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jeudi, 07 octobre 2010

Arabia Saudita: Un perfetto controesempio negli annali della geo-strategia globale

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Arabia Saudita: Un perfetto controesempio negli annali della geo-strategia globale

di René Naba

Fonte: eurasia [scheda fonte]

Ancora una volta recidiva nella diversione, l’Arabia Saudita incoraggiò Saddam Hussein ad andare in guerra con l’Iran per contenere la minaccia del fondamentalismo sciita, deviando la potenza irachena dal campo di battaglia arabo-israeliano. In un nuovo tentativo di destabilizzare la Siria, il principale alleato arabo dell’Iran, Arabia favorì una rivolta dei Fratelli Musulmani repressa brutalmente dai siriani, ad Hama, nel febbraio 1982, a quattro mesi dall’invasione israeliana del Libano, fomentata da un tandem composto da primo ministro israeliano Menachem Begin e da Bashir Gemayel, il leader della milizia cristiana libanese.

L’Arabia Saudita, il nemico più intransigente di Israele, in teoria, aveva effettuato la più grande diversione della lotta araba, sostenendo l’Iraq contro l’Iran nella guerra convenzionale più lunga della storia moderna (1979 – 1988), deviando il colpo dal campo di battaglia principale, la Palestina, dirottando i giovani musulmani e arabi dal campo di battaglia della Palestina all’Afghanistan. A colpi di dollari e di Mujahidin, spesso ex detenuti nel loro paese, combatterà non contro Israele, ma a migliaia di chilometri di distanza, a Kabul, dove migliaia di giovani arabi e musulmani si batteranno per un decennio contro le forze atee comuniste, voltando le spalle, al tempo stesso, di nuovo alla Palestina, con l’incoraggiamento degli intellettuali occidentali, troppo contenti per questa opportunità. Cinquantamila arabi e musulmani si arruolarono sotto la bandiera dell’Islam, sotto la guida di Usama bin Ladin, ufficiale di collegamento dei sauditi e degli statunitensi, combatterono in Afghanistan l’ateismo sovietico in una guerra finanziata, in parte dalle petromonarchie del Golfo, con fino a venti miliardi di dollari, una somma equivalente al bilancio annuale di un quarto dei paesi membri dell’organizzazione panaraba. In confronto, i combattenti di /Hezbollah/ libanese, con un numero di molto inferiore, stimato in duemila combattenti, e con un budget ridotto rispetto a quello impegnato a finanziare gli arabi afghani, ha causato sconvolgimenti psicologici e militare più consistenti della legione islamica, nel rapporto tra le potenze regionali (6).

L’Afghanistan ha avuto una funzione trascinante sulla gioventù saudita, e i diplomatici statunitensi non cercarono di nascondere questo aspetto del conflitto. Rispondendo alla rivoluzione islamica iraniana, che minacciava la leadership saudita, la guerra in Afghanistan ha permesso all’Arabia Saudita di deviare il malcontento dei giovani dal problema palestinese, a quello anti-comunista (7), ammise, in seguito, senza mezzi termini l’ambasciatore USA a Riad, Chass Freeman. I finanziamenti per la jihad anti-sovietica sarebbero, di per sé, andati a carico del bilancio saudita, con un importo sostanzialmente pari al finanziamento concesso dall’Arabia Saudita ai “/paesi del campo di battaglia/”, Egitto, Siria e OLP (8), come contributo allo sforzo di guerra arabo.

L’Islam wahhabita, che aggregava i leader arabi sunniti in una alleanza filo-statunitense (i principati del Golfo, la Giordania, Egitto, Marocco, Tunisia), indicati dal termine popolare colla definizione sprezzante di “Arabi d’America” (A/rab Amérika/) -l’asse della moderazione per gli occidentali- si lascerà così soppiantare sul proprio terreno, l’islam combattente, dai nazionalisti islamici, il libanese Hezbollah, Hamas e la Jihad palestinesi. Feconda, l’alleanza Arabia-USA nella guerra contro l’Unione Sovietica in Afghanistan (1980-1989), ha certamente accelerato l’implosione del blocco comunista, ma col loro allineamento incondizionato con gli Stati Uniti, sostenendo il miglior alleato strategico del loro nemico principale, Israele, (nonostante l’aggiunta del disprezzo che gli statunitensi hanno mostrato verso le loro aspirazioni, i fautori dell’Islam politico, principalmente l’Arabia Saudita, l’Iran imperiale della dinastia Pahlavi, il Marocco e l’Egitto di Sadat) hanno devastato l’area, evidenziandone la sua dipendenza e il suo ritardo tecnologico. Peggio ancora, la presa statunitense in Iraq, che l’Arabia ha incoraggiato, ha promosso la nascita del potere sciita nella ex capitale dell’impero abasside, facendo planare sull’Arabia Saudita, attraverso la sua affiliazione con l’Iran di Khomeini, il rischio di cadere in una trappola sciita.

L’alleanza esclusiva dell’Islam sunnita con gli USA, che ha assicurato la pace del trono wahabita durante un mezzo secolo tumultuoso, finora non ha garantito la sua sopravvivenza futura. L’Arabia Saudita sarebbe riuscita nell’impresa di ottenere il rispetto del mondo musulmano, senza sparare un colpo verso Israele, senza ottenere alcuna concessione da parte degli statunitensi sul problema palestinese, mentre si applicano metodicamente a distruggere le vestigia del nazionalismo arabo.

Ma il regno, che aveva lanciato due piani di pace per risolvere il conflitto arabo-israeliano (Piano Fahd, nel 1982, Piano Abdullah, 2002), senza la minima eco sia statunitense, che israeliana, non deviò mai dalla sua linea, nonostante questo rifiuto, probabilmente dovuto al fatto che, a livello subliminale, la dinastia wahhabita è stata la principale beneficiaria del sabotaggio operato per 30 anni dagli statunitensi e dagli israeliani, per ridurre la resistenza del nocciolo duro del mondo arabo-islamico: la neutralizzazione dell’Egitto da parte del trattato di pace con Israele (1979), la distruzione dell’Iraq (2003), lo strangolamento della Siria (2004), la ‘/caramellizzazione/’ della Libia (2005), l’isolamento dell’Iran (2006), al punto che Israele è, in definitiva il migliore alleato oggettivo dei wahhabiti, la rara combinazione di due regimi teocratici in tutto il mondo, no essendo lo Stato ebraico democratico che per la frazione ebraica della sua popolazione. In questo contesto, l’organizzazione clandestina al-Qaida di Usama bin Ladin e la rete transnazionale araba /Al-Jazeera/, appaiono, in retrospettiva, come delle escrescenze ribelli all’egemonia saudita sull’ordine interno Arabo, sia in politica che nei media.

L’arma del petrolio che ha brandito durante la guerra di ottobre del 1973, se ha portato un notevole prestigio nel mondo arabo musulmano e ripristinato un equo prezzo del carburante, in cambio ha indebolito le economie in particolare dell’Europa e del Giappone, alleati naturali nel mondo arabo. Il proselitismo religioso che ha schierato in Asia centrale, nelle ex repubbliche sovietiche musulmane, ha tagliato la strada per un’alleanza con la Russia, facendo spazio all’egemonia USA. Un camuffamento supplementare che riflette gli errori della strategia saudita e il suo impatto negativo sullo spazio arabo, il wahhabismo che ha lottato instancabilmente contro l’Unione Sovietica, ridiventata l’eterna Russia, vede profilare, con il pretesto della lotta contro il terrorismo, un pericoloso movimento a tenaglia, che può chiudersi con la tacita alleanza tra la Russia, Israele e gli Stati Uniti, per gli attentati commessi dai seguaci dell’Arabia Saudita, dagli islamisti di Al-Qaida in Occidente e dai separatisti ceceni in Russia e Ossezia. Colmo del cinismo che rivela comunque una grande paura: l’apertura della prima conferenza mondiale sul terrorismo, il 5 e 6 febbraio 2005, a Riad. Che una tale conferenza si tenesse in casa della Jihad Islamica, dove i finanziatori principali a livello mondiale dei movimenti islamici, quattro anni dopo il raid anti-Usa del settembre 2001, hanno ottenuto la cauzione dell’Occidente per una tale operazione di riabilitazione, da la misura della confusione dei leader wahhabiti e dei loro sponsor statunitensi.

L’Arabia Saudita è prigioniera e vittima delle sue scelte.

Umiliazione suprema è il fatto che il presidente USA George W. Bush, ex dipendente delle società Saudite, è stato il più fermo sostegno del Primo Ministro di Israele più aggressivo, in nome proprio del fondamentalismo religioso, avallando anche il confinamento di Yasser Arafat, il leader legittimo del popolo palestinese, e riconoscendo il diritto di Ariel Sharon di modificare unilateralmente il tracciato dei confini internazionali, in spregio della legalità internazionale. La risposta più lancinante a questa cecità potrebbe essere, simbolicamente, la scelta obbligata di dover rassegnarsi a denominare il proprio nuovo canale televisivo pan-arabo “Al Arabia”, un termine che aveva bandito dal suo lessico diplomatico per mezzo secolo, riprendendolo adesso a malincuore, nella speranza di essere ascoltato di fronte alla concorrenza, con tono meno sottomesso all’ordine statunitense. Questo paese che ha consacrato la maggior parte dei suoi sforzi a combattere, più di ogni altro paese, il nazionalismo arabo, fino a stabilire l’Organizzazione della Conferenza Islamica (OIC), una struttura diplomatica parallela e concorrente alla Lega Araba, che evolse, stranamente, a campione dell’arabismo a seguito della sconfitta militare israeliano in Libano, nell’estate del 2006, con grande stupore di quasi tutti gli osservatori internazionali. L’apostolo della fratellanza islamica per mezzo secolo, il paese la cui bandiera mostra il credo cardinale dell’Islam, accusò , senza vergogna, la Siria di aver fatto un patto con l’Iran, l’antica Persia, un paese musulmano ma non arabo, lasciando planare la minaccia di una nuova guerra di religione tra sunniti e sciiti, arabi e musulmani non-arabi, un comportamento che assomiglia a una mistificazione, illustrazione patetico della confusione del Regno.

*Tra la dinastia wahhabita e Bin Ladin, la battaglia nell’ordine simbolico di un conflitto di legittimità*

Il coinvolgimento di un membro della cerchia familiare del principe Bandar bin Sultan, figlio del ministro della Difesa e presidente del Consiglio nazionale di sicurezza, nella riattivazione dei simpatizzanti di Al-Qaida in Siria e nel Libano del Nord, nella regione del campo palestinese di Nahr el-Bared, ha dimostrato il grado di infiltrazione dei circoli pan-islamisti nella cerchia dei governanti sauditi, mentre mina il Regno nei confronti dei suoi interlocutori sia arabi che statunitensi. Sheikh Maher Hammoud, un muftì sunnita della moschea “/Al Quds/” di Saida (sud del Libano), ha apertamente accusato il principe Bandar, dalla rete /Jazeera/, sabato 26 giugno 2010, di finanziare i disordini in Libano, in particolare contro le aree cristiane, portando gli USA a dichiarare “/persona non grata/” Bandar, l’ex beniamino degli Stati Uniti, il “/Grande Gatsby/” dall’establishment statunitense.

Circostanza aggravante, la disgrazia di Bandar sarebbe correlata a informazioni che affermano che egli ha l’intenzione di impegnarsi in un colpo di stato contro l’establishment saudita, per infrangere la legge della primogenitura che disciplina le regole alla successione dinastica in Arabia. Ciò prevede l’accesso al potere del decano della generazione più anziana. Il gruppo dirigente saudita conta molti gerontocrati, compresi alcuni in posizioni chiave, che soffrono di malattie debilitanti: il principe ereditario Sultan, ministro della Difesa, il ministro degli esteri, principe Saud al Faisal e il Governatore di Riyadh, principe Salman, mentre novecento nipoti scalpitano con impazienza per saltare nei posti di responsabilità, in un clima di intensa concorrenza. La congiura, concepita con l’aiuto di alti ufficiali della base aerea di Riyadh, sarebbe stata alimentata dai servizi segreti russi. L’operazione doveva avvenire a fine 2008, durante la guerra di Gaza, durante la transizione di poteri tra George Bush jr e il democratico Barack Obama. Con il sostegno di neo-conservatori statunitensi, di cui il principe saudita era un amico stretto, la transizione doveva, nello spirito dei suoi promotori, ridurre il divario generazionale del paese, in cui il 75 per cento della popolazione ha meno di 25 anni anni, mentre la classe dirigente ha un numero significativo di ottantenni. Il fatto che gli Stati Uniti, che controllano il regno con una rete di circa 36 posizioni dell’FBI e della CIA, non avesse avvisato il potere, da la misura della cautela statunitense.

Yemen e Iraq, due paesi confinanti con l’Arabia Saudita, avrebbero costituito i due baluardi della difesa strategica del Regno, il primo nel sud, il secondo a nord dell’Arabia Saudita. E’ in questi due paesi che l’Arabia Saudita ha cominciato la lotta per garantire la continuità della dinastia, in due occasioni negli ultimi decenni, Lo Yemen che è servito da campo dello scontro tra repubblicani e monarchici arabi, al tempo della rivalità Faisal-Nasser negli anni ’60, e l’Iraq, teatro dello scontro tra sciiti rivoluzionari e sunniti conservatori, al tempo della rivalità Saddam Hussein- Khomeini negli anni ’80. Questi due paesi costituiscono, ormai, una fonte di pericolo, con l’eliminazione della leadership sunnita in Iraq, e con la reintroduzione di al-Qaida, nello Yemen, nel gioco regionale. L’inserimento di al-Qaida nella penisola arabica dallo Yemen, in questo contesto è una sfida di grande importanza. L’ancoraggio di una organizzazione principalmente sunnita, l’escrescenza del rigorismo wahhabita, sul fianco meridionale dell’Arabia Saudita, porta il segno di una sfida personale di bin Ladin agli ex padroni, poiché porta sul posto stesso della loro antica alleanza, la lite sulla legittimità tra la monarchia e il suo ex agente. Potrebbe avere un effetto destabilizzante sul regno, dove vive quasi un milione di lavoratori yemeniti. L’allarme è stato ritenuto abbastanza serio da condurre il re Abdullah ad impegnare le sue forze nei combattimenti in Yemen, nell’autunno del 2009, accanto alle forze governative, e ad attenuare la disputa con la Siria, incitando il suo uomo ligio in Libano, il nuovo primo ministro libanese Saad Hariri, a riprendere il cammino per Damasco.

In tutti gli aspetti, la strategia saudita, sia nei confronti del mondo musulmano che dell’Iraq è un caso esemplare di suicidio politico. La partecipazione di quindici sauditi su 19 all’incursione di al-Qaida contro gli Stati Uniti, l’11 settembre 2001, come negli attacchi mortali che hanno colpito Riyadh il 12 maggio 2003, un mese dopo la caduta di Baghdad, uccidendo 20 morti, tra cui 10 statunitensi, hanno suonato un campanello d’allarme come forma di avvertimento. Adulato all’eccesso, il regno è ora oggetto di sospetti quasi universale da parte dell’opinione pubblica occidentale, e la sua strategia è criticata in tutta l’arabo.

*Il re dell’Arabia Saudita, un pompiere incendiario *

Sponsor originale dei taliban in Afghanistan, l’Arabia Saudita si dice sia stata la finanziatrice principale del programma nucleare pakistano, in cambio dell’assistenza fornita dal Pakistan nella supervisione della forza aerea saudita, che ha fornito per 20 anni l’addestramento ai suoi piloti e la protezione del suo spazio aereo. Un buon affare, simbolicamente materializzato dal nome della terza città di Faisalabad, in Pakistan, l’ex Lyallpur, in omaggio al contributo di Re Faisal di Arabia nella composizione delle controversie tra il Pakistan, secondo più grande paese musulmano dopo l’Indonesia, e il Bangladesh, durante la secessione della sua ex provincia, sotto la guida dello sceicco Mujibur Rahman, leader della /Lega Awami/ (10). Nonostante queste forti analogie, in particolare il patrocinio congiunto del regno saudita al miliardario saudita libanese e al Pakistan, come i loro posizionamenti simili in termini di geopolitica degli Stati Uniti; Rafik Hariri avrà diritto ad un tribunale internazionale speciale, per giudicare i suoi presunti assassini, ma non Benazir Bhutto, di cui è stata decimata tutta la dinastia. In questa prospettiva, il destino di Benazir Bhutto è stranamente simile a quello dell’ex primo ministro libanese Rafik Hariri e a quello dell’ex presidente egiziano Anwar Sadat, assassinato nel 1981, e all’effimero presidente del Libano Bashir Gemayel, leader delle milizie cristiane, assassinato nel 1982. I leader più utili alla diplomazia israeliano-statunitensi, più da morti che da vivi.

Al culmine della diplomazia saudita, in seguito all’invasione dell’Iraq nel 2003, i due leader arabi, Hariri (Libano) e Ghazi al Yaour (Iraq) che si sono trovati contemporaneamente al potere nei rispettivi paesi, erano titolari della nazionalità saudita. In questo contesto, non è irrilevante notare che Rafik Hariri è stato assassinato nei quindici giorni che seguirono l’elezione di un curdo, Jalal Talabani, a capo dell’Iraq, e l’attribuzione a un sciita della presidenza del Consiglio dei Ministri, scartando un sunnita dal governo della ex capitale abasside, su cui sventolava, d’altronde, all’epoca, il nuovo emblema iracheno disegnato dal proconsole Paul Bremer, dai colori curdo-israeliani (blu-bianco e giallo-bianco). Cosa che, inoltre, innescò un’ondata senza precedenti di attacchi contro i simboli dell’invasione statunitense dell’Iraq e dei suoi alleati regionali.

Pompiere piromane, il monarca ottuagenario (86 anni), al potere da quindici anni, si trova all’epicentro di un conflitto che ha continuato ad alimentare, e con cui potè avallare l’invasione statunitense dell’Iraq, con ripercussione l’eliminazione dei sunniti del potere centrale, con il ruolo pioniere del falso testimone siriano presso gli investigatori internazionali, Zuhair Siddiq, un factotum del generale Rifa’at al-Assad, zio e rivale del presidente siriano Bashar al_Assad, e soprattutto cognato del re dell’Arabia Saudita, per destabilizzare il presidente libanese Emile Lahoud e sostituirlo con il secondo cognato del re, il deputato libanese Nassib Lahoud.

Sfidato sul fianco meridionale, nello Yemen, dalla principale organizzazione fondamentalista sunnita del mondo musulmano, dalle dimensioni planetarie, al-Qaida, escrescenza ribelle del modello wahabita, il re Abdullah è contestato dall’equazione rappresentata dalla gloriosa storia militare di /Hezbollah/, la principale organizzazione paramilitare del Terzo Mondo, di osservanza sciita. Abdullah appare come l’apprendista stregone di una questione che lo trascende, il demiurgo di questioni che lo sovrastano sia in Iraq che in Libano, prima che in Afghanistan. In questa prospettiva, l’affare del secolo concluso nel settembre 2010 tra Arabia Saudita e Stati Uniti, di circa 90 miliardi di dollari in armi, tra cui quasi trecento aerei e missili, mira ufficialmente a rafforzare il Regno nei confronti dell’Iran, non d’Israele, potenza nucleare che occupa Gerusalemme, il 3° luogo santo dell’Islam, ma anche e soprattutto a consolidare la dinastia nel suo ruolo di gendarme regionale, mentre i due paesi baluardo dell’Arabia (Yemen e Iraq) sono destabilizzati e l’arco dell’Islam, che va dalla Somalia all’Indonesia attraverso l’Asia Centrale e il Golfo, diviene il nuovo centro di gravità strategico del pianeta, con l’emergere di Cina e India e il loro accerchiamento dell’Occidente dall’Africa.

Indice complementare del suo vassallaggio, il nuovo contratto militare da 90 miliardi di dollari, firmato tra Stati Uniti e Arabia Saudita.

Il più grande affare d’armi nella storia mira a “rafforzare la capacità combattiva del Regno contro l’Iran”, senza porre rischi su Israele. Gli aerei sauditi saranno privati delle armi a lungo raggio, per garantire lo spazio aereo israeliano e le loro prestazioni, sia in termini di attrezzature come di maneggevolezza, saranno in ogni caso, meno potenti del nuovo velivolo che gli Stati Uniti prevedono di vendere a Israele, i 20 caccia-bombardieri F-35 /Lightning II/ (JSF-35), il super-bombardiere da superiorità tecnologica, il cui enorme costo unitario ammonta a 113.000.000 di dollari ciascuno.

Così, con un sotterfugio che gli scienziati politici statunitensi definiscono nella voce “Politica della paura”, la politica dell’intimidazione, che consiste nel presentare l’Iran come uno spauracchio, per cui l’Arabia Saudita è costretta a creare, non una difesa a tutto tondo, ma una posizione di difesa contro l’Iran, che rafforzi il regno “/contro l’Iran/”, potenza sulla soglia nucleare, e non Israele, una potenza nucleare completa e, inoltre, potenza occupante di Gerusalemme, il terzo luogo santo dell’Islam. In totale, l’ammontare degli accordi militari tra le monarchie petrolifere del Golfo e gli Stati Uniti, nel 2010-2011, sarà pari a 123 miliardi di dollari. Il resto sarà diviso tra Emirati Arabi Uniti, Kuwait e il sultanato di Oman, che sbloccheranno, nei quattro, una somma colossale per ridurre la disoccupazione negli Stati Uniti, mantenere un bacino di lavoro di 75.000 posti in cinque anni e giustificare, sotto l’apparenza di un falso equilibrio, una transazione qualitativamente superiore tra gli Stati Uniti e Israele.

Settantotto anni dopo l’indipendenza, la triade su cui è stato stabilito il regno (Islam, Petrolio e wahabismo) sembra assumere una nuova configurazione. Se l’Islam, la sua rendita di posizione, è assicurata per sempre, il petrolio è destinato a prosciugare o degradare a causa delle energie alternative, come anche la dinastia wahhabita, a meno di una sfida della sua visione monolitica dell’Islam e del mondo, dalla sua concezione dello Stato e dei suoi rapporti con i cittadini, del suo rapporto con la realtà col mondo arabo, non composto solo da musulmani, o da soli sunniti, o da soli arabi (curdi e cabili), ma anche dagli arabi sciiti spesso patrioti, e da patrioti non sempre musulmani (arabi cristiani), non sempre necessariamente in permanente stato di prostrazione davanti gli Stati Uniti d’America, e ai suoi benefici e danni.

La famiglia reale saudita ha seguito un percorso curioso per rimanere al potere, il perfetto contro-esempio negli annali della geopolitica mondiale.* *Avendo troppo manipolato i suoi alleati islamici, si è indebolita, dando loro la possibilità di rivoltarsi contro il loro ex mentore. Strumentalizzando le sue formazioni pan-islamiche in operazioni diversive (Afghanistan) o di destabilizzazione (Siria, Egitto e Algeria), senza mai rinnegarle o controllarle, l’Arabia Saudita si troverà caricata dal peso negativo della distruzione islamista dei Buddha di Bamiyan da parte dei Taliban, degli attacchi anti-USA dell’11 settembre 2001, sottoposta al sospetto dell’opinione pubblica occidentale e alla vendetta dei suoi ex protetti islamisti.

Come spiegare un simile comportamento? Che i leader abbiano potuto, in un periodo così lungo, confinarsi nel ruolo di subappaltatori, accettando di correre alla cieca in un combattimento contro dei nemici, assegnatili dai loro tutori, senza accennare a un momento di esitazione, a un lampo di orgoglio nazionale? Amputarsi consapevolmente di alleati naturali, senza sollevare la questione della compatibilità con l’interesse nazionale? Condannare l’avanguardia rivoluzionaria araba, sacrificarla per la soddisfazione degli interessi stranieri, senza entrare nel merito della fondatezza di una tale politica? A quale logica risponde un tale comportamento singolare. Follia o megalomania? Machiavellismo o cinismo servile? Incoscienza o aberrazione mentale? Postura o impostura? Quasi quaranta anni dopo i fatti, la rilevanza di una tale politica non è stata provata, ma si è rivelato un dato di fatto che “/ci sia qualcuno peggio del boia: il suo servo/”(9). Una frase su cui riflettere mentre il Regno, banca centrale del petrolio, pianifica per la prima volta nella sua storia, di mettere fine alla ricerca di idrocarburi nel suo sottosuolo, al fine di salvare la sua ricchezza, in modo da trasmetterla “/alle generazioni future/”(10), mentre la sua ricchezza rischia di prosciugarsi, e di conseguenza la sua impunità, proprio mentre la Cina è pronta a sfidare la leadership globale degli USA.

*Riferimenti *

7 – Precisazioni di Chass Freeman, ex ambasciatore statunitense in Arabia Saudita (1989-1993) basato sulla funzione deviante della guerra in Afghanistan verso la gioventù saudita dal problema palestinese, al centro del documentario di Jihane Tahri

8 – “/Una Guerra Empia. La CIA e l’estremismo islamico (1950-2001)/” di John Cooley, un ex corrispondente dal Medio Oriente per il quotidiano di Boston Christian Science Monitor e ABC News. Edizioni Eleuthera, 2001.

9 – Definzione del conte Honoré Gabriel de Mirabeau (1749-1791), uno degli oratori più brillanti della Rivoluzione francese, autore di «/Essai sur les lettres de cachet et les prisons d’état/».

10– Cfr. Le Monde 7 luglio 2010 «/Le roi Abdallah annonce l’arrêt de l’exploration pétrolière en Arabie Saoudite/». Un freno in più (e notevole) per rallentare il declino della produzione mondiale.

L’Arabia Saudita, primo produttore mondiale di petrolio, avrebbe messo fine alla esplorazione sul suo suolo, al fine di salvare la sua ricchezza e trasmetterla alle generazioni future, secondo una dichiarazione da re Abdullah in data 1° luglio. L’annuncio è stato dato a Washington davanti a degli studenti sauditi, dice l’agenzia di stampa ufficiale saudita. Pronunciato due giorni dopo un incontro tra il re saudita e il presidente Barack Obama, suona come un avvertimento. L’arresto dello sviluppo di nuovi campi petroliferi in Arabia Saudita, rischia di complicare ulteriormente il futuro della produzione mondiale di petrolio, di fronte all’aumento della domanda. Infatti, l’Arabia Saudita da sola detiene il 20% delle riserve mondiali di oro nero. Temperando il disagio innescato dal bando, un ufficiale del ministero saudita del Petrolio ha detto all’agenzia /Dow Jone/s, che la dichiarazione dell’organismo non significa una decisione definitiva, “/ma in realtà voleva dire che le esplorazioni future dovrebbero essere condotte con saggezza/”, dice il Financial Times. Il quotidiano economico londinese ha detto che la compagnia petrolifera nazionale saudita Aramco, dovrebbe compiere oggi delle prospezioni nel Mar Rosso e nel Golfo Persico.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

 

 


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mardi, 21 septembre 2010

Yemen: una battaglia decisiva nell'ordine simbolico, contro la monarchia saudita

Yemen: Una battaglia decisiva nell’ordine simbolico, contro la monarchia saudita

di René Naba

Fonte: eurasia [scheda fonte]

yemen.jpgL’attacco fallito a un aereo nigeriano a Detroit (USA), nel dicembre 2009, quattro mesi dopo l’attacco fallito contro un principe saudita, responsabile della lotta contro il terrorismo in Arabia Saudita, il principe Mohammed bin Nayef Ben Abdel Aziz, ha sollevato i timori degli statunitensi e ha fatto rivivere il loro interesse verso lo Yemen, temendo che il paese sia utilizzato come nascondiglio dagli uomini di Al Qaeda nella penisola arabica. L’attacco contro l’Arabia del 27 Agosto 2009, inoltre, è stato rivendicato dal capo regionale di al-Qaida, Al Nasser Whayshi, alias Abu Bassir, come anche l’attacco contro il cacciatorpediniere USS Cole, nel porto di Aden, nel 2000. Designato quale bersaglio prioritario da parte degli statunitensi, Abu Bassir è stato ucciso tre mesi dopo la sua rivendicazione del caso di Detroit. Dal 2009, in meno di un anno, le autorità saudite hanno sventato quattro attentati contro il principe Mohammed, un record mondiale difficilmente eguagliabile.

L’attentato di Detroit è stato utilizzato per attivare l’attuazione della nuova dottrina statunitense della guerra clandestina contro il terrorismo, di cui lo Yemen è il banco di prova. La dottrina Obama sostiene l’uso di piccole unità mobili di commando di parà per le operazioni speciali assegnate al monitoraggio dei leader di al-Qaida in Pakistan al Nord Africa, dall’Uganda al Kenya, via Somalia, e in tutti i paesi del Sahel (Algeria, Mali, Mauritania) e dell’Asia centrale. Meno costoso, in termini di bilancio e di immagini, contando sulla collaborazione di imprese di lavori pubblici operanti nell’area, mira a sostituire la Dottrina Bush. Uno degli errori principali della nuova guerra degli Stati Uniti, passato inosservato al giudizio arabo e della pubblica internazionale, è stata anche la morte del prefetto del distretto di Maareb, il 25 maggio 2010, un incidente dell’intervento illegale USA. L’uomo era in trattative con al-Qaida la liberazione della zona di sua responsabilità. La sua morte ha sollevato un vento di rivolta all’interno della sua tribù, che da allora è stata discretamente compensata dal governo degli Stati Uniti. Fin dall’inizio di questa dottrina Obama, tre leader di al-Qaida sono stati uccisi in Yemen, il leader regionale, Nasser al Whayshi, Nasser al Chihri a Rafda e Jamil al Anbari, il 24 marzo 2010, secondo il quotidiano arabo pubblicato a Londra “Al Quds al Arabi” (16 agosto 2010).

Il sistema statunitense è completato in Africa orientale dalla base aerea di Diego Garcia, nell’Oceano Indiano, e dalla co-locazione della base francese di Gibuti di “Camp Lemonier”. La base di Gibuti permette agli Stati Uniti e alla Francia di dominare l’estremità orientale della vasta striscia petroliera che attraversa l’Africa, oggi considerata vitale per i loro interessi strategici, una striscia che va dall’oleodotto Higleg-Port Sudan (1600 km) nel sud-est, all’oleodotto Ciad-Camerun (1000 km) e al Golfo di Guinea a ovest. Una postazione di osservazione degli Stati Uniti, in Uganda, dà a essi la possibilità di controllare il Sud Sudan, dove si trova la maggior parte delle riserve di greggio sudanesi.

La presenza degli Stati Uniti a Gibuti, ha anche il compito di individuare i gruppi terroristici collegati con quelli del Medio Oriente, e di servire da piattaforma operativa per la guerra clandestina contro al-Qaida in Africa orientale, soprattutto in Somalia, che secondo Washington ospita il comoriano Fazul Abdullah Mohammed e il keniota Saleh Ali Saleh Nabhan, coinvolti negli attacchi contro le ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania nel 1998, dove 224 persone sono state uccise.

Al-Qaida ha realizzato un decentramento del suo movimento, in un approccio simmetrico alla dottrina statunitense della furtività, dando autonomia a ampi comandi regionali, in virtù della nuova strategia della ‘lotta diffusa’, implementata con successo da Hezbollah Libanese contro Israele, nel 2006. Dalla ripresa delle ostilità su vasta scala, nello Yemen, al-Qaida ha reso possibile la riunificazione dei due rami che operano nella zona, in Arabia Saudita e nello Yemen, per avviare nel 2008 “Al-Qaida nella penisola araba“, attaccando obiettivi strategici, come l’ambasciata degli Stati Uniti nel 2008 e un centro di sicurezza di Aden, dove i detenuti erano membri dell’organizzazione, nel giugno 2010, al fine di influenzare il separatismo meridionale yemenita, e contribuire a delegittimare il governo centrale. Gli statunitensi vedono questo ramo come la più efficace esecuzione divisione della società madre.

Al Qaida ha anche una filiale somala, “i famosi Chebab” (i giovani) che tengono testa al governo filo-saudita e filo-occidentale di Mogadiscio, segnalandosi presso l’opinione pubblica internazionale con un raid mortale in Uganda, l’11 luglio 2010, facendo una sessantina di morti; e un ramo del Nord Africa, che attua le operazioni tra il ramo africano e quello arabo: “Al-Qaida nel Maghreb Islamico (AQIM).” Risultante da un processo di fusione, AQIM è il prodotto, nel gennaio 2007, dell’inclusione nella rete di bin Laden del Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (GSPC) algerino, a sua volta fondato nel 1998 da dissidenti del Gruppo Islamico Armato (GIA).

Operante generalmente nei deserti di Algeria, Mali, Niger e Mauritania, al-Qaida ha approfittato dei confini porosi per espandere la sua area di operazioni nella regione arida del Sahel, puntando ora al Burkina Faso, il cui Presidente Blaise Compraoré, il negoziatore per la liberazione dell’agente francese Peter Calmatte (febbraio 2010), ha appena compiuto un riavvicinamento spettacolare con gli Stati Uniti. L’AQMI ha attuato, il 24 luglio 2010, l’esecuzione dell’ostaggio francese Michel Germaneau, punto che contrassegna la resa dei conti con la Francia, in quello che sembra essere una strategia della tensione volta ad inviare una avvertimento a quello che vede come l’islamofobia del potere francese, tra il clamore dei media in Francia, dedicati alle “caricature del Profeta“, sotto l’egida della coppia giornalistica Daniel Leconte e Philippe Val, e le polemiche sul velo e la catena self service Halal.

Una battaglia decisiva nell’ordine simbolico contro l’Arabia Saudita

Il coinvolgimento di al-Qaida nel conflitto nello Yemen e nel suo ambiente somalo, risuonava come un affronto ai suoi ex compari, l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti, e allo stesso tempo sottolineava l’irriverenza alla strategia statunitense nel suo obiettivo principale, “la guerra globale contro il terrorismo,” la madre di tutte le battaglie.

A capo del paese per 32 anni (1978), il presidente Ali Abdullah Saleh accusa i ribelli di cercare di rovesciare il suo regime per ripristinare l’Imamato zayidita, abolito nel 1962 da Sana’a, e di essere manipolati dall’Iran. Gli houthisti, nel frattempo, si lamentano di essere emarginati dal governo sul piano politico, economico e religioso, e chiedono la restaurazione dell’autonomia di cui godevano prima del 1962. Assicurano di voler difendere l’identità minacciata sia dalla politica del governo centrale, che mantiene la propria regione nel sottosviluppo, e dalla pressione del fondamentalismo sannita, per la quale Sanaa mantiene spesso un’ambiguità.

Provenienti dalla corrente religiosa sciita zayidita, gli houthisti vivono negli altopiani, soprattutto nella provincia yemenita di Saada, e mostrano molte differenze dogmatiche rispetto agli sciiti iraniano duodecimani. Essi rappresentavano, nel 2007, circa il 30% di 22,2 milioni di yemeniti, che sono in prevalenza sunniti. Inoltre, condividono molte interpretazioni religiose con la maggioranza sunnita Shafita. Gli houthisti negano ogni uso della loro causa da parte di una potenza straniera, e insistono, invece, sull’aiuto che il regno saudita avrebbe portato al presidente.

La nuova guerra nello Yemen, ha avuto inizio nel 2004 in seguito alla cattura di importanti leader houthisti e alla morte in combattimento del loro leader, Hussein al Houthi, ucciso nel settembre dello stesso anno da un missile, durante un’operazione clandestina della CIA in ritorsione all’attacco contro il cacciatorpediniere USS Cole. Hussein, leader del movimento, è stato successivamente sostituito da suo fratello Abdul Malik.

Ma al di là del conflitto tribale, gli yemeniti nutrono solidi risentimenti verso l’Arabia Saudita, di cui non tollerano l’annessione di tre verdeggianti province, Asir, Najran e Jizan (2), che criticano, inoltre, di aver mantenuto a lungo l’instabilità nel paese, finanziando direttamente il bilancio della difesa, quindi bypassando il potere statale, in favore alternativo a due confederazioni tribali principali: Beni Hached e Bakil. Lo sceicco Abdullah Hussein Al Ahmar, uomo forte della tribù Hached, leader dell’al-Islah (Riforma) e presidente del Parlamento yemenita, si dice riceva sovvenzioni sauditi, nel nuovo confronto.

Yemen e Iraq, due paesi confinanti con l’Arabia Saudita, costituiscono i due baluardi della difesa strategica del Regno wahabita, il primo a sud, il secondo a nord dell’Arabia Saudita. E’ in questi due paesi che l’Arabia Saudita s’è inserita nella lotta per assicurare la continuità della dinastia wahhabita, per almeno due volte negli ultimi decenni. Lo Yemen è stato utilizzato, in effetti, come campo dello scontro inter-arabo tra repubblicani e monarchici, al tempo della rivalità Faisal-Nasser, negli anni ‘60, e l’Iraq, la scena dello scontro tra sciiti rivoluzionari e sunniti conservatori, al tempo della rivalità Saddam-Khomeini negli anni ‘80.

Al-Qaida nello Yemen è in realtà un ritorno ai fondamenti del conflitto che oppone il movimento alla famiglia al-Saud. Usama Bin Ladin è considerato un legittimo titolare di allori raccolti sui campi di battaglia in Afghanistan, cosa che ha avuto l’effetto di rafforzare la posizione saudita verso i suoi alleati statunitensi, un ruolo che è negato dagli al-Saud.

Pur avendo un certo seguito sia nell’Islam dell’Asia (Afghanistan, Pakistan), che nell’Islam dell’Africa (sub-sahariana del Sahel), Usama bin Ladin soffre di un grave handicap nel nucleo storico dell’Islam del mondo arabo, a causa del suo passato legame con gli statunitensi, durante la guerra anti-sovietica in Afghanistan (1980-1990), deviando quasi cinquantamila combattenti arabi e musulmani dal campo di battaglia principale, la Palestina, mentre Yasser Arafat, il leader dell’OLP, era assediato a Beirut dagli israeliani, con il supporto degli Stati Uniti (giugno 1982). Se si può affermare di aver contribuito a far precipitare il collasso del “regime ateo” dell’Unione Sovietica, i suoi critici lo accusano di aver privato del loro principale sostegno militare, i paesi arabi del ‘campo di battaglia’, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Egitto, Siria, Iraq, Algeria, Yemen del Sud, Sudan e Libia.

La sua autorità si scontra, quindi, nel mondo arabo, col carisma di leader autentici dimostratosi tali agli occhi di ampie fazioni del mondo musulmano arabo, quali lo sceicco Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, il movimento sciita libanese, autore di due imprese militari contro Israele (2000, 2006) e Hamas, il movimento sunnita palestinese, il cui incomparabile vantaggio su Usama bin Ladin è il fatto che non hanno mai abbandonato la lotta contro Israele, il nemico principale del mondo arabo.

L’autodafé del Corano, una manna ideologica, una leva per il reclutamento per al-Qaida

La distruzione da parte dei suoi alleati taliban dei Budda di Bamiyan (3), nell’Afghanistan centrale, nel 2001, alienò all’Islam quasi un miliardo di buddisti, aumentando i sospetti contro di lui. Questo atto diventa ancora più importante, a posteriori, quando i musulmani, a loro volta, stigmatizzano il progetto di uno piccolo gruppo di cristiani fondamentalisti della Florida, di voler bruciare 200 copie del Corano, il libro sacro dei musulmani, sabato 11 settembre, nel nono anniversario degli attentati negli Stati Uniti.

Il progetto del pastore Terry Jones del Colomba World Outreach Center, di bruciare il Corano è stato chiamato “gesto distruttore, che minaccia le truppe occidentali in Afghanistan“, dal Presidente Obama. È, in ogni caso, una manna ideologica e potrebbe servire come giustificazione a posteriori per il raid di al-Qaida contro gli USA, sostenendo l’islamofobia nella società occidentale, come leva per il reclutamento nell’organizzazione islamista, nell’intero periodo di commemorazione degli attentati contro gli USA.

Usama Bin Ladin appare, in retrospettiva, come il tacchino della farsa della vicenda afgana, nella sua versione anti-sovietica, dal momento che ha portato a fare crollare un alleato dei paesi arabi del campo di battaglia, l’Unione Sovietica, e rafforzato il partner strategico d’Israele, gli Stati Uniti. Cinquantamila arabi e musulmani si arruolarono sotto la bandiera dell’Islam, sotto la guida di Usama bin Ladin, ufficiale di collegamento dei sauditi e degli statunitensi, per combattere in Afghanistan l’ateismo sovietico, in una guerra finanziata in parte dalle petro-monarchie del Golfo, fino a venti miliardi di dollari, una somma equivalente al bilancio annuale di un quarto dei paesi membri dell’organizzazione pan-araba (4).

In confronto, l’Hezbollah libanese con un numero molto inferiore di combattenti, stimato in duemila combattenti, e con pochi soldi rispetto a quelli impegnati per il finanziamento degli arabi afgani, ha causato lo sconvolgimento psicologico e militare più significativo che la Legione islamica, nell’equilibrio delle potenze regionali.

Il raid dell’11 Settembre 2001 compare, così, a posteriori, come una rappresaglia a questa doppiezza, e allo stesso tempo un tentativo di trascinare gli Stati Uniti, con la risposta che non mancherebbe di suscitare, in una guerra di usura nel pantano afgano. Tale, almeno, è una interpretazione che ha avuto luogo in ambienti politici arabi, sulle motivazioni di Usama Bin Ladin nella scelta dei bersagli degli attentati dell’11 settembre 2001.

La creazione di al-Qaida per la penisola arabica nello Yemen, potrebbe avere un effetto destabilizzante sul regno, che “non sarà immune da un crollo, in caso di caduta dello Yemen”, ha ammonito il 17 luglio 2010, il ministro dell’istruzione superiore yemenita, Saleh Basserrate, deplorando la mancanza di cooperazione saudita nel risolverne le difficoltà economiche (5). L’allarme è stato ritenuto sufficientemente grave da indurre il re Abdullah ad impegnare nella lotta le sue forze nello Yemen, nell’autunno del 2009, accanto alle forze governative, e di superare le sue dispute con la Siria, incitando il suo braccio destro in Libano, il nuovo Primo ministro libanese Saad Hariri, a volgersi verso Damasco.

Quasi un milione di lavoratori yemeniti sono stati espulsi dall’Arabia Saudita nel 1990, per l’allineamento del governo di Sana’a nella disputa territoriale di Saddam Hussein con il Kuwait, spingendo il governo dello Yemen, nella speranza di ottenere dall’Arabia assistenza economica, a disattivare le sue pretese territoriali, col dispiacere di una frazione dell’opinione pubblica yemenita. Il coinvolgimento di un membro del contesto familiare del principe Bandar bin Sultan, figlio del ministro della Difesa e presidente del Consiglio nazionale di sicurezza, la riattivazione dei simpatizzanti di al-Qaida in Siria e il Libano del Nord, nella regione del campo palestinese di Nahr el-Bared, ha dato la misura dell’infiltrazione dell’organizzazione islamista nei circoli dei governanti sauditi, mentre stava minando il regno nei confronti dei suoi interlocutori, sia come che statunitensi.

Sheikh Maher Hammoud, un mufti sunnita della moschea “Al Quds” di Saida (sud del Libano), ha apertamente accusato il principe Bandar dalla TV satellitare Al-Jazeera, sabato 26 giugno 2010, d’aver finanziato i disordini in Libano, in particolare contro le zone cristiane di Beirut, come tattica diversiva, senza che questa affermazione sia smentita, o il dignitario citato in giudizio, portando gli USA a dichiarare “persona non grata” Bandar, l’ex beniamino degli Stati Uniti, il “Grande Gatsby” dell’establishment statunitense.

Significativamente, un responsabile di al-Qaida nella penisola arabica, non è altro che l’imam radicale Anwar al-Aulaqi, un uomo che gli statunitensi identificano come responsabile della strategia di comunicazione di Al Qaida destinata al mondo di lingua inglese, tramite il sito on-line “Inspire“. Yemenita nato negli Stati Uniti, ha rivendicato come suo discepolo il mancato attentatore del volo Amsterdam-Detroit del 25 Dicembre 2009, illustrazione sintomatico della confusione che regna nelle relazioni tra gli Stati Uniti e il mondo musulmano e la strumentalizzazione statunitense dell’Islam nella sua guerra contro l’Unione Sovietica. Ora è una priorità della dottrina Obama.

L’ancoraggio di un organismo a maggioranza sunnita, escrescenza del rigorismo wahhabita, sul lato sud dell’Arabia Saudita, porta il segno di una sfida personale do bin Laden agli antichi padroni, in quanto porta sul posto stesso della loro antica alleanza, lo scontro sulla d legittimità tra la monarchia e il suo ex servitore.

Sullo sfondo dello showdown della controversia Usa-Iran sul nucleare iraniano, Usama bin Ladin, di origine yemenita, decaduto dalla nazionalità saudita, ha scelto di combattere per la terra dei suoi antenati.

Per portare, nell’ordine simbolico, la battaglia decisiva contro la monarchia saudita, che egli considera come una negazione dell’Islam, l’usurpatore saudita di province yemenite, in una battaglia di ritorno, il cui fine ultimo deve essere il ripristino della sua legittimità, almeno della legittimità del marchio della sua organizzazione in rapido declino nel mondo arabo. Con paradossalmente, degli osservatori passivi, ma dai dividendi possibili, l’Iran sciita e, soprattutto, la Russia, estromessa da Socotra, che ha combattuto in Afghanistan per la causa dell’ateismo.
Riferimenti

2- Le tre province yemenite Jizan, Asir e Najran erano state annessa dall’Arabia Saudita nel 1932, l’annessione fu ratificata dall’accordo di Taif del 1934. Lo Yemen si oppose alla proroga di venti anni di questo accordo, scaduto nel 1992.

3 – I Buddha di Bamiyan erano due statue monumentali del Budda in piedi, scavate nel fianco di una rupe situata nella valle di Bamyan nell’Afghanistan centrale, 230 chilometri a nord ovest di Kabul, a un’altitudine di 2500 metri. L’intero sito è patrimonio dell’umanità dall’UNESCO. Il ‘Grande Buddha’ (53 metri) risale al V secolo, il ‘piccolo Buddha’, nella seconda metà del terzo secolo. Le statue sono scomparse dopo essere state distrutte dai taliban nel marzo 2001.

4-Mikael Awad, politilogo egiziano, l’intervento sul network pan-arabo ‘Al Jazeera’, 2 febbraio 2010, trasmissione “al Ittijah al Mouakess“, (Il senso contrario).

5- Cfr. “La chiamata in soccorso dallo Yemen all’Arabia Saudita“, editoriale di Abdel Bari Atwan, direttore del quotidiano panarabo Al Quds Al Arabi, pubblicato a Londra, 17 Luglio 2010
Per ulteriori informazioni:

1 -Cfr. Arabie saoudite: la grande frayeur de la dynastie wahabite

http://www.renenaba.com/?p=701

2 Cfr. Yémen: La lutte pour le pouvoir dans le sud Yémen pro soviétique

http://www.renenaba.com/?p=766

Traduzione di Alessandro Lattanzio

Fonte: Il blog di René Naba (http://www.renenaba.com/)

http://www.mondialisation.ca/PrintArticle.php?articleId=21003

Leggi la prima parte – YEMEN: l’affronto di bin Laden ai suoi ex sponsor

http://www.mondialisation.ca/index.php?context=va&aid...

 


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vendredi, 21 mai 2010

L'Arabia Saudita, l'Iran e la guerra fredda sulle sponde del Golfo

L’Arabia Saudita, l’Iran e la guerra fredda sulle sponde del Golfo

di Giovanni Andriolo

Fonte: eurasia [scheda fonte]


 
L’Arabia Saudita, l’Iran e la guerra fredda sulle sponde del Golfo

Lungo le due sponde del Golfo che alcuni chiamano Arabico altri Persico si fronteggiano due colossi, la cui grandezza si misura non solo con l’estensione territoriale dei due Paesi, ma soprattutto con il peso economico, politico e culturale che entrambi esercitano sulla regione vicino-orientale e, in definitiva, sulla scena mondiale. Si tratta di Arabia Saudita e Iran, due Paesi che, pur presentando vari elementi in comune, sono caratterizzati da una frattura profonda, molto più profonda del Golfo che li separa e la cui ambivalenza nel nome è già di per sé un chiaro segnale della tendenza, da parte di ognuna delle due potenze in questione, di rivendicazione del controllo sull’area a discapito del Paese antagonista.

Analogie e differenze: un punto di partenza

Con la sua estensione di circa 1.700 km² e una popolazione di quasi 70 milioni di abitanti, l’Iran è uno dei Paesi più estesi e popolosi della regione vicino-orientale. L’Arabia Saudita supera l’Iran per estensione, raggiungendo circa i 2.250 km², ma presenta una popolazione inferiore, all’incirca 28 milioni di abitanti. I due Paesi risultano quindi essere tra i maggiori per estensione e, nel caso dell’Iran, popolosità di tutta la regione.

Entrambi i Paesi, poi, occupano un’importantissima area geografica, affiancando entrambi il Golfo Persico/Arabico (a cui, d’ora in poi, ci si riferirà come Golfo), anche se l’Arabia Saudita non si affaccia, come l’Iran, direttamente sull’importantissimo Stretto di Hormuz, passaggio d’ingresso per le navi nel Golfo stesso.

Dal punto di vista economico, i due Paesi basano la loro ricchezza sull’esportazione di materie prime: innanzitutto il petrolio, di cui l’Arabia Saudita detiene le riserve maggiori al mondo, mentre l’Iran si posiziona al terzo posto nella stessa classifica; ma anche gas, acciaio, oro, rame.

Entrambi i Paesi, poi, sono caratterizzati da un sistema politico forte, accentratore, di stampo religioso, che in Arabia Saudita prende le sembianze di un Regno, mentre in Iran si declina in una Repubblica Islamica.

Dal punto di vista culturale, entrambi i Paesi si configurano, per così dire, come Stati-guida della regione, essendo entrambi simbolo di due civiltà e di due culture storicamente importanti e forti.

Proprio su quest’ultimo punto nascono le prime divergenze tra i due Paesi: infatti l’Iran è la culla della civiltà persiana, storicamente affermata e radicata, e per niente disposta a vedersi superata dall’altra grande cultura che caratterizza l’Arabia Saudita, la civiltà araba. A questa prima divergenza culturale si affianca una divergenza religiosa, che vede nell’Iran il Paese-guida della corrente islamica sciita, sia per tradizione storica sia per numero di sciiti presenti nel Paese, mentre dall’altra parte, specularmente, la dinastia dei Saud che regna nell’Arabia Saudita si pone come centro di riferimento della corrente sunnita del mondo islamico.

Infine la posizione internazionale dei due Paesi, che attualmente vede da un lato l’Iran come il nemico più temibile di Israele e Stati Uniti, il primo dei cosiddetti “Stati Canaglia”, il Paese che con il suo piano di sviluppo del nucleare è sospettato di volersi dotare di potenti armi per minacciare la stabilità della regione; mentre dall’altro l’Arabia Saudita è un alleato degli Stati Uniti, un suo fondamentale interlocutore politico e commerciale, una colonna portante del sistema di mantenimento della stabilità nella regione.

Una breve storia dello scontro

La dinastia dei Saud appartiene alla corrente del Wahabismo islamico, una diramazione ultraortodossa del Sunnismo, e fin dalla fondazione del Regno Saudita ha sempre mantenuto un atteggiamento di scetticismo nei confronti dell’Iran sciita e delle sue pretese di espansione militare e controllo della regione. Sia gli Wahabiti sia gli Sciiti continuano da sempre uno scontro ideologico religioso in cui ognuna delle correnti tenta di dimostrare l’infondatezza e l’inconsistenza dell’altra, in entrambi i Paesi. Infatti attualmente in Arabia Saudita circa il 15% della popolazione è di religione musulmana sciita, mentre in Iran circa il 10% della popolazione e sunnita. I rapporti tra i due Paesi si sono tuttavia mantenuti cordiali fino al 1979, anno in cui la Rivoluzione iraniana portò un cambio di regime nel Paese, trasformandolo in una Repubblica Teocratica. Il nuovo leader religioso Ruhollah Khomeini e gli uomini di governo iraniani criticarono aspramente il regime saudita, accusandolo di illegittimità. Dall’altra parte, il nuovo regime rivoluzionario insediatosi in Iran fu visto da parte dell’Arabia Saudita come un ulteriore pericolo per la stabilità della regione e per i propri possedimenti territoriali.

La prime avvisaglie di una guerra fredda tra i due Paesi si ebbero in occasione della Prima guerra del Golfo tra Iran e Iraq, iniziata nel 1980. L’Arabia Saudita, sebbene le sue relazioni con l’Iraq al tempo non fossero particolarmente strette, offrì a Saddam Hussein, sunnita, 25 miliardi di dollari per finanziare la guerra contro l’Iran, e spronò gli altri Stati arabi del Golfo ad aiutare finanziariamente l’Iraq. L’Iran rispose con minacce e con ricognizioni da parte della propria aviazione sul territorio saudita. Malgrado ciò, i due Paesi non interruppero in quel periodo le relazioni diplomatiche.

Prima della fine della guerra, però, accadde un evento che fece deteriorare fortemente le relazioni tra i due Paesi: nel 1987 infatti, durante il tradizionale pellegrinaggio dei fedeli musulmani alla Mecca, in Arabia Saudita, un gruppo di pellegrini sciiti diede vita ad una protesta contro la dinastia saudita, causando una dura reazione da parte delle forze di sicurezza saudite, che uccisero circa 400 dimostranti, di cui più della metà di nazionalità iraniana. Di conseguenza, Khomeini rivolse forti accuse contro l’Arabia Saudita, l’Ambasciata Saudita a Tehran fu attaccata, furono presi in ostaggio alcuni diplomatici sauditi e uno di loro perse la vita. In quell’occasione furono interrotti i rapporti diplomatici tra i due Paesi e l’Arabia Saudita sospese la concessione di visti ai cittadini iraniani, impedendo loro in questo modo di effettuare l’annuale pellegrinaggio alla Mecca.

Dopo la fine della Prima guerra del Golfo, nel 1989, Iran e Arabia Saudita iniziarono lentamente a riavvicinarsi. Un impulso in questo senso fu dato dagli avvenimenti della Seconda guerra del Golfo, iniziata nel 1990, quando Saddam Hussein occupò con il proprio esercito il Kuwait. Iran e Arabia Saudita percepirono l’espansionismo iracheno come un forte pericolo per la propria integrità territoriale e per i propri pozzi petroliferi, per cui criticarono aspramente l’Iraq e in questo si avvicinarono notevolmente, arrivando a ristabilire relazioni diplomatiche nel 1991. In quell’anno le autorità saudite concessero a 115.000 pellegrini iraniani il visto per recarsi in pellegrinaggio alla Mecca.

Negli anni seguenti, i rapporti tra i due Paesi si intensificarono e alla fine degli anni ’90 i capi di stato di entrambi i Paesi scambiarono visite ufficiali nelle rispettive capitali. Iniziò da allora un periodo di cooperazione ufficiale tra i due Paesi con l’intento di diffondere stabilità e sicurezza nella regione.

La situazione attuale

Malgrado il riavvicinamento diplomatico ufficiale tra Iran ed Arabia Saudita negli anni ’90, restano oggi diverse incognite sui rapporti effettivi tra i due Paesi.

Infatti, da un lato l’Arabia Saudita continua a temere un possibile espansionismo iraniano sulla regione del Golfo. In questo senso, alimenta i dubbi sauditi l’atteggiamento del Presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, anti-statunitense, anti-israeliano, fautore di un controverso programma di sviluppo di energia nucleare, sospettato di voler dotare l’Iran di armi atomiche, critico verso il Regno Saudita e l’alleanza dei Saud con gli Stati Uniti. D’altra parte per l’Iran di Ahmadinejad continua a risultare incoerente l’atteggiamento saudita, che da un lato deplora la presenza israeliana in Palestina, dall’altro si pone come alleato degli Stati Uniti, principali alleati e protettori di Israele, che nella visione del presidente iraniano costituiscono il nemico per eccellenza.

In definitiva, i due Paesi si fanno ugualmente promotori della creazione di ordine e stabilità nella regione vicino-orientale, proponendo tuttavia due diversi schemi: l’Iran infatti predilige un profilo più indipendente e chiaramente ostile alle potenze che, a suo avviso, portano disordine nella regione, gli Stati Uniti e Israele; l’Arabia Saudita, invece, opta per un atteggiamento più riservato nei confronti delle potenze presenti nell’area, attenta soprattutto a perseguire le proprie politiche in accordo con i meccanismi che garantiscono il suo fiorente sviluppo economico. In questo senso, la posizione dell’Arabia Saudita diventa molto difficile, poiché si trova a dovere gestire rapporti amichevoli con attori che tra loro sono in forte conflitto. L’Arabia Saudita infatti si trova al centro di un complicato intreccio di interessi, per cui dipende per la sua sicurezza dagli Stati Uniti, ma allo stesso tempo deve mantenere buoni rapporti di vicinato con l’Iran, pur temendone le velleità aggressive. In contemporanea l’Arabia Saudita si trova a favorire, in quanto campione della civiltà araba e della religione musulmana, la causa palestinese contro la presenza israeliana, ma allo stesso tempo deve continuamente gestire i propri rapporti con gli Stati Uniti, a loro volta principali alleati di Israele.

Da parte sua, l’Iran nutre forti timori per la propria incolumità: infatti la presenza statunitense nella regione, sia come alleato di Israele, sia tramite il dislocamento di forze militari in territorio saudita e nel bacino del Golfo, spinge il governo di Ahmadinejad ad un atteggiamento aggressivo in chiave difensiva e genera ulteriori critiche verso la condotta della dinastia dei Saud.

Questo delicato equilibrio di forze è messo alla prova e minacciato dagli eventi che nell’ultimo decennio hanno sconvolto la regione vicino-orientale.

Da un lato la presenza di Hamas sulla striscia di Gaza e il fermento di Hezbollah in Libano. L’Iran è accusato dagli Stati Uniti di fornire armi e aiuti ad entrambi i movimenti, ad Hamas in chiave strategica anti-israeliana, ad Hezbollah con la stessa funzione e in quando movimento di matrice sciita. D’altra parte il Dipartimento di Stato statunitense identifica tra i finanziatori di Hamas l’Arabia Saudita stessa, fattore questo che complica ulteriormente l’intricata situazione internazionale del Regno dei Saud.

In secondo luogo l’attacco statunitense in Iraq del 2003 e soprattutto gli eventi che a questo sono seguiti: se da un lato, infatti, l’Arabia Saudita non ha mai avuto rapporti particolarmente stretti con Saddam Hussein, dall’altro il declassamento che il sunnismo ha ricevuto nel Paese a vantaggio della popolazione sciita, in seguito al rovesciamento del regime di Saddam, non può che creare disappunto nel Regno dei Saud. In questo senso la politica dell’amministrazione Bush in Iraq non sembra aver considerato attentamente il fattore sciita. Infatti se in Iraq si dovesse rafforzare il governo dello sciita Nouri al-Maliki, si verrebbe a creare nel Vicino Oriente un blocco sciita che, partendo dall’Iran, proseguirebbe lungo l’Iraq, passando per la Siria (sciita solo nella figura della sua dirigenza, ma vicina politicamente all’Iran) e terminando in Libano (dove la presenza sciita è notevole) e a Gaza (dove Hamas gode del supporto iraniano).

Inoltre l’Iran si sta muovendo parallelamente lungo le vie del cosiddetto soft power, intromettendosi nella politica saudita (ma anche nello Yemen, in Bahrein, in Libia, in Algeria) per rafforzare le popolazioni sciite locali. In Arabia Saudita la già scarsa partecipazione politica diventa nulla per la minoranza sciita, che dal punto di vista sociale ed economico risulta fortemente svantaggiata. Le autorità saudite vietano alla comunità sciita di celebrare le proprie festività e di costruire moschee nel Paese, ad eccezione di alcune aree particolari. In questa situazione l’Iran interviene con aiuti e finanziamenti alla popolazione sciita, che a sua volta sembra accogliere con favore questo supporto. D’altra parte, anche l’Arabia Saudita è impegnata nel finanziamento e nella costruzione di scuole Wahabite in altri Paesi, con il compito di diffondere la dottrina della corrente dei Saud. Questo tipo di politica soft non prevede l’uso della forza, ma può dare origine in alcuni casi a scontri veri e propri.

Un esempio di tali dinamiche si può vedere negli avvenimenti della fine del 2009 tra Yemen e Arabia Saudita. Il governo di Sana’a, infatti, ancora negli anni ’90 aveva armato e finanziato l’imam Yahya al-Houthi, di parte sciita, inviandolo nella regione settentrionale di Sa’adah con il compito di contenere e contrastare il proselitismo Wahabita attivo nella regione. Con il tempo, però, al-Houthi si pose alla guida di un movimento di rivendicazione dell’indipendenza di Sa’adah dallo Yemen. Il governo yemenita, allora, dopo aver accusato l’Iran di finanziare il movimento di al-Houthi, chiamò in aiuto l’Arabia Saudita, il cui esercito ha effettuato tra novembre e dicembre del 2009 diverse incursioni nel nord dello Yemen, fino a schiacciare i guerriglieri di al-Houti. Ahmadinejad, da parte sua, non ha tardato a criticare l’intervento saudita nello Yemen, chiedendo provocatoriamente per quale motivo l’Arabia Saudita non si sia dimostrata altrettanto pronta ad intervenire durante i bombardamenti di Gaza da parte dell’esercito israeliano tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009; l’Arabia Saudita ha risposto accusando l’Iran di intromissione negli affari interni yemeniti.

Alcune conclusioni

Alla luce di quanto appena raccontato emerge chiaramente come gli accordi ufficiali tra Iran e Arabia Saudita, volti allo sviluppo di una politica di stabilità e di cooperazione anche economica, celino in realtà una complessa rete di schermaglie, accuse, disaccordi che, nella migliore tradizione della guerra fredda, si ripercuotono su altri attori internazionali senza sfociare, per ora, in uno scontro diretto. Ne sono esempi concreti il caso dello Yemen appena descritto o l’Iraq post-Saddam, con la guerriglia tra la maggioranza sciita e le comunità sunnite, entrambe supportate rispettivamente da Iran e Arabia Saudita. E’ un altro valido esempio la diffusione, ad opera del governo di Riad, di scuole di matrice wahabita in diversi Paesi arabi, così come la propaganda sciita e il supporto da parte iraniana alle comunità sciite in diversi Paesi a maggioranza sunnita, tra cui l’Arabia Saudita.

In ultima analisi tutte queste incomprensioni sembrano nascere, oltre che da volontà di autoaffermazione di tipo culturale e religioso (civiltà araba-civiltà persiana, sunnismo-sciismo), soprattutto da un fattore che domina da decenni lo scenario vicino-orientale: la paura.

Da un lato infatti, l’Arabia Saudita teme la continua espansione dell’influenza iraniana nella regione, mentre dall’altro l’Iran teme l’avvicinamento delle monarchie del Golfo agli Stati Uniti.

Inoltre non va dimenticato che entrambi i regimi attivi nei due Paesi si stanno confrontando con una crescente opposizione interna: da un lato i Saud, le cui politiche di avvicinamento agli Stati Uniti contrariano fortemente parte dell’ortodossia religiosa e il movimento al-Qaida, presente nel Paese malgrado gli sforzi delle forze di sicurezza interne per contrastarlo; dall’altra il governo di Ahmadinejad, criticato sempre più apertamente da ampi strati della società, come dimostra l’ondata di proteste levatasi in occasione delle recenti elezioni iraniane.

La paura di aggressioni dall’esterno unita all’instabilità crescente dei due regimi sembra spingere dunque Iran e Arabia Saudita verso posizioni sempre più aggressive e contrastanti. Così, ad esempio, il programma iraniano di sviluppo in campo nucleare sta causando un’analoga corsa al nucleare da parte dei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (di cui l’Arabia Saudita è l’elemento più importante), che hanno già chiesto supporto all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) per lo sviluppo di un reattore nucleare.

L’equilibrio mantenuto nella regione dall’interconnessione di interessi strategici ed economici, che vede l’esuberanza iraniana moderata dall’alleanza tra Arabia Saudita e Stati Uniti, non ha ancora provocato scontri diretti tra i due Paesi. Tuttavia, la costante instabilità dell’intera regione e dei governi delle due potenze vicino-orientali potrebbe portare ad un crescente scontro tra due Paesi dotati di risorse energetiche e di armamenti ingenti e moderni. Finora gli attriti sono sfociati in scontri armati decentrati, coinvolgendo attori diversi, ma non è escluso che una crescente ostilità, alimentata anche dagli avvenimenti bellici che stanno avvenendo in varie zone della regione, possa portare a conseguenze più gravi.

Lo scontro tra Iran ed Arabia Saudita sembra inserirsi, dunque, nel complesso mosaico delle vicende vicino-orientali, interconnettendosi a queste, alimentandole e traendo contemporaneamente da queste alimentazione. Il fatto che due potenze come Iran ed Arabia Saudita si trovino in un tale stato di terrore, dimostra come sia l’autoritarismo interno sia l’aggressività verso l’esterno non sembrino garantire, nel Vicino Oriente, quella stabilità e sicurezza che tutto il mondo auspica, e soprattutto come sia Iran sia Arabia Saudita risultino attualmente inadeguate al ruolo di Paese-guida nella regione del Golfo a cui entrambe ambiscono.

* Giovanni Andriolo è dottore in Relazioni internazionali e tutela dei diritti umani (Università degli studi di Torino)
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mercredi, 17 mars 2010

La dérive de la diplomatie turque utilise son négationnisme cynique et imperturbable

La dérive de la diplomatie turque
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Jean-Gilles MALLIARAKIS /
http://www.insolent.fr/
Ce 8 mars, le Premier ministre turc Erdogan, se rendait à Riyad. Le roi d'Arabie Abdallah, allait lui décerner le prix international du Roi Fayçal pour "Services rendus à l'islam". Cette distinction, créée en 1979, est présentée pompeusement comme une sorte de prix Nobel du monde arabe. À ce titre, l'heureux lauréat recevait 200 grammes d'or et 200 000 dollars américains.

Dans mon petit livre d'initiation des Européens à la question turque (1) je livre un certain nombre de clefs explicatives de l'attitude et des actes d'Ankara.

Nous nous trouvons en présence de tendances longues. Certes, pour mes amis lecteurs, et [heureusement] pour quelques autres, celles-ci ne relèvent d'aucune sorte de mystère. Hélas, de manière étrange, nos dirigeants se plaisent à les ignorer.

La distinction reçue des mains du plus puissant représentant de la finance islamique le confirme (2). Les déclarations du roi et de son entourage mériteraient une plus large analyse. Il s'agit de donner une "approbation solennelle à ses efforts d'intermédiation au Proche et au Moyen-Orient". Et de citer son rôle actif "auprès de l'Iran, de la Syrie, du Yémen et du Hamas". Ceci le place désormais "à la tête du monde musulman" (3). Belle revanche posthume du califat ottoman.

Il demeure toutefois candidat à la qualité de membre à part entière au sein de l'Union européenne. Et un personnage comme Zapatero, au pouvoir à Madrid et occupant la "présidence tournante" de l'Union, l'y encourage.

Au-delà même du symbole, le récipiendaire profitait encore de la circonstance pour confirmer tout ce que l'on semble, de plus en plus, découvrir des nouvelles inclinations proches orientales de son gouvernement. Ne perdons jamais de vue, d'ailleurs, la part de faux-semblant, de communication et de mise en scène dans l'ensemble de cette subtile intrigue (4).

Or, en parallèle, les mêmes bureaux d'Ankara viennent d'administrer la preuve de leur incompréhension totale des références et des jugements de l'occident. Et cela se manifeste autour de la question historique du génocide arménien. Rappelons à cet égard que le fait même d'écrire ce mot, apparu en 1945, avec des guillemets pourrait tomber désormais en France sous le coup de la loi.

Au contraire, la position turque officielle persiste

1° à ergoter sur le nombre de victimes arméniennes qu'elle cherche à abaisser, du nombre habituellement admis, entre 1,5 et 2 millions de morts, à une fourchette de 300 000 à 500 000, sans se rendre compte que ce marchandage lui-même produit le plus déplorable effet.

2° à nier l'existence - d'une campagne d'extermination en dépit de la publication des télégrammes de Talaat pacha, et d'autres documents, écrits (5), témoignages habituellement considérés comme des preuves par les occidentaux.

3° à ne vouloir voir dans ces disparitions de populations entières que la conséquence du "chaos des dernières années de l'Empire ottoman".

Or très précisément cette vague évocation des événements aurait permis à n'importe quel régime démocratique européen de se défausser des fautes commises par ses prédécesseurs. Il les leur aurait imputés raisonnablement ; et il offrirait aux représentants des victimes des excuses, plus ou moins dignes, plus ou moins valables. (6)

La récente passe d'armes entre Américains et Turcs tend à démontrer l'incapacité des dirigeants de ce dernier pays à se comporter d'une telle manière. Repentance, connaît pas. Ils la jugent indigne de leur ombrageuse fierté nationale.

Une nouvelle expérience vient ainsi de se dérouler entre une commission du Congrès américain et le ministre des Affaires étrangères de l'AKP, M. Ahmet Davutoglou.

À Washington, le 5 mars, la commission des Affaires étrangères de la Chambre des représentants appelle le président des États-Unis à "qualifier de façon précise l'extermination systématique et délibérée de 1 500 000 Arméniens, de génocide". Président de cette commission, Howard Berman, a estimé que "rien ne justifie que la Turquie ignore la réalité du génocide arménien". Juste avant le vote le porte-parole du département d'État, M. Philip Crowley avait indiqué cependant que les Etats-Unis sont favorables à "une reconnaissance entière, franche et juste des faits liés aux événements historiques de 1915" en ajoutant toutefois que "Nous nous inquiétons de l'impact possible (de la résolution) sur les pays affectés".

On doit remarquer que ce vote, acquis par une courte majorité, 23 voix contre 22, est principalement dû au ralliement des élus démocrates. Les républicains se montrent en général assez hostiles à ce genre de considérations.

Sous la présidence précédente, une résolution analogue avait été censurée en 2007 par la Maison-Blanche, sous la pression. GW Bush était même intervenu personnellement, en téléphonant chez eux à divers élus (7) Et lors du dernier débat le porte parole de la droite avait considéré que, malgré sa sympathie pour les victimes, nous vivions au XXIe siècle.

La réaction de la Turquie officielle s'est donc d'autant moins fait attendre qu'elle mesure les points faibles de la démocratie américaine. Immédiatement est partie d'Ankara une protestation en forme d'avertissement : "Nous condamnons cette résolution qui accuse la nation turque d'un crime qu'elle n'a pas commis".

Lors de sa campagne présidentielle de 2008, M. Obama avait promis cette reconnaissance du génocide arménien. Peu après son élection, il a renoncé à employer ce terme alors que les États-Unis soutiennent les efforts de normalisation en cours entre la Turquie et l'Arménie pour l'ouverture de la frontière commune et l'établissement de relations diplomatiques. Idem de la part de Hillary Clinton, venue le 2 mars devant la commission pour exprimer ses réserves quant à l'opportunité de cette motion H252 dont elle approuvait le propos tant qu'elle n'occupait pas la fonction de secrétaire d'État.

Au lieu de se situer sur la défensive, de son côté, la diplomatie turque, pratique directement la menace. "À la suite de cet incident, notre ambassadeur à Washington, Namik Tan, a été rappelé à Ankara pour consultations". Le 10 mars le chef du gouvernement confirmait que jusqu'à nouvel ordre il ne reviendra pas.

Le chef de l'État Abdullah Gül a également condamné le texte voté : il n'a "aucune valeur aux yeux du peuple turc", a-t-il dit. Et il a ajouté : "La Turquie ne sera pas responsable des conséquences négatives que ce vote pourrait avoir dans tous les domaines".

Or l'objection de Mme Clinton, — "cela pourrait dresser, dit-elle, des obstacles devant la normalisation des relations" entre la Turquie et l'Arménie" – dissimule une difficulté beaucoup plus grave pour la diplomatie américaine. Le partenaire et allié de l'Otan, qui se dit offensé, joue un rôle essentiel dans les opérations militaires en Irak. Il fait valoir que, par la base d'Incirlik, en Anatolie, transite une part essentielle des aéronefs, des personnels et du ravitaillement nécessaires aux belligérants de la coalition (8). Il participe de façon considérable à la guerre d'Afghanistan. Et il menace de se solidariser avec l'Iran.

Accessoirement tout me donne à penser que sa politique dans l'ensemble du Proche-Orient joue un certain rôle… où l'Égypte a échoué… où le président actuel de tous les Français imaginait se substituer à celle-ci… et qui correspond aux desiderata profonds du gouvernement de Washington et de la finance pétrolière.

"L'intervention des politiques dans le domaine des historiens a toujours eu des effets négatifs" disent régulièrement au sujet des massacres de 1915 les communiqués officiels turcs.

J'aime cette réflexion, surtout lorsqu'elle vient de la part des politiques eux-mêmes.

Tout cela me semble confirmer le sentiment que j'exprime (9), celui de l'incongruité de prétendre intégrer ce beau et grand pays d'Asie mineure à l'Union européenne.
JG Malliarakis


Apostilles

  1. cf. "La Question turque et l'Europe" chapitre "La chauve-souris et sa diplomatie" pages 111 et suivantes.
  2. cf. "La Question turque et l'Europe" chapitre "Instrumentalisation de l'islam" pages 105 et suivantes.
  3. cf. Kathimerini le 11 mars 2010. Article " I saoudiki Aravia apéminé to vravio Vassilias Faïsal ston Erdoghan" [L'Arabie saoudite décerne le prix "roi Fayçal" à Erdogan.]
  4. À noter ainsi que l'annonce de cette attribution du prix a été faite en janvier. À la suite de quoi, M. Erdogan a annoncé qu'il ne se rendrait plus à Davos, haut lieu, un an plus tôt, de son esclandre anti-israélienne de janvier 2009, qui lui a valu tant de popularité dans Moyen Orient. Cf. http://www.mejliss.com/showthread.php?t=505791
  5. Dans "La Question turque et l'Europe" au chapitre "Faux dialogue avec un faux islam" aux pages 130 et suivantes, je donne ainsi quelques éclaircissements sur la fameuse citation "poétique" d'Erdogan qui lui valut ses ennuis judiciaires, aujourd'hui oubliés.
  6. cf. "La Question turque et l'Europe" chapitre "Racines jacobines des crimes turcs" pages 79 et suivantes.
  7. cf. Ovipot bulletin du 16 octobre 2007.
  8. Cet argument ne semble pas convaincre le site arménien très bien documenté du collectif Van. Cf article traduit ses soins publié par le Turkish Daily News le 23 février 2007. dans "La Question turque et l'Europe".

mardi, 23 février 2010

Définir le fondamentalisme islamique dans le monde arabe

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Robert STEUCKERS :

 

 

Définir le fondamentalisme islamique dans le monde arabe

 

Extrait d’une conférence prononcée à Bayreuth (avril 2006), dans la région lilloise pour l’Association Terre & Peuple Flandre/Artois/Hainaut (mars 2009) et à Genève (avril 2009)

 

Le terme fondamentalisme est aujourd’hui dans toutes les bouches, pas un jour ne passe sans qu’il ne soit prononcé ou écrit dans les médias, soit pour expliquer ou stigmatiser les manifestations d’un islam puriste à l’intérieur même de nos cités soit pour mentionner l’un ou l’autre attentat dans les zones en crise du globe.

 

Définition du fondamentalisme

 

Le fondamentalisme n’est pas un fait neuf. Il a une longue histoire. Le chercheur allemand Hans G. Kippenberger, qui s’inscrit, avec beaucoup d’autres, dans l’école sociologique de Max Weber, définit le fondamentalisme, qu’il ne réduit pas au fondamentalisme islamique, comme « le propre des religions abrahamiques », dès qu’elles sont confrontées à des réalités politiques qui ne procèdent pas d’elles, plus précisément à des réalités étatiques ou impériales aux racines plus anciennes ou aux racines plongeant dans un autre humus ethnique. En gros, au-delà de leur hostilité aux régimes politiques modernes, notamment aux nationalismes arabes laïcs, les fondamentalismes se dressent contre les syncrétismes impériaux réellement existants, contre les synthèses que constituent, par exemple, le compromis constantinien dans les empires romain et byzantin ou contre les synthèses que représentaient les empires perses islamisés des Bouyides ou des Samanides, qui avaient opéré un retour vers des éléments traditionnels de l’impérialité iranienne, ou contre l’empire ottoman lui-même, considéré comme truffé d’éléments grecs, induits par les phanariotes chrétiens au service de la Sublime Porte, ou d’éléments propres aux religiosités païennes et chamaniques turques, dérivées des origines centre-asiatiques des fondateurs seldjouks ou osmanlis de l’impérialité ottomane au Proche Orient et en Anatolie. Les fondamentalismes rejettent également les structures religieuses basées sur la vision païenne antique d’un panthéon ou, dans le cas de bon nombre de zélotes juifs ou chrétiens, rejettent la notion même d’Empire, le culte impérial que l’on retrouve à Rome dans les réformes d’Auguste ou dans le culte de Mardouk chez les peuples sémitiques de Mésopotamie.

 

Le fondamentalisme procède donc par exclusion : il exclut tout ce que son purisme religieux ou théologique ne peut ni ne veut assimiler ou accepter. Nous allons voir comment ce fondamentalisme s’articule dans l’islam. Dans le judaïsme, chez les Loubavitch actuels en Israël, ou dans le mouvement Gouch Emounim, nous avons affaire à un fondamentalisme religieux très virulent qui a épousé paradoxalement la cause sioniste dans ses aspects les plus militaristes et les plus militants, alors que les fondamentalistes classiques, issus de ce que la terminologie sioniste nomme le « vieux Yishuv », c’est-à-dire les petites communautés juives installées depuis des décennies sinon des siècles dans le Sandjak de Jérusalem et dans le Vilayet de Syrie de l’Empire ottoman, sont généralement pacifistes et hostiles au sionisme moderne : elles se perçoivent comme des communautés de prière, soustraites aux tumultes du monde et aux effervescences politiques séculières et accusent, ipso facto, le sionisme d’arracher le judaïsme à la quiétude qu’il connaissait dans les sandjaks et vilayets ottomans du Proche-Orient. Le fondamentalisme juif est donc partagé entre une aile antisioniste et pacifiste (le quiétisme d’un mouvement comme Neturei Karta, par exemple) et une aile néo-sioniste et combattive, d’émergence récente.

 

Chez les chrétiens protestants, principalement aux Etats-Unis dans l’électorat républicain de Bush, on se réfère à une tradition puritaine plus de trois fois centenaire, qui a apporté une première contribution originale à la future « nation américaine » avec les pèlerins du Mayflower, des fondamentalistes protestants chassés d’Angleterre, où ils semaient le trouble et rejetaient les principes constitutifs de la monarchie anglaise comme incompatibles avec le message biblique qu’ils entendaient incarner. Ils espéraient fonder un Etat, ou une communauté ou, mieux encore, une « Jérusalem nouvelle », selon leurs principes intransigeants sur le sol vierge de l’Amérique du Nord. Parmi les différentes facettes du fondamentalisme protestant américain actuel, nous trouvons un mouvement assez militant de « sionistes chrétiens » qui, bien que non juifs, veulent que Jérusalem soit aux mains des Israéliens le jour du Jugement Dernier, et non aux mains de musulmans jugés « impies ».

 

Processus d’exclusion

 

Nous disions donc que le fondamentalisme procède par exclusion. Quels sont dès lors les mécanismes de cette exclusion ? Ou comment cette exclusion peut-elle s’opérer dans la réalité complexe, mêlée et bigarrée du monde actuel, surtout du monde arabo-musulman contemporain ?

 

Premier élément nécessaire pour vivre l’exclusion, pour pouvoir se retrancher du monde corrompu par les syncrétismes et les « compromissions » : le « Youth Bulge », le trop-plein démographique, tel qu’il a été théorisé par le chercheur allemand Gunnar Heinsohn, disciple du démographe français Gaston Bouthoul. Le « Youth Bulge » procède du « Children Bulge » mais concerne plus spécifiquement la masse excédentaire des jeunes mâles de 15 à 30 ans, que la société ne peut absorber, ne peut encadrer : ces masses sont alors déclassées, mouvantes, mobilisables pour bon nombre de causes violentes. Elles consistent en une réserve militaire pour les Etats ou pour les mouvements intérieurs révolutionnaires. Le « Youth Bulge » est animé par la colère de ses innombrables ressortissants, qui reprochent aux institutions étatiques et politiques existantes de les avoir déclassés dans une société en voie d’urbanisation croissante, où l’exode rural vers les villes détache des millions de jeunes de leur cocon communautaire et villageois initial. C’est un phénomène, doublé d’un sentiment douloureux d’arrachement, que l’Europe a connu également dans le sillage de la révolution industrielle et de l’urbanisation dès la seconde moitié du 19ème siècle. Les mégapoles du tiers-monde, déstabilisées par le « Youth Bulge », se retrouvent partout : dans le monde islamique à Téhéran et à Beyrouth, en Afrique islamisée au Nigéria, à Lagos, en Amérique latine au Brésil ou au Mexique. En miniature, les banlieues françaises reproduisent ce schéma. Le chiffre de la population en Amérique latine a été multiplié par 7,5 entre 1900 et 2000, celui de la population de l’aire islamique par 8.  En Europe, à cause des saignées qu’ont constituées les deux guerres mondiales ou de l’émigration massive vers l’Amérique du Nord, l’Australie ou l’Argentine, il n’y a plus de « Youth Bulge », plus de masse mobilisable pour une entreprise politico-guerrière de grande envergure ou pour une révolution totale.

 

Dans les bidonvilles, les camps de réfugiés, les HLM, etc., qui réceptionnent la misère et le désarroi du « Youth Bulge », le fondamentalisme organise des réseaux sociaux et caritatifs, soulageant la misère morale et physique des déclassés. C’est le cas du Hezbollah au Liban ou du Hamas dans la Bande de Gaza. Les déclassés deviennent ainsi redevables, sont les créanciers moraux des mouvements fondamentalistes, et constituent dès lors une réserve de volontaires pour des actions purement politiques voire terroristes. Le « Youth Bulge » permet l’éclosion d’une masse démographique qui va d’abord viser la rupture avec le consensus dominant, à l’aide d’une idéologie radicale, et va ensuite créer une poche sociale « autarcisée » au sein des sociétés en place, qui se militarisera et amorcera le combat, contre l’Autorité palestinienne en Cisjordanie ou à Gaza aujourd’hui, contre le pouvoir du Shah hier ou contre le pouvoir légitime libanais, etc.

 

Une démarche religieuse et rigoriste très ancienne

 

Mais quelle est l’idéologie proprement dite de ce fondamentalisme islamique, celui qui préoccupe les plus nos contemporains ? Cette idéologie est très ancienne et cette ancienneté appelle une remarque préliminaire : le temps des fondamentalistes n’est pas le temps des hommes modernes. En d’autres termes, fondamentalistes et modernistes ne perçoivent pas le temps (historique) de la même façon. Dans ce contexte, la perception fondamentaliste du temps est une force : pour l’homme moderne, il « coule », « s’écoule » et rien ne revient jamais. Pour une société traditionnelle classique ou pour une société qui souhaite, par tous les moyens, revenir à des canons traditionnels, le temps passé est toujours présent : nous verrons qu’en Iran, les foules se battent toujours pour venger Ali ou Husseyn, les martyrs du chiisme duodécimain, et que les wahhabites saoudiens entendent vivre exactement comme à l’époque du prophète Mohammed, ou, du moins, hissent au niveau d’idéal indépassable le mode de vie arabe de cette époque éloignée.

 

Le temps avance, des mutations s’opèrent, des nouveautés venues d’autres horizons modifient les critères habituels de vie et, forcément, les Etats, royaumes ou empires islamiques adoptent, comme tous les autres, des éléments non arabes/non traditionnels, par syncrétisme et par nécessité. A un certain moment, à intervalles réguliers dans l’histoire du monde arabo-musulman, des esprits vont s’insurger contre ces syncrétismes, posés comme « impies ». Immédiatement après la première vague des conquêtes islamiques, après les batailles de Poitiers (732), où les Austrasiens de Charles Martel arrêtent la déferlante arabe, et de Talas (751), où le choc entre les armées musulmanes et chinoises tourne à l’avantage des premières mais résulte finalement en un statu quo territorial, nous assistons à un rejet des syncrétismes islamo-grecs, dans les anciens territoires soumis à Byzance, et des syncrétismes islamo-persans, dans l’aire des anciens empires perses.

 

Premier pilier du fondamentalisme contemporain : le fondamentalisme puriste d’Achmad Ibn Hanbal et de Taqi Ad-Dinn Ibn Taymiyah

 

Le théoricien de ce rejet est Achmad Ibn Hanbal (780-855), fondateur d’une tradition que l’on appelle de son nom, le « hanbalisme », principale source d’inspiration des mouvements dits « salafistes » en Afrique du Nord. Ibn Hanbal aura un disciple, Taqi Ad-Dinn Ibn Taymiyah (1263-1328), qui exhortera ses contemporains à imiter son maître.  Le hanbalisme repose sur quatre piliers :

◊ 1. Il ne faut pas utiliser de concepts philosophiques d’origine grecque ou persane dans l’islam. Ibn Hanbal refusait par conséquent tout glissement des institutions ou des pratiques vers des modèles byzantins ou perses, notamment dans les zones arabo-sémitiques de Syrie (ex-byzantines) et de Mésopotamie (ex-persanes). Ses disciples et lui ont été probablement alarmés de voir la Perse islamisée se « re-persifier » à partir du règne des dynasties bouyide et samanide (entre le 9ème et le 11ème siècle).

◊ 2. Il faut interpréter le Coran de manière littérale, sans apporter d’innovations car celles-ci pourraient charrier des éléments hellénisants ou perses, chrétiens ou zoroastriens.

◊ 3. Le croyant ne peut avoir d’ « interprétation personnelle » du message coranique, basée sur une « faculté de jugement » qu’il possèderait de manière innée. Les hanbalistes ne tolèrent aucune spéculation au départ du texte du Coran (ils s’opposeront ainsi à la tradition mystique d’un Ibn Arabî).

◊ 4. Les hanbalistes s’opposeront de même à toutes les formes de soufisme (sauf les formes simplifiées et abâtardies de soufisme, inspirées par les déobandistes au Pakistan, qui sont des fondamentalistes particulièrement virulents), parce que le soufisme véhicule des idées européennes, grecques, turques, mongoles, chamaniques ou perses, toutes antérieures à l’islam des origines.

 

Naipaul, Prix Nobel de littérature en 2007, déplore l’imitation des modes vestimentaires saoudiennes, préconisée par les fondamentalistes musulmans d’Indonésie et d’ailleurs, au nom de la « pureté » du message. Ces démarches vestimentaires indiquent une volonté de sortir du cadre indonésien initial, vernaculaire, pour adopter des façons de vivre étrangères, exotiques, au nom d’une foi figée et sourde aux différences du monde et, pire, à la différence que représente le vivier naturel des Indonésiens. Ce travers, dénoncé par Naipaul, se retrouve dans les banlieues d’Europe, et sert à marquer du sceau du hanbalisme, du salafisme ou du wahhabisme les villes européennes hébergeant de fortes minorités arabo-musulmanes.

 

Muhammad Ibn Al-Wahhab et le wahhabisme saoudien

 

La deuxième source du fondamentalisme islamique actuel est le wahhabisme saoudien, qui trouve son origine dans l’interprétation religieuse de Muhammad Ibn Al-Wahhab, né vers 1703, dans la province du Nedjd, au centre de la péninsule arabique. Une bonne compréhension de l’histoire du fondamentalisme islamique implique de connaître les subdivisions géographiques de la péninsule arabique :

Au Nord-Ouest, nous avons le Hedjaz, patrie de Hussein, allié des Britanniques pendant la première guerre mondiale. Son fils Fayçal combat sous la direction avisée de l’officier anglais T. E. Lawrence, dit « d’Arabie », envoyé par le « Bureau du Caire » pour lutter contre la présence turque ottomane. Le Hedjaz abrite les lieux saints de l’islam et professe un sunnisme non wahhabite. De la famille dominante de cette région sont issus les rois d’Irak (jusqu’en 1958) et de Jordanie.

Au Nord-Est et au Sud du Koweït se trouve la province d’Hassa, riche en pétrole mais à majorité chiite, donc hostile au wahhabisme saoudien. Cette province est proche des zones chiites de l’Irak et de la frontière iranienne.

Au Sud-Ouest, nous avons, au Nord du Yémen, la province d’Assir, sunnite mais pro-chiite, avec une extension dans le nord du Yémen, autour de la ville de Sanaa (ndlr : zone entrée en ébullition fin 2009).

Au centre, nous avons le Nedjd, dominé par le clan des Saoud, hostile aux sunnites du Hedjaz (pour des raisons tribales et pour une question de préséance) et aux chiites du Hassa. Les Saoudiens n’ont pas été les alliés des Britanniques lors de la première guerre mondiale : ils auraient pu le devenir si le « Bureau de Delhi » avait reçu le feu vert des autorités de Londres au lieu du « Bureau du Caire ». Les stratégistes de l’état-major anglais ont estimé à l’époque que les tribus du Hedjaz étaient plus proches du terrain, notamment du port d’Akaba, qu’elles prendront d’ailleurs avec Lawrence, et pouvaient aussi intervenir plus rapidement contre les voies du chemin de fer ottoman conduisant de Damas à Jérusalem et aux villes saintes. En pariant sur ces tribus, proches et disponibles, les Anglais pouvaient disloquer les communications ferroviaires ottomanes et contrecarrer l’acheminement de renforts turcs en direction de l’Egypte, du Canal de Suez et de la Mer Rouge. 

 

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Revenons à Muhammad Ibn Al-Wahhab. Son intention était de réactiver la tradition hanbaliste et de l’appliquer dans sa pureté doctrinale dans toute la péninsule arabique, terre initiale de l’islam émergeant au temps du Prophète. Cette intention s’inscrit dans un contexte historique bien particulier : l’empire ottoman est sur le déclin. Il a été ébranlé en ses tréfonds par les coups de butoir que lui ont asséné les armées impériales austro-hongroises du Prince Eugène de Savoie-Carignan. L’effondrement ottoman signifie, aux yeux d’Al-Wahhab et de ses contemporains, la faillite d’une synthèse, d’un syncrétisme islamo-turco-byzantin. Ils perçoivent dès lors cet effondrement comme une punition divine : les musulmans ont renoncé à la pureté coranique, ont adopté partiellement ou entièrement des mœurs, des coutumes ou des pratiques non arabiques, par conséquent, Dieu les a punis de leur infidélité et a donné, pour les mettre à l’épreuve, la victoire aux armes chrétiennes. Le premier souci d’Al-Wahhab est donc de revenir à la « tradition », à l’imitation pure et simple de l’islam initial, afin de redonner aux Arabes péninsulaires l’impulsion vitale qui avait sous-tendu leurs premières conquêtes contre les Perses et les Byzantins au 7ème siècle.

 

Sur le plan du culte, Al-Wahhab constate qu’il est désormais grevé d’impuretés et que les Arabes de son temps, dans la péninsule même qui a vu l’émergence de l’islam, reviennent à des rites pré-islamiques, notamment en retrouvant divers objets de culte, que le purisme wahhabite considèrera comme des manifestations d’idolâtrie.

 

Al-Wahhab justifie ensuite l’usage de la terreur, une terreur qui n’est pas tant dirigée contre les non musulmans mais essentiellement contre les chiites de la péninsule arabique. Il faut trouver là l’origine de plusieurs conflits contemporains : la rivalité arabo-perse dans le Hassa et le sud de l’Irak, les conflits internes à l’Irak disloqué depuis l’invasion américaine, le conflit dans la péninsule arabique elle-même entre crypto-chiites de l’Assir et du Nord du Yémen, d’une part, et sunnites wahhabites, d’autre part, les réticences à l’endroit du pouvoir saoudien dans la province pétrolifère du Hassa, etc.

 

Dans le cadre de cette hostilité fondamentale à toutes les manifestations de chiisme dans la péninsule arabique, Al-Wahhab s’insurge contre les pèlerinages vers des lieux sacrés (différents de ceux du Hedjaz, destination du « hadj » islamique), car ces pèlerinages vers des tombeaux de saints ou de poètes sont une pratique essentiellement chiite. L’objectif d’Al-Wahhab, outre théologique et religieux stricto sensu, est de purger la péninsule de toute force susceptible d’être activée par l’ennemi perse pluriséculaire. Normal : l’empire ottoman, affaibli et contraint de mobiliser toutes ses forces contre la Russie qui entend avancer ses pions en direction du Danube et des Balkans, de la côte septentrionale de la Mer Noire et du Caucase, est dans l’incapacité de s’opposer efficacement aux menées wahhabites dans un espace quasi désertique de moindre importance stratégique, où les Anglais n’ont pas encore débarqué au Yémen (ce qu’il feront quelques années après Waterloo et la fin de l’épopée napoléonienne). L’ennemi potentiel perse demeure au regard d’Al-Wahhab le danger principal : c’est lui qui pourrait déboucher dans la péninsule arabique en profitant des faiblesses ottomanes et y remplacer le pouvoir sunnite abâtardi de la Sublime Porte par un pouvoir chiite, après annexion des zones chiites de la Mésopotamie méridionale et du Hassa.

 

Pour donner forme à ce retour à la pureté imaginaire d’un islam initial, Al-Wahhab demande à ses adeptes de traquer toutes les formes de religiosité au quotidien qu’il assimile à de l’idolâtrie ou à de mauvaises pratiques ou, plus simplement encore, à des pratiques inconnues au temps du Prophète : chapelets, tabac, musique et danse sont interdits. Pour la musique, signalons tout de même que la quintessence de l’identité européenne, au-delà de la culture classique et des éléments de christianisme qui l’ont modifiée, se manifeste, à partir de Jean-Sébastien Bach, dans la musique classique, une musique que ne goûtaient guère les puritains protestants. Une transposition de cette phobie hostile à la musique en Europe occidentale constituerait une attaque inacceptable contre l’identité européenne. L’interdiction de la danse vise essentiellement une tradition turco-mongole et chamanique incluse dans les pratiques de l’islam en territoire ottoman, sous la forme de la chorégraphie sacrée des derviches, notamment des derviches tourneurs de Konya en Anatolie. Enfin, Al-Wahhab préconise le port obligatoire de la barbe pour les hommes, pratique que reprennent les fondamentalistes déclassés de nos cités et banlieues, dans un esprit de « monstration » et d’exhibitionnisme purement exotérique. On constate également que musique, dessin, danse et gymnastique se voient parfois régulièrement rejetés par des élèves directement ou indirectement influencés par le wahhabisme ou le salafisme dans nos écoles.

 

Le mouvement Ikhwan en Arabie Saoudite

 

Dans le cadre du wahhabisme, il convient de citer, à titre de troisième pilier du fondamentalisme islamique contemporain, le mouvement « Ikhwan » dans l’Arabie Saoudite du 20ème siècle. Al-Wahhab et les ancêtres des Saoud avaient été les alliés de Napoléon contre les Anglais qui s’étaient assurés le soutien des Ottomans et des Perses. Après la défaite de Napoléon à Waterloo, les Ottomans et les Egyptiens vont se venger cruellement : au début du 19ème siècle, la péninsule arabique a été littéralement ratiboisée par les armées ottomanes et égyptiennes, qui comblent les puits, ravagent les agglomérations et massacrent un bon nombre d’habitants. La péninsule sombre alors dans l’anarchie, pour quelques décennies. Ibn Séoud, souverain d’un territoire tribal jouxtant le Nedjd, impulsera la renaissance de l’arabisme péninsulaire et du wahhabisme. Son ouvre politique de reconquête et de réorganisation d’une péninsule ravagée par la vengeance ottomane et égyptienne commencera par la soumission à son autorité du territoire du Nedjd. A partir de ce moment-là, Ibn Séoud réorganise politiquement le cœur de la péninsule arabique. Deux historiens célèbres de l’entre-deux-guerres, qui lui consacreront des ouvrages serrés et copieux, le Français Jacques Benoist-Méchin et l’Allemand Anton Zischka, jugent l’œuvre d’Ibn Séoud très positive, dans la mesure où ce souverain avisé a admis que le nomadisme traditionnel des Arabes péninsulaires ne générait que l’anarchie et a voulu, de ce fait, sédentariser les tribus, en lançant un programme de sédentarisation porté par l’idée d’un soldat/colon, animé par le rigorisme wahhabite. Ce mouvement s’appelle l’Ikhwan : il militarise la religion d’une manière plus systématique et encadre plus positivement l’impétuosité tribale des Arabes péninsulaires ; Ben Laden s’en inspirera, à la suite des Palestiniens des années 30, dont le premier mouvement de résistance armée, contre les sionistes et les Britanniques, s’appellera l’ « Ikhwan Al-Qassam », ou « Fraternité militaire Al-Qassam », du nom d’un combattant tombé dans une embuscade de l’armée anglaise. Cependant, le mouvement  —qui s’apparente in fine à des mouvements similaires de colonisation agricole de zones en friche en Europe, notamment celui des Artamanen en Allemagne ou dans les zones de Pologne ou de Roumanie, où s’étaient implantées des minorités paysannes allemandes, ou au sionisme militant des premiers kibboutzim—   sera immédiatement dissous, dès la victoire totale d’Ibn Séoud sur l’ensemble de la péninsule arabique, dès la réémergence d’un Etat saoudien dans les frontières qu’on lui connaît encore aujourd’hui.

 

Les frères musulmans en Egypte

 

Quatrième pilier du fondamentalisme islamique actuel et source d’inspiration de ses émules contemporaines : le mouvement des frères musulmans, né en Egypte à la fin des années 40. Son fondateur fut Hassan Al-Banna. Son objectif ? Mettre fin à l’inféodation à l’Occident des pays arabes, avec l’instrument de la ré-islamisation, portée par une « phalange » (kata’ib). L’idéologie baptisée « phalange » est donc islamiste en Egypte, alors qu’elle est chrétienne maronite au Liban et inspirée par la Phalange catholique espagnole. En 1949, Al-Banna est abattu par la police dans la rue, lors d’une manifestation où la foule lynchait des soldats britanniques. Détail intéressant à noter : Al-Banna a été au départ un intellectuel occidentalisé, qui avait étudié aux Etats-Unis. A son retour en Egypte, il rejette l’occidentalisation, plaide pour un retour à un rigorisme islamique strict. Dans un premier temps, il sympathise avec les « officiers libres » rassemblés autour de Gamal Abdel Nasser puis s’opposera à celui-ci qui devra affronter deux adversaires : les frères musulmans et les communistes. Ces deux forces feront donc cause commune contre Nasser, ennemi des Etats-Unis.

 

Les frères musulmans constitueront toutefois la principale force anti-nassérienne. Le leader nationaliste égyptien s’inspirait des nationalismes européens du 20ème siècle, ce qui, aux yeux des rigoristes musulmans, constituait une démarche « impure ». Résultat : les frères musulmans combattent ce régime national arabe, parce qu’il est syncrétisme, et deviennent ipso facto, volens nolens, les alliés objectifs des Etats-Unis, de la Grande-Bretagne et d’Israël. Leurs actions ont notamment empêché l’Egypte de devenir le leader naturel du monde arabe après la défaite de 1967, face à l’armée du général israélien Moshe Dayan.

 

L’Egypte des années 50 et 60 a été le théâtre d’une guerre civile larvée. En 1955, un an après la montée au pouvoir des « officiers libres » et de Nasser, le mouvement des frères musulmans est dissous. Plusieurs exécutions s’ensuivent. Le nouveau leader des frères musulmans, après la mort d’Al-Banna, a été Sayyib Qutb (1906-1966). Il oriente le discours des frères musulmans vers une forme originale d’islamo-socialisme, avec références hanbalistes. La grande innovation de son discours est l’appel à la djihad contre les gouvernements musulmans jugés « déviants » ou « hérétiques » : cette approche, propre de la pensée de Qutb, inspire encore et toujours les djihadistes marocains et algériens (FIS) et les fondamentalistes saoudiens s’inscrivant dans le sillage de Ben Laden. Cette notion de djihad et ce soupçon permanent jeté sur les formes contemporaines d’Etat dans le monde arabo-musulman est un facteur de guerre civile systématique. Animés par cet esprit djihadiste, les adeptes de Qutb s’opposent donc à Nasser, qui finit par emprisonner, juger et condamner à mort leur leader. Sayyib Qutb est pendu en 1966. Cette exécution ne résout nullement le problème politique des frères musulmans en Egypte : ils demeurent un facteur dangereux pour l’Etat égyptien.

 

CONCLUSION :

 

Tout esprit européen animé par ce que j’appelerais ici un « rationalisme vitaliste/historique » peut comprendre l’importance et la pertinence d’un fondamentalisme islamiste dans la péninsule arabique, ou du moins en son centre, le Nedjd, car, de toute évidence, l’islam des origines et l’œuvre politique d’Ibn Séoud, participe d’une logique vitale, d’une volonté rationnelle et intelligente de désenclavement des tribus autochtones du Nedjd. Un débordement hors du Nedjd mais limité à la péninsule arabique, également comme du temps de Mohammed ou du temps d’Ibn Séoud, peut s’expliquer par la volonté d’abriter la péninsule tout entière des convoitises étrangères, d’y sécuriser les voies de communication caravanières et de l’arracher à tout dissensus religieux. Hors de cette péninsule, il est impossible d’exiger le purisme hanbaliste ou wahhabite, sous peine de disloquer des stabilités existantes, comme le constataient les dirigeants égyptiens ou ottomans au début du 19ème siècle, quand ils ont ordonné leur œuvre de destruction dans la péninsule arabique. Les nationalismes arabes, transconfessionnels dans des pays à large majorité musulmane ou au sein de la nation palestinienne plurielle et disloquée, participaient d’une rationalité politique « vendable » en dehors de l’écoumène arabo-musulman, dans le contexte des Nations Unies, de l’UNESCO ou de l’OMS, ou, antérieurement à celles-ci, aux diverses instances internationales, comme l’Union Postale, etc.

 

Tout pays arabe, sans renoncer à l’Islam mais sans pour autant le « fondamentaliser », pouvait devenir un interlocuteur valable dans le concert des nations. Tout pays, recourant à des fondamentalismes, se place en dehors du concert international, c’est-à-dire en dehors du concert des nations indépendantes et souveraines. Les Etats-Unis, en laissant une large place au fondamentalisme protestant et en déchainant le fondamentalisme néolibéral, en créant, de toutes pièces et de concert avec des éléments saoudiens, un nouveau fondamentalisme islamiste, sunnite et wahhabite en Afghanistan pour lutter contre l’URSS, sont les premiers responsables de la dislocation de ce concert d’entre les nations. Les Etats-Unis ont certes été la puissance instigatrice de la formation des Nations Unies, de l’UNESCO et de l’OMS : ils ont aussi été les premiers à les dénoncer et les rejeter, lorsque ces instances contrariaient leurs projets ou constituaient un frein à la pandémie néolibérale qu’ils appelaient de leurs vœux. Les fondamentalistes islamistes qui poursuivent leurs actions, à la suite des encouragements américains, contre les Etats nationaux arabes ou musulmans, participent à la logique qui sous-tend la Doctrine Bernard Lewis, reprise par Zbigniew Brzezinski : c’est une doctrine qui vise la balkanisation maximale de tout le Grand Moyen Orient (Corne de l’Afrique comprise). On le voit en Somalie, Etat failli et disloqué, partagé en trois morceaux, un Nord, un Puntland et un Sud. On le voit dans la guerre civile larvée entre Fatah et Hamas dans l’entité palestinienne et à Gaza. On le voit au Liban depuis 1975. On le voit en Irak, où le pays est virtuellement divisé en trois entités antagonistes. Enfin, on s’en aperçoit lorsque circule la carte-projet de Ralph Peters, un stratégiste américain, issu de l’écurie néo-conservatrice de l’équipe Bush II. Peters entend « redessiner le Moyen Orient », de la Méditerranée à l’Indus, en créant de nouvelles entités étatiques comme le « Kurdistan libre », le Baloutchistan, en unissant le Hassa et le Koweït, les provinces chiites de l’Irak et le Khouzistan arabophone d’Iran, aux dépens de l’Iran, de la Turquie, du Pakistan et de la Syrie, tout en démantelant l’Arabie saoudite. L’objectif avoué ? Eliminer les frontières de sang, en rassemblant ethnies et confessions au sein d’identités étatiques homogènes. Or cette homogénéité n’a jamais existé au Moyen Orient et même le moins informé des stratégistes américains d’aujourd’hui doit le savoir. Dès la fin de la protohistoire, les peuples s’y sont télescopés, y ont fusionné, créant de la sorte une macédoine inextricable qu’aucun intellectuel, fût-il un élu de l’équipe Bush II, ne pourra jamais démêler en dessinant une nouvelle carte. La fragmentation des entités existantes créera non pas la paix mais sera source de nouveaux conflits et de nouveaux irrédentismes. La solution pour le Moyen Orient est une solution impériale et syncrétique qui ne pourrait tolérer ni le « fragmentationnisme » ni le fondamentalisme, qui en est le vecteur idéal aux yeux de ceux qui, justement, veulent la fragmentation totale.

 

Enfin, last but not least, les nations européennes ne peuvent tolérer de voir leurs héritages, coutumes, pratiques quotidiennes, modes d’enseignement, traditions philosophiques, modes alimentaires ou culinaires, etc. rejetés et démonisés au nom de la notion de « jalilliyah », surtout sur le territoire européen lui-même. Si le racisme, en tant que rejet de coutumes non condamnables sur le plan moral ou éthique, de personnes concrètes, ou en tant qu’a priori, est une attitude à maîtriser et à houspiller hors des règles de bienséance conviviale ou diplomatique, une notion comme celle de « jalilliyah », qui rejette, elle aussi, des modes de vie non condamnables sur les plans éthique et moral, diabolise des personnes et véhicule des a priori non fondés ou veut les faire traduire dans la réalité quotidienne par des attitudes violentes, doit retenir l’attention égale, sinon plus vigilante, du législateur, vu sa virulence plus grande, en l’état actuel des choses, que le vieux racisme, battu en brèche et en réel recul.

 

Robert STEUCKERS ;

(rédaction finale : février 2009).

 

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mercredi, 17 février 2010

Islamfundamentalismus, öl und angelsächsische Weltmächte

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Robert STEUCKERS:

 

Islamfundamentalismus, Öl und angelsächsische Weltmächte

 

Auszug aus einer Rede - Gehalten in Bayreuth für die Gesellschaft für Freie Publizistik (April 2006)

 

Eine erste Idee, um das Thema „Sturm auf Europa“ hier einzuleiten: Dem Rest der Welt gegenüber, sagen einige falschen Propheten Europas, sollte man die Strategie des Igels wählen. Das könnte zwar eine gute Idee sein, um seine Kräfte zu versammeln, ohne messianisch wie die VSA, anderen Völkern unsere Prinzipien oder politischen Modellen aufpropfen zu wollen und dabei unsere Grenzen zu verriegeln, um eine gefürchtete „Umvolkung“ zu vermeiden. Aber gezwungen sind wir alle doch, festzustellen, dass es dem Igel an Bewegungskraft fehlt. Genauso wie Admiral Tirpitz und der Geopolitiker Ratzel einst sagten, brauchen die Kontinentalmächte schwimmen zu können, also sich der Weite der Weltozeanen zu öffnen. Jetzt brauchen sie auch fliegen zu können, d. h. ihre Luftwaffekapazitäten zu entwickeln, und eben auch sehr hoch zu fliegen, bis zu den stratosphärischen Ebenen, da Gesamteuropa strategische Trabanten ziviler und militärischer Nützlichkeit braucht, um in der künftigen Welt konkurrenzfähig zu werden.

 

Eine zweite Idee, um das heutige Thema nochmals einzuleiten: Die Notwendigkeit, die Sachlage kühl, sachlich, ohne Floskelngefühle jeder Art zu analysieren. Die Hauptfrage zu beantworten kann wirklich ohne Panik oder Schadenfreude passieren. Es genügt zu fragen: Wie funktioniert dieser „Sturm“? Die Antwort sollte aus Sachen, Fakten und ohne fromme Wünsche bestehen.  Hier ein Paar Beispiele:

-          Die Immigration aus afrikanischen bzw. arabisch-islamischen Ländern ist zwar ein Problem ungeheueren Umfangs, sie bleibt trotzdem ein Problem zweiten Ranges, da sie nicht als ein Phänomen an sich betrachtet werden sollte, sondern als das effizientste Instrument des Hauptfeindes. Darf man also wie Samuel Huntington von einem Gegeneinanderprallen von Kulturen sprechen? Meine Antwort ist : Jein! Gegen diejenigen, die Huntington banalisieren oder vulgarisieren, sage ich, dass ein solches Gegeneinanderprallen der Kulturen immer schon da war, und hat, was Europa und den Islam betrifft, fast ein Jahrtausend gedauert. Nur diejenigen, die kein historisches Gedächtnis mehr haben, werden der „Clash“ Huntingtonscher Prägung, als eine Neuheit empfinden. Gegen diejenigen, die Huntingtons Hauptthese total im Namen des politisch-korrekten Universalismus ablehnen und als „neo-Spenglerisch“ oder als „neokonservativer Parafaschismus“ bestempeln, sage ich, dass es eben Amerika ist, die diesen „Clash“ heute inszeniert, um Europa und Russland der islamischen Welt gegenüber zu schwächen. Ich will hier einen Mittelweg suggerieren: Der Begriff des „Clash of Civilizations“ zwischen Europa oder Russland einerseits und der islamischen Welt andererseits, ist zwar eine nicht zu leugnende Wirklichkeit, aber der Ursprung dieses Konfliktes heute befindet sich nicht im Islam selbst sondern wird von Pentagon-Strategen ferngesteuert. Der Islam ist ein Feind Europas und Russlands heute geworden, aber nur indem er ein Bundgenosse des Hauptfeindes Amerika ist.

 

-          Hauptfeind bleibt noch immer Amerika, als Seemacht, als neues Karthago, wie Carl Schmitt so treffend analysiert hat. Warum? Weil Amerika noch stets Territorien oder Seeräume in Europa besetzt. Weil Amerika Satelliten im Weltall schickt, um unsere militärische und zivile Tätigkeiten zu beobachten und zu spionieren.  Weil Strategien der Charakterwäsche noch immer in Deutschland wie überall in Europa angewendet werden, wie damals Caspar von Schrenck-Notzing sie meisterhaft entlarvt hatte. Die weltweite Medienmanipulation macht es unmöglich, einen unabhängigen Blick auf die Weltereignisse zu werfen. Die Mediendominanz Amerikas, mit CNN und andere mächtige Presseagenturen, erlaubt die einzig gebliebene Supermacht, Greuelpropaganda zu verbreiten, damit spontan die Ziele Washingtons als das Gute schlechthin angenommen werden. Beispiele gibt es in Hülle und Fülle: Die Massaker von Timisoara/Temeschburg zur Zeit des Ceaucescu-Sturzes, wo die gezeigten Leichen aus den Kühlschränken des Uni-Krankenhauses oder aus frischen Gräbern kamen; die Flüchtlinge, die im Kosovo ständig vorbeipassierten und die eigentlich immer die gleichen Bilder und Menschen waren, die aus anderen Winkeln technisch-filmisch aufgenommen wurden; die von serbischen Schergen angeblich gegrabenen Massengräber, die kein medischer UNO-Ausschuss je gefunden hat; die Säuglinge, die die Soldaten Saddam Husseins in Kuweit angeblich massakriert hätten, indem sie die elektrischen Stecker der Brutinstrumente ausgerissen hatten. Die Liste ist selbstverständlich hier weit unvollständig. Solange solche Manipulationen inszeniert werden oder bloss möglich bleiben, um die Interessen Europas oder Russlands zu torpedieren, bleiben unsere Völker unfrei, ihr weiteres Schicksal zu gestalten. Die europäischen Staaten sind unfähig, ihre eigene Ziele und Interessen ihren eigenen Bürgern in einer eigenen Mediensprache deutlich zu machen. Deshalb, und solange eine solche Sachlage herrscht, kann man kühl und sachlich feststellen, dass ihr Status den Status von Marionnetten-Staaten ist. Wir sind die Hampelmännchen und -frauen von Marionnetten-Staaten und keine Bürger von normal funktionierenden Staatswesen.

 

-          Die Energiepolitik der Vereinigten Staaten zielte immer darauf, eine Maximisierung des Öl-Konsums zu erreichen. Man kann es die „Politik des Nur-Öls“ nennen. Diese Option hat als Ursprung das blosse Fakt, dass das konsumierte Öl in der Welt bis 1945 hauptsächlich aus den Vereinigten Staaten kam. Die VSA waren also die Hauptlieferanten dieses Rohstoffes in der Welt und verstanden daraus, dass dieser Rohstoff ihr besseres Instrument werden könnte, um allerlei strategische Vorteile zu gewinnen. Lange Zeit haben die Vereinigten Staaten ihr eigenes Öl als Reserve bewahrt, um strategische Trümpfe im Falle von Weltkriegen zu halten. Ziel der Propagandafeldzüge jeder Schattierung wurde stets, es zu vermeiden, dass andere Mächte solche Reserven oder Reserven anderer Art aufstapelten. Die „Nur-Öl-Politik“ Washingtons war gegen jede energetische Diversifikation gerichtet. Wenn Völker ihre Energie-Quellen vervielfachen, schaffen sie die Bedingungen einer Unabhängigkeit, die die Vereinigten Staaten nicht tolerieren können, da sie für immer Hauptlieferanten auf dieser Erde bleiben wollten. Jetzt stellt sich die Frage über die reale oder angebliche Ölknappheit in der heutigen Welt. Werden wir bald einen „pick“ erleben, nachdem die Reserven sich allmählich ausschöpfen werden? Gibt es Reserven etwa in Mittelafrika oder in Alaska, die die Wichtigkeit der saudischen Reserven bald relativieren wurden? Die Frage bleibt selbstverständlich offen. Sicher ist aber das die Amerikaner so viele Ölfelder in den Händen ihrer eigenen Ölgesellschaften sehen wollen, um Meister dieser Rohstoffsquellen so lang wie möglich zu bleiben und die Wirtschaftslage der trabantisierten Völker zu kontrollieren und, wenn nötig, zu erdrosseln. Würden diese Völker energetisch durch Diversifikation unabhängig und frei, wäre eine solche Erdrosselung nicht möglich.

 

-          Sehr früh, sofort es sicher war, dass die Ölreserven der arabischen Halbinsel die umfangreichsten der Welt waren, hat die amerikanischen Führung unter Franklin Delano Roosevelt ein Bündnis mit dem saudischen König Ibn Saud geschmiedet. Der US-Präsident und der arabische König trafen sich am Bord des US-Kriegsschiffes USS Quincy im Roten Meer. Dort wurde schon vor der deutschen Niederlage eben dieses Bündnis mit einem fundamentalistisch-wahhabitischen Königreich Wirklichkeit. Die geistige Lage in diesem Königreich war ganz anders als im mehr oder weniger islamisierten oder schiitischen Persien oder als im Ottomanischen Reich. Beide Reiche waren alte staatliche Strukturen, die religiös bunt waren und die auch Elemente aus anderen Quellen als aus denjenigen arabisch-islamischer Herkunft eingebürgert oder Formen des Islams wie der Sufismus oder die Mystik entwickelt und gefördert hatten. Für die wahhabitischen Saudi-Araber waren alle diese Beimischungen zoroastrisch-persischer, byzantinisch-griechischer oder schamanisch-zentralasiatisch-türkischer Herkunft ketzerisch oder unrein. Diese kulturtragenden Beimischungen wurden durch den Wahhabismus abgelehnt, zur Gelegenheit zerstört oder systematisch als Ketzerei abgetan. Nach Roosevelt und Nachfolger, sei dabei doch ironisch erwähnt, hätten alle Völker der Erde die Menschenrechte volens nolens übernehmen sollen (besonders in ihre spätere San-Francisco-Verfassung des Jahres 1948), nicht als tatkräftige eingewurzelte Rechte historischen Ursprungs sondern als auflösende Keime gegen jede geschichtlich gewachsene nicht amerikanisierte Institution (dieser letzte Terminus benutze ich hier im Sinne Arnold Gehlens); diese Menschenrechte sollten in einer zweiten Stufe dazu dienen, in aller Ecken der Welt eine amerikanisierte nicht heimatliche Pseudo-Demokratie zu stützen, und diese sollte überall gelten, nur nicht in Saudi-Arabien. Der Fall zeugt von einer evidenten Doppelmoral: Die amerikanische Führung glaubt nicht an den Menschenrechte als ob diese eine Art ziviler Ersatzreligion wären, sondern benutzen diese Ideologie, um feindliche oder konkurrierende Staaten zu schwächen, und tolerieren die grobsten Kränkungen dieser Menschenrechte, wenn ihre Interessen damit gedient werden.

 

-          Die Allianz zwischen den Vereinigten Staaten und dem Saudi-Islamismus basiert sich auf einer „Insurgency-Strategie“. Mit saudischen Geldern werden Erhebungen islamitischer Ideologie veranstaltet sowie im Afghanistan gegen das Regime, das die Sowjets damals unterstützten, oder in Bosnien und Kosovo, zur Zeit Clintons und Albrights, um Unruheherde in Europa permanent zu schaffen, oder in Tschetschenien, um Russland im Gebiet des Nordkaukasus auszuschalten. Jedesmal gab es saudische Gelder, um die afghanischen Mudschahiddin oder Talibane, die bosnischen Verbände oder die UCK-Milizionäre oder die tschetschenischen Terroristen zu finanzieren. Auf jedem Kampfgebiete fanden Beobachter saudische Kriegsherren oder Freiwilligen. Die Ziele dieser Insurgency-Kämpfe entsprachen immer die geopolitischen Stossrichtungen die Washington sich wünschte. Die islamfundamentalistische Gefahr entspricht also schlicht ein Instrument des US-Imperialismus. Ohne amerikanische Deckung des saudischen-wahhabitischen Systems, hätten diese Erhebungen nie stattgefunden. Afghanistan wäre ein Trabant der Sowjetunion bzw. Russland geblieben. Serben und Kroaten hätten sich Bosnien geteilt. Der Kosovo-Krieg hätte nie stattgefunden. Tschetschenien und Daghestan wären ruhig geblieben. Bin Laden war letztes Endes  ein Söldner Amerikas; deshalb vielleicht konnte er so einfach verschwinden, derweil sein Mitkämpfer der Mullah Omar mit einem Motorrad entwischen konnte, ohne dass die Satteliten der amerikanischen Streitkräfte oder der allwissenden NSA-Agentur, die uns hier alle sehen können, dieses verdammte Motorrad mit dem bösen Mullah drauf entdecken konnten! Vielleicht eine unerwartete Panne, eben am diesen Tag!

 

Bin Laden, der Mullah Omar, der Bassajew in Tschetschenien und die vielen anderen treiben also was man im militärischen Jargon seit Lawrence of Arabia eine „Insurgency“ auf abseitigen Gebieten um den Hauptfeind zu destabilisieren. Die Immigration innerhalb der europäischen Staaten heute dient dazu, und nur dazu, einen künftigen Insurgency-Krieg im Herzen unseres Kontinents zu leiten. Die breiten Massen entwurzelten junge Muslims, die hier ohne Arbeit herumlaufen, machen es möglich, dass eine solche „Insurgency“-Strategie hier künftig inszeniert werden könnte. Die These wird ganz au sérieux in Frankreich genommen und der Hauptreferent in dieser Sache ist der französische Politikwissenschaftler algerischer Herkunft Ali Laïdi. Dieser stellt ganz sachlich fest, dass die aufgehetzten Köpfe in den Randstädten rund Paris, Lyon oder Marseille, systematisch von Geistlichen fanatisiert werden, die irgendwie von saudisch-finanzierten Gremien abhängen. Solche Geistlichen predigen überhaupt nicht die Integration, sondern einen rückwärtsorientierten Islam, wobei weite Teile dieser arabisch-mahomedanischen Bevölkerungsgruppe der Leitkultur völlig entfremdet und, schlimmer noch, ihr tiefer und tiefer befeindet werden, sowie die fanatischen wahhabitischen Krieger der arabischen Halbinsel die kulturreiche Islam-Synthese Persiens oder des Ottomanischen Reiches entfremdet wurden. In dieser verschwächten Bevölkerungsgruppe herrscht von jetzt ab ein Misstrauen, wobei alles was man als Europäer sagt, stillschweigend oder vehement abgelehnt wird. Intoleranz taucht inmitten eines langweiligen Toleranz-Diskurses.

 

 

Geschichte des Islamfundamentalismus

 

◊ 1. Erklärung der Begriffe

 

Der sogenannte Islamfundamentalismus hat seine Wurzeln in verschiedenen Denkschulen, die im Laufe der Geschichte in islamischen Ländern entstanden sind. Die heutigen Strömungen des Islamfundamentalismus finden ihre Quellen eben in diesen Denkschulen. Es scheint mir deshalb wichtig, diese fundamentalistischen Richtungen und ihre Folgen zu kennen. 

 

-          Die erste Denkschule ist der Hanbalismus. Gründer dieser Schule sind Achmad Ibn Hanbal (780-855) und später, in einer zweiten Stufe der Entwicklung dieser Schule, Taqi Ad-Dinn Ibn Taymijah (1263-1328). Die vier Hauptgrundrichtungen dieses Denkens sind : 1) Eine Reaktion gegen die Verwendung philosophischer Begriffe griechischer oder persischer Prägung im Raum des Islams.  Die Reaktion ist also anti-europäisch; 2) Eine buchstäbliche Interpretation des Korans, wobei keine Innovationen toleriert werden; 3) Der Muslim darf keine persönliche Urteilskraf und keine theologische Spekulationen entwickeln. Opfer dieser strengen Restriktion wurde der Mystiker Ibn Arabi, einer der gründlichsten Denker unseres Mittelalters (wobei der Begriff ‘Mittelalter” für den Islam überhaupt nicht passt); 4) Die Feindschaft gegen den Sufismus, d. h. gegen breitdenkenden Schulen, die ihre Ursprung im iranischen Raum fanden.

 

-          Der zweite Denkschule ist der bekanntste Wahhabismus, von Muhammad Ibn Abd Al-Wahhab gegründet. Al-Wahhab wurde ungefähr 1703 in Naschd-Provinz in der Arabischen Halbinsel geboren. Die Merkmale seines rigoristischen Systems sind: 1) Er ist unmittelbar ein Anhänger der hanbalistischen Tradition; er will deren Strengheid im späteren saudischen Raum wieder erwecken; 2) Al-Wahhab behauptet, der Kultus sei unrein geworden, weil zuviele Devotionalien den reinen Geist des Islams besuddeln; er will jeden Rückkehr zu vorislamischen Riten bekämpfen, da diese Riten im arabischen Halbinsel wieder üblich geworden waren, weil das Land weit von den Zentren des islamischen Hauptkultur entfernt war; 3) Al-Wahhab rechtfertigt die systematische Anwendung von Terror gegen Andersdenkenden, wie, zum Beispiel, Schiiten oder andere “Abweichler”. Terror wird Mittel zum Zweck; 4) Al-Wahhab behauptet auch, daß das Besuchen von heiligen Stätte ketzerisch sei; Objekte wie Rosenkränze, das Rauchen, die Musik, das Tanzen werden also verboten; Männer sollten immer auch Bart tragen.

 

-          Die dritte Denkschule ist die Ichwan-Bewegung. Nach eine langen Zeit des Wirrens, erobert der Neschd-König Ibn Saud die arabische Halbinsel. Seine Truppen —die Ichwan-Verbände—  werden von den Wahhabiten fanatisiert. Ibn Saud, ein schlauer König, weiss aber, daß das Nomadentum die Araber der Halbinsel schwächt. Er will sie seßhaft machen und militarisieren. Deshalb gründet er eine Bewegung von Soldaten-Kolonisten, die streng wahhabitisch erzogen werden. Diese Militarisierung durch Religion ist eine Grundtendenz des heutigen Fundamentalismus und hat, u.  a. Bin Laden inspiriert. Die Geschichte der Ichwan-Bawegung, d. h. die Bewegung der Bruderschaft, zwingt uns, die Geschichte Saudi-Arabiens besser zu kennen und zu verstehen.

 

-          Die vierte Denkschule ist die Bewegung der Islam-Bruderschaft oder Muslim-Bruderschaft in Ägypten. Gründer der Bewegung war Hassan Al-Banna, der sie Ende der 40er Jahre ankurbelte. Hauptidee war, daß die arabisch-muslimischen Völker den Westen nicht knechtisch nachahmen sollten. Er plädierte für eine allgemeine Reislamisierung und gründete deshalb auch eine paramilitärische Organisation, die Kata’ib (die Phalange).  Al-Banna wurde 1949 in offener Strasse von ägyptischen Polizisten erschossen, nachdem Demonstranten englische Soldaten gelyncht hatten. Es ist merkwürdig zu notieren, dass am Anfang seiner Laufbahn Al-Banna ein liberaler verwestlicher Intellektuelle war. Er hatte in den Vereinigten Staaten studiert. Nach seiner Rückkehr nach Ägypten, lehnte er die westlichen Ideen ab und wurde streng islamitisch. In der ersten Phase der Bewegung, unterstützte Al-Banna die “Freien Offiziere” Nassers, aber danach, entstand eine totale Opposition gegen Nasser mit Hilfe der Kommunisten. Die Tätigkeiten der Islam-Bruderschaft hat systematisch das Nasser-Regime geschwächt. Insofern har die Bewegung die Amerikaner und Israelis geholfen, Ägypten als auftauchende Macht innerhalb der arabischen Welt auszuschalten, besonders nach der Niederlage von Juni 1967. In 1955, wurde die Bewegung für das erste Mal von den ägyptischen Behörden aufgelöst und verboten. Die ersten Hinrichtungen von Bruderschaftsaktivisten finden statt. Sayyib Qutb (1906-1966) wurde dann der Nachfolger Al-Bannas. Er entwickelte die Bewegung weiter und gab sie eine islamistisch-sozialistische Orientierung, wiederholte und rekapitulierte die hanbalistische Dimension seiner Islamsvision; die eigentliche Neuheit war, dass er den Dschihad, den heiligen Krieg, gegen ungenügende, zu tolerante oder ketzerische muslimische Regierungen. Zwischen 1954 und 1964, flog er manchmals ins Gefängnis. 1966 wird er endlich hingerichtet.

 

Die geschichtlichen Kenntnisse sollten auch mit geographischen Kenntnissen erweitert werden. Die Bühne, wo alles entstanden ist, ist selbstverständlich das heutige Territorium Saudi-Arabiens. Mohammed in seiner Zeit war ein kluger Geopolitiker: Er hat die Halbinsel geeinigt und der Netz der Karawanen-Straßen gegen alle Einflüsse von ausserhalb der arabischen Halbinsel sichergestellt. Nichts läßt vermuten, daß er weitere  Länder erobern wollte. Aber einige Jahre nach seinem Tod, war der Kontext völlig anders. Mohammed wurde im Jahre 570 geboren, also im sogenannten Huluban-Jahr oder Elefanten-Jahr, wenn abyssinische Truppen im Dienst des byzantinischen Reiches Arabien vom jemenitischen Süden erobert hatten, um die Perser von den Ufern des Roten Meeres fernzuhalten. Mohammed wollte es nicht, dass die Halbinsel und die Karawanen-Straßen Bühne eines Krieges zwischen raumfremden Mächten wurde. Nach seinem Tode, kämpften Perser und Byzantiner weiter, mit als Verbündeten die semitisch-aramäiche Stämme des heutigen Jordaniens und Iraks. Die Nachfolger des Propheten zerschlugen unerwartet byzantinische Verbände im Raum Südjordaniens und Palästinas. Später werden auch persische Truppen zerrüttet. Die semitisch-aramäischen Völker, die von diesem ständigen Krieg müde waren, bekehren sich zum Islam. Die Zeit war gekommen, um ein riesengrosses Islam-geprägtes Reich zu gestalten.

 

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Die arabische Halbinsel bestand und besteht noch heute aus hauptsächlich vier Hauptgebieten : Das Hedschas-Gebiet, das Neschd, das Assir und die Hassa-Provinz.

 

Das Hedschas-Gebiet wird von nicht-wahhabitischen Sunniten beherrscht und ist der Ort der heiligen Stätte des Islams, wo die Pilger sich begeben. Im 1916-17, organisiert der britische Offizier Lawrence die Hedschas-Stämme rund dem Häuptling Hussein, der damals ein Feind Sauds war. Die Hedschas-Stämme sind Bundgenossen der Briten, die Stämme unter der Führung Sauds aber den Briten gegenüber sehr misstrauisch und spâter Amerika-hörig.

 

Das Neschd-Gebiet ist das zentralgelegene Gebiet der Halbinsel, aus dem die Anhänger des Wahhabismus und später die verbündeten Stämme des Sauds ihre Eroberungszüge anfangen werden. Im berühmten Buch des ehemaligen Vichy-Minister und Historiker des deutschen Militärwesen Benoist-Méchin, wird das Neschd-Gebiet sehr genau beschrieben. Die eigentliche Urheimat der semitischen Völker befindet sich im heutigen Jemen und Assir-Gebiet, die bis spät ein eher reiches und furchtbares Land mit sesshaften Stämmen, die eine effiziente Landwirtschaft entwickelt hatten. Die Römer sprachen von „Arabia felix“, d.h. „Glückliches Arabien“. Es ist also falsch zu behaupten, dass die semitischen Völker alle ursprünglich Nomaden waren. Wenn das fruchtbare Land Jemens zu viele Kinder erzeugte, mussten die notgezwungen nordwärts auswandern, und eine kriegerische nomadische Kultur im Neschd-Gebiet zu schaffen. Im dürren Norden entstanden also nach einem langen Voklswerdungsprozess eben diese Krieger-Stämme, die den Islam und viel später den Wahhabismus ihre ersten Impulse gaben. Wir finden deshalb im Kern der arabischen Halbinsel die übliche Dialektik Zentrum-Peripherie, wobei das dürre unfruchtbare Zentrum nicht das zeitlich erste Element des dialektischen Prozesses ist, sondern das Produkt einer reichen Peripherie, die später nach einer mehr oder weniger langen Reifungsprozess das Entstehungsgebiet einer eigenartigen geistigen Revolution geworden ist. Dieses Modell ist nicht einzig in der Geschichte des Islams: Auch das dürre steppische Zentralasien als Urheimat oder als Sprungbrett der Türkvölker in Richtung der bunten Reichsgebiete des sogenannten „Rimländer“ (Persien, Byzanz und das indische Gupta-Reich) kann als eine Zentrum zweiter dialektischen Hand betrachtet werden.

 

Das dritte Gebiet der Halbinsel ist das Assir, das von Jemeniten bewohnt wird, die stark schiitisch geprägt sind. Assir ist ein Bergland mit feuchterem Klimat. Die Stämme im Assir haben sich immer gegen diejenigen des Neschds gewehrt.

 

Das vierte Gebiet ist die Hassa-Provinz, die sich der Ostküste der Halbinsel entlang befindet, wo die Ölfelder liegen. Die arabisch-semitische Urbevölkerung war dort ursprünglich schiitisch und pflegte enge Bände mit den Schiiten Iraks.

 

Die Geschichte des Wahhabismus

 

Im 18. Jahrhundert, nachdem das Ottomanische Reich und sein Verbündeter der französischen „Sonnen-König“ endgültig durch den Prinzen Eugen im Schach gehalten wurden, war der Islam weltmächtig auf dem Ruckzug. Das türkisch-ottomanische Hegemon konnte sich Europa gegenüber nicht mehr behaupten. In diesem Kontext entwickelte der Geistliche Al-Wahhab in einem abgelegenen Ort im Neschd seine rigoristische Lehre, um den Islam wieder kampffähig zu machen und das türkische Hegemon durch ein neues arabisches zu ersetzen. Um dieses Ziel zu erreichen, schmiedet er 1744 ein Bündnis mit dem Stammeskönig Mohammed Ibn Saud, Gründer der noch heute herrschenden Dynastie. Die Allianz zwischen dem Geistlichen und dem Krieger erlaubte in einer ersten Phase die komplette Eroberung des Neschd, wo alle Feinde ausgeschaltet bzw. ausgerottet wurden. Während dieser langen Auseinandersetzungen wurde die schiitische Pilgerstadt Kerbala im heutigen Irak erobert und völlig zerstört, weil die Wahhabiten die Reliquien der Martyrer und die Volksfrömmigkeit rund diesen religiösen Überlieferungen als ketzerisch und Götzenanbetung betrachteten. Hier liegt die Wurzel der Erzfeindschaft zwischen Schiiten und Saudi-Wahhabiten, die heute durch die Ereignisse im Irak wieder angekurbelt wird, wobei die amerikanischen Geheimstrategien des „divide ut impera“ (Teile und Herrsche“) eine erhebliche Rolle spielen. Die Kriegszüge Al-Wahhabs und Mohammed Ibn Sauds führten damals auch westwärts mit schweren Angriffen gegen die Hauptkultstätte von Mekka und Medina, wo auch Schreine und Kultortschaften in Namen des religiöse Rigorismus der Wahhab-Lehre zerstört wurden. Hier liegen dann die Keime der späteren Feindschaft zwischen Neschd-Stämmen und Hedschas-Stämme.

 

Am Anfang des 19. Jahrhunderts im Kontext der Napoleontischen Kriege, wurden de facto die wahhabitischen Stämme in ihrer Feindschaft der Ottomanen gegenüber die Bundgenossen Frankreichs, weil einfach weil die Machtkonstellation damals die folgende war: Das Ottomanische Reich sowie Persien waren die Verbündeten Englands. Wenn aber Napoleon in Russland 1812 besiegt wird, verminderte das Interesse Englands an diesen fernen exotischen Bundgenossen. Die Ottomanen und die Ägypter, unter der Leitung des Albaners Mehmet Alis und dessen Sohn Ibrahim Pascha, versammelten ihre Kräfte, um die Wahhabiten auszuschalten. Das Neschd-Königreich wurde unerbärmlich zerstört, eben die Quellen in diesem Wüstengebiet wurden trocken gelegt, um jede Logistik und jede Bewegung weiten Umfangs zu verhindern. Nach den Racheoperationen Mehmet Alis und Ibrahims, herrschte in der Halbinsel eine Zeit der Wirren, wo sich Stämme gegen Stämme einander bekriegten. Der zweite Ibn Saud (1880-1953) beginnt erneut die Eroberung des Neschd-Zentralgebietes, diesmal mit der anfänglichen Unterstützung Englands. Die Operationen entwickelten sich mit der extremsten Gewalt. Grausame Ereignisse und Ströme Blutes erschütterten Arabien. Wenn der Erste Weltkrieg in Europa ausbricht, versuchen die Briten sofort Verbündeten in der Halbinsel, um die Ottomanen auf ihrer südlichen Flanke einzukreisen. Das Kairo Büro mit Lawrence suggerierte ein Bündnis mit Hussein und Feisal im Hedschas-Gebiet, aber das Bombay Büro mit Shakespear wählte eher Ibn Saud als Verbündeter. Lawrence bekommt die Kredite, ganz einfach weil er schneller die Hedschas-Stämme in Akaba bringen könnte, um eine Küstenstreife frei für eine britische Landung am Endpunkt der Damas-Jerusalem-Akaba-Eisenbahn sicherzustellen,  und auch komischerweise weil er akzeptierte, einen arabischen Kopftuch statt einer Offizier-Mütze europäischer Art zu tragen, was Shakespear immer hartnäckig und schneidig abgelehnt hatte. In seinen Notizen über seine arabischen Feldzüge, spricht Lawrence ausführlich darüber, dass Araber tief davon schockiert und gekränkt werden, wenn Europäer in ihrer Anwesenheit Hüte oder Mützen tragen.

 

In den 20er Jahren, als die Sprösse der Hedschas-Häuptlinge über Jordanien und den Irak mit britischer Unterstützung herrschen, wiederholte der zweite Ibn Saud seine frühere Feldzüge bis er endlich wieder die ganze Halbinsel kontrollierte. Um dieses Ziel zu erreichen, bediente er sich dem Instrument der Ichwan-Bewegung, die er dann, sofort er gesiegt hatte, auflösen liess. Mit der Macht fest in den Händen und nachdem Ölfelder auf seinem Hoheitsgebiet entdeckt wurden, konnte Ibn Saud II. 1945 mit Roosevelt verhandeln und seine britische Feinde im Kampf um das Öl ausschalten. 1953 stirbt der Beduinen-Herrscher nachdem die Bedingungen des Bündnisses mit Amerika fest und endgültig festgelegt wurden. Hier beginnt wirklich die Geschichte der engen Zusammenarbeit zwischen Washington und Riad.

 

(weitere Auszüge später).

 

dimanche, 27 décembre 2009

Yémen: ripostes saoudiennes

yemen-map.jpgYémen : ripostes saoudiennes

 

Un nouveau chapitre dans le conflit séculaire entre Perses et Arabes

 

L’aviation saoudienne a attaqué les rebelles chiites du Yémen : cette action musclée revêt une grande importance géopolitique et historique. Elle prouve la volonté saoudienne de s’imposer aujourd’hui. Si l’on creuse un peu la problématique pour comprendre ses motivations, on s’apercevra bien vite que l’enjeu dépasse de loin celui d’un conflit régional. Nous voyons s’ouvrir un nouveau chapitre dans l’histoire pluriséculaire de la rivalité, aujourd’hui en phase de réactivation, entre Arabes et Perses. Les troubles qui agitent le Yémen aujourd’hui ne sont pas une nouveauté. Les rebelles chiites du Nord du pays ne constituent qu’une des nombreuses difficultés que doit affronter le gouvernement yéménite. Grâce au soutien que leur apporte l’Iran, les rebelles al-Houthi (que nous appellerons plus simplement les « Houthis ») sont devenus plus virulents. Tout comme d’ailleurs les autorités yéménites, dont l’armée est entrainée par d’anciens officiers irakiens, exilés depuis la chute de Saddam Hussein. Mais ces autorités yéménites ne parviennent pas, toutefois, à stabiliser la situation, ce qui provoque une inquiétude croissante chez leurs voisins saoudiens. La problématique a des racines religieuses. Les Houthis sont chiites, donc des hérétiques aux yeux des wahhabites qui dominent l’Arabie Saoudite. Des hérétiques qui, de surcroît, opèrent dans les régions frontalières. Les Houthis sont d’ailleurs très fiers d’avoir conquis certaines zones frontalières, arrachées aux Saoudiens. Ceux-ci ont vérifié si les Houthis disaient vrai. En constatant la véracité de leur affirmations, les Saoudiens ont donné l’ordre à leur aviation d’intervenir. Au cours de ces derniers mois, les Saoudiens ont donc lancé des opérations terrestres et aériennes, parfois sur territoire yéménite. Les rebelles en concluent que l’Arabie Saoudite cherche à créer une zone tampon sur le territoire du Yémen.

 

Une situation unique

 

On sait dorénavant que les Saoudiens utilisent leur puissance économique dans la région pour exercer une influence sur leurs voisins, ou du moins essayer… Sur le plan militaire, ils font montre de réticence. Or c’est précisément à cause de cette réticence que la réalité actuelle revêt un caractère absolument unique. Le véritable motif de ce conflit apparaît de plus en plus évident. Pour Ryad, il ne s’agit pas simplement de mettre au pas une brochette de dissidents religieux. Car les Houthis sont considérés à Ryad comme l’instrument du rival héréditaire : l’Iran. Les Saoudiens sont de plus en plus inquiets du poids croissant de l’Iran au Moyen Orient : Téhéran, en effet, entretient des rapports étroits avec le Hizbollah, a des contacts avec le Hamas, ce qui permet aux Iraniens d’influencer les événements de Palestine, et joue un rôle non négligeable dans le chaos qui secoue l’Irak. Depuis toujours, l’Irak est le pays où sunnites et chiites s’affrontent. Sous Saddam Hussein, la majorité chiite tenait un rôle de second plan, était parfois opprimée, mais après la disparition du leader nationaliste arabe, les choses ont changé. Dans le nouvel Irak, les Chiites sont dans le camp des vainqueurs et cela, les Saoudiens le ressentent avec angoisse. D’où ils refusent de voir se développer de nouvelles agitations, téléguidées par Téhéran, sur les frontières mêmes de leur royaume. Des bruits courent que des membres du Hizbollah sont au Yémen et combattent aux côtés des Houthis. C’est plausible mais il se peut bien que ces bruits aient été répandus par les autorités yéménites, afin de faire mousser la situation. Mais qu’il existe des liens financiers et logistiques avec Téhéran, c’est une chose acquise.

 

Une ligne dans le sable du désert

 

Pour les Saoudiens, l’objectif à court terme est aussi clair que l’eau de roche. Pour les Iraniens, chercher à amplifier leur influence en soutenant des rebelles est une stratégie ancienne et éprouvée. Pour les Saoudiens, il est donc d’une importance cruciale qu’aucun précédent ne se crée sur le territoire de la péninsule arabique. Au propre comme au figuré, ils envisagent de tracer une ligne sur le sable du désert. Une ligne qui doit devenir la limite de toute expansion iranienne. Ce qui se passe dans les sables du Yémen n’a jamais constitué une priorité pour les Etats-Unis. Jusqu’il y a peu. Car à Washington également, le climat a changé. Quelque part, c’est logique : pour les Américains aussi, l’Iran  —et surtout son programme nucléaire—  est un gros souci.

 

Tandis que Ryad cherchait à se profiler sur le plan militaire, les Etats-Unis signaient un accord de coopération militaire avec le gouvernement yéménite. Une attention toute particulière est consacrée à la lutte « contre le terrorisme ». On le voit, l’arrivée de la superpuissance américaine indique qu’un nouveau chapitre dans la longue histoire du conflit entre Arabes et Perses vient de s’ouvrir. Le scénario est lié étroitement au recul subi par les Saoudiens au Moyen Orient. Un diplomate résumait clairement la situation : « Au cours de ces dix dernières années, l’influence du pays dans la région n’a cessé de reculer ». « Par conséquent, les dirigeants saoudiens cherchent à ramener la couverture de leur côté ». Les Saoudiens, de concert avec les Egyptiens, se sont efforcés, au cours de ces dernières années, de soutenir les processus de paix entre Israéliens et Palestiniens. La Syrie et l’Iran ont opté pour une politique opposée, en allant soutenir le Hizbollah et aussi le Hamas. Aujourd’hui, c’est clair, la paix n’est pas prête d’être conclue, ce qui n’empêche pas qu’il y ait déjà des vainqueurs et des vaincus. Ceux qui spéculent sur la paix ont le vent en poupe si celle-ci n’est pas conclue. Ryad veut donc fermement reprendre le contrôle de la situation. D’abord sur le plan diplomatique, notamment en tentant d’améliorer ses relations difficiles avec la Syrie. Ensuite, sur le plan militaire : les Saoudiens veulent montrer leur puissance. Mais cette volonté doit nécessairement se heurter aux initiatives incessantes des Iraniens pour augmenter l’influence perse au Moyen Orient et dans la péninsule arabique.

 

« M. ».

(article paru dans « ‘t Pallieterke », Anvers, 18 novembre 2009 ; trad.. franc. : Robert Steuckers).     

samedi, 17 octobre 2009

Ben Laden a travaillé pour les Etats-Unis jusqu'au 11 septembre 2001

Bombe médiatique :

Ben Laden a travaillé pour les États-Unis jusqu’au 11 Septembre 2001

Ex: http://fr.altermedia.info

sibel-edmonds

Invitée par l’animateur de l’émission radio Mike Malloy radio show [1], l’ancienne traductrice pour le FBI, Sibel Edmonds, a lancé une véritable bombe médiatique (audio, transcription partielle).

Lors de son interview, Sibel raconte comment les États-Unis ont entretenu des « relations intimes » avec ben Laden et les talibans, « tout du long, jusqu’à ce jour du 11 septembre. » Dans « ces relations intimes », Ben Laden était utilisé pour des “opérations” en Asie Centrale, dont le Xinjiang en Chine. Ces “opérations” impliquaient l’utilisation d’al-Qaida et des talibans tout comme « on l’avait fait durant le conflit afghano-soviétique », c’est à dire combattre “les ennemis” par le biais d’intermédiaires.

Comme l’avait précédemment [2] décrit Sibel, et comme elle l’a confirmé dans son dernier interview, ce procédé impliquait l’utilisation de la Turquie (avec l’assistance d’acteurs provenant du Pakistan, de l’Afghanistan et de l’Arabie Saoudite) en tant qu’intermédiaire, qui à son tour utilisait ben Laden, les talibans et d’autres encore, comme armée terroriste par procuration.

Le contrôle de l’Asie Centrale

Parmi les objectifs des “hommes d’État” américains [3] qui dirigeaient ces activités, il y avait le contrôle des immenses fournitures d’énergie et de nouveaux marchés pour les produits militaires. Pourtant, les Américains avaient un problème. Ils ne devaient pas laisser leur empreinte afin d’éviter une révolte populaire en Asie centrale (Ouzbékistan, Azerbaïdjian, Kazakhstan et Turkménistan), et aussi de sérieuses répercussions du côté de la Chine et de la Russie. Ils trouvèrent une ingénieuse solution : utiliser leur État fantoche, la Turquie, comme mandataire et en appeler à la fois aux sensibilités panturques et panislamiques.

Dans la région, la Turquie, alliée de l’OTAN, a beaucoup plus de crédibilité que les États-Unis ; avec l’histoire de l’Empire ottoman, elle pourrait appeler au rêve d’une plus large sphère d’influence panturque. La majorité de la population d’Asie Centrale partage le même héritage, la même langue, la même religion que les Turcs.

À leur tour, les Turcs ont utilisé les talibans et al-Qaida, en appelant à leur rêve d’un califat panislamique (sans doute. Ou bien les Turcs/Américains ont très bien payé).

Selon Sibel : « Ceci a commencé il y a plus de dix ans, dans le cadre d’une longue opération illégale et à couvert, menée en Asie centrale par un petit groupe aux États-Unis. Ce groupe avait l’intention de promouvoir l’industrie pétrolière et le Complexe Militaro-Industriel en utilisant les employés turcs, les partenaires saoudiens et les alliés pakistanais, cet objectif étant poursuivi au nom de l’Islam. »

Les Ouïghours

On a récemment demandé à Sibel d’écrire sur la récente situation de Ouïghours au Xinjiang, mais elle a refusé, disant simplement : « Notre empreinte y est partout. »

Bien sûr, Sibel n’est pas la première ou la seule personne à reconnaitre tout cela.
Eric Margolis [4], l’un des meilleurs reporters occidentaux concernant l’Asie Centrale, a affirmé que les Ouïghours, dans les camps d’entrainement en Afghanistan depuis 2001, « ont été entrainés par ben Laden pour aller combattre les communistes chinois au Xinjiang. La CIA en avait non seulement connaissance, mais apportait son soutien, car elle pensait les utiliser si la guerre éclatait avec la Chine. »

Margolis a également ajouté que : « L’Afghanistan n’était pas un creuset du terrorisme, il y avait des groupes commando, des groupes de guérilla, entrainés à des buts spécifiques en Asie Centrale. »

Dans une autre interview, Margolis [5] dit: « Ceci illustre le bon mot (en français dans le texte, NDT) de Henry Kissinger affirmant qu’il est plus dangereux d’être un allié de l’Amérique, que son ennemi, car ces musulmans chinois du Xinjiang (la province la plus à l’ouest) étaient payés par la CIA et armée par les États-Unis. La CIA allait les utiliser en cas de guerre contre la Chine, ou pour provoquer le chaos là-bas ; ils étaient entrainés et soutenus hors d’Afghanistan, certains avec la collaboration d’Oussama ben Laden. Les Americains étaient très impliqués dans toutes ces opérations. »

La galerie de voyous

L’an dernier, Sibel a eu la brillante idée de révéler des activités criminelles dont elle n’a pas le droit de parler : elle a publié dix-huit photographies – intitulées la “Galerie ‘Privilège Secrets d’État’ de Sibel Edmonds” – de personnes impliquées dans les opérations qu’elle avait tenté de révéler. L’une de ces personnes est Anwar Yusuf Turani [6], le prétendu “Président en Exil” du Turkistan Est (Xinjiang). Ce prétendu gouvernement en exil a été établi à Capitol Hill (le siège du Congrès US, NdT) en septembre 2004, provoquant des reproches acerbes de la part de la Chine.

“L’ancienne” taupe, Graham Fuller, qui avait joué un rôle dans l’établissement du “gouvernement en exil” de Turani du Turkestan Est, figure également parmi la galerie de voyous de Sibel. Fuller a beaucoup écrit sur le Xinjiang et son “Projet pour le Xinjiang” remis à la Rand Corporation était apparemment le plan pour le “gouvernement en exil” de Turani. Sibel a ouvertement affiché son mépris à l’égard de M. Fuller.

Susurluk

La Turquie a une longue histoire d’affaires d’État mêlant terrorisme, au trafic de drogue et autres activités criminelles, dont la plus parlante est l’incident de Susurluk en 1996 [7] qui a exposé ce qu’on nommait le “Deep State” (l’État Profond : l’élite militarobureaucratique, NDT)

Sibel affirme que « quelques acteurs essentiels ont également fini à Chicago où ils ont centralisé “certains” aspects de leurs opérations (surtout les Ouighurs du Turkestan Est). »

L’un des principaux acteurs du “Deep State”, Mehmet Eymur, ancien chef du contre-terrorisme pour les services secrets de la Turquie, le MIT, figure dans la collection de photos de Sibel. Eymur fut exilé aux USA. Un autre membre de la galerie de Sibel, Marc Grossman [8] était l’ambassadeur de la Turquie au moment où l’incident de Susurluk révélait l’existence de “Deep State”. Il fut rappelé peu après, avant la fin de son affectation tout comme son subordonné, le commandant Douglas Dickerson qui tenta plus tard de recruter Sibel dans le monde de l’espionnage.

Le modus operandi du gang de Suruluk est identique à celui des activités décrites par Sibel en Asie Centrale, la seule différence étant que cette activité eut lieu en Turquie il y a dix ans. De leur côté, les organes d’État aux États-Unis, dont la corporation des médias, avaient dissimulé cette histoire avec brio.

La Tchétchénie, l’Albanie et le Kosovo

L’Asie centrale n’est pas le seul endroit où les acteurs de la politique étrangère américaine et ben Laden ont partagé des intérêts similaires. Prenons la guerre en Tchétchénie. Comme je l’ai écrit ici [9], Richard Perle et Stephan Solarz (tous deux dans la galerie de Sibel) ont rejoint d’autres néo-conservateurs phares tels que : Elliott Abrams, Kenneth Adelman, Frank Gaffney, Michael Ledeen, James Woolsey, et Morton Abramowitz dans un groupe nommé Le Comité Américain pour la Paix en Tchétchénie (ACPC) [10]. Pour sa part, ben Laden a donné 25 millions de dollars pour la cause, fourni des combattants en nombre, apporté des compétences techniques, et établi de camps d’entraînement.

Les intérêts des États-Unis convergeaient [9] aussi avec ceux d’al-Qaida au Kosovo et en Albanie. Bien sûr, il n’est pas rare que surviennent des circonstances où “l’ennemi de mon ennemi est mon ami.” D’un autre côté, dans une démocratie transparente, on attend un compte-rendu complet des circonstances menant à un événement aussi tragique que le 11/9. C’était exactement ce que la Commission du 11/9 était censée produire.

Secrets d’État

Sibel a été surnommée “la femme la plus bâillonnée d’Amérique”, s’étant vue imposer par deux fois l’obligation au secret d’État. Son témoignage de 3 heures et demie devant la Commission du 11/9 a été totalement supprimé, réduit à une simple note de bas de page qui renvoie les lecteurs à son témoignage classé. (donc non accessible, NdT)

Dans l’interview, elle révèle que l’information, classée top secret dans son cas, indique spécifiquement que les USA se sont servis de ben Laden et des taliban en Asie Centrale, dont le Xinjiang. Sibel confirme que lorsque le gouvernement US la contraint juridiquement au silence, c’est dans le but de « protéger “des relations diplomatiques sensibles”, en l’occurrence la Turquie, Israël, le Pakistan, l’Arabie saoudite… » C’est sans doute en partie vrai, mais il est vrai aussi qu’ils se protègent eux-mêmes : aux États-Unis, c’est un crime que d’utiliser la classification (confidentielle, NdT) et le secret pour couvrir des crimes.

Comme le dit Sibel dans l’interview : « Je dispose d’informations concernant des choses sur lesquelles le gouvernement nous a menti… on peut très facilement prouver que ces choses sont des mensonges, sur la base des informations qu’ils ont classées me concernant, car nous avons entretenu de très proches relations avec ces gens ; cela concerne l’Asie Centrale, tout du long, jusqu’au 11 Septembre. »

Résumé

L’information explosive ici est évidemment qu’aux États-Unis, certaines personnes se sont servies de ben Laden jusqu’au 11 septembre 2001.

Il est important de comprendre pourquoi : depuis de nombreuses années, les États-Unis ont sous-traité leurs opérations terroristes à al-Qaïda et aux talibans, encourageant l’islamisation de l’Asie centrale en vue de tirer profit des ventes d’armes tout comme des concessions pétrolières et gazières.

Le silence du gouvernement US sur ces affaires est aussi assourdissant que les conséquences (les attentats du 11/9, NDT) furent stupéfiantes.

Source: ReOpen911 [11]


Article printed from AMI France: http://fr.altermedia.info

URL to article: http://fr.altermedia.info/general/bombe-mediatique-ben-laden-a-travaille-pour-les-etats-unis-jusqu%e2%80%99au-11-septembre_25424.html

URLs in this post:

[1] Mike Malloy radio show: http://www.mikemalloy.com/

[2] précédemment: http://lukery.blogspot.com/2008/07/court-documents-shed-light-on-cia.html

[3] “hommes d’État” américains: http://letsibeledmondsspeak.blogspot.com/2008/01/sibel-names-names-in-pictures.html

[4] Eric Margolis: http://www.ericmargolis.com/biography.aspx

[5] Margolis: http://lukery.blogspot.com/2009/07/us-trained-uighur-terrorists.html

[6] Anwar Yusuf Turani: http://www.eastturkistangovernmentinexile.us/anwar_biography.html

[7] Susurluk en 1996: http://en.wikipedia.org/wiki/Susurluk_scandal

[8] Marc Grossman: http://en.wikipedia.org/wiki/Marc_Grossman

[9] ici: http://lukery.blogspot.com/2008/07/sibel-edmonds-case-central-asia.html

[10] Comité Américain pour la Paix en Tchétchénie (ACPC): http://www.rightweb.irc-online.org/profile/American_Committee_for_Peace_in_Chechnya

[11] ReOpen911: http://www.reopen911.info/News/2009/08/13/une-bombe-ben-laden-a-travaille-pour-les-etats-unis-jusquau-11-septembre/

vendredi, 26 juin 2009

L'intreccio statunitense-saudita-wahhabita

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L’INTRECCIO STATUNITENSE-SAUDITA-WAHHABITA

di K. Gajendra Singh* - http://www.eurasia-rivista.org/


La storia è dominata da un inesorabile determinismo
in cui la libera scelta delle grandi figure storiche gioca un ruolo infimo

Lev Tolstoj

A quel che si dice, quando nel mese di novembre il potente vicepresidente statunitense Dick Cheney si scomodò per un viaggio insolitamente lungo che lo portò a Riyad, lo fece per creare contro Iran, Siria ed Hezbollah libanese una nuova alleanza sunnita nella regione, capitanata dagli USA e composta dai sei Stati del Consiglio per la Cooperazione del Golfo, dai governi arabi filoamericani del Cairo e di Amman e da volenterosi alleati della NATO - il tutto col discreto sostegno di Israele. Il 12 dicembre il "New York Times" citava fonti diplomatiche statunitensi ed arabe per rivelare quanto assicurato a Cheney, e cioè che, nel caso d'un ritiro delle truppe statunitensi, Riyad sosterrebbe finanziariamente gl'Iracheni sunniti in qualsiasi guerra contro gl'Iracheni sciiti. Il re saudita Abdullah espresse inoltre una ferma opposizione a qualsiasi negoziato diplomatico tra Stati Uniti e Iran, e chiese a Washington d'incoraggiare la ripresa dei colloqui di pace tra Israele ed i Palestinesi.

La posizione saudita riflette la paura degli alleati arabo-sunniti degli USA di fronte alla crescente influenza esercitata in Iraq ed in Libano da Tehran, dove i suoi sodali di Hezbollah hanno avuto la meglio sulle forze di terra israeliane; il tutto con sullo sfondo le ambizioni nucleari dell'Iran. Il re Abdullah II di Giordania era stato tra i primi a mettere in guardia dall'ascesa dell'influenza sciita, e soprattutto dalla mezzaluna sciita che dall'Iran giunge in Libano via Iraq e Siria. Riyad ammonì inoltre che un governo iracheno egemonizzato dalla Shi‘a avrebbe utilizzato le sue truppe contro la popolazione sunnita; infatti, l'Arabia Saudita sostiene l'instaurazione d'un governo d'unità nazionale a Baghdad. Il "New York Times" riportava inoltre queste parole, rivolte dal sovrano saudita a Cheney: «Se vi doveste ritirare e cominciasse una pulizia etnica contro i sunniti, ci sentiremmo trascinati in guerra».

Sia i funzionari sauditi sia la Casa Bianca hanno sconfessato questo resoconto. «Questa non è la politica del governo saudita», ha dichiarato ai cronisti l'addetto stampa della Casa Bianca, Tony Snow; «i Sauditi hanno chiarito di condividere i nostri stessi obiettivi, cioè la nascita d'un Iraq autosufficiente che possa sostenersi, governarsi e difendersi da solo, che riconoscerà e proteggerà i diritti d'ognuno a prescindere dalla sua setta o religione. E, oltretutto, condividono anche le nostre preoccupazioni per il ruolo che gl’Iraniani stanno giocando nella regione».
Invece Kenneth Pollack, di Brookings Institution, ha sostenuto alla CNN che l'Arabia Saudita è fortemente motivata a prendere parte ad una eventuale guerra civile: «I Sauditi temono terribilmente che una guerra civile potrebbe allargarsi anche al loro paese. Ma sono inoltre terrorizzati dalla prospettiva che gl'Iraniani, spalleggiando le varie milizie sciite in Iraq, ne possano trarre grande vantaggio».

Un ruolo saudita più muscolare per contrastare l'Iran?

Scrivendo sul "Washington Post" il 29 novembre, poco dopo il viaggio di Cheney, Nawaf Obaid, alto consigliere alla sicurezza nazionale dell'ambasciatore saudita negli USA, principe Turki al-Faisal, citava una lettera del febbraio 2003 indirizzata dal ministro degli esteri saudita, principe Saud al-Faisal, al presidente George Bush, per metterlo in guardia dal «risolvere un problema creandone altri cinque», con la deposizione forzata di Saddam Hussein; nell'articolo si faceva inoltre riferimento ad una recente dichiarazione dell'ambasciatore al-Faisal, secondo cui «dal momento che gli Americani sono andati in Iraq senza invito, ora non dovrebbero neppure lasciarlo senza essere stati invitati a farlo». Obaid argomentava che una tale visione delle cose si basa sulle richieste giunte alla dirigenza saudita da parte d'importanti figure tribali e religiose irachene, ma anche dai governanti d'Egitto, Giordania e d'altri paesi arabi e musulmani (sunniti), affinché il Regno fornisca armi e sostegno finanziario agl'Iracheni sunniti ed assuma un ruolo più muscolare nella regione: «Essendo il motore economico del Vicino Oriente, il luogo di nascita dell'Islam e la paladina de facto della comunità sunnita mondiale (che comprende l'85% di tutti i musulmani), l'Arabia Saudita ha sia i mezzi sia la responsabilità religiosa per intervenire». Tra le opzioni prese in considerazione c'è l'istituzione di nuove brigate sunnite e la fornitura ai comandanti militari sunniti (in primo luogo ex baathisti membri del disciolto corpo ufficiali iracheno, la spina dorsale dell'insorgenza) di denaro, armi e appoggio logistico - cioè quello che l'Iran sta dando ai gruppi armati sciiti già da anni. L'Arabia Saudita potrebbe strozzare i finanziamenti iraniani alle milizie incrementando la produzione petrolifera e dimezzando il prezzo del greggio, cosa che avrebbe effetti devastanti sull'Iran e sulla sua capacità di finanziare le milizie sciite in Iraq e altrove. (Nel 1990 il Kuwait, inondando di petrolio il mercato - su richiesta dell'Occidente - e così soffocando le entrate irachene, spinse Saddam Hussein ad invaderlo. Il Kuwait e l'Arabia Saudita pagarono un duro scotto, sul piano finanziario, politico e non solo. Questa volta, con gli USA impantanati in Iraq, il giochetto potrebbe risultare fatale. L'opinione pubblica statunitense non ha digerito la guerra irachena, e numerosi generali hanno affermato che la US Army è quasi disfatta). «Rimanere ai margini sarebbe inaccettabile per l'Arabia Saudita», proseguiva Obaid; «chiudere un occhio sul massacro degl'Iracheni sunniti significherebbe abbandonare i princìpi su cui nacque il Regno, minerebbe la credibilità dell'Arabia Saudita nel mondo sunnita e costituirebbe una capitolazione di fronte al militarismo iraniano nella regione. Senza dubbio il coinvolgimento saudita in Iraq comporta grandi rischi: può scatenare una guerra regionale. Così sia. Le conseguenze dell'inazione sarebbero ben peggiori». Secondo la migliore tradizione saudita, il Regno ha sconfessato le dichiarazioni di Obaid sul "Washington Post" e l'ha esonerato. In breve volgere di tempo anche l'ambasciatore Turki al-Faisal, ex capo della sicurezza nel suo paese, è rimpatriato dopo appena quindici mesi di permanenza, quando il suo predecessore aveva invece servito per vent'anni. L'Ambasciatore non era presente a Riyad durante la visita di Cheney. Mantenere il basso profilo e negare l'evidenza rientra nella comune strategia saudita. Gli esponenti degli oltre 7.000 prìncipi che regnano sull'Arabia Saudita per anzianità e consenso potranno pur avere qualche divergenza politica, specialmente tra la vecchia guardia conservatrice ed attempata ed i prìncipi più giovani, ma la dinastia è attualmente nei pasticci e sta affrontando la più grande sfida di sempre nella sua storia.

Altre mosse

In generale, dopo l'11 settembre e le tirate anti-saudite negli USA, il Regno s'è guardato attorno in cerca d'altri approdi. Le relazioni saudite con Pechino, cominciate nel 1989 con l'acquisto dei missili CSS-2, si sono sviluppate gradualmente grazie all'identificazione della Cina quale futuro grande mercato per il petrolio saudita. Anche i rapporti con Mosca sono migliorati. Re Abdullah ha inoltre visitato Nuova Delhi, cosa mai successa prima. Sia Tehran sia Riyad hanno cercato di migliorare i rapporti, ma le ricadute del pantano iracheno provocato dall'invasione statunitense hanno complicato di molto la situazione, tanto che non si può più cavarsela alla meno peggio con i vecchi metodi della diplomazia "della pazienza" o "del libretto degli assegni".

Riconoscendo l'importanza regionale della Turchia, il sovrano saudita Abdullah ha visitato Ankara a fine novembre, prima visita in quattro decenni. La Turchia, dotata d'una costituzione laica e popolata per lo più da sunniti (mentre il 15% sono sciiti alauiti), è a sua volta profondamente preoccupata dall'ipotetica disgregazione dell'Iraq e dal crescente profilo dell'Iran, suo nemico storico. Mentre confronta le proprie idee con Giordania, Siria, Iraq, Qatar, Bahrein, Pakistan e Russia, Ankara condivide con Tehran la preoccupazione per un'indipendenza dell'Iraq settentrionale a maggioranza curda. Ankara e Washington, pur alleati nella NATO, hanno visioni piuttosto divergenti sul Vicino Oriente. All'inizio di dicembre il primo ministro turco Recep Erdogan ha espresso la propria opposizione al dispiegamento di truppe statunitensi nell'Iraq settentrionale: «Personalmente, trovo sbagliato il posizionamento di truppe nordamericane nel settentrione dell'Iraq, dal momento che non v'è alcun problema legato alla sicurezza in quella zona. Gli USA dovrebbero mantenere i loro soldati nelle aree problematiche del paese». Queste dichiarazioni sono state rilasciate ai giornalisti mentre si dirigeva a Tehran. Sia Ankara sia Tehran hanno relazioni problematiche con le loro minoranze curde. Ankara, con gran disappunto degli USA, ha ricevuto anche una delegazione di Hamas. Erdogan ha usato termini molti forti ed appassionati per condannare gli attacchi israeliani contro il Libano. Di lì a poco avrebbe portato il suo paese, per la prima volta nella storia, ad un colloquio con la Lega Araba, al Cairo.

La situazione dell'Iran ricorda la favola del cammello e dell'arabo: eccetto le zampe anteriori, è fermamente piantato nella tenda irachena, tramite i partiti sciiti SCIRI e Dawa ed anche alcune fazioni interne all'Esercito del Mahdi. Hezbollah, finanziato, addestrato e armato da Tehran, durante gli scontri terrestri dell'ultima estate nel Libano meridionale ha inflitto una sanguinosa sconfitta ai rinomati reparti d'assalto israeliani, sfatando per sempre la cosiddetta "aura d'invincibilità" che Israele si costruì sconfiggendo gli Arabi nella Guerra dei Sei Giorni (1967), e che in seguito rafforzò con la minaccia nucleare e coll'incondizionato sostegno occidentale (ed in particolare statunitense). Israele, infatti, possiede centinaia di bombe nucleari ed ha i mezzi necessari per lanciarle. Il primo ministro sionista Ehud Olmert, sebbene inavvertitamente, l'ha anche ammesso in pubblico. Anche il nuovo segretario alla difesa statunitense, Robert Gates, durante la sua audizione al Congresso ha fatto riferimento alle bombe israeliane. Anche per questo l'opposizione israeliana (e statunitense) all'arricchimento dell'uranio, persino a scopo pacifico, da parte dell'Iran è al limite del fanatismo. Stando alla propaganda di Tel Aviv, è solo questione di tempo e l'Iran svilupperà la bomba; gli USA ritengono che siano necessari tra i cinque ed i dieci anni.

Tehran sta nella bambagia. I dirigenti iraniani gongolano di fronte alla trappola irachena in cui sono caduti gli USA. Mohsen Rezai, segretario generale del potente Consiglio degli Esperti che coadiuva la guida suprema ayatollah Khamenei, s'è recentemente vantato alla televisione pubblica: «Il genere di servizio fattoci dai Nordamericani, pur con tutto il loro odio, non ha precedenti: nessuna superpotenza aveva mai fatto qualcosa di simile. Gli USA hanno distrutto tutti i nostri nemici nella regione. Hanno distrutto i Talebani. Hanno distrutto Saddam Hussein. (...) Gli Statunitensi sono così piantati in Iraq e in Afghanistan che, se anche dovessero riuscire a saltarne fuori sani e salvi, avrebbero davvero di che ringraziare Dio. Gli USA si presentano a noi più come un'opportunità che come una minaccia - non certo perché essi lo vogliano, ma perché hanno sbagliato i calcoli. Molti sono gli errori che hanno commessi».

Gli USA e l'Occidente hanno persuaso la Russia e la Cina a varare sanzioni, sia pur blande, contro l'Iran, tramite la risoluzione dell'ONU del 23 dicembre rigettata da Tehran. Ma sono state proprio le cinque potenze nucleari riconosciute, aderenti al Trattato di non proliferazione nucleare (TnPN) e dotate del diritto di veto al Consiglio di Sicurezza, che hanno ucciso il trattato: infatti, esse non si sono mai mosse verso il disarmo - il primo degli obiettivi del TnPN - ed hanno costantemente violato altri suoi articoli, in spregio delle risoluzioni adottate dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite e dell'opinione espressa dalla Corte Internazionale dell'Aja. Addirittura, hanno preso a costruire una nuova generazione di bombe per uso "convenzionale". La bomba nucleare nordcoreana prova semplicemente il disordine in cui versa la materia regolata dal TnPN, nonché l'irrilevanza di quest'ultimo. L'anziano statista nordamericano Jimmy Carter ha, con grande franchezza, denunciato le responsabilità degli USA per la situazione attuale. Ormai anche i membri del Consiglio del Golfo, o altri paesi arabi come Egitto e Algeria, vogliono seguire l'esempio dell'Iran ed imbarcarsi nel ciclo d'arricchimento dell'uranio. Le loro paure di lunga data e l’ormai pluridecennale opposizione all'atomica israeliana - sviluppata con l'aiuto franco-britannico e l'acquiescenza (se non il supporto) statunitense – si sono sempre scontrate col veto nordamericano, sia a New York sia a Vienna. I bulli dominano il mondo, in questo pianeta sempre più senza legge.
La lunga e sanguinosa guerra tra Iraq e Iran (1980-‘88) fu, in ultima analisi, un conflitto tra Sunna e Shi'a, nel corso del quale Saddam Hussein venne incoraggiato, sostenuto e finanziato da tutti i governi arabi sunniti (eccetto quello siriano) - in particolare da Arabia Saudita, Kuwait, Emirati - e dalle potenze occidentali, allo scopo di neutralizzare la grandiosa ascesa della potenza sciita e l'istanza di rinnovamento del mondo islamico rappresentata dalla rivoluzione khomeinista del 1979. Milioni di musulmani, iracheni ed iraniani, furono uccisi nel corso di quella guerra. Ma se paragonata con quel conflitto, la prossima conflagrazione intermusulmana - che potrebbe essere incoraggiata da un Occidente disperato - rappresenterebbe un vero e proprio olocausto per la regione e per l'Islam. Washington potrebbe pure riuscirci, ma il risultato sarebbe una catastrofe per il mondo intero - in primis per l'Occidente, fortemente dipendente dal punto di vista energetico.

La frattura sciita-sunnita è troppo profondamente marcata e radicata nel quotidiano in molti paesi musulmani. In numerosi Stati di tradizione sunnita gli sciiti vanno a costituire una classe subalterna; ma dopo il 1979, ispirati ed aiutati dall'Iran, hanno cominciato a guadagnare terreno in Libano e non solo. La parte occidentale dell'Arabia Saudita, molto ricca di petrolio e adiacente all'Iraq meridionale, è al pari di quest'ultimo popolata da sciiti, finora vissuti in un pesante clima di repressione. Il conflitto sciita-sunnita non può essere fermato da nessuna fatwa. Una è stata emessa lo scorso ottobre a la Mecca: ventinove chierici iracheni, appartenenti ad entrambe le confessioni, radunati durante il Ramadan per iniziativa dell'Organizzazione della Conferenza Islamica (OCI), hanno pubblicato un Documento Makkah in dieci punti. Ricorrendo alla citazione di versetti del Corano e a detti tradizionali del Profeta Mohammed, la fatwa afferma che «è proibito versare sangue musulmano». Invita inoltre a salvaguardare i luoghi santi delle due comunità, difendendo l'unità e l'integrità territoriale dell'Iraq; infine, richiede il rilascio di «tutti i detenuti innocenti».

Tuttavia, ancora la maggior parte degli esperti, inclusi quelli musulmani, ostentano pessimismo circa l'efficacia di simili proclami. Secondo Abdel Bari Atwan, direttore in capo del giornale arabo londinese "Al-Quds al-Arabi", gli appelli delle guide religiose all'interruzione degli spargimenti di sangue sono destinati a rimanere inascoltati. Lo si può verificare nei quotidiani bagni di sangue che si verificano in Iraq, nel mondo islamico, e che si sono verificati per tutta la loro storia.

Storia petrolifera del Vicino Oriente

Lo studio dell'imperialismo occidentale dalla fine del XIX secolo ad oggi mostrerà l'importanza del petrolio e delle guerre condotte per acquisire e proteggere questi pozzi di potere. L'accordo segreto Sykes-Picot (1916) tra Inghilterra e Francia spartiva i resti dell'Impero Ottomano nel Vicino Oriente: i Britannici, astutamente, s'accaparrarono i territori produttori di petrolio e giunsero persino a creare uno Stato artificiale come il Kuwait. Nel 1945, prima che una declinante Inghilterra fosse spogliata delle sue colonie, gli USA siglarono un memorandum con i Britannici: «La nostra politica petrolifera, in relazione al Regno Unito, è informata al mutuo riconoscimento della grande comunanza d'interessi, ed incentrata sul controllo, almeno per il momento, della gran parte delle risorse petrolifere disponibili al mondo». Il governo inglese notava come il Vicino Oriente fosse «un tesoro inestimabile per qualsiasi potenza interessata all'influenza ed al dominio mondiale», dacché il controllo delle riserve petrolifere globali corrispondeva a controllare l'economia mondiale. Dopo il declino del Regno Unito e della Francia, sono intervenuti gli USA in qualità di potenza neocoloniale dominante in quella ed in altre regioni.

«Un tassello fondamentale della politica degli Stati Uniti nel Vicino Oriente dev'essere l'incondizionato sostegno all'integrità territoriale ed all'indipendenza politica dell'Arabia Saudita». I suoi obiettivi erano chiariti in un documento interno del 1953: «La politica statunitense consiste nel mantenere le fonti petrolifere vicino-orientali in mano nordamericana» (cit. da: Mohammed Heikal, Cutting the lion's tail). Nel 1958, un documento segreto britannico descriveva i principali obiettivi della politica occidentale nel Vicino Oriente: «1. Assicurare all'Inghilterra ed agli altri paesi occidentali il libero accesso al petrolio prodotto negli Stati affacciati sul Golfo; 2. assicurare la continua disponibilità di tale petrolio a condizioni favorevoli e per le maggiori entrate del Kuwait; 3. sbarrare la strada alla diffusione di comunismo e pseudo-comunismo nell'area, e conseguentemente difenderla dal marchio del nazionalismo arabo».

Chomsky sostiene che le compagnie energetiche occidentali hanno prosperato grazie a «profitti eccedenti i sogni più avidi», con «il Vicino Oriente quale loro principale vacca da mungere». Si trattava di una parte della grande strategia statunitense, fondata sul controllo di quello che il Dipartimento di Stato, sessant'anni fa, descrisse come «la stupenda fonte di potere strategico» del petrolio vicino-orientale, e sull'immenso beneficio derivante da questo «tesoro materiale» senza precedenti? Gli USA hanno sostanzialmente mantenuto questo controllo - ma gli straordinari successi conseguiti sono derivati dal superamento d'innumerevoli barriere: quelle che, ovunque nel mondo, i documenti interni statunitensi definiscono «nazionalismo radicale»; ma che significa solo desiderio d'indipendenza.

Il collegamento tra USA, famiglia ibn Saud e wahhabismo

Lo Stato saudita, proclamato nel 1932 da Abdul Aziz, fu di fatto il terzo reame degli al-Saud. Il primo "Stato" saudita nacque nel 1744, ad opera del primo grande esponente della famiglia, Muhammad ibn Saud, che concluse la storica alleanza col riformatore religioso Muhammad ibn Abdul Wahhab (fondatore del "wahhabismo"). Dopo la sconfitta patita nel 1818 ad opera delle forze egiziane, il Regno risorse nel 1822 per affermarsi quale potenza dominante nell'Arabia Centrale. Delle quattordici successioni interne alla dinastia al-Saud tra il 1744 ed il 1891, appena tre avvennero pacificamente. Oggigiorno, il trasferimento del potere è più tranquillo. Abdul Aziz fu incoraggiato dagl'Inglesi ad assumere il controllo della Mecca e di Medina, poiché lo sceriffo Hussain, signore della Mecca e bisnonno di re Abdullah II del Regno hashemita di Giordania, s'era mostrato poco docile e malleabile. Ricordiamo che lo sceriffo Hussain ed i suoi figli, gli emiri Faisal e Abdullah, avevano guidato la rivolta araba descritta nella pellicola Lawrence d'Arabia, aiutando le forze britanniche del gen. Allenby a sconfiggere l'esercito ottomano nella regione: bella gratitudine da parte degl'Inglesi! Il problema è che, quando Kemal Atatürk abolì il Califfato, lo sceriffo Hussain si candidò subito ad assumerne il manto regale.

Abdul Aziz prese molte mogli, al fine di cooptare questa o quella tribù, o di ricucire quando necessario buoni rapporti; essendo però un musulmano profondamente devoto, non ebbe mai più di quattro spose contemporaneamente. Il patto tra la setta wahhabita e la casa di Saud fu sancita da numerosi matrimoni. I legami tra la famiglia saudita ed i seguaci wahhabiti non si sono sciolti ancora oggi. Il ministro saudita della religione è sempre un membro della famiglia al-Sheikh, che discende da Ibn Abdul Wahhab. L'influsso wahhabita sulle moschee è indubbio, dato che la setta dispone d'una propria polizia religiosa. Inoltre, essa ha esteso la propria portata attraverso la rete di madrasse e moschee sorte in tutto il mondo musulmano.

Il wahhabismo è estremamente rigido ed austero. Non tollera molto il dialogo ed ancor meno l'interpretazione; disapprova l'idolatria, i monumenti funebri e la venerazione di statue o immagini artistiche. I seguaci preferiscono definirsi muwahhidun, cioè "unitari". I wahhabiti proibiscono il fumo, il taglio della barba, il linguaggio volgare ed i rosari, nonché molti diritti femminili. Considerano tutti coloro che non praticano la loro forma di Islam, inclusi gli altri musulmani, alla stregua di pagani e nemici.

Il legame wahhabita-saudita era semplice quando il Regno era povero. Ho visto alcuni vecchi archivi degli anni '20 e '30, conservati al Ministero degli Affari Esteri di Nuova Delhi e risalenti all'era pre-petrolifera, quando insignificanti nababbi musulmani dell'India, da Pataudi, Loharu e Chhatari, versavano piccole somme alle principali cariche di Gedda, Mecca, Medina e Riyad. Le entrate derivanti dagli annuali pellegrinaggi del Hajj costituivano forse la maggior risorsa per i cittadini ed i governanti del Regno. Alcuni arabi provenienti dai regni del Golfo lavoravano come scaricatori di porto a Mumbai, ed erano coinvolti nel contrabbando di oro in India. Sono poi divenuti multimilionari col petrolio ed il commercio.

L'Arabia Saudita è un grande paese: occupa un'area di 2,14 milioni di chilometri quadrati. La sua popolazione s'avvicina ai 22 milioni di persone, con un tasso di crescita del 3,49% ed un'aspettativa di vita pari a 71 anni. Più del 50% della popolazione ha meno di vent'anni e l'80% vive in centri urbani, consumando quantità colossali d'energia in aria condizionata. Non è più una nazione beduina. Il 75% degli adulti sono alfabetizzati, ma l'antiquato sistema educativo ha poca pertinenza col mercato del lavoro. Quasi il 30% della forza lavoro è d'origine straniera. Con la recente crescita del prezzo del petrolio, la sua situazione finanziaria è migliorata rispetto a qualche anno fa, quando aveva il maggior indebitamento del Golfo: 171 miliardi di dollari di debito interno e 35 miliardi di credito dall'estero, pari al 107% del PIL.

L'antropologo saudita Mai Yamani nel 2000 sondò le opinioni, le speranze e le paure dei cittadini compresi tra i 15 ed i 30 anni: scoprì così che il tema dell'identità «finiva sempre più col dominare e permeare l'intero studio». Pur rimanendo ben radicata nella religione, nella cultura e nelle tradizioni nazionali, la maggior parte dei giovani aveva risentito della rapida trasformazione avvenuta intorno a loro, e metteva in questione diversi aspetti dello status quo. Si riscontrava un'identità di vedute circa «i difetti percepiti dello Stato» ed il desiderio della nuova generazione «di trovare spazio nella società saudita, per sviluppare i propri atteggiamenti e le opinioni personali senza la prepotente presenza dello Stato e degli ulema». Il quadro finale è quello d'un progresso discontinuo, con l'emergere di problemi complessi.
Gli Arabi sauditi, come molti altri, hanno risentito delle importazioni occidentali, che hanno trovato molti ardenti sostenitori della modernizzazione buttarsi a capofitto nei problemi dell'identità e dell'autenticità, generando così una dura reazione in grado di rafforzare gli elementi conservativi che dominano il Regno. «Il problema saudita consiste nel trovare un giusto bilanciamento», ha raccontato M. H. Ansari, ex ambasciatore indiano a Riyad, «e si tratta d'un problema reale, aggravato dal desiderio di proteggere i privilegi della famiglia reale e la loro versione delle tradizioni islamiche. In un sistema monarchico la sicurezza nazionale è sinonimo di saldezza del regime e, per la gran parte del secolo scorso, la continuità e la stabilità data dalla famiglia al-Saud fu vista benevolmente, in patria dall'opinione pubblica ed all'estero da vicini e amici. La monarchia saudita resistette all'attacco del nazionalismo e del radicalismo arabo ed aiutò la crociata anti-comunista in Afghanistan, Nicaragua, Etiopia, ecc.; inoltre, sfruttò la sua enorme influenza in seno all'OPEC per mantenere produzione e prezzo del greggio ad un livello accettabile per il mondo industrialmente sviluppato. Infine, costituì uno dei più grandi mercati per la produzione bellica del mondo occidentale, e principalmente degli Stati Uniti».

In Arabia Saudita il petrolio fu scoperto nel 1938 dalla Standard Oil of California, la quale ottenne da Abdul Aziz una concessione cinquantennale in cambio d'un pagamento immediato di 30.000 monete d'oro: senza dubbio uno dei più grandi affari della storia! Quando la sbalorditiva estensione dei giacimenti fu ormai evidente, intervennero anche altre compagnie, come Exxon, Texaco e Mobil, per costituire il potente consorzio Aramco.

Da quel momento venne a crearsi il curioso intreccio tra gli USA, la scandalosamente ricca classe dirigente saudita e, per proprietà transitiva, i puritani wahhabiti: in cambio della sicurezza della dinastia, le ricchezze e le fonti di reddito della penisola sono state cedute allo sfruttamento dell'Occidente, ed in primis agli USA. Tale intreccio ha superato la prova del tempo: ancora oggi Washington sta facendo l'impossibile per conservare quel regime feudale dalle pratiche tipicamente medievali. Il regime controlla la più grande "impresa familiare" al mondo, senza alcun mandato popolare o responsabilità verso la cittadinanza.
L'alleanza tra gli USA e la famiglia al-Saud fu consacrata dal presidente Franklin Roosevelt, che nel 1945 incontrò il Sovrano saudita a bordo d'una nave da guerra ed ebbe occasione di dichiarare: «Con questo riconosco che la difesa dell'Arabia Saudita è fondamentale per la difesa degli Stati Uniti». Jimmy Carter, che in tempi recenti ha assunto atteggiamenti da santo, nel 1980 s'esprimeva ancor più vigorosamente: «La nostra posizione è assolutamente chiara. Il tentativo di conquistare il controllo del Golfo Persico, da qualunque potenza estera venga compiuto, sarà considerato un attentato agl'interessi vitali degli Stati Uniti».
Washington ha onorato quest'impegno con alcuni trattati militari volti alla salvaguardia del Vicino Oriente. A parte NATO e CENTO, le basi militari statunitensi si distendono dall'Africa Orientale all'Oceano Indiano, passando per il Golfo, in difesa del petrolio vicino-orientale. Inoltre sono stati istituiti la Forza di Dispiegamento Rapido, il Comando Centrale e la V Flotta, che oggi ha base nel Bahrein. La Guerra del Golfo del 1991 portò ad una massiccia espansione della presenza militare statunitense nella regione: le truppe nordamericane hanno messo piede anche sul sacro suolo saudita, provocando grande angoscia e profondo risentimento tra i musulmani sauditi più conservatori, Osama bin Laden in testa. Le truppe statunitensi si sono mosse di là solo dopo l'invasione dell'Iraq nel 2003.

Il massiccio acquisto d'armi da parte saudita

Tra il 1990 ed il 2004 l'Arabia Saudita ha speso in armamenti l'enorme cifra di 268,6 miliardi di dollari; gli Emirati Arabi Uniti, che contano appena 2,6 milioni d'abitanti, hanno speso 38,6 miliardi. L'arsenale saudita comprende oltre 1.015 carri armati (tra cui 315 modernissimi M1A2s), più di 5.000 APC/AFV, oltre a 2.000 lanciamissili anticarro, 340 e passa velivoli da combattimento d'alta qualità (inclusi F15S/C/Ds e Tornado, senza contare i 48 Typhoons - noti anche come Eurofighter - che saranno consegnati nel 2008). Ciliegina sulla torta, i Sauditi possiedono anche 228 elicotteri, 160 velivoli da addestramento e collegamento e 51 aerei da trasporto. La marina saudita può contare su 27 grandi vascelli da combattimento, incluse fregate e corvette lanciamissili.
Il Kuwait (1,1 milioni d'abitanti) ha speso 73,1 miliardi di dollari, ma, come scrive il dr. Abbas Bakhtiar (consulente ed ex professore associato all'Università del Nord, in Norvegia), «quando il 2 agosto 1990 gl'Iracheni passarono il confine, i generali kuwaitiani usarono i loro telefonini per radunare tutti gli alti ufficiali militari in un convoglio diretto verso l'Arabia Saudita. I soli soldati che inscenarono una qualche resistenza furono i cadetti, che non erano stati avvertiti». Ho udito racconti analoghi quando servivo ad Amman (1989-1992). Nel 1979, allorché militanti islamici occuparono la sacra moschea della Mecca, dovette intervenire un reparto d'assalto francese per farli sloggiare.
Questi tre paesi (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Kuwait) messi assieme hanno speso, in quattordici anni, oltre 380 miliardi di dollari. Nello stesso periodo, la spesa militare iraniana è ammontata a 49,5 miliardi e quella dell'India (che ha oltre un miliardo d'abitanti e controversie di confine con Pakistan e Cina) a 156 miliardi.
Anthony H. Cordesman e Arleigh A. Burke, del Center for Strategic and International Studies (CSIS), nel 2002 scrissero una relazione sui problemi della sicurezza saudita, da cui riportiamo il seguente brano: «Non dovrebbero più esserci altri ingenti invii di armamenti dagli USA o dall'Europa, simili a quelli avvenuti durante la Guerra del Golfo, o un altro acquisto stile "al-Yamama". A meno d'una grande guerra futura, gli acquisti dovrebbero essere fatti e giustificati caso per caso, andrebbero messi al bando il baratto col petrolio e tutti gli accordi bilanciati soggetti ad un resoconto pubblico annuale, con contabile e revisore indipendenti. Inoltre l'Arabia Saudita deve compiere il massimo sforzo possibile per eliminare gli sprechi finanziari».
Nel dicembre 2005 “The Guardian” rese nota la firma d'un contratto multimiliardario di vendita dei Typhoons, o Euro-fighters. La cosa interessante è che la vendita veniva giustificata con la minaccia del terrorismo globale. Il Ministero della Difesa britannico dichiarò che l'obiettivo fondamentale dei due governi era quello di garantire la sicurezza nazionale e «combattere il terrorismo globale».
Nel 2005, dei 133,5 miliardi di dollari guadagnati con la vendita di petrolio, l'Arabia Saudita ne spese 38,5 per la difesa. Buona parte dei 57,1 miliardi di sovrappiù furono destinati al pagamento dell'enorme debito contratto dall'Arabia Saudita con l'Occidente in occasione della prima Guerra del Golfo (1991). I media riferiscono che i prìncipi assumono personalmente commissioni d'armamenti ed accordi commerciali, e che il loro denaro - stimato complessivamente in un trilione di dollari - è per lo più investito in Occidente. Secondo alcune stime, il 40% delle entrate petrolifere saudite andrebbe a finire direttamente nelle tasche della famiglia regnante. Tariq Alì parlava a tale proposito di "saccheggio istituzionalizzato" dei fondi pubblici.
L'Ufficio Grandi Frodi britannico, prima d'essere fermato, ha scoperto laute bustarelle pagate da alcuni prìncipi sauditi, intermediari negli affari di fornitura bellica intercorsi tra i due paesi, al primo ministro Tony Blair ed al suo guardasigilli Goldsmith; esse riguarderebbero un verdetto, emesso dal governo, sulla legalità dell'invasione anglosassone dell'Iraq. I Sauditi temevano la cancellazione del multimiliardario contratto "al-Yamama". Transparency International, che cataloga i casi di corruzione nei paesi poveri, spesso si dimentica dei donatori e ricevitori di grandi tangenti.
È vero che, nel 1990, gli Statunitensi giocarono sulle fotografie aree della disposizione delle truppe irachene per convincere i Sauditi che Saddam Hussein progettava d'attaccare il Regno, ma forse fu la latente sensazione d'insicurezza che pervade l'Arabia Saudita a convincerla ad accettare la presenza dei Nordamericani, con conseguenze nefaste permanenti per la regione. Successivamente, gli USA ignorarono gli sforzi sauditi per garantire una pacifica ritirata delle truppe irachene dal Kuwait. Gli Americani erano venuti per restarci a lungo.
Governi, banche e compagnie petrolifere occidentali si sono abituati a giocare con la ricchezza petrolifera araba, che hanno chiamato "riciclaggio" e fatto pagare, mentre il riciclaggio dei loro stessi fondi diventa "investimento". Un coro di proteste e lamenti s'è alzato dall'Occidente allorché la Russia, risorta sotto Vladimir Putin, ha deciso di controllare le proprie risorse petrolifere tramite Gazprom, che ha acquisito da Shell, Mitsui e Mitsubishi il 50% più un'azione del progetto gasifero Sakhalin-2 (il cui valore è stimato in 20 miliardi di dollari); forte dei suoi petrodollari, ora Mosca vuole investire anche nella fase distributiva in Europa Occidentale e forse negli USA (ai Cinesi è stato impedito di comprare la UNOCAL - cosa che avrebbero fatto con un trilione di dollari - e la compagnia di Dubai che cura la spedizione verso i porti statunitensi). Analogamente, quando la Russia ha deciso d'adottare il prezzo di mercato per il gas venduto a Ucraina e Georgia - che si sono fatte in quattro per minacciare gl'interessi russi - i liberoscambisti d'Occidente hanno intonato in coro: «Non farlo!». E perché mai?! Oppure, se ad un qualche oligarca russo filooccidentale viene richiesto di pagare le tasse, i media occidentali si sciolgono in filippiche contro la Russia, le sue carenze democratiche ed il mancato rispetto dei diritti umani. Perché?! Non si tratta d'ipocrisia, ma di puro imbroglio. La Russia rifiuta di diventare come gli USA, che non sono una repubblica del popolo, ma una grande multinazionale, dove il complesso militare-industriale dominante è avviato verso la sua bancarotta Enron-izzante.
Nel contempo, in Arabia Saudita (ed in molti altri regni del Golfo) paura e segretezza permeano tutti gli aspetti della struttura statuale. Non vi sono partiti politici, sindacati, tutele dei lavoratori, difesa dei diritti degl'immigrati, gruppi femminili, né altre organizzazioni democratiche. Vi sono poche associazioni od organizzazioni legali che assicurano un processo giudiziario equo ed indipendente. Così, gli oppositori politici e religiosi possono essere detenuti indefinitamente senza processo, oppure imprigionati in seguito a giudizi grossolanamente pilotati. La tortura è endemica ed i lavoratori stranieri, in particolare quelli non musulmani, sono i più a rischio. Anche quando sono stati suoi cittadini a subire la tortura, il governo britannico è rimasto zitto, per amore del profitto derivante dal commercio di petrolio ed armamenti, nonché dalle tangenti (che viaggiano anche attraverso l'Atlantico per raggiungere gli USA, come apertamente dichiarato dall'ultimo Ambasciatore saudita).

Minacce interne

In questo momento l’Arabia Saudita è minacciata dall’interno, come dimostrano i numerosi attentati di al-Qaeda, che gode delle simpatie di vasti segmenti d’una popolazione intimamente conservatrice. Tuttavia, i gihadisti non sono l'unica minaccia: all’interno della popolazione in genere sorgono altre cause di preoccupazione. Nel 1969, 1972 e 1979 diversi gruppi nazionali si sono ribellati alla casata dei Saud. Solo le tribù di provata fedeltà hanno accesso alla carriera militare. Fino alla fine degli anni ‘80 il Pakistan forniva un contingente di 11.000-15.000 uomini, destinati alla protezione del governo saudita. Dopo che le truppe statunitensi si sono spostate dall’Arabia Saudita ad altri paesi, come il Qatar, i regnanti - secondo quanto riferito dal “Financial Times” - sono tornati a rivolgersi al Pakistan per ricevere alcuni soldati. La cooperazione militare tra i due paesi è vasta e di vecchia data. La manutenzione degli aeroplani e degli altri equipaggiamenti militari è per lo più affidata a personale del Pakistan, paese con cui il Regno ha strettissime relazioni difensive. Molte sono le testimonianze d’una loro cooperazione nel campo della tecnologia atomica militare. Se il metallurgista pakistano sunnita A. Q. Khan ha potuto spacciare competenze nucleari di tipo bellico alla Libia ed all’Iran sciita, ci si chiede perché non possa averlo fatto anche con l’Arabia Saudita. I media tedeschi pullulano di analisi in tal senso.
Volontari e denaro sauditi sono dietro agli attacchi che gli Statunitensi subiscono dall’Iraq al Nordafrica. Cittadini sauditi sono attivi nei ranghi della resistenza irachena, coinvolti in operazioni condotte a danno delle forze coalizzate filostatunitensi, delle cenciose forze di sicurezza irachene e della maggioranza sciita nel paese. La presenza di Sauditi in Iraq preoccupa profondamente non solo Baghdad e Washington, ma anche l’Arabia Saudita stessa ed i piccoli Stati del Golfo Persico, che vedono così una possibile futura minaccia alla loro sicurezza. Il ritorno in patria dei gihadisti sauditi rivitalizzerebbe l’opposizione nel Regno. L’esperienza maturata in Iraq potrà alterare il panorama insurrezionale in Arabia Saudita, grazie all’introduzione di nuove tecniche, metodi ed operazioni. Ma i Sauditi, dopo ogni violenza siglata al-Qaeda, ripetono regolarmente che quella sarà l’ultima.
Ebbene sì: i gihadisti sauditi (o d’altri paesi arabi del Golfo Persico) sono molto richiesti in Iraq, poiché portano con sé grosse somme di denaro contante. Reclutare sauditi agiati è un buon metodo per finanziare le operazioni terroristiche. Un rapporto confidenziale statunitense identificava come sauditi oltre il 50% dei ribelli, mentre un forum telematico si “limita” alla cifra del 40% (ma gli USA ogni volta biasimano la Siria). Ciò che preoccupa più d’ogni altra cosa è che, di quei Sauditi fatti prigionieri ed interrogati al loro ritorno dall’Iraq, circa l’80% risultava sconosciuto ai servizi di sicurezza: ciò la dice lunga sull’efficienza dei servizi segreti sauditi! Contribuiranno in modo significativo ad ampliare la violenza e la sovversione domestica in Arabia Saudita. La guerra in Iraq e la presenza statunitense nella regione hanno polarizzato larghi segmenti della popolazione saudita.

L'alta marea dell'alleanza

Dopo il guizzo dei prezzi petroliferi nel 1973, l'afflusso di grandi ricchezze in Arabia Saudita e nella regione del Golfo ha fatto sì che la bilancia degli affari e delle credenze religiose, che prima pendeva dalla parte delle versioni progressiste dell'Islam (praticate in Egitto, Siria, Libano, Iraq ed Algeria), volgesse a favore delle rigide tendenze wahhabite dell'Arabia Saudita. Ricordo che durante le mie ambascerie al Cairo ed in Algeria, nella prima metà degli anni '60, incontravo società musulmane tolleranti e cosmopolite. Ma dopo la metà degli anni '70 le cose cambiarono: persino tra i loro diplomatici ritornarono ortodossia, velo e foulard. La ragione di questa regressione dei Musulmani verso il modo di vita wahhabita può essere rintracciata nella potenza saudita, e nell'uso ch'essa ha fatto della ricchezza petrolifera per assecondare i gihadisti.
L'alta marea di questa profana alleanza si ebbe quando negli anni '80, al fine di scacciare le forze sovietiche dall'Afghanistan, si aggregarono la maggior parte dei paesi musulmani e molte potenze cristiane occidentali, e persino la Cina. USA, Arabia Saudita e Stati del Golfo spesero tra i 6 ed i 10 miliardi di dollari per la fornitura di armi ed equipaggiamento (e molti altri per l'addestramento) a mujahidin, gihadisti, militanti e terroristi. (Alcuni di questi, in seguito, sarebbero stati trasferiti dagli USA in Albania e Kosovo: là, negli anni '90, conquistarono una nuova visibilità internazionale). Il presidente pakistano Zia-ul-Haq, reo d'aver rovesciato ed impiccato il primo ministro Zulfiqar Alì Bhutto, sino al 1979 fu considerato alla stregua d'un paria. Desiderando consolidare la propria posizione, Zia sfruttò l'opportunità per islamizzare la politica del Pakistan per tutti i giorni a venire. Oggi gli elementi conservatori e fondamentalisti dominano ogni aspetto del Pakistan e si sono infiltrati nelle sue Forze Armate, grazie all'esperienza ed alle relazioni maturate durante l'addestramento e l'organizzazione dei mujahidin, dei gihadisti e dei gruppi terroristi pakistani ed afghani; qui operò soprattutto l'Inter-Services Intelligence (ISI) coadiuvata dalla CIA e da altri servizi segreti musulmani ed occidentali. L'ISI, ch'è uno "Stato dentro lo Stato", stabilì solidi e profondi rapporti con i capi dei mujahidin e di al-Qaeda, e più tardi con quelli dei Talebani, che avrebbero mutato il corso della storia del Pakistan e della regione, instaurando fitte e longeve ramificazioni per il mondo. I Talebani furono forgiati dal Pakistan, con l'aiuto e l'aperto riconoscimento dell'Arabia Saudita e con l'incoraggiamento degli USA, al fine di pacificare l'Afghanistan dopo il caos originato dal ritiro delle truppe sovietiche. Gli Statunitensi erano interessati a che la UNOCAL potesse utilizzare il territorio afghano per costruirvi gasdotti ed oleodotti, i quali avrebbero trasportato gl'idrocarburi centroasiatici fino alle coste del Mare Arabico (e da qui al più vasto mondo) ed all'India in rapido sviluppo ed assetata d'energia.
Quadri e dirigenti di al-Qaeda e dei mujahidin arabi e musulmani addestrati in Pakistan e Afghanistan, tornando ai loro paesi del Vicino Oriente, diffusero quella cultura che oggi minaccia la regione e s'è infiltrata persino in Europa, dove sono ospitate decine di milioni di musulmani. L'Arabia Saudita ha sempre spedito, direttamente o attraverso donazioni per l'edificazione di moschee, denaro ed aiuti per la nascita di madrasse, dalle quali si diffonde l'odio verso i non musulmani (in particolare i cristiani) e gli sciiti. Il grande Jihad afghano fu un'ottima occasione per i wahhabiti. I gihadisti ed al-Qaeda, creata da Osama bin Laden, si convinsero d'aver sconfitto da soli l'Unione Sovietica, la superpotenza numero due, ed oggi sperano di poter fare lo stesso con gli USA, l'iperpotenza. Dopo la guerra del 1991, condotta per liberare il Kuwait dall'occupazione irachena, lo stanziamento di truppe statunitensi nella conservatrice Arabia Saudita ha agevolato il diffondersi dell'animosità contro Washington.

L’intreccio messo a dura prova

Questo intreccio così incongruente è sopravvissuto a numerose tensioni e turbamenti, come quando negli anni '70 l'OPEC (capeggiato dai Sauditi) quadruplicò il prezzo del petrolio a seguito dell'offensiva egiziana contro Israele (Guerra dello Yom Kippur, 1973). Washington, in quell'occasione, meditò persino di spedire le proprie truppe ad assumere il controllo dei pozzi petroliferi dell'Arabia Saudita. I rapporti tra gli USA ed il Regno furono davvero in bilico quando Osama bin Laden, già inviato dell'Arabia in Pakistan per condurvi il Jihad contro i Sovietici in Afghanistan, creata al-Qaeda mise in atto alcuni attentati contro ambasciate statunitensi nell'Africa orientale. La situazione, però, esplose in tutta la sua gravità sugli schermi televisivi del mondo intero, allorché quindici dirottatori, assunto il controllo di quattro aerei statunitensi, attaccarono i simboli della potenza nordamericana - le torri del World Trade Center ed il Pentagono - scalfendo così il mito dell'intangibilità del suolo nazionale degli USA. Ma persino in quell'occasione, in virtù del profondo coinvolgimento degl'interessi energetici statunitensi - rappresentati dalla famiglia Bush e da buona parte della classe dirigente nordamericana - i membri della famiglia di Osama bin Laden furono clandestinamente evacuati dagli USA nel giro di poche ore dagli attacchi dell'11 settembre.
In generale, la maggior parte dei media e dei cittadini statunitensi cominciò a rilasciare furiosi e virulenti commenti ostili al Regno saudita. Dimenticavano che le galline allevate in Pakistan e Afghanistan erano tornate a casa per appollaiarsi. Anziché imparare la lezione dell'11 settembre, l'amministrazione Bush, plasmata dalla razzista filosofia straussiana dei neo-cons, dapprima bombardò l'Afghanistan (del resto già in macerie, proprio per colpa della rivalità USA-URSS, di cui era stato un campo di battaglia) al fine di installare basi militari in quel paese così come in Pakistan, Kirghizistan e Uzbekistan, con lo scopo apparente di combattere il terrorismo. Dopo di che, USA e Regno Unito, con l'appoggio di qualche altra nazione occidentale, invasero l'Iraq per prendere il controllo delle sue risorse petrolifere, ed in particolare della ricca regione di Baghdad (oggi, tutto ciò che gli Statunitensi controllano è la sola Green Zone). Ma gli USA hanno costruito in Iraq altre basi militari destinate ad una lunga permanenza.
Tutto ciò faceva parte d'un piano neoconservatore, battezzato "The New American Century", che, come s'è scoperto dopo il suo fallimento, era stato architettato da quei classici esperti "da salotto", la maggior parte dei quali, per inciso, erano ebrei animati fondamentalmente dal desiderio di favorire gl'interessi d'Israele. Non si crucciavano certo che le vite ed i denari statunitensi fossero spesi per rendere Israele "più sicuro e protetto", come già avvenuto nel 1991 con la guerra contro l'Iraq.
Zbigniew Brzezinski, consigliere alla sicurezza nazionale del presidente Jimmy Carter (oggi tramutatosi in un angioletto), aveva gongolato sulle pagine del "Nouvel Observator" parigino, quando rivelò come gli Statunitensi avessero sostenuto gli estremisti religiosi in Afghanistan contro il governo di sinistra proprio allo scopo d'attirarvi le truppe sovietiche ed ivi assistere alla loro sconfitta, per vendicare la propria disfatta in Vietnam. Da ciò derivò il collasso dell'Unione Sovietica. All'osservazione che con quella strategia s'era prodotto qualche "fermento" tra i musulmani, Brzezinski rispondeva: «E allora?». Allora niente... almeno finché i "musulmani in fermento" non avrebbero attaccato gli USA (11 settembre) e Londra (7 luglio), per tacere degli attentati terroristici in Spagna, a Bali (contro gli Australiani) ed ancora in altre località. L'India, che pure non faceva parte dell'asse saudita-pakistano-statunitense contro Afghanistan e URSS, ancor oggi ne patisce le conseguenze. Anche molti altri, estranei ai fatti d'allora, stanno pagando il prezzo di questo intreccio profano, e così sarà per ancora molto tempo.
Washington ha sfruttato il terrore di al-Qaeda, di cui pure non v'è traccia negli USA, per ridurre la libertà e la democrazia. Perché, se è vero che i musulmani neri non andarono in Pakistan a farsi addestrare per il Jihad afghano, essi avrebbero tuttavia molte rimostranze da fare; specialmente quelli - e sono moltissimi - rinchiusi nelle carceri statunitensi. Il Pakistan ne ha risentito profondamente. Quando Omar Sheikh fu accusato dell'omicidio del giornalista statunitense Daniel Pearl (il quale era giunto troppo vicino a scoprire il legame tra gihadisti, al-Qaeda, ISI e Pakistan), suo padre lamentò che, finché i gihadisti combattevano contro l'URSS, erano considerati degli eroi, mentre ora sono diventati nemici e "terroristi". Eh, sì, perché se ti schieri a fianco di una grande potenza, allora devi eseguirne gli ordini, oppure potresti essere bombardato "fino a tornare all'età della pietra", come pubblicamente confessato dal presidente pakistano gen. Pervez Musharraf. Quella fu la minaccia che, dopo l'11 settembre, il vicesegretario di stato nordamericano Richard Armitage rivolse al Capo dell'ISI; al Pakistan non restò altra scelta che aggregarsi agli USA nella lotta contro al-Qaeda, i gihadisti ed i Talebani, sue stesse creature.
Va anche detto che, per portare l'esercito pakistano dalla loro parte e senza renitenze, gli USA rovesciarono nel paese miliardi di dollari in aiuti militari, inclusi sofisticati armamenti navali che, a quanto pare, dovevano servire a combattere i Talebani fra le montagne afghane... Visti gli USA sprofondare nel pantano iracheno, il Pakistan è sceso a patti con i suoi Talebani delle aree di confine, persino invitando la NATO a fare lo stesso. Come ripetutamente affermato dal presidente afghano Hamid Karzai, gli attacchi contro la NATO nascono in territorio pakistano. I Talebani di base in Pakistan, appoggiati dagli elementi conservatori locali, hanno assunto il controllo del Pakistan nordoccidentale, dove addestrano i terroristi di tutta la regione, inclusi quelli provenienti dall'Uzbekistan o dalla regione turcofona cinese dello Xinjiang. Questi volontari vanno ora a combattere in Afghanistan. A questo punto l'obiettivo del Pakistan è quello di recintare la "linea Durand", che divide i Pashtun tra Pakistan e Afghanistan. Ma questo confine rimane per i Pakistani il proverbiale elefante in camera, poiché i Pashtun non l'hanno mai riconosciuto. Il Pakistan è profondamente infettato dal virus gihadista, ed anche da altri malanni. La produzione d'oppio in Afghanistan ha raggiunto livelli da primato ed è smerciato via Pakistan, dove il numero dei tossicodipendenti è passato da poche migliaia a diversi milioni. La droga ha portato con sé la cultura della violenza fondata sul Kalashnikov.

Commenti conclusivi

Dalla Prima Guerra Mondiale, con la creazione di nuovi Stati da parte dei capricciosi padroni coloniali britannici e francesi, ben poco è cambiato negli arbitrari confini dei paesi del Vicino Oriente, eccezion fatta per la creazione dello Stato d'Israele, che può essere vista come un compenso elargito all'ebraismo europeo per i crimini compiuti nella maggior parte d'Europa dalla Germania nazista e dai suoi collaboratori (compenso che però, curiosamente, viene pagato dai Palestinesi!). Dopo la Guerra Arabo-Israeliana del 1949 e la Guerra dei Sei Giorni del 1967, Israele continua a tenersi stretti i Territori arabi occupati. Con l'apertura del vaso di Pandora, sulla scia dell'invasione dell'Iraq nel 2003, sono state scatenate forze epocali, etniche e religiose destinate a mutare la geografia e la storia della regione, a cominciare dall'Iraq, dove stanno ormai emergendo tre entità su base etnica o settaria. L'invasione ha già risucchiato l'Iran e probabilmente, che lo vogliano o no, altri paesi vicini rimarranno ancor più apertamente invischiati.
Ormai lontano nel tempo il ricordo della guerra tra le dune del deserto, per i Sauditi la ricchezza petrolifera è divenuta troppo allettante perché si mettano ancora a combattere: un po' come per gli Arabi abbassidi, che dal nono secolo cominciarono a godere dei frutti del loro impero e lasciarono l'esercizio delle armi agli schiavi turchi importati dall'Asia Centrale; ben presto, però, le spade turche presero il potere nelle figure dei Sultani, che s'imposero quali protettori degli sfortunati Califfi e, talvolta, proibirono loro persino di reclutare servitori turchi.
Quando nei primi anni '60, a due passi da casa, in Yemen, gli ufficiali dell'esercito (affascinati dal nazionalismo arabo e dal socialismo di Gamal Abdel Nasser) rovesciarono il Re e fecero il loro ingresso le truppe egiziane, il Regno saudita non intervenne militarmente, ma si limitò a finanziare le forze monarchiche. Più tardi, quando gli Egiziani abbandonarono lo Yemen, i Sauditi mediarono tra le fazioni belligeranti.
Quando, a seguito della disgregazione dell'Unione Sovietica, emersero le repubbliche turche dell'Asia Centrale, l'Arabia Saudita, fedele al suo stile, inviò denaro per istruire mullah, aprire madrasse, costruire moschee e distribuire milioni di Corani. Gli apparatčki, postcomunisti e laici, che avevano assunto il controllo come nuovi governanti, si scontrarono duramente con i gihadisti addestrati dentro o attorno il Pakistan. Gli estremisti ed i militanti musulmani in Asia Centrale sono chiamati "wahhabiti".
Durante la Guerra Fredda, l'Arabia Saudita ed altri regimi musulmani religiosi e conservatori furono sostenuti e strumentalizzati dall'Occidente per combattere comunismo, socialismo e nazionalismo, essenzialmente allo scopo di tutelare gl'interessi economici, politici e strategici degli USA. I Sauditi, obbedendo alle direttive statunitensi, accettarono di scambiare il greggio in petrodollari e di manipolare i prezzi del petrolio, in modo da soddisfare le esigenze occidentali. In questa maniera gli USA possono sostenere un massiccio deficit di conto corrente, grazie al quale oggi finanziano quasi per intero il loro bilancio militare, pari a quello del resto del mondo messo assieme. I wahhabiti, dal canto loro, hanno avuto mano libera nel paese, tanto ch'è ormai ridotto ad una parodia del Medio Evo, dove ai ladri vengono tagliate le mani e gli adulteri sono lapidati. Si sta cercando d'imporre questo modello anche agli altri musulmani, ovunque gli estremisti assumano il controllo: vedi i Talebani in Afghanistan o nel Pakistan nordoccidentale. Paragonato all'Arabia Saudita, il Regno hashemita di Giordania, il cui Sovrano discende direttamente dal profeta Muhammad, è quasi una nazione moderna: vi sono leggi avanzate e libertà femminile nel lavoro, nell'educazione e nell'abbigliamento.
Vale la pena chiedersi perché la grandissima ricchezza petrolifera della penisola non sia stata utilizzata per elevare il tenore di vita dell'Umma musulmana, che i Sauditi pretendono di rappresentare e guidare in virtù del loro controllo sui sacri santuari della Mecca e di Medina. Non c'è un grande "Piano Marshall", tipo quello applicato dagli USA per promuovere la crescita economica europea dopo le devastazioni della Seconda Guerra Mondiale. Certo, vi sono dei palliativi, ma sempre connessi alla promozione dell'Islam wahhabita.
La prosperità generata dal petrolio ha beneficato principalmente le potenze occidentali, che hanno protetto la famiglia Ibn Saud, cosicché migliaia di prìncipi e principesse possono sguazzare nell'oro e nel lusso. Non serve un Sofocle per concludere che la dinastia saudita ha ritardato, direttamente o indirettamente, lo sviluppo sociopolitico ed il progresso di quella stessa Umma musulmana di cui essa presume di essere, per usare le parole di Obaid, «la guida de facto», nonché di sentirsene «religiosamente responsabile».
Osservando l'ascesa e la caduta dell'Impero Ottomano - che sopravvisse cinque secoli e coprì un'area più vasta dei dominî arabi - ci si accorge che il suo declino cominciò quando il Sultano divenne guardiano della Mecca e di Medina ed assurse al Califfato. Ne risultò infatti un influsso nefasto dei chierici, degli sceicchi e dei mullah conservatori sulla classe dirigente di Istanbul, che fu condotta all'oscurantismo ed alla feroce opposizione a qualsiasi idea o tecnologia moderna, persino in campo bellico, tanto che la Turchia diventò il "malato d'Europa". La Repubblica Turca invece, fondata sull'educazione e sulle idee moderne, può stare alla pari dell'Europa per sviluppo economico e progresso. Dieci anni fa strinse un accordo doganale con l'Unione Europa ed i suoi prodotti riuscirono a tener testa ai migliori manufatti europei. Sebbene quasi del tutto priva di petrolio, il suo PIL è pari alla metà di quello di tutti gli Stati arabi messi assieme. Ma senz'altro l'Europa cosiddetta "laica" non ammetterà Ankara quale membro a pieno diritto, poiché il 99% dei Turchi è musulmano...
L'espansione ed il progresso del Califfato abbasside furono dovuti alle idee, accolte da ogni dove, ed alle nuove invenzioni scientifiche. Le idee conservatrici (ed in particolare la filosofia wahhabita), invece, hanno fatto tornare indietro l'Umma musulmana, rendendola incapace di reggere il confronto con la crescente potenza militare e scientifica dell'Occidente, e quindi inadeguata a liberarsi dalle catene che la imprigionano. Ma quel che importa è che vi sia un gran luccichio d'oro, vetro ed alluminio negli Stati del Golfo ricchi di petrolio...!

L’intreccio precedentemente descritto incanala le ricchezze verso le madrasse, dove si studia a memoria il Corano, ma poca matematica e poca scienza, e le innovazioni sono bandite; la conseguente incapacità d'affrontare i sempre più complessi problemi dei tempi moderni ha fatto rotolare all'indietro i Musulmani. Questa cultura può produrre soltanto al-Qaede, gihadisti e distruzioni, ma non una risposta assennata e scientifica al consumismo ed all'espansione dell'Occidente, che quotidianamente copre d'umiliazioni il mondo arabo e musulmano. Certo si potranno architettare nuovi spettacolari attentati, come l'11 settembre o il 7 luglio, ma questi non libereranno l'Umma dalla dominazione e dallo sfruttamento cui è stata sottoposta negli ultimi due secoli dai cristiani occidentali. C'è un insegnamento che si può trarre dall'attuale miseria e dalle sofferenze infernali che patisce lo sventurato popolo iracheno, posto sotto il tallone dell'occupazione militare statunitense (durante la quale sono morte più di mezzo milione di persone dal marzo 2003). Si prenda l'Iran, dove la politica statunitense ha soltanto rafforzato gli elementi conservatori. Eppure sono anche garantite la libertà e l’istruzione delle donne, che possono lavorare negli uffici e guidare l'automobile. L'ammodernamento promosso dal moderato presidente Khatami è stato solo interrotto dall'irruzione statunitense a due passi da casa, che ha costretto il paese a mettersi sulla difensiva. Il popolo iraniano ha imparato che tornare indietro non risolve né i vecchi problemi né quelli nuovi proposti dall'era moderna: per questo non sopporta più il giogo soffocante dei mullah.

La rottura dell’intreccio statunitense-saudita-wahhabita lascerà libere le masse musulmane, sinora tenute incatenate a idee retrive, e le avvierà verso la moderna educazione, le scienze naturali, le innovazioni ed il progresso in grado di sfidare l'Occidente. Ma lo sconvolgimento portato dalla rivoluzione khomeinista in Iran sembrerà una passeggiata, paragonata a quella che sarà la rivoluzione nell'Islam sunnita, dove l'oscurantismo e gl'interessi particolari (interni ed esterni) non s'arrenderanno facilmente. Forse i tempi tendono ad un cambiamento così cataclismatico.

Prima della Grande Guerra, i Tedeschi progettavano di raggiungere Bassora con una ferrovia, grazie all'appoggio ottomano, in modo da aggirare l'Impero Britannico in India (il gioiello più prezioso della Corona inglese). Dal canto loro gli Ottomani, influenzati dai Giovani Turchi dell'eccentrico Enver Pascià, speravano d'arginare Mosca e creare un impero panturco esteso fino al Turkestan russo. I risultati, però, non corrisposero alle aspettative, ed anzi gettarono le fondamenta per una distruttiva seconda guerra mondiale, per l'ascesa della Germania nazista, per l'olocausto degli Ebrei e degli Zingari in Europa. E pure per la decolonizzazione e la fine degl'imperi britannico, francese ed europei in genere.


(Traduzione di Daniele Scalea)

* K. Gajendra Singh, diplomatico indiano oggi in pensione, è stato ambasciatore in Turchia (e Azerbaigian) dall'agosto 1992 all'aprile 1996; in precedenza aveva ricoperto il medesimo ruolo in Giordania, Romania e Senegal. Attualmente presiede la Foundation for Indo-Turkic Studies. Ha già collaborato a "Eurasia, rivista di studi geopolitici" con diversi contributi: la redazione di quest'ultimo è stata terminata il 30 dicembre 2006.

samedi, 30 mai 2009

L'histoire vraie de Lawrence d'Arabie

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L'histoire vraie de Lawrence d'Arabie 

Patrick Grainville
23/04/2009 |
http://www.lefigaro.fr/

T. E. Lawrence - On a retrouvé la version intégrale des «Sept Piliers de la sagesse», la fameuse saga autobiographique de l'agent britannique.

Quand éclate la Grande Guerre, Hussein, le chérif de La Mecque, et ses fils en profitent pour se révolter contre l'occupation turque, vieille de cinq cents ans ! Les Turcs étant alliés aux Allemands, les Arabes sont solidaires des ­forces françaises et britanniques. Lawrence est un familier du Moyen-Orient où il a mené des missions archéologiques. Il parle l'arabe et se fait recruter comme officier de renseignement. Il est bientôt chargé de rencontrer le chérif Fayçal, fils d'Hussein, retranché au cœur des mon­tagnes dans l'arrière-pays de Médine.

Ainsi commence la gigantesque saga, avec le portrait majestueux de Fayçal, le prophète, l'icône de la rébellion. C'est lui qui va réunir les tribus, les réconcilier, les rallier contre les Turcs. C'est le frère loyal de Lawrence. Tel est le couple rayonnant de cette longue pérégrination guerrière à travers ce que Lawrence appelle le Hedjaz, c'est-à-dire l'Arabie des villes saintes, et plus largement un pays qui s'étend de La Mecque à Damas.

La légende de Lawrence est telle que le lecteur, gavé de gloses et de clichés, s'attend à un mélange inextri­cable de combats et de méditations dostoïevskiennes. Tant le personnage est réputé complexe, déchiré, masochiste. Mais les pages où il confie ses dilemmes et ses vertiges sont finalement limitées par rapport à l'insatiable tableau des courses, des escarmouches, des bivouacs virils, des sabotages à la dynamite de voies ferrées et de ponts.

La cavalcade épique occupe la presque totalité du livre, à part un préambule caustique et une parenthèse au bout de huit cents pages où Lawrence prend du recul et révèle soudain un tout autre portrait de lui-même, sous le masque du guerrier et du militant de la cause arabe. Il se qualifie « d'escroc à succès » et « d'imposteur impie ». C'est un précipice qui s'ouvre au cœur du héros et de son épopée pour les scinder en deux parts irréconciliables. Un divorce entre l'action et la pensée.

On tue, on fouette, on torture à tout-va !

Le mythe de Law­rence va prospérer au tranchant de cette faille. Lawrence opère cette volte-face vertigineuse qui retourne le colonel efficace et fervent en traître attifé en Bédouin, en sceptique très occidental, persuadé de son échec, de son égotisme, Zarathoustra raté, miné par la culpabilité et l'autoflagellation. Car, dès le départ, Lawrence a deviné que les Britanniques veulent canaliser et contrôler le désir d'indépendance des Arabes, il ne croit donc au succès de sa mission que dans la brûlure de l'action.

Pourtant, c'est un combattant clairvoyant, entouré de cheikhs tribaux truculents et divisés, plus amateurs de razzias que du ­fantasme de l'unité arabe. ­Certaines tribus partent pour la bataille avec leurs esclaves armés de dagues, en croupe des méharis. Lawrence admire leurs cuisses noires et musclées. D'autres se dénudent carrément dans l'assaut pour que leurs vêtements souillés n'infectent pas leurs blessures. Et Lawrence de savourer le spectacle des volées de ­jambes athlétiques et brunes. Son homosexualité n'est jamais avouée directement. Mais il chouchoute un couple de serviteurs juvéniles, amants l'un de l'autre, facétieux et transgressifs à souhait. Leurs foucades garçonnières agrémentent la ritournelle des tueries. Car on tue, on fouette, on torture à tout-va ! Lawrence, lui-même, exécute de trois balles un soldat fautif. Il en fait une description détaillée. Le fameux sadomasochisme du personnage n'est jamais revendiqué, il se déduit de la somme des souffrances infligées et endurées dans les déserts torrides parcourus par des méharistes coriaces et cruels.

L'originalité du livre tient à la multitude d'actes bruts commis dans des paysages décrits avec une exactitude de géologue et de géographe. Ce qui prime est la souplesse, la précision, la prégnance, la frontalité du récit. C'est le roman physique des granits dressés en embuscade, des grès, des laves, des dunes diamantines, des silex coupants, des puits antiques, des dromadaires omniprésents, de leurs selles somptueuses, des oueds, des gorges piranésiennes et des vallées parfumées. La chimère de Lawrence va échouer en 1920, puisque les Britanniques ne vont pas honorer leurs promesses faites aux Arabes.

Depuis Œdipe, pas de mythe sans Sphinx, sans duplicité, sans échec, sans dérapage pervers. Jamais un aventurier n'a été capable d'être à la fois aussi clair et concret dans l'action et aussi abstrait dans la méditation amère qui la récuse. Cette monstruosité, ces deux bords d'une blessure qui ne peut cicatriser, voilà la chair béante du mythe qu'un accident de moto viendra nimber de mort absurde.

Les Sept Piliers de la sagesse de Thomas Edward Lawrence traduit de l'anglais par Éric Chédaille Phébus, 1 072 p., 25 €.

vendredi, 03 avril 2009

El islam wahhabita

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El islam wahhabita

por Fernando José Vaquero Oroquieta

¿Es el wahhabismo consustancial al islam o es una desviación del mismo? Una aproximación a esta corriente fundamentalista musulmana que se encuentra en la base del terrorismo islámico internacional. Incluye unas notas sobre el Wahhabismo en España

 

Introducción.

El diario La Razón, en su edición del 11 de diciembre de 2002, afirmaba, en un artículo de su suplemento Fe y Razón, que el wahhabismo había alcanzado en Rusia la cifra de 100.000 adeptos, según las palabras alarmadas de Talgat Tayuddín, líder de los musulmanes rusos (cuyo número oscila entre 12 y 20 millones). Según las mismas fuentes, en parte a causa del vacío ideológico ocasionado por la caída del comunismo en la antigua Unión Soviética, algunas formulaciones islámicas radicales importadas, refiriéndose especialmente con ello al wahhabismo, crecerían entre los musulmanes de la Comunidad de Estados Independientes; lo que constituiría un serio motivo de inseguridad y temor.

Por otra parte, "no todos los musulmanes son terroristas suicidas, pero todos los terroristas suicidas musulmanes son wahhabitas", aseguraba recientemente el islamólogo Stephen Schwartz; señalando, así, una concreta genealogía en el origen del terrorismo islámico internacional.

En este contexto, en el que el término wahhabismo, antaño exótico patrimonio de minorías, es fuente de noticias periodísticas y sesudos estudios especializados, podemos preguntarnos: ¿qué es el wahhabismo?, ¿cuáles son las relaciones entre el islam y el wahhabismo?

Chiíes y sunníes.

Retrocedamos en la historia y situémonos en los orígenes de esta pujante religión monoteísta.

El islam experimentó en sus primeros años, ya en vida de su fundador, el Profeta Mahoma, una espectacular expansión territorial. Además, es en su primer siglo de vida cuando se establecieron las principales ramificaciones musulmanas; plenamente vigentes hoy día. Es también en aquellos primeros años cuando, con los cuatro primeros califas, se establece el texto definitivo del Corán. Igualmente, se realiza la primera recopilación de la Sunna, o colección de hechos y dichos de Mahoma según testigos directos de los acontecimientos. De ambos, Corán y Sunna, se deduce la sharia, o ley islámica, que regula el conjunto de actividades públicas y privadas de todo musulmán.

Esos cuatro primeros califas fueron líderes políticos, hombres de acción y autoridades espirituales: el ejemplo ideal al que miran los musulmanes de todas las épocas.

Con Alí, yerno del Profeta y cuarto califa, se produce la primera gran fragmentación entre los musulmanes; que nos llega hasta hoy mismo. Al morir Alí asesinado, sus seguidores crearon un partido, la Chía, considerando que los califas Omeyas que le sucedieron carecían de legitimidad. Los chiíes, aunque respetan la Sunna, no aceptan que sea de carácter sagrado, tal como hacen los demás musulmanes (denominándose sunníes). Por el contrario, los chiíes atribuyen mucha importancia a las enseñanzas transmitidas por los doce imanes sucesores de Alí. El duodécimo y último de tales –el Mahdi- no habría muerto, esperando su retorno. Entre el clero chiíta –conocido bajo el término de mullah- destacan algunos expertos en la interpretación de la sharia, denominados ayatolás.

El chiísmo se caracteriza, además, por cierta desconfianza hacia el poder político, logrando muchas simpatías entre los musulmanes no árabes, especialmente en Irán, donde son inmensa mayoría. La creencia en el retorno del Mahdi, el imán oculto, ha generado una esperanza mesiánica cuya venida se producirá en la Hora Final, implantando un Reino de Justicia, por lo que el martirio tendría un carácter redentor. Un sociólogo iraní, Alí Shariati, asoció ese mesianismo chiíta con determinadas ideas marxistas. De este modo, consideraba que el Mahdi liberaría a los parias de todo el mundo, proporcionando una perspectiva revolucionaria al chiísmo.

A mediados del siglo IX, entre los sunníes, surgieron cuatro corrientes interpretativas que cristalizaron en otras tantas escuelas jurídicas, todavía hoy, únicas aceptadas por los sunníes: hanafí (de Abu Hanifa, la más liberal), la malikí (de Malik), la xafeití (de Chaffi, especialmente vigorosa en Egipto) y la hanbalí (originada en Bagdad, la más rigurosa y en la que se gestará el wahhabismo).

En la actualidad, en torno al 85% de los musulmanes de todo el mundo son sunníes, un 10 % chiíta y el resto pertenece a grupos muy minoritarios (drusos y otros). De todas formas, suniíes y chiíes no están absolutamente separados; siendo sus diferencias, matizadas discrepancias en cuestiones de interpretación y de aplicación de la ley, tanto en su plano individual como colectivo.

En su choque con el mundo occidental de finales del siglo XX y principios del XXI, el islam, ya sea sunnita o chiíta, se manifiesta en buena medida como una corriente radical o extremista poliédrica.

Por ello, dada la multiplicidad de sus expresiones, algunos expertos en la materia diferencian dos corrientes dentro del radicalismo musulmán:

  • Integristas. Es el caso de los wahhabitas y los Hermanos Musulmanes, por ejemplo. Valoran la Tradición ante todo, aunque respetan lo positivo que le se haya podido añadir.
  • Los fundamentalistas. Caso del chiísmo iraní y de los talibanes afganos. Desprecian lo que no proceda de los preceptos literales.

Todos ellos comparten su creencia en la imperativa articulación de la Umma (comunidad de los creyentes), como efecto ineludible de la recta aplicación del islam. La Umma debe estar unida políticamente y liderada por una autoridad, simultáneamente, civil y religiosa. Tal concepción, en consecuencia, deslegitima a los Estados actuales. Es más, a su juicio, todo nacionalismo sería una forma de shirka (adoración de algo distinto de Alá).

La época dorada del islam, correspondiente al liderazgo de los cuatro primeros califas, es la referencia de todos los musulmanes. Para unos musulmanes, de esa experiencia primigenia, destacarían los aspectos sociales y externos, tendencia representada por las escuelas reformistas. Para otros, prevalecería el esfuerzo por la perfección espiritual; reflejándose especialmente en las corrientes sufíes.

El sufismo.

El sufismo es objeto de gran interés en Occidente, especialmente desde la llamada New Age, al encontrar allí sugerentes ingredientes espirituales susceptibles de oferta en el supermercado religioso actual.

El sufismo no es una tendencia política. Espiritualista y tradicional, propone al fiel musulmán una experiencia religiosa personal; llegándose a hablar, incluso, de un misticismo sufí. Políticamente asumen generalmente posturas conservadoras, pero sin propugnar alternativas concretas. En la época colonial, muchos sufíes encabezaron la resistencia frente a las potencias ocupantes en sus respectivos países, perdurando todavía hoy la memoria de su lucha.

El wahhabismo y el salafismo, corrientes ortodoxas reformistas e integristas, se oponen a las prácticas sufíes, al considerar que difunden ciertas formas de superstición y que, en la práctica, han facilitado la decadencia musulmana.

El sufismo es, ante todo, según los propios sufíes, profundización e interiorización personal del islam. Aunque algunos autores han visto influencias de la mística cristiana, para otros, tales afirmaciones carecen de todo crédito.

El término sufismo (tasawwf) viene de sûf, o hábito de lana que llevaban los sufíes de los primeros siglos.

Son numerosos los sufíes de prestigio que han creado escuela y cuyos seguidores se agrupan en grandes cofradías, algunas extendidas por todo el mundo musulmán, o predominantes en determinadas zonas geográficas. Hassan al-Basri sería uno de los primeros. Nacido en Medina bajo el califato de Omar, la tradición cuenta que recibió sus enseñanzas del propio Alí, yerno del Profeta. Rabî`a al-`Adawiyya, nacido en Basra (sur de Irak), en el siglo II de la Hégira, sería otro de los primeros grandes sufíes.

Los sufíes practican las virtudes de la pobreza (faqr), abandono en la voluntad de Alá (tawakkul), así como la práctica del Dzikr (mención del nombre de Alá) al que pueden acompañar estados de éxtasis y ejercicios de meditación (fikr).

Otros sufíes incidieron en la gnosis (Ma`rifa) o conocimiento de Alá, caso de Nûn al Misri. De Yunayd, sufí de Bagdad, donde vivieron los más célebres, es la siguiente clarificadora sentencia: "El sufismo es lo que Alá hace morir en ti y vivir en Él". Que el sufismo fuera aceptado en su día, es mérito, en buena medida, de Al-Gazzâlî (1058-1111). Otro maestro sufí de Bagdad fue Abd-al-Qâdir al-Yîlâni (1077-1166), quien fue conocido como "Sultán de los Awliya" (íntimos en el saboreo de Alá). De Andalucía procedía Abû Madyan Shu’ayb. También andalusí era Muhhy d-Dîn ibn Arabî, autor de numerosos textos en los que trató la Doctrina de la Unidad del Ser.

Expresión fundamental del sufismo es la existencia de las llamadas cofradías, o Turûq (plural de tarîqa o vía espiritual). Las conforman los seguidores de determinados maestros sufíes, tal como señalábamos más arriba. Tal vez la más conocida sea la Mawlawî, de la que proceden los famosos derviches danzantes popularizados gracias al turismo masivo europeo practicado en Turquía. Las cofradías sufíes son numerosísimas, siendo su importancia en algunos casos enorme. Así, por ejemplo, varios de los rectores de la Universidad Al-Azhar de El Cairo, que goza de una indudable autoridad en el islam sunnita, han sido sufíes seguidores de uno u otro maestro. Otro caso llamativo, de celebridad sufí, es el de Abd al-Kader, líder de la resistencia argelina frente a los franceses. Por su parte, la cofradía u orden de los Sanûsiya, aunque de origen sufí, tiene gran parecido con el wahhabismo; así el sentido guerrero, su austeridad y el espíritu de sacrificio. Desempeñaron especial protagonismo en la lucha contra el colonialismo en el norte de África (Francisco Díaz de Otazu les ha dedicado un artículo en el número 63 de esta publicación digital). En Asia destaca la cofradía Naqshabandiyya. Fundada en el siglo XIV, se extiende desde Bujara a Turquía, desde China a Java, protagonizando el esfuerzo misionero musulmán en aquellas alejadas tierras.

Vemos, con todo ello, que el sufismo, como camino interior (bâtin), también ha influido en el exterior y la acción (zâhir).

El reformismo musulmán.

En el seno de la gran corriente salafiya (de salaf, grandes antepasados), que promueve la renovación islámica (nadha), surgen los llamados movimientos reformistas.

El wahhabismo es una forma de interpretación estricta del Islam que nace de la mano de Mohamed Ibn Abdul Wahhab y que pretende, al igual que los demás reformistas, la vuelta a la pureza de la época dorada del islam.

De esta forma, reformismo, integrismo y fundamentalismo, sin ser conceptos análogos, en buena medida coinciden.

Los reformistas afirman que sólo la aplicación de la sharia garantiza el orden moral de la comunidad de los creyentes. En ese sentido, todo gobierno es ajeno al espíritu musulmán, especialmente los de factura occidental. Sí serían auténticos gobiernos islámicos, por el contrario, los de los cuatro primeros califas, "los que caminan por el camino recto" (Rashidun): Abu Bekr, Omar, Othman y Alí, tal como veíamos al principio de este artículo.

La restauración del verdadero islam exige esfuerzos de todo tipo (yihad), tanto personales como colectivos, espirituales y materiales; lo que puede llegar a justificar la guerra, siendo su objetivo, en todo caso, la ordenación de toda la convivencia hacia lo justo, prohibiendo lo que consideran impuro. Esto supone el empleo del poder político, sin complejos, desde la fidelidad al Corán y a las tradiciones islámicas (hadits).

El reformismo, en la actualidad, es la principal corriente del islam y se caracteriza por una serie de rasgos comunes:

  • El islam afecta a todas las dimensiones de la vida, determinando, por tanto, la política y la sociedad.
  • La decadencia y parálisis de las sociedades musulmanas fueron consecuencia de su alejamiento del islam.
  • El islam viene determinado por el Corán, las tradiciones islámicas y las realizaciones de la primitiva comunidad musulmana.
  • El deber de todo musulmán es la yihad.
  • El islam es compatible con la tecnología y la ciencia moderna.
  • La restauración del islam exige la lucha de todo musulmán, integrado en organizaciones establecidas con tal fin.
  • La restauración del islam exige la vía de una revolución política y social.

El actual islam radical asume como propio todo este caudal reformista, al que matiza con varias precisiones:

  • El islam es víctima de una conspiración judía y cristiana. Occidente es el enemigo declarado del islam.
  • Un gobierno musulmán es legítimo es tanto aplique estrictamente la sharia.
  • Cristianos y judíos son considerados infieles; no como pueblos del Libro.
  • Todos los que se resisten al islam, ya sean musulmanes o no, son enemigos de Dios y merecen ser castigados con rigor.

Los reformistas entendieron que se había producido, históricamente, una profunda crisis en las sociedades musulmanas, lo que derivó en la desintegración del poder político, la paralización de la economía y de la ciencia, un estancamiento de la vivencia religiosa y una disminución de la creatividad artística. Todo esto habría coincidido con la eclosión de las potencias occidentales colonialistas; siendo víctimas de su política la mayor parte de los pueblos de tradición islámica. Por ello, la crítica a los regímenes coloniales constituye otra de las novedades del pensamiento reformista, siendo la lucha contra el sionismo, en la actualidad, una continuación de la lucha anticolonial.

Los movimientos reformistas son movimientos sociales antes que políticos; siendo ésta una característica fundamental para entender su naturaleza. Su objetivo principal es la formación de musulmanes piadosos, estudiosos del Corán y que practiquen el proselitismo a través de la predicación y las obras caritativas.

Todos los reformistas propugnan un estado islámico, es decir, gobernado por la ley islámica (la sharia). Ésta, al tener su origen en la revelación divina, no puede ser ni desarrollada ni cambiada: hay que aplicarla, pues debe ser aceptada sin crítica. La sharia es, igualmente, infalible, según los islamistas. Realmente, no hay codificación de la sharia.

El principal reformador fue Jamal al-Din al-Afghaní (1839 – 1897). Hay discrepancias sobre su lugar de nacimiento: en Irán según unos y en Afganistán según otros. Estudió en la India, viviendo la guerra civil de Afganistán en 1866. Se trasladó a Estambul, pero al año tiene que partir para Egipto a causa de las enemistades ganadas entre los clérigos musulmanes tradicionales. De 1871 a 1879 permaneció en El Cairo, rodeándose de un grupo de intelectuales musulmanes. Allí entra en la masonería, de donde es expulsado por su oposición al colonialismo. De nuevo vive en la India durante casi tres años. De allí se trasladó a París, donde fundó la revista Al–orwa al–wothqa ("el vínculo indisoluble"), recogiendo, en sus 18 números editados, los principios fundamentales del reformismo. Viajó a Irán, después lo hará a Rusia en 1889. En 1892 viaja a Inglaterra. Allí publicó artículos muy virulentos contra el sha, quien fue asesinado unos años mas tarde a manos de un discípulo de Jamal al–Din. Murió en Estambul. Su principal texto es el libro Refutación de los materialistas. Del wahhabismo se diferencia en su mayor conciencia crítica ante el desafío occidental.

Entre sus discípulos destacó el egipcio Mohammad Abdoh, quien reformó la futura universidad cairota de Al–Azhar. A partir de entonces, reformismo musulmán y política, en particular la lucha frente a las potencias coloniales, se mezclan de forma indisoluble.

Como consecuencia de su gran influencia floreció, inmediatamente, un importante elenco de intelectuales reformistas en todo el mundo musulmán, incluida la India.

Otro importante movimiento se enmarca dentro del gran río del reformismo: los Hermanos Musulmanes. Fundado por otro egipcio, Hassan Al Banna (1906 – 1949), se trata de un movimiento muy organizado y activista, que arraigó especialmente en Egipto, pero también en Siria, Palestina y otros países musulmanes. A su entender, la Umma es una sola nación, debiendo volver a las enseñanzas del origen del islam para recuperar su grandeza. A su muerte le sucedió Sayyid Qutb (1906-1966), quien murió ahorcado. Consideraba que el islam contiene un compendio suficiente de recetas para resolver los grandes problemas de toda época. Juzgaba que para la aplicación de su programa era imprescindible una revolución política. Los Hermanos Musulmanes fueron perseguidos, en Egipto, por Nasser y sus sucesores. En Siria también sufrieron una gran persecución de la mano del fallecido presidente Assad y su partido laico Baas.

El wahhabismo.

El wahhabismo estructura por completo la sociedad de Arabia Saudita y por ello es bastante conocido a través de los medios de comunicación, al menos, en sus rasgos externos. De hecho, aunque cuenta muchos seguidores en otros países islámicos, esta interpretación estricta sunnita únicamente se ha impuesto, por completo, en Arabia Saudita.

Mohamed Ibn Abdul Wahhab (1703 – 1787) es el teólogo que, en la tradición procedente de Ibn Hanbal (780 – 855) y de Ibn Taymiya (1263 – 1328) formuló esta corriente. La escuela jurídica hanbalí –ya lo hemos visto- es la más rigurosa de las cuatro existentes en el islam sunnita. Establece que la sharia proviene exclusivamente del Corán y de la sunna, o seis compendios de hadits (tradiciones complementarias del Corán, que recogen los hechos y las palabras de Mahoma). Rechaza todos los hadits y la jurisprudencia no coránica.

Mohamed Ibn Abdul Wahhab nació en Neyed, una provincia del centro de la península arábiga. Estudió en Medina, Irán e Irak. De regreso a su tierra, propugnó el retorno a un islam purificado. Organizó la comunidad de los "unitarios" (vinculados al principio de la Unidad divina), ganando numerosos adeptos a los que señaló unas creencias simples y un código moral muy estricto.

Sus creencias se pueden resumir en los siguientes principios básicos:

  • Sólo Alá es digno de adoración.
  • Las visitas a las tumbas de sabios y santos son ajenas al verdadero islam. De ahí arranca su profundo rechazo a las prácticas sufíes.
  • La introducción de nombres de santos en las oraciones equivale a incredulidad.
  • Cualquier creencia ajena al Corán, la Sunna, o deducciones de la razón, es equivalente a la incredulidad, lo que debe ser castigado con la muerte.
  • Cualquier interpretación esotérica se asimila a la incredulidad.

Se impuso la asistencia obligatoria a la oración colectiva en las mezquitas mediante medidas policiales, prohibió el alcohol, el tabaco y afeitarse la barba. Aplicó la sharia de forma literal (incluidas las penas corporales) según la escuela jurídica hanbalí. Mohamed Ibn Abdul Wahhab convirtió a su causa al emir Mohamed Ibn Saud, cuyo hijo, Abd al–Aziz, conquistó toda Arabia, amenazando Alepo, Bagdad y Damasco. Derrotado por un ejército egipcio, fue decapitado en Estambul.

Rebelándose contra la religiosidad decadente de los turcos, anteriores custodios de las mezquitas de La Meca y Medina, la reforma religiosa wahhabita se tiñó también de un marcado color político.

Pero su recuerdo perduró y otro líder árabe, también llamado Abd al–Aziz (conocido como Ibn Saud), en torno a 1926 fundó la moderna Arabia Saudita, con Medina y La Meca, a la vez que implantaba un islam riguroso según la interpretación wahhabita.

Arabia Saudita.

En Arabia Saudita, en la actualidad, predomina el wahhabismo en su aplicación estricta: mantiene la segregación de las mujeres, prohibe los cines públicos, no permite la conducción de vehículos por mujeres, cualquier práctica religiosa no musulmana en público o privado es perseguida, prohibe las cofradías místicas y el sufismo, aplica un código penal que acepta la amputación de la mano por robo, la flagelación, la lapidación, etc. Para mantener esas normas se creó la Mutawwa´in, una policía de carácter religioso.

Pero la familia reinante, dada su vinculación internacional con Estados Unidos de América, ha sido cuestionada por otros sectores islámicos de dentro y fuera. La ocupación de La Meca en 1979 fue consecuencia de esas graves tensiones internas. También el asesinato del presidente egipcio Sadat se enmarca en las tensiones planteadas por quiénes propugnan un islam purificado. Sin embargo, el magnicidio del rey Faisal de Arabia Saudita el 25 de marzo de 1975 a manos de un sobrino, si bien no está aclarado en sus motivaciones últimas, no parece que tenga ese mismo origen.

La presencia en suelo saudí de 35.000 norteamericanos, con motivo de la guerra del Golfo, suscitó las críticas y el resentimiento de un sector muy radical de ulemas y jeques sunnitas, wahhabitas radicales. En ese malestar podemos encontrar el caldo de cultivo del movimiento de Osama Bin Laden.

Expertos politólogos en la zona afirman que es una simplificación explicar la situación de este país como un enfrentamiento entre partidarios de Estados Unidos y radicales wahhabitas.

Desde 1744 se practica una alianza entre legitimidad religiosa y poder político: la familia real, los al-Saud, ostenta la legitimidad religiosa como protectora de la fe. Esto implica una serie de obligaciones.

Por otra parte, Arabia Saudita no presenta una realidad tan uniforme, tal como pueda parecer desde el exterior, afirman expertos en el área. Así, aseguran que existe de hecho cierto pluralismo: la ortodoxia wahhabita convive con algunas corrientes sunníes reformistas, grupos minoritarios chiíes, un movimiento opositor sunnita salafita y la pervivencia de prácticas sufíes en algunas zonas del país.

Esas tensiones internas no han impedido que, con el inmenso capital procedente del petróleo, desde Arabia Saudita se impulse al islam misionero de múltiples formas y en todo el mundo, habiéndose convertido en una de sus fuentes de financiación más importantes.

Las autoridades religiosas de La Meca –su Consejo de Ulemas- mantienen, además, una gran autoridad en todo el mundo musulmán. Sus ingresos petrolíferos permiten sufragar la peregrinación a La Meca de millones de musulmanes de todo el mundo. Construyen numerosas mezquitas y centros asistenciales, especialmente en África subsahariana, manteniendo a cientos de miles de refugiados palestinos. Igualmente, financian la construcción y el mantenimiento de enormes mezquitas en Europa (como la madrileña situada en la M-30 y, próximamente, otras en Barcelona, Las Palmas y Málaga), así como la expansión musulmana en Filipinas y Asia central.

¿Qué relaciones mantiene con las guerrillas y los grupos armados islamistas? Se trata de una cuestión muy compleja. En ese sentido, se ha señalado la posible alianza, en su día, entre importantes representantes del wahhabismo actual y el Frente Islámico de Salvación argelino. Y no olvidemos que el primero que reconoció al nuevo gobierno talibán de Afganistán, junto al de Pakistán, fue Arabia Saudita. También se ha señalado la confesionalidad wahhabita de buena parte de los dirigentes guerrilleros chechenos. Respecto a las incuestionables vinculaciones de algunos miembros de la numerosa familia real saudí con Osama Bin Laden, no es fácil determinar si tales apoyos son consecuencia de la mera solidaridad familiar o el fruto de comunes convicciones ideológicas. Lo que es indudable es la procedencia wahhabita de la mayor parte de dirigentes y demás integrantes de la red terrorista internacional Al Qaeda.

Otras presencias del wahhabismo en el mundo.

Nos asomaremos, brevemente, a su incidencia en Asia central y en los territorios de la antigua URSS; por su importancia estratégica y por tratarse de naciones en proceso de consolidación y de búsqueda de su identidad colectiva.

Empezaremos por los territorios de mayoría musulmana de la Federación rusa.

En Daguestán el wahabbismo ha chocado frontalmente con el sufismo, lo que supuso una auténtica guerra civil entre 1995 y 1998. En Osetia del Norte también ha hecho acto de presencia, mientras que en Ingushetia, Kabardino-Balkaria y Karachaevo-Circasia, las respectivas autoridades locales, de convicciones laicas, han intentado prevenir su penetración. Adigueya es la región menos islamizada del entorno.

El presidente de Chechenia, Aslan Aliyévich Masjádov, proclamó la República islámica el 5 de noviembre de 1997. El 11 de enero de 1999 anunció una nueva constitución y el 4 de febrero estableció la sharia como la única fuente del derecho checheno. Pese a ello, en los años anteriores, se había opuesto a los sectores que habían adoptado el wahhabismo (caso de Shamil Basáyev y Salman Radúyev), apoyándose en la tradición sunnita practicada en la zona, más próxima a las cofradías sufíes. El 5 de julio y, posteriormente, el 7 de agosto, grupos guerrilleros wahhabitas penetraron en Daguestán. Pese a ser derrotados por las fuerzas federales rusas, sirvió como motivo, junto a los atentados con bombas en Moscú, para el inicio de la segunda guerra ruso-chechena; generalizada al invadir las tropas rusas Chechenia el 30 de septiembre. Todavía hoy continúa la guerra, persistiendo núcleos terroristas en algunas zonas aisladas del interior de Chechenia y en países limítrofes. Con motivo de los atentados con bombas de Moscú, fue identificado como responsable de los mismos Atchemez Gotchiyev, un wahhabí natural de Karachaevo-Circasia. Su lugarteniente era Denis Saitakov, un uzbeko de madre rusa, que había estudiado en una escuela coránica de la república de Tatarstán y que se había entrenado en Chechenia bajo las órdenes del comandante Amir Jatteb, otro mítico guerrillero wahhabí, al parecer jordano.

Hace unos meses la Universidad Islámica de Rusia, localizada en el Tatarstán, un territorio que forma parte de la Federación rusa y que se caracteriza por un marcado acento laicista de total subordinación de la religión al poder político, licenció a su primer grupo de estudiantes coránicos. Estos licenciados pasaron a mezquitas y centros educativos de diversos lugares de Rusia, para atender a parte de los 20 millones de musulmanes que viven en la república. Su rector, Abdurrashid Jazrat Zakirov, afirmó que el wahhabismo está excluido de los planes de estudio. Las autoridades rusas vienen apoyando esta institución para prevenir la penetración de las corrientes wahhabitas.

En Uzbekistán las autoridades locales apoyan a la orden sufí Naqshabandiyya, en un intento de contrarrestar al fundamentalismo musulmán. Dicha orden lideró la lucha antirusa desde la ocupación por los Zares. Este empleo del sufismo local viene de lejos. Durante años, el NKVD y el KGB gobernaron Chechenia–Ingushetia con la ayuda de los dirigentes de dicha orden local sufí. Por ello, muchos musulmanes acusaron a los sufíes locales de colaboracionismo con las autoridades ateas y comunistas. Doku Zavgayev, presidente del Soviet Supremo de Chechenia-Ingushetia en 1990 y cabeza del gobierno pro-ruso en 1996 en Chechenia, era miembro de la orden Naqshabandiyya.

En Kazajistán y en Kirguizistán también se han detectado labores de proselitismo wahhabita, si bien las autoridades políticas intentan detener ese avance mediante el control de las autoridades religiosas.

Azerbaiyán cuenta con un 70% de población chiíta. El islam, desde el desmoronamiento del comunismo, también ha avanzado públicamente allí, si bien existe una división entre las elites: quiénes miran a Irán, modelo de teocracia islámica y quiénes lo hacen hacia la vecina Turquía y su modelo occidental y laico.

Tayikistán ha sufrido durante años el acoso constante de guerrillas fundamentalistas, favorecido por la proximidad de Afganistán. También allí predomina la cofradía sufí local Naqshabandiyya.

¿Incide el wahhabismo en el vecino Marruecos? Allí predomina el malekismo oficial. Con todo, algunos ulemas han pedido a Mohamed VI que defienda la "soberanía del culto" marroquí, en tanto que "Príncipe de los creyentes", frente al pujante wahhabismo; todo ello según recientes informaciones de elsemanaldigital.com.

Wahhabismo en España.

El wahhabismo, estamos viendo, desarrolla una ofensiva en todo el mundo siguiendo cuatro líneas de acción: expansión misionera mediante cuantiosas inversiones en el África subsahariana, reislamización de los musulmanes de las antiguas repúblicas soviéticas, progresivo control de los musulmanes emigrados a países no islámicos y captación al islam de antiguos cristianos. España, en su contexto, no permanece ajena a tal ofensiva.

Podemos destacar tres factores claves de la situación del islam español: la división de las entidades y organizaciones musulmanas, la pertenencia al sunnismo moderado de la mayoría de los fieles aquí radicados (siendo su grupo principal el de los procedentes del vecino Marruecos), y el chorreo de dinero saudita. En estas circunstancias, el wahhabismo empieza a gozar de cierto predicamento en las mezquitas españolas, si bien existen numerosas organizaciones y entidades islámicas de todo tipo: cofradías sufíes, asociaciones de conversos españoles, grupos chiíes… lo que parece indicar de momento un islam poco monolítico y plural.

Precisamente, esta circunstancia de fragmentación asociativa quiere ser aprovechada por las autoridades wahhabitas, según informó recientemente el diario La Razón en un interesante estudio de R. Ruiz y C. Serrano. El primer paso en su estrategia expansionista sería la constitución y control de un Consejo Superior de Imanes de España, ya en tramitación, dotado de capacidad para la emisión de dictámenes de jurisprudencia islámica (fatwas) y concebido como la "autoridad religiosa islámica, científica y total". Uno de sus instrumentos sería la construcción de nuevas mezquitas. Así, se unirían en los próximos años a las ya construidas en Marbella y Madrid, la proyectada en Barcelona y otras en Las Palmas de Gran Canaria y Málaga (ciudad a la que se desplazó el Ministro de Asuntos Islámicos de Arabia Saudita para supervisar proyectos cuantificados en cuarenta millones de dólares). Esta estrategia estaría coordinada por el director del Centro Islámico de Madrid, contando con el apoyo del Consejo Continental Europeo de Mezquitas, la Liga Islámica Mundial, la Organización Rabita y la Comisión del Waqf Europeo. Su labor se complementaría con la formación científica y teológica de los futuros imanes (generalmente, de escasa capacitación) en las doctrinas wahhabitas y una generosa financiación.

En la mencionada crónica se informaba, igualmente, de la lucha interna existente dentro de la principal organización islámica española, la Federación Española de Entidades Religiosas Islámicas, por el control de su liderazgo; pugna en absoluto ajena a las actividades de los hombres del wahhabismo en España. En todos estos planes, de extensión de la hegemonía wahhabita en España, particularmente en Málaga, ocuparía una posición clave el imán Mohamed Kamal Mostafa, director de la mezquita de Fuengirola, quien justificó en un libro el maltrato de las mujeres por sus maridos, generando con ello una gran controversia en los medios de comunicación españoles.

Algunas reflexiones finales.

Buena parte de los gobiernos de Oriente próximo han procurado evitar el contagio del fundamentalismo en sus distintas vertientes –chiíta, wahhabita, salafita- mediante una islamización de las leyes, alejándose de esta manera de los modelos occidentales. Sin duda, tales medidas han contribuido a transformar profundamente esas sociedades musulmanas.

El islam avanza, en mayor medida o menor medida, en todo el mundo. Sorprende, por ejemplo, el aumento de conversiones al islam producidas entre los afroamericanos de Estados Unidos; recordemos a la organización Nación del Islam, protagonista de espectaculares movilizaciones multitudinarias. Pero también se han producido captaciones entre miembros de otras etnias; incluso de anglosajones (¿recuerdan al talibán norteamericano?). Igualmente, encontramos incipientes comunidades musulmanas en lugares tan poco proclives, aparentemente, al islam, como es el caso de Perú.

La creciente presencia musulmana también preocupa en Europa desde la concreta perspectiva de la seguridad, pues esas comunidades podrían contagiarse del afán misionero de sus hermanos en la fe y ensanchar en el futuro una fractura social, ya existente, sin precedentes. De hecho, ha generado una profunda preocupación la facilidad con la que se han desenvuelto en Europa los distintos integrantes de la red internacional de Al Qaeda implicados en los atentados del 11 S, gracias al apoyo que han encontrado en medios islámicos. Frente a unas incipientes y jóvenes comunidades, unidas por su fe islámica, la población autóctona europea se caracteriza por un progresivo envejecimiento y por carecer de firmes convicciones sin aparente ambición de futuro. El discurso ideológico predominante en Europa, "políticamente correcto", habla, ante todo, de tolerancia, multiculturalismo y pluralismo; ignorando los profundos desajustes sociales existentes y la realidad de unas comunidades cerradas, herméticas e impermeables a los principios oficiales de una laicidad neutra. En este complejo contexto, el joven islam europeo puede plantear, en un futuro inmediato, imprevisibles desafíos de indudables efectos sociales y políticos.

Bruce B. Lawrence, jefe del Departamento de Estudios Religiosos de la Universidad de Duke, aseguró recientemente que Osama Bin Laden "tiene secuestrado al wahhabismo". A su juicio, es la pureza espiritual el objetivo del wahhabismo, mientras que las concomitancias militaristas de Osama Bin Laden lo aproximarían al fascismo, una ideología ajena al islam.

Es decir, para algunos, el wahhabismo es rehén de Bin Laden y sus extremistas. Para otros, ya lo veíamos en palabras de Stephen Schwartz, al contrario, Bin Laden y Al Qaeda son su consecuencia. En cualquier caso, nos enfrentamos a una situación nueva, dramática y universal, cuyas implicaciones religiosas, sociales, políticas, estratégicas, económicas y de seguridad, no alcanzamos, todavía, a vaticinar en todo su alcance.

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Fernando José Vaquero Oroquieta