei grandi maestri della cultura di destra».

Chi era Giano Accame

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Chi era Giano Accame

L'intellettuale "eretico" di destra

Pensatore eretico della destra, fascista di sinistra, uno degli intellettuali storici della destra italiana, l'intellettuale che voleva unire destra e sinistra sull'idea di patria, il pioniere del dibattito sulla repubblica presidenziale, il primo intellettuale di destra ad avere posizioni filoisraeliane, pensatore "scomodo" grande studioso del poeta americano Ezra Pound: sono solo alcune delle definizioni date ad Giano Accame, il giornalista, saggista e scrittore scomparso a Roma a 81 anni.

Da vero "irregolare" del panorama politico e culturale di destra, Giano Accame ha ricoperto ruoli diversi nella sua lunga vita: dalla sua collaborazione con Tabula Rasa, fucina di pensatori della destra, a inviato del settimanale Il Borghese dal 1958 al 1968; per sedici anni direttore del settimanale Nuova Repubblica, che faceva capo al repubblicano Randolfo Pacciardi, e direttore del quotidiano Il Secolo d'Italia, organo del Msi, tra il 1988 e il '91. Ha pubblicato diversi libri che hanno sempre suscitato dibattito a destra e letti con attenzione a sinistra: Socialismo tricolore (1983) con Editoriale Nuova, poi con Settimo Sigillo Il fascismo immenso e rosso (1990), Ezra Pound economista, Contro l'usura (1995), La destra sociale (1996), Il potere del denaro svuota le democrazie (1998). Nel 2000 con Rizzoli Accame ha pubblicato Una storia della Repubblica: un'opera, avvertiva l'editore, non basata sul conformismo e sul politicamente corretto, ma raccontata con un'interpretazione fuori dai vecchi schemi, spesso critica ma sempre obiettiva e rigorosamente documentata. In pochi mesi il volume fu ristampato più volte e poi apparve anche in edizione tascabile Bur Rizzoli. Alla presentazione ufficiale del libro a Roma esponenti di destra e di sinistra cercarono di far "pace" sul dopoguerra: intervennero, tra gli altri, Gianni Borgna, Marco Minniti, Gianni Alemanno e Francesco Storace.

Giano Accame nasce a Stoccarda il 30 luglio 1928 da madre tedesca, Elisabeth von Hofenfels, mentre il padre e il nonno furono ammiragli e gli antenati piccoli armatori di Loano (Savona). Il 25 aprile 1945, giorno della Liberazione, ad appena 17 anni, Accame si arruolò nella marina militare della Repubblica sociale italiana, ammirando la Decima Mas. La sua adesione alla Rsi durò lo spazio di un mattino, perché alla sera fu catturato dai partigiani a Brescia. Nel 1946 si iscrisse a Genova al Fronte degli Italiani, organismo poi confluito nel Msi, di cui creò le prime sezioni nella riviera ligure ed è stato dirigente regionale e nazionale. Nel 1956 lasciò il Movimento sociale italiano, stanco di polemiche interne e per impegnarsi di più con il giornalismo, sua futura professione, nelle polemiche culturali.

Da qui la collaborazione, con altri intellettuali già stanchi del partito, con Tabula Rasa. Nel 1956 iniziò la professione come capo della redazione toscana del settimanale Cronaca italiana. Nel 1958 passò a Il Borghese, da cui si dimise nel 1968 per contrasti sulla contestazione giovanile. Segretario del Centro di vita italiana presiedutoda Ernesto De Marzio, organizzò a Roma due incontri internazionali di scrittori di destra. Nel1964 dirisse il settimanale Folla, poi, Nuova Repubblica, organo del movimento presidenzialista del repubblicano Randolfo Pacciardi, l'Unione democratica per la nuova Repubblica, di cui divenne segretario nazionale. Come stretto collaboratore di Pacciardi, Accame fu anticipatore, durante gli anni Sessanta, del dibattito sulla repubblica presidenziale.

Dal 1969, come inviato ed editorialista de Il Fiorino, Giano Accame si specializzò in giornalismo economico e collaborò agli Annali dell'economia italiana di Epicarmo Corbino. Tra la fine del 1988 e il 1991 ricoprì l'incarico di direttore del Secolo d'Italia. Ha collaborato con diverse riviste, tra le quali L'Italia settimanale, Il Sabato, Lo Stato, Pagine Libere, Letteratura - Tradizione, La Meta Sociale e Area, ma anche con diversi quotidiani come Il Tempo, Lo Specchio e Vita.

Giano Accame è stato considerato, insieme a Piero Buscaroli, Fausto Gianfranceschi, Franco Cardini, Gianfranco de Turris e Marcello Veneziani, uno degli intellettuali storici della destra italiana. Accame non si ritenne mai un "fascista di sinistra", come il suo grande amico Beppe Niccolai, né tantomeno un "Bertinotti della destra", come fu definito da alcuni giornali per le sue posizioni "eretiche" e "scomode", considerandolo una perniciosa macchietta. Accame ha sempre pensato che tradizione e patria non dovessero essere pretesti, ma ideali veri da rendere concreti con l'azione politica. Quando vennero fuori i documenti del "golpe bianco" del partigiano liberale Edgardo Sogno, alla metà degli anni Settanta, Accame risultava in predicato come ministro della Pubblica istruzione. "Vanterie di una persona anziana che voleva stupire. Sogno era intelligente, simpatico, coraggioso. Ma era il birichino di mamma"', dichiarò Accame nel 2004 in un'intervista a Claudio Sabelli Fioretti per Sette del Corriere della Sera. Allo stesso giornalista che gli ricordava le definizioni date di lui come "terzomondista, anticapitalista, antiamericano", Accame rispose: "Sono solo venature".

Il sindaco di Roma Alemanno:
''Per me è veramente una scomparsa gravissima perché è stato un maestro''. ''E' stato un intellettuale di grandissimo spessore che ha attraversato tutta la storia del dopoguerra con posizioni sempre molto ricche e significative, uno dei grandi maestri della cultura di destra''.

La camera ardente, allestita presso la sua casa-studio in Lungotevere dei Mellini 10 a Roma, verrà aperta questo pomeriggio a partire dalle 15. I funerali si svolgeranno sabato.

Giano Accame : pensiero scomodo

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Giano Accame, pensiero scomodo

 

14 maggio 2001

Puntata realizzata con gli studenti del Liceo Classico "Umberto I" di Napoli"

STUDENTESSA: Ringraziamo Giano Accame per essere qui con noi. Prima di dare avvio alla discussione guardiamo la scheda filmata.

Pensieri scomodi, pensieri inquietanti, pensieri di difficile collocazione, attraversano, come ombre, il corso del secolo che è appena trascorso. Un secolo dove la massa si è fatta protagonista e il conformismo, l'automatismo mentale, l'inerzia, il torpore, sono diventati condotta comune, norma di comportamento. Il secolo dei grandi totalitarismi sicuramente è anche il secolo dell'indottrinamento di massa, ma, paradossalmente, è anche il secolo degli antagonismi, delle ribellioni, è il secolo in cui scrittori e pensatori, spesso solitari, emarginati, talvolta sconfitti dalla storia, conducono "esperimenti temerari" o semplicemente portano il peso di una "intelligenza scomoda", refrattaria a ogni conformismo. È il caso, ad esempio, dello scrittore tedesco Ernst Junger, una delle grandi figure della letteratura del Novecento. In età più che matura, all'inizio degli anni Cinquanta, Junger teorizza il comportamento del ribelle, al quale, "per sapere che cosa sia giusto, non servono teorie o leggi escogitate da qualche giurista di partito". Il ribelle "attinge alle fonti della moralità ancora non disperse nei canali delle istituzioni". Il ribelle rifugge da ogni ordine costituito, non appartiene più a niente, ha varcato una volta per tutte il meridiano delle opinioni comuni. Pensatore scomodo è dunque Junger, come d'altra parte scrittore scomodo è stato Louis-Ferdinand Céline, definito "veggente del tramonto dell'Occidente". Poeta scomodo è Ezra Pound, una delle voci più alte della poesia del Novecento e uno dei critici più feroci della vita degradata, misurata dal denaro e dalla prestazione. E scrittore scomodo Yukio Mishima, la cui "intelligenza scomoda" si esprime nella ricerca della bellezza e nella fedeltà alla propria tradizione. Ma ogni ricerca ha il suo prezzo: Mishima muore suicida nel 1970.

STUDENTESSA: Possiamo arrivare a definire una "intelligenza scomoda"? Cioè quali sono i suoi tratti distintivi?

ACCAME: Questa espressione, "intelligenze scomode", viene da una trasmissione di Rai Educational dedicata a scrittori, intellettuali e artisti di destra, ma più che di destra, o fascisti, o accusati di fascismo, persone che sono state una parte ineliminabile, importante, del pensiero del Novecento; e che appartengono ormai non solo a una parte, ma al genere umano. Non si potrebbe fare a meno, nella letteratura italiana, di Gabriele D'Annunzio, anche se a Fiume ha creato la ritualità del fascismo, i saluti, il discorso dal balcone. La filosofia italiana non potrebbe fare a meno del più grande filosofo accademico del Novecento, Giovanni Gentile. L'arte italiana non potrebbe fare a meno del futurismo, anche se Marinetti è stato fascista. Il futurismo è stato, dopo il Barocco, la prima volta che l'arte italiana ha avuto di nuovo una dimensione universale. E così la cultura del mondo non potrebbe più rinunciare a Ezra Pound, che è stato il grande innovatore del modo di fare poesia in lingua inglese, o di Céline, che ha cambiato completamente, rinnovato, il modo di fare prosa narrativa, o di Carl Schmitt, che è stato il più grande politologo del secolo scorso.

STUDENTESSA: Secondo Lei, quali sono i rischi, i pericoli, che una "intelligenza scomoda" corre al giorno d'oggi, e quali sono stati quelli dell'anticonformismo nel secolo appena passato?

ACCAME: Ad esempio, tra i rischi dell'anticonformismo, è esemplare la vita tormentata di Ezra Pound, che per essere stato vicino al fascismo e soprattutto alla repubblica sociale italiana, fu poi chiuso dai suoi concittadini americani in una gabbia, come una bestia, in un campo di concentramento a Pisa e poi confinato per tredici anni in un manicomio criminale negli Stati Uniti. Questa idea di curare le dissidenze come una forma di disturbo mentale non è stata adottata prima nell'Unione Sovietica, ma per prima in America. Non accettandosi l'idea che il più grande poeta americano fosse simpatizzante del fascismo, lo si è fatto passare per matto.

STUDENTE: Al di là del nostro secolo, come può manifestarsi oggi una "intelligenza scomoda"? E cosa vuol dire, nella nostra società, andare contro l'opinione comune?

ACCAME: È sempre una posizione rischiosa e naturalmente scomoda. Non lo è stata nella prima metà del secolo, dove il pensiero fascista è stato dominante in quasi tutta l'Europa, ma nella seconda metà del secolo queste forme di cultura sono state emarginate e quindi, tra l'altro, si sono rarefatti gli intellettuali che vi hanno aderito. Il massimo della scomodità oggi è nel ribellarsi alla pretesa del denaro, dei poteri finanziari, e di porsi come elemento principale della scelta politica. Oggi viene teorizzato dalla migliore cultura economica, quella che viene dalla Banca d'Italia in Italia, la compresenza di due elettorati: uno siamo noi, sarete Voi, quando ci arrivate, a diciotto anni, il popolo sovrano, quello che vota per dei deputati e dei senatori, che contano sempre di meno. E l'altro invece è il grande elettorato del mercato finanziario, che, si dice, ormai vota tutti i giorni in casa nostra, facendo salire o scendere le quotazioni della lira e della borsa, a seconda che il Parlamento e i governi si comportino bene, cioè secondo le indicazioni del mercato finanziario, oppure si comportino male. Se spendono troppo per i pensionati o gli ammalati, la lira cade. Ecco, ribellarsi a questo grande potere internazionale è certamente scomodo, perché la maggior parte degli organi di informazione importanti sono nelle mai del potere finanziario, e quindi liberissimi nel criticare i poteri politici, molto meno nel criticare i poteri economici. I grandi giornali, le televisioni, sono un po' delle pistole puntate alla tempia dei poteri politici, che devono adeguarvisi.

STUDENTE: Non pensa che sia il pericolo ad impedire l'esercizio dell'anticonformismo? E ancora: è forse per paura che ci si adegua all'opinione comune?

ACCAME: Per la verità l'anticonformismo oggi non viene impedito. Viviamo in un periodo di piena libertà, soltanto che nessuno gli dà poi retta. Diceva Ezra Pound che la libertà di parola, senza la libertà di esprimersi via radio, non vale nulla. Questo lo diceva quando non esisteva ancora la televisione. Se uno scrive, ma non arriva a esprimersi attraverso il nuovo grande mezzo di comunicazione, parla a vuoto, o parla a delle piccole minoranze. Non credo che oggi vi siano motivi di paura. Il grande vantaggio di essere usciti dai due secoli di cultura delle rivoluzioni, con la caduta del Muro di Berlino, che nessuno ha più legittimo motivo di avere paura per la vita, per la libertà, per i beni, di fronte a qualunque scelta politica. Il potere non fa paura. Il potere però può emarginare, è naturale insomma. Quindi esiste, è legittimo, anche per gli intellettuali, il timore, la paura di essere isolati, di essere emarginati, di non contare niente, quindi di non guadagnare. Ecco, questo è. Ridimensionando il timore, è lì oggi il vero nemico dell'anticonformismo, quello che spesso vengono reclamizzate sono forme di anticonformismo banale, ma quello più serio viene ancora ghettizzato.

STUDENTESSA: Recentemente ho visto un film, L'ultimo bacio, di Gabriele Muccino, e uno dei personaggi dice: "La normalità è la vera rivoluzione". Lei cosa ne pensa?

ACCAME: La rivoluzione è cambiamento, mentre la normalità è stabilizzazione. La grossa difficoltà nel rapporto tra gli intellettuali e la politica è che, soprattutto in periodo democratico di elezioni, la politica si muove appunto sulla normalità. La politica deve usare argomenti accessibili al grande pubblico, quindi argomenti ormai banalizzati. Mentre il compito dell'intellettuale è quello di spingersi oltre, di dire delle novità; il compito più difficile, insomma. Ma la normalità non è la vera rivoluzione. La vera rivoluzione è il cambiamento. La vera rivoluzione è stata - adesso ormai questo periodo di due secoli è finito -  l'ambizione delle filosofie a inverarsi nella storia. Un tempo ci si accontentava che le filosofie spiegassero il mondo. Da Marx a Gentile, che ha ripreso questa filosofia della prassi di Marx, invece si aggiunge o si era aggiunta una nuova pretesa, che la filosofia non solo spiegasse il mondo, ma che lo cambiasse. Ecco, la normalità non ha questa pretesa di cambiamento. La normalità di solito si adegua e non penso che possa essere rivoluzionaria.

STUDENTESSA: Nella scheda filmata abbiamo visto che gli scrittori e i pensatori citati sono tutti critici della democrazia occidentale. Ora l'atteggiamento antidemocratico può identificarsi con l'anticonformismo?

ACCAME: Certamente! Perché quelli anticonformisti sono atteggiamenti di minoranza, che quindi spesso si rivoltano, o si sono rivoltati in passato contro la democrazia. In realtà né Pound né Junger si sono particolarmente rivoltati contro la democrazia. Se mai solo Mishima, che è un curioso esempio di fascismo di ritorno, o di tradizionalismo di ritorno. Durante la guerra  Mishima fu scartato alla leva e ne fu contentissimo perché si risparmiava la vita. Diventò lo scrittore giapponese più noto in Occidente, e di solito in Italia tutti i suoi primi libri sono stati pubblicati da Feltrinelli, quindi anche molto gradito alla sinistra. Omosessuale, o almeno bisessuale, quindi trasgressivo, su un piano che il pensiero conservatore è meno orientato a accettare. E tuttavia, dopo aver riscosso successo internazionale e in Giappone naturalmente, a un certo punto ha sentito la vanità di questo successo e ha avuto un ritorno di pensiero conservatore, tradizionale ed è ritornato all'antica etica dei Samurai, sino a compiere il sacrificio rituale in una caserma giapponese, per protestare contro l'occidentalizzazione del Giappone e soprattutto contro l'asservimento dell'attuale classe politica giapponese agli americani. Ecco, quindi è l'unico, se mai, che si è ribellato a quel tipo di democrazia asservita. In realtà tutti poi dopo hanno fatto riferimento al popolo. In particolare Ezra Pound era fortemente critico del sistema politico americano, ma non perché fosse antidemocratico. Lui seguiva le idee di Jefferson, che è tra i creatori della democrazia americana, ma accusava la classe dirigente democratica americana di essersi asservita ai banchieri, di essersi asservita al grande capitale finanziario e di aver quindi tradito la stessa Costituzione degli Stati Uniti, che riservava al Congresso la sovranità monetaria e invece questa sovranità era stata trasferita ai banchieri. Questo era più legato alla vera idea dei pionieri americani. Si considerava infatti un vero patriota americano, in rivolta contro il tradimento della democrazia fatta delegando troppi problemi e troppi poteri alla finanza.

STUDENTE: Non crede che l'anticonformismo sia possibile solo in democrazia, e che invece il totalitarismo non sopporti le intelligenze scomode?

ACCAME: Certamente è più facile in democrazia che nei totalitarismi.  E tuttavia anche nei sistemi totalitari ci sono stati esempi di rivolta, di ribellione, che naturalmente sono costati di più. Io, come scrittore di destra, la libertà in questo mezzo secolo ho dovuto più faticosamente conquistarmela, giorno per giorno. A me non l'hanno regalata gli americani, insomma, non mi è stata importata. L'ho dovuta conquistare vincendo pregiudizi, difficoltà, tentativi di discriminazione. E quindi qualche difficoltà la si incontra anche in un sistema di piena libertà.

STUDENTE: Si può, paradossalmente, seguire la legge ed essere comunque scomodi? Pensavo, ad esempio, al Giudice Falcone.

ACCAME: Certamente! Ma il Giudice Falcone era scomodo per la delinquenza, per la grande criminalità organizzata. Non direi che sia un esempio di anticonformismo. È un esempio di eroismo, come quello del Giudice Borsellino, come quello delle forze dell'ordine quotidianamente impegnate nella difesa delle persone per bene, degli onesti, contro la grande criminalità. Ma non direi che questo sia un esempio di anticonformismo. Per quanto, lì dove la società è addormentata, dove esistono complicità tra poteri politici e grandi organizzazioni mafiose, anche questo, il coraggio di rivoltarsi, rischiando la pelle, può, a suo modo, essere interpretato come un anticonformismo. L'egoismo, il rischiare la vita, è sempre impresa di pochi. L'eroe è di per sé uno che si stacca dalla media, dalla normalità, e in questo si può considerare non perfettamente conformista. Non è uno che si fa i fatti suoi e pensa solo alla famiglia. Pensa alla Patria, alla generalità dei cittadini.

STUDENTESSA: Secondo Lei l'intelligenza scomoda è capace solo di demolire e criticare, o è in grado anche di costruire e affermare?

ACCAME: L'intelligenza scomoda vorrebbe anche costruire e affermare. In realtà, dalla lezione dei fascismi è venuto qualcosa che oggi, a livello debole, è estremamente diffuso. Cosa ha fatto il successo politico di Mussolini, ad esempio? È stato il ribellarsi a quella spaccatura, che è nel cuore dell'uomo e della società europea, che aveva provocato la presunzione illuministica, contrapponendo alla tradizione il progresso, contrapponendo alla fede la ragione e la scienza, e, poi il socialismo, contrapponendo alla aspirazione e alla giustizia sociale l'idea di Dio e della Patria. Il successo di Mussolini è stato quello di risaldare queste spaccature e legando e rendendo compatibile, con un'aspirazione alla giustizia sociale, l'idea di Dio e della Patria. Naturalmente poi gli errori hanno compromesso questo tentativo, che aveva suscitato tanti entusiasmi, aprendo nuovi conflitti: conflitto razziale, la discriminazione degli ebrei, e aprendo un conflitto sui temi della libertà. Ma questa idea di risaldare, di non spaccare le masse, sui temi di Dio e della Patria, e spingere il progresso delle masse, unificando questi sentimenti forti, oggi è condivisa da tutti. Nel socialismo italiano è stato Bettino Craxi che ha cercato di sanare queste imprudenti e stupide spaccature, queste fratture. Ha fatto un nuovo Concordato con la Chiesa, ha riscoperto il socialismo tricolore. Ma non c'è forza politica importante, sono solo marginali quelle che non abbiano il pieno rispetto del sentimento religioso e che rinneghino l'aspirazione, oggi più debole, all'identità nazionale. Questo è ormai da destra a sinistra. Tutte le volte che un'idea si affaccia, si affaccia di solito con violenza e con forza, mentre adesso, anche a livello di pensiero debole, tutti condividono questa aspirazione unificante di quelle che sono le grandi tendenze dell'uomo.

STUDENTESSA: Noi finora abbiamo parlato solo di anticonformismo. Ma cosa si intende e come si esprime il conformismo oggi?

ACCAME: Il conformismo, secondo me, si esprime soprattutto nell'economicismo, nell'assegnare, come obiettivo esistenziale e principale, l'idea dell'arricchimento. E questo porta a delle gare che possono essere addirittura distruttive per il genere umano, perché è probabile che l'assetto ecologico della terra non possa resistere a ulteriori progressi, a ulteriori escalation in questa ricerca del benessere e dello spreco. Un tempo ci si accontentava più facilmente della propria condizione economica e si cercava la gratificazione nel far bene certe cose. Il medico condotto non voleva arricchirsi, ma curare, il professore era completamente dedito al proprio lavoro di educatore e non era scontento, i servitori dello Stato e gli ufficiali peroravano la grandezza della nazione. E, comunque, chiunque faceva la propria professione, o il proprio lavoro, o il proprio mestiere di artigiano, di operaio, tendeva a trovare la gratificazione nell'esistenza e in altri valori oltre che quelli monetari. Oggi la ricerca dell'arricchimento, l'economicismo, spegnendo altre aspirazioni dell'uomo, altre tendenze, esprime una forma di conformismo che considero pericolosa. 

STUDENTE: Non pensa che il prezzo da pagare all'anticonformismo sia l'individualismo?

ACCAME: No, se mai proprio il conformismo di oggi è l'individualismo. Ci si lamenta, dopo la caduta del Muro di Berlino, della affermazione planetaria della formazione di un pensiero unico, che è il pensiero liberale individualista. E c'è addirittura una forma quasi di intolleranza liberal-liberista. Se mai, l'anticonformismo oggi si dovrebbe manifestare in un ritorno al pensiero comunitario, all'idea di sentirsi insieme, all'idea della società a cui aderire e da servire.

STUDENTESSA: Secondo Lei, si può essere anticonformisti nel rispetto dell'opinione comune?

ACCAME: L'anticonformismo e l'opinione comune di solito sono in conflitto. L'anticonformista è proprio contro l'opinione comune. Però ci può essere una forma di anticonformismo del conformismo, nel senso che spesso gli intellettuali ostentano forme di disprezzo del senso comune. E allora aderire al senso comune rappresenta in qualche modo una forma di anticonformismo. Il coraggio di pensarla un po' come tutti, perché questo tipo di pensiero viene snobbato.

Puntata registrata il 21 febbraio 2001

De totalitaire democratie

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De totalitaire democratie

Geplaatst door yvespernet op 17 april 2009

Vandaag de dagen leven we in een liberale representatieve parlementaire democratie. Iedereen heeft een stem die via een evenredige verdeling zorgt voor een gelijke vertegenwoordiging van de politieke strekkingen in Vlaanderen. Iedereen heeft het recht op vrije meningsuiting, vrijheid van vergaderen, etc… We mogen dus zeggen en denken wat we willen, censuur is er niet meer. Althans, dat is toch de theorie.

Nieuw en oud totalitarisme

Wanneer men over totalitaire regimes spreekt, heeft men direct een beeld voor van regimes met soldaten in de straten, een zichtbare geheime dienst en met regelmatige verdwijningen van politieke tegenstanders. We kunnen echter ook stellen dat wij vandaag de dag in een totalitaire samenleving wonen. Alleen is het regime veel beter geworden in de schijn te bewaren van de vrije mens en worden er ook allerlei misleidende vormen van totalitarisme gebruikt om politieke oppositie tegen het systeem de kop in te drukken. Waar vroeger werd gewerkt met fysiek geweld om de oppositie aan te vallen, werkt men nu veel slimmer. In vroegere tijden werden opposanten nogal zichtbaar en fysiek uitgeschakeld. Ze verdwenen (waardoor iedereen wel kon raden wat ermee gebeurde) of werden gewoon vermoord. Betogingen en opstanden werden met de wapenstok, de bajonet of het geweer neergeslagen of uiteengeschoten.

Het ontstaan van de consumptiemaatschappij heeft het regime echter een machtig wapen gegeven. Door het voeden van het individualisme worden oude sociale verbanden en wordt het sociale middenveld ondermijnd. Mensen worden aangemoedigd om hun eigen belang na te streven, ook als dit ten koste gaat van anderen. En al juich ik uiteraard de materiële vooruitgang tegenover het begin van de 20ste eeuw toe, het materialisme heeft er ook voor gezorgd dat mensen een disproportioneel groot belang hechten aan hun bezittingen. De arbeiders hadden vroeger amper iets te verliezen bij het ondernemen van politieke actie, vandaar ook de term proletariërs.

Totalitarisme in de maatschappij

Een andere eigenschap van de totalitaire staat, althans toch volgens Hanna Arendt (die we niet echt van sympathie kunnen verdenken van radikaal-rechts gedachtegoed), is het ineenstorten van de klassen in de maatschappij. Iets dat we ook vertaald zien in de opbouw van totalitaire bewegingen. Daarin is iedereen gelijk buiten de leider die als een soort nieuwe absolute vorst boven zijn volgelingen zweeft. Ook deze afbraak van de klassen kunnen we herkennen in de huidige maatschappij. Om een totalitaire samenleving te creëeren, is de afbraak van overkoepelende structuren en groepsgevoel immers vitaal. Enkel het individu mag nog bestaan. Duizend individuen zijn immers makkelijker te controleren dan honderd georganiseerde militanten.

Bovenop de afbraak van de groepen en overkoepelende verbanden is er ook nog een andere belangrijke factor; sociale uitsluiting. Opstandelingen tegen het systeem moet men immers niet proberen neer te knuppelen wanneer men een machtig media-apparaat heeft dat het voor het regime doet. Ook fenomenen als “anti-fascisme” dienen enkel voor het overleven van de staat te waarborgen. De grootste successen tegen de oppositie zijn altijd geboekt geweest wanneer de controle van het regime het minst zichbare bleef. Zodra de bevolking zichzelf bespioneert en verdacht maakt, betekentdit voor de staat een enorme verlichting van hun taken.

Door de controle van de media en door de zelfspionage van de bevolking heeft de staat van na WOII ook voor de eerste keer, in een mate dat een dictatuur nooit heeft kunnen doen, zo een grote controle over de mensen. In alle lagen van de maatschappij; media, cultuur, samenleving, etc… wordt er nu gepleit voor een zo “pluralistisch” mogelijke samenstellingen. Buiten uiteraard de regimebedreigende krachten, die zijn naar het schijnt vanuit hun wezen vijandig naar de mens toe. Althans, dat wenst het regime ons wel wijs te maken.

Een nieuw volksfront

Wanneer de politieke klasse zich eensgezind, wat de verschillen onderling zijn wel zeer minimaal te noemen, tegen alle oppositie kant, is het nodig om een nieuwe weg in te slaan. De oppositie moet zich verenigen in een nieuw soort volksfront. Een identitair, anti-globalistisch, anti-kapitalistisch eenheidsfront tegen het cultuurvernietigende, globalistische en kapitalistische volksvijandige kamp. Eenheid tussen radikaal-links en radikaal-rechts. Maar dan moet radikaal-links ook eens gaan beseffen dat ze niet moeten streven naar dingen als meer migratie, aangezien dat net een wapen is van de neoliberale klasse. Die dienen immers om de lonen hier te drukken en het volk op te zetten tegen het grootkapitaal(1).

Maar totdat de radikaal-linkse kant (al zijn er uitzonderingen godzijdank) heeft geleerd dat het belangrijker is om te strijden tegen de volksvernielers en mensenhandelaars (want daar komt de huidige (economische) massamigratie op neer) dan te ijveren voor de emancipatie van zowat alles, zal het regime rustig verder doen met de demonisering van hun grootste bedreiging; de volksnationalisten en solidaristen.

(1) Het grootkapitaal is een kleine groep mensen die geen belang hecht aan het bestaan van naties, voelen zich met niemand buiten hun eigen sociale groep verbonden (en dan nog) en zullen enkel streven naar het eigen geldgewin. Zij zijn niet de burgerij die zich tenminste nog met een cultuur en volk verbond en zijn kapitaal ten minste ook nog gedeeltelijk ten dienste stelde van kunstenaars en musici. Dit grootkapitaal, dat zich steeds verder en verder op een globale schaal organiseert, wilt helemaal niet beperkt worden in hun doen en laten. Zij zullen dan ook altijd streven naar een verdere liberalisering van de economie. Het grootkapitaal produceert op geen enkele manier een meerwaarde aan de samenleving.

Als een parasiet teert het op de rijkdommen van de maatschappij. Rente en de handel in niet-bestaand geld op de beurzen maakt hen stinkend rijk. Wanneer we spreken over een “klassenstrijd” in solidaristische ogen is het beter om te spreken over de strijd tussen productieven en niet-productieven. Productieven zijn iedereen die bijdraagt door arbeid of investeringen aan de maatschappij in zijn geheel, ik heb het dan over veel meer dan pure economische factoren. Niet-productieven zoals het grootkapitaal teren op de maatschappij en haar verwezenlijkingen als een parasiet die zich volzuigt.

vendredi, 17 avril 2009

Le M.A.U.S.S.: Qu'est-ce que l'utilitarisme?

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Le M.A.U.S.S.: «Qu'est-ce que l'utilitarisme?»

La revue semestrielle du M.A.U.S.S. consacre son n°6 à «Qu'est-ce que l'utilitarisme? Une énigme dans l'histoire des idées». Elle le présente ainsi: «Depuis près de deux siècles, dans les pays de tradition anglo-saxonne, l'utilitarisme a constitué la philosophie morale et juridique de base. A ce titre, il a suscité de nombreux débats. Rien de tel en France où, depuis la grande thèse d'Elie Halévy, La Formation du radicalisme philosophique (1903), l'utilitarisme était oublié et ignoré. Toutefois, depuis quelques années, les philosophes et les chercheurs en sciences sociales relancent le débat sur l'utilitarisme. A en croire Halévy et la quasi-totalité des commentateurs de l'époque, le fondateur de l'utilitarisme est Jeremy Bentham (1748-1832): sa doctrine reposerait sur l'hypothèse que les sujets humains doivent être considérés comme des égoïstes calculateurs et rationnels. Pas du tout, rétorquent nombre d'interprètes contemporains: non seulement J. Bentham ne postule nullement le caractère dominant des motivations égoïstes, mais, en adoptant comme critère du juste et du bien la maximisation du bonheur du plus grand nombre, il plaide au contraire pour l'altruisme. On ne saurait rêver lectures plus radicalement opposées. Ce numéro de la Revue du M.A.U.S.S. semestrielle présente donc les diverses interprétations et suggère deux manières originales, et de surcroît probablement justes, de résoudre l'énigme. Pour la première, loin d'inventer l'utilitarisme, Bentham est celui qui achève une certaine tradition utilitariste vieille de plus de deux mille ans. Pour la seconde, cette tension insoluble entre égoïsme et altruisme est précisément ce qui caractérise l'utilitarisme moderne et post-benthamien amorcé par John Stuart Mill» (PM).

 

Editions La Découverte/La Revue du MAUSS,  9 bis rue Abel-Hovelacque, F-75.013 Paris, 290 p., 160 FF.

mardi, 07 avril 2009

Le communautarisme américain

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

Université d'été de la F.A.C.E. - 1995

Résumé des interventions

Le communautarisme américain

(intervention de Robert Steuckers)

 

Le communautarisme américain d'aujourd'hui, c'est-à-dire tout le débat entre sociologues visant à réhabi­liter la notion de “communauté” aux Etats-Unis, est une réponse tardive au néo-libéralisme et une redé­couverte des liens communautaires. Conscients de la faillite et de l'impasse que sont l'individualisme et le collectivisme, les sociologues de la “nouvelle gauche” cherchent désormais à restaurer la logique com­munautaire. La plupart de ces nouveaux “communautariens” américains tâtonnent: ils tentent de vulgari­ser et d'adapter un discours qui a été parfaitement “scientificisé” en Europe avec Otto von Gierke, Ferdinand Tönnies (Communauté et société)  et François Perroux. Mais cet héritage précieux de la socio­logie avait été refoulé au profit de conceptions très “sociétaires” ou très “technocratiques” des agrégats humains. Les sociologues américains de la tradition “communautarienne” aujourd'hui émergente ont cons­taté, devant la déliquescence des villes américaines, devant la criminalité galopante, que leur société basculait dans l'anomie totale, vu la disparition de tous les référents sous les coups de l'hyper-modernité.

 

D'où le triple constat de cette nouvelle école sociologique et philosophique:

1) Les Etats-Unis sont une société sans référents, parce qu'elle est une société d'immigrés qui ont rompu avec leurs traditions ancestrales, sans en avoir reconstruit d'autres;

2) Or les Etats-Unis veulent être une société pleinement démocratique; mais une démocratie n'est viable que s'il existe au préalable des vertus civiques, c'est-à-dire une sorte de bloc d'idées incontestables, impliquant des droits et des devoirs. Les vertus civiques réclamées par toute démocratie saine sont l'avatar contemporain de la virtus  des Romains, de la virtù  de Machiavel et de la vertu de Montesquieu.

3) Pour que ces vertus civiques demeurent vivantes, dynamiques, adaptables aux circonstances, il faut que demeurent les liens, valeurs et comportements traditionnels; d'où la notion d'un “progrès” —qui effa­cerait définitivement ces legs irrationnels du passé pour qu'advienne un bien définitif, rationnel, raison­nable et épuré—  n'est plus défendable.

 

C'est sur base de ce triple constat que la sociologie récente aux Etats-Unis lance un appel aux citoyens pour qu'ils renouent avec leurs traditions, mais cet appel demeure assez vague et imprécis quand on le compare à la profondeur d'analyse d'un Tönnies ou d'un Perroux. Nous préférerions retourner à la rigueur de Tönnies et de Perroux, mais cette rigueur n'est plus directement accessible, même en milieu acadé­mique, c'est pourquoi nous sommes contraints en pratique de revenir dans le débat sur la “communauté” par cette “petite porte” —la seule qui ne soit pas condamnée—  qu'est le communautarisme américain ac­tuel.

 

Autre aspect intéressant de ce débat: il permet de dépasser le paralysant clivage “gauche/droite”, étant donné, justement, que les “communautariens”, s'ils viennent en majorité de la “gauche”, viennent aussi assez souvent d'une droite “axiologique” ou “aristotélo-thomiste”. Le communautarisme permet de ras­sembler tous ceux qui s'opposent au libéralisme radical, à l'hyper-individualisme et au culte de l'argent, revenu sur l'avant-scène avec Thatcher et Reagan. A l'époque du grand avènement du néo-libéralisme, de la fin des années 70 à l'entrée de Reagan à la Maison Blanche, les théories de Hayek et des Chicago Boys avaient triomphé de celles de John Rawls, consignées dans un ouvrage célèbre à l'époque, A Theo­ry of Justice  (1979). Rawls critiquait la notion de contrat aliénant ma liberté de citoyen, déléguant mes pouvoirs naturels à une instance appelée à barrer la route au chaos (guerre civile). Pour Rawls, le fait de déléguer ainsi ses propres pouvoirs ruine les ressorts coopératifs naturels de toute la société. Pour dé­passer cet effet pervers du contractualisme, il faut rendre vigueur aux normes traditionnelles, se débar­rasser de cette philosophie anglo-saxonne qui estime que les normes et les valeurs découlent d'énoncés vides de sens. Le livre de Rawls provoque deux réactions: 1) Nozick et Buchanan définissent des normes toutes faites, jugées comme universellement valables et intangibles (origines néo-libérales de la political correctness);  2) il faut faire revivre les normes traditionnelles, donc redonner vie aux res­sorts des com­munautés.

 

Parmi les nombreux protagonistes de ce nouveau “communautarisme”, citons Ben Barber, issu d'une gau­che très activiste, engagée dans tous les combats depuis 68. Ben Barber oppose très justement le li­bé­ra­lisme à la démocratie. Le libéralisme signifie l'anarchie sociale, l'effilochement des tissus séculaires, la fin des institutions stables de la société (mariage, famille, etc.), l'anomie. La démocratie, si elle est forte, im­plique la participation, donc des agrégats humains aux ressorts naturels intacts, capables de s'adapter en souplesse à tous les contextes et à tous les coups du sort. Restaurer une démo­cra­tie forte, contre les effets dissolutifs du libéralisme, signifie accroître la participation des citoyens à tous les niveaux de dé­cision, réactiver la citoyenneté. En effet, le libéralisme, issu du contractualisme, est une “démocratie faible”, dans le sens où il participe d'une épistémologie “newtonienne”, où le simplisme géométrique est de rigueur; le libéralisme est cartésien, dans le sens où il est déductif et où il ne consi­dè­re comme pleinement citoyens que ceux qui adhèrent religieusement à quelques vérités abstraites, alors que le “commu­nau­ta­ris­me” est amené à définir le citoyen comme le ressortissant d'un Etat qui a une histoire particulière et a dé­ployé des valeurs spécifiques, particularités et spécificités qui fondent justement la concrétude de la ci­toyenneté. Le libéralisme postule un homme dépolitisé (qui a délégué ses pouvoirs potentiels à une ins­tan­ce supérieure), ce qui est une aberration aux yeux de l'ancien militant gauchiste Ben Barber. Il faut donc opérer un retour à la Polis antique, où le citoyen se situe dans une histoire, où il intervient et par­ti­ci­pe. Le libéralisme, soit la “démocratie faible”, génère des pathologies: atomisation so­ciale, chaos, ano­mie, expédiant de la dictature, passivité des citoyens. Une démocratie réelle, soit une démocratie forte, com­mencent par des “assemblées de voisins” (5000 citoyens décrète Barber), reliées entre elles par des “coo­pératives de communication” (rendues possibles par les progrès en télécommuni­cations). Ben Barber pro­pose ce modèle pour les Etats-Unis, société où aucune tradition ne subsiste et où aucune tradition par­ticulière ne peut s'imposer à la majorité. D'autrs communautariens parle de “faire éclore partout des sphè­res de justice”. Un débat passionnant que les “Bons Européens” doivent brancher sur les legs com­munautaires de leurs propres histoires et sur l'appareil conceptuel que nous lèguent Otto von Gierke, Tön­nies et Perroux.

(résumé de Catherine NICLAISSE).

 

 

 

vendredi, 03 avril 2009

Arthur Moeller van den Bruck

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Il y a 70 ans mourrait Arthur Moeller van den Bruck

 

«C'est une question que vous adressez au destin de l'Allemagne, lorsque vous me demandez qui fut Arthur Moeller van den Bruck», déclarait sa veuve Lucy en 1932, dans le seul et unique interview qu'elle a accordé pour évoquer la mémoire de son mari. En effet, la vie de Moeller van den Bruck, le protagoniste le plus significatif de la Révolution Conservatrice de l'entre-deux-guerres, reflète parfaitement l'esprit du temps. Mais si son époque l'a marqué, il l'a marquée tout autant. Le Juni-Klub qu'il avait fondé avec Heinrich von Gleichen en 1919 quand il devinait l'effondrement du Reich, la révolution spartakiste et les affres du Diktat de Versailles, devait devenir la cellule de base d'un mouvement “jeune-conservateur”. Un an plus tard, le Juni-Klub déménage et se fixe au numéro 22 de la Motzstraße à Berlin, pour déployer de nouvelles activités. Outre les soirées de débat, le Juni-Klub s'empressa de mettre sur pied un “collège politique” pour parfaire la formation politique des “nationaux”. En 1923, le Juni-Klub acquiert le droit de dé­cerner des diplômes reconnus par l'Etat et entame une activité journalistique intense. Finalement jusqu'à 50 journaux importants ou revues au tirage plus restreint ont été chercher leurs éditoriaux ou leurs bonnes feuilles dans les locaux de la Motzstraße. Dans tout le territoire du Reich, ces structures de for­mation et de publication se multiplient et se donnent un nom, Der Ring (= L'Anneau), qui symbolise le mou­vement national naissant, quadrillant le pays.

 

Le périodique le plus significatif des Jeunes-Conservateurs fut Gewissen,  une revue rachetée en 1920, dont la forme fut entièrement remodelée par Moeller. La revue a tout de suite suscité un grand intérêt et a eu les effets escomptés, comme l'atteste une lettre de Thomas Mann à Heinrich von Gleichen (1920): «Je viens de renouveler mon abonnement à Gewissen,  une revue que je décris comme la meilleure publication allemande, une publication sans pareille, à tous ceux avec qui je m'entretiens de politique». Moeller était véritablement le centre de toutes ces activités. En écrivant des brochures et d'innombrables articles, il façonnait le mouvement, lui donnait son idéologie, ses lignes directrices. Mais sa forte personnalité jouait un rôle tout aussi intense, rassemblait les esprits. Pourtant, jamais il n'écrivit de grande œuvre politique, mis à part des ouvrages de référence indispensables, comme Das Recht der jungen Völker  [= Le Droit des peuples jeunes] (1919), puis l'ouvrage collectif écrit de concert, notamment avec Heinrich von Gleichen et Max Hildebert Boehm, et destiné à devenir la base d'un programme “jeune-conservateur”, Die Neue Front  [= Le Front Nouveau] (1922) et, bien sûr, le plus connu d'entre tous ses livres, Das Dritte Reich (1923). Bien entendu, ce titre fait penser, par homonymie, au “Troisième Reich” des nationaux-so­cialistes, ce qui a nuit à la réputation de l'auteur et du contenu de l'ouvrage. Pourtant, Moeller émettait de sérieuses réserves à l'endroit de Hitler et de la NSDAP. Malgré son opposition, Hitler put parler un jour à la tribune du Juni-Klub en 1922, mais Moeller en tira une conclusion laconique, négative: «Ce gaillard-là ne comprendra jamais!». Après le putsch de Munich, Moeller commenta sévèrement l'événement dans Gewissen:  «Hitler a échoué à cause de sa primitivité prolétarienne».

 

Le mouvement jeune-conservateur

 

L'influence prépondérante de Moeller van den Bruck peut parfaitement se jauger: en 1924, quand une grave maladie le frappe et le contraint à abandonner tout travail politique, les structures mises en place se défont. Le 27 mai 1995, après plusieurs mois de souffrances, Moeller met volontairement un terme à ses jours. Ce sera Max Hildebert Boehm qui prononcera le discours traditionnel au bord de sa tombe: «Le chef, le bon camarade, l'ami cher, auquel nous rendons aujourd'hui un dernier hommage, est entré comme un homme accompli, comme un homme “devenu”, dans notre cercle de “devenants” (... trat als ein Gewordener in unseren Kreis von Werdenden)».

 

Pour Moeller, comme pour tant d'autres, la Première Guerre mondiale et ses conséquences ont constitué un grand tournant de l'existence. En effet, quand Moeller s'est définitivement donné au travail politique, il était déjà un homme accompli, un “devenu”. Né le 23 avril 1876 à Solingen, il avait derrière lui un chemine­ment aussi extraordinaire que typique. Il appartenait à une génération qui n'avait plus pu s'insérer dans la société du tournant du siècle; adolescent, il avait interrompu sa formation scolaire et s'était installé d'abord à Leipzig, où il fit la connaissance du dramaturge et poète Franz Evers, qui l'accompagnera long­temps et marquera plusieurs stades cruciaux de son existence. Ses seuls intérêts, à l'époque, étaient lit­téraires et artistiques. Ce jeune homme très sérieux avait un jour suscité la remarque ironique d'un audi­teur: «Vous avez-vous? Le jeune Moeller a ri aujourd'hui!». En 1896, il part pour le centre de la vie intellec­tuelle du Reich: Berlin.

 

Le style prussien

 

C'est dans la capitale allemande qu'il épousera un amour de jeunesse, Hedda Maase, qui partageait ses passions. Plus tard, elle a rédigé un mémoire détaillé sur son époque berlinoise, où elle décrit son mari: «Il s'habillait de façon très choisie et cherchait à exprimer l'aristocrate intérieur qu'il était à tous les niveaux, dans ses attitudes, dans les formes de son maintien, dans son langage». Un héritage leur permettait de vivre sans travailler; ainsi, ils pouvaient passer beaucoup de temps dans les cafés littéraires et dans les restaurants, et discuter des nuits entières avec des hommes et des femmes partageant leur sensibilité: parmi eux, Richard Dehmel, Frank Wedekind, Detlev von Liliencorn, le peintre et dessinateur Fidus, Wilhelm Lentrodt, Ansorge ou Rudolf Steiner. Ces réunions donnait l'occasion de pratiquer de la haute voltige intellectuelle mais aussi, assez souvent, comme Moeller l'avoue lui-même, de rechercher “le royaume au fond du verre”. Avec sa femme, il traduit, dans ces années-là, des ouvrages de Baudelaire, de Barbey d'Aurevilly, de Thomas de Quincey, de Daniel Defoë et surtout d'Edgar Allan Poe. Entre 1899 et 1902, il achève un ouvrage en douze volumes: Die moderne Literatur in Gruppen- und Einzeldarstellungen.

 

En 1902, Moeller quitte précipitamment Berlin sans sa femme, qui épousera plus tard Herbert Eulenberg. En passant par la Suisse, il aboutit à Paris. Il y restera quatre ans, parfois en compagnie d'Evers. Il édite plusieurs ouvrages, Das Variété (1902), Das Théâtre Français (1905) et Die Zeitgenossen (= Les Contemporains) (1906), flanqués de huit volumes, écrits entre 1904 et 1910, Die Deutschen. Unsere Menschengeschichte  (= Les Allemands. Notre histoire humaine). A Paris, Moeller avait fait la connais­sance de deux sœurs originaires de Livonie (actuellement en Lettonie), Less et Lucy Kaerrick, et de Dimitri Merejkovski. Ces amitiés ont permis l'éclosion du plus grand travail de Moeller: la première édition allemande complète de l'œuvre de Dostoïevski. Plus tard, Moeller épouse Lucy Kaerrick. En 1906, il voyage en Italie avec Barlach et Däubler, ce qui lui permettra de publier en 1913 Die italienische Schönheit  [= La beauté italienne]. En 1907, il retourne en Allemagne et accomplit sur le tard son service militaire, pour exprimer son engagement en faveur de l'Allemagne qu'il n'avait jamais cessé de manifester à l'étranger. Ensuite, il voyage encore dans tous les pays d'Europe. Quand éclate la Première Guerre mondiale, il est affecté dans une unité territoriale (Landsturm).  C'est à cette époque qu'il aura plusieurs longues conversations avec un jeune juriste, Carl Schmitt. En 1916, Moellers change d'affectation: il se retrouve dans le “département étranger” de l'état-major de l'armée de terre. La même année paraît un de ses meilleurs livres: Der preußische Stil  [= Le style prussien], recueil d'articles et d'essais antérieurs mais dont la portée ne s'était nullement atténuée.

 

Guido FEHLING.

(article paru dans Junge Freiheit, n°21/1995).

jeudi, 02 avril 2009

Vilfredo Pareto et la circulation des élites

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

Université d'été de la F.A.C.E. (juillet 1995):

Résumé des interventions

 

Jeudi 27 juillet 1995

 

Vilfredo PARETO et la circulation des élites

(Intervention d'Enrico Galmozzi, traduite par Alessandra Colla)

 

Cet exposé est aussi une présentation de la revue Origini, éditée conjointement par Alessandra Colla, le Centro Culturale Orion  et Sinergie Europee, qui vient de sortir un gros dossier sur Vilfredo Pareto.

 

Si des institutions scientifiques, comme celles qui gravitent autour de la maison d'édition Droz ou des Cahiers Vilfredo Pareto, à Genève et à Lausanne, ont continué, imperturbables, à éditer Pareto et ses exégètes ou continuateurs, en Italie, un voile est tombé sur son œuvre, jugé trop “à droite”, voire “pré-fasciste”, alors que la sociologie était jugée, à tort, comme un héritage exclusif des gauches. Pareto a donc toujours été plus accusé que lu, plus cité (à partir de sources secondaires) qu'étudié. Après les dé­cès de Raymond Aron et de Julien Freund, qui ont été ses meilleurs disciples, l'étude de l'œuvre paré­tienne est entrée, elle aussi, en dormition; avec la récente étude de Bernard Valade, on peut espérer son retour dans l'université française (cf. Pareto: la naissance d'une autre sociologie, PUF, 1990).

 

Dans le cadre de nos travaux, il est bon de rappeler quelques termes de la sociologie de Pareto:

- L'élite est la classe élue, un petit groupe qui se détermine seul, qui se montre capable d'influencer la masse, qui devient aussi, par le truchement du phénomène de la “circulation des élites” le groupe domi­nant au sein d'une société ou d'un Etat.

- Les résidus, sont des sentiments permanents, irrationnels, qui conditionnent les hommes individuelle­ment et collectivement, et déterminent leurs actions non-logiques. Ce sont les traditions, les héritages, les stratifications dues à la religion, aux droits anciens, aux préjugés.

- Les actions logiques, sont des raisonnements dérivés de l'observation des faits.

- Les actions non-logiques, relèvent, elles, des résidus.

 

Le fondement de l'œuvre de Pareto est une critique de l'idéologie, en somme, une volonté d'arracher les masques que se donne la praxis sociale pour retrouver le fonctionnement réel de la société et l'analyser crûment, sans aucun recours aux dérivatifs idéologico-philosophiques habituels. Dans le sillage de Pareto, le terme “idéologie” a été employé dans un sens polémique: les faits réels sont recouverts par un voile de nature idéologique, qui justifie l'existence d'appareils de pouvoir qui sont souvent efficaces en phase initiale de déploiement, mais qui s'usent avec le temps, pour tomber ensuite dans une caducité problématique, enrayant la bonne marche de la société et barrant la route aux forces innovantes. Pareto veut forger une méthode d'investigation scientifique de ce processus, afin que les forces innovantes puissent disposer d'un instrument critique imparable et jeter bas les forces déclinantes avant qu'elles ne figent une société et ne finissent par la tuer. Pour Pareto, il ne s'agit pas tant de refuser a priori toutes les mystifications idéologiques, car celles-ci se justifient dans la mesure où il y a une véritable demande so­ciale de mystification. Mais il faut que cette mystification serve un fonctionnement optimal de la société. Si elle ne justifie plus qu'un fonctionnement caduc, elle doit disparaître au plus vite. La mystification effi­cace est “mythe” au sens sorélien du terme, et correspond aux besoins réels de la société, fournissant un fondement axiologique pour maintenir harmonieusement un équilibre entre la masse et les élites; la mystification déployée comme écran devant une société en déclin ou un appareil politique figé est mani­pulation.

 

La politique est donc un lieu privilégié de la fiction, une fiction qui assure un équilibre des forces en jeu entre la masse et les élites. Pareto, pessimiste, méprise la démocratie parlementaire qui oblitère les spon­tanéités populaires, y compris quand elle prévoit le plébiscite (qui est une action de violence masquée par la légalité). Ce mépris marque une rupture radicale avec la conception optimiste du contrat social, domi­nante au 19ième siècle, et avec le positivisme d'un Auguste Comte. Ce dernier pensait que l'on pouvait obtenir une connaissance rationnelle de la société, or celle-ci se développe imprévisiblement: elle est un organisme en quête d'un équilibre et, en tant que telle, elle se soustrait à tous les calculs que libéraux, optimistes, positivistes, eudémonistes, progressistes, etc. ont cru benoîtement être des lois immuables dans le fonctionnement des sociétés humaines, en tous temps et en tous lieux.

 

Le pessimisme de Pareto interdit les jugements de valeur simplistes. Quand une élite nouvelle renverse une élite caduque ou moisie, cela ne signifie pas qu'elle est moralement meilleure: plus simplement, elle fonctionne mieux au moment où elle accède au pouvoir. Elle incarne une rupture avec l'ancienne culture dominante et ses traditions. La théorie parétienne de la circulation des élites permet de penser un équi­libre dynamique, une médiation qui, si elle est acceptée comme telle, empêche un bouleversement pa­roxystique et total de la société. Si les gouvernants acceptent la théorie de la circulation des élites et donc la caducité graduelle de tout pouvoir, ils coopteront et accepteront à leurs côtés les représentants des challengeurs, induisant de la sorte une rotation souple des élites. Les élites n'ont donc jamais duré au cours de l'histoire; elles ont pris le pouvoir dans leur phase de jeunesse, elles se sont usées en cours de maturité et elles ont sombré dans leur phase de vieillesse.

 

Pareto est toutefois inquiet en voyant s'installer le pouvoir de l'argent, la ploutocratie. L'économie omni­présente vide toutes les relations sociales de sens, elle détache les hommes de la religion, des traditions, des histoires nationales, toutes instances qui conférent du sens et à l'intérieur desquelles s'opéraient les contestations amenant les changements de pouvoir. La disparition des instances porteuses de sens va figé les processus de circulation et de rotation des élites.

 

(cf. Origini,  n°11, textes consacrés à Pareto et édités sous la direction d'Enrico Galmozzi; disponible à l'adresse belge de “Synergies”, prix: 25 FF ou 150 FB, port compris).

dimanche, 29 mars 2009

Duits socialisme

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Boekbespreking: Jacques Van Doorn - Duits socialisme

Duits socialisme: het falen van de sociaal-democratie en de opkomst van het nationaal-socialisme

Ex: http://onsverbond.wordpress.com/

Prof. em. dr. Jacques van Doorn (1925-2008) was in de jaren 1960 een der grondleggers van de Nederlandse sociologie en van de Faculteit Sociale Wetenschappen van de Erasmus Universiteit in Rotterdam. Met het standaardwerk Moderne sociologie: een systematische inleiding uit 1959 - samen met C.J. Lammers geschreven - werd een hele generatie Nederlandse sociologen opgeleid. Hoewel het de jaren van de maakbaarheid van de samenleving waren, verloor de uit Maastricht afkomstige van Doorn geleidelijk zijn geloof in de maakbaarheidsidee en werd hij steeds meer aangetrokken door het conservatisme, dat de illusie van aardse verlossing verving door een scherp besef van de onvolkomenheid van al het menselijk streven. Die ontnuchtering had alles te maken met de utopische en populistische inslag van het studentenprotest en Nieuw Links in de jaren 1970. In 1987 ging van Doorn met vervroegd en niet geheel vrijwillig emeritaat. Dat jaar werd namelijk de door hem opgerichte opleiding Sociologie aan de Erasmus Universiteit opgeheven en de staf collectief ontslagen, omdat hij een geniepige poging van de toenmalige directeur-generaal voor het wetenschappelijk onderwijs om zichzelf een leerstoel in Rotterdam te bezorgen publiek scherp bekritiseerd had. De volgende 21 jaren ‘pensioen’ bleken zowel voor zijn intellectuele reputatie als ideologisch belangrijker dan zijn 40 academische jaren.
Politiek bewoog deze bekende hoogleraar zich van links tot rechts-conservatief. Hij schreef niet om zijn persoonlijke mening te uiten, maar analyseerde. Als columnist bij NRC-Handelsblad stapte hij in 1990 over naar de dagbladen Trouw en HP/De Tijd, nadat hij valselijk beschuldigd was van antisemitisme door NRC-Handelsblad, dat dit pas recent officieel toegaf. De laatste jaren werd hij vooral bekend vanwege zijn moedige en tegendraadse kritiek op het rechtse populisme en op fanatieke islamcritici als Ayaan Hirsi Ali, Marco Pastors, Ehsan Jami en Geert Wilders. Zijn intellectuele provocaties waren een welkom tegengeluid tegen het ongenuanceerde zwart-wit denken van de neocons en de Verlichtingsfundamentalisten. De altijd onafhankelijke geest van Doorn was daarmee een van de belangrijkste naoorlogse intellectuelen in Nederland, een land dat weinig echte vrijdenkers kent.

Het vlak voor zijn dood - op 14 mei 2008 - verschenen meesterwerk Duits socialisme: het falen van de sociaal-democratie en de triomf van het nationaal-socialisme beschrijft de opkomst en het verval van de sociaal-democratie in Duitsland in Fin-de-Siècle en interbellum, evenals de opkomst en machtsovername van het nationaal-socialisme. Het resultaat van een leven lang denken werd neergeschreven in dit indrukwekkende nieuwe boek. Met zijn enorme sociologische, historische en politiek-theoretische kennis onderbouwt professor van Doorn hierin de vlijmscherpe stelling dat het nationaal-socialisme een authentieke revolutie en zelfs een alternatieve vorm van socialisme was. Zonder enige twijfel vormt het de kroon op zijn veelzijdige oeuvre.

Het boek bestaat uit drie delen. Het eerste deel beschrijft de geschiedenis van de sociaal-democratische beweging; het tweede bespreekt de vele stromingen die in de jaren 1920 nationalisme en socialisme trachtten aaneen te smeden, terwijl het derde deel het nationaal-socialisme schetst als een vorm van socialisme.

De Duitse sociaal-democratische beweging was het vlaggenschip van het internationale socialisme. De centrale vraag in dit boek is hoe Hitler aan de macht kon komen ondanks de ongeëvenaarde organisatorische, electorale en intellectuele kracht van de SPD. Niet door een geslaagd politiek manoeuvre, zo blijkt, maar wel als resultaat van diepgaande maatschappelijke onderstromen, waarin zich twee versnellingsmomenten voordeden: augustus 1914 en november 1918, het begin en het einde van de Eerste Wereldoorlog.

De meeste historici ontkennen of relativeren het socialistisch gehalte van het nazisme. Zij doen de socialistische component in het nazisme af als een maskerade, waarmee ze de verwantschap tussen sociaal-democratie en nationaal-socialisme uit de weg kunnen gaan. Toen bijvoorbeeld de Utrechtse historicus Maarten van Rossem als student zijn scriptie wou schrijven over de tot op heden bestaande sociale maatregelen van de Duitse bezetter, werd hem dit met klem ontraden met het argument dat dit hem tot een paria in de historische wetenschap zou maken. De contemporaine historiografie schetst immers het Derde Rijk als een boosaardige misvatting in de Europese geschiedenis en als een exclusief Pruisisch-Duits verschijnsel. Jacques van Doorn toont echter de evidente verwantschap tussen sociaal-democratie en nationaal-socialisme aan. Traditioneel wijzen historici de conservatieven, de Reichswehr, de adel en de industriëlen aan als wegbereiders van Hitler. Nochtans was de NSDAP in de Weimarrepubliek zowat de enige Duitse politieke partij die níet gefinancierd werd door voornoemde groepen. De auteur wijst erop dat de arbeidersklasse nooit genoemd wordt als steunpilaar van het nazisme, maar integendeel steevast afgeschilderd wordt als een alleen door de sociaal-democratie vertegenwoordigde groep verschoppelingen, die vanzelfsprekend tot de ‘goeden’ gerekend wordt.

Dit vormt van Doorns uitgangspunt voor een verhelderende studie naar de wortels van het nazisme in de Duitse sociaal-democratie. De SPD had het in het Fin-de-Siècle immers moeilijk met zijn nationale identiteit en kampte steeds opnieuw met groepen revisionisten en dissidenten die - anders dan de marxistische partijtop - de staat, militarisme en patriottisme positief waardeerden. Naast socialistische verdedigden zij ook nationalistische belangen. Hiermee geeft van Doorn het nationaal-socialisme een verleden. De sociaal-democratische antecedenten van het nazisme werden echter tijdens de Tweede Wereldoorlog verdrongen door de orgie van vernietiging waarin het nationaal-socialisme culmineerde, hoewel Duitsland tot in de eerste oorlogsjaren zowel militair-politiek als ideologisch een voorsprong op de rest van Europa had.

De auteur toont aan dat het nationaal-socialisme noch programmatisch, noch in zijn praktische uitvoering een reactionaire kracht was, maar in tegendeel juist een uitermate revolutionaire. Op amper enkele jaren tijd werd de sociale structuur van het krachteloze Weimar-Duitsland gesloopt. De stelling dat het naziregime een logische voortzetting was van een autoritair, Pruisisch Duitsland blijkt volkomen onjuist. Hitlers weerzin tegen de staat, die hem met zijn inherente bureaucratie en legalisme in zijn bewegingsruimte belemmerde, vertaalde zich binnenlands in een ware sociale omwenteling. Het nationaal-socialisme wordt door professor van Doorn als een anti-kapitalistische stroming beschreven, waartegen de sociaal-democraten het moesten afleggen omdat ze het nationalisme niet wisten te integreren in hun programma. Het boek is een onconventionele kijk op de geschiedenis van de arbeidersbeweging.
Bijna nergens werd het Keynesianisme zo succesvol toegepast en genoten werknemers zo’n uitgebreide sociale zekerheid als in nazi-Duitsland. De liberale geallieerden waren zelfs zo beducht voor de bekoring van de nazi-welvaartsstaat bij de Europese bevolking dat ze zich gedurende de oorlog genoodzaakt zagen een op het Duitse voorbeeld geïnspireerde verzorgingsstaat te ontwerpen. Jacques van Doorn toont hiermee aan dat onze huidige sociale zekerheid ontstond uit het nationaal-socialisme.

Volgens de auteur faalde de Duitse sociaal-democratie dus vanwege haar grootste tekort: het onvermogen om nationalisme en socialisme te verzoenen. Dit gebrek belastte de Duitse sociaal-democratie vanaf haar ontstaan tot op heden: geen enkele Duitse partij huivert zo voor vlagvertoon en het uitdrukken van identitaire gevoelens als de SPD. Reeds in de jaren 1860 leidde dit tot een hevige tweestrijd tussen enerzijds de internationalisten Karl Marx en Friedrich Engels en anderzijds de ‘eerste nationaal-socialist’ Ferdinand Lassalle (1825-1864). Het Duitse socialisme ontstond trouwens bij de Pruisische staatssocialist Lassalle, die de eerste socialistische partij ter wereld oprichtte. Zijn vroege dood in 1864 zorgde er echter voor dat de strekking Marx-Engels de overhand kreeg. Toch schreef ook Lasalles opvolger Johann Baptist von Schweitzer (als voorzitter van de ADAV - een voorganger van de SPD) in het ADAV-tijdschrift Der Socialdemokrat nog regelmatig over nationalistische thema’s, zoals het goedkeuren van de annexatie van de Deense gebieden Sleeswijk en Holstein door Pruisen of het benoemen van Duitsers die niet participeerden aan de Frans-Duitse Oorlog als landverraders. Volgens hem bestond de Duitse macht “uit de Pruisische bajonet en de vuist van Duitse proletariërs”.
Binnen de sociaal-democratische partij - sinds 1890 heette die SPD - waren dergelijke bekentenissen echter omstreden. Nooit kon een verzoeningsformule gevonden worden voor dit permanente conflict tussen internationalisten en ‘nationalen’. De partij schipperde dan ook decennialang tussen de ene keer het ondersteunen en de andere keer het bestrijden van de regering inzake nationale belangen. Vanaf zijn ontstaan tot zijn ondergang in 1933 manifesteerde de SPD zich steeds weer als een tweeslachtige partij, die bovendien permanent werd veracht door ‘rechts’ en gewantrouwd door ‘links’.

Uit het onsamenhangende werk van Marx en Engels distilleerde hun politieke erfgenaam Karl Kautsky (1854-1938) een marxistische orthodoxie die weliswaar de SPD aaneensmeedde door een vast geloof, doch tegelijk de socialisten ook dwong zich tegenover Duitsland te blijven opstellen. In augustus 1914 waren ze echter door de tegenstelling tussen hun reformistische praktijk en hun revolutionaire programma niet tegen de nationalistische oorlogseuforie bestand, waardoor de SPD gedwongen werd in de Rijksdag voor de oorlogskredieten te stemmen. Veel partijleden bleken immers voorstander van oorlogsdeelname en wezen erop dat Duitsland het land was van organisatie en een paternalistische staat, terwijl ook de Duitse Kultur op een hoger niveau stond dan de liberale oppervlakkigheid van Engeland en Frankrijk. En hoewel het de historische taak van de SPD was in Duitsland het socialisme te verwezenlijken, een einde te stellen aan vergaande sociale mistoestanden en het ongebreidelde kapitalisme aan banden te leggen, mislukten de Duitse sociaal-democraten hierin tijdens de ongelukkige Novemberrevolutie van 1918, die dan ook door de Vrijkorpsen werd neergeslagen.

Hierdoor kregen ze tijdens de daaropvolgende Weimarrepubliek de schuld voor de verloren oorlog toegeschoven, terwijl de SPD tot overmaat van ramp door het marxisme van Kautsky niet voorbereid was om het land te besturen. Zo werden de door de sociaal-democraten decennialang beloofde economische hervormingen nauwelijks uitgevoerd. De SPD beperkte zich daarentegen tot het verdedigen van de in Duitsland onpopulaire liberale democratie. De partij faalde dus jammerlijk, wat van Doorn toeschrijft aan één tekort: de partij kon Duitsland niet vinden. Daarom zou de SPD ten onder gaan in de confrontatie met een partij die bewees dat het socialisme wél een unieke nationaal-bindende kracht kon zijn. Het nationaal-socialisme voltooide bijgevolg de geschiedenis van het Duitse socialisme door zich te identificeren met Duitsland. Om dat Duitse socialisme vervolgens te vernietigen door er de meest extreme consequenties aan te geven, die “zum Teufel führen”, zoals van Doorn schrijft.
Hoe groot de behoefte aan een synthese tussen socialisme en nationalisme was, bleek uit het enorme succes van de NSDAP in de loop van de jaren 1930, toen de omvang ervan veel groter bleek dan de SPD ooit gekend had. Maar anders dan de SPD stelde de NSDAP de Duitsers niet teleur: in 1951 noemde veertig procent der Duitsers de jaren 1930 de beste tijd die Duitsland ooit had gekend. Omdat het nazisme bijgevolg weinig weerwerk van de bevolking te vrezen had, telde de Gestapo in die jaren slechts 8.000 man (op ca. 80 miljoen inwoners). Ter vergelijking: het wérkelijk onpopulaire DDR-regime had 91.000 medewerkers - zonder de ca. 175.000 informanten! - nodig om een onwillige bevolking van 17 miljoen mensen in bedwang te houden. Het ontbreken van de dwang waarmee de regimes in de Sovjetunie en diens Midden-Europese satellietstaten zich moesten handhaven, wettigt volgens professor van Doorn zelfs “de vraag of het juist is nazi-Duitsland een totalitaire staat te noemen, en zelfs of het regime dat serieus beoogde te zijn”.

Zowel de marxistische klassenstrijd als de oude keizerlijke standenmaatschappij werden begraven en vervangen door een echte Volksgemeinschaft. Sociale en culturele ongelijkheid werd met kracht bestreden. Voortaan telden prestaties in plaats van geboorte of financiële status bij het toewijzen van posities in leger, partij, SS en maatschappij. De sociale mobiliteit nam aanzienlijk toe, terwijl tevens de samenleving opener werd, een ontwikkeling die na 1945 niet meer kon worden teruggedraaid. Het Derde Rijk, concludeert de auteur, was wel degelijk op weg naar een socialisme gezien de verregaande toename van sociale gelijkheid en emancipatie. De nazi’s slaagden erin een eind te maken aan de standenstaat en de diepe scheiding tussen burgerij en arbeiders, waartoe de SPD - ondanks zijn electorale successen - nooit in staat was geweest. Hierbij dient wel duidelijk gesteld te worden dat deze transformatie niet berustte op een wijziging van de economische structuur - zoals het marxistisch socialisme wou - maar wel op een sociaal-psychologisch veranderingsproces. Met andere woorden, de nazi’s socialiseerden niet de banken en fabrieken, maar “wir sozialisieren die Menschen”. Daarmee bewijst van Doorn dat het Duitse nationaal-socialisme wel degelijk als een socialisme moet worden beschouwd, daar het gaat om de gemeenschappelijke kern van alle vormen van socialisme: de kritiek op laissez-faire kapitalisme en traditionele sociale ongelijkheid.

Het algemeen aanvaarde beeld is dat de 20ste eeuw het strijdtoneel was tussen liberale democratie en de totalitarismen fascisme en communisme. Dit blijkt slechts geallieerde propaganda te zijn. In het interbellum kon de liberale democratie zich in Europa nauwelijks handhaven, vermits het geen antwoord had op de Grote Depressie en op de uitdaging van de nieuwe massacultuur. Het was juist de nationaal-socialistische verzorgingsstaat die een serieus alternatief organiseerde waar vasthouden aan het liberaal-kapitalisme tot massale werkloosheid en uitzichtloosheid leidde. De gruwelijke slotperiode van het Derde Rijk, met de barbarij van de Tweede Wereldoorlog, werd volgens van Doorn maar al te gemakkelijk gebruikt om dit onder de mat te vegen. Naast de New Deal, de Zweedse verzorgingsstaat en het plansocialisme was er daardoor nooit aandacht voor de succesvolle maatschappelijke ordening van Robert Ley, leider van het Deutsche Arbeitsfront. Als uitsmijter herinnert de auteur er ons tevens nog aan dat veel sociale wetgeving uit de nazitijd in Duitsland én in Nederland na de oorlog intact is gebleven.

Van Doorns boek laat een ontembare nieuwsgierigheid en een verfrissende onbevangenheid zien. Zijn uiteenzettingen zijn zeer helder, leesbaar en rijk aan weinig bekende, maar belangrijke feiten. Daarmee zal hij - zeker onder historici - geen vrienden maken. Maar dat zou de tijdens het schrijfproces reeds terminaal zieke en ondertussen overleden hoogleraar vermoedelijk niet veel kunnen schelen hebben.

Vbr. lic. hist. Filip Martens

vendredi, 27 mars 2009

Machiavelli's Stellingen over Staat en Politiek

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Machiavelli's Stellingen over Staat en Politiek

jeudi, 26 mars 2009

La figure du "Katechon" chez Carl Schmitt

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La figure du “Katechon” chez Schmitt

 

 

(intervention du Prof. Dr. Fabio Martelli - Université d'été de la FACE, 1995)

 

Dans sa Théologie politique (1922), la figure du katechon est celle qui, par son action politique ou par son exemple moral, arrête le flot du déclin, la satanisation totale de ce monde de l'en-deçà. Catholique intransigeant, lecteur attentif du “Nouveau Testament”, Schmitt construit sa propre notion du katechon au départ de la Deuxième Lettre aux Thessaloniciens de Paul de Tarse. Le Katechon est la force (un homme, un Etat, un peuple-hegemon) qui arrêtera la progression de l'Antéchrist. Schmitt valorise cette figure, au contraire de certains théologiens de la haute antiquité qui jugeaient que la figure du katechon était une figure négative parce qu'elle retardait l'avènement du Christ, qui devait survenir immédiatement après la victoire complète de l'Antéchrist. Schmitt fonde justement sa propre théologie civile, après avoir constaté cette différence entre les théologiens qui attendent, impatients, la catastrophe finale comme horizon de l'advenance de la parousie, d'une part, et, ceux qui, par le truchement d'une Theologia Civilis tirée en droite ligne de la pratique impériale romaine, veulent pérenniser le combat contre les forces du déclin à l'œuvre sur la Terre, sans trop se soucier de l'avènement de la parousie. Les sociétés humaines, politiques, perdent progressivement leurs valeurs sous l'effet d'une érosion constante. Le katechon travaille à gommer les effets de cette érosion. Il lutte contre le mal absolu, qui, aux yeux de Schmitt et des schmittiens, est l'anomie. Il restaure les valeurs, les maintient à bout de bras. Le Prof. Fabio Martelli a montré comment la notion de Katachon a varié au fil des réflexions schmittiennnes: il rappelle notamment qu'à l'époque de la “théologie de la libération”, si chère à certaines gauches, où un Dieu libérateur se substituait, ou tentait de se substituer, au Dieu protecteur du statu quo qu'il avait créé, Schmitt sautait au-dessus de ce clivage gauche/droite des années 60-70, et aussi au-dessus des langages à la mode, pour affirmer que les pays non-industrialisés (du tiers-monde) étaient en quelque sorte le katechon qui retenait l'anomie du monde industriel et du duopole USA/URSS. Finalement, Schmitt a été tenté de penser que le katechon n'existait pas encore, alors que l'anomie est bel et bien à l'œuvre dans le monde, mais que des “initiés” sont en train de forger une nouvelle Theologia Civilis, à l'écart des gesticulations des vecteurs du déclin. C'est de ces ateliers que surgira, un jour, le nouveau katechon historique, qui mènera une révolution anti-universaliste, contre ceux qui veulent à tout prix construire l'universalisme, arrêter le temps historique, biffer les valeurs, et sont, en ce sens, les serviteurs démoniaques et pervers de l'Antéchrist.

(résumé de Robert Steuckers; ce résumé ne donne qu'un reflet très incomplet de la densité remarquable de la conférence du Prof. Fabio Martelli, désormais Président de Synergies Européennes-Italie; le texte paraîtra in extenso dans  Vouloir).

 

 

mardi, 24 mars 2009

Figure du Partisan chez Schmitt, figures du rebelle et de l'anarque chez Jünger

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Figure du Partisan chez Schmitt, figures du rebelle et de l'anarque chez Jünger

 

 

(intervention d'Alessandra Colla - Université d'été de la FACE, 1995)

 

Les notions de rebelle ou d'anarque chez Jünger en impliquent une autre: celle du “recours aux forêts”. En recourant aux forêts, l'anarque (le rebelle) manifeste sa libre volonté de chercher lui-même sa propre voie et de se soustraire ainsi à la massification qui est le lot du plus grand nombre. Mais comment survivre dans le désert spirituel de cette massification? Dans Eumeswil, l'anarque, qui affine le concept de rebelle et le hisse à un niveau qualitatif supérieur, est l'homme qui veut affirmer sa propre liberté. Mais en dehors du système, avec ses propres moyens. Le rebelle, puis l'anarque, maintiennent leur propre identité, ils n'acceptent de jouer aucun rôle dans la société étouffante qu'ils cherchent à fuir. En revanche, ils cherchent leurs pairs, avec l'espoir ténu de former de nouvelles élites qui agiront directement sur les noyaux vitaux du système. Face à ces figures proches du rebelle et de l'anarque, le partisan de Schmitt est l'héritier des maquisards français, yougoslaves ou soviétiques de la deuxième guerre mondiale. Mais le partisan n'est pas en dehors de toute loi: il reçoit ses déterminations d'une instance extérieure à lui, sur laquelle il n'a aucune prise. Après son combat et en cas de victoire, le partisan se hisse au pouvoir et le rend aussi routinier qu'auparavant, donc aussi insupportable, aussi étouffant.

 

Débat: Le système produit des “décalés”, non des anarques, et peut se justifier par la présence même de ces “décalés”, prouver de la sorte qu'il n'est pas aussi totalitaire et étouffant qu'il n'en a l'air. Le “décalé” est celui qui se taille une toute petite sphère d'autonomie dans le système, sans en sortir, en profitant des avantages matériels qu'il offre: le “décalé” est donc un “Canada Dry” par rapport à l'anarque. Le marketing du système utilise l'atypisme formel du décalé, qui est ainsi parfaitement récupéré, sans le moindre heurt. L'anarque se caractérise par une discipline intérieure, par un travail en profondeur sur lui-même, qu'est incapable de parfaire le décalé.

 

(notes prises par Catherine Niclaisse).

mardi, 17 mars 2009

Visite chez Gianfranco Miglio (mai 1995)

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Visite chez Gianfranco Miglio (mai 1995)

Rapport rédigé par Robert Steuckers

 

- Le Prof. Miglio commence par un constat pessimiste: l'Europe, dit-il, semble avoir raté son rendez-vous avec l'histoire, avoir épuisé ses potentialités historiques. Les esprits politiques européens semblent dé­sormais incapables de créer des formes nouvelles. Au temps de la révolution française, on assistait en Europe à une véritable effervescence créatrice: les projets de constitution, les visions originales du poli­tique fusaient de toutes parts, en France comme en Allemagne. Puis, de la Restauration à nos jours, il n'y a plus eu que répétition des vieilles formules. Au temps où il donnait encore des cours, le Prof. Miglio rap­pelait toujours à ses étudiants que l'agencement des choses politiques se calquait sur l'organisation na­turelle de la famille. Idem pour les entreprises. Aujourd'hui, nous avons en face de nous le résultat de multiples transformations, qui nous ont sans cesse éloignés du “patron” familial. Tout bouge et virevolte à une vitesse de plus en plus accrue, sauf les modèles politiques qui restent immuables, bizarrement figés dans un monde extraordinairement kaléidoscopique.

 

- L'URSS, avant son effondrement, a représenté l'Etat moderne dans sa perfection conceptuelle. Mais ce modèle d'Etat a éclaté parce qu'il ne correspondait plus aux impératifs du monde actuel (cf. François Furet). L'Etat moderne n'est plus possible parce qu'il est anachronique: voilà la grande leçon de l'effondrement soviétique. Le problème que nous devons résoudre? Dépasser les legs de cet Etat mo­derne, dépasser les pulsions idéologiques qui ont conduit à l'étatisme soviétique, pour construire une forme d'Etat reposant sur des concepts diamétralement opposés. Au lieu de l'Etat central et homologuant de mouture jacobine ou soviétique, nous devons penser et mettre sur pied l'Etat fédéral qui n'annule pas les forces à l'œuvre spontanément et naturellement dans les sociétés mais les fédère et les réconcilie, pour en extraire toutes les dynamiques positives.

 

- Parallèlement à l'effondrement soviétique, nous assistons à l'enlisement du parlementarisme, dans sa forme la plus conventionnelle. En Italie, cette forme politique est désormais dépassée. Les débordements de la partitocratie italienne sont une illustration éclatante de cet état de choses. Mafias et circuits paral­lèles se sont emparés de la machine politique et ont détaché l'Italie de la tradition européenne. La partito­cratie, telle que l'Italie la connait, est l'état final, l'état décadent, du parlementarisme. Comment court-cir­cuiter ce processus involutif? En ancrant territorialement les partis. En Italie, le Nord est fédéraliste, le Centre est résolument à gauche (PDS), le Sud est à droite (AN). Ces trois régions doivent former des “cantons”, organisés selon les idéologies dominantes au sein de leur population respective.

 

- La “cantonalisation” de l'Italie ne sera pas une chose facile. Certes, il faut obliger les partis à s'ancrer sur un territoire et à abandonner la prétention de vouloir gérer l'ensemble de la péninsule italique, y com­pris les régions où ils demeurent minoritaires. Selon mon projet, nous aurions des majorités confortables, bien profilées, dans chaque canton, sans que nous n'ayions à recourir à des coalitions fragiles et boî­teuses. Or, dans l'Italie centralisée actuelle, on ne peut dégager aucune majorité claire: il faut des coali­tions, qui sont négociées et renégociées à l'infini, qui reposent sur des compromis qui ne résolvent rien. Au dessus des cantons, je prévois un exécutif sous la forme d'un Directoire de cinq ou six membres, avec un gouverneur du Sud animé par une idéologie de droite, un gouverneur du Centre dont le cœur est à gauche et un gouverneur du Nord fédéraliste. C'est dans le cadre du Directoire que les partis devront né­gocier la politique fédérale de l'Italie toute entière, sans que les habitants des régions n'aient à subir les effets pervers des coalitions et des compromis.

 

- Prenons l'exemple de la France de De Gaulle. Ce dernier n'est pas tombé après 68 parce que les Français ont refusé le fédéralisme dans la mouture qu'il avait imaginé. De Gaulle est tombé parce que le personnel politique craignait qu'il ne jugule définitivement le poids excessif du Parlement des politiciens (De Gaulle voulait un Parlement des partis, des régions et des professions, du moins au niveau du Sénat). Son projet constitutionnel visait à réduire l'importance des partis dans la vie politique, car, tout en se ré­clamant d'une idéologie “moderne”, ils finissent par tuer l'Etat moderne, l'enserrent et l'étouffent dans des réseaux idéologico-financiers qui constituent, tous ensemble, une sorte de totalitarisme mou et bien ca­mouflé.

 

- Je préfère parler de fédéralisme que de subsidiarité. En effet, même si l'on a tendance à confondre de bonne foi ces deux notions dans l'Europe d'aujourd'hui, elles sont sémantiquement différentes: le fédéra­lisme cherche à maintenir les autonomies et à fédérer leurs forces; le principe de subsidiarité recèle un risque: il délègue à des échelons supérieurs ce que les échelons inférieurs sont incapables de réaliser par leurs propres forces. Dans la pratique de la délégation, on peut, inconsciemment, reconstruire un Etat central qui garde plus ou moins un aspect décentralisé, une façade pseudo-fédéraliste. La subsidiarité implique une hiérarchie des compétences qui peut rapidement redevenir contraignante: les Etats-Unis, l'Australie, etc. présentent des fédéralismes subsidiaires qui mettent en fin de compte au pas les multi­ples dif­férences qui sont à l'œuvre dans la société. Les traditions historiques et les spécificités régio­na­les ou ethniques ne survivent nullement dans un fédéralisme de ce type. Et cela, c'est un appauvris­se­ment. Ce fédéralisme subsidiaire reconstruit donc un Etat unitaire, consolide un pouvoir qui converge vers le haut et réclame une allégence très forte. La subsidiarité risque de reconstituer une pyramide des pou­voirs. Le fédéralisme pur, lui, recherche le consensus. Pour lui, la majorité doit résulter du consensus à la base. Les fédéralismes américain et ouest-allemand (= fédéralisme coopératif) permettent une pré­pon­dérance du niveau fédéral (c'est-à-dire le sommet de la hiérarchie générée par la subsidiarité) sur les ni­veaux in­termédiaires (états, Länder), voire une intervention du fédéral contre l'Etat ou le Land, au profit du local. Le fédéralisme de Gianfranco Miglio est plus soucieux de l'autonomie administrative.

 

- L'Etat moderne prétend être souverain: en réalité, il négocie sans arrêt et multiplie les compromis. La constitution fédérale, que le Prof. Miglio appelle de ses vœux, devra formaliser les rapports de forces qui existent dans la réalité. Le personnage-clef dans le système fédéral de Gianfranco Miglio est le Président fédéral. En Suisse, le vrai Président est en fait le premier conseiller (du Bundesrat), car il en a les capaci­tés et parfois le charisme. En Italie, les constitutionnalistes doivent imaginer un Président de la fédération qui soit élu directement mais où le pouvoir appartient de fait au Conseil (ou “Directoire”).

 

- Quand une région a l'impression de payer plus que sa part, elle demande automatiquement une constitu­tion fédérale. C'est un enseignement de l'histoire qui se vérifie très souvent. Les peuples tolèrent mal les formes de parasitisme. Karl Marx a eu raison de démontrer que certaines classes sociales vivaient aux crochets des autres: les capitalistes de l'imaginaire communiste parasitent les classes populaires. Ce constat, dont on ne peut nier la validité, a fait la force du marxisme. La leçon générale à tirer de ce constat marxien, c'est que tout système politique doit veiller à installer des signaux d'alarme pour prévenir toute consolidation des tendances au parasitisme. La quintessence du fédéralisme, qui attribue à chacun son dû et rien que son dû, c'est l'hostilité au parasitisme. La grande tâche de la science politique de demain, ce sera d'énoncer une théorie générale des rapports parasitaires.

 

- Les grands Etats modernes unifiés n'ont pas connu de processus d'unification paritaire. L'Italie, qui est un pays composite et pluriel, existe en tant qu'Etat unitaire parce que l'armée piémontaise a forgé cette unité manu militari au 19ième siècle. L'Allemagne est le produit de la Prusse et de son armée. C'est aussi le Nord qui a fait l'unité germanique, avec ses généraux et ses économistes, qui ont organisé d'abord une Zollunion. L'avenir de l'Europe est germanique. L'économie allemande est le moteur de notre continent. L'habilité des diplo­mates et des politiciens français et britanniques a essayé, tout au long de ce siècle, d'isoler et d'étouffer l'Allemagne, de la couper en deux. Tous ces efforts se sont soldés par un échec. La puissance allemande est invincible, en dépit des défaites militaires. Français et Britanniques ont eu la consolation de la vic­toire. Dans les faits, c'est l'Allemagne qui n'a cessé de s'imposer. Mais les Allemands ont appris à modé­rer leurs enthousiasmes, à réduire une certaine arrogance qui les avait tant desservis. L'Allemagne ne cherche plus à profiter vite de ses atouts. Elle a acquis les vertus de la patience. Elle écoute. Elle attend. Face à l'Italie, elle ne cherche pas à profiter de la volonté d'autonomie et de la germanophilie du Nord. Les Allemands souhaitent, dans le fond, que l'Italie reste unie et faible. Ils préfèrent malgré tout maintenir les classes politiciennes parasitaires du Sud, car le potentiel de l'Italie du Nord est énorme et risque de leur porter ombrage. Un Nord détaché du reste de l'Italie serait comme un Japon accroché au Sud de l'Europe. L'Allemagne n'est pas encore capable de gérer une telle situation. Avec les Anglais, les Etats-Unis sont les pires ennemis de l'unification européenne. Ils feront tout pour la freiner. Un jour, dans un cours que le Prof. Miglio donnait à l'Institut Hopkins à Florence, il a dit que le monde aurait été bien différent si les Sudistes (les Confédérés) avaient gagné la Guerre de Sécession. Ils n'auraient pas eu la force d'unir le continent nord-américain et nous aurions eu aujourd'hui, là-bas, une mosaïque d'Etats sans danger pour l'Europe: une Union (le Nord), une Confédération, un Texas et une Californie indépendants, un Alaska russe, un Canada britannique et peut-être un Québec indépendant fortement lié à la France. Ces Etats n'auraient pas pu intervenir aux côtés des Anglais et des Français en 1917, ce qui aurait éliminé définitivement l'ingérence de ces deux puissances anti-européennes à l'Ouest du Continent. Guillaume II aurait réalisé son plan d'unification européenne, suggéré au début du siècle, y compris à la France et nous n'aurions pas dû subir le bolchévisme, le fascisme et le nazisme. L'Europe n'aurait connu qu'une variante centre-européenne de démocratie, n'aurait pas subi les parenthèses tota­li­taires ni l'effroyable saignée de 39-45.

 

- Sur le plan macro-économique, les pôles importants de l'Europe contemporaine sont l'Allemagne, la France (surtout ses régions de l'Est), la Catalogne et l'Italie du Nord. Une articulation économique entreces pôles actifs et dynamiques existe d'ores et déjà. Il faut lui adjoindre une articulation militaire. L'expansion économique et pacifique allemande repren­dra son cours naturel le long de l'axe fluvial danu­bien.

lundi, 16 mars 2009

W. Sombart: Perché negli Stati Uniti non c'è il socialismo

Werner Sombart

Il libro della settimana: Werner Sombart, Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo

di Carlo Gambescia

Leggere un libro di Werner Sombart è come degustare quei vini, che più invecchiano più si fanno apprezzare. E’ perciò sicuramente meritoria l’idea di ripubblicare Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo? ( Bruno Mondadori, Milano 2006, pp. XXXVIII-153, euro 15,00, con prefazione di Guido Martinotti e traduzione dal tedesco di Giuliano Geri, entrambe nuove di zecca).

Quando uscì per la prima volta in Italia nel 1975 (Edizioni Etas), con una prefazione di Alessandro Cavalli, ci si interrogava ancora positivamente sulle potenzialità del socialismo nel mondo, e in particolare, sulla “anomalia americana”. Un questione che aveva così incuriosito Sombart, reduce nel 1905 da un viaggio negli Stati Uniti, fino al punto di scrivervi sopra un libro, uscito nel 1906.

Se le date, e soprattutto le accelerazioni della storia, hanno un senso, si può dire, che quello che è accaduto tra il 1905 (anno della prima rivoluzione russa) e il 1975 (anno in cui gli Stati Uniti escono, e con le ossa rotte, dalla guerra vietnamita), non è ancora niente rispetto a quel che accadrà tra 1976 e il 2006: dalla caduta del comunismo all’ascesa degli Stati Uniti a unica potenza mondiale.

Perciò se oggi Sombart miracolosamente tornasse in vita non potrebbe più considerare il socialismo, come una specie di orizzonte obbligato: come il naturale prolungamento del capitalismo. Perciò la sua domanda non potrebbe più essere la stessa: perché non c’è il socialismo negli Stati Uniti, dal momento che non c’è più socialismo nel resto del mondo…
In tal senso, mentre trent’anni fa, il testo sombartiano doveva essere letto avidamente dal socialista “inquieto” per tracciare il rapido identikit, di un capitalismo pericoloso, ma comunque battibile, oggi lo stesso libro deve essere divorato dal capitalista “quieto”, sicuro di sé, perché vittorioso. E che come Narciso, gode immensamente, nel guardarsi allo specchio, fornitogli un secolo fa da Sombart.

Insomma, il grande sociologo tedesco - di qui la classicità del suo studio - ci spiega, in modo indiretto, perché il capitalismo ha vinto… Anche se, si può aggiungere, per il famoso principio delle accelerazioni storiche di cui sopra, solo per il momento…
Ma veniamo al libro.

Per Sombart il capitalismo americano è una specie di spugna, capace di assorbire le menti di uomini e donne di ogni razza e cultura. In che modo? Dando a tutti la possibilità di arricchirsi. Detta così l’affermazione sombartiana può sembrare banale. Ma si deve prestare attenzione all’idea di “possibilità” : nel senso dell’essere possibile che una cosa avvenga. Ma anche, proprio perché si tratta di una possibilità, che un certa cosa non avvenga. Di più: il continuare a credervi, anche dopo un certo numero di fallimenti personali, implica una fede nel successo quasi religiosa.

Ma ascoltiamo Sombart: “Se il successo è il dio davanti al quale l’americano recita le sue preghiere, allora la sua massima aspirazione sarà quella di condurre una vita gradita al suo dio. Così, in ogni americano - a cominciare dallo strillone che vende i giornali per strada - cogliamo un’irrequietezza, una brama e una smaniosa proiezione verso l’alto e al di sopra degli altri. Non è il piacere di godere appieno della vita, non è la bella armonia di una personalità equilibrata possono dunque essere l’ideale di vita dell’americano, piuttosto questo continuo ‘andare avanti’. E di conseguenza la foga, l’incessante aspirazione, la sfrenata concorrenza in ogni campo. Infatti, quando un individuo insegue il successo deve costantemente tendere al superamento degli altri; inizia così una steeple chase, una corsa a ostacoli (…). Questa psicologia agonistica genera al suo interno il bisogno di totale libertà di movimento. Non si può individuare nella gara il proprio ideale di vita e desiderare di avere mani e piedi legati: L’esigenza del laissez faire fa parte perciò di quei dogmi o massime che (…) si incontrano inevitabilmente ‘quando si scava in profondità nello spirito del popolo americano’ ” (p. 17).

Ovviamente, Sombart colloca queste costanti psicologiche e culturali nell’alveo di una società ricca di risorse naturali lontana anni luce dal feudalesimo europeo, e le cui élite sono almeno formalmente aperte a tutti. Una società, ricca e libera, dove ogni rapporto economico e politico è affrontato in termini di interessi individuali e mai di classe. Da questo punto di vista sono molto interessanti e attuali le pagine dedicate alla posizione politica, sociale ed economica dell’operaio americano, il cui tenore di vita, già a quei tempi, nota Sombart, “lo rend[e] più simile al nostro ceto medio borghese, anziché al nostro ceto operaio” (p. 125).

Come del resto è significativo quel che viene osservato a proposito dell’appartenenza politica ai due grandi partiti “tradizionali”, il repubblicano e il democratico. Scrive Sombart: “ La natura e le caratteristiche dei grandi partiti (…), tanto la loro organizzazione esterna, quanto la loro assenza di principi, quanto ancora la loro panmixie sociale (…) influenzano nettamente le relazioni tra i partiti tradizionali e il proletariato. Innanzitutto nel senso che agevolano oltremodo l’appartenenza del proletariato a quei partiti tradizionali. Perché in essi non va vista un’organizzazione classista, un organismo che antepone specifici interessi di classe, ma un’associazione sostanzialmente indifferente che persegue fini condivisibili anche, come abbiamo potuto vedere, dai rappresentanti del proletariato (la caccia alle cariche pubbliche!)” (p. 69).

E lo stesso discorso, può essere esteso ai sindacati e alle associazioni professionali, dal momento, nota Sombart, che “ mentre da noi [in Germania] gli individui migliori e più dinamici finiscono in politica, in America, i migliori e più dinamici si dedicano alla sfera economica e nella stessa massa prevale, per la medesima ragione, una “supervalutazione dell’elemento economico: perché è seguendo questo principio che si pensa di poter raggiungere in forma piena l’obiettivo al quale si aspira”: il successo sociale. Non c’è alcun Paese, conclude Sombart, “nel quale il godimento del frutto capitalistico da parte della popolazione sia così diffuso” (p. 18).

Perciò, una volta chiuso il libro, non possono non essere chiare le ragioni della vittoria del capitalismo made in Usa su quasi tutti i fronti: ideologia del successo e individualismo concorrenziale, ma anche “fame” di consumi sociali. Curioso, su quest’ultimo punto, il vezzoso ritratto sombartiano delle operaie americane dell’epoca: “Qui l’abbigliamento, in particolare tra le ragazze, diventa semplicemente elegante: in più di una fabbrica ho visto operaie in camicette chiare, addirittura di seta bianca; quasi mai si recano in fabbrica senza il cappello” (p.126).

Siamo davanti all’ idealizzazione del capitalismo americano? Un Sombart che come Gozzano sembra rinascere non nel 1850 ma nel 1905… Non tanto, se pensiamo alle segrete cure che oggi hanno nel vestire, le impiegate e le operaie. Il modello non è più solo americano.

Allora, tutto bene quel che finisce bene? Sombart, nonostante tutto, pensava che il socialismo (magari in veste socialdemocratica) si sarebbe comunque imposto anche negli Stati Uniti. Soprattutto una volta spariti “gli spazi aperti”, come disponibilità di terre libere (il Grande Ovest), sui quali far sciamare, come liberi agricoltori, i “soldati-operai” dell’ “esercito industriale di riserva”. Infatti, secondo il sociologo tedesco, la “consapevolezza di poter diventare in qualsiasi momento un libero agricoltore” riusciva a trasformare “da attiva in passiva ogni opposizione emergente a questo sistema economico”, troncando “sul nascere ogni agitazione anticapitalistica” (p.151).

Tuttavia le terre libere sono state occupate, e il capitalismo Usa è ancora lì, più forte che mai. A meno che l’attuale frontiera americana in realtà non racchiuda ben più vasti territori. E che perciò la crescente espansione economica degli Stati Uniti (gli alti tassi di sviluppo e l’elevato tenore di vita dei suoi ceti medi) sia attualmente pagata in dollari sonanti dai paesi più deboli politicamente, ma ricchi di risorse naturali. Si pensi all’America Latina, e alle cosiddette economie “dollarodipendenti”.
Se così fosse, l’ ottimo vino sombartiano avrebbe un retrogusto amarognolo.

Fonte: http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/


Article printed from Altermedia Italia: http://it.altermedia.info

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Neue Bücher über Werner Sombart

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Werner Sombart

Jürgen Backhaus (Hg.)

Werner Sombart (1863-1941) - Klassiker der Sozialwissenschaften

271 Seiten · 26,80 EUR
ISBN 3-89518-275-3 (Juli 2000)

 
 

Beschreibung

Ein halbes Jahrhundert nach seinem Tod erwacht ein neues und reges Interesse am wissenschaftlichen Werk des Nationalökonomen und Soziologen, ganz allgemein aber umfassend und integrierend arbeitenden Sozialwissenschaftlers Werner Sombart (1863-1943). Sogar ein regelrechter Historikerstreit hat sich kürzlich an seiner Person entzündet. Dieser Band wendet sich ausdrücklich an das deutsche Publikum, weil Sombarts Werk vor allem im deutschen Sprachraum immer wieder aufgelegt wird - daneben ist sein Werk auch in Japan in aktuellen Ausgaben präsent. Sombart ist nicht nur Volks- und Sozialwirt, sondern auch Stillist, und sein Werk hat insofern nicht nur literarische Qualität, sondern entfaltet seine Bedeutung auch insbesondere in modernen Entwicklungen in den Wirtschafts- und Sozialwissenschaften, insbesondere seit dem Zusammenbruch der staatssozialistischen Systeme und nachdem die Suche nach neuen Formen der Wirtschaftsgestaltung Sombarts Fragen wieder hat aktuell werden lassen.

Inhalt

Jürgen Backhaus
Vorwort
Helge Peukert
Werner Sombart
Wolfgang Drechsler
Zu Werner Sombarts Theorie der Soziologie und zur Betrachtung seiner Biographie
Manfred Prisching
Unternehmer und kapitalistischer Geist. Sombart psychohistorische Studie
Oskar Kurer
Die Rolle des Staates für die wirtschaftliche Entwicklung
Friedrich Lenger
Marx, das Handwerk und die erste Auflage des Modernen Kapitalismus
Karl-Heinz Schmidt
Sombarts Bevölkerungstheorie
Horst K. Betz
Sombarts Theorie der Stadt
Fritz Reheis
Zurück zum Gottesgnadentum. Werner Sombarts Kompromiß mit dem Nationalsozialismus
Shigenari Kanamori
Die Ähnlichkeiten der Ansichten von Werner Sombart und Ekiken Kaibara auf dem Gebiet der Gesundheitswirtschaft

Michael Appel

Werner Sombart

Historiker und Theoretiker des modernen Kapitalismus

339 Seiten · 24,80 EUR
ISBN 3-926570-49-0 (August 1992)

Beschreibung

Sein Werk werde Generationen überdauern, so prophezeiten die Zeitgenossen die Wirkung des großen deutschen Wirtschaftshistorikers Werner Sombart. Tatsächlich beschäftigen sich noch heute Historiker und Wirtschaftswissenschaftler mit Sombarts epocheübergreifendem Werk zur Geschichte des modernen Kapitalismus. Liebe, Luxus, Krieg, Religionen, Bevölkerungsexplosion und Unternehmenseliten - sie alle haben Platz in Sombarts umfassender Enzyklopädie von den Entstehungsursachen des Kapitalismus seit dem Mittelalter.

Die Deutungen von Werner Sombart sind aktuell und heute noch eine Quelle der Inspiration. Zu Lebzeiten war er der bekannteste und meistgelesenste Wirtschafts- und Sozialwissenschaftler und noch heute erleben viele seiner Werke Neuausgaben in hoher Auflage. Dennoch gab es bislang keine werkgeschichtliche Interpretation von Sombarts sechsbändigem Hauptwerk Der moderne Kapitalismus. Erst die Arbeit von Michael Appel bietet die Geschichte der Auseinandersetzungen und wissenschaftlichen Durchbrüche, die mit der Diskussion um Sombarts Deutung des Kapitalismus einhergingen.

"Im Mittelpunkt von Appels Darstellung steht Sombarts fraglos bedeutendstes Werk 'Der moderne Kapitalismus', an welchem sich die intellektuelle Entwicklung seines Verfassers ebenso wie die Besonderheiten der deutschen Nationalökonomie vorzüglich demonstrieren lassen. ... Große Teile von Appels Buch beschäftigen sich letztlich mit der Frage, worin die gedanklichen Wurzeln des 'Sonderweges' liegen, den die deutsche Nationalökonomie in der Zwischenkriegszeit einschlug. Die Ablehnung des Marktmechanismus als Vergesellschaftungszusammenhang und seine tendenzielle Ersetzung durch eine organismusanaloge Gemeinschaft ist für viele Autoren dieser Zeit charakteristisch ... Auch Sombart war von einer solchen anti-marktwirtschaftlichen Haltung geprägt. Appels Buch zeigt in eindrucksvoller Weise die geistesgeschichtlichen Zusammenhänge dieser Orientierung auf."

(Günther Chaloupek in Wirtschaft und Gesellschaft, Heft 2, 1994)

dem Verlag bekannte Rezensionen (Auszüge)

Soziologische Revue, 1995, S. 573-574 (Markus C. Pohlmann)  [ nach oben ]

"Es ist ein gelungenes Stück Arbeit, mit dem uns der Autor zu einer Rückbesinnung auf grundlegende Diskussionen bei der Herausbildung der Soziologie, insbesondere der Wirtschaftssoziologie, einlädt. Er entführt uns nochmals in die für die Soziologie so wichtigen ersten Jahrzehnte nach der Jahrhundertwende, stetig einen Denker umkreisend, den diese nur schwer in den Kanon der Fachausbildung integriert hat. Werner Sombart hat eine der prominentesten Fragestellungen der Soziologie zusammen mit Karl Marx und Max Weber aus der Taufe gehoben. Eine Fragestellung, die auch heute noch von höchster Aktualität und Brisanz ist: Wie und warum welche Paradigmen des Wirtschaftens in bestimmten Gesellschaftsformationen entstehen und wie, mit welchen Geschwindigkeiten und Modifikationen sie sich in welchen Wirtschaftsräumen verbreiten und helfen, die 'mächtigen Kosmen' der Wirtschaftsordnungen zu erbauen, die den Lebensstil aller Einzelnen mit 'überwältigendem Zwange' bestimmen (Weber). Auch wenn das Webersche Pathos an dieser Stelle berühmt ist: Werner Sombart begründete diese Fragestellung in entscheidender Weise und vergessen ist häufig, wie stark Weber von Sombart beeinflußt wurde. Sombart etablierte den Begriff des 'Kapitalismus' und half mit, die genuine Leistung der Soziologie gegenüber den Geschichts- und Staatswissenschaften sichtbar zu machen. Dies herausgearbeitet und die weit verzweigten Diskussionen um Sombarts zentrale Werke, insbesondere der ersten und zweiten Fassung von 'Der moderne Kapitalismus' ausführlich dargestellt zu haben, ist das große Verdienst des Buches von Michael Appel. Appel fängt diese Diskussionen bis in die 40er Jahre hinein in hervorragender Weise ein und gibt einen schmalen Ausblick auf die Diskussionen nach dem zweiten Weltkrieg.

Nach dem sehr kurz gehaltenen Versuch einer 'intellektuellen Biographie' widmet sich Appel unter unterschiedlichen thematischen Schwerpunkten der Entstehungs- aber vor allem der Wirkungsgeschichte von Sombarts Werk. ...Er arbeitet den in Abgrenzung von Marx wichtigen Sombartschen Bezugspunkt auf die Motive der wirtschaftlich handelnden Menschen als Entscheidungszentren heraus (31), aber auch seine Anlehnung an Marx in der historischen Beurteilung des Verwertungsstrebens des Kapitals als 'letzte Ursache' der wirtschaftlichen Entwicklung (34). Er stellt Sombarts Geworfenheit in die Zeit dar, deren unterschiedlichen Strömungen der historischen Schule, des Marxismus, des Sozialismus, des Kulturpessimismus seine Positionen durch Einbezug und Abgrenzung mitbestimmten. Er zeigt seine Begegnungen und Auseinandersetzungen, seine Rezeption und seine Wirkungen bei so bekannten 'Zeitgeistern' wie Georg von Below, Lujo Brentano, Karl Bücher, Alphons Dopsch, Otto Hintze, John Maynard Keynes, Karl Korsch, Rosa Luxemburg, Friedrich Naumann, Max Scheler, Gustav Schmoller, Joseph Alois Schumpeter, Ferdinand Tönnies, Thorstein Veblen, Max Weber - um nur einige zu nennen - auf. Hier läßt Appels Buch nur noch wenig zu wünschen übrig. Spannend und neue Perspektiven aufzeigend ist vor allem das Kapitel über den Sonderweg der Kapitalismustheorie nach 1919 (217ff.), in dem gezeigt wird, wie sich Sombarts Position einer 'antimodernen, idealistischen Grundeinstellung' herausbildet und Anklang findet, wie dem 'Spätkapitalismus' sein letztes Glöcklein geläutet wird (228ff.), Sombarts Perspektive der 'autarkistischen Planwirtschaft' aufscheint und seine 'nationale, antiliberale Gesinnung' von den Nationalsozialisten dann doch nicht vorbehaltlos goutiert wird.

In diesem und in anderen Kapiteln demonstriert Appel seine Stärken und Schwächen zugleich: Er schreibt in fruchtbarer und spannender Weise Literaturgeschichte, aber weniger Soziologiegeschichte und noch weniger betreibt er Soziologie." ...



Vierteljahrsschrift für Sozial- und Wirtschaftsgeschichte, 4/1993, S. 539-540 (Karl Heinrich Kaufhold)  [ nach oben ]

"Wemer Sombart, lange Zeit wenig beachtet und von der Forschung allenfalls selektiv wahrgenommen, erfreut sich seit einigen Jahren wieder zunehmender Aufmerksamkeit. Doch fehlte der Diskussion bisher eine Grundlage in Form eines Überblicks über sein ausgedehntes Werk, dessen Rezeption und über die wissenschafts- wie zeithistorischen Zusammenhänge, in denen es sich bewegte und diskutiert wurde. Das Buch von Michael Appel schließt diese Lücke in einer knappen, doch eindrucksvollen und überzeugenden Form.

A. stellt in den Mittelpunkt seiner 'intellektuellen Biographie' mit Recht Sombarts Hauptwerk 'Der modeme Kapitalismus' in den beiden Fassungen von 1902 und 1916/27; er übersieht aber darüber die frühen Arbeiten der 1890er Jahre sowie die späten Studien nicht. Die beiden Hauptprobleme einer Beschäftigung mit Sombart, nämlich den Wandel seiner Grundposition von einem revisionistischen Marxismus hin zu einer antikapitalistischen 'Metaphysik des Seins" und die überaus widersprüchliche Rezeption seiner Arbeiten durch Nationalökonomen, Soziologen und Historiker, treten dabei deutlich hervor und werden in ihren verschiedenen Aspekten diskutiert. A. macht deutlich, wie konsequent Sombarts geistige Entwicklung in Auseinandersetzung mit jeweils bestimmenden Strömungen seiner Zeit verlaufen ist, doch auch, daß er ungeachtet solcher Wandlungen in bestimmten Grundauffassungen sich treu blieb.

Ein knappes Resümee zu ziehen, verbietet sich von Sombarts Werk, doch auch von der diesem gerecht werdenden Weise her, in der es hier geschildert wird: Jede Vereinfachung vergröbert, ja verfälscht. Hervorzuheben sind aber die im ganzen treffende Würdigung der jüngeren historischen Schule und die feinfühlige Art, mit der Sombart in diese eingeordnet wird (hinsichtlich Schmoller finden sich allerdings einige kleinere Mißverständnisse). Das Buch kann jedem empfohlen werden, der sich über das Werk Sombarts und dessen Wirkungen bis an die Schwelle der Gegenwart in Zuspruch und Widerspruch zum wechselnden 'Zeitgeist' informieren will."



Wirtschaft und Gesellschaft, 2/1994, S. 314-319 (Günther Chaloupek)  [ nach oben ]

"Im Mittelpunkt von Appels Darstellung steht Sombarts fraglos bedeutendstes Werk 'Der moderne Kapitalismus', an welchem sich die intellektuelle Entwicklung seines Verfassers ebenso wie die Besonderheiten der deutschen Nationalökonomie vorzüglich demonstrieren lassen. ... Große Teile von Appels Buch beschäftigen sich letztlich mit der Frage, worin die gedanklichen Wurzeln des 'Sonderweges' liegen, den die deutsche Nationalökonomie in der Zwischenkriegszeit einschlug. Die Ablehnung des Marktmechanismus als Vergesellschaftungszusammenhang und seine tendenzielle Ersetzung durch eine organismusanaloge Gemeinschaft ist für viele Autoren dieser Zeit charakteristisch ... Auch Sombart war von einer solchen anti-marktwirtschaftlichen Haltung geprägt. Appels Buch zeigt in eindrucksvoller Weise die geistesgeschichtlichen Zusammenhänge dieser Orientierung auf."

dimanche, 15 mars 2009

L'économique: réflexions du Prof. Julien Freund

L'économique: réflexions du Professeur Julien Freund

 

Le terme “économie” désigna, pendant des temps immémoriaux, «tout ensemble d'éléments organisé en vue d'un résultat harmonieux» (1), accompagné de l'idée que cette économie atteint sa perfection par... l'économie des moyens. D'où l'ambigüité soulignée par l'historien Jean-Claude Perrot, entre l'administrateur et le “grippe-sous”. Lorsque Montchrétien emploie le titre “Traité de l'économie politique” en 1615, il accole pour la première fois des termes traditionnellement isolés. Le vocabulaire reste cependant limité jusqu'au XVIIIième siècle où commencent les grands débats sur le luxe, la population, le commerce, l'impôt, l'équilibre de la balance.

 

Montchrétien trace un domaine qui définit l'économie “en extansion”. Partant de la production domestique et de la division du travail, l'économie politique traite du commerce et des échanges internationaux, des biens et services et de la monnaie, propose des règles de politique économique. Depuis, on aborde l'économie à partir des divers actes ou opérations qui constituent l'objet de sa recherche. L'activité économique d'une société se définit par l'ensemble des opérations par lesquelles ses membres produisent, répartissent, consomment des biens et des services.

 

L'approche “en extension” soulève trois remarques:

- On emploie le terme “extension” pour souligner que l'économie est présentée à partir d'un domaine d'activités particulières: actes de production, répartition, consommation, énumérés dans un ordre correspondant à une certaine logique.

- Les activités économiques sont liées aux autres activités sociales. Toute activité sociale implique l'échange et l'usage de biens et de services. En ce sens, chacune relève, pour partie, de l'analyse économique.

- La définition oriente vers une réflexion sur les seules activités. Elle demeure insuffisante.

 

Une définition alternative, “en compréhension”, présente l'histoire de l'activité économique comme celle d'une lutte contre les conditions naturelles et la rareté des biens et services. L'objet de l'économie politique est d'expliquer la manière dont les hommes organisent leurs efforts en vue de satsifaire leurs besoins individuels et collectifs. Selon cette définition, trois notions sont à prendre en considération: l'effort et le travail organisé; les besoins; la lutte contre la rareté. On se heurte ici à deux limites:

- L'obligation de rejeter dans les ténèbres la macroéconomie keynésienne et l'œuvre de Marx. La première traite de l'emploi du facteur travail en situation d'excédent: les chômeurs. La seconde, “critique de l'économie politique”, accuse celle-ci d'être l'idéologie d'un système socio-économique. Thème que Necker avait déjà abordé dans son traité Sur la législation et le commerce des grains où il notait: «Il n'est que trop fréquent de voir confondre l'intérêt des propriétaires avec celui de l'agriculture... l'intérêt des négociants avec celui du commerce... autant d'objets qu'il est nécessaire de distinguer... Les propriétaires, de très bonne foi, célèbrent au nom du bien public toutes les lois qui ne sont faites que pour eux... Il est des libertés derrière lesquelles est placé l'esclavage de la multitude (2)».

 

- La légitimité sociale de certains désirs et de préférences particulières est posée explicitement par la notion de besoin. Un vêtement est simultanément une protection contre les intempéries, un élément de pudeur (ou d'impudeur), un signe de statut social, un outil d'ostentation, un matériau d'esthétique, etc. Un code culturel en précise l'usage, en sorte que les besoins sont imbriqués à une perception plus vaste de la place d'une personne dans la société.

 

Le domaine économique est donc difficile à définir. De grands auteurs, tels Schumpeter dans son Histoire de l'analyse économique, préfèrent, admettre d'emblée l'existence de phénomènes économiques, sans les circonscrire. La comparaison des sociétés dans le temps et dans l'espace sera toujours difficile, car s'il existe obligatoirement un aspect économique dans chaque société, il ne commence ni ne finit au même niveau.

 

Les obstacles rencontrés dans la recherche d'une définition suggèrent d'aborder la question sous un autre angle: une conceptualisation aussi rigoureuse que possible. Par là, nous entendons qu'il faut dégager le concept d'économie de tout emploi où il pourrait subsumer des éléments contradictoires. Une présentation sémantique très claire est proposée par Julien Freund dans le cadre de la théorie des essences et des dialectiques qui s'efforce de caractériser les activités humaines sur la base de leurs implications intrinsèques.

 

L'ESSENCE DE L'ÉCONOMIQUE (3)

 

Existe-t-il des critères permettant de repérer l'économique dans n'importe quelle société, indépendamment de son immersion dans les diverses activités pratiques liées à une époque ou à un espace? Les conditions préalables de l'activité économique, ou présupposés, sont ce qui lui est essentiel et qui permettent de la repérer dans la complexité des péhnomènes sociaux. Au-delà, l'essence d'une activité désigne «une réalité qui dure à travers le temps et qui ne disparaît pas sous l'action de circonstances» (4). Ce qui ne disparaît pas avec le temps ou les circonstances et contribue à faire l'histoire des hommes doit être ancré dans la nature humaine. On est fondé alors de parler d'une donnée, quelque chose d'inhérent à l'homme en tant que tel et qui ne peut se transformer en autre chose. La pratique d'une activité économique répond enfin à un but, une finalité spécifique irréductible aux autres dimensions de la nature humaine et de la trame sociale. La finalité spécifique de l'économie s'accompagne de moyens particuliers auxquels on ne peut éviter de faire appel pour la réaliser.

 

Au total, pour caractériser l'essence de l'économique, il faut en extraire trois dimensions: la donnée, les présupposés, la finalité. La donnée définit le fondement de l'activité, ses tenants. La finalité précise l'aboutissement, le but que se fixent les hommes lorsqu'ils s'adonnent à la pratique de l'économie. Les présupposés caractérisent les conditions d'exercice de l'activité économique. Le trilogie: donnée, présupposés, finalité, définit la logique interne de l'économique par rapport à l'homme.

 

1. La Donnée

 

La donnée de l'économie, son fondement, réside dans le besoin, même si la notion n'est pas explicitée par la plupart des auteurs qui se gardent bien de rien dire sur la nature du besoin et se cantonnent à une représentation purement formaliste, quoique deux courants aient consacré des développements substantiels à la notion: l'école marginaliste, dans la seconde moitié du XIXième siècle; Marx et les marxistes.

 

Un phénomène tel que le besoin ne se comprend pas à travers la question indécidable de savoir si les hommes agissent par intérêt, mais en observant la diversité et la permanence d'une notion qui se compose de deux dimensions: psychophysiologique; philosophique (5).

 

- Au plan psychophysiologique, le besoin exprime un manque accompagné d'une tendance à y faire face. On rencontre une tension entre l'intérieur de l'homme et son environnement qui se traduit par diverses manifestations et par exemple la lassitude. Dès le niveau psychosociologique émerge l'ambivalence du besoin. Le manque est indissociable de son contraire: la satiété. Les deux pôles, inséparables, entraînent les mêmes effets: violence, fatigue, etc.

 

- Au plan philosophique, le besoin, manifestation vitale, éveille l'attention vis-à-vis de la totalité de la vie. Il sort de la dimension quantitative pour entrer dans le champ de la conscience où il prend la forme du désir soumis aux châtoiements de l'évaluation. La manière de satisfaire les désirs met en branle la gamme des sentiments et l'intensité de la volonté. Le sage qui cherche à supprimer les désirs pour réduire son insatisfaction agit sur les besoins eux-mêmes et exerce sa volonté pour les moduler de façon à n'éprouver plus que ceux qu'il est effectivement possible de satisfaire. Le besoin est toujours satisfait dans un univers doté d'objets et de relations: institutions, rites, culture, etc. L'analyse du besoin est indissociable d'une bonne connaissance de l'environnement dans ses multiples dimensions.

 

Le besoin est une contrainte. En tant que donnée, il est la réalité non économique qui fonde l'économie. Le premier fait de l'histoire humaine est que l'homme mange. Mais la simple jouissance d'un objet, comme le ferait un cueilleur de fruits dormant à la belle étoile et s'abreuvant au cours d'eau, ne fonde pas l'activité économique. Celles-ci prend naissance dans l'effort et le travail nécessaire à la production. Il faut du désir pour accepter de s'astreindre à une activité conduisant à la satsifaction.

 

2. Les présupposés

 

Les présupposés sont au nombre de trois:

- La relation de la rareté et de l'abondance;

- La relation de l'utile et du nuisible;

- La relation de maître à esclave.

 

* Relation rareté/abondance. L'économie ne part pas d'une abondance donnée. Son rôle est de la produire. La plasticité des besoins donne à l'abondance le statut de problème éternel. L'abondance peut exister pour certains biens ou caractériser la vie de quelques groupes humains. Mais d'autres raretés existent ou naissent et des populations baignent dans la pénurie.

 

Les relations caractéristiques de ce présupposé sont l'échange, relation égalitaire par l'intermédiaire du prix, et la hiérarchie, en particulier celles des pouvoirs d'achat, pouvoir dans le système des échanges. La nature de l'échange importe peu. Entre individus ou organisations, de statut privé ou collectif, l'essentiel réside dans la relation.

 

* Relation utile/nuisible. L'utilité de chaque chose désigne le point de vue subjectif de l'homme: son appréciation. Mais l'économie n'est pas commandée par l'usage ou la jouissance. L'utilité à considérer est celle qui nécessite un effort pour obtenir le bien satisfaisant un besoin. Dès lors elle est relative, différentielle, car l'ascète par exemple dénie toute utilité à divers biens. Le superflu, le luxe, le gaspillage, sont du domaine économique au même titre que le non rentable, les prestations multiples telles que loisirs, vacances, protection, etc. Toutes ces dimensions font appel à l'idée d'effort d'acquisition, de comparaison entre avantages et inconvénients de leur recherche ou d'un renoncement. De plus, ils font vivre des secteurs entiers.

 

* Relation maître/esclave. Aristote fut le premier à soulever le caractère indépassable de cette relation. Il est impossible d'élaborer une économie concrète sans exploitation de l'homme par l'homme, sans servitude. La relation maître/esclave correspond à la hiérarchie présente dans toute activité organisée. Seigneur comparé à serf, patron comparé à employé, la hiérarchie est interne aux activités économiques et dépend de la division du travail, phénomène croissant avec la spécialisation technique. La question de fond: pourquoi faut-il produire? met en mouvement l'organisation du travail, l'innovation technique, la gestion efficace, les prélèvements sur l'environnement. La relation hiérarchique est le fondement de la production.

 

3: La finalité

 

Le but spécifique de l'économie est le bien-être, à distinguer des finalités abstraites et générales, atemporelles et absolues: bonheur et justice, égalité. Les fins ultimes mettent en œuvre d'autres caractéristiques de l'homme et de la société. Un but est concret et réalisable, dans un temps et sur un espace précis. Dès lors, l'idée de bien-être est une variable historique liée au niveau de développement économique d'une société. La notion prend un sens dépendant des possibilités du moment, des conditions de sa réalisation, de la représentation que nous nous en faisons. Le niveau de bien-être sera fonction de la multiplicité des besoins que nous pouvons satisfaire selon nos goûts personnels et de l'intensité des efforts à fournir pour bénéficier des moyens de satisfaire nos besoins du moment. La mesure du bien-être est donc relative aux personnes ou aux groupes, et on ne peut définir, de façon uniforme ou autoritaire, ce que doit être le bien-être pour chacun. Créer les conditions favorables est le seul but auquel peut prétendre l'économie.

 

Frédéric VALENTIN.

 

Notes:

(1) Jean-Claude PERROT, Une histoire intellectuelle de l'économie politique, Editions de l'EHESS, 1992, p.68.

(2) Jean-Claude PERROT, op. cit., p. 93.

(3) Julien FREUND, L'essence de l'économique, Presses Universitaires de Strasbourg, 1993, 160 p.

(4) Julien FREUND, Philosophie et sociologie, Cabay, Louvain-la-Neuve, 1984, p. 24.

(5) Julien FREUND, «Théorie du besoin», in: Politique et impolitique, Sirey, 1987, Chap. 23.

vendredi, 13 mars 2009

Interventie van F. Ranson ("Fête des Identitaires")

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Interventie van Frederic Ranson ("Fête des identitaires", Sint-Pieters-Leeuw, 28 februari 2009)

 

Ik heb de eer u vandaag het manifest van het nieuw-solidarisme voor te stellen. In het licht van het onderwerp van vandaag zou ik er twee ideeën in het bijzonder uit willen onthouden, ter overweging door het publiek. Eerst en vooral zou ik de deelnemers en de organisatoren willen bedanken voor hun bijdrage aan een soort gedachtewisseling die men elders in Vlaanderen niet meer kent, ondanks de veel gunstigere voorwaarden dan in Franstalig België. Identitairen die zich vandaag om sociale vraagstukken bekommeren, is al een goede manier om de nieuw-solidaristen te omschrijven.

 

In het kort gesteld is de crisis die we nu beleven deze van meer dan dertig jaar Angelsaksisch neoliberalisme. De naoorlogse internationale financiële architectuur is door de Verenigde Staten en hun hoge bankwezen altijd zodanig uitgedacht dat de lusten voor zichzelf zijn en de lasten voor de rest van de wereld. Sinds de jaren zeventig dient het neoliberalisme als nieuw instrument om hun financiële belangen veilig te stellen. De liberalisering van hun financiële markten heeft hun toegelaten de dollarheerschappij te bestendigen. Vervolgens zijn het Verenigd Koninkrijk en later de Europese Unie hen gevolgd. Het eerste gevolg ervan was dat de “sociale kapitalen” – geaccumuleerd gedurende decennia – getransfereerd zijn naar een geglobaliseerde financiële markt. Het tweede gevolg ervan was de ontwikkeling van de financiële derivaten, tegengewicht voor de risico’s op een gedereguleerde markt. De omvang van de financiële crisis is een goede indicator voor de graad van amerikanisering en globalisering.

 

Men moet goed beseffen op welke manier niet alleen de economische of financiële voorwaarden, maar daardoor evenzeer de politieke voorwaarden zijn veranderd. Ja, ze zetelen nog, onze parlementairen, maar ze zijn bijna gedegradeerd tot gemeenteraadsleden in het grote “werelddorp”. Het nationale kader, basis van ons sociale model en van de consensus arbeid-kapitaal, is bezig te verdwijnen, ondermijnd door het neoliberalisme en de vrijhandel. De verburgerlijking van rechts en links heeft hen totaal onbekwaam gemaakt om alternatieve oplossingen voor te stellen. Tegenover hun onbekwaamheid en tegenover die nieuwe voorwaarden dringen nieuwe antwoorden zich op. De huidige crisis vormt een breuk. Ofwel ziet men in deze crisis een nieuwe fase van concentratie en globalisering. Ofwel ziet men er een gelegenheid in om een legitieme volkswoede te organiseren en alternatieven te formuleren.


Het eerste idee dat ik graag wil onderstrepen is de hernationalisering van sectoren van de staat en de economie, zowel de financiële als de reële economie, van Fortis tot Opel. In de huidige toestand – waarin we worden misleid met eurocratische en andersglobalistische voorstellen die elkaar afwisselen, waarin het eenheidsdenken een “socialisme van de bankiers” aanprijst, enzovoort – is die eis reeds een revolutionaire daad. Het tweede idee om te onthouden, is dat van de monetaire soevereiniteit, wat een herdefiniëring van ons gebruikelijke begrip over geld inhoudt. Ik kom hierop terug bij wijze van kort antwoord aan de heer Robert. De ideale synthese van de tweede ideeën zou de overeenstemming zijn tussen de reële en de financiële economie. Dus: geen zeepbellen meer, geen inflatie, geen deflatie, maar een “euflatie” (neologisme van Antonio Miclavez). Helaas, dat is niet het beleidsdoel van onze centrale banken, die slechts semi-publiek zijn. Zij handelen in het belang van de bankiers en niet in het belang van de volkeren. Dezelfde kritieken – in de traditie van het populisme –  tegen de Amerikaanse Federal Reserve zijn van toepassing op de Europese Centrale Bank. De eerste banken die genationaliseerd zullen moeten worden zijn dus de centrale banken zelf!


De heer Robert heeft net het “economische mirakel” van het nationaal-socialistische Duitsland toegeschreven aan zijn minister van Economie, Schacht, en diens “politiek die zeer veraf stond van het 25-Puntenprogramma”. Anderen zullen het toeschrijven aan Keynes. Welnu, wat was het geheim van dat mirakel? De openbare werken en de Duitse herbewapening werden respectievelijk betaald met Mefo- en Öffa-wissels, dus alternatief of aanvullend geld, uitgegeven zonder de openbare schuld te doen toenemen, dat wil zeggen: gebaseerd op het begrip monetaire soevereiniteit. Deze wissels of bonnen waren op zijn minst een hybride idee, omdat ze effectief al werden voorgesteld in het 25-Puntenprogramma, onder de naam “Staatskassengutscheine” (schatkistbonnen). Vanzelfsprekend gingen de ideeën van zijn auteur, Gottfried Feder, nog veel verder. Zijn ideeën stonden zeer dicht bij de antieke en scholastieke principes die vandaag nog aanwezig zijn in het islamitische financieren. Schacht, ten gronde een bankier, heeft uiteindelijk zelfs de verdere emissie van dat geld zonder schuld geweigerd, zoals een andere beruchte bankier, Necker, méér dan een eeuw vóór hem, de emissie van assignaten had geweigerd. Is alternatief geld een utopie vandaag de dag? Nee! Wie kent bijvoorbeeld niet de dienstencheques of de maaltijdcheques, die eenvoudigweg vormen van alternatieve verloning zijn?


Misschien lijken die enkele voorstellen nog voorbarig of futuristisch, maar wij zijn er zeker van dat de verergerende situatie hen steeds meer aanvaardbaar en aanvaard zal maken. Het is dus vooral belangrijk om deze afspraak met de 21ste eeuw niet te missen of de versterking van het systeem te ondergaan door een toegenomen “global governance” die reeds gemeengoed gemaakt wordt door het eenheidsdenken. Ik dank u voor uw aandacht.

jeudi, 12 mars 2009

L'invention de la seconde armée de réserve: les femmes

L’invention de la seconde armée de réserve: les femmes

 

 

Dans les année 70, on disait que les immigrés devaient faire venir leurs femmes et leurs enfants pour éviter d’aller voir des prostituées. Mais derrière l’humanisme affiché, on trouve un solide et classique raisonnement économique. Le capitalisme « avait besoin de bras, pour faire le travail dont les français ne voulaient pas ». Le raisonnement est biaisé. Ce n’est pas tant le travail qui est en cause que le prix payé pour ce travail. Cette question se pose avec d’autant plus d’acuité à la fin des années 60, quand la croissance ininterrompue des Trente Glorieuses donne aux ouvrier des moyens de pression uniques dans l’histoire du capitalisme. La grande grève générale de Mai 68, le rêve de l’anarcho-syndicalisme à la française depuis le congrès d’Amiens en 1905, est l’apothéose de ce mouvement historique. Les salaires grimpent, grimpent, à peine rognés par l’inflation, le partage entre salaires et profits se tord au bénéfice des premiers. Face à cette baisse tendancielle du profit, déjà analysé par Marx en son temps, le capitalisme sort alors son arme traditionnel, elle aussi analysé par le barbu allemand, « l’armée de réserve », c’est-à-dire un sous-prolétariat de chômeurs, sous-qualifiés, immigrés, qui accepte des rémunération inférieur au prix du marché, et pèse mécaniquement à la baisse des salaires ouvriers. Mais cette réponse traditionnel ne suffit pas. L’immigration même massive ne permet pas de retourner cette situation défavorable aux taux de profit. Les patrons français ont encore raffiné les système puisque, avec le regroupement familiale, ils escompte trouver sur place leur main-d’œuvre de seconde génération. Jusqu’à la chute du mur de Berlin, ils ne pouvaient pas chercher leurs travailleurs bon marché n’importe où sur la planète; alors le capitalisme a sorti son joker. L’invention de la seconde armée de réserve: les femmes.

Éric Zemmour – Le premier sexe (p.118/119)

mercredi, 11 mars 2009

A propos du décisionnisme

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ARCHIVES DE SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

A propos du décisionnisme

 

Le décisionnisme est, comme son nom l'indique, une pensée en termes de décision. Le décisionniste est l'homme politique qui veut décider, aboutir à une décision, c'est-à-dire à un acte de volonté qui a ses res­sorts en lui-même et qui est vierge de toute compromission. Le décisionniste, en conséquence, s'oppose à toutes les formes de compromis que permet le libéralisme. Carl Schmitt, catholique et conservateur, est sans nul doute celui qui, parmi les tenants de la “révolution conservatrice”, a pensé le décisionnisme de la manière la plus conséquante. Chez les penseurs nationaux-révolutionnaires de la même époque, on trouve également des décisionnistes.

 

Pour Carl Schmitt, ce qui est important, c'est «que dans la simple existence d'une autorité réellement au­toritaire, il y ait de la décision, et que toute décision soit valable et valide, car dans les choses les plus essentielles [du politique], il est plus imoportant de savoir que quelqu'un décide, que de savoir comment cette décision est décidée» (1). Il s'agit donc de poser une “décision” en soi, en pleine souveraineté. L'Etat, à l'époque de Carl Schmitt, du moins dans le domaine du politique, est le moyen le plus approprié pour poser de telles décisions; c'est lui qui incarne la souveraineté qui est, en fait, rien d'autre que le “monopole de la décision” (2). Il s'agit de reconnaître le bien-fondé, l'utilité pratique, l'excellence, de la décision absolue, c'est-à-dire de la décision pure, non raisonnée, qui n'est pas le produit d'une discus­sion, qui n'a nul besoin de se justifier, qui jaillit du néant (3). L'essence de l'Etat apparaît ici clairement, parce qu'il est le vecteur premier de la décision, devient de la sorte le moyen le plus précieux pour contrer, à l'intérieur, la guerre civile que déclenchent les idéologies et les intérêts contradictoires. «L'essence de l'Etat réside en ceci, qu'il y ait [par lui] une décision» (4).

 

La particularité de Carl Schmitt, dans le cadre de cette “révolution conservatrice” mise en exergue par Armin Mohler, c'est, qu'en tant que penseur catholique, il voit toujours Dieu trôner au-dessus de tout. D'où son constat: «Tous les concepts prégnants des doctrines modernes de l'Etat sont des concepts théolo­giques sécularisés» (5). Toutefois, le Règne de Dieu n'est pas de ce monde, où c'est l'homme qui gou­verne, où c'est l'homme qui est le fondateur des valeurs. Mais comment réalise-t-on concrètement les valeurs, comment établit-on les lois? Schmitt ne cesse de citer l'Anglais Thomas Hobbes, en acceptant ses théorèmes: «Auctoritas, non veritas facit legem» (6). L'autorité est la source des lois, car le pouvoir lui en donne la force, c'est elle qui pose les décisions qui génèrent les lois. C'est au départ de cette con­ception de Hobbes, que la “révolution conservatrice” allemande a opté pour les systèmes autoritaires, parce qu'ils éliminent les querelles intérieures et les bannissent de la “communauté organique”.

 

Chez les nationaux-révolutionnaires, que Mohler classe aussi dans la “révolution conservatrice”, il y a donc aussi des décisionnistes. Le concept de décision a fasciné cette gauche non-conformiste, si bien que l'hebdomadaire du mouvement “Widerstand” (= Résistance) d'Ernst Niekisch portait le titre d'Entscheidung (= Décision). Ce n'est pas un hasard. Chez Niekisch, par d'arrière-plan théologique, au contraire de Schmitt. Le décisionnisme de Niekisch découle d'une position fondamentaliste absolue. Niekisch exige la “décision permanente”, car l'“idéologie de Widerstand” équivaut à une “protestation al­lemande” contre le “romanisme”, à une option pour l'Est contre l'Ouest, pour l'éthique prussienne du ser­vice contre le libéralisme (7). Cette protestation tous azimuts, incessante, permanente, exige, selon Niekisch, une “nouvelle attitude humaine”, une promptitude à accepter et à supporter un “destin hé­roïque”. Pour généraliser cette attitude contestatrice permanente, il faut recruter des hommes qui soient “déjà saisis par l'esprit du futur” (8). Niekisch accuse et brocarde l'éternelle indécision allemande: «Il existe une lenteur, une lourdeur, une faiblesse typiquement allemandes, qui, sans cesse, cherche, en louvoyant, à échapper à la décision nécessaire» (9). Mais le devoir éthique de trancher, donc de décider, de prendre littéralement le taureau par les cornes, personne ne peut l'éviter, le refuser.

 

Sur le plan littéraire, l'exigence de décision se retrouve, à un degré de radicalité encore plus élevé, chez Ernst Jünger, qui, à cette époque, appartenait encore aux cercles nationaux-révolutionnaires, et était une figure de proue du “nouveau nationalisme”. Il écrivait: «C'est pourquoi cette époque exige une vertu entre toutes: celle du décisionnisme. Il s'agit de pouvoir vouloir et de pouvoir croire, sans se référer au contenu que cette volonté et cette foi se donnent» (10). Cet appel de Jünger est un appel à la “décision en soi”. Chez Jünger, la décision est couplée à un désir ardent de nouveauté, au désir d'une révolution, d'où les éléments de nihilisme ne sont pas totalement absents. Chez lui, la décision est toute imprégnée de l'esprit des “orages d'acier”: elle est quasi synonyme de “mobilisation totale”. «Notre espoir repose sur les hommes jeunes, qui souffre de fièvre, parce qu'ils sont dévorés par le pus verdâtre du dégoût, notre es­poir repose dans les âmes saisies par la grandezza, dans les âmes que nous voyons errer dans les si­nuosités de l'ordre des auges. Notre espoir repose en une révolution qui s'opposerait à la domination du confort, en une révolution visant à détruire le monde des formes, en une révolution qui a besoin d'explosifs pour nettoyer et vider notre espace vital, afin qu'il y ait la place pour une nouvelle hiérarchie» (11).

 

Le décisionnisme est en tant que tel une méthode, plus exactement une méthode de critique sociale, une méthode finalement assez proche de la théorie critique utilisée par les gauches nouvelles. Mais il peut bien entendu étoffer l'arsenal d'une nouvelle droite, qui devrait en être l'héritière et la continuatrice, car de larges segments de la “neue Rechte” allemande sont d'ores et déjà influencés par Carl Schmitt. En effet, la critique du déclin du politique à l'ère du libéralisme, formulée par Carl Schmitt en 1922, reste d'une éton­nante actualité: «Aujourd'hui rien n'est plus moderne que la lutte contre le politique. Les financiers améri­cains, les techniciens de l'industrie, les socialistes marxistes, les révolutionnaires anarcho-syndica­listes, s'unissent pour exiger que soit éliminée la domination immatérielle du politique sur la matérialité de la vie économique. Il ne devrait plus y avoir que des tâches organisationnelles, techniques, économiques et sociologiques, mais il ne pourrait plus y avoir de problèmes politiques. Le mode aujourd'hui dominant de la pensée économico-technique n'est déjà plus capable de percevoir la pertinence d'une idée politique. L'Etat moderne semble être vraiment devenu ce que Max Weber voyait se dégager de lui: une grande en­treprise. En général, [dans ce contexte libéral], on ne comprend une idée politique que lorsque ses te­nants sont parvenus à prouver à une certaine catégorie de personnes qu'elles ont un intérêt économique direct et tangible à l'instrumentaliser à leur profit. Si, dans ce cas d'instrumentalisation, le politique dispa­raît et sombre dans l'économique, ou dans le technique ou l'organisationnel, par ailleurs, il s'épuise dans les intarissables discours ressassant à l'envi les banales généralités que l'on ne cesse d'ânonner sur la “culture” ou sur la “philosophie de l'histoire”, discours définissant au nom de critères esthétiques l'air du temps tantôt comme classique, tantôt comme romantique ou comme baroque, en hypnotisant les “beaux esprits”. Ce basculement dans l'économique ou ce discours [“cultureux”], passe à côté du noyau réali­taire de toute idée politique, de toute décision qui, en tant que décision, est toujours d'une plus haute élé­vation morale. La signification réelle que revêtent en fait les philosophes de l'Etat contre-révolutionnaires, réside entièrement dans la dimension conséquente de leur démarche, laquelle repose sur la décision, [baigne dans l'incandescance de la décision]. Ces philosophes contre-révolutionnaires mettent si fort l'accent sur l'instant intense de la décision qu'ils annulent finalement l'idée de légitimité, à partir de la­quelle, pourtant, ils avaient amorcé leurs réflexions» (12).

 

Le déclin du politique découle de l'évitement systématique des décisions. La modernité passe de fait à côté de la décision essentielle, de la décision qui fonde le concept du politique, c'est-à-dire de la décision qui aboutit à la désignation de l'ami et de l'ennemi. «C'est ainsi que Carl Schmitt définit la modernité: elle est oublieuse du politique. Dans cette perspective, le communisme et le capitalisme apparaissent pour ce qu'ils sont: les deux pôles complémentaires d'une même positivité impolitique, qui constitue le terminus ad quem d'une objectivisation mécaniciste du social, à l'œuvre depuis le XVIIième siècle» (13).

 

Jürgen HATZENBICHLER.

(traduction française: Robert STEUCKERS).

 

Notes:

(1) Carl SCHMITT, Politische Theologie, Berlin, 1990, p. 20.

(2) Ibid., p.71.

(3) Ibid., p.83.

(4) Ibid., p.71.

(5) Ibid., p.49.

(6) Ibid., p.44.

(7) Ce nom dérive de celui du mensuel Widerstand, dirigé par Niekisch.

(8) cf. Uwe SAUERMANN, Ernst Niekisch und der revolutinäre Nationalismus, München, 1985, pp. 173 & ss.

(9) Ernst NIEKISCH, cité par Friedrich KABERMANN, Widerstand und Entscheidung eines deutschen Revolutionärs, Köln, 1973, p. 165.

(10) Ernst NIEKISCH, Widerstand, Krefeld, 1982, p. 164.

(11) Ernst JÜNGER, Das abenteurliche Herz - Erste Fassung, Stuttgart, 1987, p. 110.

(12) E. JÜNGER, ibid., pp. 113 & ss.

(13) C. SCHMITT, ibid., pp. 82 & ss.

mardi, 10 mars 2009

Fédéralisme écologique

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

 

Fédéralisme écologique

 

Dans l'archipel vert, tous sont plus ou moins d'accord, du moins en théorie, pour dire que le fédéralisme est la projection politique la plus adéquate pour traduire le mot d'ordre de Commoner, “penser globale­ment, agir localement”, mot d'ordre répété à satiété chez tous les activistes de l'écologie. En réalité, rien n'a été fait dans ce sens: les verts politiques ont accumulé des retards considérables et sont désormais obligés de céder cette thématique localiste à des forces différentes et hétérogènes, situées à droite, au centre et à gauche. Ces forces instrumentaliseront à leur manière ce mot d'ordre qui aurait dû être le point fort des mouvements écologistes d'Europe, leur thème idéologique le plus attractif.

 

Au contraire, aux Etats-Unis, où, forcément, les contradictions du modèle de développement occidental sont plus fortes, un groupe écologiste bien charpenté, réuni autour d'hommes également connus en Europe, tels Gary Snyder, Kirkpatrick Sale et, surtout, Peter Berg, ont su conjuguer l'écologisme au loca­lisme; ils ont ainsi donné vie au mouvement biorégionaliste. Le BIORÉGIONALISME propose une restruc­turation complexe et complète de l'organisation territoriale  —pour le bien non seulement des êtres hu­mains mais de toute la biosphère—  remettant en question les frontières arbitraires entre les Etats; ils combattent au nom du principe d'auto-détermination des peuples; ensuite, ils redessinent les autonomies et les complémentarités sur base des identités et des différences naturelles et culturelles, depuis la plus simple, soit la communauté locale, jusqu'à la plus complexe, Gaia, soit la planète Terre. Plus exactement, le biorégionalisme, qui songe à changer le nom du mouvement qu'il représente en “Habitants de la Terre”, considère à nouveau la Terre comme une créature vivante, et se perçoit comme une modalité “sacrée” de dialogue avec Gaia et avec les créatures qui vivent en elle, comme une modalité qui implique respect et admiration, et éveille un sens des limites qui empêche tout abus.

 

Tout cela n'est possible que si l'on cultive une sensibilité nouvelle vis-à-vis des spécificités propres aux lieux et aux cultures, si l'on développe une loyauté politique à l'endroit du territoire où l'on vit; sensibilité et loyauté qui doivent s'associer à des pratiques économiques et sociales identitaires, étrangères au con­tractualisme mercantile. La pluralité des identités communautaires, l'internationale des patries, évitent les risques de décentrage du pouvoir et, par conséquent, les risques de colonialisme ou d'impérialisme.

 

La notion de complémentarité et le développement d'un réseau serré de relations inter-communautaires  —sur les modes de la subsidiarité et de l'interdépendance—  pourraient définir bientôt le projet d'un véri­table FÉDÉRALISME ÉCOLOGIQUE. Le problème de fond, c'est de repenser le monde, non plus “à partir de l'Occident”, de son universalisme et de son monisme centraliste, face auxquels tout le reste du monde n'est que périphérie ou colonie: il s'agit surtout de comprendre qu'“en tout lieu, il y a un centre de monde” et que, pour chaque homme, il y a une identité personnelle et communautaire, un monde propre, un terri­toire humain spécifique, naturel et culturel. C'est la raison pour laquelle le biorégionalisme, bien que né en Amérique du Nord, est un produit d'exportation à 100%. De toute évidence, ce nouvel “isme” n'est pas une “boîte fermée”: les différences historiques, culturelles et sociales entre l'Italie et les Etats-Unis sont telles qu'elles pourraient rendre toute greffe impraticable. Mais il n'est pas question d'un simple transfert: nous avons affaire à une idéologie née “ouverte”, qui se contredirait elle-même si elle prétendait fournir des préceptes absolus, de nature idéologique, posés comme universellement valides.

 

La perspective biorégionaliste voit dans l'Etat-Nation moderne une institution récente dans l'histoire et, simultanément, le perçoit comme obsolète. L'Etat-Nation s'est imposé à la suite d'une longue lutte achar­née contre les autonomies locales, en transformant le citoyen, jadis agent actif dans le processus de la décision politique (comme dans la polis  grecque et le Burg  médiéval), en récepteur passif de biens et de services. Il a changé les politiciens: de responsables de la communauté, ils sont devenus les représen­tants formels des intérêts des groupes économiques et sociaux précis. Certes, il ne sera pas simple d'esquisser les grandes lignes d'un système politico-constitutionnel complet basé sur les principes du biorégionalisme, pouvant se substituer aux modèles actuels en Europe.

 

Pourtant il est d'ores et déjà possible d'affirmer qu'un éventuel fédéralisme biorégionaliste italien ne sau­rait oublier que les populations de la péninsule italique possèdent des frontières géographiques déjà bien déterminées, dont la pertinence dérive en grande partie des vicissitudes historiques: en Italie, les identi­tés collectives se sont formées au fil des siècles et elles sont immédiatement reconnaissables dans les dialectes et dans les rythmes de la parole, qui, à leur tour, correspondent à des différences parfois soma­tiques, à des éléments de culture bien circonscrits, souvent reliquats d'identités très anciennes. On parle des Ligures, des Celtes, des Vénètes, des Etrusques, des Latins, des Picènes, des Ombres, des Samnites, voire des Osques, des Lucanes et des Bruzzes... Nous pouvons, chez nous, individuer des souches ethniques qui, en dépit d'un processus continu de dissolution et de coagulation, n'ont finalement jamais disparu, tant est fort leur enracinement sur un territoire “propre”.

 

Le fédéralisme biorégionaliste ne pourra que prendre la mesure de ces réalités profondes en Italie, qui sont d'ordres culturel et écologique tout à la fois. Il devra proposer un double niveau d'institutions.

 

La RÉGION, où prédomine l'élément culturel, et la COMMUNE, encastrée dans une “biorégion”. Tout projet de type biorégionaliste en Italie conduit à agir politiquement pour stimuler les forces locales et, en consé­quence, revaloriser toutes les structures construites à la mesure des communautés concrètes de voisi­nage ou de proximité, ou basées sur des facteurs culturels immédiats et partagés. Les métropoles, c'est-à-dire les villes de plus de 2000 ou 3000 habitants, devront-elles dès lors être considérées comme incom­patibles par rapport au projet biorégionaliste?

 

Si l'on parle de régions et de communes, sur le plan opératif, on se réfère à des entités existantes, mais, on devra aussi, nécessairement, proposer des divisions nouvelles ou des reconstitutions en entités re­dessinées, partout où le postule la renaissance de la dynamique politique, culturelle et locale. Dans la vi­sion biorégionaliste, la commune assume un rôle de tout premier plan; elle devra donc bénéficier d'un haut degré de souveraineté et d'intangibilité, jusqu'à une autonomie financière et fiscale concrète, une auto­nomie judiciaire et même législative. La région devra donc tout à la fois être “formée de” et “divisée en” communes.

 

C'est clair: ce discours interpelle fortement l'Etat unitaire, surtout dans les régions frontalières. Si les Occitans, les Tyroliens ou d'autres utilisent le biorégionalisme pour créer des nouvelles réalités institu­tionnelles transétatiques en zones alpines, ou si la Sardaigne et la Sicile revendiquent dans cette optique un statut de nations à part entière, leurs démarches n'auront de valeur et de raison historique que par rapport à un gouvernement central. Pour le reste, garder l'unité entre des entités géorégionales à l'intérieur d'un même Etat fédéral, sera toujours la tâche d'une raison historique, sans laquelle l'unité n'est possible que comme dominium du centre ou d'une partie sur toutes les autres.

 

Eduardo ZARELLI & Lorenzo BORRÉ.

(article paru dans Pagine Libere, février 1995). 

samedi, 07 mars 2009

Qui a peur de la géopolitique?

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1994

 

Qui a peur de la géopolitique?

 

Un spectre hante l'Europe d'aujourd'hui. Des conseillers politiques de la Maison Blanche, d'anciens agents du KGB cherchant à se recycler, des publicistes libéraux défendant de troubles et occultes inté­rêts réactionnaires, des professeurs gauchistes amateurs de liaisons dangereuses avec les droites, ten­tent désespérément d'en trouver la trace. Ce spectre, c'est la géopolitique.

 

Eh oui, elle revient au grand galop, cette géopolitique condamnée à une damnatio memoriae depuis la fin de la seconde guerre mondiale, dont on a nié la validité sans lui permettre de se défendre et d'apporter les preuves de sa pertinence, que l'on a réduite au silence pendant toute la guerre froide qui avait imposé au monde une lecture strictement idéologique et socio-économique des conflits. Pour satisfaire au rituel du langage dominant, il fallait dire qu'elle était une “pseudo-science”, fondée par deux pères historiques: l'embarrassant Friedrich Ratzel, auteur, entre 1882 et 1991, d'une Anthropogeographie évolutionniste et déterministe (que l'on a longtemps considérée comme l'antécédent wilhelmien du racisme hitlérien) (1), et le général, diplomate et érudit Karl Haushofer, qui avait caché Rudolf Hess dans sa maison après le putsch raté de Munich en 1923 et dont le fils, poète ésotérique, fidèle, comme son père, à l'idée d'une al­liance nord-européenne entre l'Allemagne et l'Angleterre, sera massacré par la police nazie le 23 avril 1945 à l'âge de 42 ans.

 

Les noms de Ratzel et de Haushofer ont servi à démoniser la géopolitique, considérée pendant trop long­temps comme une “fausse science”, dont le but aurait été de chercher le rapport existant entre les cir­constances géographiques d'un pays et les choix politiques du peuple qui l'habite. Mais force est bien de noter que les géopolitiques de Ratzel et de Haushofer, en réalité, ont constitué une géographie politique fonctionnelle, à l'ère des grands impérialismes et des entreprises coloniales, entre 1870 et 1914, quand ont eu lieu les affrontements entre la France et l'Allemagne, entre l'Autriche et la Russie, entre la Russie et la Turquie.

 

En cela, plutôt que d'être une rupture par rapport au passé, les grands impérialismes ont montré qu'ils étaient les héritiers directs des conflits du 19ième et de l'idéologie évolutionniste: «La géographie est une donnée immuable qui conditionne la vie des peuples» aimait à dire le condottiere Mussolini, oubliant ainsi l'autre aspect du problème: les peuples manipulent et modifient très souvent les scenarii géographiques.

 

Même si sont encore bien ancrés tous les “a priori” idéologiques mis en place pour interpréter les conflits selon un schéma “scientifique”, mettre au rencart  les “vieilleries” ethniques et religieuses, légitimer l'unique mode explicatif toléré, c'est-à-dire celui qui évoque la raison socio-économique, depuis la fin de la guerre froide, bon nombre de signes avant-coureurs nous annonçaient le retour de conflits qui ne pou­vaient s'expliquer que par d'autres motivations que celles que retenait comme seules plausibles le con­formisme idéologique. Mieux: rien n'est revenu et un fait est certain, les tensions et les conflits à carac­tère ethnique et religieux ont toujours existé, rien n'est venu les atténuer, au contraire, les retombées tu­multueuses du colonialisme et de l'hégémonisme européens les ont exaspérés. Il suffit de penser au Kurdistan qui, par l'effet de la politique de containment  forcenée qu'ont pratiquée les Anglais et les Français au Moyen-Orient entre 1917 et 1920, est devenu un facteur de déstabilisation. Ou à la “guerre oubliée” entre l'Irak et l'Iran, et à ses rapports complexes avec la guerre civile en Afghanistan, ou encore, au front composite de la résistance afghane en lutte contre l'Armée Rouge.

 

Les temps sont mûrs, pourtant, pour dresser l'ébauche d'une nouvelle géopolitique, comprise non plus comme une “science” ou une “pseudo-science” mais plutôt comme une méthode proprement interdiscipli­naire  —dans laquelle convergeraient la géographie, l'histoire, la politologie, l'anthropologie, etc.—  visant à comprendre et à expliquer rationnellement les tensions à l'œuvre sur certains territoires. Cette méthode se distancierait bien entendu de toutes les formes de moralisme, sans pour autant observer une “neutralité axiologique” rigide et incapacitante: cette méthode existe, elle a déjà été hissée au niveau scientifique, elle a été forgée au milieu des années 70 par les animateurs de la revue parisienne Hérodote  et par le groupe de chercheurs rassemblés autour du géographe Yves Lacoste. En Italie, un groupe d'intellectuels de gauche vient de fonder la revue Limes (titre schmittien!) et s'aligne sur Hérodote;  à ce corpus géopolitique de base, qui, sous bien des aspects, constitue une “anthropopolitique” (ou une “géoanthropologie”?), le célèbre philosophe Massimo Cacciari propose d'ajouter une fascinante “géophilosophie de l'Europe”, dont il a jeté les fondements en publiant un livre chez l'éditeur Adelphi. L'Europe, à ses yeux, est une idée  —et un continent— “malade” au sens nietzschéen, instable, incertain sur ses confins, qui ne peut progresser qu'à coup de “décisions” fatidiques, un continent sur lequel pèse le poids d'innombrables impondérables et d'hérédités mêlées, entrecroisées.

 

Les assises et la structure du monde pèsent évidemment sur le destin des hommes. Mais les hommes, à leur tour, posent des choix et imposent des géostratégies. Quand, en 1867, le gouvernement américain achète au gouvernement russe les terres de l'Alaska, le Secrétaire d'Etat William Seward déclare: «L'Océan Pacifique deviendra le grand théâtre des événements du monde... le commerce européen, la pensée européenne, la puissance des nations européennes sont destinés à perdre leur importance». C'est ainsi que les Etats-Unis ont lancé l'idée d'un “Occident”, non plus synonyme mais bien antonyme de l'idée d'“Europe”. Or, sur ce chapitre, un pas nouveau vient d'être franchi avec le sommet des pays du Pacifique tenu en novembre 1993 à Blake Island près de Seattle: on y a esquissé les grandes lignes d'une nouvelle stratégie américaine, visant à faire du Japon un “Extrême-Occident” et à recentrer sur le Pacifique une intense activité dirigée vers la Chine, le Japon et l'Australie, impliquant l'exploitation inten­sive des mers, des fonds marins, du sous-sol de l'Océan, afin d'acquérir des protéines (à partir du planton) ou d'exploiter de nouveaux gisements de pétrole ou de gaz naturels.

 

Reste à savoir comment réagira le bloc “eurasiafricain” face à cette hégémonie nouvelle, à ce continent immense et richissisme qui va de l'Alaska à l'Australie et de la Chine à la Californie, qu'a parfaitement conceptualisé le bon génie du MIT (Massachussets Inbstitute of Technology), Noam Chomsky, qui pré­voit un isolement définitif de l'Eurasie par rapport au “Centre de l'Empire” américain? Allons-nous vers un nouveau brigandage déterministe et planétaire, vers une nouvelle entreprise impérialiste qui, comme toutes les entreprises impérialistes, ne rougit pas en se définissant comme “nécessaire”?

 

Franco CARDINI.

(article extrait de L'Italia Settimanale, n°34/1994).

 

(1) Pour nuancer ce jugement et découvrir la grande variété de l'œuvre de Ratzel, cf. Robert Steuckers, «Friedrich Ratzel», in Encyclopédie des Œuvres philosophiques,  PUF, Paris, 1992.

vendredi, 06 mars 2009

El postneoliberalismo y sus bifurcaciones

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El postneoliberalismo y sus bifurcaciones

 

Ana Esther Ceceña
Observatorio Latinoamericano de Geopolítica

 

 

El neoliberalismo tocó fin definitivamente con la crisis estallada en 2008. No hay vuelta atrás. El mercado, por sí mismo, es autodestructivo. Necesita soportes y contenedores. La sociedad capitalista, arbitrada por el mercado, o bien se depreda, o bien se distiende. No tiene perspectivas de largo plazo.

Después de 30 años de neoliberalismo ocurrieron las dos cosas. La voracidad del mercado llevó a límites extremos la apropiación de la naturaleza y la desposesión de los seres humanos. Los territorios fueron desertificados y las poblaciones expulsadas. Los pueblos se levantaron y la catástrofe ecológica, con un altísimo grado de irreversibilidad, comenzó a manifestarse de manera violenta.

Los pueblos se rebelaron contra el avance del capitalismo bloqueando los caminos que lo llevaban a una mayor apropiación. Levantamientos armados cerraron el paso a las selvas; levantamientos civiles impiden la edificación de represas, la minería intensiva, la construcción de carreteras de uso pesado, la privatización de petróleo y gas y la monopolización del agua. El mercado, solo, no podía vencer a quienes ya estaban fuera de su alcance porque habían sido expulsados y desde ahí, desde el no-mercado, luchaban por la vida humana y natural, por los elementos esenciales, por otra relación con la naturaleza, por detener el saqueo.

El fin del neoliberalismo inicia cuando la medida de la desposesión toca la furia de los pueblos y los obliga a irrumpir en la escena.

Los cambios de fase

La sociedad capitalista contemporánea ha alcanzado un grado de complejidad que la vuelve altamente inestable. De la misma manera que ocurre con los sistemas biológicos (Prigogine, 2006), los sistemas sociales complejos tienen una capacidad infinita y en gran medida impredecible de reacción frente a los estímulos o cambios. El abigarramiento con el que se edificó esta sociedad, producto de la subsunción pero no eliminación de sociedades diferentes, con otras cosmovisiones, costumbres e historias, multiplica los comportamientos sociales y las percepciones y prácticas políticas a lo largo y ancho del mundo y abre con ello un espectro inmenso de sentidos de realidad y posibilidades de organización social.

La potencia cohesionadora del capitalismo ha permitido establecer diferentes momentos de lo que los físicos llaman equilibrio, en los que, a pesar de las profundas contradicciones de este sistema y del enorme abigarramiento que conlleva, disminuyen las tendencias disipadoras. No obstante, su duración es limitada. En el paso del equilibrio a la disipación aparecen constantemente las oportunidades de bifurcación que obligan al capitalismo a encontrar los elementos cohesionadores oportunos para construir un nuevo equilibrio o, en otras palabras, para restablecer las condiciones de valorización del capital. Pero siempre está presente el riesgo de ruptura, que apunta hacia posibles dislocamientos epistemológicos y sistémicos.

Los equilibrios internos del sistema, entendidos como patrones de acumulación en una terminología más económica, son modalidades de articulación social sustentadas en torno a un eje dinamizador u ordenador.

Un eje de racionalidad complejo que, de acuerdo con las circunstancias, adopta diferentes figuras: en la fase fordista era claramente la cadena de montaje para la producción en gran escala y el estado en su carácter de organizador social; en el neoliberalismo el mercado; y en el posneoliberalismo es simultáneamente el estado como disciplinador del territorio global, es decir, bajo el comando de su vertiente militar, y las empresas como medio de expresión directa del sistema de poder, subvirtiendo los límites del derecho liberal construido en etapas anteriores del capitalismo.

Los posneoliberalismos y las bifurcaciones

La incertidumbre acerca del futuro lleva a caracterizarlo más como negación de una etapa que está siendo rebasada. Si la modalidad capitalista que emana de la crisis de los años setenta, que significó una profunda transformación del modo de producir y de organizar la producción y el mercado, fue denominada por muchos estudiosos como posfordista; hoy ocurre lo mismo con el tránsito del neoliberalismo a algo diferente, que si bien ya se perfila, todavía deja un amplio margen a la imprevisión.

Posfordismo se enuncia desde la perspectiva de los cambios en el proceso de trabajo y en la modalidad de actuación social del estado; neoliberalismo desde la perspectiva del mercado y del relativo abandono de la función socializadora del estado. En cualquiera de los dos casos no tiene nombre propio, o es un pos, y en ese sentido un campo completamente indefinido, o es un neo, que delimita aunque sin mucha creatividad, que hoy están dando paso a otro pos, mucho más sofisticado, que reúne las dos cualidades: posneoliberalismo. Se trata de una categoría con poca vida propia en el sentido heurístico, aunque a la vez polisémica. Su virtud, quizá, es dejar abiertas todas las posibilidades de alternativa al neoliberalismo -desde el neofascismo hasta la bifurcación civilizatoria-, pero son inciertas e insuficientes su fuerza y cualidades explicativas.

En estas circunstancias, para avanzar en la precisión o modificación del concepto es indispensable detenerse en una caracterización de escenarios, entendiendo que el espectro de posibilidades incluye alternativas de reforzamiento del capitalismo -aunque sea un capitalismo con más dificultades de legitimidad-; de construcción de vías de salida del capitalismo a partir de las propias instituciones capitalistas; y de modos colectivos de concebir y llevar a la práctica organizaciones sociales nocapitalistas.

Trabajar todos los niveles de abstracción y de realidad en los que este término ocupa el espacio de una alternativa carente de apelativo propio, o el de alternativas diversas en situación de coexistencia sin hegemonismos, lo que impide que alguna otorgue un contenido específico al proceso superador del neoliberalismo.

El posneoliberalismo del capital

Aun antes del estallido de la crisis actual, ya eran evidentes los límites infranqueables a los que había llegado el neoliberalismo. La bonanza de los años dorados del libre mercado permitió expandir el capitalismo hasta alcanzar, en todos sentidos, la escala planetaria; garantizó enormes ganancias y el fortalecimiento de los grandes capitales, quitó casi todos los diques a la apropiación privada; flexibilizó, precarizó y abarató los mercados de trabajo; y colocó a la naturaleza en situación de indefensión. Pero después de su momento innovador, que impuso nuevos ritmos no sólo a la producción y las comunicaciones sino también a las luchas sociales, empezaron a aparecer sus límites de posibilidad.

Dentro de éstos, es importante destacar por lo menos tres, referidos a las contradicciones inmanentes a la producción capitalista y su expresión específica en este momento de su desarrollo y a las contradicciones correspondientes al proceso de apropiación y a las relaciones sociales que va construyendo:

1. El éxito del neoliberalismo en extender los márgenes de expropiación, lo llevó a corroer los consensos sociales construidos por el llamado estado del bienestar, pero también a acortar los mercados. La baja general en los salarios, o incluso en el costo de reproducción de la fuerza de trabajo en un sentido más amplio, fue expulsándola paulatinamente del consumo más sofisticado que había alcanzado durante el fordismo.

La respuesta capitalista consistió en reincorporar al mercado a esta población, cada vez más abundante, a través de la producción de bienes precarios en gran escala. No obstante, esta reincorporación no logra compensar ni de lejos el aumento en las capacidades de producción generadas con las tecnologías actuales, ni retribuir las ganancias esperadas. El grado de apropiación y concentración, el desarrollo tecnológico, la mundialización tanto de la producción como de la comercialización, es decir, el entramado de poder objetivado construido por el capital no se corresponde con las dimensiones y características de los entramados sociales. Es un poder que empieza a tener problemas serios de interlocución.

2. Estas enormes capacidades de transformación de la naturaleza en mercancía, en objeto útil para el capital, y la capacidad acumulada de gestión económica, fortalecida con los cambios de normas de uso del territorio y de concepción de las soberanías, llevaron a una carrera desatada por apropiarse todos los elementos orgánicos e inorgánicos del planeta. Conocer las selvas, doblegarlas, monopolizarlas, aislarlas, separarlas en sus componentes más simples y regresarlas al mundo convertidas en algún tipo de mercancía fue -es- uno de los caminos de afianzamiento de la supremacía económica; la ocupación de territorios para convertirlos en materia de valorización. Paradójicamente, el capitalismo de libre mercado promovió profundos cercamientos y amplias exclusiones. Pero con un peligro: Objetivar la vida es destruirla.

Con la introducción de tecnologías de secuenciación industrial, con el conocimiento detallado de genomas complejos con vistas a su manipulación, con los métodos de nanoexploración y transformación, con la manipulación climática y muchos otros de los desarrollos tecnológicos que se han conocido en los últimos 30 años, se traspasó el umbral de la mayor catástrofe ecológica registrada en el planeta. Esta lucha del capitalismo por dominar a la naturaleza e incluso intentar sustituirla artificialmente, ha terminado por eliminar ya un enorme número de especies, por provocar desequilibrios ecológicos y climáticos mayores y por poner a la propia humanidad, y con ella al capitalismo, en riesgo de extinción.

Pero quizá los límites más evidentes en este sentido se manifiestan en las crisis de escasez de los elementos fundamentales que sostienen el proceso productivo y de generación de valor como el petróleo; o de los que sostienen la producción de la vida, como el agua, en gran medida dilapidada por el mal uso al que ha sido sometida por el propio proceso capitalista. La paradoja, nuevamente, es que para evitar o compensar la escasez, se diseñan estrategias que refuerzan la catástrofe como la transformación de bosques en plantíos de soja o maíz transgénicos para producir biocombustibles, mucho menos rendidores y tan contaminantes y predatorios como el petróleo.

El capitalismo ha demostrado tener una especial habilidad para saltar obstáculos y encontrar nuevos caminos, sin embargo, los niveles de devastación alcanzados y la lógica con que avanza hacia el futuro permiten saber que las soluciones se dirigen hacia un callejón sin salida en el que incluso se van reduciendo las condiciones de valorización del capital.

3. Aunque el neoliberalismo ha sido caracterizado como momento de preponderancia del capital financiero, y eso llevó a hablar de un capitalismo desterritorializado, en verdad el neoliberalismo se caracterizó por una disputa encarnizada por la redefinición del uso y la posesión de los territorios, que ha llevado a redescubrir sociedades ocultas en los refugios de selvas, bosques, desiertos o glaciares que la modernidad no se había interesado en penetrar. La puesta en valor de estos territorios ha provocado una ofensiva de expulsión, desplazamiento o recolonización de estos pueblos, que, evidentemente, se han levantado en contra.

Esto, junto con las protestas y revueltas originadas por las políticas de ajuste estructural o de privatización de recursos, derechos y servicios promovidas por el neoliberalismo, ha marcado la escena política desde los años noventa del siglo pasado. Las condiciones de impunidad en que se generaron los primeros acuerdos de libre comercio, las primeras desregulaciones, los despojos de tierras y tantas otras medidas impulsadas desde la crisis y reorganización capitalista de los años setenta-ochenta, cambiaron a partir de los levantamientos de la década de los noventa en que se produce una inflexión de la dinámica social que empieza a detener las riendas sueltas del neoliberalismo.

No bastaba con darle todas las libertades al mercado. El mercado funge como disciplinador o cohesionador en tanto mantiene la capacidad desarticuladora y mientras las fuerzas sociales se reorganizan en correspondencia con las nuevas formas y contenidos del proceso de dominación. Tampoco podía ser una alternativa de largo plazo, en la medida que la voracidad del mercado lleva a destruir las condiciones de reproducción de la sociedad.

El propio sistema se vio obligado a trascender el neoliberalismo trasladando su eje ordenador desde la libertad individual (y la propiedad privada) promovida por el mercado hacia el control social y territorial, como medio de restablecer su posibilidad de futuro. La divisa ideológica del "libre mercado" fue sustituida por la "seguridad nacional" y una nueva fase capitalista empezó a abrirse paso con características como las siguientes:

1. Si el neoliberalismo coloca al mercado en situación de usar el planeta para los fines del mantenimiento de la hegemonía capitalista, en este caso comandada por Estados Unidos, en esta nueva fase, que se abre junto con la entrada del milenio, la misión queda a cargo de los mandos militares que emprenden un proceso de reordenamiento interno, organizativo y conceptual, y uno de reordenamiento planetario.

El cambio de situación del anteriormente llamado mundo socialista ya había exigido un cambio de visión geopolítica, que se corresponde con un nuevo diseño estratégico de penetración y control de los territorios, recursos y dinámicas sociales de la región centroasiática. El enorme peso de esta región para definir la supremacía económica interna del sistema impidió, desde el inicio, que ésta fuera dejada solamente en las manos de un mercado que, en las circunstancias confusas y desordenadas que siguieron al derrumbe de la Unión Soviética y del Muro de Berlín, podía hacer buenos negocios pero no condiciones de reordenar la región de acuerdo con los criterios de la hegemonía capitalista estadounidense. En esta región se empieza a perfilar lo que después se convertiría en política global: el comando militarizado del proceso de producción, reproducción y espacialización del capitalismo de los albores del siglo XXI.

2. Esta militarización atiende tanto a la potencial amenaza de otras coaliciones hegemónicas que dentro del capitalismo disputen el liderazgo estadounidense como al riesgo sistémico por cuestionamientos y construcción de alternativas de organización social no capitalistas. Sus propósitos son el mantenimiento de las jerarquías del poder, el aseguramiento de las condiciones que sustentan la hegemonía y la contrainsurgencia. Supone mantener una situación de guerra latente muy cercana a los estados de excepción y una persecución permanente de la disidencia.

Estos rasgos nos llevarían a pensar rápidamente en una vuelta del fascismo, si no fuera porque se combinan con otros que lo contradicen y que estarían indicando las pistas para su caracterización más allá de los "neos" y los "pos".

Las guerras, y la política militar en general, han dejado de ser un asunto público. No solamente porque muchas de las guerras contemporáneas se han enfocado hacia lo que se llama "estados fallidos", y en ese sentido no son entre "estados" sino de un estado contra la sociedad de otra nación, sino porque aunque sea un estado el que las emprende lo hace a través de una estructura externa que una vez contratada se rige por sus propias reglas y no responde a los criterios de la administración pública.

El outsourcing, que se ha vuelto recurrente en el capitalismo de nuestros días, tiene implicaciones muy profundas en el caso que nos ocupa. No se trata simplemente de privatizar una parte de las actividades del estado sino de romper el sentido mismo del estado. La cesión del ejercicio de la violencia de estado a particulares coloca la justicia en manos privadas y anula el estado de derecho. Ni siquiera es un estado de excepción. Se ha vaciado de autoridad y al romper el monopolio de la violencia la ha instalado en la sociedad.

En el fascismo había un estado fuerte capaz de organizar a la sociedad y de construir consensos. El estado centralizaba y disciplinaba. Hoy apelar al derecho y a las normas establecidas colectivamente ha empezado a ser un disparate y la instancia encargada de asegurar su cumplimiento las viola de cara a la sociedad. Ver, si no, los ejemplos de Guantánamo o de la ocupación de Irak.

Con la reciente crisis las instituciones capitalistas más importantes se han desfondado. El FMI y el Banco Mundial son repudiados hasta por sus constructores. Estamos entrando a un capitalismo sin derecho, a un capitalismo sin normas colectivas, a un capitalismo con un estado abiertamente faccioso. Al capitalismo mercenario.

El posneoliberalismo nacional alternativo

Otra vertiente de superación del neoliberalismo es la que protagonizan hoy varios estados latinoamericanos que se proclaman socialistas o en transición al socialismo y que han empezado a contravenir, e incluso revertir, la política neoliberal impuesta por el FMI y el Banco Mundial. Todas estas experiencias que iniciaron disputando electoralmente la presidencia, aunque distintas entre sí, comparten y construyen en colaboración algunos caminos para distanciarse de la ortodoxia dominante.

Bolivia, Ecuador y Venezuela, de diferentes maneras y con ritmos propios, impulsan políticas de recuperación de soberanía y de poder participativo, que se ha plasmado en las nuevas Constituciones elaboradas por sus sociedades.

La disputa con el FMI y el Banco Mundial ha determinado un alejamiento relativo de sus políticas y de las propias instituciones, al tiempo que se inicia la creación de una institucionalidad distinta, todavía muy incipiente, a través de instancias como el ALBA, el Banco del Sur, Petrocaribe y otras que, sin embargo, no marcan una pauta anticapitalista en sí mismas sino que apuntan, por el momento, a constituir un espacio de mayor independencia con respecto a la economía mundial, que haga propicia la construcción del socialismo. Considerando que, aun sin tener certeza de los resultados, se trata en estos casos por lo menos de un escenario posneoliberal diferente y confrontado con el que desarrollan las potencias dominantes, es conveniente destacar algunos de sus desafíos y paradojas.

1. Para avanzar en procesos de recuperación de soberanía, indispensable en términos de su relación con los grandes poderes mundiales --ya sea que vengan tras facetas estatales o empresariales--, y para emprender proyectos sociales de gran escala bajo una concepción socialista, requieren un fortalecimiento del estado y de su rectoría. Lo paradójico es que este estado es una institución creada por el propio capitalismo para asegurar la propiedad privada y el control social.

2. Los procesos de nacionalización emprendidos o los límites impuestos al capital transnacional, pasándolo de dueño a prestador de servicios, o a accionista minoritario, marca una diferencia sustancial en la capacidad para disponer de los recursos estratégicos de cada nación. La soberanía, en estos casos, es detentada y ejercida por el estado, pero eso todavía no transforma la concepción del modo de uso de estos recursos, al grado de que se estimulan proyectos de minería intensiva, aunque bajo otras normas de propiedad. Para un "cambio de modelo" esto no es suficiente, es un primer paso de continuidad incierta, si bien representa una reivindicación popular histórica.

3. El reforzamiento del interés nacional frente a los poderes globales o transnacionales va acompañado de una centralización estatal que no resulta fácilmente compatible con la plurinacionalidad postulada por las naciones o pueblos originarios, ni con la idea de una democracia participativa que acerque las instancias de deliberación y resolución a los niveles comunitarios.

4. Las Constituyentes han esbozado las líneas de construcción de una nueva sociedad. En Bolivia y Ecuador se propone cambiar los objetivos del "desarrollo" por los del "buen vivir", marcando una diferencia fundamental entre la carrera hacia delante del desarrollo con la marcha horizontal e incluso circular del buen vivir, que llamaría a recordar la metáfora zapatista de caminar al paso del más lento. La dislocación epistemológica que implica trasladarse al terreno del buen vivir coloca el proceso ya en el camino de una bifurcación societal y, por tanto, la discusión ya no es neoliberalismo o posneoliberalismo sino eso otro que ya no es capitalista y que recoge las experiencias milenarias de los pueblos pero también la crítica radical al capitalismo. Los apelativos son variados: socialismo comunitario, socialismo del siglo XXI, socialismo en el siglo XXI, o ni siquiera socialismo, sólo buen vivir, autonomía comunitaria u horizontes emancipatorios.

Ahora bien, la construcción de ese otro, que genéricamente podemos llamar el buen vivir, tiene que salirse del capitalismo pero a la vez tiene que transformar al capitalismo, con el riesgo, siempre presente, de quedar atrapado en el intento porque, entre otras razones, esta búsqueda se emprende desde la institucionalidad del estado (todavía capitalista), con toda la carga histórica y política que conlleva.

El posneoliberalismo de los pueblos

Otro proceso de salida del neoliberalismo es el que han emprendido los pueblos que no se han inclinado por la lucha electoral, fundamentalmente porque han decidido de entrada distanciarse de la institucionalidad dominante. En este proceso, con variantes, se han involucrado muchos de los pueblos indios de América, aunque no sólo, y su rechazo a la institucionalidad se sustenta en la combinación de las bifurcaciones con respecto a la dominación colonial que hablan de rebeliones larvadas a lo largo de más de 500 años, con las correspondientes a la dominación capitalista. Las naciones constituidas en el momento de la independencia de España y Portugal en realidad reprodujeron las relaciones de colonialidad interna y por ello no son reconocidas como espacios recuperables.

La resistencia y las rebeliones se levantan a veces admitiendo la nación, más no el estado, como espacio transitorio de resistencia, y a veces saltando esta instancia para lanzarse a una lucha anticapitalista-anticolonial y por la construcción-reconstrucción de formas de organización social simplemente distintas.

Desde esta perspectiva el proceso se realiza en los espacios comunitarios, transformando las redes cotidianas y creando condiciones de autodeterminación y autosustentación, siempre pensadas de manera abierta, en interlocución y en intercambio solidario con otras experiencias similares.

Recuperar y recrear formas de vida propias, humanas, de respeto con todos los otros seres vivos y con el entorno, con una politicidad libre y sin hegemonismos. Democracias descentradas. Este es el otro camino de salida del neoliberalismo, que sería muy empobrecedor llamar posneoliberalismo porque, incluso, es difícil de ubicar dentro del mismo campo semántico. Y todos sabemos que la semántica es también política y que también ahí es preciso subvertir los sentidos para que correspondan a los nuevos aires emancipatorios.

Lo que viene después del neoliberalismo es un abanico abierto con múltiples posibilidades. No estrechemos el horizonte cercándolo con términos que reducen su complejidad y empequeñecen sus capacidades creativas y emancipatorias. El mundo está lleno de muchos mundos con infinitas rutas de bifurcación. A los pueblos en lucha toca ir marcando los caminos.

Bibliografía

Acosta, Alberto 2008 "La compleja tarea de construir democráticamente una sociedad democrática" en Tendencia N° 8 (Quito).

Prigogine, Ilya 2006 (1988) El nacimiento del tiempo (Argentina: Tusquets).

Constitución de la República del Ecuador 2008.

Asamblea Constituyente de Bolivia 2007 Nueva Constitución Política del Estado (documento oficial)

samedi, 21 février 2009

Drechos humanos vs. Derechos ciudadanos

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Derechos humanos vs. Derechos ciudadanos

 

 

                                                                                       Alberto Buela (*)

 

Hace ya muchos años el pensador croata Tomilslav Sunic realizaba la distinción entre derechos humanos y derechos de los pueblos tomando partido por estos últimos.

No es para menos, los derechos humanos tienen un anclaje filosófico en la ideología de la ilustración de corte político liberal mientras que los derechos de los pueblos fundan su razón de ser en el historicismo romántico de corte popular.

Hoy ya es un lugar común - luego de la afirmación de Proudhon (1809-1965), el padre del anarquismo, “cada vez que escucho humanidad sé que quieren engañar” - cuestionar la incoherencia de la Ilustración en materia política, así como la exaltación de la razón humana como “diosa razón”.

Este pensamiento ilustrado sufre una metamorfosis clara que va desde sus inicios con el laicismo libertario de la Enciclopedia y el racionalismo, pasa por el socialismo democrático y desemboca en nuestros días en el llamado “progresismo” que se expresa en la ideología de la cancelación como bien lo hace notar el muy buen pensador español Javier Esparza: “ que consiste en aquella convicción según la cual la felicidad de las gentes y el progreso de las naciones exige cancelar todos los viejos obstáculos nacidos del orden tradicional” [1]

 

La gran bandera del pensamiento “progre” es y han sido los derechos humanos donde ya se habla de derechos de segunda y tercera generación. Esta multiplicación de derechos humanos por doquier ha logrado un entramado, una red política e ideológica que va ahogando la capacidad de pensar fuera de su marco de referencia. Así el pensamiento políticamente correcto se referencia necesariamente en los derechos humanos y éstos en aquél cerrando un círculo hermenéutico que forma una ideología incuestionable.

Esta alimentación mutua se da en todas las formulaciones ideológicas que se justifican a sí mismas, como sucedió con la ideología de la tecnología en los años sesenta donde la tecnología apoyada en la ciencia le otorgaba a la ciencia un peso moral que ésta no tenía, hasta que la tecnología llevaba a la práctica o ponía en ejecución los principios especulativos de aquélla.

Se necesita entonces un gran quiebre, una gran eclosión, el surgimiento de una gran contradicción para poder quebrar esta mutua alimentación. Mutatis mutandi, Thomas Khun hablaba de quiebre de los paradigmas, claro que no para hablar de este tema, sino para explicar la estructura de las revoluciones científicas.

 

Los derechos humanos tal como están planteados hoy por los gobiernos progresistas están mostrando de manera elocuente que comienzan a “hacer agua”, a entrar en contradicciones serias.

En primer lugar estos derechos humanos de segunda o tercera generación han dejado o han perdido su fundamento en la inherencia a la persona humana para ser establecidos por consenso. Consenso de los lobbies o grupos de poder que son los únicos que consensuan, pues los pueblos eligen y se manifiestan por sí o por no. Aut- Aut, Liberación o dependencia, Patria o colonia, etc. Es por eso que hoy se multiplican por cientos: derecho al aborto, al matrimonio gay, a la eutanasia, derecho a la memoria por sobre la historia, a la protección a las jaurías de perros que por los campos matan las ovejas a diestra y siniestra (en la ciudad de La Paz- Bolivia hay 60.000 perros sueltos) [2]. Cientos de derechos que se sumaron a los de primera generación: a la vida, al trabajo, a la libertad de expresión, a la vivienda, al retiro digno, a la niñez inocente y feliz, etc.

Ese amasijo de derechos multiplicados ha hecho que todo el discurso político “progre” sea inagotable. Durante horas pueden hablar Zapatero y cualquiera de su familia de ideas sin entrar en contradicciones manifiestas y, por supuesto, sin dejar de estar ubicado siempre en la vanguardia. La vanguardia es su método.

Pero cuando bajamos a la realidad, a la dura realidad de la vida cotidiana de los ciudadanos de a pié de las grandes ciudades nos encontramos con la primera gran contradicción: Estos derechos humanos, proclamados hasta el hartazgo, no llegan al ciudadano. No los puede disfrutar, no nos puede ejercer.

El ciudadano medio hoy en Buenos Aires no puede viajar en colectivo (bus) porque no tiene monedas, es esclavizado a largas colas para conseguirlas. Es sometido al robo diario y constante. Viaja en trenes desde los suburbios al centro como res, amontonado como bosta de cojudo. Las mujeres son vejadas en su dignidad por el manoseo que reciben. Los pibes de la calle y los peatones sometidos al mal humor de los automovilistas (hay 8000 muertes por año). Llevamos el record de asesinatos, alrededor de 12.000 al año. Los pobres se la rebuscan como gato entre la leña juntando cartón y viviendo en casas ocupadas en donde todo es destrucción. Quebrado el sistema sanitario la automedicación se compra, no ya en las farmacias, sino en los kioscos de cigarrillos. El paco y la droga al orden del día se lleva nuestros mejores hijos, mientras que la educación brilla por su ausencia con la falta de clases (los pibes tienen menos de 150 días al año).

 

Siguiendo estos pocos ejemplos que pusimos nos preguntamos y preguntamos ¿Dónde están los derechos humanos a la libre circulación, a la seguridad, a la dignidad, a la vida, al trabajo, a la vivienda, a la salud, a la moralidad pública, a los 180 días de clases que fija la ley?. No están ni realizados ni plasmados y  no tienen ninguna funcionalidad político social como deberían tener. Así los derechos humanos en los gobiernos progresistas son derechos “declamados” no realizados. Es que este tipo de gobiernos no gobiernan sino que simplemente administran los conflictos, no los resuelven.

En este caso específico que tratamos aquí los derechos ciudadanos mínimos han sido lisa y llanamente conculcados. La dura realidad de la vida así nos lo muestra, y el que no lo quiera ver es porque simplemente mira pero no ve.

La gran contradicción de lo políticamente correcto en su anclaje con los derechos humanos en su versión ideológica es que estos por su imposibilidad de aplicación han quedado reducidos a nivel de simulacro. Hoy gobernar es simular.

 

Y acá surge la paradoja que en nombre de una multiplicidad infinita de derechos humanos, estos mismos derechos de segunda o tercera generación han tornado irrealizables los sanos y loables derechos humanos del 48 que tenían su fundamento en las necesidades prioritarias de la naturaleza humana. Han venido a ser como el perro del hortelano que no come ni deja comer. Todo esto tiene solo una víctima, los pueblos, las masas populares que padecen el ideologísmo de los ilustrados “progres” que los gobiernan.

Un ejemplo final lo dice todo: año1826, primer presidente argentino González Rivadavia, un afrancesado en todo menos en la jeta de mulato resentido, alumbró 14 cuadras de la aldea que era Buenos Aires, en la cuadra 15 los perros cimarrones se comían a los viandantes. Siempre el carro delante del caballo.

 

 

 

(*) alberto.buela@gmail.com

 



[1] Esparza, Javier: “Para entender al zapaterismo: entre el mesianismo y la ideología de la cancelación”, Razón Española Nº 153, Madrid, enero-febrero 2009, p.10

[2] Hay quienes hablan hoy de “derechos humanos de los animales” un verdadero hierro de madera.

mardi, 17 février 2009

Les sortilèges du capitalisme et le réenchantement du monde

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Les sortilèges du capitalisme et le réenchantement du monde

Trouvé sur: http://www.polemia.com/ 

Dans le monde moderne, « tout fonctionne et le fonctionnement entraîne toujours un nouveau fonctionnement, et la technique arrache toujours davantage l’homme à la terre (*). » écrit Heidegger (« Essais et conférences, la question de la technique »). Le principe de l’arraisonnement du monde s’autoalimente en dispositifs toujours plus techniques.

Kant avait déjà noté que la raison arraisonne. Dans le monde moderne la pensée se trouve coupée en deux, la pensée méditante, de plus en plus réduite, et la pensée instrumentale, de plus en plus envahissante. En d’autres termes, les arts mécaniques supplantent les arts libéraux. Au rationalisme qui calcule, met en coupe réglée le monde, il serait tentant d’opposer l’irrationalisme. Mais ce n’est pas ce dernier qui remédie aux maux du premier. Le problème est moins celui de la prédominance des arts mécaniques sur les arts libéraux que de leur disjonction. Le turbocapitalisme et sa logique financière relèvent plus de la magie que de la raison. C’est du coté du monde arraisonné par la technique marchandisante que se situent les sortilèges, et cela dans un processus qui a été bien été mis en lumière par Philippe Pignarre et Isabelle Stengers dans « La sorcellerie capitaliste. Pratiques de désenvoûtement » (La Découverte, 2005).

C’est pourquoi le dépassement du capitalisme ne peut se faire que dans et par le même mouvement que celui de dépassement de l’imaginaire de la marchandise, comme l’ont montré  Ludovic Duhem et Eric Verdure (« Faillite du capitalisme et réenchantement du monde, L’Harmattan », 2006). En conséquence tant de l’épuisement des ressources naturelles que, plus encore, de l’impératif de ménager les ressources humaines, Il va peut-être s’agir (« peut-être » car l’histoire est ouverte) de revenir au sens ancien du mot économie, à savoir économiser, comme le montre Bernard Perret (« Le capitalisme est-il durable ? », Carnets nord, 2008).

C’est encore Heidegger qui écrivait dans « Introduction à la métaphysique » (1935) : « Cette Europe qui, dans un incurable aveuglement, se trouve toujours sur le point de se poignarder elle-même, est prise aujourd'hui dans un étau entre la Russie d'une part et l'Amérique de l'autre. La Russie et l'Amérique sont toutes deux, au point de vue métaphysique, la même chose; la même frénésie sinistre de la technique déchaînée, et de l'organisation sans racines de l'homme normalisé.[ souligné par nous] » La disparition de la Russie soviétique comme régime économique et social rend cette réalité du déchainement sans âme de la technique asservie au profit plus nue encore. Il va falloir trouver la voie d’une réconciliation entre la raison et les techniques, hors de la toute puissance de l’argent, du court-termisme, du bougisme et de l’impératif de rentabilité immédiate. Il nous faut retrouver les deux qualités qu’Aristote (« Ethique à Nicomaque ») attribuait aux non-esclaves, les facultés de délibérer et de choisir (« to bouleutikon », la « boulè » est l’unité de base de la démocratie athénienne, c’est l’assemblée qui délibère, assemblée instituée par Solon et Clisthène), et la faculté de prévoir, l’horizon de ce que l’on souhaite (« proairesis ») – les deux étant liées, comme on le comprendra aisément, l’avenir étant fait de prévisions sur des conditions qui nous échappent en partie et d’actes qui modifient l’avenir et ses conditions mêmes.

L’historien des techniques Alain Gras relève la multiplicité des voies techniques possibles et le caractère très contestable de la notion de progrès au sens linéaire du terme. Il explique : « Ma position première est donc anti-évolutionniste y compris sur le plan de la science et de la technique ». C’est peut-être par là qu’il faut commencer.

Pierre Le Vigan
Février 2009
Correspondance Polémia
07/02/09(*) la terre ne s’entend pas au simple sens de l’éloignement du mode de vie rural bien sûr. Il s’agit de quitter le « sol » sur lequel se déploie le propre de l’homme. En ce sens ce n’est pas forcément le cosmonaute qui s’arrache plus à la terre que l’usager de clubs de vacances au bout du monde par exemple.

Pierre Le Vigan

vendredi, 13 février 2009

Vriend en vijand als politiek criterium

Vriend en vijand als politiek criterium

De Duitse politieke filosoof en rechtsgeleerde Carl Schmitt (1888 - 1985) is een van de meest briljante critici van het liberalisme. Ten tijde van de Weimarrepubliek (1918-1932) was hij een vurig verdediger van een versterking van de grondwet én van een verbod op Verfassungsfeindliche politieke partijen; in die dagen de communisten van Ernst Thaelmann (KPD) en de nationaal-socialisten van Adolf Hitler (NSDAP). Schmitt is tevens de auteur van een omvangrijk oeuvre dat zich niet eenduidig laat beoordelen: zijn eerste boek verscheen in 1910, zijn laatste artikel in 1978.

De betekenis van Carl Schmitt

cs.jpgSchmitt's meest invloedrijke werk en één van de belangrijkste werken van de politieke theorie van de twintigste eeuw is Der Begriff des Politischen1. Hierin ontwikkelde hij zijn vriend-vijand theorie. Typerend voor het complexe denken van Schmitt is dat het decisionistische karakter aanwezig in zijn denken drie onderscheidende subcategorieën bevat: soeverein decisionisme2, antagonistisch decisionisme en constitutioneel decisionisme3. Decisionisme is algemeen beschouwd een term die aanduidt dat de contextuele beslissing van het individuele subject een centrale positie inneemt als de bron van politieke/existentiële waarmerking en bekrachtiging m.a.w. het is de concrete beslissing die van belang is. Ten onrechte wordt het antagonistisch decisionisme in Der Begriff des Politischen als representatief beschouwd voor zijn volledige oeuvre. Schmitt's werk wordt vooral gekenmerkt door een gefundeerde kritiek op de liberale (parlementaire) democratie. Parlementaire democratie is, volgens Schmitt, een contradictio in terminis. De wil van het volk kan niet vertegenwoordigd worden door een technische orde van parlementair debat en compromissen. Voor Schmitt heeft het parlement de waarde van een verzekeringshuis voor de economische kapitalistische machthebbers. De vorming van het algemeen belang is in een moderne democratie niet waarachtig democratisch want door belangen gefragmenteerd alvorens deze nog maar gevormd kan worden. Liberale democratie, argumenteert Schmitt, kan aldus nooit een waarachtige democratie zijn aangezien het slechts een instrument is die de private belangen van machtige kapitalistische groepen inbrengt in de uitvoerende macht. Daardoor kan een liberale democratie nooit een werkelijk legitieme regering voortbrengen. Het kan in het beste geval overheidsinstellingen voortbrengen die zichzelf rechtvaardigen door de inferieure criteria van legaliteit.

Tezamen met Oswald Spengler, Ernst & Friedrich Georg J�nger, Hans Bl�her en de vroege Thomas Mann behoort Carl Schmitt tot die figuren uit de conservatieve revolutie die de categorie�n Nationalrevolution�r, V�lkisch, Jungkonservativ & B�ndische4 overstijgen5. Ten onrechte wordt vaak gewezen op deze heterogene stroming als een wegbereider voor de nationaal-socialistische dictatuur. De verdiensten van Carl Schmitt op het vlak van de politieke theorie overstijgen echter al deze verdachtmakingen. Zelfs niemand minder dan J�rgen Habermas (o.a. van de postmarxistische Frankfurter Schule) heeft zijn invloed erkend en meer bepaald zijn kritiek op de technische aard van de parlementaire vertegenwoordiging overgenomen.

Der Begriff des Politischen

Vooraf dient men er rekening mee te houden dat Der Begriff des Politischen6 verschillende versies heeft gekend7. Enige betrachting van deze bijdrage is Schmitt's gedachtegang getrouw weer te geven en hier en daar enkele bijzonderheden aan te stippen. In het bestek van dit artikel dienen we ons te beperken tot de essentie voor een goed begrip van het vriend-vijand criterium en laten we de beschouwingen van Schmitt over de antropologische basis van politieke theorie�n (iedere werkelijke politieke theorie vooronderstelt dat de mens in geen geval onproblematisch maar een "gevaarlijk" en dynamisch wezen is), de pluralistische staatstheorie�n (als invraagstelling van de politieke eenheid van de staat) en de depolitisering door de polariteit van ethiek en economie (door de invloed van het liberalisme) achterwege. Voorts dient nog verduidelijkt dat Schmitt het niet heeft over de politiek (functie, bestel) maar over het politieke (handeling)8.

Politiek en staat

"Der Begriff des Staates setzt den Begriff des Politischen voraus". Het politieke gaat de staat vooraf, zo begint Schmitt zijn werk. Hij ziet de staat als de politieke status van een in een gesloten territorium georganiseerd volk. De staat is in het beslissende geval de ultieme autoriteit. Het politieke wordt vaak willekeurig gelijkgesteld met de staat of tenminste ermee in verband gebracht. De staat verschijnt dan als iets dat politiek is, het politieke als iets dat betrekking heeft op de staat, ongetwijfeld een onbevredigende vicieuze cirkel. De vergelijking staat = politiek wordt onjuist en bedrieglijk op het ogenblik dat staat en maatschappij zich wederzijds doordringen zoals dat zich noodzakelijkerwijze in een democratisch georganiseerde gemeenschap voordoet. "Neutrale" domeinen zoals cultuur, religie, onderwijs, economie, houden dan op "neutraal" te zijn. "Neutraal" in die zin dat ze geen verband hebben met de staat en het politieke.

Als polemisch concept tegen zulke neutraliseringen en depolitiseringen van belangrijke domeinen verschijnt de - potentieel elk domein omvattende - totale staat9. Dit resulteert in de identificering van de staat met de maatschappij. In de totale staat is alles - ten minste potentieel - politiek en in verwijzing naar de staat is het niet meer mogelijk een specifiek onderscheidingskenmerk met het politieke te handhaven. Schmitt bemerkt verder dat democratie zich moet ontdoen van alle typische onderscheidingen en depolitiseringen van de liberale negentiende eeuw. De totale staat kent niets meer dat absoluut niet-politiek is. In het bijzonder moet een einde gesteld worden aan de apolitieke (staatsvrije) economie en de economievrije staat.

Vriend en vijand

Een begrip van het politieke rust op het ultieme onderscheid tot dewelke alle politieke handelingen zich laten herleiden. Laat ons aannemen, argumenteert Schmitt, dat in het domein van de moraal het ultieme onderscheid goed en kwaad is, in de esthetica mooi en lelijk, in de economie nuttig en schadelijk of rendabel en niet-rendabel. De vraag is dan of er ook voor het politieke een specifiek onderscheid is dat kan dienen als eenvoudig criterium. Het specifieke politieke onderscheid tot dewelke politieke handelingen en motieven zich laten reduceren, stelt Schmitt, is het onderscheid tussen vriend en vijand. Schmitt beklemtoont dat het om een criterium gaat en niet om een inhoudelijke definitie. Het heeft dus dezelfde waarde als de andere criteria. De antithesis vriend-vijand is onafhankelijk, niet in de zin van een onderscheiden nieuw domein maar in die wijze dat ze niet kan gebaseerd of afgeleid worden van ��n van de andere antitheses of enige combinatie van andere antitheses. Het onderscheid tussen vriend en vijand duidt de uiterste intensiteitsgraad aan van een verbinding of scheiding, van een associatie of dissociatie. Concreet betekent dit dat de politieke vijand niet noodzakelijkerwijze moreel gezien slecht of esthetisch gezien lelijk moet zijn. Deze hoeft niet als een economische concurrent te verschijnen en het mag zelfs voordelig zijn met hem zakelijke relaties aan te gaan. Maar hij is, desondanks, de andere, de vreemde. In een concrete conflictsituatie is het aan de betrokkene om te oordelen of het anders zijn van de vreemde de negatie van de eigen levenswijze betekent en bijgevolg afgeweerd of bevochten dient te worden.

Publieke en private vijand

De begrippen vriend en vijand moeten verstaan worden in hun concrete en existenti�le zin, niet als metaforen of symbolen en niet vermengd of afgezwakt met morele, economische e.a. voorstellingen, allerminst als uitdrukking van persoonlijke gevoelens en tendensen. Het maakt tevens niet uit of men het nu verwerpelijk vindt of beschouwt als een atavistisch overblijfsel van barbaarse tijden dat naties zich blijven groeperen volgens vriend en vijand of hoopt dat dit onderscheid op een dag zal verdwijnen. Het gaat hier niet om abstracties of normatieve idealen maar om de inherente werkelijkheid en de re�le mogelijkheid tot dit onderscheid. De vijand is dus niet een concurrent of een tegenstander in algemene zin. De vijand is ook niet de private vijand die men haat. De vijand bestaat alleen wanneer de re�le mogelijkheid van een vechtende (k�mpfende) collectiviteit van mensen een gelijkaardige collectiviteit confronteert. De vijand is enkel de publieke vijand, omdat alles wat verband houdt met zo'n collectiviteit van mensen, in het bijzonder een volk, daardoor publiek wordt.

Schmitt neemt het voorbeeld van het gekende Bijbelcitaat "Bemint uw vijanden" (Mat. 5:44, Luc. 6:27) aangezien de Duitse en andere talen geen onderscheid kennen tussen publieke en private vijand. In het Latijn heet het "diligite inimicos vestros" en niet "diligite hostes vestros". De vijand is in het Latijn hostis (publieke vijand) en niet inimicus (private vijand) in bredere zin. Van politieke vijand is geen sprake. Nooit is het bij de modale christen tijdens de duizendjarige strijd tussen islam en christendom opgekomen om uit liefde voor de Saracenen of Turken, Europa uit te leveren aan de islam i.p.v. het te verdedigen. Het Bijbelcitaat betekent dus zeker niet dat men de vijanden van zijn eigen volk zou moeten liefhebben of ondersteunen.

Oorlog als manifestatievorm van vijandschap

Oorlog is gewapende strijd tussen georganiseerde politieke eenheden, burgeroorlog is gewapende strijd binnenin een, en daardoor ook problematisch wordende, georganiseerde eenheid. De begrippen vriend, vijand en strijd verkrijgen hun zin precies omdat ze verwijzen naar de werkelijke mogelijkheid tot fysische doding. Oorlog volgt uit de vijandschap, zij is de existenti�le negatie van de andere: de vijand. Oorlog is slechts de uiterste realisering van vijandschap. Het is niet zo dat het politieke enkel bloedige oorlog inhoudt en elke politieke handeling een militaire actie. Deze begripsbepaling van het politieke is oorlogszuchtig noch militaristisch, imperialistisch noch pacifistisch. Het is ook geen poging de zegerijke oorlog of de succesvolle revolutie als "sociaal ideaal" voorop te stellen aangezien oorlog noch revolutie iets sociaal of ideaal zijn. De militaire strijd is op zich niet de "voortzetting van politiek met andere middelen" zoals het beroemde citaat van Clausewitz meestal verkeerd geciteerd wordt10. Oorlog heeft zijn eigen strategische, tactische en andere regels en zienswijzen, maar zij vooronderstellen dat de politieke beslissing, nl. wie de vijand is, reeds genomen is. Oorlog is niet doelbestemming en doeleinde of tevens niet de eigenlijke inhoud van het politieke maar als een altijd aanwezige mogelijkheid is het de immer voorhanden zijnde vooronderstelling (Voraussetzung) die het menselijke handelen en denken op karakteristieke wijze determineert en daardoor een specifiek politiek gedrag cre�ert.

Het criterium van het vriend-vijand onderscheid betekent helemaal niet dat een bepaald volk voor eeuwig de vriend of vijand moet zijn van een ander specifiek volk of dat neutraliteit niet mogelijk of politiek niet zinvol kan zijn. Het gaat hier om een dynamisch criterium. Belangrijk is de mogelijkheid van het extreme geval, de werkelijke strijd, en de beslissing of deze situatie er is of niet. Dat dit extreem geval eerder uitzondering (Ausnahmefall) is, heft zijn beslissend karakter niet op doch bevestigt het des te meer. Een wereld waarin deze mogelijkheid tot strijd ge�limineerd en verdwenen is - ultieme wereldvrede - is een wereld zonder onderscheid van vriend of vijand en bijgevolg een wereld zonder politiek.

Niets kan de logische conclusie van het politieke ontsnappen. Indien de wil tot verhindering van de oorlog zo sterk is dat het de oorlog niet meer schuwt, dan is het een politiek motief geworden, m.a.w. het bevestigt de extreme mogelijkheid tot oorlog en de zin tot oorlog. De oorlog wordt dan beschouwd als de ultieme laatste oorlog van de mensheid. Zulke oorlogen zijn noodzakelijkerwijze bijzonder intens en onmenselijk aangezien ze het politieke overstijgen en de vijand tegelijkertijd tot morele en andere categorie�n degraderen en er een onmenselijk monster van maken die niet alleen verslaan maar ook definitief vernietigd moet worden. De mogelijkheid van zulke oorlogen maakt duidelijk dat oorlog als re�le mogelijkheid vandaag nog steeds voorhanden is en cruciaal is voor het vriend-vijand onderscheid en de betekenis van het politieke.

De beslissing over oorlog en vijand

Aan de staat als politieke eenheid komt het jus belli toe, het recht tot oorlogvoeren. Dat betekent de werkelijke mogelijkheid om in een concrete situatie te beslissen de vijand te bepalen en te bestrijden. Aldus heeft de staat als politieke eenheid een enorme macht: de mogelijkheid oorlog te voeren en daarmee te beschikken over de levens van mensen. Het jus belli impliceert de dubbele mogelijkheid: het recht om van de leden van zijn eigen volk de bereidheid tot sterven en doden (Todesbereitschaft und T�tungsbereitschaft) te verlangen. Maar de taak van een normale staat bestaat echter daarin binnenin de staat en zijn territorium de volledige vrede te garanderen. Rust, veiligheid en orde cre�ren en daardoor de normale toestand bewerkstelligen is de vereiste om rechtsnormen te doen gelden. Elke norm vooronderstelt een normale situatie en geen enkele norm kan geldig zijn in een voor deze volledig abnormale situatie.

Indien een volk niet meer de kracht of de wil heeft zich te handhaven in de politieke sfeer, dan zal het politieke niet verdwijnen uit de wereld. Enkel een zwak volk zal verdwijnen.

De wereld is geen politieke eenheid doch een politiek pluriversum

Uit het begripskenmerk van het politieke volgt het pluralisme van de statenwereld. De politieke eenheid vooronderstelt het re�le bestaan van een vijand en daardoor co�xistentie met een andere politieke eenheid. Zolang een staat bestaat zal er in de wereld dus meer dan ��n staat zijn. Een wereldstaat die de volledige aarde en de volledige mensheid zou omvatten kan niet bestaan. De politieke wereld is een pluriversum, geen universum. De mensheid kan aldus geen oorlog voeren want het heeft geen vijand, tenminste niet op deze planeet. Het begrip mensheid sluit het begrip vijand uit aangezien de vijand ook een mens is en daarin geen specifiek onderscheid ligt. Dat er oorlogen gevoerd worden in de naam van de mensheid doet niets af van deze eenvoudige waarheid. Integendeel, het heeft een bijzondere intensieve politieke betekenis. Wanneer een staat in naam van de mensheid een politieke vijand bestrijdt, is dit geen oorlog voor de mensheid maar een oorlog waarin een staat een universeel begrip gebruikt tegen zijn militaire tegenstander om zich, ten koste van de tegenstander, te identificeren met de mensheid op dezelfde wijze waarmee ook vrede, gerechtigheid, vooruitgang, beschaving misbruikt kunnen worden en door deze zich eigen te maken, ze ontzegt aan de vijand.

Het begrip mensheid is een bijzonder bruikbaar ideologisch instrument van imperialistische expansie en in zijn ethisch-humanitaire vorm is het een specifiek instrument van economisch imperialisme. Schmitt herinnert aan het woord van Proudhon: wie mensheid zegt, wil bedriegen. Het monopoliseren van het begrip "mensheid" heeft bepaalde consequenties zoals het de vijand ontzeggen een mens te zijn en hem hors-la-loi en hors l'humanit� te verklaren en daardoor de oorlog tot de extreemste onmenselijkheid te voeren. Afgezien van deze hoogst politieke bruikbaarheid van het niet-politieke begrip mensheid zijn er op zich geen oorlogen om de mensheid.

Gevaarlijkste boek

Uit een enqu�te die
Filosofie Magazine (december 2004) hield onder hoogleraren, schrijvers en journalisten bleek dat "Het begrip politiek" van Carl Schmitt is gekozen tot het gevaarlijkste werk uit de wijsbegeerte. Er werd gevraagd een top-drie van gevaarlijke boeken samen te stellen en te motiveren. Boeken die de schaduwzijde van het menselijk bestaan of van de moderne samenleving openbaren of de censuur van de goede smaak aanvallen. Boeken waarvan het gevaarlijker zou kunnen zijn ze te negeren dan ze te bestuderen.

Een van de ondervraagden, de filosoof Theo de Wit, die doctoreerde op de soevereine vijand in de politieke filosofie van Carl Schmitt (De onontkoombaarheid van de politiek), doorprikt in zijn motivering de liberale illusie van een conflictvrije samenleving: "Het verschijnen van een vijand maakt spoedig een einde aan de liberale droom waarin er wereldwijd alleen maar economische concurrenten of dialoogpartners bestaan. Een droom die alleen via een langdurig, mondiaal exces van geweld gerealiseerd kan worden."

Carl Schmitt - Het Begrip Politiek

Inleiding: Theo de Witt
Vertaling:George Kwaad/ Bert Kerkhof

Boom/ Parr�sia, Amsterdam, 2001.

ISBN 90 5352 725 7.
160 blz.
17.95 euro.
jan.lievens@vbj.org


Herwerkte versie (december 2004) van een artikel uit Breuklijn - november 2001.