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vendredi, 15 octobre 2010

Come l'Occidente ha devastato l'Afghanistan

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Come l'Occidente ha devastato l'Afghanistan

Ex: http://www.massimofini.it/

Testo integrale dell'articolo pubblicato sul Fatto il 12 ottobre 2010 e ridotto per ragioni di spazio:

Ogni volta che muore un soldato italiano in Afghanistan ci chiediamo «Che cosa ci stiamo a fare lì?». Ma c'è un'altra domanda da farsi: cosa abbiamo fatto in Afghanistan e all'Afghanistan?

1) Dismesse le pelose giustificazioni che siamo in Afghanistan per regalare le caramelle ai bambini, per "ricostruire quel disgaziato Paese", per imporre alle donne di liberarsi del burqua, perché, con tutta evidenza, quella in Afghanistan, dopo dieci anni di occupazione violenta, non può essere gabellata per un'operazione di "peace keeping", ma è una guerra agli afgani, l'unica motivazione rimasta agli Stati Uniti e ai loro alleati occidentali, per legittimare il massacro agli occhi delle proprie opinioni pubbliche e anche a quelli dei propri soldati, demotivati perché a loro volta non capiscono «che cosa ci stiamo a fare quì», è che noi in Afghanistan ci battiamo "per la nostra sicurezza" per contrastare il "terrorismo internazionale".

È una menzogna colossale. Gli afgani, e quindi anche i talebani, non sono mai stati terroristi. Non c'era un solo afgano nei commando che abbatterono le Torri gemelle. Non un solo afgano è stato trovato nelle cellule, vere o presunte, di Al Quaeda. Nei dieci, durissimi, anni di conflitto contro gli invasori sovietici non c'è stato un solo atto di terrorismo, tantomeno kamikaze, né dentro né fuori il Paese. E se dal 2006, dopo cinque anni di occupazione si sono decisi ad adottare contro gli invasori anche metodi terroristici (dopo un aspro dibattito al loro interno: il leader, il Mullah Omar, era contrario perché questi atti hanno delle inevitabili ricaute sui civili e nulla può convenire meno ai Talebani che alienarsi la simpatia e la collaborazione della popolaione sul cui appoggio si sostengono) è perché mentre i sovietici avevano almeno la decenza di stare sul campo, gli occidentali combattono quasi esclusivamente con i bombardieri, spesso Dardo e Predator senza equipaggio, ma armati di missili micidiali e comandati da Nells nel Nevada o da un'area "top secret" della Gran Bretagna. Contro un nemico invisibile che cosa resta a una resistenza? Nei rari casi in cui il nemico si fa visibile i Talebani, nonostante l'incomparabile inferiorità negli armamenti, lo affrontano con classiche azioni di guerriglia com'è stata quella che è costata la vita ai quattro soldati italiani. Azione definita "vigliacca" dal ministro La Russa. Chi è vigliacco? Chi ci mette il proprio corpo e il proprio coraggio o chi stando fuori portata schiaccia un bottone e lancia un missile e uccide donne, vecchi, bambini, com'è avvenuto mille volte in questi anni ad opera soprattutto degli americani ma anche, quando è il caso, degli altri contingenti?

Nel 2001 in Afghanistan c'era Bin Laden che, con l'appoggio degli americani, si era introdotto nel Paese anni prima in funzione antisovietica. Ma Bin Laden cotituiva un problema anche per il governo talebano, tanto è vero che quando ne 1990 Bill Clinton propose ai Talebani di farlo fuori, il Mullah Omar, attraverso il suo numero due Waatki inviato appositamente a Washington dove incontrò due volte il presidente americano, si disse d'accordo purchè la responsabilità dell'assassinio del Califfo saudita se la prendessero gli americani perché Osama godeva di una vasta popolarità nel Paese avendo fatto costruire con i suoi soldi, ospedali, strade, ponti, infrastrutture, avendo fatto cioè quello che noi abbiamo detto che volevamo fare e non abbiamo fatto.

Ma Clinton, nonostante fosse stato il promotore dell'iniziativa, all'ultimo momento si tirò indietro. Tutto ciò risulta da un documento del Dipartimento di Stato americano dell'agosto 2005.

Comunque sia oggi Bin Laden non c'è più e in Afghanistan non ci sono più nemmeno i suoi uomini. La Cia, circa un anno fa, ha calcolato che su 50 mila guerriglieri solo 359 sono stranieri. Ma sono ubzechi, ceceni, turchi, cioè non arabi, non waabiti, non appartenenti a quella Jihan internazionale che odia gli americani, gli occidentali, gli "infedeli" e vuole vederli scomparire dalla faccia della terra. Agli afgani, e quindi ai Talebani, interessa solo il loro Paese. Il Mullah Omar, come scrive Jonathan Steel, inviato ed editorialista del Guardian nella sua approfondita inchiesta "La terra dei taliban" più che un leader religioso è un leader politico e militare. A lui (come ai suoi uomini) interessa solo liberare la propria terra dagli occupanti stranieri così come aveva già fatto combattendo, giovanissimo, contro i sovietici, rimediando la perdita di un occhio e quattro gravi ferite. E sarà pur lecito a un popolo o a una parte di esso esercitare il legittimo diritto di resistere ad un'occupazione straniera, comunque motivata. L'Afghanistan, nella sua storia, non ha mai aggredito nessuno (caso mai è stato aggredito: dagli inglesi, dai sovietici e oggi dagli occidentali) e armato rudimentalmente com'è non può costituire un pericolo per nessuno.

2) Per avere un'idea delle devastazioni di cui siamo responsabili in Afghanistan bisogna capire perché i Talebani vi si sono affermati agli inizi degli anni Novanta. Sconfitti i sovietici i leggendari comandanti militari che li avevano combattuti (i "signori della guerra"); gli Ismail Khan, i Pacha Khan, gli Heckmatjar, i Dostum, i Massud, diedero vita a una feroce guerra civile e, per armare le loro milizie, si trasformarono con i loro uomini in bande di taglieggiatori, di borseggiatori, di assassini, di stupratori che agivano nel più pieno arbitrio e vessavano in ogni modo la popolazione (un camionista, per fare un esempio, per attraversare l'Afghanistan doveva subire almeno venti taglieggiamenti). I Talebani furono la reazione a questo stato di cose. Con l'appoggio della popolazione che non ne poteva più, sconfissero i "signori della guerra", li cacciarono dal Paese e riportarono l'ordine e la legge nel Paese. Sia pur un duro ordine e una dura legge, quella coranica, che comunque non è estranea alla cultura e alla tradizione di quella gente come invece lo  per noi. In ogni caso la popolazione afgana dimostrò di preferire quell'ordine e quella legge al disordine e agli arbitri di prima.

a) Nell'Afghanistan talebano c'era sicurezza. Vi si poteva viaggiare tranquillamente anche di notte come mi ha raccontato Gino Strada che vi ha vissuto e vi ha potuto operare con i suoi ospedali anche se doveva continuamente contrattare con la sessuofobia dei dirigenti talebani che pretendevano una rigida separazione dei reparti a volte impossibile (medici e infermieri donne per i reparti femminili). Gli occidentali gli ospedali li chiudono come è avvenuto a Laskar Gah.

b) In quell'Afghanistan non c'era corruzione. per la semplice ragione che la spiccia ma efficace giustizia talebana tagliava le mani ai corrotti e, nei casi più gravi, anche un piede. Per la stessa ragione non c'erano stupratori. La carriera di leader del Mullah Omar comincia proprio da qui. Una banda aveva rapito due ragazze nel suo piccolo villaggio, Zadeh, a una ventina di chilometri da Kandahar, e le aveva portate in un posto sicuro per farne carne di porco. Omar, a capo di altri "enfants de pays", raggiunse il luogo, liberò le ragaze, sconfisse i banditi e ne fece impiccare il boss all'albero della piazza del Paese). Ancora oggi, nella vastissima realtà rurale dell'Afghanistan, la gente, per avere giustizia, preferisce rivolgersi ai Talebani piuttosto che alla corrotta magistratura del Quisling Karzai dove basta pagare per avere una sentenza favorevole.

c) Nel 1998 e nel 1999 il Mullah Omar aveva proposto alle Nazioni Unite il blocco della coltivazione del papavero, da cui si ricava l'oppio, in campio del riconoscimento internazionale del suo governo. Nonostante quella di boicottare la coltivazione del papavero fosse un'annosa richiesta dell'Agenzia contro il narcotraffico dell'Onu la risposta, sotto la pressione degli Stati Uniti, fu negativa. All'inizio del 2001 il Mullah Omar prese autonomamente la decisione di bloccare la coltivazione del papavero. Decisione difficilissima non solo perché su questa coltivazione vivevano moltissimi contadini afgani, a cui andava peraltro un misero 1% del ricavato totale, ma perché il traffico di stupefacenti serviva anche al governo talebano per comprare grano dal Pakistan. Ma per Omar il Corano, che vieta la produzione e il consumo di stupefacenti, era più importante dell'economia. Aveva l'autorità e il prestigio per prendere una decisione del genere. Una decisione così efficace che la produzione dell'oppio crollò quasi a zero (si veda il prospetto del Corriere della Sera 17/6/2006). Insomma il talebanismo era la soluzione che gli afgani avevano trovato per i propri problemi. Se poi, alla lunga, non gli fosse andata più bene vrebber rovesciato il governo del Mullah Omar perchè in Afghanistan non c'è uomo che non posssieda un kalashnikov. Noi abbiamo preteso, con un totalitarismo culturale che fa venire i brividi (per non parlare degli interessi economici) di sostituire a una storia afgana la storia, i costumi, i valori, le istituzioni occidentali. Con i seguenti risultati.

Sono incalcolabili le vittime civili provocate, direttamente o indirettamente dalla presenza delle truppe occidentali. Le stime dell'Onu non sono credibili perchè una recente inchiesta ha rilevato che in almeno 143 casi i comandi alleati hanno nascosto gli "effetti collaterali" provocati dai bombardamenti indiscriminati sui villaggi. Vorrei anche rammentare, in queste ore di pianto per i nostri caduti, che anche gli afgani e persino i guerriglieri talebani hanno madri, padri, mogli e figli che non sono diversi dai nostri. Inoltre in Afghanistan sono tornati a spadroneggiare i "signori della guerra" alcuni dei quali, i peggiori come Dostum, un vero pendaglio da forca, sono nel governo del Quisling Karzai.

La corruzione, nel governo, nell'esercito, nella polizia, nelle autorità amministrative è endemica. Ha detto Ashrae Ghani, un medico, terzo candidato alle elezioni farsa di agosto, il più occidentale di tutti e quindi al di sopra di ongi sospetto: «Nel 2001 eravamo poveri ma avevamo una nostro moralità. Questo profluvio di dollari che si è riversato sull'Afghanistan ha distrutto la nostra integrità e ci ha reso diffidenti gli uni verso gli altri».

Infine oggi l'Afghanistan "liberato" produce il 93% dell'oppio mondiale.

Ma c'è di peggio. Armando e addetrando l'esercito e la polizia del governo fantoccio di Karzai noi abbiamo posto le premesse, quando le truppe occidentali se ne saranno andate, per una nuova guerra civile, per "una afganizzazione del conflitto" come si dice mascherando, con suprema ipocrisia, la realtà dietro le parole. La sola speranza è che il buon senso degli afgani prevalga. Qualche segnale c'è. Ha detto Shukri Barakazai, una parlamentare che si batte per i diritti delle donne afgane: «I talebani sono nostri connazionali. Hanno idee diverse dalle nostre, ma se siamo democratici dobbiamo accettarle». Da un anno, in Arabia Saudita sotto il patrocinio del principe Abdullah, sono in corso colloqui non poi tanto segreti fra emissari del Mullah Omar e del governo Karzai. Ma prima di iniziare una seria trattativa ufficiale Omar, di fatto vincitore sul campo, pretende che tutte le truppe straniere sloggino. Non ha impiegato trenta dei suoi 48 anni di vita a combattere per vedersi imporre una "soluzione americana". E, come ha detto giustamente il comandante delle truppe sovietiche che occuparono l'Afghanistan: «Bisogna lasciare che gli afgani sbaglino da soli». Bisogna cioè rispettare il principio, solennemente sancito a Helsinki nel 1975 e sottoscritto da quasi tutti gli Stati del mondo, dell'autodeterminazione dei popoli.

E allora perché rimaniamo in Afghanistan e anzi il ministro della Difesa Ignazio La Russa, un ripugnante prototipo dell' "armiamoci e partite", vuole dotare i nostri aerei di bombe? Lo ha spiegato, senza vergognarsi, Sergio Romano sul Corriere del 10 ottobre: perché la lealtà all' "amico americano" ci darà un prestigio che potremo sfruttare nei confronti degli altri Paesi occidentali. Gli olandesi e i canadesi se ne sono già andati, stufi di farsi ammazzare e di ammazzare, per questioni di pretigio. Gli spagnoli, che hanno affermato che nulla gli interessa di meno, che portare la democrazia in Afghanistan, se ne andranno fra poco. Rimaniamo noi, sleali, perché fino a poco tempo fa abbiamo pagato i Talebani perché ci lasciassero in pace, ma fedeli come solo i cani lo sono. Gli Stati Uniti spendono 100 miliardi di dollari l'anno per qusta guerra insensata, ingiusta e vigliacchissima (robot contro uomini). L'Italia spende 68 milioni di euro al mese, circa 800 milioni l'anno. Denaro che potrebbe essere utilizzato per risolvere molte situzioni, fra cui quelle di disoccupazione o di sottoccupazione di alcune regioni da cui partono molti dei nostri ragazzi per guadagnare qualche dollaro in più e farsi ammazzare e ammazzare senza sapere nemmeno perché.

Massimo Fini

vendredi, 01 octobre 2010

L'Afghanistan, coeur géopolitique du nouveau grand jeu eurasiatique

L’Afghanistan, cœur géopolitique du nouveau grand jeu eurasiatique

Par Aymeric Chauprade

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Le nouveau grand jeu en Afghanistan n’est plus bipolaire. Il n’est plus la vieille opposition du XIXe siècle, dont on a tiré la formule de «Grand Jeu », entre l’Angleterre présente aux Indes et la poussée russe vers les mers chaudes ; il n’est pas plus réductible à l’opposition du XXe siècle entre les intérêts américains et russes.

Le nouveau grand jeu en Afghanistan est à l’image de la géopolitique mondiale : il est multipolaire.

Trois grandes puissances mondiales s’entrechoquent en Afghanistan : Etats-Unis, Russie, Chine. Deux puissances régionales s’y livrent ensuite, par délégation, une guerre féroce : Pakistan et Inde. Dans ces rivalités de premier ordre, interfèrent des intérêts de second ordre, mais qui peuvent influer fortement sur le jeu afghan : les intérêts de l’Iran, ainsi que ceux des républiques musulmanes indépendantes, ex-soviétiques (en particulier, pour des raisons à chaque fois spécifiques, l’Ouzbékistan, le Kirghizstan et le Turkménistan).

 

Combiné à ces rivalités géopolitiques classiques de trois ordres (rivalités identitaires, stratégiques, énergétiques), le jeu du fondamentalisme sunnite est également à prendre en compte. L’islamisme est un acteur global, une créature ancienne, mais réveillée et excitée durant les années 1980 et 1990 par les apprentis-sorciers américains et pakistanais de la CIA et de l’ISI (Inter Services Intelligence), au point de finir par échapper à l’autorité de ses maîtres, sans pour autant avoir complètement rompu avec eux.

Pour quelles raisons le grand jeu en Afghanistan est-il triangulaire ?

Tout d’abord, parce que les Etats-Unis veulent refouler d’Asie centrale au moins autant la Chine que la Russie.

Ensuite, parce que la Russie veut non seulement limiter l’influence de Washington dans ses ex-républiques musulmanes soviétiques aujourd’hui indépendantes, mais également empêcher la Chine de combler le vide que les Américains laisseraient s’ils s’avisaient de quitter l’Afghanistan. Car pour la Russie, l’influence de Pékin en Asie centrale, ce n’est pas la parenthèse artificielle d’une Amérique projetée trop loin de sa terre ; c’est la réalité implacable d’une histoire millénaire, celle des routes de la Soie.

Enfin, le grand jeu en Afghanistan est triangulaire, parce que la Chine ne sera la première puissance géopolitique mondiale que lorsqu’elle aura chassé la flotte américaine du Pacifique et que ses trains rapides atteindront les rivages de l’Atlantique, en France, après avoir parcouru des milliers de kilomètres à travers l’Asie centrale et les plaines d’Europe.

Les Etats-Unis tentent aujourd’hui d’éliminer une force, les Talibans, qu’ils ont contribué à amener au pouvoir à Kaboul en 1997, avant de les en déloger en 2001.

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Les Talibans sont l’aboutissement ultime d’une stratégie de radicalisation des mouvements islamistes, entamée à la fin des années 1970 par l’ISI soutenu par la CIA, au profit d’un triple djihad : contre les chiites pakistanais menacés par l’influence de la Révolution islamique iranienne, contre les communistes pro-russes en Afghanistan, contre les Indiens dans le Cachemire.

Après que des seigneurs de la guerre afghans soient devenus, comme résultat de cette stratégie, à la fois des seigneurs du djihad et de la drogue (lire l’encadré [1] pour comprendre l’importance essentielle du « facteur drogue »), et que les Soviétiques aient reflué (1989), les Américains se sont aperçus que leur société pétrolière UNOCAL n’arriverait jamais à tendre un gazoduc, du Turkménistan au Pakistan, à travers un territoire afghan tribalisé, rançonné par des clans en lutte pour le contrôle du pouvoir politique et de l’héroïne.

Leurs amis pakistanais de l’ISI, également agacés de ne pouvoir contrôler des chefs de guerre féodaux turbulents, ont alors suggéré les Talibans comme solution. Des fanatiques absolus, essentiellement issus de l’ethnie majoritaire d’Afghanistan, les Pachtouns (ethnie divisée par la ligne Durand de 1893, qui deviendra la frontière entre Afghanistan et Pakistan), décidés à imposer la chape de plomb d’un « islam pur des origines », au-dessus des clans, et qui présentaient l’avantage, aux yeux du gouvernement démocrate de William Clinton qui les soutint dès 1994, d’être une solution d’ordre et un interlocuteur unique avec lequel négocier le passage des hydrocarbures.

Puis les Américains se sont fâchés avec les Talibans en 1998, un an après leur arrivée, et c’est ainsi que s’est nouée l’alliance entre les Talibans et Oussama Ben Laden, semble-t-il également fâché depuis lors avec la CIA.

En 2001, en se projetant en Afghanistan, et pour cela également en Ouzbékistan et au Kirghizstan, quels avantages géopolitiques Washington pouvait-il attendre ?

A ce moment, le Groupe de Shanghaï, constitué par les Chinois et les Russes, coopérait fortement dans la lutte contre le terrorisme islamiste, mais également dans le domaine énergétique. L’irruption des Etats-Unis brisa cette dynamique eurasiatique et contribua à repousser la Chine pour quelques années.

Aujourd’hui, la Chine est revenue en force. Elle est, depuis 2009, à la fois le premier partenaire commercial de l’Asie centrale ex-soviétique et le premier fournisseur de l’Iran, devant l’Allemagne qui l’avait été ces vingt dernières années. Or, Moscou n’entend pas voir les Américains remplacés par les Chinois.

Quelle est alors la stratégie des Russes ? Laisser les Américains contenir l’islamisme en Afghanistan, mais devenir incontournables pour eux, stratégie identique à celle suivie sur le dossier nucléaire iranien. D’où le soutien officiel de la Russie aux opérations de l’OTAN en Afghanistan ; d’où, également, l’accord russo-américain de transit aérien de juillet 2009, qui, à mi-avril 2010, avait permis d’acheminer 20 000 militaires occidentaux en Afghanistan (en théorie, l’accord autorise une moyenne de 12 vols américains par jour mais, un an après, la moyenne n’est que de 2).

Pour Moscou, obliger les Américains à passer par la Russie, revient à les chasser de sa périphérie musulmane.

Le 7 octobre 2001, les Etats-Unis avaient signé un accord antiterroriste avec Tachkent (l’Ouzbékistan partage une longue frontière avec l’Afghanistan). Les bases aériennes et l’espace aérien du pays le plus peuplé de l’Asie centrale ex-soviétique leur étaient ouverts. Un an plus tard, le 5 décembre 2002, Washington prenait pied également au Kirghizstan grâce à la base de Manas. Mais en 2005, après la répression d’Andijan (une région turbulente à l’est du pays, où les islamistes sont forts), et refusant l’ingérence démocratique américaine, les Ouzbeks décidaient de se tourner de nouveau vers la Russie (et la Chine) et contraignaient l’armée américaine à plier bagages.

Aujourd’hui, la base de Manas au Kirghizstan et son corridor de 1500 km par voie terrestre jusqu’en Afghanistan, constitue la seule base arrière solide pour les Américains. Environ 35 000 soldats transitent entre Manas et l’Afghanistan chaque mois. La base assure aussi le ravitaillement en vol des avions militaires et apporte beaucoup de sang (100 kg en moyenne chaque nuit, par des vols entre Manas et Kandahar).

Mais les Russes admettent difficilement cette implantation. Le 23 octobre 2003, le président Poutine inaugurait une base aérienne russe de soutien à Kant, à quelques kilomètres de la base américaine.

Ces dernières années, les Kirghizes, conscient de l’immense valeur stratégique de cette base pour la réussite des opérations en Afghanistan, ont fait monter les enchères entre Moscou et Washington. En 2009, les Russes qui avaient sans doute reçu des assurances, ont versé 2 milliards de dollars sous forme de prêt sans intérêt au Kirghizstan ; non seulement le président Bakiev n’a pas fermé la base, mais il a accepté la présence américaine pour une année supplémentaire, en échange d’un triplement du loyer. Le Kirghize a payé sa crapulerie par son renversement début avril 2010, sans doute avec l’appui discret des Russes.

Quelques jours plus tard, les Américains étaient autorisés à rester un an de plus à Manas. Désormais, cela dépend davantage de Moscou. C’est une donnée essentielle.

Plus le temps passe, moins l’action américaine en Afghanistan ne peut se faire en contournant les Russes. C’est, pour Moscou, une assurance devant la montée des Chinois en Asie centrale ex-soviétique.

On oublie que la Russie est le premier pays à avoir soutenu Washington, le lendemain du 11 septembre 2001, dans son action globale contre le terrorisme islamiste. Poutine ne cherchait pas seulement, comme on l’a dit, l’assurance de ne plus être gêné par les critiques occidentales sur la Tchétchénie. Il cherchait un partenariat équilibré avec Washington face à la montée de Pékin, [partenariat] qui eût été possible si Washington n’avait pas étendu l’OTAN jusqu’aux portes de la Russie en 2002, installé dans la périphérie de Moscou des gouvernements proaméricains (Révolutions colorées de Géorgie en 2003, d’Ukraine en 2004) et convaincu d’anciens pays soviétisés (République tchèque et Pologne) d’accepter un bouclier anti-missiles sur leur sol.

Aujourd’hui, la donne est redevenue favorable aux Russes : si les Américains ont reculé sur le bouclier antimissile, c’est qu’ils ont besoin des Russes sur l’Afghanistan et l’Iran, et qu’ils ont aussi perdu l’Ukraine.

Ce que craignent Washington comme Moscou en Asie centrale, dans une perspective de plus longue durée, va au-delà du retour d’un islamisme fort : c’est la domination de la Chine. Investissant dans les hydrocarbures et l’uranium du Kazakhstan, dans le gaz du Turkménistan, construisant des routes pour exporter ses productions vers le Tadjikistan et le Kirghizstan, la Chine est devenue le premier partenaire commercial de l’Asie centrale ex-soviétique en 2009.

Washington est au moins autant en Afghanistan dans le cadre de sa vaste stratégie globale de contrôle de la dépendance énergétique chinoise et d’encerclement de l’Empire du Milieu (voir notre article dans le n°2 de la NRH, sept. Oct. 2002 : « Comment l’Amérique veut vaincre la Chine », que les années passées ont confirmé), que dans sa lutte contre un islamisme devenu incontrôlable.

La Chine a son Turkestan, le Xinjiang, avec sa minorité turcophone ouïghour que les Etats-Unis tentent d’agiter. Elle ne peut relier sans risque son Turkestan à l’ex-Turkestan russe, qu’à la condition de jouir d’une influence politique et économique forte dans le second. Ainsi, ni l’Afghanistan, ni l’Asie centrale ex-soviétique ne risqueraient d’être des bases arrière du séparatisme ouïghour. Ainsi, son grand projet de « China’s Pan-Asian railway », ces routes de la Soie du XXIe siècle, qui mettraient Londres à deux jours de train de Pékin deviendrait possible avant 2025 [2].

En 2006, dans un pays sous tutelle américaine, la Chine n’a pas hésité à investir 3 milliards de dollars dans la mine de cuivre d’Aynak, une des plus grandes du monde. En 2010, les présidents chinois Hu Jintao et afghan Hamid Karzaï ont signé d’importants accords économiques et commerciaux et l’Afghan a commencé à menacer les Américains de se tourner vers Pékin, alors que ceux-ci critiquaient la manière dont l’élection présidentielle s’était déroulée.

L’intérêt de la Chine pour l’Afghanistan ne peut qu’aller croissant, depuis qu’Hamid Karzaï a annoncé (le 30 janvier 2010) ce que les Américains savaient depuis longtemps : « les gisements d’hydrocarbures d’Afghanistan valent sans doute plus d’un millier de milliards de dollars », en plus des gisements de cuivre, de fer, d’or, de pierres précieuses, qui restent non exploités. Ainsi, l’Afghanistan n’est plus seulement une route stratégique pour le désenclavement des richesses ; il est aussi un territoire riche en ressources stratégiques.

La Chine n’est pas la seule future superpuissance à regarder vers l’Afghanistan. Depuis la chute des Talibans en 2001, l’Inde a engagé 1,3 milliards de dollars dans la reconstruction de l’Afghanistan, soit dix fois plus que la Chine ; cela fait de New Delhi le premier donateur de la région (signe politique fort : le nouveau Parlement afghan a été financé par l’Inde).

Si les Etats-Unis se retiraient d’Afghanistan, l’Inde pourrait devenir l’allié du régime afghan face aux Talibans. C’est le cauchemar du Pakistan qui, sous pression américaine, doit réduire ses créatures fondamentalistes. L’ISI a façonné des groupes fanatiques pour massacrer l’Indien dans le Cachemire et il est probable que les attentats graves qui ont frappé les intérêts indiens à Kaboul (en 2007 et 2009 contre l’ambassade) soient encouragés par le service pakistanais, lequel s’emploie à pousser l’Inde hors de l’Afghanistan.

Sans l’Afghanistan, le Pakistan a encore moins de profondeur stratégique, ce qui est déjà sa faiblesse face à l’Inde (le déficit en puissance conventionnelle du Pakistan expliquant sa doctrine nucléaire de première attaque). Islamabad a donc comme priorité stratégique absolue d’empêcher la formation d’une alliance stratégique Kaboul-New-Delhi.

L’Inde et le Pakistan, qui se sont fait trois guerres depuis l’indépendance de 1947, mènent une nouvelle guerre par procuration en Afghanistan. La stratégie d’inflammation du rapport entre les deux voisins, menée par les groupes pakistanais les plus radicaux (attentats de Bombay en 2008 et de nombreux autres depuis), a fonctionné.

L’ISI ne peut plus contrôler les monstres qu’il a créés. Et d’ailleurs, comment pourrait-il expliquer à ses monstres de continuer à massacrer les Indiens dans le Cachemire et en Afghanistan, et de se calmer en même temps contre les « mécréants occidentaux» ? Les systèmes politiques reviennent toujours à leurs gènes. Or l’islam radical est au cœur du génome pakistanais.

Cet islam du Pachtounistan (terre des Pachtouns, à cheval sur l’Afghanistan et le Pakistan, notamment les fameuses zones tribales) menace l’équilibre régional et peut-être même au-delà. Il est certain que si les Etats-Unis se désengageaient maintenant, un autre acteur majeur serait contraint de s’engager, dans le but de prévenir le double risque de basculement de l’Afghanistan et du Pakistan (pays doté de l’arme nucléaire) dans les mains d’un régime sunnite fanatique. On voit mal les Russes revenir, ne reste que l’Inde. Mais que ferait alors le Pakistan, si les troupes indiennes débarquaient en force sur le territoire afghan ?

L’Inde a besoin d’une Asie centrale stable, pour satisfaire ses besoins énergétiques. Deux routes d’alimentation essentielles s’offrent à elle : le gazoduc IPI (Iran Pakistan Inde), qui lui amènera du gaz iranien provenant du gisement géant de South Pars dans le Golfe Persique (le Pakistan, après des années d’hésitation a fini par signer en mars 2010 le projet de pipe) ; et le fameux gazoduc TAPI (Turkménistan, Afghanistan, Pakistan, Inde) voulu par UNOCAL, un tuyau lui-même raccordé vers l’Ouest aux autres « routes américaines » (celles qui concurrencent le réseau russe), le corridor transcaspien et le BTC (Bakou Tbilissi Ceyhan).

Les Etats-Unis, qui soutiennent depuis longtemps ce projet de pipe vers l’Inde et l’Asie du Sud-est, depuis le Turkménistan et à travers l’Afghanistan et le Pakistan, veulent absolument doubler l’Iran et empêcher le régime chiite de devenir incontournable pour l’Asie (Chine, Japon, Inde) ; ils n’ont pas pu empêcher le Pakistan de signer l’IPI avec l’Iran, car ils ont besoin de la coopération d’Islamabad dans la lutte contre les Talibans. Ils sont par ailleurs empêchés de réaliser le TAPI, à cause de la situation sécuritaire en Afghanistan.

L’Iran (en plus de la Chine) est bien l’une des cibles que les Américains veulent atteindre depuis l’Afghanistan. Les accusations américaines concernant une hypothétique collaboration entre Téhéran et les Talibans se sont multipliées en 2009 et 2010. Ainsi, l’amiral américain Mullen a parlé (fin mars 2010) de fournitures d’armes et d’entraînement militaire par les Pasdarans. On sait que les Américains remuent aussi le séparatisme baloutche (le peuple baloutche est à cheval sur l’Est de l’Iran, le Sud de l’Afghanistan et l’Ouest du Pakistan) contre Téhéran.

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L’intérêt réel des Iraniens est-il de voir les Talibans triompher en Afghanistan ? Certainement pas. Mieux vaut un Afghanistan infecté, dans lequel les Américains s’engluent sans jamais l’emporter (d’où la possibilité d’éventuels coups de pouce dosés aux Talibans), plutôt que l’installation d’un régime sunnite radical, violemment anti-chiite, à Kaboul. Les intérêts iraniens et pakistanais se rejoignent, d’une certaine manière, dans l’idée suivante : « une bonne dose de Talibans, mais pas trop, de sorte que les Américains restent là où ils sont aujourd’hui ».

Cependant, rien ne prouve que l’Iran aide les Talibans. Pour accuser Téhéran, les Américains s’appuient sur des déclarations de Talibans qui se sont vantés de cette aide. Mais nonobstant même le problème de l’incompatibilité idéologique entre Iraniens et Talibans, on peut imaginer que ces Talibans qui ont intérêt à ce que les Américains ouvrent un second front en Iran, s’amusent à mettre de l’huile sur le feu…

On le voit, nombreuses sont les puissances qui ont intérêt à ce que les Américains restent en Afghanistan sans jamais l’emporter vraiment : Russes, Chinois, Iraniens, Pakistanais, Indiens même. Dans ces conditions, il n’est plus certain que les Américains et les Européens qui les suivent mènent une guerre pour leurs intérêts propres.

En réalité, aucune victoire durable n’est possible en Afghanistan, sans une transformation profonde du Pakistan lui-même. Or, en se démocratisant, le Pakistan a ouvert d’immenses perspectives aux fondamentalistes (contrairement aux régimes anti-islamistes forts d’Asie centrale ex-soviétique). En toute logique, une arme nucléaire qui existe déjà et qui est susceptible de tomber dans les mains de Talibans devrait inquiéter davantage Washington, qu’une arme qui n’existe pas dans les mains d’Iraniens bien plus pragmatiques que les islamistes pachtouns et finalement potentiellement capables d’équilibrer… le danger nucléaire pakistanais.

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Notes :

[1] Cet encadré est manquant dans l’article original, reproduit ici (Note de Fortune).

[2] Ce projet de train à grande vitesse traversant l’Eurasie à travers Asie centrale doit relier 17 pays reliés suivant 3 routes différentes et au total 81 000 km 1/ la route du Sud allant de Kunming sur les contreforts du Tibet en Chine jusqu’à Singapour à travers l’Asie du Sud Est 2/ la route de l’Europe depuis Urumqi (capitale du Xinjiang) jusqu’à l’Allemagne, à travers l’Asie centrale 3/ la route de l’Europe du Sud enfin, depuis Heilongjiang au nord est de la Chine jusqu’à l’Europe du Sud Est à travers la Russie.

Aymeric Chauprade est professeur de géopolitique, directeur de la Revue Française de géopolitique et du site www.realpolitik.tv. Il est l’auteur de l’ouvrage de référence «Géopolitique, constantes et changements dans l’histoire», éd. Ellipses.

Realpolitik.tv

lundi, 23 août 2010

Le fondamentalisme islamiste en Afghanistan et au Pakistan

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Robert STEUCKERS :

Le fondamentalisme islamiste en Afghanistan et au Pakistan

 

Extrait d’une conférence tenue à Genève au « Cercle Proudhon » en avril 2009 et à la tribune de « Terre & Peuple » (Flandre-Hainaut-Artois)

 

Quand le pouvoir royal afghan de Zaher Shah a cédé devant les modernisateurs précommunistes puis communistes, qui firent appel à l’intervention civile puis militaire de l’URSS, l’Afghanistan perdait sa neutralité, son statut d’Etat tampon entre la masse territoriale soviétique du temps de la Guerre Froide, héritière volens nolens de la masse territoriale de l’empire tsariste. En perdant cette qualité d’Etat tampon, de zone neutralisée, l’Afghanistan abandonnait le destin que lui avaient imposé les accords de Yalta et les dispositions anglo-russes antérieures de 1842 et de 1907, suite aux guerres anglo-afghanes et aux accords anglo-russes sur le partage en zones d’influence du territoire persan. La Russie, en vertu de ces accords de 1907, ne pouvait pas dépasser la ligne Téhéran-Kaboul. L’URSS, en franchissant cette ligne et en occupant le réseau routier afghan au Sud de Kaboul, enfreignait ces règles et entamait ainsi une guerre larvée contre les Etats-Unis et la Grande-Bretagne, très soucieux de maintenir le statu quo ante.

 

Pour répondre au défi que représentait l’Armée Rouge au sud de Kaboul, les stratégistes américains et britanniques ont mis en œuvre la tactique de l’ « insurgency », préconisée par Zbigniew Brzezinski, théoricien d’un plan plus vaste : les puissances anglo-saxonnes, et plus particulièrement la thalassocratie américaine, devaient non seulement chasser les Soviétiques d’Afghanistan, les éloigner de l’Océan Indien, mais aussi leur contester la maîtrise de l’Asie centrale, dont le territoire avait servi de tremplin à toutes les tentatives russes d’avancer en direction de l’Inde et de l’Océan Indien. Pour mettre en œuvre l’insurrection afghane destinée à épuiser l’Armée Rouge dans le guêpier que deviendra le massif de l’Hindou Kouch, les services anglo-saxons créeront de toutes pièces le mouvement des « moudjahidines », recrutés dans les tribus afghanes mais aussi dans tous les pays musulmans et dans la diaspora arabe (10.000 volontaires). Ces « moudjahidines » seront formés par le MI6 britannique et commandés par des « Seigneurs de la Guerre », des « Warlords », comme Dostan ou Massoud. Le gros des troupes proviendra de l’ethnie pachtoune, ethnie guerrière de langue indo-européenne. Ces combattants pachtounes et ces « moudjahidines » venus de tous les coins du monde islamique recevront des armes américaines et britanniques modernes, dont des missiles « Blowpipes » et « Stingers » (ces derniers étant à tête chercheuse). Jusqu’en 1992, le « Warlord » Hekmatyar recevra l’appui des Saoudiens et des Américains et ses troupes seront flanquées des pré-talibans, dans les rangs desquels Ben Laden servira d’intermédiaire saoudien. Il est le disciple d’un frère musulman palestinien formé en Egypte et replié sur Peshawar au Pakistan, dans ce que l’on appelle aujourd’hui la zone tribale pachtoune le long de la frontière afghane. Les pré-talibans, les réseaux saoudiens mâtinés de frères musulmans installés à Peshawar obtiennent rapidement le soutien des services secrets pakistanais, le fameux ISI.

 

Les « moudjahiddines » d’Hekmatyar ont donc précédé sur la scène afghane les talibans de Ben Laden. Celui-ci n’est pas le créateur de cette milice de croyants radicaux : la paternité de ce mouvement militant et armé revient au général pakistanais Naseerullah Babar. Le raisonnement de ce militaire et stratégiste pakistanais était le suivant : le Pakistan procède, dès sa création lors de la partition de l’Inde en 1947, de la tradition islamique radicale dite « déobandiste », issue de musulmans expulsés d’Inde. Le déobandisme n’a jamais cessé, au cours de l’histoire pakistanaise, d’exciter les esprits ; pour le Général Babar, il convient de recycler les têtes brûlées du déobandisme dans la Djihad, tout à la fois en Inde, et plus particulièrement au Cachemire, et en Afghanistan, puisque les Saoudiens et les Américains demandent du personnel pour une insurrection locale contre les Soviétiques ou les pouvoirs prosoviétiques en place après le départ de l’Armée Rouge. Cette disposition va dans le sens des intérêts géopolitiques du Pakistan : en effet, depuis la partition de 1947, Islamabad est préoccupé par l’absence de réelle profondeur stratégique du Pakistan face à son ennemi héréditaire indien. Si le Général Babar, par la stratégie qu’il propose aux Américains, peut ajouter la zone de peuplement pachtoune de l’Afghanistan au territoire pakistanais, il obtient ipso facto cette profondeur stratégique qui manque à son pays. Telles sont les raisons nationales qui ont poussé les services pakistanais à soutenir le projet d’insurgency, voulu par Brzezinski, et à créer une force islamiste, financée par des capitaux saoudiens, sur le territoire pakistanais. L’objectif était certes de diffuser un islam fondamentaliste mais consistait surtout à élargir l’espace stratégique pakistanais à la zone pachtoune de l’Afghanistan.

 

Dans le cadre de la guerre pour les hydrocarbures et leur acheminement, qui constitue la véritable raison de toutes les conflictualités entre les Balkans et l’Indus, les services du Général Babar et les talibans de Ben Laden sont les alliés des pétroliers américains d’UNOCAL contre leurs concurrents argentins de BRIDAS. Cette alliance durera jusqu’en 1998. A partir de ce moment-là, les talibans cessent brusquement, dans la propagande occidentale, d’être de « courageux combattants de la liberté », des « Freedom Fighters », et deviennent en un tournemain des « obscurantistes ». Des voix interpellent même brutalement l’allié officiel pakistanais : le Pakistan devient le « craddle of terror », le « berceau de la terreur ».

 

Mais était-ce une nouveauté ? Non. Naseerullah Babar était depuis longtemps déjà un obsédé de l’Afghanistan. Son rêve était de fusionner les deux pays pour avoir une profondeur géographique suffisante pour défier l’Inde. Effectivement, l’histoire nous enseigne que l’Inde est à la merci d’un ennemi extérieur qui tient les territoires du Pakistan et de l’Afghanistan actuels. C’était vrai à la veille des invasions indo-européennes de l’Inde à la protohistoire ; c’était vrai au temps de Mahmoud de Ghazni ; c’était vrai à la veille des invasions mogholes. En 1973, Mohammed Daoud renverse Zaher Shah et instaure un régime moderniste, porté par une gauche anti-islamique et « pan-pachtoune ». Daoud et les siens rêvent d’un grand Pachtounistan, réunissant les zones tribales pachtounes de l’Afghanistan et du Pakistan. L’intégrité territoriale pakistanaise est dès lors en danger et l’idéal d’une plus grande profondeur stratégique, face à l’Inde, battu en brèche. Un certain Rabbani, accompagné de deux étudiants, Hekmatyar et Massoud, se rend au Pakistan et obtient l’accord d’Ali Bhutto pour tenir, contre le nouveau pouvoir progressiste de Daoud, la vallée du Panshir. Cette menace intimide Daoud qui évitera dorénavant d’évoquer trop bruyamment l’idéal d’un grand « Pachtounistan ».  C’est alors que Naseerullah Babar présente Hekmatyar et Massoud à l’ambassadeur américain en poste au Pakistan. Nous sommes en 1979 : l’alliance entre les « moudjahiddines » et les services pakistanais et américains vient de naître.

 

Mais l’idylle est interrompue par les vicissitudes violentes de la vie politique pakistanaise. Le Général Zia ul-Haq prend le pouvoir à Islamabad. Ali Bhutto est condamné à mort et pendu. Naseerullah Babar est jeté en prison. Mais Zia ul-Haq accepte que les Américains protègent et arment le poulain de Babar, Hekmatyar, qui devient le principal représentant des « moudjahiddines ». Cette situation dure jusqu’en 1988. Cette année-là, les troupes soviétiques quittent l’Afghanistan et restituent ipso facto la situation qui existait avant leur entrée dans le pays. L’URSS ne franchit plus la ligne Téhéran-Kaboul. Elle n’est plus en contradiction avec les accords de Yalta et les modi vivendi anglo-russes de 1842 et 1907. Zia ul-Haq est tué, en même temps que l’ambassadeur américain, dans un attentat. Plus de témoins ! Et on met alors en selle la propre fille d’Ali Bhutto, Benazir Bhutto. En coulisses ressuscite le plan pakistanais d’absorber l’Afghanistan, de se doter ainsi d’une profondeur stratégique face à l’Inde et d’avoir un accès plus direct aux richesses d’Asie centrale. Ce plan, issu des cogitations de Babar, prévoit la construction d’un oléoduc d’UNOCAL. Pour le réaliser, il faut une provocation. L’ISI va la créer de toutes pièces. Une colonne de camions se dirige vers les Turkménistan mais une milice la bloque à hauteur de Kandahar. Aussitôt, téléguidés par l’ISI, le mollah Omar et les talibans prennent cette localité clef du territoire afghan. Nous sommes à un moment de l’histoire tragique de l’Afghanistan où convergent les intérêts d’UNOCAL (donc des Etats-Unis), du Pakistan et des talibans. Une fois Kandahar pris, les talibans marchent sur Kaboul, pour éliminer un pouvoir jugé trop « moderniste » et trop favorable à la Russie. Mais, coup de théâtre, Benazir Bhutto parie sur BRIDAS et non plus sur UNOCAL : on ne l’assassine pas, on ne la pend pas à un gibet comme son père mais on la fait tomber pour « corruption », avant de la remettre en selle, pour démontrer qu’il existe une alternance de pouvoir, même au Pakistan, et de la faire assassiner en pleine rue et en pleine campagne électorale. A la suite de l’éviction violente de Benazir Bhutto, Nanaz Sharif prend le pouvoir, renoue avec UNOCAL. Son successeur Musharraf sera sommé d’arrêter tout soutien aux talibans. Depuis ces événements, le Pakistan est une poudrière instable qui fragilise dangereusement les positions des Etats-Unis et de l’OTAN en Afghanistan.   

 

Ces vicissitudes de l’histoire afghane et pakistanaise démontrent que le fondamentalisme islamiste et son expression la plus virulente, les talibans, sont une pure création des services, voire un golem qui leur échappe et prend parfois des formes inattendues, et hostiles aux Etats-Unis, dans les pays musulmans et dans les diasporas musulmanes d’Europe et d’ailleurs.

 

Robert STEUCKERS.

 

vendredi, 20 août 2010

Nouvelle Revue d'Histoire n°49: en kiosque!

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En kiosque !

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mercredi, 18 août 2010

Les Etats-Unis modifient leur stratégie en Afghanistan

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Bernhard TOMASCHITZ :

 

Les Etats-Unis modifient leur stratégie en Afghanistan

 

A partir de 2014, le gouvernement afghan devra lui-même assurer la sécurité sur son propre territoire. Cette intention a été confirmée au Président Hamid Karzai fin juillet 2010, lors de la Conférence internationale sur l’Afghanistan, tenue à Kaboul. Dès l’été 2011, les premières troupes américaines quitteront le pays, ce qui, d’après les paroles d’Hillary Clinton, ministre américaine des affaires étrangères, constituera « le commencement d’une phase nouvelle de notre engagement et non sa fin ». En fin de compte, les Etats-Unis entendent participer, après le retrait de leurs troupes, à la formation des forces afghanes de sécurité.

 

Le Président américain Barack Obama cherche ainsi à se débarrasser du vieux fardeau afghan, hérité de son prédécesseur George W. Bush, juste avant les présidentielles de 2012. Mais derrière les plans de retrait hors d’Afghanistan, que l’on concocte aux Etats-Unis, se profile le constat que la guerre dans ce pays, qui dure maintenant depuis neuf ans, ne pourra pas être gagnée. A cela s’ajoute le coût très élevé de cette guerre, qui se chiffre à quelque 100 milliards de dollars par an. Une telle somme ne peut plus raisonnablement s’inscrire désormais dans le budget américain, solidement ébranlé. Richard N. Haass, Président du très influent « Council of Foreign Relations » (CFR) tire la conclusion : « Nous devons reconnaître que cette guerre a été un choix et non pas une nécessité ». Il y a surtout que le coût militaire de l’entreprise est trop élevé, dans la mesure où elle mobilise des ressources qui, du coup, manquent en d’autres points chauds. Haass cite, dans ce contexte, l’Iran et la Corée du Nord, deux Etats étiquetés « Etats voyous », qui se trouvent depuis longtemps déjà dans le collimateur de Washington.

 

Si les Etats-Unis se retirent du théâtre opérationnel de l’Hindou Kouch, l’Afghanistan, ébranlé par la guerre, n’évoluera pas pour autant vers des temps moins incertains. Ensuite et surtout, les Etats-Unis ne disposent pas de moyens adéquats pour trancher le nœud gordien afghan, constitué d’un entrelacs très compliqué de combattants talibans, de divisions ethniques et de structures claniques traditionnelles. Il y a ensuite le voisin pakistanais, disposant d’armes nucléaires, qui est tout aussi instable que l’Afghanistan. Rien que ce facteur-là interdit aux Etats-Unis de laisser s’enliser l’Afghanistan dans un chaos total. D’après Haass, « les deux objectifs des Etats-Unis devraient être les suivants : empêcher qu’Al Qaeda ne se redonne un havre sécurisé dans les montagnes afghanes et faire en sorte que l’Afghanistan ne mine pas la sécurité du Pakistan ». C’est pourquoi, malgré le retrait annoncé, on peut être certain que des troupes américaines demeureront en permanence en Afghanistan, fort probablement en vertu d’un accord bilatéral qui sera signé entre Washington et Kaboul. Les Américains, finalement, n’ont que fort peu confiance en les capacités du Président afghan Karzai, homme corrompu, qui, au cours des années qui viennent de s’écouler, n’a pu assurer sa réélection que par une tricherie de grande envergure.

 

La situation en Afghanistan et aussi en Irak indique aujourd’hui qu’il y a changement de stratégie à Washington, comme l’atteste les nouvelles démarches des affaires étrangères américaines. Hier, nous avions les « guerres préventives » pour généraliser sur la planète entière les principes de la « démocratie libérale » ; les cénacles et les « boîtes à penser » des néo-conservateurs les avaient théorisées. Aujourd’hui, nous assistons à un retour à la Doctrine Nixon. Richard Nixon, Président des Etats-Unis de 1969 à 1974, après le désastre du Vietnam, avait parié, surtout en Asie, sur le renforcement des économies des pays alliés et sur le soutien militaire à leur apporter. Aujourd’hui, le ministre de la défense américain Robert Gates déclare « qu’il est peu vraisemblable que les Etats-Unis répètent bientôt un engagement de l’ampleur de celui d’Afghanistan ou d’Irak, pour provoquer un changement de régime et pour construire un Etat sous la mitraille ». Mais parce que le pays doit faire face à toutes sortes de menaces, en premier lieu celle du terrorisme, l’efficacité et la crédibilité des Etats-Unis doivent demeurées intactes aux yeux du monde. Ces réalités stratégiques exigent, dit Gates, que le gouvernement de Washington améliore ses capacités à consolider les atouts de ses partenaires. Il faudra donc, poursuit-il, « aider d’autres Etats à se défendre eux-mêmes et, si besoin s’en faut, de lutter aux côtés des forces armées américaines, dans la mesure où nous aurons préparé leurs équipements, veillé à leur formation et apporté d’autres formes d’assistance à la sécurité ».  Gates justifie aussi le changement de stratégie comme suit : l’histoire récente a montré que les Etats-Unis ne sont pas prêts de manière adéquate à affronter des dangers nouveaux et imprévus émanant surtout d’Etats dits « faillis ».

 

L’Afghanistan recevra donc une « assistance à la sécurité », mais on peut douter qu’elle enregistrera le succès escompté. Toutefois la nouvelle stratégie américaine nous montre que Washington n’est pas vraiment prêt à renoncer à ses visées hégémoniques. En effet, l’armement d’alliés et de partenaires, en lieu et place de l’envoi de troupes propres, offre un grand avantage : les moyens peuvent être utilisés de manière beaucoup plus diversifiée. En fin de compte, il y a, dispersés sur l’ensemble du globe, bon nombre de pays qui peuvent être mobilisés pour faire valoir les intérêts américains. Exemples : la Colombie, pour tenir en échec le Président vénézuélien Hugo Chavez, ennemi des Etats-Unis ; ou les petits émirats du Golfe Persique pour constituer un avant-poste menaçant face à l’Iran. Comme l’exprime le ministre des affaires étrangères Gates : « Trouver la manière d’améliorer la situation qu’adoptera ensuite le gouvernement américain pour réaliser cette tâche décisive, tel est désormais le but majeur de notre politique nationale ».

 

Bernhard TOMASCHITZ.

(article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°30/2010 ; http://www.zurzeit.de/ ).

mercredi, 28 juillet 2010

Stecken von der NATO gedeckte Drogenkriege hinter der jüngsten Instabilität in Kirgisistan?

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Stecken von der NATO gedeckte Drogenkriege hinter der jüngsten Instabilität in Kirgisistan?

F. William Engdahl / ex: http://info-kopp.verlag.de/

 

Angeblich stehen die jüngsten ethnischen Zusammenstöße in Kirgisistan in Verbindung mit Drogenkriegen zwischen rivalisierenden ethnischen Gruppen. Bei den gewalttätigen Auseinandersetzungen im Süden der ehemals sowjetischen zentralasiatischen Republik Kirgisistan sind vermutlich Tausende ums Leben gekommen.

 

 

 

In der südwestlichen Stadt Osch, der ethnischen Machtbasis des gestürzten kirgisischen Präsidenten und Drogenbosses Kurmanbek Bakijew, war es Ende vergangenen Monats zu Kämpfen zwischen ethnischen usbekischen und kirgisischen Gruppen gekommen. Wenn es dabei tatsächlich um Drogen ging, dann würde dies in das in meinen früheren Beiträgen beschriebene geopolitische Szenario passen, wonach die NATO und Washington versuchen, vermittels des afghanischen Heroinhandels Chaos und Instabilität zu verbreiten. Mit Taliban oder Terrorismus hat das nichts zu tun, sondern vielmehr mit Washingtons geopolitischem Plan, China, Russland und indirekt Westeuropa, besonders Deutschland, unter seine Herrschaft zu unterwerfen.

Die Gewalt, die am 11. Juni in Bakijews Heimatbasis Osch ausbrach, wirkt sich unmittelbar auf das strategische Fergana-Tal aus, der Heimat des Islamic Movement of Uzbekistan (IMU), einer Gruppe, die, wie ich in der Serie Warum Afghanistan darlege, eigentlich nichts weiter ist als eine als islamische Kämpfer verkleidete Drogenbande. Es wird vermutet, dass die CIA und andere westliche Geheimdienste verdeckt die IMU unterstützen, um über dieses Vehikel die NATO-Präsenz in der geopolitisch strategischen Region auszudehnen.

Zahlreichen Berichten zufolge hat die Familie Bakijews, des ehemaligen Präsidenten von Washingtons Gnaden, der 2005 durch die von den USA unterstützte »Tulpen-Revolution« an die Macht gekommen war, den lukrativen Heroinhandel von Afghanistan nach Russland und Westeuropa beherrscht. Als er im Frühjahr dieses Jahres durch einen sehr komplexen Putsch der Opposition gestürzt wurde, hinterließ er ein Machtvakuum im Drogengeschäft, das andere Banden nun anscheinend mit Gewalt ausfüllen wollten.

 

Opium-Geopolitik

Klar ist, dass die Massaker von Osch weitreichende geopolitische Konsequenzen haben werden. Washington fordert eine UN-»Friedenstruppe« für das Land – ganz im Sinne des längerfristigen Plans, die militärische Präsenz der NATO in der Region des Fergana-Tals und in Afghanistan zu rechtfertigen.

Wie aus UN-Berichten hervorgeht, ist die militärische Präsenz der USA seit der US-Invasion in Afghanistan im Jahr 2001 – angeblich mit dem Ziel, Osama bin Landen zu fangen – mit einer beispiellosen Ausweitung der afghanischen Opiumproduktion einhergegangen. Heute stammen 93 Prozent des weltweit gehandelten Heroins aus afghanischem Opium. Als die USA vor neun Jahren in das Land einmarschierten, hatten die Taliban die Opiumproduktion fast völlig ausgerottet. Erst kürzlich hat Botschafter Richard Holbrooke, der amerikanische Sondergesandte für Afghanistan, angekündigt, die USA würden den (völlig erfolglosen, ist man versucht zu sagen) Versuch einstellen, das Opium auszurotten, da dieses, wie er sagte, die kleinen Bauern von den USA »entfremden« würde. Wir mir afghanische Quellen versichern, hat die fortgesetzte Truppenpräsenz der USA und der NATO schon heute die Mehrheit der Menschen in Afghanistan entfremdet.

Tatsächlich besteht die US-Politik im Krieg, sowohl unter dem vor wenigen Tagen entlassenen Stanley McChrystal als auch unter dem neuen US-Befehlshaber General Petraeus aus Counter Insurgency (Aufstandsbekämpfung), COIN, oder wie ich in meinem Aufsatz Warum Afghanistan? Teil II: Washingtons Kriegsstrategie in Zentralasien beschreibe, aus »friedenssichernden Maßnahmen«, d.h. der Strategie, Krieg und Instabilität zu verbreiten, um die verstärkte NATO-Präsenz gegenüber der Welt als »Friedenssicherung« in der Region zu rechtfertigen. Das Pentagon strebt die Vorherrschaft im wichtigen zentralasiatischen Raum an, um auf diesem Weg China, Russland, Zentralasien und den Iran beherrschen zu können. Wie schon bei der CIA und den US-Streitkräften während des Vietnamkriegs Anfang der 1970er Jahre, so wird auch hier der illegale Drogenhandel zum geopolitischen Werkzeug, um Terror und Instabilität zu verbreiten und einen Vorwand für die verstärkte US-Truppenpräsenz zu schaffen, um »die Lage zu stabilisieren«.

Die Invasion des Westens nach Afghanistan im Jahr 2001 hat das Land einerseits zu einer nicht versiegenden Quelle für den weltweiten Drogenhandel und andererseits zum Ausgangspunkt um sich greifender Instabilität gemacht. Momentan erfasst diese den gesamten post-sowjetischen zentralasiatischen Raum, der Putsch in Kirgisistan und das Massaker von Osch waren nur einzelne Szenen eines größeren Dramas. Zu den vorrangigen Zielen des afghanisch-kirgisischen Drogenhandels zählt Russland; nach Berichten gut platzierter asiatischer Quellen wird das Heroin aus Afghanistan und amerikanischem militärischen Schutz über den amerikanischen Luftwaffenstützpunkt Manas in Kirgisistan nach Russland geflogen und geht über Kosovo weiter an westeuropäische Drogenhändler.

Der Chef der Russischen Drogenbekämpfungsbehörde Viktor Iwanow hat kürzlich erklärt: »Die vorliegenden Beweise sprechen eindeutig dafür, dass die frühere kirgisische Führung den Drogenhandel im Lande unter ihrer Kontrolle hatte, was anderen Drogenbaronen ein Dorn im Auge war, die sich um ihren Anteil am Gewinn betrogen fühlten. «

Laut Iwanow sind vermutlich bis zu 500 Drogenlabors in Afghanistan an der Produktion von Drogen beteiligt, die dann nach Russland verschickt werden. Im vergangenen Jahr haben die russischen Behörden den USA eine Liste von »Marken« übergeben, die auf Labors in Afghanistan hindeuteten. »Diese... Labors haben Drogen auf russisches Hoheitsgebiet geliefert«, so Iwanow. Russland ist seit der amerikanischen Besetzung von Kabul ein vornehmliches geopolitisches Ziel des Heroinflusses aus Afghanistan. Nach Angaben der russischen Drogenbekämpfungsbehörde fordert afghanisches Opium Jahr für Jahr das Leben von ca. 30.000 Menschen in Russland. Insgesamt wird die Zahl der Todesopfer durch afghanisches Heroin in den letzten zehn Jahren auf 250.000 bis 300.000 geschätzt.

Antonio Maria Costa, der Direktor des UN-Büros für Drogen- und Verbrechensbekämpfung, bezeichnet die Lage im afghanischen Drogengeschäft als »totalen Sturm, bei dem sich Drogen- und kriminelle Aktivität mit einem Aufstand verbinden. « Der Drogenhandel, der jahrelang auf das Grenzgebiet zwischen Afghanistan und Pakistan beschränkt gewesen war, breitet sich nun über ganz Zentralasien aus. Wie Costa warnt, wäre ohne drastisches Einschreiten ein Großteil Eurasiens mit seinen großen Energiereserven verloren, das Epizentrum der Instabilität verschöbe sich von Afghanistan nach Zentralasien. Genau das ist nun zufällig die Strategie des Pentagon. Die scheinbar konfuse US-Politik dient auch als Deckmantel, unter dem die Entsendung weiterer NATO-Truppen und die Ausweitung des Konflikts gerechtfertigt werden.

Russland schlägt vor, eine Gemeinsame Sicherheits-Organisation in Khorog, der Hauptstadt der Autonomen Provinz Gorno-Badachschan in Tadschikistan, einzurichten, von der aus eine berüchtigte Drogenroute nach Norden verläuft. Bislang haben sich Washington und die NATO zu diesem Vorschlag nicht geäußert.

 

Ahmed Wali Karzai gilt als Boss des afghanischen Heroinhandels

Zurzeit besteht der offizielle Plan der USA darin, die Verantwortung für die Drogenbekämpfungsmaßnahmen der afghanischen Verwaltung zu übertragen, wobei westliche Vertreter inoffiziell zugeben, dass die afghanische Regierung eigentlich völlig funktionsunfähig ist. Der Bruder des afghanischen Präsidenten Hamid Karzai, der Gouverneur der größten Opiumprovinz Helmland, ist laut New York Times der Drogenboss Afghanistans und erhält Geld von der CIA.

Aufgrund der strategischen Lage Afghanistans erlaubt es die militärische Präsenz der USA und der NATO, gleichzeitig Druck auf Russland, China und die wichtigen Ölexporteure Iran, Saudi-Arabien, Irak sowie die Atommacht Pakistan auszuüben. NATO-Militärstützpunkte in Afghanistan können ohne Schwierigkeiten in eine Kampagne gegen den Iran eingebunden werden. Der russische Präsident Medwedew hat soeben die russische »Strategie zur Drogenbekämpfung bis 2020« unterzeichnet, in der die Bildung eines Sicherheitsgürtels um Afghanistan herum gefordert wird, um so den Nachschub von Opiaten aus dem Land zu stoppen. Es bestehen wenig Chancen, dass sich die NATO oder Washington an einer solchen Strategie beteiligen. Ihr Ziel ist dem russischen entgegengesetzt: sie wollen die militärische Dominanz der NATO in ganz Zentralasien. Für Petraeus bedeutet Opium dabei nur eine wichtige strategische Waffe. Deutsche und andere NATO-Soldaten setzen ihr Leben aufs Spiel oder sterben gar für den Schutz dieser Opiumrouten.

 

dimanche, 11 juillet 2010

CIA-Geheimbericht: Deutsche öffentlichkeit soll für Afghanistan-Krieg manipuliert werden

CIA-Geheimbericht: Deutsche Öffentlichkeit soll für Afghanistan-Krieg manipuliert werden

Udo Schulze

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Mit gezielten Maßnahmen in Presse, Funk und Fernsehen will der amerikanische Geheimdienst »CIA« in Deutschland für eine höhere Akzeptanz des Afghanistan-Krieges sorgen. Das geht aus einem geheimen Bericht der »CIA« hervor, der KOPP Online vorliegt. In dem Dossier wird ein Abzug der Bundeswehr aus Afghanistan befürchtet, weil der politische Druck aus der Bevölkerung stetig wachse. Deswegen soll künftig mit der Angst der Deutschen Stimmung gemacht werden.

 

 

 

 

Ein blutiger Sommer in Afghanistan, so die Verfasser der Studie, könnte in Deutschland aus den Krieg passiv ablehnenden Bürgern aktive machen. Diese »offene Feindschaft« gelte es zu verhindern, denn heutige Apathie könne schon morgen zur Opposition führen, die sich durch Demonstrationen, Streiks und Wahlentscheidungen zeige. Bestes Beispiel dafür sei der Vorfall von Kunduz im September vergangenen Jahres, bei dem unter Leitung eines deutschen Offiziers mehrere Dutzend afghanische Zivilisten durch einen Bombenangriff ums Leben gekommen waren. Das habe die Ablehnung des Krieges innerhalb der deutschen Bevölkerung drastisch verstärkt. Deswegen schlagen die Autoren der CIA vor dafür zu sorgen, dass in hiesigen Medien verstärkt Meldungen Verbreitung finden, in denen die angeblich negativen Folgen eines Bundeswehr-Abzugs dargestellt werden. Den Deutschen müsse klargemacht werden, dass in diesem Fall ihre ureigensten Interessen berührt würden, es zu einer Flut afghanischer Drogen in deutschen Städten käme und der Terrorismus zwischen Flensburg und Garmisch überborden würde. Nahezu angewidert stellt die CIA in dem Papier fest, in Deutschland herrsche »eine Allergie gegen bewaffnete Konflikte«.

 

 

So soll frei nach dem Prinzip »Zuckerbrot und Peitsche« die öffentliche Meinung zum Krieg am Hindukusch nicht nur mit Schreckensmeldungen manipuliert werden. Auch der großen Popularität Barack Obamas hierzulande wollen sich die Strategen aus der CIA-Zentrale in Langley zunutze machen. Immerhin genieße seine Außenpolitik in Deutschland zu 90 Prozent Zustimmung, heißt es. Auf dieser Grundlage müsse der Krieg der deutschen Bevölkerung als notwendig vermittelt werden. Zudem haben sich die Schlapphüte aus den USA die deutschen Frauen als Zielgruppe ihrer Propaganda ausgesucht. Da der Gedanke der Emanzipation in der Bundesrepublik weite Verbreitung genieße, sei es unumgänglich, den Krieg nach außen hin zu humanisieren, indem afghanische Frauen in deutschen Medien über ihre durch den Konflikt erworbenen Rechte berichteten. Gleichzeitig sollen die Repressionen, unter denen sie bei den Taliban litten, sowie ihre Angst vor einem erneuten Erstarken dieser Gruppe hervorgehoben werden.

 

Nach Angaben der Deutschen Presse Agentur (DPA) ist am Freitag in der nordafghanischen Stadt Kunduz ein Deutscher bei einem Selbstmordattentat ums Leben gekommen. Der Mann arbeitete für eine private Sicherheitsfirma und befand sich im Gebäude einer Firma, die mit einer staatlichen US-Hilfsorganisation kooperiert. DPA zufolge hatten sechs Attentäter das Haus angegriffen, wobei auch zwei afghanische Zivilisten getötet und weitere 22 verletzt wurden.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

vendredi, 02 juillet 2010

Bush-Krieger Petraeus soll es richten

Bush-Krieger Petraeus soll es richten

Wolfgang Effenberger

 

Patraeus-Afghanistan-Pakistan-1-theater.jpgAuf Wunsch von US-Präsident Barack Obama musste der bisherige Afghanistan-Befehlshaber Stanley McChrystal seinen Hut nehmen. Grund waren despektierliche Äußerungen des Generals über die Administration in Washington. Nachfolger wurde General David Petraeus. Brisant, denn das von ihm verfasste Feldhandbuch gilt als radikalste Militärdoktrin der Gegenwart. Nun muss er sich auf den Pulverfässern von Irak und Afghanistan beweisen.

 

 

 

US-Präsident Barack Obama feuerte nach einem Vier-Augen-Gespräch im Oval Office am 23. Juni 2010 seinen Afghanistan-Befehlshaber Stanley McChrystal wegen dessen »höhnischer Bemerkungen« über die Washington-Administration.

Die kritischen Äußerungen sind in einem Porträt über McChrystal im US-Musikmagazin Rolling Stone enthalten (1). Unter dem Titel »The Runaway General« (übersetzt »Der abtrünnige General«) werden abfällige Bemerkungen des Generals über einige Top-Mitarbeiter der Obama-Administration wiedergegeben.

 

Mit scharfer Kritik wurden Vizepräsident Joe Biden, der US-Botschafter in Kabul, Karl Eikenberry, Obamas Sicherheitsberater James Jones sowie der Sonderbeauftragte für Afghanistan und Pakistan, Richard Holbrook, überzogen. Letzteren hält McChrystal für einen Wichtigtuer, dessen E-Mails er als lästig empfand. In Jones sieht der geschasste General einen Clown, dessen Weltsicht zum Jahr 1985 passt, während er sich von Eikenberry verraten fühlt. Für Vizepräsident Joe Biden blieb nur Spott: »Bite me« (Auf Deutsch: »Leck mich«). Schon im vergangenen Herbst hatte McChrystal die Anti-Terror-Strategie von Biden als »kurzsichtig« bezeichnet. Sie würde in ein »Chaos-Istan« führen. Und Barack Obama selbst? »Uninteressiert« und »uninformiert« – so McChrystals Einschätzung nach dem ersten zehnminütigen Treffen zwischen dem Afghanistan-Kommandeur und seinem Oberbefehlshaber. Besonders enttäuschend empfand es McChrystal, dass der Präsident und Oberbefehlshaber nichts über seine Person gewusst und sich auch nicht sonderlich engagiert gezeigt habe.

 

Was mag diesen spartanischen General, den zähen Ausdauersportler und ehemals loyalen Feldkommandeur Obamas bewegt haben?

 

Wie tief mussten also die Meinungsverschiedenheiten zwischen der Politik in Washington und der Armeeführung in Kabul sein, dass ein Vier-Sterne-General diesen Weg wählt, um auf den Bruch aufmerksam zu machen? Was sagt uns das über den Zustand der Mission in Afghanistan und Pakistan?

 

Die Despektierlichkeiten waren für den Präsidenten eine außerordentliche Herausforderung durch einen militärischen Führer – jedoch noch vor der Grenze zur Insubordination: Das US-Magazin stellt den General als einsamen Kämpfer dar, der sich von den Entscheidern in Washington alleingelassen fühlt. Das hätte den Präsidenten zum Nachdenken anregen müssen.

 

McChrystal hatte erst im Juni vergangenen Jahres den Oberbefehl über die westlichen Truppen in Afghanistan übernommen. Seinen Vorgänger, General David McKiernan, hatte die Regierung gefeuert, weil sie mit dessen Strategie nicht zufrieden war.

 

Binnen Minuten präsentierte Obama als Nachfolger für den gefeuerten ISAF-Kommandeur keinen geringeren als dessen Vorgesetzten, General David Petraeus, bis dato Befehlshaber des wichtigsten US-Regionalkommandos CENTCOM! 

Flankiert von Vizepräsident Joe Biden, Verteidigungsminister Robert Gates und Admiral Mike Mullen, Vorsitzender der Joint Chiefs of Staff, erklärte Obama diesen Schritt im Rosengarten des Weißen Hauses: »Aber Krieg ist größer als jeder Mann und jede Frau, größer als ein Gefreiter, ein General oder ein Präsident …« (2). Anschließend forderte Obama den Senat auf, die Ernennung von Petraeus zügig zu bestätigen: »Dies ist eine Änderung in der Personalentwicklung, es ist aber keine Veränderung der Politik«, betonte Obama.

Von Personalentwicklung kann jedoch keine Rede sein. Wie groß müssen die Schwierigkeiten sein, wenn kein geeigneter ISAF-Kommandeur aufgebaut werden kann und sich Obama des Befehlshabers von CENTCOM bedienen muss? Militärisch gesehen ist dies für Petraeus ein Abstieg und für Obama ein Offenbarungseid.

Nun soll Petraeus seinen irakischen Lorbeeren noch afghanische hinzufügen.

Im Irak-Krieg kommandierte er die 101. Luftlandedivision und begann nach der Zerschlagung des Regimes von Saddam Hussein, die neuen irakischen Sicherheitskräfte aufzustellen und auszubilden (3).

In die Vereinigten Staaten zurückgekehrt, übernahm er am 20. Oktober 2005 das Kommando über das US Army Combined Arms Center (CAC). Während dieser Zeit war er für die Erstellung des Feldhandbuchs FM 3-24 zuständig. Eine der Autoren des Handbuchs ist die Anthropologin Montgomery McFate, Schöpferin des vom Pentagon initiierten Programms »Operationssystem der Feldhumanforschung« und Beraterin des Verteidigungsministeriums. McFate zeichnet sich durch ihre Parteinahme aus, mit der sie die enge Zusammenarbeit zwischen Anthropologen und Militärs in asymmetrischen Kriegen, die Verletzung der elementarsten Menschenrechte und der grundlegendsten Prinzipien der UNO, rechtfertigt. Sie konnte die Counterinsurgency-Strategen davon überzeugen, dass die Anthropologie eine wirkungsvollere Waffe als die Artillerie sein kann.

 

Am 5. Oktober 2007 veröffentlichte die New York Times einen Artikel von David Rohde über die Überlegung von US-Militärs einer neuen entscheidenden Waffe in den Aufstandsbekämpfungsoperationen: »eine mit Anthropologen und anderen Gesellschaftswissenschaftlern ausgestattete Mannschaft zum permanenten Einsatz in den Kampfeinheiten der US-Besatzungstruppen in Afghanistan und im Irak« (4). Rohde berichtet, dass diese einzigartige Verwicklung der Gesellschaftswissenschaften in die Kriegsanstrengungen der USA ein erfolgreiches experimentelles Programm des Pentagons darstellt. Dieses Programm wurde, als es im Februar 2007 begann, vehement von den Kommandierenden des Kriegsschauplatzes empfohlen. Im September desselben Jahres autorisierte der Verteidigungsminister Robert M. Gates einen zusätzlichen Posten über 40 Millionen Dollar, um jeder der 26 Brigaden in den beiden erwähnten Ländern ähnliche Gruppen zuzuweisen.

 

Diese offene Komplizenschaft der Hochschulkreise mit den Militärs rief bei unabhängigen US-Intellektuellen eine Welle der Kritik hervor. Sie verurteilten die Mitarbeit der Hochschullehrer bei diesem Handbuch, das zur Verfolgung, Folter und Ermordung von Menschen bestimmt ist, und das der militärischen Besatzung von Ländern in den »dunklen Winkeln der Welt« dient, in denen die USA ihre Interessen durchsetzen wollen.

 

Seither gilt das Feldhandbuch FM 3-24 als Richtlinie der US Army für die »Aufstandsbekämpfung« (counterinsurgency). In dieser Doktrin sieht die Bundeswehr die radikalste Militärdoktrin der Gegenwart (5). Sie stellt viele traditionelle Paradigmen der US-Kriegsführung auf den Kopf und liefert gleichwohl auch eine praxisorientierte und detaillierte Handlungsanweisung. In ihm manifestiert sich das Konzept von US-General David Petraeus, wonach der Sicherheit und dem Wohlstand der Zivilbevölkerung im Einsatzland die höchste Priorität einzuräumen ist – so die Einschätzung der Bundeswehr. 

Vom 10. Februar 2007 bis zum 16. September 2008 versuchte dann Petraeus als Kommandeur der Multi-National Force Iraq (MNF-I) diese Doktrin umzusetzen. Jedoch nicht vollkommen – wie die letzten großen Anschläge im Irak beweisen. Ebenso verfolgte McChrystal in Afghanistan diese Counterinsurgency-Strategie. Danach sollen die alliierten Truppen nur zurückhaltend »tödliche Gewalt« anwenden, also etwa auch die Zivilbevölkerung bedrohende Luftschläge anfordern. Aber auch hier blieben die Erfolge aus. Dafür eskalierten die Verluste.

 

So erschütterte am 10. Mai 2010 die bisher schwerste Anschlagsserie des Jahres den Irak. Über 100 Menschen starben bei Attentaten in mehreren irakischen Städten, rund 350 wurden zum Teil schwer verletzt. Die Anschläge reihen sich ein in eine Phase erhöhter Gewalt im Umfeld der am 7. März stattgefundenen Parlamentswahlen.

 

In dieser Situation sind die Erwartungen an Petraeus besonders hoch. Vor allem für Obama. Denn noch ist nicht klar, wie viel von der Affäre an ihm hängen bleibt.

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Anmerkungen

(1) Michael Hastings: »The Runaway General«, in Rolling Stone, 22. Juni 2010, S. 1, unter www.rollingstone.com/politics/news/17390/119236

This article appears in RS 1108/1109 from July 8-22, 2010, on newsstands Friday, June 25

 

(2) Jennifer Loven / Anne Gearan: »General McChrystal Relieved Of Command: Obama Takes General Off Top Afghan Post«, in Huffington Post, 23. Juni 2010

 

(3) Damit erhielt er als Erster das Kommando über das Multi National Security Transition Command Iraq.

 

(4) David Rhode: »Army Enlists Anthropology in War Zones«, in The New York Times, 5. Oktober 2007, unter www.nytimes.com/2007/10/05/world/asia/05afghan.html

 

(5) Bundeswehr, unter

 

http://www.readersipo.de/portal/a/sipo/kcxml/04_Sj9SPykssy0xPLMnMz0vM0Y_QjzKLN7KI9zUJBslB2f76kZiixsFIokEpqfre-r4e-bmp-gH6BbmhEeWOjooA2cvujg!!/delta/base64xml/L2dJQSEvUUt3QS80SVVFLzZfMjhfTTVI?yw_contentURL=/01DB131300000001/W27UUB6G987INFODE/content.jsp

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

mardi, 22 juin 2010

L'US Army à la chasse au trésor afghan

L’US Army à la chasse au trésor afghan

Le Pentagone a découvert un nouveau « Klondike » en Afghanistan. Près de 1 000 milliards de dollars seraient enfouis dans le sous-sol du pays, ce qui en ferait un géant minier d’une taille comparable à celle de l’Australie.

 

Minéraux en Afghanistan (cliquez sur la carte pour l'agrandir)

 

 

 

Depuis longtemps, les géologues russes et américains avaient identifié d’importantes richesses minières en Afghanistan. Dans ses rapports annuels sur les pays, l’US Geological Survey (USGS) avait listé les minerais présents en abondance dans ce pays : cuivre, or, minerai de fer, marbre, nickel, soufre, talc… Toutefois, Chin S. Kuo, le responsable de l’étude, notait que l’absence d’infrastructures, de main-d’œuvre qualifiée, sans oublier les problèmes non résolus de sécurité, interdisaient pour le moment l’exploitation de ces richesses.

 

 

 

Selon l’étude de l’USGS, les réserves cuprifères (prouvées et possible) du pays atteindraient 60 millions de tonnes (Mt). Une fraction des 3 milliards de tonnes possible, probable et vérifiée estimées par l’USGS, dans le monde. Celles, prouvées de minerai de fer s’établiraient à 2,2 milliards de tonnes. Une quantité respectable, mais limitée en comparaison des 160 milliards de tonnes estimées par l’organisme américain ou des 20 milliards de tonnes détenues par l’Australie. Les réserves du pays avaient également été examinées dans une enquête du Mining Journal publiée en 2006.

 

Activité « artisanale », le secteur primaire afghan ne produit annuellement pas plus de 150 000 tonnes de charbon, 50 000 tonnes de ciment, 7 000 tonnes de chromite, 20 000 barils de pétrole brut et 50 millions de mètres cubes de gaz naturel. Seul gisement de grande taille, la mine de cuivre d’Aynak dans la province de Logar a été attribuée en 2007 à l’entreprise chinoise China Metallurgical Group, pour une durée de 30 ans. Pour obtenir ce contrat, MGC a dû verser plus de 3 milliards de dollars, un milliard de plus que n’étaient prêts à verser les grands mineurs internationaux.

 

Outre les métaux ferreux et les métaux de base, l’Afghanistan dispose également d’importantes réserves de métaux mineurs dit stratégiques : tantale, niobium, béryllium, ainsi que de lithium sous plusieurs formes.

 

Malgré leur richesse, ces gisements n’étaient jusqu’à présent pas identifiés à hauteur de 908 milliards de dollars, comme le décrit un mémo du Pentagone cité par le New York Times. « Il y a là un extraordinaire » potentiel, a surenchéri le général David Petraeus, commandant en chef des troupes des Etats-Unis en Afghanistan. Affirmant avoir utilisé des documents datant de l’occupation soviétique, l’Etat-major n’hésite pas à reprendre les superlatifs, recyclant l’expression « Arabie Saoudite du lithium », pour en affubler l’Afghanistan.

 

 

Interrogée par le Washington Post, Stephanie Sanok, qui travaille sur ce type de question pour l’Ambassade des Etats-Unis en Irak, a rappelé que si « tout le monde est au courant », de la richesse minière du pays, « il n’y a aucun moyen de l’atteindre ». Pour Craig Sainsbury, un analyste de Citigroup qui a récemment effectué une évaluation des plus grandes mines du monde, l’estimation du Pentagone, qui mettrait l’Afghanistan au niveau de l’Australie, est bien trop élevée. De plus, évaluer la valeur d’un gisement sans poser la question des coûts de production n’a pas de sens. Particulièrement énergivore, l’extraction minière serait extrêmement difficile dans un pays dont la production d’électricité est au niveau des Iles Féroé.

 

La richesse minière potentielle de l’Afghanistan pourrait aussi bien l’aider à stabiliser son économie, qu’accentuer la guerre civile en cours. « Nous pouvons aussi bien devenir un nouveau Congo, qu’un Botswana ou un Chili », a commenté un ancien ministre des Finances afghan, Ashraf Ghani.

 

En janvier dernier, le Wall Street Journal expliquait que « le ministère des Mines est considéré comme l’un des départements les plus corrompus du gouvernement ». Les concessions sont attribuées en fonction des pots-de-vin et non des intérêts du pays, souligne le quotidien de Wall Street, mettant en cause l’attribution d’Aymak. Reconnaissant la difficulté à réunir les capitaux nécessaires à l’exploitation du cuivre ou du minerai de fer, l’USGS et le Département de la Défense tentent d’identifier les projets qui ne nécessitent pas autant de capitaux.

 

L’usine nouvelle

 

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D’autres articles sur le sujet :

 

L’Afghanistan disposerait de gigantesques réserves de minerais, dont du lithium

 

Des géologues américains ont découvert en Afghanistan de gigantesques réserves de minerais, dont du cuivre et du lithium, évaluées à plusieurs milliards de dollars, a rapporté lundi le New York Times.

 

Ces gisements, qui comprendraient également du fer, de l’or, du niobium et du cobalt, seraient suffisants pour faire de ce pays ravagé par la guerre un des premiers exportateurs mondiaux de minerais, ont estimé des responsables de l’administration américaine cités par le journal.

 

Les seules réserves de lithium de l’Afghanistan seraient ainsi comparables à celles de la Bolivie, détenteur des premières réserves mondiales, selon le New York Times.

 

Le lithium est un composant indispensable des batteries rechargeables, utilisé pour les téléphones et les ordinateurs portables ainsi que pour les automobiles électriques.

 

L’Afghanistan pourrait ainsi devenir « l’Arabie saoudite du lithium« , selon une note interne du Pentagone citée par le journal.

 

De même, les réserves de fer et de cuivre seraient susceptibles de faire de l’Afghanistan un des principaux producteurs mondiaux, selon les responsables cités par le journal

 

« Il y a là-bas un potentiel stupéfiant« , a déclaré au journal le général David Petraeus, chef d’Etat-major général, selon qui toutefois « il y a bien sûr beaucoup de ’si’ « . « Mais je pense que, potentiellement, c’est d’une immense portée« , a-t-il ajouté.

 

« Cela deviendra l’ossature de l’économie afghane« , a estimé pour sa part Jalil Jumriany, conseiller du ministère afghan des Mines, cité par le journal.

 

La découverte a été faite par une petite équipe de géologues et responsables du Pentagone, en s’appuyant sur les cartes et les données collectées par les experts miniers soviétiques durant l’occupation par l’URSS de ce pays durant les années 1980.

 

Les géologues afghans avaient caché chez eux pour les mettre à l’abri ces documents après le retrait de l’URSS, avant de les ressortir en 2001 après la chute des talibans.

 

« On avait les cartes, mais il n’y eu pas de suite, parce qu’on a eu 30 à 35 ans de guerre« , a déclaré Ahmad Hujabre, un ingénieur afghan qui travaillait au ministère des Mines dans les années 1970.

 

Selon le journal, le président Hamid Karzaï a été récemment informé de ces découvertes par un responsable américain.

 

Les Echos

 

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Du lithium pour les batteries en Afghanistan

 

Depuis 2001, les Américains cherchent désespérément Oussama Ben Laden dans les montagnes afghanes mais voilà que leurs efforts pourraient être récompensés. Si le riche Saoudien est toujours introuvable, en revanche, des géologues travaillant pour l’armée US viennent de découvrir que le sous-sol d’Afghanistan regorgeait de richesse en tous genres.

 

Outre le cuivre, le colbat, l’aluminium et l’or, ils auraient trouvé un important gisement de lithium, équivalent à celui de la Bolivie, actuellement premier fournisseur de ce métal.

 

Les esprits chagrins se demandent sans doute ce que viennent faire ces considérations minières au coeur d’un site consacré à l’actualité des télécoms. Les plus aguerris d’entre vous auront cependant fait le rapprochement : le lithium est un des principaux composants des batteries modernes, celles-là même qui alimentent les terminaux les plus performants du type iPhone.

 

On se souvient d’ailleurs qu’en 2008, d’inquiétants cas d’auto-combustion d’iPod nano s’étaient déclarés et qu’en août 2009 un iPod Touch avait explosé dans un jardin anglais. Dans chacun de ces cas, la batterie lithium-ion des appareils avait été incriminée. On imagine alors ce que les Talibans pourraient faire avec de telles quantités de lithium sous leurs pieds.

 

DegroupNews

 

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Les réserves minières, une vaste opération de com’

 

Le 14 juin, The New York Times annonçait en une que les Etats-Unis avaient découvert de vastes gisements miniers en Afghanistan. En fait, cette information, connue depuis longtemps, apparaît pour l’armée américaine comme un moyen de justifier sa présence sur le terrain.

 

S’il n’était pas signé James Risen – ce grand reporter du New York Times est actuellement en conflit avec l’administration Obama, qui exige qu’il divulgue l’identité de ses sources -, l’article paru le lundi 14 juin à la une du quotidien : « U.S. Identifies Vast Riches of Minerals in Afghanistan » [Les Etats-Unis découvrent de vastes richesses minières en Afghanistan] aurait suscité une bonne dose de scepticisme. D’autant qu’une simple recherche sur Google fait apparaître un certain nombre d’articles plus anciens contenant des informations identiques.

 

L’administration Bush avait conclu en 2007 que l’Afghanistan était potentiellement assis sur de vastes réserves de minerais et que cet élément devait être pris en compte dans la politique américaine de soutien au gouvernement de Kaboul. Les Soviétiques étaient déjà au courant en 1985, comme le montre une histoire économique de la région depuis 2002 sur le site de l’Institut de technologie de l’Illinois : « L’Afghanistan possède des réserves d’une grande variété de minerais, notamment du fer, du chrome, du cuivre, de l’argent, de l’or, du talc, du magnésium, du mica, du marbre et du lapis-lazuli. Dès 1985, des études soviétiques signalaient également la présence de réserves potentiellement intéressantes d’amiante, de nickel, de mercure, de plomb, de zinc, de bauxite, de lithium et de rubis. Au milieu des années 1980, le gouvernement afghan s’apprêtait à exploiter à grande échelle certaines de ces ressources avec le soutien technique des Soviétiques. La priorité était donnée aux vastes réserves de fer et de cuivre du pays.« 

 

Selon un ancien haut responsable du département d’Etat américain, des discussions sur la meilleure façon d’exploiter ces ressources à l’avenir étaient déjà en cours entre Washington et le gouvernement Karzaï dès 2006. Et, en 2009, le gouvernement afghan a commencé à lancer des appels d’offres pour divers projets d’exploitation minière.

 

La façon dont l’information a été présentée – avec des citations du général David Petraeus en personne, commandant des forces américaines en Afghanistan et en Irak, et de Paul Brinkley, promu pour l’occasion au poste de vice-ministre de la Défense – laisse penser à une vaste opération de communication visant à influencer l’opinion publique à propos de la guerre. En effet, comme le savent ceux qui ont lu les travaux du géographe américain Jared Diamond sur le déterminisme géographique, un pays possédant de vastes ressources en minerai tend vers la stabilité, pourvu qu’il soit doté d’un gouvernement central fort et stable.

 

Dans son article, Risen souligne que la découverte de ces réserves tombe à pic. Il parle notamment des réserves de lithium, un métal essentiel dans l’industrie électronique. Un haut fonctionnaire, lui, dit que l’Afghanistan pourrait devenir « l’Arabie Saoudite du lithium« , en référence à l’or noir qui a fait la richesse du royaume.

 

Le sentiment général qui prévaut aux Etats-Unis et ailleurs dans le monde à propos de la guerre est que la stratégie américaine de contre-insurrection n’a pas réussi à asseoir le gouvernement Karzaï dans les régions hostiles. Et que cette stratégie est vouée à l’échec. Pour les théoriciens et les stratèges du Pentagone, ce n’est pas ainsi que les choses devaient tourner.

 

Quel meilleur moyen de rappeler aux gens – par « gens », je veux dire les Chinois, les Russes, les Pakistanais et les Américains – que le pays est promis à un avenir radieux que de diffuser ou rediffuser des informations valables mais déjà connues sur la richesse potentielle de la région ?

 

L’administration Obama et les militaires américains savent parfaitement qu’un article en une du New York Times attirera instantanément l’attention du monde. L’information est exacte, mais elle n’est pas si nouvelle que cela. Il faut s’interroger sur le contexte dans lequel intervient une telle révélation.

 

La « découverte » américaine fait sourire les Russes et saliver les Afghans

 

« Les cartes soviétiques ont aidé le Pentagone à trouver beaucoup de choses utiles en Afghanistan« , souligne le quotidien gouvernemental russe Rossiskaïa Gazeta à propos de la découverte de gisements miniers par des géologues américains dont fait état l’article du New York Times.

 

Il ne restait « plus qu’à se rendre sur place et à vérifier les données » collectées par les géologues soviétiques et archivées à la bibliothèque de Kaboul, écrit la presse russe. « Mille milliards de dollars en perspective« , titre le journal, en référence au montant auquel sont évaluées les réserves en minerai, notant que, comme en Irak avec le pétrole, c’est l’appât du gain qui motive les Américains en Afghanistan.

 

« Le mythe de l’Eldorado sert souvent à justifier l’expansion impériale. Les grandes puissances se persuadent souvent qu’il faut qu’elles contrôlent tel ou tel territoire éloigné parce qu’il est censé regorger d’or, de diamants, de pétrole, etc., et qu’un contrôle physique s’avère essentiel pour préserver l’accès à ces richesses« , rappelle le professeur de relations internationales Stephen Walt sur le site Internet du bimestriel américain Foreign Policy, qui a amplement commenté la « découverte » américaine.

 

En Afghanistan, le webzine Afghan Paper se réjouit de cette découverte, mais redoute un pillage des ressources, notamment en lithium, par les pays étrangers. « L’Etat afghan n’a pas les moyens financiers ni la stabilité politique nécessaires pour gérer au mieux l’exploitation d’un tel gisement. Il est possible que des pays tels que l’Inde, la Chine ou la Russie essaient de s’implanter davantage dans notre pays pour tirer profit de nos ressources en lithium. Quelles sont les chances que notre peuple profite un jour des retombées économiques de cette découverte ? Si les dirigeants de notre pays ne bradent pas entièrement le sol aux pays étrangers en ne pensant qu’à leur profit personnel, alors ce gisement sera notre chance pour ne plus dépendre des aides extérieures et affirmer une véritable indépendance.« 

 

 

 

 

 

 

- Article original en anglais : The Atlantic

 

- Traduction française et encadré : Courrier International

 

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Afghanistan : le président Karzaï appelle le Japon à investir dans les minerais

 

Le président afghan Hamid Karzaï a appelé vendredi le Japon à investir dans les réserves colossales de minerais découvertes en Afghanistan, qui pourraient faire de ce pays ravagé par la guerre un des premiers exportateurs mondiaux.

 

Le gouvernement afghan a estimé jeudi à trois mille milliards de dollars la valeur de ces gisements, soit trois [fois] plus que les estimations des géologues américains révélées en début de semaine.

 

 

Selon un responsable du Pentagone, l’Afghanistan disposerait de réserves énormes de lithium, de fer, de cuivre, d’or, de niobium et de cobalt.

 

« Les perspectives de l’Afghanistan sont donc très bonnes« , a dit le président Karzaï. « L’Arabie saoudite est la capitale mondiale du pétrole et l’Afghanistan va devenir la capitale mondiale du lithium.« 

 

Le lithium est un composant indispensable des batteries rechargeables, utilisé pour les téléphones et les ordinateurs portables ainsi que pour les automobiles électriques.

 

Les seules réserves de lithium de l’Afghanistan seraient comparables à celles de la Bolivie, qui jouit des premières réserves mondiales, selon les experts américains.

 

« Le Japon est le bienvenu pour participer à l’exploration de lithium« , a souligné le président afghan.

 

« L’Afghanistan doit donner en priorité l’accès aux pays qui l’ont aidé massivement au cours des dernières années« , a-t-il ajouté à l’adresse du deuxième pourvoyeur d’aide à son pays après les Etats-Unis.

 

Le Japon a promis l’an dernier de verser d’ici 2013 jusqu’à cinq milliards de dollars pour la reconstruction de l’Afghanistan.

 

Le président afghan a remercié jeudi le nouveau Premier ministre japonais Naoto Kan pour le soutien solide du Japon. Mais Tokyo a insisté sur la nécessité d’une meilleure gouvernance de l’Afghanistan miné par la corruption.

 

AFP (via Le Point)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

samedi, 19 juin 2010

US Strategy in Eurasia and Drug Production in Afghanistan

US Strategy in Eurasia and Drug Production in Afghanistan

 

Tiberio Graziani

Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici

(Eurasia. Journal of Geopolitical Studies - Italy)

www.eurasia-rivista.org  - direzione@eurasia-rivista.org

 

 

51faLsPf7yL__SS500_.jpgA geopolitical approach aimed at understanding the relationship between the worldwide US strategy and the presence of North American forces in Afghanistan is given. The US penetration in the Eurasian landmass is stressed particularly with regard to the Central Asian area, considered as the underbelly of Eurasia in the context of the US geopolitics. In order to determine the real players in the Afghan theatre, a critics is moved to some general concepts used in geopolitical and international relations studies. The main characteristics  of potential candidates able to overcome the Afghan drug question are discussed. Among these a particular role  is due to Iran, Russia ad China. Anyway, due to the interrelations between the US strategy in Eurasia and the stabilization of Afghanistan, this latter can be fully accomplished only in view of the Eurasian integration process.

 

Key words: Afghanistan, geopolitical, Eurasian, Eurasia, drug

 

 

presentation

 

In order to address properly, without any ideological prejudice, but with intellectual honesty, the question about the drug production in Afghanistan and the related international problems, it is necessary and useful to define (even if schematically) the geopolitical framework and to further clarify some concepts, usually assumed as well known and commonly shared.

 

the geopolitical framework

 

Considering the main global actors nowadays, namely US, Russia, China and India, their geographic position in the two distinct areas of America and Eurasia, and, above all, their relations in terms of power and world geo-strategy, Afghanistan constitutes, together with Caucasus and the Central Asian Republics, a large area (fig. 1), whose destabilization offers an advantage to US, i.e. to the geopolitical player exterior to the Eurasian context. In particular, the destabilization of this large zone assures the US at least three geopolitical and geo-strategic opportunities: a) its progressive penetration in the Eurasian landmass; b) the containment of Russia; c) the creation of a vulnus in Eurasian landmass.

 

 

US penetration in Eurasia – US encirclement of Eurasia

As stated by Henry Kissinger, the bi-oceanic nation of US is an island outside of Eurasian Continent. From the geopolitical point of view, this particular position has determined the main vectors of the expansion of US over the Planet. The first was the control of the entire Western hemisphere (North and South America), the second one has been the race for the hegemony on the Euroafroasian landmass, that is to say the Eastern hemisphere.

Regarding the penetrating process of US in the Eurasian landmass, starting from the European peninsula, it is worthy to remind that it began , in the course of the I WW with the interference of Washington in the internal quarrels among the European Nations and Empires. The penetration continued during the II WW. In April 1945, the supposed “Liberators” occupied the Western side of Europe up to East Berlin. Starting from this date, Washington and the Pentagon have considered Europe, i.e. the Western side of Eurasia, just as a US bridgehead dropped on the Eurasian landmass. US imposed a similar role  to the other occupied nation, Japan, representing the Eastern insular arc of Eurasia. From an Eurasian point of view, the north American “pincer” was the true result of the II WW.

With the creation of some particular military “devices” like NATO (North Atlantic Treaty Organization) (1949), the security treaty among Australia, New Zealand, United States (ANZUS, 1951), the Baghdad Pact, that afterwards evolved in CENTO Pact (Central Treaty Organisation, 1959), the Manila Pact – SEATO (South East Asia Treaty Organization, 1954), the military encirclement of the whole Eurasian landmass was accomplished in less than one decade.

The third step of the US long march towards the heart of Eurasia, starting from its Western side, was carried out in 1956, during the Suez crisis, with the progressive removal of France and, under some aspects, also of Great Britain as geopolitical actors in Mediterranean sea. On the basis of the “special relationship” between Tel-Aviv and Washington, US became an important player of the Near Eastern area in a time lapse  shorter than 10 years. Following the new role assumed in the Near and Middle East, US was able either to consolidate its hegemonic leadership within the Western system or to consider the Mediterranean sea as the initial portion of the long path that, eventually, could permit to the US troops to reach the Central Asian region. The infiltration of US in the large Eurasian area proceeded also in other geopolitical sectors, particularly in the South-Eastern one (Korea, 1950-1953; Vietnam, 1960-1975).

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Coherently with the strategy aimed at dominating the eastern hemisphere, Washington worked also on the diplomatic side, focusing its attention towards Beijing. With the creation of the axis Washington – Beijing, conceived by the tandem Kissinger - Nixon (1971-1972), US contributed to increase the fracture inside the so-called socialist field, constituted by China and URSS and, thus, to block any potential “welding” between the two “lungs” of Eurasia, China and Russia.

During the seventies, two main geopolitical axis faced each other within the Eurasian landmass: the Washington-Islamabad-Beijing axis and the Moscow-New Delhi one.

1979, the destabilization’s year and its legacy in the today’s Afghanistan

Among the many events in international relations occurred in 1979, two are of pivotal importance for their contribution to the upsetting of the geopolitical asset, based at the time on the equilibrium between the United States and the URSS.

We are speaking of the Islamic revolution in Iran and of the Russian military involvement in Afghanistan.

Following the takeover of Iran by the Ayatollah Khomeyni, one of the essential pillars of the western geopolitical architecture, with the US as a leader, was destroyed.

The Pahlavi monarchy could easily be used as a pawn in the fight between the US and the URSS, and when it disappeared both Washington and the Pentagon were forced to conceive a new role for the US in the world politics. A new Iran, now autonomous and out of control, introduced a variation in the regional geopolitical chessboard, possibly able to induce a profound crisis within the “steady” bipolar system. Moreover, the new Iran, established as a regional power against the US and Israel, possessed such characteristics (especially the geographic extent and centrality, and the political-religious homogeneity) as to compete for the hegemony on at least part of the Middle-East, in open contrast to similar interests of Ankara and Tel-Aviv, faithful allies of Washington, Islamabad, Baghdad and Riyadh. For such reasons, the Washington strategists, in agreement with their bicentennial “geopolitics of chaos”, persuaded the Iraq under Saddam Hussein to start a war against Iran. The destabilization of the whole area allowed Washington and the Western Countries enough time to plan a long-lasting strategy and in the meantime to wear down the soviet bear.

In an interview released to the French  weekly newspaper Le Nouvel Observateur (January 15-21, 1998, p. 76), Zbigniew Brzezinski, President Jimmy Carter's national security adviser, revealed that CIA secretly operated in Afghanistan to undermine the power of the regime in Kabul since July, 1979,  that is to say, five months before the Soviet invasion. Indeed, it was July 3, 1979, that President Carter signed the first directive for secret aid to the opponents of the pro-Soviet regime in Kabul. And that very day the US strategist of Polish origin wrote a note to President Carter in which he explained that this aid was going to induce a Soviet military intervention. And this was precisely what happened on the following December. In the same interview, Brzezinski remembers that, when the Soviets invaded Afghanistan, he wrote another note to President Carter in which he expressed his opinion that at that point the USA had the opportunity of giving to the USSR its Vietnam War.

In Brezinski’s opinion, this intervention was unsustainable for Moscow and in time would have led to the Soviet Empire collapse. In fact, the long war of the Soviets in support of the communist regime in Kabul further contributed to weaken the Soviet Union, already engaged in a severe internal crisis, concerning both political- bureaucratic and socio-economic aspects. As we now well know, the Soviet withdrawal from the afghan theatre left behind an exhausted country, whose politics, economy and geo-strategic asset were extremely weak. As a matter of fact, after less than 10 years from the Teheran revolution, the entire region had been completely destabilized only to the advantage of the western system. The parallel and unrestrained decline of the Soviet Union, accelerated by the afghan adventure, and, afterwards in the nineties, the dismemberment of the Yugoslavian Federation (a sort of buffer state between the western and soviet blocks) changed the balance of power to favour the US expansionism in the Eurasia region.

After the bipolar system, a new geopolitical era began, that of the “unipolar moment”, in which the USA were the “hyperpuissance” (according to the definition of the French minister Hubert Védrin).

However, the new unipolar system was going to have a short life and indeed it ended at the beginning of the XXI century, when Russia re-emerged as a strategic challenger in global affairs and, at the same time, China and India, the two Asian giants, emerged as economic and strategic powers. On the global level, we have to consider also the growing wheight of some countries of Indiolatin America, such as Brazil, Venezuela. The very important relations among these countries with China, Russia and Iran seem to assume a strategic value and prefigure a new multipolar system, whose two main pillars coul be constituted by Eurasia an Indiolatin America.

Afghanistan, due to its geographical characteristics,  to its location  as respect to the Soviet State (its neighbouring nations Turkmenistan, Uzbekistan and Tajikistan were, at that time, Soviet Republics), and to the wide  variety of ethnic groups forming its population, different either in culture or in religion, represented for Washington an important portion of the so-called “arc of crisis”, namely that geographical region linking the southern boundaries of the USSR and the Arabian Sea. The Afghanistan trap for the URSS was therefore chosen for evident geopolitical and geo-strategic reasons.

From the geopolitical point of view, Afghanistan is clearly representative of a crisis zone, being from time immemorial the scene for the conflicts among the Great Powers.

The area is now “ruled” by the governmental entity established by US forces and named Islamic Republic of Afghanistan, but traditionally the Pashtun tribes have dominated over the other ethnic groups (Tajiks, Hazaras, Uzbeks, Turkmens, Balochs). Its history was spent as part of larger events concerning the interaction and the prolonged fighting among the three neighbouring great geopolitical entities: the Moghul Empire, the Uzbek Khanate and the Persian Empire. In the XVIII and XIX centuries, when the Country was under the rule of the Kingdom of Afghanistan, the area became strategic in the rivalry and conflict between the British Empire and the Russian Empire for supremacy in Central Asia, termed "The Great Game". The Russian land empire, in its efforts to secure access to the Indian Ocean, to India and to China, collided with the interests of the British maritime empire, that, for its part, sought to extend in the Eurasian landmass, using India as staging post, towards the East, to Burma, China, Tibet and the basin of the Yangtze river, and towards the West, to the present-day Pakistan, to Afghanistan and Iran, as far as the Caucasus, the Black Sea, to Mesopotamia and the Persian Gulf.

Towards the end of the XX century, in the framework of the bipolar system, Afghanistan became the battlefield where, once again, a maritime Power, the USA, confronted a land Power, the URSS.

The actors that confronted each other in this battlefield were basically: URSS troops, Afghan tribes and the so-called mujahideen, these latter supported by US, Pakistan and Saudi Arabia.

After the leaving of the Soviet troops from the afghan chessboard, the taliban movement assumed a growing important role in the region, on the basis of at least three main factors: a) ambiguous relations with some components of Pakistan secret services; b) ambiguous relations with US (a sort of “legacy” relied on the previous contacts between US and some components of the “mujahideen” movement, occurred during the Soviet - afghan war); c) the wahhabism as an ideological-religious platform directly useful to the interests of Saudi Arabia in its projection towards some zones as Bosnia, the Middle East area and the Caucasus (namely Chechnya and Dagestan).

USCENTCOM_Area_of_Responsibility.png

The three elements mentioned above allowed the taliban movement, for one hand, to insert and root itself in the afghan zone, gaining a growing weight on the military (with the creation and consolidation of the so-called sanctuaries) and economic (namely control of the drug traffic) levels, for other hand, impeded it to become an autonomous organization. Actually, because of the infiltration of US, Pakistan and Saudi Arabia, the taliban movement has to be considered a local organization directed by external players. These kind of considerations allows us to better understand and explain the choice of Obama and Karzai to open a dialogue with the Talibans, even to include some of them in local governments. Moreover, the apparent contradiction of the US (and Karzai) behaviours in Afghanistan, that could be explained according the theory and praxis for which the involvement of the enemy in institutional responsibilities aims to weaken it, follows the classic rule of the US geopolitical praxis, that is to maintain in a state of crisis a region considered strategic.

As we well know now, the drug production in Afghanistan has gone up more or less 40 times since the country’s occupation by NATO.

If we consider the solutions adopted so far by US forces and aimed at containing and overcoming the drug trafficking question in the more general context of the US geopolitical praxis, we can observe that US forces and  NATO seem “wasting” their time: drug production and diffusion in the southern part of the country are still going on. As we well know, the large-scale drug production is impossible in this area, because of the non-stop fighting. On the contrary, US and NATO forces focus their strategic interest in the northern side of the country. Here, they have built roads and bridges linking Afghanistan to Tajikistan), the road to Russia via Uzbekistan, Kyrgyzstan and Azerbaijan (see A. Barentsev, Afghan Heroine flow channelled to Russia, FONDSK). This modus operandi reveals openly the real intentions of Pentagon and Washington: opening a road towards Russia, starting from Afghanistan and the Central Asian republics. Actually NATO and other western forces do not conduct an effective fight against drug production and trafficking.

In such context, the supposed US/NATO fight against drug production and trafficking in Afghanistan seem to belong to the field of the western rhetoric more than to be a concrete fact (Fig. 2).

Similarly, the fight against taliban movement seem clearly subordinated to (and thus depending on) the general US strategy in the Eurasian landmass. Nowadays, this strategy consists in the setting up of military garrisons of US and its Western allies in the long strip that, starting from Morocco, crosses the Mediterranean sea and arrives as far as the Central Asian republics. The main aims of this garrisons are: a) the separation of Europe from North Africa; b) the control of north Africa and Near East (particularly the zone constituted by Turkey, Syria and Iran – using the Camp Bondsteel base, located in Kosovo ); b) the containment of Russia, and, under some aspects, of China too; c) an attempt of cutting the Eurasian landmass in two parts; d) the enlargement of the “arc of crisis” in the Central Asian area [Brzezinski defines this area the “Balkans of Eurasia” (the definition of the former advisor of president Carter sounds more as programmatic than as an objective description of the area)].

Creating a geopolitical chasm in Central Asia, i.d. a vulnus in Eurasia landmass, could lead to hostility and enmity among the main players in Asia, Russia, India and China (fig. 3). The only beneficiary of this game would be the US.

Other than the attempt “to knife” Eurasia along the illustrated path (from Mediterranean sea up to the Central Asia), we observe that US disposes (since 2008) of AFRICOM and, of course, of the related cooperative security locations in Africa: a useful “ military “device” which projection is also directed to Middle East and part of Central Asia (fig. 4).

 

 

In order to understand the importance of  the Central Asian zone for the US strategy aimed at its hegemony on the Eurasian landmass, it is enough to give a glance at the following picture (fig. 5) illustrating the US Commanders’ areas of responsibilities. The picture is representative of what we can name – paraphrasing the expression “the white man’s burden” formulated by the bard of the British imperialism, Rudyard Kipling, 1899 – the US’ burden.

 

general remarks on “accepted and shared” concepts

 

With the goal to reach a larger understanding of the complex dynamics acting presently at global level, it is useful criticizing some general concepts we consider accepted and shared. As we know, in the frame of the geopolitical analyses, the correct use of terms and concepts is at least as important as, those ones related to the description of the reality through maps and diagrams. For instance, the so-called “globalization” is only an euphemistic expression for economic expansionism of the US and the its capitalistic western allies (see Jacques Sapir, Le nouveau XXI siécle, Paris, 2008, p. 63-64). Even the rhetoric call to fight for the supposed “human rights”, or similar democratic values, spread by some think thanks, governments or simple civil activists, emphasizes the colonialist aspect of the US on the mass media and culture, without any consideration to other ways of life, like those expressed by no-western civilisations, i.e. more than three quarts of the world population. Among these concepts, we have to consider the most important one from the geopolitical (and international relations) point of view, that is the supposed International Community. The expression “International Community” does not mean anything in geopolitical terms. Actually, the International Community is not a real entity; its related concept sounds, simultaneously, like an aspiration of some utopian activists and a specific falsification of the history.

As in the worldwide real life we know State, Nations, People, International organisations [generally on the basis of (hegemonic) “alliances”] and, of course the relations among these entities, speaking of International Community means to mis-describe the real powers nowadays acting at global and local scales.

Considering now the focus of the present meeting, aimed at finding “shared solutions” for the afghan drug question in the context of the “International Community” (I.C.), honestly we have to underline, as analysts, that instead of I.C. it is more practical speaking of real players involved (and that could be involved) in the Afghan zone.

 

 the real players in the afghan theatre

 

For analytical reasons is useful to aggregate the players concerning the Afghan theatre in the following three categories: external players; local players; players who potentially could be involved in the afghan context. Afterwards we can easily define some conditions in order to delineate the characters of those partners who could be able to stabilize - effectively - the entire geopolitical area.

External players: US and NATO-ISAF (except Turkey) forces are to be considered external players because of their full strangeness to the specific geopolitical area, even if conceived in a broad sense;

Local players: among the local players we can enumerate the bordering countries (Iran, Turkmenistan, Uzbekistan, Tajikistan, China, Pakistan), the tribes, the insurgent forces, the  Talibans and the “governmental” entity led by Karzai.

Regarding the players belonging to the third category as defined above, we can include the Collective Security Treaty Organisation  (CSTO), the Shanghai Cooperation Organisation (SCO), i.e. the main Eurasian organisations with a large experience in managing questions related to the border control and drug trafficking of Central Asian area, and the Eurasian Economic Community (EURASEC). Moreover we have to mention also ONU, in particularly the United Nations Office on Drugs and Crime (UNODOC).

The potential partners able to overcome the drug question in Afghanistan have to present at least the following characteristics: a) the knowledge of the local dynamics related to the ethnic, cultural, religious an economic aspects; b) the acknowledgement by the local population as part of the same cultural context (obviously in a large meaning); c) the will to coordinate collectively the actions without any prejudice or mental reserve within a Eurasian program.

The partners presenting the features synthetically described above are those included in the second and third categories. As matter of fact US and NATO – ISAF forces are perceived from the local population as what they really are: occupying forces. Moreover, considering the NATO role as hegemonic alliance led by Washington and acting within the framework of the US global strategy, its presence in Afghanistan should be considered a serious obstacle to the stabilization of the entire area. The Talibans and even the governmental entity, do not appear, due to the ambiguous relations that they seem to have with the occupying US forces, to be candidate partners in a collaborative effort to triumph over the drug question in Afghanistan.

The real players able to stabilize the area are - without any doubt - the Afghanistan bordering countries and the Eurasian organizations. Among the bordering countries, a special role could be carried on by Iran. Teheran is the only country that has demonstrated to assure the security of Afghan-Iranian border, specially for drug trafficking. Also Moscow and Beijing  assume an important function in the stabilization of the area and in the fight to drug trafficking, because Russia and China, it is worth to remind it, are the main powers of the Eurasian organizations above mentioned. A strategic axis between the two “lungs” of Eurasia, balanced by the Central Asian republics and India, could constitute the lasting solution for the stabilization of the area and hence the drug question. Only in the frame of a shared Eurasian plan aimed at stabilizing the area – conceived and carried on by Eurasian players –, it is possible to dialogue with local tribes and with those insurgent movements which are clearly not directed by external players.

 

 

conclusions

 

The stabilization of the afghan area is an essential requirement for any plan aimed to face the drug production and trafficking.

However, because of the pivotal role of Afghanistan in the Middle East and in the Central Asian regions,  the strategy to stabilize the area has to be conceived in the context of the integration of the Eurasian landmass.  Candidates particularly interested to halt the drug production and traffic are the Afghanistan bordering Countries.

US and NATO forces, because of their clear geopolitical praxis aimed at hegemonizing the Eurasian landmass, are not plausible candidate.

samedi, 05 juin 2010

Bismarck et l'Afghanistan

Bismarck et l’Afghanistan

 

BismarckArbeitszimmer1886.jpgDans un article pour le “Berliner Morgenpost”, intitulé “Was hätte Bismarck zum Bundeswehr-Einsatz gesagt?” (= “Qu’aurait dit Bismarck sur l’engagement de la Bundeswehr?”), l’écrivain et journaliste israélite Rafael Seligmann apporte une réponse claire et précise à cette question et explique comment l’Allemagne devra dans l’avenir moduler son engagement en Afghanistan. En répondant à cette question cruciale de l’actuelle politique étrangère et de la sécurité de la RFA, Seligmann rappelle l’utilité de se référer à Otto von Bismarck, une utilité que les politiciens allemands actuels n’oseraient jamais évoquer, même s’il en reconnaissent in petto le bien fondé.

 

Le Chancelier impérial, homme plein d’expérience, écrit Seligmann, aurait dit que les Balkans, à son époque, ne valaient pas le sacrifice du moindre mousquetaire poméranien. On peut comparer les Balkans de la fin du 19ème siècle au Moyen Orient actuel. Bismarck aurait ainsi deviné qu’un incendie planétaire pouvait éclater dans le Sud-Est européen déchiré par de multiples conflictualités. C’est pour cette raison qu’il entendait éviter toute intervention militaire allemande.

 

Pendant la campagne électorale qui l’a mené à la Présidence aux Etats-Unis, Barack Obama avait déclaré que l’intervention américaine en Afghanistan était une “guerre juste” qu’il entendait mener jusqu’à son terme et jusqu’à la victoire. Parce qu’il a prononcé ces paroles, Obama, c’est une certitude, n’a jamais médité les tenants et aboutissants de l’histoire afghane, sinon il aurait su que les Russes et les Britanniques y ont toujours connu l’échec. La tentative américaine de conquérir le pays échouera, elle aussi, tôt ou tard. Le pouvoir réel du Président afghan Karzai ne va pas au-delà de la portée des pièces d’artillerie des soldats de l’ISAF. Les aides qu’apporte l’Occident, à coups de milliards, disparaissent dans les poches des membres du gouvernement afghan fantoche et dans celles de leurs alliés et comparses.

 

L’analyse et les conclusions de Seligmann font mouche: il écrit en effet que l’Allemagne ne doit pas se contenter de pleurer ses morts, tombés là-bas dans le lointain Afghanistan; la politique de Berlin, selon lui, devrait surtout viser à imposer à Washington et à l’OTAN un plan de retrait hors d’Afghanistan, rapide et bien coordonné. Seligmann préconise en outre une politique unitaire des puissances occidentales au Pakistan, qui s’avère nécessaire car ce pays est une puissance atomique et constitue dès lors la clef de la stabilité au Moyen Orient.

 

(article anonyme paru dans “DNZ”, Munich, n°21 – 21 mai 2010).

jeudi, 13 mai 2010

Il ruolo strategico del Pakistan nel conflitto afghano

Il ruolo strategico del Pakistan nel conflitto afghano

di Alessio Stilo - 09/05/2010

Fonte: eurasia [scheda fonte]


Il ruolo strategico del Pakistan nel conflitto afghano

La peculiare posizione strategica rende il Pakistan un “perno geografico”, per dirla alla Mackinder, di assoluto valore nella contesa afghana, dove gli Stati Uniti e i loro alleati si giocano il tutto per tutto rischiando di trasformare la quasi-decennale operazione bellica in un nuovo Vietnam. Peraltro le analogie con la celeberrima disfatta costituiscono un oscuro monito per il Pentagono: anche allora il duo Nixon-Kissinger dispose l’incremento delle truppe con l’obiettivo di recuperare posizioni di forza per trattare con il nemico, lo stesso cui ambiscono i guerriglieri dopo aver dimostrato sul campo di non poter essere battuti.

A detta di analisti autorevoli, la nuova ricetta afghana dell’amministrazione Obama sarebbe riassumibile in tre parole: surge, bribe and run – aumenta le truppe, compra il nemico e scappa. In sostanza, i vertici del Pentagono starebbero allestendo “un’onorevole ritirata” mascherata dall’incremento degli effettivi, non prima di aver convinto il resto del mondo della vittoria degli Alleati sulla frastagliata schiera dei fondamentalisti.

Il ruolo geostrategico

E’ bene tener presente che, nell’ambito della scontro contro i ribelli, Islamabad è ritenuto il paese maggiormente in grado di fornire un aiuto concreto agli Stati Uniti, vuoi per la posizione strategica, vuoi per l’appoggio nemmeno troppo velato di parte dei suoi servizi segreti a taluni gruppi islamici radicali, vuoi perché in Pakistan è operativo il Ttp (Tehrik-e-taliban Pakistan) – gruppo taliban locale, il quale gode di un consolidato sostegno da parte della popolazione.

L’alleato pakistano, nel siffatto contesto, ha ribadito ai vertici della Difesa Usa di voler offrire il suo aiuto volto a sconfiggere i taliban in cambio di poter avere un “ruolo costruttivo nel Kashmir”. Inoltre Islamabad non intende precludersi l’opportunità, una volta cessate le ostilità, di esercitare la sua longa manus sul vicino Paese martoriato dall’instabilità: in considerazione della mai sopita ostilità con l’India, l’obiettivo primario del Pakistan risulta quello di poter fare affidamento su un governo afghano alleato, in maniera tale da potersi avvalere dei territori confinanti nell’eventualità di un scontro con il colosso indiano.

Islamabad brama altresì di concorrere con New Delhi sotto il profilo dell’accaparramento delle risorse energetiche, avendo preso atto degli investimenti indiani – un miliardo e 200 mila dollari – in Afghanistan. L’India ha interesse a proteggere i propri investimenti a Kabul e servirsi dell’Afghanistan come corridoio verso l’Asia centrale, e in una simile congiuntura va inserita la recente visita del primo ministro Manmohan Singh in Arabia Saudita, ufficialmente per stipulare accordi relativamente alle materie prime. In realtà, New Delhi sta tentando di scovare qualche rete che consenta il contatto diretto con i taliban nella prospettiva di poter svolgere il proprio ruolo in Afghanistan all’indomani della ritirata americana; tuttavia nelle cancellerie del potente paese asiatico ignorano che i sauditi hanno ormai poca influenza sul movimento talebano. L’unica via per raggiungere i taliban passa dal Pakistan e, anche a detta degli statunitensi, per gli indiani la strada verso Kabul non può prescindere dal Kashmir.

Alla stregua di quanto accennato, gli interessi nazionali perseguiti dal governo pakistano gli impediscono di collocarsi in maniera netta nella lotta contro i ribelli jihadisti, motivo per il quale la potente Inter-Sevices Intelligence (ISI) si era spinta sino all’appoggiare l’ascesa dei taliban al governo di Kabul.

Benché negli ultimi anni i servizi segreti pakistani, persuasi dai cospicui assegni a stelle e strisce, si siano impegnati al fianco di Washington in alcune operazioni tese a minare le basi organizzative del gruppo estremista islamico, permangono i sospetti di presunti appoggi dell’ISI – o di parte di esso – alla causa talebana, senza contare la crescente ribellione interna originata sia dal malcontento per le politiche dei vari governi, sia dagli attacchi indiscriminati dei droni americani che colpiscono i civili.

Le relazioni tra pashtun afghani e pakistani

Nell’analizzare le relazioni di Islamabad con Kabul è necessario rimembrare la questione del confine tra i due paesi, segnato dalla cosiddetta “Linea Durand”, una frontiera – rimasta inalterata – tracciata dagli allora dominatori britannici che tagliò in due le realtà tribali preesistenti senza tener conto della demografia.

La linea Durand demarca un’area abitata da popolazioni di etnia pashtun, maggioritaria sia in Afghanistan che nella vasta fascia di territorio pakistano sotto la giurisdizione della Provincia della Frontiera del Nord-Ovest (Sarhad) e delle Federally Administred Tribal Areas (Aree tribali di Amministrazione Federale: Khyber, Kurram, Bajaur, Mohmand, Orakzai, Nord e Sud Waziristan), senza contare che tribù appartenenti alla suddetta stirpe si sono stanziate anche nel Belucistan e nella zona di Karachi. Secondo fonti recenti, in totale i pashtun ammonterebbero a 42 milioni di persone – il 42% della popolazione dell’Afghanistan e il 15% di quella pakistana.

Storicamente la massima aspirazione dei pashtun è stata la costituzione di un’unica entità statale che comprendesse le diverse zone ove essi risiedono – grosso modo l’attuale Afghanistan e parte del Pakistan -, detta Pashtunistan. A causa delle diatribe, il confine rappresentato dalla linea Durand ha continuato ad essere una fonte di tensione tra i due paesi confinanti e attualmente i leader pashtun di entrambi gli Stati non riconoscono la legittimità della linea Durand.

La saldatura degli interessi dei pashtun pakistani con quelli dei vicini afghani trae origine, dunque, non solo dal malcontento per le politiche dei governi, ma anche dall’affinità ideologica nonché dal comune obiettivo di istituire un’entità statuale governata dalla Shari’a.

Sebbene il governo pakistano giudichi il confine definitivamente stabilito, tanto da essersi formalmente impegnato – agli occhi degli Stati Uniti – a renderlo più sicuro, il presidente afghano Karzai ha più volte dichiarato di ritenere doverosa una “grande assemblea” per la ridefinizione della frontiera. Altro quesito, consequenziale a quanto esposto circa la linea di demarcazione, è quello che concerne i profughi afghani in fuga dal conflitto e rifugiatisi nel territorio limitrofo: costoro costituiscono la manovalanza per i reclutatori di guerriglieri, i quali li addestrano nei campi profughi situati al confine per inviarli successivamente sul campo di battaglia.

Influenze esterne

A seguito del ruolo centrale riconosciutogli dall’amministrazione Obama nel presentare la “AfPak Strategy”, il Pakistan ha rimpinguato i propri forzieri e ricevuto ulteriori aiuti al suo esercito, ovvero un miglioramento delle capacità anti-terroristiche delle milizie, senza tralasciare l’istituzione di programmi di ricostruzione e sviluppo che vertono su una sorta di “nation building” tale da (ri)avvicinare la popolazione alla causa atlantica.

Nonostante l’evoluzione della strategia atlantista, il Pakistan rimane lontano dall’esimersi dall’intrattenere rapporti con i taliban afghani, i quali permetterebbero ad Islamabad di riconquistare il ruolo di potenza egemone nel momento in cui gli Alleati dovessero abdicare.

La “reinventata partnership strategica Usa-Pakistan” – secondo la definizione degli analisti del South Asia Analysis Group – promette ben poco, considerato che l’esercito pakistano, pur avendo la capacità di raggiungere obiettivi/aspettative statunitensi, non ha interesse a ottemperare in maniera totale ai dettami dell’alleato. I taliban che allignano nelle aree tribali del confine sono, infatti, considerati una vera e propria “risorsa” dall’esercito pakistano; tramite l’intermediazione dell’ISI, taluni generali mantengono contatti diretti con determinati elementi dell’insorgenza, e ciò malgrado recentemente siano stati arrestati schiere di dirigenti talebani.

La cattura di leader del calibro del mullah Abdul Ghani Baradar, del precedente governatore della provincia afghana del Nangarhar, Moulvi Abdul Kabeer, del mullah Abdul Salam – governatore-ombra di Kunduz – e di Mir Muhammad, anche lui un governatore-ombra nell’Afghanistan settentrionale, rischia tuttavia di mutare lo scenario in corso. A detta di un militante qaedista, come conseguenza degli arresti effettuati negli ultimi mesi, i talebani hanno reciso ogni possibilità di dialogo – che sia con l’Afghanistan, col Pakistan o con gli Usa – e adesso potrebbero lavorare più strettamente con Al-Qaeda.

In conclusione bisogna rimarcare il ruolo della Cina nella partita AfPak, che potrebbe palesarsi quale fiancheggiatore indiretto degli Stati Uniti per via del suo coinvolgimento nel contrastare i gruppi taliban, ritenuti da Pechino essere i fomentatori del focolare interno – leggi Xinjiang – sempre pronto a riaccendersi. Il dragone dagli occhi a mandorla è il maggior socio commerciale di Islamabad (nel 2006 i due paesi hanno siglato un accordo sul libero scambio, entrato in vigore nel 2007), oltreché il suo più rilevante alleato nell’area asiatica. La Cina potrebbe, in ultima analisi, puntare sul suo rapporto privilegiato col Pakistan per esortare il governo di Zardari ad un maggiore impegno nella lotta contro il movimento talebano.

* Alessio Stilo è dottore in Scienze politiche (Università di Messina)
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

mardi, 11 mai 2010

Troisième guerre de l'opium

Troisième Guerre de l’opium

Certains critiques, particulièrement sarcastiques, affirment que la guerre en Afghani­stan est certes sans espoir, mais qu’elle protège pour le moins la culture du pavot [sur] l’Hindou Kouch. C’est ne voir cette culture que comme une conséquence de la guerre, alors qu’il apparaît clairement qu’il s’agit d’un des objectifs de guerre des Etats-Unis.

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Carte par provinces, combinant risques pour la sécurité (plus la couleur est foncée, plus le risque est élevé) et culture du pavot à opium (en hectares). Source : ONU

93% de l’opium cultivé dans le monde, servant à la production de morphine et d’héroïne, viennent d’Afghanistan.

En 2007, il s’agissait de 8.200 tonnes, l’année suivante on en était à 8.300 ; la récolte de l’année dernière fut moindre, du fait d’une mauvaise récolte, il n’existe pas encore de données chiffrées.

Selon les Nations Unies, 95% de l’opium afghan sont transformés en héroïne, donnant ainsi 80 tonnes d’héroïne pure. Près de la moitié, soit plus de 35 tonnes, fut introduite en 2009 en Russie (selon des sources convergentes de l’ONU et de la police des stupéfiants russe). On peut supposer – car il n’existe pas de données concrètes – qu’une bonne partie est transportée plus loin, notamment dans les centres urbains de la Répu­blique populaire de Chine.

Il est donc déposé, rien qu’en Russie, trois fois autant d’héroïne qu’aux Etats-Unis, au Canada et en Europe. Victor Ivanov, directeur du Service fédéral de contrôle de la drogue (en russe : FSKN) déclara au Conseil OTAN-Russie (COR), le 23 mars à Bru­xelles, que le déferlement de drogue venant d’Afghanistan dépasse tout ce qu’on peut imaginer.

Un million de personnes auraient succombé depuis 2001 (lorsque la guerre fut déclenchée et l’Afghanistan occupé par les troupes des Etats-Unis et de l’OTAN) du fait des produits opiacés venant de l’Hindou Kouch. Selon Ivanov : «Toutes les familles sont touchées directement ou indirectement.» 21% de l’héroïne répandue dans le monde, venant d’Afghanistan, ont été déposés sur les marchés noirs de Russie, et malgré tous les efforts entrepris par Moscou, la tendance est croissante.

Si l’on ajoute à ces 21% les données concrètes de l’ONU (production mondiale de 86 tonnes d’héroïne), on peut estimer que les consommateurs russes auraient con­sommé 18 tonnes de drogue, venues de l’héro­ïne – que 17 autres tonnes de l’héroïne pure déversée en Russie auraient été transportées en Chine.

On comprend pourquoi Moscou et Pékin conclurent, il y a trois ans, un accord de coopération transfrontalière dans la lutte contre le déferlement de drogue. Le com­merce de la drogue menace la santé publique, de même que la stabilité économique et de politique intérieure des deux Etats.

Le directeur du service de la santé russe, Dr Gennadij Onichtchenko, a déclaré qu’en Russie mouraient chaque année, du fait de la consommation de surdoses d’héroïne, entre 30.000 et 40.000 jeunes gens. A cela il fallait ajouter 70.000 décès dus aux mala­dies collatérales provoquées par une surcon­sommation de drogue (Sida, septicémie, etc.). On estime à 2 millions, voire 2 millions et demi, d’individus des jeunes générations entre 18 et 39 ans étant accrochés à la drogue, 550.000 sont enregistrés officiellement. Chaque année, 75.000 nouveaux toxicomanes apparaissent, essentiellement des étudiants et de jeunes diplômés.

Peut-on déjà parler d’une décapitation de l’élite intellectuelle de la Russie ? Les toxicomanes russes dépensent chaque année l’équivalent de 17 milliards de dollars pour se procurer de l’héroïne, selon l’agence de presse RIA Novosti. La police a démantelé, rien qu’en mars de cette année, 200 laboratoires servant à préparer l’héroïne pour la vente à ciel ouvert.

Les républiques d’Asie centrale et le Pakistan ont à souffrir des mêmes maux que la Russie. Dans ces pays, on assiste à une connexion entre la contrebande de drogue et la dissémination du sida, comme c’est le cas en Iran depuis des décennies.

L’héroïne destinée à la Russie, venant d’Afghanistan, passe par le Tadjikistan ou par l’Ouzbekhistan (les deux pays se trouvant sous l’influence des Etats-Unis).

On se permet de supposer que les services secrets américains organisent eux-mêmes ce trafic. Il est vrai qu’Ivanov avait proposé au Conseil OTAN-Russie, à Bruxelles, de faire détruire au moins 25% des surfaces afghanes de cul­ture de l’opium. Cependant, l’OTAN, dominée par les Etats-Unis, refusa. James Appathurai, porte-parole de l’OTAN, s’exprima cyniquement envers les journalistes: «Nous ne pouvons pas anéantir la seule source de revenus pour des gens qui vivent dans le deu­xième pays le plus pauvre du monde, alors que nous n’avons pas d’alternative à leur offrir.»

Un mensonge effronté. Les Etats-Unis et leurs vassaux, non seulement mènent une «guerre contre le terrorisme» dans l’Hindou Kouch (dans un intérêt géostratégique et en vue de matières premières et de transfert d’énergie), mais en plus, ils soutiennent ouvertement les bases de revenus des paysans afghans cultivant le pavot.

Avant la guerre, sous le régime des Talibans, la culture du pavot en Afghanistan était étroitement contrôlée. Le pavot n’était autorisé que comme aliment. Qui le transformait en drogue, et diffusait celle-ci, risquait la peine de mort. La part de vente d’héroïne sur le marché mondial ne dépassait pas les 5%. Cela étant, les paysans afghans n’étaient pas plus pauvres qu’aujourd’hui.

Il en alla de même lors de l’attaque soviétique et du gouvernement communiste en Afghanistan, la production de drogue étant réduite à sa plus simple expression. Elle ne prit son élan que lors de la subversion causée par les Etats-Unis (soutien et armement des Moudjahidin du peuple, ce qui donna plus tard les Talibans).

Le marché afghan vendit, l’année der­nière, du pavot pour 3,4 milliards de dollars US (source : J. Mercille de l’Université de Dublin). Les paysans n’en gardèrent que 21% ; les 75% restant furent encaissés par les alliés corrompus des Etats-Unis et par l’OTAN : des fonctionnaires gouvernementaux, la police locale, des marchands régionaux et des transitaires. 4% revinrent, comme de bien entendu, aux Talibans, sous l’œil bienveillant de l’OTAN. Car l’ennemi doit être maintenu en vie – dans l’intérêt d’une présence sans faille des Etats-Unis. Comprenne qui pourra !

La Russie en appelle en vain aux décisions de l’ONU, qui contraignent tous les Etats de s’engager contre le marché noir de la drogue. On comprend alors la colère d’Ivanov envers le secrétaire général de l’OTAN, Anders Fogh Rasmussen, à Bruxelles, l’OTAN s’étant tout simplement refusé d’entreprendre quoi que ce fût contre la culture du pavot en Afghanistan.

Cela rappelle, en plus moderne (menée cette fois-ci par les Etats-Unis), la «Guerre de l’opium», menée dans les mêmes buts que ceux des Anglais lors des première et deuxième Guerres de l’opium (1839–1842 et 1856–1860) contre l’empire chinois de la dynastie des Qing. L’imposition de l’opium à l’Empire du Milieu provoqua, comme on le sait, la désintégration totale de la société chinoise et une instabilité politique à l’intérieur du pays, dont le résultat fut la Révolte des Boxers en 1900 – la révolte souhaitée par les Européens, leur donnant le prétexte pour l’invasion.

Les Nations Unies pourraient maintenant mettre en route leur mandat FIAS, par lequel ils ont légitimé, après coup, l’intervention de l’OTAN en Afghanistan, afin de renforcer la lutte contre la culture du pavot et d’offrir une véritable alternative, par des cultures dans le sens d’une vraie aide dans la reconstruction. Cela contraindrait les forces d’occupation des Etats-Unis et de l’OTAN à faire cesser la production d’opium. Jusqu’à présent, on n’a pas vu une telle résolution. Ce qui laisse aussi rêveur.

L’opium, et son dérivé l’héroïne, attaquent les êtres humains jusque dans leurs tréfonds génétiques. Comme à l’époque dans l’empire de Chine, cela se passe aujourd’hui en Russie, dans la République populaire de Chine et chez leurs voisins. Washington et l’OTAN utilisent l’arme de la drogue, un poison qui a fait ses preuves, contre leurs deux principaux concurrents, Moscou et Pékin. C’est un combat fondamental dans la guerre d’Afghanistan, mais dont on ne parle pour ainsi dire pas ouvertement.

Horizons et débats

vendredi, 07 mai 2010

Wird Europa am Hindukusch verteidigt? EU verkommt zum Superzahlmeister

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Wird Europa am Hindukusch verteidigt? – EU verkommt zum Superzahlmeister

Ex: http://www.andreas-moelzer.at/

(Alb)Traum europäische Armee 

Die ersten frühen Anfänge einer europäischen Armee in den 50-er Jahren scheiterten an der Furcht der Franzosen vor einer deutschen Wiederaufrüstung. Mit dem blutigen Zerfall Jugoslawiens in den 90ern und dem immer wieder aufflackernden Kosovo-Konflikt sah die EU schließlich Handlungsbedarf und baute seit 1992 sukzessive eine europäische Sicherheits- und Verteidigungspolitik (ESVP) als Teil der Gemeinsamen Außen- und Sicherheitspolitik auf.

Die ESVP basiert auf einer Zusammenarbeit von EU und NATO mit Operationen im Rahmen der „Petersberg-Aufgaben“ (humanitäre Aufgaben und Rettungseinsätze, friedenserhaltende Aufgaben sowie Kampfeinsätze bei der Krisenbewältigung einschließlich friedensschaffender Maßnahmen). Dafür wurden eigene multinationale „schnelle Eingreiftruppen“, Eurokorps bzw. Battlegroups, bestehend aus jeweils 1.500 bis 2.000 Soldaten gegründet und eine Europäische Verteidigungsagentur eingerichtet.
 


Weltweite Kampfeinsätze

Europäische Soldaten werden zu sogenannten „Friedensoperationen“ nach Afghanistan, Bosnien-Herzegowina, Dafur, Georgien, Guinea-Bissau, Indonesien, Mazedonien, in den Gazastreifen, den Irak, den Kongo, den Tschad oder die Zentralafrikanische Republik geschickt.

Der Balkan liegt vor Europas Türen, Einsätze zur Stabilisierung dieser Region können mit sicherheitspolitischen Interessen der EU erklärt werden. Wenn jedoch EU-Staaten an der Seite Washingtons am Afghanistan-Krieg teilnehmen, ist mehr als zweifelhaft, ob Europa am Hindukusch verteidigt wird.


Die Weichen für ein Aufgehen in der NATO sind gestellt

Bis heute nicht vollständig geklärt ist das Verhältnis zwischen EU bzw. ESVP auf der einen, und der NATO auf der anderen Seite. Jedoch gibt es eine Reihe von Indizien, die darauf hindeuten, daß die europäischen Verteidigungskapazitäten in die Dienste der NATO und damit der USA gestellt werden sollen. In einem im Jänner des Vorjahres im außenpolitischen Ausschuß des Europäischen Parlaments angenommenen Berichts des französischen EU-Abgeordneten finnischer Nationalität, Ari Vatanen  über die „Rolle der NATO im Rahmen der Sicherheitsarchitektur der EU“ wird festgehalten, daß „die NATO den Kern der europäischen Sicherheit bildet und die EU über ein ausreichendes Potential verfügt, um ihre Aktivitäten zu unterstützen, so daß eine Stärkung der europäischen Verteidigungskapazitäten und eine Vertiefung der Zusammenarbeit beiden Organisationen nutzen wird“. Zudem wird ausdrücklich darauf hingewiesen, daß „94 Prozent der EU-Bevölkerung Bürger von NATO-Mitgliedstaaten sind, 21 von 27 EU-Mitgliedstaaten Verbündete der NATO, 21 von 26 NATO-Staaten EU-Mitgliedstaaten sind“. Und auch die Türkei bleibt als „langjähriger NATO-Verbündeter“ und EU-Beitrittskandidat nicht ohne Erwähnung. Eine engere Verschränkung von Nordatlantikpakt und Europäischer Union würde die Aufnahme Ankaras somit weiter beschleunigen.

Konkret ist vorgesehen, daß die EU künftig verstärkt Einsätze außerhalb Europas („out of area“) durchführt. In Art. 43 des Vertrags von Lissabon werden beispielsweise Einsätze zur Bekämpfung des Terrorismus erwähnt, die auch in Drittländern auf deren Hoheitsgebiet stattfinden können. Begründet wird die Ermächtigung zu Interventionen mit „humanitären“ Erwägungen: Schließlich gelte es, „aktiv massenhaft begangene Greueltaten und regionale Konflikte, unter denen die Menschen nach wie vor stark leiden, zu verhüten oder entsprechende Maßnahmen zu treffen“. Auffallend häufig finden regionale Konflikte und damit verbundene Greueltaten in Ländern statt, wo Bodenschätze locken (Sudan oder Kongo) oder in für den Rohstofftransport bedeutenden Regionen (z.B. Kaukasus) statt.


Weltpolizist und Superzahlmeister Brüssel

Mit der beabsichtigten Ausbildung zum Weltpolizisten kommt Brüssel einerseits der Aufforderung Washingtons nach, sich stärker militärisch zu engagieren, und andererseits deckt sich dieses Vorhaben mit Plänen des US-Verteidigungsbündnisses, die NATO zu einem weltweit tätigen Bündnis auszubauen. Der Einsatz in Afghanistan, an dem ein Großteil der EU-Mitglieder teilnimmt, ist ein Vorgeschmack dessen, wohin die Reise gehen soll. Schließlich gibt es keine Anzeichen dafür, daß der Nahe und Mittlere Osten in absehbarer Zeit zur Ruhe kommen wird, und in Afrika sowie in Zentralasien gibt es eine Reihe von politisch instabilen Staaten, die eines Tages ein „humanitäres Eingreifen“ erforderlich machen könnten.

Zudem wird die beabsichtigte Militärisierung wird die Steuerzahler noch teuer zu stehen kommen. Schließlich verpflichtet der Vertrag von Lissabon die EU-Staaten zur „schrittweisen Verbesserung ihrer militärischen Fähigkeiten“, also zur Aufrüstung. Im Vatanen-Bericht des EU-Parlaments werden „höhere Investitionen in die Verteidigung auf der Ebene der EU-Mitgliedstaaten“ und die Schaffung eines“ operationellen EU-Hauptquartiers“ gefordert.
 


Steuermillionen zur Aufrüstung

Dass eine „Friedensmission“ mit Toten und hohen Kosten verbunden ist, bringt dem deutschen Afghanistan-Einsatz viel Kritik. Wenn nun in Zeiten der Finanzkrise und des milliardenschweren griechischen Hilfspakets fast 65 Mio. für Spezialausrüstung aufgebracht werden sollen, ist dafür keine Akzeptanz bei den Bürgern vorhanden.

Ebenso wenig verständlich ist, dass das österreichische Heer, das immerhin allein im kommenden Jahr 80 Mio. einsparen soll, gleichzeitig 350 Soldaten für EU-Battlegroups verspricht. Während der Treibstoff für Heeresfahrzeuge knapp wird, Soldaten in uralten Uniformen und maroden Kasernen Dienst leisten und für die Wartung der milliardenteuren Eurofighter das Geld fehlt, werden die spärlichen Mittel für Auslandsmissionen verpulvert – Auslandseinsätze statt Heimatsicherung also.


Die geplante Unterordnung unter US-amerikanische geopolitische Interessen fällt in Washington naturgemäß auf Wohlgefallen. Aber das war nicht immer so. Als sich wegen der Hilflosigkeit Europas in den Balkankriegen in den 90er Jahren – nicht zuletzt ermuntert durch den damaligen US-Präsidenten Bill Clinton – die Europäer aufmachten, ihre sicherheitspolitischen und militärischen Kapazitäten zu verbessern, läuteten in den USA bald die Alarmglocken. Der ehemalige Vize-Außenminister Strobe Talbott befürchtete, daß eine EU-Armee „erst innerhalb der NATO zu existieren beginnt und dann zum Konkurrenten der NATO wird“. Bei einer sicherheitspolitischen Emanzipation Europas hätten die USA jedenfalls viel zu verlieren. Denn die NATO bindet, wie Zbignew Brzezinski, Nationaler Sicherheitsberater unter Jimmy Carter einmal zugab, „die produktivsten und einflußreichsten Staaten an Amerika und verleiht den Vereinigten Staaten selbst in innereuropäischen Angelegenheiten eine wichtige Stimme.“


Vor den US-Kriegskarren gespannt 

Wenn es um internationale Hilfsleistungen geht, ist die EU willkommen, ansonsten spielt sie oft nur eine Statistenrolle. Dann wird versucht, außenpolitische Ohnmacht mit Großzügigkeit zu kompensieren. Immer wieder lässt sich die Europäische Union in US-Kriege wie in Afghanistan hineinziehen. Damit läuft sie Gefahr, Geld und Ressourcen zu verlieren, die anderswo gebraucht werden. Schwerpunkt von Auslandseinsätzen sollte die Peripherie Europas sein.


Bedeutungslose EU

Das Interesse der USA beschränkt sich darauf, im Namen der Terrorbekämpfung Passagierdaten und finanzielle Ressourcen aus der EU zu pressen. Die Nichtteilnahme Barack Obamans am EU/USA-Gipfel im Mai hat – allen Träumen vom „Global Player“ zum Trotz – die weltpolitische Bedeutungslosigkeit der Europäischen Union erneut unterstrichen. Der verunglückte Vertrag von Lissabon hat nur den Weg zu einem zentralistischen Bundesstaat geebnet und die Stellung Europas in der Welt geschwächt


Nach sorgfältigem Für und Wider könnten noch Einsätze außerhalb Europas geführt werden, die etwa aus Gründen der Energie- und Rohstoffversorgung im Interesse der EU liegen. Es kann aber nicht Ziel der EU sein, US-Wirtschaftsinteressen zu verteidigen oder für amerikanische Angriffskriege den Zahlmeister zu spielen.
 

mercredi, 05 mai 2010

Il segreto della guerra in Afghanistan: il traffico della droga

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Il segreto della guerra in Afghanistan: il traffico della droga

di John Jiggens - 30/04/2010

Fonte: Andrea Carancini Blog [scheda fonte]


LA GUERRA AFGHANA: “NIENTE SANGUE PER L’OPPIO”

Lo scopo militare segreto è di proteggere il traffico della droga
[1]

Era normale, all’inizio della guerra contro l’Iraq, vedere slogan che proclamavano: “Niente sangue per il petrolio!”. La motivazione di facciata della guerra – i legami con Al Qaeda di Saddam e le sue armi di distruzione di massa – erano ovvie mistificazioni di massa, che nascondevano un programma imperiale molto meno digeribile. La verità era che l’Iraq era un importante produttore di petrolio e, nella nostra epoca, il petrolio è la risorsa più strategica in assoluto. Per molti era ovvio che il programma vero della guerra era il controllo imperialistico del petrolio iracheno. Questo venne confermato quando la compagnia petrolifera statale dell’Iraq venne privatizzata all’indomani della guerra in funzione degli interessi occidentali.

Perché quindi non ci sono slogan che dicono: “Niente sangue per l’oppio!”? Il primo prodotto dell’Afghanistan è l’oppio e la produzione di oppio è straordinariamente aumentata durante l’attuale guerra. L’azione in corso della NATO a Marjah è chiaramente motivata dall’oppio. Si dice che sia la principale area di produzione dell’oppio dell’Afghanistan. Perché allora la gente non pensa che il vero scopo della guerra afghana è il controllo del traffico dell’oppio?

Le armi di mistificazione di massa ci dicono che l’oppio appartiene ai talebani e che gli Stati Uniti stanno combattendo contro la droga così come contro il terrorismo. Tuttavia rimane il fatto singolare che il traffico di oppio dell’Asia orientale, negli ultimi 50 anni, ha percorso un tragitto da est a ovest, seguendo le guerre americane, e sempre sotto il controllo degli apparati americani.

Negli anni ’60, quando gli Stati Uniti combattevano in Laos una guerra segreta utilizzando l’esercito Hmong dell’oppio di Vang Pao
[2] come suo mandatario, l’Asia sudorientale produceva il 70% dell’oppio illegale del mondo. Dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan, la produzione dell’Afghanistan, controllata dai signori della droga appoggiati dagli Stati Uniti, che fino ad allora aveva rivaleggiato con la produzione dell’Asia sudorientale, venne eliminata. Dal 2002, la produzione afghana di oppio, incoraggiata sia dai talebani che dai signori della droga appoggiati dagli Stati Uniti, ha raggiunto il 93% della produzione mondiale illegale: una prestazione senza confronti.

Il grafico riprodotto nell'illustrazione, tratto dal UN World Drug Report [Rapporto Mondiale sulle Droghe delle Nazioni Unite] del 2008, mostra la crescita sbalorditiva della produzione afghana di oppio seguita all'invasione americana.

Negli anni ’80, gli Stati Uniti sostennero in Afghanistan i fondamentalisti islamici, i mujaheddin, contro i sovietici. Per finanziarsi la guerra, i mujaheddin ordinarono agli agricoltori di coltivare l’oppio come pedaggio alla rivoluzione. Lungo il confine col Pakistan, i leader afghani e i cartelli locali, sotto la protezione dell’intelligence pakistana, gestivano centinaia di raffinerie di eroina. Quando la Mezzaluna d’Oro dell’Asia sudoccidentale eclissò il Triangolo d’Oro dell’Asia sudorientale come centro del traffico di eroina, fece alzare i tassi di tossicodipendenza in Afghanista, Iran, Pakistan e Unione Sovietica in modo vertiginoso.

Per nascondere la complicità statunitense nel traffico della droga, venne chiesto ai funzionari della Drug Enforcement Agency (DEA) di stare alla larga dai narcotraffici degli alleati degli Stati Uniti e dal sostegno da essi ricevuto dall’Inter Service Intelligence (ISI) del Pakistan e dai favori delle banche pakistane. Il compito della CIA era di destabilizzare l’Unione Sovietica per mezzo del sostegno all’islam fondamentalista all’interno delle repubbliche centro-asiatiche, e così sacrificarono la guerra alla droga per combattere la Guerra Fredda. Il loro compito era di danneggiare i sovietici il più possibile. Sapendo che la guerra con la droga avrebbe accelerato il crollo dell’Unione Sovietica, la CIA facilitò le attività dei ribelli anti-sovietici nelle province dell’Uzbekistan, della Cecenia e della Georgia. Le droghe vennero usate per finanziare il terrorismo e le agenzie di intelligence occidentali usavano il loro controllo sul narcotraffico per influenzare i gruppi politici in Asia Centrale.

L’esercito sovietico si ritirò dall’Afghanistan nel 1989, lasciando sul campo una guerra civile - tra i mujaheddin finanziati dagli Stati Uniti e il governo sostenuto dai sovietici - che durò fino al 1992. Nel caos che seguì alla vittoria dei mujaheddin, l’Afghanistan scivolò in un periodo di guerra per bande in cui l’oppio crebbe in modo vigoroso.

Dal caos emersero i talebani, che si impegnarono a eliminare i signori della guerra e ad applicare un’interpretazione stretta della legge islamica (sharia). Presero Kandahar nel 1994, ed ampliarono il loro controllo dell’Afghanistan, conquistando Kabul nel 1996, e proclamando l’Emirato Islamico dell’Afghanistan.

Sotto la politica del governo talebano, la produzione di oppio in Afghanistan venne messa a freno. Nel Settembre del 1999, le autorità talebane emisero un’ordinanza che ordinava a tutti i coltivatori di oppio dell’Afghanistan di ridurre la produzione di un terzo. Una seconda ordinanza, promulgata nel Luglio del 2000, ordinava ai coltivatori di cessare del tutto la coltivazione dell’oppio. Ordinando la messa al bando della coltivazione dell’oppio, il Mullah Omar definì il traffico di droga “anti-islamico”.

Di conseguenza, il 2001 fu l’anno peggiore per la produzione globale di oppio nel periodo tra il 1990 e il 2007. Durante gli anni ’90, la produzione globale di oppio raggiunse la media di oltre 4.000 tonnellate. Nel 2001, la produzione di oppio precipitò a meno di 200 tonnellate. Sebbene non venne riconosciuto dal governo Howard, che se ne attribuì il merito, la penuria di eroina in Australia del 2001 era dovuta ai talebani.

Dopo l’attacco al Pentagono e alle Torri Gemelle dell’11 Settembre 2001, gli eserciti dell’alleanza del nord, guidati dalle forze speciali statunitensi e sostenuti dalle bombe “daisy cutter”
[3], dalle bombe a grappolo e dai missili anti-bunker, distrussero le forze talebane in Afghanistan. Il bando dell’oppio venne tolto e, con i signori della guerra sostenuti dalla CIA di nuovo al potere, l’Afghanistan divenne di nuovo il principale produttore di oppio. Nonostante i dinieghi ufficiali, Hillary Mann Leverett, ex addetto del National Security Council per l’Afghanistan, confermò che gli Stati Uniti sapevano che i ministri del governo afghano, incluso il ministro della difesa del 2002, erano coinvolti nel traffico della droga.

Schweich scrisse sul New York Times che “la narco-corruzione arrivò ai vertici del governo afghano”. Disse che Karzai era restio a combattere i grandi signori della droga nella sua roccaforte politica al sud, dove viene prodotta la maggior parte dell’oppio e dell’eroina del paese.

Il più importante di questi sospetti signori della droga era Ahmed Wali Karzai, il fratello del Presidente Hamid Karzai. Si è detto che Ahmed Wali Karzai abbia orchestrato la fabbricazione di centinaia di migliaia di schede elettorali fasulle per il tentativo di rielezione del fratello nell’Agosto del 2009. È stato anche ritenuto responsabile della presentazione di dozzine di cosidetti seggi elettorali fantasma – esistenti solo sulla carta – usati per fabbricare decine di migliaia di schede fasulle. Funzionari statunitensi hanno criticato il suo controllo “para-mafioso” dell’Afghanistan meridionale. Il New York Times ha riferito che l’amministrazione Obama si è ripromessa di prendere serie misure contro i signori della droga che permeano gli alti livelli dell’amministrazione del Presidente Karzai, e che ha fatto pressioni sul Presidente Karzai affinché allontanasse suo fratello dall’Afghanistan del sud, ma lui si è rifiutato.

“Karzai ci sta giocando come un imbroglione”, ha scritto Schweich. “Gli Stati Uniti hanno speso miliardi di dollari per lo sviluppo infrastrutturale; gli Stati Uniti e i loro alleati hanno combattuto i talebani; gli amici di Karzai hanno avuto la possibilità di diventare più ricchi col traffico della droga. Karzai aveva per nemici dei talebani che hanno fatto profitti con la droga, ma aveva un numero anche maggiore di amici che l’hanno fatto”.

Ma chi ha giocato chi come un imbroglione?

È stato il Presidente fantoccio o i burrattinai che lo hanno insediato?

Come Douglas Valentine mostra nella sua storia della guerra alla droga, The Strenght of the Pack [La forza del branco], questa guerra infinita è stata una gara fasulla, un braccio di ferro tra due braccia dello stato americano, la DEA e la CIA; con la DEA che ha cercato invano di fare la guerra, mentre la CIA protegge i suoi apparati che commerciano con la droga.

Durante i secoli diciannovesimo e ventesimo, le potenze europee (soprattutto l’Inghilterra) e il Giappone usarono il traffico di oppio per indebolire e sottomettere la Cina. Durante il ventunesimo secolo, sembra che l’arma dell’oppio venga usata contro l’Iran, la Russia e le ex repubbliche sovietiche, tutti costretti a fronteggiare tassi vertiginosi di tossicodipendenza e la penetrazione occulta degli Stati Uniti, mentre la guerra afghana alimenta la piaga dell’eroina dell’Asia Centrale.

[1] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=18768
[2] http://it.wikipedia.org/wiki/Hmong
[3] http://it.wikipedia.org/wiki/BLU-82
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lundi, 05 avril 2010

Brzezinski sta per finire nella pattumeria della storia?

Brzezinski sta per finire nella pattumiera della Storia ?

di Alessandro Lattanzio

Fonte: saigon2k [scheda fonte]



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zbigniew_brzezinski.jpgIl 23 Febbraio 2010, l’intelligence iraniana assestava un duro colpo alla strategia neo-mackinderiana dell’amministrazione Obama, catturando Abdolmalek Rigi, il capo del gruppo terroristico Jundallah, responsabile di stragi, rapina a mano armata, sequestro di persona, atti di sabotaggio, attentati e operazioni terroristiche contro i civili, esponenti del governo e militari dell’Iran, assassinando in 6 anni oltre 150 persone in Iran, per la maggior parte civili.

Nell’ultimo attentato compiuto dal Jundullah, il 18 ottobre 2009, nella regione di Pishin, nel Sistan-Baluchistan (sud-est dell’Iran, al confine col Pakistan), rimasero uccise più di 40 persone, tra cui 15 componenti e alti ufficiali del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica (Pasdaran), e diversi capi tribali dell’area. Rigi era su un aereo di linea, in un volo notturno, proveniente da Dubai e diretto in Kirghizistan, ma l’aereo è stato intercettato dai caccia dell’aeronautica iraniana e costretto ad atterrare nell’aeroporto di Bandar Abbas, in territorio iraniano. Rigi viaggiava con passaporto afgano, e infatti, probabilmente nell’aprile 2008, aveva incontrato proprio in Afghanistan l’allora segretario generale della NATO, dopo esser stato ospitato presso una base statunitense non precisata. Il fratello di Abdolmalek, Abdulhamid Rigi, che era stato arrestato in precedenza, ha affermato che suo fratello aveva stabilito dei contatti con l’amministrazione statunitense, tramite un certo Amanollah-Khan, il cui nome completo è Amanollah-Khan Rigi, sostenitore del regime dello Shah. Dopo la Rivoluzione del ‘79, Rigi lasciò il paese chiedendo asilo politico negli Stati Uniti. Secondo Abdulhamid gli statunitensi avrebbero arruolato Amanollah-Khan per stabilire un collegamento tra gli USA e il gruppo terroristico Jundallah, e nell’ambito di queste operazioni, Abdolhamid Rigi avrebbe incontrato l’ambasciatore statunitense in Pakistan che gli aveva promesso finanziamenti e un sicuro rifugio in Pakistan. E difatti, sempre secondo Abdolhamid, il governo pakistano è perfettamente al corrente di queste manovre e dove operi il gruppo terroristico Jundallah.

Abdolmalek Rigi ha poi completato le dichiarazioni del fratello:

“Dopo che Obama venne eletto, gli americani ci contattarono e mi incontrarono in Pakistan. Lui mi disse che gli americani chiedevano un colloquio. Io all’inizio non accettai ma lui promise a noi grande cooperazione. Disse che ci avrebbe dato armi, mitragliatrici ed equipaggiamenti militari; loro ci promisero pure una base militare in Afghanistan, a ridosso del confine con l’Iran. Il nostro meeting avvenne a Dubai, e anche lì ripeterono che avrebbero dato a noi la base in Afghanistan e che avrebbero garantito la mia sicurezza in tutti i paesi limitrofi dell’Iran, in modo che io possa mettere in atto le mie operazioni”.

Rigi era diretto a Bishkek, in Afghanistan perché:

“Mi dissero che un alto esponente americano mi voleva vedere e che lui mi aspettava nella base militare di Manas, vicino Bishkek, in Kirghizistan. Mi dissero che se questo alto esponente viaggiava negli Emirati, poteva essere riconosciuto e perciò dovevo andare io da lui. Nei nostri meeting gli americani dicevano che l’Iran aveva preso la sua strada e che al momento il loro problema era proprio l’Iran e non al-Qaida e nemmeno i taliban; solo e solamente l’Iran. Dicevano di non avere un piano militare adatto per attaccare l’Iran. Questo, dicevano, è molto difficile per noi. Ma dicevano che la CIA conta su di me, perché crede che la mia organizzazione è in grado di destabilizzare il paese. Un ufficiale della CIA mi disse che era molto difficile per loro attaccare l’Iran e che, perciò, il governo americano aveva deciso di dare supporto a tutti i gruppi anti-iraniani capaci di creare difficoltà al governo islamico. Per questo mi dissero che erano pronti a darci ogni sorta di addestramento, aiuti, soldi quanti ne volevamo e la base per poter mettere in atto le nostre azioni”.

Il personaggio statunitense che Rigi avrebbe dovuto incontrare, nella base aera dell’USAF di Manas, assieme a un alto funzionario dell’intelligence USA, sarebbe stato Richard Holbrooke, inviato speciale statunitense per l’Afghanistan e il Pakistan, che quel giorno si trovava proprio in Kirghizistan. Ma a un certo punto, le cose, per Rigi, si mettono male: i servizi segreti di Afghanistan e Pakistan, dopo averlo sostenuto per anni nella sua attività terroristica, avrebbero deciso di abbandonarlo all’indomani dell’attentato di Pishin. I servizi segreti pakistani gli dissero, rimanendo però inascoltati, di sparire dalla circolazione, di lasciare la città di Quetta e di rifugiarsi nelle zone montuose del Pakistan. Il 18 Marzo, membri di Jundallah, armati e a bordo di jeep, tentavano di oltrepassare il confine tra Pakistan e Iran, ma appena entrati in territorio iraniano, i terroristi sono caduti in una trappola tesa dalle unità d’élite dei Pasdaran, causando l’eliminazione di numerosi terroristi. Così le forze di sicurezza iraniane infliggevano un altro colpo devastante al Jundullah.

In parallelo con lo smantellamento del Jundullah, l’intelligence iraniana metteva a segno un altro colpo: il 14 Marzo 2010 venivano arrestate trenta persone coinvolte in una cyber-guerra contro la sicurezza nazionale iraniana. La rete clandestina avrebbe ricevuto aiuti dagli Stati Uniti e avrebbe cooperato con gruppi controrivoluzionari monarchici e con l’organizzazione terroristica dei Mujaheddin e-Khalq. Tra i compiti della rete ci sarebbe stata la raccolta di informazioni sugli scienziati coinvolti nel programma nucleare iraniano. In effetti, il giornalista del New Yorker Seymour Hersh rivelò che nel 2006 il Congresso statunitense aveva acconsentito alla richiesta dell’ex presidente George W. Bush di finanziare operazioni coperte in Iran. Hersh, citando Robert Baer, un ex agente della CIA in Medio Oriente, affermò che così vennero stanziati 400 milioni di dollari per le operazioni condotte da al-Qaida, Jundallah e Mujaheddin-e Khalq, con lo scopo di creare il caos in Iran e di screditarne il governo. Inoltre, anche la manipolazione dell’informazione rientrava nel piano di Bush, mentre la CIA stanziava oltre 50 milioni di dollari per attivare un comitato anti-iraniano, denominato IBB, presso il Dipartimento di Stato USA.

Il 17 Marzo 2010, a suggellare il mutamento del quadro strategico regionale, segnalato dalla suddetta svolta nella lotta al terrorismo alimentato dagli apparati d’intelligence e militari statunitensi, Iran e Pakistan hanno firmato l’accordo finale della costruzione del gasdotto TAPI, con cui si trasporterà il gas iraniano in Pakistan, Turchia, e forse India o Cina. Si tratta di un progetto, da completare entro il 2014, che consentirà all’Iran di esportare, per 25 anni, 750 milioni di metri cubi di gas al giorno.

Difatti, il percorso di collaborazione e sovranismo economico-strategico, percorso da Turchia, Iran e Pakistan, non fa altro che cementare e rafforzare la stabilità, già sufficientemente precaria, della regione. Un obiettivo perseguito da Washington, non solo contro Tehran e Islamabad, ma anche contro Ankara. E in effetti, il 22 febbraio 2010, il primo ministro turco, Recep Tayyip Erdogan annunciava che la magistratura turca aveva sventato un tentato golpe militare, arrestando in tutto il paese 51 militari (17 tra generali e ufficiali in pensione, quattro ammiragli e almeno altri 28 ufficiali in servizio) accusati di tentato colpo di stato e di associazione per delinquere. Si trattava dell’operazione ‘Bayloz’ (Martello), volta a rovesciare il governo del Partito Giustizia e Sviluppo (AKP) del premier Erdogan. Ai vertici del complotto vi erano Ibrahim Firtina, ex-capo di stato maggiore dell’aeronautica militare turca ed i suoi omologhi Ozden Ornek, della marina e Ergin Saygun, dell’esercito, che nel 2007 accompagnò a Washington il premier Erdogan, nella sua visita al presidente degli USA George W. Bush, l’ex capo delle forze speciali, il generale Engin Alan, e l’ex comandante del primo corpo d’armata, il generale Cetin Dogan. Inoltre almeno altri sette ufficiali in congedo e sette in servizio sono stati fermati. Lo smantellamento dell’organizzazione ‘Bayloz’ è un effetto collaterale dell’inchiesta su un altro golpe, dell’organizzazione clandestina ‘Ergenekon’ che coinvolse più di 300 persone, ora sotto processo e sorvegliate dalle autorità turche, che venne sventata nel 2003 e che prevedeva attentati terroristici contro due moschee di Istanbul, attacchi con ordigni incendiari a dei musei, oltre all’omicidio del premio nobel per la letteratura, Orhan Pamuk, e dello stesso Erdogan. Tutte azioni volte ad alimentare la ‘strategia della tensione’. Infine era previsto anche l’abbattimento di un aereo di linea turco nel Mar Egeo da attribuire a un caccia greco, con ciò richiamandosi espressamente all’operazione di provocazione ‘Northwood’, stilata dagli Stati Maggiori Riuniti degli Stati Uniti, all’epoca della crisi con la Cuba rivoluzionaria. Tutti aspetti che mostrano chiaramente l’origine di queste organizzazioni eversive turche. Infatti ‘Ergenekon’ era un’organizzazione simile a ‘Gladio’, funzionale quindi alla strategia del piano ‘Stay Behind’ della NATO, con una struttura orizzontale che aveva aderenti in tutti i campo: civili, accademici e militari.

Tali eventi avvengono mentre il Pakistan compie la svolta politica decisiva, attuata a seguito della scoperta e denuncia di una rete clandestina, collegata all’intelligence statunitense, che operava nel suo territorio. Si trattava di un’organizzazione costituita da mercenari, terroristi e squadroni della morte che spargevano terrore presso la popolazione ed effettuavano raid contro svariati obiettivi, pretestuosamente indicati come terroristi o fiancheggiatori dei taliban. Non va escluso che tale rete sia coinvolta nell’ondata dei devastanti attentati che ha colpito il Pakistan negli ultimi anni. Infatti un funzionario del dipartimento alla Difesa USA, Michael Furlong, con la copertura di un programma per la raccolta di informazioni, aveva creato degli squadroni della morte utilizzando una rete di contractor di agenzie paramilitari private, segnatamente un reparto d’elite della Xe Service (ex Blackwater), composta soprattutto da ex membri della CIA e delle forze speciali. Come detto, l’obiettivo era scovare e uccidere presunti taliban e militanti di al-Qaida, sia in Afghanistan che in Pakistan. Furlong aveva assunto i mercenari allo scopo, apparente, di effettuare operazioni di intelligence contro i combattenti e i campi di addestramento taliban, con cui sostenere i militari e i servizi segreti nell’effettuare azioni d’attacco in Afghanistan e in Pakistan (in questo caso aggirando il divieto di operare in territorio pakistano, imposto da Islamabad agli USA), rimanendo al di fuori dalla catena di comando della NATO. In realtà la rete era “al centro di un programma segreto in cui si pianificavano assassinii mirati, azioni mordi e fuggi contro obiettivi importanti ed altre azioni segrete all’interno ed all’esterno del Pakistan”. Probabilmente, la rete occulta di Furlong era controllata dalle gerarchie militari e politiche di Washington, e finanziata sia con fondi distolti dal programma per la raccolta di informazioni, sia probabilmente con lo sfruttamento del narco-traffico della regione. In Germania, in effetti, un servizio trasmesso a febbraio dalla Norddeutsche Rundfunk, la TV pubblica tedesca, ha rivelato che la NATO e il ministero della Difesa tedesco starebbero investigando sulle attività della Ecolog, una multinazionale di proprietà della famiglia albano-macedone Destani, di Tetovo, che con un contratto della NATO, dal 2003, opera in Afghanistan fornendo servizi logistici alle basi dell’ISAF e all’aeroporto militare di Kabul. La Ecolog sarebbe coinvolta nel contrabbando internazionale di eroina dall’Afghanistan. “C’è il rischio che sia stata contrabbandata droga, quindi valuteremo se la Ecolog è ancora un partner affidabile per noi“, ha dichiarato alla Tv tedesca il generale Egon Ramms del NATO Joint Force Command di Brussum, in Olanda. “Siamo al corrente della questione e stiamo investigando con le autorità competenti“, ha confermato un portavoce del ministero della difesa tedesco. Nel 2006 e nel 2008 la Ecolog era stata indagata, in Germania, per traffico di eroina dall’Afghanistan e riciclaggio di denaro sporco. Nel 2002, quando la Ecolog operava in Kosovo per conto del contingente tedesco della KFOR, i servizi segreti di Berlino informarono i vertici della Nato che il clan Destani, collegato all’UCK, controllava il traffico di droga, armi e esseri umani al confine macedone-kosovaro. Il 90 per cento dei quattromila dipendenti della Ecolog sono albano-macedoni.

Non è un caso che rotte del narcotraffico e linee di frattura conflittuali si dispieghino, in modo parallelo, dalle propaggini dell’Himalaya all’Europa balcanica. I fatti su riportati, sono collegati alla politica internazionale enunciata da Obama fin da quando si era candidato alla carica presidenziale degli Stati Uniti d’America, e non a caso Obama è un allievo del neomackinderiano polacco-americano Zbignew Brzezinsky. Brzezinsky ha indicato come obiettivo centrale della politica globale statunitense, impedire che si formi un blocco economico-strategico eurasiatico, intervenendo in quello che Brzezinsky ritiene il ventre molle dell’Eurasia, la macro-regione Balcani-Medio Oriente-Pashtunistan.

Memore del suo successo con i ‘Freedom fighters’, ovvero con i mujahidin afgani che armò e finanziò per combattere la presenza sovietica e il Partito Democratico Popolare in Afghanistan, Bzrezinsky, tramite il suo seguace Barack Obama, ha voluto riprendere la sua vecchia strategia, convinto che la debolezza della Russia e le divisioni fra Iran, Pakistan, India e Cina potessero aiutare gli USA ad approfondire e allargare l’arco delle crisi artificiali che si dipana sulla regione balcanico-mediorientale. Ma l’usura subita dalla forza, vera e immaginaria, degli USA, avutasi grazie alle politiche dell’amministrazione di Bush junior, coniugata all’avanzata economica-strategica di New Delhi e Beijing, alla politica di decisa tutela della propria sovranità da parte di Tehran e alla ripresa, da parte di Mosca, di una politica internazionale di ampio respiro, tesa a creare stretti rapporti di collaborazione e buon vicinato con il suo estero vicino e le altre potenze eurasiatiche, stanno mettendo sotto scacco tutte le mosse di Washington, ideate appunto dal gruppo di Brzezinsky, volte a impedire la realizzazione del peggior incubo per un mackinderiano: la formazione di un blocco economico-strategico in Eurasia. Se, in tale quadro, s’inserisce la crisi con Tel Aviv, conseguenza del riorientamento geostrategico e geopoltico brezinskiano, ossessivamente puntato verso l’Heartland, si può prevedere che il programma neomackinderiano di Washington sia entrato in un vicolo cieco che potrebbe procurare una grave crisi all’amministrazione Obama, che magari potrebbe portare all’abbandono di tale strategia quasi fallimentare. E forse, l’ostinata ricerca di un consenso sul piano interno, procacciato con il varo di una riforma (in realtà demolitoria) per l’estensione della sanità a tutta la popolazione statunitense, rientra nella previsione di questa possibile prossima crisi acuta.



samedi, 03 avril 2010

Afghanistan: comment la CIA souhaite manipuler l'opinion publique française

cia.jpgAfghanistan : comment la CIA souhaite manipuler l’opinion publique française

WASHINGTON (NOVOpress) – Dans une note préparée par sa « cellule rouge », chargée des propositions et analyses novatrices, l’agence de renseignement américaine propose de manipuler l’opinion publique française afin de la rendre plus favorable à l’intervention en Afghanistan, et ainsi faciliter l’envoi de renforts français sur le théâtre d’opérations.

Selon ce document, en France et en Allemagne, « l’apathie de l’opinion publique permet aux dirigeants de ne pas se soucier de leurs mandants ». En effet, bien que 80% des Français et des Allemands soient opposés à la guerre, « le peu d’intérêt suscité par la question a permis aux responsables de ne pas tenir compte de cette opposition et d’envoyer des renforts ».

Mais l’agence rappelle le précédent des Pays Bas où la coalition au pouvoir a éclaté sur la question afghane, et s’inquiète d’un possible revirement de l’opinion si les prochains combats sur place sont meurtriers.

Pour les rédacteurs, il convient donc de préparer les opinions publiques à accepter des pertes, notamment en cherchant à établir un lien entre l’expédition afghane et les préoccupations internes.

Pour obtenir ce résultat, plusieurs axes sont proposés par les agents américains :

- La question des réfugiés. L’importance accordée en France à la question des réfugiés, soulignée par la vague de protestation qui a accompagné la récente expulsion de douze afghans, offrant un premier axe de propagande consistant à persuader les Français que l’OTAN vient en aide aux civils.

- Le féminisme et la condition des femmes. Le document propose ainsi d’insister sur les progrès réalisés dans l’éducation des femmes, qui seraient compromis par un retour des talibans. La CIA recommande d’ailleurs de faire délivrer les messages favorables à l’intervention occidentale par des femmes afghanes.

- L’Obamania. Le crédit dont jouit le président Obama en Europe pourrait également être mis à profit, son implication plus directe permettant sans doute de renforcer le soutien à l’intervention.


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[
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mardi, 30 mars 2010

Afghanistan, narcotrafficanti sotto contratto Nato?

Afghanistan, narcotrafficanti sotto contratto Nato?

di Enrico Piovesana

Fonte: Peace Reporter [scheda fonte]



us_opium.jpgImpresa privata tedesco-albanese che da anni fornisce servizi logistici alle basi Isaf in Afghanistan, sospettata di traffico internazionale di eroina

In Germania è scoppiato uno scandalo - subito silenziato - che rafforza i sempre più diffusi sospetti sul coinvolgimento delle forze d'occupazione occidentali in Afghanistan nel traffico internazionale di eroina - di cui questo paese è diventato, dopo l'invasione del 2001, il principale produttore globale.

Ecolog, servizi alle basi Nato e traffico di eroina. Un servizio mandato in onda a fine febbraio dalla radio-televisione pubblica tedesca Norddeutsche Rundfunk (Ndr) ha rivelato che la Nato e il ministero della Difesa di Berlino stanno investigando sulle presunte attività illecite della Ecolog: multinazionale tedesca di proprietà di una potente famiglia albanese macedone - i Destani, di Tetovo - che dal 2003 opera in Afghanistan sotto contratto Nato, fornendo servizi logistici alle basi militari Isaf dei diversi contingenti nazionali (compreso quello italiano) e all'aeroporto militare di Kabul. E che, secondo recenti informative segrete e rapporti confidenziali ricevuti dalla stessa Nato, sarebbe coinvolta nel contrabbando internazionale di eroina dall'Afghanistan.
"C'è il rischio che sia stata contrabbandata droga, quindi valuteremo se la Ecolog è ancora un partner affidabile per noi", ha dichiarato alla Ndr il generale tedesco Egon Ramms, a capo della Nato Joint Force Command di Brussum, in Olanda.
"Siamo al corrente della questione e stiamo investigando con le autorità competenti", ha confermato un portavoce della Difesa tedesca ai microfoni dell'emittente pubblica.

Dietro l'impresa, il clan albanese-macedone dei Destani. Il servizio della Ndr spiega che già nel 2006 e poi nel 2008, dipendenti della la Ecolog sono finiti sotto inchiesta in Germania con l'accusa di traffico di eroina - centinaia di chili - dall'Afghanistan e di riciclaggio di denaro sporco. E che nel 2002, quando la Ecolog operava in Kosovo al servizio delle basi del contingente tedesco della Kfor, i servizi segreti di Berlino avevano informato i vertici Nato che il clan Destani, strettamente legato ai gruppi armati indipendentisti albanesi (Uck e Kla), controllava ogni sorta di attività e traffico illegale attraverso il confine macedone-kosovaro: dalla droga, alle armi, al traffico di esseri umani.
La Ecolog, che ha la sua sede principale a Düsseldorf (con filiali in Macedonia, Turchia, Emirati Arabi, Kuwait, Stati Uniti e Cina) è stata fondata nel 1998, ed è oggi amministrata, dal giovane Nazif Destani, figlio del capofamiglia Lazim, già condannato a Monaco di Baviera nel 1994 per dettenzione illegali di armi e favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Il 90 per cento dei quasi quattromila dipendenti della Ecolog sono albanesi macedoni.

La Ecolog smentisce e fa rimuovere il servizio giornalistico. L'esplosivo servizio della Ndr è stato subito ripreso e amplificato dai mass media tedeschi: dall'emittente nazionale Deutsche Welle al settimanale Der Spiegel.
La reazione della Ecolog è stata immediata e durissima. Thomas Wachowitz, braccio destro di Nafiz Destani, ha bollato come "assurde" e "completamente infondate" le accuse contenute nel servizio, in quanto basate su una "confusione di nomi", e ha chiesto l'intervento della magistratura.
Il 4 marzo, il tribunale federale di Amburgo ha accolto l'esposto della Ecolog, emettendo un'ingiunzione che, senza entrare nel merito del contenuto del servizio giornalistico, impedisce all'emittente Ndr di "sollevare ulteriori sospetti" sull'azienda. La Ndr, dal canto suo, ha dichiarato di ritenere false le argomentazioni della Ecolog e ha annunciato un ricorso contro l'ingiunzione.

 


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jeudi, 18 mars 2010

EEUU y la OTAN libran una guerra no declarada contra Russia

EEUU y la OTAN libran una guerra no declarada contra Rusia

Para Moscú, la inacción de los Estados Unidos y la OTAN para combatir el tráfico de drogas en Afganistán, se traducen en una guerra no declarada contra Rusia.

El embajador ruso para la OTAN, Dmitry Rogozin, fustigó a la alianza por su falta de vigilancia sobre el tráfico de estupefacientes en el país asiático.

Afganistán produce alrededor del 90% del opio del mundo. Las drogas afganas entran en Rusia y Asia Central antes que en Europa Occidenta, y son responsables de la muerte de 30 mil rusos anualmente, dijo Rogozin.

Moscú sostuvo, también, que la producción de droga dentro de las fronteras afganas se ha incrementado 10 veces desde el 2001, año en que la OTAN liderada por los Estados Unidos invadieron ese país.


Hoy hay más de 100 mil tropas invasoras lideradas por los Estados Unidos en Afganistán; sin embargo, lejos están los invasores de lograr estabilizar el país. Desde el inicio del año 122 soldados de las fuerzas invasoras han muerto, producto de la resistencia afgana.

Extraído de La República.

mercredi, 10 mars 2010

Afghanistan-Offensive der NATO: für Frieden - oder für Opium und Uran...

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Afghanistan-Offensive der NATO: für Frieden – oder für Opium und Uran …

F. William Engdahl / Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Bei der »Operation Moshtarak«, einer vorab angekündigten massiven NATO-Offensive in der Stadt Marjah in der afghanischen Provinz Helmand, ging es offensichtlich nicht in erster Linie darum, die »Taliban« »auszulöschen« oder die versprengten Überreste einer angeblichen »Al Qaida« zu zerschlagen – die ohnehin immer mehr das Fantasieprodukt amerikanischer schwarzer Propaganda zu sein scheint. Welches Ziel hatte dann aber die Tötung so vieler unschuldiger afghanischer Zivilisten, darunter auch Frauen und Kinder?

Die Operation Moshtarak begann damit, dass Ort und mehr oder weniger die genaue Zeit des Angriffs in einer bizarr anmutenden Erklärung bereits vorab bekannt gegeben wurden. Bei ernsthaftem militärischem Vorgehen zeugt es nicht gerade von brillanter Taktik, den Gegner zuvor davon in Kenntnis zu setzen. Die Bombenangriffe umfassten den Einsatz ferngesteuerter amerikanischer Drohnen und anderer Flugzeuge, sie waren begleitet von einer Bodenoffensive von etwa 6.000 US-Marines, britischen und anderen NATO-Soldaten sowie Truppen der afghanischen nationalen Streitkräfte, insgesamt waren in der kleinen Stadt Marjah ca. 15.000 Soldaten im Einsatz. Das Weiße Haus spricht von der größten gemeinsamen US-NATO-afghanischen Militäroperation der Geschichte, die erste Großoffensive von Einheiten, die zu der von Barack Obama angeordneten »Aufstockung« um 30.000 Soldaten gehören.

Wie die New York Times berichtete, sind in den ersten Tagen der Offensive, die von der Propaganda des Pentagon als »humanitäre« Militärmission bezeichnet wird, fünf Kinder beim Einschlag einer Rakete in ein Gelände getötet worden, auf dem sich »afghanische Zivilisten aufhielten«. Insgesamt kamen bei dem Angriff bis zu zwölf Zivilisten ums Leben. Die computergesteuerten Raketen wurden von einer mehr als zehn Meilen entfernten Basis abgeschossen.

»Wir versuchen, dem afghanischen Volk zu vermitteln, dass wir die Sicherheit in ihrem Wohnumfeld erhöhen«, erklärte US-General Stanley McChrystal.

 

»Lächerliche Militärstrategie«

Zunächst einmal wird – wie viele zuverlässige Berichte aus Afghanistan bestätigen – der Begriff »Taliban« von den Militärplanern in Washington als Begründung für jede Form amerikanischer militärischer Besetzung des Landes ins Feld geführt. Viele, die da als Taliban bezeichnet werden, sind in Wirklichkeit lokale Aufständische, die das Land nach über 30-jähriger ausländischer Besetzung endlich von den Besatzern befreien wollen.

Malalai Joya, eine gewählte Abgeordnete des afghanischen Parlaments, hat den jüngsten Militärschlag offen als »lächerliche Militärstrategie« bezeichnet. Im einem Interview mit der Londoner Zeitung Independent erklärte sie: »Einerseits fordern sie Mullah Omar auf, dem Marionettenregime beizutreten. Andererseits führen sie diesen Angriff, dem vor allem schutzlose, arme Menschen zum Opfer fallen. Wie in der Vergangenheit werden sie bei Bombenangriffen der NATO getötet und dienen den Taliban als menschliche Schutzschilde. Die Menschen in Helmand leiden seit Jahren und Tausend von Unschuldigen sind bereits ums Leben gekommen.«  

Joya betont, das Ziel der USA und des McCrystal-Plans seien nicht die Taliban. Es gehe vielmehr um die Sicherung der Kontrolle über die wertvollen Rohstoffe in der Provinz Helmand, nämlich um Uran und Opium.

Die Polizeikräfte in Afghanistan bezeichnet Joya als »die korrupteste Institution in Afghanistan. Bestechung ist an der Tagesordnung, wer das Geld hat, um die Polizei von oben bis unten zu bestechen, der kann praktisch tun, was er will. In weiten Teilen Afghanistans hassen die Menschen die Polizei mehr als die Taliban. So haben beispielsweise die Menschen in Helmand Angst vor der Polizei, die gewaltsam gegen sie vorgeht und Unruhe schürt. Die meisten Polizisten in dieser Provinz sind opium- oder cannabisabhängig.« Zu der jüngsten multinationalen Afghanistan-Konferenz in London war Joya nicht eingeladen, sie gilt als »wandelndes Pulverfass«, weil sie zu offen über die Wirklichkeit in Afghanistan spricht. Berichten zufolge hat sie genau deswegen in Afghanistan sehr viele Anhänger.

Nach Angaben im neuesten Afghanistan-Gutachten der UN ist die Provinz Helmand mit 42 Prozent der Weltproduktion die größte Opium produzierende Region der Welt. Hier wird mehr Opium hergestellt als in ganz Burma, dem zweitgrößten Opiumproduzenten nach Afghanistan. Über 90 Prozent des weltweiten Opium-Angebots stammt aus Afghanistan. Wenn Washington nun einerseits behauptet, die Taliban hätten sich die Kontrolle über die Opiumproduktion in Helmand verschafft, um ihren Aufstand zu finanzieren, oder wenn sich andererseits die Opium-Warlords weigern, mit den amerikanischen und anderen NATO-Geheimdiensten zusammenzuarbeiten, die selbst im Verdacht stehen, den weltweiten Opiumhandel zu kontrollieren, um mit den Einnahmen ihre schwarzen Operationen zu finanzieren, dann geht es bei der derzeitigen Militäroffensive eindeutig nicht darum, Afghanistan dem Frieden näher zu bringen oder die ausländische militärische Besetzung zu beenden.

Dienstag, 02.03.2010

Kategorie: Enthüllungen, Wirtschaft & Finanzen, Politik, Terrorismus

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vendredi, 12 février 2010

Afghanistan : Strategie der Vernebelung

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Afghanistan: Strategie der Vernebelung

Wolfgang Effenberger - Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Am Vortag der Londoner Afghanistan-Konferenz verkündete Bundeskanzlerin Angela Merkel eine »neue Afghanistan-Strategie«. Konnte man in den acht Jahren davor überhaupt von einer Strategie sprechen? – Nach dem preußischen Kriegsphilosophen Carl von Clausewitz stellt die Strategie den – sozusagen – wohlüberlegten und kenntnisreichen Weg dar, um ein angestrebtes Ziel zu erreichen. Das erfordert in erster Linie psychologisch subtiles Agieren, welches präzise von Logik und Vernunft gesteuert wird. Dazu ist eine ständige Standortbestimmung unerlässlich. Aber im Falle Afghanistan scheint nicht einmal der Ausgangsstandort bestimmt worden zu sein!

Der Krieg gegen Afghanistan wurde drei Wochen nach den Terroranschlägen von 9/11 begonnen. Hier hätte auch jedem militärischen Laien Zweifel kommen müssen. Denn ein derartiger Krieg mit fragwürdigen Verbündeten kann nicht in drei Wochen geplant und logistisch vorbereitet werden. Hierzu ist mindestens ein Vorlauf von drei Monaten erforderlich!

Das bestätigt George Arney in seinem BBC-Report US »planned attack on Taleban« vom 18. September 2001. (1) Demnach war die Militäraktion gegen Osama Bin Laden und die Taliban schon Mitte Juli geplant und für Mitte Oktober ins Auge gefasst worden. Diese Aussage wird vom ehemaligen pakistanischen Außenminister Niaz Naik bezeugt.

Der Krieg schien notwendig geworden, nachdem die US-Administration unter US-Präsident Bill Clinton zur Überzeugung kam, dass Afghanistan mit den Taliban nicht nach amerikanischen Vorstellungen zu »stabilisieren« sei. Das hätte eine Stagnation des »großen Spieles« zur Folge gehabt. Ein Patt zwischen amerikanisch-pakistanischen Interessen einerseits und russisch-iranisch-indischen andererseits sollte tunlichst vermieden werden. In diesem Zusammenhang ist auch das UN-Verhandlungsforum »sechs plus zwei« (die sechs Nachbarländer Afghanistans sowie die USA und Russland) unter der Führung des UN-Generalsekretärs Kofi Annan zu sehen. Offenbar war diese vergeblich.

Nachdem der Ausgangspunkt vergessen im Nebel liegt, formulierte die Kanzlerin ein noch nebulöseres Ziel: »Die Verteidigung von Menschenrechten und Sicherheit«. Dazu wurde  eine Truppenaufstockung um 850 Bundeswehrsoldaten und die annähernde Verdoppelung deutscher Polizeiausbilder abgesegnet. Zudem soll die Entwicklungshilfe von 220 Millionen auf 430 Million Euro steigen. Mit diesem linearen Denkansatz der direkten Proportionalität soll mit mehr Soldaten und mehr Geld mehr Sicherheit erreicht werden. Doch zu häufig hat dieses Denken in die Irre geführt, weil die Akteure ihre Augen vor der indirekten Proportionalität verschließen: je mehr kann auch desto weniger bedeuten! Und im Fall Afghanistan dürfte die Sicherheit weiter abnehmen und die Probleme dürften dafür ansteigen. Unbeachtet bleiben die Warnungen des russischen  Journalisten Wladimir Snegirjow (2), der die sowjetische Kampagne und die 1990er-Jahre in Afghanistan beobachtet hat. Seiner Erfahrung nach führt jede Erhöhung der Truppenstärke zu heftigerem Widerstand.

So ist  der gesteigerte Einsatz von unbemannten Kampfflugzeugen mit für die Verschärfung der Sicherheitslage in Afghanistan verantwortlich. Diese Predatoren (Raubtiere) schlagen, wie auch von den Namensgebern gewünscht, bei den ohnmächtigen Opfern wie Raubtiere zu.  Das schürt die Wut der archaischen Bevölkerung und beschert den Taliban weiteren Zulauf.

Die Zunahme der Flugstunden dieser Predatoren beläuft sich im US-Regionalkommando CENTCOM (3) mit den Kriegsgebieten Irak, Afghanistan und Pakistan für den Zeitraum von 2001 bis 2008 auf 1.431 Prozent!

Vor knapp drei Jahren wurden für mehr Sicherheit in Afghanistan sechs Tornado-Aufklärer in Masar-i-Sharif zeitlich befristet stationiert. »Afghanistan wird sicherer durch diesen Einsatz«, versprach Bundesverteidigungsminister Franz Josef Jung in Berlin nach der Kabinettssitzung am 7. Februar 2007. Das Gegenteil ist eingetreten!

Seit  dem Sommer 2008 stellt die Bundeswehr die sogenannten 250 Soldaten starke Quick-Reaction-Force, die bei Bedarf an jedem Ort in Afghanistan offensive Kriegsaktionen durchführt. Seither ist die Lage noch unsicherer geworden und das Ansehen der Deutschen vor Ort dramatisch gesunken.

Nun sollen ausstiegswillige Taliban-Kämpfer mit Wiedereingliederungsmillionen angelockt werden. Hier scheint man aus den Fehlern der ersten Kriegsjahre gelernt zu haben: Ab dem 7. Oktober 2001 fielen nicht nur Bomben und Cruise Missiles auf Afghanistan, sondern auch Abertausende von Flugblättern mit ethisch fragwürdigen Verlockungen. Den perspektivlosen und verzweifelten Menschen wurde etwas angeboten, bei dem selbst viele Menschen der westlichen Welt nicht hätten widerstehen können: lebenslange Finanzsicherheit für die Familie. Dazu brauchte nur ein missliebiger Mitbürger als Taliban denunziert werden. Dann sollte der Slogan »Werden Sie reich und erfüllen Sie sich ihre Träume!« (4) wahr werden.

Wie viele vermeintliche Taliban mögen von dollargierigen Nachbarn verraten worden sein und heute noch in Guantánamo schmachten?

Jetzt will der Westen die Taliban besiegen, indem er gemäßigte Kämpfer von den Extremisten loskauft. Ein ebenso alter wie gescheiterter Versuch: Schon 2005 unternahm der derzeitige und von den USA implantierte Staatschef Hamid Karsai ebenso wie 1986 der damals von der Sowjetunion einge­setzte afghanische Präsident Moham­med Nadschibullah Versöhnungsangebote an die Widerstandkämpfer. Nadschibul­lah scheiterte, und das Programm von Karsai zur Eingliederung der Taliban verlief bisher im Wüstensand. Nun strich parallel zum Wiedereingliederungsangebot der UN-Sicherheitsrat fünf frühere Taliban-Führer von einer schwarzen Liste und ermöglicht ihnen damit, ins Ausland zu reisen und gesperrte Bankkonten zu nutzen. (5)

Dieses Programm offenbart nur die Hilflosigkeit der Verbündeten. Hatten die Taliban laut dem Londoner Forschungsinstitut ICOS 2007 erst 54 Prozent des Landes kontrolliert, sind es 2009 80 Prozent! Den Sieg der Taliban vor Augen, müsste ein Überläufer mit seinen »Wiedereingliederungsvermögen« sofort in einem Drittland – vorzugsweise in der Bundesrepublik – Asyl suchen. Somit wird sich auch dieses »Modell« als Rohrkrepierer erweisen.

Einen Tag vor der London-Konferenz versprach die deutsche Kanzlerin im Bundestag gegenüber der Öffentlichkeit »ehrliche Rechenschaft« abzule­gen: »Ja, es ist wahr: Der Einsatz dauert länger und ist schwie­riger, als wir vor acht Jahren erwartet ha­ben.« (6) Um dann trotzig zu betonen, dass die Aufgabe, dem internationalen Terrorismus zu begegnen, 2001 richtig war und es heute noch ist. Hätte sich doch Frau Merkel am vorangegangenen Samstag die Mühe gemacht, in der Süddeutschen Zeitung den epochalen Artikel von Franziska Augstein zu lesen. Wie eine Gerichtsmedizinerin deckt sie akribisch die Entwicklungen und Zusammenhänge auf, um dann skalpell-scharf zu diagnostizieren: »Die verheerende Entwicklung Afghanistans liegt zuallererst an der amerikanischen Außenpolitik, die nur in einer Hinsicht konsistent ist: Die USA unterstützen immer den, der gerade behauptet, Feind ihrer Feinde zu sein. Und als mächtigstes Land der Welt können die USA es sich leisten, kein politisches Gedächtnis zu haben. Für ihre Fehleinschätzungen von gestern müssen die USA vor nieman­dem gerade stehen. Vor niemandem? Doch, es gibt Ausnahmen: Das sind zual­lererst die Angehörigen der getöteten GIs, die bei allem Patriotismus zuneh­mend daran zweifeln, dass der Tod ihrer Söhne und Brüder einen Sinn gehabt habe.« (7)

Die Kanzlerin hätte Antworten auf die Frage suchen können, warum bisher alle Staaten, die nach Afghanistan einmarschierten, gescheitert sind. Erst die Briten im 19. Jahrhundert, die UdSSR im 20. Jahrhundert, und jetzt – vielleicht – auch Amerikaner und Europäer? Die Antwort könnte in den eigenen Erfahrungen des russische Hindukusch-Beobachters Snegirjow liegen. Er hält nichts davon, den Afghanen Systeme aufzudrängen, die ihnen fremd sind. »Sie wollen keinen Sozialismus, sie wollen keinen Kapitalismus, sie wollen ihr eigenes Leben führen. Hilft man ihnen, das mehr oder weniger zivilisiert zu gestalten, hilft man beispielsweise bei der Ausbildung ihrer Kinder, so wissen sie das sehr zu schätzen.« Für ihn sind die Taliban ein Teil des Volkes und haben nicht nur Anhänger unter den Paschtunen, sondern auch unter den Tadschiken und Usbeken. Mit allen ist der Dialog zu führen. Diese Aussage deckt sich auch mit denen zweier Afghanistan-Experten: dem deutschen Oberstarzt a. D. Dr. Reinhard Erös, Träger des Europäischen Sozialpreises (2004), und dem langjährigen Afghanistan-Korrespondent der ARD, Christoph Hörstel.

Nachdem unter Obama der Krieg gegen die Taliban auch auf Pakistan ausgedehnt worden ist, könnten die Analysen der beiden pakistanischen Generäle und ehemaligen ISI-Geheimdienstchefs helfen, ein aussagekräftiges Lagebild zu zeichnen. General Hamid Gul

zeigt absolutes Verständnis für die Taliban. Seiner Meinung nach verteidigen sie vehement zwei Dinge: ihren Glauben und ihre Freiheit – beides Grundfesten der afghanischen Gesellschaft. Auch hätte sich bisher kein einziger Taliban oder Afghane zu irgendeinen Terroranschlag im Ausland bekannt. »Sie  kämpfen nur auf eigenem Boden, wozu sie nach der UN das Recht haben.« (8)

General Asad M. Durrani, von 1994 bis 1997 Botschafter in der Bundesrepublik, geht noch weiter als sein ehemaliger Kollge Gul. Für Durrani üben die Taliban in ihrem Krieg gegen die Besatzung nur Selbstverteidigung und führen seiner Meinung nach »unseren Krieg«. »Wenn sie aber scheitern und wenn Af­ghanistan unter Fremdherrschaft bleibt, werden wir weiter Probleme haben«, so Durrani im Interview mit dem deutschen Oberstleutnant Jürgen Rose. »Setzt sich die NATO, die stärkste Militärmacht der Welt, wegen ökonomischer und geopolitischer Interessen an der pakistanischen Grenze fest, dann erzeugt das in Pakistan enormes Unbehagen«, so Durrani, um dann auf ein altes Sprichwort zu verweisen: »Sei vorsichtig, wenn Du neben einem Elefanten schläfst, denn er könnte sich umdrehen.« (9)

In London wurde keine neue Strategie beschlossen. Auch alle vorherigen, inflationär viele Strategien sind bei genauer Betrachtung nicht einmal taktische Aushilfen. Die Politik wird in Washington gemacht und Washington kennt das wahre strategische Ziel. Ein Studium der Seidenstraßenstrategie-Gesetze (10) würde hier weiterhelfen.

Die Regierung von Barack Obama und ihre Vorgänger waren immer schon Herren des Verfahrens. Die USA haben 74.000 Soldaten nach Afghanistan entsandt, in diesem Jahr kommen noch 30.000 hinzu. Das von der NATO geführte ISAF-Unternehmen (11) ist längst zu einer amerikanischen Unternehmung geworden, die Verbündeten halten nicht Schritt mit der Dynamik der US-Streitkräfte. Im Einsatzgebiet der Deutschen werden die USA ab April 2010  bis zu 5.000 eigene Soldaten stationieren – annähernd so viele, wie die Bundeswehr dort hat. Eine deutlichere Unmutsbekundung ist kaum denkbar. (12) Der Krieg geht weiter, während sich die Geschichte wiederholt.

 

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Anmerkungen

(1) Arney, George: »US ›planned attack on Taleban‹«, Dienstag, 18. September 2001, 11:27 Uhr unter http://news.bbc.co.uk/2/hi/south_asia/1550366.stm.

(2) Snegirjow kam als Korrespondent der Komsomol-Zeitung Komsomolskaja Prawda 1981 zum ersten Mal nach Afghanistan. Er blieb ein Jahr und kehrte im Verlaufe der nächsten 20 Jahre immer wieder zurück.

(3) CENTCOM ist das Zentralkommando der sechs US-Regionalkommandozentren und zuständig für den Nahen Osten, Ost-Afrika und Zentral-Asien. Derzeit sind die unterstellten Truppen primär im Irak und Afghanistan eingesetzt. Stützpunkte befinden sich in Kuwait, Bahrain, Katar, den Vereinigten Arabischen Emiraten, Oman, Pakistan, Dschibuti (Camp Le Monier) und mehreren Ländern Zentralasiens.

(4) Gorman, Candace: »Why I am Representing a ›Detainee‹ at Guantanamo« vom 19. September 2006 unter http://www.huffingtonpost.com/h-candace-gorman-/why-i-am-representing-a-_b_29734.html.

(5) Schmidt, Janek: »Wie ködert man Taliban?«, SZ vom 28. Januar 2010, S. 6.

(6) Fried, Nico: »Merkels skeptische Bilanz. Die Kanzlerin hält den Afghanistan-Einsatz für ›schwieriger als erwartet‹ / Opposition fordert Abzug bis 2015«, in: SZ vom 28. Januar 2010, S. 6.

(7) Augstein, Franziska: »Es muss ein Ende sein«, in: SZ vom 23./24. Januar 2010, S. V2/1.

(8) Hamid Gul im Auslandsjournal vom 17. Dezember 2009 unter http://www.zdf.de/ZDFmediathek/beitrag/video/927324/Lagebericht-Afghanistan#/beitrag/video/927324/Lagebericht-Afghanistan.

(9) Durrani, Asad M.: »Nur wenn die Taleban stark genug sind«, erschienen in Ossietzky, 18/2009.  

(10) Die alte Seidenstraße, einst die wirtschaftliche Lebensader Zentralasiens und des Südkaukasus, verlief durch einen Großteil des Territoriums der Länder Armenien, Aserbaidschan, Georgien, Kasachstan, Kirgistan, Tadschikistan, Turkmenistan und Usbekistan; Anhörung über US-Interessen in den zentralasiatischen Republiken am 12.Februar 1998, House of Representatives, Subcommittee on Asia and the Pacific; Silk Road Strategy Act of 1999 (H.R. 1152-106th. CONGRESS 1st Session, S. 579) im Mai 2006 modifiziert: Silk Road Strategy Act of 2006 (S. 2749 – 109 th. Congress).

(11) International Security Assistance Force.

(12) Kornelius, Stefan: »Die Londoner Krücke«, in: SZ vom 28. Januar 2010, S. 4.

 

__________

Bildquellen

www.longwarjournal.org und www.wirde.com

www.huffingtonpost.com

Archiv Wolfgang Effenberger

 

Donnerstag, 04.02.2010

Kategorie: Gastbeiträge, Geostrategie, Politik

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De verloren oorlogen in Afghanistan

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De verloren oorlogen in Afghanistan


Ex: Nieuwsbrief Deltastichting - N°32 - Februari 2010

Viatjeslav Dasjitsjev is politicoloog en historicus en leidde tot 1990 de afdeling voor Buitenlandse Problemen van het Instituut voor Internationale Economische en Politieke Studies van de Russische Academie voor Wetenschappen. Na 1991 werd hij gastprofessor in verschillende universiteiten (Berlijn, Mannheim en München). In een lang maar belangwekkend interview in het jong-conservatieve weekblad Junge Freiheit heeft hij het over Afghanistan en de traumatische en bloedige nederlaag van zijn volk, het Russische, in de jaren 80 van vorige eeuw. Mét lessen voor het heden.

 
De zwaarbeproefde volkeren van Afghanistan werden in het recente verleden door 3 grootmachten de wacht aangezegd. In de 19de en in het begin van de 20ste eeuw was het Groot-Brittannië dat probeerde de Afghanen in 3 oorlogen militair te onderwerpen. Het mislukte. Op het einde van december 1979 was het de leiding van de Sovjet-Unie dat overging tot de militaire invasie in Afghanistan, een blunder van formaat aldus de Russische politicoloog. Het besluit, dat genomen werd in de enge kring van het Politbureau (Breznjev, Soeslov, buitenlandminister Gromyko en KGB-chef Andropov, veegde de bezwaren van de militaire leiding gewoon van tafel.

De beslissing was “het resultaat van een fatale overschatting van de eigen mogelijkheden, onwetendheid over de nationale, sociale en historische bijzonderheden van de ontwikkeling van Afghanistan en een verkeerde inschatting van de uiterst negatieve reacties in de Westerse en de islamitische wereld”. Maar er is meer, aldus Dasjitsjev: Zoals ook al Brzezinski, de grijze eminentie onder de Amerikaanse strategen, heeft verklaard, was de invasie ook het gevolg van een handig in elkaar gezette provocatie van de Amerikaanse geheime dienst. Die had de Russische KGB-chef valse informatie doorgespeeld, waaruit bleek dat Amerika plannen had om over te gaan tot de militaire bezetting van Afghanistan. De Sovjet-Unie wou dus Amerika voor zijn, en ging tot de actie over.

Dasjitsjev, die op dat moment de afdeling voor Buitenlandse Problemen aan de Russische Academie leidde, werd gevraagd om een nuchtere analyse op papier te zetten inzake deze invasie. Het document, met als titel: “Enkele opmerkingen over de buitenlandse balans van de jaren 70”, werd op 20 januari 1980 aan het centrale comité van de Russische Communistische Partij voorgelegd, 5 dagen na de scherpe oproep van Andrei Sacharov, waarin hij de inval in Afghanistan aanklaagde. Maar ook Dasjitsjev was niet mals, en schreef in de conclusies dat de voordelen van de invasie eigenlijk in het niets verdwenen ten opzichte van de grote en vele nadelen, die hij opsomde, en ontwikkelde. De belangrijkste nadelen waren:

  • De USSR ziet tegenover zich een 3de frontlinie ontstaan. Er is het spanningsveld in Europa en er is het spanningsveld in Oost-Azië. Er komt er dus een 3de bij aan de zuidflank, met ongunstige geografische en sociaalpolitieke voorwaarden (mogelijke coalitie tussen het Westen, Amerika, China en islamitische landen, samen met feodaal-klerikale Afghaanse partners).
  • Dit alles kan leiden tot een belangrijke uitbreiding en consolidatie van het antisovjet front, dat de USSR van west naar oost kan omsingelen.
  • De invloed van de USSR op de beweging van niet gebonden landen zal in belangrijke mate verminderen.
  • Aan de ontspanning tussen west en oost kan een eind komen
  • De economische en technologische druk op de Sovjet-Unie zal exponentieel toenemen.
  • En verder zal het wantrouwen van de Oostbloklanden tegenover de Sovjet-Unie ook toenemen. Men zal er – aldus het document van 1980 – wel goed moeten op letten dat de crisissituaties waarvan sprake, niet naar andere regio’s en vooral dan naar Oost-Europa, overslaan.

Inderdaad, Dasjitsjev en met hem de Russische Academie had het dan al over de maatschappelijke gistingprocessen in Polen, Hongarije en Tsjechoslovakije.

En nu dus de 3de golf, de oorlog van de coalitie van Amerika en de Nato tegen Afghanistan.

De Duitse filosoof Georg Hegel heeft in zijn Filosofie van de Geschiedenis geschreven dat staatsmannen steeds weer opnieuw nalaten de juiste lessen uit de geschiedenis te trekken, om dan op de juiste manier te ageren. Het mislukken van Groot-Brittannië in haar 3 oorlogen tegen Afghanistan heeft de leiding van de Sovjet-Unie niets bijgebracht. Ze moest dan ook het slagveld in Afghanistan op een roemloze, traumatische manier verlaten.

 
 
Er blijken voldoende redenen aanwezig, aldus de Russische politicoloog, om de vrijheidslievende volkeren van Afghanistan, die geen vreemden tot heerser in het land dulden, beter met rust te laten. Maar neen, ook de Amerikaanse leiding heeft blijkbaar geen lessen uit het verleden getrokken. Belangrijke geopolitieke en geo-economische doelstellingen hebben haar de belangrijke lessen uit de recente geschiedenis doen vergeten. Dasjitsjev laat er dan ook geen onduidelijkheid over bestaan: Amerika gaat hier, ondanks een coalitie met niet minder dan 42 landen, een tweede Vietnam tegemoet. Obama staat voor de kwadratuur van de cirkel: hoe Afghanistan verlaten zonder het gezicht te verliezen.

(Peter Logghe)

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jeudi, 31 décembre 2009

Geopolitica tras la falsa guerra de EE.UU en Afganistan

gal_1786.jpgGeopolítica tras la falsa guerra de EE.UU. en Afganistán

Uno de los aspectos más notorios del programa presidencial de Obama es que, en Estados Unidos, pocos han cuestionado, en los medios de difusión o por otras vías, la razón del compromiso del Pentágono con la ocupación militar de Afganistán. Existen para ello dos razones fundamentales, y ninguna de ellas puede ser revelada abiertamente a la opinión pública.

Los engañosos debates oficiales sobre la cantidad de soldados que se necesita para «ganar» la guerra en Afganistán, si basta con 30 000 hombres más o si se requieran por lo menos 200 000, no son más que la cortina de humo que está sirviendo para esconder el verdadero objetivo de la presencia militar de Estados Unidos en ese estratégico país de Asia central.


Durante su campaña presidencial del año 2008, el candidato Obama afirmó incluso que es en Afganistán, no en Irak, donde Estados Unidos está obligado a hacer la guerra. ¿Por qué? Porque, según Obama, es en Afganistán donde se ha atrincherado Al Qaeda, que constituye a su vez la «verdadera» amenaza para la seguridad nacional.

Las razones de la implicación estadounidense en Afganistán son en realidad muy diferentes.
El ejército estadounidense ocupa Afganistán por 2 razones: principalmente para restablecer y controlar la principal fuente mundial de opio de los mercados internacionales de heroína y utilizar la droga como arma contra sus adversarios en el terreno de la geopolítica, especialmente contra Rusia. El control del mercado de la droga afgana es capital para garantizar la liquidez de la mafia financiera en bancarrota de Wall Street.

Geopolítica del opio afgano

Según un informe oficial de la ONU, la producción de opio afgano aumentó de forma espectacular después del derrocamiento del régimen talibán, en 2001. Los datos del Buró de Drogas y Crímenes de las Naciones Unidas demuestran que en cada una de las cuatro últimas estaciones de crecimiento (desde 2004 y hasta 2007) hubo más cultivos de adormidera que en todo un año bajo el régimen talibán. En este momento hay en Afganistán más tierra dedicada a la producción de opio que al cultivo de la coca en toda América Latina. En 2007, el 93% de los opiáceos del mercado mundial venían de Afganistán.

No son simples coincidencias. Se ha demostrado que Washington seleccionó cuidadosamente al muy controvertido Hamid Karzai, señor de la guerra de origen pashtún con una larga hoja de servicios en la CIA, especialmente traído de su exilio en Estados Unidos, a quien se le fabricó todo una leyenda hollywodense sobre su «valiente autoridad sobre su pueblo». Según fuentes afganas, Hamid Karzai es actualmente el «Padrino» del opio afgano. No por casualidad Karzai ha sido, y sigue siendo hoy en día, el preferido de Washington en Kabul. A pesar de ello, y también a pesar de la masiva compra de votos, del fraude y de la intimidación, los días de Karzai como presidente pudieran estar contados.

En momentos en que el mundo casi ni se acuerda ya del misterioso Osama Ben Laden ni de Al Qaeda –su supuesta organización terrorista–, o se pregunta incluso si tan siquiera existen, la segunda razón de la larga presencia de las fuerzas armadas de Estados Unidos en Afganistán parece más bien un pretexto para crear una fuerza militar de choque estadounidense permanente con una serie de bases aéreas permanentes en Afganistán.
El objetivo de dichas bases no es acabar con los grupos de Al Qaeda que puedan quedar aún en las cuevas de Tora Bora ni acabar con un mítico «talibán» que, según informes de testigos oculares, se compone actualmente en su mayoría de pobladores afganos comunes y corrientes que nuevamente luchan por expulsar de su tierra una fuerza ocupante, como hicieron en los años 1980 frente a los soviéticos.

Para Estados Unidos, la razón de ser sus bases afganas es mantener en la mirilla y tener la posibilidad de golpear a las dos naciones que, juntas, constituyen hoy en día la única amenaza seria para el poderío supremo de Washington o, como lo llama el Pentágono, America’s Full Spectrum Dominance (el predominio estadounidense en todos los aspectos).

La pérdida del «Mandato Celestial»

El problema de las élites* que detentan el poder en Wall Street y en Washington reside en el hecho que se encuentran hoy empantanados en la más profunda crisis financiera de toda su historia. Esa crisis es un hecho irrefutable para el mundo entero y el mundo está actuando en aras de salvarse a sí mismo. Las élites estadounidenses han perdido así lo que en la historia de la China imperial se conoce como el Mandato Celestial.
Se trata del mandato que se concedido a un soberano o a una élite reinante a condición de que dirija a su pueblo con justicia y equidad. Cuando el que gobierna lo hace de forma tiránica y como un déspota, oprimiendo al pueblo y abusando de él, se expone con ello a la pérdida del Mandato Celestial.

Si las poderosas élites de las firmas y las empresas privadas que han controlado las políticas fundamentales, financiera y exterior, durante la mayoría del tiempo, por lo menos durante el siglo pasado, tuvieron alguna vez en sus manos el mandato celestial, hoy resulta evidente que lo han perdido.

La evolución interna hacia la creación de un Estado policiaco injusto, con ciudadanos que se ven privados de sus derechos constitucionales, el ejercicio arbitrario del poder por personas que nunca obtuvieron un mandato electoral –como el ex secretario estadounidense del Tesoro Henry Paulson y el actual ocupante de ese mismo cargo Tim Geithner– y que roban miles de millones de dólares del contribuyente, sin consentimiento de éste, para sacar de la bancarrota a los principales bancos de Wall Street, bancos que se creían «demasiado grandes para hundirse», son hechos que demuestran al mundo que esas élites han perdido el «Mandato Celestial».

Ante tal situación, las élites que ejercen el poder se desesperan cada vez más por mantener su control sobre un imperio mundial de carácter parasitario que su máquina mediática falsamente llama «globalización». Y para lograr mantener su dominación resulta vital que Estados Unidos logre destruir toda forma naciente de cooperación, en el plano económico, energético o militar, entre las dos grandes potencias de Eurasia que, en teoría, pudieran representar una amenaza para el futuro control de la única superpotencia. Esas dos potencias son China y Rusia, cuya asociación Washington trata de evitar a toda costa.

Ambas potencias euroasiáticas completan el panorama con elementos esenciales. China es la economía más fuerte del mundo, con mano de obra joven y dinámica y una clase media educada. Rusia, cuya economía no se ha recuperado aún del destructivo final de la era soviética y del descarado saqueo que caracterizó la era de Yeltsin, sigue presentando sin embargo cartas esenciales para una asociación. La fuerza nuclear de Rusia y sus fuerzas armadas, aún siendo en gran parte remanentes de la guerra fría, representan en el mundo actual la única amenaza de consideración para la dominación militar estadounidense.

Las élites del ejército ruso en ningún momento han renunciado a ese potencial.
Rusia posee también el mayor tesoro del mundo en gas natural así como inmensas reservas petrolíferas, indispensables para China. Estas dos potencias convergen cada vez más a través de una nueva organización que crearon en 2001, conocida como la Organización de Cooperación de Shanghai (OCS). Además de China y Rusia, los países más extensos del Asia central –Kazajstán, Kirguiztán, Tayikistán y Uzbekistán– también forman parte de la OCS.

El objetivo que alega Washington para justificar la guerra de Estados Unidos, a la vez contra los talibanes y Al Qaeda, consiste en realidad en instalar su fuerza militar directamente en Asia central, en medio del espacio geográfico de la naciente OCS. Irán no es más que un pretexto. El blanco principal son Rusia y China.

Por supuesto, Washington afirma oficialmente que estableció su presencia militar en Afganistán desde el año 2002 para proteger la «frágil» democracia afgana. Sorprendente argumento cuando se analiza la realidad de la presencia militar estadounidense en ese país.
En diciembre de 2004, durante una visita a Kabul, el secretario de Defensa Donald Rumsfeld dio los toques finales a sus proyectos de construcción de 9 nuevas bases militares estadounidenses en Afganistán, en las provincias de Helmand, Herat, Nimruz, Balh, Khost y Paktia.

Esas 9 bases estadounidenses de nueva creación se agregan a las 3 bases militares principales ya instaladas inmediatamente después de la ocupación de Afganistán, durante el invierno de 2002, supuestamente con el fin de aislar y eliminar la amenaza terrorista de Osama Ben Laden.
Estados Unidos construyó sus 3 primeras bases militares en los aeródromos de Bagram, al norte de Kabul, su principal centro logístico militar; de Kandahar, en el sur de Afganistán; y de Shindand, en la occidental provincia de Herat. Shindand, la mayor base militar estadounidense en Afganistán, se encuentra a sólo 100 kilómetros de la frontera iraní, y a distancia de ataque si se trata de Rusia y China.

Afganistán ha estado históricamente en el centro de la gran pugna anglo-rusa, la lucha por el control del Asia central en el siglo 19 y a principios del siglo 20. La estrategia británica consistió entonces en impedir a toda costa que Rusia controlara Afganistán, lo cual hubiese representado una amenaza para la perla de la corona británica: la India.

Los estrategas del Pentágono también ven en Afganistán una posición altamente estratégica. Ese país constituye un trampolín que permitiría al poderío militar estadounidense amenazar directamente a Rusia y China, así como a Irán y a los demás países ricos productores de petróleo del Medio Oriente. En más de un siglo de guerras, las cosas no han cambiado mucho.

La situación geográfica de Afganistán como punto de confluencia entre el sur de Asia, Asia central y el Medio Oriente, es de vital importancia. Afganistán se encuentra además precisamente en el itinerario previsto para la construcción del oleoducto que debe llevar el petróleo de las zonas petrolíferas del mar Caspio hasta el océano Índico, donde la petrolera Unocal, así como Enron y la Halliburton de Cheney, estuvieron negociando los derechos exclusivos del gasoducto para conducir el gas natural de Turkmenistán a través de Afganistán y Pakistán hacia la enorme central eléctrica de gas natural de la Enron en Dabhol, cerca de Mumbai (Bombay). Ante de convertirse en presidente afgano títere de Estados Unidos, Karzai había sido cabildero de Unocal.

Al Qaeda no existe como amenaza

La verdad sobre todo este engaño alrededor del verdadero objetivo en Afganistán aparece claramente cuando se analiza más atentamente la supuesta amenaza de «Al Qaeda» en ese país. Según el autor Erik Margolis, antes de los atentados del 11 de septiembre de 2001, la inteligencia estadounidense proporcionaba asistencia y apoyo tanto a los talibanes como al propio Al Qaeda. Margolis señala que «la CIA proyectaba utilizar [la organización] Al Qaeda de Osama Ben Laden para incitar a los uigures musulmanes a rebelarse contra la dominación china y a los talibanes contra los aliados de Rusia en Asia central.»

Es evidente que Estados Unidos encontró otras vías para manipular a los uigures musulmanes contra Pekín en julio pasado, a través del apoyo estadounidense al Congreso Mundial Uigur. Pero la «amenaza» de Al Qaeda sigue siendo el principal argumento de Obama para justificar la intensificación de la guerra en Afganistán.

Sin embargo, el consejero de seguridad nacional de presidente Obama y ex general de Marines James Jones hizo una declaración, oportunamente enterrada por los amables medios de prensa estadounidenses, sobre la evaluación del peligro que actualmente representa Al Qaeda en Afganistán. Jones declaró al Congreso: «La presencia de Al Qaeda es muy reducida. La evaluación máxima es inferior a 100 ejecutores en el país, ninguna base, ninguna capacidad de lanzar ataques contra nosotros o nuestros aliados.»

Lo cual significa que Al Qaeda no existe en Afganistán. ¡Diablos! Incluso en el vecino Pakistán, lo que queda de Al Qaeda es ya prácticamente imperceptible. El Wall Street Journal señala: «Perseguidos por los aviones sin piloto estadounidenses, con problemas de dinero y con más dificultades para atraer a los jóvenes árabes a las oscuras montañas de Pakistán, Al Qaeda ve reducirse su papel allí y en Afganistán, según los informes de la Inteligencia y de los responsables pakistaníes y estadounidenses. Para los jóvenes árabes que son los principales reclutas de Al Qaeda “no resulta romántico pasar frío y hambre y tener que esconderse”, declaró un alto responsable estadounidense en el sur de Asia.»

Si entendemos bien las consecuencias lógicas de esa declaración no queda más remedio que llegar a la conclusión de que la razón por la cual los jóvenes alemanes y de otros países de la OTAN están muriendo en las montañas afganas no tienen nada que ver con «ganar la guerra contra el terrorismo». Muy oportunamente la mayoría de los medios de prensa prefieren olvidar el hecho que Al Qaeda, en la medida en que esa organización existió alguna vez, fue creada por la CIA en los años 1980.

Se dedicaba entonces a reclutar musulmanes radicales provenientes de todo el mundo islámico y a entrenarlos para la guerra contra las tropas rusas en Afganistán en el marco de una estrategia elaborada por Bill Casey, jefe de la CIA bajo la administración Reagan, entre otras, con el objetivo de crear un «nuevo Vietnam» para la Unión Soviética, lo cual debía conducir a la humillante derrota del Ejército Rojo y el derrumbe final de la Unión Soviética.

James Jones, jefe del National Security Council, reconoce ahora que no hay prácticamente nadie de Al Qaeda en Afganistán. Quizás sea un buen momento para que nuestros dirigentes políticos proporcionen una explicación más honesta sobre la verdadera razón del envío de más jóvenes a Afganistán, a morir protegiendo las cosechas de opio.

F. William Engdahl

Extraído de Red Voltaire.

~ por LaBanderaNegra en Diciembre 22, 2009.

dimanche, 13 décembre 2009

Tiberio Graziani: Afghanistan 1979

troops_detail2.jpgAfghanistan 1979

Déstabilisation du Proche et du Moyen Orient et origine du collapsus soviétique dans la géopolitique étasunienne

 

par Tiberio Graziani *

 

1979, l’année de la déstabilisation

Parmi les divers évènements de la politique internationale de l’année 1979, il y en a deux qui sont particulièrement importants à souligner, pour avoir contribué au bouleversement de la géopolitique mondiale basée à l’époque sur la confrontation  entre les USA et l'URSS.

Il s’agit de la révolution islamique d'Iran et de l'aventure soviétique en Afghanistan.

 

Comme on le sait, la prise du pouvoir par l'ayatollah Khomeiny élimina un des piliers fondamentaux sur lesquels reposait l'architecture géopolitique occidentale, édifiée par les États-Unis à partir de la fin de la seconde guerre mondiale.

L'Iran de Reza Pahlavi représentait, dans les relations de pouvoir entre les États-Unis et l'URSS, en particulier au niveau géostratégique, un pion très important dont la disparition poussa le Pentagone et Washington à une révision profonde de la géopolitique des États-Unis dans la région.

En fait, un Iran autonome et hors de contrôle introduisait, sur l'échiquier géopolitique régional, une variable qui compromettait potentiellement toute la cohérence du système bipolaire.

En outre, le nouvel Iran, comme puissance régionale anti-étatsunienne et anti-israélienne, possédait également toutes les caractéristiques (en particulier, l’étendue et la centralité géographiques, ainsi que l'homogénéité politico-religieuse) pour prétendre à l'hégémonie sur une partie au moins du Moyen-Orient, en opposition ouverte avec les aspirations analogues et les intérêts d'Ankara et de Tel-Aviv -  les deux solides piliers de la stratégie régionale de Washington - et d’Islamabad.

 

Pour ces raisons, les stratèges de Washington, conformément à leur « géopolitique du chaos » bicentenaire, poussèrent immédiatement l'Irak de Saddam Hussein à déclencher une guerre contre l'Iran.

 

La déstabilisation de toute la région permettait à Washington et à l'Occident de se donner du temps pour mettre au point une stratégie à long terme, et de « harceler sur ses flancs », en toute tranquillité, l'ours soviétique.

 

Comme l’a révélé, il y a onze ans, Zbigniew Brzezinski, conseiller à la sécurité nationale du président Jimmy Carter, lors d'une interview donnée à l'hebdomadaire français Le Nouvel Observateur (15-21 janvier 1998, p. 76), la CIA avait pénétré en Afghanistan, en vue de déstabiliser le gouvernement de Kaboul, en juillet 1979 déjà, soit cinq mois avant l'intervention de l’armée soviétique.

La première directive par laquelle Carter autorisait l'action clandestine pour aider secrètement les adversaires du gouvernement pro-soviétique date, en fait, du 3 juillet 1979.

 

Le même jour, le stratège étatsunien d'origine polonaise écrivit une note au président Carter, dans laquelle il expliquait que sa directive conduirait Moscou à intervenir militairement.

Cela se réalisa parfaitement à la fin de décembre de la même année.

 

Toujours dans la même interview, Brzezinski rappelle que, lorsque les Soviétiques entrèrent en Afghanistan, il écrivit une autre note à Carter, exprimant l'opinion que les USA avaient finalement l’occasion de donner à l'Union soviétique « sa guerre du Vietnam ».

Le conflit, insoutenable pour Moscou, devait conduire, selon Brzezinski, à l'effondrement de l'empire soviétique.

 

Le long engagement militaire des Soviétiques en faveur du gouvernement communiste de Kaboul contribua, en effet, à affaiblir encore davantage l'Union soviétique, déjà en proie à une importante crise interne,  aussi bien sur le plan politique que socio-économique.

 

Comme nous le savons aujourd'hui, le retrait des troupes de Moscou du théâtre afghan laissa toute la région dans une situation d'extrême fragilité politique, économique, et surtout géostratégique. En effet, dix ans seulement après la révolution iranienne, la région tout entière avait été complètement déstabilisée au profit exclusif du système occidental. Le déclin, contemporain et inéluctable, de l'Union soviétique, accéléré par son aventure en Afghanistan et, ultérieurement, le démembrement de la Fédération yougoslave (une sorte d'État tampon entre les blocs occidental et soviétique) dans les années 90, ouvrirent la voie à l’expansion des États-Unis - de l'hyper-puissance, selon la définition du ministre français Hubert Védrine - dans l'espace eurasien.

 

Succédant au système bipolaire, une nouvelle saison géopolitique allait s’ouvrir: celle du «moment unipolaire».

Le nouveau système unipolaire aura, toutefois, une vie très courte, qui se terminera – à l'aube du XXIe siècle, - avec la réaffirmation de la Russie en tant qu'acteur mondial et l’émergence concomitante, économique et géopolitique, de la Chine et de l’Inde, les deux États-continents de l’Asie.

 

 

Les cycles géopolitique de l'Afghanistan

L'Afghanistan, en raison de ses spécificités, relatives, en premier lieu à sa position par rapport à l'espace soviétique (frontières avec les Républiques - à l’époque soviétiques - du Turkménistan, d’Ouzbékistan et du Tadjikistan), à ses caractéristiques géographiques, et aussi à son hétérogénéité ethnique, culturelle et confessionnelle, représentait, aux yeux de Washington, une grande partie de l’ « arc de crise», c'est à dire de cette portion de territoire qui s'étend des frontières sud de l'URSS à l'océan Indien. Le choix, comme piège pour l'Union soviétique, était donc tombé sur l'Afghanistan pour d’évidentes raisons géopolitiques et géostratégiques.

 

Du point de vue de l’analyse géopolitique, l'Afghanistan représente en fait un excellent exemple d'une zone de crise, où les tensions entre les grandes puissances se manifestent depuis des temps immémoriaux.

 

Le territoire actuellement dénommé République islamique d'Afghanistan, où le pouvoir politique a toujours été structuré autour de la domination des tribus pachtounes sur les autres groupes ethniques (Tadjiks, Hazaras Ouzbeks, Turkmènes, Baloutches), s’est constitué à la frontière de trois grands dispositifs géopolitiques: l'Empire mongol, le khanat ouzbek et l'Empire perse. Et ce sont les différends entre ces trois entités géopolitiques limitrophes qui détermineront son histoire.

 

Pendant les XVIIIe et XIXe siècles, lorsque l’État se consolidera en tant que royaume d’Afghanistan, la région deviendra l'objet de différends entre deux autres entités géopolitiques majeures: l'Empire de Russie et la Grande-Bretagne. Dans le cadre du «grand jeu », la Russie, puissance continentale, dans sa poussée vers les mers chaudes (océan Indien), l'Inde et la Chine, se heurte à la puissance maritime britannique, qui tente, à son tour, d’encercler et pénétrer la masse de l'Eurasie, vers l'est en direction de la Birmanie, de la Chine, du Tibet et du bassin du Yangtze, en s'appuyant sur l'Inde, et vers l'ouest en direction de l'actuel Pakistan, de l'Afghanistan et de l'Iran jusqu’au Caucase, à la mer Noire, à la Mésopotamie et au Golfe Persique.

 

Dans le système bipolaire, à la fin du XXe siècle, comme on l’a vu plus haut, l'Afghanistan est une fois de plus le théâtre de la compétition entre une puissance maritime, les USA, et une puissance continentale, l’URSS.

 

Aujourd'hui, après l'invasion étatsunienne de 2001, ce que Brzezinski avait, de façon présomptueuse, appelé le piège afghan des Soviétiques, est devenu le cauchemar et le bourbier des États-Unis.

 



* Directeur de Eurasia. Rivista di studi geopolitici – www.eurasia-rivista.org - direzione@eurasia-rivista.org

jeudi, 10 décembre 2009

Destabilizacion de Oriente Proximo y de Oriente Medio y origen del colapso sovietico en la praxis geopolitica estadounidense

troupessoviet.jpgdesestabilización de Oriente próximo y de oriente medio y origen del colapso soviético en la praxis geopolítica estadounidense

 

di Tiberio Graziani *

 

1979, el año de la desestabilización

 

Entre los distintos acontecimientos de política internacional de 1979, hay dos particularmente importantes por haber contribuido a la alteración del marco geopolítico global, por entonces basado en la contraposición entre los EE.UU. y la URSS. Nos referimos a la revolución islámica de Irán y a la aventura soviética en Afganistán.

La toma del poder por parte del ayatolá Jomeini, como se sabe, eliminó uno de los pilares fundamentales sobre el que se sustentaba la arquitectura geopolítica occidental guiada por los EE.UU.

 

El Irán de Reza Pahlavi constituía en las relaciones de fuerza entre los EE.UU. y la  URSS una pieza importante, cuya desaparición indujo al Pentágono y a Washington a una profunda reconsideración del papel geoestratégico americano. Un Irán autónomo y fuera de control introducía en el tablero geopolítico regional una variable que potencialmente ponía en crisis todo el sistema bipolar.

Además, el nuevo Irán, como potencia regional antiestadounidense y antiisraelí, poseía las características (en particular, la extensión y la centralidad geopolítica y la homogeneidad político-religiosa) para competir por la hegemonía de al menos una parte del área meridional, en contraste abierto con los intereses semejantes de Ankara y Tel Aviv, los dos fieles aliados de Washington y de Islamabad.

 

Por tales consideraciones, los estrategas de Washington, en coherencia con su bicentenaria «geopolítica del caos», indujeron, en poco tiempo, al Irak de Saddam Hussein a desencadenar una guerra contra Irán. La desestabilización de toda la zona permitía a Washington y a Occidente ganar tiempo para proyectar una estrategia de larga duración y, con toda tranquilidad, desgastar al oso soviético.

Como puso de relieve hace once años Zbigniew Brzezinski, consejero de seguridad nacional del presidente Jimmy Carter, en el curso de una entrevista concedida al semanario francés Le Nouvel Observateur (15-21 de enero de 1998, p. 76), la CIA había penetrado en Afganistán con el fin de desestabilizar al gobierno de Kabul, ya en julio de 1979, cinco meses antes de la intervención soviética.

 

La primera directiva con la que Carter autorizaba la acción encubierta para ayudar secretamente a los opositores del gobierno filosoviético se remonta, de hecho, al 3 de julio. Ese mismo día el estratega estadounidense de origen polaco escribió una nota al presidente Carter en la que explicaba que su directiva llevaría a Moscú a intervenir militarmente. Lo que puntualmente se verificó a finales de diciembre del mismo año. Siempre Brzezinski, en la misma entrevista, recuerda que, cuando los soviéticos entraron en Afganistán, él escribió a Carter otra nota en la que expresó su opinión de que los EE.UU. por fin tenían la oportunidad de dar a la Unión Soviética su propia guerra de Vietnam. El conflicto, insostenible para Moscú, conduciría, según Brzezinski, al colapso del imperio soviético.

El largo compromiso militar soviético a favor del gobierno comunista de Kabul, de hecho, contribuyó ulteriormente a debilitar a la URSS, ya en avanzado estado de crisis interna, tanto en la vertiente político-burocrática como en la socio-económica.

Como bien sabemos hoy, el retiro de las tropas de Moscú del teatro afgano dejó toda la zona en una situación de extrema fragilidad política, económica y, sobre todo, geoestratégica. En la práctica, ni siquiera diez años después de la revolución de Teherán, toda la región había sido completamente desestabilizada en beneficio exclusivo del sistema occidental. El contemporáneo declive imparable de la Unión Soviética, acelerado por la aventura afgana y, sucesivamente, el desmembramiento de la Federación Yugoslava (una especie de estado tapón entre los bloques occidental y soviético) de los años noventa abrían las puertas a la expansión de los EE.UU., de la hyperpuissance, según la definición del ministro francés Hubert Védrin, en el espacio eurasiático.

Después del sistema bipolar, se abría una nueva fase geopolítica: la del “momento unipolar”.

El nuevo sistema unipolar, sin embargo, tendrá una vida breve, que terminará –al alba del siglo XXI –con la reafirmación de Rusia como actor global y el surgimiento concomitante de las potencias asiáticas, China e India.

 

Los ciclos geopolíticos de Afganistán

 

Afganistán por sus propias especificidades, referentes en primer lugar a su posición en relación con el espacio soviético (confines con las repúblicas, por aquella época soviéticas, del Turkmenistán, Uzbekistán y Tayikistán), a las características físicas, y, además, a la falta de homogeneidad étnica, cultural y confesional, representaba, a ojos de Washington, una porción fundamental del llamado « arco de crisis », es decir, de la franja de territorio que se extiende desde los confines meridionales de la URSS hasta el Océano Índico. La elección como trampa para la URSS cayó sobre Afganistán, por tanto, por evidentes razones geopolíticas y geoestratégicas.

Desde el punto de vista del análisis geopolítico, de hecho, Afganistán constituye un claro ejemplo de un área crítica, donde las tensiones entre las grandes potencias se descargan desde tiempos inmemoriales.

El área en que se encuentra actualmente la República Islámica de Afganistán, donde el poder político siempre se ha estructurado sobre la dominación de las tribus pastunes sobre las otras etnias (tayikos, hazaras, uzbecos, turcomanos, baluchis) se forma precisamente en la frontera de tres grandes dispositivos geopolíticos: el imperio mongol, el janato uzbeco y el imperio persa. Las disputas entre las tres entidades geopolíticas limítrofes determinarán su historia posterior.

En los siglos XVIII y XIX, cuando el aparato estatal se consolidará como reino afgano, el área será objeto de las contiendas entre otras dos grandes entidades geopolíticas: el Imperio ruso y Gran Bretaña. En el ámbito del llamado “Gran Juego”, Rusia, potencia de tierra, en su impulso hacia los mares cálidos (Océano Índico), India y China choca con la potencia marítima británica que, a su vez, trata de cercar y penetrar la masa eurasiática en Oriente hacia Birmania, China, Tíbet y la cuenca del Yangtsé, pivotando sobre la India, y en Occidente en dirección a los actuales Pakistán, Afganistán e Irán, hasta el Cáucaso, el mar Negro, Mesopotamia y el Golfo Pérsico.

En el sistema bipolar, a finales del siglo XX, tal y como hemos descrito antes, Afganistán se convierte en un terreno en el que se miden una vez más una potencia de mar, los EE.UU., y una de tierra, la URSS.

Hoy, después de la invasión estadounidense de 2001, la que presuntuosamente Brzezinski definía como la trampa afgana de los soviéticos se ha convertido en la ciénaga y en la pesadilla de los Estados Unidos.

 

 

-  ? Director de  Eurasia. Rivista di studi geopolitici – www.eurasia-rivista.org - direzione@eurasia-rivista.org