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mercredi, 03 décembre 2014

LA CENTRALITÀ DELLA BULGARIA NELLE STRATEGIE EURASIATICHE DELLA RUSSIA

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LA CENTRALITÀ DELLA BULGARIA NELLE STRATEGIE EURASIATICHE DELLA RUSSIA

Francesco Trupia

Ex: http://www.eurasia-rivista.org

La nuova fase politica in Bulgaria caratterizzata dall’elezione di Borisov alla guida di un governo di minoranza, potrebbe rappresentare una delle pagine più importanti per il Paese soprattutto in politica estera.
Nella “partita del gas” tra Russia ed Unione Europa, la Bulgaria rivelerebbe tutta la sua centralità geopolitica convincendo Putin ad iniziare nuove strategiche relazioni.
La cooperazione potrebbe seguire quella che nei Balcani hanno promosso Bulgaria, Ungheria e Austria in merito al ripristino dei lavori del South-Stream.
La conclusione del gasdotto aumenterebbe la leadership russa all’interno del settore energetico che, oltre al North-Stream nel Mar Baltico, permetterebbe alla Russia di aggirare il campo minato ucraino, uno dei governi più ostili come quello romeno, il Bosforo ed il Dardanelli.
Inoltre, il South-Stream ridurrebbe l’importanza dell’altro gasdotto bulgaro voluto dall’Unione Europea, il Nabucco, ufficializzando per quest’ultima una doppia sconfitta dopo le sanzioni contro Mosca.

La scarsa informazione dei media occidentali sugli avvenimenti politici legati alla Bulgaria non tolgono al Paese l’importante ruolo all’interno della regione dei Balcani e, soprattutto, all’interno del blocco eurasiatico.
La centralità della Bulgaria sembra essere riemersa, sia da un punto geopolitico che strategico, in una delle pagine più negative della sua storia nazionale.
Le elezioni di inizio ottobre, infatti, sembrano aprire una nuova fase di instabilità politica rappresentata dall’elezione di Bojko Borisov, leader del partito GERB, che governerà in un esecutivo di minoranza dopo l’uscita dalla coalizione del Partito Patriottico poco prima dell’investitura dei nuovi ministri.

Oltre ai problemi strutturali del Paese, il nuovo Governo bulgaro dovrà affrontare seriamente gli accordi e gli obiettivi presi nei mesi scorsi in politica estera.
Nonostante il neo Capo del Governo sia deciso a mantenere una chiara posizione euro-atlantica, tale orientamento, in linea con quelle del vecchio governo socialista di Plamen Orešarski, sembra poter subire un svolta verso nuove strategie capaci di ripercuotersi in campo europeo e non solo.

Una delle sfide principali della Bulgaria si giocherà sul campo della cooperazione con Mosca nel settore energetico.
Le tensioni tra Russia e Ucraina, con le conseguenti sanzioni europee contro il Cremlino, hanno avuto gravi ripercussioni nel tessuto sociale bulgaro.
La Bulgaria dipende per oltre l’85% del suo fabbisogno nazionale dal gas russo, che arriva tramite un gasdotto che attraversa anche Ucraina e Romania.
Quest’ultimo, secondo le dichiarazioni del Ministro dell’Energia, che ha convocato in questi giorni il Consiglio per le Crisi, ha smesso di erogare la fornitura prevista.
Le inadempienze russe, non causate da decisione del Cremlino, vengono attualmente sostituite da Sofia con gli approvvigionamenti del giacimento bulgaro di Chiren che, però, prevede il passaggio dalle centrali di riscaldamento da gas a olio combustibile.
Anche all’interno del settore agricolo, il Ministero degli Affari Esteri bulgaro ha da poco ufficializzato i dati inerenti la perdita di oltre dieci milioni di lev a causa dei blocchi commerciali contro Mosca.

Tale scenario sembra condurre il neo premier Bojko Borisov ad un cambio di strategie iniziato a delinearsi durante gli ultimi lavori diplomatici svolti con Ungheria prima ed Austria poi.
Durante questi appuntamenti, dove si è palesata la volontà politica del nuovo Governo di Sofia, il Presidente bulgaro Rosen Plevneliev ha definito di prioritaria importanza il ripristino e la celere conclusione dei lavori del gasdotto South-Stream.
Evitare drammi come quelli dell’inverno 2009, quando gran parte del Paese rimase senza rifornimenti energetici per quasi un mese, andrebbe di pari passo ad una sempre più stretta relazione tra i Paesi balcanici e la Russia.

 

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Le parole di Rosen Plevneliev hanno dato ragione all’Ambasciatore russo presso l’Unione Europea, Vladimir Chizhov, che aveva definito il blocco dei lavori del South-Stream lo scorso giugno una «decisione politica», da interpretare nel più ampio quadro delle sanzioni europee contro la politica di Vladimir Putin.

Proprio la costruzione del gasdotto, proveniente dalla Russia e che oltrepassa il Mar Nero, era stata bloccata dagli Stati Uniti d’America e dalla stessa Bruxelles, nonostante garantisca, insieme al suo gemello North-Stream sul Mar Baltico, certezze sugli approvvigionamenti energetici ai Paesi dell’Unione Europea.
Mentre il Congresso degli Stati Uniti aveva riferito all’ex premier Plamen Orešarski di disporre la sospensione dei lavori del South-Stream in chiara ottica anti-Russia, la Commissione Europea impugnava l’intera normativa comunitaria sulla libera concorrenza contro i lavori del gasdotto in Bulgaria, interrompendo il progetto per l’assenza di un terzo partner in grado di concorrere commercialmente con la russa Gazprom.

Rispetto allo scorso giugno, qualora la Bulgaria riuscisse a completare i lavori del South-Stream e a rispettare la legislazione europea, la Russia riuscirebbe ad aggirare – sebbene in parte – il campo minato creato dal Governo filoeuropeo di Kiev.
La Romania e la stessa Ucraina, Paesi di transito del gasdotto che ad oggi conduce l’energia verso la Bulgaria, rappresentano i due Paesi dei Balcani euroasiatici più ostili alla già forte leadership di Putin.
L’unità d’intenti fuoriuscita dagli incontri tra i Presidenti di Bulgaria, Ungheria e Austria, quest’ultima decisa addirittura a sostenere i costi della conclusione del South-Stream, condurrebbe ad un ulteriore diminuzione delle forniture proprio in Ucraina e in Romania e, conseguentemente, ad un isolamento dei due stessi Paesi.
In tal caso, appare assai difficile che Kiev e Bucarest possano ricevere aiuti energetici da un’Unione Europea che, a sua volta, dipende per circa 1/3 dalle forniture provenienti dalla Russia.

Inoltre, la Bulgaria potrebbe divenire uno dei centri logistici strategicamente più importanti per Mosca, non solo per i due gasdotti gemelli presenti nel Mar Baltico e nel Mar Nero.
Le nuove relazioni tra i due Paesi potrebbero condurre Bojko Borisov ad implementare il ruolo del Paese all’interno dei Balcani grazie al rispristino di due vecchi progetti di fondamentale importanza nella “partita del gas”: il Belen Nuclear Power Point, presente nella città di Pleven, e il gasdotto Burgas-Alexandropoli.
Se il primo progetto sembra essere ormai bloccato a causa dei numerosi rischi ambientali, il progetto del Dzhugba-Burgas-Alexandropoli condurrebbe Mosca a bypassare punti geopolitici importanti come quello del Bosforo e dei Dardanelli.
Dopo il blocco dei lavori avvenuto tra il 2009-2013 a causa dell’opposizione delle comunità locali, il gasdotto riuscirebbe grazie alla sua bipartizione a rifornire l’Italia meridionale dopo essere passato per la Grecia, attraverserebbe inoltre l’Italia del nord arrivando in Serbia, Ungheria, Slovenia ed infine in Austria.
Tale progetto era stato in realtà riconsiderato dall’ex premier Plamen Orešarski e attualmente potrebbe rientrare nell’agenda del Governo di Bojko Borisov; questo accoglimento consentirebbe al Paese di rispettare gli accordi contrattuali siglati dalla Gazprom e dalla Bulgarian Energy Holding.

I nuovi possibili progetti di cooperazione tra Mosca e Sofia nel settore energetico potrebbero ampliarsi anche su altri piani, come quello della sicurezza militare.
La Nato ha imposto nei mesi scorsi alla Bulgaria una modernizzazione del proprio esercito, distaccandosi dalla dipendenza russa ed acquistando nuovi radar 3D come previsto dal Piano 2020 avente l’obiettivo di garantire sicurezza militare ad ogni singolo Stato.
Tuttavia, Boyko Borisov aveva dichiarato prima della sua elezione di non voler rispettare lo stesso programma militare della Nato, in quanto la Bulgaria non dispone di fondi sufficienti.

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Le decisioni di Sofia potrebbero focalizzare nel Paese le “attenzioni” della Commissione Europea e della stessa Nato, che ha già dichiarato di voler avallare una procedura d’infrazione contro il Paese.

Il riavvicinamento tra Bulgaria e Russia, soprattutto se incentrato sui piani di sviluppo del settore energetico, rappresentano per le politiche dell’Unione Europea una doppia sconfitta.
La possibile conclusione dei lavori del South-Stream eliminerebbe di fatto qualsiasi funzione strategica del Nabucco, altro gasdotto che attraversa la Bulgaria e che collega la Turchia all’Austria.
Il progetto, fortemente voluto dall’Unione Europea proprio per sostituirsi alle dipendenze del gas russo, oggi sembra essere superato da Mosca nonostante le attuali sanzioni.


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Mark Breddan sur le face voilée du Rap

Mark Breddan

sur le face voilée du Rap

Avec un véritable travail d’immersion dans le monde musicale du Rap, il a publié "La face voilée du Rap". Avec lui, nous révélons les liaisons dangereuses entre ce style venu des Etats-Unis et l’Islam.

 

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Modern education and the destruction of culture

Professor Tomislav Sunić

Modern education and the destruction of culture

Talk given at the Traditional Britain Conference 2014 - The Basis of Culture?

Hosted by The Traditional Britain Group.

Find out more http://www.traditionalbritain.org

 

mardi, 02 décembre 2014

Fractures périphériques

 

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Fractures périphériques

par Georges FELTIN-TRACOL

 

La rentrée éditoriale 2014 assure à certains livres une belle renommée, de susciter des polémiques et de se vendre bien. Géographe de formation, auteur en 2010 de Fractures françaises qui annonçait la lente fragmentation de l’espace hexagonal, Christophe Guilluy offre son expertise socio-territoriale aux collectivités territoriales. Homme de terrain, il est à mille lieux de l’universitaire qu’il se refuse d’être et avec qui il a le bon sens de décliner tout débat. Cela n’a pas empêché un jury composé de Chantal Delsol, d’Éric Zémour, de l’académicien Jean Clair et des journalistes Bruno de Cessole, Jean Sévilla et François Taillandier, de lui décerner le Prix 2014 des Impertinents.

 

Plus court que son précédent ouvrage, La France périphérique en confirme et en approfondit les observations récoltées : la France est en train d’éclater parce que « la recomposition économique des grandes villes a entraîné une recomposition sociale de tous les territoires (p. 11) ». Les effets conjugués de la mondialisation et de la métropolisation des zones urbaines modifient à la fois la répartition territoriale et la société françaises. « Branko Milanovic, économiste de la Banque mondiale, montre qu’après vingt ans de globalisation, on assiste à un effondrement des classes moyennes des pays développés (p. 17). » Elles subissent de plein fouet une involution majeure. « En quelques décennies, l’économie des grandes villes s’est spécialisée vers les secteurs économiques les mieux intégrés à l’économie-monde et qui nécessitent le plus souvent l’emploi de personnel très qualifié (pp. 34 – 35) » si bien que « les nouvelles lignes de fracture se creusent d’abord entre des couches supérieures intégrées et des couches populaires (p. 75) ».

 

Postures et impostures hexagonales

 

En outre, « la mondialisation, fait économique et financier, est aussi une idéologie qui prône un “ individu-mobile ”, lequel ne se réfère plus ni à une classe sociale, ni à un territoire, ni à une histoire (p. 109) ». C’est donc fort logiquement que « dans le contexte de la mondialisation, la mobilité des hommes est perçue comme un fait global, une dynamique qui accompagne la logique libérale de circulation des capitaux et des marchandises (pp. 111 – 112) ». Or cette accessibilité au mouvement ne concerne qu’une minorité favorisée. La majorité se cantonne à une fixation contrainte sans comprendre que « la fin de la mobilité réactive mécaniquement les questions de la relocalisation et du réenracinement (p. 110) ». Un éloignement psychologique s’opère-t-il ? Difficile à dire. Certes, les études confirment qu’« après plusieurs décennies de recomposition des territoires, les catégories populaires vivent désormais sur les territoires les plus éloignés des zones d’emplois les plus actives et où le maillage en transports publics est le plus faible (p. 121) ». Les ménages populaires doivent par conséquent posséder deux véhicules et subir la hausse fiscale du prix des carburants, le flicage routier permanent et la perte de temps considérable dans les embouteillages, ce dont se moquent les bobos urbains à vélo, en rollers ou en trottinette. La faible mobilité des populations reléguées en périphérie s’accentue aussi en raison de l’impossibilité de vendre leurs biens immobiliers guère attractifs pour s’installer ensuite dans des zones urbaines prospères au loyer élevé. Christophe Guilluy remarque que « cette fracture territoriale dessine la confrontation à venir entre mobile et sédentaire. C’est cette France de la sédentarisation contrainte qui portera demain le modèle économique et politique alternatif (pp. 126 – 127) ».

 

Cette fragmentation réelle est occultée par des discours « républicains » illusoires. « La posture républicaine ne doit en effet pas tromper, la réalité est que nos classes dirigeantes sont pour l’essentiel acquises au modèle multiculturel et mondialisé (p. 9). » En outre,  circonstance aggravante, « le nez collé aux banlieues, les classes dirigeantes n’ont pas vu que les nouvelles radicalités sociales et politiques ne viendraient pas des métropoles mondialisées, vitrines rassurantes de la mondialisation heureuse, mais de la “ France périphérique ”. Des territoires ruraux aux petites villes et des villes moyennes jusqu’aux DOM-TOM, ces territoires ont en commun d’être à l’écart des zones d’emplois les plus actives, des sites qui comptent dans la mondialisation (p. 13) ». Pourquoi ? Parce que cette « France périphérique » représente au moins 70 % de la population française concentrée dans les espaces ruraux, les petites villes, les villes moyennes et les zones périurbaines. L’auteur ne prétend pas verser dans l’habituelle et désuète dichotomie monde urbain/monde rural. « Nous sommes tous devenus urbains, que nous regardons le même journal télévisé et que nous fréquentons les mêmes grandes surfaces. L’opposition entre ville et campagne, entre urbain, périurbain et rural, ne dit plus rien des nouvelles dynamiques sociales. Les nouvelles fractures françaises ne recouvrent en rien une opposition entre une “ civilisation urbaine ” et une “ civilisation rurale ou campagnarde ”, en réalité la “ société des modes de vie ” s’est affranchie depuis longtemps de ce découpage suranné (p. 23) ».

 

Pour l’auteur, la « France périphérique » forme un « espace multiforme qui comprend les agglomérations plus modestes, notamment quelques capitales régionales, et surtout le réseau des villes petites et moyennes. Il comprend aussi l’ensemble des espaces ruraux et les communes multipolarisées (dépendantes en termes d’emploi de plusieurs pôles urbains) et les secteurs socialement fragilisés des couronnes périurbaines des 25 premières agglomérations (p. 27) ». Cette France « invisible » commence cependant à se manifester. Pis, elle « gronde (p. 51) », d’où la révolte des Bonnets rouges en Bretagne, la consolidation du vote Front national et le renforcement de l’abstention.

 

Christophe Guilluy contourne la vulgate consensuelle. Une féroce réalité impose maintenant sous la République une et indivisible trois France à terme antagonistes :

 

— un archipel métropolitain mondialisé peuplé de « bobos » progressistes qui se complaisent dans le libéralisme économique, la société ouverte, le multiculturalisme et les comportements libertaires marchands,

 

— un Hexagone maillé de banlieues de l’immigration nichées au cœur de la mondialisation libérale, mais dont les populations arrivantes gardent et célèbrent leurs valeurs traditionnelles,

 

— une France périphérique, populaire et déclassée constituée par des Français d’origine européenne relégués en zones rurales ou périurbaines en plein marasme économique.

 

Le futur cauchemar des métropoles

 

En examinant avec minutie les suffrages du FN depuis 2012, l’auteur démontre la polymorphie de ce vote qui ne recoupe pas ces trois Hexagones potentiellement conflictuels. Le « “ FN du Nord ” [s’inscrit dans] le contexte de la précarisation sociale (p. 63) » perceptible à Hénin-Beaumont, à Hayange et à Villiers-Cotterêts. Le « “ FN du Sud ” [bénéficie des] tensions identitaires (p. 64) », entre autochtones et immigrés, d’où les élections des députés Marion Maréchal – Le Pen dans le Vaucluse et Gilbert Collard dans le Gard, et des nouveaux sénateurs Stéphane Ravier dans les Bouches-du-Rhône, et David Rachline dans le Var. Quant au très jeune « “ FN de l’Ouest ” [il indique que] la “ France tranquille ” […] bascule (p. 66) ». Cet essor est à corréler avec de nouvelles dynamiques rurales, à savoir l’installation, plus ou moins lointaine, des ensembles urbains de ménages européens qui fuient une « volonté de créer une société multiculturelle dans laquelle “ l’homme nouveau ” ne reconnaîtrait aucune origine (p. 78) ». Il apparaît que, « plus encore que les banlieues, la France périphérique est le cauchemar des classes dirigeantes (p. 14) ».

 

En effet, « si les difficultés des banlieues sont réelles, elles sont d’abord liées à l’émergence d’une société multiculturelle et à la gestion des flux migratoires, mais en aucun cas aux retombées d’une économie mondialisée. Mieux, les banlieues sont des parties prenantes de cette économie. Pour l’essentiel situées au cœur des métropoles, elles sont parfaitement adaptées à la nouvelle donne économique et sociétale. Pourtant, depuis vingt ans, médias et politiques confondent la question des tensions culturelles et celles de l’intégration économique et    sociale (pp. 13 – 14) ». Il en résulte « des banlieues intégrées et qui produisent des classes moyennes (p. 43) » d’origine immigrée : la « beurgeoisie » ainsi que d’autres heureux bénéficiaires, les commerçants asiatiques. « Miroir des dynamiques économiques et sociales, les métropoles viennent d’ailleurs conforter ce diagnostic. Vitrines de la mondialisation heureuse, ces dernières illustrent à merveille la société ouverte, déterritorialisée, où la mobilité des hommes et des marchandises est source de créations d’emplois, de richesses et de progrès social. Ces territoires produisent désormais l’essentiel des richesses françaises en générant près des deux tiers du PIB mondial. Le modèle “ libéral-mondialisé ” y est à son apogée (p. 8). » Il en découle par conséquent que « la gestion économique et sociale de la “ ville-monde ” passent inéluctablement par une adaptation aux normes économiques et sociales mondialisées, c’est sur ces territoires que l’on assiste à une mutation, voire à un effacement du modèle républicain. Politique de la ville, promotion d’un modèle communautariste, la gestion sociale de la ville-monde passe par une adaptation aux normes anglo-saxonnes. Globalement, et si on met de côté la question des émeutes urbaines, le modèle métropolitain est très efficace, il permet d’adopter en profondeur la société française aux normes du modèle économique et sociétal anglo-saxon et, par là même, d’opérer en douceur la refonte de l’État-providence (pp. 8 – 9) ». Dans ce contexte entièrement mouvant, hautement fluide, guère perçu par les banales certitudes médiatiques, « l’immigration apparaît non pas comme une solution économique pour les plus modestes mais d’abord comme une stratégie économique des catégories moyennes et supérieures qui ne se positionnent plus exclusivement sur un marché de l’emploi local mais international (p. 115) ». Serait-ce les signes avant-coureurs d’une guerre civile à venir ? À rebours de la doxa multiculturaliste (en fait monoculturelle de marché et multiraciste polémogène), Christophe Guilluy explique la fuite des classes populaires hors des métropoles par un refus tangible du conflit ethno-racial.

 

Ces stratégies d’évitement se retrouvent dans les métropoles parce que les catégories sociales et/ou privilégiées « sont aussi celles qui ont les moyens de la frontière avec l’autre, celles qui peuvent réaliser des choix résidentiels et scolaires qui leur permettent d’échapper au “ vivre véritablement ensemble ” (p. 138) ». Les populations périphériques ne cachent néanmoins pas leur rancœur envers l’État-providence dont les ultimes forces bénéficient en priorité aux primo-arrivants (les immigrés). Toutefois, elles pensent que « vivre ensemble séparé est aujourd’hui le prix à payer dans une société multiculturelle d’où la question sociale a été évacuée (p. 161) ». En revanche, « les représentations de la société française et du monde sont désormais irréconciliables, le consensus n’est plus envisageable (pp. 76 – 77) », d’autant « les catégories populaires, quelle que soit leur origine, savent que le rapport à l’autre est ambivalent : fraternel mais aussi conflictuel (p. 77) ».

 

Vers une géographie politique recomposée

 

Tout autant que géographiques, territoriales et sociologiques, les conséquences de cette séparation « à froid », silencieuse, indolore sont aussi électorales. « Le monde politique est aujourd’hui un champ de ruines (p. 71) ». Fort de ses analyses, Christophe Guilluy estime qu’« un parti = une sociologie + une géographie (p. 78) » au moment où « le champ politique n’est plus le lien du débat et de la confrontation des idées et des projets, mais une caisse de résonance de la rupture entre catégories populaires et, non seulement les élites, mais les catégories supérieures (p. 74) ».

 

Perdurent, hélas !, des légendes propagées par la caste journalistique. « Parce qu’ils [UMP et PS] sont les représentants historiques de la classe moyenne (actifs et/ou retraités issus de), les partis de gouvernement ont intérêt à faire vivre le mythe d’une classe moyenne majoritaire (p. 18) » alors qu’« en milieu populaire, la référence gauche – droite n’est plus opérante depuis au moins deux décennies (p. 72) ». Il est exact qu’« ouvriers, employés, femmes et hommes le plus souvent jeunes et actifs partagent désormais le même refus de la mondialisation et de la société multiculturelle (p. 87) ». Va-t-on cependant vers une révolution ? Il n’y croît pas. Mais, sur le terrain, « à bas bruit, une contre-société est en train de naître. Une contre-société qui contredit un modèle mondialisé “ hors sol ”; un meilleur des mondes, sans classes sociales, sans frontières, sans identité et sans conflits (pp. 130 – 131) ». « C’est sur ces territoires, par le bas, que la contre-société se structure en rompant peu à peu avec les représentations politiques et culturelles de la France d’hier (p. 11). » Comme quoi, le projet des B.A.D. (bases autonomes durables) dispose là d’un développement porteur considérable s’il est bien conduit, d’abord hors de toute publicité…

 

Cette lente et patiente rupture se répercute sur le plan électoral avec un « FN [qui bénéficie de] la dynamique des nouvelles classes populaires (p. 86) » à l’heure où il devient « inter-classiste » ou « post-classiste ». L’appréciation est à nuancer. Certes, « ce n’est pas le Front national qui est allé chercher les ouvriers, ce sont ces derniers qui ont utilisé le parti frontiste pour contester la mondialisation et s’inquiéter de l’intensification des flux migratoires (p. 79) ». L’auteur validerait-il la thèse du gaucho-lepénisme avancé dès 1995 par le politologue Pascal Perrineau ? Pas tout à fait, même s’il reconnaît « une “ sociologie de gauche ” qui contraint les dirigeants frontistes à abandonner un discours libéral pour défendre l’État-providence (p. 80) », car « les catégories populaires ne croient plus à la bipolarisation et n’adhèrent plus au projet d’une classe politique décrédibilisée par plusieurs décennies d’impuissance (p. 89) ».

 

On peut craindre que, dans ces conditions nouvelles, l’actuel programme social du néo-frontisme « mariniste » ne soit qu’un emballage populiste qui, à l’instar de nombreux précédents sud-américains, sera, une fois au pouvoir, renié pour mieux se conformer au Diktat de l’hyper-classe mondialiste et/ou jouir du faste des palais gouvernementaux tout en orchestrant une intense campagne sécuritaire de répression.

 

Christophe Guilluy prévoit-il le triomphe prochain du FN ? Nullement parce que « le vieillissement de la population demeure le rempart le plus efficace contre la montée du “ populisme ” (p. 91) ». En effet, « paradoxalement, c’est le vieillissement du corps électoral qui permet de maintenir artificiellement un système politique peu représentatif, les plus de 60 ans étant en effet ceux qui portent massivement leurs suffrages vers les partis de gouvernement (p. 72) ». La gérontocratie, stade suprême de la République hexagonale ? Eh oui ! « le socle électoral de la gauche est ainsi constitué d’une part de gagnants de la mondialisation (classes urbaines métropolitaines) et d’autre part de ceux qui en sont protégés (salariés de la fonction publique et une partie des retraités). De la même manière, l’UMP capte aussi une partie des gagnants de la mondialisation (catégories supérieures et aisées) et ceux qui en sont plus ou moins protégés (les retraités) (p. 80). » L’hétérogénéité des électorats du PS et de l’UMP prépare néanmoins des avenirs différents. Si « l’UMP [dispose d’]une dynamique démographique favorable (p. 84) », le PS peut disparaître, car c’« est le parti de la classe moyenne (p. 85) ». Par ailleurs, le PS se montre incapable de trancher entre des desseins contradictoires. « Le gauchisme culturel de la gauche bobos se heurte […] à l’attachement, d’ailleurs commun à l’ensemble des catégories populaires (d’origine française ou étrangère), des musulmans aux valeurs traditionnelles. Autrement dit, le projet sociétal de la gauche d’en haut s’oppose en tous points à celui de cet électorat de la gauche d’en bas (pp. 105 – 106). »

 

PS et UMP incarnent désormais deux pôles gémellaires autour desquelles s’agencent des majorités électorales momentanées. Il en ressort que « les stratégies électorales de Terra Nova pour le PS et de Patrick Buisson pour l’UMP apparaissent les plus pertinentes pour des partis désormais structurellement minoritaires dans un système tripartiste (p. 95) ». Les institutions de la Ve République s’adapteront-elles à cette nouvelle donne ?

 

Christophe Guilluy critique la réforme territoriale Hollande – Valls et s’élève contre la disparition programmée du département. Il conçoit plutôt cette collectivité comme le cadre adéquat d’« une France périphérique sédentaire et populaire (p. 121) ». On se surprend de lire en conclusion quelques allusions à une version atténuée de décroissance qui est en fait du localisme édulcoré. En tout cas, il est patent que « la question d’un modèle de développement économique alternatif sur ces territoires est désormais posée (p. 164) ». Cette contre-société en gestation partiellement dissidente et séparatiste évitera-t-elle tout antagonisme ? « Le risque est réel de voir les radicalités sociales et politiques se multiplier et le conflit monter vers une forme de “ guerre à basse tension ” (p. 179). » Et si la révolution de demain se lovait dès maintenant en périphérie des métropoles ?

 

Georges Feltin-Tracol

 

• Christophe Guilluy, La France périphérique. Comment on a sacrifié les classes populaires, Flammarion, Paris, 2014, 187 p., 18 €.

 


 

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Marcel Aymé, un libre-moraliste...

Marcel Aymé, un libre-moraliste...

Les éditions Pardès viennent de publier dans leur collection Qui suis-je un Aymé de Michel Lécureur. Universitaire et spécialiste de Marcel Aymé, il a dirigé l'édition de son œuvre romanesque dans la bibliothèque de La Pléiade. Une bonne occasion pour découvrir ou redécouvrir l'auteur de Travelingue et du Chemin des écoliers...

 

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" Marcel Aymé (1902-1967): « On vient nous parler de la poésie de la nature. Quelle blague ! Il n'y a que la poésie de l'homme et il est lui-même toute la poésie. » (Uranus.) « L'écrivain devrait être non plus le témoin, mais la conscience de son temps. » (Réponse à une enquête des Nouvelles littéraires, le 3 octobre 1957.) Dès le prix Renaudot de 1929, obtenu pour La Table-aux-Crevés, Marcel Aymé a connu la célébrité. Dès lors, il s'est affirmé comme romancier avec des réussites aussi éclatantes que La Jument verte (1933), Le Moulin de la Sourdine (1936) ou La Vouivre (1943). Sa trilogie composée de Travelingue (1941), Le Chemin des écoliers (1946) et Uranus (1948) est fréquemment citée par les historiens pour évoquer l'histoire de la France avant, pendant et après la Seconde Guerre mondiale.

Parallèlement à cette production romanesque, Marcel Aymé a publié plusieurs recueils de nou­velles, comme Le Nain (1934), Derrière chez Martin (1938) ou Le Passe-Muraille (1943). Dans le domaine des histoires brèves, il a connu un succès exceptionnel avec Les Contes du chat perché. Ce « Qui suis-je ? » Marcel Aymé montre qu'il s'est également révélé comme un journaliste de talent dont on a sollicité les articles les plus divers dans différents journaux et revues. Cependant, son désir le plus cher était probablement de devenir auteur drama­tique et il a atteint cet objectif avec des pièces comme Lucienne et le boucher (1948), Clérambard (1950) et La Tête des autres (1952).

Observateur lucide de la nature humaine, il a confié ses réflexions dans toute son œuvre et, en parti­culier, dans Le Confort intellectuel (1949). Son goût peu commun pour la liberté de penser et de s'exprimer lui attire encore l'opprobre de certains qui le connais­sent mal, car son humanisme et son humour restent à découvrir. "

ATLANTIC JIHAD : The Untold Story of White Slavery

 

ATLANTIC JIHAD : The Untold Story of White Slavery

Whilst the Arabs have been acknowledged as a prime force in the early usage of slaves from Africa, very little has been written about their usage of White slaves, whether they were part of the Russian slave trade or those kidnapped by Arab pirates. However, in recent years, the research of some authors has been bringing this issue to light.


The origins of African slavery in the New World cannot be understood without some knowledge of the millennium of warfare between Christians and Muslims that took place in the Mediterranean and Atlantic and the piracy and kidnapping that went along with it. In 1627 pirates from the Barbary Coast of North Africa raided distant Iceland and enslaved nearly four hundred astonished residents. In 1617 Muslim pirates, having long enslaved Christians along the coasts of Spain, France, Italy, and even Ireland, captured 1,200 men and women in Portuguese Madeira. Down to the 1640s, there were many more English slaves in Muslim North Africa than African slaves under English control in the Caribbean. Indeed, a 1624 parliamentary proclamation estimated that the Barbary states held at least 1,500 English slaves, mostly sailors captured in the Mediterranean or Atlantic. Millions European Christians were kidnapped and enslaved by Muslims in North Africa between 1530 and 1780 -- a far greater number than had ever been estimated before. Professor Robert Davis, in his book Christian Slaves, Muslim Masters: White Slavery in the Mediterranean, the Barbary Coast, and Italy, 1500-1800, estimated that 1 million to 1.25 million White people were enslaved by North African pirates between 1530 and 1780.


One of the things that both the public and many scholars have tended to take as given is that slavery was always racial in nature -- that only blacks have been slaves. But that is not true, We cannot think of slavery as something that only white people did to black people. Slavery in North Africa has been ignored and minimized, in large part because it is on no one's agenda to discuss what happened. The enslavement of Europeans doesn't fit the general theme of European world conquest and colonialism that is central to scholarship on the early modern era, he said. Many of the countries that were victims of slavery, such as France and Spain, would later conquer and colonize the areas of North Africa where their citizens were once held as slaves. Maybe because of this history, Western scholars have thought of the Europeans primarily as "evil colonialists" and not as the victims they sometimes were. Between 1580 and 1680. That meant about 8,500 new slaves had to be captured each year. Overall, this suggests nearly a million slaves would have been taken captive during this period. Using the same methodology, Davis has estimated as many as 475,000 additional slaves were taken in the previous and following centuries.


The result is that between 1530 and 1780 there were almost certainly 1 million and quite possibly as many as 1.25 million white, European Christians enslaved by the Muslims of the Barbary Coast. Enslavement was a very real possibility for anyone who traveled in the Mediterranean, or who lived along the shores in places like Italy, France, Spain and Portugal, and even as far north as England and Iceland.from 1500 to 1650, when trans-Atlantic slaving was still in its infancy, more white Christian slaves were probably taken to Barbary than black African slaves to the Americas,
Pirates (called corsairs) from cities along the Barbary Coast in north Africa -- cities such as Tunis and Algiers -- would raid ships in the Mediterranean and Atlantic, as well as seaside villages to capture men, women and children.


The impact of these attacks were devastating -- France, England, and Spain each lost thousands of ships, and long stretches of the Spanish and Italian coasts were almost completely abandoned by their inhabitants. At its peak, the destruction and depopulation of some areas probably exceeded what European slavers would later inflict on the African interior.


We have lost the sense of how large enslavement could loom for those who lived around the Mediterranean and the threat they were under," he said. "Slaves were still slaves, whether they are black or white, and whether they suffered in America or North Africa.

Cuando la mayoría de los esclavos en América del Norte y el Caribe eran blancos y católicos

Una realidad casi olvidada en cine, literatura e historia

Cuando la mayoría de los esclavos en América del Norte y el Caribe eran blancos y católicos

por José Ángel Antonio

Ex: http://culturatransversal.wordpress.com

¿Cuántas películas ha visto sobre esclavos negros maltratados por sus amos blancos? La horrible institución de la esclavitud que oprimió durante varios siglos a los africanos y afroamericanos en el Nuevo Mundo ha sido denunciada, con justicia y frecuencia, por el cine y la televisión.

Pero, ¿cuántas películas ha visto usted sobre esclavos blancos en el s.XVII? Una excepción sería la película de piratas Capitán Blood, de 1935, inspirada en las novelas de Sabatini, protagonizada por Errol Flynn y Olivia de Haviland (por primera vez juntos). Allí los llaman “indentured servants”, pero eran, a todos los efectos, esclavos.

Casi nadie sabe que en el siglo XVII la inmensa mayoría de los esclavos en el Caribe y las posesiones británicas en Norteamérica eran blancos y católicos.

Más aún, los esclavos blancos eran abundantes, baratos y desechables, y tendían a morir con facilidad.

Los esclavos negros, en cambio, se consideraban resistentes, fuertes, escasos y caros, y se les alimentaba y trataba mejor.

Durante el s.XVII, los ingleses deportaron cientos de miles de irlandeses y, en menor medida, escoceses, a sus plantaciones en el Caribe y Norteamérica.

Los ingleses, conocidos por su meticulosidad en la documentación, no llevaban apenas cuenta de lo que hacían en Irlanda. Faltan muchos datos, pero los historiadores irlandeses, estadounidenses, caribeños y escoceses han ido recomponiendo las piezas del puzle.

Kinsale: empieza un siglo negro para Irlanda

white-cargo-cover.jpgEn 1541 Enrique VIII, el mismo que repudió a Catalina de Aragón y creó la Iglesia Anglicana con él al frente, se proclamó como rey de Irlanda. Durante medio siglo los ingleses fueron conquistando el país, con una última gran batalla en Kinsale en 1602, en la que participaron unos 3.500 soldados españoles. Los ingleses vencieron, y en ese momento expulsaron del país a los resistentes irlandeses (muchos fueron a España o a sus territorios europeos). A esos expatriados irlandeses se les llamó “Gansos Salvajes” y los hubo durante todo el siglo y parte del siguiente.

Pero poco después, el rey inglés Jacobo II estableció una nueva política: en vez de expulsar a los descontentos, favoreció venderlos como esclavos. El primer caso documentado se dio en una colonia en la Guayana, en el Amazonas, en 1612: la primera venta de esclavos irlandeses.

Una proclamación del rey inglés estableció en 1625 que los prisioneros políticos irlandeses se venderían como mano de obra forzada a las plantaciones de las Islas Orientales.

En 1632 se sabe que la inmensa mayoría de los esclavos de las islas caribeñas inglesas de Montserrat y Antigua eran irlandeses. Un censo de 1637 muestra que 7 de cada 10 habitantes de Montserrat eran esclavos irlandeses.

A estas alturas, la demanda era alta, y los esclavos morían pronto. No bastaban los presos políticos (rebeldes al dominio inglés): cualquier crimen común (pequeños robos, etc…) era excusa para deportar irlandeses a las plantaciones.

También había bandas de secuestradores que recorrían el campo, atrapaban a cualquiera y lo vendían a los traficantes sin que nadie preguntara mucho.

Los esclavos negros en el Caribe británico había que comprarlos. Los esclavos irlandeses, en cambio, llegaban casi regalados por el Estado a las plantaciones.

Cromwell, puritano y feroz anticatólico

En 1641 estalló otra revuelta irlandesa, la Guerra de la Confederación, que fue sofocada en 1649 por el nuevo líder inglés, el puritano y autoritario Cromwell, ferozmente anticatólico (por ejemplo, intentó eliminar la Navidad del calendario y la celebración popular en las islas británicas; incluso prohibió los pasteles de Navidad).

De 1641 a 1652, durante esta revuelta y en sus años inmediatos, la población de Irlanda descendió de 1.466.000 habitantes a apenas 616.000.

Aproximadamente 550.000 irlandeses fueron eliminados físicamente o por hambre provocada. Otros 300.000 fueron deportados como esclavos. La deportación de varones dejaba a mujeres y niños inermes… y ellos también podían ser comprados y deportados en posteriores oleadas.

 

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De 1650 a 1660 se desarrolló el llamado “Reinado del Terror” de Cromwell, que activamente quería eliminar la población irlandesa y católica de la isla. En 1650, llegaron a las plantaciones caribeñas de Saint Kitt 25.000 esclavos irlandeses.

Se calcula que en esta década la Corona y sus administradores secuestraron a cien mil niños irlandeses de entre 10 y 14 años y los llevó a las plantaciones del nuevo mundo: el Caribe, Virginia y Nueva Inglaterra.

Sólo en esta década llegaron más esclavos irlandeses al Nuevo Mundo que el total de población libre anglosajona radicada allí.

En 1651, Cromwell ganó dos guerras contra Holanda para asegurarse que podía tener el monopolio del tráfico de esclavos y en 1655 conquistaba Jamaica a los españoles para convertirla en su gran base esclavista en el Caribe. Pero no desatendió el resto de las plantaciones. En 1652 envió otros 12.000 esclavos irlandeses a las Barbados.

Hay que tener en cuenta que Cromwell financiaba sus guerras en Irlanda, simplemente, prometiendo tierras a los señores ingleses que allí acudieran a luchar. En esas tierras sobraba población campesina: los señores preferían dedicarlas a pastos. Una norma de 1657 establecía que todos los habitantes del condado de Clare debían trasladarse en seis meses o ser detenidos por “alta traición” y enviados a las Américas.

En esta época no era un crimen que cualquier inglés matase un irlandés… pero preferían atraparlos vivos y venderlos.

Cuando se equivocaban de esclavos

A veces, las bandas de secuestradores se excedían y se equivocaban de víctimas. En 1659 llegó a Londres una petición de 72 esclavos en las Barbados que aseguraban ser ingleses ilegalmente secuestrados y atrapados allí. La misma petición aseguraba que en las plantaciones americanas había 7.000 u 8.000 escoceses tomados prisioneros en la batalla de Worcester de 1651 e incluso 200 franceses, secuestrados y vendidos, cada uno a cambio de 900 libras de algodón.

Hay más cifras registradas de los últimos días de Cromwell: 52.000 mujeres, chicas y jóvenes irlandeses se vendieron en las Barbados y Virginia en 1657. Mil chicos y mil chicas más de Irlanda se vendieron en Jamaica en 1656.

Cromwell murió en 1660, pero su sucesor Carlos II, hijo del decapitado Carlos I, no dudó en mantener el negocio de la trata, con el compromiso de entregar al menos 3.000 esclavos anuales a la “Real Compañía de Aventureros” (en realidad, una compañía de venta de esclavos).

De “indentured servants” a esclavos

En su origen, el concepto de “indentured servants” tenía una definición bastante bien delimitada y quizá a ella se acogían muchos irlandeses antes de 1620. En esa primera fase, el individuo aceptaba voluntariamente ir a América y pagaba el pasaje, manutención y un pedazo de tierra en las colonias trabajando en el lugar de destino una serie de horas diarias durante unos años. Este acuerdo podía figurar por escrito.

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Sin embargo, desde 1625 los irlandeses fueron simplemente secuestrados, vendidos y puestos a trabajar como esclavos: era un nuevo y lucrativo negocio masivo. Aunque la propaganda inglesa siguió llamando a estos esclavos “indentured servants”, desde 1625 se trataba ya siempre de mera trata de seres humanos y esclavitud forzada.

Durante este siglo un esclavo irlandés costaba el equivalente a 5 libras esterlinas, mientras que uno negro costaba entre 4 y 10 veces más. Los dueños de las plantaciones no tenían apenas interés en mantener vivos a los esclavos irlandeses. El coronel William Brayne pedía en 1656 que llegasen a las plantaciones más esclavos negros porque “puesto que los dueños tendrán que pagar más por ellos, tendrán más interés en mantenerlos con vida, algo de lo que carecen en [el caso de los esclavos irlandeses]”.

Los negros duraban más en el clima caribeño y además eran paganos, algo que los dueños ingleses preferían a los irlandeses, que era odiados papistas.

Además, en teoría un negro servía toda la vida, mientras que un irlandés debía ser liberado en 7 o 10 años… pero esto no sucedía con frecuencia, ya que la mayoría moría antes.

Sin derecho a asistencia religiosa

Book-WhiteSlavery.jpgA efectos religiosos, los irlandeses católicos no eran considerados cristianos y no tenían derecho a asistencia religiosa (tampoco la tenían los católicos libres en Inglaterra).

Muchos no sabían la lengua inglesa, y hablaban sólo gaélico. Pero otros estaban alfabetizados, sabían escribir y llevar cuentas. Con todo, cualquier dueño podía matar a cualquiera de sus esclavos, negros o irlandeses, sin excusa ninguna: no era un crimen, sólo un gasto de propiedad.

Cuando el Parlamento estableció el Acta de Regulación de Esclavos en las Plantaciones en 1667 enumeró los castigos que se podían infligir a los esclavos que hubiesen cometido un delito contra “cristianos”… se especificaba que los católicos no se consideraban cristianos, ni siquiera si habían logrado sobrevivir y ser libres de alguna manera.

“Aparear” irlandesas con negros, cosechar mulatitos

Los dueños de las plantaciones no solían tener relaciones sexuales con las esclavas negras, cosa que aterrorizaba su mentalidad racista, pero sí forzaban a las esclavas irlandesas. La ley establecía que los bebés hijos de esclava eran esclavos y pertenecían al amo.

Los amos podían hacer que las esclavas se cruzasen con otros esclavos blancos o con negros, buscando esclavos mulatos más resistentes y que se podían revender a buen precio.

A veces las irlandesas sobrevivían a todos los abusos y lograban ser libres… pero no sus hijos. Esas madres liberadas decidían quedarse en la plantación con sus niños que seguían siendo esclavos, y ellas seguían un tipo de vida de práctica esclavitud.

En 1681 se aprobó una ley que prohibía la práctica de aparear mujeres esclavas irlandesas con esclavos africanos “para vender” los hijos: era una ley implantada por la Real Compañía Africana porque interfería con sus beneficios.

Pero seguía siendo legal aparearlas para la “producción propia” de la plantación. De esta época se sabe que la Real Compañía Africana envió 249 cargamentos de esclavos irlandeses y negros a las Indias entre 1680 y 1688: eran 60.000 “unidades”, 14.000 murieron durante el viaje.

La mortandad de los irlandeses

¿Cuál era el nivel de mortandad de los esclavos irlandeses?

No es fácil establecerlo, pero los historiadores no conocen ni un solo caso de irlandés deportado a América como esclavo que consiguiera volver a su país para contarlo. Los irlandeses que lograban la libertad por lo general dejaban esa colonia y marchaban a otra en la América continental o en otra isla.

Se sabe que entre 1641 y 1649 se compraron en las Barbados 21.700 esclavos irlandeses. Sin embargo, parece que nunca hubo más de 8.000 o 10.000 en las islas. Morían rápido y necesitaban ser sustituidos.

A veces los barcos esclavistas tiraban sus esclavos por la borda porque si morían “por accidentes en el mar” se cobraba un seguro, pero si morían de hambre en las bodegas no se cobraba nada (se conoce el caso del navío Zong, que arrojó 132 esclavos vivos por la borda).

Montserrat, la isla más irlandesa

La isla de Montserrat (así la llamó Colón en 1493, recordando su paso por Barcelona) fue quizá en la que sobrevivieron más irlandeses, y de hecho llegaron de Saint Kitts y otras islas en 1643 porque había fama de que en esta isla había más libertad para los católicos (aunque no había clero ni culto).

En 1724 seguía sin haber clero católico en la isla, pero el pastor anglicano, James Cruickshank se quejaba de que en su zona, Saint Peters, en el norte de la isla, había 20 familias protestantes frente a las 40 católicas (que no iban a su parroquia). En el sur de la isla, la población católica era aún mucho mayor.

Hoy la isla (de hecho media isla, la mitad sur está destruida por el volcán local desde hace pocos años) tiene 2 parroquias católicas. La población es negra, aunque quizá de piel algo más clara que en otras islas, y muchos tienen apellidos irlandeses, aunque eso no significa necesariamente ascendencia de esa nación.

Una católica ahorcada por no saber inglés

Un personaje que puede poner rostro a esa época es Ann Glover. Fue deportada con otras decenas de miles de irlandeses como esclava a Barbados durante la invasión de Cromwell en Irlanda. Hay fuentes que dicen que su marido fue asesinado en Barbados porque se negaba a renunciar a su fe católica.

En 1680 era ya una mujer mayor que vivía con su hija en Boston, Massachusetts, trabajando como criadas en la casa de un hombre llamado John Goodwin. En verano de 1688 se pusieron enfermos 4 o 5 de los niños de la casa. El médico sugirió que la causa podía ser brujería. Una niña de 13 años aseguró que se puso enferma después de descubrir que la hija de la vieja Ann Glover robaba ropa de la casa.

Ann fue arrestada y juzgada por brujería. Ella apenas sabía hablar inglés y durante el juicio se aferraba a su gaélico nativo. Un testigo la consideró “una vieja irlandesa escandalosa, muy pobre, católica romana obstinada en idolatría”.

El tribunal pidió a la anciana que recitase el Padrenuestro. Ella lo recitó mezclando gaélico y latín, como lo había aprendido de niña. ¡Nunca más había tenido acceso a ninguna formación católica viviendo en colonias protestantes como esclava! No pudo recitarlo en inglés, y se consideró una prueba de brujería.

Fue condenada a muerte y se le dio la oportunidad de renunciar al catolicismo, pero se negó. Fue ahorcada entre los gritos y burlas de la multitud en Boston, que se había reunido para ver “si la papista se arrepentía”, como escribió un contemporáneo. Es famosa por ser la última “bruja” ajusticiada en Boston.

Fuente: Religión Digital

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Authoritarianism, "Hate Speech" Legislation & Universalism

Authoritarianism, "Hate Speech" Legislation & Universalism: An Interview With Dr. Tomislav Sunic

Journalist Joshua Blakeney interviewed Dr. Tomislav Sunic, a former Croatian diplomat, professor and translator. They discussed comparisons between the authoritarianism of Communist Yugoslavia and the creeping authoritarianism in countries such as the US, France, Canada and Germany. Dr. Sunic compared the "hostile propaganda" laws which were invoked to prosecute his family members in Communist Yugoslavia with the Orwellian "Hate Speech" laws which exist in various Western jurisdictions.

They also discussed the interface between universalism and particularism in the formation of the philosophy and ideology of the New Right. The interview was conducted on June 12, 1014. Links of relevance include:

Website of Dr. Tomislav Sunic:

http://www.tomsunic.com

Articles by Tomislav Sunic

http://www.theoccidentalobserver.net/...

Website of Joshua Blakeney

http://www.joshuablakeney.info

Joshua Blakeney Interviews Kevin MacDonald:

https://www.youtube.com/watch?v=rdNus...

Book - Homo Americanus:

http://www.amazon.ca/Homo-Americanus-...

Book - Against Democracy and Equality:

http://www.amazon.ca/Against-Democrac...

lundi, 01 décembre 2014

L'Empire du Milieu et ses périphéries

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L'Empire du Milieu et ses périphéries

par Jean Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu

Cette analyse résulte de la compilation de différentes sources qui ne sont pas nécessairement objectives, ni exhaustives ni même au fait de l'actualité la plus récente. Elle doit donc nécessairement être lue comme telle. De plus elle reflète le point de vue de son auteur, qui ne prétend pas échapper à la discussion...au contraire.
 
L'Empire du Milieu, c'est évidemment la Chine. Ce pays est désormais considéré comme la première puissance économique du monde, au regard non seulement de ses résultats économiques, calculés en terme de PNB, mais de sa population, dépassant le milliard d'habitant. Le ratio PNB/ habitant est inférieur à celui des autres puissances plus anciennement développées, Amérique et Europe, mais ce qu'il faut prendre en compte l'impact global en termes de rapports de puissance.

Avant d'entrer dans une analyse plus spécifique au cas chinois, il faut rappeler l'arrière plan climato-écologique ou climato-écosystémique qui s'imposera globalement au monde et donc à la Chine dans le demi-siècle à venir: réchauffement des températures, montée du niveau des mers, généralisation des phénomènes extrêmes (sécheresses et tempêtes), diminution dramatique de la biodiversité, diminution du rapport entre ressources terrestres disponibles et consommation de ces ressources.

A l'inverse, on peut anticiper une croissance sinon exponentielle du moins très importante des ressources « artificielles » résultant du développement des sciences et technologies, à usage militaire ou civil. Mais un tel développement, qui doit être financé, ne sera pas à la portée des pays les plus pauvres. Il réstera au contraire l'apanage de la puissance, dont il contribuera à accroitre la prépondérance.

On divisera cet exposé en deux parties: 1. tendances de moyen terme 2. perspectives à court terme.

1.  L'Empire du Milieu sur le moyen terme (15 ans environ)

1.1. Atouts et handicaps

Durant cette période, la Chine ressentira l'effet de facteurs positifs pour lui permettre de jouer un rôle de plus en plus important dans le monde, mais aussi de facteurs négatifs.

Parmi les premiers, citons un niveau d'éducation élevé, une égalité convenable entre le statut des femmes et celui des hommes, une population universitaire, tant au niveau des étudiants que des chercheurs, qui paraît être la première au monde en effectifs comme en qualité. Certains de ces chercheurs sont expatriés en grand nombre dans des pays rivaux de la Chine, notamment les Etats-Unis, mais ils n'ont pas coupé tout lien avec leur origine (au contraire. On parle volontiers d'espionnage. Employons ici le terme de circulation des compétences à travers les réseaux). La Chine ne subit pas non plus, sauf marginalement, le poids d'une religion de combat, l'Islam, qui conduit dans un nombre considérable de pays le développement à se fourvoyer dans des voies sans issues.

Un autre facteur positif est le niveau d'alerte et d'investissement décidé et poursuivi avec opiniâtreté par le gouvernement. La volonté de rattraper les retards pris et d'accéder aux premiers rangs est partout présente, quels que soient les sacrifices en résultant pour la population. L'exemple le plus visible est celui de l'espace, la Lune, Mars, le spatial scientifique et militaire. Mais le domaine le plus connu est surtout celui de l'industrie, où la Chine restera sans doute en grande partie l' « atelier du monde ».

A l'opposé, la Chine ne pourra pas échapper à des facteurs négatifs, déjà présents ou en accroissement sur le long terme. Citons la faiblesse relative des ressources naturelles, tant au plan agricole, énergétique ou à finalité industrielle (sauf l'accès à des ressources minéralogiques encore peut exploitées mais qui devraient se révéler considérables). Dans un autre domaine, il faut mentionner une augmentation sans doute peu contrôlable des pollutions de toutes sortes ainsi que le risque de diminution des ressources en eau à la suite de la fonte des glaciers himalayens. Parmi les facteurs négatifs, on ne peut oublier le poids que représentera longtemps une population d'environ 400 millions de personnes se situant à la limite du minimum vital et qui restera longtemps difficile à résorber. Ajoutons une culture politico-administrative qui, bien qu'ayant eu ses mérites dans le passé, apparaît de plus en plus comme peu adaptée à la gestion des grands systèmes complexes. Elle reste très marquée par la corruption.

1.2. Les relations de la Chine avec sa périphérie sur le moyen terme.

Les deux faits les plus marquants seront une intégration croissante, sur la base gagnant-gagnant, avec les pays du BRICS et ceux de l'Organisation de coopération de Shanghai. A  l'inverse, se développera une situation de guerre de plus en plus froide avec les Etats-Unis et les pays que ceux-ci continueront à dominer, en Asie, dans le Pacifique mais surtout en Europe.

Le BRICS est constitué principalement, sous l'angle du voisinage immédiat de la Chine, par la Russie et l'Inde. Concernant les relations avec la Russie, on peut pronostiquer que dépassant d'inévitables rivalités, les prochaines années verront se mettre en place les éléments d'une quasi symbiose. La Russie dispose en effet de facteurs de puissance qui seront de plus en plus intéressants pour la Chine: vastes territoires, de plus en plus utilisables du fait du réchauffement, accès à des ressources naturelles encore mal exploitées mais considérables, compétences scientifiques et industrielles de premier plan, potentiel militaire enfin qui reste le second du monde après celui des Etats-Unis (ce qui explique d'ailleurs la volonté de destruction de la Russie manifestée par l'Amérique). La population de la Chine, les importants revenus qui lui procure ses activités industrielles tournées vers l'exportation, qui peuvent être craints en Russie, devraient être au contraire utilisés comme monnaie d'échange dans le cadre d'une coopération stratégique convenablement négociée.

L'Inde, plus peuplée que la Chine mais souffrant des mêmes handicaps naturels et de certains qui lui sont propres, comme l'inefficacité de l'appareil politique et administratif, ainsi que d'une soumission bien plus grande à l'influence américaine, ne devait pas pouvoir entretenir, sauf sur des points marginaux, d'importantes coopérations partagées avec la Chine. Quant au Brésil, il sera nécessairement, si les orientations prises par l 'actuelle présidente se poursuivent malgré des offensives américaines de plus en plus forte, un partenaire intéressant au plan diplomatique mais sans grand poids économique.

Le BRICS a décidé dès cette année de mettre en place l'amorce d'une monnaie commune susceptible de se substituer au dollar, non seulement à l'intérieur des pays de la zone, mais dans le cadre des échanges avec des pays volontaires en acceptant le principe. Au delà de cette dédollarisation, qui se poursuivra et s'étendra, le BRICS développera une véritable zone économique et financière commune. Elle ne représentera sans doute pas le même niveau d'intégration que celle ayant cours dans un véritable état fédéral, où même au sein de l'Union européenne, mais elle pourra s'en rapprocher. Par ailleurs, l'intention de BRICS, et notamment de la Chine, est d'ouvrir cette structure à un nombre grandissant de pays désireux d'échapper à la zone dollar.

 

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Dans le cadre du BRICS, éventuellement élargi par le concept d'euroBRICS, un certain nombre de responsables européens souhaiteraient préciser des relations, tant avec la Russie qu'avec la Chine, là encore sur le mode gagnant-gagnant. Ceci pourrait se faire notamment avec le développement du grand programme de liaisons et d'échanges initialisé par la Chine sous le nom de « nouvelle route de la soie ». Mais il est à craindre que l'Europe, y compris dans les décennies prochaines et malgré la perte de puissance de l'Amérique, ne puisse échapper aux efforts de celle-ci pour la maintenir dans sa zone d'influence, en fait dans un statut de quasi-colonisation.

1.3. Les relations avec les Etats-Unis

Le gouvernement fédéral américain, poussé en cela par le lobby militaro-industriel (MIC) très puissant, a toujours eu besoin d'un « ennemi historique  » contre lequel développer des armements de plus en plus sophistiqués. Ce rôle avait été tenu par l'URSS soviétique. A la chute du Mur, il paraissait plus difficile de préparer une guerre intensive contre une Russie de plus en plus effacée sur le plan international. Mais avec l'arrivée au pouvoir de Vladimir Poutine, convaincu du crime d'agression par Washington, la reprise d'une mobilisation contre la Russie a pu reprendre. Ceci n'a pas cependant été jugé suffisant par le MIC. Il fallait que l'Amérique se dote d'un second ennemi historique. Ce fut à la Chine qu'échut cet honneur. Certes la modération de cette dernière et sa volonté d'éviter les conflits pouvaient plaider en sa faveur, mais sa puissance économique croissante suffisait, aux yeux de Washington, pour en faire un adversaire à combattre. Le « pivot vers l'Asie Pacifique », décidé par Obama en 2012, s'est traduit par un grand déploiement de moyens diplomatiques et militaires destinés à combattre le poids grandissant de la Chine.

Au sommet du G20 de Brisbane, les propos tenus par Barack Obama à l'Université de Queensland. ont clairement montré que les Etats-Unis utiliseront tous les moyens dont ils disposent, y compris sans doute des moyens militaires, pour empêcher la Chine de menacer l'hégémonie américaine en Asie-Pacifique. Dans cette démarche, l'Amérique voudrait entraîner le Japon, la Corée du Sud et les Philippines, ainsi que l'Australie et à Singapour. Elle tentera aussi, malgré des obstacles plus nombreux, de rallier l'Inde, le Vietnam, la Malaisie et la Birmanie.

Dans les prochaines années, cette hostilité latente, cette guerre froide américano-chinoise, se poursuivra-t-elle? Tout permet de le penser. D'une part la puissance chinoise, soit en son nom propre, soit du fait de ses alliances avec le BRICS, et notamment avec la Russie, ne fera qu'augmenter, pour les raisons évoquées ci-dessus. D'autre part, l'Amérique, contrairement à ce que certains peuvent pronostiquer, conservera des moyens considérables. Elle ne capitulera donc pas devant le bloc BRICS, surtout dans la Pacifique, qu'elle considérera de plus en plus comme essentiel au maintien de sa domination mondiale. Ces moyens seront ceux qui lui ont dans ces dernières années permis de devenir une hyper-puissance, selon le mot de Hubert Védrine.

Inutile d'en faire ici la liste: moyens militaires considérables, potentiel toujours renouvelé en matière de contrôle des réseaux numériques mondiaux et des activités s'y exerçant, ressources intellectuelles hors pair dans le domaine de la recherche scientifique et de ses applications. La Chine, même en conjuguant ses efforts avec ceux de la Russie, ne pourra espérer, dans la période de moyen terme que nous considérons ici, accéder à ce niveau. Elle ne renoncera pas pour autant. Le monde verra donc se poursuivre une guerre d'influence, faite d'avances et de reculs, dont l'issu n'est guère prévisible aujourd'hui.

Les relations pourraient en fait se durcir. D'une part la Chine se sentira de plus en plus sûre d'elle. Mais d'autre part, et ce serait bien plus grave, un régime autoritaire pourrait prendre le pouvoir aux Etats-Unis, n'hésitant pas à engager de vraies actions militaires dans lesquelles la Chine, au moins sans l'aide de la Russie et de ses moyens de projection constamment renforcés, aurait du mal à résister. Mais nous serions dans cette perspective au bord d'une guerre mondiale généralisée.

1.4. Les relations avec le Japon, la Corée du Sud et les pays de l'Asie du sud-est.

Ceux-ci sont généralement considérés comme des alliés des Etats-Unis. Il s'agit d'ailleurs d'alliés de poids, vu la puissance économique qu'ils représentent, puissance cumulée sans doute supérieure à ce jour, en termes de PNB, sinon en terme de population, à celle de la Chine. Mais ces pays sont aussi prudents et ont jusqu'à présent refusé toute confrontation belliqueuse avec la Chine, sauf dans des domaines mineurs relevant de l'incident de frontière. Ils souffrent par ailleurs de difficultés croissantes au plan économique: manque de ressources énergétiques, affaiblissement d'un modèle industriel reposant sur l'exportation, compte tenu des réactions de plus en plus protectionnistes de leurs clients habituels. Il est indéniable que, s'ils jouaient dans certains domaines, malgré la persistance d'inimitiés encore fortes, la carte de coopérations gagnant-gagnant avec la Chine, l'ensemble de la zone en tirerait des avantages.

 

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Les allers et retours imprévisibles de la diplomatie américaine, et surtout sa tendance à exploiter ses alliés officiels au service quasi exclusif de ses intérêts personnels, ne devraient pas améliorer à moyen terme l'influence des Etats-Unis en mer du Japon et dans le sud-est asiatique. On peut penser en fait que s'établira là une sorte de vaste zone-tampon (ou zone de liaison), tirant pour le bénéfice de son propre développement avantage des compétitions américano-chinoises, non seulement dans la région proprement dite, mais dans le reste du monde.

1.5 Les relations avec les pays musulmans continentaux

Nous désignons par ce terme les pays dit de la ceinture des -stans d'Asie centrale, ayant appartenu à la zone soviétique avant la chute de l'URSS. Il faut y inclure le Pakistan résultant du démembrement de l'ancien Empire des Indes. Ces pays comportent de longues frontières communes avec la Chine. Ils pourraient également y entretenir des actions de type terroriste, sur le modèle de ce qui se produit chez les Ouïghours reconnus par le Chine mais qui sont plus la plupart des musulmans nationaliste parfois fanatiques.

Compte-tenu de ces voisinages, le gouvernement chinois a toujours entretenu une grande méfiance à l'égard des pays islamiques. Tout laisse penser qu'elle se renforcera au fil de radicalisations probables. Par ailleurs, de véritables coopérations économiques ont toujours eu du mal à s'y établir. La Chine se rapprochera donc de ce fait davantage encore de la Russie, qui se méfie à juste titre des relations avec les pays de la ceinture des -stans. Les choses changeraient cependant si le projet chinois ou russo-chinois de nouvelle route de la soie se mettait en place. La branche continentale eurasienne de cette route passerait par les -stans, qui se trouveraient de ce fait intégrés de facto à l'alliance économique sino-russe.

1.6. L'empire de l'Empire

Nous désignons ainsi les investissements massifs auxquels la Chine procède dans tous les pays dont les économies sont incapables d'investir par elles-mêmes: Afrique en premier lieu, Amérique Latine mais aussi Europe. Il ne s'agit plus là de la périphérie de l'Empire mais de ses projections à l'échelle du monde. La Chine dispose des capitaux nécessaires du fait que son industrie et son commerce travaillent à bien moindres coûts que ceux des rivaux,. Ceci notamment, mais pas seulement, parce qu'ils emploient des millions de travailleurs pauvres. Mais elle n'est pas seule à le faire. L'Inde et l'Asie du sud-est en font autant, sans accumuler de tels quantités de capitaux exportables. Le gouvernement chinois, qui a la haute main sur les investissements à l'étranger, au lieu de laisser comme partout ailleurs agir des intérêts financiers peu préoccupés de nationalisme, s'est donné une politique déterminée de conquête des éléments stratégiques jugés nécessaires à la construction de la puissance chinoise.

Les pays « bénéficiaires » de ces investissements les accueillent volontiers. Ils y voient un moyen de remplacer des financement, tant publics que privés, que par leur pauvreté, mais aussi souvent par leur laxisme, ils sont devenus incapables d'assumer. Ceci ne se fait pas nécessairement à l'avantage de ces pays sur le long terme. En Afrique, les investissements chinois, par exemple dans le domaine de l'agriculture spéculative, contribuent à ruiner des millions de petits agricultures traditionnels qui n'ont plus qu'une ressource, émigrer vers des mégacités déjà surpeuplées et misérables. De même les équipements portuaires ou routiers pris en charge par la Chine maltraitent encore plus des milieux naturels déjà bien malades. Dans une moindre mesure il en est de même en Amérique du Sud.

Plus généralement, certains pays développés commencent à s'inquiéter de voir des investissements chinois pénétrer des industries et équipements stratégiques. C'est le cas des Etats-Unis. La Chine devra dans les prochaines années tenir compte de réflexes protectionnistes avec lesquels elle sera obliger de négocier, en Europe mais aussi de la part de ses partenaires du BRICS, en premier lieu la Russie. L'enrichissement progressif de la société chinoise diminuera parallèlement les bas salaires et les bénéfices réexportables en résultant. Enfin, dans une partie de l'Asie du sud-est comme au Bangladesh ou même en Inde, de nouveaux employeurs versant des salaires encore inférieurs à ceux de la Chine viendront concurrencer cette dernière dans sa volonté de devenir l'atelier du monde.

 

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On peut prévoir que dans les prochaines années cependant, la Chine ne renoncera pas, par des politiques économiques bien pensées, à se doter d'épargnes capables de mener à l'échelle du monde de véritables guerres économiques. Mais elle le fera sans doute de façon plus subtile qu'aujourd'hui et en acceptant de mener avec les pays partenaires des politiques sur le mode gagnant-gagnant évoqué plus haut. Ceci devrait être particulièrement le cas tout au long des investissements de la nouvelle route de la soie, dont le terminus se trouvera dans la partie la plus riche de l'Europe.

2. Perspectives à court terme

Sur le court terme, autrement dit dans l'immédiat, les relations de l'Empire du Milieu avec le monde sont marquées par divers évènements dont certains pourront rester anodins, d'autres se développer de façon intéressant de façpn significative les questions évoquées dans la première partie de cet article. Nous ne ferons pas ici allusion à la "révolution des parapluies" à Hong-Kong. Elle a au début de l'automne 2014 beaucoup agité les opinions. Certains y ont vu le début de l'indépendance des provinces chinoises contre la main de fer de Pékin. D'autres le résultat de manoeuvres de la CIA pour générer en Chine des "révolutions de couleur" ayant paru si bien réussir dans les pays limitrophes de la Russie. En fait l'agitation est retombée, à la suite sans doute de concessions réciproques. 

Au plan militaire, les armements chinois sont sans comparaison de puissance avec ceux des Etat-Unis. Ceci n'empêche pas ces derniers d'évoquer en permanence une menace militaire chinoise. En permanence également ils accusent la Chine de se préparer à mener une cyber-guerre, prenant par exemple la forme d'une destruction des réseaux électriques(grids) américains. La Chine est périodiquement par ailleurs accusée d'espionnage électronique intensif contre les entreprises et forces armées américaines. L'accusation fait rire quand on connait, à la suite des révélations de Edward Snowden, la façon dont la CIA et la NSA espionnent le monde entier, avec des technologies à l'efficacité sans rivale.

2.1. Le Japon

Le premier des évènements significatifs intervenus récemment intéresse les relations sino-japonaises, envenimées depuis des mois par le conflit de souveraineté concernant les iles Senkaku-Diaoru. La Chine, en revendiquant sa souveraineté sur ces iles, veut affirmer sa volonté de présence, y compris militaire, dans la mer de Chine orientale, dans laquelle, comme puissance côtière, elle a de nombreux intérêts dont pétroliers. Il en est de même du Japon. Celui-ci est appuyé en cela par le Viet-Nam, Taîwan et bien plus prudemment par la Corée du Sud. Mais le principal appui du Japon dans cette affaire est celui des Etats-Unis. Washington revendique, pour sa puissante flotte pacifique, une souveraineté de fait sur l'ensemble du pacifique occidental et de la mer de Chine, hors des zones de compétence exclusive des Etats côtiers, voire dans certains cas chez ces Etats côtiers eux-mêmes, lorsque ceux-ci se sont vu imposer des bases navales. Le « pivot « vers le Pacifique décidé récemment par Barack Obama n'a fait que renforcer l'importance de cette présence aéro-navale et économique américaine dans les parages de la Chine.

La Chine ne peut évidemment que s'en inquiéter. Elle peut légitiment se sentir encerclée. Or au moins sur ce point les relations sino-japonaises devraient s'améliorer. Les deux pays viennent de publier un Accord visant à l'amélioration de leurs relations bilatérales , « Principled Agreement on Handling and Improving Bilateral Relations »", faisant suite à des réunions entres leurs Conseillers nationaux pour la Sécurité, le japonais Shotaro Yachi et le chinois Yang Jiechi. Ce document acte l'engagement des deux puissances à mettre en place des mécanismes de gestion des crises, reposant sur le dialogue et la concertation.

Le revirement japonais semble provoqué en partie par les difficultés internes que rencontre la nouvelle politique économique de libéralisation mise en place par le gouvernement Abe (les « abenomics » ) et le peu de soutien apporté par le gouvernement américain. Pour celui-ci, la concurrence japonaise notamment dans les industries de pointe, demeure une réelle menace. Le Japon peut au contraire espérer, face aux immenses besoins d'investissements engagés par la Chine et la Russie, en avoir une part.

2.2. L'Inde

Les Américains espéraient, pour contraindre l'expansion de la Chine dans le Pacifique, instaurer sous leur égide une grande alliance indo-japonaise. Mais le nouveau gouvernement indien, sous la présidence de Narendra Modi, n'a jamais paru prendre cette proposition au sérieux. L'inde a d'ailleurs plus à craindre de l'expansionnisme technologique américain que de celui de la Chine. En conséquence,à la suite d'une visite de XI Jinping à Dehli, des investissements communs ont été envisagés, dans le domaine des infrastructures et surtout concernant la mise en valeur des territoires frontaliers dans l'Himalaya. Ceci ne fera que conforter la politique de coopération économique et financière décidée au sein du BRICS.

La Chine et l'Inde ont aussi un intérêt stratégique urgent, lutter contre le développement de l'islamise radical au Pakistan. La Chine n'a pas renoncé à développer des coopérations avec ce dernier pays, notamment au plan militaire, mais elle se méfie de plus en plus du danger que représente pour elle et pour l'Inde le développement probable, dans un Pakistan politiquement affaibli voire complice, de territoires entiers visant à devenir de nouveaux califats islamistes.

2.3. La Russie

Dans le conflit entre l'Amérique et la Russie à propos de l'Ukraine, bien que n'ayant pas de sympathie systématique pour les « séparatistes » de la Novorussie, la Chine a refusé de suivre les diktats américains concernant les sanctions contre Vladimir Poutine. Elle a fait beaucoup plus, accepter de signer avec la Russie un mega-contrat gazier permettant à celle-ci d'écouler vers l'Asie des productions désormais interdites de débouché en Europe. La Chine fera beaucoup plus, comme nous l'avons vu dans la première partie de cet article. Elle se positionne désormais au sein du BRICS comme un allié déterminé de la Russie. Moscou et Pékin ont décidé de façon semble-t-il irrévocable de coopérer pour mettre en place les changements profonds dans l'axe du monde, résultant de leur volonté conjointe de dedollarisation.

 

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Les analystes américains considèrent désormais que l'alliance de facto et de jure entre la Russie et la Chine - certains parlent d'un véritable condominion russo-chinois - constitue pour les Etats-Unis une véritable menace existentielle. Ils feront tout notamment pour empêcher que le BRICS ne prenne de l'importance, notamment pour empêcher que l'Europe ne s'en rapproche dans la cadre d'un encore hypothétique projet dit euroBRICS. Mais des progrès en ce sens, fussent-ils minimes se font sans leur accord. Un certain nombre d'opérateurs européens ont désormais accepté de négocier des contrats en monnaie chinoise, le renminbi, et non en dollars, ce qui aurait été impensable voici seulement quelques mois.

2.4. Le Moyen-Orient

Concernant les conflits au Moyen-Orient, la Chine n'a pas pris de positions fermes appuyant l'Amérique, soit dans la guerre contre Daesh, soit dans le soutien à Israël. Elle soutient même l'Amérique au sein du groupe des 6, dans les négociations avec l'Iran visant à interdire à celle-ci l'accès à un armement nucléaire. La Chine qui par ailleurs importe de plus en plus de pétrole du Golfe, ne s'est jusqu'à présent pas opposée à l'alliance séculaire entre le dollar et les pétro-dollars qui ont fait depuis des décennies une des bases de la puissance américaine dans le monde.

Cependant l'impuissance, sinon l'incompétence, de Barack Obama à lutter contre les islamistes radicaux en Irak et en Syrie, pose de plus de problèmes à la Chine. Les récentes élections américaines, mettant en place une majorité au Congrès composée de « faucons » déterminés, ne changeront pas grand chose à l'engagement américain contre Daesh. Elles se limiteront à renforcer la politique anti-russe menée par les Etats-Unis, au sein de l'Otan ou pour leur compte propre. L'islamisme radical ne pourra qu'en profiter au Moyen-Orient. L'US Army ne peut être sur tous les fronts.

La Chine a d'autant plus de raisons de se méfier des Etats-Unis que diverses informations ont montré un financement américain délibéré de plus de 100.000 militants sunnites destinés à déstabiliser le Moyen Orient, et notamment à éviter qu'un axe chiite Iran, Damas et Russie ne se mette en place. Or la Chine ne peut en aucun cas souscrire à cette volonté américaine de déstabiliser le Moyen-Orient, dont elle exporte beaucoup de pétrole.

Cependant, une volonté chinoise d'équilibre entre les principaux acteurs pétro-arabes au Moyen Orient lui imposera très vite des choix difficiles. La Chine se dit allée officielle de l'Arabie Saoudite, à qui d'ailleurs elle vend des armes. Mais elle sait aussi combien celle-ci déstabilise le monde entier en finançant sans compter les mouvements islamiques de par le monde, se référant à un whahabisme radical. L'Europe est la première victime de tels financements, mais ni la Russie ni la Chine n'y échapperont.

La seule façon d'assécher la richesse saoudienne serait de décourager le monde de faire appel à ses réserves pétrolières, en développant notamment des sources concurrentes. Mais la Chine, assoiffée de pétrole et de gaz,  n'est pas prête à prendre de positions efficaces en ce sens. Elle se borne à afficher, conjointement d'ailleurs pour une fois avec les Américains, une volonté (encore d'ailleurs assez théorique) de lutter contre le réchauffement climatique.

   

 

 

Jean Paul Baquiast

Adinolfi présente son livre à Paris

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Sur le "Palais des rêves" d'Ismail Kadaré

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Sur le "Palais des rêves" d'Ismail Kadaré

Ex: http://www.calmeblog.com

ISMAIL KADARÉ,

LE PALAIS DES RÊVES,

traduit de l'albanais par Jusef Vrioni pour les éditions Fayard

 
"Peut-on jamais savoir le pourquoi des choses ici?"

"- L'heure est critique, reprit le Vizir. Le Maître-Rêve peut à nouveau frapper..."

    Un immeuble labyrinthique aux portes innombrables et  abritant des millions de dossiers: le Palais des rêves. Ismail Kadaré prenait quelques risques avec ce roman composé à Tirana de 1976 à 1981:celui de la parabole écrite dans l'ombre gigantesque de Kafka. Le risque politique faillit le mener à un drame semblable à celui qui conclut le roman comme le rappelle l'utile préface d’Éric Faye.

ENTRÉES

    En deux chapitres (LE MATIN, LA SÉLECTION), Kadaré nous introduit à un destin, à un lieu de pouvoir étonnant ainsi qu'à l’histoire d’une très ancienne famille (les Quprili):nous voilà dans un passé (pas aussi lointain qu’on croit à première lecture) de l'Albanie (quand elle appartenait à l’empire Ottoman, immense domaine politique avec une partie asiatique et une autre, européenne).
   Le héros se nomme Mark-Alem (Quprili, même si sa mère  a préféré conserver son nom de jeune fille):au début du roman, il entre au Tabir Sarrail (ou Palais des rêves), un édifice impressionnant et fascinant, abritant des milliers de fonctionnaires gris et besogneux, uniquement occupés à lire et à constituer des dossiers qui répertorient tous les rêves des habitants, dûment collectés dans tout l’Empire pour l’information et le service du Sultan à qui on remet en grande pompe, chaque vendredi, le Maître-rêve ou l’Archirêve. Au début de son parcours, Mark-Alem est installé dans un étroit et sinistre bureau relevant du secteur de la Sélection, secteur important même s’il a moins de prestige que celui de l’Interprétation dont les éxécutants protestent quand on ose les rapprocher des spécialistes de la clef des songes. Mark-Alem est forcément vite tenté par l’Interprétation qu'il rejoindra  à une vitesse exceptionnelle.
  Ce Tabir Sarrail (l’institution la plus mystérieuse de l’Empire -son mystère faisant partie de  son prestige et de son pouvoir (pouvoir du secret, secret du pouvoir, quitte à n'avoir aucun secret)) est un lieu de travail épuisant (et, paradoxalement envoûtant) et surtout un moyen inédit de gouverner qui, au moment du récit, a retrouvé une importance perdue depuis quelques décennies. Nous allons suivre Mark (son "identité" occidentale)-Alem (son "identité" orientale) dans ce monde du contôle et vivre avec lui des moments critiques et tragiques.(1)

  Mark-Alem (vingt-huit ans quand il deviendra soudain puissant) appartient donc a une grande et antique famille qui refusa toujours d'écrire son nom selon l'orthographe ottomane et qui compte encore un Vizir parmi elle. Depuis toujours célèbre et enviée, son destin est pourtant étrange. Elle peut connaître la gloire (cinq de ses membres furent grands vizirs de l’Empire) mais aussi, de façon foudroyante, elle peut se retrouver frappée par de grands malheurs. On ne saurait exclure que le Souverain jalouse cette famille célébrée dans une chanson de geste qui a toujours troublé parce qu'elle est bosniaque et exprimée en serbe...: les rhapsodes capables de l'entonner seront présents au moment le plus sombre du livre : Kadaré leur consacrera de très belles pages, à leur voix en particulier.


COMPOSITION

  9468323328_33e5bb125f_z.jpgOn suit l’initiation de Mark-Alem et les étapes sont aisément repérables malgré le mystère qu’entretient la machine infernale étatique. Deux réceptions (aux chapitres II et VI) se répondent (il y est beaucoup question de la famille Quprili, du Palais des Rêves vu de l’extérieur alors que les autres chapitres nous plongent dans l’antre de l’enfer) et accroissent l’angoisse du lecteur qui partage celle du héros.
  Singulier, le chapitre IV, central, nous montre combien est grand l’empire du Tabir Sarrail: Mark-Alem qui se plaint sans cesse de son nouveau lieu de travail ne supporte pourtant plus un jour de congé et la réalité commune de la vie quotidienne. Sa dépendance en paraît encore plus grande.


 Le mouvement de lecture nous emporte dans un mouvement totalitaire follement centripète.


DU POUVOIR

 Les apparatchiks albanais ne s’y trompèrent pas:cette collection des rêves de tous les sujets de l’Empire, leur acheminement à n’importe quel prix, le premier tri, le secteur de la Sélection puis celui de l’Interprétation, celui qui décide du Maître-Rêve, tout concourt à montrer les ressources et les moyens d’un pouvoir totalitaire inédit dans la mesure où l’inconscient est la chose du monde la mieux à partager par l'État total (“-Pour moi, reprit Kurt, c’est le seul organe de notre État par lequel la part de ténèbres dans la conscience de ses sujets entre directement en contact avec lui) où l’on donne l’illusion d’un pouvoir au peuple (“Certes poursuivit-il, les multitudes ne gouvernent pas, mais elles sont aussi dotées d’un mécanisme à travers lequel elles influent sur toutes les affaires, les vicissitudes et les crimes de l’État, et ce rouage n’est autre que le Tabir Sarrail. “) en échange d’un sentiment de culpabilité terrorisante (et d'inhibition):enfin, et surtout, le pouvoir de l’interprète est sans limite: ” Quiconque a la haute main sur le palais des Rêves détient les clés de l’État.” Son oncle le Vizir lui dit que “C’est un Maître-Rêve qui donna l’idée du grand massavre des chefs albanais à Monastir.(…). C’est également un Mâitre-Rêve qui entraîna la révision de la politique envers Napoléon et la chute du grand vizir Youssouf. Les cas de ce genre ne se comptent plus….”Il ajoute : “S’il [le directeur du Tabir, apparemment modeste et dépourvu de tout titre, passe pour rivaliser en puissance avec nous, les plus influents vizirs…(…), c’est qu’il dispose d’un redoutable pouvoir, celui qui ne se fonde pas sur les faits."(j'ai souligné). Il est même possible que certains Maîtres-Rêves soient falsifiés, ce qui exige tout un travail d'analyse par une section spéciale.
  Les moments de terreur de Mark-Alem devant l’étendue et les risques de sa tâche permettent à Kadaré de nous faire entrer dans un système dément au charme de termitière que personne pourtant ne veut quitter et qui quadrille tout l’Empire en  passant au crible (aux critères évolutifs) tout ce que le citoyen ne sait pas sur lui-même....

LE NOM ET LE RÊVE FATAL

 Le nom de Quprili est rien d'autre "que la traduction du mot URA, le pont, venant lui-même d'un vieux pont à trois arches de l'Albanie centrale édifié à l'époque où les Albanais étaient encore chrétiens, et dans les fondations duquel avait été emmuré un homme.(...)Un de leurs aïeux prénommé Gjon, qui avait travaillé comme maçon sur ce pont, avait hérité après son achèvement, en même temps que des souvenirs du meurtre, du nom de Ura."(2) 

Pendant son travail de Sélection Mark-Alem était tombé sur le texte d'un rêve qu'il avait travaillé avec hésitation:" Un terrain abandonné au pied d'un pont; une espèce de terrain vague, de ceux où l'on jette les détritus. Parmi les ordures, la poussière, les éclats de lavabos brisés, un vieil instrument de musique à l'espect insolite, qui jouait tout seul dans cette étendue déserte, et un taureau, apparemment mis en furie par ces sons, qui mugissait au pied du pont..."

Entre ces deux faits apparemment et réellement indépendants se joue l'épisode criminel du livre:Kurt Quprili en sera la victime sous les yeux de ses proches parents dont le Vizir et Mark-Alem qui avait laissé passer ce rêve...

ORIGINALITÉ

Il faut reconnaître que Kadaré soutient la comparaison (inévitable) avec d’illustres prédécesseurs:aussi bien dans son évocation de l’espace labyrinthique du Tabir Sarreil dans lequel s’égare souvent Mark-Alem (un mélange de désorientation et de lisse où fenêtres et portes ont un rôle vertigineux- le pouvoir annexe même votre errance) que dans la restitution de l’instabilité du héros passant de l’angoisse à l’euphorie (son psychisme est bouclé à double tour et ne connaît que deux affects) et parvenant, par dépendance ,  à nier la beauté du monde extérieur sauf à la dernière page, quand il est trop tard-il a oublié trop vite le genre humain. Si, avec ces copistes et ces copistes de copistes, il est impossible de ne pas penser à Kafka et même aux images hallucinées et injectées de vérité d’Orson Welles dans la gare d’Orsay (3), il reste que les étagements, les empilements de dossiers, les subtilités des catégories de classement, les hiérarchies entretenues entre les êtres sont remarquablement décrits comme sont rigoureusement mis en scène les moyens d’asservissement par l’inertie. Avec talent, Kadaré parvient à évoquer en même temps la crise et le fond de grise inertie répétitive et monotone d’où elle émerge. La solidarité des deux en est aveuglante. Systémique comme on ne disait pas à l'époque.

Kadaré élargit le domaine de réflexion sur la littérature de la répression et de la manipulation, sur les rouages de la machine paranoïaque (où tout est test, épreuve), sur la logique du sacrifice (la mort d’un parent étant le minimum requis par la machiavélique autorité) et sur celle de l’ambivalence dans le régime totalitaire.

La machine paranoïaque immatérielle, si elle a trouvé ses moyens techniques inédits, a-t-elle trouvé son Orwell, son Zinoviev, son Kadaré?

  Rossini, le 13 juillet 2013

NOTES

(1) Il y a bien une Histoire du Tabar et les mots de Kadaré auront eu sans doute beaucoup d'échos :"Ce n'est un secret pour personne, dit-il, que le Tabar Sarrail se trouvait, voici quelques années, sous l'influence des banques et des propriétaires de mines de cuivre, alors que plus récemment, il s'est rapproché du clan du Cheikh ul-Islam."

(2) On sait que l'un des autres romans de Kadaré a pour titre LE PONT AUX TROIS ARCHES.

(3) Sur lequel il est de bon ton de cracher depuis toujours, surtout quand on a écrit une pitoyable adaptation de JACQUES LE FATALISTE..

Westliche Gesellschaften zerfallen

Auflösung: Westliche Gesellschaften zerfallen − und die Leitmedien werfen Nebelkerzen

Markus Gärtner

Westliche Gesellschaften sehen sich mit explodierenden Schulden, wachsenden sozialen Spannungen sowie Korruption und der Aushöhlung des Rechts einer zunehmenden Auflösung ausgesetzt. Die Medien im Mainstream versuchen derweil, uns mit Ablenkung und Manipulation so lange wie möglich bei Laune zu halten.

Die USA Today berichtete in der laufenden Woche, die Unterhosen-Theorie von Ex-Notenbankchef Alan Greenspan beweise, dass es um die Konjunktur in Amerika fabelhaft steht. Das ist genauso irreführend wie eine Schlagzeile in der WELT, die uns weißmachen will, dass die US-Wirtschaft »von Rekord zu Rekord« eilt, während die Beteiligung der erwerbsfähigen Amerikaner auf den tiefsten Stand seit Jahrzehnten fällt und feste Jobs immer öfter durch miserabel bezahlte temporäre Beschäftigungen ersetzt werden – auch hierzulande.

Die Zeitung USA Today erinnert an die Theorie von Alan Greenspan – dem Pionier des billigen Geldes und des monetären Dschihad – wonach die Verkäufe von Herren-Unterwäsche in guten Zeiten stabil bis glänzend sind. So meldet »Hanes«, eine der führenden Marken in der Welt der Herren-Unterhosen, zweistellige Zuwächse bei Umsatz und Gewinn im dritten Quartal.

Dass es außer dem Wetter und der Jahreszeit triftige Gründe dafür gibt, warum sich Menschen in allen Teilen der Welt dieser Tage wärmer anziehen als sonst, das wird im Mainstream-Blätterwald entweder vernachlässigt, verzerrt, oder gar nicht berichtet. So wie die wahren Gründe dafür, dass immer mehr Wähler in Europa zu Parteien außerhalb des Mainstreams überlaufen.

Mehr:

http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/deutschland/markus-gaertner/aufloesung-westliche-gesellschaften-zerfallen-und-die-leitmedien-werfen-nebelkerzen.html

Le pivot géographique de l'histoire

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Le pivot géographique de l’histoire

par Philippe Raggi

Ex: http://fortune.fdesouche.com

Pour saisir les enjeux actuels, un petit détour sur une des cartes de Halford J. Mackinder ne manque pas d’intérêt.
Quelques éléments d’explication : Mackinder nous dit : « La prise de contrôle de la région terrestre centrale par une nouvelle puissance se substituant à la Russie, ne tendrait nullement à réduire l’importance géographique de la position pivot ». (1)
Reprenant les mots de Mackinder et en poursuivant la logique de son propos à l’aune de la géopolitique récente et en cours, nous pourrions avancer ceci :
Si une puissance particulière parvenait à renverser la Russie, ou à la contrôler, celle-ci  pourrait constituer un péril menaçant la liberté du monde pour la seule raison qu’elle ajouterait une façade océanique aux ressources du Grand continent – un accès aux mers chaudes – avantage qui demeure jusqu’à présent interdit à l’occupant russe de la zone-pivot.

Pour trouver quelle est cette « puissance particulière », il suffit d’observer ce qui se passe dans le Rimland, cette ceinture de la zone-pivot (Heartland). Quelle est la puissance qui place ses pions dans presque tous les pays de cette zone ? Quelle est la puissance qui agit et resserre cette ceinture année après année ?

Cette « puissance particulière » tend, présentement, à contenir au plus serré la région-pivot, ne lui laissant plus aucune profondeur stratégique, plus aucune zone d’influence ; même immédiate. Les Russes n’auraient donc pas le droit à une Doctrine Monroe contrairement aux États-Unis qui seuls auraient ce privilège.
 
Ce serait donc, appliquée à l’échelle du monde, la fameuse « destinée manifeste », une sorte de droit moral des États-Unis à ce qui ne peut être qualifié autrement que… d’impérialisme. Ce serait même, à lire certains, une situation de fait mais opérée néanmoins contre son gré ! (2)
Halford J. Mackinder a défini dès l’orée du XXème siècle une constante de l’Histoire (3). Force est de constater que cette constante oriente de façon manifeste la politique des Etats-Unis sur le continent Euro-Asiatique depuis 1945. En observant aujourd’hui, avec recul, tant la stratégie de « Containment » de George Keenan, que celle du « Rollback » de John Foster Dulles, l’on s’aperçoit qu’elles ne visaient en fait pas tant l’Union Soviétique et son régime communiste (4) mais bien plutôt la Russie, en tant que terre de la zone-pivot.
 
Depuis 1992, en Europe, les États-Unis, via l’OTAN notamment, mais aussi par d’autres organismes (5), ont fait reculer vers l’Est les limites du Heartland ; il est à noter que les ex-républiques de l’Union Soviétique sont à présent quasiment toutes dans son escarcelle.
 
Dans ce mouvement vers l’Est, une de ces ex-Républiques est à cet égard cruciale : l’Ukraine. Celle-ci permet à la Russie un accès direct à la Méditerranée. Il en est de même de la Géorgie. Ainsi, ces deux pays ont-ils subi ou subissent des « soubresauts ». Et dans cette fermeture de la Méditerranée, en Asie mineure, il y a la Turquie, laquelle est déjà dans l’orbite de puissance étasunienne (OTAN et Union Européenne aux forceps).
 
En Asie centrale, l’Afghanistan a subi les affres de cette action de contention américaine vis-à-vis de la Russie et ce depuis 2001. Reste un autre pays crucial : l’Iran. Et si on lit bien les stratèges de Washington, l’action prônée pour ce pays n’est pas « directe » ; il ne s’agit pas d’affronter militairement Téhéran (hard power) mais bien plutôt de ménager les Ayatollahs et d’influer sur une population plus malléable (smart power) afin qu’un terrain d’entente puisse advenir (6).
 
En fin de boucle, en Extrême-Orient, le Japon demeure depuis 1945 une base militaire avancée des États-Unis dans la région. Quant à la Corée du Sud, elle reste encore sous orbite étasunienne, confortée par l’épouvantail que représente Pyongyang.
 
Toujours dans cette stratégie de puissance en action, dans ce mouvement pour la maîtrise du Heartland, il y a un écueil de taille : la Chine. Ce pays, nous dit Mackinder, serait à même de devenir un péril pour le monde (the yellow peril) si d’aventure il venait à dominer, à vassaliser la Russie. Mais Pékin a bien d’autres ambitions que de prendre le « chemin du Nord », au-delà de l’Amour, ce fleuve-frontière de 4 400 kilomètres.
 
La Chine a, en effet, d’autres préoccupations que de devenir, dans un futur proche, ce « péril jaune » dont parle Mackinder. Pékin se concentre plutôt sur :
- le contrôle à long terme de son pouvoir dans ses provinces (risque d’autonomie, de séparatismes),
- sa maîtrise de la zone des neuf points dans la Mer de Chine méridionale (risque de conflits avec ses voisins immédiats (vietnamiens, philippins, taïwanais, etc.),
- la conservation voire le développement de son collier de perles entre son territoire et les zones de production d’hydrocarbures,
- la mise en œuvre des retours sur ses investissements en Afrique.
 
La Chine représente donc malheureusement pour les États-Unis, une pièce non maîtrisée, non maîtrisable, une impasse ; elle doit être contournée, tout en étant maîtrisée indirectement via la politique de l’énergie hydrocarbure ; il s’agit de tenir les robinets…
 
Pour finir ces quelques réflexions et commentaires sur la carte de Halford J. Mackinder, rappelons sa formule ; une formule choc, une formule répétée à l’envie et qui résume notre propos ci-dessus : « Qui contrôle le cœur du monde (Heartland) commande à l’île du monde (Heartland + Rimland), qui contrôle l’île du monde commande au monde ». Cette carte de 1904 explique bien, par l’intégration du temps long de l’Histoire sur la géographie physique, les mouvements géopolitiques contemporains. Ainsi, les finalités de tel ou tel acteur géopolitique se découvrent-elles, naturellement.
 
Nonobstant, l’analyse géopolitique ne doit pas être un paraclet mais plutôt un levier pour une politique de puissance face à tel ou tel Hégemon du moment… Acteur ou sujet, victime ou bourreau, Ecce Stato.
 
Notes :
 
(1) Halford John Mackinder, The geographical pivot of History, paru dans The Geographical Journal, Vol. 23, n°4, p.437.
(2) Cf. les propos de Niall Ferguson sur les États-Unis comme « Empire malgré-lui ». Doté d’un esprit brillant, Ferguson, auteur entres autres livres de Colossus ; The price of America’s Empire, est somme toute bienveillant vis-à-vis des États-Unis ; ainsi l’excuse-t-il de ses méfaits commis à travers le monde. Ferguson est, faut-il le souligner, débiteur de Washington…
(3) On (re)lira, fort à propos, le livre d’Aymeric Chauprade intitulé « Géopolitique ; constantes et changements dans l’Histoire » paru aux Éditions Ellipses en 2000 et réédité plusieurs fois depuis. On pourra se documenter également avec le livre référence d’Alfred T. Mahan De l’influence de la puissance maritime dans l’Histoire 1660-1783 et particulièrement dans son introduction. Mahan y évoque justement la question des « constantes ».
(4) Ce fut, en définitive, un argument pour naïfs, un levier du « Softpower », une façon d’amener à soi une population d’Europe occidentale à juste titre effrayée, au sortir de la seconde guerre mondiale.
(5) L’Union Européenne, par exemple, mais aussi le FMI, etc.

(6) Cf. Joseph Nye, théoricien de cette analyse des stratégies de puissance ; stratégies mises en œuvre magistralement (il faut être juste et honnête) par les États-Unis.

Philippe Raggi

Feronia e i culti femminili legati alle acque

Intervento di Renato Del Ponte al convegno "Feronia e i culti femminili legati alle acque" organizzato a Verona il 4 Maggio 2012