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Verso la fine del XIX secolo, la crisi politica, economica e sociale dell’impero ottomano si fece sempre più grave, sfociando in sedizioni e sommosse. A Salonicco un gruppo di ufficiali dell’esercito, affiancato da alcuni esiliati politici turchi confluiti nella Ittihad ve Terakki (il partito Unione e Progresso), iniziò a tramare contro l’incapace e retrogrado governo centrale di Costantinopoli, con l’obiettivo di intraprendere, anche con la forza, un necessario quanto urgente processo di modernizzazione dell’impero ormai sull’orlo del collasso.
Il 24 luglio del 1908, il Comitato Centrale di Unione e Progresso detronizzò il sultano Abdul Hamid II sostituendolo con il più malleabile fratello Muhammad. Seguì un breve periodo di euforia da parte delle minoranze etniche e religiose della Sublime Porta, tra cui quella armena, che confidavano nell’inizio di una nuova era caratterizzata da maggiori libertà. Si trattò però di una semplice speranza destinata a svanire di fronte ai reali e non dichiarati intenti che in segreto animavano i cuori degli appartenenti ad un nuovo partito ‘progressista’, il Movimento dei Giovani Turchi, intenzionati sì a modernizzare economicamente e socialmente il loro agonizzante impero, ma anche ad unificarlo etnicamente e religiosamente, espandendone nuovamente i confini non ad occidente, come avevano quasi sempre fatto i sultani del passato, bensì ad oriente, in direzione della Persia, del Caucaso e delle immense regioni asiatiche centrali, abitate da popoli (tartari, azerbaigiani, ceceni, kazachi, uzbechi, kirghisi e tagiki) linguisticamente ed etnicamente affini al popolo anatolico. La teoria geopolitica intorno alla quale ruotava questo piano si basava sull’ideologia panturanica. Secondo il padre di quest’ultima – l’orientalista, linguista ed esploratore ungherese Arminius Vambery (1832-1913) – l’impero ottomano avrebbe infatti potuto e dovuto allargare i suoi confini all’intera area caucasica e asiatico-centrale in virtù della già citata uniformità etnico-religiosa che caratterizzava l’intero “popolo” turco. Fu per questa ragione che, il 26 gennaio 1913, un triumvirato di Giovani Turchi firmato da Enver Pascià, Taalat Pascià e Ahmed Jemal – nonostante i precedenti proclami inneggianti l’eguaglianza di tutti i sudditi della Sublime Porta – iniziarono ad organizzare un piano di persecuzione nei confronti di tutte le minoranze, prima fra tutte quella armena, mettendo in piedi un’efficiente struttura paramilitare, l’Organizzazione Speciale (O.S.), coordinata da due medici, Nazim e Shaker, e dipendente dal Ministero della Guerra e da quello degli Interni e della Giustizia. Nel 1914, con l’entrata in guerra della Turchia a fianco degli Imperi Centrali, i Giovani Turchi poterono finalmente rendere più che palesi le loro intime convinzioni e dare il via ad una sistematica e scientifica persecuzione destinata a protrarsi per quasi tutta la durata del Primo Conflitto Mondiale. Tra l’aprile e il maggio 1915, i turchi concentrarono i loro sforzi nell’eliminazione dell’élite economico-culturale e dei militari armeni. Il 24 aprile 1915 (che verrà in seguito ricordata come la data commemorativa del ‘genocidio’), a Costantinopoli, circa 500 armeni furono incarcerati e poi eliminati. Tra le vittime vi era anche il deputato Krikor Zohrab che pensava di godere dell’amicizia personale di Talaat Pascià, molti intellettuali, come il poeta Daniel Varujan, giornalisti e sacerdoti. Tra gli uomini di chiesa, Soghomon Gevorki Soghomonyan (più noto come il monaco Komitas), padre della etnomusicologia armena. Komitas fu deportato assieme ad altri 180 intellettuali armeni a Çankırı in Anatolia centro settentrionale. Egli sopravvisse alla prigionia e alla guerra grazie all’intervento del poeta nazionalista turco Emin Yurdakul, della scrittrice turca Halide Edip Adıvar e dell’ambasciatore americano Henry Morgenthau. Trasferitosi nel 1919 a Parigi, Komitas, sulla scorta degli orrori patiti, impazzì finendo i suoi giorni in un manicomio, nel 1935.
Tra il maggio e il luglio del 1915, gli ottomani, spalleggiati da bande curde (2) e da reparti formati da ex detenuti, setacciarono le comunità delle province di Erzerum, Bitlis, Van, Diyarbakir, Trebisonda, Sivas e Kharput, dove soprattutto i reparti curdi depredarono e massacrarono migliaia tra donne, vecchi e bambini e decine di sacerdoti a molti dei quali, prima dell’esecuzione, furono strappati gli occhi, le unghie e i denti. Gevdet Bey, vali (governatore) della città di Van e cognato del ministro della Difesa Enver Pascià, era solito fare inchiodare ai piedi dei prelati ferri di cavallo arroventati. Stando ad un rapporto del console statunitense ad Ankara, nel luglio 1915, diverse migliaia di soldati armeni inquadrati nell’esercito ottomano e reduci dalla disastrosa campagna del Caucaso (scatenata nel dicembre del 1914 da Enver Pascià contro le forze zariste al comando del generale Nikolai Yudenich ) furono improvvisamente disarmati dai turchi e spediti nelle zone di Kharput e Diyarbakir con il pretesto di utilizzarli nella costruzione di una strada. Ma una volta giunti sul posto essi vennero tutti fucilati. Solitamente, i turchi organizzavano le deportazioni di massa trasferendo i loro prigionieri in località piuttosto remote. Una delle destinazioni prescelte fu la desolata regione siriana di Deir al-Zor, dove centinaia di intere famiglie armene furono ammassate e lasciate morire di stenti in primordiali lager privi di baracche e servizi igienici.. In terra siriana vennero anche spediti migliaia di giovani ragazze e ragazzi armeni che riuscirono però a scampare alla morte in parte perché venduti a gestori arabi di bordelli per etero e omosessuali, e in parte perché rinchiusi negli speciali orfanotrofi per cristiani gestiti da Halidé Edib Adivart, una sadica virago incaricata da Costantinopoli di ‘rieducare’ I piccoli armeni.
“Le deportazioni – annotò in questo periodo il diplomatico tedesco Max Erwin von Scheubner-Richter -furono giustificate dal governo turco con la scusa di un necessario spostamento delle comunità armene dalle zone interessate dalle operazioni militari (Anatolia orientale e nord orientale, n.d.a) (…) Non escludo che gran parte dei deportati furono massacrati durante la loro marcia. (…) Una volta abbandonati i loro villaggi, le bande curde e i gendarmi turchi si impadronivano di tutte le abitazioni e i beni degli armeni, grazie anche ad una legge del 10.6.1915 ed altre a seguire che stabiliva che tutte le proprietà appartenenti agli armeni deportati fossero dichiarate “beni abbandonati” (emvali metruke) e quindi soggetti alla confisca da parte dello Stato turco”. E a testimonianza dei risvolti economici della strage, basti pensare che “i profitti derivati all’oligarchia dei Giovani Turchi e ai suoi lacchè dai beni rapinati agli armeni arrivarono a toccare la cifra astronomica di un miliardo di marchi”. Nell’inverno del ‘15, il conte Wolff-Metternich decise di riferire al ministero degli Esteri tedesco il protrarsi “di questi inutili e crudeli eccidi”, chiedendo un intervento ufficiale presso la Sacra Porta Venuti al corrente della protesta, Enver Pascià e Taalat Pascià chiesero a Berlino la sostituzione di Wolff-Metternich che nel 1916 dovette infatti rientrare in Germania.
Va comunque detto che non tutti i governatori turchi accettarono di eseguire per filo e per segno gli ordini di Costantinopoli. Nel luglio 1915, ad esempio, il vali di Ankara si oppose allo sterminio indiscriminato di giovani e vecchi, venendo rimosso e sostituito da un funzionario più zelante, tale Gevdet, che nell’estate del ‘15 a Siirt fece massacrare oltre 10.000 tra armeni ortodossi, cristiani nestoriani, giacobini e greci del Ponto. Resoconti sui molteplici eccidi sono registrati anche nelle memorie di altri addetti diplomatici francesi, bulgari, svedesi e italiani (come il console di Trebisonda, Giovanni Gorrini) presenti all’epoca in Turchia. Nonostante tutto, il governo turco non si reputava ancora soddisfatto di come stava procedendo la risoluzione del “problema armeno”. “In base alle relazioni da noi raccolte – annotò il 10 e il 20 gennaio del 1916, il notabile Abdullahad Nouri Bey – mi risulta che soltanto il 10 per cento degli armeni soggetti a deportazione generale abbia raggiunto i luoghi ad essi destinati; il resto è morto di cause naturali, come fame e malattie. Vi informiamo che stiamo lavorando per avere lo stesso risultato riguardo quelli ancora vivi, indicando e utilizzando misure ancora più severe (…) Il numero settimanale dei morti non è ancora da considerarsi soddisfacente”. Nel 1916, Enver Pascià, Taalat Pascià e Ahmed Jemal diedero quindi un ulteriore giro di vite, intimando ai loro governatori e ai capi di polizia di “eliminare con le armi, ma se possibile con mezzi più economici, tutti i sopravvissuti dei campi siriani e anatolici”. In questa fase del massacro ebbe modo di distinguersi per efficienza il governatore del già citato distretto di Deir al-Azor, Zeki Bey, che – secondo quanto riportano James Bryce e Arnold Toynbee in The Treatment of Armenians in the Ottoman Empire, 1915–1916 – “rinchiuse 500 armeni all’interno di una stretta palizzata, costruita su una piana desertica, e li fece morire di fame e di sete”. Durante l’estate del 1916, gli uomini di Zeki eliminarono complessivamente oltre 20.000 armeni. A dimostrazione della criminale sfacciataggine dei leader turchi, basti pensare che Taalat Pascià arrivò a vantarsi dell’efficienza del suo governatore con l’ambasciatore americano Morgenthau, al quale egli ebbe anche il coraggio di chiedere “l’elenco delle polizze assicurazioni sulla vita che gli armeni più ricchi (deceduti nei campi di sterminio) avevano precedentemente stipulato con compagnie americane, in modo da consentire al governo di incassare gli utili delle polizze”. Altrettanto crudele ed anche beffardo risultò il destino delle comunità armene dell’Anatolia orientale che, grazie anche all’intervento dell’armata zarista, erano riuscite a trovare momentaneo rifugio nelle valli del Caucaso. In seguito alla rivoluzione bolscevica del 1917, l’esercito russo si era infatti ritirato dall’Anatolia orientale e dalla Ciscaucasia, abbandonando gli armeni al loro destino. Rioccupata l’importante città-fortezza di Kars, le forze ottomane iniziarono una vera e propria caccia all’uomo, eliminando circa 19.000 cristiani. Identica sorte toccò a quei profughi armeni che, rifugiatisi in Azerbaigian, furono massacrati dalle locali minoranze mussulmane tartare e cecene che, nel 1918, nella sola area di Baku, ne eliminarono 30.000.
Ma la guerra stava ormai volgendo al termine e nell’imminenza del crollo della Sublime Porta, i responsabili delle stragi iniziarono a dileguarsi. Quando, nell’ottobre 1918, la Turchia si arrese alle forze dell’Intesa, i principali dirigenti del partito dei Giovani Turchi vennero arrestati dai britannici ed internati a Malta per un breve periodo. A carico dei fautori e degli esecutori dei massacri fu intentato un processo svoltosi nel 1919 a Costantinopoli sotto la supervisione del nuovo primo ministro Damad Ferid Pascià che alla Conferenza di pace di Parigi, il 17 luglio 1919 aveva ammesso i crimini perpetrati ai danni degli armeni. Lo scopo del processo di Costantinopoli non era in realtà quello di rendere giustizia al popolo armeno e di chiarire le colpe pregresse dell’amministrazione ottomana (cioè quelle di prima della Grande Guerra), bensì quello di scaricare tutte le colpe sui leader dei Giovani Turchi, sicuramente responsabili, ma che avevano potuto portare a compimento il loro piano di sterminio, grazie alla connivenza di larghi strati della burocrazia civile e militare. Il processo si risolse quindi in una farsa, senza considerare che nei confronti dei molti imputati condannati in contumacia (nell’autunno del 1918 quasi tutti erano riusciti ad abbandonare al Turchia), non furono mai presentate richieste di estradizione. Non solo. In una fase successiva anche i verdetti della corte vennero in gran parte annullati ed archiviati. Nell’ottobre del 1919, a Yerevan, i vertici del partito armeno Dashnak, più che mai decisi a farsi giustizia, misero a punto un piano (l’Operazione Nemesis) per eliminare di circa 200 tra uomini politici, funzionari turchi e ‘collaborazionisti’ armeni ritenuti direttamente o indirettamente responsabili del genocidio. Il 15 marzo del 1921, a Berlino, l’ex ministro degli Interni Talaat Pascià, il principale artefice dell’olocausto armeno, venne ucciso da Solomon Tehlirian che, tuttavia, dopo essere stato arrestato e processato, nel mese di giugno dello stesso anno sarà graziato da un tribunale tedesco. Il 18 luglio 1921, fu la volta di Pipit Jivanshir Khan, coordinatore del massacro di Baku, assassinato a Constantinopoli, da Misak Torlakian. Il killer fu arrestato, ma rilasciato dalla polizia inglese. Il 5 dicembre, a Berlino, l’agente Arshavir Shiragian eliminò l’ex primo ministro turco Said Halim Pascià. Shiragian scampò all’arresto, rientrando poi a Constantinopoli. Il 17 aprile 1922, sempre a Berlino, Aram Yerganian, spalleggiato probabilmente da un altro sicario (il misterioso “agente T”) da lui ingaggiato, freddò Behaeddin Shakir Bey, coordinatore dello speciale Comitato ittihadista e Jemal Azmi, il ‘mostro’ di Trebisonda, responsabile della morte di 15.000 armeni, e già condannato, nel 1919, alla pena capitale da un tribunale militare turco che tuttavia non aveva ritenuto opportuno rendere esecutiva la sentenza. Il 25 luglio 1922, fu la volta dell’ex ministro della Difesa Jemal Pascià che a Tbilisi cadde sotto i colpi di Stepan Dzaghigian e Bedros D. Boghosian. Curiosa, ma decisamente consona al personaggio fu invece la fine di Enver Pascià, probabilmente il più ambizioso e idealista dei triumviri turchi, il “piccolo Napoleone” dell’impero e il più tenace propugnatore del movimento “internazionalista” turco. Rifugiatosi tra le tribù dell’Asia Centrale, dove pensava di realizzare il suo antico sogno panturanico, cioè la creazione di una Grande Nazione Turca, agli inizi degli anni Venti Enver scatenò una rivolta mussulmana contro il potere sovietico. Ma il 4 agosto 1922, nei pressi di Baldzhuan, località del Turkestan meridionale (oggi inclusa del territorio del Tagikistan) egli venne sconfitto e ucciso con pochi suoi seguaci da preponderanti forze bolsceviche.
Alberto Rosselli
NOTE:
1) Il termine “genocidio” fu coniato negli anni Quaranta dal giurista americano di origine ebraico-polacca Raphael Lemkin proprio in riferimento alla repressione armena.
2) A proposito della collaborazione fornita dai curdi al governo centrale, va ricordata l’istituzione da parte del sultano dei reggimenti Hamidye, reparti paramilitari dipendenti dall’esercito e dalla gendarmeria turchi, che vennero largamente utilizzate per depredare o incendiare le comunità armene “ribelli”).
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