Ok

En poursuivant votre navigation sur ce site, vous acceptez l'utilisation de cookies. Ces derniers assurent le bon fonctionnement de nos services. En savoir plus.

lundi, 21 mars 2011

Ocampo e Drieu la Rochelle, quando l'amore è troppo intelligente

Ocampo e Drieu La Rochelle, quando l’amore è troppo intelligente

 Articolo di Stenio Solinas

Da il Giornale del 10 marzo 2011
 
Dalla corrispondenza, durata quindici anni, fra la Ocampo e Drieu La Rochelle emergono due mondi, due culture, due caratteri. Così il sentimento che li legò fu qualcosa di più e di meno di una vera passione 
 
vic3_medio_a.gifL’anno in cui si incontrarono, il 1928, Victoria Ocampo era una bella e ricca argentina non ancora quarantenne, sposata, ma di fatto separata e con un unico grande amore alle spalle, e Pierre Drieu La Rochelle un brillante trentacinquenne senza lavoro fisso, al secondo e già fallito matrimonio, con molte avventure sentimentali dietro di lui. Che cosa spingesse l’una nelle braccia dell’altro e viceversa non è facile dire: negli scrittori Victoria cercava gli uomini, anche se pur sempre come intesa di anime, più che di corpi; quanto a Drieu, la sua attrazione era figlia della prevenzione, il fascino esercitato da una donna intelligente, ovvero ai suoi occhi un controsenso, se non un elemento contro natura.
 
Come che sia, furono amanti, restarono amici, si scrissero, viaggiarono insieme, polemizzarono anche duramente, ma senza che questo incidesse sulla stima e l’affetto reciproci. La Ocampo fu l’unica donna alla quale La Rochelle lasciò scritte, in busta chiusa, le ragioni del suo suicidio, e nel lungo tempo che lei gli sopravvisse quel ricordo sentimentale e intellettuale non venne mai meno, il restare comunque fedele a chi era stato sconfitto dalla politica e dalla storia. Adesso la casa editrice Archinto pubblica, a cura di Julien Hervier, Amarti non è stato un errore (pagg. 218, euro 17, traduzione di Enrico Badellino), la corrispondenza fra loro intercorsa dal ’29 al ’44, e da essa viene una luce particolare a illuminare le due figure e un’epoca, quella fra le due guerre, così drammatica.
 
8772.jpgMa chi era veramente Victoria Ocampo, al di là dell’eco di un nome che oggi, escluso qualche specialista, evoca pallide frequentazioni letterarie fra le due sponde dell’Oceano Atlantico, il nome di una rivista, Sur, e di un collaboratore d’eccezione, Borges?
 
La più grande di sei figli, Victoria apparteneva a una delle famiglie più facoltose e antiche dell’aristocrazia bairense. Fra i suoi antenati c’erano un paggio di Isabella di Castiglia, un governatore del Perù, un candidato alla presidenza della repubblica argentina. Fra i suoi parenti lo scrittore José Fernandez, l’autore del Martin Fierro, il poema epico di una nazione. La sua casa modernista sul Mar del Plata era stata costruita sul modello di Gropius, quella di Buenos Aires secondo i dettami dell’architetto Alberto Presbich, allievo di Le Corbusier. Ricchezze immense, dunque, al servizio di un’educazione squisitamente europea, l’idea di un’Argentina appendice e insieme avamposto del Vecchio Continente che Drieu, ossessionato dalla decadenza di quest’ultimo, non tarderà a rimproverargli: «Mi avevi detto che l’Argentina era piena di vita, di forza, eccetera. No, io non vi ho trovato che la tua vita di donna e un certo fermento in profondità che c’è anche a Parigi nei suo rigagnoli. C’è forza nel popolo argentino, come in ogni popolo, ma questa forza è imprigionata dallo schema formato da La Nación, dalla “Società”, dai circoli intellettuali e da Sur e che non serve una causa organica, ma quella della letteratura in generale».
 
Per una giovane bene di quell’Argentina primo ’900, dove la donna sposata ha ancora lo status giuridico di una minorenne e deve sottostare all’autorità del marito, la strada è apparentemente obbligata: un matrimonio all’altezza del patrimonio, una vita di agi, lussi, viaggi, la cura e l’educazione dei figli. Ma se la Ocampo si sposa a ventidue anni, nel 1912, con Luis Bernardo de Estrada che conosce da quando è adolescente, già un anno dopo l’unione non funziona più, lui troppo geloso e brutale, «il mostro triste» che considera le donne puledre da domare e da cavalcare, lei che ha seguito alla Sorbona corsi su Dante e Nietzsche, che è andata al Collège de France ad ascoltare le lezioni di Bergson... Vivranno sotto lo stesso tetto, ma non nello stesso letto per circa un decennio, poi, nel ’26, la legislazione argentina consente alle donne sposate l’esercizio di una professione e il poter disporre del proprio denaro, e Victoria, che da quattro anni è comunque andata a vivere da sola, ha intanto cominciato a farsi un nome letterario e non si è negata lo scandalo, più o meno soffocato, di una relazione con Julián Martínez, un diplomatico ricco e playboy che vanta fra le sue conquiste Coco Chanel. È ancora legata a lui, anche se l’amore si è ormai spento ed è rimasta della tenerezza, quando nell’estate del ’28 incontra Drieu a Parigi.
 
Va detto che Victoria ha una passione per gli uomini d’ingegno e di fama, il che può prestarsi all’equivoco di una sorta di ricca collezionista di celebrità. È un errore che farà il filosofo tedesco Hermann von Keyserling, è un errore che farà il filosofo spagnolo Orytega y Gasset: entrambi ne scambiano l’entusiasmo, la passionalità, l’amore verso ciò che dicono, scrivono e pensano, per qualcosa di fisico che lei invece non prova. È un’epoca ancora in gran parte misogina, in cui l’uomo è abituato a essere ammirato e si aspetta che la donna si conceda senza troppe storie. Di qui incomprensioni, scambi di accuse, rotture di rapporti.
 
Con Drieu, però, scatta qualcosa di diverso. Certo, è misogino anche lui, e lo è al massimo grado, ma in modo diverso dalla brutalità e in fondo dalla volgarità di quei due illustri pensatori: lo è con tenerezza e con rispetto, quasi scusandosi. È un animo delicato che capisce subito come dietro la maschera della donna indipendente e a proprio agio in ogni situazione ci sia l’insicurezza e l’infelicità di chi è costretta a recitare un ruolo, vorrebbe lasciarsi andare, ma l’educazione, la società glielo impediscono. Victoria ha tutto ciò che a Drieu piace, ma anche tutto ciò che Drieu detesta. Una casa nell’VIII arrondissement, abiti di Chanel, quadri di Picasso, Léger, Mirò alle pareti, soggiorni al Savoy di Londra o al Normandy di Deauville, e insomma quell’idea del lusso, delle cose belle, della pigrizia e dell’ozio che egli coltiva in modo quasi maniacale proprio perché non è alla portata dei suoi mezzi. L’idea di essere mantenuto da «mecenati femminili» da un lato ne solletica l’orgoglio maschile, e dall’altro gli ripugna perché proietta su di sé l’ombra di un padre vanesio, fallito e seduttore, incapace di amare e fonte di sofferenza per sua madre.
Anche come tipo femminile Victoria è per Drieu il concentrato di sentimenti contrastanti. Fisicamente è alta, ben fatta, matura, e questo si accorda con chi non si è mai innamorato di fanciulle in fiore e non si è mai visto nel ruolo del pigmalione-corruttore di anime giovani e caste. E però stride con la sua preferenza verso le donne anti-intellettuali, dirette, le uniche che egli possa sopportare perché non lo obbligano a pensare, perché non invadono la sua intimità. Victoria è «tutto quello che nell’altro sesso lui vuole ignorare», quell’elemento di cultura che può scuotere il suo senso di superiorità, che può costringerlo a discutere, a rivedere una posizione, a interrogarsi sulla bontà di una scelta. È insomma il fascino che nasce da un pericolo, laddove la passione per le donne semplici, se non per le prostitute che nemmeno fanno domande, è sotto il segno della sicurezza. Il primo è alla lunga stressante, la seconda alla lunga è noiosa.
 
E Victoria? Che cosa trova in Drieu Victoria? È un intellettuale, ma non di quelli libreschi. Ha una modernità che ne fa il termometro culturale di quella Francia fra le due guerre, in grado di cogliere la novità delle avanguardie, ma anche spesso la loro sterilità. È aitante, e il suo narcisismo masochista non riesce a nascondere il coraggio fisico e una tensione morale incapace di compromessi. Rispetto alla media dei suoi confratelli, ha più buon gusto, pulizia, charme, e ciò colpisce chi, come lei, sotto questo aspetto ha poco da imparare e molto da insegnare... Infine, nel gioco psicologico Drieu è uno che non si nega e questo rende lo scambio più interessante per una mente femminile... Come molte donne, Victoria vorrebbe salvarlo dal suo lato nero, pessimista, malinconico, come molte donne pensa e spera di dargli quella fiducia nei propri mezzi in grado di condurlo a grandi cose.
 
madame-1.jpgLa distanza, le differenze di opinioni politiche, la stanchezza che si insinua in ogni legame sentimentale, allenteranno nel tempo i rapporti, senza mai però reciderli. Negli anni ’30, un ciclo di conferenze in Argentina organizzato dalla Ocampo sarà per Drieu l’occasione per mettere a fuoco ideologie e scelte di campo: «È stato lì che ho capito che la vita del mondo occidentale stava uscendo dal suo torpore e che si apprestava ad essere lacerata dal dilemma fascismo-comunismo. Da quel momento, ho camminato rapidamente verso la caduta in un destino politico». La summa di tutto questo sarà, nel 1943, L’uomo a cavallo, storia di un dittatore boliviano che sogna l’unità del continente latino-americano e la riconciliazione delle classi sociali. Camilla, l’eroina del romanzo, è in realtà Victoria Ocampo, e naturalmente il loro è un amore destinato al fallimento. «Sarebbe ora che tu capissi che le donne sono anche esseri umani» gli aveva rimproverato un giorno... Perché Ocampo sapeva che «nella sua maniera di amare la Francia riconosco il suo modo di amare le donne che gli ho spesso rimproverato e che era poi così irritante, ma non meschino. Se Drieu è per una politica che non ci piace, non lo è per ragioni inconfessabili, basse o interessate. Un giorno gli dissi: Tu sei Pietro, e su questa pietra non costruirò la mia chiesa. Ma la mia tenerezza gli resta fedele, incurabilmente fedele».
 
Stenio Solinas

Soral sur Céline et les petites gens


Soral sur Céline et les petites gens

samedi, 19 mars 2011

Jean Raspail und das "Heerlager der Heiligen"

Jean Raspail und das "Heerlager der Heiligen"

von Martin LICHTMESZ

Ex: http://www.sezession.de/ 

Raspail_-_Portrait_-_2010.jpgAn Jean Raspails berühmt-berüchtigten Roman „Das Heerlager der Heiligen“ könnte man getrost alle paar Monate wieder erinnern.  Sezession im Netz tat dies zuletzt im Juli 2010 anläßlich Raspails 85. Geburtstag, die FAZ am 25. Februar dieses Jahres: „Hunderttausende von Nordafrikanern könnten demnächst an die Tür Europas klopfen. Einer hat es vorausgeahnt: Jean Raspail schrieb schon 1973 den visionären Roman einer Flüchtlings-Armada.“

Dieser wurde im Februar in Frankreich mit einem brandneuen Vorwort des Autors wieder aufgelegt, und ist gleich nach Erscheinen schnurstracks die Amazon-Bestsellerlisten hinaufgeklettert, wo das Buch zeitweilig schon auf Platz 1 stand.  Die Gründe für das wiedererwachte Interesse an dem Werk müssen wohl nicht näher erläutert werden.

In Form einer Swift’schen Satire schildert Raspail, wie eine Flotte mit Hundertausenden hungernden, leprakranken, verzweifelten Indern an Bord auf die Festung Europa zusteuert. Deren Medienmacher, Kleriker, Intellektuelle und Politiker verfallen angesichts dieser bevorstehenden Invasion in einen von postkolonialen Schuldkomplexen angestachelten „Humanitäts“-Rausch, der sich zunehmend mit apokalyptischen Heilserwartungen auflädt. Eine allgemeine Mobilmachung wird ausgerufen, nicht um sich zu verteidigen, sondern um die unterdrückten „Brüder“ aus dem Osten mit offenen Armen zu empfangen. Inzwischen glauben die Millionen in Frankreich lebenden farbigen Völker den Glockenschlag des revolutionären Umsturzes zu vernehmen, der sie zu den neuen Herren des weißen Kontinents machen wird.

Als die Todesflotte schließlich an der französischen Küste landet, desertiert die nicht mehr ganz so ruhmreiche Armee vor der Flut der Hungergespenster, die wie Romeros Zombies auf  die Kornkammern und goldenen Städte des dekadenten Westens marschieren. Nur eine kleine, schrullige Schar von Widersassen findet sich am Ende noch ein zur bewaffneten Verteidigung des verlorenen Postens und letzten Lochs des Abendlandes, das schließlich „not with a bang but with a whimper“ untergeht. Inzwischen brechen in den Städten die Rassenaufstände aus, denen kaum Widerstand entgegengesetzt wird.

Raspail betonte später, daß die „Inder“ des Romans pars pro toto für die Gesamtheit der Volksmassen aus der Dritten Welt stünden. In dem Vorwort zur dritten französischen Auflage des Buches (1985) schrieb er:

Wenn das Buch „Das Heerlager der Heiligen“ ein Symbol bildet, so steckt darin keine Utopie, überhaupt keine Utopie mehr. (…) Obwohl die Handlung schon voll im Gang war und genau nach den Erscheinungsbildern (boat people, Radikalisierung des maghrebinischen Volksteils in Frankreich und anderer fremdrassischer Gruppen, psychologische Einflußnahme der humanitären Vereine, Verdrehung des Evangeliums durch die verantwortlichen Geistlichen, falsche Gewissensengel, Weigerung, der Wahrheit ins Gesicht zu sehen) beschrieben wurde, vollzieht sich das Ende in Wirklichkeit nicht in drei Tagen, wohl aber mit Sicherheit nach zahlreichen Krisen in den ersten Jahrzehnten des dritten Jahrtausends, also in kaum einer oder zwei Generationen.

Raspail nahm bereits 1985 vorweg, was nun wieder angesichts der allgegenwärtigen Islamisierungs-Debatte von Gunnar Heinsohn vorgebracht wurde:

Es genügt der Hinblick auf die erschreckenden demografischen Vorhersagen für die nächsten dreißig Jahre, wobei die von mir erwähnten noch die günstigsten sind. Eingeschlossen inmitten von sieben Miliarden Menschen leben nur siebenhundert Millionen Weiße, davon in unserem kleinen Europa ein nicht mehr junges, sondern sehr gealtertes knappes Drittel, gegenüber einer Vorhut von fast vierhundert Millionen Maghrebinern und Muselmanen auf dem gegenüberliegenden Ufer des Mittelmeeres, wovon fünzig Prozent jünger als zwanzig Jahre alt sind und die dem Rest der Dritten Welt vorausgehen. Kann man bei einem solchen Mißverhältnis nur eine Sekunde und im Namen irgendeiner Vogelstraußblindheit an ein Überleben glauben? (…)

Ich bin überzeugt, daß weltweit alles losgeht, wie bei einem Billard, wo die Kugeln aufeinanderstoßen, nachdem sie nach einem Anstoß eine nach der anderen in Bewegung geraten sind. Ein solcher Anstoß könnte in irgendeinem Reservoir des Elends und der Menschenballung wie dort am Ufer des Ganges entstehen.

FAZ-Autor Jürg Altwegg, „ein Linker deutlich ‚antifaschistischer‘ Prägung“ (Karlheinz Weißmann), bedauert in seinem Artikel, daß Raspail mit seinem neuen Vorwort den Roman zum „politischen Pamphlet“ „instrumentalisiere“.  Derlei Unfug kommt wohl heraus, wenn sich Linke auf ihre alten Tage allmählich von der harten Wirklichkeit zum Umschwenken gezwungen sehen, dabei aber von den alten liebgewonnenen Zimperlichkeiten nicht lassen können.

Dem wäre entgegenzuhalten, daß ein solches Buch gewiß nicht aus bloßen schöngeistig-belletristischen Ambitionen heraus geschrieben wird. Es sei ausdrücklich unterstrichen, daß „Das Heerlager der Heiligen“ ein bewußt politisches, bewußt politisch „gefährliches“ Buch ist, gleichsam eine von einem einsamen Partisanen hinterlassene geistige Mine zwischen zwei Buchdeckeln. Der entsetzliche Alpdruck, der nach eigenem Bekunden auf dem Autor während seiner Niederschrift lastete , überträgt sich mit voller Wucht auch auf den Leser, zumal hier von einer Wirklichkeit die Rede ist, die in eine bedrohlich sichtbare Nähe gerückt ist.

15641183N.jpgDabei gilt es auch, den gigantischen Verrat zu sehen, der zur Zeit von den Eliten der westlichen Welt an ihren Völkern begangen wird. Raspails sardonische Karikatur der landauf landab herrschenden linksliberalen Psychose, die tagtäglich neue absurde Hydraköpfe hervortreibt, läßt einem rasch das Lachen im Hals steckenbleiben.  Sein Buch ist auch durchaus angetan, Wut auf eine wahnsinnig gewordene politische und mediale Klasse zu wecken, die heute nicht nur Deutschland sehenden Auges in den Untergang treibt.  Nach seiner Lektüre wird es für den Leser endgültig zu einer Frage der Selbstbeherrschung werden, das lächelnde Schafsgesicht mit dem sich Christian Wulff ein „buntes“ Deutschland herbeiwünscht, von dem der Islam „Teil“ geworden ist (oder umgekehrt?), ruhigen Blutes zu ertragen.

„Aus gegebenem Anlaß“ bringt SiN auf der folgenden Seite noch einmal Raspails Essay „Das Vaterland wird von der Republik verraten“ aus dem Jahr 2004.

Jean Raspail: Das Vaterland wird von der Republik verraten

Le Figaro, 17. 6. 2004

Ich bin um das Thema herumgeschlichen wie ein Hundeführer um eine Paketbombe. Es ist schwierig, sich ihr direkt zu nähern, ohne daß sie einem ins Gesicht explodiert. Man läuft in Gefahr, einen zivilen Tod zu sterben. Aber es handelt sich hier um eine lebenswichtige Frage. Ich zögerte. Auch deswegen, weil ich bereits 1973 beinah alles dazu gesagt habe, als ich meinen Roman „Das Heerlager der Heiligen“ veröffentlichte. Ich habe auch nur wenig hinzuzufügen, außer, daß das Ei längst in die Pfanne gehauen wurde.

Denn ich bin davon überzeugt, daß das Schicksal Frankreichs besiegelt ist, denn „mein Haus ist auch das ihrige“ (Mitterrand) in einem „Europa, dessen Wurzeln ebenso muslimisch wie christlich sind“ (Chirac), weil die Nation unaufhaltsam auf ihr endgültiges Kippen zusteuert, wenn im Jahre 2050 die „Franzosen des Stammes“ nur mehr die am meisten gealterte Häfte der Bevölkerung des Landes ausmachen werden, während der Rest aus schwarzen oder maghrebinischen Afrikanern und Asiaten aus allen unerschöpflichen Winkeln der Dritten Welt bestehen wird, unter der Vorherrschaft des Islams in seiner fundamentalistischen und dschihadistischen Ausprägung. Und dieser Tanz hat gerade erst begonnen.

Nicht allein Frankreich ist davon betroffen. Ganz Europa marschiert in seinen Tod. Die Warnungen werden durch Berichte der UNO gestützt (die einige bejubelt haben), besonders durch die unverzichtbaren Arbeiten von Jean-Claude Chesnais und Jacques Dupachier. Dennoch werden diese systematisch verschwiegen, während das Nationale Institut für demographische Studien (INED) Desinformationen verbreitet.

Das beinah friedhofsartige Schweigen der Medien, Regierungen und der städtischen Behörden über den demographischen Zusammenbruch der Europäischen Union ist eines der erstaunlichsten Phänomene unserer Zeit. Jedesmal, wenn in meiner Familie oder im Freundeskreis eine Geburt stattfindet, kann ich dieses Kind nicht ansehen, ohne an das Schicksal zu denken, das sich über ihm dank der Fahrlässigkeit unserer „Regierungen“ zusammenbraut, und dem es sich stellen muß, wenn es das Erwachsenenalter erreicht haben wird.

Durch die Mißachtung der gebürtigen Franzosen, die betäubt werden vom hämmernden Tam-Tam der Menschenrechte, durch die „Offenheit für den Anderen“, das „Teilen“, das unseren Bischöfen so am Herzen liegt, etc.; in die Ecke gedrängt durch das ganze repressive Arsenal der sogenannten „antirassistischen“ Gesetze, durch die Konditionierung bereits der Kleinsten zur kulturellen und gesellschaftlichen „Buntheit“ und Vermischung, durch die Zumutungen eines „pluralistischen Frankreich“ und all die Herabgekommenheiten der alten christlichen Barmherzigkeit, werden wir bald keine andere Möglichkeit mehr haben, als unsere Ansprüche herunterzuschrauben und uns ohne Murren in der Gußform dieses neuen französischen „Bürgers“ des Jahres 2050 einschmelzen zu lassen.

Laßt uns dennoch nicht verzweifeln. Ohne Zweifel wird das übrigbleiben, was die Ethnologie als „Isolate“ bezeichnet, starke Minderheiten von vielleicht 15 Millionen Franzosen – davon nicht notwendigerweise alle von weißer Rasse – die noch einigermaßen vollständig unsere Sprache beherrschen und die an unserer Kultur und unserer Geschichte, wie sie sie über Generationen hinweg vermittelt bekommen haben, festhalten werden. Das wird ihnen nicht leichtfallen.

Angesichts der verschiedenen „Gemeinschaften“, die sich heute aus den Trümmern der Integration (oder ihrer fortschrittlichen Umkehrung: nun sind es inzwischen eher wir, die sich den „Anderen“ anpassen müssen, als umgekehrt) bilden und die sich bis 2050 dauerhaft und ohne Zweifel auch institutionell verankert haben werden, wird es sich hier bis zu einem gewissen Grad – und ich suche hier nach einem passenden Begriff – um eine Gemeinschaft der Kontinuität des Französischen handeln. Sie wird ihre Kraft aus den Familien schöpfen, ihren Geburtenraten, einer überlebensnotwendigen Endogamie, ihren Schulen, ihren parallel laufenden solidarischen Netzwerken, sogar aus ihren geographischen Gebieten, ihren territorialen Anteilen, ihren Bezirken, sogar ihren sicheren Rückzugsgebieten, und – warum nicht? – auch aus ihrem christlichen und katholischen Glauben, wenn dieser mit etwas Glück bis dahin erhalten bleibt.

Damit werden sie sich keine Freunde machen. Der Zusammenstoß wird früher oder später kommen. Ähnlich wie die Vernichtung der Kulaken durch passende legale Mittel. Und nachher? Dann wird Frankreich, in dem sich alle ethnischen Ursprünge vermischt haben werden, nur noch von Einsiedlerkrebsen bewohnt sein, die in den aufgegebenen Gehäusen einer für immer verschwundenen Art leben werden, die man einst „die Franzosen“ nannte, und die in keiner Weise als die etwa genetisch mutierten Vorfahren jener gelten können, die sich in der zweiten Hälfte dieses Jahrhunderts mit ihrem Namen schmücken werden. Dieser Prozeß hat bereits begonnen.

Es gibt noch eine zweite Hypothese, die ich nicht anders als im Privaten und nur nach Absprache mit meinem Anwalt formulieren könnte, nämlich die, daß die letzten Isolate bis zum Ausruf einer Reconquista durchhalten werden, die sich zwar ohne Zweifel von der spanischen unterscheiden wird, die aber von denselben Motiven beseelt sein wird. Darüber gäbe es einen riskanten Roman zu schreiben. Diese Aufgabe wird nicht mir zufallen, denn ich habe bereits das Meinige beigetragen. Möglicherweise ist sein Autor noch nicht geboren, aber zum richtigen Zeitpunkt wird dieses Buch das Tageslicht erblicken, soviel bin ich mir sicher.

Was ich nicht begreifen kann, was mich in einen Abgrund betrübter Ratlosigkeit stürzt, ist die Frage, wie und warum so viele mit den Fakten vertraute Franzosen und so viele französische Poilitiker wissentlich, methodisch und auf geradezu zynische Weise die unausweichliche Opferung eines bestimmten Frankreichs (laßt uns an dieser Stelle auf das Adjektiv „ewig“ verzichten, das so viele zarte Gemüter reizt) auf dem Altar eines überspitzten utopischen Humanismus vorantreiben.

Ich stelle mir dieselbe Frage angesichts der allgegenwärtigen Organisationen, die bald für dieses, bald für jenes Recht streiten, all der Stiftungen, Denkfabriken und subventionierten Ämter, der Netzwerke aus Manipulatoren, die jedes Rädchen des Staates infiltriert haben (Bildung, Verwaltung, politische Parteien, Gewerkschaften etc.), der zahllosen Antragsteller, der korrekt gleichgeschalteten Medien und all dieser Vertreter der „Intelligenz“, die Tag für Tag ungestraft ihr betäubendes Gift in den immer noch gesunden Körper der französischen Nation spritzen.

Wenn ich auch bis zu einem gewissen Grad eine gewisse Aufrichtigkeit des Engagements nicht abstreiten kann, so bereitet es mir zuweilen doch Schmerzen, anzuerkennen, daß auch sie meine Landsleute sind. Beinah möchte ich sie als Überläufer bezeichnen, aber es gibt eine andere Erklärung: sie verwechseln Frankreich mit der Republik. Die „republikanischen Werte“ sind bodenlos verkommen, das wissen wir alle bis zum Überdruß, aber niemals in Bezug auf Frankreich. Denn Frankreich ist zuallererst ein Vaterland aus Fleisch und Blut. Die Republik dagegen, die nicht mehr als eine Regierungsform ist, ist für sie gleichbedeutend mit einer Ideologie, mit der Ideologie schlechthin. Es scheint mir, daß sie, bis zu einem gewissen Grad, das Vaterland um der Republik willen verraten.

Aus der Flut von Belegen, die ich in dicken Ordnern sammle, um dieses Urteil zu untermauern, sei hier einer zitiert, der das Ausmaß des Schadens erhellt, wenn er auch daherkommt wie ein streberhaftes Kind. Er stammt aus einer von Laurent Fabius am 17. Mai 2003 auf dem sozialistischen Kongreß von Dijon gehaltenen Rede: „Wenn das Bildnis unserer Marianne in den Rathäusern das schöne Gesicht einer jungen Französin mit Migrationshintergrund haben wird, dann wird Frankreich einen neuen Meilenstein auf dem Weg zur Erfüllung der republikanischen Werte gesetzt haben.“

Wenn wir schon bei Zitaten sind, hier zwei weitere, zum Abschluß: „Keine noch so große Menge an Atombomben wird in der Lage sein, die Flut von Millionen Menschen aufzuhalten, die eines Tages die südlichsten und ärmsten Teile der Welt im Kampf ums Überleben verlassen wird, um sich in die verhältnismäßig leeren und reichen Räume der nördlichen Halbkugel zu ergießen.“ (Algeriens Präsident Boumédiène, März 1974).

Und dieses, aus der Offenbarung Johannis, 20, 7-9: „Und wenn tausend Jahre vollendet sind, wird der Satan los werden aus seinem Gefängnis und wird ausgehen, zu verführen die Heiden an den vier Enden der Erde, den Gog und Magog, sie zu versammeln zum Streit, welcher Zahl ist wie der Sand am Meer. Und sie zogen herauf auf die Breite der Erde und umringten das Heerlager der Heiligen und die geliebte Stadt. Und es fiel Feuer von Gott aus dem Himmel und verzehrte sie.“
 Jean Raspail und das Heerlager der Heiligen

Für Eleonore Maria, geboren am 31. Januar 2011. (M. L.)

dimanche, 13 mars 2011

Jean Fontenoy est Tintin à la Wehrmacht

Jean Fontenoy est Tintin à la Wehrmacht

Ex: http://lepetitcelinien.blogspot.com/

 

Du communisme au fascisme, de Shanghai à Berlin, Jean Fontenoy a vécu en aventurier. Gérard Guégan retrace le parcours de cet oublié des lettres françaises.

Jean Fontenoy, c'est Tintin qui aurait viré fasciste. Il commence comme petit reporter chez les Soviets puis en Chine - Hergé lui rend même hommage, dans Le Lotus bleu, en dessinant une fausse Une du Journal de Shanghai, que Fontenoy avait créé là-bas - et termine dans les pages de Bagatelles pour un massacre, ce brûlot de Louis-Ferdinand Céline que notre ministre de la Culture, Frédéric Mitterrand, a dû "relire" pour s'aviser qu'il était affreusement antisémite. Ce grand écart dit tout de cet inconnu des lettres françaises que Gérard Guégan a eu la bonne idée de ressusciter dans une biographie attachante et documentée.

Jean Fontenoy (1899-1945) aura été un aventurier, dans tous les sens du terme. "Drogué, gangster intellectuel, deux fois suicidé", résumera cruellement Maurice Martin du Gard. Emergeant par miracle d'une famille qui tire le diable par la queue, son amour pour la révolution bolchevique - tendance Trotski-Maïakovski - le mène jusqu'à Moscou, où il sera le correspondant de l'ancêtre de l'AFP. Puis c'est Shanghai, où il finit conseiller de Tchang Kaï-chek et, hélas, opiomane invétéré - Le Lotus bleu, toujours... Il traverse ce début des années 1930 entre amitiés surréalistes, flirt avec la NRF (son ami de toujours sera Brice Parain, éminence grise de Gaston Gallimard), paquebots transatlantiques et jolies femmes - une mystérieuse danseuse roumaine, puis une intrépide aviatrice...

Soudain, en 1937, la bascule et l'adhésion au Parti populaire français de Jacques Doriot. Comme pour Céline et l'antisémitisme, difficile de déterminer avec certitude ce qui fait plonger Fontenoy du côté du fascisme. Officiellement, ce serait en réaction aux purges staliniennes : il prend sa carte au PPF le jour de la condamnation du maréchal Toukhatchevski. La réalité est plus contrastée, mélange diffus de haine des riches et d'amour pour le whisky, de hantise d'une impuissance sexuelle et d'échecs littéraires. Qui, aujourd'hui, serait capable de citer un seul livre de Fontenoy ? il y eut pourtant - notez le sens des titres - Shanghai secret, L'Ecole du renégat ou Frontière rouge, frontière d'enfer...

A partir de là, si l'on excepte quelques gestes d'héroïsme - en 1940, prêt à mourir pour Helsinki, il s'engage dans l'armée finlandaise et part combattre l'Armée rouge par - 40 °C -, il semble se complaire dans une certaine abjection. Le voilà qui parade en uniforme de la Wehrmacht au Café de Flore, en 1942 ; un peu plus tard, il demande au sinistre Darquier de Pellepoix de lui dénicher un appartement saisi à des juifs ; évidemment, on retrouve sa signature dans Je suis partout et Révolution nationale, qu'il dirigea même un temps. Il semble fait pour naviguer dans les eaux troubles de la collaboration, entre conjurations, subsides de l'ambassade du Reich et officines cagoulardes. "Fontenoy me touche par une espèce de pureté confuse", écrira pourtant Cocteau.

Ce "renégat" fait partie de ces personnalités foncièrement faibles qui se rassurent par des engagements forts. Ses derniers jours ressemblent à sa propre caricature : Oberleutnant de la Légion des volontaires français contre le bolchevisme sur le front de l'Est, fuite à Sigmaringen ("La bronzette, terminé !" lui lance, ironique, Céline) et suicide effroyablement romanesque dans les ruines de Berlin, en avril 1945. Son corps ne sera jamais retrouvé.

Gérard Guégan, lui, a su retrouver l'esprit de ce second couteau des lettres, sorte de métaphore parfaite des errements intellectuels d'un demi-siècle. Certes, son Fontenoy ne reviendra plus aurait pu, peut-être, faire l'économie d'une centaine de pages sur près de 500. Après tout, l'auteur de Shanghai secret n'a eu ni la vie de Malraux ni l'oeuvre de Céline. Il n'empêche : avec ce livre, on peut dire que Fontenoy est revenu.

Jérôme DUPUIS
L'Express.fr, 25/02/2011


Gérard Guégan, Fontenoy ne reviendra plus, Ed. Stock, 2011.
Commande possible sur Amazon.fr.

lundi, 07 mars 2011

Le Bulletin célinien n°328 (mars 2011)

Le Bulletin célinien n°328 - mars 2011

Vient de paraître : Le Bulletin célinien, n° 328.

Au sommaire:

- Marc Laudelout : Bloc-notes
- Claude Dubois : Résurrection d’Alphonse Boudard
- M. L. : Céline sur tous les fronts [suite]
- M. L. : Zizanie chez les céliniens
- Affaire Klarsfeld-Céline : les points de vue de David Alliot, Claude Duneton et Pierre Lainé.
- Laurie Viala : Illustrer Céline (IV)

Le numéro 6 euros par chèque à l'ordre de Marc Laudelout, à adresser à:
Le Bulletin célinien
Bureau de poste 22
B. P. 70
1000 Bruxelles
celinebc@skynet.be

Le bloc-notes de Marc Laudelout

 

Le colloque « Céline, réprouvé et classique » fut une réussite. Durant deux jours, la « petite salle » (158 places) du Centre Pompidou était comble et les organisateurs peuvent se targuer d’avoir obtenu, en guise d’heureux épilogue, la participation (gracieuse !) de Fabrice Luchini. La veille, le spectacle, conçu par Émile Brami et magistralement interprété par Denis Lavant, remporta un égal succès. Bémol : à la différence des colloques organisés par la seule Société des Études céliniennes, quasi aucun apport nouveau ne fut délivré dans les diverses communications, les orateurs ayant puisé la teneur de celles-ci dans leurs contributions antérieures (parues en livre ou en revue). Une faiblesse de l’organisation – rien n’était prévu le samedi matin – contraignit certains orateurs à condenser leur texte au moment même où ils le lisaient. Ce fut parfois dommage...
L’originalité de ce colloque fut de donner la parole à des anti-céliniens patentés : Jean-Pierre Martin, qui signa naguère un mémorable Contre Céline (1997), et Daniel Lindenberg, auteur d’une belle contrevérité : « Sous l’Occupation, Céline alla jusqu’à poser très sérieusement [sic] sa candidature au Commissariat général aux questions juives » (1) . Ces deux universitaires ont comme point commun d’avoir communié jadis dans la même ferveur maoïste. L’un à la GP (Gauche prolétarienne), l’autre à l’UJCML (Union des jeunesses communistes marxistes-léninistes). Cette expérience militante leur permet assurément de juger avec acuité la dérive totalitaire de romanciers ayant été aussi des écrivains de combat. La nouveauté consiste à relier Céline à Auschwitz. Ainsi, J.-P. Martin cita, pour l’approuver, Serge Doubrovsky : « Que vouliez-vous que moi, juif, je fasse d'un écrivain qui voulait mon extermination ? Si je n'ai pas été gazé à Auschwitz, c'est malgré Céline (2).» Jamais auparavant de tels propos ne furent tenus dans un colloque consacré à l’écrivain. Les céliniens qui font autorité ont écrit exactement le contraire : « Céline, mieux que tout autre, savait qu’il n’avait pas voulu l’holocauste et qu’il n’en avait pas même été l’involontaire instrument (3).» Dixit François Gibault. Quant à Henri Godard, il a toujours considéré que, si l’antisémitisme de Céline fut virulent, il ne fut pas meurtrier (4). Et Serge Klarsfeld lui-même tint ce propos lors d’une soutenance de thèse consacrée précisément aux pamphlets : « Malgré leur outrance insupportable, ils ne contiennent pas directement d’intention homicide (5). » En cette année du cinquantenaire, une étape a donc été franchie. Il s’agit de faire d’un antisémite incontestable un partisan des camps de la mort. En décembre 1941, lors d’une réunion politique, Céline se rallia à un programme préconisant la « régénération de la France par le racisme ». Il précisait ceci : « Aucune haine contre le Juif, simplement la volonté de l’éliminer de la vie française (6). » Il suffira désormais de supprimer ces quatre derniers mots pour faire de Céline un partisan du meurtre de masse.

Marc LAUDELOUT

Photographie C. Desauziers (Bpi 2011)

1. Daniel Lindenberg, « Le national-socialisme aux couleurs de la France. II. Louis-Ferdinand Destouches, dit “Céline” », Esprit, mars-avril 1993, p. 209.
2. Michel Contat, « Serge Doubrovsky au stade ultime de l’autofiction », Le Monde, 3 février 2011. Et Jean Daniel de blâmer « une célébration qui ferait l’impasse sur le caractère infâme, abject et déshonorant des écrits antisémites que Céline a publiés, y compris dans le moment même où il savait [sic] que les juifs étaient déportés en Allemagne pour y être gazés. » (« Carnets d’actualité. Instants de pensée et d’humeur », Le Nouvel Obs.com, 2 février 2011.)
3. François Gibault, Préface à
Lettres de prison à Lucette Destouches et à Maître Mikkelsen, Gallimard, 1998.
4. Henri Godard, « Louis-Ferdinand Céline » in Célébrations nationales 2011, Ministère de la Culture, 2010.
5. Propos tenus le 16 octobre 1993 à l’Université Paris VII lors de la soutenance de Régis Tettamanzi (thèse sur Les pamphlets de Louis-Ferdinand Céline et l'extrême droite des années 30. Mise en contexte et analyse du discours.)
6. Voir
Céline et l’actualité, 1933-1961 [Les Cahiers de la Nrf] (Gallimard, 2003, rééd.), pp. 143-146.

 

dimanche, 27 février 2011

Eurofaschismus und bürgerliche Decadenz

drieuVVVVV.jpg

Benedikt Kaiser: Eurofaschismus und bürgerliche Dekadenz

 

 
Benedikt Kaiser: Eurofaschismus und bürgerliche Dekadenz
Benedikt Kaiser: Eurofaschismus und bürgerliche Dekadenz
Benedikt Kaiser: Eurofaschismus und bürgerliche Dekadenz

Europakonzeption und Gesellschaftskritik bei Pierre Drieu la Rochelle

Pierre Drieu la Rochelle (1893–1945) schied im März 1945 durch Freitod aus dem Leben. Fluchtofferten ins befreundete Ausland lehnte der französische Intellektuelle, der im Zweiten Weltkrieg mit der deutschen Besatzungsmacht kollaboriert hatte, kategorisch ab. „Man muß Verantwortung auf sich nehmen“, schrieb er kurz vor dem Suizid in seinem Geheimen Bericht.

Drieu la Rochelle war nicht nur ein gefeierter Romancier von Weltrang, er galt auch seinen Zeitgenossen als Ausnahme-intellektueller. In seinen Romanen, besonders in Die Unzulänglichen, kritisierte Drieu die Dekadenz des von ihm so verachteten Bürgertums. Parallel zum Reifungsprozeß seiner Romanprotagonisten entwickelte sich auch Drieu zum Mann der „Tat“, der „direkten Aktion“... zum Faschisten.

Die Kollaboration Drieus mit der deutschen Besatzungsmacht in Frankreich war keine Kapitulation vor dem Feinde, sondern vielmehr der Versuch, eine ideologische Front zu schmieden. Der wahre Feind sei nicht der boche, der „Deutsche“, sondern der bourgeois, der „Bürger“. Gegen die Dekadenz könne, so glaubte Drieu, nur gemeinsam vorgegangen werden: einzig ein im Faschismus geeintes Europa habe die Kraft, sich innerer Dekadenz und äußerer Feinde zu erwehren und genuin europäisch zu bleiben.

Die vorliegende Studie erkennt in Drieu la Rochelle einen modernen Europäer, der den Nationalismus hinter sich gelassen hatte. Benedikt Kaiser bettet den französischen Intellektuellen und sein Werk in den historischen Kontext der diversen europäischen Faschismen ein. Im Anhang findet sich ein Auszug aus Drieu la Rochelles Geheimem Bericht, der sein politisches Testament darstellt und das Handeln des Denkers nicht entschuldigen will, sondern es in einem letzten Akt bekräftigt.

Mit einem Vorwort von Günter Maschke!


 

Inhaltsübersicht:

Vorwort

von Günter Maschke

1. Zum Anliegen der Arbeit

1.1 Fragestellung und Methodik
1.2 Forschungsstand und Quellenkritik

2. Pierre Drieu la Rochelle und die politische Theorienbildung

2.1 Politische Biographie

2.2 Ein früher Begleiter: der „Lehrmeister“ Friedrich Nietzsche
2.3 Ideengeber Georges Sorels: décadence, Mythos, Gewalt
2.4 Charles Maurras und der integrale Nationalismus

3. Gesellschaftskritik im schriftstellerischen Werk Drieu la Rochelles

3.1 Der Frauenmann
3.2 Verträumte Bourgeoisie (Revêuse bourgeoisie)
3.3 Die Unzulänglichen (Gilles)

4. Drieus Position in der faschistischen Ideologie Frankreichs

4.1 Drieu la Rochelle und die Action Française
4.2 Verhältnis zum Partei-Faschismus: Der PPF und Jacques Doriot

5. Zwischen Engagement und Enthaltung: Drieu la Rochelle und die französischen Intellektuellen

5.1 „Feindliche Brüder“? – Die antifaschistischen Schriftsteller
5.2 Versuchung Faschismus: Von Paul Marion bis Lucien Rebatet
5.3 Die Selbstwahrnehmung Drieu la Rochelles

6. Der faschistische Traum von Europa

6.1 Eurofaschismus? Begriffsklärung eines Phänomens
6.2 Eurofaschismus unter Waffen: Der Weg Léon Degrelles
6.3 „Europe a Nation!“ – Wesen und Wollen Sir Oswald Mosleys
6.4 Europakonzeption bei Pierre Drieu la Rochelle

7. Zusammenfassung

8. Appendix

9. Literaturverzeichnis


9.1 Sekundärliteratur
9.2 Quellen

10. Abkürzungen

11. Namens- und Sachregister

 

In der Reihe KIGS sind des weiteren erschienen:


Kämpfer um ein drittes Reich:

Arthur Moeller van den Bruck und sein Kreis
(KIGS 2).
 



Dritter Weg und wahrer Staat:

Othmar Spann – Ideengeber der Konservativen Revolution
(KIGS 3).
 





Autor: Benedikt Kaiser
Veröffentlichungsjahr: 2011
Verlag: REGIN-VERLAG
Reihe: Kieler ideengeschichtliche Studien, Band 5
Seitenzahl: 160
Abbildungen: s/w.
Bindeart: engl. Broschur (Klappenbroschur) im Großformat (14,5 x 22,5 cm)
Preis: 18,95 Euro

mercredi, 23 février 2011

"Le Camp des saints", une réalité en 2050?

 "Le camp des saints", une réalité en 2050?

 

Par Bruno de Cessole

Valeurs actuelles

 

Jean-Raspail-Le-camp-des-saints-couv-Edition-20111.jpgAssortie d'une préface inédite, la seconde réédition du roman prophétique de Jean Raspail s'inscrit au coeur des débats récents sur l'identité et le devenir de la France. 

 

Le 17 février 2001, un cargo vétuste s’échouait volontairement sur les rochers côtiers, non loin de Saint- Raphaël. À son bord, un millier d’immigrants kurdes, dont près de la moitié étaient des enfants. « Cette pointe rocheuse, écrit Jean Raspail au début de sa préface, faisait partie de mon paysage. Certes, ils n’étaient pas un million, ainsi que je les avais imaginés, à bord d’une armada hors d’âge, mais ils n’en avaient pas moins débarqué chez moi, en plein décor du Camp des saints, pour y jouer l’acte I. Le rapport radio de l’hélicoptère de la gendarmerie diffusé par l’AFP semble extrait, mot pour mot, des trois premiers paragraphes du livre. La presse souligna la coïncidence, laquelle apparut, à certains, et à moi, comme ne relevant pas du seul hasard. »

 

Dans le Critique en tant qu’artiste, Oscar Wilde avait soutenu et démontré, longtemps avant, que ce n’est pas la fiction qui imite la réalité, mais la réalité qui imite l’art. À preuve.

 

Depuis sa parution, en 1973, le Camp des saints n’a cessé de susciter la controverse et de conquérir de nouveaux lecteurs, de tous milieux, de toutes opinions, de tous âges, les un anonymes, les autres connus ou haut placés, de François Mitterrand à Raymond Barre, d’André Malraux à Maurice Schumann, de Robert Badinter à Jean Anouilh, de Jean-Pierre Chevènement à Lionel Jospin, d’Alfred Sauvy à Denis Olivennes et même de Samuel Huntington au président Ronald Reagan… Cette troisième édition élargira-t-elle encore son audience ? Tel est le souhait de l’auteur (lire notre entretien avec Jean Raspail), pour qui le livre n’a pas terminé sa mission : ouvrir les yeux des Français sur la désinformation qui gangrène la vie publique, désabuser les esprits crédules qui se sont laissé contaminer par un humanisme dévoyé. Et témoigner, bien sûr, pour la liberté de pensée et d’expression, qui, depuis trente-deux ans (loi Pleven), s’est singulièrement rétrécie.

 

À telle enseigne que ce roman, susceptible de poursuites judiciaires pour un minimum de 87 motifs, serait aujourd’hui impubliable en son état. Les lois n’étant pas encore rétroactives, Jean Raspail n’y a pas changé un iota. En revanche, il l’a fait précéder d’une longue préface (lire les extraits dans "Valeurs actuelles") qui, loin de tempérer le propos du livre, “aggrave son cas” en développant les conséquences probables de la situation exposée dans le roman.

 

L’intrigue est simple. Sur les côtes du midi de la France viennent s’échouer délibérément des centaines de navires en provenance du sous-continent indien. À leur bord, un million de déshérités fuyant la misère de leur pays d’origine, en quête de la Terre promise occidentale, de ses richesses gaspillées, de ses espaces sous-peuplés et de sa tradition d’hospitalité… Cette invasion pacifique, forte de sa faiblesse et de son nombre, a été encouragée et préparée par une poignée d’agitateurs : religieux idéalistes, philosophes athées, écrivains catholiques renégats, médecins missionnaires, moins animés par un humanisme perverti que par la mauvaise conscience occidentale, ce "sanglot de l’homme blanc" dénoncé naguère par Pascal Bruckner, le désir de repentance et, sur tout, le ressentiment, le nihilisme honteux du "dernier homme" jadis explicité par Nietzsche. Deux scènes primordiales du livre illustrent cette confrontation entre les ultimes et rares mainteneurs des va leurs occidentales et la troupe plus nombreuse des renégats.

 

En Inde, le consul de Belgique, qui a refusé d’augmenter les procédures d’adoption et qui, fidèle à ses convictions, mourra pour l’exemple en s’opposant symboliquement à la prise d’assaut des navires par la marée humaine, déclare à la poignée de manipulateurs occidentaux qui a mis en oeuvre cette immigration sauvage : « La pitié ! La déplorable, l’exécrable pitié, la haïssable pitié ! Vous l’appelez : charité, solidarité, conscience universelle, mais lorsque je vous regarde, je ne distingue en chacun de vous que le mépris de vous-mêmes et de ce que vous représentez. […] En pariant sur la sensibilité, que vous avez dévoyée, des braves gens de chez nous, en leur inculquant je ne sais quel remords pour plier la charité chrétienne à vos étranges volontés, en accablant nos classes moyennes prospères de complexes dégradants […], vous avez créé de toutes pièces au coeur de notre monde blanc un problème racial qui le détruira, et c’est là votre but. »

 

La seconde scène oppose un vieux professeur de français à la retraite, habitant un village de la côte, dans une maison appartenant à sa famille depuis trois siècles, et un jeune pillard européen venu accueillir sa famille d’élection : « Me voilà avec un million de frères, de sœurs, de pères, de mères et de fiancées. Je ferai un enfant à la première qui s’offrira, un enfant sombre, après quoi je ne me reconnaîtrai plus dans personne... » Au professeur qui s’efforce de comprendre ses motivations, il réplique : « Je vous hais. Et c’est chez vous que je conduirai les plus misérables, demain. Ils ne savent rien de ce que vous êtes, de ce que vous représentez. Votre univers n’a aucune signification pour eux. Ils ne chercheront pas à comprendre. […] Chacun de vos objets perdra le sens que vous lui attachiez, le beau ne sera plus le beau, l’utile deviendra dérisoire et l’inutile, absurde. Plus rien n’aura de valeur profonde. Cela va être formidable ! Foutez le camp ! »

 

Jean-Raspail-281p.jpgLe vieil homme rentre chez lui, en ressort avec un fusil et, avant de tirer sur l’intrus, justifie son acte : « Le monde qui est le mien ne vivra peut être pas au-delà de demain matin et j’ai l’intention de profiter intensément de ses derniers instants. […] Vous, vous n’êtes pas mon semblable. Vous êtes mon contraire. Je ne veux pas gâcher cette nuit essentielle en compagnie de mon contraire. Je vais donc vous tuer. » Un peu plus tard, le professeur rejoindra la dizaine de combattants qui auront choisi de renouveler Camerone et se feront tous enterrer sous les bombes d’une escadrille française, les plus hautes autorités du pays ayant capitulé devant l’invasion.

 

La véritable cible du livre : les “belles âmes” occidentales

 

Récit allégorique, « impétueux, furieux, tonique, presque joyeux dans sa détresse, mais sauvage, parfois brutal et révulsif » où il se tient des propos « consensuellement inadmissibles », de l’aveu de son auteur, le Camp des saints concentre en un jour un phénomène réparti sur des années. En aucune façon, cependant, il ne s’agit, comme de belles âmes l’ont clamé avec indignation, d’un livre raciste.

 

La véritable cible du roman, ce ne sont pas les hordes d’immigrants sauvages du tiers-monde, mais les élites, politiques, religieuses, médiatiques, intellectuelles, du pays qui, par lâcheté devant la faiblesse, trahissent leurs racines, leurs traditions et les valeurs de leur civilisation. En fourriers d’une apocalypse dont ils seront les premières victimes. Chantre des causes désespérées et des peuples en voie de disparition, comme son œuvre ultérieure en témoigne, Jean Raspail a, dans ce grand livre d’anticipation, incité non pas à la haine et à la discrimination, mais à la lucidité et au courage. Dans deux générations, on saura si la réalité avait imité la fiction.

 

Le Camp des saints, précédé de Big Other, de Jean Raspail, Robert Laffont, 392 pages, 22 €.

 

Source cliquez ici

mardi, 15 février 2011

Jean Mabire, l'écrivain soldat

Jean Mabire, l'écrivain soldat

Ex: http://lepolemarque.blogspot.com/


Avant l’écrivain militaire à succès, il y eut Jean Mabire le chasseur alpin, le lieutenant de réserve déjà trentenaire rappelé sous les drapeaux pour effectuer sa période dans le djebel algérien. Une arme pas comme les autres, à laquelle Mabire resta fidèle toute sa vie. Rien pourtant ne prédestinait l’écrivain normand à coiffer la célèbre tarte bleu-roi des chasseurs. Son attirance pour les troupes d’élite et autres hommes de guerre (deux titres de revue qu’il dirigea dans les années quatre-vingt) ne s’explique pas non plus sans cette connaissance intime qu’il acquit en Algérie de la guerre et de ceux qui la font. Chacun à sa manière, Philippe Héduy et Dominique Venner ont chanté le caractère initiatique de cette guerre qui refusait de dire son nom. Après deux numéros « Vagabondages » et « Patries charnelles », le Magazine des Amis de Jean Mabire a donc choisi de rendre hommage dans sa dernière livraison à l’écrivain et au soldat.
Le toujours dynamique Bernard Leveaux ouvre la marche avec un retour sur la série de livres que J. Mabire consacra aux unités parachutistes, son autre saga (pas moins de onze volumes) avec l’histoire de la Waffen-SS. Légion Wallonie, Les Panzers de la Garde noire, Mourir à Berlin… Éric Lefèvre, son documentariste, assurément aujourd’hui l’un des meilleurs connaisseurs du sujet en France, revient dans « L’Internationale SS » sur cette partie incontournable de l’œuvre de Mabire, à laquelle on aurait toutefois tort de la résumer. La biographie du maître − son passage au 12e BCA − n’est pas oubliée et l’on comprend, en lisant son article « Chasseur un jour… », pourquoi le capitaine (H) Louis-Christian Gautier dut se faire violence pour ne pas médire des troupes de montagne !
Le dossier est encore complété par la relecture, confiée à votre serviteur, du livre Les Samouraïs (« La plume et le sabre ») et les souvenirs très vivants des années de service en Rhodésie d’Yves Debay, rédacteur en chef de la revue Assaut (le bien titré « Mercenaire ! »).
À chaque parution, une publication qui se bonifie, sur le fond comme sur la forme.

L. Schang

Les Amis de Jean Mabire 15 route de Breuilles 17330 Bernay Saint-Martin (cotisation à partir de 10 euros)
Retrouvez aussi l’AAJM en ligne sur son site : http://amis.mabire.free.fr

samedi, 12 février 2011

Robert Brasillach au Théâtre du Nord Ouest (Paris)

viu1297102887k.gif

lundi, 31 janvier 2011

Céline, toujours...

Céline, toujours...

Le Magazine Littéraire du mois de février 2011 consacre son dossier à... Céline !

On y trouvera notamment des articles de David Alliot, d'Yves Pagès, de Maxime Rovere ou de Pascal Ifri, universitaire américain par ailleurs spécialiste de Rebatet.

On pourra aussi lire un entretien avec Céline datant de 1958 et consacré à Rabelais, ainsi qu'un chapitre non paru de Féérie pour une autre fois. 

Céline magazine littéraire.jpg

jeudi, 27 janvier 2011

Louis-Ferdinand Céline: colloque international

 
Louis-Ferdinand Céline: colloque international à Paris les 4 et 5 février 2011
 
Nous vous annonçons l'organisation par la Bibliothèque du Centre Pompidou (www.bpi.fr) et André Derval (Société d'études céliniennes, IMEC) à Paris, d'un colloque international consacré à Céline. En voici le programme :


VENDREDI 4 février 2011
11h • Ouverture des deux journées
Par Patrick Bazin, directeur de la Bpi et André Derval, responsable des fonds d'édition et des réseaux documentaires à l'Institut mémoires de l'édition contemporaine (Imec) et responsable de fonds d'auteurs à la Société d’études céliniennes.

11h/13h • Dr Destouches et Mr Céline
Avec Isabelle Blondiaux, médecin, chercheur, Céline et la médecine - Gaël Richard,
chercheur, Les Traces d'une vie, recherches biographiques - Viviane Forrester, écrivain et
critique littéraire. Modérateur François Gibault, avocat, biographe.

14h30/18h • Controverses et reconnaissances internationales
Avec Christine Sautermeister, université de Hambourg, La redécouverte de Voyage au bout
de la nuit - Yoriko Sugiura, Université de Kobé, Céline au Japon : Oeuvres complètes et French Theory - Olga Chtcherbakova, École nationale supérieure, Paris, D'Elsa Triolet à Victor Erofeev : les avatars russes de Céline - Greg Hainge, Université Queensland, Céline chez les fils de la perfide Albion

"Céline et la critique "
Entretien avec Philippe Bordas, écrivain. Modérateur André Derval, Imec/Société d'études céliniennes

19h/20h30 • Spectacle
Faire danser les alligators sur la flûte de Pan, choix de correspondances établi par Émile
Brami, écrivain, interprété par Denis Lavant, acteur. Un spectacle écrit par Émile Brami d'après la correspondance de Louis-Ferdinand Céline, Scénographie et mise en scène Ivan Morane - production : Compagnie Ivan Morane, avec l'aimable autorisation de Mme Destouches, François Gibault et des Editions Gallimard.

SAMEDI 5 février 2011
14h/16h • Céline et l’histoire
Table ronde avec Jean-Pierre Martin, essayiste, Yves Pagès, écrivain/éditeur et Daniel Lindenberg, historien, entretien avec Delfeil de Ton, journaliste. Modératrice Marie Hartmann, université de Caen.

16h30 /17h30 • Un autre Céline
Avec Sonia Anton, université du Havre, L’Oeuvre épistolaire - Émile Brami, Céline au cinéma - Johanne Bénard, université de Kingston, Céline au théâtre - Tonia Tinsley, Université de Springfield (sous réserve) Céline et les gender studies. Modératrice Johanne Bénard, universitaire.

18h30/19h30 • Lectures
Lectures d’extraits de texte de Céline par Fabrice Luchini, comédien.

 

George Montandon et Louis-Ferdinand Céline

George Montandon et Louis-Ferdinand Céline

par Alain CAMPIOTTI

Ex.: http://lepetitcelinien.blogspot.com/

De l’admiration de la révolution bolchevique à l’adhésion totale à l’antisémitisme nazi: la dérive mortelle du Dr Montandon, Neuchâtelois, médecin à Renens, ami de Céline et ennemi juré de la «Gazette de Lausanne».

Vatslav Vorovsky est un bolchevique vétéran, vieil ami de Lénine. Il était souvent à Genève avec lui au début du XXe siècle pour fabriquer les journaux du parti. Quand il revient en Suisse, en 1923, c’est en tant que diplomate soviétique, pour participer à la conférence de Lausanne sur la question turque. Il est descendu avec sa délégation à l’Hôtel Cecil. Le soir du 9 mai, un homme s’avance vers sa table, au restaurant, sort un pistolet et l’abat. L’assassin, Maurice Conradi, dont la famille avait été spoliée en Russie où elle s’était établie, revendique haut et fort son crime. En automne pourtant, il est acquitté, sous les applaudissements du public. Son procès, tenu sans rire au Casino, s’est transformé en réquisitoire contre l’URSS.

Les bolcheviques n’ont plus beaucoup d’amis au bord du Léman. Sauf le Dr George Montandon, de Renens. Cité par la partie civile, le médecin, qui durant deux ans a parcouru la Russie ravagée de Vladivostok aux pays baltes, est venu dire que la «terreur blanche» était bien pire que la «terreur rouge». Il est rentré de Moscou avec de la sympathie pour le nouveau régime. La police de sûreté vaudoise pense même qu’il est au parti. Il écrit dans Clarté, la revue philocommuniste de Romain Rolland. Mais en même temps, le Dr Montandon collabore de longue date à la Gazette de Lausanne, dont il est par ailleurs actionnaire. La Gazette n’aime guère les rouges. S’ensuivent des tensions qui deviennent, l’année suivante, explosives. Le docteur veut la tête de Charles Burnier, le directeur du journal, et il ne lésine pas sur les moyens, publiant des pamphlets de plus en plus violents et insultants. Le dernier est intitulé «Burnier fumier», avec une illustration d’une belle grossièreté. Le directeur dépose plainte, le Tribunal fédéral s’en mêle, et George Montandon écope de dix jours de prison. Mais il triomphe: entre-temps, Charles Burnier a été viré. «Ma condamnation est un honneur, écrit-il. Je paie mon attitude de sympathie à la Révolution russe.» Pour échapper à l’arrestation, le docteur prend le bateau vers Thonon, puis émigre avec sa famille à Paris.

A-t-il de l’humour, cet homme à tête de croque-mort? Il est né en 1879 à Cortaillod, fils d’un industriel riche et influent, député au Grand Conseil neuchâtelois. Après sa médecine faite à Genève, Lausanne et Zurich, il se prend de passion pour l’ethnologie, va l’étudier à Londres et à Hambourg. En 1910, il est en Abyssinie, soigne le vieux roi Ménélik II avec qui Arthur Rimbaud trafiquait ses armes, parcourt le pays en tous sens au point qu’une montagne prend son nom, Toulou Montandon. La Gazette publie au retour les longs reportages du docteur aventurier.

Quand éclate la Grande Guerre, Montandon ferme son cabinet de Renens et s’engage pour deux ans dans un hôpital militaire français. Après la révolution d’Octobre, il récidive et convainc le CICR de lui confier une mission compliquée: organiser en pleine guerre civile, par Vladivostok, le rapatriement des prisonniers austro-hongrois dispersés en Sibérie centrale. De toute évidence, l’expédition lui plaît. Il a son train, qui va et vient dans la plaine infinie. A ses moments perdus, il fait un peu de recherche ethnographique, ramasse des arcs et des lances, mesure des crânes. Il côtoie les soudards blancs qui dans la neige se réchauffent à la vodka. Il s’arrête à Omsk chez un fromager suisse émigré qui voudrait «sortir de cette maison de fous». Il connaît des chefs bolcheviques, en particulier Boris Choumiatski, qui tente de contrôler pour Moscou les immensités sibériennes et dont Staline fera son tsar du cinéma, persécutant Eisenstein, avant de l’envoyer recevoir sa balle dans une cave. Il fréquente les hordes du baron Roman von Ungern-Sternberg, ce général balte qui tente de se tailler un empire militaro-mystique au cœur des ténèbres mongoles. Il est arrêté trois fois par la Tcheka, la dernière fois à Moscou, accusé d’espionnage et enfermé à la Loubianka où il entend les pires rumeurs, et les hurlements d’une femme.

Sorti de cette aventure, George Montandon en tire un livre, Deux ans chez Koltchak et chez les Bolcheviques. Drôle de bouquin, récit picaresque plein de détails ferroviaires et militaires, de rodomontades naïves dans une langue un peu surannée, mais dans lequel on découvre des fulgurances. Louis-Ferdinand Destouches, autre docteur, n’a encore rien écrit, mais on dirait parfois du Céline. Montandon parle de l’égalité obtenue «par libre consentement ou par contrainte» qu’il observe chez les Russes, et il s’exclame: «Le costume bourgeois: néant! L’allure digne et repue du bourgeois: renéant! L’orgueil bourgeois, la morgue bourgeoise – voici, voici l’essentiel – l’orgueil bourgeois, la morgue bourgeoise: néant de néant! Les jeux sont faits, rien ne va plus! En comparaison de notre moisissure, la démocratie américaine nous avait déjà montré quelque chose de remarquable, mais voici qui est beaucoup plus fort. Ici, si l’un a plus que l’autre […] il semble en avoir honte comme d’un vice. […] Aujourd’hui, en Russie prise dans son ensemble, l’orgueil de classe est évanoui, le monocle est tombé.»

La Gazette de Lausanne n’accepte pas de parler de Deux ans chez Kol­tchak. Mais George Montandon n’est plus là, il s’est vengé à sa manière, et maintenant, à Paris, il met le même entêtement qu’en Afrique ou en URSS à conquérir, cette fois, les sommets universitaires qu’on vient de lui refuser à Neuchâtel. Il côtoie la crème de l’ethnologie française, Marcel Mauss, Paul Rivet, Lucien Lévy-Bruhl, s’en fait des amis, puis surtout des ennemis. Il obtient un poste, pas celui qu’il visait, en tire de la hargne. Il écrit, utilisant les observations accumulées dans ses voyages, alignant des types humains, les organisant en familles, les classant: «La race, les races». Il commence à parler un peu des juifs, qui sont avant tout «une raison sociale, et non une race uniforme». Dans le climat intellectuel de l’époque, ses écrits ne choquent pas. Il traite ensuite de «l’ethnie française», et ses écrits se durcissent. L’ancien admirateur de Lénine est désormais lu avec intérêt par les idéologues racistes allemands. Cette dérive intellectuelle l’amène finalement à rencontrer celui qui l’attendait, l’autre docteur: Céline. C’est en 1938. L’auteur du Voyage au bout de la nuit est tout occupé par ses pamphlets antisémites. Il s’inspire de Montandon dans Bagatelle pour un massacre, le cite dans L’Ecole des cadavres. Ils sont amis, jusqu’à la fin.

Quand l’armée allemande occupe la France, la haine antisémite du Neuchâtelois n’a plus de frein. Dans La France au travail, le nouveau nom donné à L’Humanité confisquée aux communistes, dont le rédacteur en chef est, sous le pseudonyme de Charles Dieudonné, le fasciste genevois Géo Oltramare, Montandon traite les juifs d’«ethnie putain» qui, «s’imposant aux Français: a) faisait bêler la paix, b) sabotait l’armement, c) et surtout dégoûtait la femme de la maternité grâce à sa presse avec ses rubriques quasi pornographiques, dirigées par des putains juives». Ailleurs, il promet aux belles actrices juives de les défigurer en leur coupant le nez.

Céline reconnaît chez le Suisse sa propre haine. Il envoie un mot de recommandation pour que son ami trouve un emploi dans l’administration des «questions juives»: «Parfait honnête homme, un peu suisse (comme J.J.), docteur en médecine (et autrefois un peu communiste), et par-dessus tout un grand savant.» Montandon obtient son emploi. Désormais, c’est lui qui établira pour le Commissariat général les certificats de non-appartenance à la race juive, qui offrent une protection à ceux qui peuvent se les payer, car les factures du docteur sont salées. Ce commerce macabre finit par indisposer Céline lui-même.

Le 3 août 1944, une camionnette s’arrête devant la villa au numéro 22 de la rue Louis-Guespin, à Clamart. Deux ou trois hommes en descendent. Ils sont armés. Marie Montandon, qui ouvre la porte, est criblée de balles. Les assaillants montent à l’étage, trouvent le docteur dans son lit, malade, et ouvrent le feu. Puis ils prennent la fuite. George Montandon n’est que blessé. Il appelle une ambulance qui le conduit à l’Hôpital Lariboisière, géré par l’armée allemande. Quelques jours plus tard, le conseiller du Commissariat général aux questions juives est emmené en Allemagne. Il meurt le 30 août, à Fulda.

Céline, qui soignait George Montandon, n’avait pas vu son ami depuis trois mois. En 1952, dans Féerie pour une autre fois, il a parlé de lui une dernière fois: «Il savait pas rire Montandon, il était gris de figure, de col, d’imperméable, de chaussures, tout… mais quel bel esprit! tout gris certes! pas une parole plus haut que l’autre! mais quelles précisions admirables! […] Bébert qu’est pourtant le malgracieux! le griffeur, le bouffeur fait chat!… il comprenait le «charme Montandon»…»

Alain CAMPIOTTI
Le Temps, 6/1/2011

 

mercredi, 26 janvier 2011

Ma io, filosemita, celebro Céline

EXPRES~1.JPG

Ma io, filosemita, celebro Céline

di Guido Ceronetti

Fonte: Corriere della Sera [scheda fonte]


«La Francia sbaglia a cancellare l’omaggio, era l’occasione per analizzarlo»


D eploro fortemente che uno scrittore come Céline sia stato tolto dal calendario delle celebrazioni per il 2011 in Francia. Un ministro della Cultura, in qualsiasi governo francese, ha sufficiente autorità per resistere ad ogni gruppo privato di pressione, sia pure benemerito, come in questo caso. Céline non è un piccolo pesce; è uno dei massimi scrittori e testimoni del secolo. Il suo cinquantenario (morì nel 1961, a Meudon, in banlieue) non sarà ugualmente dimenticato. Si capisce: la Shoah è una ferita della storia dell’uomo che il tempo non può né deve sanare, e il grido di Rachele in Ramah seguita a irrorarla di lutto. Ma la paranoia antisemita di uno scrittore che non ha versato sangue di deportati va vista come una anomalia della psiche, un’ombra del Fato, il possesso di un demone incubo. Va analizzata come malattia e non elevata a colpa. «Ha una pallottola in testa» lo giustificava Lucette. Lui, l’episodio della Grande Guerra che l’aveva fatto congedare e medagliare in fretta, non l’aveva mai taciuto: l’agitava sempre, il suo congedo di invalido permanente per il settantacinque per cento: ma sopratutto a renderlo furiosamente antisemita era stata l’ossessione che gli ebrei — tutti, in massa, banchieri o straccioni — spingessero ad una nuova spaventosa guerra con la povera Germania, che fino a Hitler non pensava minimamente a difendersene. Nel Trentasette pubblicò il suo manufatto di deliri, Bagatelles pour un massacre, pestando perché la Francia non perdesse tempo a disfarsi dei suoi ebrei, a scrostarli dai muri, a cacciarli via «che non se ne parlasse più» : una scrittura così potente come la sua attirò come miele gli antidreyfusardi, senza guadagnargli le simpatie dei nazisti; per la Gestapo, Céline era più pazzo che utile. Anche come antisemita Céline fu un isolato: i comunisti lo esecrarono dopo Mea culpa, agli antisemiti bisognosi di «razzismo scientifico» o religioso, di motivazioni monotone e piatte, quel Vajont di metafore forsennate, che finivano in pura autodistruzione spense presto il favore iniziale; inoltre, incontenibile, sotto l’occhio dei tedeschi occupanti che rigettavano e temevano il suo zelo pacifista, picchiava pubblicamente anche contro la connerie aryenne (che renderei come fessaggine, stronzaggine ariana). Non furono le sciagurate metafore celiniane dei tre saggi antisemiti a riempire i treni dei deportati da sterminare: chi li avrà mai letti tra i burocrati di Vichy? In una guerra simile contro l’essenza umana (altro che «banalità del male» !) furono senza numero i paradossi tragici. Céline nel Semmelwei, nel Voyage, in Mort à crédit, nei suoi romanzi stilisticamente ultraviolenti del dopoguerra, nei suoi viaggi al seguito del governo collaborazionista in fuga a Sigmaringen, spinse fino all’indicibile l’espressione letteraria della pietà umana; fu un moderno, e rimane, incarnatore di Buddha, un angelo pieno di cicatrici, che sfoga una pena scespiriana. Aggiungi il suo lavoro fino all’ultimo giorno di strenuo medico dei poveri, che quasi mai si faceva pagare. Lucette, a Meudon, mi mostrò la poltrona dove Céline passava la notte di insonne a vita. Il paesaggio, dalla vetrata, erano le officine della Renault-Billancourt, una fumante galera umana, non scorgevi un albero. Di là gli cadevano gocce fisse di delirio, da scavare una pietra, sul cranio della pallottola di guerra, Erinne dettatrici di insulti feroci di satirico, di maniaco di persecuzione (motivato), di aperture denunciatrici di verità crudeli, di amore per la bellezza, di sorriso in travaglio. L’insonnia, alleata del Contrasto, violenta di chiaroscuro, è «madre di tutto» . Il secolo XX ci ha lasciato tre libri, generati direttamente da una interminabile sequela di calvari umani che ha appestato e stravolto la totalità del pianeta abitato o inabitato — e i tre grandi libri mi sono indicati essere i racconti e i diari ultimi di Kafka, i racconti della Kolyma di Varlam Šalamov, e il Voyage au bout de la nuit di Céline. Comparando l’antisemitismo ormai sciolto negli acidi del Tempo di Céline, e il disastro filosofico di Martin Heidegger quando fu pervaso, tra 1933 e 1935, per vanità universitaria, per credulità da debilità mentale (quantunque giovane), di zelo filonazista nascostamente antisemita— mi sarebbe più facile, dovessi fare il minosse e pronunciarmi su entrambi, mandare semiassolto (o del tutto) Céline, astenendomi dall’incolpare Heidegger esclusivamente per motivi di prescrizione. Un pensatore non aveva nessun diritto di degradarsi a quel modo. Il discorso di rettorato del filosofo di Friburgo è peggio, è più mendace, più corruttore, di Bagatelles pour un massacre. Tuttavia, se di valori si parla, Heidegger è Heidegger. Se di gloria letteraria si parla, Céline, riplasmatore del linguaggio, petite musique, affrescatore e medico delle miserie umane, è Céline. Ingiusto e ridicolo, cancellarlo dalle celebrazioni del 2011. Era un’occasione per comprendere, riscoprire, analizzare. L’odio, Spinoza dixit, non può mai essere buono.

Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

Céline et la bêtise

d-Louis-Ferdinand-Celine.jpg

Céline et la Bêtise

 

Claude Bourrinet

Ex: http://www.voxnr.com/

 

Bernanos, qui déplorait que Hitler eut déshonoré l’antisémitisme, mais gaulliste nonobstant, et même, si l’on veut « Juste », bien qu’avec la distance d’un océan, disait, sans doute avec raison, que la bêtise menait le monde. Ce dernier est bien trop vaste pour qu’on s’en fasse une idée bien précise, mais pour ce qui concerne la France, on ne risque guère de se tromper.

Comme le remarque le Figaro de ce jour, non sans un humour un peu décalé : « Le ministre de la Culture donne raison à Serge Klarsfeld… ». On ne manquera pas de s’étonner qu’un aussi emblématique représentant de la République, garant du patrimoine de la Nation, « donne raison » à un individu, au détriment d’une communauté dont il devrait placer au-dessus de tout l’intérêt. A moins qu’on se soit trompé justement de communauté… Mais au fond, on a vu récemment d’autres ministres, et même le Chef de l’Etat, sembler défendre des causes individuelles, parfois en changeant les lois, par exemple celle concernant les jeux en ligne.

On ne sera sans doute pas assez ingénu pour croire que Monsieur Mitterrand soit tombé en amour, comme disent nos amis anglais, pour l’ex soldat de Tsahal, ci-devant garde frontière (autrement dit gardien d’un ghetto où moisissent misérablement plus d’un million de femmes, d’enfants et d’hommes condamnés à boire de l’eau croupie), détenteur de la légion d’honneur, probablement pour avoir remplir son devoir sioniste, et subsidiairement mené son petit boulot d’inquisiteur et de censeur.

On se dit que l’intelligence eût consisté à faire le moins de bruit possible, à laisser passer les commémoration dont tout le monde se fout, quand bien même les faiseurs de discours feraient mine de ne pas s’en apercevoir, d’autant plus que l’anniversaire de la mort de Céline a lieu un premier juillet, au moment où la France vraie, corporelle et suante répète le grand exode estival vers un Sud qui a vocation, il faut le dire, à recevoir avec voracité la barbaque éreintée de nos compatriotes. A la limite, pour les quelques demi-savants titillés par une curiosité malsaine, on aurait pu asséner quelques bonnes vérités bienpensantes, histoire de faire diversion, en rappelant l’ignominie de Louis-Ferdinand, en condamnant sa logorrhée antisémite (bien que ces écrits-là fussent interdits de publication) ; et, plus intelligemment encore (on demande vraiment l’impossible !), il aurait été possible de souligner le caractère subversif de la prose célinienne, dont on a du mal à trouver l’équivalent dans la critique, pourtant maintenant bien conformiste, de la guerre, du colonialisme et du culte de l’agent.
Ah ! le culte de l’argent… Domaine risqué, s’il en est. C’est justement là où le bât blesserait. On procèderait presque à des amalgames répugnants. Honni soit qui mal y pense ! Et le Président Sarkozy, qui, pour l’argent, a les yeux de cette pauvre Chimène à qui ont prête beaucoup à des taux d’usurier, le prendrait pour lui.

Mais foin de pingrerie ! Pourquoi s’arrêter en si bon chemin ? Pourquoi ne pas vider nos librairies, nos bibliothèques, et accessoirement notre Panthéon, de quelques brebis galeuses des Lettres, qui s’en sont pris injustement au Peuple élu ? Exit donc Voltaire, Rousseau, Balzac, Maupassant, et d’autres, (sans parler de Valéry, de Gide …) qui ont commis un certain nombre de pages fort calomniatrices et, il faut le dire, affreusement caricaturales.

Et tant que nous y sommes, et, mon Dieu, pourquoi ne défendre qu’une seule communauté ? (on nous traiterait de raciste !), pourquoi ne pas interdire Rabelais, qui a ignominieusement caricaturé les Sorbonicards, en les présentant comme des ivrognes, Agrippa d’Aubigné, qui a éructé contre les papistes, Ronsard, qui a vomi contre les Protestants, Corneille, qui a, comme un vieux Turold, fait l’apothéose d’un tueur de Maures, Diderot, qui a calomnié les Jésuites du Paraguay, pourtant défenseurs des Indiens, etc. Et que penser de tous ces écrivains qui n’ont eu de mots assez durs contre la démocratie, le progrès, la modernité triomphante ? Preuve que, comme les chemins menant à Rome, le génie achoppe toujours devant la bêtise des hommes. Eternelle lutte !
Diable merci, nos Lettres ne manquent pas de fureur haineuse, et parfois, cela donne du talent.

Dans cinq cents ans peut-être, s’il est encore un monde et si notre langue française n’a pas disparu, malgré les efforts déployés par la nouvelle classe des Tartuffes, des béotiens et des cyniques apatrides, qui restera-t-il de nos grands artistes, quand Messieurs Mitterrand et Klarsfeld ne demeureront même pas dans la mémoire des vers de terre ? Nul doute que Louis-Ferdinand Céline trônera, aux côtés de ses illustres prédécesseurs, dont le géant Rabelais, et de toutes les gloires de notre Nation.

Céline: l'insupportable police de la pensée a encore frappé...

Céline: l'insupportable police de la pensée a encore frappé... 
 

Robert Spieler 6.jpgPar Robert Spieler

Délégué général de la

Nouvelle Droite Populaire

 

Il y a 50 ans disparaissait Louis Ferdinand Céline, le plus grand écrivain du XXème siècle. Son nom figure, ou plutôt figurait, dans le recueil des célébrations nationales 2011 édité par le ministère de la Culture. Fureur, glapissements, hystérie… Serge Klarsfeld, président de l’Association des fils et filles de déportés juifs de France exige de Frédéric Mitterrand, Ministre de la Culture, « le retrait immédiat de ce recueil et la suppression dans celui qui le remplacera des pages consacrées à Céline ». Céline est en effet non seulement l’auteur du Voyage au bout de la nuit et de Mort à Crédit, mais aussi de pamphlets antisémites, tels Bagatelles pour un massacre et L’Ecole des cadavres. Klarsfeld menace : « S’il ne désavoue pas la décision de le faire figurer dans les célébrations nationales, nous attendrons que le Premier ministre et le Président de la République prennent position. Notre réaction va être dure ». Et Klarsfeld de rappeler que la Licra et lui-même avaient déjà fait plier François Mitterrand qui faisait déposer une gerbe de fleurs sur la tombe du Maréchal Pétain, tous les 11 novembre, honorant par ce geste le héros de Verdun. Mitterrand finira par y renoncer en 1993.

Même Philippe Sollers, écrivain de gauche, est scandalisé de cette insupportable arrogance. Voila ce qu’il déclare : « Il est insensé qu’un citoyen (Serge Klarsfeld) demande au Président de la République de retirer un auteur de l’importance de Céline (…) » Et de rajouter : « C’est une façon de jouer avec le feu extrêmement dangereuse ». On ne le lui fait pas dire…

A propos d’antisémites, une petite offrande à Serge Klarsfeld. Non, pas un extrait de Céline, mais celui d’une haute figure de la République socialiste et franc-maçonne, Jean Jaurès, qui déclarait le 1er mai 1895 à La Dépêche de Toulouse : « Dans les villes, ce qui exaspère le gros de la population française contre les Juifs, c’est que par l’usure, par l’infatigable activité commerciale et par l’abus des influences politiques, ils accaparent peu à peu la fortune, le commerce, les emplois lucratifs, les fonctions administratives, la puissance publique. (…) Ils tiennent une grande partie de la presse, les grandes institutions financières, et, quand ils n’ont pu agir sur les électeurs, ils agissent sur les élus ».

Alors, Jean Jaurès bientôt à la trappe, comme Céline ?

Montherlant - Céline: Match nul?

Montherlant - Céline: Match Nul?

par Alain JAMOT

Ex: http://lepetitcelinien.blogspot.com/

Vous avez vu Montherlant pour son élection (à l’Académie). Ça va bien pour lui, il doit être content. Lui c’est Chateaubriand qui le gêne.
Le drapé antique. Il n’y arrive pas, ça l’embête.”
(Céline, sur Montherlant)

C’est de la littérature, aussi artificielle et aussi désuète que celle de Paul Alexis ou de Paul Lombard, écrivain au style “artisse” de la fin du XIXème siècle, et qui ne sera plus lue dans cinquante ans.
(Montherlant, sur Céline) Dictionnaire Céline, Philippe Alméras.


Mettre en vis à vis, dans un article, Montherlant et Céline, c’est un peu fouiller l’arrière-boutique un tantinet poussiéreuse de la littérature de droite d’il y a bien longtemps, celle du siècle dernier. L’aristo et le prolo, le gars de Neuilly et celui de Courbevoie, l’attentiste et le collabo, le spécialiste de la posture et la brute incapable de masquer ses sentiments et ses haines… Ont-ils quelque chose de commun, ces deux-là, à part finalement le succès, les manuels de littérature et la couverture blanche de Gallimard ?

Quand j’ai découvert les deux coupables, il y a bien longtemps, alors que je sortais de l’enfance pour aborder les rivages un peu pénibles de l’adolescence, et que je ne connaissais de la littérature (en gros) que Bob Morane, Jules Vernes et Oui-Oui, je m’imaginais que j’allais tomber avec eux sur des types sulfureux, des serial-writers fascistoïdes, des nazillons graphomanes, des suppôts du Mal (c’est à peu près ainsi que mes profs de lettres seventies les présentaient, eux qui se délectaient de Barthes ou de Rouge, dans ma lointaine banlieue).

Eh ben non, c’était tout le contraire ! Montherlant et Céline, y faisaient rien qu’à raconter des histoires de losers, de célibataires, de grabataires, de nanas encore turlupinées par Jésus avant de prendre la position horizontale, des histoires de misère, de dispensaire, de tuberculeux crachant leurs derniers instants dans des taudis et des galetas insalubres ! Bonjour la douche froide ! C’était donc ça, les méchants écrivains fascistes ? Je me disais bien qu’ils avaient dû se calmer avec l’âge (pour rentrer dans la Pléiade, mieux vaut éviter de rewriter Mein Kampf ou Je suis partout), mais qu’en fouillant dans leur production des années d’avant-guerre, ce serait bien le diable si je ne trouvais pas des trucs croustillants… Rien, nada !

Avec eux (mais ça décrivait bien aussi Drieu La Rochelle), je découvrais que l’écrivain de droite était avant tout un triste sire, un scribe consciencieux du tragique de la déliquescence franchouille, de la décadence, du lent glissement de la patrie de Pagnol, du pastis et des charentaises vers le néant intergalactique de la fin de l’Histoire…

Point de militants nationalistes et mystiques dans leurs bouquins, oh non, pas de héros guerriers triomphants en route vers le Walhalla, non non, mais de pauvres hères au quintal, analysés, scrutés, quantifiés, dans leurs sinistres et pathétiques habitudes de cocus de l’Histoire… des types humains pas très loin des héros de polars qui déferleraient sur l’Hexagone deux ou trois décennies plus tard.

Mais comment tout cela avait-il pu commencer, et d’où leur venait alors cette réputation sulfureuse ? En fait, le truc à la base, qui les rapprochait, c’était quoi ? C’était la guerre, la vraie, la Grande Guerre, celle de 14.

La guerre, la vraie.
Quand elle arrive, nos deux pieds nickelés ne se dégonflent pas : Céline suit le 12e régiment de Cuirassiers où il s’est engagé en 1912, Montherlant arrive enfin à se faire incorporer en 17. Les deux sont blessés, et finissent comme auxiliaires, Céline à Londres, Montherlant en France, à l’État-Major.

Montherlant, complètement shooté à Barrès, voit des morts partout et commencera, avec La Relève du matin, à broder sur le thème du sacrifice qui ne sert à rien, du héros qui meurt pour sauver un monde qui n’en vaut pas la peine.

Céline hallucine pour sa part sur le massacre, la boucherie, tout ce qui ressemble à un képi lui file de l’urticaire et se découvre pacifiste.

La différence fondamentale entre eux deux se trouve déjà là, bien évidente : Montherlant suit la guerre par les journaux, assiste aux messes d’enterrement de ses potes de Sainte-Croix de Neuilly, intrigue pour enfin endosser un uniforme et se rendre utile. Et ne pas passer pour un lâche après… Céline, on ne lui demande pas son avis, allez hop le proldu, au front ! En première ligne ! Et il se bat, est blessé. Céline y va à fond, en prend plein la gueule, ne s’économise pas. Montherlant se balade en semi-touriste, malgré lui, s’engage du bout des lèvres. On retrouvera sans cesse cette opposition entre eux, dans leur vie, dans leurs livres, dans leur style.

Pour les deux hommes, c’est la douche écossaise, l’électrochoc qui les sort de la programmation sociale : et tous deux, après la guerre, vont aller découvrir le monde, car à quoi bon survivre au suicide de l’Europe si c’est pour rester enkystés dans la médiocrité ?

Voyages voyages…
Céline rame, se marie et décroche son doctorat de médecine, Montherlant compte les crânes à l’Ossuaire de Douaumont. Tout cela aura vite une fin : twenties encore remuantes, chacun va foutre le camp parce qu’il n’y a que ça à faire.

Montherlant racle les fonds de tiroirs de sa mamie et réussit à se faire publier à compte d’auteur, puis un éditeur le remarque : let’s go ! Le pognon semble arriver assez facilement, bref il se débrouille et en route : c’est le Sud, l’Espagne, l’Algérie. Loin, mais pas trop. Les colonies et les espingouins, on connaît, on prend pas trop de risque pour le rapatriement.

Pour l’illuminé de Courbevoie, c’est une autre chanson : dès 1916, l’Afrique, puis avec la SDN les États-Unis, Cuba, le Canada, l’Angleterre. Céline bosse, rencontre des gens, se tape des greluches, rumine, observe, commence à gueuler.

Mine de rien, les deux rigolos inventent à leur façon on the road again et Katmandou quarante ans avant les autres, et repèrent déjà que la France bat de l’aile, qu’elle ne se relèvera jamais plus du grand abattoir de 14, que les colonies sont un enfer pour les autochtones et les petits blancs.

En politique, y savent pas trop où ils en sont, mais ça commence déjà à mijoter tout autour d’eux : la peur du bolchevique mine la bourgeoisie européenne, le couteau entre les dents alimente les fantasmes des rentiers et des parlementaires.

Bref, c’est le générique d’Amicalement vôtre : Montherlant/Brett Sinclair se la coule douce, découvre le sport et l’ambiance mecs sur le stade, vit dans les quartiers bourgeois et publie déjà beaucoup ; Céline/Danny Wilde bourlingue, travaille, écrit une vague nouvelle et a définitivement cessé d’être un prolo. Tout les sépare, tout les éloigne l’un de l’autre. Et puis arrivent les années trente…

Les grandes manœuvres
Céline, toujours fauche-man, a repéré qu’Eugène Dabit cartonne avec Hôtel du Nord et s’imagine qu’on peut se faire des couilles en or en écrivant de la prose prolétaire : l’innocent ! Un vrai réflexe de midinette ! Résultat, il pond Voyage au bout de la nuit ! Et ne se rend même pas compte qu’il vient de violer la langue française et de créer une brèche dans le ronron académique.

Denoël chope l’ovni au vol juste devant Gallimard, et c’est l’entrée en fanfare : il rate le Goncourt de peu (mais reçoit le Renaudot), avec un premier roman qui deviendra l’un des plus célèbres livres français.

Il en prend déjà plein la gueule : quoi, pas de grandes périodes classiques, pas de beau style, mais des mots crados, de la misère et encore de la misère, du désespoir, des pauvres comme s’il en pleuvait, et pas de rédemption, pas de lendemains qui chantent ?

Céline s’en fout, touche du pognon, se balade, écrit beaucoup. Et, au fil des années, commence à déraper : il fréquente Léon Daudet, se grise de succès, se passionne pour la politique et l’hygiène sociale, se croit tout permis, prend un premier râteau avec Mort à crédit et publie en 1937 Bagatelles pour un massacre : quel con ! Il a déjà commis un premier pamphlet contre les cocos de retour d’une virée en URSS, sans grand retentissement. Mais là, il est servi : l’antisémitisme est à la mode, on en redemande, et ça va lui coûter sa crédibilité. Comment un type aussi intelligent, un écrivain aussi doué a-t-il pu se laisser embarquer dans ce délire quasi-psychiatrique, ces élucubrations racialistes à la mords-moi-le-nœud ? Gide le ridiculise dans la NRF. Il s’en moque, et l’année suivante, rebelote : L’Ecole des cadavres !

Fin des haricots : la malédiction Céline s’installe, Gringoire, Je suis partout, l’Action française applaudissent, la gauche rejette notre héros dans les ténèbres, et lui, of course, se radicalise. On ne parlera désormais plus que de cela pour l’éternité, de ces deux opuscules gueulards et maladroits même si le style atteint parfois des sommets, où la haine du Juif se mêle au pacifisme, la peur de la guerre à la haine du fric. Pour le beauf de base, l’affaire est entendue : Céline, c’est de la littérature antisémite, et qui se vend bien, en plus… En 1939, les deux pamphlets sont pourtant interdits.

Pendant ce temps-là, Montherlant arrête ses rêveries sur le sport et la morale antique, et décide de surfer sur la misère lui aussi, mais plutôt celle de sa classe avec Les Célibataires, où deux noblaillons dépensent des trésors d’imagination pour ne rien foutre et vivre leur vie de parasites sociaux. Carton ! Il décide alors d’explorer aussi la misère sexuelle, et pond quatre tomes des Jeunes filles, où un Casanova froussard et cultivé fait la leçon à une Solange encore travaillée par le catholicisme : re-carton. Pour l’époque, ça sent bon l’érotisme, la provoc, la petite culotte, le crucifix et les grandes envolées élitistes. Étrange mélange, mais blockbuster de l’édition, en un temps où les curés faisaient encore recette et ne jouaient pas devant des salles vides.

Montherlant s’en met plein les fouilles à son tour, publie de nombreux petits ouvrages à tirages limités (genre L’Eventail de fer) chez des éditeurs obscurs, et se fait encore plein de pognon dessus ! Il a tout compris du business littéraire, et ne prend pas de risques idiots comme Céline : il surfe sur les fantasmes de l’époque, s’invente un personnage de pacotille, mélange d’antique, de préfasciste et de conservateur mais s’arrête avant l’erreur fatale. Il sent son public, lui donne ce qu’il souhaite, et parfois écrit pour lui-même, dans de petits essais confidentiels.

Alors Montherlant poltron et Céline courageux ? Pas si simple… Montherlant avance masqué, ses journées sont souvent des journées composées exclusivement de drague et d’écriture, et il ne veut pas trop attirer l’attention sur le penchant qu’il partage avec André Gide. Il sait aussi que si la politique peut faire parler de vous et vous lancer, elle peut aussi vous griller à vie en cas de dérapage et vous tailler un costard dont vous ne parviendrez plus à vous défaire, ad vitam aeternam… Et puis, si Montherlant, comme tous les auteurs, est vaniteux et exhibitionniste, il connaît via sa famille les rouages du monde, il sait en jouer. Alors que Céline, gros balourd génial et emporté, s’étonne des retours de flammes et des cabales. Assoiffé de reconnaissance, artistique, sociale, Céline veut tout, les gonzesses, le pognon, les gros titres et les gros tirages tout en restant lui-même, et en se permettant de délirer si bon lui semble. Oh coco, ça marche pas comme ça, et les écrivains et la politique, ça colle rarement, ils se font avoir presque à chaque fois…

Montherlant, malgré ses airs de Grand d’Espagne, calcule tout, prévoit presque tout, et avouera même avoir préféré retourner à son écritoire le 6 février 1934 plutôt que d’aller voir où en était le match Camelots du Roy/Préfecture de Police !

L’apocalypse
À partir de 1940, leur différence fondamentale s’affirme encore davantage. Céline boit des coups avec Brasillach, sert la louche d’Otto Abetz (Montherlant… aussi), torche des articulets pronazis, s’inquiète des progrès de la Résistance et se fout de la gueule de Pétain.

Montherlant publie Le Solstice d’été, vision Collège Stanislas de la victoire d’Hitler, pontifie un max mais décline très astucieusement tout appel du pied trop pressant de la Révolution Nationale. Toujours la prudence…

À partir de la Libération, où Montherlant s’en sort après une bonne remontrance, il décide de se lancer dans le théâtre, l’opérette pied-noir revue façon Grand Siècle, et nous débite La Reine morte et Le Maître de Santiago ! Du beau boulot, du sublime au kilomètre, mais ça reste du toc, du chiqué, du bois peint, du faux marbre. Le militant de droite qui se pique de culture s’extasie, et s’en sert comme rempart contre Sartre et Ionesco. On a les émotions, et les références, qu’on peut…

Céline court sous les bombes avec le chat Bébert et sa dulcinée dans Berlin, claque du bec avec Le Vigan en Poméranie et finit dans une geôle au Danemark. Et à l’époque, le Danemark, c’est pas encore l’État providence, les blondes sublimes à la poitrine opulente et à la morale sexuelle élastique : point de porno, mais plutôt la grisaille, le froid, la faim, le protestantisme. L’horreur, quoi…

Céline dépérit, commence ses correspondances fleuves, et finit par rentrer en France sur une astuce légale. Le voilà parti pour la misère, encore et encore, la gueulante aigrie, la paranoïa comme raison d’être, les falzars tenus par des bouts de ficelle, la pleurnicherie incessante, le fantasme des Chinois déferlant sur l’Occident, l’Apocalypse à Meudon, le discours répétitif et saoulant d’un vieillard complètement largué et méchant comme une teigne, avec des grabataires comme clients de son cabinet médical et du bordel dans toute la maisonnée.

Il engueule Gaston Gallimard, pleure sans cesse pour un à-valoir ou une réédition pendant que ce dernier signe de confortables chèques à Montherlant, qui est quasiment sacré Trésor National Vivant et entre à l’Académie.

Alors ça finit comme un mélo : Céline meurt angoissé, aigri, cradingue sans jamais avoir triché. Et Montherlant se flingue douze ans après, ne supportant plus de devenir aveugle… et son masque se fendille définitivement.

Résultat des courses
Que reste-t-il aujourd’hui de tout cela ? Littérairement, Céline gagne haut la main. Avec Proust (et Joyce), il a propulsé l’écriture hors des remugles bourgeois et des ânonnements bécasses des profs de lettres. La littérature, avec lui, ça gueule, ça souffre, ça pète, ça picole, ça frôle les grands parcours Deleuze/Guattari : on se déterritorialise pour replanter sa casbah ailleurs, plus loin, toujours plus loin, on va de ligne de fuite en ligne de fuite, on s’immerge dans le devenir perpétuel, dans le devenir-animal, le devenir-Bébert, le devenir-totalitaire, on prend tous les risques, on explose la syntaxe, on déverse un proto-argot, on se ramasse, et on parvient même à faire sortir des écrasements historiques et sociaux des trésors de tendresse. Eh oui, comme tous les grands énervés, Céline sait aussi fondre de tendresse et d’amour pour sa meuf, son chat, ses amis, mais aussi ses pauvres, ses patients, ses prolos, ceux qui sentent la soupe, qui puent de la gueule, qui crèvent de la vérole, de la tuberculose ou du cancer, tous ceux pour qui le Front Populaire fut alors une miraculeuse épiphanie.

Céline écrivain de droite ? Oui, mais d’une droite métaphysique, ontologique, pour qui le surgissement de l’Être ne peut s’accompagner que d’un désespoir intégral et glaçant, d’une droite pour laquelle il n’y a pas de rédemption possible, et dont la parousie ne peut s’imaginer que comme une explosion vitaliste sans retour, un festival au lance-flammes…

Montherlant, lui, avec son beau style, ses gros tirages d’antan et ses postures agaçantes, était en fait un homme du passé. L’aboutissement plutôt que le commencement de quelque chose. Tout sonne un peu vieillot chez lui et surtout son style, un peu irréel, encore intéressant, parfois saisissant ou touchant, mais si loin, si loin… Montherlant héros d’une droite faussement moderne, qui se fait un film sur l’Ancien Régime, qui se prend le chou sur des arguties catholiques proprement inintelligibles aujourd’hui pour le Français moyen, ou qui ronchonne encore sur la perte de l’Algérie Française.

Montherlant qui a aussi sûrement agi pour la décrédibilisation de l’écrivain en tant qu’artiste et intellectuel utile et légitime à droite que Sartre et BHL à gauche, c’est dire !

Céline anticipe notre chaos quotidien, nous file une toolbox stylistique pour nous en sortir. Montherlant nous ouvre son musée, et nous explique que quand même, avant, c’était mieux…

Bukowski révérait Céline, et en fera un quasi-personnage dans son dernier roman.

Montherlant, même Le Figaro n’en parle plus !

Restent les livres, au-delà des hommes et des parcours. Mais combien les lisent encore vraiment, ces deux-là ?

Alain JAMOT
surlering.fr, 27/10/2009.
Repris sur le site montherlant.be

lundi, 24 janvier 2011

Edernité d'Edern

Edernité d’Edern

Entretien avec François Bousquet

Ex: http://blogchocdumois.hautetfort.com/

jdh.jpgLa société du spectacle célèbre la mort de François Mitterrand. Nous, nous célébrons celle de Jean-Edern Hallier, mort le siècle dernier, un 12 janvier. C’était un spectacle à lui tout seul. Retour sur le dernier grand phénomène de cirque de la littérature française avec François Bousquet, auteur de Jean-Edern Hallier ou le narcissique parfait, paru aux éditions Albin Michel, et qui a eu la chance de travailler avec lui à l’époque du « Jean Edern’s club » sur Paris première, quand l’animateur jetait d’un geste augustéen les mauvais livres dont on l’inondait.

Dans Jean-Edern ou le narcissique parfait, vous vous attardez longuement sur les grands coups d’éclat de Jean-Edern…

Je n’ai jamais cessé d’être époustouflé par ses audaces, ses échecs, sa folie. Il avait repris à son compte la devise de Mick Jagger : Too much is never enough. Et on peut nous croire, trop, chez lui, n’était jamais assez. Il a repoussé les limites du ridicule au-delà de tout horizon. Réellement, il s’autorisait tout. Une sorte d’impudeur fondamentale, étrangère au caricatural, guidait sa vie. Les mécanismes d’autocensure, ce que la psychanalyse appelle le « Surmoi », le tribunal de la conscience, ne jouait jamais chez lui. C’était un grand accidenté des débuts de la vie. On l’avait accouché au forceps, en l’éborgnant. Né cyclope, avec un seul œil, il s’est de suite réfugié dans le pays enchanté des mythomanes. Les thèses de Mélanie Klein sur le traumatisme de l’accouchement trouvent ici le sujet expérimental rêvé. Ébréché à la naissance, Jean-Edern est devenu un clown cyclopéen, un valet de comédie, anormalement confiné, avec les moyens physiques d’un adulte, aux guerres de tranchées des halte-garderies et des jalousies de classe maternelle. Ce qui s’est traduit en 1975, à l’âge de trente-neuf ans, par un attentat au cocktail Molotov dans la cage d’escalier de Françoise Mallet-Joris, alors vice-présidente du Prix Goncourt, prix avec lequel Jean-Edern était (et sera toujours) fâché. On ne compte pas les colis piégés qu’il a envoyés à des confrères, à Jean Daniel, à Jean-François Revel, qui n’ont pas explosé. Ça n’a pas toujours été le cas. En 1982, il a fait plastiquer, pour liquider un contentieux « scolaire » très ancien, l’appartement de Régis Debray, rue de Seine. La moitié de l’immeuble a sauté. Il n’y a eu, pour seule victime, qu’un malheureux chien. La même année, il s’est lui-même enlevé pendant une semaine avant de prévenir l’AFP qu’on le relâchait. C’étaient les Pieds Nickelés à lui tout seul. Il avait de la nitroglycérine dans le sang et réglait ses conflits de jalousie à la dynamite. Nous, on envoie prosaïquement des lettres recommandées avec accusée réception, lui envoyait des pains de plastic. Il allait toujours trop loin. Il suffisait qu’on lui dise : ne le fais pas, pour qu’il le fasse. Dans ces conditions, ça finissait toujours par une convocation dans le bureau du juge, mais l’explication de texte était toujours fournie chez Bernard Pivot.

Plutôt qu’à la littérature, vous préférez le rattacher à une autre famille, celle des grands bouffons ?

On veut à tout prix faire de lui un écrivain, mais il y en a bien assez. Jean-Edern a d’ailleurs rapidement oublié la littérature. Cet oubli, c’était peut-être quelque chose de l’ordre de l’acte manqué. Peut-être sentait-il inconsciemment qu’il ne serait pas à la hauteur de cette assignation au génie et s’en est tenu à la promotion tonitruante de livres à peine achevés. La campagne publicitaire a été incomparable, le plan média invraisemblable, mais la qualité de l’œuvre inversement proportionnelle à l’intentionnalité et au projet de grandeur. C’était un mégalomane parfait, un euphorique dominé par les superlatifs. Le plus grand, le plus intelligent, le plus admirable. Il jouissait de lui sous le mode de l’auto-érotisme, en s’administrant quotidiennement des surdoses d’éloges qui auraient tué tout autre que lui. On n’a pas idée du narcissisme ni des mécanismes d’auto-divinisation si l’on n’a pas pratiqué quelque peu Jean-Edern. Il avait fini par penser qu’il était prédestiné de naissance au génie, ce qui lui économisait de toute évidence d’en devenir un.

Pour vous, ça n’est pas un problème…

Son génie était ailleurs. Il a su renouer avec une tradition tombée dans l’oubli, le carnavalesque médiéval, la comédie italienne, les valets de Molière, tout le cortège du monstrueux joyeux du Moyen Âge, avec sa cour des miracles, ses gargouilles, ses bossus. Le miracle, c’est qu’une société aussi normative et hygiénique que la nôtre ait laissé passer un tel Scapin, aussi expert que lui en larronnerie et fanfaronnade. C’était un personnage de BD qui aspirait à entrer à l’Académie, et dont la vie a fini par ressembler à une suite de faits-divers dans un décor de cartoons. Quoi qu’il fît, c’était drôle, à ses dépens et aux dépens des puissants. Tout était comique, rien n’était tragique. Pourquoi était-il réduit à la condition des bouffons, et pas à celle des rois ? Parce qu’il était boiteux, borgne, estropié, au même titre que les nains de cour qui fournissaient, jadis, les contingents de bouffons pour donner la réplique aux princes. Mais Jean-Edern était un bouffon royal. Mieux vaut être un bouffon royal qu’un monarque ridicule. Dans Dostoïevski, le bouffon se dégonfle et en appelle à la compassion du public en lui livrant son sentiment d’indignité. Il n’ose pas être pleinement un prince de la dérision alors qu’un Stavroguine par exemple assume parfaitement d’être un prince du mal. Si le bouffon pouvait se livrer sans réserve à la dérision, aucun pouvoir n’y résisterait, pas même celui d’un Stavroguine. Il arracherait son masque de gravité et de dignité à l’Homme. Malheureusement, les bouffons ignorent certaines des potentialités de leur art : ils ne sont dangereux que par intermittence. Mais alors quelle puissance de destruction !

C’est à vos yeux en tant que directeur de journal, à la tête de L’Idiot international, qu’il a donné le meilleur de lui-même ?

Jean-Edern faisait du journalisme sauvagement, en dehors de tout cadre légal, sans carte de presse. C’était un journaliste par accident, qui a su transformer le fortuit et l’accidentel en miracle permanent. Obsédé par les grandes aventures de la presse, il a créé un journal d’écrivains et d’incendiaires, pour aborder l’actualité de biais, par l’inactualité de la littérature, sous le mode du hooliganisme littéraire et de la rupture avec tous les conformismes. Il y est parvenu, pendant cinq ans, de 1989 à 1993. Tous ceux qui comptaient ou allaient compter sont alors passés par L’Idiot international. C’était l’équipe de France Espoir de la littérature, même s’il y avait quelques vétérans du Barreau et de l’Académie. L’Idiot a été une merveilleuse licence sur l’époque, un permis de tuer par le style, arraché par Jean-Edern au consensus journalistique.
Jean-Edern voulait sortir la littérature du ghetto littéraire. Il était exotérique, populiste, plébiscitaire, visait un public de cent mille personnes. Les petites salles ne retenaient pas son attention. Ce qu’il fallait à sa folie, c’était le Stade de France. Et il l’aurait rempli ! Seulement, refaire L’Idiot international aujourd’hui serait impossible. C’était un journal inimitable, inimitablement dirigé. Les conditions de l’époque et la vigilance des tribunaux interdisent la renaissance de ce type de presse. Il y a des polémistes, mais ils n’auront jamais le mégaphone de Jean-Edern ni sa capacité à médiatiser une intervention. La prise de parole, dans une société médiatiquement bloquée, passe par la provocation, praxis à double tranchant : d’un côté elle a un très fort coefficient de médiatisation et de l’autre elle est délégitimante. Elle vous retire tout de suite ce que vous avez arraché grâce à elle. Jean-Edern forçait les portes des grands médias grâce à sa popularité de clown, qui le protégeait tout en le déconsidérant, et inversement. Témoin douteux de la vérité, il était systématiquement récusé, en dépit des écoutes téléphoniques et des condamnations de justice. N’oublions pas qu’il a été l’homme le plus écouté de France et son journal le plus condamné. Mais à trop hurler au loup, c’est le loup qu’on croit.

Que dire de ce couple inattendu qu’il a formé avec François Mitterrand ? Le prince et son poète ? Ou plutôt devrions-nous dire le monarque et son bouffon ?

François Mitterrand était un voyeur. Ce n’est pas la première fois que le pouvoir appelle ce genre de perversion. C’est Mitterrand qui trichait, c’est Jean-Edern qui disait la vérité. Il ne faut pas renverser les rôles. Jean-Edern a indiscutablement mis en scène sa victimisation, mais on ne peut nier qu’il a bel et bien été persécuté par le pouvoir. Dans le cas de la cellule antiterroriste de l’Élysée, le président de la République a été pris d’une frénésie d’espionnage qui excède largement les capacités de nuisance de Jean-Edern et les nécessités de la surveillance. Les écoutes n’étaient pas seulement illégales, mais inutiles. Ce qui nous conduit logiquement à penser que Mitterrand y prenait un certain plaisir. En gourmet, il se délectait de son indiscrétion. Est-ce que Jean-Edern était un terroriste sérieux ? Non, assurément. Le terrorisme pose, lui aussi, la question de l’autorité. Jean-Edern était un amateur, discrédité d’avance, et dont la cause était beaucoup moins politique qu’infantile. C’était au fond du terrorisme passionnel. À eux deux, ils forment le couple du voyeur et de l’exhibitionniste, du prince et du bouffon, du gendarme et du voleur. Peut-être fallait-il, en ces temps d’ennui, de normalisation et de conformisme, un David comique pour terrasser un Goliath compassé.

Que pensez-vous des spéculations autour de sa mort, assassinat ou non ?

C’est le type même de la thèse qui n’aurait jamais dû quitter son rang d’hypothèse. Jean-Edern est mort d’un arrêt cardiaque, usé qu’il était d’excès tabagiques et alcooliques. Il a eu un cancer, fait des infarctus, des gardes à vue et même une parodie de funérailles nationales au Panthéon avec la complicité de Léon Zitrone. L’idée, farfelue, d’un « contrat » lancé contre lui a été relayée par la partie folklorique de son entourage, autant de cryptomanes et de conspirationnistes éminemment sympathiques, mais qui s’enflamment à tout bout de champ et font ressurgir, au moindre indice, le secret de l’Atlantide englouti. C’est difficile de les suivre. Si on avait dû tuer Jean-Edern, on l’aurait fait plus tôt. Tel n’a pas été le cas. Son « assassinat manqué » n’est donc pas venu couronner une carrière d’opposant, ni faire du « martyr ridicule », comme les appelait Léon Cladel, un héros de la liberté. Ce que Jean-Edern n’était pas. Héros, il l’était, oui, mais du médiatique.

Jean-Edern aurait-il tout sacrifié à la célébrité ?

Tout est vain, comme dit l’Ecclésiaste, et singulièrement notre société du spectacle. Mais la télévision était une tentation trop grande pour Jean-Edern et tenait du pacte faustien mal interprété. Comme il visait la plus forte Unité de bruit médiatique, il s’agitait sans arrêt pour passer au « Vingt Heures » ou du moins figurer en bonne place dans le journal, sous n’importe quelle rubrique, dans la page économie, people ou faits-divers. La France entière devait le voir. C’était vital pour lui. Quand il a été animateur, le problème s’est résolu de lui-même : il est entré dans la boîte. Quoique inactuel, c’est un héros de notre temps. Il est très difficile de survivre à l’incinération télévisuelle. La société du spectacle fait une consommation effrénée de héros provisoires, d’histrions jetables et autres chanteurs d’un soir. Jean-Edern a malgré tout survécu à sa disparition médiatique. L’historien des trente dernières années du XXe siècle sera surpris de retrouver son nom partout, en politique, en littérature, à la télévision, au tribunal. Moteur hybride, il fonctionnait à n’importe quoi, pourvu que ça le conduise à la seule Terre promise qui compte : la télévision. Premier Prix au Concours Lépine de l’entrisme télévisuel… et du sortisme, parce qu’on le chassait au moins aussi souvent qu’on le recevait. Il avait même le projet de faire le Paris-Dakar avec le capitaine Barril. Quel attelage ! Manquait un dromadaire. Il appartient à l’histoire poétique du charlatanisme. Proto-héros précaire et clinquant, il aurait trouvé naturellement sa place dans un film d’Emir Kusturica, avec Maradona, Richard Virenque et Rossinante. Comment ne pas tomber amoureux d’un pareil équipage ! C’est peut-être l’équation secrète du quichottisme.

Alors que reste-t-il de lui ?

Jean-Edern se présentait à nous sur une scène de théâtre, sur des tréteaux, en clown débridé et fraternel. Notre relation à lui était celle de spectateurs médusés. Ce n’était pas un maître, il ne dispensait aucun enseignement. Il vivait en perpétuelle insécurité narcissique, entouré d’une nuée de jeunes gens émerveillés par sa folie et son abandon à la parole et à l’admiration des autres. Je trouve que dans cette lutte poétique que mènent les délicats contre la classe prédominante des vulgaires, il n’était pas le moins beau. Albatros baudelairien qui n’est pas près d’être surpassé, j’ai voulu lui rendre hommage, sans occulter l’envers du décor.
Jean-Edern nous rappelle qu’il peut y avoir de l’excellence ailleurs que dans le cursus honorum balisé de l’écrivain classique, qui fait des livres et des colloques, en suivant la flèche de la littérature. En tant que calamité sociale, il relevait de la piraterie, du picaresque et du vaudeville. Il faut être aveugle et insensible pour ne pas deviner là un potentiel poétique exceptionnel et inédit. À un certain niveau, l’escroquerie s’apparente à une œuvre d’art et le bateleur télévisuel à un djinn plus féerique que médiatique. Ça ne me dérange absolument pas que Jean-Edern n’ait été que ce qu’il était, puisqu’il l’était par privilège poétique et décret divin. C’était un poète monté sur un clown, et qui se jetait pour finir dans le vide. Ses ennemis se refusent à l’admettre par principe, mais c’était beau à voir.

François Bousquet, Jean-Edern Hallier ou le narcissique parfait, Albin Michel, 140 p., 13€.
Frédéric Hallier, Denis Gombert et François Bousquet, « L’Idiot international », une anthologie, Albin Michel, 232 p., 25€

samedi, 22 janvier 2011

Le Bulletin célinien n°326

Le Bulletin célinien n°326 - Janvier 2011

Vient de paraître : Le Bulletin célinien n°326.
 
Au sommaire :

Marc Laudelout : Bloc-notes
Henri Godard : Doit-on, peut-on célébrer Céline ?
Gaël Richard : Le procès de Céline
M. L. : Un auteur et son éditeur
Benoît Le Roux : Les derniers mots de Brasillach sur Céline
Laurie Viala : Illustrer Céline (II)
M. L. : De Céline à Braibant
Matthias Gadret & Marc Laudelout : 2010, (autre) année célinienne
Jean-Paul Angelelli : « Petrouchka » d’Albert Paraz
S. G. : Une interprétation intimiste de « Mort à crédit »
M. L. : La correspondance de Céline à Bente Johansen
M. L. : Céline sur tous les fronts

Le numéro 6€
Par chèque à l'ordre de Marc Laudelout à :
Le Bulletin célinien

BP 70
B1000 Bruxelles 22

 

 

C’est en 1981, année du vingtième anniversaire de la mort de Céline, que débuta la petite aventure du Bulletin célinien. Lequel a donc aujourd’hui trente ans ¹. Bien des ouvrages sont annoncés pour cette année du cinquantenaire. Le plus consistant sera assurément le volume D’un Céline l’autre (plus d’un millier de pages) rassemblant les témoignages de ses contemporains. Plus décisif pour la connaissance de l’écrivain, ce Dictionnaire de la correspondance de Céline tant attendu. Et, pour les célinomanes, cette bibliographie, Tout sur Céline, recensant ce qui s’est écrit et dit sur l’écrivain depuis la parution de « Voyage au bout de la nuit » ². Pas moins de trois colloques sont prévus en 2011. Le premier, « Céline, réprouvé et classique », aura lieu début février au Centre Pompidou, à Paris ³.

Un récent séjour à Paris m’a permis de faire la connaissance de Matthias Gadret, webmestre du blog « Le Petit Célinien », qui réalise, comme les abonnés internautes le savent, un travail précieux. La rencontre fut d’autant plus agréable qu’elle se fit en compagnie du cher Claude Dubois, premier éditeur de Céline en verve et indéfectible amoureux de Paris 4. Celui d’antan surtout. Dans la préface de son anthologie (1972), il dénonçait « l’expropriation hors capitale du menu peuple, les gros coups de l’immobilier, la destruction systématique de Paris village, Belleville, Grenelle, Ménilmuche… la restauration d’un “Marais” pour richards, et l’invasion massive de la Grand’Ville par l’étranger, provinciaux et autres... ». Ce fut un plaisir de présenter l’un à l’autre ces deux céliniens de génération différente. Séduit par le parler populaire, Matthias est également un lecteur enthousiaste d’Audiard et de Boudard. C’est dire s’il se révéla un auditeur attentif de Claude Dubois évoquant ses innombrables heures passées au Balajo ou celles en compagnie d’Alphonse et de Gen Paul qu’il a tous deux bien connus.

Marc LAUDELOUT


1. Un n° 0 parut en 1981, suivi de quatre numéros l’année suivante. Le BC devint mensuel à partir de 1982. http://louisferdinandceline.free.fr
2. David Alliot, D’un Céline l’autre, Robert Laffont, coll. « Bouquins » (préface de François Gibault) ; Jean-Paul Louis, Éric Mazet et Gaël Richard, Dictionnaire de la correspondance de Céline, Du Lérot ; Alain de Benoist, Arina Istratova et Marc Laudelout, Tout sur Céline (Bibliographie – Filmographie – Phonographie – Internet), Le Bulletin célinien.
3. Colloque « Céline, réprouvé et classique », organisé par la BPI et la SEC, les vendredi 4 et samedi 5 février.
Thèmes annoncés : 1) Journée du 4 février, Dr Destouches et Mr Céline : « Céline et la médecine » par Isabelle Blondiaux ; « Les Traces d’une vie (recherches biographiques) » par Gaël Richard – Controverses et reconnaissances internationales : « La redécouverte de Voyage au bout de la nuit » par Christine Sautermeister ; « Céline au Japon : Œuvres complètes et French Theory » par Yoriko Sugiura ; « D’Elsa Triolet à Victor Erofeev : les avatars russes de Céline » par Olga Chtcherbakova ; « Céline chez les fils de la perfide Albion » par Greg Hainge – Céline et la critique : « Entretien avec Philippe Bordas, écrivain » — 2) Journée du 5 février, Céline et l’histoire : Table ronde avec Jean-Pierre Martin, Yves Pagès, Daniel Lindenberg et Delfeil de Ton ; Un autre Céline : « L’Œuvre épistolaire » par Sonia Anton ; « Céline au cinéma » par Émile Brami ; « Céline au théâtre » par Johanne Bénard ; « Céline et les gender studies » par Tonia Tinsley. Une partie théâtrale est également prévue le vendredi : « Faire danser les alligators sur la flûte de Pan », choix de correspondances établi par Émile Brami et interprété par Denis Lavant, ainsi que le samedi : lecture d’extraits de textes de Céline par Fabrice Luchini.
Signalons que, pour le cinquantenaire de sa mort, Céline est mentionné dans la rubrique « Célébrations nationales en 2011 » de Culture Communication, le magazine du Ministère de la Culture et de la Communication (déc. 2010-janv. 2011). À cette occasion, Henri Godard a écrit un texte figurant sur le site officiel « Archives de France » que nous reproduisons à la page suivante. D’ores et déjà, l’année 2011 s’annonce fertile pour les céliniens (voir p. 23)
4. Sur le blog, on peut désormais voir le documentaire « Paris vu sous 7 angles », présenté par Claude Dubois et dans lequel il évoque le Montmartre de Céline, Gen Paul et Marcel Aymé. Réalisation : Fabrice Allouche. Production : TV Only. NRJ Paris (2008).


lundi, 17 janvier 2011

Bernard Lugan salue Vladimir Volkoff

Bernard Lugan salue

Vladimir Volkoff

samedi, 15 janvier 2011

Pierre Gripari, portrait de l'écrivain en joyeux pessimiste

gripari1111.jpg

Pierre Gripari, portrait de l'écrivain en joyeux pessimiste

par Anne Martin-Conrad

(Infréquentables, 8)

Ex: http://stalker.hautetfort.com/

Vous avez dit «infréquentable» ? Oui, bien sûr, et heureusement ! Où serait la grandeur d’un écrivain qui plairait à tout le monde ?
Gripari est né en 1925, mort en 1990 : le calcul est vite fait et vous m’avouerez qu’être fréquentable en ce siècle ce serait plutôt inquiétant. Ils sont d’ailleurs nombreux ceux qui ont été couverts d’honneurs et sur lesquels la pierre du tombeau s’est refermée lourdement : on n’en parle plus, on ne les lit plus. Il est vrai qu’on inventait alors l’intellectuel, qui devait se confondre avec l’écrivain… Peine perdue, leur compte est bon, les hommes, les idées, passent, les œuvres resteront.
Les nuages noirs qui menaçaient toute entreprise littéraire, toute réflexion à cette époque, c’était le communisme et la psychanalyse : il n’y avait pas d’autre grille de lecture. Hélas, à peine en a-t-on fini avec celles-là que d’autres se précipitent à l’horizon : la même quantité de bêtise et de conformisme pèse toujours sur le monde, sous une forme ou sous une autre. Aujourd’hui, les droits de l’homme et les bons sentiments continuent de semer la mort à tous les points cardinaux : fuyons les amoureux de l’humanité.
Des vertus requises pour réussir dans le monde littéraire de ces temps de misère, Gripari n’en avait aucune. La souplesse qui fait les carrières, la flatterie qui ménage les puissants, le dossier de subvention glissé au bon moment au bon endroit, sur le bureau qui l’attend ce n’est pas que Gripari se le refusait, c’est qu’il n’en avait aucune notion !
Dans le livre d’entretiens, Gripari mode d’emploi, son ami Alain Paucard lui dit : «Ça commence par un malentendu, ça se poursuit par un purgatoire, et ça finit par une réhabilitation !» Faut-il vraiment le souhaiter ? S’il s’agit de consensus, non : une œuvre digne de ce nom doit rester au-dessus de tout, en quelque manière infréquentable.
Comme dirait une femme célèbre, et largement surestimée, «on ne naît pas infréquentable, on le devient !» Mais la vie est une sorte de lutte entre un individu et le monde qui l’accueille : il naît avec quelques atouts, un noyau dur, il les confronte avec ce qui l’entoure, puis, un jour, c’est la bataille en rase campagne. Il faut conquérir l’univers… c’est un corps à corps dont il sort, éventuellement, mais rarement, une œuvre.
Gripari aimait ce thème, il le décline dans tous ses romans, Pierrot la Lune, Gripotard, Branchu, dans ses contes aussi, Le Prince Pipo, Jean-Yves sont des enfants de Wilhelm Meister. Et il ne s’agit pas de grandir pour se perdre dans la masse, mais pour accomplir une vocation, quel qu’en soit le prix. Il faut apprendre à désespérer de bonne heure, mais la mélancolie contemplative n’est pas pour lui et sa profession de foi, souvent répétée est : «la tête qui dit non, le cœur qui dit oui.»
Les années d’apprentissage de Pierre Gripari forment un socle fragile qui prépare le terrain pour une vie difficile : un père arrivé de Grèce et fraîchement naturalisé, une mère normande que l’ambition déçue amène à prendre un amant, puis à noyer le chagrin qui s’ensuit dans les alcools forts. Elle en meurt en 1941. Le père est tué sur une route de Touraine par un mitraillage allié en 1944… Les astrologues disent doctement que Gripari avait Mars dans son ciel.
Les années 40 avaient amené la famille Gripari dans un village des bords de la Loire, Saint-Dyé, et Pierre s’y retrouve seul avec son jeune frère… Ce village existe, j’y suis allée dans les années 90 : on se souvient des Gripari. Ils étaient scandaleux, infréquentables, déjà… Et Pierre qui n’aimait pas les filles ! C’est le comble.
gripari2.jpgCe jeune homme qui a fait de bonnes études, interrompues par les événements, travaille comme dactylo chez le notaire, s’emploie l’été chez un cultivateur, joue du piano le samedi soir dans les bals. Bref, il n’y a rien à lui reprocher, mais, tout de même, il n’est pas comme tout le monde : on le lui fait savoir. Pourtant, il est communiste, selon l’air du temps, mais à sa façon sans doute.
Il écrit, mais personne ne le sait. La vie est un théâtre, dit Shakespeare, et Gripari entre déjà dans son rôle : il imagine une correspondance qui s’adresse à un inconnu rêvé et qui est signée Alceste… Grande solitude, sentiment d’exil.
Au cours de son enfance mouvementée, il avait eu recours aux livres, ceux des autres : «J’ai parlé autre part de l’émerveillement, du sentiment de fraternité joyeuse qu’ont éveillé en moi, lorsque j’étais enfant, des livres comme Croc-Blanc ou David Copperfield. J’ai retrouvé cela depuis avec Homère, Tolstoï, Gogol, Kipling, Céline… Ce qu’ils m’ont apporté n’était pas quelque chose d’accessoire, ce n’était pas du luxe, ni du superflu. C’était, c’est au contraire quelque chose d’essentiel, de vital.» Il se considère comme un héritier, à lui maintenant d’écrire, envers et contre tout.
«Je pars à l’armée en 46 avec la carte du Parti dans la poche, je la fous en l’air après avoir lu Kravtchenko, je reviens à Paris en 49, sur mes vieilles positions sceptiques, épicuriennes et pessimistes […] déclassé total, je me retrouve au milieu de gens dont la mentalité m’est totalement étrangère, snobé par mes anciens amis […] dans le quartier, au bureau, les seules personnes qui m’intéressent sont des communistes, et je reviens tout doucement à eux.»
Il travaille à la Mobil Oil, apprend le russe aux cours du soir de France URSS, tout naturellement, puisqu’il aime les livres, il exerce les fonctions de bibliothécaire pour le compte de la CGT… C’est là que les choses se gâtent : au lieu de recommander la littérature soviétique, il conseille Gogol ! Scandale… Sans compter qu’au syndicat, on n’aime pas beaucoup les «pédés».
Dans les années 50, à l’occasion d’un voyage en train vers la Grèce, où il rencontre sa famille paternelle, il traverse la Yougoslavie, voit le communisme de l’intérieur et en sort définitivement, guéri de toute espérance dans quelque système que ce soit, sur la terre comme au ciel.
Son expérience, du communisme et de ses avatars lui sera une source abondante d’inspiration… Cela nous vaut quelques nouvelles jubilatoires et le personnage émouvant de Socrate-Marie Gripotard.
Vers la fin des années cinquante, il cesse de jeter ses carnets, ses essais… Il écrit, pour le théâtre, et son premier roman, Pierrot la Lune. Et là commence sa brillante carrière d’infréquentable, en tant qu’écrivain… D’abord, il y évoque, avec une sincérité qui n’était pas de bon aloi à l’époque, son homosexualité. O, rien de scandaleux, pas de descriptions scabreuses, plutôt le trouble et la difficulté qu’il y a à le vivre. Au pire, c’était tout de même immoral, au mieux, c’était gênant… personne ne s’y retrouvait, ni les censeurs, ni les intéressés eux-mêmes.
Le récit de cette jeunesse se situait dans les années quarante… le sujet était délicat et les opinions bien tranchées. Lui raconte ce qu’il a vu, avec étonnement, avec le souci de la vérité, d’évoquer la complexité de la situation. Rien pour arranger les choses ! Dans l’après guerre, on s’installait dans le noir et blanc et nous y sommes toujours, il faut bien le dire.
Ce manuscrit se retrouva sur le bureau de Roland Laudenbach à La Table Ronde, dûment recommandé par Michel Déon qui avait été séduit par Lieutenant Tenant
gripari 4.jpgLieutenant Tenant est la première pièce jouée, en 1962… Une critique flatteuse de Jean-Jacques Gautier l’avait lancée et un reportage photo dans Paris-Match avait précipité Pierre sous les feux de la rampe (le système a parfois des faiblesses et laisse passer… Il ne peut pas tout contrôler, aussi rigide qu’il soit). Et voici que tout se gâte : après quelques semaines, le producteur trouve que la pièce est trop courte et lui demande d’ajouter une scène. Pierre refuse (on reconnaît là sa propension à être infréquentable !) Il n’a pas de vanité d’auteur, mais beaucoup d’orgueil et ne supportera jamais qu’on touche à ce qu’il écrit. Qu’à cela ne tienne, le producteur fait écrire la scène par un autre… ce que Pierre n’accepte pas, évidemment.
Cet acte de rébellion arrête net sa carrière d’auteur dramatique, et le malentendu n’est pas seulement économique et médiatique : «Ceux qui attendaient une pochade antimilitariste furent déçus. Les habitués du boulevard trouvèrent les scènes philosophiques trop lourdes. Les staliniens (russes ou chinois) du théâtre «engagé» tiquèrent devant les allusions aux Tatars de Crimée qui furent massacrés, sur l’ordre de Staline, à la libération du territoire. Et le public de l’avant-garde qui a mauvaise conscience dès qu’il ne s’ennuie pas, trouva la pièce légère.»
Il aggrave son cas en refusant de signer le fameux Manifeste des 121… Pour lui, l’Algérie sera algérienne, c’est inévitable, mais ce n’est pas une raison pour trahir les Français installés là-bas depuis des générations et à qui on a promis... Il est remarquable de voir que la plupart des thèmes qui l’ont diabolisé et qui donnaient lieu à des conflits sanglants, n’ont plus de sens aujourd’hui ! Comme la querelle du Filioque et celle des Iconoclastes, ils ne sont plus que matière d’Histoire.
Plus jamais il ne sera joué ailleurs que dans les cafés-théâtres. Pas de subventions pour lui, pas de metteur en scène qui s’y risque… Sauf Guy Moign qui créera une compagnie et montera ses textes chaque fois qu’il le pourra, mais pour qui jamais les grandes salles ne s’ouvriront.
Gripari avait écrit des contes pour la jeunesse. Il était sous contrat avec La Table ronde, l’éditeur de l’Algérie Française, qui publiait aussi des romans, mais des livres pour enfants… jamais. Les célèbres Contes de la rue Broca parurent en 1967 : un beau volume de la collection Vermillon… sans images, diffusé comme les pamphlets politiques qui faisaient la renommée de l’éditeur. Aucun succès ! Chute dans un gouffre sans fond…
C’est Jean-Pierre Rudin, libraire à Nice, qui, au début des années 70 entreprit une croisade, vendit deux mille exemplaires à lui tout seul, par la persuasion ou la terreur… Le contact était établi, hors des fameux «circuits» et les enfants le plébiscitèrent. Depuis, les Contes de la rue Broca ont refait le chemin à l’envers, investi les écoles, les bibliothèques, le ministère de l’Education nationale lui-même… Là, les choses se gâtent, car tout le monde s’en saisit et les «adapte». Une notion très dangereuse… Qui lit Perrault dans la merveilleuse version originale des Contes de ma Mère l’Oye ? Même chose pour les contes de Gripari. Lui qui travaillait scrupuleusement le rythme, le choix des mots, se voit souvent attaqué par toute sorte de prédateurs-adaptateurs et autres simplificateurs : c’est la rançon du succès.

Je disais bien qu’être trop fréquentable, c’est un autre genre de malédiction ! Mais rassurons-nous, c’est la seule partie de son œuvre qui trouve grâce aux yeux du monde tel qu’il est.
À la fin de ces années 60, les malentendus étaient donc déjà bien installés. Comme il est passé du communisme à la fréquentation d’un milieu de droite, à cause de son éditeur, et qu’il s’y est fait des amis, c’est un traître de la pire espèce. Ou bien, comme un esprit libre est vraiment infréquentable dans tous les mondes possibles, cela arrange le milieu littéraire, théâtral, journalistique de le cataloguer ainsi. En fait, Gripari n’est pas un idéologue, c’est un moraliste, il le dit, l’écrit et le montre : «Moi, je suis un individualiste discipliné, qui paie ses impôts, jette ses papiers dans les corbeilles, afin que l’État lui foute la paix sur tout le reste.»
C’est à ce moment-là que je l’ai connu. Il était solide comme un roc : il écrivait et tout le reste était secondaire. C’était sa force. Pour se loger et se nourrir (très mal !) il continuait de faire des petits travaux de bureau qui l’occupaient à mi-temps et lui laissaient la tête libre. Vivant comme un moine, il n’était embarrassé de rien : pas de voiture, pas de télé, pas de radio, même pas de livres ou presque, car il en achetait quelquefois qu’il donnait aussitôt lecture faite. Quand ses amis, cherchant à l’aider, lui offraient un objet quelconque ou un vêtement, il remerciait gentiment et s’en débarrassait immédiatement, trouvant toujours plus pauvre ou plus intéressé que lui.
gripari5.jpgCet état de pauvreté consenti lui donnait une apparence un peu particulière qui le rendait encore infréquentable à une autre échelle : celle des relations sociales. Il allait en sandales, à grandes enjambées, le pantalon attaché avec une ficelle, un «anorak» informe jeté sur les épaules. Le luxe qu’il s’accordait, dès qu’il le pouvait, c’était l’opéra, un lieu où il faisait certainement sensation, mais quant au répertoire il le connaissait certainement mieux que la plupart des spectateurs qu’il y côtoyait.
Mais c’était un si joyeux compagnon, si cultivé, si drôle, si original qu’il était souvent invité à dîner. Il se mettait à table avec grand appétit, riait à gorge déployée, racontait une histoire aux enfants, flattait les animaux de la maison, et si par hasard il y avait un piano, il jouait des rengaines (son répertoire de pianiste de bal) entrecoupées de leitmotive des opéras de Wagner. Après quoi, tout le monde faisait silence et il nous lisait un texte fraîchement écrit.
En 1969, La Table ronde renonce à publier cet auteur par trop atypique… Dans les deux années qui suivent, il sera refusé par dix-sept éditeurs. Ne nous privons pas d’en faire la liste : Gallimard, Flammarion, Albin Michel, Bourgois, Julliard, Le Seuil, Belfond, José Corti, Balland, Fayard, Denoël, Laffont, Grasset, Losfeld, Stock, Mercure de France, Marabout… Il est à noter que parmi eux, il en est de grands et qui ont du flair : il est à craindre que les refus émanèrent de lecteurs plus soucieux du politiquement correct que de la valeur littéraire.
On les comprend, je veux dire qu’on comprend leur prudence, ils avaient une mission : faire tenir debout l’aveuglement idéologique sous toutes ses formes, soutenir coûte que coûte le progrès, le féminisme, la psychanalyse, la décolonisation, mai 68, Mao… C’est que Gripari n’y allait pas par quatre chemins. «Il ne faut jamais faire de concession, les concessions, c’est comme le crime : ça ne paye pas», disait-il et il savait bien qu’il n’avait plus rien à perdre… «Si ces cons-là n’en veulent pas, (il parlait de ses manuscrits), ils peuvent m’étouffer, me faire crever, d’accord, mais ce sera tant pis pour eux d’abord. C’était quand même tragique, parce que, quand on n’est pas publié, on est moins motivé à écrire. On a beau dire, quand le débouché n’existe pas… Je me suis vraiment senti menacé d’asphyxie, de mort lente, d’assassinat». Cette douloureuse expérience nous vaut une description à la manière de Balzac du milieu éditorial dans Histoire de Prose. Il était catalogué : mécréant, fasciste, provocateur. Le pire, le plus insupportable est qu’il n’attaquait pas de front, il n’opposait pas une idée à une autre, il détournait tout en ironie, en rêve, en drôlerie.
Il ne disait pas «Dieu n’existe pas !», il disait «On ne sait pas pourquoi les hommes ont tant besoin de son existence !» Dieu est le personnage principal de l’œuvre de Gripari. Il est partout, dans les romans, les nouvelles, les poèmes, de même que Jésus, la Vierge et le Saint-Esprit., A tel point que dans les pays très catholiques, comme l’Espagne ou la Hongrie, on n’a pas souhaité publier le Petit Jéhovah ou le Gentil petit diable.
L’Histoire du méchant Dieu, son exégèse biblique à lui, a de quoi énerver le chrétien sincère ou pratiquant, ou tout simplement l’amoureux de juste mesure, mais L’Évangile du Rien, une anthologie de textes sacrés ou mystiques est un très beau livre, une sorte de bible nihiliste. La fin, la disparition des dieux dans son roman posthume, Monoméron, dont c’est le sujet, arrache des larmes au matérialiste le plus endurci.
Il aimait la Bible, comme il aimait les poèmes homériques. L’Éternel le fascinait, alors que, pour lui, le Jésus des Évangiles était «un personnage littéraire peu crédible»… Et si vous êtes intrigués par des personnages tels que le nain Dieu, le géant Jésus, Sainte Épicure et la déesse Bonne Mère, les clés sont dans le roman Le Conte de Paris. L’un de ses amis, religieux traditionaliste notoire, officiant à Saint-Nicolas du Chardonnet, pouvait dire avec humour mais non sans vérité : «Si Dieu n’existait pas, je me demande ce qu’il aurait raconté !».
Il n’en ratait pas une : dans les années 70, Bettelheim avait décrété que les contes de fées n’étaient pas démocratiques et qu’il ne fallait plus de rois, ni de princesses. Gripari ignorait l’oukase et continuait d’en écrire. C’est sans doute cet épisode auquel il avait été confronté qui lui donna l’idée de Patrouille du Conte. Une patrouille doit moraliser les contes : le loup ne peut plus manger la grand mère, l’ogre doit opter pour un régime végétarien… Heureusement, l’entreprise tourne mal et les contes retrouvent la délicieuse cruauté qui réjouit les enfants et nous laisse à tous d’excellents souvenirs.
Il avait pris le pli du paradoxe, du pas de côté, tout lui était bon pour renverser les situations et les fameuses «valeurs». Malgré son goût des hommes, Gripari n’avait rien d’un misogyne. Il était simplement irrité et amusé par les slogans féministes. Il leur préférait la franche et joyeuse guerre des sexes et son Roman Branchu illustre le sujet avec allégresse. Ses histoires ne se terminent jamais par un mariage heureux et il y a peu de femmes, sauf les déesses mères, dans son œuvre : «L’amour fin en soi, l’amour fou, l’amour sauveur du monde m’inspirent la même méfiance, la même gaieté amère, la même agressivité goguenarde que la joie du martyre.» Lisez que, même si on remplace la femme par un homme, la question de fond est que, pour accomplir une œuvre, il faut s’y engager, il faut être seul et libre de toute pesanteur affective ou matérielle.
gripari7.jpgTout cela ne fait pas un gros dossier de presse ! Et quand un journaliste aventureux chronique les Contes, encore aujourd’hui, il ne manque pas de prendre les précautions d’usage, disant que son œuvre pour adultes sent le soufre. Le jour où Jacques Chancel l’invita pour la célèbre émission Radioscopie, en 1979, il fut rappelé à l’ordre par la LICA… Gripari s’était livré à quelque plaisanterie saugrenue sur le racisme !
Les dix dernières années de sa vie, il participa à une émission de radio qui consistait en des exercices littéraires dans le style de l’Oulipo. Il y était très apprécié des auditeurs, car, non seulement, il excellait dans ces jeux «de potache, de matheux en goguette», disait-il, mais il était très drôle et apportait une animation très personnelle… Là aussi, rien n’arrêtait une boutade ou une plaisanterie de telle sorte que le producteur de l’émission nourrissait à chaque enregistrement de légitimes inquiétudes.
En 1975, Grasset Jeunesse commence à publier tout ce qu’il écrit pour les enfants, réédite en albums très bien illustrés par Lapointe les Contes de la rue Broca et les Contes de la Folie-Méricourt. Dans le courant des années 80, il pourra vivre de sa plume… toujours comme un ascète, mais en tous cas, libre de son temps.
À auteur infréquentable, éditeurs infréquentables, en tous cas hors du système éditorial, commercial, médiatique : enfin, il les rencontre ! D’abord en 1972, Robert Morel, chrétien de gauche, installé dans les Hautes Alpes, qui laissera un catalogue de livres reliés, très originaux, publiera Les Rêveries d’un Martien en exil (des nouvelles), et Gueule d’Aminche (un polar méditerranéen inspiré de l’épopée de Gilgamesh) puis s’empressera de faire faillite.

Enfin, en 1974, il rencontre Vladimir Dimitrijevic, le fondateur de L’Âge d’Homme, l’éditeur des dissidents russes, qui deviendra son ami. Désormais, tout ce qu’il écrit sera édité : poésie, théâtre, romans, essais, nouvelles…
Gripari est mort jeune, je veux dire qu’il avait encore des histoires à raconter et en ce XXIe siècle déjà bien engagé, il est toujours un auteur inconnu. Ceux qui l’ont rencontré, qui l’ont lu, qui ont parlé avec lui, l’ont trouvé très fréquentable, amical, généreux, courtois et bienveillant.
Rue de la Folie Méricourt, sa dernière adresse, il déjeunait «en dessous» de sa chambre, chez Dany. C’était une gargote où il y avait encore des habitués ronds de serviette, employés, ouvriers, artisans qui travaillaient dans le quartier. Certains jours, il y avait les déménageurs qui sont immortalisés dans l’un de ses contes… Le chien dormait sous le bar, le saucisson beurre, les harengs à l’huile et les plats en sauce étaient promptement dévorés. Et c’était un spectacle réjouissant de voir Pierre Gripari causant avec tout le monde, racontant, riant, chantant, commentant les nouvelles et les résultats sportifs. Ici, son élégance toute personnelle ne choquait personne. Non, il n’était pas du tout infréquentable,
«Il faut des malheurs pour que naissent et s’épanouissent les héros» dit le poète. Pierre Gripari a connu l’adversité, l’injustice et l’incompréhension. Jamais il ne s’est incliné, jamais il n’a remis en question l’idée qu’il se faisait de la grandeur de son métier : écrivain, raconteur d’histoires.

C’est la Mort, la Faucheuse, qui l’a trouvé très fréquentable, et un peu trop tôt.

On est complice de ce qui arrive, Gripari marchait joyeusement dans les flaques en ayant la tête levée vers les étoiles.

Heureusement il a rencontré ses frères, lecteurs, éditeur.

L'auteur
Anne Martin-Conrad, née en 1941, autodidacte, a eu de nombreuses activités professionnelles, parmi lesquelles celles de journaliste et libraire. Elle a accueilli Pierre Gripari dans sa librairie-théâtre en 1967 et a fait partie de son cercle d'amis jusqu'à sa mort, puis elle a animé l'Association des Amis de Pierre Gripari pendant dix ans. Elle a publié un Dossier H aux éditions L'Âge d'Homme et un Gripari dans la collection Qui suis-je ? (en collaboration avec Jacques Marlaud) chez Pardès en 2010.

vendredi, 14 janvier 2011

Conférence de Pierre Vial sur Henri Vincenot


Conférence de Pierre Vial sur Henri Vincenot

lundi, 10 janvier 2011

Drieu la Rochelle, poeta della decadenza

Drieu La Rochelle, poeta della decadenza

Pierre Drieu La RochelleVi sono scrittori che impersonano nella loro esistenza e nelle opere un’epoca intera con tutte le sue contraddizioni. Pierre Drieu La Rochelle è stato uno di questi enfants du siècle. E il fascino dei suoi romanzi è legato non solo alla loro efficacia letteraria, ma anche al fatto che lo scrittore francese è diventato il simbolo di una generazione, quella degli “anni ruggenti”, divisa fra una vita disordinata e la ricerca di un ordine personale e sociale. Personaggi e romanziere si sono identificati agli occhi dei lettori sino a perdere ogni distinzione. E così doveva avvenire perché tutta la sua narrativa è un lungo monologo autobiografico in cui fantasia e confessione si intrecciano inestricabilmente.

 Qualcuno lo ha definito il fratello di F.S. Fitzgerald, il poeta della decadenza, della disintegrazione di una civiltà. E la definizione è, in parte, esatta. Drieu infatti è fra gli scrittori francesi che hanno avvertito più tragicamente e intensamente la crisi dell’uomo occidentale. “Il suo spirito era abituato – ha scritto in un romanzo – a confrontare la vecchiezza di oggi, che si dibatte con scosse secche e nervose, alla giovinezza creatrice con le sue armonie calme e piene”.

Le sue opere letterarie più significative, come Drôle de voyage, Fuoco fatuo, Rêveuse bourgeoise, Gilles, sono tutte modulate su questo tema della decadenza. I personaggi ne sono partecipi e rivelano nelle loro vicende l’incapacità di avere rapporti costanti e normali con gli altri, donne, uomini e ambienti, in un’alternanza di desideri e delusioni, di decisioni e di rinnegamenti; spinti continuamente a fuggire, a evitare ogni legame per timore di dovere “scegliere”.

Le pagine più compiute della sua narrativa, in genere scostante come scostante era lo stesso scrittore, sono appunto quelle in cui Drieu esprime questa atmosfera di crisi attraverso un ritmo linguistico che passa da un periodare secco e duro a una prosa densa e contorta. Ma parlare in Drieu di un’unità e costanza stilistica sarebbe, a parer nostro, inesatto: per lui infatti lo stile era un puro strumento che doveva adattarsi alla materia che trattava. Mentre, per fare un esemio, Fuoco fatuo e La commedia di Charleroi sono costruiti in un linguaggio scabro ed essenziale, Drôle de voyage e la prima parte di Gilles, che descrivono invece una corruzione di sentimenti e un clima di disfacimento, sono modulati su un ritmo più contorto, denso, colmo di echi e di riferimenti. Ma il caso più significativo è quello di Rêveuse bourgeoise,dove l’autore, dovendo rievocare in chiave fantastica la storia della sua famiglia e l’ambiente della media borghesia durante la belle époque, adotta consapevolmente il linguaggio del naturalista.

Pierre Drieu La RochelleLa modernità di Drieu sta, a parer nostro, nella struttura costante di tutta la sua opera che, al di là delle differenze stilistiche sottolineate, fonde nel tessuto narrativo materiali di diversa estrazione, descrizioni di vicende, meditazioni interiori, annotazioni storiche e di costume, costruendo un vero e proprio tipo di “romanzo-saggio”. Ma, a differenza di altri narratori, Drieu descrive senza definire: tutta la sua narrativa manca cioè di corposità veristica, i personaggi non hanno volto, sono centri nervosi, temperamenti – o forse anime – e i loro rapporti non sono quasi mai visti direttamente, ma attraverso lo schermo dei loro riflessi emotivi.

Faremmo però un torto al romanziere francese se lo riducessimo a un puro descrittore della decadenza. La consapevolezza della decadenza non era per lui un alibi, una giustificazione per accomodarsi nella poltrona di un nichilismo senza speranza. In lui era viva l’esigenza di una rivolta per modificare una situazione personale e sociale che giudicava negativa. L’aveva già sperimentata durante la prima guerra mondiale, che gli ispirò il suo racconto più compiuto, quella Commedia di Charleroi, in cui i temi della guerra moderna come simbolo della decadenza, il desiderio di rivolta, l’eroismo e la paura si mescolano in un impasto linguistico di derivazione surrealista, spezzato, rotto, in cui passato e presente, azione e meditazione formano vari piani narrativi intrecciati fra di loro in una struttura armonica.

Questo bisogno però di una rivolta, invece di esprimersi, come sarebbe stato proprio per uno scrittore, in una ricerca e in un approfondimento interiore, lo spinse verso l’azione pubblica, nell’evasione dell’impegno politico attivo che si concluse, come si sa, nella sua adesione al fascismo e nel tragico suicidio. Ma – ed è bene sottolinearlo per comprendere appinero la sua personalità – negli ultimi anni lo scrittore francese stava maturando una meditazione che lo allontanava sempre di più, da un punto di vista psicologico, dalla politica, dagli aspetti più contingenti della storia, e lo portava a cercare certezze non condizionate dagli avvenimenti. L’ultimo Drieu, che fra l’altro ha scritto quella stupenda confessione che è Racconto segreto, viveva ormai orientato verso una prospettiva metafisica, nella lettura di San Paolo, dei Vangeli e dei testi sacri orientali.

Pol Vandromme ci offre in questo saggio un ritratto prevalentemente psicologico di Drieu nella sua epoca, molto importante per capire i temi fondamentali delle sue opere, e nello stesso tempo sottolinea i motivi originali di questo autore che ha anticipato, pur nei limiti della sua formazione culturale, non solo una certa letteratura dell’incomunicabilità del dopoguerra, ma anche una corrente letteraria francese, quella che è passata alla storia degli anni cinquanta come la scuola degli ussari e degli enfants tristes.

Presentazione di: Pol Vandromme, Pierre Drieu La Rochelle, Borla, Torino 1965, pp. 7-10

Louis Ferdinand Céline sur Radio Courtoisie

 

Louis Ferdinand Céline sur Radio Courtoisie

dimanche, 09 janvier 2011

Drieu on the Failure of the Third Reich

Drieu on the Failure of the Third Reich

Michael O'MEARA

drieu.jpgThe powers threatening our people became hegemonic in May 1945, when the liberal-Communist coalition known as the “United Nations” imposed its dictatorship on defeated Germany.

This dictatorship—whose defining characteristic, East and West, is its techno-economic worship of the Jewish Moloch—was subsequently imposed on the rest of Europe and, in the form of globalization, now holds the whole world in its grip.

For white nationalists, the defeat of National Socialist Germany is both the pivotal event of the twentieth century and the origin of their own movement—to save the white race from the rising tide of color.

White nationalists resume, in effect, the struggle of the defeated Germans. But they do so not uncritically.

As an idea and a movement, National Socialism (like Fascism) was a product of the late nineteenth-century political convergence that brought together elements from the revolutionary anti-liberal wing of the labor movement and elements from the revolutionary anti-liberal wing of the nationalist right. Hitler’s NSDAP was the most imposing historical offshoot of this anti-liberal convergence, but one not always faithful to its origins—which bears on the fact that Hitler shares at least part of the responsibility for the most devastating defeat ever experienced by the white race.

It’s not enough, then, for the present generation of white nationalists to honor his heroic resistance to the anti-Aryan forces.

Of greater need, it seems to me, is to identify and come to terms with his failings, for these, more than his triumphs, now effect our survival as a people.

The following is an excerpt from a piece that Pierre Drieu La Rochelle wrote in the dark days after August 1944, after the so-called “Liberation” of Paris and before the suicide that “saved” him from De Gaulle’s hangman.

It was written in haste, on the run, and never completed, but is nevertheless an illuminating examination of Hitler’s shortcomings (even where incorrect).

The central point of Drieu’s piece (and it should be remembered that he, like many of France’s most talented thinkers and artists, collaborated with the Germans in the hope of creating a new European order) is that Germany alone was no match for the combined powers of the British Empire, the United States, and the Soviet Union.

Only a Europe recast on the basis of National Socialist principles, he believed, could triumph against this coalition and the Jews who inspired and guided it.

Hitler’s petty bourgeois nationalism, critiqued here by Drieu, prevented him from mobilizing the various national families of Europe in a common front, proving that his distillation of the anti-liberal project was inadequate to the great tasks facing the white man in this period.

* * *

From Drieu’s “Notes sur l’Allemagne”:

I was shocked by the extreme political incompetence of the Germans in 1939, 1940, and 1941, after the victories [which made them Europe’s master]. It was in this period that their political failings sealed the fate of their future military defeat.

These failings seem even greater than those committed under Napoleon [in the period 1799-1815, when the French had mastered Europe]. The Germans obviously drew none of the lessons from the Napoleonic adventure.

Was German incompetence the incompetence of fascism in general? This is the question.

The imbecilic maxim guiding Hitler was: “First, wage and win the war; then, reorganize Europe.” This maxim contradicted all the lessons of history, all the teachings of Europe’s greatest statesmen, particularly those of the Germans, like Frederick and Bismarck. It was Clausewitz who said war is only the extension of politics.

But even if one accepts Hitler’s maxim, the German dictator committed a number of military mistakes:

1. Why did he wait six months between the Polish campaign and the French campaign?

2. Why did he squander another ten months after the French campaign?

3. Why in late 1940 did he wage a futile aerial assault on England, instead of striking the British Empire at its most accessible point, Gibraltar?

After July 1940 [when no European power opposed him on the continent], he could have crossed Spain, destroyed the [English] naval base at Gibraltar, and closed off the Mediterranean.

The armistice with Pétain [which led to the establishment of the Vichy regime] was [another] German disaster. If the French had followed [Paul] Reynaud [the last Premier of the Third Republic who advocated continued resistance from France’s North African colonies], the Germans would have been forced to do what was [militarily] necessary to win the war.

For once master of Gibraltar, Hitler would have rendered [the English base at] Malta useless, avoided the Italian folly in the Balkans [which doomed Operation Barbarosa in Russia], and assured the possibility of an immediate and relatively uncostly campaign against [English occupied] Egypt. Instead of bombing London, he should, have seized Alexandria, Cairo, and Suez.

This would have settled the peace in the Balkans, avoiding the exhausting occupations of Greece and Yugoslavia, [it would have cut England off from her overseas empire, and guaranteed Europe’s Middle Eastern energy sources].

These military failings followed from Hitler’s total lack of imagination outside of Germany.

He was [essentially] a German politician; good for Germany, but only there.

Lacking political culture, education, and a larger tradition, having never traveled, being a xenophobe like many popular demagogues, he did not possess an understanding of what was necessary to make his strategy and diplomacy work outside Germany.

All his dreams, all his talents, were devoted to winning the war of 1914, as if conditions [in 1940] were still those of 1914. . . He thus underestimated Russian developments and totally ignored American power, which had already made itself felt in the Great War.

He did understand the importance of the tank and the airplane [whose military possibility came into their own after 1918], but not in relationship to the enormous industrial potential of Russia and America.

He neglected [the role of] artillery, which was a step back from 1916-1918.

He is least reproachable in his estimation of submarine warfare, whose significance was already evident in 1916. But even here, the Anglo-Saxons [i.e., the Anglo-Americans] deployed their maritime genius in a way difficult for a European continental to anticipate.

Hitler’s political errors [, however,] were far worse and more thorough-going than his military errors. He hardly comprehended the problem, seeing it in terms of 1914—in terms, that is, of diplomacy, national states, cabinet politics, and [rival] chancelleries. His understanding of Europe did not even measure up to that of old aristocrats like Bismarck and Wilhelm II, who never forgot the tradition of solidarity that united Europe’s dynasties, courts, and nobilities. . .

It’s curious that this man who knew how to inspire the masses in his own country, who always maintained the closest contact with his people, never, not for a second, thought of extending his [successful] German policies to the rest of Europe. He [simply] did not understand the necessity of forging a policy to address Europe domestically and not just internationally.

Diplomats and ambassadors had lost command of the stage after 1940—it was now in the hands of political leaders capable of winning the masses with the kind of social policies that had succeeded in Germany and could succeed elsewhere.

Hitler didn’t understand this. After his armies invaded Poland, France, and elsewhere, he never thought of implementing the social and political practices that had worked in Germany . . . He never thought of carrying out policies that would have forged bonds of solidarity between the occupied and the occupiers. . .

These failures lead me to suspect that the Germans’ political stupidity . . . owed something to fascism—that political and social system awkwardly situated between liberal democracy and Communist totalitarianism.

In the fascist system there was something of the “juste milieu” that could only lead to the miserable failure awaiting the Germans. [A French term meaning a “golden mean” or a “happy medium,” “juste milieu” is historically associated with the moderate centrist politics (or anti-politics) of bourgeois constitutionalists—first exemplified by France’s July Monarchy (1830-48) and subsequently perfected in the American party system].

The Germans have no political tradition. For centuries, most of them inhabited small principalities or cities where larger political forces had no part to play.

However, there was Vienna and Berlin. In these two capitals, politics was the province of a small [aristocratic] caste. The events of 1918 [i.e., the liberal revolutions that led to the Weimar and Viennese republics] abruptly dislodged this caste, severing its ties from the new governing class.

Everything that has transpired in the last few years suggests that Germany remains what it was in the eighteenth century . . . a land unable to anchor its warrior virtues in politically sound principles . . .

[Part of this seems due to the fact that] the German is no psychologist. He is too much a theoretician, too intellectually speculative, for that. He lacks psychology in the way a mathematician or metaphysician does. German literature is rarely psychological; it develops ideas, not characters. The sole German psychologist is Nietzsche [and] he was basically one of a kind. . . Politically, the Germans [like the French] are less subtle and plastic than the English or the Russians, who have the best psychological literature and hence the best diplomacy and politics.

Hitler’s behavior reflected the backward state of German, and beyond that, European attitudes.

This son of an Austrian custom official inherited all the prejudices of his father’s generation (as had Napoleon). And like every German nationalist of Austrian extraction, he had an unshakable respect for the German Army and the Prussian aristocracy. Despite everything that disposed him against it, he remained the loyal Reichwehr agent he was in Munich [in 1919]. . . If he subsequently became a member of a socialist party [Anton Drexler’s German Workers’ Party]—of which he promptly became the leader—it was above all because this party was a nationalist one. Nationalism was always more important to him than socialism—even if his early years should have inclined him to think otherwise . . .

Like Mussolini, Hitler had no heartfelt commitment to socialism. [Drieu refers here not to the Semitic socialism of Marx, with its materialism, collectivism, and internationalism, but rather to the older European corporate socialism, which privileges the needs of family, community, and nation over those of the economy] . . . That’s why he so readily sacrificed the [socialist] dynamism of his movement for the sake of what the Wehrmacht aristocracy and the barons of heavy industry were willing to concede. He thought these alone would suffice in furnishing him with what was needed for his war of European conquest. . .

Fascism failed to organize Europe because it was essentially a system of the “juste milieu” —a system seeking a middle way between communism and capitalism. . .

Fascism failed because it did not become explicitly socialist. The narrowness of its nationalist base prevented it from becoming a European socialism . . .

Action and reaction: On the one side, the weakness of Hitlerian and Mussolinian socialism prevented it from crossing national borders and becoming a European nationalism; on the other, the narrowness of Mussolinian and Hitlerian nationalism stifled its socialism, reducing it to a form of military statism. . .

Source: Pierre Drieu La Rochelle, Textes retrouvées (Paris: Eds. du Rocher, 1992).

lundi, 27 décembre 2010

In Memoriam - Dernière vision de Jean Parvulesco

In Memoriam
Dernière vision de Jean Parvulesco
 
par Nicolas Bonnal
 

J’ai pu le revoir peu avant sa disparition, avec ma femme Tatiana, que je voulais lui présenter. Je joins ici nos photos communes, les seules que nous n’ayons jamais faites ensemble d’ailleurs. Il nous a reçu dans son légendaire, bel et discret appartement du boulevard Suchet, situé au bout du monde parisien, tout près de cet énigmatique Ranelagh dont il parlait si bien. D’habitude je l’écoutais conspirer planétairement à la Rotonde, tout près de cette Muette où jadis chassaient nos rois. Il nous a offert une tarte aux figues, fruit symbolique s’il en fût, une bonne bouteille de vin blanc qui siège en bonne place dans nos mémoires maintenant. Nous avons aussi absorbé quelques citrons et même une bonne eau minérale gazeuse. Il faisait beau dans ce bout du monde parisien, et nous avons eu bien du mal à le quitter.

Il s’est montré très affable, sensible, amical, évoquant un ou deux amis évanouis, l’orthodoxie, l’avenir de l’Europe, qui dépend tellement de Poutine. Il m’a épargné tous les messages gnostiques et géopolitiques qui l’ont rendu célèbre dans le monde entier auprès d’une clique d’initiés nippons, chiliens ou italiens, et nous sommes restés assez silencieux. Je lui ai confirmé que dans la biographie remarquable d’Antoine de Baecque consacrée à Godard, il figure en bonne place, comme cinéphile roumain décalé et inspirateur du grand passage de Melville. Jean Parvulesco, prophète du nihilisme contemporain et de la fin de la guerre des sexes, remportée par les femmes, celles des Vuitton, du portable et des pensions élémentaires.

***

Malade depuis des années, avec une maladie qui frappe au choix les yeux ou les jambes - lui aura souffert des jambes comme le roi pêcheur dont il est comme l’émanation -, Jean Parvulesco garde son aura de chercheur et d’écrivain des énigmes. Jusqu’au bout il reste ce personnage de fiction génialement mis en scène par Godard, un homme à facettes et à placards secrets. Un homme de l’être, au sens heideggérien, un personnage de roman qui joue le rôle d’un écrivain métaphysicien et comploteur devant les ténèbres béantes du parisianisme agonisant. Ses derniers livres sont d’ailleurs remarquablement denses et bien écrits, et enfin convenablement présentés et corrigés par son éditeur, le montrent plus sensible que jamais à la conspiration des paysages notamment parisiens, à la psychogéographie initiatique parisienne.

Il a toujours espéré. Quelque chose. Mais après moi, il a compris qu’il n’y a pas de retour, que les ténèbres, les qlipoths ou écorces mortes de la kabbale - les enveloppes, les pods de la science-fiction cauchemardesques ou de la technologie de la communication - sont passées. Nous traversons le désert de la post-apocalypse, cela va prendre encore du temps, et bouffer notre espace. Paris désert gagné par la conspiration des atroces maîtres carrés ? Du reste son épouse devra quitter l’appartement qu’il devait à Eric Rohmer, son ami de toujours décédé peu avant. Il nous faudra veiller sur elle. Paris nié par ses prix, effacé par nos maîtres, privé de pauvres, privé d’artistes, privé de présences réelles. Et soumis cette fois à la domination sans partage du Capital et de son enfant le néant.

***

J’ai fini par l’aimer comme un très bon ami ou comme mon oncle chartreux, un peu aussi à la manière de Serge de Beketch. Au-delà des conspirations des noces polaires, des noces rouges, des états galactiques et de l’Ecosse subversive, il y a un être humain, un confident, un presque père. C’est comme cela aussi que l’on devient chrétien, n’est-ce pas ?

***

Nous avons descendu le splendide escalier de son immeuble art-déco, qui évoque notre dernière grande époque, ce premier tiers du vingtième siècle oublié maintenant. Nous sommes repartis dans la nuit d’octobre, avons mis un temps infini à quitter son quartier, ce seizième du bout du monde, si proche d’ailleurs de Radio Courtoisie, pays où l’on n’arrive jamais, d’où l’on ne repart pas plus. Peu de temps après j’ai commencé mon roman comique et ésotérique, le premier en dix ans, intitulé les Maîtres carrés, que l’on pourra lire en ligne sur le site de Serge de Beketch, la France-courtoise.info. Il y tient le rôle héroïque et décalé de l’initiateur et du conspirateur qu’il est resté depuis qu’il est trépassé, au sens littéral et donc initiatique du terme. Jean, nous pensons, donc nous vous suivons.