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mardi, 28 janvier 2014

CHI MANOVRA I “MODERNISTI ISLAMICI”?

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CHI MANOVRA I “MODERNISTI ISLAMICI”?

Enrico Galoppini

Ex: http://www.eurasia-rivista.org

Per gentile concessione della rivista di studi afro-asiatici “Africana”, mettiamo a disposizione l’articolo di Enrico Galoppini Chi manovra i “modernisti islamici”? (XVII, 2012, pp. 141-148: http://www.giovanniarmillotta.it/africana/africana12.html [1]).

“Timbuctu è in mano agli integralisti islamici”: così titolavano giornali ed agenzie ai primi di luglio 2012, che riferivano di distruzioni di moschee e santuari da parte dei militanti di Ansâr ed-Dîn, i quali avevano preso il controllo della città santa del Mali.[1]

Qui non c’interessa entrare nel merito dello scontro tra questi e il governo, e tra i medesimi e i tuareg “laici”, fino a pochissimo tempo prima loro alleati. Ma una cosa va detta: senza l’eliminazione di Gheddafi, che non era affatto un “ateo”, questo pandemonio in Mali – che segue quello in atto in Libia, con protagonisti vittoriosi dalle analoghe ristrette vedute – non sarebbe stato possibile. Quindi se lo segnino bene tutti quelli che adesso piangono lacrime di coccodrillo, perché chi più chi meno hanno tutti lavorato per produrre questo capolavoro. E lasciamo pure perdere il fatto che Timbuctu è considerata “patrimonio mondiale dell’umanità” dall’Unesco, poiché l’importanza, il valore di una città, di un sito, e tanto meno di un luogo sacro, non viene certo data, come si vorrebbe far credere, dalla “certificazione” da parte di un’agenzia delle Nazioni Unite, che sappiamo per quali motivi sono state istituite: preparare il “governo unico mondiale” senza Dio, con tutte le conseguenze che ne derivano.

Detto questo, passiamo ad esaminare perché questi “fondamentalisti” infieriscono con particolare veemenza e furore su quei luoghi di culto islamici, e sottolineiamo islamici, che ospitano le spoglie di personaggi considerati “santi”, modelli di pietà e virtù dalla locale popolazione (e non solo), la quale – dopo averli seguiti finché erano in questo mondo – vi si reca in “visita” [2] per beneficiare della baraka che ne promana, delle sue “influenze spirituali” ed ottenere così una “intercessione” presso il Signore, e non certo per adorarli quali “dei”. [3]

Per prima cosa, al riguardo del “culto dei santi”, degli awliyâ’ [4] in Islam, vi è da dire che esso è completamente “islamico”, mentre tutti questi “modernisti”, “salafiti”, “wahhabiti” e chi più ne ha più ne metta lo ritengono “blasfemo”, da “idolatri”. La loro argomentazione principale è che per salvaguardare il principio del tawhîd (Unità ed Unicità divine: il Principio non può che essere uno e unico) bisogna evitare assolutamente tutto ciò che fa incorrere il musulmano nell’errore di “associazionismo” (shirk), ovvero quello di attribuire a Dio dei “pari”.

Ora, fin qui (la concezione “non duale”) siamo tutti d’accordo, tuttavia per ‘eccesso di zelo’ accade che questi calvinisti d’Arabia, a furia di togliere legittimità a tutto quel che può risultare un supporto, un sostegno intermedio, una ‘rampa di lancio’ per facilitare l’elevazione del credente sino al grado più alto,  quello della Realizzazione spirituale appannaggio solo degli “eletti”, finiscono per fare completamente “terra bruciata” lasciando le persone, ancorché animate da buone intenzioni, alla mercé della cosa più pericolosa che esista: il proprio metro di giudizio [5].

I “modernisti”, infatti, da cui derivano i “salafiti”, i “takfiri” eccetera, ritengono che ciascuno, nel proprio cammino di “conoscenza” (realizzare intimamente, con “certezza assoluta”, che tutto è Dio e che Dio è ovunque) debba fare affidamento solo sul proprio sforzo; che ogni essere umano in fondo sia “il maestro di  se stesso”. Tutt’al più riconoscono l’autorità di “sapienti” usciti da determinate scuole, tutti invariabilmente della loro ideologia. Ma guai a parlare di “santi”, di “realizzati”, di “maestri”: per loro non ne esistono, salvo poi prendersene di virtuali, “di carta”, televisivi, o peggio ancora su internet, e qui cade a pennello la selva di canali satellitari che rincitrulliscono chi crede che basti spaparanzarsi in poltrona a casa e sorbirsi il predicozzo di qualcheduno che “buca lo schermo” da uno studio televisivo per ritenere di avere una guida autorevole e, soprattutto, in contatto con le “entità” benefiche che abitano il “mondo dell’invisibile” (‘âlam al-ghayb).
Ora chiunque può comprendere che se si nega che vi possano essere uomini in grado di stabilire in vita, da quaggiù, una “connessione” di questo tipo, si nega implicitamente l’esistenza del “mondo dell’invisibile”, menzionato a chiare lettere dal Corano [6].

Per questi Savonarola dell’Islam, da dottrina completa e quindi vera nella misura in cui traduce in linguaggio intelligibile per gli uomini di un’epoca (quella del Kali Yuga) [7] i dati della metafisica (che per sua essenza è una), l’Islam si trasforma in “Islamismo”, in una “ideologia religiosa”. Un po’ come il Sionismo, che lungi dal rappresentare l’Ebraismo è nient’altro che una sua interpretazione ideologica che grazie all’azione concomitante di vari fattori ha preso completamente la scena al punto che sia i suoi fautori sia i suoi
detrattori lo identificano tout court con la tradizione ebraica. Con il moderno “fondamentalismo islamico” il discorso è analogo: si tratta né più né meno che di un’interpretazione ideologica dell’Islam, che ipso facto produce un’esiziale incomprensione di cosa sia davvero l’Islam, il quale diventa, agli occhi di chi non ne sa nulla (gli “occidentali”), comprensibilmente odioso e “barbaro” [8].

Siamo dunque di fronte ad una manifestazione di “riduzionismo”, ad una semplificazione risultante da una fondamentale incomprensione che, com’è tipico di chi ha compreso ben poco, si vuole imporre a tutti quanti. In pratica si riconosce che esiste la vetta della montagna e che bisogna arrivarci, ma sul percorso e, soprattutto, sul fatto che esistano delle “guide esperte”, si glissa allegramente. Si pensi un po’ a che fine farebbe uno sprovveduto ed improvvisato alpinista qualora decidesse di salire sulla vetta dell’Everest armato solo di cartine, diari di famosi scalatori e tutto il meglio dell’attrezzatura disponibile! Certo, alla fine  ciascuno fa le ‘sue’ esperienze, ed in questo il suo viaggio è ‘unico’, diverso da quello degli altri, mentre lo sforzo profuso non è invano (non è la stessa cosa farsi portare lassù con un elicottero!), ma la meta è la stessa per tutti e da lassù si vede lo stesso panorama: si domina il mondo e si comprende che cosa è il “reale”. Questi “modernisti”, invece, convintisi che non è possibile raggiungere la vetta della montagna preferiscono divorare biblioteche intere di saggi ed enciclopedie sull’alpinismo e l’arrampicata, gareggiando a chi ne sa di più, ma guardiamoci bene dal prenderli come “guide” perché al primo crepaccio, senza alcuna  esperienza, vi finirebbero dentro trascinandovi gli incauti compagni di cordata.

La ‘montagna’, poi, bisogna amarla, e non farne un argomento da “record”, come ha spiegato un’infinità di volte Reinhold Messner. L’analogia funziona anche qui: non si può sperare di ottenere “virtude e conoscenza” solo con la “testa”… Cosa resta dunque a chi fa della “conoscenza” solo una questione d’erudizione? Per di più brandendola come una scure all’indirizzo di “apostati” (kuffâr) di cui si ha bisogno come l’aria per fortificarsi nella convinzione d’avere sempre ragione? L’affidamento alle facoltà razionali.

Ne abbiamo una plastica rappresentazione nella questione della distruzione di una porta di un celebre mausoleo a Timbuctu, tenuta chiusa per decenni, o forse ancor di più. La tradizione locale riporta che l’apertura di quella porta sarebbe avvenuta solo “alla fine dei tempi”… Allora, gli aderenti a Ansâr ed-Dîn, in segno di sfida alla “creduloneria” locale, hanno abbattuto quella porta, e naturalmente non è successo “niente”… Al che avranno certamente gongolato pavoneggiandosi per questa vittoria sulla “superstizione”!

Essi, poveretti, non si rendono conto che il punto importante non che “non è successo nulla”. L’importante è invece che hanno sfondato quella porta, che hanno superato “il limite”. Così hanno, senza rendersene conto, “inverato la profezia”. Ma facendo affidamento sulle mere facoltà razionali dell’uomo – il che li rende indifesi di fronte allo psichismo inferiore – essi agiscono credendo di operare in un senso quando in realtà lavorano per forze intente a realizzare l’esatto contrario di ciò in cui credono. In pratica, essi ritengono di agire per “sfatare la profezia”, mentre sono proprio loro che la “realizzano”! Tutto ciò è terribilmente
perfetto ed inesorabile.

Fra l’altro la distruzione della porta di Timbuctu e di vari altri santuari in tutto il mondo islamico, significativi anche perché radicano l’Islam in un tessuto locale, esattamente come i santuari cattolici (e guarda caso i protestanti non ne hanno), è analoga alla demolizione dei “buddha di Bamyan” in Afghanistan ad opera dei Talebani. Come in quell’occasione, si parla di “scempio verso la cultura”, di intolleranza religiosa” e via discorrendo, senza cogliere il punto essenziale, ancor più semplice da individuare quando a cadere sotto la  furia dei “puritani islamici” sono santuari e luoghi di culto dell’Islam stesso.

Si tratta forse di ‘sigilli’, di opere di ‘protezione’ che finché sussistono impediscono la penetrazione (o la fuoriuscita) d’influenze dissolutrici? Lo sviluppo degli eventi, in tutto il mondo islamico, non tarderà a mostrarci se ci siamo sbagliati o meno…

Ma non è finita qui. Perché l’altra grande domanda che a questo punto dobbiamo porci è: chi manovra i “modernisti islamici”?

Segnaliamo subito un fatto curioso: da quando è cominciata la cosiddetta “Primavera araba” [9], i “militanti islamici” sono ridiventati improvvisamente “simpatici” [10], da che erano dipinti – fino ad un paio d’anni fa, quando Obama, novello Kennedy, “tese la mano all’Islam” col suo discorso del Cairo – come degli autentici mostri che minacciavano i cosiddetti “Paesi arabi moderati”.
Abbiamo spiegato nella prima parte di quest’articolo qual è la mentalità di questi “modernisti” e da che ‘pulpito’ – forse sarebbe meglio dire da che ‘abisso’ – giunge la loro ‘predica’. Abbiamo anche indicato in ogni forma di “modernismo” un fenomeno di riduzionismo, quindi di fondamentale incomprensione di che cosa siano le realtà spirituali, che sono per l’appunto “realtà”, di una concretezza diversa da quella delle cose ordinarie, ma non bei discorsi e né la sopravvalutata “erudizione” di cui si vantano troppi musulmani
odierni.

D’altra parte, se il buongiorno si vede dal mattino, sono da attendersi queste ed altre ‘imprese’, ben poco…‘edificanti’: quando i wahhabiti (che non sono sunniti!) [11] conquistarono per la prima volta Medina, nel XVIII secolo, non esitarono a distruggere persino la tomba del Profeta dell’Islam, e ancora oggi di fatto impediscono il regolare svolgimento degli atti di devozione, al suo cospetto, che milioni di fedeli anelano a compiere quando si recano in Arabia per il Pellegrinaggio (o la “visita”, la ‘umra) presso “la Casa di Allâh”.

La furia ‘iconoclasta’ di questi “puritani dell’Islam” (motivo per cui van d’accordo alla perfezione con l’Angloamerica) non accenna a placarsi, dall’Egitto alla Tunisia: nel primo, addirittura, in un delirio che non teme di sfociare nella buffoneria, vi è chi propone di demolire le piramidi, simboli del “paganesimo” [12]! E non poteva mancare la Libia, vittima predestinata dopo la destabilizzazione dei due Stati vicini, sempre in nome della “lotta alla superstizione” e di un “Islam autentico” dai tratti razionalistici che si sta diffondendo
purtroppo a macchia d’olio anche in Europa grazie all’azione di organizzazioni che, commettendo un pasticcio inescusabile, cercano, un po’ perché ci credono e un po’ perché sono dei furbacchioni, di presentarsi presso “istituzioni” compiacenti come i portabandiera di un assurdo ed improponibile connubio tra “Islam e democrazia”, peraltro sostenuto a livello accademico da una sfilza di “sociologi dell’Islam” uno più incompetente e in malafede dell’altro. E tutti uniti appassionatamente – gli uni protagonisti della “primavera”, gli altri incanalando il sapere universitario in un alveo rassicurante – al servizio della loro vera ‘madrepatria’: il “mondo moderno”, nel quale si trovano entrambi a loro agio e di cui la “democrazia” è il totem indiscutibile, tanto che – senza spiegare bene da dove ciò trarrebbe legittimità dottrinale – appena una “rivolta” va a buon segno i Freedom Fighters sotterrano l’ascia di guerra ed inaugurano la stagione dei ludi elettorali, mostrando felici ai media delle stesse cricche usurocratiche che hanno finanziato le “ribellioni” il pollice intriso d’inchiostro di chi finalmente s’è messo al collo il giogo della partitocrazia e del relativo governo dei peggiori.

In Libia, quelli che ‘qualcuno’ ha denominato “drogati” e “ratti della Nato”, dopo aver servito da truppe cammellate dei “liberatori”, si sono dunque dati alla loro attività preferita [13], che è quella di profanare ciò che è completamente fuori dalla loro portata intellettuale [14]. Essi si dedicano a maledire e distruggere ciò che non capiscono, perché come tutti gli ignoranti, adusi a semplificare, vanno fuori di testa al pensiero che esista qualche cosa in grado di sfuggirgli, che gli è completamente precluso. E, colmo del ridicolo, si pavoneggiano delle loro nefande azioni, facendo a gara a chi grida più a perdifiato Allâhu akbar (“Iddio è più grande”), come per dimostrare che siccome l’ira del santo di turno, dell’intimo di Dio (il walî), non s’è scaricata sugli autori del gesto, ciò significherebbe che tutta la devozione nei suoi confronti era decisamente mal riposta poiché il Signore non ha fatto nulla per difenderne il mausoleo, né ha ‘folgorato’ gli autori della distruzione. Sembra di vedere all’opera dei positivisti ottocenteschi, tanto queste ‘dimostrazioni’ sono puerili e demenziali [15]. Questo punto non verrà mai sottolineato abbastanza per comprendere la “decadenza islamica” rappresentata da queste tendenze “moderne”, che solo qualcuno a digiuno di che cosa sia la Tradizione può scambiare per “rinascita”.


Una delle ultime bravate di questo tipo nella “Libia liberata” (quella per intendersi, ripiombata sotto il tallone dell’usura e dei suoi “prestiti”, quella del nuovo sottosviluppo camuffato da “tradizione”, quella della svendita di tutti i settori strategici che configurano la sovranità di una nazione, quella di un tribalismo inconcludente) è stata la distruzione, da parte di una massa di pecoroni aizzati dal peggior tipo di ‘pretaglia’ che esista [16], della moschea-mausoleo di ‘abd as-Salâm al-Asmar [17], di cui esiste anche una sconcertante testimonianza filmata [18].

Questo luogo di culto e di devozione, che conteneva circa 5.000 volumi finiti in cenere (avranno controllato che non ci fossero opere di Ibn Taymiyya, il loro preferito!), non è l’unico finito sotto le grinfie di questa ciurmaglia fanatizzata. A Tripoli, come scimmie ammaestrate, hanno demolito a colpi di bulldozer [19] un altro importante luogo di devozione (islamico, sottolineiamolo ancora per chi avesse cominciato a pensare che questi “musulmani” ce l’hanno con dei non musulmani) [20]. Ma al santuario di Sîdî Ahmed az-Zarrûq [21], gli stessi invasati hanno superato se stessi, svignandosela con la salma del sant’uomo lì sepolto [22].

Le “autorità” sedicenti tali, giunte a Tripoli sul ‘tappeto volante’ della British Airways, prendono le distanze, ma è un film già visto, poiché anche in Italia nei primissimi anni post-“Liberazione” erano all’opera, con licenza di uccidere e devastare, bande di “puri dell’Idea resistenziale”, evidentemente lasciate fare su ordine del vero padrone, che non era certo il governicchio degli ex di “Radio Londra” e dei ‘villeggianti’ al “confino”, ma quello che aveva stabilito la subitanea eliminazione del capo del Fascismo e la sparizione della sua famosa cartella con documenti “compromettenti”.
A proposito di bulldozer, è interessante notare che quando Israele distrugge le proprietà palestinesi coi medesimi sbrigativi mezzi, si scatena giustamente un’unanime esecrazione da parte islamica, ma in questo caso, specialmente da parte dei ‘primaverandi’, felici delle loro ‘moschee dell’Ikea’ [23], non si erge la benché minima critica.
I leader religiosi di questi ultimi, inoltre, sono perennemente imbufaliti, lanciano anatemi a destra e a manca, puntano il dito sempre contro qualcuno, ma poi, quando arrivano le palanche di qualche “emiro”, come per incanto diventano mansueti come agnellini e disposti a tollerarne ogni marachella: pecunia non olet, specialmente se sa di petrolio.

Mi chiedo come ci si possa prendere a “guida spirituale” individui che non promanano alcun senso di pace, di fratellanza, di amore [24] nel vero senso della parola, pur nelle necessarie intransigenza ed adesione allo spirito vivificatore della lettera del Messaggio (Risâla), pena lo scadimento nello “spiritualismo” e nell’irrazionale, l’altro polo dello sfaldamento dell’autentica spiritualità (e con essa dell’uomo al quale è destinata), assieme al letteralismo razionalista di cui questi “duri e puri” sono la più recente manifestazione.

Mi chiedo anche dove vogliono arrivare quando avranno consegnato tutte le sponde meridionale ed orientale del Mediterraneo a costoro. Ci metteranno il terrore mediatico addosso per imbarcarci così in una nuova stagione dello “scontro di civiltà” a beneficio del divide et impera nel Mediterraneo? La Nato li aiuterà ad attaccarci e a colonizzarci qualora tentassimo di sbarazzarci dei nostri pluridecennali occupanti?
Eh sì, perché questi signori – a parte il pulcherrimo attentato dell’11/9 attribuito ad Osama bin Mossad – non sembrano affatto interessati a nuocere all’America e all’Inghilterra, che anzi ammirano in cuor loro e poi odiano perché l’ammirazione non è ricambiata, ma sono costantemente disposti a seminare morte e distruzione in tutti quei paesi che periodicamente l’Occidente individua come “il nemico” da distruggere: prima l’Afghanistan con la scusa del “comunismo ateo” (perché, l’Occidente non è “ateo”?), poi la Jugoslavia con la scusa della “pulizia etnica” (a senso unico), poi l’Algeria con la scusa del “pericolo fondamentalista” (da essi stessi alimentato per rovesciare un governo inviso!), poi la Cecenia con la scusa che comunque i russi sono sempre “comunisti” ed “ubriachi”, poi la “primavera araba” con la scusa delle “tirannie” (a geometria variabile)… E il prossimo obiettivo su commissione chi sarà? L’India perché
“adorano le vacche”? La Cina perché mangiano maiale con funghi e bambù? La Chiesa cattolica perché la Trinità è “pagana”? L’Iran e gli sciiti perché sono “eretici”? Insomma, la lista dei “cattivi” consegnata da qualche James Bond assieme alla valigetta coi dobloni è ancora lunga, e nemmeno alla fine si scorge il nome dell’Angloamerica. No, per loro, alla prova dei fatti, e non di qualche fanfaronata plateale che non costa nulla, il problema non sussiste.

Qualcuno piuttosto famoso tra i musulmani, l’Imam Khomeyni, certamente consapevole che l’Avversario è ben altro che un accidente del mondo, ebbe a definire l’America “il Grande Satana” e una certa concezione della sua medesima religione “l’Islam americano”. Si dice anche che l’astuzia più abile del Demonio sia quella di far credere che non esiste. Ecco, questi “modernisti islamici” non saranno arrivati a tanto, ma di sicuro lo scambiano di continuo con qualcun altro.

http://www.cese-m.eu/cesem/2014/01/chi-manovra-i-modernisti-islamici/[2]

 

NOTE

 

1. ROSSELLA BENEVENIA, Mali: integralisti distruggono entrata moschea a Timbuctu, “Ansa.it” 3 luglio 2012.

 

2. Il termine arabo per “visita” è ziyâra, dal verbo zâra/yazûru, che significa appunto “visitare”, utilizzato anche in senso più generale e meno “tecnico”.

 

3. Su tale importantissima pratica, riscontrabile in moltissime tradizioni, cfr. NELLY AMRI, Le corps du saint dans
l’hagiographie du Magherb médiéval, pubblicato il 5 settembre 2012 sul sito “al-Simsimah” (http://alsimsimah.blogspot.be/2012/09/le-corps-du-saint-dans-lhagiographie-du.html).

 

4. Sing. walî, da una radice che veicola il significato di “vicinanza”, “amicizia”, quindi di “governo per conto di” (in questo specifico caso, “per conto del Signore”).

 

5.Sulla questione della “liceità”, dal punto di vista islamico, della pratica della “visita” alle tombe dei santi e di tutto quel che vi attiene, un testo di riferimento è Rudûd wa munâqashât ‘alà mâ warada fî kutayyibât “ash-shirk wa
wasâ’iluhu ‘inda fuqahâ’ al-madhâhib al-arba‘a” [Repliche e discussioni riguardo ai libelli (della serie) su “L’associazionismo e i suoi strumenti presso i giurisperiti delle quattro scuole di diritto”], quello pubblicato dalla Idârat al-iftâ’ wa al-buhûth – Qism al-buhûth [Direzione delle fatwa e delle ricerche – Dipartimento per le ricerche] (senza riferimenti di luogo e data). Qui, per “associazionismo” s’intende quel che talvolta è tradotto malamente con
“politeismo”: tecnicamente, lo shirk consiste nell’associare, nella pratica e nel pensiero, altri “dei” all’Unico Dio; si tratta, in altre parole, della sanzione dell’errore in cui cade chi professa in qualsiasi modo una concezione dualista.

 

6. A partire dalla sûra II, v. 3.

 

7. Sulla dottrina dei “cicli cosmici”, una delle migliori opere disponibili è quella di GASTON GEORGEL, Le quattro età
dell’umanità, (trad. it.) Il Cerchio, Rimini 1982 (ed. orig. In francese Archè, Milano, 1975).

 

8. Qui per “occidentali” non s’intende coloro che abitano una determinata area del pianeta, bensì tutti quelli che
condividono, adeguandovi il loro modo di vita, la visione del mondo “moderna”, caratterizzata essenzialmente all’ateismo (che può camuffarsi in vari modi, tra i quali vi è il cosiddetto “laicismo”). “Occidentale”, pertanto, è
sinonimo di “moderno”.

 

9. Rimandiamo al nostro “Primavera araba” o “fine dei tempi”?, pubblicato su “Europeanphoenix.it” il 6 aprile 2011.

 

10. Lo sono stati già molte volte, all’epoca della guerra contro l’Urss in Afghanistan, durante lo smembramento della ex Jugoslavia, di nuovo in funzione anti-russa in teatri come la Cecenia, l’Ossezia, il Daghestan ecc.

 

11. MOHAMED OMAR, I sunniti sono oppressi in Arabia saudita, non in Siria, “Eurasia-rivista.org”, 13 agosto 2012.

 

12. Cfr. I salafiti: “Le piramidi vanno distrutte. Sono simboli pagani”, “Il Messaggero”, 13 luglio 2012  (http://www.ilmessaggero.it/primopiano/esteri/i_salafiti_le_piramidi_vanno_distrutte_sono_simboli_pagani/notizie/208009.shtml).

 

13. Cfr. Libia: attacchi ai mausolei, dal sito di “Euronews”, 26 agosto 2012.

 

14. Qui adottiamo la definizione di “intelletto” secondo la quale si tratta della conoscenza intuitiva, del cuore, non della mente.

 

15. Si potrebbe proporre un ardito accostamento. Quelli che si radunano sotto la croce e chiedono al Cristo, per tentarlo, perché, se è “veramente il Figlio di Dio”, non chiama una legione di angeli a salvarlo, è come se insinuassero: “Siccome non è stato mandato nessuno a salvarti, sei un ciarlatano! Non sei quello che affermi di essere!”.

 

16. Quella di casa a Londra che – tanto per citare un esempio della sua mostruosità – incita all’omicidio di altri musulmani (“deviati”, of course) per il solo fatto che non belano all’unisono secondo i dettami dell’“ideologia islamica” che intendono gabellare per Islam. Si veda quel che afferma lo “shaykh” libanese Omar Bakri, di stanza per lungo tempo proprio a Londra: http://www.youtube.com/watch?v=GIgnUuOC4RE&feature=youtu.be.

 

17. http://en.wikipedia.org/wiki/Abd_As-Salam_Al-Asmar.

 

18. http://www.youtube.com/watch?v=wnlRVKVuo7M&feature=youtu.be.

 

19. http://www.youtube.com/watch?v=wnlRVKVuo7M&feature=youtu.be.

 

20. Cfr. GINETTE HESS SKANDRANI, La nouvelle Libye démocratique, tribaliste, takfiriste, otanesque, oscurantiste…, “La voix de la Libye”, 26 agosto 2012 (http://lavoixdelalibye.com/?p=5574).

 

21.  Qui una biografia: http://alsimsimah.blogspot.it/search/label/Biographie%20de%20Sidi%20Ahmed%20Zarrouqq.

 

22. Shaykh Ahmad Zarroq’s grave has been desecrated in Libya, articolo del 26 agosto 2012, che segnala anche un filmato in cui un’autorità islamica residente in Canada denuncia in maniera molto chiara l’azione dei salafiti: http://www.youtube.com/user/ShaykhFaisalVideoBlo?feature=watch). Per giudicare il livello “intellettuale” di questi ‘picconatori islamici’, si veda quest’intervista, nella quale il custode della moschea-mausoleo di ‘Uthmân Bâshâ, in Libia, racconta alcuni aneddoti relativi al raid distruttivo di cui è stata oggetto: http://www.youtube.com/watch?v=xzwskvKyWqY.

 

23. Il riferimento è a luoghi di culto standardizzati, costruiti secondo uno stile inconfondibile, alieno rispetto alla storia e alle tradizioni del luogo, dai quali naturalmente sono banditi tutti gli elementi cosiddetti “superstiziosi”. I Balcani si sono riempiti, da una decina d’anni a questa parte, di moschee di questo tipo.

 

24 Cfr. ENRICO GALOPPINI, Solo un santo ci può salvare dalla “crisi”, “Europeanphoenix.it”, 22 dicembre 2011,  http://europeanphoenix.it/component/content/article/3-societa/206-solo-un-santo-ci-puo-salvare-dalla-crisi.

jeudi, 28 mars 2013

Les trois bases du journalisme

  Il ne vous a pas échappé que les mensonges des médias, non seulement sont de plus en plus gros mais aussi de plus en plus nombreux. Leur "amitié particulière" avec le milieux (au sens mafieux) politique,  l'industrie bancaire et de l'armement y est sans doute pour quelque chose.

    Mais depuis les soit-disantes révolutions arabes "spontanées" , organisées par les USA et Israel dans le but de remodeler tout le moyen orient pour leurs seules besoins (et la création du Grand Israel) , le nombre des média-mensonges est devenue quasiment exponentiel.

  Des reportages sur la Lybie et sur la Syrie bidonnés par la célébrissime  propagandiste CNN (lien) au reportage de Martine Laroche-Joubert, dont le montage plus que douteux  montre la navrante tentative de manipuler l'opinion française et international (lien).

 Depuis quelques jour c'est une orgie d'Amérique qui sature nos écrans 16/9. On a l'impression de devoir aller voter pour les démocrates ou les républicains dans le bureau de vote le plus proche. Quand a l'ouragan Sandy,  si il avait frappé la France , on en aurait moins entendus parlé. D'ailleurs quand il a dévasté Haiti, qui ne se remet toujours pas de son tremblement de terre, nos glorieux journaloppettes  n'ont du en parler qu'a peine 5 minutes.

Deux poids , deux mesures, comme d'habitude.

    Maintenant c'est au tour du mariage gay, avec en intermède un invraisemblable culte de la personnalité voué a Netanyahu, le lieder de l'extrême droite israélienne la plus hystérique et nauséabonde, depuis les années 30.

Avez vous entendu parler de la chasse au noir dans les rues des villes israeliennes? Ben non.  (lien)

Et ne parlons pas de la cabale artistique faite par l'ensemble des médias a Dieudonné, dont ,a l'origine, était juste un petit sketch sur les colons israeliens.

Gravissime erreur de l'humoriste qui croyait encore en la France de la libre parole. Les chiens chiens a leur maimaitres furent lâchés, et ils se sont régalé.

De toutes façon , tout cela n'est que rideaux de fumées, de façon a détourner les citoyens des vraies problèmes.

Et vous allez rire, ça marche!!! 

      Le mensonge par enfumage, le mensonge par amalgame, le mensonge par omission, le mensonge par exagération, le mensonge par détournement d'images, le mensonge par détournement de propos etc... voila résumé le journalisme français.

Les médias français ont appris a conjuguer le verbe mentir a tous les temps et en toutes occasions.

La philosophie du bonheur journalistique servant de base non seulement aux médias français mais aussi a ceux de toute la planète entière pourrait être :

  - je n'entends (ou n'écoute) pas la vérité (par contre j'entends bien la voix de mon maître)

  - je ne vois pas la vérité (regardons ailleurs, ça vaut mieux)

  - je ne dis pas la vérité (le plus important)

La philosophie du bonheur journalistique

 

Et surtout rappelez vous: NO VERITAS IN MASS MEDIAS

 La vérité n'est pas dans les médias de masse.

samedi, 16 mars 2013

Les hologrammes de la politique

femme_hologramme.jpg

L’art de la guerre : Les hologrammes de la politique

 
Ex: http://www.mondialisation.ca/

On parle de tout dans le débat politique, sauf d’une chose : la politique extérieure (et donc militaire) de l’Italie. Comme par une entente tacite entre les adversaires, on évite toute référence au rôle de l’Italie dans l’Otan, à la métamorphose de l’Alliance, au projet de l’Otan économique, aux rapports avec les USA, aux guerres en cours et en préparation, et au scénario de la nouvelle confrontation Ouest-Est dans la région Asie/Pacifique. Chaque jour on martèle les télé-électeurs avec les répercussions de la « crise », en la faisant apparaître comme une calamité naturelle, en se gardant bien d’en rechercher les causes, qui sont structurelles, c’est-à-dire congénitales du système capitaliste dans l’ère de la « globalisation » économique et financière. On crée ainsi un environnement virtuel, qui restreint le champ visuel au pays dans lequel nous vivons, en faisant disparaître le monde dont il fait partie. Mais quelque chose nous est montré, en fabriquant des hologrammes idéologiques partagés par tout l’arc politique, y compris les partis et mouvements qui se présentent comme alternatifs. Avant tout celui du « modèle étasunien ».

Nous avons donc Bersani qui, en présentant le programme du Pd[1], déclare à America 24 (le 18 février) que « la politique européenne devrait un peu plus ressembler dans le domaine économique et social à celle des Etats-Unis ». Dont la validité est démontrée par les 50 millions de citoyens Usa, dont 17 millions d’enfants, qui vivent dans des conditions d’ « insécurité alimentaire », c’est-à-dire sans suffisamment de nourriture, par manque d’argent.

Nous avons ainsi Ingroia qui, en présentant le programme de Révolution civile[2], déclare à America 24 (le 14 février) qu’il est « favorable à l’augmentation des investissements américains (étasuniens, Monsieur le Juge, NdT) en Italie ». Emblématique notamment l’investissement de l’Aluminium Company of America (la multinationale qui a les mains pleines du sang des plus terribles coups d’Etat en Indonésie et au Chili) : après avoir pressé jusqu’à la dernière goutte le site de Portovesme, en obtenant des dégrèvements sur les factures d’électricité pour des milliards d’euros (payés par les utilisateurs), elle s’en est allée en laissant derrière elle chômage et dégâts environnementaux. Ingroia, en outre, définit le système étasunien comme « un système qui même du point de vue de la justice est certainement le plus efficient », dans lequel « il y a un tel respect de l’activité judiciaire de la part de la politique qu’on ne pourrait pas penser à un conditionnement de la magistrature ».La preuve : la population carcérale étasunienne (la plus grande du monde avec plus de 2 millions de détenus) est composée aux deux tiers de noirs et d’hispaniques, les habitants les plus pauvres qui ne peuvent pas se payer d’avocats ni de cautions ; autre preuve, l’enlisement d’importantes enquêtes comme celle sur l’assassinat de Kennedy.

Et nous avons enfin Grillo[3] qui, alors qu’il refuse en bloc les media italiens en les définissant comme mensongers, accorde des interviews à Cnn et à la revue Time du groupe étasunien Time Warner qui, avec plus de 300 sociétés, est l’empire multimédia le plus influent du monde. Le message subliminal qui en dérive (Casaleggio[4] docet) est que le système multimédia étasunien est fiable.

Avec les remerciements du Grand Frère.

Manlio Dinucci

Edition de mardi 12 mars 2013 de il manifesto.

http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20130312/manip2pg/14/manip2pz/3372

Traduit de l’italien par Marie-Ange Patrizio

 Manlio Dinucci est géographe et journaliste.



[1] Partito democratico, qui a obtenu la majorité relative aux dernières élections.

[2] Revoluzione civile : coalition électorale de gauche, présidée par le magistrat Ingroia, qui n’a pas obtenu suffisamment de voix pour entrer au parlement.

[3] Beppe Grillo, comique satyrique, chef du Movimento 5 Stelle qui a obtenu aux élections les voix des nombreux mécontents de tous bords.

[4] Casaleggio, le « gourou » du Movimento 5 Stelle, artisan de la campagne sur Internet.

samedi, 02 mars 2013

La guerre d’Espagne et l’art moderne comme instrument de torture et de conditionnement social

 

Picasso_Guerre_1951.JPG

Nicolas BONNAL:

La guerre d’Espagne et l’art moderne comme instrument de torture et de conditionnement social

Ex: http://aucoeurdunationalisme.blogspot.com/

 
Car le fantastique me tourmente comme toi-même,
aussi j’aime le réalisme terrestre. Chez vous, tout
est défini, il y a des formules, de la géométrie ;
chez nous, ce n’est qu’équations indéterminées.
Le Diable (dans "les Frères Karamazov")

A mesure que le déchiffrage de l’Histoire progresse, la guerre d’Espagne apparaît, par-delà son imagerie romantique, comme le premier laboratoire orwellien de la modernité. A mesure aussi que l’humanité toute nue et entière entre dans cette modernité, elle ne peut qu’abandonner tout espoir, comme les victimes de l’enfer dantesque. Elle se déconnecte ou elle rêve, et puis elle se soumet.

L’historien espagnol José Milicua a découvert que, pour torturer et briser psychiquement des détenus politiques, l’avant-garde révolutionnaire avait utilisé l’avant-garde artistique. L’art moderne, éclaireur et compagnon de route des révolutions, se faisant ainsi le complice de leurs dérives totalitaires. C’est un ouvrage introuvable, "Por que hice las checas de Barcelona", de R.L. Chacón (Ed. Solidaridad nacional, Barcelone, 1939), qui est à l’origine de cette révélation paradoxale, les tortionnaires furent les républicains anarchistes et marxistes et leurs victimes les fascistes franquistes.

Chacón a consigné la déposition d’un anarchiste français d’origine austro-hongroise, Alphonse Laurencic, devant le Conseil de guerre. Accusé de tortures par la justice espagnole, ce geôlier amateur reconnaît en 1938 que, pour pousser à bout ses prisonniers franquistes, il a, avec deux autres tortionnaires appelés Urduena et Garrigo, inventé des checas, cellules de torture psychique. Il enfermait ses victimes dans des cellules exiguës (ce n’est pas nouveau), aussi hautes que longues (2 m) pour 1,50 m de large. Le sol est goudronné, ce qui, l’été, suscite une chaleur épouvantable (l’idée sera abandonnée parce que, du coup, ces cellules sont moins glaciales en hiver). Les bats-flancs, trop courts, sont inclinés de 20°, ce qui interdit tout sommeil prolongé.

Le prisonnier, comme l’esthète décadent d’"A rebours", de J.K. Huysmans, est accablé de stimuli esthétiques : bruits, couleurs, formes, lumières. Les murs sont couverts de damiers, cubes, cercles concentriques, spirales, grillages évoquant les graphismes nerveux et colorés de Kandinsky, les géométries floues de Klee, les prismes complémentaires d’Itten et les mécaniques glacées de Moholy Nagy. Au vasistas des cellules, une vitre dépolie dispense une lumière verdâtre. Parfois, comme Alex, le héros d’Orange mécanique, ils sont immobilisés dans un carcan et contraints de regarder en boucle des images qui évoquent un des plus célèbres scandales de l’histoire du 7e Art : l’oeil découpé par une lame de rasoir du Chien andalou, de Buñuel et Dali et dont l’historien du surréalisme, Ado Kyrou, écrit que ce fut le premier film réalisé pour que, contre toutes les règles, le spectateur moyen ne puisse pas en supporter la vision.

***

Si la loi de l’art classique fut de plaire et d’ordonner, celle de l’art moderne sera donc de choquer et de désaxer, un peu il est vrai comme aux temps baroques (voir les tyrans baroques du cinéma soviétique pour enfants). Signe supplémentaire et presque superflu des temps d’inversion. S’étonner que l’avant-garde esthétique serve d’aussi noirs desseins et que l’art moderne "rebelle et libérateur" se fasse complice de la répression serait oublier l’histoire d’un siècle d’horreur. « Ce siècle est un cauchemar dont je tente de m’éveiller », dit d’ailleurs Joyce au moment où se déclenchent en Europe les guerres des totalitarismes. Il publie, comme un exorcisme, l’incompréhensible "Finnegan’s Wake" qu’il appelle lui même « la folle oeuvre d’un fou ». Paul Klee, un des peintres utilisés par Laurencic, plaide que « Plus le monde est horrible, plus l’artiste se réfugie lui-même dans l’abstraction ».
En musique, Schoenberg rompt avec un romantisme tardif pour se lancer dans la provocation dodécaphonique, qui aujourd’hui encore reste insupportable au public moderne. Et Ravel entendant une auditrice du Boléro crier « Au fou ! » s’exclame : « Enfin une qui a compris ! »
Au cinéma, la distorsion folle des formes du Cabinet du docteur Caligari accompagne la contestation politique radicale de l’expressionnisme de l’entre-deux-guerres.
En architecture, l’art de Le Corbusier, prétendument fondé sur la dimension humaine (le modulor) révèle une obsession carcérale que la spontanéité populaire saisira d’instinct en baptisant son oeuvre « la maison du fada ». En somme, toute l’esthétique née dans la première moitié du siècle est un hurlement de dément devant les guerres qui dévastent l’Europe et les totalitarismes qui l’enserrent. Ce pourquoi, aujourd’hui encore, elle impose la mobilisation de brigades médiatiques de soutien esthétique pour s’imposer, tant elle défie le goût du commun.

Aux yeux de l’artiste contemporain, l’homme n’est plus une âme à la recherche de Dieu ni même une intelligence en quête de Raison. C’est une monade, un fou qui s’ignore dans un monde fou qui l’ignore, et pour ce fou l’art ne peut être que le miroir de son inquiétante étrangeté. Dès lors, le malentendu est complet. Une critique naïve ou complice exalte la "rébellion" des artistes quand ceux-ci, au contraire, sont avec les bourreaux pour torturer les hommes et les priver de leurs libertés.

José Milicua fait observer que plusieurs dessins géométriques des checas préfigurent l’art cinétique de Vasarely. Or ce maître des géométries variables est la clé d’un film célèbre, L’Exorciste : lorsque Regan, la jeune possédée (Linda Blair), se rend chez le psychiatre pour subir des examens très techniques (on prétend la réparer comme une machine, au lieu qu’il faudrait la sauver comme une âme en peine), elle s’assied devant une toile de Vasarely, labyrinthe qui reflète sa possession en même temps qu’elle la nourrit. Après sa crise éclate.
Ce lien entre l’art et la démence qui est une possession, est typiquement moderne. L’art, détourné de sa fonction de serviteur du Beau, du Vrai, du Bon, devient une arme de la Folie contre la Raison classique.

La torture de Laurencic préfigure Le Prisonnier, mythique série télévisée psychédélique des années soixante où des caméras omniprésentes sont là moins pour surveiller des détenus qui ne peuvent pas s’évader que pour déchiffrer leurs réactions à cet univers privé de raison. L’ambiance festive du village y agit comme un antidépresseur qui facilite le travail des cerbères. Et le but de cette torture est d’obtenir un aveu, des « renseignements ».

***

Puis on découvre que l’art moderne est mis au service du décor urbain de la modernité, lui-même instrument de torture géant soumettant les populations aux flux de circulation, au stress des news, à la consommation éternelle.

Ainsi, dans un décor moderne qui privilégie l’abstraction et l’espace mécanique, l’homme se renferme sur lui-même et fabrique son propre malheur. La "maison du fada" nourrit la dépression des cités, Brasilia provoque des accès de brasilitis, psychopathie spécifique à la ville moderne, « lieu situé dans un espace déshumanisé, abstrait et vide, un espace impersonnel, indifférent aux catégories sociales et culturelles », écrit très bien Zygmunt Bauman. Un plan de ville devient un transistor ou tableau abstrait (Vasarely, encore lui, voyait ses tableaux comme des « prototypes extensibles des cités polychromes de l’avenir »). Le dessin devient un dessein. Le plan directeur, un plan de dictateur (le totalitariste Le Corbusier projetait de raser le centre historique de Paris et dédiait « A l’Autorité ! » le plan de sa "Cité radieuse"). Le sujet isolé dans la cellule de sa banlieue est voué à « l’expérience du vide intérieur et à l’incapacité de faire des choix autonomes et responsables » (Bauman). Dès lors, le bat-flanc du prisonnier de Laurencic, si inconfortable soit-il, l’est cependant moins que l’espace extérieur, surveillé et vitrifié. Pour ne pas parler du décor immonde de son émission de TV préférée.

Dans un maître-ouvrage oublié, "Building Paranoïa", publié en 1977, le docteur Steven Flusty remarquait déjà que l’espace urbain est en proie à une frénésie d’interdits : espaces réservés (filtrage social), espaces glissants (labyrinthes détournant les gêneurs), espaces piquants (où l’on ne peut s’asseoir), espaces angoissants (constamment patrouillés ou espionnés par vidéo). C’est le décor fou de la fin des Blues Brothers.

Ce conditionnement paranoïaque est une application à l’échelle urbanistique des intuitions de Laurencic. Le dressage s’y pratique "en douceur", sans la brutalité qui risquerait de provoquer la révolte du sujet. Ainsi, sur les quais du métro, les bancs de jadis font place à des sellettes inclinées à 20° (le même angle que dans les cachots anarchistes de Barcelone !) sur lesquelles on peut poser une fesse mais en aucun cas s’attarder, ce qui dissuade le stationnement des clochards.

Laurencic a ainsi créé artisanalement l’arsenal de conditionnement et de manipulation des systèmes postmodernes, qui sont au sens strict des sociétés créées sur plan, avec des individus au comportement prévisible et, comme notre prisonnier, de la checa ou de la télé, nourris d’amertume.

Chaque écroulement d’une figure du pouvoir
totalitaire révèle la communauté illusoire qui
l’approuvait unanimement, et qui n’était
qu’un agglomérat de solitudes sans illusions.

La Société du Spectacle

lundi, 21 janvier 2013

SOS-Racisme: histoire d'une manipulation

Mardi 29 janvier (19 h 30) : conférence de Synthèse nationale à Paris...

Conf SOS 29 01 2013.jpg

vendredi, 30 novembre 2012

Sexual Liberation and Political Control

Sexual Liberation and Political Control

Libido-Dominandi-9781587314650.jpgLiberalism, by the inner dynamic of its logic, was forced to become an instrument of social control in order to avoid the chaos which it created by its own erosion of tradition and morals. Democratic man could not be left to his own devices; chaos would result. The logic was clear. If there is no God, there can be no religion; if there is no religion, there can be no morals; if there are no morals, there can be no self-control; if there is no self-control, there can be no social order; if there is no social order, there can be nothing but the chaos of competing desire. But we cannot have chaos, so therefore we must institute behavioral control in place of the traditional structures of the past — tradition, religion, etc. Abolishing tradition, religion and morals and establishing ”scientific” social control are one and the same project.

E. Michael Jones, Libido Dominandi — Sexual Liberation and Political Control (via zerogate)

vendredi, 12 octobre 2012

Fehlschuss - Granate stammt aus NATO-Beständen

Fehlschuss - Granate stammt aus NATO-Beständen und wurde laut Zeitungsbericht von der Türkei an die Rebellen geliefert

 

Redaktion

Bei der Granate, die beim Angriff auf die türkische Stadt Akçakale abgefeuert wurde, handelt es sich um ein Modell, das nur bei der NATO verwendet wird und das über die Türkei in die Hände der syrischen Rebellen gelangte, berichtet die türkische Zeitung Yurt. Die Granate tötete am vergangenen Mittwoch eine erwachsene Frau und vier Kinder der gleichen Familie.

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mercredi, 25 mai 2011

La manipulation de l'opinion en démocratie

La manipulation de l'opinion en démocratie
 

 


Peut-être existe-t-il encore quelques naïfs qui pensent que la propagande et la manipulation de l’opinion sont des spécialités réservées aux régimes autocratiques ou totalitaires clairement proclamés comme tels. Dans le monde de bisounours gavés à la guimauve démocratolâtre télévisuelle dans lequel nous vivons, ce n’est pas du tout impossible. Et bien ces derniers candides seront définitivement guéris de leurs puériles illusions par la lecture de cet ouvrage d’Edward Bernays datant de 1928. Les autres y trouveront matière à approfondir leur connaissance des méthodes et mécanismes  de l’instrumentalisation de l’opinion publique.

L’aspect le plus intéressant de cette analyse de « la manipulation de l’opinion en démocratie » (sous-titre de l’ouvrage) est qu’elle n’émane pas d’un adversaire de ces méthodes, un activiste « libertaire » visant à dénoncer et démonter l’odieuse forfaiture mais tout au contraire d’un promoteur de cette « dominations des foules par des élites éclairées », fondateur des « relations publiques » et grand théoricien de celles-ci.

Pour Edward Bernays en effet, la manipulation est tout à fait nécessaire à la « bonne conduite » de la société dans un système démocratique. Sans celle-ci, sans cette capacité  des « élites » à influencer les foules dans le sens de leurs intérêts (forcément bénéfiques pour l’ensemble de la communauté selon Bernays) les démocraties sombreraient dans l’anomie et le chaos.

Le livre de ce neveu de Freud est donc en réalité un petit « mode d’emploi » de l’art de faire croire aux individus qu’ils font des choix libres et volontaires alors que ces choix leurs sont « suggérés » (fortement) par les élites maîtrisant les rouages de l’information, de la publicité et des arts populaires (cinéma, théâtre…).

Pour Bernays, « la manipulation consciente, intelligente, des opinions et des habitudes organisées des masses joue un rôle important dans une société démocratique. Ceux qui manipulent ce mécanisme social imperceptible forment un gouvernement invisible qui dirige véritablement le pays », et il se donne pour mission d’expliciter comment ce « gouvernement invisible » parvient  à ses fins, grâce notamment à l’application des principes de « relations publiques » qu’il a mis au point et qu’il cherche à vendre aux « élites » de tous ordres (commerçants et industriels bien sûr mais aussi hommes politiques, facultés, lobbys divers…).

Bernays est ainsi l’homme qui est parvenu à faire fumer les américaines à la demande d’American Tobacco qui ne supportait plus d’être ainsi privé d’un si vaste marché potentiel.  Détournant à son profit le mouvement des « suffragettes », Bernays a en effet réussi à faire passer le fait de fumer pour un acte de libération féminine, une marque d’indépendance et de « prise de possession d’un symbole phallique » (on reconnaît là l’influence de l’oncle) et a ainsi rempli un peu plus grassement les caisses du cigarettier (et accessoirement plus tard celles des cancérologues).

C’est ainsi avec une bonne conscience absolue et un contentement total que Bernays explique l’importance pour tout homme de pouvoir de s’adjoindre les services des « hommes d’autorités » (médecins, juges et tout autre personne considérée dans l’esprit général comme neutre et impartiale) pour leur servir de « relais d’opinion » et imposer peu à peu leurs projets et conceptions. Noam Chomsky considère  d’ailleurs ce texte comme l'un des plus important du 20ème siècle, lui pour qui "la propagande est à la démocratie ce que la violence est à un Etat totalitaire".

Une lecture fondamentale pour ne jamais être dupe des modes, des engouements populaires et autres « mouvements d’opinion ».

Xavier Eman  (in « Livr’arbitres », numéro 4, nouvelle série).

lundi, 11 avril 2011

As Dez Estratégias de Manipulaçao Midiàtica

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As Dez Estratégias de Manipulação Midiática

 
por Noam Chomsky
 
1 - A Estratégia da Distração:
O elemento primordial do controle social é a estratégia da distração que consiste em desviar a atenção do público dos problemas importantes e das mudanças decididas pelas elites políticas e econômicas, mediante a técnica do dilúvio ou inundação de contínuas distrações e de informações insignificantes. A estratégia da distração é igualmente indispensável para impedir que o público se interesse pelos conhecimentos essenciais, na área da ciência, da economia, da psicologia, da neurobiologia e da cibernética. "Manter a atenção do público distraída, longe dos verdadeiros problemas sociais, cativada por temas sem importância real. Manter o público ocupado, ocupado, ocupado, sem nenhum tempo para pensar; de volta à granja como os outros animais (citação do texto 'Armas silenciosas para guerras tranqüilas')".
2 - Criar Problemas e depois Oferecer Soluções:
Este método também é chamado "problema-reação-solução". Cria-se um problema, uma "situação" prevista para causar certa reação no público, a fim de que este seja o mandante das medidas que se deseja fazer aceitar. Por exemplo: deixar que se desenvolva ou se intensifique a violência urbana, ou organizar atentados sangrentos, a fim de que o público seja o demandante de leis de segurança e políticas em prejuízo da liberdade. Ou também: criar uma crise econômica para fazer aceitar como mal necessário o retrocesso dos direitos sociais e o desmantelamento dos serviços públicos.
3 - A Estratégia da Gradualidade:
Para fazer com que se aceita uma medida inaceitável, basta aplicá-la gradualmente, a conta-gotas, por anos consecutivos. É dessa maneira que condições sócio-econômicas radicalmente novas (neoliberalismo) foram impostas durante as décadas de 1980 e 1990: Estado mínimo, privatizações, precariedade, flexibilidade, desemprego em massa, salários que já não asseguram rendas decentes, tantas mudanças que teriam provocado uma revolução se tivessem sido aplicadas de uma única vez.
4 - A Estratégia de Diferir:
Outra maneira de fazer aceitar uma decisão impopular é a de apresentá-la como "dolorosa e necessária", obtendo a aceitação pública, no momento, para uma aplicação futura. É mais fácil aceitar um sacrifício futuro que um sacrifício imediato. Primeiro, porque o esforço não é empregado imediatamente. Logo, porque o público, a massa, tem sempre a tendência a esperar ingenuamente que "tudo vai melhorar amanhã" e que o sacrifício exigido poderá ser evitado. Isso dá mais tempo ao público para se acostumar à idéia da mudança e de aceitá-la com resignação quando chegue o momento.
5 - Dirigir-se ao Público como Crianças:
A maioria da publicidade dirigida ao grande público utiliza discurso, argumentos, personagens e entonação particularmente infantis, muitas vezes próximos à debilidade, como se o espectador fosse uma criatura de pouca idade ou um deficiente mental. Quanto mais se tente buscar enganar o espectador, mais se tende a adotar um tom infantilizante. Por quê? "Se dirige-se a uma pessoa como se ela tivesse a idade de 12 anos ou menos, então, em razão da sugestionabilidade, ela tenderá, com certa probabilidade, a uma resposta ou reação também desprovida de sentido crítico como a de uma pessoa de 12 anos ou menos de idade (ver 'Armas silenciosas para guerras tranqüilas')".
6 - Utilizar o Aspecto Emocional muito mais do que a Reflexão:
Fazer uso do aspecto emocional é uma técnica clássica para causar um curto-circuito na análise racional, e finalmente no sentido crítico dos indivíduos. Por outra parte, a utilização do registro emocional permite abrir a porta de acesso ao inconsciente para implantar ou enxertar idéias, desejos, medos e temores, compulsões, ou induzir comportamentos...
7 - Manter o Público na Ignorância e na Mediocridade:
Fazer com que o público seja incapaz de compreender as tecnologias e os métodos utilizados para seu controle e escravidão. "A qualidade da educação dada às classes sociais inferiores deve ser a mais pobre e medíocre possível, de forma que a distância da ignorância que planeja entre as classes inferiores e as classes superiores seja e permaneçam impossíveis de alcançar para as classes inferiores (ver 'Armas silenciosas para guerras tranqüilas')".
8 - Estimular o Público a Ser Complacente com essa Mediocridade:
Promover ao público a crença de que é moda o fato de ser estúpido, vulgar e inculto...
9 - Reforçar a Auto-Culpabilidade:
Fazer crer ao indivíduo que é somente ele o culpável por sua própria desgraça, por causa da insuficiência de sua inteligência, de suas capacidades, ou de seus esforços. Assim, no lugar de rebelar-se contra o sistema econômico, o indivíduo se auto-desvaloriza e se culpa, o que gera um estado depressivo, um de cujos efeitos é a inibição de sua ação. E, sem ação, não há revolução!
10 - Conhecer aos Indivíduos Melhor do que Eles Conhecem a Si Mesmos:
No transcurso dos últimos 50 anos, os avanços acelerados da ciência geraram uma crescente brecha entre os conhecimentos do público e aqueles possuídos e utilizados pelas elites dominantes. Graças à biologia, à neurobiologia e à psicologia aplicada, o "sistema" tem desfrutado de um conhecimento avançado do ser humano, tanto de forma física como psicologicamente. O sistema tem conseguido conhecer melhor ao indivíduo comum do que ele se conhece a si mesmo. Isso significa que, na maioria dos casos, o sistema exerce um controle maior e um grande poder sobre os indivíduos, maior que o dos indivíduos sobre si mesmos.


Tradução por Raphael Machado

jeudi, 20 janvier 2011

"Tom Sawyer" censuré aux Etats-Unis

« Tom Sawyer » censuré aux Etats-Unis

 

Levée de boucliers contre le « politiquement correct »

 

The_advantures_of_Tom_Sawyer.jpgMontgomery/Alabama – Les esprits critiques viennent de réagir vivement en apprenant la prochaine sortie de presse d’une version « politiquement correcte » des « Aventures de Tow Sawyer et d’Huckleberry Finn », le célèbre ouvrage de Mark Twain. Le « New York Times », dans un éditorial, fustige le fait que le célèbre livre subira des « dégâts irréparables » dans cette nouvelle version «politiquement correcte ». Le principal quotidien des Etats-Unis écrit : « Ce n’est plus Twain ».

 

Répondant aux questions du magazine à sensation et à gros tirages, « USA Today », Jeff Nichols, le directeur du Musée Mark Twain de Hartford (Connecticut), déclare au sujet de l’élimination du terme « Nigger » dans la version expurgée du livre : « Ce mot peut certes être terrible, il peut meurtrir, mais il y a une raison pour laquelle il se trouve écrit là ». Finalement, l’auteur voulait dresser un tableau exact de la vie des années 40 du 19ème siècle dans l’Etat américain du Missouri. Le professeur de droit Randall Kennedy, de l’Université de Harvard, a déclaré, à propos de l’élimination du « N-word », du « mot-qui-commence-par-N » (*), qu’il « était fondamentalement erroné de vouloir éradiquer un mot qui appartient à notre histoire ».

 

Mark Twain sera-t-il exclu de la liste des livres à lire pour l’école ?

 

Dans cette nouvelle version du roman de l’écrivain américain Mark Twain, « Les aventures de Tom Sawyer et d’Huckleberry Finn », le terme « Nigger », très usité à l’époque, est remplacé par le mot « slave » (= « esclave ») ; de même le terme « Injun », jugé désormais injurieux, est remplacé par « Indian » (= « Indien ») (**). Or le roman restitue l’atmosphère qui régnait dans les Etats du Sud des Etats-Unis à l’époque où subsistait encore l’esclavage.

 

Comment la petite maison d’édition « New South Books » justifie-t-elle son alignement sur le « politiquement correct », dans le cas du livre de Mark Twain qui paraitra, expurgé, en février 2011 ? Elle estime qu’elle est contrainte à pratiquer cette politique d’expurgation en ôtant du livre tous les termes qui pourraient aujourd’hui choquer parce que les établissements d’enseignement américains menacent de censurer le livre et de ne plus le donner à lire aux enfants. Sans l’élimination des termes qui choquent, le livre de Mark Twain disparaîtrait tout bonnement des listes de lectures obligatoires ou du contenu des cours de littérature américaine. Non seulement dans les écoles mais aussi dans les universités. Tels sont les arguments de la maison d’édition de Montgomery/Alabama. Les dirigeants de celle-ci étaient si mal assurés qu’ils n’ont même pas écrit noir sur blanc, dans leur communiqué à la presse, les termes qu’ils entendent remplacer par des « vocables moins blessants ».

 

(source : http://www.jungefreiheit.de/ - 10 janvier 2011).

 

Notes :

(*) L’utilisation de l’expression « N-word » est calquée sur celle, déjà ancienne, de « F-word », pour « fuck ». Dans l’ambiance souvent puritaine du monde anglo-saxon, le terme « fuck », équivalent de l’allemand « ficken », a posé problème au moment de sa vulgarisation généralisée à partir des années 50 du 20ème siècle.

 

(**) Le terme « Injun » est simplement une graphie simplifiée et purement phonétique du terme « Indian », tel qu’il était prononcé par les colons anglophones du territoire nord-américain. De même, « Cajun », désignant les francophones catholiques de la région de la Nouvelle Orléans, est aussi une transcription phonétique de la prononciation écornée du terme « Acadian », soit « Acadien ». Les francophones de la Nouvelle Orléans étaient partiellement originaires de l’Acadie, région jouxtant le Canada français. Arrivés en Louisiane, suite à leur expulsion par les fondamentalistes protestants, ils ont reçu le nom de « Cajuns », dès qu’ils se sont déclarés « Acadiens », en prononçant ce mot de surcroît avec l’accent que l’on dit aujourd’hui « québécois ». Il ne viendrait à aucun représentant de la « francité » l’idée saugrenue de vouloir purger tous les livres américains où figure le terme de « cajun ». Au contraire, il est perçu comme l’expression d’une spécificité francophone originale. 

 

 

dimanche, 10 octobre 2010

On achète bien les cerveaux... Sur la publicité et les médias

 

On achète bien les cerveaux...

Sur la publicité et les médias

Ex: http://zentropa.splinder.com/

"Les liens des régies publicitaires avec les neurosciences prouvent que la fabrication de "cerveaux humains disponibles" chers à Patrick Le Lay, le président de TF1, est devenue une réalité des médias. Une idéologie est à l’oeuvre : elle vise à nous rendre étrangers à nous-mêmes pour faire de nous des cibles normées en fonction d’intérêts marketing.

Je suis l’auteur d’un livre dont vous n’entendrez probablement jamais parler dans vos journaux, à la télévision ou même à la radio. Son nom ? On achète bien les cerveaux (édition Raisons d’agir, 2007). Il ne s’agit pas d’un opuscule tendancieux ou d’un brûlot d’extrême gauche ou d’extrême droite. Simplement, c’est un livre qui prétend apporter une analyse critique sur un phénomène qui rythme notre quotidien : l’omniprésence massive de la publicité et ses conséquences sur les médias. Le titre fait bien sûr référence à la phrase prononcée en 2004 par Patrick Le Lay, le PDG de TF1, sur le « temps de cerveau humain disponible » que le patron de la chaîne s’enorgueillit de vendre à Coca-Cola. Je suis allée enquêter dans le cœur même de la machinerie publicitaire de la Une. Et ce dont je me suis aperçue, c’est que la commercialisation du cerveau du téléspectateur n’est pas un phantasme ou un abus de langage. C’est le reflet de la plus stricte vérité si l’on en croit les propos de neurologues qui travaillent aujourd’hui pour les principaux médias, dont TF1, sur l’impact de la publicité dans la mémoire.

Le temps n’est plus où l’on se contentait de tests et de post-tests pour prouver l’efficacité des messages publicitaires. Face à des nouveaux médias comme Google ou Yahoo, qui proposent à l’annonceur de payer pour chaque contact transformé en trafic et de suivre le client à la trace, les grands médias cherchent à montrer qu’ils arrivent à pénétrer l’inconscient des consommateurs. A l’instar des grands annonceurs américains, ils ont confié à une société spécialiste des sciences cognitives, Impact Mémoire, le soin d’explorer ce que le cerveau retient dans la communication publicitaire. Pour cela, les « neuromarketers » ont recours à une machine uniquement utilisée jusqu’à présent à des fins médicales, pour détecter les tumeurs par exemple : l’imagerie à résonance magnétique (IRM). Que disent les expériences menées en laboratoires ? Que la zone du cerveau réactive aux images publicitaires, le cortex prefrontal médian, est associée à l’image de soi et à la connaissance intime qu’on a de soi-même (c’est la région cérébrale qui est affectée lorsqu’il y a des troubles de schizophrénie par exemple). En activant le cortex prefrontal médian, les neuromarketers cherchent donc à réussir l’alchimie parfaite : l’opération qui consiste à transformer tout amour de soi en tant que soi - le narcissisme - en amour de soi en tant qu’autre - une cible publicitaire. La publicité vise donc à nous rendre en quelque sorte étrangers à nous-mêmes pour modeler en nous des comportements normatifs qui épousent les intérêts des firmes commerciales.

On le sait depuis Jean Baudrillard et John Kenneth Galbraith, la société de consommation ne peut exister sans son corollaire publicitaire. Car seule la publicité crée dans les têtes une urgence fantasmatique et pavlovienne sans laquelle il n’est pas de tension consumériste : c’est parce que je suis sans cesse sollicité par un univers euphorisant, rempli de symboles de bonheur, que je tends vers la jouissance de l’acquisition matérielle. De cette tension naît un désir structurant dans la mesure où il permet à l’individu d’exister en tant qu’homo consumans. Adhérer aux valeurs de l’imagerie publicitaire - « On vous doit plus que la lumière », « Vous n’irez plus chez nous par hasard », « Parce que je le vaux bien » -, c’est communier aux nouvelles icônes des temps modernes. Il s’agit de prendre corps dans l’espace collectif, de se transfigurer dans une identité à la fois plurielle et, puisqu’elle s’adresse à moi en tant que cible, singulière. L’essayiste François Brune parle d’une « volonté de saisie intégrale de l’individu dans ce qu’il a d’anonyme ». D’où un principe clé de la domestication des esprits : chacun cherche à se ressembler en tant que tribu consommatrice. C’est en effet parce que je renonce à mon appartenance à une identité universelle pour m’inscrire dans une fonctionnalité « tribalisée » que j’abdique de ma citoyenneté au profit d’un label de consommateur tel que l’entend l’ordre marchand. Ce faisant, la publicité permet la mutation d’une société de classes vers autant de cibles qu’il y a d’intérêts et de positions économiques à défendre. Elle vise la reproduction et la permanence de stéréotypes inhérents à tout message établi en fonction d’un statut supposé sur l’échelle sociale.

Seulement, puis-je réellement me retrouver dans cette incessante musique d’ambiance que je n’ai pas sollicitée ? Comme l’a montré Bernard Stiegler dans De la misère symbolique (éditions Galilée, 2004), « on ne peut s’aimer soi-même qu’à partir du savoir intime que l’on a de sa propre singularité ». Or les techniques marketing, parce qu’elles me donnent à entendre et à voir des sons et des images identiques à celles de mon voisin, me construisent une histoire qui est semblable à celle de mes congénères. Comme tel, c’est bien à un effondrement de la conscience individuelle et à une dissolution du désir que nous conduit l’idéologie publicitaire : « Mon passé étant de moins en moins différent de celui des autres parce que mon passé se constitue de plus en plus dans les images et les sons que les médias déversent dans ma conscience, mais aussi dans les objets et les rapports aux objets que ces images me conduisent à consommer, il perd sa singularité, c’est-à-dire que je me perds comme singularité ».( De la misère symbolique, op. cit. p. 26). Selon Bernard Stiegler, le règne hégémonique du marché entraîne inexorablement la ruine d’un « narcissisme primordial » en ce sens qu’il induit un « conditionnement esthétique » qui est aussi une « misère libidinale et affective ». En s’identifiant à la cible publicitaire à laquelle il est supposé appartenir, le consommateur consent par là même à la dissolution de son désir individuel dans un « nous » artificiel créé pour les besoins d’édification du marché des classes dominantes.

De ce conditionnement va naître une nouvelle socialité phantasmatique qui amène le consommateur à se sentir déterminé beaucoup moins par son groupe de classe, son origine sociale, que par des aspirations collectives véhiculées par les médias. Ce n’est d’ailleurs pas tant des emblèmes statutaires que cherche à promouvoir la publicité que des rapports imaginaires qui permettent à l’individu d’exister virtuellement dans le regard de ses contemporains. Tout est prétendument accessible, y compris le luxe, puisque je ne suis plus prisonnier de mon statut mais libéré par ma consommation. A la vieille division archaïque entre dominants et dominés doivent venir se substituer des communautés de désirs susceptibles de reconstruire un « nous entièrement fabriqué par le produit ou le service » comme dit Stiegler.

L’ homo economicus est en quelque sorte consommé par ce qu’il consomme. Il se jette à corps perdu dans l’addiction consumériste, non pas tant dans une course éperdue à l’avoir, comme on le croit souvent, mais pour être. Car le bonheur publicitaire apporte une forme de plénitude fugace dans une société privée de repères politiques et esthétiques. Après la fin proclamée des idéologies et l’avènement d’une classe moyenne de plus en plus compromise par des tensions inégalitaires, il structure notre être de façon rituelle en permettant la transfiguration d’un « je » devenu anarchique, incontrôlé, en un « nous -cible » standardisé et resocialisé.

Créée en 1836 pour aider les journaux à mieux se vendre aux masses populaires, la publicité s’impose aujourd’hui comme le mode de financement principal, voire exclusif, des médias à l’ère numérique. Le consommateur accepte avec insouciance cette manne providentielle qui lui permet d’accéder à des contenus. Mais en connaît-il vraiment le prix ? Information altérée au profit d’intérêts économiques, positionnements éditoriaux déterminés par les perspectives de recettes des annonceurs, campagnes véhiculant des stéréotypes sociaux... Parce qu’elle structure de façon incontestée notre inconscient collectif, la publicité est devenue un vecteur non plus seulement de revenus mais de sens... Les médias tendent à se transformer en zélés prédateurs d’une clientèle-proie pour le compte de leurs principaux clients. Des neurosciences au travestissement des contenus, tout est mis en place pour parvenir à cet objectif. Ce livre se propose d’étudier comment l’instrument économique d’une démocratisation de l’information s’est peu à peu mué en outil politique d’une domination économique."

Marie Bénilde

samedi, 25 septembre 2010

Las 10 estrategias de manipulacion mediatica

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Las 10 estrategias de manipulación mediática

El lingüista Noam Chomsky elaboró la lista de las “10 Estrategias de Manipulación” a través de los medios

Ex: http://causarevolucionaria.wordpress.com/

1. La estrategia de la distracción El elemento primordial del control social es la estrategia de la distracción que consiste en desviar la atención del público de los problemas importantes y de los cambios decididos por las elites políticas y económicas, mediante la técnica del diluvio o inundación de continuas distracciones y de informaciones insignificantes.


La estrategia de la distracción es igualmente indispensable para impedir al público interesarse por los conocimientos esenciales, en el área de la ciencia, la economía, la psicología, la neurobiología y la cibernética. ”Mantener la Atención del público distraída, lejos de los verdaderos problemas sociales, cautivada por temas sin importancia real. Mantener al público ocupado, ocupado, ocupado, sin ningún tiempo para pensar; de vuelta a granja como los otros animales (cita del texto ‘Armas silenciosas para guerras tranquilas)”.

2. Crear problemas y después ofrecer soluciones. Este método también es llamado “problema-reacción-solución”. Se crea un problema, una “situación” prevista para causar cierta reacción en el público, a fin de que éste sea el mandante de las medidas que se desea hacer aceptar. Por ejemplo: dejar que se desenvuelva o se intensifique la violencia urbana, u organizar atentados sangrientos, a fin de que el público sea el demandante de leyes de seguridad y políticas en perjuicio de la libertad. O también: crear una crisis económica para hacer aceptar como un mal necesario el retroceso de los derechos sociales y el desmantelamiento de los servicios públicos.

3. La estrategia de la gradualidad. Para hacer que se acepte una medida inaceptable, basta aplicarla gradualmente, a cuentagotas, por años consecutivos. Es de esa manera que condiciones socioeconómicas radicalmente nuevas (neoliberalismo) fueron impuestas durante las décadas de 1980 y 1990: Estado mínimo, privatizaciones, precariedad, flexibilidad, desempleo en masa, salarios que ya no aseguran ingresos decentes, tantos cambios que hubieran provocado una revolución si hubiesen sido aplicadas de una sola vez.

4. La estrategia de diferir. Otra manera de hacer aceptar una decisión impopular es la de presentarla como “dolorosa y necesaria”, obteniendo la aceptación pública, en el momento, para una aplicación futura. Es más fácil aceptar un sacrificio futuro que un sacrificio inmediato. Primero, porque el esfuerzo no es empleado inmediatamente. Luego, porque el público, la masa, tiene siempre la tendencia a esperar ingenuamente que “todo irá mejorar mañana” y que el sacrificio exigido podrá ser evitado. Esto da más tiempo al público para acostumbrarse a la idea del cambio y de aceptarla con resignación cuando llegue el momento.

5. Dirigirse al público como criaturas de poca edad. La mayoría de la publicidad dirigida al gran público utiliza discurso, argumentos, personajes y entonación particularmente infantiles, muchas veces próximos a la debilidad, como si el espectador fuese una criatura de poca edad o un deficiente mental. Cuanto más se intente buscar engañar al espectador, más se tiende a adoptar un tono infantilizante. Por qué? “Si uno se dirige a una persona como si ella tuviese la edad de 12 años o menos, entonces, en razón de la sugestionabilidad, ella tenderá, con cierta probabilidad, a una respuesta o reacción también desprovista de un sentido crítico como la de una persona de 12 años o menos de edad (ver “Armas silenciosas para guerras tranquilas”)”.

6. Utilizar el aspecto emocional mucho más que la reflexión. Hacer uso del aspecto emocional es una técnica clásica para causar un corto circuito en el análisis racional, y finalmente al sentido critico de los individuos. Por otra parte, la utilización del registro emocional permite abrir la puerta de acceso al inconsciente para implantar o injertar ideas, deseos, miedos y temores, compulsiones, o inducir comportamientos…

7. Mantener al público en la ignorancia y la mediocridad. Hacer que el público sea incapaz de comprender las tecnologías y los métodos utilizados para su control y su esclavitud. “La calidad de la educación dada a las clases sociales inferiores debe ser la más pobre y mediocre posible, de forma que la distancia de la ignorancia que planea entre las clases inferiores y las clases sociales superiores sea y permanezca imposibles de alcanzar para las clases inferiores (ver ‘Armas silenciosas para guerras tranquilas)”.

8. Estimular al público a ser complaciente con la mediocridad. Promover al público a creer que es moda el hecho de ser estúpido, vulgar e inculto…

9. Reforzar la autoculpabilidad. Hacer creer al individuo que es solamente él el culpable por su propia desgracia, por causa de la insuficiencia de su inteligencia, de sus capacidades, o de sus esfuerzos. Así, en lugar de rebelarse contra el sistema económico, el individuo se autodesvalida y se culpa, lo que genera un estado depresivo, uno de cuyos efectos es la inhibición de su acción. Y, sin acción, no hay revolución!

10. Conocer a los individuos mejor de lo que ellos mismos se conocen. En el transcurso de los últimos 50 años, los avances acelerados de la ciencia han generado una creciente brecha entre los conocimientos del público y aquellos poseídas y utilizados por las elites dominantes. Gracias a la biología, la neurobiología y la psicología aplicada, el “sistema” ha disfrutado de un conocimiento avanzado del ser humano, tanto de forma física como psicológicamente. El sistema ha conseguido conocer mejor al individuo común de lo que él se conoce a sí mismo. Esto significa que, en la mayoría de los casos, el sistema ejerce un control mayor y un gran poder sobre los individuos, mayor que el de los individuos sobre sí mismos.

Fuente

mercredi, 24 février 2010

T. Sunic: Amérique réelle, Amérique hyperréelle

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Synergies Européennes – Bruxelles / Zagreb – février 2009

 

Tomislav SUNIC :

Amérique réelle, Amérique hyperréelle

 

Un phénomène important est survenu dans les relations entre les élites américaines détentrices du pouvoir et les élites médiatiques. Au début du 21ème siècle, l’Amérique, contrairement aux autres pays européens, se vante ouvertement qu’elle garantit une liberté d’expression totale. Pourtant, les médias américains osent rarement soulever des thématiques considérées comme contraires à l’esprit postmoderne de l’américanisme. De fait, la « médiacratie » américaine postmoderne opère de plus en plus en liaison avec le pouvoir exécutif de la classe dominante. Cette cohabitation se déroule sur un mode mutuellement correcteur, où les uns posent des critères éthiques pour les autres et vice-versa. Les principales chaînes de télévision et les principaux journaux d’Amérique, comme CNN, The New York Times ou The Washington Post suggèrent aux hommes politiques la ligne à suivre et vice-versa ou, pour un autre sujet, les deux fixent de concert les critères du comportement politique général qu’il faudra adopter. Parmi les citoyens américains, l’idée est largement répandue que les médias représentent un contre-pouvoir face au système et que, de par leur vocation, ils doivent être par définition hostiles aux décisions prises par les élites au pouvoir. Mais en réalité, les médias américains ont toujours été les porte-paroles et les inspirateurs du pouvoir exécutif, bien que d’une manière anonyme, sans jamais citer les noms de ceux qui, au départ de la sphère gouvernementale, leur filaient des tuyaux. Depuis la première guerre mondiale, les médias américains ont eu une influence décisive, dans la mesure où ils ont créé l’ambiance psychologique qui a précédé et soutenu la politique étrangère américaine, en particulier en poussant les politiques américains à bombarder au phosphore les villes européennes pendant la seconde guerre mondiale. La même stratégie, mais avec une ampleur réduite, a été suivie, partiellement, par les médias américains lors de l’engagement US en Irak en 2003.

 

Médias et classe dominante : opérations conjointes

 

Dans le choix des mots, la classe dominante américaine et ses courroies de transmission dans les médias et l’industrie de l’opinion ne fonctionnent plus d’une manière disjointe et exclusive l’une de l’autre ; elles opèrent conjointement dans le même effort pédagogique de « répandre la démocratie et la tolérance » dans le monde entier. « Qu’il y ait ou non un soutien administratif au bénéfice des médias », écrit Régis Debray, « ce sont les médias qui sont les maîtres de l’Etat ; l’Etat doit négocier sa survie avec les faiseurs d’opinion » (1). Debray, figure de proue parmi les théoriciens de la postmodernité, ne révèle au fond rien de neuf, sauf que dans la « vidéo-politique » postmoderne, comme il l’appelle, et qui est distillée par les médias électroniques modernes, les mensonges des politiciens semblent plus digérables qu’auparavant. En d’autres mots, le palais présidentiel n’a plus d’importance politique décisive ; c’est la tour de la télévision qui est désormais en charge de la « haute politique ». L’ensemble des discours et récits politiques majeurs ne relève plus de la « graphosphère » ; il entre dans le domaine de la « vidéosphère » émergente. En pratique, cela signifie que toutes les absurdités que pense ou raconte le politicien n’ont plus aucune importance de fond : quel que soit leur degré de sottise, il faut qu’elles soient bien présentées, qu’elles suscitent l’adhésion, comme sa propre personne, sur les écrans de la télévision. Il peut certes exister des différences mineures entre la manière dont les médias, d’une part, et la classe dominante américaine, d’autre part, formulent leur message, ou entre la façon dont leur efforts correcteurs réciproques se soutiennent mutuellement, il n’en demeure pas moins vrai que la substance de leurs messages doit toujours avoir le même ton.

 

La télévision et les médias visuels ont-ils changé l’image que nous avons du monde objectif ? Ou la réalité du monde objectif peut-elle être saisie, si elle a été explicitée autrement qu’elle ne l’est par les médias ? Les remarques que les universitaires ou d’autres hommes politiques formulent et qui sont contraires aux canons et aux vérités forgées par les médias se heurtent immédiatement à un mur de silence. Les sources et informations rebelles, qui critiquent les dogmes de la démocratie et des droits de l’homme, sont généralement écartées des feux de la rampe. C’est vrai surtout pour les écrivains ou journalistes qui remettent en question l’essence de la démocratie américaine et qui défient la légitimité du libre marché.

 

Significations à facettes multiples

 

Les hommes politiques américains contemporains ont de plus en plus souvent recours à des références voilées derrière un méta-langage hermétique, censé donner à ses locuteurs une aura de respectabilité. Les hommes politiques postmodernes, y compris les professeurs d’université, ont recours, de plus en plus, à une terminologie pompeuse d’origine exotique, et leur jargon se profile souvent derrière une phraséologie qu’ils comprennent rarement eux-mêmes. Avec la propagation rapide du méta-discours postmoderne au début du 21ème siècle, la règle, non écrite, est devenue la suivante : le lecteur ou le spectateur, et non plus l’auteur, devraient devenir les seuls interprètes de la vérité politique. A partir de maintenant, le lexique politique est autorisé à avoir des significations à facettes multiples. Mais, bien sûr, cela ne s’applique pas au dogme du libre marché ou à l’historiographie moderne, qui doit rester à tout jamais en un état statique. Le discours postmoderne permet à un homme politique ou à un faiseur d’opinion de feindre l’innocence politique. De cette manière, il est libre de plaider l’ignorance si ses décisions politiques débouchent sur l’échec. Ce plaidoyer d’ignorance, toutefois, ne s’applique pas s’il osait tenter ou s’il désirait déconstruire le proverbial signifiant « fascisme » qui doit rester le référent inamovible du mal suprême.

 

Dans un essai de 1946, un an après la défaite totale du national-socialisme, Orwell notait combien le mot « fascisme » avait perdu sa signification originelle : « il n’a maintenant plus aucune signification sauf dans la mesure où il désigne quelque chose qui n’est pas désirable » (…). On peut dire la même chose d’un vaste éventail de référents postmodernes, y compris du terme devenu polymorphe de « totalitarisme », qui date du début des années 20 du siècle passé, quand il est apparu pour la première fois et n’avait pas encore de connotation négative. Et qui sait s’il aura toujours cette connotation négative si on part du principe que le système américain, monté en épingle, pourrait, en cas d’urgence, utiliser des instruments totalitaires pour garantir sa survie ? Si l’Amérique devait faire face à des affrontements interraciaux de grande ampleur (on songe aux clivages raciaux de grande envergure après les dévastations causées par l’ouragan Katrina à la Nouvelle Orléans en 2005, qui pourrait être le prélude de plus graves confrontations ultérieures), elle devra fort probablement adopter des mesures disciplinaires classiques, telles la répression policière et la loi martiale. On peut imaginer que la plupart des théoriciens postmodernes n’émettraient aucune objection à l’application de telles mesures, bien qu’ils esquiveront probablement le vocable « totalitaire ».

 

Incantations abstraites

 

Il y a longtemps, Carl Schmitt théorisa et explicita une vérité vieille comme le monde. Notamment, que les concepts politiques acquièrent leur véritable signification si et seulement si l’acteur politique principal, c’est-à-dire l’Etat et sa classe dominante, se retrouvent dans une situation d’urgence soudaine et imprévue. Dans ce cas, toutes les interprétations usuelles des vérités posées jusqu’alors comme « allant de soi » deviennent obsolètes. On a pu observer un tel glissement après l’attaque terroriste du 11 septembre 2001 à New York (un événement qui n’a pas encore été pleinement élucidé) ; la classe dirigeante américaine a profité de cette occasion pour redéfinir la signification légale d’expressions comme les « droits de l’homme » et la « liberté de parole ». Après tout, la meilleure façon de limiter les droits civiques concrets n’est-elle pas d’abuser d’incantations abstraites sur les « droits de l’homme » et sur la « démocratie » ? Avec la déclaration possible d’un état d’urgence à grande échelle dans l’avenir, il semble tout à fait probable que l’Amérique finira par donner de véritables significations à son vocabulaire politique actuel. Pour les temps présents, toutefois, la postmodernité américaine peut se décrire comme une sémantique transitoire et un engouement esthétique parfaitement idoine pour assumer une surveillance dans les sphères académiques et politiques, sous le masque d’un seul terme : celui de « démocratie ».

 

Contrairement au mot, le concept de postmodernité désigne un fait politique ou social qui, selon diverses circonstances, signifie tout et le contraire de tout, c’est-à-dire, finalement, rien du tout. La postmodernité est tout à la fois une rupture avec la modernité et sa continuation logique sous une forme hypertrophiée. Mais, comme nous avons déjà eu l’occasion de le noter, en termes de dogme égalitaire, de multiculturalisme et de religion du progrès, le discours postmoderne est resté le même que le discours de la modernité. Le théoricien français de la postmodernité, Gilles Lipovetsky, utilise le terme d’hypermodernité lorsqu’il parle de la postmodernité. La postmodernité est hypermodernité dans la mesure où les moyens de communication défigurent et distordent tous les signes politiques, leur font perdre toutes proportions. De ce fait, quelque chose que nous allons considérer comme hypermoderne doit simultanément être considéré comme ‘hyperréel’ ou ‘surréel’ ; c’est donc un fait gonflé par une prolifération indéfinie de mini-discours ; des mémoires historiques et tribales travesties en panégyriques aux commémorations de masses honorant les morts de la guerre. De nouveaux signes et logos émergent, représentant la nature diversifiée du système mondial américanisé. Lipovetsky note que « très bientôt, il n’y aura plus aucune activité particulière, plus aucun objet, plus aucun lieu qui n’aura pas l’honneur d’un musée institué. Depuis le musée de la crêpe jusqu’à celui des sardines, depuis le musée d’Elvis Presley jusqu’à celui des Beatles » (2). Dans la postmodernité multiculturelle, tout est objet de souvenir surréel et aucune tribu, aucun style de vie ne doit se voir exclu du circuit. Les Juifs se sont déjà taillé une position privilégiée dans le jeu global des cultes de la mémoire ; maintenant, c’est au tour d’une myriade d’autres tribus, de styles de vie ou de divers groupes marginaux cherchant à recevoir leur part du gâteau de la mémoire globale.

 

Obsession de la « race »

 

Officiellement, dans l’Amérique multiculturelle, il n’y a ni races ni différences raciales. Mais les quotas de discrimination positive (« affirmative action ») et l’épouvantail du racisme ramènent sans cesse le terme ‘race’ à l’avant-plan. Cette attitude qui se voit rejetée, de manière récurrente, par l’établissement postmoderne américain, est, de fait, une obsession ressassée à l’infini. Les minorités raciales réclament plus de droits égaux et se font les avocates de la diversité sociale ; mais dans les termes mêmes de leurs requêtes, elles n’hésitent jamais à mettre en exergue leur propre ‘altérité’ et le caractère unique de leur propre race. Si leurs requêtes ne sont suivies d’aucun effet, les autorités courent le risque de se faire accuser d’ ‘insensibilité’. De ce fait, pourquoi n’utiliserait-on pas, dès maintenant, les termes d’Hyper-Amérique hyperraciale ? Ce qui importe, ici, c’est que le lecteur saisisse ces termes dans leur sens aléatoire car la postmodernité, selon les circonstances, peut se donner des significations contradictoires.

 

L’Amérique est un pays aussi moderne qu’il a voulu l’être. La modernité et la religion du progrès font partie du processus historique qui l’a créé. En même temps, toutefois, les éléments méta-statiques de la postmodernité, en particulier l’ ‘overkill’, les tueries excessives, que l’on voit à satiété dans les médias, sont désormais visibles partout. La postmodernité a ses pièges. Afin de les éviter, ses porte-paroles font usage d’approches particulières du discours moderne en recourant à des qualifiants apolitiques et moins connotés. Dans le monde postmoderne, écrit Lipovetsky, « on note la prédominance de la sphère individuelle sur la sphère universelle, du psychologique sur l’idéologique, de la communication sur la politisation, de la diversité sur l’homogénéité, de la permissivité sur la coercition » (3). De même, certaines questions sociales et politiques apparaissent désormais sous les feux de rampe alors qu’elles étaient totalement ignorées et inédites au cours des dernières décennies du 20ème siècle.  L’éventuelle impuissance sexuelle d’un candidat à la présidence  est désormais considérée comme une événement politique de premier plan —souvent plus que sa manière de traiter un thème important de la criminalité publique. La mort d’un enfant en bas âge dans une Afrique ravagée par les guerres en vient à être considérée comme une affaire nationale urgente. Même le supporter le plus ardent du multiculturalisme aurait eu grand peine à imaginer, jadis, les changements phénoménaux qui se sont opérés dans le discours pan-racialiste des élites américaines. Même le progressiste américain le plus optimiste de jadis, avocat de la consommation à outrance, n’aurait jamais imaginé une telle exhibition colossale de permissivité langagière ni l’explosion de millions de signes de séduction sexuelle. Tout chose se mue en sa forme plus « soft » que suggère la nouvelle idéologie ; depuis l’idéologie du sexe jusqu’à la nouvelle religion du football en passant par la croisade idéologique contre le terrorisme réel ou imaginaire.

 

Transformations sémantiques

 

La culture de masse à l’âge de la néo-postmodernité, comme l’écrit Ruby, facilite le développement d’un individualisme extrême, au point où la plus petite parcelle d’une existence humaine doit dorénavant être perçue comme une commodité périssable ou hygiénique. « La personnalité de quelqu’un est jugée d’après la blancheur de ses incisives, d’après l’absence de la moindre gouttelette de sueur aux aisselles, de même d’après l’absence totale d’émotion » (4). La culture des mots en langue anglaise a, elle aussi, été sujette à des transformations sémantiques. Actuellement, ces mots transformés existent pour désigner des styles de vie différents et n’ont plus rien en commun avec leur signification d’origine. C’est pourquoi on pourrait tout aussi bien appeler l’Amérique postmoderne « Amérique hypermoderne », désignation qui suggère que, dans les années à venir, il y aura encore plus d’hyper-narrations tournant autour de l’hyper-Amérique et du monde « hyper-américanisé ».

 

Et qu’est-ce qui viendra après la postmodernité ? « Tout apparaît », écrit Lipovetsky, « comme si nous étions passés d’un âge ‘post’ à un âge ‘hyper’ ; une nouvelle société faite de modernité refait surface. On ne cherche plus à quitter le monde de la tradition pour accéder à la modernité rationnelle mais à moderniser la modernité, à rationaliser la rationalisation » (5). Nous avons donc affaire à la tentative d’ajouter toujours du progrès, toujours de la croissance économique, toujours des effets télévisés spéciaux pour, imagine-t-on, nourrir l’existence de l’Amérique hyperréelle. Le surplus de symbolisme américain doit continuer à attirer les désillusionnés de toutes races et de tous styles de vie, venus de tous les coins du monde. N’importe quelle image télévisée ou n’importe quelle historiette de théâtre sert désormais de valeur normative pour une émulation quelconque à l’échelle du globe  —ce n’est plus le contraire. D’abord, on voit émerger une icône virtuelle américaine, généralement par le truchement d’un film, d’un show télévisé ou d’un jeu électronique ; ensuite, les masses commencent à utiliser ces images pour conforter leur propre réalité locale. C’est la projection médiatique de l’Amérique hyperréelle qui sert dorénavant de meilleure arme propagandiste pour promouvoir le rêve américain. Nous voyons se manifester un exemple typique de l’hyperréalité américaine lorsque la classe politique américaine prétend que toute erreur générée par son univers multiculturel ou tout flop dans son système judiciaire tentaculaire pourrait se réparer en amenant dans le pays encore plus d’immigrants, en cumulant encore davantage de quotas raciaux ou en gauchisant encore plus ses lois déjà gauchistes. En d’autres termes, la hantise d’une balkanisation du pays, qu’elle ressent, elle croit pouvoir s’en guérir en introduisant encore plus de diversité raciale et en amenant encore plus d’immigrants de souche non européenne. De même, les flops du libre marché, de plus en plus visibles partout en Amérique, elle imagine qu’elle leur apportera une solution, non pas en jugulant la concurrence sur le marché, mais en acceptant encore davantage de concurrence grâce à plus de privatisations, en encourageant plus encore la dérégulation économique, etc. Cette caractéristique de l’ ‘overkill’, de la surenchère postmoderne est l’ingrédient constitutif principal de l’idéologie américaine, qui semble avoir trouvé son rythme accéléré au début de l’âge postmoderne. Jamais il ne vient à l’esprit de l’élite américaine que le consensus social dans une Amérique multiraciale ne pourra s’obtenir par décret. Pourtant, si l’on recourrait à des politiques contraires à tous ces efforts hyperréels en lice, cela pourrait  signifier la fin de l’Amérique postmoderne.

 

Tout doit pouvoir s’expliquer selon des formules toute faites

 

Déjà à la fin du 20ème siècle, l’Amérique a commencé à montrer des signes d’obésité sociale. C’est la nature irrationnelle de la croyance au progrès qui a crû démesurément à la manière des métastases et qui, de ce fait, annonce, le cas échéant, la fin de l’Amérique. Lash notait, il y a déjà pas mal d’années, que tout à la fin du 20ème siècle, les narcisses américains savoureraient les plaisirs sensuels et se vautreraient dans toutes les formes d’auto-gratification. ‘Prendre du plaisir’ est une option qui a toujours fait partie des prescrits de l’idéologie américaine. Cependant le narcisse américain postmoderne à la recherche du plaisir, comme le nomme Lipovetsky, a d’autres soucis actuellement. Son culte du corps et l’amour qu’il porte à lui-même ont conduit à des crises de panique et des anxiétés de masse : « L’obsession à l’égard de soi se manifeste moins dans la joie fébrile que dans la crainte, la maladie, la vieillesse, la ‘médicalisation’ de la vie » (6). Dans l’Amérique hyperrationnelle, tout doit absolument s’expliquer et s’évacuer à l’aide de formules rationnelles, peut importe qu’il s’agisse de l’impuissance sexuelle d’une personne particulière ou de l’impuissance politique du président des Etats-Unis. La nature imprévisible de la vie représente le plus gros danger pour l’homo americanus parce qu’elle ne lui offre pas sur plateau une formule rationnelle pour lui dire comment éviter la mort ; l’imprévisibilité de la vie défie par conséquent la nature intrinsèque de l’américanisme. Tout effraye l’homme américain aujourd’hui : du terrorisme au rabougrissement de son plan retraite ; de l’immigration de masse incontrôlée à la perte probable de son emploi. Ce serait gaspiller du temps de dénombrer et de chiffrer les maux sociaux américains en ce début de troisième millénaire : songeons à la pédophilie, à la toxicomanie, à la criminalité violente, etc. Le nombre de ces anomalies croîtra de manière exponentielle si la marche en avant du progressisme postmoderne américain se poursuit.

 

Tout est copie grotesque de la réalité

 

Chaque postmoderne utilise un méta-langage qui lui est propre et donne sa propre interprétation aux significations de l’histoire. Si nous acceptons la définition de la postmodernité que nous livre le théoricien français Jean Baudrillard, alors tout dans l’Amérique postmoderne est une copie grotesque de la réalité. L’Amérique aurait donc fonctionné depuis 1945 comme un gigantesque photocopieur xérographique, produisant une méta-réalité, qui correspond non pas à l’Amérique telle qu’elle est mais à l’Amérique telle qu’elle devrait être pour le bénéfice du globe tout entier. La seule différence est la suivante : à l’aube du 21ème siècle, le rythme doux et allègre de l’histoire de jadis s’est modifié continuellement, s’est mis à s’accélérer pour passer à la cinquième vitesse. Les événements se déroulent à la vitesse d’une bobine de film, comme détachés de toute séquence historique réelle, et s’accumulent inlassablement jusqu’à provoquer un véritable chaos. Selon Baudrillard, qui est à coup sûr l’un des meilleurs observateurs européens de l’américanisme, l’hyperréalité de l’Amérique a dévoré la réalité de l’Amérique. C’est pourquoi une question doit être posée : pour parachever le rêve américain, les Américains du présent et de l’avenir ne sont-ils pas sensés vivre dans un monde de rêve projeté ? L’Amérique ne se mue-t-elle pas dans ce cas en une sorte de « temps anticipatif » (« a pretense »), en une sorte de fiction, de métaréalité ? L’Amérique a-t-elle dès lors une substance, étant donné que l’américanisme, du moins aux yeux de ses imitateurs non américains, fonctionne seulement comme un système à faire croire, c’est-à-dire comme une « hypercopie » de son soi propre, toujours projeté et embelli ? Dans le monde virtuel et postmoderne d’internet et de l’informatique, toute mise en scène d’événements réels en Amérique procède toujours déjà d’un modèle de remise en scène antérieur et prêt à l’emploi, sensé servir d’instrument pédagogique pour différents projets contingents. Par exemple, les élites militaires américaines disposent de toutes sortes de formules possibles pour tous cas d’urgence qui surviendrait, en n’importe quel endroit du monde. On peut dès lors parier en toute quiétude qu’un scénario, selon l’une ou l’autre de ces nombreuses formules, pourra aisément correspondre à un événement réel sur le terrain. En bref, raisonne Baudrillard, dans un pays constitué de millions d’événements « fractaux », bien que surreprésentés et rejoués à satiété comme ils le sont, tout se mue en un non événement. La postmodernité rend triviales toutes les valeurs, même celles qu’elle devrait honorer pour sa propre survie politique !

 

De nouvelles demandes sociales émergent sans fin

 

L’Amérique et sa classe dirigeante pourraient peut-être un jour disparaître, ou, même, l’Amérique pourrait se fractionner en entités étatiques américaines de plus petites dimensions ; dans l’un ou l’autre de ces cas, l’hyperréalité américaine, cependant, continuera à séduire les masses partout dans le monde. L’Amérique postmoderne doit demeurer le pays de la séduction, même si cette séduction fonctionne davantage auprès des masses non européennes et moins auprès des Américains de souche européenne qui, en privé, rêvent de se porter vers d’autres Amériques, non encore découvertes. Dans un pays comme l’Amérique, écrit Baudrillard, « où l’énergie de la scène publique, c’est-à-dire l’énergie qui crée les mythes sociaux et les dogmes, est en train de disparaître graduellement, l’arène sociale devient obèse et monstrueuse ; elle se dilate comme un corps mammaire ou glandulaire. Jadis, cette scène publique s’illustrait par ses héros, aujourd’hui elle s’indexe sur ses handicapés, ses tarés, ses dégénérés, ses asociaux —tout cela dans un gigantesque effort de maternage thérapeutique » (7). Les marginalisés de la société et les marginaux tout court sont devenus des modèles, qui ont un rôle à jouer dans la postmodernité américaine. La « vérité politique » est d’ores et déjà devenue une thématique de la scène privée et émotionnelle, dans le sens où le membre d’une secte religieuse ou le porte-paroles d’un quelconque « lifestyle » (mode de vie) peut émettre sans frein ses jugements politiques nébuleux. Un toqué bénéficie d’autant de liberté de beugler publiquement ses opinions politiques que le professeur d’université. Il arrive qu’un serial killer devienne une superstar de la télévision, aussi bien avant qu’après ses bacchanales criminelles. En fait, comme la quête de diversité ne cesse de s’élargir, de nouveaux groupes sociaux, et, avec eux, de nouvelles demandes sociales émergent sans fin. Le stade thérapeutique de la post-Amérique, comme l’appelle Gottfried, est le système idéal pour étudier tous les comportements pathologiques.

 

En ces débuts du 21ème siècle, les postmodernistes aiment exhorter tout un chacun à remettre en question tous les paradigmes et tous les mythes politiques, mais, en même temps, ils adorent chérir leurs propres petites vérités étriquées ; notamment celles qui concerne l’une ou l’autre « vérité » de nature ethnique ou relevant des fameux « genders ». Ils continuent à se faire les avocats des programmes d’ « affirmative action » (= de « discrimination positive »), destinés à « visibiliser » les modes de vie non européens et à valoriser les narrations autres, généralement hostiles aux Blancs. Le terme « diversité » est devenu le mot magique des postmodernistes : c’est une diversité basée sur une légitimation négative, dans le sens où elle rejette toute diversité d’origine européenne en mettant l’accent sur la nature soi-disant mauvaise de l’interprétation que donne l’homme blanc de l’histoire.

 

Les narrations postmodernes ne peuvent être soumises à critique

 

Bien que la plupart des postmodernistes tentent de déconstruire la modernité en utilisant l’œuvre de Frédéric Nietzsche et en s’en servant de fil d’Ariane, ils persistent à soutenir leurs propres ordres du jour, micro-idéologiques et infra-politiques, basés sur la valorisation d’autres races et de modes de vie différents. Ce faisant, ils rejettent toute autre interprétation de la réalité, surtout les interprétations qui heurtent de front le mythe omniprésent de l’américanisme. L’approche intellectuelle sous-tendant leurs micro-vérités ou leurs micro-mythes ne peut être soumise à critique, en aucun circonstance. Leurs narrations demeurent les fondements sacro-saints de leur postmodernité. Pour l’essentiel, la narration de chaque tribu ou de chaque groupe apparaît comme un gros mensonge commis sur le mode horizontal, ce qui a pour effet que chacun de ces mensonges élimine la virulence d’un autre mensonge concurrent. Le protagoniste d’un mode de vie quelconque et bizarre, présent sur la scène américaine, sait pertinemment bien que sa narration relève de la fausse monnaie ; mais il doit faire semblant de raconter la vérité. Finalement, et dans le fond, le discours de la postmodernité est un grand discours de méta-mensonge, de méta-tromperie.

 

Si vous adoptez la logique de la postmodernité permissive et la micro-narration hyperréelle d’un zélote religieux ou d’un quelconque tribal de la planète postmoderne, indépendamment du fait qu’il souhaite ou non devenir l’hôte d’un talk show télévisé, ou devenir une star du porno, ou le porte-paroles imaginaire d’une guérilla, alors vous devez implicitement accepter également l’idée d’un « post-démocratie », d’un « post-libéralisme », d’une ère « post-holocaustique » et d’une « post-humanité » dans une post-Amérique. Comme toutes les grandes narrations de la modernité mourante peuvent être remises en question en toute liberté, on peut trouver plein de bonnes raisons pour remettre en question et pour envoyer aux orties la grande narration qui se trouve à la base de la démocratie américaine. En utilisant le même tour de passe-passe, on pourrait remettre au goût du jour en Amérique des penseurs, des auteurs et des hommes de science qui, depuis la fin de ce Sud antérieur à la guerre civile ou, plus nettement encore, depuis la fin de la seconde guerre mondiale en Europe, ont été houspillés dans l’oubli ou ont été dénoncés comme « racistes », bigots ou « fascistes » ou ont reçu l’un ou l’autre nom d’oiseau issu de la faune innombrable de tous ceux que l’on a campés comme exclus. Les auteurs postmodernes évitent toutefois avec prudence les thèmes qui ont été dûment tabouisés. Ils se rendent compte que dans la « société la plus libre qui soit », les mythes antifascistes et anti-antisémites doivent continuer à prospérer.

 

Tomislav SUNIC.

(extrait du livre « Homo Americanus – Child of the Postmodern Age », publié à compte d’auteur, 2007, ISBN 1-4196-5984-7, pp. 146 à 156 ; trad. franc. : Robert Steuckers). 

 

Notes :

(1)    Régis DEBRAY, Cours de médiologie générale, Gallimard, 1991, p. 303.

(2)    Gilles LIPOVETSKY/Sébastien CHARLES, Les temps hypermodernes, Grasset, 2004, p. 124.

(3)    Gilles LIPOVETSKY, L’ère du vide, Gallimard, 1983.

(4)    Christian RUBY, Le champ de bataille postmoderne, néo-moderne, L’Harmattan, 1990.

(5)    Gilles LIPOVETSKY/Sébastien CHARLES, Les temps hypermodernes, Grasset, 2004, p. 78.

(6)    Ibidem, p. 37.

(7)    Jean BAUDRILLARD, Les stratégies fatales, Grasset, 1983, p. 79. 

lundi, 30 novembre 2009

Modus Operandi de la desinformacion

desinformacion.jpgModus Operandi de la desinformación

El martes 10 de noviembre, el Ministerio de Defensa de Corea del Sur anunció que una patrulla norcoreana había cruzado la línea fronteriza marítima en el Mar Amarillo (o Mar Occidental) lo que provocó que un buque de la Marina de Corea del Sur realizara “disparos de advertencia” a los que respondieron los norcoreanos. Según la agencia noticiosa surcoreana Yonhap, el patrullero de Pyongyang “aparentemente sufrió daños”, aunque no se informó de víctimas.

La frontera marítima en aguas del Mar Occidental es una zona altamente conflictiva donde se han librado enfrentamientos con numerosas bajas entre buques de las dos Coreas. Pyongyang rechaza la controvertida Línea del Límite del Norte (NLL), impuesta al final de la Guerra de Corea (1950-1953) por las tropas de la ONU lideradas por EEUU.

Este incidente agregó significación a una reciente denuncia por desinformación maliciosa formulada por el destacado pacifista y escritor estadounidense Bruce K. Gagnon, coordinador de la “Red global contra las armas y el poder nuclear en el espacio”.


Se trata de un suceso que, sin ser excepcional ni novedoso, resalta la sistemática manipulación que caracteriza al modus operandi de la gran prensa corporativa.

Relataba Gagnon que el diario The Washington Post de la capital estadounidense había publicado el 13 de octubre de 2009 un artículo titulado “Disparó Corea del Norte cinco misiles”, referido al hecho cierto de que esa nación asiática lanzó tal cantidad de misiles de corto alcance tras lo cual declaró una prohibición de la navegación en aguas frente a sus costas orientales y occidentales, sin mencionar en lo absoluto las motivaciones que había tenido Pyongyang para adoptar esas medidas.

“Lo que fue convenientemente excluido de la noticia es que Estados Unidos y los militares surcoreanos acababan de iniciar grandes maniobras militares conjuntas en el Mar Occidental (o Amarillo), situado entre Corea y China, que tendrían lugar del 13 al 16 de octubre y que incluirían la participación del grupo de combate del portaviones USS George Washington. Corea del Norte temía que Estados Unidos y Corea del Sur (que ahora construye misiles de largo alcance capaces de alcanzar en profundidad el territorio de Corea del Norte) planearan utilizar la circunstancia para lanzar un ataque sorpresivo contra ellos”, observa Gagnon.

“Después de todo, -añade- ellos conocen de los ataques de EEUU contra Iraq y Afganistán, y escuchan el entrechoque de los sables de guerra que Estados Unidos blande contra Irán. Corea del Norte no puede descuidarse ante la ocurrencia de estos grandes ejercicios militares. Cuando tienen lugar, ellos dejan todo lo que estén haciendo y se preparan para la defensa de su país. Es esa una razón por la que su economía presenta tantos problemas.”

“Por eso, como medida preventiva, ellos dispararon al mar, sin intención ofensiva, los 5 misiles de corto alcance, a fin de advertir (al eventual atacante) que ellos estaban alertas”, dice Gagnon.

El Washington Post había escrito que, “la Secretaria de Estado, Hillary Clinton, reaccionando ante los informes sobre el lanzamiento de los misiles, declaró que Estados Unidos y sus aliados están tratando de demostrar a Corea del Norte que la comunidad internacional no aceptará la continuidad de su programa nuclear”.

Ironiza Gagnon que “Estados Unidos finge sorpresa por este comportamiento extravagante e inesperado de la ‘inestable’ Corea del Norte y utiliza el incidente como pretexto para recordar al mundo que los buenos americanos están trabajando fuertemente para detener el programa nuclear de Corea del Norte. Estados Unidos, en otras palabras, es apenas un ingenuo observador. El tío bueno sólo sacude la cabeza, consternado, ante la conducta de aquellos norcoreanos tan extravagantes”.

El objetivo de la inocente información –dice- es hacer que en la mente del lector norteamericano y en las de los de otros lugares del mundo bajo influencia de los medios corporativos que controla Washington quede sólo la idea de que los maniáticos norcoreanos, una vez más, han disparado misiles contra objetivos fantasmas.

Relata Gagnon que, habiendo tenido acceso al cúmulo de informaciones omitidas, pudo constatar de qué manera Estados Unidos y el Washington Post engañaban al público, incluso a la mayor parte de los congresistas de Estados Unidos, que ignoraba el grave peligro que significaban esos ejercicios que llevaban a cabo su país y Surcorea frente a las costas de Corea Democrática y de China, algo que la noticia sobre los cinco misiles pasó por alto.

Grupos de pacifistas en Corea del Sur, identificados con el intríngulis del asunto, se manifestaron en protesta durante los días de las maniobras conjuntas, sin que ello fuera reportado por los medios en Corea del Sur ni, mucho menos, por el Washington Post.

Gagnon considera que se trata de un revelador ejemplo de la forma en que se estigmatiza a Norcorea desde la Guerra de Corea. “La práctica es la misma que se ha usado contra Cuba durante muchos años, contra Irak, y en la actualidad contra Irán, Afganistán y Pakistán. Es el modus operandi de Estados Unidos”.

Manuel E. Yepe

Extraído de Argenpress.

~ por LaBanderaNegra en Noviembre 18, 2009.

vendredi, 23 octobre 2009

Riposte à l'encerclement médiatique et guerre idéologique

risposteencerclement.jpg« Riposte à l'encerclement médiatique et guerre idéologique »

Par Jean-Yves Clouzet

Comment sortir de l’encerclement médiatique?, s’interroge Polémia après avoir examiné avec brio La tyrannie médiatique (*). Afin de répondre à cette interrogation si actuelle, il convient de se référer à un ouvrage magistral sorti en 2002 aux Éditions Sicre, une maison d’édition royaliste légitimiste : Riposte à l’encerclement médiatique et guerre idéologique de Jean-Yves Clouzet. Il met  dans ce véritable manuel de techniques de « contournement » médiatique tout son talent de conférencier, de journaliste, de soutien actif aux dissidents soviétiques et de militant solidariste. S’appuyant sur ses expériences passées, il offre à l’ensemble des réprouvés de l’Occident les moyens de se défaire de cette oppression.


Une véritable chape de plomb écrase la population


L’ouvrage commence d’abord par étudier le terrain et à disséquer le fonctionnement du Médiacosme. Sans cette approche préalable, toute menée postérieure serait vaine, car « par leur simple existence colossale et technologiquement inaccessible au commun, les mass media disposent des moyens d’une domination graduellement universelle. En quelques semaines d’effort, par un verbiage benoît, ils sont en mesure de ruiner des concepts vitaux d’une civilisation, pour y substituer des préjugés de leur fantaisie : puérils, exquis, dangereux ou pervers » (p. 20). Une véritable chape de plomb écrase la population. La cohésion même du peuple en est menacée puisque « au service de l’idéologie dominante, la classe médiatique exerce sur lui un pouvoir inouï, fait d’illusions, de persuasion et de divertissement. N’est-elle pas devenue son pédagogue sournois, intraitable et fascinante ? » (p. 17). La « pédagogie » du Système médiatique passe par les canaux de la « communication idéologique » que sont la publicité, la presse périodique, la radio-télévision, la censure molle et douce, leurs valets zélés… Les médias sont des armes de guerre culturelle, des vecteurs du « despotisme médiatique » et fourrier de la « société du spectacle » au sens debordien du terme. L’entreprise d’avilissement est totale ! « En suscitant massivement des penchants en faveur de la drogue, de la pornographie, de la violence, en faisant de l’avortement, de l’euthanasie, de l’hypersexualisme, des comportements banals et même privilégiés, en glorifiant la prééminence du criminel sur la victime, le monde médiatique prépare les génocides futurs. Par le saccage de la langue, de l’histoire, de l’art et de la foi des peuples, ils les conditionnent pour consentir à leur propre disparition. En élargissement la sphère marchande à la totalité de la vie individuelle et collective, ils mettent en place les conditions d’un esclavage comparable à ce que le monde à connu et déjà combattu » (p. 46).

Toutefois, l’« entité médiatique » ne présente aucune homogénéité interne. « Vers l’extérieur, le bloc médiatique agit comme une arme de guerre. À l’intérieur, en revanche, c’est un champ clos où s’affrontent des forces consensuelles mais rivales. […] La lutte mondiale entre les grands groupes de presse signifie la recherche acharnée des bénéfices, mais aussi de la puissance » (p. 48). Ces contentieux internes deviennent de réels atouts pour ses contempteurs.

Quelques pistes pour ébranler et démanteler le cercle idéologique

Les deuxième et troisième parties donnent aux lecteurs la possibilité d’« ébranler l’encerclement et [de la] démanteler ». S’inspirant Des falaises de marbre d’Ernst Jünger et de L’Archipel du Goulag de Soljénitsyne, Jean-Yves Clouzet en appelle - entre autres - au « bond offensif », car ce bréviaire de guérilla médiatique fourmille d’actions aisées à mener. « Dans la guerre idéologique, le bond offensif s’exprime par une série d’actes inattendus et visibles, qui répondent à un signe populaire, parfois implicite. La nature du but visé, les résultats obtenus et les moyens disponibles donnent des limites à ces actions, menées suivant des règles et dans une perspective définie. Elles sont organisées en faveur de la population, dans ses malheurs principaux et pour ses souhaits les plus justifiés par les faits et par la doctrine. En vue d’obtenir un soulagement pour cette population, un développement du mouvement et une diffusion doctrinale, cette initiative offensive s’exprime par la rencontre directe du peuple jusqu’à la symbiose et par le détournement à son service de forces intellectuelles, médiatiques et politiques jusqu’alors inertes ou adverses » (p. 140). Par « bond offensif », Jean-Yves Clouzet entend la conjonction d’« une sorte de trinité unifiée entre le peuple, l’élite et la doctrine, qui s’informent mutuellement, en permanence. Car, s’il y a un peuple, il y a une élite. […] Et, si existent le peuple et l’élite, existe la doctrine [qui] exprime un fruit de l’incarnation divine en l’humanité, spécialement dans le peuple considéré et en son histoire » (p. 139).

Suggestions et recettes de combat

Très pragmatique et fort lucide, l’auteur en appelle non point à une impossible fusion entre les branches variées et buissonnantes de la dissidence, mais à leur alliance, ou pour le moins à leur entente, leur coopération, voire leur coordination. « Prenons l’exemple des courants monarchistes, avance-t-il. Les deux royalistes, le bonapartiste et leurs variantes peuvent se reconnaître un foyer commun : le principe monarchique, avec la succession héréditaire et la personne sacrée du souverain qui assure la continuité de l’État. Ce seul point autorise un travail commun, dont la force rejaillit pour chacun. Des colloques, des études et des publications centrés sur ce thème, sans trop déborder sur ce qui divise, fortifient cette plate-forme doctrinale et son originalité idéologique » (p. 245).

En lisant Riposte à l’encerclement médiatique et guerre idéologique, on se demande si les présentes dissidences n’appliquent pas déjà quelques-uns de ses conseils. Qu’on pense donc à Radio-Courtoisie avec la réinformation, à Solidarité des Français ou Action populaire sociale avec leurs soupes hivernales et l’aide apportée aux plus démunis, à Contribuables associés avec des audits thématiques et précis, à S.O.S. Éducation pour le relèvement du niveau scolaire, à Novopress, car « une agence de presse permet de diffuser des informations auprès des media, mais aussi de fournir une référence » (p. 296). Ce livre regorge de suggestions faisables !

Internet, un « biotope » propice à toutes les pensées réfractaires au politiquement correct.

Le seul point quelque peu dépassé de l’ensemble porte sur l’appréciation du rôle d’Internet. Depuis la parution du livre, le réseau informatique planétaire a pris une dimension considérable et constitue aujourd’hui un nouvel espace. Internet devient désormais un « biotope » propice à toutes les pensées réfractaires au politiquement correct. Leur appropriation de l’univers cybernétique peut se comprendre comme l’établissement de « bases de  départ » alternatives de la Reconquête.

On sait que Carl Schmitt rédigea en 1963 une Théorie du partisan qu’il voyait complémentaire à sa Notion du politique. Certes, son partisan bénéficiait d’une assise terrienne, tellurique même, et s’apparentait au Rebelle jüngerien. Comme lui, il recourt aux forêts. Par ailleurs, si les conditions historiques sont favorables au partisan, il peut obtenir des appuis populaires comme le montra fort bien la tactique militaire maoïste. Or, en ces temps de liquidité maximale et de phénomènes erratiques incessants, sa Figure prend maintenant une tournure internautique.

La « Réacosphère » a investi assez tôt la Toile. Cependant, du fait du caractère essentiellement mouvant du monde d’Internet, il serait plus juste de désigner le partisan en ligne sous les termes de « pirate », de « corsaire » ou de « flibustier », d’autant que les règles d’engagement et de fonctionnement du réseau mondial relèvent plus des codes de la guerre sur mer au temps de la marine à voile que des pratiques de la guerre de masse industrialisée. Sur cette gigantesque « île de la Tortue » virtuelle se côtoient hackers et trollers, diffuseurs (volontaires ou non) de désinformation et « guerriers virtuels ». Ils y commettent des blogues, des commentaires, des articles et/ou des vidéos. Le Système a bien compris la menace puisqu’il cherche à y renforcer en prétextant la lutte contre le « terrorisme », la « pédophilie » et le « racisme ».

Pourtant, le danger existe. Il réside pour les véritables Travailleurs postmodernes dans le risque non négligeable d’une déconnexion complète préjudiciable à terme pour leur cause. Il paraît dès lors indispensable que s’établissent des liens réels entre militants de rue et combattants en ligne. En dehors de la répercussion des actions militantes sur la Toile et de leur amplification, il devient enfin urgent que les amis, compétents en informatique, ouvrent des hébergements pour sites et acceptent d’être des fournisseurs d’accès Internet (F.A.I.). Outre que cet objectif assurerait aux nôtres un travail décent et exprimerait une entraide effective, pareille entreprise développerait - en dépit des inévitables divergences - un esprit de corps, bref, un sentiment d’appartenance communautaire. D’un point de vue pratique, avoir avec soi des F.A.I. éviterait les rétorsions qu’ont subi quelques blogues patriotes ces derniers temps.

Alors, aux armes citoyens ? Non, à vos claviers cyberdissidents !

Georges Feltin-Tracol
Le partisan sur la Toile
pour Polémia
17/10/2009

Les intertitres sont de la rédaction


Jean-Yves Clouzet, Riposte à l’encerclement médiatique et guerre idéologique, Sicre Éditions, Paris, 2002, 372 p.

(*) La tyrannie médiatique, ed. Polémia.com, septembre 2008, 80 p.
http://www.polemia.com/article.php?id=1729

Image: Couverture de Riposte à l’encerclement médiatique et guerre idéologique
 

Georges Feltin-Tracol

samedi, 09 mai 2009

La bataille sémantique n'est pas perdue d'avance...

Martin Peltier :

« La bataille sémantique n’est pas perdue d’avance »

SOURCE : MONDE ET VIE & http://synthesenationale.hautetfort.com/

 

9782916951065.gifJournaliste, Martin Peltier a ouvert la 14ème université d’été de l’association Renaissance catholique, consacrée au politiquement correct, par un exposé sur la subversion du langage. Il revient sur ce thème pour Monde & Vie.

 

Martin Peltier, vous vous intéressez particulièrement à la dimension sémantique de la pensée unique, la “novlangue”. La subversion de la langue précède celle des esprits. Par quel mécanisme ?

 

On parle de “novlangue” par référence au roman de George Orwell 1984. Depuis l’entre-deux guerres, les marxistes et post-marxistes ont entrepris un travail constant de subversion par le langage. La stratégie reste la même aujourd’hui. On remarque d’ailleurs, au sein du composé de mouvements et de personnes qui élaborent la pensée unique, de nombreux trotskistes ou anciens trotskistes, en France comme aux Etats-Unis, qui ont acquis au sein des organisations de cette mouvance une formation à ces méthodes de subversion. Même des antimarxistes avertis se laissent prendre au piège de cette torsion du vocabulaire, par exemple en employant le mot “stalinien”, forgé pour innocenter le communisme des crimes de Staline, alors que Lénine et Trotski furent eux aussi des criminels sanguinaires. Et ça marche ! Personne ne se réclame plus aujourd’hui de Staline, mais beaucoup continuent de se proclamer communistes ou trotskistes, sans que nul ne s’en émeuve. En subvertissant le langage, il est également possible d’accoutumer les gens à des idées qu’ils repoussaient dès l’abord : en parlant d’“homoparentalité” et de “couples gays”, on en vient par exemple à rendre petit à petit admissible l’idée de l’adoption d’enfants par les homosexuels. Le piège est d’autant plus efficace qu’en nous opposant à cette subversion du langage, nous risquons nous-mêmes d’être conduits à utiliser un langage archaïque et à recourir pour désigner certaines réalités à des périphrases qui témoignent des succès de l’adversaire.

 

Pour s’opposer à cette colonisation du langage par le politiquement correct, est-il possible, bien que les médias dominants soient gagnés à la pensée unique, de copier ses méthodes et de forger une autre terminologie ? A-t-on déjà tenté de le faire ?

 

Oui. L’expression “préférence nationale”, lancée naguère par Jean-Yves Le Gallou dans un livre publié par le Club de l’Horloge, a posé un sérieux problème à nos adversaires, qui ont dû beaucoup batailler avant de parvenir à la diaboliser. Cette notion a conquis l’électorat conservateur avant d’être “repérée”. La bataille sémantique n’est donc pas perdue d’avance.

 

Pour illustrer le travail de destruction du langage et de la syntaxe, vous prenez l’exemple de l’appellation “Madame la ministre”. A son arrivée au ministère de l’Economie, Christine Lagarde, dont la mère était grammairienne, s’était attiré les railleries des médias politiquement corrects en demandant qu’on l’appelle “Madame le ministre”. Elle n’a d’ailleurs pas été obéie. Comment s’opposer à cette corruption médiatique de la langue française ?

 

Le premier stade de la confrontation est réfléchi, préparé par des militants, puis les termes passent dans le langage courant et sont diffusés par les médias, d’autant plus facilement que l’on n’y prend pas garde. Ainsi, aux Etats-Unis, le terme melting-pot, qui signifie “creuset” et annonçait l’intention de fondre les minorités dans le creuset américain, a été remplacé sous la pression des gauchistes radicaux par celui de “salad-bowl” (saladier), qui exprime une autre conception de la société américaine, au sein de laquelle les différentes communautés sont appelées à cohabiter sans se mélanger. En France, il n’est pas anodin qu’un “clandestin” soit devenu un “sans-papiers“, un “homosexuel” un “gay”, ou que les droits de l’homme, notion “sexiste”, disparaissent au bénéfice des “droits humains”. Comment s’y opposer ? En réagissant constamment, en faisant attention au vocabulaire que nous utilisons, en consacrant des rubriques à l’étude du langage dans les médias appartenant à notre famille de pensée, en utilisant l’ironie, le rire et la connivence sociale pour ridiculiser l’adversaire.

 

Vous estimez que s’est mis en place un processus de « tyrannie optimale ». Qu’entendez-vous par là ?

 

La tyrannie optimale, c’est celle qui obtient les meilleurs résultats avec un minimum de frais. On trouve des exemples de tyrannies dès l’Antiquité. Elles faisaient beaucoup de bruit pour rien, versaient le sang en abondance pour un résultat médiocre. Ces bilans se sont améliorés avec la Révolution française, puis le nazisme et le communisme ; mais même en URSS, malgré la terreur que l’on y pratiqua et une propagande très bien organisée, on ne convainquait pas grand monde. Aujourd’hui, nous avons affaire à une tyrannie douce, qui diffuse un vocabulaire, des émotions, des idées qui passent partout, y compris par le biais de la publicité et des biens de consommation : ainsi en est-il de l’“homoparentalité”, ou encore de l’“homophobie” dont nous sommes accusés – et persuadés – de nous rendre coupables si nous ne sommes pas favorables à l’adoption d’enfants par les homosexuels. C’est également vrai en politique : voyez la manière dont on s’est laissé persuader de l’existence d’armes de destruction massive en Irak sous Saddam Hussein, alors qu’on savait qu’il n’y en avait pas… Ce sont des techniques de propagande non aversives : on n’exerce pas de violence directe, mais on propage une morale diffuse qui ne supporte ni réaction, ni contradiction. C’est une tyrannie presque parfaite.

 

La pression morale ne devient un peu plus violente que lorsque le système prend peur, ou joue à se faire peur. Car une telle tyrannie ne se sent en danger que lorsque les langues se délient : en 2002, que serait-il arrivé si les Français avaient commencé à se demander si la “préférence nationale“ était vraiment un concept aussi inacceptable que la pensée unique le prétendait ? Elle a réagi en émettant un peu plus de mensonges et d’insultes afin de discréditer son adversaire.

dimanche, 08 mars 2009

Un Gran Hermano en el ciberespacio

¿Y con Facebook qué?
Un Gran Hermano en el ciberespacio

Victoria Romero
El control de la información de los centros de poder presente en Internet. Las redes sociales, donde todo se ve y todo se sabe, en el ojo de la tormenta. Por  | Desde la Redacción de APM 01|03|2009

El que tiene la información tiene el poder y desde esa posición asimétrica ideará diversos mecanismos y utilizará diferentes herramientas para continuar ejerciéndolo. Es en ese afán por mantenerse en el poder, donde aquel que lo concentra logra crear sus propios medios de comunicación y utilizarlos como instrumentos para sus fines. Y es en ese afán donde la censura, la omisión, la tergiversación, la supremacía de una fuente sobre otra, prevalecen en la información que circula.
(Ver: “Reflexiones sobre Internet. La pecera ciberespacial”. APM 13/6/2007)

Desde el procedimiento óptico de Jeremías Bentham, considerado en el siglo XVIII como la gran innovación para ejercer bien y fácilmente el poder, pasando por la propaganda de Joseph Goebbels (el jefe de la propenda nazi), los recortes de cinta de video tapes y las prohibiciones de publicar o decir, el poderío económico y político centrado sobretodo en multinacionales, instaura de forma continua procedimientos de poder, innovadores, diversos, eficaces para socavar los principios de expresión, libertad y democracia.

Adaptado a las nuevas tecnologías, el control de la información logró infiltrarse en el ciberespacio. Días atrás se conoció la noticia de que la conocida red social Facebook, con millones de usuarios en el mundo, cambiaba las políticas de uso y se adjudicaba de forma perpetua los derechos comerciales del material que sus usuarios subían y compartían en la red.

La noticia causó críticas y revuelos dentro y fuera de la “República de Facebook” que obligaron a Mark Zuckerberg, joven dueño de la red, a retornar a las condiciones previas de uso mientras “se resuelven los temas que la gente ha propuesto”, escribía el muchacho en su blog.

Facebook es un sitio web de redes sociales creado por Zuckerberg en 2004 como plataforma para conectar a estudiantes de la Universidad de Harvard, donde el muchacho estudiaba. Pero la idea de Zuckerberg pronto se convirtió en un boom, extendiéndose a otras universidades estadounidenses hasta que, en 2006, se abrió al público. En apenas un año, el invento del estudiante de Harvard se convirtió en uno de los sitios con mayores visitas de la web. En noviembre de 2008, la propia web de estadísticas de Facebook, contó más de 175 millones de usuarios activos en todo el mundo.

Facebook no para de crecer. Hace dos semanas, la empresa de medición en Internet Compete.com la catalogó como el sitio web de redes sociales más popular del mundo, con casi 1.200 millones de visitas en enero.

Compete.com publicó los conteos que muestran cómo Facebook se ubica en primer lugar, seguido por MySpace y por el servicio de micro-blogging Twitter que pasó del lugar 22 al tercero. MySpace recibió en enero 810 millones de visitas mientras que Twitter fue visitado 54.2 millones veces, de acuerdo a datos ofrecidos por la compañía.

Desde Facebook explican que uno de los motivos de la crecida de usuarios es que desde el año pasado se lanzó su versión en francés, alemán y español para impulsar su expansión fuera de Estados Unidos.

En tanto, a comienzos de este año, Zuckerberg vendió a Microsoft el 1,6 por ciento de su empresa. El motivo de la venta: Bill Gates, el dueño de la multinacional de informática, vio oro en polvo en la cantidad de datos que se publican sobre gustos y preferencias. Un mega negocio para una publicidad personalizada y on line que le pretende sacar plazas a Google.

La red brinda posibilidades de que todo se sepa, desde el lugar de trabajo, situación sentimental, educación, gustos musicales y hasta simpatías políticas. En el “boletín”, se pueden hallar grupos de apoyo o repudio a los presidentes de Bolivia y Venezuela, Evo Morales y Hugo Chávez. Espacios de amor y odio a la presidenta argentina Cristina Fernández, para las Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (FARC) o para el ex mandatario estadounidense George Bush. Incluso los genocidas latinoamericanos Jorge Rafael Videla, Augusto Pinochet y Anastacio Somoza, gozan de partidarios.

Miles de historias se conocen en Facebook, ya que lo privado pasa a ser público y la red social ejerce control sobre todo lo publicado en la plataforma. Este último enunciado fue el detonante de miles de críticas contra Mark Zuckerberg.

Es que el pasado 4 de febrero, el joven empresario introdujo sin aviso perceptible una serie de arreglos al pocas veces leído terms of service que establece las condiciones de uso. Allí, Zuckerberg fijaba que se le otorgaba a Facebook “el derecho irrevocable, perpetuo, no exclusivo, transferible y mundial de utilizar, copiar, publicar, difundir, almacenar, ejecutar, transmitir, scanear, modificar, editar, traducir, adaptar, redistribuir cualquier contenido depositado en el portal".

Si bien esa cláusula preexistió siempre en la plataforma, Zuckerberg eliminaba un principio de privacidad, aquel que aseguraba que el contenido de un espacio podía ser borrado del portal en cualquier momento. “Si usted lo borra, el derecho acordado a Facebook evocado antes vencerá automáticamente, aunque la empresa puede conservar copias archivadas", fijaba la plataforma.

La desaparición de esas oraciones en las condiciones de uso significaba que se le cedía (incluso post mortem) a Facebook la propiedad comercial de todo aquello que se subía a la plataforma. Incluso si entre los miembros de la red, se encontraban artistas, hubiesen estado condenados también a conceder el derecho de sus creaciones a Zuckerberg.

Si bien el joven millonario debió abandonar esas pretensiones de control de la información, lo hizo de forma momentánea hasta tanto se decida lo mejor para todos en Facebook. El intento de cambio en las políticas de uso convertía en legal lo ilegal: almacenar los datos de los usuarios. Al momento que alguien da de baja su perfil, la empresa no borra la información, porque si el usuario decide nuevamente dar de alta su cuenta, de inmediato sus datos aparecen en la red. Entonces, con esos cambios los datos hubieran pasado legalmente a ser parte de Facebook.

No es la primera vez que aparecen roces en Facebook por el control de la información. En 2007, el proyecto Beacon que pasaba información sobre la actividad de usuarios a compañías de publicidad debió ser abortado luego de las críticas de los integrantes de la red.

Ese manejo en la información privada de los usuarios induce a representar a la red social como el Gran Hermano omnisciente y virtual que todo lo ve y todo lo sabe. Si bien los datos aislados de cada persona que sube su perfil a Facebook no tienen valor, sí lo tiene la información de millones de usuarios, sobre todo en términos financieros y políticos.

Es por ello que la mayor preocupación radica en reflexionar cómo una vez más desde los centros de poder se busca el dominio y el control de la información desde una arista de las nuevas tecnologías, como lo constituyen las redes sociales. Evitar la desinformación para el caso de las redes sociales e impedir el control de cada espacio gratuito y democrático para Internet, es un desafío para aquellos que buscan hacerle frente a esa parte hegemónica y poderosa que intenta liderar y concentrar el mundo.

vromero@prensamercosur.com.ar

http://www.prensamercosur.com.ar/apm/nota_completa.php?idnota=4214

mardi, 17 février 2009

Influence, contre-influence, manipulation et propagande

Influence, contre-influence, manipulation et propagande

Les techniques de manipulation, de propagande et d’influence ont longtemps été cantonnées aux temps de guerre. Avec l’explosion des technologies, les vieilles recettes sont remises au goût du jour pour être utilisées en temps de paix, avec toujours ce même et unique objectif : vendre. Vendre une guerre, vendre un programme politique, vendre un produit, vendre une idée…

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Plusieurs ouvrages ont été publiés fin 2008 pour aborder cette question, et notamment “Maîtres du faire croire ” de François-Bernard Huyghe qui retrace l’histoire et l’évolution de la propagande à travers les siècles. L’auteur revient sur ce qui a caractérisé l’influence, époques après époques,et c’est ainsi qu’il analyse les techniques des missionnaires (convertir des âmes), des philosophes (persuader), des guerriers (vaincre), des politiques (diriger)… En retraçant les différents siècles, il aborde les notions d’influence et de manipulation à notre époque de sociétés en réseau et de la société civile. Les ONG, les think-tanks, les organisations terroristes… toutes ont adapté d’anciennes techniques pour vendre des schémas de pensée ou de la peur.

François-Bernard Huyghe présentera son ouvrage au Press Club de France (8 rue Jean Goujon, 75008 Paris) le 12 février 2009 de 8h 45 à 10h.

Un autre ouvrage mérite toute notre attention, il s’agit de “150 petites expériences de psychologie des médias pour mieux comprendre comment on vous manipule” de Sébastien Bohler. Cet ouvrage se présente sous forme de fiches qui expliquent nos réactions face aux média (publicité, politique, croyances…) en les étayant systématiquement d’éxperiences scientifiques. Ainsi l’on comprendra mieux nos propres réactions de peur face à une pandémie de grippe aviaire après avoir regardé les informations (et que l’on n’y pense plus dès que les médias n’en parlent plus…) ; pourquoi l’on croit plus les informations qui passent en boucle ou que l’on a plus de sympathie pour une personne que l’on voit souvent dans les médias ; pourquoi l’on ne supporte pas les discours de certains hommes politiques ; pourquoi l’on pense que tous les hommes politiques sont corrompus ; comment l’on arrive à vous vendre des voitures en jouant sur l’estime de soi des consommateurs… Un ouvrage essentiel pour ne plus être victime de ses propres réactions provoquées par d’autres.

Notons également l’article “Influence sur Internet” de Didier Heiderich (auteur de Rumeur sur Internet). Sur son site Communication Sensible, Didier Heiderich s’est fait une expertise de la gestion de crise sous toutes ses formes. Dans son article “Influence sur Internet”, il analyse les mécanismes d’influence spécifiques à Internet, à savoir imposer aux internautes un parcours de liens qui mènent vers du contenu visant à forger l’opinion et les perceptions. L’article aborde certaines de ces techniques visant à maîtriser les comportement cognitifs sur Internet : positionnement élevé dans les moteurs de recherche, recommandations de connaissances ou d’autres internautes, appropriation du contenu pour le propager ensuite… Article fort intéressant qui délimite bien les fondamentaux de l’influence sur Internet.

Source : Infoguerre

 

dimanche, 14 décembre 2008

Dressage capitaliste

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Dressage capitaliste

 

Contrairement à une vision encore très répandue dans les milieux d’extrême gauche, il y a déjà bien longtemps que le dressage capitaliste des classes populaires ne repose plus prioritairement sur l’action de la police ou de l’armée (…). De nos jours, il devrait, au contraire, être devenu évident pour n’importe qui que le développement massif de l’aliénation trouve sa source véritable et ses points d’appui principaux dans la guerre totale que les industries combinées du divertissement, de la publicité et du mensonge médiatique livrent quotidiennement à l’intelligence humaine. Et les capacités de ces industries modernes à contrôler “le temps du cerveau humain disponible” sont, à l’évidence, autrement plus redoutables que celles du policier, du prêtre ou de l’adjudant – figures qui impressionnent tellement les militants des “nouvelles radicalités”.

 

Jean-Claude MICHEA, “La double pensée – Retour sur la question libérale”, coll. Champs/Essais, Flammarion, 2008.

 

 

mercredi, 03 décembre 2008

La double pensée

La double pensée

ex: http://metapoinfos.hautetfort.com/

Un inédit de Jean-Claude Michéa, intitulé La double pensée et composé par plusieurs entretiens et textes indépendants, sort dans la collection Champs Flammarion au mois d'octobre.

On notera que la "nouvelle droite" est citée dès la première du livre comme l'"inventeur" de l'expression "la pensée unique" !

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"Le libéralisme est, fondamentalement, une pensée double: apologie de l'économie de marché, d'un côté, de l'Etat de droit et de la "libération des mœurs" de l'autre. Mais, depuis George Orwell, la double pressée désigne aussi ce mode de fonctionnement psychologique singulier, fondé sur le mensonge à soi-même, qui permet à l'intellectuel totalitaire de soutenir simultanément deux thèses incompatibles. Un tel concept s'applique à merveille au régime mental de la nouvelle intelligentsia de gauche. Son ralliement au libéralisme politique et culturel la soumet, en effet, à un double bina affolant. Pour sauver l'illusion d'une fidélité aux luttes de l'ancienne gauche, elle doit forger un mythe délirant: l'idéologie naturelle de la société du spectacle serait le "néoconservatisme", soit un mélange d'austérité religieuse, de contrôle éducatif impitoyable, et de renforcement incessant des institutions patriarcales, racistes et militaires. Ce n'est qu'à cette condition que la nouvelle gauche peut continuer à vivre son appel à transgresser toutes les frontières morales et culturelles comme un combat "anticapitaliste". La double pensée offre la clé de cette étrange contradiction. Et donc aussi celle de la bonne conscience inoxydable de l'intellectuel de gauche moderne. "

mardi, 02 décembre 2008

Désolante uniformité idéologique du paysage médiatique contemporain

La désolante uniformité idéologique du paysage médiatique contemporain

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Une citation tirée de La double pensée de Jean-Claude Michéa (Champs Flammarion, 2008) :

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"[L'] uniformité idéologique [du paysage médiatique contemporain] atteint son degré d'intensité maximal chaque fois que les institutions capitalistes sont confrontées à une menace réelle (par exemple lors des référendums sur le traité de Maastricht et sur le projet de Constitution européenne), ou même simplement fantasmée (par exemple lors des élections présidentielles d'avril 2002). Le synchronisme absolu des commentaires politiques, l'ampleur des mensonges diffusés et l'inévitable mobilisation des artistes officiels peuvent alors être comparés, sans la moindre exagération, à la propagande normale des Etats totalitaires. C'est d'ailleurs dans ces moments privilégiés - quand chacun est tenu de hurler avec les loups et que les derniers masques tombent - qu'on peut se faire une idée précise du courage personnel, de la probité intellectuelle et de la valeur morale des professionnels des médias et du spectacle."

samedi, 15 novembre 2008

Echapper aux emballements médiatiques

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Echapper aux emballements médiatiques : comment décrypter les faits et les images ?

Ex: http://www.polemia.com

Journée d’étude sur la réinformation, organisée le 25 octobre 2008 par la Fondation Polémia
Communication de René Schleiter

« En 1593, le bruit courut que les dents étant tombées à un enfant de Silésie âgé de sept ans, il lui en était venu une d’or à la place d’une de ses grosses dents. Horstius, professeur en médecine dans l’université de Helmstad, écrivit en 1595 l’histoire de cette dent et prétendit qu’elle était en partie naturelle, en partie miraculeuse, et qu’elle avait été envoyée de Dieu à cet enfant pour consoler les chrétiens affligés par les Turcs. (…). En la même année, afin que cette dent en or ne manquât pas d’historiens, Rullandus en écrit encore l’histoire. Deux ans après, Ingolsteterus, autre savant, écrit contre le sentiment que Rullandus avait de la dent d’or et Rullandus fait aussitôt une belle et docte réplique. Un autre grand homme, nommé Libavius, ramasse tout ce qui avait été dit de la dent, et y ajoute son sentiment particulier. Il ne manquait autre chose à tant de beaux ouvrages, sinon qu’il fût vrai que la dent était d’or. Quand un orfèvre l’eut examinée, il se trouva que c’était une feuille d’or appliquée à la dent, avec beaucoup d’adresse ; mais on commença par faire des livres, et puis on consulta l’orfèvre. »
Eh bien voilà un orfèvre qui à la fin du XVIe siècle savait déjà décrypter les infos.

Cette anecdote, racontée sous une forme brève et enjouée par Fontenelle dans son « Histoire des oracles » (1687), transposée au XXIe siècle illustre parfaitement un phénomène courant relevé dans les médias : le journaliste présente ou commente un fait qui lui a été rapporté soit, le plus souvent, par une dépêche d’agence, soit par un confrère qui a déjà traité le sujet dans une autre publication, sans même s’être assuré au préalable de la réalité ou de l’exactitude de l’info. C’est ce que certains appellent « l’inceste entre journalistes ».

Commençons par les images.

– La manipulation la plus grossière passe par la présentation d’images d’archives (sans qu’il en soit fait mention) destinées à illustrer un événement ou des faits qui viennent de survenir. C’est hélas souvent le cas pour des scènes de guerre sur des théâtres d’opération lointains, en l’absence de journalistes sur place ou plus simplement pour mieux sensibiliser le public avec des images chocs.

– Plus raffinée est celle qui consiste à utiliser une bonne photo prise effectivement sur les lieux et au bon moment, mais dont on aura modifié le cadrage ou le champ de vision pour les besoins d’une légende orientée. J’ai retenu trois exemples pour illustrer cette dernière forme de manipulation, sans avoir malheureusement ici avec moi les documents photographiques pour vous les montrer.

1er exemple: la scène se passe le 1er octobre 1938 à la frontière germano-tchécoslovaque, lors de l’entrée des troupes allemandes dans le territoire des Sudètes.
Une première photographie extraite du livre de Robert T. Elson, « Prelude to war » (1977) représente trois Allemandes des Sudètes, appartenant à la communauté germanique vivant en Tchécoslovaquie, qui acueillent les troupes allemandes avec joie. Une des trois femmes pleure d’émotion. Sa légende est la suivante : « Trois femmes sudètes, l’une saisie par l’émotion, saluent le bras tendu et rendent hommage à la Wehrmacht qui entre dans la ville frontière de Cheb. »
Une deuxième photographie, tirée de la précédente, apparaît cette fois dans un manuel d’histoire des classes de première (1988), dû notamment à M. Jean-Pierre Azéma, à l’époque directeur de recherches à l’Institut d’histoire du temps présent présidé par le professeur René Rémond. Cette image, par rapport à la première, est amputée et ne montre que la femme qui pleure, avec cette légende surprenante : « La résignation déchirante d’une Tchèque contrainte de saluer l’entrée de la Wehrmacht en pays sudète le 1er octobre 1938. »

2e exemple : Tout le monde se souvient de Timisoara et de son charnier. C’était en décembre 1989. La révolution était en marche en Roumanie et la fièvre avait gagné l’Occident : on zappait les journaux télévisés et on sautait d’une radio à l’autre. La presse s’était déchaînée. La plus grosse affaire fut celle de la ville de Timisoara. Les caméras ont montré quelques corps exhumés d’un charnier dont les informateurs ont dit qu’il contenait jusqu’à 4.350 morts. Déjà une question pouvait se poser : « Comment a-t-il été possible d’exhumer autant de corps en une nuit ? » Et puis, on a montré les émeutes de Bucarest où ont été dénombrés 5.000 morts, 12.000 Roumains ayant été exécutés dans le pays par la Securitas, la police de Ceaucescu. Or malgré cette répression massive qui n’aurait duré que 48 heures, la foule, toujours selon les télévisions envoyées sur place, envahissait les rues. Cette foule dans les rues et 12.000 exécutions étaient-elles conciliables ? Au hit-parade de l’exagération, la première place a été conquise par la télévision hongroise qui a annoncé 60.000 morts et 300.000 blessés, pendant que les médecins occidentaux aux micros des mêmes télévisions affirmaient que les hôpitaux avaient bien en main la situation. L’emballement des chiffres étant rapidement retombé, les chiffres officiels sont parus. Selon le ministère roumain de la santé, 776 morts et 1.600 blessés hospitalisés ont été recensés. Même si ces chiffres étaient minorés, ils étaient encore loin de ceux annoncés par nos médias en plein délire et sans la moindre vérification. Après plusieurs semaines, ils ont été contraints de revenir sur leurs déclarations et les journalistes qui étaient à Timisoara ont avoué que le spectacle des corps exhumés étaient un montage pur et simple puisqu’ils étaient en vérité des dépouilles qui sortaient de l’institut médico-légal local.

3e exemple : Cette fois nous sommes à Bagdad, place Fardous, le 9 avril 2003, jour où a été déboulonnée la statue de Saddam Hussein. Très rapidement on a su que ce déboulonnage était un « bidonnage » bien monté par les « Opérations psychologiques » (PSYOP) de l’armée états-unienne. Une fois encore des images fabriquées ont trompé les téléspectateurs :
Plans rapprochés. Une foule d’Irakiens en liesse s’est réunie pour abattre le tyran. Les forces d’invasion leur prêtent un engin chenillé de dépannage, lancent une amarre et jettent à terre l’effigie du vaincu. La foule danse, s’agite, trépigne et, folle de joie, escalade le blindé. Interprétation : Les Irakiens sont contents, ils sont libérés.
Il est toutefois permis de se poser des questions.
Pourquoi les GIs, qui tirent sur à peu près tout ce qui bouge, y compris les délégués de la Croix-Rouge et les journalistes indépendants, acceptent-ils aussi sereinement la proximité d’une foule ? Un « kamikaze » pourrait s’y dissimuler.
Pourquoi n’avons-nous droit qu’à des plans rapprochés, qui ne donnent aucune information sur le contexte, ni sur le nombre des « manifestants » ?
La réponse nous est donnée par une autre photo du tournage :
Un plan large. Il éclaire l’événement qui montre un plan beaucoup plus large, et permet de comprendre comment « on » mystifie les téléspectateurs. Les « manifestants » sont tout au plus une trentaine. Tandis que les « journalistes embarqués » filment en plan rapproché pour le compte des PSYOP, l’ensemble du périmètre est bouclé par des chars et des transports de troupes.

Et maintenant les faits et l’écrit

Pour les faits proprement dits, c’est un peu différent. Il ne s’agit pas là de remettre en cause des faits patents mais de jauger les appréciations et les interprétations qui en sont faites. Encore que l’on ait connu de vraies fausses nouvelles et de fausses interviews !

J’ai retenu, là encore,  trois événements :

1er exemple : La visite de Nicolas Sarkozy en Chine, en novembre 2007 :
Volontiers cocorico, les médias français se cantonnent, en les optimisant, à relater les victoires commerciales des produits phares de nos fleurons industriels.
C’est ainsi que lors de son premier déplacement officiel en Chine de novembre 2007, le président de la République paraissait avoir rempli pleinement sa mission, en annonçant la signature de 20 milliards d’euros de contrats par les sociétés françaises avec la République populaire de Chine : 160 airbus, 2 EPR d’Areva, fourniture d’électricité par EDF etc. C’est un rituel, les voyages d’Etat s’accompagnent d’annonces de montants impressionnants de contrats.

Qu’en est-il réellement ?
Quelques semaines plus tard, au hasard d’une lecture de la presse économique, on découvre des analyses de journalistes spécialisés qui montrent que ces derniers ne croient rien des annonces de l’Elysée : Areva avait signé depuis plusieurs mois la vente des deux EPR et les 160 airbus avaient été négociés depuis longtemps… Pour les besoins de la cause, l’Elysée avait mélangé un peu tout pour parvenir au montant record de 20 milliards d’euros de contrats annoncés.

2e exemple : L’agression de trois jeunes juifs dans le XIXe arrondissement le 6 septembre 2008.
Les violences ont dans un premier temps été présentées comme un acte antisémite, dans la mesure où les trois victimes portaient une kippa. C’est d’ailleurs ce détail qui a été présenté en boucle toute la journée du lendemain dans les bulletins d’information de France-Info.
L’enquête a montré qu’il n’en était rien. Signe de la complexité de la situation, un des cinq agresseurs mis en examen est de confession juive.
Voilà un bel exemple d’emballement médiatique. « Le Monde », lui-même, a titré sa une du 18 septembre : « Paris XIXe, un emballement aux effets pervers. » En effet, dès que l’événement a été connu, les radios et les télévisions, les élus locaux, les partis politiques, les associations antiracistes, le maire de Paris qui a été le premier à lancer un communiqué, la ministre de l’Intérieur, le grand rabbin et la présidence de la République ont dénoncé « ces actes inqualifiables » et condamné « avec la plus grande fermeté les violences perpétrées à l’encontre de trois jeunes qui se rendaient à la synagogue ». En effet, tout ce que le pays comptait d’autorités morales s’y est mis, en négligeant les réserves très prudentes de la police et du procureur de la République, dès le premier instant, sur le caractère antisémite de l’agression.
Il aura fallu une dizaine de jours pour que le maire de Paris se défausse sur le cabinet du préfet de police qui l’avait mal informé et que Madame Alliot-Marie se défende de toute idée de précipitation, ne s’étant prononcée qu’à partir de ce que lui rapportent ses services. 

3e exemple : La Marseillaise sifflée
Tout le monde se souvient des faits : 14 octobre dernier, stade de France, rencontre amicale de football France-Tunisie. Sifflets massifs de la Marseillaise chantée par Lââm, chanteuse d’origine tunisienne, en provenance des gradins.
Là encore, on a assité à un emballement médiatique, mais cette fois peut-être prémédité et organisé.
Le lendemain, Sarkozy et son gouvernement, en pleine crise financière, a transformé en affaire d’Etat les sifflets de la veille. Tous ont rivalisé d’indignation, alors que lors de matchs précédents, France-Algérie et France-Maroc, le même phénomène n’avait pas fait sourciller quiconque.
En fait le gouvernement a semblé s’y être préparé. Sarkozy avait prévenu qu’il frapperait fort à l’occasion des prochains sifflets lancés dans un stade contre l’hymne national. Dès la survenance de l’incident le soir du 14, les ministres concernés, qui disposaient d’informations fournies par les services du ministère de l’Intérieur qui avaient repéré dans les heures qui ont précédé le match une mobilisation « anti-marseillaise » sur internet, sont sur le pied de guerre. Chacun apportera sa réponse.
Interprétation : faire diversion, car lundi 13 la bourse monte, mardi 14 elle rechute.

 

Alors, comment décrypter les images, les faits et leur usage par les médias ?

Hélas, je ne crois pas qu’il y ait une recette universelle. C’est essentiellement une question de flair ou d’état d’esprit, sans pour autant tomber dans le soupçon permanent, sinon lire ou voir deviendrait un supplice. En revanche, il y a quelques questions qu’il faut se poser quand on a un doute ou devant une situation qui paraît étrange.
Il y a néanmoins un postulat qu’il faut avoir en permanence à l’esprit : les mensonges, notamment au bénéfice de la politique du gouvernement et des idéologies qui concernent l’immigration, le racisme, l’antisémitisme et ses sous-produits et les travestissements flagrants de la réalité ont tous un but immédiat : décerveler le peuple chaque jour un peu plus pour obtenir de chacun qu’il croie ce que la raison d’Etat lui sussure par le truchement des médias dévoués et serviles. On comprend ainsi l’obsession médiatique de Nicolas Sarkozy qui non seulement les surutilise à son profit, mais aussi tente de les regrouper pour mieux les contrôler.

Revenons aux images

Les images dont on connaît la force sont beaucoup utilisées. Nombreux sont les sites internet, comme par exemple Polemia.com, qui les produisent pour illustrer leurs communications. Mais il y a un danger à cet usage car il y a toujours le risque qu’elles soient employées à des fins trompeuses. On l’a vu.

Quelques précautions à prendre :

1) Se demander où est la caméra, où sont ses opérateurs ;
S’imaginer un champ beaucoup plus large que celui qui est montré et tenter de reconstruire le contexte ;
Décomposer la séquence en plans et se demander s’il est certain que les différents plans ont été tournés au même instant et au même endroit.
On l’a vu dans le déboulonnage de la statue de Saddam Hussein.

2) Essayer de connaître l’origine du document ; par qui il a été créé. La personnalité de son auteur renseignera sur la qualité et la fiabilité du document. S’il s’agit d’une image d’archive exempte de copyright, sa libre utilisation est facilitée. On l’a vu dans la séquence des femmes sudètes.

3) L’image fait partie d’un tout, donc son emploi doit correspondre au sens du contenu du texte qu’elle accompagne . Voir Timisoara ; le public a été abusé avec des images qui ne correspondaient pas aux commentaires.

4) Attention à l’humour, il peut y avoir une perversité subliminale. L’humour n’est pas toujours perçu de la même façon par tout le monde. La caricature d’un personnage peut donner une connotation négative là où le texte qu’elle est censée illustrer lui est favorable.

5) Il y a les montages, ceux qui sont faits pour amuser et ils sont inoffensifs car on les découvre rapidement, mais aussi ceux plus sophistiqués qui relèvent de la propagande, donc moins décelables.

6) Echapper à l’émotionnel. C’est le plus difficile : quand l’image touche l’émotivité, attention, méfiance.

Les faits et l’écrit

1) Ne pas se laisser impressionner par des commentaires partisans : les faits, rien que les faits !
Un exemple tiré du journal « Le Monde » du 21 octobre : « La Russie a encore assez de fonds pour financer ce redéploiement de la richesse nationale. Mais ses réserves sont tombées à 530 milliards de dollars contre 600 en 2007 et les prix actuels du pétrole, autour de 70 dollars le baril, ne permettent plus d’équilibrer le budget de l’Etat. S’ils continuent de baisser, Moscou pourrait ne plus pouvoir réorganiser l’économie selon ses volontés. Enfin une bonne nouvelle ! » P. Briançon.

2) Ecarter, là aussi, tout émotionnel et se cantonner au concret.

3) Ne pas se laisser prendre par l’incohérence et les contradictions des communiqués officiels successifs, qu’ils soient émis par la même personne ou non. Cet écueil a été flagrant lors du remous médiatique à l’occasion de la tragique embuscade en Afghanistan de la part des autorités militaires qui avaient bien du mal à masquer leur insuffisance, et au début de la crise actuelle d’il y a deux mois avec les déclarations parfois surréalistes de notre ministre de l’économie, Christine Lagarde, à l’optimisme « inoxydable ».

4) Débusquer l’enflure et ne pas sombrer dans l’emballement. Là encore, ce n’est pas facile. Mais connaissant les deux armes de choc de ce phénomène – les communiqués des politiques qui suivent immédiatement la survenance de l’événement et la répétition effrénée de tel ou tel détail marquant par les médias audiovisuels – il est facile de ne pas tomber dans le piège.

5) Identifier la personnalité de l’informateur. Elle donnera le sens de son message. Voir Bernard-Henri Lévy et son flamboyant reportage sur la guerre en Géorgie publié sur deux pleines pages dans «Le Monde» daté du 19 août.

6) Ne pas hésiter, en toute occasion, à faire des recoupements avec la presse publiée à l’étranger, notamment anglo-saxonne qui est beaucoup plus libérée que la presse continentale.

7) Enfin, il y a les faux documents et les fausses interviews, une des plus célèbres ayant été l’entretien de PPDA avec Fidel Castro en 1991, mais il faut s’appeler Sherlock Holmes pour les découvrir à chaud.

 

René Schleiter

dimanche, 27 juillet 2008

Principes élémentaires de la propagande de guerre

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Ecole des cadres de "Synergies Européennes" / Section de Liège.

Rapport de réunion mensuel : Dimanche 17.11.2002.

Objet : MORELLI (Anne),

Principes élémentaires de propagande de guerre.

Bruxelles, Editions Labor, 2001.

Intérêt de l’ouvrage ?

Une nouvelle fois, c’est un ouvrage rédigé par un auteur d’extrême gauche qui monopolise notre attention.  Anne Morelli est professeur à l’Université Libre de Bruxelles où elle est notamment à la tête de la chaire de critique historique ; elle est également spécialiste en histoire des religions.   Elle est proche du P.T.B. (Parti des Travailleurs de Belgique) à l’idéologie communiste et « immigrophile » ouvertement revendiquée.  Anne Morelli est ainsi l’auteur de toute une série d’ouvrages historiques louant les bienfaits de l’immigration en Belgique.  Nous connaissions déjà au sein de cette mouvance les ouvrages (Monopoly, Poker Menteur…) du journaliste Michel Collon critiquant avec virulence la superpuissance américaine, ouvrages dans lesquels cette autre figure de proue du P.T.B. dénonce avec brio la désinformation opérée par les médias occidentaux inféodés aux agences de presse américaines lors de la guerre du Golfe ou du Kosovo.  Principes élémentaires de propagande de guerre appartient indéniablement à la même veine et constitue un ouvrage didactique intéressant pour se familiariser avec les techniques de propagande utilisées « en cas de guerre froide, chaude ou tiède » comme le suggère le sous-titre en page de couverture.  Anne Morelli utilise des exemples historiques bien connus pour illustrer chacun de ces principes et laisse la porte ouverte pour l’avenir ; car en effet tout l’intérêt de l’ouvrage réside dans le fait que, désormais, le lecteur averti pourra reconnaître au cours des guerres futures, les mécanismes de désinformation utilisés par les Etats pour manipuler l’opinion publique.  Nous invitons d’ailleurs nos cadres à procéder au petit jeu consistant à détecter ces grands principes dans nos informations quotidiennes.  Une fois entraînés, vous verrez, vous citerez le numéro du principe sans même avoir besoin de l’expliquer.  Tiens, Bush a encore utilisé le principe n°8…  Une bonne manière à notre sens de filtrer l’information !

Genèse de l’ouvrage.   

En réalité, Anne Morelli ne revendique pas la paternité de la dénonciation des dix principes évoqués dans son livre.  L’essentiel de sa réflexion, elle le doit à l’ouvrage du pacifiste anglais Arthur Ponsonby publié à Londres en 1928 et intitulé Falsehood in Wartime.   L’ouvrage a été traduit en français sous le titre Les faussaires à l’œuvre en temps de guerre.  Comme il dénonçait principalement les fausses informations produites par les alliés durant la guerre 14-18, le livre n’était pas pour déplaire aux Allemands et la traduction française est parue à Bruxelles en 1941, ce qui a longtemps conféré à l’œuvre une réputation d’ouvrage de collaboration.  Ce livre contestataire par rapport à la version officielle de la guerre 14-18 s’inscrit en réalité dans un mouvement pacifiste qui a gagné toute l’Europe durant l’entre-deux-guerres.  Nous sommes effectivement à l’époque de la Société des Nations ou encore du Pacte Briand-Kellog condamnant le recours à la force en cas de conflit.  Ainsi, quelques auteurs se risquent à remettre en question le récit mythologique construit autour de la Première guerre mondiale par les Alliés.  Lord Ponsonby fait partie de ces auteurs contestataires mais signalons également l’ouvrage célèbre de Jean Norton Cru analysant de manière très critique les témoignages des poilus de la Grande Guerre[1] et le livre de Georges Demartial édité en 1922, intitulé La guerre de 1914.  Comment on mobilisa les consciences.

Principales idées dégagées par Anne Morelli.

L’ouvrage d’Anne Morelli est divisé en dix parties, chacune développant un principe de propagande de guerre.  Notre réunion s’est organisée autour de cette structure.  Xavier a reformulé chacun des principes en les ponctuant d’exemples.  Chaque personne participant à la réunion a été invitée à donner son avis ou des exemples personnels de manipulation médiatique.

1. Nous ne voulons pas la guerre.

Il est évident que dans notre société aux valeurs pacifistes, il n’est pas très populaire de se déclarer ouvertement en faveur de la guerre.  Anne Morelli remarque avec raison qu’à la veille de chaque conflit, tous les dirigeants se prononcent en faveur de la paix pour rassurer leur opinion publique ; si par malheur ces derniers décident  quand même de faire la guerre, ils déclarent généralement qu’ils la feront « contraints et forcés » par les circonstances.  De plus, il est important de noter qu’au sein de l’historiographie postérieure à chaque conflit, c’est toujours le vainqueur qui impose sa propre vision de la guerre au vaincu.  La production historique du vainqueur devient alors dominante et colle une étiquette belliciste sur le camp du vaincu.  Les deux guerres mondiales ont à ce titre toujours été présentées dans notre historiographie comme ayant été désirées ardemment par le Reich, les Alliés n’ayant fait que se défendre face au « bellicisme allemand ». Ainsi, dans le récit de la Première guerre mondiale, on insiste par exemple rarement  sur le fait que la mobilisation allemande était en partie provoquée par la mobilisation russe et l’étau géopolitique que constituaient alors les puissances de l’Entente.  De même, lorsqu’on évoque la Guerre 40-45, il n’est pas si inutile de rappeler au néophyte que c’est la France qui, la première, a déclaré la guerre à l’Allemagne en 1939 et non l’inverse, tant l’image populaire de la terrifiante Allemagne nazie la rend à priori totalement responsable du second conflit mondial !  Ce principe est aisément transposable à l’actualité la plus récente.  Lorsque les Etats-Unis désignent des pays tels l’Irak ou la Corée du Nord comme faisant partie de l’ « Axe du Mal », ils justifient à l’avance que les futures guerres projetées par le Pentagone se feront à l’encontre de pays bellicistes  menaçant la paix mondiale : les Etats-Unis ne veulent donc pas la guerre mais se battront s’il le faut pour « imposer la paix »… cherchez le paradoxe !

2. Le camp adverse est seul responsable de la guerre.

Ce principe est évidemment lié au premier.  Si nous ne voulons pas ou n’avons pas voulu la guerre, c’est qu’il faut imputer à l’ennemi la responsabilité entière de toutes les atrocités qui caractérisent un conflit.  Anne Morelli cite à ce titre toute la propagande faite en 14-18 autour de la violation de la neutralité de la Poor little Belgium par l’ « Ogre Allemand ».  La violation du traité des XXIV articles de 1839 par l’Allemagne l’a condamné à être désignée par les Alliés comme la nation parjure par excellence, responsable du conflit car non respectueuse des traités internationaux.  Par opposition, l’Angleterre a été présentée à l’opinion publique des pays alliés comme une nation fidèle et honorable volant au secours de la Belgique.  Cette basse propagande constituant à responsabiliser l’Allemagne et son « plan Schlieffen » est facilement démontable lorsqu’on sait que le « plan XVII » du Général Joffre avait prévu une pénétration des troupes françaises sur le territoire belge en violation flagrante du Traité de 1839 qui importait peu à l’époque aux puissances belligérantes, plus soucieuses d’un côté comme de l’autre de s’assurer un avantage stratégique sur l’armée ennemie au début de la guerre de mouvement.  Les Anglais eux-mêmes avaient cherché à se concilier les faveurs de la Belgique avant le déclenchement du conflit pour obtenir l’autorisation d’un « débarquement préventif » sur notre territoire en cas de mouvement des troupes allemandes.  Aux yeux des Anglais, le respect de la parole donnée comptait finalement fort peu et c’est surtout la nécessité de conserver la Belgique , « pistolet pointé vers l’Angleterre », et plus particulièrement le port d’Anvers hors d’atteinte de l’armée allemande qui a justifié l’entrée en guerre des troupes de Sa Majesté.   Anne Morelli rappelle aussi que rien n’obligeait la France à soutenir la Tchécoslovaquie en 1939 : le pacte franco-tchécoslovaque ne prévoyait pas forcément d’engagement militaire français en cas d’invasion du territoire tchécoslovaque ; ce pacte était d’ailleurs lié à celui de Locarno de 1925 rendu caduc depuis qu’il avait été dénoncé par plusieurs des puissances signataires.  Le soutien nécessaire de la France à la Tchécoslovaquie a pourtant servi de prétexte (à postériori) à l’époque pour justifier auprès de l’opinion publique française l’entrée en guerre de l’Hexagone.

A nouveau il est intéressant de faire un parallèle avec les événements les plus récents.  Lors de la guerre du Kosovo, lorsque la France et l’Allemagne, de concert avec les Etats-Unis, « ont négocié » avec Milosevic le traité de Rambouillet, sensé être un plan de « conciliation », les médias occidentaux ont sauté sur le refus du dirigeant serbe pour justifier les frappes de l’OTAN.  Peu de journalistes ont pris la peine de noter que ce fameux plan de « conciliation » réclamait, en vue d’un soi-disant règlement pacifique du conflit, la présence sur le sol serbe des forces de l’Alliance Atlantique (et non des Nations Unies), ce qui aurait constitué pour la Serbie une atteinte grave à sa souveraineté.  Mais l’occasion était trop belle dans le « camp de la paix » de faire passer Milosevic pour le « seul responsable » des bombardements de l’OTAN.

3. L’ennemi a le visage du diable (ou « L’affreux de service »).

Il est généralement assez difficile de haïr un peuple dans sa globalité.  Quoique la nation allemande ait eu à souffrir au cours du XXe siècle des pires adjectifs de la part de l’opinion publique française, belge, anglaise ou américaine (Boches, Vandales, Huns, Barbares, etc.), les esprits les plus lucides étaient cependant obligés d’admettre que la démarche intellectuelle consistant à identifier l’ensemble d’une population à de simples stéréotypes était parfaitement idiote.  C’est pourquoi la propagande de guerre a trouvé un subterfuge pour mobiliser la haine des plus récalcitrants.  Elle canalise généralement toute l’attention de l’opinion publique sur l’élite dirigeante de l’ennemi.  Celle-ci est présentée d’une telle façon que l’on ne peut éprouver à son égard que le mépris le plus profond.  La presse à sensation n’hésite d’ailleurs pas à rentrer dans l’intimité des dirigeants, usant parfois de théories psychanalytiques fumeuses.  Lors de la guerre du Kosovo, certains médias ont ainsi affirmer que si Milosevic était un va-t-en-guerre invétéré, c’est parce qu’il avait été battu par son père durant sa prime enfance.  La plupart du temps, les dirigeants ennemis sont jugés parfaitement fréquentables avant le déclenchement des hostilités puis ils deviennent subitement des brutes, des fous, des monstres sanguinaires assoiffés de sang dès que le premier coup de fusil a éclaté.  Avant que la Première Guerre mondiale n’éclate, Guillaume II et l’Empereur François-Joseph entretenaient des relations régulières avec la famille royale belge ; à partir d’août 1914, la presse belge n’a cessé de les décrire comme des fous sanguinaires tout en se gardant bien de rappeler leurs anciens contacts avec nos souverains . 

Mais Hitler est sans nul doute le personnage qui aura le plus abondamment subi l’ire et  l’acharnement de l’historiographie contemporaine.  Il ne se passe pas un mois sans qu’une nouvelle biographie sur Hitler ne soit exposée sur les rayons « les plus sérieux » de nos libraires.  Chacune a de nouvelles révélations à faire sur « le plus grand monstre de l’histoire », révélations toujours plus débiles les unes que les autres : le führer aurait eu des relations incestueuses avec sa mère à moins qu’il n’ait été homosexuel, juif, impuissant… ou même frustré de n’avoir pu réussir une carrière d’artiste peintre.  Vous n’y êtes pas du tout, Hitler était un extraterrestre !

Il est d’ailleurs significatif que depuis la guerre 40-45, de nombreux « dictateurs » aient été présentés par la presse sous les traits de tonton Adolphe.  Anne Morelli met bien en évidence cette « reductio ad Hitlerum » et cite notamment le cas de Saddam Hussein dont les moustaches ont été remodelées durant la guerre du Golfe par quelques ignobles feuilles de chou anglo-saxonnes.  Rappelons nous aussi le nom de Milosevic « subtilement » transformé en « Hitlerosevic ».  La méthode de personnalisation est à ce point ancrée que les manifestants anti-guerre du Golfe attaquent la politique américaine sous les traits de son seul président Georges W. Bush et n’ont pas hésité à l’affubler d’une certaine petite moustache sur leurs calicots ou ont remplacé les étoiles du drapeau américain par la croix gammée.  Ce processus de personnification de l’ennemi sous les traits du démon et la canalisation de la haine publique ne sont pas sans rappeler la « minute de la haine » décrite par G. Orwell dans son roman 1984.[2] 

4. C’est une cause noble que nous défendons et non des intérêts particuliers.

L’histoire est là pour nous montrer que toute guerre répond à des intérêts politiques bien précis : gain de territoire, affaiblissement du potentiel militaire, économique ou démographique de l’ennemi, contrôle d’une région stratégique-clef, etc.  Considérer la guerre en ses termes constitue d’ailleurs un principe sain d’analyse des conflits.  Au contraire, entacher la guerre de slogans idéologiques revient à dénaturer l’essence première des guerres.  Un des arguments récurrents de la propagande de guerre à notre époque est la défense des droits de l’homme et de la démocratie, véritable religion laïque justifiant à elle seule tous les conflits.  Ainsi, alors que le prétexte premier de la deuxième guerre du Golfe était la menace représentée par les soi-disant armes de destruction massive iraquiennes.  Ne découvrant malheureusement pas la moindre trace de ces armes sur le territoire iraquien, les responsables de la coalition, relayés docilement par les médias, ont subitement transformé leurs objectifs en « rétablissement de la démocratie » en Irak.  Comme on avait invoqué les noms saints de « démocratie », de « liberté » et de « droits de l’homme », la critique s’est tue car qui pourrait-être contre ?

5. L’ennemi provoque sciemment des atrocités ; si nous commettons des bavures, c’est involontairement.

L’histoire du XXe siècle est riche en faits propres à illustrer cette maxime.  Durant la Première Guerre mondiale, selon la propagande alliée, ce sont surtout les Allemands qui ont provoqué le plus grand nombre d’atrocités.  On accusait par exemple de nombreux soldats de l’armée allemande de couper les mains des jeunes enfants belges, d’utiliser la graisse des cadavres alliés pour fabriquer du savon ou encore de rudoyer et de violer systématiquement les jeunes femmes des pays occupés.  Par contre cette même propagande passe fatalement sous silence le blocus alimentaire meurtrier de l’Allemagne pendant et après la guerre 14-18[3], elle passe sous silence les bombardements de terreur des anglo-saxons sur les villes allemandes et japonaises en 40-45.  La terreur vis-à-vis des civils était d’ailleurs un des moyens clairement revendiqués et assumés par le Haut Etat Major allié ; en témoigne ce tract lancé sur les villes japonaises par les bombardiers américains en août 45 : « Ces tracts sont lancés pour vous notifier que votre ville fait partie d’une liste de villes qui seront détruites par notre puissante armée de l’air.  Le bombardement débutera dans 72 heures. (…) Nous notifions ceci à la clique militaire [diabolisation de l’ennemi] parce que nous savons qu’elle ne peut rien faire pour arrêter notre puissance considérable ni notre détermination inébranlable.  Nous voulons que vous constatiez combien vos militaires sont impuissants à vous protéger.  Nous détruirons systématiquement vos villes, les unes après les autres, tant que vous suivrez aveuglément vos dirigeants militaires… »[4]  Si la légende des mains coupées trouvait un écho certain durant l’entre-deux-guerres, elle a perdu à l’heure actuelle tout son crédit, tant elle était dénuée de fondements.  Cependant, plus insidieuses sont les idées patiemment distillées à la population consistant à assimiler le soldat « au casque à pointe » à une brute épaisse où à criminaliser les armes allemandes « non conformes » aux lois de la guerre, tels les sous-marins, les V.1 et les V.2.  Ces idées restent très solidement ancrées dans la mémoire populaire et il faudrait une propagande tout aussi acharnée que celle qui a contribué à les installer, pour pouvoir les supprimer.

6. L’ennemi utilise des armes non autorisées.

« De la massue à la bombe atomique, en passant par le canon et le fusil automatique, toutes les armes ont été successivement considérées par les perdants comme indignes d’une guerre vraiment chevaleresque, parce que leur usage unilatéral condamnait automatiquement leur camp à la défaite. »[5]  Anne Morelli signale la propagande faite autour de l’emploi des gaz asphyxiants par l’armée allemande et l’utilisation des armes citées ci-dessus.  A l’heure actuelle, on se focalise surtout sur la détention des armes de destruction massive dont il n’est même plus nécessaire de faire usage pour être un criminel de guerre et un ennemi de l’humanité.  La seconde guerre du Golfe a montré qu’il s’agissait d’un prétexte rêvé pour justifier l’impérialisme américain.  Il est d’ailleurs piquant de constater que, si nos souvenirs sont exacts, la seule puissance qui ait fait usage, et d’ailleurs contre des civils, de telles armes est celle qui les dénonce avec le plus de virulence aujourd’hui.  Certains rétorqueront qu’une puissance belliqueuse telle l’Irak est une menace bien plus sérieuse que des régimes aussi pacifiques que ceux des Etats-Unis d’Amérique et d’Israël, ce qui ne manque pas de prêter à sourire.

7. Nous subissons très peu de pertes, les pertes de l’ennemi sont énormes.

Il n’est pas nécessaire d’expliquer en quoi il est utile d’affirmer que les pertes de l’ennemi sont énormes tandis que les nôtres sont  négligeables.  Si les pertes de l’ennemi sont énormes, sa défaite est certaine et comme nos pertes à nous sont faibles, cela justifie auprès de la population et des troupes, un dernier effort de guerre pour remporter une victoire définitive.  « La guerre de 1914-1918 a -déjà- été une guerre de communiqués ou parfois d’absence de communiqués.  Ainsi, un mois après le début des opérations, les pertes françaises s’élevaient déjà à 313.000 tués environ.  Mais l’Etat-Major français n’a jamais avoué la perte d’un cheval et ne publiait pas (au contraire des Anglais et des Allemands) la liste nominative des morts.  Sans doute pour ne pas saper le moral des troupes et de l’arrière que l’annonce de cette hécatombe aurait peut-être induit à réclamer une paix honorable plutôt que la poursuite de la guerre. »[6]  Plus près de nous, lors de la guerre du Kosovo, les pertes que les Américains se targuaient d’avoir infligé aux Yougoslaves, fondirent comme neige au soleil après le conflit.  Dans la récente guerre en Irak, même s’il faut reconnaître à la supériorité technologique américaine le fait que la superpuissance ne compte pas énormément de morts dans ses rangs, les chiffres annoncés officiellement sont tellement peu élevés qu’ils en deviennent suspects.

8. Les artistes et les intellectuels soutiennent notre cause.

Dans l’histoire du second conflit mondial, on nous présente toujours la classe intellectuelle comme ralliée à la cause des Alliés.  D’ailleurs, il est de notoriété publique[7] qu’il n’y avait pas d’intellectuels nazis ou fascistes et que ceux qui se présentaient comme tels n’étaient que des médiocres et des imposteurs achetés ou vendus au pouvoir.  Cette vision de l’ennemi justifie la victoire morale et intellectuelle de «  La Civilisation  » contre ce camp de barbares incultes et primitifs.  Le plus grave avec ces procédés est que la culture de l’ennemi est diabolisée.  Dans le cas allemand, nombreux sont les intellectuels bien pensant d’après guerre qui ont démontré « savamment » que le nazisme était consubstantiel à la culture allemande et que Nietzsche, Wagner et bien d’autres étaient responsables de la barbarie nazie qu’ils avaient préfigurée. Cette vision justifie à l’égard de l’Allemagne toutes les atrocités puisqu’en regard du droit international, elle n’est plus un justus hostis mais un injustus hostis.  Anne Morelli montre que les intellectuels font des pétitions en faveur de leur camp ou contre l’ennemi, que les artistes participent à la propagande en caricaturant ou stéréotypant l’adversaire.  Ceux qui ne participeraient pas à ces pétitions verraient leur notoriété médiatiquement mise à mal et pour éviter ce sort pénible, ils s’alignent sur la position dominante.  Car, il faut le remarquer, les « intellectuels » font souvent preuve d’une lâcheté à la hauteur de leur orgueil et inversement proportionnelle à leur courage physique légendaire.  Anne Morelli se garde bien de mettre en lumière à quel point le rôle des intellectuels dépasse ce simple aspect pétitionnaire et mobilisateur pour investir le champ de la justification intellectuelle, morale et philosophique de la guerre en cours ou de celles à venir.  Ainsi Bernard Henri Lévy et consorts ont tricoté le cache-sexe humanitaire de l’impérialisme le plus abject sous la forme du droit d’ingérence.

9. Notre cause a un caractère sacré.

Anne Morelli dénonce dans son ouvrage les liens de la propagande de guerre avec la religion.  Si nous sommes d’accord pour la suivre dans sa condamnation de l’instrumentalisation de la religion par les propagandistes des Etats belligérants, nous nous garderons bien toutefois de jeter le bébé, c’est-à-dire la religion, avec l’eau du bain.  Si dans les démocraties de marché, il n’y a guère plus que les Etats-Unis pour encore invoquer la religion dans leur propagande guerrière, les autres Etats ont trouvé dans les droits de l’homme, la démocratie et leur sainte trinité « liberté, égalité, fraternité », la nouvelle religion bien terrestre permettant de sacraliser toutes les manœuvres perfides de leur politique extérieure. 

10. Ceux qui mettent en doute la propagande sont des traîtres.

Un article de l’Evenement (29 avril-5 mai 1999) paru durant la guerre du Kosovo, illustre à merveille ce principe.  Nous pouvons y lire en gros titre : Soljenitsyne, Marie-France Garaud, Max Gallo, Peter Handke : ils ont choisi de brandir l’étendard grand-serbe. LES COMPLICES DE MILOSEVIC.  L’hebdomadaire a classé tous les « partisans de Milosevic », entendez ceux qui ont choisi de critiquer plus ou moins ouvertement la propagande anti-serbe, en six grandes familles : La famille « anti-américaine » (Pierre Bourdieu), la famille « pacifiste intégriste » (Renaud), la famille « souverainiste » (Charles Pasqua), la famille « serbophile » (Peter Handke), la famille « rouge-brun » (Le journal La Grosse Bertha ) et la famille « croisade orthodoxe » (Alexandre Soljenitsyne).  Tous les intellectuels qui se sont positionnés au sein d’une de ses grandes familles ou derrière un de leurs patriarches sont par conséquent considérés comme des traîtres et des imbéciles parce qu’ils n’ont pas compris le caractère hautement humanitaire de l’intervention otanienne.[8]  On remarquera au passage l’orgueil démesuré de ce genre d’article brandissant la bannière du « politiquement correct » pour mieux mépriser ses contradicteurs.  Anne Morelli met bien lumière ce dixième principe ; elle ne se limite pas aux guerres passées mais n’hésite pas à rentrer dans le vif du sujet en dénonçant la propagande durant la guerre du Kosovo ou durant la Première guerre du Golfe.  Anne Morelli reconnaît ouvertement que la propagande n’est pas le propre des régimes nazis ou fascistes mais qu’elle affecte aussi nos régimes démocratiques.  Dans une de ses notes, elle fustige d’ailleurs l’historienne de l’U.C.L., Laurence Van Ypersele, pour ses propos tenus dans la revue de Louvain n° 107 (avril 2000) affirmant que ce sont « les régimes totalitaires qui sont passés maîtres dans la falsification de l’histoire par l’image (…)  L’avantage des démocraties est de n’avoir jamais eu le monopole absolu sur la production et la diffusion des images (…)  Cette production (…) émanait de plusieurs centres parfois contradictoires, laissant la place à des contre-discours possibles. »  Selon Anne Morelli, ces propositions sont « fausses au moins en temps de guerre. »[9] 

Cette dernière remarque de Anne Morelli montre une certaine forme d’indépendance d’esprit, se complaisant toutefois dans les carcans idéologiques imposés par le système.  Madame Morelli peut se permettre de critiquer la propagande présente dans les régimes démocratiques en se référant à des auteurs de gauche ou d’extrême gauche, elle n’en risque pas pour autant sa place à l’Université Libre de Bruxelles en tant que titulaire de la chaire de critique historique.  Mais, si elle allait plus en avant dans sa critique, le recteur de cette université « libre » ne manquerait pas de la rappeler à l’ordre et sans doute sentirait-elle alors peser sur ses épaules tout le poids du totalitarisme démocratique.  Il est finalement très facile et peu risqué de dénoncer les carences de la démocratie en temps de guerre, il est par contre très dangereux et interdit d’affirmer à quel point la démocratie est en réalité, autant en temps de guerre qu’en temps de paix, un système totalitaire à la fois plus subtil et plus achevé que ceux habituellement cités.  Un système plus subtil et plus achevé car il diffuse son idéologie dans l’esprit des gens sans que ceux-ci en aient conscience.  Alors que dans un régime totalitaire comme l’U.R.S.S. l’ensemble du peuple n’ignorait pas les moyens mis en œuvre par l’Etat pour le manipuler : un parti unique, une presse unique… la démocratie sous couvert du multipartisme et de la liberté de la presse n’en fonctionne pas moins selon les mêmes principes.  La prétendue pluralité des partis n’est qu’un vernis superficiel recouvrant une même foi en la « sainte démocratie » qu’il serait vain de vouloir remettre en question.  Quant à la diversité de l’information tant vantée pour distinguer nos régimes des régimes totalitaires, il devient patent aux yeux d’un nombre sans cesse croissant d’analystes médiatiques qu’il s’agit tout au plus d’un slogan destiné à maintenir les gens dans l’illusion de la liberté de pensée.  Le système est à ce point fermé que la seule critique possible à l’égard des principes gouvernementaux qui nous dirigent est en réalité une critique « guimauve » du type : nos gouvernements nous manipulent et ne respectent pas assez les règles de la démocratie.  Entendez : vous avez le droit de critiquer le système mais pas en dehors des règles imposées par celui-ci, vous pouvez sermonner la démocratie mais vous ne pouvez le faire qu’au nom des principes démocratiques, il est permis de contester la démocratie pour l’améliorer mais non pour en critiquer l’essence.  Nous sommes sûrs qu’un Staline n’aurait finalement pas trop dédaigné un pareil système.  Il aurait créé à côté du Parti communiste et de la Pravda quelques autres partis et journaux.  Les lecteurs russes auraient ainsi eu le choix entre l’idéologie marxiste, marxiste-léniniste, stalinienne, trotskiste ou encore plus tard maoïste.  Ces différences idéologiques minimes permettant au peuple russe de s’illusionner sur sa liberté de penser.  Sans doute Staline aurait-il d’ailleurs préféré le totalitarisme mou incarné par nos démocraties modernes au totalitarisme trop fermé qu’il a choisi de soutenir à l’époque.  Un tel choix lui aurait ainsi évité de dépenser inutilement l’argent de l’Etat dans la répression idéologique et les déportations en Sibérie. 

C’est pourquoi, dans le contexte des régimes démocratiques, ce dixième principe devrait à notre sens être complété.  Les intellectuels qui critiquent la propagande officielle, pendant la guerre mais aussi en dehors, sont non seulement des traîtres mais aussi des fous, des égarés à la pensée irrationnelle, des idiots…bref ce ne sont pas des intellectuels ! La démocratie se présentant comme un régime où la pensée s’exerce librement, ceux qui s’égarent de la ligne officielle ne pensent pas vraiment !

Conclusion.

Nous considérons ce livre comme un ouvrage pratique, distrayant, un classique du genre qui a sa place dans toute bonne bibliothèque s’intéressant à la propagande.  Toutefois cette analyse sommaire de la propagande est selon nous elle-même vérolée par le virus démocratique.  Anne Morelli a effectivement passé sous silence une des questions les plus élémentaires concernant la propagande de guerre : « Quelle est l’origine, la cause rendant nécessaire un tel phénomène ? »  D’aucuns affirmeront que la propagande de guerre a existé de tout temps.  Certes, nous leur répondrons toutefois : jamais avec une telle ampleur qu’au cours de ces deux derniers siècles.  Avant 1789, un noble, un guerrier, un mercenaire n’avait pas spécifiquement besoin de véritables « raisons » pour se battre, il le faisait soit par allégeance, soit par intérêt calculé, mais rarement par passion ou sentimentalisme.  Par contre, le peuple, lorsqu’il combat, a besoin de moteurs beaucoup plus puissants.  Pourquoi ?  Parce que le peuple répugne à la fois à s’exposer à la mort et à user de la violence.  Il lui faut donc une raison personnelle : la haine ; alors que les guerriers, élevés dans l’esprit du combat, non nullement besoin de personnifier ainsi la guerre.  Pour lever les réticences de la population, il faut agir sur ses sentiments et provoquer en elle une pulsion de meurtre qui justifie son engagement sous les drapeaux.  L’ennemi devient par conséquent un ennemi absolu, l’incarnation du mal avec laquelle nulle trêve, négociation ou paix n’est désormais possible.  Parmi les moteurs puissants mettant le peuple en mouvement, citons la religion[10] et surtout les idéologies ; ces dernières ont été le moteur réel des guerres et des massacres au cours de « la soi-disant période de progrès que l’humanité a connue depuis qu’elle a été libérée du joug des monarques absolus » : nationalisme français (« Aux armes citoyens ! »[11] ), communisme (« Prolétaires de tous les pays, unissez vous ! »), fascisme (« Tout pour l’Etat, tout par l’Etat »), etc.  Tout chef de guerre sait à quel point le patriotisme et le nationalisme sont des moteurs importants pour maintenir la cohésion des troupes et chacun des grands conflits de ces deux derniers siècles nous donne des renseignements précieux sur la manière dont les dirigeants ont procédé pour « mouvoir le peuple ».  Anne Morelli est passé à notre sens à côté de cet élément essentiel : la propagande de guerre est étroitement liée à l’émergence des nationalismes au dix-neuvième siècle[12] et plus spécifiquement des régimes démocratiques.  La propagande de guerre est donc bien à notre sens un phénomène historique visant essentiellement à toucher le peuple dans la mesure où celui-ci est désormais (théoriquement) associé au pouvoir ! Et la propagande de guerre est orientée de telle manière que le peuple continue à soutenir ses dirigeants dans les crises les plus graves.  C’est ce qui fait à la fois la force et la faiblesse d’un pouvoir politique qui s’appuie sur le peuple.  Les victoires napoléoniennes étaient ainsi dues non seulement aux qualités exceptionnelles de stratège de l’illustre officier corse mais surtout à l’étonnante capacité que la France possédait depuis la Révolution de lever des troupes « au nom de la nation en péril ».  Le peuple confère indéniablement une puissance importante en terme quantitatif !  Toutefois, les dirigeants de semblables régimes se trouvent dans une position délicate une fois qu’ils ont utilisé leur botte secrète.  Le peuple, la « nation en arme »,  la « masse » sont par définition des éléments instables[13] qu’il faut sans cesse rassurer, entendez par-là manipuler.  Dans ces conditions une guerre trop longue, trop coûteuse en vies humaines a tôt fait de retirer aux dirigeants la confiance qu’ils détenaient de la base.  L’avènement des « guerres totales » (c’est-à-dire réclamant la participation de l’ensemble de la nation à la guerre, y compris la population civile - d’où le concept d’économie de guerre) et l’essor des télécommunications ont encore accru cette faiblesse du système démocratique.  Lors de la guerre du Vietnam, beaucoup d’observateurs ont déclaré que c’était le choc des images télévisuelles montrant des cadavres américains rapatriés en avion dans des « sacs plastiques » qui avait provoqué la défaite des Etats-Unis pourtant largement supérieurs en matière de technologie militaire.   Semblable constat implique forcément la nécessité pour tout « pouvoir démocratique » de contrôler la presse en cas de crise aiguë au risque de perdre toute légitimité auprès de son opinion publique.  La propagande de guerre est donc bien un phénomène ayant pour origine directe l’avènement de régimes politiques s’appuyant sur le peuple, obligés de contrôler le quatrième pouvoir.  Osons l’affirmer, les régimes démocratiques constituent la cause première de la manipulation médiatique dont nous faisons aujourd’hui les frais. 

La propagande est d’ailleurs passée à notre époque à un stade supérieur.  Nous avons dit au début de notre conclusion qu’elle s’est adressée primitivement au classes populaires.  Un tel phénomène étant cyniquement légitimé par la nécessité d’ « éduquer les masses ».  Il est toujours piquant de rappeler ainsi que « l’école pour tous », tant vantée par les révolutionnaires français, ne répond pas seulement à des objectifs philanthropiques mais surtout à des nécessités économiques et politiques.  Il convient de donner à « l’enfant du peuple » des connaissances techniques suffisantes afin qu’il puisse faire tourner plus efficacement nos industries, il convient de lui donner une éducation politique orientée afin qu’il participe (et donc souscrive) aux règles de la nouvelle gouvernance qui a été mise sur pied.  Et si nos démocraties montrent particulièrement pendant les conflits armés des défauts monstrueux, au point que des intellectuelles comme Anne Morelli puissent s’émouvoir, c’est parce que les nécessités du danger qui les menacent leur font battre pour un court instant le masque recouvrant leurs vrais visages, le visage du plus cynique des totalitarismes, ce que Madame Morelli s’est bien gardée de conclure !

« La propagande est à la société démocratique ce que la matraque est à l’Etat totalitaire ».[14]

 

 

Notes:

 

[1] Le livre a connu deux versions.  La première forte de 727 pages (Témoins.  Essais d’analyse et de critique des combattants édités en français de 1915 à 1928, Paris, 1929) a déclenché de très virulentes réactions (positives ou négatives) lors de sa parution.  La deuxième s’intitule Du Témoignage.  Il s’agit d’une édition abrégée parue en 1930 et reprenant l’essentiel des idées développées dans la première édition.  L’ouvrage de Norton Cru a fait l’objet d’un colloque au Musée de l’Armée de Bruxelles à la fin de l’année 1999.

[2] Ce roman a  fait jadis l’objet d’une des réunions mensuelles de notre école des cadres.

[3] La stratégie du blocus est particulièrement prisée par les puissances thalassocratiques.  Elle permet un minimum d’engagement et un maximum d’effet puisque les morts tués de façon violente lors d’opérations militaires sont beaucoup plus voyants et traumatisants que les morts « doux » dispersés dans l’espace et le temps au fur et à mesure que l’embargo produit son effet.  L’exemple iraquien de la dernière décennie est de ce point de vue exemplaire et témoigne de la cruauté des « droits de l’hommistes internationalistes » qui l’appliquent.

[4] MERARI (Ariel), Du terrorisme comme stratégie d’insurrection, dans CHALIAND (Gérard) (dir.), Les stratégies du terrorisme.- Paris, Desclée de Brouwer, 1999, pp. 76-77.

[5] MORELLI (Anne), Principes élémentaires de propagande de guerre.- Bruxelles, Editions Labor, 2001, p. 49.

[6] Idem, p. 54.

[7] Les cours d’histoire du secondaire présentent le plus souvent l’Allemagne nazie comme une terre dépourvue de penseurs et d’intellectuels puisque ceux qui y étaient avaient fui le régime.  Einstein constitue le choux gras dont se délectent nos professeurs d’histoire « à la page ».

[8] Cité dans HALIMI (Serge) et VIDAL (Dominique), L’opinion ça se travaille.- Marseille, Agone, Comeau & Nadeau, 2000, p. 102-103.

[9] MORELLI (Anne), Principes élémentaires de propagande de guerre.- Bruxelles, Editions Labor, 2001, p. 92.

[10] A nos yeux, il s’agit toutefois du meilleur des motifs pour faire la guerre.  Mais le rôle de la religion dans la guerre devrait faire l’objet d’une étude ultérieure.

[11] Les paroles de la Marseillaise « Abreuvons du sang impur nos sillons » montrent bien jusqu’à quel point conduit l’idéal démocratique. 

[12] Le principe de la « nation en arme » apparaît lors de la révolution française et va bouleverser la manière de faire la guerre. 

[13] Voir à ce sujet le classique de Gustave LEBON, Psychologie des Foules.

[14] CHOMSKY (Noam), Propaganda.- France, Editions du Félin, 2002, p.20.

00:05 Publié dans Défense | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : propagande, manipulation, guerre, défense, militaria, stratégie | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook