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mardi, 28 décembre 2010

Peter Scholl-Latour : Krieg ohne Ende

 

Peter Scholl-Latour: Krieg ohne Ende

Una nuova geopolitica indiana?

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Una nuova geopolitica indiana?

Daniele GRASSI

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Una delle maggiori novità sullo scenario geopolitico degli ultimi due decenni è certamente rappresentata dall’India.

Sebbene l’ascesa della Cina abbia come effetto quello di mettere in secondo piano ogni altra realtà, non si può affatto trascurare il percorso che ha portato New Delhi a proporsi come una delle maggiori economie globali in termini assoluti.

Certo, i numeri aiutano e non poco. L’India infatti, con i suoi 1.2 miliardi di abitanti costituisce il paese più popoloso al mondo e ciò fa sì che ogni suo passo getti una lunga ombra su gran parte del globo. Non bisogna dimenticare infatti, che il suo tasso di crescita economica annua, dal 1997 ad oggi, è di circa il 7% ed è secondo solo a quello cinese.

Tuttavia, l’India resta il paese col maggior numero di gente che vive sotto la soglia di povertà, vale a dire, circa il 25% della sua popolazione.

Ci vorranno dunque, tassi di crescita molto elevati per almeno altri due decenni perché la condizione della popolazione più disagiata subisca dei miglioramenti veri e propri.

 

 

 

La politica estera indiana dopo l’indipendenza

 

Il percorso di crescita indiano è cominciato ad inizio anni Novanta, quando si è proceduto alla liberalizzazione di molti settori economici ed il Paese si è aperto all’economia di mercato.

La trasformazione economica ha proceduto di pari passo con un radicale cambiamento riguardante la politica estera.

 

L’idea di Nehru era quella di dare vita ad un grande paese che perseguisse una politica di pacifica coesistenza con gli altri attori regionali e globali.

Il suo profondo idealismo si scontrò ben presto con una realtà che non lasciava spazio a velleità neutralistiche e richiedeva prese di posizione nette.

Le tensioni col Pakistan circa il controllo del territorio del principato kashmiro sfociarono in diversi conflitti armati, il primo dei quali nel primo anno dell’indipendenza dei due Paesi, il 1947.

Ciò però non distolse Nehru dal suo intento di percorrere una strada di non allineamento e di guidare gli altri Paesi che volessero intraprendere il medesimo percorso.

Nei primi anni della sua esistenza, New Delhi tentò di sganciarsi dal confronto bipolare alleandosi con Pechino, ma questo tentativo sfociò in una delle maggiori umiliazioni della storia indiana: la sonora sconfitta subita proprio da parte della Cina nel 1962.

 

Il risultato fu un sostanziale isolamento a cui l’India tentò di porre rimedio avvicinandosi progressivamente alle posizioni del blocco sovietico.

Questa politica la danneggiò tanto in termini economici, quanto a livello geopolitico. Il Pakistan infatti, approfittò di questa situazione per proporsi come maggiore alleato degli Stati Uniti nella regione sud-asiatica, ricevendo enormi benefici in termini di aiuti finanziari e soprattutto militari.

Islamabad si fece anche mediatore tra Washington e Pechino e fu l’artefice dell’incontro avvenuto nel 1972 tra Nixon e Mao Zedong, il quale pose fine alla politica americana delle “due Cine”.

Il tutto si tradusse in un isolamento ancora più accentuato dell’India, che sarebbe terminato solo nei primi anni Novanta.

 

 

L’asse Washington-New Dehli-Tel Aviv

Il crollo dell’Unione Sovietica ed una profonda crisi economica spinsero infatti New Delhi a rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale per ottenere un prestito che l’aiutasse a superare il momento difficile che stava attraversando. In cambio, all’India fu chiesto di liberalizzare la propria economia e di aprirsi ai mercati internazionali.

Non è una caso che fu proprio in quegli anni che il Pressler Amendment pose fine agli aiuti economici che Washington si era impegnata a fornire al Pakistan, interrompendo una collaborazione che si era intensificata durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan.

Gli Stati Uniti decisero di fare dell’India il loro maggiore alleato nell’Asia meridionale e ciò ebbe inevitabilmente ripercussioni negative sul rapporto con Islamabad, storica rivale di New Delhi.

 

La politica estera indiana è stata da allora contraddistinta dallo stretto legame con Washington, il quale ne ha fortemente condizionato l’andamento e continua tuttora a farlo.

L’India rappresenta, col Giappone ed altri Stati della regione asiatica, una delle armi usate dagli Stati Uniti per contenere l’ascesa della Cina. L’obiettivo americano è infatti quello di impedire che Pechino assurga al ruolo di leader incontrastato dell’area e New Delhi costituisce un alleato fondamentale per la buona riuscita di questa strategia.

La crescente collaborazione tra l’India ed Israele rientra proprio in questo progetto di contenimento della Cina e si è tradotto, specie negli ultimi anni, in un legame molto stretto soprattutto dal punto di vista militare.

New Delhi e Tel Aviv sono infatti impegnate in attività congiunte di lotta al terrorismo e l’India rappresenta ormai il più importante mercato di sbocco per gli armamenti prodotti in Israele.

Tutto ciò ha delle importanti ricadute a livello geopolitico e l’asse Washington – New Delhi – Tel Aviv costituisce ormai una realtà capace di influenzare le dinamiche interne all’Asia e al Medio-Oriente, producendo inevitabili ricadute sulla politica globale.

 

 

 

Riposizionamento strategico?

 

Tuttavia, la posizione indiana si sta facendo sempre più complicata e richiede un’analisi piuttosto complessa.

Le vicende afghane degli ultimi 3 decenni hanno avuto ripercussioni importanti sulla politica estera indiana e continuano a produrre effetti di non poco conto.

L’ascesa dei talebani a metà anni ’90 ebbe come risultato quello di avvicinare New Delhi a Teheran e Mosca, paesi molto attivi nel sostegno alla cosiddetta Alleanza del Nord, fazione non-pashtun che si opponeva al dominio talebano.

In seguito all’occupazione afghana da parte degli USA e dei suoi alleati nell’ottobre del 2001, l’India è stata uno dei paesi più attivi nella ricostruzione dell’Afghanistan e figura attualmente tra i maggiori donatori del governo di Kabul.

I buoni rapporti col governo guidato da Karzai, il quale ha effettuato i suoi studi proprio in India e conserva legami personali con questo Paese, e l’implementazione di numerosi progetti infrastrutturali hanno fondamentalmente come obiettivo, quello di dar vita ad un’alleanza in grado di contenere l’influenza esercitata dal Pakistan su Kabul.

La presenza indiana in Afghanistan rappresenta dunque una delle maggiori preoccupazioni per Islamabad e ha avuto un peso molto importante nel delineare la politica adottata dal Pakistan nel Paese confinante. Il timore di un governo filo-indiano insediato a Kabul dopo il ritiro delle truppe straniere, ha infatti spinto Islamabad a supportare con decisione gruppi di militanti che hanno proprio nella regione occidentale del Pakistan, le loro basi operative.

Lo scopo è quello di utilizzare questi gruppi come assets strategici, una sorta di asso nella manica da tirar fuori al momento opportuno.

Quel momento sembra oggi essere giunto e il tentativo del governo Karzai di negoziare coi talebani sta dando ragione alla strategia pakistana.

L’ammissione dell’amministrazione Obama di non poter fare a meno del supporto di Islamabad per porre fine al conflitto che da anni sta dilaniando l’Afghanistan, suona infatti come una sorta di resa e apre importanti spazi per la politica estera pakistana.

L’avvicinamento degli ultimi mesi tra Zardari e Karzai costituirebbe un’ulteriore prova di quel che sta accadendo oggi a Kabul.

Gli Stati Uniti hanno ormai compreso di non poter conseguire una vittoria effettiva sui talebani e hanno così deciso di intraprendere la strada dei negoziati e non possono dunque fare a meno del sostegno delle forze armate e di intelligence pakistane.

La promessa fatta da Obama al governo indiano di impegnarsi affinché New Delhi consegua un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, suona un po’ come un contentino, peraltro difficilmente realizzabile, per mettere a freno le crescenti ansie indiane.

 

Le vicende afghane stanno facendo emergere una verità con cui gli Stati Uniti dovranno fare i conti nei prossimi anni: l’estrema difficoltà di intrattenere rapporti di cooperazione sia con l’India che col Pakistan.

L’incapacità di risolvere la questione kashmira richiede, da parte di Washington, un continuo barcamenarsi tra le richieste indiane e quelle pakistane, spesso inconciliabili tra di loro.

Col tempo diventerà sempre più difficile mantenersi in equilibrio tra Islamabad e New Delhi e, a meno di un improbabile avvicinamento tra i due Paesi, gli Stati Uniti potrebbero essere chiamati a compiere una scelta di campo definitiva.

Il Pakistan e l’India sono consapevoli di ciò e stanno entrambi tentando di acquisire un maggiore potere negoziale nei confronti di Washington.

 

 

 

L’India strizza l’occhio all’Iran

 

Mentre Islamabad è impegnata ad approfondire i suoi legami storici con Pechino, specie dal punto di vista militare, l’India sta cercando di trovare una posizione di maggiore indipendenza per quel che concerne la sua politica estera.

Sebbene sia ben lungi dal trovarla, alcuni segnali di ciò sono già ravvisabili nei suoi rapporti con l’Iran.

Risalgono, ad esempio, allo scorso 28 ottobre le dichiarazioni del governo indiano circa una presunta volontà di volere riprendere il dialogo con Teheran per la realizzazione di un gasdotto che dovrebbe collegare Iran, Pakistan ed India.

La strenua opposizione di Washington nei confronti di questo progetto, ed i problemi che caratterizzano la regione pakistana del Baluchistan, hanno finora frenato la sua realizzazione.

Tuttavia, i crescenti bisogni energetici dell’India potrebbero spingerla ad esplorare strade affatto gradite all’amministrazione americana.

 

La recentissima notizia dell’accordo raggiunto dai governi turkmeno, afghano, pakistano e indiano per la realizzazione del gasdotto TAPI, sembrerebbe andare in direzione contraria rispetto a quanto detto, ma i dubbi circa l’effettiva capacità del Turkmenistan di pompare gas a sufficienza, oltre ai problemi di sicurezza che attanagliano il territorio afghano, potrebbero comportare notevoli ritardi di realizzazione, costringendo i paesi dell’Asia meridionale a cercare percorsi alternativi.

 

La collaborazione tra New Delhi e Teheran riguarda diversi altri progetti e non si ferma dunque all’IPI.

Il porto iraniano di Chabahar risulta centrale nell’ottica di tale cooperazione. Progettato e finanziato proprio dall’India, questo porto detiene un valore strategico molto importante.

L’importanza di Chabahar è legata, ad esempio, alla sua capacità di fare da sbocco per le risorse energetiche della regione centro-asiatica, permettendo all’India di rafforzare le sue relazioni commerciali con questi paesi ritenuti di fondamentale importanza ai fini dello sviluppo economico.

Inoltre, tramite Chabahar, l’India è in grado di aggirare il Pakistan ed esportare le proprie merci in Afghanistan e negli altri Paesi dell’area. Il nuovo accordo di transito siglato da Afghanistan e Pakistan infatti, non permette a New Delhi di utilizzare il territorio pakistano per il trasporto dei beni da esportazione e Chabahar rappresenta la migliore alternativa possibile.

L’Iran soddisfa circa il 15% del fabbisogno energetico indiano, una percentuale piuttosto bassa se si considerano le enormi potenzialità del patrimonio gassifero iraniano.

Tuttavia, è ancora presto perché l’India adotti posizioni non gradite a Washington e per il momento, New Delhi è impegnata in un’azione di mediazione tra l’Iran e gli Stati Uniti.

Nonostante l’opposizione indiana all’acquisizione del nucleare da parte di Teheran, il Paese sud-asiatico si sta impegnando affinché non vengano adottate nuove sanzioni nei confronti dell’Iran.

Complici gli importanti interessi economici nutriti da molte compagnie indiane, New Delhi sta cercando di ammorbidire la posizione americana sull’argomento ed ha come obiettivo ultimo, quello di sottrarre l’Iran all’isolamento in cui si trova attualmente, in modo da poter sviluppare ulteriormente le enormi potenzialità di un’eventuale cooperazione economica e politica.

Gli interessi che legano i due Paesi sono infatti numerosi e vanno dall’energia all’Afghanistan, senza dimenticare che l’India ospita la più numerosa comunità sciita al mondo dopo l’Iran.

Sono troppe le variabili in gioco per poter azzardare, al momento, previsioni circa le dinamiche geopolitiche che caratterizzeranno il futuro prossimo.

I segnali che ci giungono oggi sono talvolta contrastanti e ancora troppo soggetti alla volatilità del presente e dunque suscettibili di smentite ed inversioni di rotta.

Quel che però è certo è che in Asia si sta assistendo ad una netta ridefinizione degli equilibri di forza e nessuno degli attori coinvolti lascerà nulla di intentato per spuntarla sugli altri.

* Daniele Grassi è dottore in Scienze Politiche e specializzando in “Relazioni Internazionali” presso la LUISS Guido Carli. Attualmente è impegnato in uno stage di ricerca presso lo “Strategic Studies Institute” di Islamabad.

Wikileaks - a Big Dangerous US Government Con Job

Wikileaks - a Big Dangerous US Government Con Job

By F. William Engdahl

Ex: http://www.engdahl.oilgeopolitics.net/

The story on the surface makes for a script for a new Oliver Stone Hollywood thriller. A 39-year old Australian hacker holds the President of the United States and his State Department hostage to a gigantic cyber “leak,” unless the President leaves Julian Assange and his Wikileaks free to release hundreds of thousands of pages of sensitive US Government memos. A closer look at the details, so far carefully leaked by the most ultra-establishment of international media such as the New York Times, reveals a clear agenda. That agenda coincidentally serves to buttress the agenda of US geopolitics around the world from Iran to Russia to North Korea. The Wikileaks is a big and dangerous US intelligence Con Job which will likely be used to police the Internet.

internet-censorship.jpgIt is almost too perfectly-scripted to be true. A discontented 22 -year old US Army soldier on duty in Baghdad, Bradley Manning, a low-grade US Army intelligence analyst, described as a loner, a gay in the military, a disgruntled “computer geek,” sifts through classified information at Forward Operating Base Hammer. He decides to secretly download US State Department email communications from the entire world over a period of eight months for hours a day, onto his blank CDs while pretending to be listening to Lady Gaga. In addition to diplomatic cables, Manning is believed to have provided WikiLeaks with helicopter gun camera video of an errant US attack in Baghdad on unarmed journalists, and with war logs from Iraq and Afghanistan.

Manning then is supposed to have tracked down a notorious former US computer hacker to get his 250,000 pages of classified US State Department cables out in the Internet for the whole world to see. He allegedly told the US hacker that the documents he had contained "incredible, awful things that belonged in the public domain and not on some server stored in a dark room in Washington, DC." The hacker turned him in to US authorities so the story goes. Manning is now incommunicado since months in US military confinement so we cannot ask him, conveniently. The Pentagon routinely hires the best hackers to design their security systems.

Then the plot thickens. The 250,000 pages end up at the desk of Julian Assange, the 39-year-old Australian founder of a supposedly anti-establishment website with the cute name Wikileaks. Assange decides to selectively choose several of the world’s most ultra-establishment news media to exclusively handle the leaking job for him as he seems to be on the run from Interpol, not for leaking classified information, but for allegedly having consensual sex with two Swedish women who later decided it was rape.

He selects as exclusive newspapers to decide what is to be leaked the New York Times which did such service in promoting faked propaganda against Saddam that led to the Iraqi war, the London Guardian and Der Spiegel. Assange claims he had no time to sift through so many pages so handed them to the trusted editors of the establishment media for them to decide what should be released. Very “anti-establishment” that. The New York Times even assigned one of its top people, David E. Sanger, to control the release of the Wikileaks material. Sanger is no establishment outsider. He sits as a member of the elite Council on Foreign Relations as well as the Aspen Institute Strategy Group together with the likes of Condi Rice, former Defense Secretary William Perry, former CIA head John Deutch, former State Department Deputy Secretary and now World Bank head Robert Zoellick among others.

Indeed a strange choice of media for a person who claims to be anti-establishment. But then Assange also says he believes the US Government version of 9/11 and calls the Bilderberg Group a normal meeting of people, a very establishment view.

The latest sensational Wikileaks documents allegedly from the US State Department embassies around the world to Washington are definitely not as Hillary Clinton claimed "an attack on America's foreign policy interests that have endangered innocent people." And they do not amount to what the Italian foreign minister, called the "September 11 of world diplomacy." The British government calls them a threat to national security and an aide to Canada’s Prime Minister calls on the CIA to assassinate Assange, as does kooky would-be US Presidential hopeful Sarah Palin.

Most important, the 250000 cables are not "top secret" as we might have thought. Between two and three million US Government employees are cleared to see this level of "secret" document,1 and some 500,000 people around the world have access to the Secret Internet Protocol Network (SIPRnet) where the cables were stored.

Siprnet is not recommended for distribution of top-secret information. Only 6% or 15,000 pages of the documents have been classified as even secret, a level below top-secret. Another 40% were the lowest level, "confidential", while the rest were unclassified. In brief, it was not all that secret.2

Most of the revelations so far have been unspectacular. In Germany the revelations led to the removal of a prominent young FDP politician close to Guido Westerwelle who apparently liked to talk too much to his counterpart at the US Embassy. The revelations about Russian politics, that a US Embassy official refers to Putin and Medvedev as “Batman and Robin,” tells more about the cultural level of current US State Department personnel than it does about internal Russian politics.

But for anyone who has studied the craft of intelligence and of disinformation, a clear pattern emerges in the Wikileaks drama. The focus is put on select US geopolitical targets, appearing as Hillary Clinton put it “to justify US sanctions against Iran.” They claim North Korea with China’s granting of free passage to Korean ships despite US State Department pleas, send dangerous missiles to Iran. Saudi Arabia’s ailing King Abdullah reportedly called Iran’s President a Hitler.

Excuse to police the Internet?

What is emerging from all the sound and Wikileaks fury in Washington is that the entire scandal is serving to advance a long-standing Obama and Bush agenda of policing the until-now free Internet. Already the US Government has shut the Wikileaks server in the United States though no identifiable US law has been broken.

The process of policing the Web was well underway before the current leaks scandal. In 2009 Democratic Senator Jay Rockefeller and Republican Olympia Snowe introduced the Cybersecurity Act of 2009 (S.773). It would give the President unlimited power to disconnect private-sector computers from the internet. The bill "would allow the president to 'declare a cyber-security emergency' relating to 'non-governmental' computer networks and do what's necessary to respond to the threat." We can expect that now this controversial piece of legislation will get top priority when a new Republican House and the Senate convene in January.

The US Department of Homeland Security, an agency created in the political hysteria following 9/11 2001 that has been compared to the Gestapo, has already begun policing the Internet. They are quietly seizing and shutting down internet websites (web domains ) without due process or a proper trial. DHS simply seizes web domains that it wants to and posts an ominous "Department of Justice" logo on the web site. See an example at . Over 75 websites were seized and shut in a recent week. Right now, their focus is websites that they claim "violate copyrights," yet the torrent-finder.com website that was seized by DHS contained no copyrighted content whatsoever. It was merely a search engine website that linked to destinations where people could access copyrighted content. Step by careful step freedom of speech can be taken away. Then what?


1 BBCNews, Siprnet: Where the leaked cables came from, 29 November, 2010, accessed here

2 Ken Dilanian, Inside job: Stolen diplomatic cables show U.S. challenge of stopping authorized users, Los Angeles Times, November 29, 2010, accessed here

00:20 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : wikileaks, etats-unis, censure, internet | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

China und Russland schaffen den Dollar ab

China und Russland schaffen den Dollar ab

Michael Grandt

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

China und Russland haben beschlossen, den US-Dollar als Sicherheit für den bilateralen Handel aufzugeben und auf ihre eigenen Währungen zurückzugreifen. Zudem will Peking Russland helfen, sich wieder als Großmacht zu etablieren.

Chinesische Experten sagten aus, dass die engeren Beziehungen zwischen Peking und Moskau nicht gegen den Dollar gerichtet seien, sondern die eigenen Volkswirtschaften schützen soll.

Im Zuge von Handelsvereinbarungen hatten die beiden Staaten unlängst beschlossen, auf ihre eigenen Währungen zurückzugreifen. Im chinesischen Interbankenmarkt wurde bereits damit begonnen, den Yuan gegen den russischen Rubel zu handeln; umgekehrt soll dies mit der chinesischen Währung auch bald in Russland möglich sein.

Beide Länder hatten ihren bilateralen Handel bisher hauptsächlich mit dem Dollar getrieben. Doch im Zuge der Finanzkrise begannen hochrangige Beamte beider Länder, andere Möglichkeiten zu eruieren.

Sun Zhuangzhi, leitender Forscher an der chinesischen Akademie der Sozialwissenschaften, stellte fest, der neue Modus der Geschäftsabwicklung zwischen China und Russland folge einem globalen Trend, nachdem die Finanzkrise die Fehler eines vom Dollar dominierten Weltfinanzsystems aufgezeigt habe. Pang Zhongying, die in der Renmin University of China auf internationale Politik spezialisiert ist, sagte, der Vorschlag fordere den Dollar nicht heraus, sondern richte sich auf die Vermeidung der Risiken, die der Dollar darstelle.

Die neue Zusammenarbeit zwischen China und Russland soll vor allem in den Bereichen Luftverkehr, Eisenbahnbau, Zoll, Schutz des geistigen Eigentums und der Kultur stattfinden. Inoffiziellen Verlautbarungen nach will Peking zudem zwei Atomreaktoren aus Russland kaufen.

Der chinesische Ministerpräsident Jiabao Wen sagte, die Partnerschaft zwischen Peking und Moskau habe »ein beispielloses Niveau« erreicht und versprach, die beiden Länder »werden sich nie mehr verfeinden. China wird dem Weg der friedlichen Entwicklung folgen und die Renaissance Russlands als Großmacht unterstützen«.

Peking ist außerdem bereit, mit Moskau in Zentralasien und der asiatisch-pazifischen Region zusammenzuarbeiten. Ebenso soll in den wichtigen internationalen Organisationen und Mechanismen eine »faire und vernünftige, neue Ordnung« in der internationalen Politik und Wirtschaft angestrebt werden.

 

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Quelle:

http://www.chinadaily.com.cn/china/2010-11/24/content_115...

Nous vivons la fin de l'Empire romain!

Nous vivons la fin de l’Empire romain !

par Marc ROUSSET

Ex: http://www.europemaxima.com/

chute_de_l_empire_romai.jpgSommes-nous en 370 après J.-C., quarante ans avant la prise de Rome par Alaric en 410, ou en 270 après J.-C., juste avant le redressement in extremis d’une situation anarchique catastrophique par les empereurs illyriens, ce qui prolongea de deux siècles l’existence de l’Empire romain, voilà la question ! Pourquoi cette comparaison ? Aujourd’hui le taux de naissance des personnes d’origine extra-européenne en France est déjà de 17 %. Si rien ne change, avec les 250 000 immigrés par an du Président  Sarkozy et a fortiori les 450 000 immigrés par an que nous amèneraient les socialistes, ce taux passera à 30 % en 2030 et 50 % en 2050 ! Or le point de basculement sociologique est pratiquement déjà atteint; en l’absence de mesures drastiques et urgentes, le cancer de nos sociétés ne peut donc se développer que d’une façon exponentielle avec à terme une inéluctable  guerre civile !

Le succès de l’ouvrage de Thilo Sarrazin en Allemagne (plus de 600 000 exemplaires vendus) démontre que, contrairement à ce qu’affirment les droit-de-l’hommistes naïfs et inconscients, se pose en fait le problème bien réel de la survie de nos sociétés. « Savoir pour prévoir et prévoir pour pouvoir », disait Auguste Comte. La Vérité, c’est que si hier la France a perdu son empire, elle est en train de perdre aujourd’hui sa  langue, sa civilisation, son industrie, sa souveraineté, sa population.

Au-delà du danger mortel migratoire, l’égoïsme matérialiste et individualiste de nos générations, comme le montre le problème des retraites en France, les amène à s’endetter d’une façon irresponsable, à pratiquer la politique de la terre brûlée, à couper des arbres fruitiers pour en faire du bois de chauffage, à sacraliser les droits acquis en lieu et place du Saint-Esprit, selon  les termes de l’Académicienne Chantal  Delsol.

Il est difficile de comprendre ce qui se passe actuellement si l’on ne sait rien de la dislocation du monde romain qui est pour nous un avertissement. Comme du temps de l’Empire  romain décadent, les Barbares sont dans nos murs alors que leurs frères assiégeaient les remparts de la ville; l’homme européen se suicide démographiquement, se réfugie dans la frénésie du bien-être individualiste et matérialiste, ne voit pas venir la catastrophe, persuadé que sa  petite vie ordinaire va durer  l’éternité ! Nos  élites contemporaines sont aussi  aveugles qu’a pu l’être Ammien Marcellin qui écrivait en 385  au Livre XIV de son Histoire : « Rome destinée à vivre aussi longtemps qu’il y aura des hommes… ». Vingt-cinq ans plus tard, Alaric prenait Rome !

Nous établirons successivement le parallèle entre notre époque et la fin de l’Empire romain quant aux valeurs de notre société, à la prédominance de l’argent-roi, à l’immigration et les leçons de la bataille d’Andrinople, à la décadence démographique, au désir de ne plus assumer sa défense, et enfin à l’irruption du christianisme qui peut être comparé à la nouvelle religion  droit-de-l’hommiste.

« La première des vertus est le dévouement à la Patrie », disait Napoléon Bonaparte. Nous en sommes loin; les Bara, les Bigeard de la République paraissent de plus en plus anachroniques ! Aujourd’hui, nos héros lycéens n’apprennent  plus les poèmes de José-Maria de Heredia; ils sont ignares, incultes et manifestent pour leur retraite – vieillesse ! Les Romains  n’ont rien eu à craindre aussi longtemps qu’ils ont pratiqué la dignitas (l’honneur), la virtus (courage et fermeté d’âme), la pietas (respect de la tradition) et la gravitas (austérité naturelle). Selon la pietas, chaque citoyen se trouve dans la situation d’un débiteur insolvable au regard de tout ce qu’il a reçu de ses ancêtres en naissant; cela lui crée moins de droits que l’impérieux devoir de transmettre l’héritage. La pietas insufflait aux Romains l’énergie de se perpétuer et de survivre. Mais  à la fin de l’Empire, les Romains perdirent  toutes  ces qualités.

Les Romains connurent eux aussi l’argent-roi, la corruption, la société marchande sans amour de la Patrie, une société où chacun pensait seulement à améliorer sa propre condition. Les fonctionnaires étaient corrompus. Des incapables, suite à des intrigues, obtenaient des commandements. Il y avait pénurie généralisée de recrues car les représentants de l’aristocratie romaine avaient obtenu le privilège fiscal de pouvoir dispenser pour un prix dérisoire leurs domaines de toute fourniture de conscrits. Des généraux acceptaient de venir au secours d’une ville assiégée que contre le versement d’une rançon. Les soldats affectés aux fortins des frontières s’adonnaient à l’agriculture et au commerce de détail plus qu’au maniement des armes. Les troupes régulières s’illustraient souvent par l’ivrognerie, l’indiscipline, le pillage pour entretenir  leurs familles. Les soldats étaient même parfois victimes des prévarications de leurs chefs.

Les Romains renoncèrent aussi progressivement à se défendre contre les Barbares. Il aurait fallu que la population s’en mêle. Or la constitution de milices d’auto-défense resta exceptionnelle. L’Empire ne comptait plus de soldats citoyens. Le métier était censé être réservé à des professionnels. Les représentants des classes dirigeantes s’enfuyaient devant les envahisseurs ou collaboraient avec eux. Les habitants des villes fortifiaient leurs murailles, mais se rendaient dès qu’on leur promettait la vie sauve. Aujourd’hui, en France, le budget de la défense qui représentait 5,1 % par rapport au P.I.B. du temps du Général de Gaulle ne représente plus que 1,8 % et tend allègrement vers les  1,5 %. La France a rejoint l’O.T.A.N. avec le Président Sarkozy, mais on n’entend plus parler du pilier européen de défense et encore moins du fameux quartier-général européen à Bruxelles. 90 % des régiments ont été dissous et nos forces armées ne disposent même pas d’un nombre d’hommes suffisant en cas d’explosion généralisée des banlieues pour ramener l’ordre et l’État de droit. L’immigration extra-européenne coûte 36 milliards d’euros par an à la France, mais elle ne trouve pas 3 milliards d’euros pour s’offrir un deuxième porte-avions, en dépit des nombreuses avaries et indisponibilités de maintenance du porte-avions Charles-de-Gaulle. Bref, la France renonce de plus en plus d’une façon éhontée à se défendre ! Or, comme le rappelle Julien Freund, une civilisation ne peut faire abstraction de sa puissance militaire. Toute l’histoire humaine dément cette illusion. « Athènes n’est pas seulement la ville qui a abrité Socrate et Phidias, mais aussi une puissance militaire qui a réussi à préserver son originalité grâce au génie stratégique de Miltiade, de Cimon et de Thémistocle (1). »

Rome a aussi connu, tout comme l’Europe actuelle, le déclin démographique. Pierre Chaunu s’est fait l’avocat passionné de cette cause face à notre indifférence. Or la baisse de la natalité est un des signes du renoncement à la vie pour jouir du présent et par peur de l’avenir. Elle est l’expression du refus de défendre les valeurs de la civilisation à laquelle on appartient. « L’heureuse Campanie, qui n’a pas encore vu un Barbare, lit-on dans le Code Théodosien, compte déjà 120 000 hectares où il n’y a ni chaumière, ni homme (2) ». Si la population sous Auguste était de 70 millions, elle n’était plus que de 50 millions à la fin du IIIe siècle.

Les Romains connurent aussi les méfaits d’une politique migratoire inconsciente avec le pillage de l’Italie par les troupes d’Alaric et surtout lors du désastre d’Andrinople qui fut une défaite militaire pour l’Empire avec des conséquences bien plus catastrophiques encore que celle de Cannes face à Hannibal. Les soldats et officiers barbares des légions romaines furent incapables de résister à l’appel du sang face à l’irruption victorieuse de leurs compatriotes sur le sol romain. Les troupes d’Alaric ne cessèrent de voir affluer vers elles des colons d’origine germanique, prisonniers de guerre, esclaves en rupture de ban.

Le comble de la politique migratoire fut cependant le désastre d’Andrinople en août 378 avec l’armée d’Orient. En 375, culbutés par les Huns, les Goths poussèrent jusqu’au Danube pour solliciter l’asile et la protection de Rome. Là, «  debout  sur les berges, dit Eunape, ils tendaient les mains en lançant des lamentations et des cris ». Présentant des rameaux de suppliant, leur chef Fritigern demandait  le droit de passer le fleuve afin de s’établir pacifiquement sur le sol de l’Empire. L’empereur d’Orient Valens, mal conseillé, vit dans ces hommes des mercenaires possibles d’appoint pour ses propres troupes tandis que quelques officiers parlaient au contraire de refouler comme des envahisseurs, ces pacifiques immigrants avec leur famille. « On se moqua d’eux, écrit Eunape, comme des gens qui ne comprennent rien aux affaires publiques. » Le passage du Danube s’effectua dans un désordre indescriptible et avec une insuffisance de précautions des Romains qui laissèrent s’agglomérer cette multitude étrangère avec femmes, armes et enfants. Pendant l’hiver 377, les Goths taillent en pièces les troupes romaines affectées à leur garde; ils s’emparent de leurs armes et de leurs chevaux. Les troupes mercenaires romaines à proximité d’Andrinople rejoignent les rebelles. L’empereur Valens se met  en marche avec l’armée d’Orient et campe le 9 août 378 au pied des remparts d’Andrinople. L’armée impériale romaine fut finalement encerclée et moins d’un tiers échappa à l’extermination. Quant à Valens, il meurt brûlé vif, barricadé dans une  ferme ! Du mythe de l’invincibilité romaine, il ne reste plus rien. Rome est entrée en agonie. Elle durera cent ans.

Byzance tira la leçon du désastre et fit massacrer tous les soldats d’origine gothique. En 400, des Goths furent également massacrés par la population de Constantinople. L’armée de Byzance subit d’autres  épurations au Ve siècle et des Barbares furent éliminés des postes de commandement. Les éléments autochtones restèrent toujours prépondérants dans les armées de Byzance.

Quant à Voltaire, il s’interrogea, lui aussi, à propos de Rome sur son incapacité à s’opposer aux Barbares à l’époque de l’Empire, alors qu’elle avait réussi à en triompher sous la République contre les Gaulois et les Cimbres. La raison, il faut la chercher, selon lui, dans l’irruption du christianisme et chez les intellectuels aussi bien païens que chrétiens. Il invoque la haine que l’ancienne religion de l’Empire portait à la nouvelle, les disputes théologiques substituées au maniement des armes, les querelles sanglantes provoquées par le christianisme, la mollesse se substituant la valeur, les moines remplaçant les agriculteurs et les soldats, les vaines discussions théologiques pendant que les Barbares assiégeaient l’Empire, l’absence d’unicité de la pensée et de volonté. « Le christianisme ouvrait le ciel, mais il perdait l’Empire (3). » Symmaque, de son côté, est aussi célèbre pour avoir protesté publiquement quand les chrétiens, soutenus par Théodose, enlevèrent du Sénat de Rome, en 382, la  statue et l’autel de la Victoire. Là encore, on ne peut pas ne pas penser aux prédictions  actuelles de Jean Raspail dans Le Camp des Saints qui met en cause l’Église catholique  et surtout  le droit-de-l’hommisme, cette nouvelle religion du XXIe siècle, cause principale de la cécité et de l’irresponsabilité  des Européens face aux dangers de l’immigration extra-européenne.

Afin de ne  pas connaître le sort de l’Empire romain, la France, comme la plupart des pays ouest-européens, à défaut d’une nouvelle Jeanne d’Arc  ou de nouveaux empereurs illyriens, a besoin  d’un nouveau de Gaulle, d’un Poutine !

Marc Rousset

Notes

1 : Julien Freund, La Décadence, Sirey, 1984, p. 288.

2 : Michel de Jaeghere, « Le choc des civilisations », in Comment meurt une civilisation, Éditions Contretemps, 2009, p. 211.

3 : Julien Freund, op. cit., p. 112.


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Dominique Venner: un maestro para el euroculturalismo

Dominique Venner: UN MAESTRO PARA EL EUROCULTURALISMO

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Sebastian J. Lorenz
Con buen criterio, Áltera ha publicado el excelente ensayo histórico “Europa y su destino” de Dominique Venner, que viene a cubrir un vacío en el mundo editorial español, si exceptuamos la edición de “Baltikum” (la historia de los cuerpos francos). Venner es seguramente, junto a Thiriart, el padre de un nuevo europeísmo revolucionario y uno de los primeros maestros de la “Nouvelle Droite” francesa, y del pensador galo Alain de Benoist. Pero echemos un vistazo a su vida y su obra.
Miembro del movimiento “Jeune Nation”, Venner abogó desde el principio por la creación de una organización nacionalista europea y revolucionaria. En 1962 escribe su famoso ensayo “Pour une crítique positive” (1962) y se convierte en uno de los principales inspiradores de la “Féderation d´Etudiants Nationalistes” (FEN), organización en la que un joven Alain de Benoist publica sus primeros ensayos filosóficos. En 1963 Venner funda el grupo “Europe Action” que Alain empieza a frecuentar. El encuentro entre el veterano y la joven promesa será decisivo y se materializará en un nacionalismo europeísta, antiliberal y anticristiano.
El impacto de este ensayo en el ámbito del nacional-europeísmo francés, limitado hasta entonces al nacional-comunitarismo de Jean Thiriart- debió ser tremendo. La reflexión intelectual y filosófica, hasta el momento despreciada por el nacionalismo europeo, más proclive a la acción que a la meditación, será la fuente de inspiración para la creación del GRECE (Groupement de recherche et d'études pour la civilisation européenne). El nacional-europeísmo de Venner será determinante en la formación –y posterior evolución– de toda una generación de pensadores europeístas, cuyos tempranos escritos se mueven entre la ética nacionalista y la identidad étnica pero, gracias al influjo de Venner, este nuevo nacionalismo europeo se desprende del romanticismo decimonónico, del historicismo eurocéntrico y del universalismo modernista, para reclamar la prioridad identitaria de una Europa superior –en términos civilizatorios- etnoculturalmente.
En el citado ensayo, Venner establece los principios básicos de una nueva estrategia metapolítica: la necesidad de una nueva elaboración doctrinal y el desplazamiento del combate hacia la lucha ideológica y cultural. Algunos cronistas han comparado la obra de Venner con el “¿Qué hacer?” de Lenin, afirmando que en determinados aspectos de autocrítica, estrategia política y doctrina, supone un auténtico “giro leninista”, que los neo-revolucionario-conservadores europeos adoptará en lo sucesivo. ¿No son conocidos los autores de la “Konservative Revolution” alemana como los “trotskistas” del totalitarismo de entreguerras?
Dentro de esta dinámica, Venner constituye en 1966 el “Mouvement Européen de la Liberté”. El fracaso de todas estas iniciativas políticas impulsó el movimiento de “Europe Action”, ya planteado como una fracción intelectual nacida de la derrota política, que no ideológica. A principios de la década de los 70 del siglo pasado, Venner abandona toda actividad política, centrándose en la elaboración ensayística, especialmente en la investigación histórica.
La estrategia de “purificación doctrinal y cultural”, siguiendo las pautas de un “gramscismo de derecha”, resituará el centralismo nacionalista en un nuevo proyecto revolucionario-conservador europeo. Frases como “la unidad revolucionaria es imposible sin unidad de doctrina” o “la revolución es menos la toma de poder que su uso en la construcción de una nueva sociedad”, serán las aspiraciones metapolíticas de esta corriente de pensamiento, cuya estrategia asumirá la vía de la lucha de las ideas para conseguir, primero, el poder cultural, y, posteriormente, la hegemonía política y la transformación social.
El pensador francés lanzará en su famoso “Manifeste” una serie de consignas anticapitalistas, anticomunistas y anti-igualitarias, en las que expresa la trascendencia y la necesidad de retomar una perspectiva europea del nacionalismo francés, con el objetivo de alcanzar “la reconstrucción de Francia y Europa”. Esa idea de regeneración europea estará presente en toda su obra posterior, como lo demuestra la publicación en 2002 de “Histoire et tradition des Européens: 30.000 ans d´identité” y en 2006 del compendio “Le Siécle de 1914. Utopies, guerres et révolutions en Europe au Xxe siécle”. Desde 2002 Venner dirige la “Nouvelle Reveu d´Histoire”.
Venner coincidirá –en vínculos y objetivos- con Jean Mabire en la realización de una síntesis del oxímoron “revolución-conservación”. Mabire dirá que “toda revolución es, antes que nada, revisión de las ideas recibidas”, en la creencia de “que los reaccionarios, es decir, aquellos que reaccionan, son obligatoriamente revolucionarios”. Es, en definitiva, el segundo acto de una “Revolución Conservadora Europea”. Y a ello consagrarán su vida y su obra una serie de pensadores europeos para quienes Venner ha sido un referente ideológico fundamental. Paganismo, europeismo, socialismo, tradicionalismo y etnoculturalismo, consignas para una transmodernidad del siglo XXI.
La primera y agradable impresión al leer el libro “Europa y su destino”es el sorprendente conocimiento que Venner tiene de la historia de España y, en especial, de la obra filosófica de nuestro Ortega y Gasset. El documento parte de una idea temporal: el siglo del 14, símbolo de la catástrofe europea derivada del primer acto de la gran guerra civil europea, fecha que marca a toda una “generación de combate” –como las califica el propio Ortega- o Frontgeneration. En España la “generación de la re-generación” será la del 98, con Miguel de Unamuno como máximo exponente, un grupo de intelectuales que pretendían salvar el declive de España a través de Europa, y a este movimiento le sucedería la llamada “generación del 14”, en la que se encuadra el propio Ortega -como señaló Robert Wohl-, el cual tuvo una especial relación y vinculación con los autores de la Konservative Revolution alemana. La gran guerra provocó el deseo de crear nuevos valores y derribar y abandonar los ya caducos entre los inútiles escombros del conflicto bélico (la modernidad). El viejo continente había perdido su “orden europeo” (Venner), la “capacidad de mando civilizadora” (Ortega), dejando un tremendo vacío, pero resurgiendo con fuerza una nueva idea, la recuperación de la identidad europea. Y a ello se dedica Venner en su libro, pero ya no cuento nada más, hay que comprarlo y leerlo.

lundi, 27 décembre 2010

L'incubo geopolitico di Washington: Russia e Cina piu vicine

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L’incubo geopolitico di Washington: Russia e Cina più vicine

Fonte: “

Reseau Voltaire [1]

Qualsiasi siano i conflitti in corso all’interno delle mura del Cremlino fra Medvedev e Putin, ci sono ultimamente chiari segnali che sia Pechino sia Mosca si stiano muovendo con decisione, dopo un lungo periodo di esitazione, al fine di rafforzare la cooperazione strategica economica a fronte del palese sgretolarsi del ruolo d’unica superpotenza degli USA. Se questa tendenza si rafforzasse, si verificherebbe il peggiore incubo geopolitico di Washington: una massa continentale eurasiatica riunita, in grado di sfidare l’egemonia economica globale dell’America.


Parafrasando il proverbio cinese, potremmo affermare di vivere senza dubbio in «tempi interessanti». Non appena sembrava che Mosca si stesse avvicinando a Washington nel corso della Presidenza di Medvedev, accettando di cancellare la vendita all’Iran di un controverso sistema di difesa missilistica S-300 e iniziando a cooperare con Washington sui progetti della NATO, incluso forse lo scudo antimissile, Mosca e Pechino si sono accordati su una serie di misure che possono avere grosse implicazioni geopolitiche, non ultime per il futuro della Germania e quello dell’Unione Europea.

Nel corso d’incontri di vertice tenutisi a San Pietroburgo, il primo ministro cinese Wen Jiabao e la sua controparte russa, Vladimir Putin, hanno fatto una serie d’annunci passati relativamente inosservati nei principali mezzi di comunicazione occidentali, temporaneamente ossessionati dai dubbi scandali legati a “Wikileaks”. È già la settima volta che i dirigenti dei due paesi si incontrano quest’anno, e certamente questo significa qualcosa.

Ad oggi non ci sono stati molti investimenti cinesi nel mercato russo e quelli che si sono verificati, avevano forma prevalente di prestiti. Il valore degli investimenti diretti e di portafoglio in progetti concreti rimangono insignificanti, così come il livello di investimento della Russia in Cina: la situazione è destinata però a cambiare. Alcune società russe sono già quotate alla Borsa di Hong Kong ed esiste un numero di progetti di investimento russo-cinesi per la creazione di tecnoparchi sia in Russia sia in Cina.

Lasciando cadere il dollaro

I due Primi Ministri hanno annunciato, fra l’altro, di aver raggiunto un accordo per rinunciare al dollaro nel loro commercio bilaterale utilizzando al suo posto le proprie valute. Inoltre hanno raggiunto accordi potenzialmente di vasta portata su energia, commercio e modernizzazione economica delle remote regioni del vasto spazio euroasiatico dell’Estremo Oriente russo.

Fonti cinesi hanno rivelato alla stampa russa che questa mossa rifletterebbe relazioni più strette fra Pechino e Mosca e lo scopo non sarebbe quello di sfidare il dollaro. Putin ha allegramente annunciato: «Per quanto riguarda la compensazione commerciale, abbiamo deciso di usare le nostre valute». Egli ha aggiunto che la moneta cinese yuan ha cominciato ad essere scambiata col rublo russo nel mercato interbancario cinese, mentre il renminbi, fino ad ora solo moneta domestica e non convertibile, avrà presto una parità col rublo in Russia.

Ad oggi il commercio fra i due paesi avveniva in dollari. In seguito allo scoppio della crisi finanziaria nel 2007 e l’estrema volatilità del dollaro e dell’euro, entrambe le nazioni hanno cercato nuovi modi di evitare l’uso della valuta statunitense nel commercio, tentativo potenzialmente importante per il futuro della stessa. Al fine di ottimizzare lo sviluppo e la struttura del commercio, i due governi hanno creato la Camera di Commercio russo-cinese per i macchinari e prodotti tecnologici. Il Greenwood World Trade Center a Mosca, attualmente in costruzione da una società cinese, sarà nel 2011 un centro espositivo e commerciale di prodotti cinesi in Russia e servirà da piattaforma per incrementare gli scambi non governativi tra i due paesi.

Allo stato attuale il commercio fra Russia e Cina è in rapida crescita. Nei primi 10 mesi di quest’anno, il volume del commercio bilaterale ha raggiunto circa 35 miliardi di euro, un incremento su base annua del 45%. Quest’anno si prevede che gli scambi totali supereranno i 45 miliardi, portandosi così vicini al livello precedente alla crisi finanziaria. Entrambe le parti hanno intenzione di aumentare il volume degli scambi in maniera significativa nei prossimi anni e alcuni analisti russi credono che potrebbe anche raddoppiare nel giro d’un triennio. L’esclusione del dollaro non è cosa da poco e, se seguita da altri Stati dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (il gruppo di sei paesi eurasiatici instaurato da Cina e Russia nel 2001) potrebbe indebolirne il ruolo di valuta di riserva mondiale.

Dal Trattato di Bretton Woods nel 1944 il dollaro è stato posto al centro del sistema di commercio globale e l’egemonia statunitense si è basata su due pilastri indispensabili: il dominio degli Stati Uniti come potenza militare insieme al ruolo esclusivo del dollaro come valuta di riserva mondiale. La combinazione di potenza militare e ruolo di riserva della propria valuta per tutto il commercio di petrolio, altre materie prime essenziali e prodotti finanziari, ha permesso a Washington di finanziarsi concretamente le sue guerre per il dominio globale col “denaro degli altri”.

Cooperazione energetica

Accordi interessanti sono stati siglati anche nell’ambito della cooperazione energetica bilaterale. È chiaro che i due colossi euroasiatici hanno in programma di espandere il commercio bilaterale al di fuori del dollaro in modi interessanti, includendo in maniera significativa l’energia, dove la Cina ha enormi deficit e la Russia enormi sovrappiù e non solo nel petrolio e nel gas.

Le due parti espanderanno la cooperazione nell’energia nucleare a partire dall’aiuto offerto dalla Russia alla Cina per la costruzione di centrali nucleari e di progetti congiunti russo-cinesi al fine di arricchire l’uranio in linea con le normative AIEA e produrlo in paesi terzi ed inoltre per costruire e sviluppare una rete di raffinerie petrolifere in Cina. È già in essere il primo progetto, Tianjin. Un accordo prevede l’acquisto di due reattori nucleari russi da parte della centrale nucleare cinese di Tianwan, il complesso più avanzato di energia nucleare in Cina. Così pure l’esportazione del carbone dalla Russia alla Cina dovrebbe superare i 12 milioni di tonnellate nel 2010, ed è destinata ad aumentare.

Le compagnie petrolifere cinesi forniranno anche gli investimenti necessari per aggiornare i progetti per l’esplorazione e lo sviluppo dei giacimenti d’idrocarburi e la raffinazione del petrolio, in joint venture con società statali e private russe. In aggiunta, un gasdotto russo-cinese diventerà operativo a fine anno. Un punto importante ancora da sistemare è l’ammontare del prezzo del gas russo alla Cina: l’accordo è previsto nei prossimi mesi. La Russia chiede un prezzo per la fornitura di gas Gazprom che sia uguale a quello per i clienti europei, mentre Pechino richiede uno sconto.

I maggiori progetti di sviluppo industriale

Ci saranno intensi e reciproci investimenti industriali nelle remote regioni lungo i 4200 km di frontiera in comune, in particolare fra la Siberia e l’Estremo Oriente russi ed il Dungbei cinese, dove negli anni ’50 e ’60, prima dell’incrinarsi delle relazioni fra Unione Sovietica e Cina, l’URSS aveva costruito centinaia di impianti industriali leggeri e pesanti. Quest’ultimi sono stati modernizzati e rimpiti di nuove tecnologie cinesi o d’importazione, ma le solida fondamenta industriali d’epoca sovietica sono ancora là.

Questo – sostengono alcuni analisti russi – conferirà alla cooperazione regionale un livello tecnologico più elevato, soprattutto fra i territori di Chabarovsk e Primor’e, le regioni di Čita e Irkutsk, la Transbaikalia, tutta la Siberia, l’Heilongjiang ed altre province cinesi.

Nel 2009 Cina e Russia firmavano un programma con scadenza 2018 per lo sviluppo congiunto di Siberia, Estremo Oriente russo, e province nord orientali della Cina, attraverso un chiaro piano d’azione che comprendeva dozzine di progetti di cooperazione tra le specifiche regioni per sviluppare 158 strutture nelle aree di confine, nel settore del legno, chimica, infrastrutture stradali e sociali, agricoltura e diversi progetti di esportazione di energia.

Il viaggio di Wen segue la visita di tre giorni del Presidente Medvedev in Cina a settembre, durante la quale assieme al presidente Hu Jintao ha lanciato il da tempo discusso gasdotto trans-frontaliero da Skovorodino, nella parte orientale della Siberia, a Daqing, nel nord est della Cina. Entro la fine del 2010 il petrolio russo inizierà a fluire verso la Cina al ritmo di 300.000 barili al giorno per i prossimi vent’anni, grazie ad un accordo di tipo “credito in cambio di petrolio” da 20 miliardi di euro, stipulato lo scorso anno.

La Russia sta cercando di espandersi all’interno del crescente mercato energetico asiatico e in particolar modo in quello cinese, e Pechino vuole migliorare il suo approvvigionamento energetico diversificando rotte e fonti. Il gasdotto raddoppierà l’esportazione di petrolio russo in Cina, oggi trasportato principalmente tramite una lenta e costosa rotta ferroviaria, e farà della Russia uno dei suoi primi tre fornitori di greggio alla Cina, assieme a Arabia Saudita e Angola; un importante realizzo geopolitico per entrambi.

Il premier cinese Wen durante una conferenza stampa a San Pietroburgo ha affermato che la partnership fra Pechino e Mosca ha raggiunto «livelli di cooperazione senza precedenti» e ha promesso che i paesi «non diventeranno mai nemici». È dalla rottura sino-sovietica durante la Guerra Fredda che la geopolitica di Washington cerca di creare una profonda spaccatura tra i due paesi per rafforzare la sua influenza sul vasto dominio eurasiatico.

Come ho affermato in precedenza, l’unica potenza del pianeta che in teoria potrebbe ancora offrire un deterrente nucleare credibile a Washington è la Russia, per quanti problemi economici possa avere. La capacità militare cinese è ancora distante anni da quella russa, ed è principalmente difensiva. Sembra essere la Cina l’unica potenza economica in grado di rappresentare una sfida per il declinante gigante statunitense. La complementarità fra i due sembra essere stata pienamente compresa. Forse le prossime rivelazioni di Wikileaks “scopriranno” dettagli imbarazzanti su questa cooperazione; dettagli convienti per l’agenda geopolitica di Washington. Per il momento, però, la crescente cooperazione economica sino-russa rappresenta il peggior incubo geopolitico di Washington in un momento in cui la sua influenza globale è chiaramente in declino.

(Traduzione di Eleonora Ambrosi)


* F. William Engdahl, economista e co-direttore di “Global Research”, fa parte del Comitato Scientifico di “Eurasia”.

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In Memoriam - Dernière vision de Jean Parvulesco

In Memoriam
Dernière vision de Jean Parvulesco
 
par Nicolas Bonnal
 

J’ai pu le revoir peu avant sa disparition, avec ma femme Tatiana, que je voulais lui présenter. Je joins ici nos photos communes, les seules que nous n’ayons jamais faites ensemble d’ailleurs. Il nous a reçu dans son légendaire, bel et discret appartement du boulevard Suchet, situé au bout du monde parisien, tout près de cet énigmatique Ranelagh dont il parlait si bien. D’habitude je l’écoutais conspirer planétairement à la Rotonde, tout près de cette Muette où jadis chassaient nos rois. Il nous a offert une tarte aux figues, fruit symbolique s’il en fût, une bonne bouteille de vin blanc qui siège en bonne place dans nos mémoires maintenant. Nous avons aussi absorbé quelques citrons et même une bonne eau minérale gazeuse. Il faisait beau dans ce bout du monde parisien, et nous avons eu bien du mal à le quitter.

Il s’est montré très affable, sensible, amical, évoquant un ou deux amis évanouis, l’orthodoxie, l’avenir de l’Europe, qui dépend tellement de Poutine. Il m’a épargné tous les messages gnostiques et géopolitiques qui l’ont rendu célèbre dans le monde entier auprès d’une clique d’initiés nippons, chiliens ou italiens, et nous sommes restés assez silencieux. Je lui ai confirmé que dans la biographie remarquable d’Antoine de Baecque consacrée à Godard, il figure en bonne place, comme cinéphile roumain décalé et inspirateur du grand passage de Melville. Jean Parvulesco, prophète du nihilisme contemporain et de la fin de la guerre des sexes, remportée par les femmes, celles des Vuitton, du portable et des pensions élémentaires.

***

Malade depuis des années, avec une maladie qui frappe au choix les yeux ou les jambes - lui aura souffert des jambes comme le roi pêcheur dont il est comme l’émanation -, Jean Parvulesco garde son aura de chercheur et d’écrivain des énigmes. Jusqu’au bout il reste ce personnage de fiction génialement mis en scène par Godard, un homme à facettes et à placards secrets. Un homme de l’être, au sens heideggérien, un personnage de roman qui joue le rôle d’un écrivain métaphysicien et comploteur devant les ténèbres béantes du parisianisme agonisant. Ses derniers livres sont d’ailleurs remarquablement denses et bien écrits, et enfin convenablement présentés et corrigés par son éditeur, le montrent plus sensible que jamais à la conspiration des paysages notamment parisiens, à la psychogéographie initiatique parisienne.

Il a toujours espéré. Quelque chose. Mais après moi, il a compris qu’il n’y a pas de retour, que les ténèbres, les qlipoths ou écorces mortes de la kabbale - les enveloppes, les pods de la science-fiction cauchemardesques ou de la technologie de la communication - sont passées. Nous traversons le désert de la post-apocalypse, cela va prendre encore du temps, et bouffer notre espace. Paris désert gagné par la conspiration des atroces maîtres carrés ? Du reste son épouse devra quitter l’appartement qu’il devait à Eric Rohmer, son ami de toujours décédé peu avant. Il nous faudra veiller sur elle. Paris nié par ses prix, effacé par nos maîtres, privé de pauvres, privé d’artistes, privé de présences réelles. Et soumis cette fois à la domination sans partage du Capital et de son enfant le néant.

***

J’ai fini par l’aimer comme un très bon ami ou comme mon oncle chartreux, un peu aussi à la manière de Serge de Beketch. Au-delà des conspirations des noces polaires, des noces rouges, des états galactiques et de l’Ecosse subversive, il y a un être humain, un confident, un presque père. C’est comme cela aussi que l’on devient chrétien, n’est-ce pas ?

***

Nous avons descendu le splendide escalier de son immeuble art-déco, qui évoque notre dernière grande époque, ce premier tiers du vingtième siècle oublié maintenant. Nous sommes repartis dans la nuit d’octobre, avons mis un temps infini à quitter son quartier, ce seizième du bout du monde, si proche d’ailleurs de Radio Courtoisie, pays où l’on n’arrive jamais, d’où l’on ne repart pas plus. Peu de temps après j’ai commencé mon roman comique et ésotérique, le premier en dix ans, intitulé les Maîtres carrés, que l’on pourra lire en ligne sur le site de Serge de Beketch, la France-courtoise.info. Il y tient le rôle héroïque et décalé de l’initiateur et du conspirateur qu’il est resté depuis qu’il est trépassé, au sens littéral et donc initiatique du terme. Jean, nous pensons, donc nous vous suivons.

Laurent Schang: De Gaulle, troisième César

De Gaulle, troisième César

par Laurent SCHANG

«La réalité historique est que le temps travaille pour un autre homme, l'homme dune seule idée, celui qui se fout que la zone libre soit occupée ou non. Il n'aime pas les Français, il les trouve moyens, il n'aime que la France dont il a une certaine idée, une idée terminale qui ne s'embarrasse pas des péripéties.»
Pascal Jardin, La guerre à neuf ans.

charles-de-gaulle.jpgDominique de Roux s'était fait une certaine idée de de Gaulle comme de Gaulle (première phrase de ses Mé­moi­res) s'était toujours fait une certaine idée de la France. On était en 1967, la subversion ne s'affichait pas encore au grand jour, mais déjà l'on sentait sourdre la révolte sou­terraine, la faille entre les générations aller s'élar­gis­sant. L'Occident à deux têtes (libéral-capitaliste à l'Ouest, marxiste-léniniste à l'Est) paissait paisiblement, inconscient d'être bientôt débordé sur sa gauche par ses éléments bour­geois les plus nihilistes et, on ne s'en apercevra que plus tard, les plus réactionnaires. Dominique de Roux lui aussi cherchait l'alternative. La littérature jusqu'ici n'avait été qu'un appui-feu dans la lutte idéologique. Qu'à cela ne tienne, de Roux inventerait la littérature d'assaut, porteuse de sa propre justification révolutionnaire, la dé-poétisation du style en une mécanique dialectique offensive. Le sens plus que le plaisir des sens, la parole vivante plutôt que la lettre morte. De Roux, qui résumait crise du politique et cri­­se de la fiction en une seule et même crise de la poli­ti­que-fiction, avait lu en de Gaulle l'homme prédestiné par qui enfin le tragique allait resurgir sur le devant de la scè­ne historique après vingt ans d'éviction. Le cheminement de de Gaulle homme d'Etat tel qu'il était retracé dans ses Mémoires, n'indiquait-il pas «l'identification tragique de l'ac­tion rêvée et du rêve en action»? (1) .

Un message révolutionnaire qui fusionne et transcende Mao et Nehru, Tito et Nasser

En 67, de Roux publie L'écriture de Charles de Gaulle. L'essai, cent cinquante pages d'un texte difficile, lorgne osten­siblement vers le scénario. A rebours du mouvement géné­ral de lassitude qui s'esquisse, de l'extrême-droite à l'extrême-gauche de l'opinion, et qui aboutira dans quelques mois à la situation d'insurrection du pays qu'on connaît, Domi­ni­que de Roux veut croire en l'avenir planétaire du gaullisme. Ni Franco ni Salazar, ni l'équivalent d'un quelconque dicta­teur sud-américain, dont les régimes se caractérisent par leur repli quasi-autistique de la scène internationale et leur allégeance au géant américain, de Gaulle apporte au mon­de un message révolutionnaire qui, loin devant ceux de Mao, Nehru, Tito et Nasser, les fusionne et les transcende.

Révolutionnaire, de Gaulle l'est une première fois lorsqu'il ré­invente dans ses Mémoires le rapport entre les mots et la réa­lité historique. Sa tension dialectique intérieure, entre des­tinée gaullienne et vocation gaulliste, son être et sa cons­cience d'être, dédouble cette réalité par l'écriture, la mé­moire, la prophétie.

La volonté de puissance du génie prédestiné en butte aux vicissitudes historiques que sa prédestination exige et dont dépend la résolution tragique de l'Histoire, modifie sa rela­tion aux mots, libérant l'écriture du style, subordination ex­térieure au sens des mots, mécanique des choses dites qui l'en­ferme et contient sa charge explosive. Le discours n'est plus reproduction esthétisante, rétrécissement du champ de vision pour finir sclérose, mais expression et incarnation de la dialectique parole vivante et langage qui le porte.

«A une histoire vivante ne sied pas la lettre morte du style, mais les pouvoirs vivants de la réalité d'une écriture de la réalité agissante dans un but quelconque». Quand de Gaul­le parle, déjà il agit et fait agir l'Histoire. L'écriture devient ac­te politique. Ses mots charrient et ordonnent l'histoire en marche.

Point de théologie gaulliste mais la foi individuelle d'un homme seul

Qu'est-ce que le gaullisme dans ces conditions ? Réponse de Do­minique de Roux: «Le dialogue profond que de Gaulle pour­suit sans trêve avec l'histoire se nomme gaullisme, dès lors que d'autres veulent en faire leur propre destin.» Point de théologie gaulliste mais la foi individuelle d'un homme seul qui considère la France, non les Français, comme la finalité de son action. La rencontre de la France en tant qu'idée d'une nation métaphysique et transcendante, et de la parole vive de de Gaulle, intelligence de la grandeur d'âme chez Chateaubriand, de la vocation pour Malraux, doit déboucher sur l'idéal de la Pax Franca.

La dialectique gaulliste de l'histoire rejaillit sur la stratégie gaulliste de lutte contre tous les impérialismes, au nom de la prédestination intérieure qui fait de l'assomption de la France l'avènement de celle de l'Europe et au-delà de l'or­dre universel: la Pax Franca. «De Gaulle ne sert ni l'Eglise avec Bossuet, ni la Contre-Révolution avec Maurras, mais la monarchie universelle, cette monarchie temporelle, visible et invisible, qu'on appelle Empire. Dante exaltait dans son De Monarchia cette principauté unique s'étendant, avec le temps, avec les temps, sur toutes les personnes. Seul l'Em­pire universel une fois établi il y a la Paix universelle.»

Ainsi posée, la géopolitique gaulliste s'affirme pour ce qu'elle est, une géopolitique de la fin (l'Empire de la Fin énoncé par Moeller van den Bruck), dépassement de la géopolitique occidentale classique, de Haushofer, Mackinder, contournement de la structure ternaire Europe-USA-URSS.

Pour être efficace, le projet gaulliste aura à cœur de transformer la géopolitique terrienne en géopolitique transcen­dan­tale, «tâche politico-stratégique suprême de la France, plaque tournante, axe immobile et l'Empire du Milieu d'une unité géopolitique au-delà des frontières actuelles de notre déclin, unité dont les dimensions seraient à l'échelle de l'Occident total, dépassant et surpassant la division du mon­de blanc entre les Etats-Unis, l'Europe et l'Union sovié­tique.» Car la France est, selon le statut ontologique que de Gaulle lui fixe, accomplissement et mystère, l'incarna­tion vivante de la vérité, la vérité de l'histoire dans sa mar­che permanente.

La nouvelle révolution française menée par de Gaulle doit conduire à la révolution mondiale

Une révolution d'ordre spirituel autant que temporel ne se conçoit pas sans l'adhésion unilatérale du corps national. Toute révolution qui n'est que de classe ne peut concerner la totalité nationale. Toute révolution nationale doit penser à l'œcuménité sociale. La révolution, l'action révolutionnai­re totale enracinée dans une nation donnée, à l'intérieur d'une conjecture donnée, n'existe que si l'ensemble des struc­tures sociales de la nation s'implique. Là où le so­cia­lisme oublie le national, le nationalisme occulte le social sans lequel il n'y a pas de révolution nationale. De Gaulle annule cette dialectique par l'«idée capétienne», reprise à Michelet et Péguy, de nation vivante dans la société vivan­te. Le principe participatif doit accompagner le mouve­ment de libération des masses par la promotion historico-sociale du prolétariat. Ce faisant la révolution gaulliste, dans l'idée que s'en fait Dominique de Roux, supprime la théorie formulée par Spengler de guerre raciale destruc­trice de l'Occident. Car la nouvelle révolution française me­née par de Gaulle ne peut que conduire à la révolution mon­diale.

De Gaulle super-Mao

L'époque, estime Dominique de Roux, réclame un nouvel ap­pel du 18 juin, à résonance mondiale, anti-impérialiste, démocratique et internationaliste à destination de l'Asie, de l'Afrique et de l'Amérique latine, dont la précédente déclaration de Brazzaville deviendrait, au regard de la postérité, l'annonce. Un tel acte placerait de Gaulle dans la position d'un super-Mao —ambition partagée pour lui par Malraux— seul en mesure d'ébranler la coalition nihiliste des impérialismes américano-soviétiques, matérialistes ab­solus sous leur apparence d'idéalisme. La grande mission pacificatrice historique de dimension universelle assignée à la France passe, en prévision d'une conflagration thermo­nuc­léaire mondiale alors imminente —la troisième guerre mon­diale—, par le lancement préventif d'une guerre révo­lutionnaire mondiale pour la Paix, vaste contre-stratégie visible et invisible, subversion pacifique qui neutraliserait ce risque par l'agitation révolutionnaire, la diplomatie sou­ter­raine, le chantage idéologique. L'objectif, d'envergure planétaire, réclame pour sa réalisation effective la mise en œuvre d'une vaste politique subversive de coalitions et de renversements d'alliances consistant à bloquer, dans une dou­ble logique de containment, la progression idéologico-territoriale des empires américain et soviétique sur les cinq continents.

Le plan d'ensemble du gaullisme géopolitique s'articule en cinq zones stratégiques plus une d'appui et de manœuvre, en place ou à créer:
-renforcement du bloc franco-allemand, selon la fidélité historique au devenir éternel de l'Europe;
-dégager le Sud-Est européen de l'empire soviétique, afin de stopper l'action de l'URSS sur son propre axe de clivage et l'obliger à composer pour se mouvoir stratégiquement;
-dégager le Sud-Est asiatique de l'empire américain, afin de stopper l'action des USA sur leur propre axe de clivage et les obliger à composer pour se mouvoir stratégiquement;
-faire jouer à l'Amérique latine le rôle de lien entre la conscience occidentale et le Tiers-Monde par l'action des for­ces révolutionnaires sur le terrain;
-empêcher que le Canada ne devienne une base impériale extérieure de rechange des USA;
-soutenir secrètement l'Inde contre la Chine pour des rai­sons d'ordre spirituel théurgique, la Chine représentant la matérialisation de l'esprit quand l'Inde incarne depuis tou­jours le primat du spirituel sur la matière.

La consolidation du front idéologique mondial lancé par le gaullisme requérant que soient attisés par ses agents le ma­ximum de foyers, il apparaît nécessaire dans un premier temps que partout où se trouvent les zones de con­fron­ta­tion idéologique et d'oppression des minorités, l'on sou­tien­ne la révolution au nom du troisième pôle gaulliste. Six zo­nes de friction retiennent l'attention de Dominique de Roux, en raison de leur idéal nationaliste-révolutionnaire con­forme aux aspirations gaullistes et pour leur situation géostratégique de déstabilisation des blocs (de Roux ne le sait pas encore, mais viendront bientôt s'ajouter à sa liste le Portugal et les possessions lusitaniennes d'Afrique: Ango­la, Guinée-Bissau, Mozambique):
«1) le combat pour la libération nationale et sociale de la Pa­lestine, clef de voûte de la paix au Moyen-Orient et de la présence pacifique de la France en Méditerranée.
2) la mise en marche immédiate de la Conférence Pan-eu­ro­péenne pour la Sécurité et la Coopération Continentale.
3) le combat pour la libération nationale et sociale de l'Ir­lande catholique.
4) la relance du soutien international aux combattants du Québec libre pour la sauvegarde de son être national pro­pre.
5) appui inconditionnel au Bangladesh.»
6) insistance sur la tâche prioritaire des enclaves de langue française comme relais de la subversion pacifique mondia­le.

Il conviendra donc d'intensifier les contacts avec toutes les forces révolutionnaires en présence sur le terrain. Ainsi seu­lement la vocation gaullienne accomplie rejoindra sa des­tinée, celle du libérateur contre les internationales exis­tantes —capitaliste et communiste, ouvertement impé­rialistes—, qui soutient et permet toutes les luttes de li­bération nationale et sociale, toutes les révolutions iden­titaires et économiques. «Aujourd'hui, la tâche révolution­naire d'avant-garde exige effectivement, la création de deux, trois quatre Vietnam gaullistes dans le monde.» (Ma­gazine Littéraire n°54, juillet 1971) Sa force contre les a priori idéologique, apporter une solution qui s'inspire de l'histoire, des traditions nationales de chaque pays, de sa spécificité sociale: socialisme arabe, troisième voie péru­vienne, participation gaulliste.

L'après-gaullisme représente l'échéance d'une ère

De Gaulle a mené un combat entre la vérité historique ulti­me et les circonstances historiques de cette vérité.

A l'époque, Jean-Jacques Servan-Schreiber a cherché à per­suader les Français que le républicanisme gaullien était un régime à peine plus propre que la Grèce des colonels. Puis vint mai 68. «Aujourd'hui, ce même grand capital, qui pour mater les syndicats permit (...) Mussolini (...), qui inventa le nazisme pour la mobilisation maoïste des ouvriers alle­mands en vue de l'expansion économique, qui donna sa pe­tite chance à Franco l'homme des banques anglaises, nous invente morceaux par morceaux la carrière française de Jean-Jacques Servan-Schreiber et les destinées euro­péen­nes du schreibérisme.» La vérité fut que de Gaulle, na­tionaliste et révolutionnaire, annula dialectiquement et re­jeta dos à dos Hitler et Staline. L'après-gaullisme repré­sente l'échéance d'une ère. L'avenir de l'Occident ne pourra plus se définir que par rapport à l'action personnelle de de Gaulle. Si le gaullisme est le fondement de l'histoire nou­velle, l'après-gaullisme est la période à partir de laquelle se confronteront ceux qui poursuivent son rêve et ses oppo­sants, ceux qui refusent sa vision. Pas d'après-gaullisme donc, seulement le face à face gaullistes contre anti-gaul­listes. «Il n'y a de gaullisme qu'en de Gaulle, de Gaulle lui-mê­me devient l'idée dans l'histoire vivante ou même au-de­là de l'histoire.» Pour préserver l'authenticité de la geste gaul­liste, il faut conserver le vocabulaire de l'efficacité gaul­lienne. «Qu'importe alors la défaite formelle du gaul­lisme en France et dans le monde, écrit Dominique de Roux dans Ouverture de la chasse en juillet 1968, si, à sa fin, le gaullisme a fini par l'emporter au nom de sa propre vérité in­térieure, à la fois sur l'histoire dans sa marche dialectique et sur la réalité même de l'histoire ?»

Dominique de Roux victime de sa vision ?

Trente ans après, quel crédit accorder aux spéculations géo-poétiques du barde impérial de Roux ? Lui-même re­con­naissait interpréter la pensée gaullienne, en révéler le sens occulte. Des réserves d'usage, vite balayées par les mi­rages d'un esprit d'abord littéraire (littérature d'abord), sujet aux divagations les plus intempestives. Exemple, la France, «pôle transhistorique du milieu» «dont Charles de Gaulle ne parle jamais, mais que son action et son écriture sous-entendent toujours.»

Quand il parle de la centrale d'action internationale gaul­liste, qu'il évoque en préambule du premier numéro d'une collection avortée qui devait s'intituler Internationale gaul­liste sa contribution à la propagation du message gaulliste, c'est un souhait ardent que de Roux émet avant d'être une réalité. De Roux victime de sa vision ?

Hier figure du gauchisme militaire, aujourd'hui intellectuel souverainiste, Régis Debray dans A demain de Gaulle fait le mea culpa de sa génération, la génération 68, coupable selon lui de n'avoir pas su estimer la puissance visionnaire du grand homme, dernier mythe politique qu'ait connu la France.

Au regard de l'Histoire dont il tenta sa vie durant de percer les arcanes, Dominique de Roux s'est peut-être moins four­voyé sur l'essentiel, qui est l'anti-destin, que la plupart des intellectuels de son temps. «Par l'acte plus encore que par la doctrine, Charles de Gaulle a amorcé une Révolution Mon­diale. Celle-ci, connue par lui à l'échelle du monde, ap­pelle ontologiquement une réponse mondiale.»

Dans Les chênes qu'on abat, Malraux fait dire à de Gaulle: «J'ai tenté de dresser la France contre la fin d'un monde. Ai-je échoué ? D'autres verront plus tard.»

De Gaulle, troisième homme, troisième César.

Laurent SCHANG

?Existio una Konservative Revolution en Espana?

¿EXISTIÓ UNA KONSERVATIVE REVOLUTION EN ESPAÑA?
 
Ortega y Gasset y las generaciones de combate
Sebastian J. Lorenz
 
Si en algo están de acuerdo los cronistas que han escrito sobre la Konservative Revolution –como Mohler, Locchi, Steuckers, Pauwels o Romualdi, entre otros- es que aquel movimiento espiritual e intelectual manifestado a través de las ideas-imágenes (Leitbild) y expresado por el oxímoron “revolución - conservación” (fórmula poco afortunada pero con arraigo) no fue exclusivamente un fenómeno alemán, sino que también registrará diversos ritmos e impulsos –siempre de forma individual, nunca organizada- por todo el viejo continente europeo.
Así que, a poco que estemos dispuestos a escarbar en el frágil tejido europeo de entreguerras, siempre encontraremos algún nuevo autor que encaja con los parámetros generales que han sido descritos para los “revolucionario conservadores”: nunca llegará a ser como la lista de integrantes del movimiento alemán estudiada por Mohler, pero esta labor de investigación nos trasladaría a países como Francia, Italia, Bélgica, Holanda, Suecia, Rumanía e, incluso, Rusia.
En su famoso “manual” sobre la Konservative Revolution en Alemania (inédito en español), Armin Mohler avala la tesis según la cual la “revolución conservadora” no habría sido un movimiento exclusivamente alemán, sino un fenómeno político que abarca a toda Europa. En un breve recorrido por los países europeos apunta varios nombres (Dostoyevski, Sorel, Barrés, Pareto, Lawrence, por citar algunos de ellos). ¿Y en España? Al filósofo, político y escritor Miguel de Unamuno y, una generación después, a Ortega y Gasset. Unamuno se movía en un terreno ideológico que fue compartido, por ejemplo, por otros intelectuales de la época como Ganivet, Baroja, Azorín o Maeztu: el rechazo espiritual (irracionalista) de las corrientes materialistas decimonónicas, esto es, el nacionalismo centralizador e imperialista, el socialismo deshumanizante, la democracia, el liberalismo, el progresismo, el cientifismo y la industrialización.
Transversalizando las ideas y las imágenes de este grupo de pensadores, con la recepción global –pero nunca homogénea ni uniforme- de la filosofía nietzscheana, comprobamos cómo triunfa en todos ellos el recurso a una palangenesis de renacimiento o “regeneración española y europea” que tenía como precursor a Donoso Cortés y, posteriormente a esta generación, a Ortega y Gasset como pensador y propagador. Y precisamente por él comenzaremos este estudio, después de unas consideraciones generales para situacionar el contexto histórico y político del fenómeno “revolucionario-conservador” y “euro-regeneracionista” español.
Si hubo algo parecido en España a la Konservative Revolution alemana, este movimiento/pensamiento de lo ideo-imaginario” –por el valor otorgado a las imágenes- debió surgir necesariamente a partir de la crisis generacional de 1898. Pensemos que 1900 es el año de la muerte de Nietzsche y unos diez años antes de esta fecha es el momento que puede tomarse como punto de partida en la recepción de su pensamiento por una corriente filosófica espiritualista y culturalista que transversaliza toda Europa (también en 1900 se traduce el primer libro de Nietzsche al español). En palabras de Julián Marías, el mejor conocedor de la obra de Ortega, “una época intelectual de espléndida y admirable porosidad”.
No hay que esperar, pues, a 1918 –fin del primer acto de la guerra civil europea- como hace Armin Mohler, para encajarla en la catástrofe weimariana, ni tampoco a la implementación nietzscheana de Heidegger. Volviendo a España, los representantes más interesantes de esta corriente, como ya se podido intuir, son Unamuno, Baroja, y Maeztu, con la continuidad otorgada por Ortega y la radicalidad estética de Giménez Caballero.
El libro de Marcigiliano I Figli di Don Chisciotte realiza un aceptable estudio sobre las referencias ideológicas de la Revolución Conservadora española: de Ortega y Gasset, Menéndez Pelayo, Unamuno, junto a otros ideólogos más politizados como Giménez Caballero o Ledesma Ramos, o los historiadores Menéndez Pidal, Américo Castro y Sánchez Albornoz. En cualquier caso, los únicos estudios sobre la influencia europea en estos autores españoles apuntan, especialmente, al protagonismo, por ejemplo, de Maurras y Barrès, más que a los “revolucionario-conservadores” alemanes.
Y, desde luego, este “singular” conservadurismo revolucionario ibérico tendrá, como es lógico, unas notas definitorias que lo separan del resto de fenómenos europeos: la ausencia del sentimiento de catástrofe tras la primera guerra mundial (sustituido por el desastre de 1898 por la pérdida del imperio colonial tras la guerra contra los norteamericanos), la trascendencia otorgada al catolicismo tradicionalista, si bien en forma de agonismo como Unamuno o de agnosticismo como Ortega (frente al luteranismo, el paganismo o el retorno a la religión indoeuropea, incluso frente a ciertas desviaciones del misticismo y del esoterismo, tan extendido en centroeuropa) y, finalmente, el pan-hispanismo iberoamericano (junto al europeismo como retorno español al continente).
Resulta, por otra parte, muy significativo que Alain de Benoist , líder intelectual de la Nouvelle Droite francesa y asiduo visitante de los autores y lugares comunes de la Konservative Revolution alemana (efectuando una necesaria revisión, reinterpretación y actualización), no haya prestado especial atención al pensamiento revolucionario-conservador español , excepto –eso sí, en una posición relevante- a Ortega y Gasset, del que publicó la versión francesa de La rebelión de las masas, a Bosch Gimpera por sus estudios sobre El problema indoeuropeo, y a Donoso Cortés (Ensayo sobre el catolicismo, el liberalismo y el socialismo), seguramente por su crítica del liberalismo y la modernidad desde una contrarrevolucionaria perspectiva teológico-política y su interpretación europea efectuada por Carl Schmitt, cuya obra fue introducida en España por Eugenio D´Ors.
En opinión de Carlos Martínez-Cava, nuestra “generación del 98” fue una avanzada en el tiempo a lo que en la Europa de entreguerras, en el período 1919-1933, significaron las conocidas "Revoluciones Conservadoras" europeas en sus distintas y variadas manifestaciones culturales. Se pueden encontrar puntos en común, incluso de origen. Tanto en España, como en la “Revolución Conservadora” alemana, se parte de un desastre militar y de una situación sociopolítica interna caótica. Y en ambos casos, los regímenes y conflictos posteriores llegaron incluso a dar con la cárcel o muerte de sus componentes. Recordemos en España a Maeztu o a Machado, y en Alemania a Niekisch o Jünger.
Martínez-Cava formula un análisis comparativo entre la filosofía de la “generación del 98” y la RC alemana, afirmando que, del mismo modo que dentro de ambas corrientes no existió la homogeneidad, al existir diversas tendencias, la comparación entre ambas tampoco es unívoca, pero sí permite establecer puntos de conexión en común que las une para el proyecto colectivo de la resurrección de Europa como potencia y rectora de la civilización. A saber:
En primer lugar, el eterno retorno y el mito. En ambas corrientes se percibe la historia desde una perspectiva cíclica (Evola, Spengler) o esférica (Nietzsche, Jünger, Mohler), por oposición a la concepción lineal común propia del cristianismo y el liberalismo.
En segundo lugar, el nihilismo y la regeneración. Se tiene la consideración de vivir en un interregno, de que el viejo orden se ha hundido con todos sus caducos valores, pero los principios del nuevo todavía no son visibles y se hace necesaria una elaboración doctrinal que los ponga de relieve.
En tercer lugar, la creencia en el individuo, si bien como parte indisoluble de una comunidad popular y no en el sentido igualitario de la revolución francesa, que lleva a propugnar un sobrehumanismo aristocrático y una concepción jerárquica de la sociedad humana e, incluso, de las civilizaciones.
En cuarto lugar, la renovación religiosa. La “Revolución Conservadora” alemana tuvo un carácter marcadamente pagano (espiritualismo contra el igualitarismo cristiano). Esta religiosidad no fue ajena a España, como pueden ser los casos de Azorín y Baroja. Y de signo diferente, agónicamente católica, en los casos de Unamuno y Maeztu, o agnóstica en el de Ortega. En cualquier caso, representaban una “salida de la religión”, es decir, la incapacidad de las confesiones para estructurar la sociedad.
En quinto lugar, la lucha contra el decadente espíritu burgués. Las adversas condiciones bélicas, el frío mercantilismo y la gran corrupción administrativa provocaron, como reacción, el nacimiento de un espíritu aguerrido y combativo para barrer las caducas morales.
En sexto lugar, el comunitarismo orgánico. Se buscaba una referencia en la historia popular para dar vida a nuevas formas de convivencia. Esa comunidad del pueblo no obedecería a principios constitucionales clásicos, ni mecanicistas, ni de competitividad, sino a leyes orgánicas naturales.
En séptimo lugar, la búsqueda de nuevas formas de Estado. Alemanes y españoles, igual que el resto de europeos, con diferencias en el tiempo, rechazaron las formas políticas al uso y propugnaron un decisionismo y el establecimiento de la soberanía económica en grandes espacios autocentrados o autárquicos como garantía de la efectiva libertad nacional.
Y en último lugar, el reencuentro con un europeísmo enraizado en las tradiciones de nuestros antepasados (los indoeuropeos), no enfrentado a los nacionalismos de los países históricos ni a las regiones étnicas, y planteado como una aspiración ideal de convivencia futura, con independencia de la forma institucional que pudiese adquirir.