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lundi, 06 septembre 2010

Kurosawa, l'ultimo imperatore

Kurosawa, l’ultimo imperatore

di Marco Iacona

 
Fonte: Linea Quotidiano [scheda fonte]

Akira Kurosawa è stato un uomo di cinema molto colto, uno di quelli che si sono ispirati ai geni della letteratura di sempre come William Shakespeare e Fëdor Dostoevskij e che a sua volta ha fornito spunti a non finire a chi è venuto dopo o insieme a lui. Dal Sergio Leone di Per un pugno di dollari al western americano dei Magnifici sette fino al George Lucas della saga di “Guerre stellari”, ed è stato probabilmente – per i temi trattati nei film – una della miglior “cerniere” fra Oriente e Occidente che si ricordino.

È giusto allora parlare di lui perché il cinema internazionale non sarebbe stato quello che è stato senza la sue abilità narrative, colme ora di trasognate apparizioni ora di crudissimo e sanguinario realismo. Ma il regista della Sfida del Samurai – il film al quale si ispirò Leone, con Toshiro Mifune nel ruolo che qualche anno dopo sarà di Clint Eastwood – non ha saputo rinunciare né al racconto “caotico” del mito medioevale – divulgato con un’abilità poco riconosciuta fra le mura di casa – né alle tecniche o alle citazioni di tipo squisitamente teatrale.

Kurosawa è stato anche un maestro dell’epica contemporanea abbinata, col massimo dell’abilità, a un pessimismo senz’alcuna macchia di retorica. Un lavoro del 1985 – uno dei suoi ultimi film – liberamente ispirato a Re Lear di Shakesperare, finisce con parole che sanno di condanna senza appello per il genere umano: in un Giappone infernale nella materia e nella sostanza, non sembra esserci spazio alcuno per uomini e donne di “buona volontà”, bensì per esseri umani stupidi e violenti che vivono o sopravvivono assassinando i loro simili e che credono nella vendetta e nel dolore. I “buoni” e i leali non vengono creduti e l’unica regola che vale è la sottomissione dello sconfitto al più forte e al vincitore. In tutto questo l’onore dei soldati è un limite solo parzialmente valicabile dalla brutalità della guerra e dalla brama di potere. Una vera lezione…

Nato a Tokio, educato rigidamente e sensibilissimo alle arti e alla pittura (per un po’ illustrerà anche romanzi rosa e libri di cucina), Kurosawa si avvicina al cinema grazia al fratello maggiore, Heigo. Debutta come regista nel 1943 con Sugata Sanshiro un’originalissima storia sullo judo, e va avanti quasi con un film l’anno fino alla metà degli anni Sessanta, inizialmente attratto da tematiche sociali poi anche da temi basati sulla “valorizzazione” dell’individuo con tanto di sconfitte, emozioni ed eterne illusioni. Dal ’70 in poi girerà poche altre pellicole, fino al 1993 anno di Madadayo. “Il compleanno”, ultima fatica prima di scomparire quasi novantenne nel 1998. Freddo (forse solo apparentemente) e pignolo fino alla ricerca della perfezione (celebri le sue lunghissime riprese, con un rapporto di dieci metri di pellicola girata per poterne utilizzare e conservare soltanto una), “Tenno” Kurosawa – Kurosawa l’Imperatore, questo il suo soprannome – ha donato agli occidentali alcune perle di una cultura, quella orientale, che col trascorrere degli anni è apparsa sempre meno lontana dal nostro sentire, divenendo così soprattutto da noi, lui nobile discendente di una famiglia di Samurai, un artista “di casa.” Il regista di Tokio è stato infatti definito il «meno giapponese» dei cineasti del Sol levante, anche se pare non abbia mai particolarmente gradito le interpretazioni di “natura occidentale” dei suoi film.

Del 1951 è per esempio uno dei primi capolavori di Kurosawa, uno dei simboli riconosciuti del cinema orientale, Rashomon (col grande Mifune per molti anni quasi un suo alter ego, nel ruolo di un brigante da strada) che vincerà il Leone d’oro a Venezia e poi l’Oscar come miglior film straniero. È la pellicola che rivelerà alla cinematografia internazionale non solo un grande maestro ma anche l’intero cinema giapponese. Un colpo di scena irripetibile. Memorabile il suo “testa a testa” al Festival della Laguna con Un tram che si chiama desiderio di Elia Kazan, forse più amato dagli stessi “addetti ai lavori” a giudicare da queste poche righe apparse sull’Europeo all’indomani della proclamazione dei vincitori, a firma Gian Gaspare Napolitano, membro della giuria: «Rashomon ha questo di buono, che pur trattando un argomento scabroso come il duello mortale in un bosco fra un samurai e un brigante da strada in vista del possesso di una donna, lo stile del racconto è tale che il film si contempla senza inquietudine». Al film di Kazan con Marlon Brando andrà il premio speciale della giuria.

Nel 1954 esce il notissimo e imitatissimo I Sette Samurai (ancora con Mifune), considerato uno degli spaccati più “fedeli” del Giappone del periodo delle guerre civili. Nel ’57 Kurosawa concluderà invece Il trono di sangue che si ispira invece a un Macbeth, ancora di Shakespeare, trasferito però nel ‘500, e nel ’75 Dersu Uzala, il piccolo uomo delle grandi pianure, finanziato dall’Urss, storia di un’amicizia e di un cacciatore solitario – un mongolo della tundra – che non resiste alla cosiddetta civiltà e sceglie di vivere e poi morire nel suo ambiente naturale cioè la taiga siberiana. Il film vinse sia al Festival di Mosca sia, ancora, alla notte degli Oscar hollywoodiani, ed è fondamentale nella biografia del regista nipponico perché segna il ritorno al successo dopo la delusione del film del ’70 (Dodes’ka den), di seguito alla quale – come un vero guerriero che cerca di salvaguardare l’onore perduto – il nostro aveva perfino tentato il suicidio.

Non finisce qui. Anzi. Nell’80 esce Kagemusha, l’ombra del guerriero con cui Kurosawa tornerà a trattare uno degli argomenti prediletti, il Giappone delle tradizioni; e negli anni Novanta infine Sogni (una pellicola formata da episodi diversi, a testimoniare anche la varietà di temi e interessi del tokyoto) e Rapsodia in agosto grazie ai quali si riaccendono i toni antimilitaristi e pacifisti di “Tenno” Kurosawa. Si tratta peraltro dei due film coi quali il pubblico più giovane ricorderà per sempre la grande poesia – e lo sguardo antiprogressista – dell’Imperatore; l’omaggio a Vincent Van Gogh interpretato da Martin Scorsese e il Richard Gere coprotagonista della pellicola dedicata al ricordo della bomba atomica su Nagasaki. Con lucidità, destrezza e fantasia, Kurosawa ha cercato di raccontare la storia dell’orrore della guerra atomica dalla parte degli sconfitti, degli adulti sempre meno numerosi e dei bambini, ai quali è destinata la cura della memoria. Quella memoria che insieme all’“uomo” – in cento luoghi diversi ove positivo e negativo riescono perfino a confondersi – è stata la protagonista della carriera cinematografica di uno degli artisti più imitati della seconda metà del XX secolo.

 

 

 

 


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mercredi, 25 août 2010

Le message national du cinéma allemand

Archives de Synergies Européennes - 1988

 

Le message national du cinéma allemand

 

par Guy CLAES

 

LeMariageDeMaria_base.jpgJadis, le passé s'évanouissait dans les brumes des souvenirs, se voyait transformé et déformé par les imaginations. Aujourd'hui, le passé demeure, fixé sur les bobines de celluloïde, archivé dans les ciné­mathèques. Les films sont notre néo-mémoire ; ils ont démocratisé l'histoire qui, désormais, ne se stocke plus uniquement dans les crânes de quelques élites motrices, mais est directement accessible aux masses. La puissance de gérer, de dominer, de ma­nipuler l'histoire appartient dorénavant à ceux qui produisent les images et les lèguent aux générations futures. Dès lors, une lutte s'engage – et nous le constatons dans nos journaux et l'observons sur nos écrans – pour l'organisation de la mémoire publi­que et collective. Quel sens va-t-on lui donner ? Avec quels critères va-t-on l'imprégner ?

 

En Allemagne, pays vaincu et « rééduqué », le thème de l'histoire, et surtout de l'histoire mise en film, s'avère problématique, lancinant, omniprésent et ob­sessionnel. L'histoire y sera jugée de façon critique, par des intellectuels inquiets, soucieux de ne pas en­freindre les comportements imposés, les tabous dic­tés par les psychologues affectés auprès de la police militaire américaine. La psychologie de l'intellectuel allemand, du Ouest-allemand qui joue et crée avec les opinions pour matériaux, diffère radicalement de celle de son homologue français, plus assuré, plus affirmateur, qui, s'il est « patriote » comme un Pierre Chaunu, rayonne de bonne conscience et forge de beaux écrits apologétiques. Le Français a une « patrie facile », l'Allemand a une « patrie difficile » (Ein schwieriges Vaterland).Et cette « difficulté » se ré­percute, de façon fantastique et étonnante, chez les cinéastes allemands modernes et dans leurs belles productions.

 

De l'image au débat sur l'histoire

 

Comment cette angoissé face à l'histoire peut-elle, malgré les limites qu'elle impose à la pensée, se transfigurer de manière si captivante dans les films ? Parce que, écrit Anton Kaes, les images, couplées aux textes parlés et aux sons, relèvent d'une matéria­lité pluri-codée, génératrice d'une esthétique com­plexe, qui permettent de jouer sur les ambivalences et, simultanément, de suggérer au spectateur plu­sieurs significations à la fois. Le film de fiction, à connotations historiques, permet ainsi d'activer, chez le spectateur, des désirs et des angoisses ca­chés, de libérer des fantaisies, d'interpeller des sen­timents collectifs inconscients et de catalyser des o­pinions. En bref: de titiller le refoulé, de le ramener à la surface. Ainsi, le film de Syberberg sur Hitler, Die Patriotin d'Alexander Kluge, Die Ehe der Maria Braun de Fassbinder et Deutschland bleiche Mutter de Helma Sanders-Brahm, ont tous déclenché un dé­bat sur l'identité nationale à la fin des années 70. L'œuvre cinématographique donnait lieu et prétexte à un « événement » d'ordre discursif. Les critiques ne pouvaient plus se limiter à une simple analyse du film en tant que film mais devaient passer à un stade complémentaire et se plonger dans un débat sur l'histoire, imposé par la multiplicité des significa­tions, véhiculée par les images.

 

Les critiques de cinéma étaient donc plus ou moins contraints de se mettre à l'écoute de l'histoire et, en outre, de se récapituler l'histoire du cinéma alle­mand, marquée par l'autorité de Goebbels. Ce der­nier était parfaitement conscient de l'importance de la technique cinématographique, écrit Anton Kaes. Pendant l'hiver 1944/45, quand le IIIème Reich ago­nise, quand ses villes brûlent sous le phosphore des «soldats du Christ» et de son ayant-droit auto-pro­clamé, Roosevelt, quand ses dirigeants se réfugient dans leurs taupinières de béton, quand les meilleurs régiments sont saignés à mort, Veit Harlan, le ciné­aste-vedette de l'époque, reçoit l'ordre de tourner un film en couleurs sur l'épisode de la bataille de Kol­berg au XVIIIème siècle. Ce fut, malgré la disette et la ruine, le film le plus onéreux produit pendant l'ère hitlérienne. 187.000 soldats et 4.000 matelots sont détachés du front pour servir de figurants ! La pre­mière présentation publique a lieu le 30 janvier 1945, juste douze ans après la prise du pouvoir, dans la ville charentaise de La Rochelle, assiégée par les alliés. Quelques jours plus tard, les rares cinémas non détruits de Berlin passent le film sous les hurle­ments des sirènes, les vrombissements des bom­bardiers et l'explosion des bombes. Ce surréalisme fou et tragique témoigne de la foi aveugle qu'a cul­tivée le IIIème Reich à l'égard de la puissance déma­gogique des images mobiles.

 

Le IIIème Reich, c'est un film

 

Pour Goebbels, cette foi était calculée. Anton Kaes rappelle un de ses derniers discours, prononcé le 17 avril 1945, quelques jours avant son suicide. Devant un groupe d'officier, le Ministre de la Propagande prononce ces paroles si significatives : « Messieurs, dans cent ans on montrera un beau film en couleurs sur les jours terribles que nous vivons aujourd'hui. Voulez-vous jouer un rôle dans ce film ? Alors tenez bon maintenant pour que, dans cent ans, les specta­teurs ne vous huent et ne vous sifflent pas lorsque vous apparaîtrez sur l'écran ! ». Cette exhortation re­flète toute la prétention esthétisante du nazisme: jus­qu'au bout, ce régime et cette idéologie ont mis la si­mulation, le tragique, l'esthétisme, le geste à l'avant­-plan.

 

Pour Kaes, comme pour les jeunes cinéastes ouest­-allemands, le « IIIème Reich », c'est un film. La scè­ne de ce film, c'est l'Allemagne. Le producteur, c'est Hitler. Goebbels, c'est le metteur en scène. Al­bert Speer, c'est le décorateur. Le peuple, c'est l'en­semble des figurants. Et en effet, dès le premier jour du régime jusqu'à sa fin apocalyptique, la produc­tion d'images n'a pas cessé. Tous les films, les longs métrages comme les documentaires et les ac­tualités, étaient contrôlés par la « Reichsfilmkammer » et Goebbels participait souvent personnellement au découpage. Jamais un État ne s'est préoccupé de fa­çon aussi obsessionnelle de cinéma, reconnaissant par la même occasion sa fonction pédagogico-poli­tique. Grâce au film, expliquait Goebbels, on peut éduquer le peuple sans lui donner l'impression qu'il se fait éduquer, la meilleure propagande est celle qui demeure invisible.

 

Quant aux films de propagande proprement dits, ils devaient subjuguer les masses par leur monumen­talité. Mais la monumentalité n'est pas le seul atout de ce type de cinéma; dans Le Triomphe de la Vo­lonté de Leni Riefenstahl, classique du genre, la ca­méra perpétuellement mobile parvient à dynamiser tout : les espaces, les formations humaines, les mo­numents de pierre. La symbolique suggérée par les jeux de lumière s'ajoute à cette mouvance enivrante qu'un Robert Brasillach ou un Pierre Daye ont cons­taté de visu. Ces images de propagande, ce dyna­misme cinématographique légué par Leni Riefen­stahl, nous les avons intériorisés ; ils font partie de notre mémoire vive ou dormante.

 

Présence et jouvence du IIIème Reich dans les films

 

Le IIIème Reich, dont la politique cinématographi­que fut rigoureusement planifiée, semble avoir de ce fait trouvé le secret de l'éternelle jouvence, la force de rester, en dépit des vicissitudes tragiques de l'his­toire, pour toujours parmi nous. Goebbels nous a imposé et continue à nous imposer sa vision esthé­tique, son image du politique, son dynamisme total, comme nous l'indique son discours du 17 avril 1945. Les adversaires du régime n'existent plus par­ce qu'ils n'ont pas été filmés, si bien que leurs pro­blèmes disparaissent, semblent n'avoir pas été parce qu'aucune image ne témoigne d'eux. Les images ac­quièrent une réalité plus prégnante que le réel et pos­sèdent une dimension plus mobilisatrice, comme le prouvent aussi les innombrables albums illustrés sur le IIIème Reich qu'on trouve à profusion dans le commerce et comme l'attestent également les « con­tre-images » qui dévoilent l'univers concentrationnai­re.

 

Cette conquête du futur, partiellement réussie par Goebbels, a été possible par l'émigration forcée de cinéastes comme le génial Fritz Lang qui voulait s'affranchir des impératifs politiques et ne pas pas­ser sous les fourches caudines du parti au pouvoir. En dehors du cinéma nazi, il ne subsistait rien. Après la défaite, le public allemand et sa nouvelle in­telligentsia cultiveront une méfiance instinctive à l'é­gard du cinéma dont les productions les plus con­nues avaient été marquées du sceau goebbelsien. La tradition cinématographique allemande, dans laquelle s'inscrivait Fritz Lang, avait été brisée et la tradition de Goebbels n'était plus de mise. Les nouveaux pro­ducteurs durent dès lors imiter les modèles améri­cains ; Werner Herzog fut l'un des premiers à re­nouer avec la tradition des expressionnistes alle­mands des années 20. Schlöndorff s'inspira de ses collègues français. En 1962, vingt-six cinéastes et journalistes proclament le « Manifeste d'Oberhau­sen », où il est annoncé que le « cinéma de Papa » est mort. Les signataires envisagent l'avènement d'un cinéma « critique » qui doit remplacer la vogue des variétés dépolitisées et dépolitisantes, tout comme le « Groupe 47 » doit rénover la littérature. Suivant l'exemple des Français Godard, Truffaut et Chabrol, ils estiment que tout film doit porter la signature indélébile de son auteur.

 

Le souci « moral »

 

Le « Manifeste d'Oberhausen » trahit, comme les grands courants philosophiques contemporains en RFA ou comme les principes qui animent les tenants du « Groupe 47 » en littérature, un souci « moral », un souci de hisser la « morale » au-dessus du politique, de l'histoire et de l'instinct de conservation. Mais cette démarche « moralisatrice » va thématiser le rap­port troublé qu'entretiennent les Allemands avec leur histoire, criminalisée par les vainqueurs de 1945 et sans cesse houspillée hors des mémoires. Les pre­miers Spielfilme du « jeune cinéma allemand » con­cernent directement ce passé problématique. L'Alsa­cien Jean-Marie Straub, installé en RFA, et sa com­pagne Danielle Huillet créent un cinéma rigoureuse­ment détaché des variétés commerciales et calqué sur les œuvres littéraires de Heinrich Böll. Cette option se révèle clairement dans Machorka-Muff (1962), un court métrage inspiré par la satire de Böll, Hauptstädisches Journal (= Journal de la capitale). Le héros central du film est un ancien général de l'armée de Hitler, Erich von Machorka-Muff, qui réalise un fantasme : créer une « Académie des souve­nirs militaires » où les militaires, à partir du grade de major, peuvent se retirer pour y écrire leurs mémoi­res. La première conférence prononcée dans cette institution porte, très significativement, le titre de « Le souvenir comme mission historique ». Straub et Huillet voulaient souligner par là que l'important, ce n'était pas les nostalgies des vieux soldats mais la volonté de dépasser l'amnésie installée pendant le miracle économique.

 

Ce retour discret à l'histoire, grèvé de ce sentiment de lourde culpabilité, qui agace parfois les non­Allemands, Straub et Huillet l’ont opéré par le biais d'une technique cinématographique diamétralement contraire aux techniques de Leni Riefenstahl. Tout grandiose est évacué et on voit apparaître un véri­table ascétisme vis-à-vis des images. La caméra reste statique ; les acteurs déclament leur texte de façon un peu scolaire, afin que le caractère de fiction puisse bien apparaître, comme le préconisait Bertold Brecht. Ce genre de film est accueilli avec enthou­siasme à l'étranger, lors des festivals, mais ne sus­cite pas les faveurs des masses. Il reste donc un pur produit intellectuel, en marge des préoccupations de monsieur-tout-le-monde, plus friand de sensationnel et de narratif.

 

Le choc de la « Bande à Baader »

 

Ce divorce entre la réflexion sur l'histoire refoulée et les désirs immédiats de la population perdurera jus­qu'en 1977. Cette année-là est la grande année de la Rote Armee Fraktion (RAF) ou « Bande à Baader ». Ce groupe terroriste urbain assassine consécutive­ment le Procureur Buback, le banquier Ponto et le « patron des patrons » Schleyer. La tension culmine en octobre quand des camarades de Baader, empri­sonné à Stammheim, détournent un avion vers Mo­gadiscio en Somalie avant de se faire neutraliser par un commando spécial. Baader, Raspe et Gudrun Ensslin se « suicident » alors mystérieusement dans leurs cellules. Cette situation de crise provoque la naissance d'un néo-macchartysme, d'une censure à l'endroit de tout ce qui peut apparaître comme non conformiste.

 

Dans le monde des cinéastes, Margarethe von Trotta, dans son film Die bleierne Zeit (= Temps de plomb ; 1981), se penche sur la personnalité de Gudrun Ensslin, la suicidée de Stammheim. Ce qui a conduit la jeune Gudrun au terrorisme urbain, c'est la prise de conscience des horreurs du nazisme ; elle s'imagine, qu'en tant qu'Allemande, elle porte une « marque de Caïn » indélébile qu'il faut racheter en luttant contre les injustices d'aujourd'hui et les reli­quats du passé, portés par les « parents ». Moins sim­plificateur, le philosophe Norbert Elias estime que ce ne sont pas, en règle général, les « parents », en tant qu'êtres concrets et vivants, qui ont provoqué le déclic fatal mais les livres scolaires et l'école, mis au pas par la rééducation. Le lavage de cerveau condui­rait ainsi au paroxysme terroriste.

 

Oublier l'histoire ou s'y replonger

 

En triturant l'histoire, en la violentant, le système de la « rééducation » n'a pas apaisé les Allemands com­me l'auraient voulu les Alliés occidentaux, ne les a pas réinsérés dans cette vieille, traditionnelle et pai­sible acceptance romantique d'une réalité internatio­nale pré-bismarckienne qui leur assigne à perpétuité une place de seconde zone, dans cette douce et in­souciante Gemütlichkeit du « Bon Michel » sans in­dustrie et sans armée, mais, au contraire, les a jetés dans une angoisse atroce, dans un déchirement per­pétuel, générateur de terrorisme, producteur de des­perados à la Baader. Et la censure anti-terroriste, la chasse aux sorcières néo-macchartyste de l'automne 1977, n'a fait qu'amplifier cette angoisse, ce proces­sus de refoulement constant, où l'inquisiteur, en tra­quant le non-conformiste soupçonné de sympathiser avec les terroristes, traque aussi un pan entier de sa propre sensibilité, de son intériorité,

 

L'affaire Baader provoque finalement un désir géné­ral de renouer avec l'histoire. À la version officielle de l'événement, un collectif de cinéastes répond par un film critique Deutschland im Herbst (= L'Alle­magne en automne), où, par l'intermédiaire d'images d'archives, les spectateurs peuvent comparer l'as­sassinat de Rosa Luxemburg au « suicide » et à l'enterrement furtif et hyper-surveillé de Baader et de ses deux camarades, l'enterrement officiel du Maré­chal Rommel, présenté comme dissident, et l'enter­rement de Schleyer, victime de la RAF.

 

Le défi d'Holocauste

 

Cette timide amorce d'une réinvestigation de l'his­toire n'a pas atteint le grand public et est resté affaire d'intellectuels contestataires. Une année plus tard, la série américaine Holocauste, elle, replonge directe­ment les téléspectateurs dans l'histoire et interpelle sans détours les Allemands, détenteurs des mauvais rôles, comme il se doit à notre époque. Holocauste provoque un débat malgré la médiocrité stéréotypée de son intrigue, l'absence de tout goût dans sa réali­sation générale et son kitsch flagrant. Ce sera Élie Wiesel qui aura les mots les plus durs pour dénigrer la série ; dans un article du New York Times, en date du 16 avril 1978, le futur Prix Nobel ne mâche pas ses mots ; écoutons ses paroles : « En tant que pro­duction de télévision, le film constitue une injure à l'égard de ceux qui ont périt et de ceux qui ont sur­vécu. (...). Suis-je trop dur ? Trop sensible peut-être. (...) [Ce film] transforme un événement ontolo­gique en une opérette (soap-opera). Quelqu'aient été les intentions de ses réalisateurs, le résultat est choquant. Des situations imaginées, des épisodes sentimentaux, des hasards non crédibles : (...). Holocauste, c'est un spectacle télévisé. Holocauste, c'est un drame de télévision. Holocauste, mi-fait, mi-fiction. N'est-ce pas exactement ce que de nom­breux "experts" moralement égarés ont fait valoir partout dans le monde, ces derniers temps ? C'est-à-­dire ont affirmé que l'holocauste n'est rien de plus qu'une "invention" ? (...). L'holocauste doit rester gravé dans nos mémoires, mais pas comme un show ».

 

Sabina Lietzmann, collègue de Wiesel à la Frank­furter Allgemeine Zeitung, se place sur la même longueur d'onde dans un article paru le 20 avril 1978 ; pour elle, qui vient de visionner le film avant le public, Holocauste  transforme le martyr des Juifs en opérette. Le 28 septembre 1978, elle révise son jugement, expliquant que le film a son utilité, sa fonction, qui est de renforcer et dépasser en efficacité les arguments du purisme rationnel. Le niveau de la « story », qui est celui d'Holocauste, permet un accès immédiat à l'histoire de l'anéantissement des Juifs, lequel demeurerait sinon incompréhensible à la raison courante, selon Sabina Lietzmann. L'in­telligentsia juive a donc changé d'attitude à l'endroit de la production télévisée : hostile au départ, parce qu'elle trouvait la trame narrative trop grossière, son attitude s'est muée en enthousiasme devant le succès du film et l'étonnante naïveté du public européen

 

Die Patriotin d'Alexander Kluge

 

En Allemagne, le défi lancé par Holocauste, sa ré­ception mitigée chez les Juifs et hostile chez les Na­tionalistes, ouvrent l'écluse : l'histoire entre à gros flots dans une société qui avait voulu l'oublier pour toujours et l'avait refoulée sans merci. Les « nou­veaux » Allemands ont voulu prouver qu'ils ne cor­respondaient plus aux stéréotypes des nazis carica­turaux que donnaient d'eux les producteurs améri­cains. L'histoire allemande, disaient-ils, ne devait plus être traitée exclusivement par l'« esthétisme commercial » américain. L'histoire allemande doit être traitée sur les écrans par des cinéastes allemands ; ils ont le devoir de ne pas se la laisser arracher des mains.

 

Kaes estime que la meilleure réponse à Holocauste a été Die Patriotin (= La patriote) d'Alexander Kluge, primée en septembre 1979. Ce film, commencé deux ans plus tôt, s'oppose radicalement à la série holly­woodienne sur le plan du style. Kluge rejette tout fil conducteur narratif, toute fiction sans épaisseur, toute cette platitude d'historiette. Son œuvre, de portée philosophique, de teneur non propagandiste, indique la perte qu'ont subie les Allemands : leur histoire est désormais détachée de tout continuum ; elle est devenue un puzzle défait, un chaos de morceaux épars, d'où l'on ne retire que du désorientement. Comme l'écrivait Lyotard, l'ère post-moderne est l'ère qui a abandonné les grands récits idéologiques explicatifs pour morceler le réel au gré des options individuelles. L'Allemagne a renoncé à comprendre les lames de fonds de son histoire multi-millénaire – parce qu'on la lui a criminalisée – pour butiner, erratique, autour des feux follets occidentaux, consuméristes, ma­térialistes.

 

Une nouvelle conception de l'histoire

 

La figure centrale de Die Patriotin est une ensei­gnante, professeur d'histoire, Gabi Teichert. Cette femme cherche, au-delà de sa fonction, à renouer plus intimement avec le passé de son pays, l'Alle­magne. Symboliquement, on la voit se transformer en archéologue-amateur qui gratte le sol pour décou­vrir des restes dispersés d'une histoire deux fois millénaire qui ne peut plus être mise sous un déno­minateur commun. Fouiller ce vaste chantier, apporte au moins une conviction : l'histoire ne peut se réduire aux simplismes consignés hâtivement dans les ma­nuels scolaires. Il n'y a pas une histoire mais beau­coup d'histoires ; il n'y a pas un « grand récit » (pour paraphraser Lyotard) mais un tissu complexe de mil­liers de « petits récits » enchevêtrés.

 

La « nouvelle histoire », c'est précisément la méthode historique qui doit réhabiliter ces « petits récits », les­quels deviennent la chape sous-jacente d'un « nou­veau patriotisme ». Ce patriotisme n'exalte plus une construction politique, une machine étatique – l'i­déologie dominante de gauche ne l'aurait pas accep­té – mais chante un espace qui accouche perpé­tuellement d'une identité, un espace auquel on est lié par la naissance et l'enfance, la langue et les premières expériences de la vie. La gauche, après la faillite de la stratégie terroriste en 1977, se met à vouer un culte à la Heimat, socle incontournable, fait de monde plus durable que les gesticulations policières ou politiciennes, que les déclamations idéologiques ou l'agressivité terroriste. La « population » devient la nouvelle réalité centrale, les hommes et les femmes de chair et de sang, plutôt que les éphémères avant-gardes du prolétariat ou les porteurs de la « conscience de classe ». L'échec de la révolte urbaine de 68, l'enlisement de ses revendications dans le marais du libéral-­consumérisme occidental, induit quelques-uns de ses protagonistes à renoncer aux utopies grandilo­quentes, sur fond de stagnation, de croissance ralen­tie. Le réel le plus fort, puisque le plus stable, c'est cette dimension du « terroir » éternel, de cet oikos initial de la personnalité de chacun.

 

Le patriotisme de Gabi Teichert

 

Die Patriotin met symboliquement cette mutation du patriotisme en scène. D'entrée de jeu, la première image sur l'écran, c'est un mot : "DEUTSCH­LAND", thème qui va être placé sous la loupe. Très concrètement, la réalité allemande, c'est d'abord un paysage heimatlich, un terroir, un horizon bien cir­conscrit. Les premières images de Kluge semblent issues d'un documentaire touristique : des campagnes riantes, des champs, des prés, des arbres fruitiers en fleurs, les ruines d'un vieux château, des forêts. Ce survol s'opère sur un texte déclamé par un os de genou, découvert par Gabi Teichert, symbole d'un morceau du passé. Il dit : « On dit que je suis orienté historiquement. C'est juste, évidemment. L'histoire ne me quitte pas l'esprit car je suis partie d'un tout, comme mon ancien maître le caporal Wieland, était aussi partie d'un tout : une partie de notre belle Allemagne. (...). En tant que genou allemand, je m'intéresse tout naturellement à l'histoire allemande : à ses empereurs, à ses paysans, à ses récoltes, à ses arbres, à ses fermes, à ses prés, à sa flore... ».

 

Derrière l'ironie de ce discours prononcé par un ge­nou de caporal arraché, se profile ce glissement, ob­servable au cours des années 70, des utopies pro­gressistes aux utopies écolo-passéistes. Dans l'orbite de ce glissement idéologique majeur de notre temps, le nationalisme de vieille mouture en vient à signifier l'éloignement d'« hommes du peuple » dans des champs de bataille lointains. Le patriotisme nouveau signifie, au contraire, la proximité du terroir. Kluge symbolise cette opposition par des images de Stalingrad, avec des soldats affamés, défaits, hâves, aux membres gelés, ce qui constitue un contraste affreux entre une steppe enneigée, si lointaine, et une patrie charnelle chaleureuse et idyllique. L'histoire est ici instance ennemie ; elle procède d'une logique qui tue le camarade ressortissant du même peuple que le mien. Si le paysage du terroir est baigné de soleil, le champ de bataille russe où se joue l'histoire est gelé, glacé, frigorifié. De l'hiver de Stalingrad à la froidure de l'Allemagne de Bonn, sortie de l'his­toire, voilà l'itinéraire navrant d'une Allemagne qui ne peut plus renouer avec son passé romantique, musical et nationaliste.

 

Les Allemands victimes

 

Kluge truffe Die Patriotin de morceaux de films al­liés d'actualité : des pilotes américains bombardent une ville allemande tout en plaisantant grossièrement; de jeunes résistants allemands, des Wehrwölfe, sont fusillés par les Alliés en 1945 ; les commentaires en off qui accompagnent ces images tragiques sont sarcastiques : « Ces pilotes de bombardier reviennent de leur mission. De l'Allemagne, ils n'ont rien appris de précis. Ils ont simplement détruit le pays pendant dix-huit heures de façon professionnelle. Maintenant, ils rejoignent leurs quartiers ; ils vont dormir ». Ou : « Nous ne voulons pas oublier que 60.000 personnes sont mortes brûlées dans Ham­bourg ». De tels commentaires induisent les spec­tateurs à percevoir les Allemands comme victimes d'orgies destructrices, de la guerre, de bombarde­ments, de captivités et de fusillades. La personnalité de Gabi Teichert, professeur d'histoire en pays de Hesse, incarne dès lors le souvenir de tous ces morts issus du Reich, souvent victimes innocentes de la guerre totale.

 

Finalement, Kluge est très barrèsien : sa sentimenta­lité patriotique participe d'un culte doux de la Terre –réceptacle de gentillesse, de Gemütlichkeit, d'a­paisement – et des Morts, dont on ne peut perdre le souvenir, dont on ne peut oublier les souffrances in­dicibles. L'Allemagne, ce n'est pas seulement un système étatique né en 1871 et durement étrillé en 1918 et en 1945, c'est surtout un corps vivant, vieux de deux millénaires, un produit de l'histoire façonné par 87 générations, une fabrique d'expériences collectives, un réceptacle de souvenirs. L'Allemagne est une cuisine gigantesque où une force de travail collective n'a jamais cessé de produire des mutations historiques. L'Allemagne véritable est un magma toujours en fusion, jamais achevé. L'Allemagne véritable ne se laisse pas enfermer dans une structure étatique figée. Laboratoire fébrile, l'Allemagne de Kluge et de son ami le philosophe Oskar Negt, connaît ses bonnes et ses mauvaises saisons et, quand Gabi Teichert, à la fin du film, s'en va fêter la Saint-Sylvestre et récapitule l'année écoulée, elle sait que l'hiver présent finira et qu'un nouvel été adviendra, riche en innovations...

 

La révolte de Fassbinder

 

Célébrissime fut Rainer Maria Fassbinder, le cinéaste « gauchiste » mort à 37 ans en 1982 ; perçu à l'étran­ger comme l'incarnation du nouveau cinéma alle­mand, comme le fleuron de la conscience blessée des Allemands contemporains. Fassbinder, c'est la fou­gue et la colère d'une jeunesse à laquelle toute cons­cience politique est interdite et qui doit ingurgiter passivement les modèles de société les plus étrangers à son coeur profond. Souvent, l'on a dit que cette génération de l'« heure zéro » (Stunde Null), dont l'enfance s'est déroulée sous le signe du miracle économique, s'est rebellée contre la génération précédente, celle dite d'« Auschwitz », celle de l'ère hitlérienne. Mais davantage qu'une révolte des fils contre les pères, la révolte de Fassbinder et de ses contemporains est une révolte contre la parenthèse apolitique, anti-identitaire, économiste, inculte, du redressement allemand sous le règne d'Adenauer.

 

Dans cette optique, l'épisode de la révolte étudiante de 67-68 est une ré-irruption du politique, une ex­plosion de sur-conscience politique. Sur-conscience qui s'est pourtant bien vite enlisée dans l'utopisme stérile puis dans l'amertume des désillusions. Toute l'œuvre cinématographique de Fassbinder témoigne de cet échec complet de l'utopisme rousseauiste­marxisant.

 

Pour Fassbinder, le XXème siècle allemand est une suite ininterrompue d'échecs : l'échec du totalitarisme nazi, l'échec humain et psychologique de l'opulence économique, l'échec du romantisme utopiste de 67-­68, l'échec du recours à la terreur. Aucune formule n'a pu exprimer pleinement l'essence véritable de la germanité ; celle-ci reste refoulée dans les conscien­ces. Pour mettre en scène ce « manque » – Kluge parle lui aussi de « manque » – Fassbinder adoptera les techniques du cinéaste Douglas Sirk (alias Hans Detlef Sierck), exilé à Hollywood en 1937, après avoir servi la UFA allemande. Sirk/Sierck avait créé un cinéma inspiré des romans triviaux sans happy end, où les aspirations au bonheur sont contrecar­rées par les aléas de la vie. Autres techniques : éclai­rages contrastés, utilisation symbolique d'objets quotidiens (fleurs, miroirs, tableaux, meubles, vête­ments, etc.).

 

Le système « RFA » est un échec

 

Les premières œuvres de Fassbinder sont toutes marquées par le style de Sirk/Sierck. Quant aux œu­vres majeures, proprement fassbinderiennes, elles sont malgré tout impensables sans l'influence de Sirk. Les destins de Maria Braun, de Lola, de Vero­nika Voss sont des destins privés, indépendants de tout engagement politique/collectif, qui aboutissent tous à l'échec. Mais ces destins que la fiction pose comme privés parce que la technique cinématogra­phique l'impose, sont en fait symboles de l'Allema­gne, d'une histoire nationale ratée, et ne sont plus simplement des cas sociologiques qu'un militant politique met en scène pour induire le public et les gouvernants à trouver un remède politicien. De 1970-72 jusqu'à la période des grands films fass­bindériens, commencée en 1977, on constate un glissement progressif de l'engagement social critique à un engagement national également critique et farci d'une terrible amertume, celle qui conduira Fassbin­der au suicide par overdose.

 

Le recours à l'histoire ne résulte pas, chez Fass­binder, d'une nostalgie de l'Allemagne romantique, impériale ou nationale-socialiste mais d'une volonté de critiquer sans la moindre inhibition ou réticence, l'évolution subie par la patrie depuis 1945. Cette année-là, pense Fassbinder, tout était possible pour l'Allemagne, toutes les voies étaient ouvertes pour créer ce que les Wandervögel avaient nommé le Ju­gendreich, pour créer l'État idéal dont avaient rêvé les mouvements de jeunesse. « Nos pères – écrit Fassbinder – ont eu des chances de bâtir un État qui aurait pu être tellement humain et libre qu'il n'aurait jamais soutenu aucune comparaison historique... ».

 

Une démocratie importée...

 

Mais la RFA, secouée d'hystérie à l'automne 1977, n'est pas l'État idéal, la société parfaite, l'harmonie rêvée. L'entrée de l'histoire sur l'écran, c'est, chez Fassbinder, une rétrospective hyper-critique des an­nées 50 et 60, un refus implicite des institutions et des valeurs règnantes dans cette nouvelle république allemande. La démocratie ouest-allemande est une démocratie non spontanée, importée par des armées étrangères et non imposée par la propre volonté du peuple allemand. Il n'existe donc pas de la démo­cratie de mouture spécifiquement allemande. Ces sentiments politiques contestataires, la trilogie Die Ehe der Maria Braun, Lola, Die Sehnsucht der Veronika Voss, va les exprimer brillamment.

 

Sur le plan psychologique, ce démocratisme d'im­portation, cette misère allemande, procède d'une soumission des sentiments et des instincts à la logi­que du profit, à l'âpreté matérialiste, à la corruption, aux stratégies de l'opportunisme. Ce calcul mes­quin, les hommes, rescapés des campagnes hitlé­riennes (dans les années 50, il reste 100 hommes pour 160 femmes), ont tendance à le pratiquer plus spontanément que les femmes, symbolisées par les héroïnes de Fassbinder. Survivre, s'accomoder, re­chercher le nécessaire : voilà les activités qui ont donné lieu à un refoulement constant des souvenirs et des deuils. Comprendre les années 50, cela ne peut se faire qu'en répertoriant les « petits récits » qui forment le « texte », la texture (du latin, textum), de l'histoire. Cette texture est complexe, drue, serrée et Maria Braun en est un reflet, un symbole car plu­sieurs constantes s'entrecroisent et s'opposent en elle. Elle est un paradigme fictif incarnant divers « petits récits » réels. Examinons cet entrelas.

 

Le destin de Maria Braun

 

Maria Braun épouse quelques mois avant la fin de la guerre le fantassin Hermann Braun qui, après une nuit et un jour, retourne au front. Il est porté disparu et Maria, pour survivre, doit se mettre en ménage avec un gros et placide GI noir. Hermann revient, une querelle éclate, Maria frappe mortellement Bill le GI et Hermann, touché par la fidélité de sa compa­gne, prend la faute sur lui et purge une peine de pri­son. Maria lui promet que la vie réelle reprendra dès sa libération. Entre-temps, elle ne voit plus qu'une chose : le succès économique. Amour et sentiments sont remis à plus tard, postposés comme un rendez­-vous sans réelle importance. Elle cède ensuite à Os­wald, un fabricant de textile revenu d'émigration, et vit avec lui sans l'aimer tout en gravissant rapide­ment l'échelle hiérarchique de son entreprise. Cette cassure entre les sentiments humains et la vie quoti­dienne matérialiste, phénomène consubstantiel au démocratisme d'importation, à l'économisme libéral venu d'Outre-Atlantique, se résume dans un dialo­gue au parloir de la prison entre Hermann et Maria, à propos des relations humaines de l'après-nazisme : « C'est donc comme ça, dehors, entre les gens ? C'est si froid ? » demande Hermann, anxieux. Elle lui répond : « C'est un temps pas bon pour les senti­ments, j'crois ».

 

L'opulence acquise par Maria croît et quand Her­mann sort, il part d'abord en voyage et ne revient que lorsque meurt Oswald. Maria apprend alors que Hermann et Oswald avaient négocié derrière son dos: Oswald léguait la moitié de ses biens à Her­mann, si celui-ci lui laissait Maria jusqu'à sa mort. Maria, incarnation de l'Allemagne non politisée, de l'Allemagne victime de forces extérieures, comprend enfin qu'elle a été sans cesse manipulée... Après cette révélation, la superbe villa d'Oswald, désormais propriété du couple, explose. La morale de cette histoire, quand on sait que Maria incarne l'Allemagne éternelle et Hermann l'Allemagne combattante de ce siècle, c'est qu'il n'y a pas de bonheur possible au bout du libéralisme marchand, apporté par les GI noirs et les fabricants de tissus re­venus d'exil...

 

Le progressisme marchand est une fuite en avant

 

La leçon que veut inculquer Fassbinder à son public, c'est que nos vies privées sont déterminées par l'histoire politique, elle-même déterminée par les vicissitudes économiques. En Allemagne, ce para­marxisme fassbindérien se justifie quand on constate avec quelle insouciance les Allemands de l'Ouest ont accepté la partition du pays en 1949 ou oublié la ré­volte ouvrière de Berlin-Est de 1953. Seule la linéa­rité « progressiste/libérale » comptait : c'était finale­ment une fuite en avant, positivement sanctionnée par l'acquisition quantitative de bouffe, de fringues, de mobilier. Plus le temps d'une réflexion, d'une introspection. Cette société vit aussi la surabondance des messages : les personnages devisent sur fond de discours radiophoniques, sourds aux événements du monde et préoccupés seulement de leurs petits pro­blèmes personnels. C'est l'avènement, dans la non­-histoire, de l'égoïsme anthropologique ; Maria dissi­mule, feint, ment pour arriver à ses fins et dit, dans un moment d'honnêteté : « Je suis maîtresse dans l'art de la simulation. Je suis outil du capitalisme le jour et, la nuit, je suis agent des masses prolétariennes, la Mata Hari du miracle économique ».

 

Maria est tiraillée, comme l'Allemagne, entre les souvenirs et l'oubli (le refoulement volontaire). Cette dernière démarche, propre à l'établissement ouest-­allemand, est une impossibilité : les souvenirs se dif­fusent dans l'atmosphère comme un gaz toxique et explosif. Si on ne prête pas attention, si l'on persiste à vouloir refouler ce qui ne peut l'être, la moindre étincelle peut faire exploser le bâtiment (l'environne­ment)... Jean de Baroncelli dans Le Monde (19/01/80) explique de façon particulièrement limpide que Maria Braun, qui « est » l'Allemagne, est devenue un être vêtu de très riches vêtements, mais qui a perdu son âme, en se muant en « gagneuse ».

 

Antisémitisme ?

 

Vient ensuite la phase la plus contestée de l'œuvre de Fassbinder : celle qui aborde le problème délicat de l'antisémitisme. Deux films du cinéaste n'ont pu être tournés et sa fameuse pièce Der Müll, die Stadt und der Tod (= Les ordures, la ville et la mort) n'a pu être jouée ni en 1976, quand elle fut achevée, ni en 1985, quand un théâtre a tenté de braver l'interdit. L'intrigue de cette pièce si contestée provient d'un roman de Gerhard Zwerenz, Die Erde ist unbe­wohnbar wie der Mond (= La Terre est inhabitable comme la Lune), dont la figure centrale est un spé­culateur immobilier de confession israëlite, Abra­ham. C'est le stéréotype du « riche Juif » de la littéra­ture antisémite. Le récit de la pièce, c'est la mort d'une ville, en l'occurence Francfort, qui est systé­matiquement mise en coupe réglée par des spécu­lateurs immobiliers, dont certains sont juifs. La po­pulation, dans de telles circonstances, devient un en­semble désorganisé et pantelant de « cadavres vi­vants » (comme le dit une prostituée dans la pièce), expurgés de toute épaisseur humaine.

 

Le tollé, soulevé par la pièce, fut énorme. Fassbinder fut accusé de fabriquer un « antisémitisme de gau­che », un « fascisme de gauche ». Son éditeur, la Maison Suhrkamp, pourtant peu suspecte d'antisé­mitisme et fer de lance de la « nouvelle gauche », a dû retirer de la vente le texte de la pièce, sous la pres­sion des « rééducateurs » patentés. L'historien Joa­chim Fest avait rédigé l'une des plus violente philip­pique contre le cinéaste dans la FAZ (19/03/1976), ce qui peut sembler paradoxal, puisqu'il sera lui-même victime de ce genre d'hystérie, lors de la parution de son Hitler - Eine Karriere en 1977, sous prétexte que le problème juif sous le IIIème Reich n'y était traité qu'en deux minutes et demie dans un film de deux heures et demie.

 

Dans la foulée, deux films de Fassbinder, dérivés du célèbre roman de Gustav Freytag Soll und Haben, seront interdits ou sabotés, parce que le cinéaste avait traduit en images cinématographiques les descrip­tions du ghetto, émaillant ce classique littéraire. Représenter le ghetto ne signifie pas en vouloir aux Juifs et manifester de l'antisémitisme, écrivit Fass­binder pour sa défense, mais au contraire dévoiler les conditions objectives dans lesquelles vivaient les Juifs en butte à l'antisémitisme. Si dans de telles cir­constances, poursuit-il, des Juifs sont amenés à avoir un comportement vicié, c'est la conséquence de l'oppression qu'ils subissent. Ses adversaires rétor­quent que le danger de ses films vient du simple fait d'opérer une monstration des comportements viciés, laquelle pourrait conduire à des mésinterprétations dangereuses. À cela, Fassbinder répond qu'il est inepte de présenter les Juifs à la manière philosémite, c'est-à-dire comme des victimes pures et blanches, car une telle démarche est l'inverse exact du manichéisme antisémite.

 

Ces raisonnements hétérodoxes font de Fassbinder un « anarchiste romantique », dans le sens où le vo­cable « anarchisme » signifie une radicale indépen­dance à l'égard des partis, des Weltanschauungen de gauche et de droite, de tous liens personnels et po­litiques. Son pessimisme, qui se renforce sans cesse quand il observe l'involution ouest-allemande, dérive du constat que les énergies utopiques positives, potentiellement édificatrices d'un État parfait, se sont épuisées et qu'en conséquence, l'avenir n'offre plus rien de séduisant. « L'avenir est occupé négativement », déplore Fassbinder qui cultive dé­sormais le sentiment d'être assassiné en tant qu'« être créatif ». Conclusion qui sera suivie de son suicide : « Il n'y a pas de raison d'exister, lorsque l'on n'a pas de but ».

 

La vanité des espoirs de Fassbinder correspond à l'échec des gauches étudiantes qui avaient voulu « conscientiser » (horrible mot !) les masses en les dé­pouillant de tous leurs réflexes spontanés. L'impact en littérature et en cinéma de cet échec, c'est l'éclosion d'une « nouvelle subjectivité » qui vise à réhabi­liter les identités individuelles, les expériences per­sonnelles et les intériorités psychologiques, devant l'effondrement des « châteaux en Espagne » que fu­rent les utopies militantes, marquées par les philoso­phies rationalistes. Ce fut là un retour volontaire à l'« authenticité », à la concrétude existentielle, confir­mé par le flot de romans historiques, de biographies et de mémoires produits dans les années 70.

 

Le travail de Helma Sanders-Brahms

 

Ce retour, qui est aussi retour au passé, procède souvent d'une interrogation des parents, témoins de la « pré-histoire » du présent, à laquelle on retourne parce que les perspectives d'avenir sont réduites et que la nostalgie acquiert ainsi du poids. En cinéma, l'œuvre cardinale de la vogue « néo-subjectiviste » est, pour Kaes, Deutschland, bleiche Mutter (= Al­lemagne, mère blême), de Helma Sanders-Brahms. C'est le dialogue entre une fille et sa mère Lene, qui apparaît comme une victime souffrante de l'histoire allemande récente. Les stigmates de cette souffrance se lisent sur le visage ridé et ravagé de l'actrice prin­cipale, incarnation, comme Maria Braun, de l'Alle­magne mutilée.

 

La vie de Lene reflète l'histoire allemande, tout com­me le suggère la première image du film : une surface d'eau où se reflète un drapeau rouge frappé de la croix gammée. Lene rencontre Hans, son futur mari, en 1939 : une idylle amoureuse classique, suivie d'un mariage, puis le départ du jeune époux pour la campagne de Pologne. Anna, la fille, est conçue pendant un congé militaire et naît pendant une attaque aérienne, quand tout est sytématiquement détruit autour d'elle. Le retour des pères, aigris, vaincus, devenus étrangers à leurs familles, amène une nou­velle guerre au sein des foyers : les mères avaient quitté leurs cuisines, organisé des secours pendant les bombardements, parfois manipulé des canons de DCA, fait la chasse au ravitaillement, déblayé des ruines et participé à la reconstruction des villes. Le retour des pères leur ôte une intensité d'existence et certaines, comme Lene, se recroquevillent sur elles­mêmes, saisies par un sentiment d'inutilité, et som­brent dans l'alcoolisme. Lene, minée, tombe malade et une partie de ses muscles faciaux se paralysent. Elle est muette, folle, neurasthénique et repousse l'amour de sa fille de 9 ans. Puis se suicide au gaz.

 

La narration d'un destin privé est transformée par le génie artistique de Helma Sanders-Brahms en un miroir de l'histoire collective des Allemands. Se ré­férant à Heinrich Heine, qui avait, dans un poème, comparé l'Allemagne à une « mère blême » (eine blei­che Mutter), et à Bertold Brecht, le dramaturge anti­nazi qui, depuis son exil californien, n'avait cessé de militer contre toutes les volontés alliées de « punir » son pays (en cela, il prenait le radical contre-pied de Thomas Mann, partisan d'une punition sévère). Helma Sanders-Brahms reprend à son compte ce désir de Brecht : pour elle comme pour lui, l'Allemagne est une pauvre mère, victime de fils ingrats, les nazis. Victime ensuite d'un viol par une puissance étrangère, l'Amérique : sur l'écran, le viol de Lene par deux GI's ivres. Helma Sanders­Brahms donne là une image de son pays ravagé, éclaté, fractionné, dont les familles, jadis havres de bonheur, sont détruites et dont les enfants errent affolés à la recherche de leurs parents.

 

L'Allemagne d'Adenauer qui sort de cette tragédie est décrite comme hyper-conventionnelle, irréelle, « kitsch ». Le nazi rénégat réussit dans cette société, comme cet Oncle Bertrand de Berlin, un opportuniste devenu « Président d'Église  ». La cassure entre les discours officiels d'Adenauer, pleins de références grandiloquentes à l'éternité de l'Occident chrétien, est mise en exergue dans le film : tandis que la radio débite les belles paroles du Chancelier, des hommes ivres exécutent des cabrioles enfantines, titubent et tombent, grotesques, sur le sol. Cette scène veut nous montrer qu'il n'y a plus de vraie Allemagne, qu'il ne reste que des opportunistes méprisables, sans idéal autre que les hypocrites déclamations oc­cidentalistes à la sauce catholique, ou que des prolos saoûls, incapables de se hisser au-dessus de leur vi­ce.

 

Hans Jürgen Syberberg : marionnettes et irrationalisme

 

Tout autre est l'approche de Hans Jürgen Syberberg. La situation existentielle de l'Allemagne ne peut se symboliser par un récit, fût-il allégorique. Les reliquats épars de l'histoire allemande doivent être montrés comme les numéros d'un cirque : le film sur Hitler, qui rendit Syberberg si célèbre, est présenté par un « directeur de cirque » au visage maquillé de blanc vif. Le cinéaste a voulu par là provoquer une révolution dans l'art cinématographique. Et cette mutation doit se déclencher, pense Syberberg, par l'action de trois nouveautés qui bouleversent les ha­bitudes de l'art cinématographique. D'abord, une provocation délibérée : Hitler n'est pas le sujet d'une œuvre documentaire et éducative mais d'un film poétique et imaginaire ; ensuite, par la trame du film qui n'est pas une story mais une succession de ta­bleaux statiques (la juxtaposition de « numéros de cirque »), accompagnés de longs monologues de ré­flexions, selon les traditions inaugurées par Margue­rite Duras et Alain Robbe-Grillet. Enfin, une affir­mation philosophique qui postule que l'irrationalisme est le noyau profond de la plus authentique identité allemande, affirmation radicalement opposée à toute la philosophie officielle « rationaliste » (par anti­fascisme) de la RFA.

 

Syberberg, boycotté par les critiques allemands que son audace effrayait, voulait révolutionner les con­ventions du cinéma en exorcisant l'héritage de Hol­lywood. L'hollywoodisme « paraphrase » superficiellement le réel, pense Syberberg, et provoque ainsi une stagnation de l'art cinématographique. La tradition qu'il entend ressusciter est celle de Méliès et des cinémas muets russe et allemand, chez lesquels on découvre une tradition magique et non mimétique, qui crée un « espace réel de fiction », où, pour la durée du film, les lois de la logique sont mises entre parenthèses et où fantaisie, artifice et magie peuvent se mettre sans freins à nous fasciner. Faire présenter les « tableaux » par un maître de cérémonie en frac à basques, coiffé d'un haut-de-forme, permet une distanciation par rapport à la matière traitée. Le spectateur est ainsi toujours conscient de sa position de spectateur, comme dans le théâtre préconisé par Brecht. Les racines du cinéma doivent être recherchées dans le théâtre. L'accompagnement musical doit être présent, ce qui donne à l'art de Syberberg une connotation franchement wagnérienne. La combinaison des esthétiques de Wagner et de Brecht permet de saisir des éléments d'histoire par association de leitmotive répétés et non sur le mode « édificateur » et moralisant des conformistes. Les associations permettent à chaque spectateur de se façonner son propre jugement et d'extrapoler de manière créative, au-delà des slogans officiels préfabriqués.

 

Dénoncer un monde rigidifié

 

Les tableaux statiques, signaux de la post-histoire dans laquelle nous nous sommes enfoncés, cristalli­sent, gèlent et figent le réel pour symboliser un monde rigidifié, où l'histoire s'est arrêtée, où l'ave­nir est bouché (Syberberg est ici d'accord avec Fassbinder) et où les éléments morts et disloqués du passé sont (re)présentés par le maître de cérémonie. Rigidité et momification sont également exprimées par le masque pétrifié et sans vie des marionnettes qui jouent dans Hitter, ein Film aus Deutschland.

 

L'ostracisme pratiqué à l'encontre de Syberberg vient de sa défense de l'irrationalisme, fondement de l'identité allemande et matrice de toutes ses produc­tions artistiques, musicales et littéraires. Sans irra­tionalisme, pas de Mozart, de Runge, de Caspar David Friedrich, de Schiller ou de Nietzsche. Le rationalisme de notre après-guerre, conçu pour servir de rempart contre cet irrationalisme qui a donné aussi Hitler, ne conduit qu'au culte du veau d'or et au néant culturel.

 

Malgré des approches différentes, venues tantôt de la gauche, tantôt de la droite, les cinéastes allemands prononcent tous un plaidoyer pour un retour à l'his­toire et pour une transgression des tabous modernes et un réquisitoire impavide contre la RFA. Un souf­fle à la fois identitaire et révolutionnaire qui ne cadre pas du tout avec les discours sur la révolution que l'on entend dans les salons de l'Ouest...

 

Guy CLAES.

 

Anton KAES, Deutschlandbilder : Die Wiederkehr der Geschichte als Film, edition text + kritik, Mün­chen, 1987, 264 S., DM 36.

 

00:18 Publié dans Cinéma | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : allemagne, cinéma, film, années 60, années 70 | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

lundi, 07 juin 2010

Clint Eastwood und der Abtritt des weissen Mannes

clint_eastwood_gran_torino1.jpgClint Eastwood und der Abtritt des weißen Mannes

Ex: http://www.sezession.de/

Martin LICHTMESZ

Zum heutigen 80. Geburtstag von Clint Eastwood ist in der aktuellen Jungen Freiheit eine von mir verfaßte Würdigung mit dem Titel „Das Ende des weißen Mannes“ erschienen. Dieser bezieht sich vor allem auf Eastwoods Film „Gran Torino“ aus dem Jahr 2008, den man auch als eine Art Schwanengesang des Regisseurs und Schauspielers lesen kann. Der ist indessen ungebrochen agil und hat rechtzeitig zur Fußball-Weltmeisterschaft den Nelson-Mandela-Film „Invictus“ gedreht, der 1995 während der (hierzulande wohl wenig bekannten) „Rugby-Union-Weltmeisterschaft“ spielt.

Es ist bezeichnend, daß Hollywood einen Film über Südafrika nicht in der mehr als problematischen Gegenwart, sondern in der frühen Präsidentschaftsperiode Mandelas ansiedelt, als im Westen der Eindruck erweckt wurde, daß mit dem Ende der Apartheid das Gute nun für immer gesiegt habe – „and they lived happily ever after.“ (Daß es natürlich ganz anders kam, kann man in der neuen IfS-Studie „Südafrika. Vom Scheitern eines multiethnischen Experiments“ nachlesen.) Das Image Mandelas im Westen wurde schon in den Achtzigern vorwiegend von der US-Unterhaltungsindustrie geprägt, die ihn mit starbesetzten Benefizkonzerten und Anti-Apartheids-Filmen als eine Art zweiten Gandhi (und zwar einen Gandhi frei nach Richard Attenborough und Ben Kingsley) präsentierte.  Und passend zur Fußball-WM wird in „Invictus“ mal wieder das alte sentimentale Liedchen angestimmt, daß Sportsgeist die Rassenspannungen nachhaltig kurieren und aus „Feinden Freunde“ machen könne, wie es in der literarischen Vorlage heißt.

Es ist traurig, Eastwood an einem solch verlogen-politisch korrekten Projekt beteiligt zu sehen.  Dabei denke ich nicht nur an den Mann, der noch im hohen Alter ein Meisterwerk wie „Letters from Iwo Jima“ (2007) gedreht hat, das die Schlacht um die Pazifikinsel ausschließlich aus der Sicht der Japaner zeigt (ein ähnlich fairer Film über die deutsche Seite der Normandie-Invasion steht noch aus.)  Ich denke dabei auch an Eastwood als Symbolfigur, zumindest was seine Leinwand-Persona betrifft.

Während Hollywood heute beinah geschlossen auf der Seite der Demokraten steht (das war nicht immer so), sind Republikaner wie Schwarzenegger oder eben Eastwood eher die Ausnahme. In den Siebzigern wurde er wegen Filmen wie „Dirty Harry“, die liberale Gemüter entsetzten, als „Faschist“ und reaktionärer Macho geschmäht, heute gilt er als klassische Ikone traditioneller Männlichkeit. Dazu paßt auch, daß er als einer der wenigen US-Filmemacher dem oft totgesagten ur-amerikanischen Genre schlechthin, dem Western, über Jahrzehnte hinweg die Treue gehalten hat – freilich vor allem in seiner düsteren, „revisionistischen“ Form, die sich spätestens seit dem Vietnam-Krieg durchgesetzt hat.

Wo der Klassikerstatus erreicht ist, sind auch das Klischee und die (Selbst-)Parodie nicht mehr fern. In „Gran Torino“ hat Eastwood nicht nur den eigenen Kinomythos einer halb-ironischen Revision unterzogen, der Film reflektiert auch die in Obamas Amerika stetig an Einfluß gewinnende Vorstellung, daß die Herrschaft des weißen Mannes allmählich auch dort an ihr Ende gekommen ist. Dabei vermischt der Film auf eigentümliche Weise emphatisch hervorgehobene konservative Wertvorstellungen mit einer liberalen message, die durchaus mit dem Zeitgeist von Obamas (vermeintlich) „post-rassischem Amerika“ kompatibel ist.

Eastwood spielt darin den knorrigen Witwer Walt Kowalski, der auf seiner Veranda ein großes Sternenbanner wehen läßt, eigenbrötlerisch vor sich hin grantelnd den Lebensabend verbringt und bei fremdem Übertritt auf seinen Rasen auch mal das Gewehr zückt. Der polnischstämmige Koreakrieg-Veteran ist verbittert darüber, daß das Amerika seiner Jugend und seine Werte längst verschwunden sind. Sein Wohnort ist fast völlig überfremdet durch den Zuzug von Ostasiaten. Die Großmutter der benachbarten Hmong-Familie beschimpft ihn genauso rassistisch, wie er sie. Für seine eigene Familie hingegen ist er nur mehr ein misanthropischer Dinosaurier.

Der Film stellt sich zunächst ganz auf Kowalskis Seite, indem er ihn zwar als rauhbeiniges Ekel zeichnet, aber die Gründe seiner Verstimmung nachvollziehbar macht. Die eigene Familie ist oberflächlich und abweisend, die Fremdartigkeit der Nachbarn enervierend. Sein Hausarzt wurde durch eine Asiatin ersetzt, während die kopftuchtragende Sprechstundenhilfe seinen Namen nicht aussprechen kann und er im Warteraum der einzige Weiße in einem bunten Gemisch von Menschen unterschiedlichster Herkunft ist.

Vor allem aber sind die Straßen beherrscht von multikultureller Gewalt: Gangs von Latinos, Asiaten und Schwarzen machen sich die Vorherrschaft streitig. Die Weißen sind entweder wie Walts Familie fortgezogen oder aber unfähig, sich zu wehren. In einer Schlüsselszene wird das in Kowalskis Nachbarschaft lebende Hmong-Mädchen in Begleitung eines jungen Weißen von einer schwarzen Gang bedroht. Der Weiße trägt ein Hip-Hopper-Outfit, das den Habitus der Schwarzen zu imitieren sucht. Seine plumpen Versuche, sich beim Anführer der Gang im Ghettoslang anzubiedern („Alles cool, Bruder!“) gehen nach hinten los.

Ehe die Situation – vor allem für das Mädchen – richtig ungemütlich wird, schreitet Eastwood ein und demonstriert wie schon in „Dirty Harry“ mit gezücktem Revolver, daß Gewalt nur mit Gegengewalt bekämpft werden kann. Zu dem verängstigten weißen Jungen sagt er voller Verachtung: „Schnauze, du Schwuchtel! Willst du hier den Oberbimbo geben? Die wollen nicht deine Brüder sein, und das kann man ihnen nicht verübeln.“ Hier denkt man als deutscher Zuschauer unweigerlich an den von einem türkischen Dealer gemobbten Jungen aus dem berüchtigten Fernsehfilm „Wut“.  Die schwarze Gang indessen guckt dem pistolenschwingenden Alten mit einer Mischung aus Angst und aufrichtigem Respekt nach – Respekt, den sie ihm, nicht aber dem feigen „Wigger“ entgegenbringen können.

Im Laufe der Handlung wird Kowalski schließlich eher widerwillig zum Schutzpatron der benachbarten Hmong-Familie, insbesondere des schüchternen jungen Thao, der sich der Gang seines Cousins nicht anschließen will, und dem es an einem starken männlichen Vorbild fehlt. Dem bringt Kowalski schließlich bei, wie man Waffen und Werkzeuge benutzt, Mädchen anspricht und rassistische Witze erzählt.

Im Gegensatz zu Walts Familie werden bei den Hmong von nebenan der Zusammenhalt und die konservative Tradition großgeschrieben, so daß er irgendwann irritiert erkennen muß: „Ich habe mit diesen Schlitzaugen mehr gemeinsam als mit meiner eigenen verdammten verwöhnten Familie.“ Dabei profitieren die Hmong wiederum von der Lockerung allzu enger Traditionen durch den amerikanischen Einfluß. „Ich wünschte, mein Vater wäre mehr so gewesen wie Sie. Er war immer so streng zu uns, so traditionell, voll von der alten Schule“, sagt Thaos Schwester zu Kowalski. „Ich bin auch von der alten Schule!“ – „Ja… aber Sie sind Amerikaner.“

Wie so oft tritt Eastwood am Ende des Films gegen eine Überzahl von Schurken in Form der Gang des bösen Cousins an, doch diesmal um sich selbst zu opfern, anstelle zu töten. Sein Hab und Gut erbt die katholische Kirche, seinen symbolbeladenen „Gran Torino“ Baujahr 1972 der junge Hmong, während die eigene Familie leer ausgeht.  Die Söhne des patriarchalen weißen Mannes haben sich freiwillig von ihm losgesagt, womit sie sich allerdings auch selbst entwaffnet und dem Untergang preisgegeben haben. Denn beerbt werden sie nun von verdienten Adoptivsöhnen aus anderen Völkern.

So scheint „Gran Torino“ die Idee zu propagieren, daß mit dem Aussterben der weißen Männer, die Amerika aufgebaut haben, nicht auch unbedingt der amerikanische Traum am Ende ist – er muß nur in die richtigen Hände gelegt werden, und Rasse und Herkunft spielen dabei eine untergeordnete Rolle; dazu muß der Film freilich einen scharfen Gegensatz zwischen „anständig“- konservativen und kriminell-entwurzelten Einwanderern konstruieren.  Dies funktioniert im – freilich trügerischen! – Rahmen des Films auch recht gut, und vermag sogar die nicht ausgesparten negativen Seiten der „multikulturellen Gesellschaft“ zu übertönen.

Diese ins Positive gewendete Resignation läßt jedoch überhaupt keinen Platz mehr für den Gedanken, die Weißen könnten sich eventuell nun doch noch wieder aufrichten, die desertierenden Söhne also wieder zu den wehrhaften Vätern und Großvätern zurückfinden, wie der weiße Junge, der meint, er könnte die feindseligen Andersrassigen durch Anbiederung und Angleichung beschwichtigen. Im Gegenteil scheint „Gran Torino“ ihren Abgang für gegeben und unvermeidlich anzunehmen, ihn jedoch zu akzeptieren, solange „die Richtigen“ das Erbe antreten. Um so mehr fällt ins Gewicht, daß gerade Clint Eastwood als ikonische Figur des weißen, männlichen Amerika es ist, der in diesem Film den Stab weitergibt.

Was das Schicksal der weißen Amerikaner betrifft, so ist der Subtext von „Gran Torino“ keineswegs übertrieben. Der weiße Bevölkerungsanteil in den USA ist seit den frühen Sechzigern um etwa ein Drittel auf 65 Prozent gesunken, bei anhaltender Tendenz. Im Süden sind bereits weite Teile des Landes hispanisiert, während Multikulturalismus, „Diversity“-Propaganda und Rassendebatten rund um die Uhr die Medien beherrschen. Routinemäßig wird den diffusen Protesten der Tea Party-Bewegung, die fast ausschließlich von Weißen getragen werden, impliziter „Rassismus“ vorgeworfen. Tatsächlich mag hier eine dumpfe Ahnung der kommenden Entmachtung der eigenen, bisher dominanten ethnischen Gruppe hineinspielen,  während gleichzeitig jeder Ansatz zum Selbsterhalt tabuisiert und diffamiert wird.

Ein Kommentator der generell eher obamafreundlichen, linksliberalen New York Times schrieb in einem Artikel im März 2010 im Grunde nichts anderes:

Die Verbindung eines schwarzen Präsidenten und einer Frau als Sprecherin des Weißen Hauses – noch überboten durch eine „weise Latina“ im Obersten Gerichtshof und einen mächtigen schwulen Vorsitzenden des Kongreßausschusses – mußte die Angst vor der Entmachtung innerhalb einer schwindenden und bedrohten Minderheit (sic) im Lande hervorrufen, egal was für eine Politik betrieben würde.  (…) Wenn die Demonstranten den Slogan  „Holt unser Land zurück“ skandieren, dann sind das genau die Leute, aus deren Händen sie ihr Land wiederhaben wollen.

Aber das können sie nicht. Demographische Statistiken sind Avatare des Wechsels (change), die bedeutender sind als irgendeine Gesetzesverfügung, die von Obama oder dem Kongreß geplant wird. In der Woche vor der Abstimmung über die Gesundheitsreform berichtete die Times, daß die Geburtenraten von asiatischen, schwarzen und hispanischen Frauen inzwischen 48 Prozent der Gesamtgeburtenrate in Amerika betragen (…). Im Jahr 2012, wenn die nächsten Präsidentschaftswahlen anstehen, werden nicht-hispanische weiße Geburten in der Minderzahl sein. Die Tea Party-Bewegung ist praktisch ausschließlich weiß. Die Republikaner hatten keinen einzigen Afroamerikaner im Senat oder im Weißen Haus seit 2003 und insgesamt nur drei seit 1935. Ihre Ängste über ein sich rasch wandelndes Amerika sind wohlbegründet.

vendredi, 25 décembre 2009

Filmbespreking "Avatar"

arton1335-3a58a.jpgFilmbespreking: “Avatar”

Wie de film nog moet gaan zien is gewaarschuwd: deze bespreking verraadt een hoop van het verhaal.

Een paar dagen geleden ben ik in aangenaam gezelschap de film Avatar gaan zien. Het is het nieuwste meesterstuk van James Cameron en men kan er een paar zeer interessante conclusies uit trekken.

Het Luchtvolk

De film begint wanneer een nieuwe lading manschappen/personeel aankomt op de basis van de mensen, die het heelal aan het koloniseren zijn, die zich bevindt op de planeet Pandora. Één van die nieuwelingen is Jake Sully, een marinier die door een ongeluk verlamd is geraakt aan zijn benen. Normaal gezien was zijn broer gekomen, maar die was kort voor vertrek neergestoken tijdens een beroving. Ze hebben echter een hoop in hem geïnvesteerd en enkel zijn broer kan die investering redden. Op de planeet Pandora leven immers mensachtigen, de Na’vi, volgens tribale structuren. Om in contact te komen met de Na’vi worden Na’vi lichamen (deze gekloonde lichamen noemen ze Avatars) gekloond op basis van Na’vi en menselijk DNA. Vervolgens wordt dat lichaam vanop afstand bestuurd vanuit een soort bestuurseenheid. Aangezien het op basis van specifiek DNA is gemaakt, kunnen enkel de mensen met dat DNA de Avatars besturen. Aangezien Jake Sully eenzelfde DNA-opbouw heeft als zijn broer, kan hij deze dure investering, klonen kost immers handenvol geld, redden en zijn broer zijn plaats innemen.

De reden dat men op deze manier contact wilt leggen met de Na’vi is omdat deze laatsten vijandig staan tegenover de mensheid, die zij het Luchtvolk noemen. Ongelijk kan je ze niet geven aangezien de mensheid zich op de typische Amerikaanse manier aan het  uitleven is op de planeet. In hun zoektocht naar het mineraal Unobtanium (wat mijn inziens wel een héél flauwe knipoog is naar de term unobtainable, zie ook de tweede foto in dit artikel), dat verkoopt voor 20 miljoen per kilo vegen zij het dichtbebouwde woud weg. Heilige en cultureel belangrijke plaatsen van de Na’vi worden weggevaagd en Na’vi die zich verzetten worden manu militari weggeblazen. Zoals altijd worden de mariniers op Aarde afgebeeld als vrijheidsstrijder terwijl ze in de realiteit enkel de militaire arm spelen van een kapitalistische elite die enkel op winst uit is.

Ook typisch voor deze mentaliteit is dat zij niet begrijpen waarom de Na’vi enige waarde hechten aan de natuur of aan heilige dingen. Voor hen telt enkel winst en als goede liberale kapitalisten begrijpen zij ook het collectieve eenheidsgevoel van de Na’vi niet.

Jakesully

De marinier Jake Sully brengt uiteindelijk zijn Avatar in contact met de Na’vi en slaagt er door een gelukkig toeval in om opgenomen te worden in de stam. Zijn doel is informatie verzamelen over de Na’vi-stam waar hij is beland en hen uiteindelijk te doen verhuizen uit de Woonboom. Deze immense boom is waar zij wonen en waar hun voorouders steeds hebben gewoond. Helaas voor hen staat hij ook op een enorme grote laag Unobtanium en als goede kapitalisten wenst het Luchtvolk de Na’vi uit de Woonboom te verdrijven om zo een monsterwinst te maken.

Jake Sully, door de Na’vi Jakesully genoemd, slaagt erin het vertrouwen te winnen van de Na’vi en begint uiteindelijk hen ook te begrijpen. Zo ontdekt hij dat het ecosysteem van de planeet meer is dan een wisselwerking tussen de vele organismen, maar elecktrisch met elkaar verbonden is op een manier die vergelijkbaar is met onze hersenen. Ook ontdekt hij dat de doden niet verdwijnen, maar dat zij in de natuur opgenomen worden. De Na’vi kunnen dan ook letterlijk contact opnemen met de doden door “in te pluggen” op bepaalde plaatsen. Waar het Luchtvolk heilige bomen enkel als mumbo jumbo ziet, ontdekt Jake Sully dat deze bomen meer informatienodes zijn waarmee de Na’vi contact kunnen leggen met de planeet en hun voorouders. Al snel krijgt hij dan ook spijt dat hij in het begin van zijn missie enorm veel informatie heeft doorgegeven aan kolonel Quaritch die bevoegd is voor de veiligheidstroepen op Pandora. Jake Sully sluit zich dan ook uiteindelijk aan bij de Na’vi.

Conflict

Het geduld van de kapitalisten geraakt op en uiteindelijk besluiten zij te handelen op de enige manier dat de Amerikanistische manier van imperialisme kan. Zij sturen een machtig leger om de Woonboom met raketten tegen de grond te schieten waarbij grote hoeveelheden doden vallen onder de Na’vi. En hier begint het stuk dat zeker voor volksnationalisten belangrijk is. De Na’vi trekken zich terug naar de Boom der Zielen, hun symbool van en toegang tot hun collectief geheugen als volk. Jake slaagt erin om kort hierna het enorme vliegende draakachtige reptiel Toruk te berijden. Dit reptiel is het symbool van de eenheid der Na’vi. Al snel verspreiden de Na’vi zich over de planeet, aangevoerd door Jake als berijder van Toruk. Hier wordt duidelijk getoond hoe een nationale collectieve eenheid, die zich schaart achter de idealen van nationale eenheid in een streven naar onafhankelijkheid, zonder dat de stammen hun eigenheid afgeven, zich verenigt tegen het nivilliserende kapitalistische imperialisme.

Wanneer het Luchtvolk zijn troepen concentreert en oprukt naar de Boom der Zielen om hem te vernietigen. Hier komt het tot een confrontatie tussen twee visies op de maatschappij. Het collectieve gevoel van de Na’vi die strijden om hun eigenheid en voor het behoud van hun natuurlijke omgeving tegen het typische globalistische streven naar egalitarisme (iedereen moet maar consument worden) en kapitalisme. In de strijd om nationale eenheid wordt alle verschil in rangen en klassen opgeheven en verenigt iedereen zich achter het ideaal van nationaal verzet tegen globalistisch imperialisme. Uiteindelijk triomferen de Na’vi en wordt Jake Sully definitief in zijn Avatar overgebracht waardoor hij een volledig lid wordt van het Na’vi-volk.

Een grote aanrader voor iedereen die volksnationalistisch is en/of een degout heeft van het globalisme. Andersglobalisme is geen optie, dat houdt immers een marxistische visie in. Enkel nationalistisch antiglobalisme kan een alternatief bieden voor het kapitalisme dat volkeren vernietigt. En Avatar geeft een prachtig beeld hoe nationale eenheid, ondanks alle tegenstand, zal triomferen!

22 december 2009 Geplaatst door Yves Pernet

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jeudi, 10 décembre 2009

La vie en rose - Leve in roze

La vie en Rose – Leven in roze

Ex: http://sjorsremmerswaal.nl/ 

Is een film die gaat over leven van de Franse zangeres Edith Piaf. Wiens echte naam Édith Giovanna Gassion is, maar onder de artiestennaam Piaf door het leven ging. Piaf betekent in het Nederlands ‘mus’. Een nukkige Parisienne, zeer gelovig en simpel, maar gezegend met een fabuleuze stem. De film schakelt tussen verschillende fasen van haar leven, wat soms even lastig is precies te snappen waar men nu is beland.

Het hele verhaal is overigens prachtig, ze neemt de gelukkige kijker mee door gans het woelige leven van Piaf. Levend in haar jonge jaren op de straten van Parijs, omdat haar vader vaak weg is en haar moeder constant dronken is en haar zodoende niet kan onderhouden. In haar jonge jaren treft haar een ernstige hoornvliesontsteking waardoor ze bijna blind is. Ze komt op jonge leeftijd - op de straten van Paris - erachter dat ze geld kan verdienen met haar prachtige stem. Om zo ook ontdekt te worden door iemand aan het theatercircuit.

Ook haar verdere leven verloopt op z’n zachts gezegd nogal woelig. Haar dochter overlijdt bijvoorbeeld al op tweejarige leeftijd. Wat met een prachtig beeld in de film naar voren komt. Piaf die naar boven kijkt wanneer ze hoort dat haar dochter overleden is. Je hoort haar denken ‘waarom Theresa, waarom heb je mijn dochter niet gered?’. Maar ook haar grote liefde komt te overlijden waarneer het vliegtuig waar hij inzit neerstort.

Ze zoekt dan haar toevlucht tot drugs en drank, om vervolgens tijdens een optreden helemaal in elkaar te storten. Op het einde van haar zangcarrière zingt ze nog haar bekendste nummer ‘Non, je ne regrette rien”(nee, ik betreur niets) tijdens een gedenkwaardig optreden in het Parijs Olympia, de plaats waar ze ook haar bekendheid aan dankte. Enkele maanden hierna stief Piaf aan een inwendige bloeding.

La vie en rose is een Franse film uit 2007 geregisseerd door Olivier Dahan. De hoofdrollen worden vertolkt door Marion Cotillard (Edith Piaf) en Sylvie Testud (Mômone, vriendin van Piaf)

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samedi, 01 août 2009

Alatriste (2006)

Alatriste (2006)

Geplaatst door yvespernet op 8 juli 2009

Een paar dagen geleden kwam ik in Media Markt de film Alatriste tegen. Na hem gezien te hebben, kan ik hem enkel maar aanraden aan iedereen. De film is gebaseerd op de verhalen over Capitàn Diego Alatriste, geschreven door Arturo Pérez-Reverte. Die laatste begon met schrijven nadat hij vond dat het Gouden Tijdperk van Spanje ondermaats behandeld werd in het schoolboek van zijn dochter. De film zelf heeft drie Goya Awards gewonnen, en terecht ook.

De film begint in de Zuidelijke Nederlanden ten tijde van de Tachtigjarige Oorlog. Diego Alatriste dient als huurling in het leger van Spanje dat in Vlaanderen actief is. Wat direct opvalt in het begin van de film is dat de karakters van verschillende nationaliteiten ook hun respectievelijke taal spreken, waarbij het ook duidelijk is dat de acteurs die Nederlandse soldaten spelen ook effectief Nederlanders zijn. Ook de Fransen, etc… die in de film worden opgevoerd zijn duidelijk mensen die de niet-Spaanse talen als moedertaal hebben. Wanneer Alatriste na zijn dienst inVlaanderen terugkeert naar Spanje wordt hij, als huurling, betrokken bij allerlei complotten waarbij de hofhouding van Filips IV, de Katholieke Kerk en de Inquisitie bij betrokken zijn. Zo evolueren bepaalde complotten steeds verder in de film, waarbij één van de centrale complotten de val van de Conde-Duque Olivares inhoudt.

Als Vlaming zelf is het trouwens wel eens leuk om de verwijzingen naar Vlaanderen van naderbij te bekijken. Zo bespreekt Alatriste op een bepaald moment met een lid van de Spaanse hofhouding de situatie in Vlaanderen. Wanneer naar diens mening gevraagd, zegt Alatriste dat Vlaanderen door God “geschapen is onder een zwarte zon. Een ketterse zon die ervoor zorgt dat het land nooit verlicht wordt. Een land bewoond door mensen die de Spanjaarden vrezen en verachten en hen altijd zullen opjagen. Vlaanderen is de hel.” Waarop het lid van de Spaanse hofhouding antwoordt dat “Vlaanderen een hel is die van vitaal belang voor Spanje is.” Zoals ik immers eerder op deze blog had gezet, had Spanje veel te weinig geïnvesteerd in de eigen economie. Het verlies van de industrie in de Nederlanden zou dan ook een doodslag betekenen voor het Spaanse Rijk, wat uiteindelijk ook is gebeurd.

Er zijn ook vele verwijzingen naar grote cultuurfiguren in het Spanje van de 17de eeuw. Zo is Alatriste een persoonlijke kennis en vriend van de grote Spaanse schrijver Francisco Gómez de Quevedo y Santibáñez Villegas. Ook die laatste zijn rivaliteit met Luis de Góngora y Argote komt meerdere keren aan bod. Een zeer mooi gebracht moment in de film is de belegering van Breda in 1624/1625. De overgave van Breda wordt zeer mooi in beeld gebracht volgens het schilderij van Diego Velázquez, dat kort daarna ook in de film wordt getoond nadat het afgewerkt is door die laatste. Ook de gevechten in de film worden met een (bij momenten gruwelijk) realisme gebracht. Er is alvast geen romantische visie in de gevechten geslopen en ze worden even ijzig gebracht als ze werkelijk waren (zie ook filmpje hieronder)

Een andere rode draad die doorheen de film loopt is het feit dat Alatriste, na het overlijden van één van zijn wapenbroeders in Vlaanderen, moet zorgen voor diens zoon; Inigo Balboa. Diens tragische liefdesleven, net zoals dat van Alatriste trouwens, zorgt vaak voor een betrekking bij allerlei complotten, waarbij hij op een bepaald moment zelfs op de galeien belandt. Wie echter verwacht hier een romantische verhaallijn in te bespeuren zal bedrogen uitkomen, op het vlak van liefdesverhalen is deze film een grote tragedie.

mercredi, 04 mars 2009

Clint Eastwood heeft gelijk...

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Clint Eastwood heeft gelijk

Geplaatst door yvespernet

Op dit vlak dan toch: http://in.news.yahoo.com/139/20090227/906/ten-eastwood-thinks-political-correctnes.html

London, February 27 (ANI): Acting legend Clint Eastwood , 79, apparently believes that political correctness has rendered modern society humourless, for he accuses younger generations of spending too much time trying to avoid being offensive. The Dirty Harry star insists that he should be able to tell harmless jokes about nationality without fearing that people may brand him “a racist”.

“People have lost their sense of humour. In former times we constantly made jokes about different races. You can only tell them today with one hand over your mouth or you will be insulted as a racist,” the Daily Express quoted him as saying. ”I find that ridiculous. In those earlier days every friendly clique had a ‘Sam the Jew’ or ‘Jose the Mexican’ - but we didn’t think anything of it or have a racist thought. It was just normal that we made jokes based on our nationality or ethnicity. That was never a problem. I don’t want to be politically correct.

We’re all spending too much time and energy trying to be politically correct about everything,” he added. (ANI)

00:30 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : cinéma, etats-unis, political correctness, actualité, film | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook