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mardi, 25 mars 2008

Eurasia come destino

Eurasia come destino

Luca Leonello Rimbotti

Aleksandr Dughin, Eurasia. La rivoluzione conservatrice in Russia Quello che ci domina non è un Impero. L’America ha un esercito e un’industria molto forti: ed è tutto. Le sue multinazionali - assai più agevolmente dei suoi eserciti - occupano qua e là nazioni e intere aree. Poi, però, l’America perde sempre la pace. Contrariamente a quanto ne pensano Luttwak, il geostratega dei finanzieri, oppure Toni Negri, il parafilosofo della borghesia parassita, gli USA non sono affatto un Impero, ma la sua grottesca parodia: non un segno di interiore potenza, non un cenno di superiore civiltà, nessun grandioso disegno valoriale, che non sia l’ottusa ripetizione di una vuota parola, in cui non crede più nessuno: democrazia, solo e sempre lo stesso logoro slogan.

Il disegno politico di opporre al Nulla planetario la sostanza di un vero Impero portatore di tradizione culturale, di civiltà e di autentico potere di popolo ha i confini precisi dell’Eurasia. In quello spazio geostorico che va da Lisbona a Vladivostok - l’Europa decenni or sono indicata da Jean Thiriart - numerose intelligenze politiche europee dell’ultimo secolo hanno visto la giusta risposta agli interrogativi posti dalla moderna politica mondiale. Se proprio quest’anno si ricordano i cento anni della conferenza londinese in cui Sir Halford Mackinder gettò le prime basi della moderna geopolitica, è proprio per rammentare che fin da allora l’Eurasismo poté dirsi una via ideologica e politica prettamente europea. Si voleva la risposta del blocco di terraferma nei confronti della talassocrazia mercantilista anglo-americana, già allora ben delineata. Behemoth contro Leviathan. La schmittiana, solida e immutabile Terra, contro il liquido, infido e mutevole Mare. Oppure, per dirla con le parole antiche di Pound: contadini radicati al suolo contro usurai apolidi. L’Eurasismo è il disegno geopolitico di assicurare l’Asia centrale all’Europa, per farne un blocco in grado di reggere la contrapposizione con il mondo occidentale-atlantico.

Antica idea russa, questa. I Russi avevano - (hanno?) - come una doppia anima: temono l’Asia (specialmente l’Asia gialla), ma ne amano il mistero, gli spazi. Dostoewskij ben rappresenta quest’angoscia russa. Maksim Gorkij, ad esempio, che pure stava dalla parte dei bolscevichi, era terrorizzato dalla possibile mongolizzazione della Russia bianca. Savickij invece, uno dei primi “eurasisti”, proclamava l’Oriente come fatale terra del destino europeo. Per parte sua, Karl Haushofer - lo studioso tedesco che con Ratzel fu il vero fondatore della geopolitica - aveva un’idea ben chiara: “Europa alleata della Russia contro l’America”. Intorno a questa nuova scienza - la geopolitica - da lui energicamente divulgata, si ritrovarono in molti.

L’Eurasismo come movimento politico storico fu cosa effimera: nato nel 1921 a Sofia per iniziativa di alcuni russi fuggiti dalla rivoluzione, si diceva erede dei vecchi slavofili: sognavano una grande Russia eurasiatica avversa all’Occidente. Cristiani ortodossi, alla maniera di Spengler pensavano che l’Occidente stesse tramontando e che al suo posto dovesse sorgere la “terza Roma” moscovita. Ma già nel 1927 l’organizzazione, infiltrata dai bolscevichi, sparì dalla scena. Ma non le sue idee. Che l’Europa dovesse sottrarsi all’egemonia anglosassone e al crescente predominio americano, appoggiandosi invece alla Russia e al suo prolungamento asiatico, rimase una convinzione diffusa. Il nazional-bolscevismo fu una viva espressione di questa tendenza, soprattutto nella Germania di Weimar, ma anche nell’URSS. Furono in diversi - a cominciare da Ernst Niekitsch - a pensare a una forma di comunismo nazionale e a un asse Berlino-Mosca, per creare una nuova forma di politica europea macro-continentale. E persino Alfred Rosenberg rifletté su un blocco russo-germanico. Erano orientamenti politici, ma al di sotto si animavano forti suggestioni culturali. L’Asia centrale, il Tibet, la Mongolia: realtà mitiche e mistiche, di cui alcuni personaggi subivano uno strano fascino. Era la terra magica del “Re del Mondo”, una specie di ombelico terrestre che si diceva racchiudesse tradizioni, saperi, occulte potenze. Questo mito era alimentato da figure al limite del fantastico: Roman Ungern-Sternberg, ad esempio. Detto Ungern Khan, questo bizzarro barone baltico combatté l’Armata rossa in Asia centrale, organizzò un esercito di cosacchi, mongoli, tibetani, siberiani, puntando all’erezione di un Impero teocratico di tipo lamaista in Eurasia. Claudio Mutti riporta che egli avrebbe ereditato, come potente talismano, nientemeno che il misterioso anello con la svastica che era stato di Gengis Khan.

Ma ci furono anche eminenti studiosi che videro nell’Asia centrale il fulcro di una forza che l’Europa avrebbe fatto bene ad assicurarsi. Giuseppe Tucci, grande orientalista, promosse studi, viaggi, contatti, fondò istituti e riviste, si disse convinto che il patrimonio di conoscenze esoteriche di cui l’Asia è detentrice dovesse far parte della nostra cultura: “Io non parlo mai di Europa e di Asia, ma di Eurasia”. Ma si può ricordare anche l’etnologo e geografo svedese Sven Hedin - tra l’altro, noto ammiratore di Hitler - che vagò per tutta la vita nell’Asia centrale alla ricerca delle sue più arcane tradizioni. E sulle tracce di un Tibet lontano padre del mondo ariano si misero, in quegli stessi anni, anche studiosi e ricercatori delle SS. A tutto questo si intrecciano interi brani di quella cultura alternativa, animata dall’esoterismo tradizionalista, che può riassumersi negli studi in materia portati avanti da Guénon o da Evola. E per molti decenni fu Lev Gumilëv, storico dei popoli della steppa, a lungo perseguitato dai sovietici, a elaborare il modello eurasiatico e a rilanciarlo anche in epoca post-comunista. Ma la geopolitica, erede della “geografia sacra” e così ricca di retroterra sapienziale, è soprattutto realtà. E’ la scienza che lega economia, storia e geografia: i popoli devono seguire le vie della loro collocazione, non quelle degli interessi dettati dall’internazionalismo finanziario. La geografia è quella: immutabile nei secoli, e i bisogni dei popoli ne sono la diretta conseguenza.

Da un po’ di tempo, sotto la spinta negativa dell’espansionismo americano-atlantista, si è avuto un ritorno della concezione geopolitica e, di conseguenza, dell’Eurasismo. Nella Russia post-comunista, una forma di Eurasismo è rinata per iniziativa di Aleksandr Dughin, che nel 1992 fondò la rivista “Elementy”, recante il sottotitolo “rassegna eurasista”. E tuttavia, il suo è un Eurasismo differente da quello religioso e conservatore degli anni venti. Dughin si è rifatto alla Rivoluzione Conservatrice tedesca - di cui Karl Haushofer era stato leader in materia di geopolitica - oppure a quell’ambiente della Nuova Destra europea (De Benoist, Steuckers) che ha fatto della scelta europeista anti-americana un suo cardine: rompere con l’atlantismo filo-americano, che sta portando i popoli alla rovina. Guardare invece a est, alla Russia, e a tutto quell’enorme bacino centroasiatico, dalle cui potenzialità ancora inespresse potrebbe partire un progetto di antagonismo politico di portata mondiale.

L’Eurasia non è una trovata dell’ultima ora. Quella di guardare alla Scizia, al Caucaso o addirittura alle Indie è un’antica nostalgia europea. Oggi la geopolitica ci ricorda che i bisogni, la collocazione e la terra dei nostri popoli europei sono i medesimi di duemilacinquecento anni fa. Solo che, nel frattempo, e in nome di interessi estranei, lontani e pericolosi, la nostra identità viene per la prima volta nella storia minacciata molto da vicino. La geopolitica e l’Eurasismo servono a ricordarci che l’Europa ha in mano la possibilità di gestire uno spazio imperiale omogeneo territorialmente e culturalmente, bene in grado di fronteggiare l’imperialismo atlantista-occidentale, e che questo grande spazio aspetta solo di essere organizzato da una volontà politica. Poiché l’Europa si merita un destino europeo.

* * *

Tratto da Linea del 4 Luglio 2004.

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vendredi, 07 mars 2008

La guerre de l'Eurasie

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La guerre de l'Eurasie

La pénétration de la thalassocratie américaine dans l’« espace-noyau » eurasien

 

« La présence des troupes américaines en Géorgie n’est pas une tragédie … Si cela est possible dans les Etats d’Asie Centrale, pourquoi serait-ce impossible en Géorgie ? Chaque Etat a le droit de choisir sa propre politique dans le domaine de la sécurité. La Russie reconnaît ce droit. »  - Vladimir Poutine, Président de la Fédération Russe.

 

« Qui domine l’Europe de l’Est contrôle le Heartland ; qui domine le Heartland contrôle l’Ile Mondiale ; qui domine l’Ile Mondiale contrôle le monde. »  - H. Mackinder.

 

Au cœur du problème

 

Sir Halford Mackinder, le géographe anglais qui écrivit «Idéaux démocratiques et réalité», plaça cette devise la­pidaire à la base de son propre concept géopolitique mondial. Dans l’éternel combat entre Terre et Mer, l’a­xe central de l’histoire et de la géopolitique est le Heartland, le cœur de l’Eurasie. L’immensité herbeuse de Si­bérie Occidentale, de la toundra du Nord à la mer Caspienne, de la Volga à la Mongolie, avec l’Oural comme é­pine dorsale, est le cœur palpitant de la tellurocratie, de la puissance terrestre eurasienne.

 

Notre «Destin manifeste».

 

Même dans notre monde moderne dominé par les plus récentes technologies, l’ESPACE et la SITUATION repré­sen­tent une puissante protection contre toute tentative d’agression contre l’épine dorsale géopolitique ter­res­tre de l’Eurasie, qui, depuis des siècles, coïncide presque parfaitement avec la puissance terrestre par ex­cel­lence : la Russie. Que ce soit la Russie tsariste ou l’Union Soviétique de Lénine et Staline, l’empire terrestre eu­rasien a suivi ses propres directions géopolitiques d’expansion, s’opposant à la puissance croissante des puis­sances maritimes : l’empire britannique au 19ième siècle, les Etats-Unis durant le dernier siècle.

 

Le nœud afghan

 

La défaite soviétique en Afghanistan fut l’une des causes principales de l’implosion et de la désintégration de l’em­pire terrestre moscovite. C’est un exemple presque unique dans l’histoire d’une auto-dissolution non cau­sée par une invasion extérieure, du moins pas au sens classique de ce terme. La CEI [Communauté des Etats In­dé­pendants], née de ses cendres, n’est qu’un pâle souvenir de l’empire disparu.  En empêchant la puissance ter­restre d’avoir un libre accès aux océans, en plus des mers intérieures, et en tenant étroitement en main les îles et les péninsules de l’Eurasie, la thalassocratie américaine a remporté la victoire sur la puissance conti­nen­ta­le, suivant les enseignements géopolitiques de Mackinder et —déjà avant lui— ceux de l’Amiral américain A. T. Mahan, clairement définis dans son livre «The Influence of Sea Power upon History» [L’influence de la puis­sance maritime sur l’Histoire]. De même, la stratégie de l'étouffement des puissances continentales de grandes dimensions se poursuivra, par le biais de la domination des espaces sidéraux et l'utilisation des «vaisseaux interstellaires»…

 

Le "rimland" contre le "heartland" : une attaque concentrique

 

Si l'on la regarde à la lumière de la doctrine géopolitique et à celle du choc contemporain —et bien évident— entre la Mer et la Terre, entre l’Amérique et l’Eurasie, la stratégie de Washington est claire comme de l’eau de roche. Les provocations anti-chinoises au sud de la mer de Chine, visant à tester la résistance et la réac­ti­vi­té de Pékin, vont main dans la main avec les pressions sur la Corée du Nord, qui est un bastion de la résistance à la pénétration américaine sur le flanc Est, mais qui est aussi un Etat voisin à la fois de la Chine et de la Fé­dé­ra­tion Russe, proche de Vladivostok, la « porte orientale » de l’empire russe.

 

Le véritable "axe du mal"

 

Comme le Monde diplomatique l’a rétorqué à juste titre à Bush, le véritable «Axe du Mal» est le Fonds Mo­né­taire International + la Banque Mondiale + l’Organisation Mondiale du Commerce, les Etats-Unis étant leur pro­jet mondial et leurs bras militaire. Le contrôle des sources d’énergies de l’Eurasie, la « guerre contre le ter­ro­ris­me islamique » et l’invasion de l’Afghanistan sont trois aspects complémentaires du même plan d’hégémonie planétaire. Et l’espace russo-sibérien est la cible stratégique de cette attaque. L’alliance entre la Turquie et Is­raël n’est que le début de l’agression contre le Moyen-Orient, le monde arabe et islamique. Et la réactivation de la guerre russo-tchétchène —après les mystérieux attentats en Russie— n’a fait que favoriser l’arrivée au pou­voir de Poutine sur la vague du nationalisme russe et panslaviste. A présent, les soldats américains sont déjà en Géorgie …

 

L’ennemi sur le seuil de la porte

 

Ironie de l’histoire, ce fut justement Staline, le génial créateur de la puissance russe moderne, qui fut à l’o­ri­gi­ne de l’actuel danger pour l’intégrité et pour la survie même de la Russie. C’est la revanche géorgienne pour l’Abkhazie, qui ouvre à l’OTAN les portes du Caucase russe. Ironie du sort, les Etats-Unis ont demandé et ob­te­nu de leurs futures victimes —la Russie et  la Chine en premier lieu— leur consentement pour une guerre de con­quête contre l’Eurasie. Si le Kremlin avait pensé exploiter son appui à l’invasion américaine en Afgha­nistan pour avoir les mains libres dans une guerre intérieure qu’il a commencée et ne pouvait pas gagner —main­tenant il a gagné sa juste récompense.

 

La Russie : la dernière chance

 

La Russie secouera-t-elle son immobilisme hypnotique face au plan de l'anaconda américain : l’étouffement du con­tinent eurasien? Le peuple russe se libérera-t-il des chaînes imposées depuis plus d’une décennie par le mon­dialisme triomphant? Les élites russes les plus conscientes du rôle géopolitique de leur pays et du continent eu­rasien reprendront-elles en main le destin de la Russie et dirigeront-elles la contre-offensive à partir des der­niers bastions libres? De la réponse à ces trois questions dépendra l’avenir non seulement de la Russie, mais aussi de l’Europe, de la Chine, du monde arabe et islamique, de l’Afrique et de l’Amérique latine —le destin et la survie de l’Eurasie et du monde entier. « Qui domine l’Ile Mondiale contrôle le monde » … 

 

(Résumé par "Archivio Eurasia"; traduction de F. Destrebecq)

 

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mercredi, 05 mars 2008

1903: Bagdadbahn

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La première locomotive vient d'arriver à Bagdad!

05 mars 1903: La société allemande « Bagdadbahn » signe un accord avec le gouverment turc pour construire une ligne de chemin de fer entre Istanbul et Bagdad, via Konya (centre religieux des derviches tourneurs de Mevlânâ) en Anatolie et Mossoul dans le Kurdistan (aujourd’hui irakien). Le contrat prévoit un embranchement vers le Golfe Persique. Ce projet envenimera les rapports anglo-allemands et sera l’une des causes majeures de la seconde guerre mondiale.

Londres ne peut effectivement tolérer qu’une grande puissance industrielle européenne porte ses énergies en avant vers cette zone clef de son empire qu’est le Golfe Persique. Les projets britanniques de l’époque, depuis la fin du 19ième siècle, sont de relier le Cap au Caire (mais le Tanganyka allemand coupe la continuité territoriale), selon les vœux de Cecil Rhodes, et le Caire à Calcutta, en satellisant les provinces arabes-mésopotamiennes de l’empire ottoman et la Perse. Une présence allemande en Mésopotamie ruinerait le projet. Le pari allemand sur la Turquie sera suivi d’un pari britannique antagoniste : le pari sur les tribus arabes wahhabites contre la Sublime Porte. Ce sera la mission de T. E. Lawrence, dit « Lawrence d’Arabie ». Cette alliance est toujours actuelle.

dimanche, 02 mars 2008

Sur l'identité européenne

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Communication de Robert Steuckers à la « Fête de l'Identité », Santes/Lille, le 28 juin 2003

Organisateurs : FLANDRE IDENTITÉ, BP 106 - F-59.482 Haubourdin Cédex ( flandreidentite@hotmail.com )

 

Sur l'identité européenne

 

Mesdames, Messieurs, Chers amis et camarades,

 

Définir l'identité de l'Europe dans un exposé d'une demi-heure tient de la gageure ! Mais, c'est vrai, il faut être ca­pable de synthétiser ses idées, de transmettre l'essentiel en peu de mots. Mieux : en peu de cartes [projection de cinq cartes].

L'Europe, c'est avant toute chose une histoire. C'est cette histoire qui est son identité. C'est la somme des gestes qui ont été accomplies. Rien d'autre. Et certainement pas un code ou une abstraction qui se profilerait derrière cette histoire et qui serait plus “sublime” que le réel. L'histoire qui fonde notre identité est une histoire très longue, dont les origines ne sont pas connues du grand public, auquel on cache l'épopée initiale de nos peuples. Les choses sont en train de changer dans le bon sens; au cours des dix dernières années, les revues de bonne vulgarisation scientifique nous parlent de plus en plus souvent de la grande chevauchée des Proto-Iraniens, puis des Scythes, en direction de l'Asie centrale. Les archéologues Mallory et Mair viennent de retracer l'émouvante aventure du peuple qui nous a laissé les “momies du Tarim” dans le Sin Kiang chinois, des corps quasi intacts qui nous ressemblent comme des frères. Partis d'Europe centrale, en effet, des vagues de cavaliers européens ont poussé au moins jusqu'aux plaines du Sin Kiang, sinon jusqu'au Pacifique. Pendant des siècles, des royaumes européens ont subsisté dans ces régions, alors très hospitalières et fertiles. Une civilisation tout à la fois européenne, indienne et bouddhiste, a laissé des traces sublimes au cœur du continent asiatique.

 

Associer l'idée de divin à la lumière solaire et sidérale

 

Les racines de l'Europe se retrouvent, dans leurs traces les plus anciennes, essentiellement dans la tradition iranienne, ou avestique, dont Paul Du Breuil et Henry Corbin ont exploré l'univers mental. Paul Du Breuil retrace méticuleusement la religion très ancienne, guerrière, de cette branche aventurière du peuple européen, qui avait domestiqué le cheval, inventé les attelages et le char de combat. Cette religion est une religion de la Lumière et du Soleil, avec le dieu Aruna (l'Aurore) comme conducteur du char solaire. Garuda, le frère d'Aruna, est, dans cette mythologie, le “seigneur du Ciel” et le “chef des oiseaux”. Il personnifie la puissance masculine et on le représente souvent sous la forme d'un oiseau à tête d'aigle, blanc ou doré, parfois avec des ailes rouges. On constate très tôt, dit Paul Du Breuil, “que le symbolisme religieux eurasien, a associé l'idée du divin avec la lumière, solaire ou sidérale, et avec un oiseau fabuleux, fort et de haut vol”. Cette triple symbolique du Soleil, du Ciel et de l'Aigle, se retrouve chez le chef et père des dieux dans le panthéon romain, Jupiter. Et l'idée d'empire, dans les traditions européennes, conserve le symbole de l'aigle. De l'Iran avestique à nos jours, cette symbolique immortelle nous est restée. Sa pérennité atteste bel et bien que sa présence inamovible en fait un fondement de notre identité.

 

Le monde avestique, aboutissement d'une grande migration européenne aux temps proto-historiques, nous a légué les notions cardinales de notre identité la plus profonde, qui ne cesse de transparaître malgré les mutations, malgré les conversions au christianisme ou à l'islam, malgré les invasions calamiteuses des Huns, des Mongols ou des Turcs, malgré les despotismes de toutes natures, qui ont dévoyé et fourvoyé les Européens au cours d'une histoire qui ne cesse d'être tumultueuse. Arthur de Gobineau a démontré la précellence du monde iranien, sa supériorité pratique par rapport à un hellénisme trop discursif et dialectique. A sa suite, Henry Corbin, en explorant les textes que nous a laissés le poète médiéval persan Sohrawardi, nous a restitué une bonne part de notre identité spirituelle profonde, de notre manière primordiale de voir et de sentir le monde : pour Sohrawardi, légataire médiéval de l'immémorial passé avestique, l'Esprit Saint est Donateur de formes, la Lumière immatérielle est la première manifestation de l'Etre primordial, qui, lui aussi, est Lumière, pleine Lumière resplendissante, synthèse du panthéon ouranien des dieux diurnes (cf. Dumézil, Haudry); dans cette spiritualité euro-avestique de la proto-histoire, de cette époque où vraiment tout s'est révélé, il y a précellence du Soleil; les âmes nobles et les chefs charismatiques ont une aura que les Perses appelaient la Xvarnah ou la Lumière de Gloire et que l'on représente sous forme d'une auréole à rayons solaires. Ce culte lumineux s'est répercuté dans la tradition médiévale européenne dans la figure omniprésente de l'archange Saint-Michel, dont le culte est d'origine iranienne et zoroastrienne. Et surprise : le culte de Saint Michel va ressusciter à Bruxelles dans quelques jours, lors de la fête de l'Ommegang, en l'honneur de l'étendard impérial de Charles-Quint. Le géant Saint-Michel ressortira dans les rues, après une très longue éclipse, ajoutant l'indispensable spiritualité archangélique à cette fête impériale unique en Europe. Signe des temps? Osons l'espérer!

 

La force archangélique et michaëlienne

 

Pour Hans Werner Schroeder, les archanges, legs de la tradition iranienne dans l'Europe médiévale, insufflent les forces cosmiques originelles dans les actions des hommes justes et droits et protègent les peuples contre le déclin de leurs forces vives. L'archange aux vastes ailes déployées et protectrices, que l'on retrouve dans les mythologies avestiques et médiévales-chrétiennes, indique la voie, fait signe, invite à le suivre dans sa marche ou son vol toujours ascendant vers la lumière des lumières : la force archangélique et michaëlienne, écrit Emil Bock, induit une dynamique permanente, une tension perpétuelle vers la lumière, le sublime, le dépassement. Elle ne se contente jamais de ce qui est déjà là, de ce qui est acquis, devenu, de ce qui est achevé et clos, elle incite à se plonger dans le devenir, à innover, à avancer en tous domaines, à forger des formes nouvelles, à combattre sans relâche pour des causes qui doivent encore être gagnées. Dans le culte de Saint-Michel, l'archange n'offre rien aux hommes qui le suivent, ni avantages matériels ni récompenses morales. L'archange n'est pas consolateur. Il n'est pas là pour nous éviter ennuis et difficultés. Il n'aime pas le confort des hommes, car il sait qu'avec des êtres plongés dans l'opulence, on ne peut rien faire de grand ni de lumineux.

 

La religion la plus ancienne des peuples européens est donc cette religion de Lumière, de gloire, de dynamique et d'effort sur soi. Elle est née parmi les clans européens qui s'étaient enfoncés le plus profondément dans le cœur du continent asiatique, qui avaient atteint les rives de l'Océan Indien et s'étaient installés en Inde. L'identité la plus profonde de l'Europe est donc cette trajectoire qui part de l'embouchure du Danube en Mer Noire vers le Caucase et au-delà du Caucase vers les hauts plateaux iraniens et vers la vallée de l'Indus, ou, au Nord, à travers l'Asie centrale, la Bactriane, vers le Pamir et les dépressions du Takla Makan dans le Sin Kiang, aujourd'hui chinois.

 

Une chaîne ininterrompue de trois empires solides

 

L'idéal impérial européen s'est ancré dans notre antiquité sur cette ligne de projection : entre 2000 et 1500 av. J. C., l'expansion européenne correspond à celle des civilisations semi-sédentaires dites d'Androvno et de Qarasouk. A cette époque-là, les langues européennes se répandent en Iran, jusqu'aux rives de l'Océan Indien. Cimmériens, Saces, Scythes, Tokhariens, Wou-Souen et Yuezhi se succèdent sur le théâtre mouvant de la grande plaine centre-asiatique.  Entre 300 et 400 de notre ère, trois empires se juxtaposent entre l'Atlantique et l'Inde du Nord : Rome, les Sassanides parthes et l'Empire gupta en Inde. L'Empire gupta avait été fondé par les Yuezhi européens, qui nommaient leur territoire le Kusana et étaient au départ vassaux des Sassanides. Les Gupta fédèrent les clans du Kusana et les Tokhariens du Tarim. A ce moment historique-là, une chaîne ininterrompue de trois empires solides, dotés d'armées bien entraînées, auraient pu faire barrage contre les pressions hunno-mongoles, voire se fédérer en un bloc partant d'Ecosse pour aboutir au delta du Gange.

 

Mais le destin a voulu un sort différent, pour le grand malheur de tous nos peuples : Rome a été minée par le christianisme et les dissensions internes; l'empire s'est scindé en deux, puis en quatre (la tétrarchie), puis s'est effondré. Les Sassanides connaissent une période de répit, traitent avec l'Empereur romain d'Orient, Justinien, et partent à la conquête de la péninsule arabique, avant de succomber sous les coups de l'Islam conquérant. L'Empire des Gupta s'effondre sous les coups des Huns du Sud.

 

La fin de l'antiquité signifie la fin des empires déterminés directement et exclusivement par des valeurs d'inspiration européenne, c'est-à-dire des valeurs ouraniennes, archangéliques et michaëliennes, voire mazdéennes ou mithraïques. Les peuples hunniques, mongols ou turcs se ressemblent en Asie centrale et en chassent les Européens, les massacrent ou les dominent, les transformant en petites peuplades résiduaires, oublieuses de leurs racines et de leurs valeurs. Au Sud, les tribus arabes, armées par l'idéologie religieuse islamique, bousculent Byzance et la Perse et pénètrent à leur tour en Asie centrale.

 

L'invasion des Huns provoque un chaos indescriptible

 

L'identité européenne ne peut s'affirmer que si elle demeure maîtresse des grandes voies de communication qui unissent la Méditerranée ou la Baltique à la Chine et à l'Inde. Dynamique, l'identité européenne s'affirme ou disparaît sur un espace donné; elle entre en déclin, se rabougrit si cet espace n'est plus maîtrisé ou s'il n'est plus accessible. Cet espace, c'est l'Asie centrale. A la fin de la période antique, les Ruan Ruan mongols bousculent les Xianbei, qui bousculent les chefferies turques des marges du monde chinois, qui bousculent à leur tour les Huns du Kazakhstan, qui passent sur le corps des Alains européens à l'Ouest de la Caspienne, dont les débris se heurtent aux Goths, qui franchissent la frontière de l'Empire romain agonisant, précipitant le sous-continent européen, berceau de nos peuples, dans un chaos indescriptible. Finalement, les Huns sont arrêtés en Champagne par l'alliance entre Romains et Germains. Le destin de l'Europe s'est donc joué en Asie centrale. La perte de contrôle de cette vaste zone géographique entraîne la chute de l'Europe : hier comme aujourd'hui. Les ennemis de l'Europe le savent : ce n'est donc pas un hasard si Zbigniew Brzezinski entend jouer la carte turque/turcophone contre la Russie, l'Inde, l'Iran et l'Europe dans ce qu'il appelle les “Balkans eurasiens”. Ce que je viens de vous dire sur la proto-histoire à l'Est de la Volga et de la Caspienne n'est pas la tentative d'un cuistre d'étaler son érudition, mais de rappeler que la dynamique amorcée par nos plus lointains ancêtres dans ces régions du monde et que la dynamique amorcée lentement d'abord, brutalement ensuite, par les peuples hunniques et turco-mongols à la fin de l'antiquité sont des dynamiques qui restent actuelles et dont les aléas sont observés et étudiés avec la plus grande attention dans les états-majors diplomatique et militaire américains aujourd'hui.

 

En effet, une partie non négligeable du succès américain en Afghanistan, en Mésopotamie, en Asie centrale dans les républiques musulmanes et turcophones de l'ex-URSS est due à une bonne connaissance des dynamiques à l'œuvre dans cette région centrale de la grande masse continentale eurasiatique. Encyclopédies, atlas historiques, thèses en histoire et ouvrages de vulgarisation, émissions de télévision s'accumulent pour les expliciter dans tous leurs détails. L'Europe continentale, les espaces linguistiques français, allemand et autres, sont en retard : personne, même dans les hauts postes de commandement, ne connaît ces dynamiques. Dans la guerre de l'information qui s'annonce et dont nous avons perdu la première manche, la connaissance généralisée de ces dynamiques sera un impératif crucial : mais les choses avancent, lentement mais sûrement, car des revues grand public comme Archeologia, Grands Reportages, Géo, National Geographic (version française) commencent systématiquement à nous informer sur ces sujets. L'or des Scythes, les villes florissantes de la Sérinde et de l'antique Bactriane, la Route de la Soie, les voyages de Marco Polo, la Croisière Jaune de Citroën sont autant de thèmes proposés à nos contemporains. François-René Huyghe, spécialiste de la guerre cognitive à l'ère numérique, figure cardinale de la pensée stratégique française aujourd'hui, nous a laissé un ouvrage de base sur l'Asie centrale. En Suisse, le Professeur Jacques Bertin nous a fourni en 1997 un “Atlas historique universel”, où tout ce que je vous dis est explicité par des cartes limpides et didactiques.

 

Une organisation optimale du territoire

 

L'objectif stratégique de cette vulgarisation, destinée à éveiller le grand public aux thèmes majeurs de la géostratégie planétaire, est de damer le pion à la stratégie préconisée par Zbigniew Brzezinski dont le but final est de soustraire l'espace noyau de l'Asie centrale au contrôle de toutes les puissances périphériques, surtout la Russie et l'Europe, mais aussi l'Inde et l'Iran. Brzezinski n'a pas hésité à dire que les Américains avaient pour but d'imiter les Mongols : de consolider une hégémonie économique et militaire sans gérer ni administrer le territoire, sans le mailler correctement à la façon des Romains et des Parthes. L'Amérique a inventé l'hégé­mo­nie irresponsable, alors que les trois grands Empires juxtaposés des Romains, des Parthes et des Gupta visaient une organisation optimale du territoire, une consolidation définitive, dont les traces sont encore perceptibles aujourd'hui, même dans les provinces les plus reculées de l'Empire romain : le Mur d'Hadrien, les thermes de Bath, le tracé des villes de Timgad et de Lambèze en Afrique du Nord sont autant de témoignages archéo­lo­giques de la volonté de marquer durablement le territoire, de hisser peuples et tribus à un niveau de civi­li­sation élevé, de type urbain ou agricole mais toujours sédentaire. Car cela aussi, c'est l'identité essentielle de l'Europe. La volonté d'organiser, d'assurer une pax féconde et durable, demeure le modèle impérial de l'Europe, un modèle qui est le contraire diamétral de ce que proposent les Américains aujourd'hui, par la voix de Brzezinski.  

 

Rien de tel du côté des Mongols, modèles des Américains aujourd'hui. Nulle trace sur les territoires qu'ils ont soumis de merveilles architecturales comme le Pont du Gard. Nulle trace d'un urbanisme paradigmatique. Nulle trace de routes. La dynamique nomade des tribus hunniques, mongoles et turques n'aboutit à aucun ordre territorial cohérent, même si elle vise une domination universelle. Elle ne propose aucun “nomos” de la Terre. Et face à cette absence d'organisation romaine ou parthe, Brzezinski se montre admiratif et écrit : «Seul l'extraordinaire empire mongol approche notre définition de la puissance mondiale». Une puissance sans résultat sur le plan de l'organisation. Brzezinski et les stratèges américains veulent réactiver une dynamique anti-impériale, donc contraire aux principes qui sous-tendent l'identité européenne, et asseoir de la sorte un foyer permanent de dissolution pour les formes plus ou moins impériales ou étatiques qui survivent dans son voisinage. Brzezinski écrit, admiratif : «L'empire gengiskhanide a pu soumettre le Royaume de Pologne, la Hongrie, le Saint-Empire (?), plusieurs principautés russes, la califat de Bagdad et l'Empire chinois des Song». Réflexion historique en apparence ingénue. Mais elle démontre, pour qui sait lire entre les lignes, que la réactivation d'un pôle turc, à références hunniques ou gengiskhanides, doit servir

 

-          à annihiler les môles d'impérialité en Europe,

-          à mettre hors jeu l'Allemagne, héritière du Saint-Empire et de l'œuvre du Prince Eugène de Savoie-Carignan,

-          à tenir en échec définitivement l'Empire russe,

-          à détruire toute concentration de puissance en Mésopotamie et

-          à surveiller la Chine.

 

Connaître l'histoire des mouvements de peuples en Asie centrale permet de contrer la stratégie américaine, mise au point par Brzezinski, de lui apporter une réponse russe, indienne, européenne. Pour les Américains, il s'agit d'activer des forces de désordre, des forces dont l'esprit est diamétralement différent de celui de Rome et de la Perse sassanide. Si ces forces sont actives en une zone aussi cruciale de la masse continentale eu­ra­sienne, c'est-à-dire sur le territoire que la géopolitique britannique et américaine, théorisée par Mackinder et Spyk­man, nomme le “Heartland”, le Cœur du Grand Continent, elles ébranlent les concentrations périphé­ri­ques de puissance politique, leur impose des “frontières démembrées”, selon une terminologie que Henry Kis­sin­ger avait reprise à Richelieu et à Vauban. Tel est bien l'objectif de Kissinger et de Brzezinski : “démembrer” les franges territoriales extérieures de la Russie, de l'Iran, de l'Europe, priver celle-ci d'un accès à la Mé­di­ter­ranée orientale. C'est pour cette raison que les Etats-Unis ont voulu créer le chaos dans les Balkans, en diabo­li­sant la Serbie, dont le territoire se situe sur l'axe Belgrade-Salonique, c'est-à-dire sur la voie la plus courte en­tre le Danube navigable, à l'Ouest des anciennes “cataractes”, et la Mer Egée, dans le bassin oriental de la Mé­di­ter­ranée. Diaboliser la Serbie sert à bloquer le Danube en sa portion la plus importante stratégiquement parlant, sert aussi à créer artificiellement en vide en plein milieu d'une péninsule qui a servi de tremplin à toutes les opérations européennes en Asie Mineure et au Proche-Orient. Celui-ci doit demeurer une chasse gardée des Etats-Unis.

 

Quelles ont été dans l'histoire les ripostes européennes à cette menace permanente et récurrente de dissolution venue de la zone matricielle des peuples hunniques, turcs et mongols, située entre le Lac Baïkal en Sibérie et les côtes du Pacifique?

 

Luttwak : d'une étude du limes romain à l'occupation de la Hongrie par les troupes américaines

 

L'Empire romain, probablement mieux informé des mouvements de populations en Asie que ne le laissent supposer les sources qui sont restées à notre disposition, avait compris que l'Empire devait se défendre, se colmater et se verrouiller à deux endroits précis : en Pannonie, l'actuelle Hongrie, et dans la Dobroudja au Sud du Delta du Danube. Le Danube est l'artère centrale de l'Europe. C'est le fleuve qui la symbolise, qui la traverse tout entière de la Forêt Noire à la Mer Noire, qui constitue une voie d'eau centrale, une voie de communication incontournable. La maîtrise de cette voie assure à l'Europe sa cohésion, protège ipso facto son identité, est la garante de sa puissance, donc de sa survie, est finalement son identité géo-spatiale, la base tellurique du développement de son esprit de conquête et d'organisation, une base sans laquelle cet esprit ne peut se concrétiser, sans laquelle cet esprit n'a pas de conteneur. Ce n'est donc pas un hasard si les Etats-Unis dé­ploient dorénavant leurs troupes en Hongrie le long du cours du Danube, qui, là-bas, coule du Nord au Sud, en direction de Belgrade. Le théoricien militaire américain, originaire de Roumanie, Edward Luttwak, avait rédigé un ouvrage magistral sur les limes romains en Europe centrale. Les militaires du Pentagone appliquent aujourd'hui dans le concret les conclusions théoriques de l'historien. De même, un général britannique à la re­traite, après une longue carrière à l'OTAN et au SHAPE à Mons-Casteaux en Hainaut, publie une histoire des guerres de Rome contre Carthage, où, curieusement, les opérations dans les Balkans, les jeux d'alliance entre puissances tribales de l'époque, laissent entrevoir la pérennité des enjeux spatiaux, la difficulté d'unifier cette péninsule faite de bassins fluviaux, de vallées et de plateaux isolés les uns des autres. Rome a excité les tribus illyriennes des Balkans les unes contre les autres pour en arriver à maîtriser l'ensemble de la péninsule. On est frappé, dans le récit du Général Nigel Bagnall, de voir comme il convient d'éloigner de l'Adriatique et de l'Egée la puissance tribale centrale, dont le territoire correspondait peu ou prou à celui de la Serbie actuelle! L'historien mili­taire a parlé, les blindés et les F-16 de l'OTAN ont agi, quelques années après! Moralité : l'étude de l'his­toire antique, médiévale ou contemporaine est une activité hautement stratégique, ce n'est pas de la simple éru­dition. Les puissances dominantes anglo-saxonnes nous le démontrent chaque jour, tandis que l'ignorance des dynamiques de l'histoire sanctionne la faiblesse de l'Europe. 

 

Revenons à l'histoire antique. Dès que les Huns franchissent le Danube, dans la Dobroudja en poursuivant les Goths ou en Pannonie, l'empire romain s'effondre. Quand les Avares, issus de la confédération des Ruan Ruan, s'installent en Europe au 7ième siècle, les royaumes germaniques, dont ceux des rois fainéants mérovingiens, ne parviennent pas à imposer à notre sous-continent un ordre durable. Charlemagne arrête provisoirement le danger, mais le Saint-Empire ne s'impose qu'après la victoire de Lechfeld en 955, où Othon Ier vainc les Hongrois et fait promettre à leurs chefs de défendre la plaine de Pannonie contre toute invasion future venue des steppes. En 1945, les Hongrois de Budapest défendent le Danube héroïquement : les filles et les garçons de la ville, âgés de douze à dix-huit ans, sortent de leurs écoles pour se battre contre l'Armée Rouge, maison par maison, pan de mur par pan de mur. Je me souviendrais toujours des paroles d'une dame hongroise, qui me racontait la mort de son frère aîné, tué, fusil au poing, à 13 ans, dans les ruines de Budapest. Ces jeunes Magyars voulaient honorer la promesse faite jadis par leur Roi, mille ans auparavant. Un héroïsme admirable, qui mérite notre plus grand respect. Mais un héroïsme qui prouve surtout une chose : pour les peuples forts, le temps ne passe pas, le passé est toujours présent, la continuité n'est jamais brisée, les devoirs que l'histoire a imposés jadis doivent être honorés, même un millénaire après la promesse.

 

Après l'appel d'Urbain II à Clermont-Ferrand en 1096, les Croisés peuvent traverser la Hongrie du Roi Coloman et se porter vers l'Anatolie byzantine et la Palestine pour contrer l'invasion turque seldjoukide; les Seldjoukides interdisent aux Européens l'accès aux routes terrestres vers l'Inde et la Chine, ce que les Arabes, précédemment, n'avaient jamais fait. Urbain II était très conscient de cet enjeu géopolitique. Mais les efforts des Croisés ne suffiront pas pour barrer la route aux Ottomans, héritiers des Seldjoukides et des Ilkhans, dominateurs turco-mongols de la Perse vaincue. L'objectif des Ottomans, conscients de l'histoire des peuplades hunno-turques, animés par la volonté de perpétuer la geste pluri-millénaire de leurs peuples contre les Européens, est de prendre le Danube, son embouchure et son delta, son cours oriental à l'Est de ses cataractes entre l'actuelle frontière serbo-roumaine; ils entendent ensuite prendre Budapest, clef de la plaine pannonienne puis Vienne, capitale du Saint-Empire qu'ils appelaient la “Pomme d'Or”. Ils passent sur le corps des Serbes, des Bosniaques, des Croates, des Hongrois, des Frioulans et des Carinthiens, mais le bloc germanique, retranché derrière les premiers contreforts des Alpes, leur résistent. Il faudra une longue contre-attaque, une guerre d'usure de trois siècles pour envoyer enfin au tapis le danger ottoman. Cette lutte de reconquista, comparable à la reconquista espagnole, fonde, elle aussi l'identité politique et militaire de l'Europe. Ce n'est pas un hasard si la disparition du danger ottoman a ouvert l'ère des guerres civiles entre Européens, depuis les guerres révolutionnaires et napoléoniennes aux deux guerres mondiales, dont on ne mesure pas encore pleinement la tragédie démographique qu'elles ont représentée pour l'Europe.

 

L'arme redoutable du janissariat

 

Au départ, dans cette longue lutte de l'Europe danubienne contre les offensives continuelles des Ottomans, la balance démographique semblait en faveur de l'Europe. Le rapport était de 67 millions d'Européens contre une douzaine de millions de musulmans turcs. Mais la Turquie avait hérité et faite sienne une tradition persane-européenne de première importance: la notion de service armé de la jeunesse, la fotowwat, dont l'expression turque est l'Ordre des Janissaires. Pour Paul Du Breuil, l'origine des chevaleries et des ordres militaires remonte à la conquête de l'Asie centrale et des hauts plateaux iraniens par les peuples européens de la proto-histoire. Elle s'est transmise aux Perses (et aux Parthes), aux Alains, aux Sarmates, aux Goths et aux Arméniens de l'époque médiévale. De cette matrice iranienne et pontique, elle est passée, au temps des croisades, à l'Occident. Le nom même de l'Ordre de la Toison d'Or, fondé par les Ducs de Bourgogne, indique une “orientation” géographique vers l'aire pontique (la Mer Noire), l'Arménie caucasienne et l'Iran, berceau de la première organisation militaire rigoureuse des peuples européens, à l'aurore de l'histoire. C'est parce qu'ils ont traversé les territoires des Iraniens et des Arméniens que les Turcs seldjoukides comprennent l'importance d'un ordre militaire similaire à la fotowwat persane. C'est ainsi que naît l'ordre des janissaires, très discipliné, capable de vaincre des armées européennes plus nombreuses, mais moins disciplinées, ainsi que s'en plaint Ogier Ghiselin de Bousbeque, dans un texte qui figure aujourd'hui encore dans l'anthologie de la pensée stratégique de Gérard Chaliand, manuel de base des officiers français.

 

La discipline du janissariat ottoman culbute donc les armées serbes, croates et hongroises. La riposte euro­péen­ne sera double : d'une part, les cosaques d'Ivan le Terrible prennent Kazan, la capitale des Tatars en 1552, puis descendent le cours de la Volga et coupent la route d'invasion traditionnelle des peuples hunniques et turcs au nord de la Caspienne, sur le cours de la Volga et dans son delta, à hauteur d'Astrakhan, qui tombe en 1556. Sur mer, les Portugais contournent l'Afrique et tombent dans le dos des puissances musulmanes dans l'O­céan indien. Le cosaque sur terre, le marin sur l'océan ont représenté l'identité active et dynamique, aven­tu­riè­re et risquée de l'Europe au moment où elle était encerclée, de Tanger à Alexandrie, dans les Balkans, sur le Da­nube, sur la Volga et en Ukraine. La double opération maritime et terrestre des Russes et des Portugais des­serre l'étau qui étranglait l'Europe et amorce une lente reconquista, qui ne sera jamais complètement achevée, car Constantinople n'est pas redevenue grecque; la dissolution bâclée de l'ex-URSS rend cette hypothétique re­conquista plus aléatoire que jamais, en créant un espace de chaos non maîtrisable dans les “Balkans eura­siens”.

 

Eugène de Savoie : une excellente connaissance de la littérature militaire classique

 

L'esprit européen s'est incarné au 17ième siècle dans un personnage hors du commun : le Prince Eugène de Savoie-Carignan. Garçonnet chétif et disgrâcieux, auquel on impose la tonsure à huit ans pour en faire un moine, il voue son enfance et son adolescence à l'étude des classiques, mais rêve d'une carrière militaire, que Louis XIV lui refuse mais que l'Empereur d'Autriche accepte avec enthousiasme. Son excellente connaissance des classiques militaires en fait un capitaine méthodique, qui prépare la reconquête des Balkans, en organisant une flotte sur le Danube à l'imitation de celle que les Romains avaient construites à Passau (Batavia) en Bavière. Les plans d'Eugène de Savoie, le “noble chevalier”, permettent, avec la Sainte-Alliance qui allie Polonais, Bavarois, Autrichiens, Hongrois, Prussiens et Russes, de reconquérir 400.000 km2 sur les Ottomans. Avec les victoires successives d'Eugène de Savoie, le ressac des Ottomans est amorcé : ils n'avanceront plus d'un pouce. Quelques décennies plus tard, Catherine II et Potemkine reprennent la Crimée et font de la rive septentrionale de la Mer Noire une rive européenne à part entière, pour la première fois depuis l'irruption des Huns dans l'écoumène de nos peuples.

 

L'identité géopolitique européenne est donc ce combat pluri-millénaire pour des frontières stables et “membrées”, pour le libre passage vers le cœur de l'Eurasie, qu'avait réclamé Urbain II à Clermont-Ferrand en prêchant la première croisade.

L'identité culturelle européenne est cette culture militaire, cet art de la chevalerie, héritée des héros de l'ère avestique.

L'identité culturelle européenne est cette volonté d'organiser l'espace, l'ager des Romains, de lui imprégner une marque définitive.

 

Mais aujourd'hui, où en est-on ? Quelle est notre situation objective?

 

Au cours des quinze à vingt dernières années, nous avons accumulé défaite sur défaite. Nos maigres atouts géostratégiques sont tombés les uns après les autres comme s'ils n'étaient qu'un alignement de dominos. La stratégie “mongolomorphe” de Brzezinski semble porter ses fruits. L'Europe et la Russie ne sont plus que des territoires loques, pantelants, sans ressort et sans plus aucune énergie propre.

En effet :

 

-          L'Europe a perdu sur le Danube : la Serbie, territoire qui relie l'Europe centrale danubienne à l'Egée, ancienne route des Doriens et des ancêtres macédoniens d'Alexandre le Grand, est soustraite à toute dynamique positive, vu l'embargo qu'on lui impose depuis Washington. L'Autriche a failli se faire diaboliser de la même manière, à l'époque très récente où Jacques Chirac et Louis Michel faisaient le jeu des Américains. Les armées américaines s'installent en Hongrie, aux mêmes endroits où campaient les légions de Rome pour "membrer" la frontière la plus fragile de l'Europe, la plaine hongroise, la Puszta, qui relie directement notre continent, via les plaines ukrainiennes et les immensités sibériennes, au territoire originel des peuples hunniques.

 

-          L'Europe et la Russie perdent tous leurs atouts dans le Caucase, où la Géorgie de Chevarnadze joue à fond la carte américano-turque, où l'Azerbaïdjan est complètement inféodé à l'OTAN et à la Turquie, où les Tchétchènes, armés par les Turcs, les Saoudiens et les Américains, tiennent l'armée russe en échec et organisent des attentats sanglants à Moscou, comme en octobre dernier au théâtre Doubrovna. Dans ce contexte caucasien, la malheureuse Arménie est encerclée, menacée de toutes parts, n'a que des ennemis à ses frontières, sauf l'Iran, sur une longueur de 42 km à peine, zone que l'OTAN veut tout simplement “acheter” pour surveiller et menacer l'Iran.

 

-          L'Europe, la Russie et l'Inde perdent dans le Cachemire, où la présence pakistanaise, solidement ancrée, empêchent la création d'un corridor de communication entre l'Inde et le Tadjikistan et entre celui-ci et la Russie. La présence pakistanaise empêche d'établir le lien qui aurait pu exister entre nos territoires à l'époque des trois empires juxtaposés, juste avant la catastrophe des invasions hunniques.

 

-          L'Europe perd dans les mers intérieures : l'Albanie, inféodée au binôme américano-turc, surveille le Détroit d'Otrante. Des navires de guerre américains, basés en Albanie, pourraient complètement verrouiller l'Adriatique et étouffer l'économie de l'Italie du Nord, dont l'axe fluvial, le Pô, débouche dans cette Mer Adriatique, au sud de Venise. L'objectif est justement d'empêcher l'éclosion d'une nouvelle Venise, d'une nouvelle “Sérénissime”, dont l'hinterland serait la Mitteleuropa tout entière. L'objectif est aussi d'empêcher l'Europe de rééditer l'exploit de Don Juan d'Autriche, vainqueur de la flotte ottomane à Lépante en 1571. Qui plus est, l'Europe perd tous ses atouts et son allié potentiel dans le Golfe, zone stratégique de première importance pour contrôler notre sous-continent. En effet, à partir de 1941, quand les Britanniques s'emparent tour à tour de l'Irak, de la Syrie et du Liban, puis, avec l'aide des Soviétiques, de l'Iran, ils se dotent d'une base arrière permettant d'alimenter en matières premières, en matériels de tous ordres et en pétrole, les armées concentrées en Egypte, qui s'empareront de la Libye, de la Tunisie et de l'Italie; et aussi d'alimenter les armées soviétiques, via les chemins de fer iraniens, la liaison maritime sur la Caspienne et, de là, via la liaison fluviale de la Volga. Seule la bataille de Stalingrad a failli couper cette artère. Comme l'a souvent souligné Jean Parvulesco, l'Europe est à la merci de toute grande puissance qui tiendrait fermement en son pouvoir la Mésopotamie et les régions avoisinantes. Plus bref, Parvulesco a dit : «L'Europe se tient par le Sud-Est ». La victoire anglo-saxonne et soviétique de 1945 en est la plus belle démonstration. Et c'est parce que cette région est vitale, sur le plan géostratégique, que les Américains tiennent à s'en emparer définitivement aujourd'hui, ne veulent plus la lâcher. Le scénario de base est et reste le même. Nous pourrions citer d'innombrables exemples historiques.

 

Nous sommes ramenés des siècles en arrière

 

Dès lors, cette situation désastreuse nous ramène plusieurs siècles en arrière, au temps où les Ottomans assiégeaient Vienne, où les Tatars étaient solidement installés sur le cours des deux grands fleuves russes que sont la Kama et la Volga, où les sultans du Maroc envisageaient de reprendre pied dans la péninsule ibérique. Oui, nous sommes revenus plusieurs siècles en arrière depuis les événements du Golfe en 1991, depuis les événements de Yougoslavie dans la décennie 90, depuis l'éclatement de la mosaïque caucasienne et la rébellion tchétchène, depuis l'occupation de l'Afghanistan et depuis celle, toute récente, de l'Irak.

 

Cette situation implique :

 

-          Que les Européens doivent montrer une unité de vue inflexible dans les Balkans et contester là-bas toute présence turque, saoudienne ou américaine.

 

-          Que les Européens ôtent toute marge de manœuvre à la Turquie dans les Balkans et dans le Caucase.

 

-          Que les Européens doivent rendre à nouveau toute circulation libre sur le Danube, en englobant la Serbie dans ce projet.

 

-          Que les Européens doivent réaliser une triple liaison par canaux, routes et voies de chemin de fer entre Belgrade et Salonique, soit entre l'Europe centrale danubienne et l'Egée.

 

-          Que les Européens doivent s'assurer la maîtrise stratégique de Chypre, faire pression sur la Turquie pour qu'elle évacue l'île sans condition.

 

-          Que les Européens appuient l'Arménie encerclée contre l'alliance entre Turcs, Américains, Azéris, Géorgiens, Saoudiens et Tchétchènes.

 

-          Que les Européens doivent jouer la carte kurde contre la Turquie.

 

-          Que les Européens appuient l'Inde dans la lutte qui l'oppose au Pakistan, allié des Etats-Unis, dans la question irrésolue du Cachemire.

 

-          Que les Européens mènent une politique arabe intelligente, se basant sur les idéologies nationales-étatiques de type baathiste ou nassériennes, à l'exclusion des intégrismes islamistes, généralement manipulés par les services américains, comme ce fut le cas des talibans, ou des frères musulmans contre Nasser, ou des Chiites contre Saddam Hussein.

 

Les deux anacondas

 

Pratiquer cette géopolitique, à multiples volets, nous conduit :

-          à repenser la théorie de l'anaconda; pour Karl Haushofer, le célèbre géopolitologue allemand, que l'on redécouvre après une longue éclipse, l'anaconda, ce sont les flottes des puissances maritimes anglo-saxonnes qui enserrent le grand continent asiatique et le condamnent à l'asphyxie. Cet anaconda est toujours là. Mais, il est doublé d'un nouvel anaconda, le réseau dense des satellites qui entourent la Terre, nous espionnent, nous surveillent et nous condamnent à la stagnation. Cet anaconda est, par exemple, le réseau ECHELON. L'identité combattante de l'Europe consiste aujourd'hui à apporter une réponse à ce défi. Or le défi spatial ne peut être résolu que par un partenariat avec la Russie en ce domaine, comme le préconise Henri de Grossouvre dans son excellent ouvrage sur l'Axe Paris-Berlin-Moscou.

 

-          A avoir une politique maritime audacieuse, comme celle qu'avait eue Louis XVI en France. L'Europe doit être présente sur mer, militairement, certes, mais doit aussi revendiquer ses droits aux richesses halieutiques. Ensuite, un système de défense des côtes s'avère impératif.

 

-          A affirmer son indépendance militaire, à partir de l'Eurocorps, qui pourrait devenir une "Force de Réaction Rapide” européenne, celle-là même à laquelle la Turquie a opposé son veto naguère.

 

-          A déconstruire les archaïsmes institutionnels qui subsistent encore au sein de l'UE.

 

L'identité politique européenne, seule identité vraiment concrète puisque nous savons depuis Aristote que l'homme est un animal politique, un zoon politikon, réside donc, aujourd'hui, en cette époque de calamités, à prendre conscience de nos déboires géopolitiques, que je viens d'énoncer, et à agir pour promouvoir une politique spatiale, maritime et militaire claire. Il est évident que cette prise de conscience et que ce plan d'action n'aboutiront au succès que s'ils sont impulsés et portés par des hommes qui ont le profil volontaire, actif et lumineux, archangélique et michaëlien, que nous ont légué, il y a plusieurs millénaires, les Européens arrivés sur les hauts plateaux iraniens, pour y donner naissance à la tradition avestique, la seule, la vraie, la Grande Tradition, celle de notre “Orient” pré-persan, noyau de toutes les chevaleries opératives.

 

Je vous remercie pour votre attention.

 

Robert STEUCKERS.

 

Bibliographie :

 

-          Nigel BAGNALL, Rom und Karthago - Der Kampf ums Mittelmeer, Siedler Verlag, Berlin, 1995 [l'édition anglaise date de 1990, juste avant la succession des événements sanglants dans l'ex-Yougoslavie].

-          Jacques BERTIN, Jean DEVISSE, Danièle LAVALLÉE, Jacques NÉPOTE & Olivier BUCHSENSCHUTZ, Atlas historique universel - Panorama de l'histoire du monde, France Loisirs, Paris, 1997.

-          Emil BOCK, Der Kreis der Jahresfeste - Advent - Weihnacht - Epiphanias - Passion - Ostern - Himmelfahrt - Pfingsten - Johanni - Michaeli, Fischer Taschenbuch Verlag, Frankfurt a. M., 1982.

-          Jean BOISSEL, Gobineau (1816-1882), un Don Quichotte tragique, Hachette, 1981.

-          Jacqueline BUENZOD, La formation de la pensée de Gobineau et l'Essai sur l'inégalité des races humaines, Librairie A. G. Nizet, Paris, 1967.

-          René CAGNAT, La rumeur des steppes, Payot, PBP n°408, 2001.

-          Franco CARDINI, Europe et islam - Histoire d'un malentendu, Seuil, coll. «Points»/Histoire, H302, 2002.

-          Claude COLLIN-DELAVAUD, «Le Xinjiang», in : Hérodote, n°84, 1997.

-          Jean-Pierre CLERC, L'Afghanistan, otage de l'histoire, Essentiels Milan, n°212, Toulouse, 2002.  

-          Henry CORBIN, L'homme de Lumière dans le soufisme iranien, Ed. Présence, Sisteron, 1971.

-          Franck DE LA RIVIÈRE, L'Europe de Gibraltar à Vladivostok, L'Age d'Homme, Lausanne, 2001.

-          Paul DU BREUIL, Des dieux de l'ancien Iran aux saints du bouddhisme, du christianisme et de l'islam, Dervy-Livres, 1989.  

-          Paul DU BREUIL, La chevalerie et l'Orient, Guy Trédaniel éd., Paris, 1990.

-          Jean GAGÉ, La montée des Sassanides et l'heure de Palmyre, Albin Michel, 1964.

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-          Edward LUTTWAK, La grande stratégie de l'Empire romain, Economica, 1987.

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-          S. A. NIGOSIAN, The Zoroastrian Faith - Tradition & Modern Research, McGill-Queen's University Press, Montreal/Kingston/London, 1993.

-          Jean-Paul ROUX, Histoire des Turcs - Deux mille ans du Pacifique à la Méditerranée, Fayard, 1984.

-          Hans-Werner SCHROEDER, Mensch und Engel - Die Wirklichkeit der Hierarchien, Fischer Taschenbuch Verlag, Frankfurt a. M., 1982-89.

-          SOHRAVARDI, L'archange empourpré - Quinze traités et récits mystiques (traduits du persan e de l'arabe par Henry CORBIN), Fayard, Paris, 1976.

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-          François THUAL, Le Caucase, Flammarion, coll. «Dominos», n°227, 2001.

-          Herwig WOLFRAM, Histoire des Goths, Albin Michel, 1990.

 

Revues :

 

-          Muséart Hors Série n°4, 1995 - La Sérinde, Terre du Bouddha.

-          Dossiers d'Archéologie, n°271/mars 2002 - Les Parthes.

-          Dossiers d'Archéologie, n°270/février 2002 - Russie : carrefour de l'homo sapiens - Les révélations de l'archéologie russe.

-          Dossiers d'Archéologie, n°266/septembre 2001 - L'Or des rois scythes - La civilisation originale des Scythes - Les Grecs en Mer Noire - Les témoignages d'Hérodote.

 

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samedi, 01 mars 2008

Nouvelles communications terrestres en Eurasie

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Gerhoch REISEGGER :

La Russie construit de nouvelles communications terrestres en Eurasie

 

Introduction pour les lecteurs francophones : Gerhoch Reisegger, qui a derrière lui une longue expérience d'ingénieur bâtisseur d'infrastructures partout dans le monde, appartient aux traditions de Schumpeter, des institutionalistes et de l'école historique allemande (Schmoller, Rodbertus, etc.). Pour lui, l'économie libérale actuelle, impulsée depuis les Etats-Unis et reposant sur l'artifice de la bulle spéculative, est une erreur qui s'avèrera tôt ou tard fatale pour l'humanité. De nombreux voyages, notamment en Russie, lui ont permis de découvrir une alternative eurasienne prometteuse à la domination anglo-saxonne. Il nous en fait part dans cet extrait de son dernier livre (références infra), paru cette année à Tübingen. Un livre si riche en informations que nous y reviendrons souvent.

 

[texte de G. REISEGGER]:

 

Nous ne devons pas perdre de vue que d'autres Etats, que ceux de l'Occident, prennent aujourd'hui des mesures importantes, dans une perspective eurasienne (1), tant sur le plan politique que sur celui de la coopération économique, dans les domaines de l'énergie, du pétrole, du gaz naturel, des infrastructures et des communications. Notre propos, ici, est d'énumérer les mesures que prend la Russie, l'ancien antagoniste numéro un des Etats-Unis sur l'échiquier mondial. La nouvelle politique russe en Asie est intéressante à observer et dévoile clairement ses intentions : organiser la masse continentale eurasiatique.

 

La conférence euro-asiatique des communications et transports

 

Le 12 et 13 septembre 2000 une conférence euro-asiatique des communications et des transports s'est tenue à Saint-Petersbourg. Les décisions prises concernaient cinq corridors de communications:

◊ 1. Le corridor du nord, qui part d'Europe, suit le trajet du chemin de fer transsibérien, pour aboutir en Chine, dans les deux Corées et au Japon.

◊ 2. Le corridor central, qui part d'Europe du Sud, en passant par la Turquie, l'Iran et l'Asie central pour arriver en Chine.

◊ 3. Le corridor du Sud, ou, plus précisément, la branche méridionale du corridor central, qui part de l'Iran pour aboutir, via le Pakistan et l'Inde, à l'Asie du Sud-Est.

◊ 4. Le corridor TRACEACA, qui part d'Europe orientale, suit la rive septentrionale de la Mer Noire, pour mener à la Caspienne puis à l'Asie centrale.

◊ 5. Le nouveau corridor Nord-Sud, qui part d'Europe du Nord, traverse la Russie, aboutit à la Mer Caspienne et mène finalement en Inde.

 

La politique des chemins de fer transsibériens

 

Pendant l'automne de l'année 2000, le Président russe Poutine a présenté ses vues aux hommes d'affaires japonais, dont l'élément principal était le développement du chemin de fer transsibérien.

 

La ligne BAM (Baïkal - Amour - Magistral)

 

La ligne BAM est parallèle à celle du Transsibérien. Elle constitue l'élément de base dans les communications, qui permettraient d'exploiter de manière optimale les matières premières de l'Extrême-Orient russe. Le gouverneur de la région de Khabarovsk, sur la frontière sino-russe, Victor Ichaïev, est l'homme qui s'engage le plus pour faire revivre ce projet. Le ministre russe des communications, Aksenenko, a fait un rapport à Poutine en juillet 2000 sur les possibilités d'exploitation des gisements de fer, de titane et de vanadium de Khinaïski, de même que sur les communications par chemin de fer entre Khinaïski et le combinat de Kouznetski. L'exploitation avait commencé du temps de Staline  —en mobilisant de la main-d'œuvre forcée—  puis avait été interrompue à la mort du dictateur géorgien, pour reprendre ensuite sous Khrouchtchev. Depuis le début de l'«ère libérale», en 1990, tout est à nouveau tombé en quenouille. La population de la région est passée d'un million d'âmes à 600.000. Aujourd'hui, le projet BAM est à nouveau au centre des préoccupations stratégiques. Plusieurs projets de chemins de fer existent à nouveau, rien qu'au niveau des plans, ou sont déjà en construction.

 

Réactivation du chemin de fer de la «Route de la Soie»

 

Les présidents de la Corée et de la Russie sont convenus en juin 2000 de remettre en service le chemin de fer transcoréen (c'est-à-dire la liaison entre la Corée du Nord et la Corée du Sud) puis de le joindre au Transsibérien. De cette façon, dès que la liaison sera rétablie, trois voies de communications seront à nouveau disponibles:

 

◊ 1. La liaison entre Séoul et Vladivostok, via Ouensan (en Corée du Nord), et, via le Transsibérien, portera fret et voyageurs vers Moscou et Berlin. Une voie ferroviaire alternative passerait par Tchongdjin, bifurquerait vers le Nord, traverserait la frontière chinoise pour passer par Toumen, traverser la Mandchourie et rejoindre ainsi le Transsibérien (une voie de 13.500 km).

 

◊ 2. La liaison Pousan - Pyongyang - Sin Ouïdjou - Chenyeng - Datong - Erenhot pour rejoindre le chemin de fer transmongol et Oulan Bator, puis, de là, atteindre Oulan Oude, sur la ligne transsibérienne, et relier ainsi la Corée à Moscou et à Berlin (11.230 km).

 

◊ 3. La ligne transcoréenne et transchinoise : de Pousan à Pékin, via le second "pont terrestre" eurasien, vers Ouroumtchi et Aktogaï pour atteindre Moscou et Berlin (11.610 km).

 

Poutine s'est fait personnellement l'avocat de ces projets. Ce n'est donc pas sans raison que le Président nord-coréen Kim Jong-Il a fait le trajet transsibérien aller et retour jusqu'à Moscou, dans un train spécial, à l'invitation de Poutine. A la mi-février 2002, une délégation russe de 53 personnes, dirigée par le représentant du ministre des chemins de fer, Alexandre Tselko, s'est rendu en Corée du Sud. Thème de la visite: « Le pont terrestre transsibérien du 21ième siècle : perspectives pour le développement des relations russo-coréennes dans le domaine des transports ferroviaires ». La Russie a accepté de former 1500 ingénieurs coréens, spécialisés en chemins de fer, et de prendre en charge la majeure partie du coûts de la construction, qui s'élèvera à un milliard de dollars.

 

Relier l'île de Sakhaline et le Japon au continent eurasien

 

Déjà en 1950, Staline avait ordonné que commencent les travaux de percement d'un tunnel ou de construction d'un pont pour relier Sakhaline au continent. La “Manche de Tartarie”, qui sépare l'île du continent est large de 8 km à hauteur de Lazarev. Avec la mort de Staline, le projet a été arrêté. Vu la présence de gisements importants de gaz naturel au large des côtes, ce projet retrouve aujourd'hui, à nouveau, toute sa signification.

 

Le 20 septembre 2001, le ministre russe des chemins de fer, Alexandre Micharine, déclare que la liaison entre Sakhaline et le continent était à nouveau un projet mis à l'ordre du jour. En octobre 2002, les travaux de construction d'un pont de 8 km de long ont repris. Parallèlement à ces travaux, les travaux de construction d'une ligne de chemin de fer, longue de 450 km entre le Cap Lazarev et Komsomolsk, ont également commencé, ce qui permettra d'assurer une connexion avec l'un des corridors, que nous venons d'évoquer, en plus d'une liaison aux 130 km de chemins de fer déjà existants sur l'île de Sakhaline. Le coût total s'élève à 3,4 milliards de dollars.

 

Par cette construction, remarquait Micharine, la liaison par pont de 40 km entre Sakhaline et Hokkaïdo , la principale île du Nord de l'archipel nippon, devient un projet réalisable. Rappelons, ici, que les Japonais ont déjà réalisé le plus long tunnel sous eau du monde (54 km) entre la principale île de leur archipel, Hondo, et Hokkaïdo. Avec le projet suggéré par les Russes, le Japon serait relié au continent, en d'autres termes, le deuxième puissance économique du monde, aurait une liaison terrestre directe avec la masse continentale eurasienne.

 

Cela aurait pour résultat de transformer complètement la politique économique de la planète, dans des délais prévisibles : le développement et la fabrication de biens d'investissement de haute valeur pour l'industrie et pour les infrastructures. Les technologies de l'information, qui sont surévaluées, repasseraient au second plan. L'industrie d'exportation ne se déplacerait plus vers les pays à bas salaires. Ces deux paradigmes erronés —technologies de l'information et délocalisation—  sont le propre de la politique économique basée sur les méthodologies individualistes (Hayek), qui prêche pour les avantages immédiats, sur une diminution drastique des coûts du travail et sur l'abolition des frontières au profit d'un marché unique. Ces paradigmes nous ont conduits à la situation actuelle où l'économie mondiale et le système des devises sont pratiquement en faillite. Le programme des Russes, des Coréens et des Japonais, dicté par les nécessités de l'espace, nous oblige à regarder le monde de manière globale et organique, dans une perspective d'intégration intelligente, qui s'incarne aujourd'hui dans le projet de l'EATU (“Eurasian Transport Union”).

 

Le Forum russo-japonais de Moscou (29 et 30 mai 2001)

 

Une délégation de 240 chefs de l'économie et de l'industrie japonaises, sous les auspices de la Keidanren, c'est-à-dire l'association qui chapeaute les consortiums économiques nippons, est venue à Moscou et à sillonné toutes les régions de Russie, par petits groupes, afin de mettre au point de nouveaux projets. C'était la première visite en Russie de la Keidanren depuis dix-huit ans. Elle avait reçu le blanc-seing et les pleins pouvoirs du Ministère japonais des affaires étrangères pour conclure tous les contrats nécessaires; pour la première fois depuis vingt-cinq ans, la délégation était menée par le Président même de l'organisation.

 

La visite des Japonais a eu lieu à l'invitation même de Poutine, formulée en septembre 2000. Lors de sa visite au Japon, celui-ci avait déclaré, devant un parterre d'hommes d'affaires : « Je vais changer la Russie. Venez chez nous, rendez nous visite, vous verrez de vos propres yeux comment la Russie se transforme».

 

La Russie, l'Iran et l'Inde

 

Le 12 septembre 2000, les ministres des communications de la Russie, de l'Iran et de l'Inde ont signé conjointement un accord historique afin de réaliser un corridor Nord-Sud, combinant liaisons terrestres et liaisons maritimes. Il s'agit de relier l'Europe du Nord à l'Inde, afin d'éviter le détour par le Canal de Suez, ce qui permettrait de diminuer les coûts de transport de 20 à 25%, sinon plus! A cela s'ajoutent toutes les potentialités économiques qui pourraient devenir réalités le long de cette liaison, autant d'atouts qu'une voie maritime ne peut offrir. Chose encore plus inhabituelle : une instance unique administrera ce corridor et sera responsable de l'ensemble des tâches logistiques. Afin de faire avancer les projets de corridors de communication, le ministère russe des communications a fondé en mai 2001, avec l'accord de 40 pays européens et asiatiques, l'EATU, “Eurasian Transport Union”.

 

L'Iran sera la plaque tournante du corridor méridional

 

L'Iran s'est placé en toute connaissance de cause au centre de ce projet de développement. Sur son territoire, en effet, les liaisons entre le Nord et le Sud, entre l'Est et l'Ouest, entre l'Europe et l'Asie se croisent. Elles donnent à la Russie et à l'Asie centrale un accès aux ports iraniens, au Golfe Persique et à la Mer d'Arabie.

 

Le réseau transsibérien des oléoducs

 

Autre projet important : l'exploitation des immenses champs pétrolifères et gaziers d'Asie centrale, de Sibérie et des régions extrême-orientales de la Fédération de Russie. La construction d'oléoducs servira à alimenter l'Europe et l'Asie. Ce projet conduirait, à court ou moyen terme, à faire disparaître la suprématie de la région moyen-orientale en matière d'approvisionnement énergétique et porterait, ipso facto, atteinte aux intérêts anglo-saxons. 78% du pétrole (300 millions de tonnes annuelles) et 87% du gaz naturel (500 milliards de m3 annuels) qui sont pompés en Russie, proviennent de Sibérie. Aujourd'hui 85% du pétrole utilisé dans le monde proviennent de la région autour du Golfe Persique. 100% de ce pétrole est livré via des voies maritimes. Le Japon et la Corée en dépendent pour 90%. La Chine consomme 78% de l'exportation mondiale de gaz liquide. Ces chiffres démontrent clairement l'importance de la politique russe actuelle, visant à développer toutes ces infrastructures. Ils démontrent également que les intérêts anglo-saxons risquent d'être enfreints par un tel développement.

 

La Russie et la Chine

 

Le 9 septembre 2002, la Russie et la Chine ont signé un accord sur la construction d'un système d'oléoducs de 2400 km de long, partant d'Irkoutsk pour aboutir dans le Nord-Ouest de la Chine. Via ce système d'oléoducs, passeront, chaque année, de 20 à 30 millions de tonnes de pétrole. Le consortium russe de gaz naturel, Gazprom, planifie actuellement la construction de quatre oléoducs complémentaires :

◊ 1. Le premier de ces oléoducs partira de la région de Tomsk dans le Nord-Ouest de la Sibérie et aboutira dans le Nord de la Chine.

◊ 2. Le deuxième partira de la région d'Irkoutsk, traversera la Mongolie et aboutira dans le centre de la Chine.

◊ 3. Le troisième partira de Yakoutie, dans le Nord-Est de la Sibérie, sera installé parallèlement à la ligne de chemin de fer orientale, traversera la Chine et aboutira à Changhaï.

◊ 4. Le quatrième traversera l'île de Sakhaline et aboutira au Japon.

 

Pour l'exploitation des ressources pétrolières et gazières autour de Sakhaline, un budget de 25 à 45 milliards de dollars a été prévu pour les vingt prochaines années. Déjà en 1999, le premier pétrole du projet Sakhaline-2 jaillissait du sol.

 

D'après les données fournies par l'expert japonais en matières énergétiques, Masaru Hirata, de l'Université de Tokyo, le réseau d'oléoducs transasiatique, qui est en train de se construire, aura une longueur totale de 42.500 km. Ce projet concerne les régions suivantes :

◊ 1. Le Nord-est de l'Asie et la zone du Pacifique Nord.

◊ 2. Le Turkménistan, la Chine, la Corée et le Japon.

◊ 3. L'île de Sakhaline et le Japon.

◊ 4. La Malaisie, le Golfe de Thaïlande, le Vietnam et la Chine méridionale.

◊ 5. L'Australie et l'Asie du Sud-Est.

 

Les projets en cours autour du bassin de la Caspienne n'entrent pas en ligne de compte ici. A la dynamique extrême-orientale, s'ajoute bien entendu cette dynamique autour de la Caspienne, dont la région est aujourd'hui l'épicentre du «Grand Jeu», évoqué depuis plus de cent ans par les géostratèges anglo-saxons. Ainsi, Zbigniew Brzezinski, dans son livre Le Grand échiquier, a décrit les avatars contemporains de ce «Grand Jeu». Un simple coup d'œil sur la carte permet de juger de l'ampleur de ces projets.

 

Les conséquences de ces projets

 

On se rend compte de l'objectif stratégique de la Russie actuelle, qui cherche à tout prix à se lier plus étroitement à la Chine. On voit aussi clairement que les atouts géopolitiques de la Russie, et les potentialités économiques que recèlent les terres sibériennes, sont autant de cartes que joue Poutine dans sa grande politique. Ce qui étonne, c'est la vitesse ultra-rapide avec laquelle les accords sont pris, souvent entre des puissances jadis ennemies. Vitesse qui étonne d'autant plus que les Etats d'Asie orientale ne sont pas tous maîtres de leurs décisions, vu les limites imposées à leur souveraineté. Dans les perspectives que j'ai acquises à la suite de mes différents voyages récents en Russie, j'ai aussi appris à connaître les raisonnements de l'élite russe. Ils sont assez clairs et surtout très justes. J'ai aussi remarqué que la politique étrangère de la Russie contemporaine cherche un point d'appui en Europe et espère surtout que ce point d'appui sera l'Allemagne. Cet espoir est naturel et intelligent, car d'où pourraient bien venir les ingénieurs, les techniciens, les spécialistes, les équipements? Ce ne sont pas seulement les ressources, les matières premières, les débouchés commerciaux qui font l'économie et la politique, c'est surtout le “capital de nature supérieure”, c'est-à-dire le savoir-faire et le niveau technologique acquis, nécessaires à réaliser de tels projets. Or ce type de capital est l'atout premier de l'Allemagne.

 

L'Allemagne a également intérêt à ce que ses décideurs économiques comprennent enfin que le potentiel intellectuel et industriel allemand soit mis au service de la bonne cause, de projets cohérents, de projets qui ont de l'avenir. L'exemple à suivre nous vient du Japon et des pays asiatiques. Mais voyons une fois de plus comment la politique officielle russe jauge la situation. Le Président de la Commission des Affaires Etrangères, Dimitri Ragozine a exprimé sans fard la teneur de cette politique lors d'un Congrès sur la nouvelle situation politique dix ans après l'effondrement de l'Union Soviétique : «Une bonne partie des questions [que nous nous posons], ce sera à l'Allemagne d'y répondre». Ragozine a voulu dire par ces paroles que la Russie, elle, est prête à agir, mais que l'Allemagne, dans ce même contexte, n'a pas le droit d'agir, car elle doit tenir compte de l'avis des Etats-Unis. Il est donc extrêmement intéressant de voir comment l'une des plus hautes figures de la politique étrangère russe actuelle perçoit le rapport idéal à avoir avec l'Europe, l'Union Européenne et, plus particulièrement, avec l'Allemagne.

 

La Russie et l'Union Européenne

 

Ragozine : «Dans l'avenir, nous nous attendons à ce que les organisations internationales prennent encore des mesures contre la Russie, ce qui entraînera un éloignement de notre pays par rapport à l'Europe; mais, sans la Russie, l'Europe n'a pas d'avenir. La Russie détient les sources de toutes les matières premières dont les pays industrialisés ont besoin. Si l'Europe veut devenir quelque chose, nous, Russes, sommes prêts à accepter et respecter une solide unité européenne, mais cette Europe consolidée devra avoir des liens très étroits avec la Russie». Cette politique concerne directement :

◊ Les communications au sein de l'UE et les routes de transit à travers l'Europe;

◊ La signature d'une charte énergétique commune ;

◊ La coopération multilatérale ;

◊ La coopération économique.

L'Europe centrale est liée à la Russie par tradition et elle a tout à gagner d'une situation géopolitique et économique telle celle qu'esquisse Ragozine.

 

L'Union Economique Eurasienne (Eurasische Wirtschaftsunion)

 

Les Russes reconnaissent clairement que les Etats d'Europe occidentale profitent aujourd'hui des faiblesses de la Russie, mais qu'une telle politique arrive au bout de son rouleau. La Russie officielle pense sur le long terme, le très long terme, prévoit l'avenir plusieurs décennies à l'avance. L'Union Economique Eurasienne (UEE) recevra son impulsion dans l'avenir de la Russie. Ragozine a déclaré que la politique actuelle de son pays, orientée vers l'Asie et l'Extrême-Orient n'est pas seulement motivée par l'économie, mais vise surtout la création d'un nouveau pôle de puissance, dont l'existence même devrait inciter les Européens de l'Ouest à analyser la situation sur l'échiquier mondial de façon plus réaliste. Après avoir posé une telle analyse, les Européens devront, à leur tour, pratiquer une politique rationnelle, c'est-à-dire une politique eurasienne et non plus atlantiste.

 

Le monde est sur le point de subir une mutation en profondeur. Malgré leurs rodomontades, les Etats-Unis sont le dos au mur. En fait, les gesticulations militaires de l'équipe Bush indiquent un déclin plutôt qu'une victoire. Julius Evola, le penseur traditionaliste italien, dans Les hommes au milieu des ruines, avait écrit : « La puissance perd son essentialité lorsqu'elle ne recourt plus qu'à des moyens matériels, c'est-à-dire lorsqu'elle ne recourt plus qu'à la violence, lorsque, pour elle, la violence est un refuge, et que sa puissance n'est plus reconnue comme allant de soi. La puissance doit n'être rien d'autre d'un "moteur immobile" et agir en tant que tel».

 

Et Evola poursuit son raisonnement : « La supériorité ne repose par sur la force coercitive, mais, au contraire, c'est la force coercitive qui doit reposer sur la supériorité. Faire usage de la force coercitive, c'est démontrer son impuissance; celui qui comprend cela, comprendra sans doute aussi le sens et la voie d'un certain renoncement  —un renoncement viril, qui repose sur le sentiment de ne pas “avoir besoin de l'inutile”, sur le sentiment de “posséder en suffisance”, même si on ne possède rien que l'essentiel et rien de superflu; cette vertu du renoncement est l'une des principales conditions pour accéder à la puissance supérieure; elle inclut par ailleurs une logique cachée, selon laquelle  —sur base de traditions que la plupart de nos contemporains prennent pour des mythes, au contraire de nous—  les ascètes, les saints et les initiés produisent soudain, de manière naturelle, l'exercice de puissances supra-sensibles, plus fortes que toutes les forces coercitives exercées par les hommes et par les choses».

 

Rappelons-nous aussi le témoignage historique de cet important homme d'Etat autrichien que fut le Prince Clemens Metternich. Dans son Testament politique, nous avons surtout retenu cette phrase : « Ce n'est pas dans la lutte de la société pour obtenir des progrès, mais dans une approche graduelle vers l'obtention de biens vrais, que j'ai vu le devoir de tout gouvernement et le véritable salut des gouvernés; et ces biens vrais sont la liberté de reconnaître les résultats impassables de l'Ordre [divin], l'égalité là où elle peut seulement s'incarner c'est-à-dire l'égalité de tous devant la loi, le bien-être, lequel n'est pas pensable sans les assises d'une sérénité morale et matérielle, le crédit qui ne peut reposer que sur base de la confiance. Le despotisme, quelle que soit la manière dont il s'exprime, je l'ai toujours considéré comme un symptôme de faiblesse. Là où s'installe le despotisme est un mal qui finit par se sanctionner lui-même; il est encore plus insupportable quand il se cache derrière une défense fallacieuse de la liberté!».

 

Aujourd'hui nous pouvons traduire ce terme de "despotisme" par "utilisation de la violence" (bien que, chez Metternich, l'idée de despotisme ne se rapporte qu'aux affaires intérieures de l'Etat). Quant au "masque" moralisant que prend le despotisme, en voulant promouvoir la "liberté", c'est bien la pratique de l'idéologie dominante et de la politique extérieure des Etats-Unis aujourd'hui : on a simplement remplacé le terme de "liberté" par l'idéologie des "droits de l'homme". Derrière l'évocation de ces droits de l'homme, en effet, l'appareil militaire américain utilise les armes les plus terribles, les plus meurtrières : bombes, fusées, missiles, obus à uranium traité, le tout selon la technique du "tapis de bombes".

 

La situation actuelle doit nous amener à conclure que :

◊ Les Etats-Unis ne sont plus vraiment au zénith de leur puissance. Leur force coercitive est certes plus présente que jamais, mais cette puissance purement matérielle n'a plus de légitimité acceptée, ne représente plus une spiritualité reconnue comme supérieure.

◊ Pour résoudre les conflits du Proche-Orient, de l'espace jadis occupé par l'Etat yougoslave titiste (surtout le conflit entre Serbes et Albanais) et dans les autres contrées de la planète; il faut être animé par une grande idée supra-sensible  —comme d'ailleurs pour donner une forme véritable à l'Europe—  il faut un mythe qui porte les esprits vraiment au-delà des contingences économiques ou des visées purement pragmatiques. Si une telle idée n'existe pas, personne ne sait ce qu'il faut faire, personne ne sait comment les choses doivent évoluer, comment elles doivent s'agencer et se porter vers l'avenir.

 

Les Etats-Unis, en tant qu'hyperpuissance dans le monde devenu unipolaire, ne peuvent plus s'affirmer autrement que par l'exercice d'une violence coercitive inféconde. Un simple coup d'œil sur l'histoire récente prouve la véracité de notre assertion : plus de 200 guerres ont animé et ensanglanté la scène internationale depuis 1945. Les Etats-Unis (et l'Angleterre) sont intervenu militairement dans 70 d'entre elles. L'American Way of Life, un style d'existence dépourvu de toute spiritualité et de toute consistance, se voit de plus en plus rejeter dans le monde.

 

Pire, dans ce contexte de dé-spiritualisation et de violence, la propagande américaine tente de coller de fausses étiquettes sur les peuples, de tromper les autres par la distribution d'étiquettes valorisantes (l'UÇK!) ou infamantes (la Serbie). Dans ce jeu, où l'on ne sait plus où se trouve la réalité et où se niche la fiction, les opinions publiques ne savent plus vraiment s'il y a ou non la guerre, et, plus généralement, ne savent même plus quels sont les véritables enjeux de ces conflits. Dans les euphémismes de la propagande de CNN, on ne parle évidemment plus de guerre mais de "pre-emptive defence" (défense préventive), ce qui nous amène à penser, à l'instar d'Evola, que l'ère de l'impuissance véritable est bien advenue, où la force coercitive joue seule, unilatéralement, et non plus la puissance naturelle et tranquille de l'évidence et de l'exemple. Les Etats-Unis et leurs satellites ouest-européens ne sont-ils pas définitivement condamnés à l'impuissance, parce qu'ils n'ont pas d'idée supérieure, n'ont aucune référence transcendante, non seulement pour construire l'Europe, mais aussi et surtout pour étayer le “Nouvel Ordre Mondial”, annoncé par Washington?

 

Gerhoch REISEGGER.

(Extrait de Wir werden schamlos irregeführt. Vom 11. September zum Irak-Krieg, Hohenrain, Tübingen, 2003, ISBN-3-89180-068-1).      

mercredi, 20 février 2008

Communiqué Kossovo

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Synergies Européennes – Communiqué – 20 février 2008

 

Réflexions sur la proclamation unilatérale de l’indépendance du Kosovo

 

La question se pose : faut-il ou ne faut-il pas reconnaître l’indépendance du Kosovo ? En d’autres termes, peut-on reconnaître le droit d’une population, disposant d’un parlement infra-étatique, à proclamer son indépendance, si la majorité de ses représentants sont en faveur d’une telle démarche ?

 

Dans ce questionnement, deux principes se télescopent :

 

1)       Le droit des peuples à disposer d’eux-mêmes, le droit de toute identité, reposant sur des critères objectifs et des bases concrètes (ethniques, linguistiques, historiques, etc.), à se doter d’un système de représentation politique propre dans un cadre spatio-temporel déterminé, que ce soit dans le cadre d’un Etat multiethnique (selon le modèle helvétique) ou dans un Etat qui prévoit un fédéralisme, plus ou moins étendu, selon d’autres modèles, comme le fédéralisme allemand ou l’Etat de communautés autonomes qu’est actuellement l’Espagne. Ce droit à l’autonomie donne-t-il le droit à l’indépendance ? La question peut demeurer ouverte dans le cadre européen.

 

2)       Le droit des peuples européens à refuser toute balkanisation qui affaiblit le continent dans son ensemble, génère en son sein des conflits exploitables par des puissances tierces, généralement étrangères au territoire européen (selon la terminologie de Carl Schmitt : des « raumfremde Mächte »).

 

Le premier de ces principes est un principe de droit. Le second de ces principes est un principe géopolitique. La déclaration unilatérale de l’indépendance du Kosovo suscite une contradiction : elle oppose, du fait même d’avoir été proclamée unilatéralement, le droit à la géopolitique, alors qu’en Europe droit et géopolitique ne devraient pas s’opposer mais former, de concert, une unité indissoluble. Le droit doit aider à consolider l’ensemble territorial, à barrer la route à toute tentative de dislocation et non à sanctionner des pratiques débouchant sur l’affaiblissement ou le démantèlement.

 

Le droit à l’autonomie, même la plus étendue qui soit, voire à l’indépendance étatique, est inaliénable dans la perspective jadis dessinée par Herder, défenseur philosophe des identités populaires, dans le monde germanique, comme dans les Balkans, justement, où il a compté beaucoup de disciples. Cependant, ce jeu dialectique complexe entre l’identité locale et particulière, d’une part, et, d’autre part, la nécessité d’assurer un cadre solide où toutes ces identités locales et particulières pourraient se déployer en paix et en harmonie implique de bâtir, tous ensemble en Europe, un cadre commun tiré des expériences vécues, souvent tragiquement, par les peuples d’Europe au fil des siècles. Ce cadre commun devrait être l’avatar contemporain d’une unité initiale commune, qui a pris son envol et son essor à partir d’un territoire centre-européen dès la fin de la préhistoire, dans les prémisses de la proto-histoire. Le fait ethno-historique européen s’est diffusé au départ d’un centre, principalement haut-danubien (territoire des cultures du Michelsberg, puis des civilisations de La Tène et de Hallstatt), qui s’est, en suivant les rives du grand fleuve, propagée ensuite dans les Balkans (cultures de Lipinski-Vir, de Starcevo, etc.). Les Balkans sont nôtres, s’ils sont notre Ergänzungsraum immédiat, notre tremplin vers la Méditerranée orientale, l’Egypte, l’Anatolie, le Croisant Fertile.

 

Ce droit à l’autonomie est certes un droit, mais uniquement pour ceux qui reconnaissent pleinement l’unité primordiale de nos peuples avant leur diffusion dans leurs vastes périphéries. L’albanité, comme l’hellenité, la celticité ou l’italité, n’échappent pas à cette règle. Nous reconnaissons donc totalement le principe d’une albanité européenne, en marche vers le Sud, vers la Méditerranée orientale et vers l’Egypte (Mehmet Ali était d’origine albanaise). Mais le Kosovo, en devenant musulman après la conquête ottomane, cesse d’être cette albanité capable de se projeter vers ce Midi et cet Orient pour agrandir l’ager europeus. C’est la trahison par rapport à l’esprit du grand héros Skanderbeg, capitaine en Adriatique au XV° siècle, aux portes de la Méditerranée orientale, contre les Ottomans. En devenant ottomane et musulmane, l’albanité tourne ses forces contre le centre de l’Europe, se fait fer de lance de deux directions géopolitiques étrangères et donc ennemies de l’Europe : la direction des peuples turco-mongols (qui part de Mongolie vers la puszta hongroise et vers l’Adriatique) et la direction des peuples hamito-sémitiques (qui part de la péninsule arabique vers tous les azimuts).

 

Indépendant, le Kosovo deviendrait le troisième Etat musulman dans les Balkans après l’Albanie et la Bosnie. Il formerait avec elles une avant-garde pantouranienne (turco-mongole) et arabo-musulmane (hamito-sémitique) au beau milieu d’une région qui fut toujours le tremplin de l’Europe vers sa périphérie est-méditerranéenne et égyptienne. Une Europe verrouillée en cette région même des Balkans n’aurait plus de réelle ouverture sur le monde, serait condamnée au sur-place et à l’implosion. Que l’on se souvienne des peuples pré-helléniques qui feront la gloire de la Grèce antique : ils ont d’abord transité par les Balkans, y compris les Macédoniens de Philippe et d’Alexandre. Que l’on se souvienne de Rome, qui a d’abord dû pleinement maîtriser les Balkans avant de passer à l’offensive en Asie Mineure et de jeter son dévolu sur l’Egypte. L’Europe ne peut tolérer de corps étranger dans cette région hautement stratégique. Tout corps étranger, c’est-à-dire tout corps qui entend appartenir à des ensembles qui ne respectent pas les directions géopolitiques traditionnelles de l’Europe, empêche le développement actuel et futur de notre continent. Dans les luttes planétaires qui se dessinent en cette aube du XXI° siècle, accepter un tel affaiblissement est impardonnable de la part de nos dirigeants.

 

Dans les querelles qui ont animé, au cours de ces dernières années, la petite scène intellectuelle parisienne, certains polémistes ont argué qu’il y a, ou avait, alliance implicite entre le germanisme centre-européen et l’ottomanisme, puis entre le germanisme et les indépendantistes bosniaques et albanais, pendant les deux grandes conflagrations mondiales de 1914-1918 et de 1939-1945. Cet argument ignore bien évidemment le changement de donne. Le pôle majeur de puissance, qui se projetait en ces époques, se situait justement au centre de notre continent, dans les bassins fluviaux parallèles du nord de l’Europe et dans le bassin danubien, et entraînait le pôle ottoman dans une dynamique dirigée vers le Sud, vers l’Océan Indien. Dans le conflit balkanique qui a émergé dans les années 90 du XX° siècle, le centre de l’Europe n’était plus du tout un pôle de puissance ; il était divisé (balkanisé !) et vassalisé. La réactivation des particularismes bosniaques et albanais n’était plus le fait d’un pôle de puissance européen, cherchant à se projeter vers le bassin oriental de la Méditerranée ou vers la Mésopotamie et l’Océan Indien, en neutralisant positivement, par une politique de la main tendue, quelques minorités musulmanes. Cette nouvelle réactivation, dans la dernière décennie du XX° siècle, était le fait de l’alliance entre Wahhabites saoudiens et Puritains d’Outre-Atlantique cherchant, de concert, à créer une « dorsale islamique » (selon la terminologie des géopolitologues serbes, dont notre ami tant regretté Dragos Kalajic) dont la fonction géostratégique devait être double : 1) bloquer le Danube à hauteur de la capitale de la Serbie et 2) installer sur la ligne Belgrade-Salonique un bloc territorial soustrait à la souveraineté serbe, parce que cette ligne est la voie terrestre la plus courte entre le centre danubien de l’Europe et le bassin oriental de la Méditerranée.

 

Un bloc territorial de cette nature, recevant l’appui wahhabite et américain, est inacceptable d’un point de vue européen, même si la galerie des traîtres, des crétins et des écervelés qui se piquent de représenter l’Europe à Bruxelles ou à Strasbourg prétend le contraire. Cette galerie d’idiots raisonne en dissociant le droit de la géopolitique, alors qu’il faudrait les penser en fusion et en harmonie.

 

Le Kosovo, qui plus est, outre cette position centrale qu’il occupe sur la ligne Belgrade-Salonique, est l’ancien « Champ des Merles », site de la bataille sanglante qui a opposé l’armée médiévale serbe aux envahisseurs ottomans. Sur ce sol sacré, l’aristocratie serbe a versé tout son sang pour la sauvegarde de l’Europe. Le « Champ des Merles » est donc devenu, par le sacrifice de cette chevalerie, un territoire sacré, hautement symbolique, non seulement pour la Serbie et pour les autres peuples balkaniques en lutte contre la barbarie ottomane, mais aussi pour les Hongrois, Bourguignons et Impériaux qui ont tenté des croisades infructueuses pour rendre nulle et non avenue la victoire turque du Champ des Merles. L’oublier constitue une autre faute cardinale et impardonnable : c’est désacraliser l’histoire, désacraliser le politique, privilégier le procédurier et le présentisme dans les raisonnements et les démarches politiques et géopolitiques ; c’est oublier, en amont comme en aval, le long terme au profit de l’immédiat et du superficiel. Non possumus : nous ne basculerons jamais dans de tels travers.

 

Plusieurs pays européens refusent de reconnaître l’indépendance du troisième maillon de la « dorsale islamique », dont l’Espagne, et les pays majoritairement orthodoxes comme la Roumanie et la Bulgarie. En France, dans la sacro-sainte « République » posée comme la parangonne indépassable de toutes les vertus philosophiques, les deux nouveaux plastronneurs burlesques de la politique, l’universaliste médiomane Kouchner et son président, Sarközy, surnommé le « nain hongrois », s’apprêtent bien entendu à reconnaître, trompettes pétaradantes et tambours battants, l’entité wahhabito-américaniste qu’est le Kosovo. On se demande comment Voltaire ou Robespierre, dévots de la Déesse Raison, concilieraient leur laïcisme et la bigoterie des Wahhabites et de leurs alliés américains. Mais la reconnaissance par Sarko et Kouchner du Kosovo est au moins une bonne nouvelle, car on se demande ce que les deux larrons pourraient bien rétorquer si demain une brochette de puissances européennes ou autres acquerrait brusquement l’envie de reconnaître une république corse, un nouveau duché de Bretagne ou un nouvel Etat insulaire dans les DOM-TOM ou, plus facilement encore, le retour à l’indépendance savoisienne qui existe de jure. L’indépendance de la Savoie pourrait devenir très légalement le premier levier pour réanimer l’existence politique et étatique de la Bresse (province savoisienne), de la Lorraine (grand-duché impérial), de la Franche-Comté, etc. De fil en aiguille, la vieille Lotharingie reprendrait forme, reprendrait pied le long du Rhône en Provence et dans le Dauphiné, rendant tout à coup actuel le Testament de Charles-Quint (que nous n’aurions jamais dû oublier, ni à Munich ni à Vienne ni à Rome ni à Madrid ni à Bruxelles).

 

La Russie, pour sa part, pourrait, par le biais d’une interprétation jurisprudentielle de l’indépendance du Kosovo, faire accepter l’indépendance de deux provinces géorgiennes : l’Abkhazie et l’Ossétie du Sud, disloquant du même coup le principal pion américain et otanesque dans le Caucase.

 

Quelle que soit l’issue de l’indépendance kosovar en Europe, elle nous offre des possibilités d’action :

 

1)       si personne ne la reconnaît ou si de fortes résistances s’opposent à sa pleine reconnaissance, il n’y aura pas de « dorsale islamique » ni de bloc territorial obstruant sur la ligne Belgrade-Salonique.

 

2)       Si tous reconnaissent le Kosovo indépendant, nous avons un prétexte pour disloquer la France et reconstruire le flanc occidental et roman du Saint Empire défunt mais dont seule la restauration permettrait à l’Europe de se redonner une épine dorsale politico-spirituelle. Cette restauration signifierait simultanément la mort définitive de l’idéologie républicaine, cette nuisance pernicieuse qui atteint le sommet du ridicule avec le binôme Sarközy-Kouchner. Le seul danger d’une reconnaissance générale de l’Etat kosovar serait de donner prétexte aux Musulmans des presidios de Ceuta et Melilla de réclamer une indépendance analogue, avec la bénédiction des mêmes parrains wahhabites et yankees. Raison pour laquelle l’Espagne refuse de reconnaître le nouvel Etat auto-proclamé (outre le fait basque).

 

Dans tous les cas de figure, nous aurons l’occasion de militer en faveur de notre vision de l’Europe. De demeurer des combattants. De véritables « zoon politikon ». Les Vestales d’un inéluctable Grand Retour de la tradition impériale.

dimanche, 17 février 2008

Stratégie contre-mondialiste de l'Axe Paris-Berlin-Moscou

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Jean PARVULESCO:

La stratégie contre-mondialiste de l'Axe Paris-Berlin-Moscou

C'est lors du retentissant discours qu'il avait fait le 12 mai 2000 à l'Université Humboldt de Berlin que Joschka Fischer, l'actuel ministre des Affaires étrangères de l'Allemagne avait lancé son appel en faveur d'une Europe fédérale s'appuyant sur le noyau fondationnel franco-allemand, sur le "Pôle Carolingien" d'une union fédérale de la France et de l'Allemagne devant constituer ainsi, ensemble, l'arma­tu­re intérieure, l'îlot central de soutien et de mobilisation per­manente d'une Europe politiquement élargie, de ce que sera sans doute la future "Grande Europe". Ce retour de Josch­ka Fischer sur le fédéralisme du noyau de base franco-allemand représente sans doute une tentative majeure en faveur de la relance politique du concept de "Grande Eu­ro­pe", qui se lève à l'horizon ouvert des prochaines années du nouveau millénaire.

Sans tarder, Wolfgang Schäuble, l'ex-président de la CDU, de la démocratie chrétienne allemande, ainsi que Hans Diet­rich Genscher, prédécesseur de Joschka Fischer à la tê­te du ministère allemand des Affaires étrangères, se sont déclarés, chacun de son côté, entièrement d'accord avec les propositions fédérales européennes que venait de faire, à Berlin, l'actuel ministre des Affaires étrangères d'Alle­ma­gne. Ainsi un consensus en profondeur semblerait se déga­ger, en Allemagne, englobant l'ensemble de l'arc de cercle de l'actuelle réalité politique allemande, en faveur des thè­ses fédéralistes grand-européennes avancées par Joschka Fi­scher. Et de ce que celles-ci impliqueraient à plus longue échéance.

Renforcer l'Union Européenne dans un monde multipolaire

Ainsi, dans un entretien avec Le Figaro, en date du 20 mai 2000, Hans Dietrich Genscher encadrait-il parfaitement la somme de problèmes soulevés par les déclarations de Josch­ka Fischer:

(1) "L'intention de Fischer est maintenant de renforcer l'U­nion européenne dans la perspective de son élargisse­ment. Il s'agit d'en faire un acteur efficace du nouvel ordre mon­dial".

(2) "Au monde bipolaire de la guerre froide s'est substitué un monde multipolaire. Les Etats-Unis, la Russie, la Chine et, à quelque distance, le Japon, y ont déjà pris place. L'Inde va entrer dans le club. Il ne faut pas que l'Europe soit en reste. A ses débuts, le nouveau gouvernement allemand avait laissé un peu en friche le terrain de la politique étrangère. Ce plan Fischer lui restitue un visage européen sur l'arrière-plan de la mondialisation. Fisher voit loin. Il aura des contradicteurs, mais il tient le bon bout".

Bien entendu, que l'actuel ministre des Affaires étrangères de l'Allemagne ait vivement ressenti, et pour une fois pu dire clairement et très fort la nécessité d'un renforcement significatif des liens politiques unissant déjà la France et l'Allemagne au sein de l'Europe, renforcement que l'on en­tend porter jusqu'à l'institution immédiate d'une relation fé­dérale des deux pays, d'une relation fédérale spéciale, destinée à servir de banc d'incitation, de pôle d'attraction et de chantier ouvert à l'intention d'autres pays européens disponibles, dans la course, déjà, de l'intégration politique, quoi de plus normal?

L'inconcevable omission de la Russie

Mais, ce qui, par contre, apparait en même temps là com­me tout à fait anormal, c'est l'inconcevable omission de la Russie dans la proposition de Joschka Fischer quant au pro­jet d'un "ilot central" fédéraliste destiné à devenir le cœur de la future Grande Europe. Car, désormais, qu'est-ce que l'Europe mutilée de la Russie ? Rien, une fiction velléitaire, un leurre social-démocrate de plus, conçu pour qu'il barre préventivement les chemins devant le projet révolutionnai­re de l'axe Paris-Berlin-Moscou, qui seul peut assurer une réa­lité politico-historique décisive à la plus Grande Europe, au "Grand Continent" eurasiatique suprahistoriquement non pas unifié, mais réunifié. Car c'est bien d'une réunification suprahistorique finale qu'il s'agit là et si on ne l'a pas com­pris, on n'a rien compris.

Est-ce donc possible que l'aveuglement politique  —sans dou­te, d'ailleurs, bien volontaire— de la social-démocratie allemande à l'égard de la véritable situation politico-histo­rique de l'Europe actuelle, violemment en butte à l'agres­sion politico-stratégique permanente de la conspiration mon­­dialiste dirigée par la "Superpuissance Planétaire des Etats-Unis" ainsi qu'à l'égard de la nouvelle mission im­périale de la Russie par rapport à l'Europe d'aujourd'hui et, surtout, de demain, puisse atteindre de telles dimensions d'inconséquence dangereuse, riches déjà de quels futurs dé­sastres.

Un front clandestin de libération de l'Europe

Dans la conjoncture politique européenne actuelle, dont la caractéristique décisive est celle de l'installation préven­ti­ve sur place d'une vaste conspiration social-démocrate par­tout au pouvoir dans l'actuel espace politique européen, conspiration social-démocrate mise subversivement en pla­ce et dirigée, dans l'ombre, par la "Superpuissance Plané­taire des Etats-Unis", les combats pour la libération de l'Eu­rope ne peuvent plus être, aujourd'hui, que des combats sou­terrains, les combats désespérés d'une résistance clan­destine. Car il y a un front clandestin de libération de l'Eu­rope, qui reste, à présent, la dernière chance d'une nou­velle liberté politico-historique européenne face à la con­spiration mondialiste qui veut sa fin, qui se bat pour la fin de l'Europe, et de ses libertés géopolitiques impériales et suprahistoriques.

Le fait même que les responsables politiques de l'actuelle Eu­rope social-démocrate ignorent ou font semblant d'igno­rer l'existence, la grande prédestination de la Russie, alors que c'est désormais grâce exclusivement à la Russie que l'Europe, la plus Grande Europe, l'Europe grand-continen­ta­le eurasiatique puisse déjà prétendre à son existence à ve­nir, donne la juste mesure de l'égarement idéologique et, finalement, de l'immense trahison politique et historique de la social-démocratie européenne au service non pas de la liberté de conscience de l'Europe  —et bien moins encore de ses combats de libération, combats souterrains, clande­stins, désespérés— mais de son assujettissement subversif aux intérêts, aux buts d'emprise impérialiste de la conspi­ra­tion mondialiste en action. Tous les régimes social-démo­cra­tes actuellement au pouvoir en Europe  —et, d'ailleurs, par­tout dans le monde—  ne sont que des régimes supplé­tifs, des régimes-harkis à la disposition de la force d'occu­pa­tion mondialiste américaine agissant dans l'ombre.

L'ouvrage fondamental d'Alexandre Del Valle

L'Europe occidentale, "tête de pont" géostratégique de l'A­mé­rique en Eurasie, intitule Alexandre Del Valle un cha­pitre de son livre Guerres contre l'Europe. Bosnie - Kosovo - Tchétchénie, publié par Pierre Guillaume de Roux aux Edi­tions des Syrtes, Paris, 2000.

Ouvrage fondamental, ouvrage visionnaire, ouvrage d'utili­sa­tion contre-stratégique immédiate s'il en fut. Et qui livre les clefs confidentielles des plans de bataille de l'encer­cle­ment ontologique de l'Europe, de la conspiration mondia­liste qui ne peut atteindre ses ultimes objectifs planétaires qu'en empêchant que la Grande Europe impériale eura­sia­tique ne puisse se faire. A travers son agression politico-mi­li­taire contre la Serbie, la conspiration mondialiste des E­tats-Unis s'est directement attaquée à l'Europe, la guerre in­tercontinentale de la fin est commencée.

Je cite l'ouvrage d'Alexandre Del Valle, Guerres contre l'Eu­rope. Bosnie - Kosovo - Tchétchénie, qui confirme inté­gra­le­ment nos propres thèses.

(1) "Conscients qu'une Europe forte et indépendante serait en mesure de dépasser l'Amérique dans tous les domaines de la puissance, notamment économique, les stratèges a­mé­ricains veulent à tout prix prévenir le moindre réveil, tuer dans l'œuf la moindre velléité d'autonomie euro­péenne, au cas où des dirigeants lucides décideraient de mettre sur pied une Grande Europe continentale, récon­ciliant ses "deux poumons", orthodoxe et occidental. D'où la volonté américaine d'affaiblir et de diluer le continent eu­ropéen en incluant  —au nom de l'OTAN— la Turquie dans l'Union Européenne et en éloignant consécutivement encore un peu plus celle-ci de la Russie, afin que la constitution d'une Grande Europe continentale indépendante et forte, susceptible de concurrencer les Etats-Unis —mais ainsi ren­due impossible— ne voie jamais le jour".

(2) "Vis-à-vis de l'Est européen, les Etats-Unis mènent donc une double politique consistant: primo, à étendre l'OTAN aux portes de la Russie, en intégrant au "monde occidental" les nations anti-russes de l'ex-Bloc soviétique en voie d'in­du­strialisation, de culture catholico-protestante (Hongrie, Pologne, ex-Tchécoslovaquie, etc.) et islamique (Turquie, républiques musulmanes d'Asie centrale, Bosnie, Albanie-Kosovo, etc.); secundo, à affaiblir la Russie, la "refouler" vers l'Asie et la couper de l'Europe occidentale. Il s'agit ain­si de scinder le continent européen en deux, en réactivant une "nouvelle guerre froide" entre un Est post-byzantin ex-soviéto-communiste et un Ouest américanisé, un nouveau "choc géocivilisationnel" entre les "deux Europes" opposées l'une à l'autre autour des pierres d'achoppement straté­gi­ques islamo-occidentale et socio-économique".

La superpuissance unique veut se perpétuer

(3) "La doctrine stratégique "globale" des Etats-Unis appa­raît clairement dans le nouveau concept américain de "stra­tégie nationale de sécurité", dont le contenu fut révélé au grand public à l'occasion de la parution, le 8 mars 1992, dans le New York Times, d'une version du Defence Planning Guidance du Pentagone élaboré en liaison avec le Conseil national de sécurité (NSA), plus haute instance américaine de sécurité et de politique internationale. On y apprend que les Etats-Unis d'Amérique doivent tout faire pour dis­suader d'éventuels rivaux, parmi les pays avancés et in­dus­trialisés, de défier notre domination, ne serait-ce que d'as­pirer à un rôle plus grand à l'échelle mondiale ou régionale (...). La mission des Etats-Unis sera de s'assurer qu'il ne soit permis à aucune puissance rivale d'émerger en Europe oc­cidentale, en Asie ou sur le territoire de la CEI". En bref, il s'agit ni plus ni moins d'empêcher l'Europe et le Japon, "al­liés" relativement dociles, ainsi que la Russie affaiblie, mais encore redoutable, de relever la tête et de porter un jour ombrage à l'"hégémonie bienveillante" de Washington; en fait à la formidable machine économico-commerciale amé­ricaine. "La politique étrangère américaine doit se donner pour but de convaincre d'éventuels rivaux qu'ils n'ont pas be­soin de jouer un grand rôle. Notre statut de super­puis­sance unique doit être perpétuer par une force militaire suf­fisante pour dissuader n'importe quelle nation ou quel groupe de nations de défier la suprématie des Etats-Unis, et de chercher à mettre en cause l'ordre économique et po­litique établi (...). Nous devons empêcher l'émergence d'un système de sécurité exclusivement européen qui pourrait déstabiliser l'OTAN. En Extrême-Orient, il faut rester at­ten­tif aux risques de déstabilisation qui viendraient d'un rôle accru de nos alliés, en particulier du Japon", explique le De­fence Planning Guidance". (Pages 10,11, 161,162).

Ces documents, en fait, rendent inutile tout commentaire, qui de par eux-mêmes éclairent d'un jour singulièrement inquiétant les temps des prochaines confrontations améri­ca­no-européennes, désormais fatales.

Trouver la faille salvatrice dans la stratégie de l'anaconda

Autrement dit, il faut savoir reconnaître que, à l'heure ac­tuelle, la guerre politico-subversive totale est secrètement déclarée entre la conspiration mondialiste régie par la "su­perpuissance Planétaire des Etats-Unis" et l'Europe  —l'Eu­rope de l'Ouest, et l'Europe de l'Est, déjà ensemble sur la li­gne du front—  qui cherche les voies propres de son auto-li­bération révolutionnaire. La faille salvatrice.

Du côté de l'encerclement, de l'enserrement  —la stratégie de l'anaconda, que Karl Haushofer avait identifié comme la stratégie naturelle, inconsciente, instinctive de l'Améri­que— exercé actuellement par la conspiration mondialiste à l'égard de l'Europe plus ou moins déjà sur la défensive, il est définitivement certain que tout le travail politico-stra­tégique subversivement poursuivi par les services secrets de Washington, ces dix dernières années, en Europe et con­tre l'Europe, n'avait, comme on vient de le voir, qu'un seul but final, celui de l'implantation totalitaire des régimes social-démocrates à leur service, pour empêcher, ainsi, tout retour de l'Europe à son identité antérieure, à l'être de sa propre liberté historique totale. Cependant, de leur côté, les forces vives, cachées, de la résistance européenne ayant choisi la clandestinité, n'ont plus devant elles, pour survivre à la tâche, que l'engagement en avant, incondi­tion­­nel, dans une contre-stratégie révolutionnaire de di­men­sions déjà continentales. A l'actuelle agression in­té­rieure et extérieure dont elle fait l'objet de la conspiration mondialiste à l'œuvre, l'Europe ne peut plus opposer, le dos au mur, que seule sa volonté inspirée d'une intégration im­périale de visée suprahistorique, transcendantale, eschato­lo­gique, l'intégration grand-cont inentale eurasiatique de la fin. Jouer le tout pour le tout, et d'un seul coup.

Or, dans l'état actuel des choses, l'intégration grand-conti­nentale eurasiatique de l'Europe doit très impérativement prendre le passage obligé de la mise en piste préalable de l'axe Paris-Berlin-Moscou, qui représente, en effet, la faille salvatrice pour les nôtres.

En finir avec la mainmise de la social-démocratie

Ce qui revient à exiger la double mobilisation des nôtres, d'une part, pour en finir, par tous les moyens, avec la main­mise subversive de la social-démocratie et de ses conspirations partout à l'œuvre, partout au pouvoir en Eu­ro­pe et, d'autre part pour parvenir à une implantation ré­volutionnaire décisive dans la conscience collective euro­péenne d'une représentation suractivée de la nécessité ab­so­lue et immédiate, de l'intégration grand-continentale, dont la première phase opérationnelle devra être celle de la mise en piste politique de l'axe Paris-Berlin-Moscou. La ba­taille finale pour la libération de l'Europe, sera donc une ba­taille qui va devoir se porter en termes de conscience, la ba­taille pour sa prise de conscience finale d'elle-même et de sa grande prédestination polaire des origines.

Ainsi le double épreuve qui est celle du démantèlement en force de la mainmise social-démocrate sur l'ensemble de l'actuel pouvoir politique européen, en même temps que celle de l'accession de l'Europe dans son entier à la cons­cience révolutionnaire de sa propre unité préontologique, de sa prédisposition impériale eurasiatique, constitue-t-elle la ligne de passage même de l'Europe actuellement en état de non-être à l'Europe à nouveau capable de maîtriser ré­vo­lutionnairement ses destinées politico-historiques propres, consciente à nouveau de sa mission suprahistorique finale.

L'histoire, cependant, ne fait jamais des cadeaux, tous les ob­jectifs appartenant à la définition active des grandes pré­destinations politico-historiques à accomplir doivent ê­tre emportés, toujours, de haute lutte, tragiquement, hé­roïquement. Telle apparaît donc comme étant la tâche de no­tre génération, la génération vouée à la mission révo­lu­tion­naire décisive du salut et de libération de la plus Gran­de Europe de son actuel assujettissement à la conspiration mondialiste régie par la "Superpuissance Planétaire des E­tats-Unis".

Un commandement d'action immédiate et totale

Or c'est le devenir circonstanciel même de la présente his­toire mondiale, à l'heure fatale de l'accomplissement d'un destin secret déjà inéluctablement en marche, qui fait que nous nous trouvons appelés aujourd'hui devant un comman­dement d'action immédiate et totale: c'est maintenant ou ja­mais qu'il nous faut agir, et qu'en agissant l'on emporte la partie.

Ainsi qu'on n'a cessé de le répéter, le passage à l'action ré­volutionnaire directe de l'Europe souterraine, de l'Europe dé­jà clandestinement engagée dans le combat pour sa li­bé­ration, ne peut ni ne doit se faire qu'à partir de la mise pi­ste politico-historique de l'axe Paris-Berlin-Moscou.

Malheureusement, ni la France ni l'Allemagne ne se trou­vent à l'heure présente disposées, ni surtout pas en état de prendre l'initiative politique de l'axe Paris-Berlin-Moscou.

La Russie: pivot originel, bunker ontologique de départ

Seule la Russie pourrait le faire, mais encore faudrait-il qu'au préalable y apparaisse l'"homme providentiel", l'"hom­me du plus grand destin", qui seul saurait prendre sur lui d'en­gager la Russie dans la grande aventure impériale eu­rasiatique présupposée comme nécessairement consécutive à la mise en place de l'axe Paris-Berlin-Moscou, qui n'en est que le pivot originel, le bunker ontologique du départ.

Car, de toutes les façons, l'Europe sera grand-conti­nen­tale eurasiatique, ou ne sera pas. En fait, le noyau fédéral franco-allemand proposé aujourd'hui par Joschka Fischer ne représente déjà plus rien: l'Europe à laquelle il en appelle n'est pas l'Europe, mais une sorte d'apparition spectrale, ec­to­plasmique de celle-ci. La véritable Grande Europe, c'est l'Imperium qui émergera autour de l'axe Paris-Berlin-Moscou, quand celui-ci sera devenu l'axe Madrid-Paris-Ro­me-Berlin-Moscou-New Delhi-Tokyo.

Ainsi le seul intérêt du projet fédéral de Joschka Fischer réside-t-il dans le fait qu'en proposant un noyau fédéral dur franco-allemand, auquel viendraient se joindre par la suite, et également fédéralisés, les autres pays européens en­vi­sa­gés, il outrepassait les interdits les plus formels de la con­spiration mondialiste américaine, qui ne supportera abso­lu­ment pas que l'émergeance d'une Europe Fédérale, fût-elle réduite à son expression réduite, mutilée, fût-elle même d'o­rientation social-démocrate, puisse avoir lieu dans l'es­pace européen sous son contrôle. A quoi correspond-elle au juste, on se le demande, cette tentative de Joschka Fi­scher? L'Allemagne envisagerait-elle finalement de s'em­bar­quer dans une manœuvre politique parallèle, en prenant des risques considérables? Berlin entamerait-il, ainsi, qui sait quel chantage politique, qui sait quelle obscure épreu­ve de force avec Washington, ou bien Berlin et Washington font-ils, ensemble, un jeu encore indéchiffrable, poussent-ils en avant une nouvelle phase du jeu américain secret de la social-démocratie en place?

Moscou devra donner le signal de départ

Quant à nous autres, on peut déjà s'aventurer à affirmer que la bataille politique décisive pour la mise en activité du projet de l'axe Paris-Berlin-Moscou est à présent com­men­cée, et que c'est bien à Moscou même que, pour le mo­ment, nous avons choisi d'installer le centre opérationnel de sa mise en situation de départ immédiat.

Si c'est à Moscou qu'il appartient de prendre l'initiative, c'est à Moscou que nous allons devoir commencer par met­tre la pression, essayer de susciter la grande lame de fond porteuse de l'enthousiasme révolutionnaire à l'égard de la représentation supra-mentale collective du projet de l'axe Pa­ris-Berlin-Moscou. C'est Moscou qui, comme on l'a dit, de­vra donner le signal du départ, un mystérieux rituel l'exige.

Aussi devons-nous concentrer toutes nos disponibilités d'a­gi­tation, d'influence et d'intervention pour porter à l'in­can­descence l'intérêt abyssal de nos structures idéologico-ré­volutionnaires de présence et d'encadrement agissant sur place, à Moscou, de manière à ce que l'heure venue, celles-ci puissent déterminer, depuis les profondeurs, l'entrée en action des médias et des grands groupements d'influence politique, culturelle, voire même religieuse, ainsi que, fi­na­lement, des instances gouvernamentales actives, pour promouvoir, pour exiger une initiative politique décisive de Moscou en faveur du projet de l'axe Paris-Berlin-Moscou. Initiative de Moscou à laquelle nous nous engageons d'ob­te­nir les réponses attendues de Paris et de Berlin. Il faudra donc qu'en même temps nous entreprenions d'urgence un dou­ble mouvement analogue de réveil, d'exacerbation, à Pa­ris et à Berlin, en mettant à l'épreuve d'une manière ex­trê­mement intensive les "groupes géopolitiques" dont nous disposons, sur place, à l'heure actuelle, afin que la figure mo­bilisatrice du projet de l'axe Paris-Berlin-Moscou y soit présente, et agisse suivant nos plans.

Ce qui implique  —on se trouvera obligés de le faire— que les "groupes géopolitiques" sortent de leur demi-clan­des­ti­nité pour agir à découvert, situation nouvelle qui ne sera pas sans comporter sûrement d'assez graves dangers. Mais il n'est moins certain que, de par cela même, la mainmise politique de la soi-disant social-démocratie sur l'ensemble du pouvoir politique en place s'en trouvera violemment con­testée, et que, de toutes les façons, nous allons devoir al­ler à l'épreuve de force.

Une "opposition nationale" inexistante, de pure frime

Et il n'est même pas impossible que l'épreuve de force en­tre la social-démocratie au pouvoir et les forces de contes­ta­tion qui vont s'élever alors contre l'état de fait puisse pren­dre aussitôt les allures d'une guerre civile, les choses apparaissant ainsi d'autant plus étranges que les forces de contestation se levant contre la dictature à la fois sour­noi­se et totalitaire de la social-démocratie seront tout fait inconnues, n'ayant encore fait état, ouvertement, de leur existence, et ne manifestant donc aucune relation avec ce que l'on appelle, sans doute par dérision, l'"opposition na­tio­nale" —soi-disant "gaulliste"— et autres formations de la même frime, salement complices, à la traîne, et dans l'i­mitation honteuse du pouvoir en place—  "opposition na­tio­nale" dont les positions affichées font ouvertement assaut d'allégeance aux mots d'ordre de la conspiration mondia­liste se tenant présente dans l'ombre.

D'autre part, il faudra aussi que le déclenchement de la campagne, à Moscou, en faveur du projet de l'axe Paris-Berlin-Moscou, coïncide en quelque sorte avec l'apparition soudaine, et avec la prise du pouvoir présidentiel par l'"hom­me providentiel", par "celui que l'on attend", de ma­niè­re à ce que l'on puisse être certains de l'attitude du gou­vernement russe à ce sujet. Le gouvernement de Moscou de­vant alors, en effet, s'emparer de la pétition en cours pour le projet de l'axe Paris-Berlin-Moscou, pour en faire son propre cheval de bataille, au niveau propre de la "gran­de politique". L'affaire devant être en dernière instance trai­tée d'Etat à Etat entre la Russie, la France et l'Alle­magne.

"Celui que l'on attend”

D'ailleurs, si l'"homme providentiel" qui devra prendre le pou­voir présidentiel à Moscou se trouve identique à la fi­gu­re visionnaire, prophétique, de "celui que l'on attend", il de­vra y avoir déjà pensé, de par lui-même, au problème révolutionnaire fondamental de l'axe Paris-Berlin-Moscou, qui est le problème absolument prioritaire du "nouveau pou­voir" à Moscou, quel qu'il sera.

Le projet de l'axe Paris-Berlin-Moscou sera prêt à être im­mé­diatement activé au moment où les puissances natio­na­les révolutionnaires des élites et des masses françaises, al­le­mandes et russes suractivées par nos soins rencontreront, et épouseront, sur leur montée même, la triple volonté d'E­tat de la France, de l'Allemagne et de la Russie, car c'est bien cette rencontre qui est appelée à fonder, à renouveler abys­salement l'histoire grand-européenne asiatique.

Et ce n'est pas du tout que l'on essayerait d'escamoter, à pré­sent, ce qu'à ce moment-là ne va pas pouvoir ne pas être la farouche opposition de la conspiration mondialiste américaine face à l'émergence, en Europe, de l'axe Paris-Berlin-Moscou, la libération de l'Europe aura alors déjà été acceptée, l'encerclement politique et tous les interdits po­li­tico-stratégiques opposés par la conspiration mondialiste américaine à la plus Grande Europe naissante défoncés, ba­layés, anéantis par le soulèvement des forces national-eu­ro­péennes de libération révolutionnaire. Car, dans état ac­tuel des choses, il est de fait impossible que l'axe Paris-Ber­lin-Moscou en vienne à se trouver installé avant que la libé­ration politique totale de l'Europe ne soit déclarée, et c'est précisément la déclaration de l'installation, de la mise en pla­ce de l'axe Paris-Berlin-Moscou qui marquera l'avène­ment en marche de la plus Grande Europe, l'arrachement ré­volutionnaire de celle-ci à l'emprise assujettissante de la "Superpuissance Planétaire des Etats-Unis".

Conduire l'offensive du désencerclement

La guerre idéologique de l'axe Paris-Berlin-Moscou va être faite par les grandes batailles de conscience à venir, et c'est nous autres qui détiendrons alors le commandement suprême de ces batailles. Le renversement fondamental du front intérieur de la bataille décisive pour la libération de la conscience européenne fera que la conspiration mondia­lis­te américaine sera alors réduite à la défensive, et que c'est nous autres qui conduirons l'offensive du désencercle­ment et de l'affirmation finale de nos propres positions grand-européennes, qui l'auront emporté.

Lors d'une récente réunion de groupe, quelqu'un avait fait l'observation fort juste que le projet de l'axe Paris-Berlin-Moscou engage avec lui comme une puissante présence chamanique ancestrale, sacrée. Or il n'y a là rien d'impré­vu, rien de très étonnant: le profond changement de l'his­toire d'un vaste groupement de populations essentiellement identiques quant à leur être caché mais différentes en sur­face doit toujours secrètement mettre en branle des colos­sales puissance spirituelles souterraines, dont la mise en œu­vre relève sans doute de certaines identités occultes, inavouables, d'un ordre transcendantal. Des identités sur­na­turelles, sans visage.

Balzac: grande famille continentale et mystère de civilisation

Qu'on le veuille ou non, ce point de vue risque de s'impo­ser, à la fin. Magiquement. Et cela d'autant plus que ce mê­me point de vue représente une profonde constante de l'es­prit européen dans son intemporalité souterrainement acti­ve.

Concluons donc ce bref écrit de combat sur le projet con­tre-stratégique, actuellement en cours, de l'axe Paris-Ber­lin-Moscou, en citant ce que Ernst Robert Curtius appelait, dans son monumental Balzac de 1933, l'"allusion" de l'auteur de la Conspiration des Treize à une certaine "Europe com­me mystère", à cette grande famille continentale, dont tous les efforts tendent à ne je sais quel mystère de civi­lisation.

Or cette grande famille continentale de laquelle Balzac avait eu en son temps la prescience visionnaire n'est autre, en fait, que celle précisément de cette conspiration per­ma­nente qui, de siècle en siècle, perpétue souterrainement la volonté d'intégration impériale finale du "Grand Continent" eurasiatique et de la réalisation des buts eschatologiques oc­cultes de celle-ci, conspiration qui constitue ce que Bal­zac appelait, lui, d'une si géniale manière, un mystère de ci­vilisation. "Marche imposante que rien ne peut arrêter", car "c'est la volonté de Dieu qui s'exécute, c'est sa pensée qui se réalise", dira-t-il encore (cité par Ernst Robert Cur­tius dans son Balzac).

On voit ainsi que l'obsession grand-continentale eurasia­ti­que d'une certaine conscience révolutionnaire européenne secrètement impériale ne date pas d'aujourd'hui, qu'elle exis­te en continuité depuis des temps que l'on peut assu­ré­ment tenir pour immémoriaux ; que cette obsession consti­tue un véritable "mystère de civilisation".

Loin de représenter une simple émergence politico-histo­ri­que circonstancielle, le projet de l'axe Paris-Berlin-Moscou, pour lequel nous nous battons déjà, apparaît donc comme la face immédiatement visible d'une profonde actualité su­pra-temporelle de la conscience européenne, de cette "gran­de famille continentale" entrevue par Balzac, con­si­dé­rée dans ses ultimes dimensions eurasiatiques, impériales et révolutionnaires.

C'est l'histoire qui décide…

La conspiration mondialiste peut très certainement pré­ten­dre, à l'heure actuelle, d'être en état de tout verrouiller, de neutraliser toute velléité de résistance européenne, cette prétention se trouvant posée dans les termes mêmes de la dialectique offensive de ses propres intérêts d'ensem­ble, de ses propres desseins, désormais à découvert, de do­mination planétaire. La conspiration mondialiste s'y croit dé­jà.

Mais l'histoire n'est absolument pas la somme de ses circon­stances: au contraire, c'est l'histoire qui décide, invente et im­pose irrationnellement les circonstances de sa propre mar­che en avant. Les circonstances historiques ne sont ja­mais que les effets d'une cause abyssale, la cause même de ce "mystère de civilisation" dont parlait Balzac et qui est la clef occulte de toute "grande politique" européenne con­ti­nentale, eurasiatique.

Les tenants actuels de la conspiration mondialiste com­man­dent aux effets circonstanciels de l'histoire visible. Nous autres, qui sommes du côté de l'"Europe comme mystère", nous commandons aux causes, parce que ce sont les causes qui nous commandent, directement. Les causes invisibles, abyssales, eschatologiques et providentielles, les "causes premières". A la terreur de la raison démocratique totali­tai­re, nous opposons la ligne de front de l'irrationalité dog­matique de l'histoire elle-même.

La Plus Grande Europe progresse. Inéluctablement

Ainsi se fait-il que malgré l'état de l'actuelle mainmise in­con­ditionnelle de la conspiration mondialiste sur l'ensemble des structures politiques de la social-démocratie, l'histoire, de par elle-même, avance en imposant de force sa propre spi­rale décisionnelle, ses propres changements de fond et ses propres formes de renouvellement par dessus les cir­con­stances de fait et les desseins hégémoniques de l'im­pé­ria­lisme démocratique des Etats-Unis subversivement à l'œu­vre à l'intérieur de l'espace de sa visée européenne per­manente: mystérieusement, des choses se font, qui ne devraient pas se faire, des choses à la fois irrévocables et se­crètement fondamentales. Comme si, sans cesse, l'histoi­re échappait de par elle-même à l'emprise de la subversion mondialiste sur l'Europe naissante, à toutes les manigances dans l'ombre. On l'a vu, l'objectif ultime de la grande stra­té­gie politique actuelle et à venir de la conspiration mon­dia­liste est et sera celui d'empêcher par tous les moyens l'é­mergence impériale de la Grande Europe: malgré cela, de par le mouvement intérieur même de l'histoire en mar­che, la plus Grande Europe ne cesse de progresser, iné­luctablement. Et c'est du sein même du pouvoir social-dé­mocrate européen que les initiatives concernant cette mar­che en avant de l'Europe, comme celle de Joschka Fi­scher, surgissent, alors que le pouvoir social-démocrate n'est là que pour en empêcher l'affirmation, la mise en œu­vre effective. L'étonnante performance européenne de Jac­ques Chirac, le 27 juin 2000, à Berlin, devant le Reichstag au grand complet, appartient au même genre d'opération inconsciemment imposée par la marche propre de l'histoire, de l'histoire qui suit les commandements de sa propre ir­ra­tionalité dogmatique. Quoi qu'ils fassent, ce n'est que ce qui doit se faire qui se fera.

Car l'histoire qui se révèle dans ses choix propres sera tou­jours plus forte que l'histoire qui révèle les choix que l'on tente de lui imposer.

Des forces historiques irrationnelles combattent souterrai­nement, soutiennent notre propre combat pour la mise en pi­ste de l'axe Paris-Berlin-Moscou. Les apparences objec­ti­ves de la situation sont contre nous. Mais, à la fin, seules comp­tent les certitudes contre-objectives émanant de la mar­che même de l'histoire, la part abyssale.

Jean PARVULESCO.

 

samedi, 09 février 2008

La Russie face à l'hégémonie américaine

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Pierre MAUGUE:

 

La Russie face à l'hégémonie américaine

 

Cet article de notre regretté Pierre Maugué, extrait du n°45 de "Nouvelles de Synergies Européennes", garde une certaine actualité et mérite encore une lecture attentive

Si le démantèlement de l’Union soviétique a soustrait au pouvoir de Moscou d’immenses territoires[1], la Fédération de Russie n’en demeure pas moins le plus grand pays du monde par sa superficie ( 17 075 400  km2 )  [2]. Le nouvel Etat n’a plus toutefois le statut de superpuissance qui permettait à son prédécesseur de parler d’égal à égal avec les Etats-Unis.

En dépit de son immense potentiel de développement, l’é­conomie russe, dans la phase de transition qu’elle traverse, re­présente  à peine 1% de la production mondiale[3]. Si la Rus­sie continue à peser d’un certain poids sur l’échiquier international, c’est en raison de son importance sur le plan géopolitique et de son armement nucléaire qui, en dépit des réductions intervenues, continue à constituer pour les Améri­cains une menace militaire non négligeable.

La Fédération de Russie, comme l’ancienne Union soviéti­que, ne jouit pas d’une homogénéité ethnique. Des 89 en­tités qui la composent, 21 sont des républiques ayant une ba­se ethnique, les 68 autres étant de simples  régions ad­ministratives. L’ethnie russe demeure toutefois largement majoritaire et représente 80% de la population.

Des républiques ethniques virtuellement indépendantes de Moscou

Après la disparition du système planifié et centralisé de l’Union soviétique, une large décentralisation s’est mise en place ; les républiques et  régions de Russie ont ainsi obtenu le droit de passer des accords avec des entités étrangères, pour autant que ces accords ne soient pas en contradiction avec la constitution russe. Plusieurs autorités locales ont mê­me obtenu le droit d’établir leur propre consulat à l’étran­ger. Sur le plan économique, les républiques peuvent aussi participer de manière indépendante au commerce extérieur, et il leur est permis d’exporter et d’importer des matières premières et des produits manufacturés sans autorisation du gouvernement central. Les républiques du Tatarstan et du Bashkortostan se sont ainsi dotées d’une représentation officielle indépendante de Moscou dans des organisations éco­nomiques internationales, et l’on peut voir une concur­ren­ce se développer entre les différentes  républiques et ré­gions de Russie pour attirer les investissements étrangers. Les résultats de cette concurrence sont toutefois très iné­gaux puisque 90% de tous les investissements étrangers se concentrent dans dix régions ou républiques, la ville de Mos­cou en attirant à elle seule 70%.

Le panturquisme a le vent en poupe

Mais cette décentralisation très poussée peut aussi avoir des conséquences politiques indésirables. On a pu voir ainsi des représentants des régions du Bashkortostan, Daguestan, Sak­ha, Tatarstan, Tuva, Khakassia et Chuvashia prendre part en 1998 à une réunion de la communauté pan-turque ; lors de cette réunion a été reconnu officiellement la Répu­blique turque de Chypre – décision en contradiction avec la position officielle de la Russie sur le conflit cypriote, et de nature à compliquer les relations déjà délicates de  Moscou avec la Grèce et la Turquie. De la même manière, avant que la guerre de Tchétchènie n’enflamme le pays, les autorités tchétchènes étaient en train de promouvoir activement la for­mation d’un marché commun  du Caucase afin de stimuler l’in­té­gration économique des pays du nord de la région (fai­sant partie de la Fédération de Russie) avec ceux du sud (indépendants de la Russie). Enfin, sur la Baltique, les diri­geants de la région de Kaliningrad (anciennement Königs­berg) —enclavée entre la Pologne et la Lituanie, et dont une partie de la population est d’origine allemande— souhaite­raient transformer  celle-ci en une zone économique à statut particulier, l’objectif étant d’attirer les investissements étran­gers et de développer les relations économiques avec la Finlande, l’Allemagne, la Scandinavie et les Etats baltes.

Fractionner pour régner… sur les gisements de gaz naturel

La faiblesse du pouvoir central russe pourrait être pour les Américains une tentation d’attiser les forces centrifuges qui agitent la Russie, de pousser à son démantèlement (comme ils le firent pour l’URSS) et de favoriser la naissance de pe­tits Etats aptes à devenir de nouveaux satellites. Cette tenta­tion pourrait être d’autant plus grande du fait que le territoire russe recèle d’importantes réserves de pétrole et de gaz na­turel. Mais la politique du diviser pour régner, qui a si bien réussi aux Britanniques au Moyen-Orient, n’est pas aussi fa­cile à manier à l’égard d’une puissance nucléaire comme la Russie, dont les réactions peuvent être imprévisibles. Elle accentuerait en outre le risque de prolifération des arme­ments nucléaires que favorise déjà l’état de semi-anarchie qui règne actuellement en Russie, et qui constitue un des soucis majeurs des Etats-Unis.

Des mises en garde ont été formulées aux Etats-Unis mê­mes, dans des milieux proches du pouvoir, à l’égard d’une politique dont les conséquences pourraient se révéler incon­trôlables, et qui risquerait notamment de conduire à un nou­veau rapprochement entre la Russie et la Chine. Mais le gou­vernement américain n’en a pas moins intérêt, pour des motifs géopolitiques auxquels la question pétrolière n’est pas étrangère, à maintenir un état de tension dans la région du Caucase, ne serait-ce aussi que pour tester la volonté du gouvernement russe  de défendre son intégrité territoriale.

Créer des républiques islamistes pour affaiblir le monde slave et orthodoxe

En Tchétchènie, comme en Bosnie et au Kosovo, l’objectif des Américains  pourrait être de créer un nouvel Etat isla­miste sur les flancs du monde slave et de la chrétienté  or­tho­­doxe. Préfiguration de ce qui se passera peut-être de­main aux dépens de la chrétienté occidentale (ou de ce qui en reste encore) ! 

Restaurer le pouvoir de l’Etat central, sans remettre en ques­tion le principe d’une décentralisation raisonnable, indispen­sable au développement de l’économie, faire comprendre aux Etats-Unis et à leurs satellites occidentaux que l’intégrité territoriale de la Russie ne peut d’aucune manière être re­mi­se en cause, telle va être la tâche la plus urgente à laquelle Pou­tine va devoir s’attaquer.

Quant à l’Europe, en s’alignant à chaque fois sur la politique étrangère américaine à l’égard de la Russie et du monde sla­ve orthodoxe, elle se trompe d’adversaire. Pour les Euro­péens, la Russie actuelle n’est un danger ni sur le plan mili­tai­re, ni sur le plan économique, ni sur le plan culturel ; elle constitue au contraire un élément indispensable d’une véri­table construction européenne,     En revanche les Etats-U­nis occupent militairement l’Europe sous couvert de l’OTAN, dominent la vie économique par le dollar, et imposent sans vergogne leur langue et leur « culture ».

Privilégier le nouvel impérialisme turc

Comme cela a déjà été démontré, l’Islam sert objectivement les intérêts des Etats-Unis, qui favorisent son expansion aux dépens de l’Europe, notamment dans les Balkans, où ils vi­sent à restaurer le pouvoir de leur allié privilégié, la Turquie. En outre, en s’installant massivement en Europe occiden­tale, les musulmans y constituent un facteur de déstabilisa­tion  qui, comme dans les Balkans, pourra être utilisé par Wa­shington le moment venu.

A la fin du XVII siècle,  l’armée turque pénétrait au cœur de no­tre continent et assiégeait Vienne, mais l’Empire des Habsbourg  avait alors la volonté et la capacité de battre l’envahisseur.. Aujourd’hui l’Islam réalise son rêve séculaire et s’installe partout en  Europe ; mais à Bruxelles, comme ja­dis dans Constantinople assiégée, on discute du sexe des an­ges ! Poids lourd du point de vue économique, l’Europe est devenue un nain politique ; l’hégémonie américaine, s’ap­puyant sur l’Islam, a encore de beaux jours devant elle.

Pierre MAUGUÉ.

Notes:

(1) Dont l’Ukraine, où se situe la ville de Kiev, qui fut le berceau de la nation russe

(2) La superficie de l’URSS était de 22 400 000 km2

(3) En 1998, le produit intérieur brut (P.I.B.) de la Russie a été de 276.611 millions de dollars, soit 0,96% du total mondial. (28.736.978).A titre de comparaison, les Etats-Unis, avec 8.230.397 millions de dollars, représentent 28,64% de la production mondiale, l’Allemagne, 7,42%, la France, 4,96%, et la zone Euro de la Communauté européenne (donc sans le Royaume-Uni, la Suède, le Danemark et la Grèce), 23,51%. A lui seul, le Japon représente 13,16 %de la production mondiale et a près de quatorze fois le poids économique de la Russie.

mercredi, 06 février 2008

Rùssia: A restauraçao com Putin e novas perspectivas geopoliticas

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Robert Steuckers:

Rùssia: A restauraçao com Putin e novas perspectivas geopoliticas

Se se evoca a restauração putiniana na Rússia, depois da terrível deterioração sofrida pela antiga superpotência comunista sob o reino, bem vistas as coisas bastante breve de Ieltsin (1), convém fazê-lo correctamente: não simplesmente para enunciar factos diferentes que concernem a um mundo diferente do nosso, mas na perspectiva de construir uma alternativa geopolítica sólida face aos projectos de subjugação da Europa e do resto do mundo, cultivados pela única superpotência ainda em vigor, a saber: os Estados Unidos.

Esta perspectiva geopolítica não poderia ser uma construção do espírito, totalmente nova, sem raízes. As relações euro-russas têm, pelo contrário, raízes antigas e o eixo Paris-Berlim-Moscovo que preconizava, por exemplo, Henri de Grossouvre é, para além de uma imperiosa necessidade, o prolongamento e a reactualização de um projecto velho de cerca de um quarto de milénio. A perspectiva euro-asiática, na nossa família política infelizmente reduzida em número e estatuto, refere-se muito frequentemente ao sonho do nacional-bolchevista alemão Ernst Niekisch que havia imaginado, nos anos 20 e 30 do século passado, uma aliança germano-eslava, fundada sobre o campesinato e o proletariado, pronta a transformar um Ocidente pútrido, ideologicamente agarrado aos esquematismos do iluminismo do século XVIII. Mais fundamentalmente, percebemos, hoje, depois do inevitável desvio por Niekisch, os prelúdios coerentes do eixo de Henri de Grossouvre na aliança dos três imperadores sob Bismarck, sob os Czares germanófilos do século XIX e na aliança de facto que, no último quarto do século XVIII, unia a França de Louis XVI, a Áustria e a Rússia de Catarina II, permitindo vencer a talassocracia Inglesa em Yorktown em 1783 e correr com os Otomanos do Mar Negro contendo-os nos Balcãs (2). A Revolução Francesa arruinará esta unidade e estas conquistas, que poderiam ter salvo a Europa, permitindo-a manter a sua coerência e finalizar o assalto contra os Otomanos.

1759: Ano Chave

Mas já antes desta aliança geral, nas vésperas de 1789, a França, a Áustria e a Rússia haviam unido as suas forças durante a Guerra dos Sete Anos. Um historiador inglês actual acaba de demonstrar que este conflito interior europeu havia permitido à Inglaterra, potência insular situada à margem do Continente, lançar as bases reais do seu futuro império extra-europeu, a partir do ano chave que foi 1759 (3). A arte dos historiadores anglo-saxónicos de remeter a história inteligentemente em perspectiva traz também à nossa memória viva dois factos geoestratégicos tornados permanentes: 1) Utilizar uma potência europeia para desequilibrar o continente e romper a sua união, o instrumento desta estratégia foi à época a Prússia; 2) Aproveitar as guerras internas europeias para levar a guerra para fora da Europa, aproveitando frentes mais desguarnecidas e daí retirar fortes dividendos territoriais e estratégicos sem grandes perdas e sem grandes gastos, como foi o caso no Canadá e na Índia, de onde foi expulsa a França.

Quando analisamos hoje o despertar russo com Putin, é, então, na perspectiva de reencontrar as alianças estratégicas estabilizadoras de antes de 1789, onde as ideologias modernas, beligerantes ao extremo apesar do seu pacifismo auto-declarado, não desempenhavam ainda nenhum papel destabilizador. Entremos agora no cerne do problema.

De Gorbachev a Ieltsin, a Rússia parecia galopar directamente em direcção ao Caos, em direcção a uma nova «Smuta», um novo «Tempo de Dificuldades»: Perda do glacial leste europeu, perda da periferia báltica e caucasiana, perda das conquistas territoriais na Ásia central, etc., queda da moeda e deterioração social e demográfica a toda a linha. Ieltsin foi uma figura desde o início positivamente mediatizada por haver anunciado o fim do comunismo, empoleirado num carro de assalto; mas apesar desta imagem inaugurará um regime sem qualquer coluna vertebral: os oligarcas aproveitaram para adquirir pessoalmente, por todo o tipo de estratagemas duvidosos, as riquezas do país. Na indústria petrolífera, fizeram aumentar a produção graças a empréstimos do FMI, do Banco Mundial e do Banco de Nova Iorque e cederam a consórcios petrolíferos americanos e britânicos partes importantes na exploração dos hidrocarbonetos russos. Putin, desde a sua ascensão ao poder em Janeiro de 2000, mete rapidamente um travão a estas perversões. Imediatamente, potências anglo-saxónicas, petrolíferas, oligarcas e idiotas de serviço no mundo mediático mobilizam-se contra ele e declaram-lhe guerra, uma guerra que prevalece ainda hoje. Terrorismo checheno de Ahmed Zakaiev (com os seus apoios turcos), revolução das Rosas na Geórgia e revolução laranja na Ucrânia são os frutos amargos de um vasto e sinistro complot destinado a enfraquecer a Rússia e a defenestrar Putin. Só o ex-oligarca Roman Abramovic se retratará (4), devolverá os bens adquiridos no tempo de Ieltsin, tornar-se-á governador de Kamtchatka para dar vida a essa região deserdada mas altamente estratégica. Servirá igualmente como intermediário entre Putin e Olmert nos litígios russo-israelitas.

Rússia: potência ortodoxa

Depois da queda do comunismo e do regresso dos valores religiosos, sobretudo na área muçulmana, no Afeganistão antes de mais, depois na Ásia central ex-soviética, mas em menor dimensão, a Rússia encontra-se enfraquecida por décadas de propaganda anti-religiosa do sistema soviético, que quebrou o vigor da ortodoxia entre as populações eslavas e generalizou uma astenia espiritual delinquescente, mas não afectou tanto o Islão centro-asiático, revigorado pelo dinheiro saudita e pelo apoio americano aos moudjahidin afegãos. Mais, nos primeiros anos do pós-comunismo, a vaga de materialismo ocidentalista sacode por completo uma Rússia desnorteada mas, como o remédio cresce sempre ao mesmo tempo que o perigo, o regresso à ortodoxia de uma parte da população (60% segundo as sondagens) volta a dar parcialmente ao país uma identidade religiosa e política tradicional, da qual a Europa ocidental está desde há muito desprovida. Alexandre Soljénitsyne exortava o povo russo a reencontrar o espírito da Ortodoxia e o Patriarca Alexis II dá o seu apoio a Vladimir Putin, que acaba por definir o seu país como uma «potência ortodoxa» aquando da sua visita ao Monte Athos na Grécia em Setembro de 2005. Este regresso à ortodoxia reaviva um determinado anti-ocidentalismo, bem legível nas declarações de um concílio de Abril de 2006, onde a Igreja ortodoxa russa promulgou a sua própria «declaração de direitos e dignidade do homem», onde são fustigados o individualismo ocidental e a vontade de ingerência estrangeira procurando impor «direitos do homem» de tipo individualista na Rússia e em todas as outras terras ortodoxas. O texto acrescenta: «Há valores que não são inferiores aos direitos dos homens, como a fé, a moral, o sagrado, a pátria», onde o filósofo da história discernirá uma recusa da ruptura calamitosa que representa a ideologia dos direitos do homem de 1789 da vulgata mediática actual, quando a manipulamos com a hipocrisia que tão bem conhecemos. A 17 de Maio de 2007 as igrejas russas em estado de diáspora desde os anos 20 reconciliam-se com o Patriarcado de Moscovo (5), o que torna mais difícil a tarefa de voltar as opções da ortodoxia russa umas contra as outras.

Ucrânia: A revolução laranja resvala

A ingerência ocidental efectua-se sobretudo por via das «revoluções das cores» (6) novo modo de praticar a «guerra indirecta» e mutilar as franjas exteriores do antigo império dos Czares e da URSS, como as repúblicas caucasianas e a Ucrânia. Sabemos que a revolução laranja acabou por ser um fiasco para os seus comendatários ocidentais, Victor Iuschenko, o presidente eleito pelo seu programa pró-ocidental, não mudou nada, nem num sentido nem noutro, apesar da sua vontade de fazer entrar a Ucrânia na U.E. e na NATO. O ícone feminino da efervescência laranja de 2005, Iulia Timochenko, afundou-se na corrupção e na demagogia mais baixa, sem qualquer base ideológica clara. Ianukovich, o antigo líder pró-russo da Ucrânia oriental permanece pragmático: A Ucrânia não é matura para a Nato e a U.E. não quer Kiev, diz ele. Em finais de Setembro de 2007, para as eleições, não há manifestações nas ruas. A calma. As agências ocidentais já não pagam. Para o escritor Andrei Kurkov, as personagens da revolução laranja eram marionetas; o poder permanece nas mãos dos gestores da economia ucraniana, ligada à economia russa (7).

Na Geórgia, onde o actual presidente Mikhail Saakashvili tomara o poder em 2003 depois da revolução das rosas, uma contra-revolução acaba de estalar, sem líder bem perfilado (8), que destabiliza a criatura da americanosfera, ícone masculino dos media teleguiados a partir dos EUA. Apesar da sua vitória e da resolução do problema da Adjária secessionista em Maio de 2004, Saakashvili não conseguiu submeter uma outra província separatista, a Ossétia do Sul, encostada à faixa do Cáucaso. Este território de apenas 75 000 habitantes não conta com mais de 20% georgianos étnicos. A sua população é fiel à Rússia. Agindo sobre o descontentamento popular face à política pró-ocidental (e portanto neo-liberal/globalista) de Saakashvili e sobre as especificidades étnicas da Adjária e da Ossétia, Putin encontrou o meio de contrariar os efeitos de uma revolução colorida e de forjar as armas para anular aquelas que, eventualmente, emergiriam amanhã.

Outubro de 2007 – Cimeira de Teerão

Outro sucesso maior de Putin: a vasta estratégia petrolífera implementada, na Europa e na Ásia. Conseguiu quebrar a coesão dos oligarcas (9), apaziguar os perigos de conflito que existiam no Cáspio. A cimeira de Teerão em Outubro de 2007, que reunia os dirigentes da Rússia, do Irão, do Kazaquistão, do Azerbeijão e do Turquemenistão, tinha por objectivo estabilizar a situação nas margens do mar Cáspio e aí organizar um modus vivendi para a exploração dos recursos locais de hidrocarbonetos e de gás. Os acordos que daí saíram estipulam, nomadamente, que os países limítrofes, participantes na conferência, não permitirão que os seus territórios respectivos sirvam de base a potências de fora da zona para agredir um qualquer Estado signatário. Incluindo o Irão, entende-se (10).

No contexto actual, onde o atlantismo apela uma vez mais à matança e em que um dos seus cães de Pavlov, na personagem do sarkozista e ex-socialista Kouchner, junta os seus latidos sinistros ao lúgubre concerto dos belicistas, esta disposição da cimeira de Teerão bloqueia toda a veleidade americana de ingerência na Ásia central e preserva o território iraniano sobre o seu flanco norte, já que o Irão está hoje perigosamente cercado pelas bases americanas do Golfo, Iraque e Afeganistão. O Irão é a peça central, e ainda não controlada, de um território que pertence ao USCENTCOM ( que se estende do Egipto a Oeste ao Paquistão a Este). Este território, na perspectiva dos estrategas americanos, inspirados por Zbigniew Brzezinski, deve servir a prazo, com a sua «Youth Bulge» (a sua vitalidade demográfico e a sua natalidade em alta constante, excepto no Irão) de mercado de substituição em benefício dos EUA, porque a Ásia mantém reflexos autárcicos e a Europa possui um mercado interior menos acessível, e, ainda por cima, uma demografia em retrocesso. O controlo deste espaço implica evidentemente a eliminação do Irão – peça central e área nodal de uma imperialidade regional plurimilenar –, o isolamento estratégico da Rússia e o seu distanciamento de todos os territórios conquistados desde Ivan o Terrível, o controlo da Mesopotâmia e das montanhas afegãs e a desagregação das culturas «masculinistas» e portanto, anti-consumistas, dessa vasta área, certamente islamizada, mas escondendo ainda muitas virtudes e energias pré-islâmicas, permanecendo renitente ao fanatismo wahabita.

Corrente Sul e Corrente Norte

Os acordos do Mar Cáspio terão uma implicação directa sobre o aprovisionamente energético da Europa. O sistema de oleodutos e de gasodutos «Nabucco», favorecido pelos EUA, que pretendiam diminuir a influência russa e iraniana na distribuição de energia, será complementado pelo sistema denominado «Corrente Sul», que partirá de Novorossisk nas margens do Mar Negro para chegar às costas búlgaras ( portanto sobre o território da U.E.), de onde partirá em direcção à Europa central, de uma parte, e em direcção à Albânia, e de lá para o sul de Itália, de outra parte. A ENI italiana é parte envolvida no projecto (11). A realização deste, através da parte pacificada dos Balcãs, arruína automaticamente as manobras dilatórias das forças atlantistas no Báltico, onde os EUA também incitam as pequenas potências da «Nova Europa», cara a Bush, a aniquilar o projecto de encaminhamento do gás russo em direcção à Alemanha a partir de Königsberg/Kaliningrado ou do golfo da Finlândia, impulsionado pelo Chanceler Schröder à época simpatizante – mas tão brevemente – do eixo Paris-Berlim-Moscovo. O sistema de gasodutos do Báltico tem no nome de «Corrente Norte» (12) : a sua conclusão está hoje bloqueada pela oposição de Talim a todos os trabalhos ao longo da costa estoniana. Este bloqueio é ditado em última instância por Washington, que instiga nos gabinetes os países bálticos e a Polónia contra todos os projectos de cooperação euro-russa ou germano-russa, restaurando assim, de facto, o «cordão sanitário» de Lord Curzon e os efeitos mutiladores da Cortina de Ferro sobre as dinâmicas interiores da Europa no seu conjunto. O que foi desde sempre o objectivo das potências talassocráticas.

A vitória eleitoral de Putin em Dezembro de 2007 demonstra, para além da sua real popularidade apesar das campanhas dos oligarcas e dos media, que as estratégias das «revoluções das cores» não surtiram efeito: a essas Putin respondeu com uma mobilização citadina e patriótica criando o movimento «Nachi» ( «Os Nossos) que tomou as ruas em lugar e vez de patifes como Kasparov ou outros descerebrados sem inteligência geopolítica ou geoestratégica.

A Europa não pode querer uma Rússia destabilizada e mergulhada no caos, porque, nesse caso, ela seria automaticamente lançada, senão num caos similar, ao menos numa recessão de que poderia bem prescindir, visto o seu declínio demográfico, a sua relativa estagnação económica e os sinais precursores de um real empobrecimento das suas classes trabalhadoras, fruto de quase trinta anos de neo-liberalismo.

Conclusões:

Em conclusão, o fenómeno Putin deve levar-nos a pensar o nosso destino político nas categorias mentais seguintes:

- Não tolerar a influência de oligarcas de todas as espécies nas nossas esferas políticas, que alienam riquezas, fundos e capitais através de práticas de deslocalização; segundo o bom velho princípio do primado do político sobre o económico, que Putin conseguiu fazer triunfar;

- Compreender por fim a necessidade de uma coesão religiosa visível e com visibilidade (como pretendia Carl Schmitt), mais difícil de restaurar no Ocidente, vistos os danos profundos causados no longo prazo pelo protestantismo, o sectarismo diversificado e caótico que dele saiu e a deliquescência do catolicismo desde o século XIX e do concílio Vaticano II;

- Suscitar uma vigilância permanente contra as manipulações mediáticas que conduziram a França aos acontecimentos de Maio de 68 (para expulsar De Gaulle), às greves de 1995 ( para vergar Chirac na sua política nuclear em Moruroa), às revoluções das cores; é preciso ser capaz de gerar uma contra-cultura ofensiva contra o que as agências do lado de lá do Atlântico tentam vender-nos, afim de provocar, pelos efeitos desse «soft power» terrivelmente bem ensaiado, mutações políticas favoráveis aos EUA;

- É preciso procurar uma independência energética continental, não permitindo aos lóbis petrolíferos americanos controlar os fluxos de hidrocarbonetos na área continental euro-asiática, para benefício dos seus interesses e em detrimento da coesão do Velho Continente;

- É preciso seguir Putin nas suas ofensivas diplomáticas na Ásia, sobretudo em relação à Índia e à China; à Europa interessa estar presente no subcontinente indiano e no Extremo-Oriente, numa perspectiva de harmonização de interesses, como de resto havia já preconizado a China na sua resposta às tentativas ocidentais de ingerência intelectual (o «soft power», que age contra a cultura imperial chinesa).

As cooperações euro-russa, euro-indiana e euro-chinesa, abrem perspectivas mais sedutoras do que o aprisionamento atlantista, do que a nossa triste maceração nos despojos da dependência mediática e política, onde estamos mergulhados, para nossa vergonha. Todos os povos da terra esperam o despertar da Europa. Esse só é viável apoiado sobre a Eurásia, a começar pela Rússia, como no tempo das grandes alianças, começadas à época da Guerra dos Sete Anos.

Robert Steuckers

Forest-Flotzenberg, Dezembro 2007.

Notas :
(1) Cf. « L’eredità di Eltsin », in Linea, 15 de Novembro 2007 (artigo tirado da revista sul-africana Impact (Box 2055, Nooserkloof, Jeffreys Bay, 6331, South Africa).

(2) Cf. Victor-L. TAPIE, L’Europe de Marie-Thérèse. Du baroque aux Lumières, Fayard, 1973 ; igualmente, Henri TROYAT, Catherine la Grande, Flammarion, 1977.

(3) Frank McLYNN, 1759. The Year Britain Became Master of the World, Pimlico, London, 2005.

(4) Dr. Albrecht ROTHACHER, « Das Schicksal zweier Oligarchen. Beresowskis Kampf gegen Putin aus dem Exil und der Lagerhäfltling Chodorkowski“, in zur Zeit, Nr. 42/2007; Dr. A. ROTHACHER, „Superreich und willfährig. Oligarch Roman Abramowitsch: Putins Statthalter in Russisch-Fernost“, in zur Zeit, Nr. 46/2007.

(5) Marie JEGO, « La Fédération de Russie », in : La Vie/Le Monde Hors-Série, L’Atlas des Religions, s.d. (surgido nas bancas em Novembro de 2007). Ver igualmente : Alexandre SOLJENITSYNE, La Russie sous l’avalanche, Fayard, 1998, especialmente o capítulo : « L’Eglise orthodoxe par ce Temps des Troubles », p. 301 et ss.

(6) Cf. Le dossier du Temps de Genève, de 10 de Dezembro de 2004, intitulado „L’internationale secrète qui ébranle les dictatures de l’Est“; este dossier é acompanhado por uma entrevista com o estratega e teórico das guerras indirectas, Gene Sharp, intitulada « L’essentiel est de diviser le camp adverse ». Cf. sobretudo Viatcheslav AVIOUTSKII, Les révolutions de velours, Armand Colin, 2006 (ouvrage capital !).

(7) Andrej KURKOW, « Die Last des Siegens », in : Der Spiegel, 39/2007, pp. 138-139.

(8) „Überall Feinde“, in : Der Spiegel, 46/2007, p. 121. Cf. Eugen GEORGIEV, „Angespannte Lage in Südossetien“, in : Aula, Oktober 2007.

(9) www.barnesreview.org / Um texto saído deste site foi raduzido em italiano. Trata-se de : «Vladimir Putin : le sue riforme e la sua tribu di nemici / Il sostegno atlantico agli oligarchi russi”, in Linea, 28 de Novembro de 2007.

(10) Fulvia NOVELLINO, “Il vertice di Teheran per il petrolio del Mar Caspio”, in Linea, 19 octobre 2007.

(11) Filippo GHIRA, “South Stream pronto nel 2013”, in Linea, 23 novembre 2007.

(12) Andrea PERRONE, “L’Estonia sfida la Russia sulla condotta North Stream”, in Linea, 18 octobre 2007. Recordamos, entretanto, que o projecto de um oleoduto ( ou gasoduto) em direcção à Alemanha e á Polónia não é uma ideia nova. Em Dezembro de 1959, Soviéticos, polacos e alemães de leste assinaram um acordo em Moscovo para a construção do «ramo norte do oleoduto da amizade». A «Corrente Norte», de que falamos aqui, não é senão a reactualização, num contexto que já não está marcado pela guerra-fria.

mardi, 05 février 2008

Troy Southgate in "Kinovar" (Russia)

By Miron FYODORAV

http://www.new-right.org/?p=21

Troy, you are now one of England’s most influential and radical ideologists. How did your political views develop, and, more generally, how did a young South London lad get in touch with rather abstract philosophical and political concepts?

As a child I always had a strong social conscience, something I inherited from my father. As a result, therefore, I was constantly aware of the great disparity between the immense wealth and riches enjoyed by the West and the comparative poverty in so-called ‘Third World’ countries like Ethiopia and India. In my final two years at school I became very interested in the six main bands from the Two Tone scene that were releasing protest songs in opposition to Margaret Thacher’s Conservative Government. These included The Beat, The Specials and The Selecter. The deeper message behind Two Tone, apart from promoting racial harmony, was centred on urban decay and the effects that Capitalism was having on ordinary people’s lives. In my teenage years we moved from a council estate in Crystal Palace, South London, to a small bungalow in the country town of Crowborough, in East Sussex. When I was eighteen I decided to vote Labour in the General Election, following my father’s example. By this time, the rest of my family were becoming Conservatives and involving themselves in the expanding housing market. Despite the fact that I was very mistaken to believe that the Labour Party was anti-Capitalist, the fact that my father was virtually the last person to stick to his working class roots inspired me a great deal. Meanwhile, the fact that I now found myself in such a rural environment meant that I had to travel up to London on a regular basis to see the rest of my family or to buy clothes and records. The fact that I always kept in touch with my South London roots, therefore, eventually led to me discovering the National Front (NF). I had heard of the NF on various occasons, not least because they were regularly denounced at many of the Two Tone and ‘Rock against Racism’ events that I was attending several years earlier. But there was a great deal of crossover between the skinheads of the Ska movement and those who attached themselves to racialist causes, so during a visit to East Croydon to watch Bad Manners in 1984 a chance meeting with an old friend led to me accompanying him to the ‘NF pub’ across the road. Consequently, I ended up buying a copy of ‘NF News’ and reading it on the train home. The first thing that struck me was how incredibly anti-Capitalist and pro-socialist the Movement was, particularly the articles about the Mondragon Co-operative in Northern Spain, the distributist views of Hilaire Belloc and G.K. Chesterton, and Otto Strasser’s defiant struggle against Hitler and Big Business. Before long, I found myself travelling up to South London twice a week in order to socialise with members of Croydon NF like Chris Marchant, Gavin Hall and John Merritt. They were a few years older than I was and, in between pints of ale, I spent the evening picking their brains about the history of the NF and various ideological issues. I was astonished to discover that the stereotypical media image relating to a group of alleged race-hating, neo-nazi thugs was complete and utter hogwash. Eventually I was made East Sussex Regional Organiser, given the role of taking ‘NF News’ to the printers and joining the likes of Derek Holland, Nick Griffin, Graham Williamson and Patrick Harrington in the Movement hierarchy. It was a very exciting and formulative period and I look back on that period with a good degree of fondness and nostalgia.

What, exactly, was the NATIONAL REVOLUTIONARY FACTION and why was it disbanded in 2003?

In 1990, the NF changed its name to Third Way after a bitter personality clash had driven a wedge between those in the leadership. Many of us left to form the International Third Position (ITP), but by 1992 a large group of us became disenchanted with the fact that certain individuals like Roberto Fiore (now Forza Nuova) and Derek Holland had betrayed the genuinely anti-fascist principles of the late-80’s NF by forming alliances with conter-revolutionary elements in the Catholic Church and neo-fascist groups overseas. As someone who has always been extremely suspicious of Right-wing reaction, this was not what I wanted at all. Consequently, when it emerged that Fiore and Company had also stolen thousands of pounds from a very close friend of mine who had invested money in their abortive ‘farm’ project in Northern France, we formed the English Nationalist Movement (ENM) and took most of the ITP’s regional units and publications with us. One of our more senior members, on the other hand, had spent over twenty-five years in Gerry Healey’s Workers Revolutionary Party (WRP) and taught me a great deal about strategy and organisation. The ENM restored the old socialist values that had come to the fore in the 1980’s NF and produced a barrage of printed material about Robert Blatchford, William Morris, the Strasser brothers, Robert Owen and others. The ENM was fairly successful and earned itself quite a reputation, but in 1998 we decided to take things one step further by establishing the National Revolutionary Faction (NRF). The NRF was a hardline revolutionary organisation based on an underground cell-structure similar to that used by both the Islamic Resistance Movement (Hamas) and the IRA. Our main centre of operations was in West Yorkshire, where we established a system of ‘leaderless resistance’ and worked alongside local resident groups concerned at the large number of Asian attacks in the area. This was not designed to affect innocent people, but to counter the increasing violence against the indigenous White community. Eventually, however, a combination of State repression and half-heartedness on behalf of some of our cadres led to us having to scale down the whole operation. The fact that we had been greatly inspired by the work of Richard Hunt and Alternative Green and were also in the process of changing the NRF into an Anarchist organisation also took its toll. In 2003 we finally decided that it was futile to portray ourselves as a ‘movement’ when, in fact, there were never more than 20-25 people involved at any one time. These days, we simply refer to ourselves as ‘the National-Anarchists’ and believe that we represent a current rather than an actual organisation of any kind. What is also quite fascinating, however, is that National-Anarchism developed in several different countries at the same time. Hans Cany (France), Peter Topfer (Germany) and myself are each part of a simultaneous phenomenon that developed as a logical antithesis to the ideological bankruptcy that characterised the end of the Twentieth Century. It is with this new platform in mind that we now enter the next century and attempt to overcome the difficulties and tribulations that dominated the last.

The idea of National-Anarchism is certainly very attractive, but its critics seem to be justified in claiming that it can make a territory - we are consciously avoiding words like “state” and “country” - extremely vulnerable to foreign intervention. How can a society based on National-Anarchist principles defend itself against a centralised, totalitarian agressor? Surely the principle of “blood and soil” would make it impossible to be loyal to a greater entity than one’s local community, and thus to successfully oppose globalisation, foreign economic domination and cultural imperialism?

We all know what happened to the innocent children of Waco, the family of Randy Weaver and the anti-tax rebels of the Michigan Militia, so in order to be as successful as possible it is crucial that National-Anarchist communities do not seek to maintain a high profile or invite confrontation with the State. There are peaceful Anarchist and secessionist communities all over the world, let alone tribal societies that have existed for many thousands of years. It’s just a question of keeping one’s head beneath the parapet. Large-scale immigration and socio-economic decay has meant that countries like England have become totally irretrievable, and therefore it may even be necessary to create these communities abroad. Given that Indo-Europeans have migrated on countless occasions before and, indeed, in the case of people emigrating to New Zealand and Spain are continuing to do so in great numbers today, this is not as drastic as it sounds. As the West continues its inevitable decline and fall, National-Anarchists will continue to investigate those socio-economic alternatives which can provide a real alternative to the system that is crumbling around our ears. In many ways, the real struggle against Capitalism will take place on the periphery, rather than at the centre. We must remember that the West can only retain it’s privileged lifestyle by exploiting the so-called ‘Third World’, and this is precisely why revolution on the periphery is a far more feasible option than attempting to fight the Capitalists on their own turf in Europe or North America. In fact the very same process brought about the collapse of the imperialistic Roman Empire. It is also vital to view National-Anarchism as part of a long-term strategy and understand that it could take many decades before these ideas really begin to swing into action. One thing we do have on our side, however, is that every time the system weakens we actually get that little bit stronger. As more and more people turn their backs on mass consumerism, the concept of living in small, decentralised communities with others of like-mind will become more realistic and attractive.

What are your views on natural rights? Is there such a thing as a right to life?

I don’t believe that anyone, man or beast, has a specific ‘right’ to life. That is not to suggest, on the other hand, that we shouldn’t continue to resist those who seek to exploit our labour in the factories and the fields, attempt to bleed us dry through the machinations of the international banking system, or cruelly torture innocent animals in the name of fashion or medical science. We hear a lot about ‘rights’, but never enough about duties. What about our responsibility to the environment, for example, or our duty to ensure the well-being of our children and not leave them vulnerable to the corrosive effects of the liberal ‘education’ system? But in short, nobody has a ‘right’ to anything. ‘Rights’ are purely contractual and can only be drawn up superficially. We know from experience, however, that just as weeds will overrun a beautiful garden, basic human nature ensures that even the best intentions inevitably come to nothing. This may sound very pessimistic, but these utopian liberal bubbles are there to be pricked.

What are the links between your vision of National Anarchism and JULIUS EVOLA’S writings? How can his concept of the Empire co-exist with that of anarchism? In this context, what is your view of FRANCIS PARKER YOCKEY’S ideology?

National-Anarchism and Julius Evola do not necessarily go hand in hand. As a former student of Theology & Religious Issues, I have a personal interest in Evola because his seminal work, ‘Revolt Against The Modern World’, taught me a great deal about the irreconcilable differences between tradition and modernity. That obviously has great implications for the development of traditional communities that have rejected the contemporary world. And, like the German novelist Ernst Junger, Evola also adhered to the concept of the Anarch or Sovereign Individual. The man or woman that has learnt to ‘ride the tiger’ and retain both their sanity and dignity in the face of cosmological decline. But as far as Evola’s belief in a European Imperium is concerned, whilst I agree with a transcendental and unitary vision to which people can give their allegiance, I still support political, social and economic decentralisation right down to the lowest possible unit. This may sound like a contradiction in terms, but it is possible to give one’s allegiance to a higher ideal and still retain a sense of localised autonomy and self-determination. I don’t find Yockey’s work that inspiring, to be perfectly honest, and a centralised European superstate has no appeal for me whatsoever. On the other hand, he did understand the threat that America and its Zionist allies present to the world and proved himself to be a brave and competant liaison officer.

It seems that, while the best men devote their lives to the development of conservative-revolutionary ideas, the worst men succeed in putting them into practice. One can easily sympathise with MOELLER VAN DEN BRUCK’s heroic vision of the Third Reich, but not with Hitler’s regime. The same is true of other great thinkers when compared to the brutal and bureaucratic regimes their works indirectly helped to establish. This, in fact, has led to great pessimism among those who felt their ideas were betrayed. GOTTFRIED BENN or JUNGER for example. Does this mean the conservative revolution is a largely utopian concept, more romantic than it is practical?

I certainly don’t believe that it is possible for Revolutionary Conservatives to take control of a national government, if that’s what you mean. At least not in Europe. Here in England, for example, the New Right is confined to small fringe groups like the Conservative Democratic Alliance, Monday Club, Freedom Party and Right Now magazine. Meanwhile, of course, working on the fringes does not present a problem for National-Anarchists, in fact that’s the whole point of our opposition to the centre. The Gramscian method can work on the Left, it seems, but not on the Right.

What is your opinion of SIR OSWALD MOSLEY, and of other “homegrown” fascist ideologists?

I am opposed to all totalitarian doctrines, be they Fascist or Communist. But whilst Mosley himself was a thoroughly dislikable character, I do believe that he was a geniune and principled individual and to a certain extent I have respect for what he tried to achieve. He went the wrong way about it, of course, but if the British Union of Fascists (BUF) had not made the mistakes that it did we would have to go through the whole process again.

As a patriot, how do you view of the Right-wing of England’s politics? What are the main problems you have with nationalist groups like the British Nationalist Party (BNP), or the even more moderate United Kingdom Independence Party (UKIP)?

I’m not sure I would describe myself as a ‘patriot’. As I’ve already explained, the whole notion of England as representing both a geographical area and a people is becoming increasingly hard to substantiate. The only way England can ’survive’ is by being constantly redefined. Using ridiculous and contrived phrases like Tony Blair’s ‘Cool Brittania’, for example. But let’s face it, the main towns and cities of modern-day England have become multi-racial hellholes and despite the flag-waving that accompanies any major football tournament, it’s quite ridiculoius to cling to the belief that we can somehow restore our nationhood by repatriating all immigrants and their descendants. It won’t happen. Ever. Parties like the BNP are merely postponing the inevitable decline. Furthermore, of course, the fact that they continune to tread the discredited boards of parliamentary politics simply perpetuates the whole charade. We need people to become disillusioned with the ballot box, not to cling to the mistaken belief that voting for the BNP can solve all of our problems. One way in which it is possible to have some kind of influence, on the other hand, is by using UKIP as a vehicle to disrupt the European Union. Besides, whilst UKIP itself is comprised of bankers and industrialists worried about the threat of the single currency, the fact that it remains a single-issue pressure group means that it is still possible to upset the federalist applecart without compromising one’s own principles. Voting for parties, therefore, is futile, but UKIP MEPS only seek election in order to interfere with the very process itself. This, perhaps, would be a worthy target for the attentions of the New Right.

What about the Left? Are there any forces associated with Left politics that you are prepared to ally with? Have you been influenced by Left-wing authors and ideas?

Certainly been far more influenced by the Left than the Right, if that’s what you mean. The so-called ‘anti-fascists’ on the Left appear to have trouble with the fact that I cut my political teeth, so to speak, in the NF. But this is quite irrelevant. I’ve never considered myself to be Right-wing and when I joined the Movement it had progressed beyond the stage of being a Right-wing organisation. Furthermore, the terms ‘Left’ and ‘Right’ each have their origins in the build up to the 1789 French Revolution, anyway, and my lifelong opposition to the established order must surely put me on the Left. Not that I even consider this to be a valid description of my beliefs, of course. National-Anarchists are prepared to form alliances with anyone and have attended many protests and demonstrations in order to express our solidarity with the wider opposition to International Capitalism. To paraphrase Lenin, ‘we must march separately but strike together’. Indeed, when a young Palestinian miltant throws a petrol bomb at an Israeli tank, he speaks for us just as we speak for him. My own ‘Left-wing’ influences include George Orwell, Mikhail Bakunin, Emma Goldman, Peter Kropotkin, Gerard Winstanley, Max Stirner, Nestor Makhno, Che Guevara, Sergei Nechayev, Hakim Bey, Pierre-Joseph Proudhon, the Angry Brigade, and the Red Army Faction.

Generally, how flexible is your movement when it comes to strategic alliances? What would you say is the political common denominator, the decisive streak a group or a party must have in order to become your ally? Is it anti-Americanism, anti-globalism, anti-liberalism, Third Positionism?

I don’t think there are any common denominators. Useful opportunities come in all shapes and sizes and world history is full of surprising alliances that have taken place between seemingly opposed groups. Realpolitik is necessary whenever and wherever the need arises. Much of what we do has to be covert, because the groups that direct the anti-Capitalist movement are usually controlled by Left-wing dogmatists who believe that we National-Anarchists are trying to subvert Anarchism for our own sinister ends. But this is false. As we’ve said elsewhere time and time again, we are not ‘racists’ or ’supremacists’ with some kind of secret agenda, we are seeking our own space in which to live according to our own principles. Sadly, however, most people on the Left want more than that and will not rest until they can organise every minute aspect of people’s lives. It’s a self-perpetuating disease. This is why they talk of the ‘right to work’, when - as Bob Black rightly points out - the real problem is work itself. The Left, just like the totalitarian Right, refuses to tolerate anyone who tries to opt out of its vision of an all-inclusive society. Some of us, however, want no part of this and will only be ’socialists’ among ourselves and with our own kind.

A somewhat provocative question: do you sometimes feel that radicalism and marginal politics have grotesque and ridiculous sides, as famously described in STUART HOME’S novel “Blowjob”? Ideologists switching from left to right and back again within an hour, supposedly dangerous parties consisting of just a few members - doesn’t all this this sometimes remind you of a poltical carnival rather than realpolitik?

Despite being regarded by Stuart Home and his friends as some kind of ‘anarcho-fascist’, I can’t say I’ve actually read his book. But I do understand the point you’re trying to make. The ITP accused me of being fickle once I had left the Catholic Church and began exploring paganism and the Occult, but I think it’s a question of personal development. Some people will always be political opportunists, of course, but in my case it was a question of gravitating slowly over the course of several years. Without being arrogant, I believe that intelligent people tend to think their way out of the party. And it you look at my track record, it does actually make sense. I’ve always tried to be as genuine and open-minded as possible, doing the research and exploring the options available to me instead of following blindly like those who decided to remain in the ITP rather than try to put things back on track. National-Anarchism isn’t some kind of middle-class adventurism designed to shock, it’s what I like to describe as a form of ‘realistic escapism’.

What about using the enemy’s weapons instead of fighting with guerilla tactics from the underground? I’m talking about unorthodox means such as using the style of glamour mass-media together with aggressive propaganda of a “trendy revolution” aimed at the youth. We know that the System has so far managed to digest the most marginal and revolutionary elements of counter-culture and make them harmless, so surely the adequate response to this is to position oneself as “mainstream” right from the start, thus preventing the ruthless market from exploiting one’s “non-conformity”? Can you accept this position, or do you see the process of “reclaiming the streets” as the only effective tactic?

I don’t believe in reclaiming the streets at all. We tried that in the ENM and failed. But I do make a distinction between politics and culture, so therefore I support these forms of counter-culture because the political struggle can only make progress if there is a cultural struggle to accompany it. This was how the NSDAP managed to achieve so much progress in 1930’s Germany, it simply tapped into an existing cultural vein and rode it all the way to the Reichstag (with more than a little help from wealthy German industrialists, of course). I’m not suggesting that it’s still possible to gain control of the national state in this way, but it’s all a question of identity. An individual can empower his or herself by joining together with like-minded people. If this relates to an ideal that is connected with music or fashion, for example, then all the better. I think the strategy currently being deployed by KINOVAR is the right path to take.

How strong is your link with the Russian “International Eurasia Movement”? You are, after all, the man behind the “Eurasian Movement” which stresses the importance of “the geopolitical vision” of “contemporaries like ALEXANDER DUGIN”, and you could therefore easily be seen as Dugin’s man in England. And yet his approach to politics seems to differ greatly from yours. Can you share all of his views and accept his strategies?

I won’t pretend that the Eurasian Movement (EM) in England is making any real progress at the present time, because Eurasianism in general is still a fairly new concept in Western Europe. More than anything, I think, the EM is simply a convenient rallying point for those familiar with Dugin’s ideas and who are gravitating towards such concepts. But we are part of the Eurasianist international, if you like, and recently sent a message of support to the annual Eurasianist gathering in Moscow. Dugin is not a National-Anarchist by any stretch of the imagination, but as an advisor to Vladimir Putin he is in a position to influence Russian affairs and policy-making at the very highest level. In many respects this is similar to the role of UKIP, referred to above. Eurasianism is important to National-Anarchists because it puts our struggle into a wider perspective. Indeed, whilst we are primarily concerned with what goes on at the level of the village or on our own doorstep, so to speak, we still believe that we can export our ideas by offering support to a new ‘dissident’ alliance against Western interests. But we are not interested in the formation of a new Eastern imperialism, by which Russia can then dominate her immediate neighbours for her own narrow interests. We want to help create a network of decentralised allies all striving towards a similar ideal, but each retaining their own unique character. The best - despite being a fairly simplistic - example that I can think of in this regard, is the collaboration that takes place between Hobbits, Elves, Dwarves and Men against a common totalitarian enemy in Tolkien’s ‘The Lord of the Rings’. Instead of creating a counter-imperialism, of course, when the battle is finally won the Fellowship gradually subsides and the various races get on with their own lives in their own peculiar way. This kind of loose defence structure is completely in tune with National-Anarchism and its opposition to large standing armies and militaristic autocracy in general.

What is your vision of the European and English future in 50-100 years’ time?

To some extent I dealt with this issue in Question 8. But let me give you an example. Imagine if you had a glass of clean water and then began to add several drops of another liquid, such as ink, for example. At first, the water would become rather cloudy, but as more and more ink is added the water then begins to lose its original appearence altogether. Eventually, of course, it would be ridiculous to refer to it as ‘water’ at all. This is how I see the future of both England and Europe. The fact that our continent is changing at such an alarming rate means that it can no longer be seen as representing a homeland for people of Indo-European stock. Coupled with the fact that thousands of Europeans are emigrating abroad to places like Australia and New Zealand, the future of Europe is beginning to look very precarious indeed. Many will stay and fight, of course, but the most sensible option in this increasingly tenuous situation - I believe - is to create new homelands on the periphery. But just how far we will have to go in order to avoid the wrathful clutches of the West remains to be seen.

One has the impression that a number of our contemporaries identified with the conservative revolution were inspired by Russian culture. For example, DAVID TIBET has mentioned SOLOVYEV among his spiritual influences, while your friend and ally, the radical Christian and conspiracy theorist WAYNE JOHN STURGEON, seems to be inspired by BERDYAEV. We know you are interested in TARKOVSKY, who is, in fact, extremely popular with the European intellectuals (his name has practically become a cliche), but apart from him, who were the other Russian thinkers to influence you?

David Tibet has many influences and Solovyev merely relates to his interest in revelation and apolocalyptic matters in general. Wayne John Sturgeon, on the other hand, who is a good friend of mine, is probably more interested in the remarkable English mystic, William Blake, who was convinced that a new Jerusalem could be constructed in the British Isles. The main Russian thinkers that have inspired me, however, include Mikhail Bakunin and Fyodor Dostoyevsky. The former, for his defiant opposition to Marxist dogmatism and state socialism, and the latter, for his deep and profound insights into Russian poverty and the latent power of the human spirit. Sergei Nechayev is also very interesting, because he describes the uncompromising attitude that must be adopted by the serious revolutionary.

What about ALEXANDER BLOK? I recall you quoting from “The Scythians” at some point.

Reliable information about Alexander Blok is often hard to come by in English, but I do admire his melancholic attitude, his poetic romanticism and the undisguised hostility that he expressed towards civilisation and materialism. He also believed in the idea of messianic revolution, something clearly at odds with his initial support for the events of 1917 and the Soviet regime’s bitter campaign against both orthodox and unorthodox religion.

Let’s return to England. If asked to name five Englishmen whose works you have learnt from, who would you include in the list?

This is a very difficult question, not least because it is so confined. But if I had to name just five individuals, I would choose William Cobbett for introducing a city boy to the joys of self-sufficiency and the countryside, Richard Burton for epitomising the indomitable hero and for awakening my interest in Africa and the Middle-East, Charles Dickens for bringing the misery of working-class life to the educated public mind for the first time, George Orwell for having the courage to share with us his shattered dreams and illusions about International Socialism, and Hilaire Belloc for teaching me what it means to be English in the first place. Apologies to Morris, Reed, Chesterton, Blatchford, Lawrence and several others!

You seem to be a music lover and an expert, especially when it comes to Neofolk and Industrial music. Which bands do you value most, and why?

I’m certainly no expert, but I’ve always had a deep love of music from a very young age. I also enjoy Traditional Folk (Shirley Collins, Planxty, Dubliners, Steeleye Span, Yetties), Bluegrass (Bill Monroe, Stanley Brothers, Country Gentlemen, Merle Travis, Doc Watson), Classical (Strauss, Bach, Chopin, Vivaldi), Metal (Iron Maiden, Rammstein, Cradle of Filth, Marilyn Manson, Black Sabbath), Psychedelic (Bevis Frond, Hawkwind) and Electronic (Kraftwerk), but the reason so many Neofolk and Industrial groups have fired my interest in recent years is due to the way in which, unlike the contemporary mush of the musical mainstream, they have an ability to convey thoughts and ideas in a less well known but extremely powerful manner. Rather like the way symbols and archetypes can work on the human subconcious. It would be unfair of me to single out a mere handful of groups or individuals when there are clearly so many talented examples out there, but the more professional and significant of them emanate from labels such as Cold Spring, Dark Holler, Mute, Tesco, World Serpent, Eis & Licht, Athanor, Somnambulant Corpse, Tursa, Fluttering Dragon, Svartvintras, and Cynfeirdd. But the reason these artists stand out, at least for me, is due to their unwillingness to compromise or to popularise themselves in the name of profit. It’s also a fact that several of our main influences - Junger and Codreanu, for example - feature in many of the songs.

Have you ever been in a band yourself? Ever written lyrics or poetry?

Yes. I used to write fiction and poetry as child, winning minor prizes at school and colege, and then as a teenager I was a vocalist in several Ska and Oi! bands and played gigs in and around London and the southern counties. I also play Folk and Bluegrass songs on acoustic guitar and a close friend of mine often joins me on the mandolin for long jamming sessions. These days, however, I’m a writer and vocalist with the mainly Dutch group, HERR, and have written and recorded for the harsh Swedish electronic outfit, Survival Unit.

What are your views on the importance of music for the revolutionary struggle?

I believe that music can act as a true voice in the quest for revolutionary change. We’ve all seen the immense power and influence that can be produced by certain genre, the musical categories mentioned above being testimony to that fact. Music can be far more than a pleasurable experience, however, it can also function as a means of anger, self-expression and experimentation. This has been going on ever since the Teddy Boys of the 1950’s, or the Mods and Rockers a decade later. Music and its accompanying lifestyles can inspire real belief. Once that power is shackled to a political current it can become a dynamic cocktail.

The majority of the industrial/neofolk scene is highly sceptical of “sellout” musicians, rejecting an artist’s work as soon as he becomes accepted by MTV. You don’t seem to judge according to the same criteria, your praise of MARILYN MANSON’S performance in London being just one example. In today’s totalitarian “society of the spectacle”, can anyone be accepted by the masses but still remain an inspirational and great artist?

I think that a lot of this talk about ’selling out’ completely misses the point. Moreover, it’s often something alluded to by the more pretentious or superficial music fan. As long as the central or unifying idea of a particular form of music is not compromised or watered-down, it can actually help to spread these ideas to a far larger number of people. Surely the whole point is to reach as many people as possible? Besides, I would rather see young teenagers wearing corpse paint and painting their nails black than going out to night clubs and listening to the manufactured pap of the music industry. The very nature of most Industrial and Neofolk artists, however, usually precludes them from ever being accepted by the masses. They are necessarily elitist and often deal with misanthropic or deeply philosophical themes.

What is your opinion of the vague concept of “postmodernism”? Is postmodernism merely another step down the slope of kali-yugian degradation, or is it a bizarre but fascinating cultural period in which ancient values and traditional rites suddenly re-appear? Does it possess a positive side, in the way that it is anti-modernist?

In some respects, yes. I think this is particularly true of the way it presents a more fractured and fluid interpretation of the world in stark contrast to the modernist tendency to centralise or internationalise everything. I haven’t quite decided whether postmodernism offers a real alternative to modernism, but we can learn a lot from the way it has sought to dissect and analyse both the period in question and that which now follows in its wake. Postmodernism also appears to harbour a distaste of science and technology, something I find easy to identify with. However, the problem with postmodernism in general is that it seems to encompass a vast array of thought and has no real direction of its own.

When and how did you come into contact with the internet? What are views on the web from a political and cultural perspective?

I first came into contact with the Internet in the mid-1990’s, whilst at university, and finally got online myself around 1995. But I have very mixed feelings about it. Whilst I can see the wonderful advantages it offers in terms of being able to spread ideas or make oneself heard, I also feel that it leads to a greater dependence upon technology. In some respects this is a good thing, because it makes the System even more fragile than it is, but the Internet can also act as a huge distraction from the true realities of our existence. The best thing about it, of course, is being able to have all this incredible knowledge at your fingertips, but that’s no good if you can’t even drag yourself out of the chair to act upon it all.

Your SYNTHESIS magazine only exists online, and yet we know that you have been actively involved in a variety of printed magazines. Do you see the printing press as inferior to the internet when it comes to cultural and political warfare in today’s world?

Yes, very much so. In fact the very people that we have always sought to target through the medium of print, those already involved to some extent or another, are all on the Internet already. On the other hand, you can’t beat a proper magazine or newspaper in terms of giving people a tangible and living example of your work, but the results are often very minimal when compared to the expenditure that is necessary to produce them. The stationary industry in this country has become a vast racket, not to mention the amount of trees that have to be felled for human consumption.

Have you ever thought about writing for big magazines and thus making your ideas reach a greater and more diverse audience? If, hypothetically, you would be offered a weekly column in a broadsheet on the condition of making your views slightly more moderate, would you compromise or reject the proposal?

I would certainly relish the opportunity of promoting National-Anarchism in this way, but I wouldn’t be prepared to actually change my views to that extent. It may be possible, on the other hand, to stick within certain limits rather than raise the more inflammatory subjects like Race or Zionism.

Do you fear governmental action against you or your movement? Have you ever had serious troubles with the police due to your political activity?

I don’t fear it, but the possibility is always there in the back of my mind. National-Anarchists like Peter Topfer, on the other hand, have experienced almost constant repression by the State and he has been persecuted many times. I have been arrested many times for stickering and flyposting, as well as on Anarchist demonstrations, but the worst case scenario occurred in 1987 when I was charged with Actual Bodily Harm (ABH) & Affray and eventually consigned to Lewes Prison for eighteen months the following year. Apparently, the very fact that I and a handful of others were trying to defend ourselves against 200 violent Communists was neither here nor there. But the British State got what it wanted and, by throwing me in jail, managed to disrupt the steady growth of the NF in one of its newest areas.

Please excuse our curiosity, but do you have a job besides being engaged in various National-Anarchist related activities? May we know something about your family?

It’s impossible for me to work full-time because I teach my four children at home. This takes up a great deal of my time and can be extremely hard work, not least because of the differing age levels, the lack of State-funding for home-schooled families in this country and the fact that we often have to rely on self-help organisations like Education Otherwise. I’ve been married for over fourteen years now and we have two girls and two boys. We don’t have a car for environmental reasons and therefore a lot of our time is spent exploring local parks or hiking through the countryside. The children are very artistic and enjoy making their own collages and fantasy comic strips, whilst my wife - originally from Tunbridge Wells, in Kent - has a strong interest in Punk Noir, psychology and basset hounds. I spend my spare time reading and discussing Theology, forcing people to eat my attempts at Italian and Indian cookery, enjoying the fantasy novels of Michael Moorcock, and organising football matches with the other kids in the area.

Your Iron Youth internet site, giving advice on how to bring your kids up as National-Anarchists, features a reading list of childrens’ literature: SWIFT, POE, WILDE, STEVENSON… Most of these classical authors are now being read at university level by literature students only. Why do you think is the current state of English education so poor, and do see a way out of this crisis?

The reason the educational standards are so awful in this country, is because the mass media is continuously dominating every aspect of people’s lives. The last few years has seen the growth of a huge social underclass, which seems to be comprised of promiscuous girls and violent males. But it’s futile to completely blame this on poverty. Many of these people have managed to acquire a certain degree of wealth and affluence, but they can’t seem to escape the debilitating peer pressure which encourages people to live in a world of fast cars, fast sex and fast food. There is also a severe identity crisis in England, which has been caused by Americanisation on the one hand, and multi-racialism on the other. It is hardly surprising, therefore, that a culture which prides itself on drunken thuggery and so-called ‘reality TV’ has no interest whatsoever in academic matters or the intellectual development of the individual. The only solution to this crisis is home-schooling. Once you take your children out of this detrimental environment, they are free to develop naturally without the constraints imposed by their peers. In South London, for example, most white schoolchildren have incorporated black slang into their vocabulary, blurring the distinctions between the races and creating a uniform monoculture. To be an individual in modern England, therefore, is to become a virtual outcast.

What is your opinion of elitist educational institutions like Eton, Oxford or Cambridge? On the one hand, you support elitist meritocracy, but on the other, you reject centralised education. In a National-Anarchist society, would the likes of Oxford and Cambridge have a chance to survive?

Firstly, National-Anarchists do not recognise nation-states and, secondly, given that we expect the internationalist system to decline to the extent that it leads to a full-blown technological crisis, it would be impossible for universities to continue as they are at the present time. At the village level, on the other hand, I would expect children to be educated naturally and in accordance with their abilities. Egalitarianism is a myth and some children will always be slower than others, that’s life. But this should take place in a community setting, rather than at a privileged institution, because it is possible to learn from those around you without ever having to establish schools or education systems in the first place.

Do you sympathise with the anti-copyright movement, and if so, have any steps been made to unite your forces with those of prominent anti-copyright fighters? After all, their ideology, though far less complicated and metaphysical than yours, has striking similaritites with National-Anarchism.

We haven’t formerly approached the anti-copyright movement at this stage, but it’s certainly an interesting idea and worth considering in the future. Personally, I oppose all forms of copyright and believe that, rather than seek to protect the artist concerned, copyright laws are simply there to take advantage of that which has been produced. This is achieved by taking it away from the artist altogether and limiting creative output in order to control the amount of alternative material that gets into the mainstream. As an Anarchist, I also believe that it’s impossible to ‘own’ intellectual ideas because they are part of our common development. I’m sure Pierre-Joseph Proudhon would have understood the logical connotations of this process, despite the fact that people often confuse his famous ‘property is theft’ statement with the denial of individual - rather than private - property.

Let us turn to the spiritual and esoteric side of your teaching. You have taken the long path from agnosticism and extreme Catholicism to heathen cults like Mithraism. How did your beliefs evolve, and what is your current spiritual system? Does your movement have an official religious position? Can a Christian or Hindu possibly join?

I have never been an agnostic and always believed in some kind of god or higher intelligence. These days I would describe myself as a student of Primordial Tradition and don’t embrace any kind of religious system. At the present time I am examining the work of Alan Watts, who was chiefly responsible for introducing Eastern philosophy to the West for the very first time. I have a lot of time for Hinduism, too, but at the moment I feel a growing affinity with Zen Buddhism. I don’t care what spiritual outlook people have, I believe that it’s a relatively private matter and National-Anarchism is about banding together with people of like mind and therefore I would find it far more conducive to spend my time with someone interested in Spirituality or the Occult than in material things.

Did you ever have a teacher, a guru who taught you any of the spiritual doctrines you were interested in, or did you pick them up in literary sources?

I have never been under the guidance of a guru or holy man, although I do try to meet as many interesting and intelligent people as possible. I studied Theology & Religious Issues at university, so that helped put things into an historical and cultural perspective to some extent, but I do feel that I’ve reached the stage of my life where a more strenuous and disciplined approach is necessary for my own personal development. I have spent several years examining the various Occult groups and weighing up the possibilities, but I’m not really the kind of person who would respect an authority unless I was convinced that it was tied in to an initiatory source.

Much of the spiritual energy of the Twentieth Century has been hijacked by rather distasteful New Age movements. How can one objectively distinguish a GUENON from a BLAVATSKY, and is there a actually a line separating true mysticism from Occult parodies? If so, which cathegory would you place STEINER, GURDJIEFF and SERRANO in?

I have studied the personalities you mention above, as well as many others to whom people have given their spiritual allegiance, but I happen to believe that it’s a case of gathering all the fragments together until we get a broad picture of the truth. I suppose it’s the National-Anarchist in me. I have always been very suspicious of those who attempt to form personality cults around either themselves or others, in fact I prefer to observe from a distance and explore the information that is available. I do have a lot of respect for some of the main Occult societies but, like most things in the twilight age of the Kali Yaga, many have become corrupt or detached from their origins. One development that interests me is the ongoing fusion of the New Right with various esoteric and Right-wing Anarchist groups on the Continent. There seems to be a genuine attempt to regather the lost wisdom of the past and then use this knowledge to cross the threshold between this world and the beginning of the next Cycle. As the Visnu Purana explains: ‘[They] will then establish righteousness upon earth; and the minds of those who live at the end of the Kali age shall be awakened, and shall be as pellucid as crystal. The men who are thus changed by virtue of that particular time shall be as the seeds of [new] human beings, and shall give birth to a race who shall follow the laws of the Krita, or primordial age.’

Finally, please tell us how you view the possibilities of future co-operation between Russia and England in terms of revolutionary politics and culture. Do you think that our individualistic interests could be overcome in order to combine forces against a common enemy?

Following obediently behind the coat-tails of her American ally, the British State will no doubt continue on her journey towards oblivion. But it remans to be seen whether this country will alienate itself from the rest of Europe or seek to unite Europe in the next logical step towards world goverment. This is why England plays such a vital role for American interests, a fifth column within Europe for the intended subjugation of the whole globe. Eurasianists rarely include Western Europe in their vision of a new future, unless, of course, it’s in a very minor or peripheral role. But the Russia of the past, like France, was always known for her warm attitude towards political outcasts and revolutionaries, so perhaps Eurasianism will bring about a new alliance of minds and become the springboard for salvation. I have always deeply admired the long-suffering peoples of Russia, but I do find it rather unusual that National-Anarchism has yet to appear in the country which spawned the likes of Georgy Chulkov and Viacheslav Ivanov. Hopefully, this interview will go some way to changing that fact.

Thanks for listening.

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samedi, 02 février 2008

J.P. Roux: un choc de religions

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Un choc de religions - La longue guerre entre la chrétienté et l'Islam 622-2007

par Jean-Paul ROUX

Ed. Fayard (2007)

Il y a ces grands noms qui surgissent du passé : bataille de Poitiers, croisades, prise de Constantinople, guerre d'Algérie, et tant d'autres épisodes. Il y a ce conflit armé qui a commencé en l'année 632 et qui, de décennie en décennie et jusqu'à nos jours, a été marqué par des événements dont la presse mondiale, si elle avait existé, aurait fait pendant des jours sa première page. Il n'y a pas d'année, pas de mois, pas de semaine peut-être sans que du sang soit versé par des chrétiens ou par des musulmans. Ne vaut-il pas la peine de le rappeler, de montrer à nos contemporains que les événements qui occupent l'actualité, qui les bouleversent, s'inscrivent dans une longue série de 1375 ans d'événements tout aussi spectaculaires ; que de plus petits faits dont on ne parle guère qu'un jour ou deux ont eu, tous les jours, leurs équivalents pendant 1375 ans ? Déclarée et ouverte, génératrice de grandes batailles, de villes enlevées à l'ennemi, de provinces conquises, de pays occupés, de populations exterminées, ou larvée et sournoise, la guerre entre l'islam et la chrétienté, malgré cette amitié que l'on évoque encore et qui fut souvent réelle, malgré ces relations entre Byzance et le califat de Cordoue ou entre Charlemagne et Harun al-Rachid, malgré ces traités d'alliance comme celui de François Ier et de Soliman le Magnifique, malgré de longues périodes de trêves sur tel ou tel front alors qu'on se battait ailleurs, malgré tout ce que chrétiens et musulmans se sont mutuellement apporté, ont échangé, malgré l'admiration qu'ils ont pu avoir les uns pour les autres, cette guerre est une réalité. Elle n'a jamais vraiment pris fin.

A propos de l'auteur :

Ancien directeur de recherches au CNRS, ancien professeur à l'École du Louvre - où il enseigna l'art islamique , maîtrisant de nombreuses langues orientales, Jean-Paul Roux a consacré de nombreux livres à l'Orient et à l'Asie. Citons son Histoire des Turcs (Fayard, 1984 et 2000), son Histoire de l'Iran et des Iraniens (Fayard, 2006). Il s'est toujours intéressé, en érudit mais aussi en chrétien loyal et respectueux de l'autre, à l'histoire des religions (Jésus, Fayard, 1989 ; Montagnes sacrées, montagnes mythiques, Fayard, 1999).

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jeudi, 27 décembre 2007

J. Parvulesco: Guerre intercontinentale de la Fin

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Un texte de 1999 qu'il est toujours bon de relire !

 

Jean PARVULESCO :

 

La guerre intercontinentale de la fin est commencée !

 

Avec l'effondrement du Mur de Berlin en 1989, le cycle politico-his­to­rique de l'"après-guerre", commencé en 1945, venant de prendre fin, un bref interrègne a-historique s'en était ensuivi, pendant lequel l'histoire mondiale s'en était trouvée comme provisoirement sus­pendue dans sa marche en avant. Interrègne qui prend fin, aujour­d'hui, avec les débuts de l'ère des conflagrations intercontinentales planétaires entamée par l'actuelle agression anti-européenne directe des Etats-Unis dans le Sud-Est de notre continent. En effet, la guerre anti-européenne —en fait, anti-grand-continentale—  menée, actuel­le­ment, par les Etats-Unis, au Sud-Est de l'Europe, contre la Serbie, re­présente le commencement  —l'enclenchement politico-militaire di­rect, et tout à fait à découvert—  du grand cycle des conflagrations in­ter­continentales planétaires qui, dans les prochaines années à venir, vont devoir opposer l'unité impériale européenne grand-continentale à l'entreprise impérialiste d'hégémonie planétaire totale poursuivie, de­puis 1945, par les Etats-Unis, ou plutôt par ce que Bill Clinton vient d'appeler, déjà, la « Superpuissance Planétaire », agissant au servi­ce de l'idéologie démocratique mondialiste des "droits de l'homme" (en réalité, l'idéologie subversive fondamentale de l'Anti-Empire, de l’« Em­pire du non-être »).

 

Dans l'état présent des choses, deux enseignements essentiels se dé­gagent analytiquement de l'agression anti-européenne des Etats-U­nis, actuellement en cours :

 

(1) La situation d'inconcevable mainmise des Etats-Unis sur l'en­sem­ble des moyens de communication européens, presse, radio, télé­vi­sion, ensemble entièrement contrôlé par l'appareil souterrain d'em­prise et d'encadrement à la disposition de la ligne politique offensive an­ti-européenne de Washington.

 

(2) L'assujettissement intégral, à la ligne offensive anti-européenne de Washington de l'ensemble des infrastructures politiques de gou­ver­nement de la social-démocratie partout au pouvoir en Europe, en Grande-Bretagne, en France, en Allemagne, en Italie, etc.

 

A ce titre, l'actuel renversement des positions politiques de base de la France et de l'Allemagne —pourtant pré-engagées sur des posi­tions essentiellement anti-américaines de par leur participation même au Pacte Carolingien franco-allemand, base fondationnelle originelle de l'unité impériale européenne grand-continentale—  apparaît com­me extraordinairement flagrant : la France et l'Allemagne qui, nor­ma­le­ment, auraient dû se trouver à l'avant-garde de la ligne de résis­tance européenne grand-continentale face aux tentatives en cours de l'emprise américaine sur l'Europe, se retrouvent, en ce moment, au con­traire, et très paradoxalement, à la pointe de l'assujettissement aux actuelles positions anti-européennes offensives de Washington. La ligne géopolitique grand-continentale eurasiatique du "grand gaul­lisme" se voit ainsi non seulement abandonnée, mais totalement re­tournée, changée en son propre contraire.

 

A telle enseigne que l'on se trouve puissamment tentés de se de­man­der  —et cela est vrai, d'évidence, plus particulièrement encore pour la France—  si à l'arrière-plan de la situation présente  —à l'ar­riè­re-plan des changements, des renversements, apparemment in­com­préhensibles, de la ligne politique conductrice de leur attitude— il n’y avait pas de raisons, des “anti-raisons", des "raisons autres”, pro­fondément dissimulées, inavouables et inavouées dans le contexte présent, des raisons ayant très occultement eu à présider aux choix inconcevables de la France —et de l'Allemagne aussi— face à l'ac­tuelle tentative américaine de mainmise offensive sur l'Europe.

 

L’action contre la Serbie pourra se répéter contre n’importe quelle puissance européenne

 

Car un troisième enseignement, moins discernable, peut-être, que les deux précédents, se dégage également de l'actuelle initiative politico-militaire américaine en Europe, à savoir celui de la dialectique de défi et de menace sous-entendue, présents dans l'action stratégique, à tous égards exemplaire, ainsi entamée par les Etats-Unis au Sud-Est de notre continent. Ce troisième enseignement serait alors le sui­vant : que ce que les Etats-Unis sont actuellement en train de faire contre l’insoumission de la Serbie à la volonté mondialiste subversive de la « Superpuissance Planétaire »,  la « Superpuissance Plané­tai­re » pourrait entreprendre de le faire également, quand l’occasion se pré­sentera, contre n'importe laquelle des nations européennes, et mê­me contre l'ensemble de celles-ci (et plus particulièrement contre la France, l'Allemagne et la Russie, qui sont, chacune de leur côté et, surtout, ensemble, des « puissances décisives »).

 

Il ne semble donc pas du tout qu'il fût impossible que le choix d'as­sujettissement politique forcené  —mais après tout, des faux choix peut-être, des leurres politico-stratégiques de circonstance—  qui sont aujourd'hui ceux de la France et de l'Allemagne à l'égard de la vo­lonté offensive des Etats-Unis dans le Sud-Est européen ne re­pré­sentent, en réalité, que des options opératives de décalage, de di­ver­sion préventive, de tergiversation et de mise en retard stratégique des­tinées à gagner du temps, à contrer d'avance toute éventuelle ex­ten­sion à venir du champ de l'action offensive américaine en Europe. En effet, les Etats-Unis viennent de prouver qu’ils disposent d'un nom­bre absolument dramatique de longueurs d'avance par rapport à l'Eu­rope, et surtout par rapport à nos propres projets d'une Grande Eu­rope, d' Europe grand-continentale eurasiatique. Or, à l'heure pré­sen­te, c'est avant tout autre chose à ce dramatique retard qu'il nous faut faire face. Par n'importe quels moyens, et en prenant n’importe quels risques. C'est une affaire de destin, une affaire de destin final.

 

Alain Peyrefitte: « Jamais l'évidence de la prise de possession de l'Europe par Washington n'a été aussi mortifiante » (Le Figaro, 15. IV. 1999).

 

Une pénétration militaire offensive en Europe

 

Car le choix des Balkans comme zone d'intervention politico-militaire directe de Etats-Unis en Europe ne laisse d'être extrêmement révé­la­trice. Le Kosovo et, derrière celui-ci, la « Grande Albanie » et la Bos­nie, enclaves islamistes en Europe, vont devoir servir aux plans de la grande stratégie politique américaine de pénétration militaire offen­sive en Europe au titre de bases d'implantation et de rayonnement, établissant un lien subversif permanent, à travers la Turquie, avec la chaîne de présence contre-stratégique américaine longeant l'en­sem­ble du flanc Sud de la Russie, où les républiques islamistes de l'an­cien­ne URSS se trouvent actuellement travaillées à fond par les ser­vices spéciaux de Washington, et où des grande bases stratégiques mi­litaires américaines sont en train d'être implantées d'urgence.

 

C’est en effet par une prise de position dans le Sud-Est du terri­toire visé que la géopolitique confidentielle américaine entame tou­jours le processus de sa pénétration, et de l'investissement con­tinental de grande envergure ultérieure. Tout comme dans le Sud-Est asiatique, au Vietnam, l'établissement d'une tête de pont po­litico-militaire au Sud-Est de l'Europe, dans les Balkans, révèle l'in­tention d'un projet américain d'investissement continental total. Si ce qui a été ainsi mis en branle par Washington n'est pas contré, n'est pas arrêté à temps, le sort de l’Europe  —de la Grande Europe de di­men­sions continentales eurasiatiques—  est scellé, ses destinées anéan­ties. Car tel est l'ultime but de guerre des Etats-Unis, de leur guerre politique totale actuellement déjà en cours.

 

A part l'intensification de plus en plus poussée du travail de la résis­tan­ce européenne au double niveau, idéologique et immédiatement pol­itique, travail révolutionnaire que l'on doit considérer, dans les cir­con­stances présentes, comme un travail confidentiel, voire même tout à fait souterrain, et qui marque l'heure de l’émergence activiste de l'ensemble de nos "groupes géopolitiques", de Lisbonne à Mos­cou, l'effort européen d'ensemble concerne la bataille actuelle pour la surqualification de l'Union Européenne, à laquelle il faut obtenir que l'on confie l'administration provisoire du Kosovo, ce qui bloquerait, sur pla­ce, les manœuvres directes des forces américaines d'ingérence. Or c'est bien ce que Jacques Chirac a demandé, et obtenu, lors de la réu­nion des chefs d'Etat et de gouvernement qui s'est tenue, le 14 avril dernier, à Bruxelles, pour le sommet d'urgence de l'Union Eu­ro­péenne.

 

Un effort européen d’ensemble

 

L’effort européen d'ensemble, ai-je dit. Il s'agit là d'un nouveau con­cept de combat révolutionnaire pour la libération politico-histo­ri­que finale de l'Europe grand-continentale, de dimensions eurasia­ti­ques, combat qui doit inclure, fondamentalement, la participation ef­fec­tive, immédiate et à part entière, totale, de la Russie. Dans ce sens, les efforts actuels de la France en faveur de l'intégration de la Rus­sie au nouveau dispositif politico-stratégique européen en voie de con­stitution est un signe majeur, un signe prémonitoire de notre pro­chain réveil révolutionnaire supra-historique.

 

Contrairement aux allégations de Samuel Huntington, l'orthodoxie ne re­présentera pas, à l'heure des retrouvailles grand-continentales eu­ra­siatiques des nôtres, une ligne de rupture infranchissable : au con­traire, la mobilisation transcendantale de l'éthos européen abyssal pro­voquée par la tentative américaine d'assujettissement du Grand Con­tinent fera que l'Europe catholique de l'Ouest et que l'Europe or­tho­doxe de l'Est y retrouveront, providentiellement, l'unité antérieure d'une même foi et d'un même destin. Unité impériale, foi impériale et destin impérial, encore une fois et, cette fois-ci, définiti­ve­ment. Ce qui doit se faire se fera, ce qui doit se faire est déjà en train de se faire, on le sait.

 

Jean PARVULESCO (1999).

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mercredi, 26 décembre 2007

Orthodoxes et catholiques: rapprochement historique?

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Henri de GROSSOUVRE :

«Orthodoxes et catholiques à Strasbourg : un rapprochement historique ?»

Les personnalités au coeur des relations entre Strasbourg et la Russie confirment: les Russes misent sur Strasbourg. Nous avons rencontré différents acteurs de ce travail méconnu du grand public, pouvant devenir un enjeu majeur pour l’avenir de l’Europe. Ce choix se décline sous deux formes : un choix politique russe et un choix orthodoxe.

Avec l’adhésion en 1996 de la Russie au Conseil de l’Europe, les Russes et les russophones des pays d’ex-URSS arrivent à Strasbourg. « Les diplomates sont progressivement suivis par des étudiants et des hommes affaires. Strasbourg est aujourd’hui connue en Russie », souligne le consul général M Klimovskiy. La Représentation Permanente russe comprend une dizaine de diplomates. Aux grands bâtiments de la RP de l’Allée de la Robertsau s’est ajouté celui du Consulat Général, doté de salles de réception. Les diplomates hautement qualifiés se succèdent, l’actuel ambassadeur, M. Alexeïev, est ancien vice-ministre. Le consul V. Korotkov a réalisé un travail de fond dans les domaines économiques et culturels. Son successeur, M. Klimovskiy a été de 2002 à 2007 directeur de cabinet du vice-ministre Saltanov. Au Conseil de l’Europe plusieurs russes occupent des postes clés. Seda Pumpyanskya y dirige depuis 2005 l’important service de communication (80 personnes) et M. Vladychemko est directeur de la DGIII (cohésion sociale). M. Mikhail Margelov pourrait même succéder au président actuel de l’Assemblée parlementaire lors des élections de janvier 2008.

Les seize églises orthodoxes sont autocéphales et entretiennent de ce fait des liens plus étroits avec leurs pouvoirs politiques nationaux respectifs. Si le patriarche de Constantinople est le « primus inter pares », le poids politique et les moyens du patriarcat de Moscou sont de loin les plus importants. Il y a à Strasbourg sept paroisses orthodoxes (roumaine, serbe, grecque…) dont deux russes : une francophone, celle du père Escleine, et une russophone, celle du père Philarète. Depuis 2005 l’higoumène Philarète est le représentant officiel du patriarcat de Moscou et de toutes les Russies auprès du Conseil de l’Europe. Les territoires orthodoxes russes en dehors de la Russie sont les pays où il y a de grandes communautés de fidèles russes (Biélorussie, Ukraine…). « Avec le père Philarète, le patriarcat de Moscou envoie un émissaire de haut vol de manière permanente et intervient ainsi diplomatiquement dans les discussions du Conseil » insiste le chanoine Geissler, délégué de l’évêché de Strasbourg aux affaires temporelles. La récente visite à Strasbourg du patriarche Alexis II constitue à cet égard un événement majeur malheureusement modérément couvert par la presse locale. Alexis II s’est d’abord rendu du 1er au 3 octobre à Strasbourg, à l’invitation du président de l’assemblée parlementaire du Conseil. Il s’est rendu ultérieurement à Paris pour rendre visites aux fidèles parisiens et au président Sarkozy. « Les thèmes du Conseil de l’Europe, les droits de l’homme, la morale de notre société ou l’éducation sont également des thèmes importants pour l’église orthodoxe et pour la grande Europe. » (Père Philarète). Le patriarche a également rencontré madame Keller qui a donné son accord de principe pour la construction d’une « vraie » église russe à Strasbourg. « Cette église sera aussi une belle église strasbourgeoise construite par un architecte russe dans la tradition orthodoxe mais adaptée à la culture alsacienne ». Moins d’un mois après la visite du patriarche, le 28 octobre, lors de l’ordination épiscopale à Mazza del Valo (Sicile) de monseigneur Ralo, le père Philarète a été le seul des émissaires étrangers à lire un message de Kyrill de Smolensk, façon de ministre des affaires étrangères du patriarcat. Cette cérémonie était présidée par le secrétaire d’Etat du Vatican, hiérarchiquement numéro deux après le Pape. Le message de l’émissaire russe strasbourgeois insistait sur le rôle de Strasbourg et la contribution de Vito Rallo au rapprochement entre le Saint-siège et le patriarcat. Un diplomate de la représentation permanente russe de Strasbourg avait aussi spécialement fait le déplacement. « Strasbourg est pour le patriarcat russe une plateforme privilégiée de dialogue avec le Vatican. » (Chanoine Geissler). L’évêque de Strasbourg vient d’ailleurs de nommer le père Boeglin adjoint au délégué épiscopal aux relations oecuméniques particulièrement chargé des relations avec les orthodoxes, alors que traditionnellement en Alsace, les relations œcuméniques sont avec les protestants.

Pour Jean-Luc Schaffhauser, président de l’Association strasbourgeoise « Rhin-Volga » et homme d’affaires partageant son temps entre Paris, Strasbourg, Rome et Moscou, le choix russe de privilégier Strasbourg coïncide avec l’évolution internationale : «  la puissance des Etats-Unis arrive à sa fin car elle n’a plus de légitimité morale. Ils vont entraîner le monde dans une faillite, conséquence de leur politique économique. On se dirige ainsi vers la reconstitution de grands pôles géographiques dont l’un est obligatoirement l’Europe continentale face à la Chine et l’Inde. L’identité culturelle et spirituelle commune unit la grande Europe et l’union avec le monde orthodoxe est une question de survie du christianisme. L’unité chrétienne  se fera donc par une nécessité géopolitique, par besoin de survie de l’identité européenne. » Si la situation internationale est favorable, la situation locale ne l’est pas moins. Strasbourg n’est elle pas, face à Bruxelles, et au cœur du franco-allemand le symbole de l’Europe politique ? A moins de trois-quarts d’heures de Strasbourg Baden-Baden, la ville allemande la plus connue de Russie après Berlin accueille une importante communauté russe. Enfin, le 16 novembre dernier, le 1er ministre russe, M. Zubkov, annonçait, lors d’une rencontre franco-russe à Matignon, la création de classes de russe au lycée international de Strasbourg. Cette mesure est importante. Elle intègre les Russes dans une forme de communauté européenne aux côtés des classes britanniques et allemandes.

Les Russes sont des champions d’échecs, ne l’oublions pas et sachons anticiper et saisir les opportunités de rayonnement international qui s’offrent à Strasbourg et aux Alsaciens ! Nous sommes peut être à la veille d’un rapprochement historique entre les deux poumons de l’Europe. La rupture « catholiques-orthodoxes » de 1054 a eu lieu sous le pontificat d’un pape alsacien et impérial : Léon IX. Le jour de sa fête, le 19 avril a été élu Benoit XVI, 1er pape allemand depuis le moyen age. Avec le chanoine Geissler, nous voulons y voir un signe…

Henri de Grossouvre, directeur du Forum Carolus (www.forum-carolus.org ), laboratoires d’idées européen à Strasbourg initié par François Loos.

Article à paraître dans « Vivre l’Alsace – Rot un wiss » de décembre (8000 exemplaires), si possible le mentionner.

lundi, 24 décembre 2007

1979: les troupes soviétiques en Afghanistan

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24 décembre 1979 : Les troupes soviétiques entrent en Afghanistan

Le 27 avril 1978, le « Parti Démocratique Populaire d’Afghanistan » avait pris le pouvoir sous la direction de Muhammad Taraki. Le pays se rapproche de l’URSS afin de parfaire un programme de réformes sociale, surtout dans les domaines de l’éducation et de la réforme agraire. Notons, au passage, que l’Afghanistan avait bien dû se tourner vers l’URSS, les puissances anglo-saxonnes, qui soutenaient alors Khomeiny, voyaient d’un mauvais œil les tentatives iraniennes de venir en aide aux Afghans.

Ce nouveau régime, en observant la situation chaotique dans laquelle se débattait l’Iran, met immédiatement les agitateurs religieux au pas. La CIA décide tout de suite de soutenir une trentaine de groupes de moudjahhidins. La situation devient alors bien vite critique. Dans les troubles qui agitent l’Afghanistan, Taraki est assassiné. En septembre 1979, Hafizullah Amin prend le pouvoir, ce qui déclenche une guerre civile, amenant, le 24 décembre, les troupes soviétiques à intervenir, pour rétablir l’ordre. Amin est exécuté. Babrak Karmal accède alors au pouvoir et demande à Brejnev l’appui permanent de troupes soviétiques. Ce qui lui est accordé. L’Occident capitaliste (l’américanosphère) et l’Islam radical condamnent l’intervention et forgent une alliance qui durera jusqu’aux attentats du 11 septembre (qui n’y mettront fin qu’en apparence).

Le 21 mars 1980, les Afghans hostiles aux Soviétiques forment une « Alliance islamique pour la liberté de l’Afghanistan », qui comprends des fondamentalistes et des monarchistes. Cette alliance, dont le nom contient les vocables « islamistes », pour plaire aux bailleurs de fonds saoudiens, et « liberté », pour plaire aux Américains, comptait sept partis islamistes, dont quatre étaient jugés fondamentalistes et trois, plus ou moins modérés. Ces partis installent leur QG sur le territoire pakistanais voisin. Dans la longue guerre qui s’ensuivra, les services pakistanais, dont surtout l’ISI, recevront et distribueront l’argent et les armes venus des Etats-Unis, d’Arabie Saoudite et d’organisations « privées » arabo-musulmanes.

Zbigniew Brzezinski, artisan de cette stratégie, avouera, dans un entretien accordé au « Monde », que la version officielle d’une aide aux moudjahhidins à partir de 1980 est fausse. D’après le stratège, c’est le 3 juillet 1979 que la décision a été prise d’armer les moudjahhidins, pour attirer l’URSS dans un piège, afin de la déstabiliser par une opération coûteuse et de lui donner une mauvaise image médiatique, tant dans le monde arabo-musulman que dans l’américanosphère.

dimanche, 23 décembre 2007

Curzio Malaparte: quotation

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“Behind the Doric columns of the ‘Pyatlyetki,’ the Five Year Plans, behind the rows of figures of the ‘Gosplan,’ there stretches not Asia, but another Europe: ‘the’ other Europe (in the sense in which America too is another Europe). The steel cupola of Marxism + Leninism + Stalinism (the gigantic dynamo of the U.S.S.R. according to Lenin’s formula: Soviet + electrification = Bolshevism) is not the mausoleum of Genghis Khan but - in the very sense that bourgeois folk find so distasteful - the ‘other’ Parthenon of Europe. ‘The Volga,’ says Pilnyak, ‘flows into the Caspian Sea.’ Yes, but it does not rise in Asia: it rises in Europe. It is a European river. The Thames, the Seine, the Potomac are its tributaries.”

Curzio Malaparte, THE VOLGA RISES IN EUROPE

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vendredi, 21 décembre 2007

1879: Naissance de Staline

21 décembre 1879 : Naissance de Staline

Naissance en Géorgie de Joseph Vissarionovitch Dougachvili, qui sera connu sous le nom de Staline, l’Homme de fer. Né dans le foyer d’un cordonnier géorgien et d’une Ossète (Ekaterine Geladse), dont les ancêtres étaient serfs, il fut quasiment le seul leader bolchevique à être issu d’un milieu aussi modeste. Après une scolarité brillante, il est admis au séminaire orthodoxe de Tiflis, une école connue pour son opposition au tsarisme. Dans le cadre de cette école, il entre en contact avec des propagandistes marxistes dès l’âge de quinze ans, qui lui communiquent des ouvrages, souvent français, interdits de lecture en Russie (Letourneau, Victor Hugo). A dix-huit ans, le jeune Joseph est actif dans les cercles socialistes géorgiens, ce qui conduit à son exclusion du séminaire en 1899.

Certes, son activisme avait motivé cette exclusion, mais aussi quelques solides échecs dans des examens importants, ratés parce qu’il avait été trop zélé dans son militantisme. Il finira par être arrêté une première fois en 1902, à la suite d’une manifestation à Batoum. Plusieurs relégations en Sibérie s’ensuivront, assorties d’autant d’évasions successives, qui le conduiront à un premier exil en Autriche-Hongrie en 1912 (Cracovie et Vienne). Entre-temps, il avait rencontré Lénine en 1905 et suivi son option « bolchevique », lors du schisme entre minimalistes et maximalistes au sein du mouvement social-démocrate russe.

L’option maximaliste bolchevique, contrairement à l’option minimaliste « menchevique », visait l’organisation d’une révolution violente, portée par des « révolutionnaires professionnels ». Pour financer cette révolution, Joseph Dougachvili organise des braquages de banques ; le plus célèbre de ces braquages eut lieu à Tiflis en 1907, où les bolcheviques parviennent à dérober la somme de 250.000 roubles. Arrêté à son retour en Russie fin 1912, il vivra en exil forcé, de 1913 à 1917, à Touroukhansk, où il restera cois, sans chercher à s’évader, pour ne pas être incorporé de force dans l’armée russe combattant les Allemands, les Autrichiens et les Turcs. Il revient de cet exil sibérien en 1917, accompagné de Lev Kamenev, son compagnon de détention. Il est nommé membre du « Comité exécutif central » des bolcheviques à la suite du Congrès panrusse des Soviets de juin 1917.

Le 7 novembre 1917, après le triomphe des bolcheviques, il devient Commissaire du Peuple aux Nationalités, alors que les nationalités non russes de l’Empire faisaient sécession et proclamaient leur indépendance. Les Bolcheviques ne contrôlaient plus qu’un espace correspondant peu ou prou à la Moscovie du temps d’Ivan le Terrible. Les seules nationalités qui se joignirent à la révolution furent les Tatars et les Bachkirs. Au départ de la Moscovie et des régions voisines du Tatarstan et du Bachkortostan, les Bolcheviques devront reconquérir les terres de l’ancien Empire russe, aux mains des troupes blanches, des armées ethniques sécessionnistes et de troupes alliées envoyées à la rescousse. En juin 1918, Staline parvient à reconquérir le cours inférieur de la Volga, dont la ville de Tsaritsyn qui deviendra Stalingrad en 1925. Au départ de cette position clef sur la Volga, Staline entreprendra la reconquête du Caucase ; cette reconquête s’effectuera en plusieurs étapes : en février 1920, tous les peuples du Caucase septentrional sont incorporés dans l’Union Soviétique, à la suite d’une révolte générale contre le général blanc Denikine. Les Tchétchènes se révolteront ensuite contre les Soviétiques, ce qui induisit Staline à prononcer ce discours, qu’on relira avec étonnement, sur fond de la crise tchétchène actuelle : « Chaque peuple –les Tchétchènes, les Ingouches, les Ossètes, les Kabardines, les Balkars- doivent avoir leurs propres soviets. S’ils peuvent apporter la preuve que la Charia est nécessaire pour parvenir à cette fin, alors j’autorise la Charia. Si l’on peut m’apporter la preuve que les organes de la Tcheka ne comprennent pas le mode de vie propre et les autres particularités de la population et ne s’y adaptent pas, alors, il est clair que des changements devront intervenir dans cette région » (Discours tenu aux peuples de la région du Terek, 17 novembre 1920). Un mois plus tard, l’ensemble du Caucase, sauf la Géorgie, tombe aux mains des troupes soviétiques de Staline.

En février 1921, avec l’appui de son ami de jeunesse Sergo Ordchonikidse, la Géorgie, à son tour, entre dans le nouvel ordre soviétique. Cette victoire de Staline dans le Terek et le Caucase font de lui un héros respecté de la nouvelle Union Soviétique. Lénine est malade. Le pouvoir est détenu par une sorte de triumvirat, comprenant Staline, Kamenev et Zinoviev, tous trois hostiles à l’autre homme fort du régime, Léon Trotski. Staline se concentrera sur la consolidation de l’appareil bolchevique : ce qui amènera en bout de course à l’élimination de facto de Trotski, qui partira en exil au Turkestan puis à l’étranger en 1927, et au limogeage de Kamenev et Zinoviev dès 1926 (ils seront éliminés lors des purges de 1937). Staline devient alors maître absolu de l’URSS. Il inaugure sa politique de « socialisme dans un seul pays », soit la réorganisation de l’URSS, et rejette l’idée d’une « révolution mondiale » préalable, le credo de Trotski, tout simplement parce qu’une telle révolution exigerait des moyens que ne possède pas la Russie soviétique exsangue et épuisée. Mondialiser la révolution la condamnerait à l’échec rapide devant les forces anti-bolchevistes du monde entier, et notamment de l’Empire britannique.

De 1927 à 1938, le pays connaîtra la collectivisation forcée, avec l’élimination de la classe paysanne des « koulaks », et la persécution inlassable des dissidents, trotskistes et opposants à Staline, avec un instrument policier, le NKVD. Staline semble avoir poursuivi l’objectif de restaurer l’ancien Empire des Tsars sur toute l’étendue territoriale qui fut la sienne avant 1917 : guerre contre la Pologne et Pacte germano-soviétique, conquête de la Bessarabie, guerre contre la Finlande, succès diplomatiques à Yalta, annexion de la Ruthénie subcarpathique. Seule la Finlande a échappé à l’annexion directe. De même que la « Pologne du Congrès ».

Vainqueur avec l’appui américain en 1945, il reçoit une bonne moitié de l’Europe, afin de la maintenir dans le frigo et de l’arracher aux industries ouest-européennes, et surtout à la machine économique allemande, pour empêcher toute ré-émergence d’un concurrent pour les Etats-Unis sur la rive eurasienne de l’Atlantique Nord. Autre objectif de cette générosité de Roosevelt : fermer l’artère danubienne et empêcher toute projection européenne vers la Mer Noire.

Le seul intérêt de l’ère stalinienne après 1945, réside dans la volonté de contrer l’internationalisme américain (appuyé par les dissidences trotskistes, qui deviendront « néo-conservatrices » avec l’avènement de Reagan et de Bush-le-père, tout en contaminant les démocrates américains sous Clinton). Autre coup de théâtre diplomatique intéressant : les notes de 1952, où Staline propose la réunification de l’Allemagne et sa neutralisation. La proposition était intéressante et aurait permis plus tôt un envol de l’Europe occidentale hors de toute immixtion américaine. On imagine aisément l’aubaine qu’aurait été une Allemagne neutre, au moment où De Gaulle se désengageait de l’OTAN, après les troubles d’Algérie. Staline meurt, probablement empoisonné, le 5 mars 1953 à Kuntzevo près de Moscou (Robert STEUCKERS).

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mardi, 18 décembre 2007

Panturquisme et pantouranisme

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Sur le panturquisme et le pantouranisme

Entretien avec le Prof. Dr. Dr. Heinrich Paul Koch (Université de Vienne, Autriche)

Le Prof. Heinrich Paul Koch, détenteur de deux doctorats, s’est surtout rendu célèbre en Autriche et dans l’espace linguistique germanique grâce à sa thèse sur « les légendes du déluge dans le monde ouralo-altaïque » (1997). Il est un spécialiste des études historiques, préhistoriques et proto-historiques, de philologie finno-ougrienne et d’ethnologie. Jusqu’en 1996, le Prof. Koch, né en 1931 à Pressburg (Bratislava), avait enseigné la chimie pharmaceutique à l’Université de Vienne et la biopharmacie à l’Université de Cincinnati en Ohio aux Etats-Unis. Outre des centaines d’articles et d’essais, le Prof. Koch est l’auteur de huit livres.

Le panturquisme, que l’on appelle parfois aussi le pantouranisme, vise l’unité de tous les peuples turcs, leur rassemblement au sein d’un seul Etat. Dès 1839, se constitue en Turquie une « Société Touranienne » qui se fixe comme objectif de fonder un « Empire du Touran ». En 1915, les Jeunes Turcs, qui dirigent le gouvernement de l’Empire ottoman, déclarent que leur objectif de guerre est l’unité de tous les peuples turcs. Aujourd’hui encore, la Turquie revendique pour elle-même le rôle de diriger l’ensemble des peuples turcs, qui comptent quelque 250 millions d’âmes, sur des territoires qui s’étendent jusqu’aux confins de la Chine et jusqu’aux coins les plus reculés de la Sibérie. Le Prof. Dr. Dr. Heinrich P. Koch s’est intéressé très vivement à l’histoire de l’idéologie touranienne et, plus particulièrement, aux adeptes hongrois de cette idéologie. Car on oublie qu’en Hongrie aussi, en 1918, s’est constituée une « Société Touranienne », qui se fixait pour objectif de réunir tous les « Touraniens ». L’entretien que nous donne le Prof. Koch vise à nous éclairer sur les tenants et aboutissants de cette idéologie.

L’idée touranienne

Q. : Prof. Koch, quels sont les fondements du touranisme ?

HPK : Par touranisme l’on entend, la plupart du temps, le mouvement panturquiste dont le but est de réunir tous les peuples turcs. Le touranisme, au sens le plus large, va beaucoup plus loin : à la base de cette idéologie, nous trouvons la théorie de l’ascendance commune des peuples finno-ougriens et turcs, qui serait un peuple matriciel unique d’Asie centrale, issu d’une région située entre l’Oural et l’Altaï. La désignation collective « touranide » servirait de référence à tous les peuples non-indo-européens et non-sémitiques de l’Ancien Monde. Sous la désignation de « touranides », on rassemble, par un élargissement audacieux, outre les Turcs de l’ancien empire ottoman et outre les peuples turcs d’Asie centrale (soit les Azerbaïdjanais, les Oghuzes, les Tchouvaches, les Turco-Tatars, les Toungouzes, les Ouïghours, les Ouzbeks, etc.), les Japonais, les Chinois, les Coréens et les Tibétains. Les langues de tous ces peuples sont désignées, encore aujourd’hui, sous le nom de « langues touraniennes », alors qu’en fait elles n’ont que très peu de traits communs ; ainsi, le hongrois et le turc, n’ont que peu de racines communes et n’on comme point commun que le fait d’être des langues agglutinantes. La linguistique moderne a réfuté depuis longtemps l’appartenance à une famille commune des langues ouralo-altaïques.

Le « pays des Turcs »

Q. : Malgré cela, le touranisme a fait un nombre croissant d’adeptes en Hongrie pendant la première guerre mondiale…

HPK : Effectivement. Ce mouvement visait à détacher la Hongrie de l’Europe et de la ramener dans l’orbite asiatique. Après l’ère prospère des Germains et des Slaves, viendrait, disaient les touranistes, l’heure des Touraniens – dont le territoire s’étendrait de la Hongrie au Japon, ou, selon leurs propres mots, « de Theben jusqu’à Tokyo ». Par Theben, ils entendaient la localité à l’embouchure de la rivière March.

Le touranisme doit son nom à une plaine, une dépression, nommée « Touran », comme contrepartie du haut plateau iranien, qu’elle jouxte au Nord-Est. En réalité, « Touran » est le terme persan pour désigner le Turkestan, ce qui signifie le « Pays des Turcs ». L’énorme région du « Touran » est aux quatre cinquièmes constitué de déserts, mais est très riche en pétrole et en gaz naturel. Aujourd’hui, ce pays de « Touran » est divisé entre trois Etats : le Turkménistan, le Kazakhstan et l’Ouzbékistan.

Q. : Quelle a été l’importance du touranisme en Hongrie ?

HPK : Le premier président de la « Société Touranienne » en Hongrie a été le Comte Pàl Teleki, qui disait de lui-même : « Je suis un Asiate et fier de l’être ». Le Comte Teleki a été deux fois ministre des affaires étrangères et, en 1920-21 puis entre 1939 jusqu’à son suicide en 1941, premier ministre de Hongrie. La production la plus connue de ce courant d’idées ont été les « Chants touraniens » d’Arpàd Zempléni. Il appelait les Allemands de Hongrie des « diables aryens » et avait travaillé dès 1910 à leur expulsion, qui aura lieu en 1945.

Dans les années 40, l’idée du touranisme était très répandue dans l’intelligentsia hongroise. Eugen Cholnoky, Président de la « Société touranienne » à partir de 1941, avait déjà été, pendant l’entre-deux-guerres, « Grand Vizir » de l’ « Alliance touranienne ». Cette dernière était un mouvement de rénovation particulièrement agressif à l’égard des Allemands, des Tziganes et des Juifs.

Honneur à Attila, roi des Huns

Q. : Comment l’idée touranienne a-t-elle pu se diffuser à une telle ampleur ?

HPK : Déjà au 13ième siècle, le chroniqueur médiéval hongrois Simon Kézai faisait des Huns asiatiques du 5ième siècle les ancêtres directs des Magyars. Aujourd’hui encore, Attila, le roi des Huns (mort en 453) est honoré en Hongrie.

A l’époque baroque, le Cardinal Péter Pàzmàny (mort en 1637) voyait dans la fraternité païenne entre Hongrois et Turcs la raison réelle de l’absence de résistance de ses contemporains face à l’ennemi extérieur ottoman.

L’historien chauvin Istvàn Horvàt a accentué à l’extrême cette notion de fraternité asiatique en tenant les Magyars pour apparentés aux Scythes, aux Assyriens, aux Pélasges, aux Parthes et aux Arabes de l’antiquité. Il répète et confirme l’ascendance hunnique des Hongrois, mais ne voulait rien entendre de la parenté réelle qui liait ces derniers aux Finnois. Le Comte Istvàn Széchenyi voulait, pour sa part, établir une parenté entre les anciens Magyars et les Sumériens, c’est-à-dire le premier peuple de culture qui a émergé en Mésopotamie.

Q. : La couronne royale hongroise recèle des composantes d’origine proche-orientale…

HPK : La couronne dite de « Saint Etienne » se compose de deux parties, celle que le Pape Sylvestre II a envoyé au roi Etienne, le futur Saint Etienne, et que l’on appelle aussi la « corona latina », et, ensuite, celle que le roi Géza I a reçue de l’Empereur byzantin Michel Ducas, soit la « corona graeca ». La réunion de ces deux parties est perçue par les Touraniens comme le symbole de la division Est-Ouest, qui divise aussi l’âme magyare. C’est cette division dont les Touraniens veulent se débarrasser. Ils voulaient se détacher de l’Occident et retourner à la grandeur touranienne afin de servir de fondement et de réveil à la conscience nationale hongroise. La nation magyare serait, dans cette optique, l’incarnation glorieuse de la « race des seigneurs » touranienne.

Q. : Qu’en disaient, mis à part les peuples réellement turcs, les autres « candidats » invités à communier dans l’idéal pantouranien ?

HPK : Les Finnois et les Estoniens refusaient clairement de se considérer comme des Asiatiques. Les Japonais, les Chinois ou les Coréens riaient d’être ainsi étiquetés « touraniens ».

Les pertes hongroises sous la domination turque

Q. : Avait-on dès lors oublié, en Hongrie, que les fonctionnaires et la soldatesque turcs avaient systématiquement pillé le pays au cours des deux cents années qu’y avaient duré les guerres contre les Ottomans ?

HPK : Oui. Et l’on avait oublié aussi que les Allemands, alliés à la Maison des Habsbourgs, avaient libéré la Hongrie du joug turc. On essaya même, dans la foulée, de leur mettre sur le dos l’annihilation de larges strates de la population hongroise pendant la période de domination turque. En 1941, on parlait par exemple des 200 années d’ « oppression autrichienne », période égale à celle de la domination ottomane. Pourtant les faits sont têtus : la population hongroise s’est réduite de 3,2 millions d’habitants à 1,1 million pendant l’occupation turque, tandis que sous l’ère des Habsbourgs, elle a crû de 1,1 million à 9,2 millions.

Les Allemands, les Slaves et les Juifs ne devaient avoir plus aucune place dans une Hongrie redevenue pleinement « touranienne ». C’est ainsi que Teleki, tandis qu’il exerçait les fonctions de premier ministre, fit passer en 1920 les premières lois antisémites de l’Europe contemporaine.

Après la défaite allemande à Stalingrad, la propagande touraniste reprit vigueur. Après l’effondrement du Reich, les « chasseurs touraniens » (« Turàni Vadàszok ») exigèrent l’  « évacuation définitive de tous les Souabes ». L’exigence d’une expulsion ou d’une élimination physique de tous les non Magyars dans l’ancien espace géographique hongrois avait déjà été exigée dès 1939. Les communistes magyars sous la direction de Matyàs Ràkosi refusèrent toutefois le racisme des surexcités touranistes. Le touranisme en Hongrie a donc été résolument germanophobe, mais aussi antisémite. On doit constater avec tristesse que ces idées aberrantes on joué un rôle essentiel dans l’expulsion des Allemands de souche, installés en Hongrie, après la seconde guerre mondiale.

(entretien paru dans DNZ, n°43, octobre 2005; trad. franç. : Robert Steuckers).

mardi, 11 décembre 2007

1994: Première guerre de Tchétchénie

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11 décembre 1994: Déclenchement de la première guerre de Tchétchénie. Le 1 novembre 1991, la Tchétchénie, ancienne région autonome de l’URSS, se déclare indépendante unilatéralement, rompt tout lien fédératif avec la Russie. Le Président de la nouvelle entité est Djokhar Doudaïev.

Immédiatement après cette proclamation d’indépendance, un régime de terreur s’installe, contraignant de 200.000 à 300.000 personnes, surtout de nationalité russe ou ossète, à opter pour la voie de l’exil. Pour une région autonome qui comptait à peine un million à un million et demi d’habitants, c’est une saignée démographique impressionnante, donnant la pleine mesure de la terreur qui y fut pratiquée. Tous les principes de droit y furent abrogés, la criminalité organisée prit le contrôle du pays. Sous l’impulsion du Premier Secrétaire du Conseil de Sécurité de la Fédération de Russie, Oleg Lobov, Eltsine donne l’ordre d’intervenir militairement dans la région pour y rétablir l’ordre. 40.000 soldats russes, mal équipés et mal instruits, marchent sur Grosny, la capitale.

En avril 1995, après la destruction de Grosny par l’artillerie russe, les troupes d’Eltsine ne contrôlent que 80% du territoire de la Tchétchénie. C’est alors que la guerre prend le visage hideux qu’elle ne cessera plus d’exhiber. Le terrorisme tchétchène, plus que tout autre, entend ne rien respecter des conventions humanitaires traditionnelles : ainsi, en juin 1995, une bande emmenée par Chamil Bassaïev s’attaque, dans le sud de la Russie, à un hôpital, prenant un millier d’otages parmi les patients et le personnel médical et para-médical. L’horreur absolue ! La Russie d’Eltsine capitule, cède et met un terme à toutes les opérations militaires. Les hostilités cessent le 30 juillet 1995, après signature d’un accord. Seuls 6000 soldats russes demeurent en Tchétchénie.

Mais des francs-tireurs tchétchènes, plus extrémistes encore, poursuivent leur œuvre de mort : le 9 janvier 1996, un autre hôpital est attaqué et un village du Daghestan est occupé. Les troupes russes interviennent et détruisent le village, transformé en bastion par les terroristes. Finalement, après de nombreux soubresauts, le Général Lebed finit par obtenir un véritable cessez-le-feu, en août 1996. Les derniers soldats russes se retirent en janvier 1997. La paix ne durera pas deux ans. En 1999, quand la crise des Balkans atteint son paroxysme et que les aviations de l’OTAN s’apprêtent à bombarder les ponts du Danube à Belgrade, le terrorisme tchétchène fait diversion au Daghestan, fait sauter des immeubles de rapport à Moscou et place des bombes dans le métro. Les victimes civiles sont innombrables. Le scénario est campé pour que commence la deuxième guerre de Tchétchénie, où l’horreur sera plus indicible encore : les terroristes de Bassaïev, animé par l’idéologie haineuse du wahhabisme (prêché par nos imams de garage), s’attaqueront à un théâtre de Moscou et à l’école de Beslan en Ossétie, massacrant plus de 300 enfants innocents.

Ce sont de telles horreurs que le quotidien « Le Soir » de Bruxelles nous demande d’applaudir à longueur de colonne, au nom d’un humanisme, style ULB. On a envie de vomir. Et on vomit.

lundi, 10 décembre 2007

1991: Indépendance du Nagorny-Karabagh

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10 décembre 1991: L’enclave arménienne d’Azerbaïdjan, le Nagorny-Karabagh se déclare indépendante. Le Nagorny-Karabagh est le nom russe, plus courant, de ce qu’il convient désormais d’appeler en français le « Haut-Karabagh », terme linguistiquement mixte, « bagh » signifiant « jardin » en langue persane, et « kara », « noir » en turc. « Karabagh » signifie dès lors « Jardin noir ». C’est un territoire de 5000 km2, dont la capitale est Stepanakert. Les Arméniens, qui peuplent cette région montagneuse du Caucase méridionale, préfèrent lui donner désormais le nom d’ « Artsakh ».

L’histoire contemporaine de cette région commence au Traité de Versailles, de sinistre mémoire, où, contrairement aux peuples d’Europe centrale et orientale, les Arméniens, pour s’être révoltés contre les Turcs, obtiennent des avantages. Ils reçoivent un pays désenclavé, avec une large fenêtre sur la Mer Noire. Mais dès 1921, les troupes bien aguerries et bien commandées de Mustafa Kemal Atatürk battent les Arméniens, conquièrent l’Arménie occidentale et le pays de Van, coupent l’Arménie résiduaire de la mer en conquérant la côte pontique, ramenant tout cet ensemble territorial dans le giron turc. Les Arméniens sont contraints de demander la protection de la Russie, devenue bolchevique. C’est ainsi que s’est créée une « République socialiste soviétique d’Arménie », qui sera bien vite dissoute, pour être incluse dans une vaste entité, la « République socialiste soviétique de Transcaucasie », laquelle sera à son tour dissoute en 1936, année où une nouvelle fois, les Soviétiques créent une « République socialiste soviétique d’Arménie », distincte des autres entités sud-caucasiennes.

Cette république existera jusqu’au 21 septembre 1991, où, dans le sillage de la dissolution de l’URSS, elle se proclame indépendante. Dans toute cette effervescence, le Haut-Karabagh, bien que peuplé d’Arméniens, avait été inclus dans la « République socialiste soviétique d’Azerbaïdjan ». Dans l’optique des Soviétiques, à l’époque, il fallait amadouer les peuples turcs d’Asie centrale pour qu’ils rejoignent le grand projet révolutionnaire communiste. Staline, alors chef du « Bureau Caucasien » du Comité central du parti bolchevique, avait imposé cette cession du Haut Karabagh aux Azéris, qui en firent toutefois une région autonome dans leur république.

Dès la fin de la période de la perestroïka de Gorbatchev, les Arméniens du Haut Karabagh avaient proclamé la sécession d’avec l’Azerbaïdjan le 12 juin 1988. Les Azéris avaient réagi avec une violence extrême, déclenchant des pogroms sanglants, notamment à Soumgait et à Bakou, où des centaines d’Arméniens avaient été massacrés. Les Azéris suppriment également le statut d’autonomie que Staline avait octroyé aux Arméniens du Haut Karabagh. Dès 1991, l’Arménie et les montagnards du « Jardin noir » passent à l’offensive, vengent les victimes des atroces pogroms azéris et obtiennent la victoire, au prix de 17.000 soldats arméniens tués au combat. La Russie avait appuyé l’Arménie et, le 8 mai 1992, l’armée arménienne était entrée dans la ville de Choucha, scellant la défaite des Azéris, soutenus par la Turquie et les Etats-Unis.

Le 12 mai 1994, la Russie obtient qu’une trêve soit signée. Alors que les peuples européens perdent sur toute la ligne, reculent face à l’alliance islamo-yankee, la victoire arménienne est le seul succès enregistré au cours de ces deux dernières décennies. En effet, les troupes arméniennes ont conquis le territoire azéri situé entre l’enclave du Haut Karabagh et la frontière arménienne, poussant la frontière plus à l’Est, au détriment d’un peuple turc. La haine que vouent Turcs et Azéris à l’endroit des Arméniens, vient du fait que ce peuple européen, depuis les invasions seldjoukides, a toujours tenu tête au flux ininterrompu des nomades turcs venus du fin fond de l’Asie et occupent un territoire qui peut éventuellement servir de verrou à cette expansion.

La présence de l’Arménie dans le Caucase méridional empêche la continuité territoriale, dont rêvent les Turcs, et qui devrait s’étendre de l’Adriatique à la Muraille de Chine. La question arménienne, et, partant, celle du Haut Karabagh, amène des pays comme la Grèce et l’Iran à soutenir l’Arménie et à se rapprocher de la Russie, car ni Grecs ni Arméniens ni Russes ni Iraniens, unis par une solidarité indo-européenne, n’ont intérêt à ce que la continuité territoriale des pantouraniens soit un jour une réalité politique.

Notons que sur la pression des Etats-Unis et des lobbies pro-américains, l’UE condamne l’occupation de territoires azéris par les Arméniens et refuse de reconnaître la courageuse république d’Artsakh, sous prétexte qu’elle a fait sécession. Mais quand des souteneurs et des trafiquants de drogues albanais, financés par l’Arabie Saoudite, font sécession au Kosovo, l’UE applaudit, verse des subsides et des torrents de larmes. Au Kosovo, c’est une bonne sécession parce que les sécessionnistes sont financés par l’Arabie Saoudite. En Artsakh, c’est une mauvaise sécession parce que cela contrarie les pogromistes turcs. Deux poids, deux mesures.

samedi, 08 décembre 2007

R. Steuckers: Interview to "Free Eurasia"

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Interview of Robert Steuckers for the Georgian magazine "Free Eurasia"

Questions of Mr. Gia BUMGIASHVILI

1. What is your opinion about the creation of the Eurasian movement under
the leadership of A. Dugin?

I first met Dugin in a Parisian bookshop in 1990. We started a conversation
and, immediately, we stated that we had the same geopolitical vision, in
spite of the fact that the Cold War had separated Russians and West
Europeans for more than forty years. A very few group of people, on both
side of the Iron Curtain, remained silently true to the same
conservative-revolutionist and geopolitical ideas. We both were tremendously
satisfied to state that. So I am very happy to hear now that he is launching
a worldwide Eurasian movement. In Paris, Guillaume Faye is pleading since a
couple of years for a "Euro-Siberian" perspective and many other people here
in Belgium write me now to develop similar initiatives. In Germany too, the
hope of re-establishing the traditional German-Russian alliance (from
Tauroggen in 1813 till the tragic abdication of Bismarck) is present. In
Italy and Spain, many people struggle also for similar Eurasian
perspectives. To put the idea in practical terms and to embed it in an
actual historical perspective, I would say that the Eurasian idea should be
the answer to the current American strategy, which was elaborated by
Zbigniew Brzezinski in his book The Grand Chessboard; at the same time, this
mobilising idea should be the revival of the Holy Alliance led by Prince
Eugene of Savoy at the end of the 17th century. Brzezinski wants to reduce
the space of the Orthodox-Russian civilisation sphere to the lands it
occupies before Catherine II, by supporting the Turkish and Muslim claims.
Against such a strategy, we should remember the actions and victories of
Prince Eugene, who compelled the Ottomans to retrocede 400.000 km2 of lands
to Austria and Russia. Prince Eugene gave so the first kick that allowed
some decades later Potemkine and Catherine II to push their armies to Crimea
and to deliver the all Black Sea Coast from Ottoman yoke.

2. What do you think about Georgia and Caucasus?

As all Western people, I must confess that our knowledge about your country
is very reduced. This is a result of forty years of Cold War. The only
testimonies of people having really been in the Caucasus area are the ones
of German soldiers or of people having served in the German army. I remember
an old man, who is still alive, and who told me that he had been impressed
by a refined way of life in the difficult conditions of war. In the
neo-conservative circles in Western Europe, the main sources of reference
about the Caucasus are the books and articles of the French philologist
Georges Dum_zil, who specialised in the ancient Ossetes, and the poems of
the Armenian poet Daniel Varoujan, who wrote verses about the gods of the
Ancient Caucasus. Daniel Varoujan was killed by the Turks in 1916, when the
Ottoman authorities decided to get rid of all the Orthodox populations
accused of supporting the Russians. About the Black Sea area, our main
sources are Romanian. As the Romanians generally speaks French very well,
they were the only intellectuals in the West that could give us here
intelligent information about the Black Sea area. We really look forward to
receiving from you more information about Georgian and Caucasian history, in
the frame of our activities in Eurasian work groups. More generally, I would
say that Europe needs a link to the so-called Pontic area. A Europe that is
cut from your area is not complete, it lacks the contact with decisive
elements of its culture, as the Romanian historian of religions, Mircea
Eliade, taught us. The German historian of religions Markus Osterrieder
speaks of the "Pontic mysteries", heritated by the Scythians, the
Sarmatians, the Alans and the Ancient Iranians, that were cultivated in all
Caucasian countries before the islamisation and that were also preserved in

monasteries and cave dwellings in Crimea. The French Paul Du Breuil
remembers us that the ideals of the medieval Chivalry derives form the ethic
codes of the Sarmatians, who served in the Roman army, and who were also
deeply influenced by the cult of Mithra. Europa has always been nostalgic of
these "Pontic Mysteries" and created in the 15th century the Chivalry "Order
of the Golden Fleece", in order to come back spiritually to the Pontic area,
womb of the highest ideals. The Western materialistic spirit wouldn't have
wounded the European soul so deeply, would the ideal of the "Golden Fleece"
have been realised.

3. What political orientation of Europe are you for?

We want a free Europe, independent on all level, inclusive the food, energy
and finance levels. To reach this ideal in Europe, we have to reduce our
dependencies from American food consortiums, from Saudi Arabian oil and oil
routes and from Wall Street. Only the Eurasian perspective, and subsequently
the "Golden Fleece" ideal in its material contemporary aspects, can help us
all to get rid of those dependencies. The Euro-Siberian ideal should be
centred around the Black Sea, as well as the Caspian and Aral Sea, with
links to the West by the river system, as the geopolitician Artur Dix saw it
at the time of the Rathenau-Chicherin alliance of Rapallo in 1922. As you
know, America is controlling Europe militarily by holding the Mediterranean
through the presence of the 6th Fleet and its alliance with Turkey and
Israel. But Chancellor Kohl of Germany realised actually a dream of
Charlemagne, first Frankish Emperor of the West. Charlemagne, stating that
the Mediterranean was in the hands of the Saracens, thought that it would be
opportune to dig a Canal between the Main, a river which is tributary of the
Rhine, and the Danube, in order to reach the Black Sea. So Europe would have
had a fluvial highway from the North Sea to the Black Sea, without being
disturbed by the Saracens. Kohl realised this project after more than
thousand years. Immediately after the digging of the Canal, war started on
another spot of Danube river, i. e. in Yugoslavia. First, the terrible
battle of Vukovar between Croats and Serbs blocked the river for a while;
secondly, the disastrous war of the NATO against Serbia destroyed the
bridges in Belgrade, cutting the circulation on the main European river.
More, from Belgrade, Europe could easily reach by road and railway the
Aegean Sea, i. e. the Eastern basin of the Mediterranean, an area that the
British and the American always wanted to keep far from European or Russian
hands.

So our freedom as political entities or as a civilisation area depends
largely from a freedom to use our own highways. The same is valid of course
for the pipelines of Northern and Southern Caucasus. If they are linked to
the Rhine-Danube system instead of to the Turkish-American project of
letting the oil transiting through Turkey in the direction of Ceyhan on the
Eastern Mediterranean coast, we all would be masters of our energy.

We wish also a Europe that would be lead by politicians having a clear
historical and geopolitical consciousness. And who would have
"responsibility ethics", as Max Weber said.

4. How do you imagine the best anti-American movement in the world?

A good movement should be borne by people in every country, who would first
cope with the problems in practical and geopolitical terms. A movement is
always a potential government elite and in our eyes there is no better
governance than a governance guided by a good historical memory. The
divisions within the Eurasian peoples' family are due to a horrible lack of
historical perspective. The task of an elite is to give back to all of us an
historical perspective, able to seize the real dynamics of history. Guy
Debord, the French clever leftist of the Sixties, said that manipulation was
possible because the historical memory had been wiped out. This is very
true. CNN can tell its lies throughout the world because the brains of the
petty politicians of the usual parties are totally empty. Our task is to
revive the historical memory of our people, in a unifying Eurasian sense.

5. May we translate your articles and publish them in our journal?

This question makes me really happy, simply because I tell the people since
decades that our freedom will come when we know each other better. The best
way to know each other is to translate texts. So you understand clearly
what's to be done. Of course, Georgian fellows, you not only may translate
our texts, but you ought to! For the sake of our common struggle! We will
try, with your help, to give as much information about your activities as we
can. Many young people helping me to edit my magazines will be happy to see
their texts translated. Thank you! And good luck!

mercredi, 05 décembre 2007

Indien zwischen Russland und dem Westen

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Indien sucht Platz zwischen Russland und dem Westen

Dmitri KOSSYREW

Wer die harte Verhandlungshaltung der Inder bei Verträgen kennt, war sicherlich überrascht, was sich kurz vor der Ankunft von Indiens Premier Manmohan Singh in Moskau zutrug. Das angeblich fertige Abkommen über Russlands Beteiligung am Bau neuer Kernkraftwerke in Indien wurde zeitweilig von der Tagesordnung gestrichen.

Dabei galt gerade dieses milliardenschwere Abkommen als das Hauptereignis des Besuches des indischen Premiers. Damit sind die Aussagen jener verständlich, die von einer Krise in den russisch-indischen Beziehungen sprechen. Dazu müsste allerdings diese Krise nicht als “Verrat” oder “Abkühlung” seitens Indiens angesehen werden, sondern vielmehr als Ergebnis der sich wandelnden Lage sowohl Indiens als auch Russlands in der Welt.

In Wirklichkeit spiegeln die panischen Einschätzungen nicht so sehr Probleme zwischen Moskau und Delhi (die gibt es tatsächlich) wider, als vielmehr eine rechtzeitige und lang ersehnte Denkkrise bei jenen, die die Welt bis jetzt in der russisch-amerikanischen (oder russisch-westlichen) Konfrontation verstehen. Auch empfinden sie automatisch Indien wie auch China oder zahlreiche andere wichtige Staaten als potentielle Verbündete beim Tauziehen um den “feindlichen Westen”. Entweder sind sie “mit uns” oder “mit denen da”. Oder schließlich jenen, die Abkommen über unsere Pipelines und Atomkraftwerke unterzeichnen - oder aber dem feindlichen Druck nachgeben und die Unterzeichnung ablehnen.

Zwischen Moskau und Neu Delhi wie auch in der Welt als Ganzes geschieht jedoch nichts dergleichen.

Sehen wir uns genauer an, was Wladimir Putin und Manmohan Singh doch vereinbart haben. Wie sich zeigt entwickelt sich ihr ursprünglicher Plan erfolgreich: mehrere wichtige High-Tech-Projekte zu finden anstatt der faktischen Tauschgeschäfte (”Tee im Austausch gegen Rüstungen beziehungsweise gegen irakisches Erdöl”), die Anfang der 90er Jahre den Kollaps erlebten. In Moskau kam ein Abkommen über die Entwicklung eines Mehrzweck-Transportflugzeugs sowie die gemeinsame Monderforschung zustande. Möglich ist insbesondere der Start einer indischen Rakete vom indischen Weltraumbahnhof, die ein russisches Mondmobil ins All befördern soll. Des Weiteren werden beide Länder Forschungsgeräte entwickeln, die den Mond nach Bodenschätzen absuchen könnten. Im kommenden Jahr soll das Projekt “Testgelände Mond” präzisiert und bestätigt werden. Es ist wahrscheinlich, dass dann wieder wie bisher geringt und gefeilscht wird.

All das fügt sich in die bereits offenkundige Tendenz ein: Zwischen Russland und Indien läuft all jenes glatt, was gemeinsame Ausarbeitungen von künftigen Technologien und Projekte über die Umstrukturierung aller möglichen Produktionen in Indien betrifft. Was schief geht, ist der gewöhnliche Handel, da die Unternehmenswelt beider Länder noch immer für den europäischen oder amerikanischen Markt schwärmen. Sehr schlecht steht es um den empfindlichsten Bereich: die Energiewirtschaft. Die Inder wollen schon seit langem mehr als das Sachalin-1-Projekt und wollen Mitinhaber von russischen Öl- und Gasgesellschaften werden. Außerdem beabsichtigen sie für Indien, das einen Wirtschaftszuwachs von acht bis neun Prozent im Jahr aufweist, dabei jedoch überhaupt keine Öl- und Gasvorräte hat, stabile Lieferungen von Energieträgern zu sichern. Daran wird gearbeitet, allerdings langsam.

Langsam unter anderem deshalb, weil in Russland die Meinung weit verbreitet ist: Hier ist sowieso nichts zu erwarten, statt dessen verkaufen wir Indien lieber Atomkraftwerke.

Da rückt jedoch ein anderes Thema in den Vordergrund, das für Indien beispiellos akut ist. Es läuft keineswegs auf nur das eine berühmte indisch-amerikanische “Atomabkommen” (”Abkommen 123″) hinaus, das im Juli dieses Jahres geschlossen wurde und zur Zeit in der Washingtoner politischen Küche hochgekocht wird. Gewiss ist es für Indien von nicht geringer Bedeutung, in Bezug auf den Atomwaffensperrvertrag Sonderbedingungen für sich durchzusetzen. Um dieser Aufgabe willen kann schon die Unterzeichnung eines fertigen und von niemandem im Ernst bestrittenen Dokumentes mit Russland aufgeschoben werden. Doch am wichtigsten ist hier die gesamte erhitzte Atmosphäre, die in Indien um alles herrscht, was mit dem “Abkommen 123″ zusammenhängt. Seinetwegen scheitern dort politische Karrieren, werden gegen den Premier und seinen engen Beraterkreis radikale Vorwürfe erhoben, sie würden das große und rasant an Gewicht gewinnende Land zu einem zweitrangigen US-Verbündeten degradieren. Zumal die amerikanischen Opponenten von Bush wollen in der Tat besagtem Abkommen, das nur den nuklearen Bereich betrifft, alles Denkbare anhängen, darunter Neu Delhis “richtige” Iran- oder China-Politik.

Diese panischen Stimmungen sind auch in den politischen Kreisen in Russland zu bemerken, den Kreisen jener, die die Welt noch immer als Gegenüberstellung von “Ost” und “West” sehen. Daher das alte und beharrliche Gerede, Russland verliere Indien.

Aber Indiens strategisches Ziel besteht keineswegs darin, ein jüngerer Verbündeter der USA zu werden. Selbst trotz des Umstands, dass die heutige indische gebildete Elite mit den USA oder mit Europa durch dieselben Fäden verbunden ist, die es in den 70er Jahren mit der UdSSR verband, streben die Inder doch etwas anderes an: Sie wollen Indien zu einem Machtstaat werden lassen, das in Augenhöhe mit den USA oder China steht. Gerade dazu wurde der günstige Moment einer Abschwächung der amerikanischen und europäischen Macht und ihres Einflusses angesichts der nunmehr offensichtlichen Tatsache genutzt, dass Indien und China die Rolle als Wirtschaftsmacht real beanspruchen können. Es handelt sich nicht um die Atomkraftwerke, es geht darum, dass es jetzt für die Anwärter auf die Weltführung keinen Sinn hat, Amerika die eigenen Muskeln zu demonstrieren. Wichtiger ist, mit den Amerikanern eine neue, den heutigen Gegebenheiten angepasste gemeinsame Sprache zu finden. Was Neu Delhi denn auch tut - auf indische Art genial und auf indische Art auch laut und nervös.

Bleibt nur hinzuzufügen, dass Chinas, ja auch Russlands globale Politik im Grund nicht anders beschaffen ist. Deshalb bringt Moskau den Verzögerungen bei der Realisierung von Großprojekten Verständnis entgegen, wenn solche Verzögerungen für seine nächsten Partner in der Welt notwendig sind.

00:50 Publié dans Eurasisme, Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (5) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

samedi, 01 décembre 2007

la Mongolie Extérieure faisait sécession de la Chine

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01 décembre 1911: La Mongolie Extérieure fait sécession de la Chine, avec l’appui de la Russie, qui cherche, bien évidemment, à étendre sa sphère d’influence dans le cœur même du continent asiatique et à établir une barrière contre un éventuel débordement démographique chinois en direction de la Sibérie.

Dans quel contexte plus spécifiquement chinois s’effectue cette sécession ? La dynastie Qing, accusée d’avoir précipité la Chine dans le déclin par passéisme incurable, vient d’être déposée et le Dr. Sun Yat-sen vient de créer les conditions qui conduiront bien vite à la proclamation d’une République qui voudra infléchir la politique chinoise vers un modernisme de bon aloi, pour la sortir de la misère politique. Le soulèvement républicain avait été général dans toute la Chine. En octobre, les Impériaux avaient enregistré quelques succès militaires, mais avaient fini par perdre totalement le contrôle de la situation.

En novembre, Sun Yat-sen peut se préparer à accéder à la magistrature suprême de la nouvelle république. Le 29 décembre, il en deviendra officiellement le premier président. Le processus de dislocation de l’empire se poursuit, en dehors du noyau de peuplement han. Le Tibet devient aussi de facto indépendant. Les derniers soldats chinois sont chassés de Lhassa. Les troupes de Mao reconquerront le pays en 1958-59, gommant sa spécificité.

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samedi, 24 novembre 2007

Sur Georges Tchitchérine

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Sur Georges Tchitchérine

24 novembre 1872: Naissance à Kalouga, dans une région située au sud de Moscou, du diplomate russe, puis soviétique, Georges Tchitcherine. Il entre dans la carrière diplomatique en 1897, au service du Tsar. Il adhère en 1904 à la social-démocratie russe, ce qui lui vaut une révocation et le contraint à l’exil. Il revient en Russie en 1917 et, après la victoire des bolcheviques, il devient « commissaire du peuple » aux affaires étrangères.

Germanophile comme bon nombre de sociaux-démocrates russes, il prend langue avec un diplomate allemand russophile, le Comte von Brockdorff-Rantzau, pour parfaire l’architecture du Traité de Rapallo en 1922, où, sous la double impulsion de Tchitcherine et de Rathenau, Soviétiques et Allemands mettent leurs forces en commun pour résister aux pressions occidentales.

C’est dans ce contexte que naît la fameuse orientation idéologique que l’on nommera le « national bolchevisme ». Au départ de Rapallo, la Reichswehr, diminuée en effectifs par les clauses du Traité de Versailles, s’entraînera en Union Soviétique, dans les bases de l’armée rouge, avec son matériel. A la fin des années 20, Tchitcherine, miné par la maladie, se retire de toute activité et meurt en 1936. Remarquons, à la lumière de cette très brève biographie, que Tchitcherine est un diplomate de l’ancienne école, d’avant l’Entente, pour qui l’ennemi premier reste l’Angleterre en Asie (Robert Steuckers).

01:10 Publié dans Biographie, Eurasisme, Géopolitique, Histoire | Lien permanent | Commentaires (0) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

lundi, 12 novembre 2007

H. Schmidt contre l'adhésion turque

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L’ancien Chancelier Helmut Schmidt contre l’adhésion turque !

Agé de 89 ans, l’ancien Chancelier de la République Fédérale, Helmut Schmidt, est toujours actif dans les cercles de réflexion qui élaborent la politique allemande, à haut niveau. Dans un entretien accordé au « Spiegel » (n°44/2007), il s’oppose clairement à l’adhésion turque, avec des arguments que l’on trouverait plutôt dans le camp « identitaire » en Belgique. Cet homme d’Etat socialiste est aujourd’hui, en dépit de son grand âge, un modèle de sérénité et de bon sens politique.

Voici les propos qu’Helmut Schmidt a tenu au « Spiegel » :

Question du « Spiegel » : Revenons à un autre thème récurrent dans le dossier « l’Allemagne et l’Europe » : auriez-vous édulcorer votre scepticisme quant à l’adhésion turque à l’UE ?

HS : Je n’ai jamais été en faveur de cette adhésion et je ne le suis toujours pas.

Der Spiegel : Et vous ne voyez se dessiner aucune évolution dans ce dossier ?

HS : Je ne peux que mal juger ce qui se déroule dans les coulisses. Lorsque j’occupais des postes officiels, je me suis efforcé, sur le plan international, d’aider la Turquie financièrement, politique que je poursuivrais encore aujourd’hui. J’impliquerais aussi la Turquie dans le marché commun. Mais j’estime que cela n’a aucun sens de vouloir intégrer dans l’Union Européenne un pays musulman qui compte 70 millions d’habitants, et qui en comptera 100 dans le courant de ce siècle ; et j’estime aussi que cela n’a aucun sens d’importer en Europe le conflit qui oppose les Turcs aux Kurdes ni d’ailleurs aucun autre conflit du Moyen Orient. Et cela n’a aucun sens de créer ainsi un précédent qui autoriserait l’adhésion d’Etats comme l’Algérie, le Maroc ou Israël. Tout cela relève d’une folie des grandeurs chez certains qui imaginent qu’il s’agirait là d’un simple élargissement de l’UE.

samedi, 10 novembre 2007

White Guards against Red Internationale

 
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General L. Kornilov

THE WHITE GUARDS AGAINST THE RED INTERNATIONALE

By Pavel Toulayev

One of the peculiarities of the White counter-revolution in Russia was the fact that it emerged and developed when the World War was not yet over. As Germany was the enemy of the Russian Empire during the World War, it was the German High Command that planned to send Lenin and his associates to St. Petersburg in a sealed wagon. They were intended to become a factor of destabilization; their sole task was to remove Russia from the European theatre of war operations on the Allied side.

Having established his own dictatorship within the Congress of Soviets (councils) Lenin called upon workers and peasants for a revolutionary uprising. On a cold night of October 25, 1917 after the storming of the Zimny Dvoretz (the Winter Palace – the Tsar’s residence in Saint Petersburg) was completed, Lenin declared the official assertion of Soviet Power (i.e. the power of Soviets).

Land to the peasants”, “Factories for the workers”, “Peace with no annexations and no tribute," “Convocation of a Constituent Assembly” – these were the official slogans he declared. But none of them were actually fulfilled. In fact it was the bloody regime of "War Communism" (Vojenny Kommunizm), headed predominantly by Jews and ethnic non-Russians, that was established.

1. War and Revolution.

During the second stage of the World War--after General Alexei Brusilov's 1916 breakthrough in Rumania, at a time when army headquarters was led by the very talented general Mikhail Alexeyev--the whole situation at the western fronts became favourable to Russia.

But the army was much undermined by the activity of revolutionary provocateurs who encouraged soldiers and junior officers to desert. Later, the first units of the RKKA (Raboche-Krestyanskaya Krasnaya Armiya, “The Red Army of Workers and Peasants”) were formed of those deserters.

A Ukrainian-born Jew, Lev "Trotsky"-Bronstein (1879-1940) occupied the position of Narkom (people's commissar) for Military Affairs and Defence in the newly-born Soviet Government. It was due to his personal initiative that the shameful Treaty of Brest-Litovsk was signed on March 3, 1918. After this Treaty, the western territories of the Empire, the most developed ones in economic terms (approximately one-third of the population and half of industry) were torn away. Taking advantage of Russia’s temporary weakness, the Germans managed to occupy the Baltic States, a part of Byelorussia and the Caucasus. Moreover, they technically reigned in Ukraine, where the hetman Skoropadsky became their protégé. The results of three years of intense battles by the Russian people on their western front were annulled!

A "Military-Revolutionary Committee" (Vojenno-Revolutsionny Komitet or VRK) was established instead of the former state bodies and the Kerensky Provisional Government. Numerous minor committees of the Bolsheviks, as well as punitive mass terror agencies, such as the Cheka, later the GPU and NKVD, were also formed.

Reckoning on the belief of the common people in the "State of Social Justice," the Red commissars called upon the people to accomplish a Global Revolution and to establish the "Global Dictatorship of the Proletariat." For the sake of “class struggle” major estates, factories and houses were expropriated by the Bolsheviks all over the country. Simultaneously, representatives of the aristocracy, clergy, the higher command of the army and the upper class (the wealthy citizens) were virtually exterminated. The economy began tumbling due to mass disturbances and devastations.

Most of the population, which at first believed the power of Bolsheviks to be temporary, cared more about saving their lives and property. But experienced politicians and leaders gradually began leading the nation to the understanding that it was necessary to resist the Revolution and its chaos. The counter-revolution began; white was chosen as its colour, as it traditionally symbolized monarchy and glory on the Russian banner.

2. First attempts at armed resistance.

Centres of armed resistance appeared all over the territories of the former Empire – from the North-West to the Far East. But they were different in terms of scale, duration of armed actions, and their results. Spontaneous (non-organized) uprisings occurred among the peasants quite often, but they were severely suppressed by the Red Army. The remains of organized military forces, faithful to the late Tsar and the Motherland, made attempts to join together into a unified solid front. Together they formed a White Movement (or Belaya Gvardiya, the White Guards) with active centres and military headquarters all over Russia.

The first attempts at armed resistance to the revolutionary powers were taken during the reign of the bourgeois-democratic Provisional Government, headed by Alexander Kerensky, in March of 1917, long before the Bolsheviks carried out their coup d'etat. The rebellion of General Lavr Kornilov that took place in September 1917 showed that the very idea of "parliamentary democracy" was unacceptable in military and patriotic circles.

General Kornilov (1870-1918) was a hereditary Cossack and an outstanding military leader. Having graduated from the Artillery school and later the Joint Staff Academy (with a gold medal for outstanding achievements), he served as a military attaché at the Russian embassy in China. He began his military career as an officer during the Russo-Japanese war (of 1904-1905), and was promoted to the post of commander-in-chief of the Russian Imperial Army during the First World War. He was an experienced commander, was decorated with the St. George's Cross and enjoyed great prestige among the common soldiers of the army. He was the first to raise the banner of the White Struggle and many hoped he would become a dictator, one capable of quashing the coming communist revolution.

On August 27, 1917 General Kornilov addressed the Russian people with a telegram in which he accused the Bolsheviks of pandering to the Germans and called upon his compatriots to join his ranks for the salvation of the Motherland. He swore “to lead the people to the Constituent Assembly, through which they can take their destiny into their own hands, to choose the form of the new State”. But Kornilov did not enjoy much support at this stage of his struggle and had to lay down his arms.

The communist revolution then broke out. The famous women’s death battalion (Batalion Smerti), led by Commander Maria Bochkareva demonstrated the true example of heroism and devotedness to the Motherland. Together with several hundred military cadets they defended the Winter Palace against the Bolsheviks. This unique female unit was created in the middle of the First World War to keep up the morale of the soldiers, who were losing faith in victory. The battalion numbered about 3,000 of these Russian Amazons and had its own banner; it was solemnly sanctified on Red Square. But the armed women were not able to withstand the armed Bolshevik revolutionists and their allies.

Submerging into the depths of revolutionary chaos, Russia had to discontinue its military operations on the fronts of the World War. Due to the Bolshevik coup, the country became an easy prey for its former allies as well as enemies. In this situation only a regular counter-revolutionist army, led by the professionals of the Tsarist military schools, was capable of withstanding the dangerous enemy that had seized the key posts of the state. There was a need of strong-willed true White leaders to unite the whole nation.

The counter-revolution soon began to acquire the form of an organized armed resistance. The first attempt at liberating St. Petersburg from the Bolsheviks took place at the Pulkovsky Heights on November 12, 1917. It was taken by a joint effort of Alexander Kerensky (who had managed to flee from the capital) and General Peter Krasnov (1869-1947). This was in effect the beginning of armed White struggle. But a regiment of 700 mounted Cossacks was not enough to accomplish this difficult mission. The riots and uprisings by workers all over the capital only accelerated the situation. Under these circumstances, on November 15 General Alexeyev and his entourage took the decision to form the Voluntary Army.

3. The Volunteer Army and the “Ice March” of 1918.

General Mikhail Alexeyev (1857-1918) was an outstanding military leader, a true scientist of war and a well-educated man. He was born into a family of a military officer and followed his father's path. Alexeyev finished the Moscow Infantry Military School, and the Russo-Turkish war of 1877 was his “baptism of fire”. After that, he was appointed a professor, Alekseev obtained a chair in Military History at the Joint Staff Academy. There his outstanding talents became evident.

Alexeyev did not occupy himself with staff service only – during the War with Japan he was appointed to the field army after his own appeal. Shortly before World War I Alexeyev was appointed head of Kiev Command for his outstanding military achievements. During the war he was in charge of the south-eastern front and it was due to his talent as its commander that the critical situation on the German front improved.

Tsar Nicolas II having abdicated, the Provisional Government appointed Alexeyev Supreme Commander-in-Chief. But shortly after that the general was dismissed due to his critical attitude towards the policy of the bourgeois government. After power was taken by the Bolsheviks, Alexeyev and his comrades-in-arms had to retreat south to begin a new stage of the war.

In the Don River valley there lived free Cossacks who had proved their fidelity to the Motherland by means of military service for centuries. It was there that the forming of the first White Guards began. The core of the army was grouped around “the White Cross”, a secret society, formed by army officers. Soon, generals Kornilov and Denikin as well as atamans (Cossack commanders) Kaledin (1861-1918) and Dutov (1879-1921) joined the headquarters of the Volunteer Army. The Cossacks of the Don, Orenburg and Baikal regions, outraged by the Jewish-Communist dictatorship and revolutionary terror rose to join the volunteers. “There rose in their noble rage true Christians, sons of the Don, and heeded the call of freedom!” – thus the lines of an old Cossack song.

The so-called “Ice March” of the Volunteer Corps led by Kornilov became the first notable event of the first stage of the war. It began in late February 1918 and proceeded under trying winter conditions, four thousand volunteers with high morale ready to break through the Red front lines after crossing the Don. It was the “baptism of fire” for the White Army and Alexeyev called it “a candle of faith and hope in the darkness that was devouring Russia”. But the campaign failed; the White volunteers were outnumbered by the Reds and had to retreat. General Kornilov fell as a true warrior in battle of Ekatrinodar.

4. Bolshevik Dictatorship and the Red Terror.

The military leaders believed that an organized armed force was needed for the recovery of peace and civil order--while peaceful citizens, confused by constant propaganda, never abandoned hope of restoring peace by legal democratic means.

On January 18, 1918 the All-Russian Constituent Assembly, supported by working class demonstrators, began to function in Saint Petersburg. But despite being peaceful, the Assembly was immediately broken up by armed Bolsheviks with more than ten demonstrators killed. One more liberal illusion perished.

Instead of developing democracy and protecting civil rights and liberties, the Bolsheviks concentrated on strengthening their own power. Nikolai Krylenko (1885-1938), a prominent member of the Bolshevik Party, Supreme Commander-in-Chief and the head of VRK (Vojenno-Revolutzionny Komitet or the Military-Revolutionary Committee) took the decision to form the Red Army of Workers and Peasants (RKKA). The compulsory mobilization of all male citizens aged from 18 to 40 began. In the severe conditions and ideological chaos of the Revolution a part of the tsarist military corps joined the Bolsheviks: of 130 000 officers of the Imperial Army, about 30 000 joined the RKKA, including such prominent higher command officers as Brusilov, Snesarev, Svechin and Tukhachevsky.

Military operations on the fronts of the First World War were suspended due to the revolutionary “Decree on Peace”. Now the Bolsheviks were much more preoccupied with defending “the Socialist Motherland” and “the achievements of the Revolution”. In reality it meant further class struggle and fratricidal civil war. Due to this reason many recruits refused to fight under the Red banners. Cases of desertion and changing sides by recruits often occurred at the fronts of the Civil War.

The Higher Command of the RKKA officially considered such actions to be desertion and, on issuing new laws, the deserters were to be shot on sight. This “method” was first applied by the above-mentioned Leon Trotsky, who wrote:

It is impossible to build a strong army without repression. One cannot lead masses of people to death, without having the death penalty as a means of punishment. We must confront a soldier with his possible death in front of him and his inevitable death behind."

It was not accidental that the five-pointed red star (or pentagram), together with the hammer and sickle emblems, were chosen to be the emblem of RKKA (on medals and banners of the Red Army it was often depicted in an upturned position, which also required explanation). When speaking on the Fifth Annnual Congress of the Soviets in summer 1918, Trotsky explained this choice: when the rebellion of the Jews against Roman rule, led by Bar Kochba, took place in Palestine (132-135 A.D.), the Red star was depicted on the Jewish banner. In other words, for the Bolsheviks the star was a symbol of revolutionary fight against Empire.

In the early spring of 1918 the Bolsheviks, deliberately trying to “turn a world war into a civil war” had to confront the opening of a second external front. In March and April, the troops of the Entente were deployed in Russia: English and French troops landed in Murmansk and Archangel in the north, French troops in Odessa and Sevastopol in the south, English troops, supported by Japanese and Americans in Vladivostok in the Far East.

During the chaos of the Allied intervention, a Czech corps of many thousands of soldiers (whose leaders were connected to the headquarters of the Entente) excited a rebellion in the Volga region. English troops entered Turkistan and Transcaucasia; Rumania occupied Bessarabia. The Russian Empire was dissolving, turning into badly-controlled regions without any unified government. Meanwhile, the German command continued to support Lenin. With the help of Mirbach (the ambassador of Germany to the Soviet Republic) they transferred to the Bolsheviks more then 3 million golden marks every month; in May 1918 – 40 million more marks were transferred. The World War virtually continued on the territory of the dissolving Empire, and rivalling states continued to take part in it, either directly or indirectly.

Lenin understood very well that the united action of the external Entente forces with the internal opposition forces posed a great threat to the Bolshevik government. It was the reason, he openly declared, for the mass terror which he instituted against all those opposed to the “proletarian dictatorship”, including his own revolutionary comrades of yesterday: Mensheviks, the Socialist Revolutionists and Anarchists. With several hundreds of the left Socialist Revolutionists arrested as hostages, the “leader of the World Revolution” called for ruthless mass executions on June 26, 1918:

We must encourage and promote mass terror against the counter-revolutionists, especially in Saint Petersburg, to make a decisive example”.

On July 1918, on Lenin’s personal order (and partially due to the initiative of his party comrade Jacob Sverdlov), the Tsar and his family were executed (with no investigation or trial) in Yekaterinburg. Several days later, six other representatives of the Romanov dynasty were killed.

Having suppressed the independent press (which was more or less influential and continued to comment on current events, influencing in this or that way the opinion of the people), the Bolsheviks began their systematic persecution of the Church. As a key religious institution it still exercised a widespread influence on many common Orthodox people and was an evident ideological opponent to the policy of aggressive atheism promoted by the Bolsheviks.

Concerning the peasants, they were supposed to be an ally of the workers in "class struggle." Nevertheless, a severe politics of “prodrazverstka” (or “bread war”) began toward them, with more then 75 000 Red Army Soldiers taking part. Concretely, the food grown was expropriated on the spot. All over the country not less then 300 peasant rebellions took place.

The workers were also dissatisfied with Soviet power, since instead of social justice, promised by the Bolsheviks, they got nothing but starvations and hardships. Old trade unions were dissolved, freedom of speech was suppressed and strikes were virtually banned. Rebellions of Cossacks, peasants, qualified workers and political adversaries of Bolshevism flared up all over the country.

The Bolsheviks were aware of, and concerned about the danger of armed resistance all over the country, as well as the peril of foreign intervention. The seat of government was soon moved to Moscow, farther from the front lines. In the “new” old capital of Russia, ruby red stars soon rose over the towers of Kremlin as a symbol of Bolshevik power. In Moscow, the Bolsheviks took the decision to fulfill the strategy of world revolution by organising the COMINTERN. It was financed from expropriated valuables of the Tsar’s family and Russian monasteries (predominantly their gold); and partially – due to the export of “excess bread," seized from the peasants.

Peaceful civilians, terrified by revolutions, wars, mass terror and starvation flee from both capitals; Moscow and Saint Petersburg soon became deserted. Within just three years (1918-1920) at least 5,750,000 civilians died. The world of science has acknowledged that it was one of the greatest demographic catastrophes ever.

5. The South as the Bastion of the White Guards

Towns and cities of the north were devoured by the revolution. Civilians and former soldiers of the army tried to flee south, since the southern regions were not controlled by either Bolsheviks or anarchists.

Southern Russia soon turned into a powerful bastion of counter-revolutionary forces. The remains of the tsarist army gathered there from all over the Empire. Soon, new military units of the emerging White Army began to form. It was on the Don River that the Volunteer Army, led by General Denikin, underwent its “rebirth”: in January 1919. Denikin joined forces with the Don River army of General Krasnov. This army has become the basis of the armed counter-revolutionary forces of southern Russia.

General Anton Denikin (1872-1947) was born to a poor family in Warsaw province. Having chosen a military career, he graduated from the Joint Staff Academy. His “baptism of fire” took place during the Russo-Japanese war. He was promoted to the rank of major general in 1914. Apart from military service, Denikin was also known as a writer and a prolific memoirist: those who read his first short stories and sketches on military life, never thought, that he would become one of the most famous memorialists of the Civil War.

As Denikin was a comrade-in-arms of Kornilov going back to the Ice March, after Kornilov's death it was Denikin who raised anew the banner of White Struggle. Under Denikin’s command, the White Army enjoyed many military achievements. It launched an offensive campaign toward Moscow, and soon occupied large territories containing approximately 42 million people: they liberated Kharkov, Kiev, Kursk, Orel, Voronezh and Tsaritsin, as well as the territories of the northern Caucasus. Denikin’s army posed a great threat to the Bolsheviks: the revolutionists were actually surrounded by a ring of counter-revolutionary forces. Strong combatant forces were sent against it. After enduring bloody battles, Denikin’s troops had to retreat from the cities it had occupied before.

Novorossiysk was the last town to be lost by the White Guards. Denikin himself evacuated to a ship and continued his struggle in emigration. Due to his authority and influence, Denikin soon became an influential and prominent social leader of the Russian émigrés abroad. In his famous five-volume book “The Russian Turmoil”, written after the events of 1921-1926, he reflected on the causes, reasons and possible results of the Revolution. It was published in Paris, Berlin and in the USA, to which Denikin later emigrated. He died in America in 1947, a patriot loyal until death to his Russian Motherland.

The Whites did not manage to connect the armies of the South and Far East, and a temporary tactical alliance with the Ukrainian troops of Petlyra (a radical anarchist) as well as with the Ukrainian National Army could not be long-lasting, since the White Guards and the Anarchists pursued different purposes.

The troops of General Nikolai Yudenich (1862-1933) in the northwest were actually separated from the main forces of the counter-revolution. Yudenich failed to occupy St. Petersburg, despite massive help from Western countries, including the help of the so-called “Freikorps”, volunteer corps in which anti-communists of all nations, including Germans, fought shoulder to shoulder. The Red Army, supported by Estonian separatists, stopped the offensive of General Yudenich near the village of Gatchina.

Then a large-scale advance of General Denikin’s troops along a front 1000 kilometers (or 600 miles) wide was stopped. This was a fatal flaw of the White Joint Staff, since the Whites were many times outnumbered by the Reds. In addition, the Bolsheviks were indirectly supported by various armed gangs of anarchists, most of whom were ordinary felons. One example to consider was the famous Anarchist Army of Nestor Makhno – it fought against all other powers, both Red and White.

6. Crimea - the Southern Bastion of the Whites.

Having established and strengthened the “Dictatorship of the Proletariat” in central Russia, the Bolsheviks launched a counter-offensive to the east and south. It took the RKKA huge efforts to force the Whites onto the Crimean peninsula on the Black Sea, isolated from the continent. In the first years of the revolution, a massive political struggle between various ethnic and political forces arose on the Crimea (or the “province of Tavria” or “Taurida”). Apart from Russians, there were Tatar, Ukrainian and Jewish communities there.

Tatar nationalists managed to convoke a Tatar National Assembly (“Kurultai”), aimed at creating a Muslim state after the traditions of Girei Khans, with Bahchisarai as capital city. The Central Rada (council) of the Ukrainian People’s Republic was in favour of separatist tendencies (toward Russia) and supported the independent Tatar government in its initial stages.

The Russian White leaders had various attitudes towards Tatars. All in all, the Council of People’s Representatives that created a headquarters of Crimea Troops in Simferopol regarded the Tatars as possible allies against the Reds. For example, Kerensky was in favour of creating special Muslim units.

The Bolsheviks approached from the Black Sea; they were supported by revolutionary soldiers and sailors in the harbours of Sevastopol and Yevpatoria. Having assembled a 40,000-man army under the command of a Provisional Revolutionary Committee, the Reds defeated the Army of Crimea. In early 1918 "Soviet Power" was declared over the peninsula.

The Tatar government and the Council of People’s Representatives were dissolved and the Socialist republic of Taurida declared in March 1918. Much later, it gained the status of the "Crimean SSR" (Socialist Soviet Republic). Hardly had a month passed before the Bolsheviks had to face another threat: the German troops deployed in Crimea. When the German attack was repulsed, Taurida was liberated from the Bolsheviks by the troops of the White General Wrangel.

Peter Wrangel (1878-1928) was a strong-willed and charismatic leader. He was a descendent of ancient Scandinavian stock, the representatives of which served the Russian tsars for centuries. (All in all, this family gave the world seven field-marshals, seven admirals, and more then 30 generals; to Russia it gave 18 generals and two admirals).

As a worthy comrade-in-arms of the former leaders of the Whites, Wrangel headed the government and the troops of Crimea at the very crucial moment when the White army on the Continent was suffering great defeats. In the summer of 1918, having reorganized the Volunteer Army into a regular one, Wrangel began preparing his counter-offensive against the Red Army. Simultaneously, he improved civilian life on the peninsula, having adopted many progressive laws (such as land reform) and changed military policy for the better.

Not long before his eastern campaign, General Wrangel took the symbolic action of instituting the Order of Saint Nicolas. He addressed the public in an open letter:

“Hear, Russian people, what we are fighting for. We want revenge for our disgraced faith and our desecrated temples! We are fighting for the liberation of the Russian people from the yoke of communists, of vagrants and felons that have brought Holy Russia to ruin. For the end of the internecine war! For the peasants to have a chance of owning the land as property and working in peace. We are fighting for true freedom and justice to rule in Russia. For the Russian people to choose their leaders by themselves. Help me, true sons of the Nation, to save our Motherland!”

This call was heard. Soon, those who were looking for a firm bastion for revenge on the communist dictatorship (anchored in the capital cities) moved south. The Russian army of Peter Wrangel grew to be 80,000 strong, which made it possible to support the Cossack resistance in the Don and Kuban river valleys.

When the Soviet-Polish war of 1920-1921 broke out, Wrangel took the decision to strike at the back of the Red Army and its rearward areas. The Reds, weakened by a war on two fronts, had to retreat. But when the Bolsheviks saw the Whites head east to join forces with the Cossacks on the Continent, they changed their strategy immediately. In October 1920, despite the humiliating conditions of the armistice for the Soviet Union, the war with Poland was officially over. The Red Commissars made the army of the southern front 250,000 strong, concentrating the maximum amount of their forces on storming the White stronghold on the Crimea. On October 28 they launched their offensive.

First, Wrangel’s army was stopped by the Reds, commanded on the Southern front by a prominent member of the Bolshevik party, Michael Frunze. After that, the specially formed Budyony Cavalry was sent. Finally, on a cold November night the Reds took a wade through the icy waters of Sivash Gulf to bypass the Perekop Isthmus, which was very well protected by the Whites. Despite losing hundreds of soldiers killed and wounded under machine gun fire, the Revolutionary Red forces managed to get onto the peninsula and to fortify their positions for further offence.

The White units defending Perekop, the city guarding the isthmus, were shocked and demoralized. The Wrangel army had to fight just to protect its rear. After November 15, 1920 a mass evacuation from the peninsula began–first, peaceful citizens were evacuated, then soldiers and officers of the Wrangel army. Sometimes the evacuation turned into panic flight. All in all, over 120 ships brought more then 150,000 refugees to Istanbul (Constantinople).

The reprisals and massacres against the “enemies of the Revolution” began in Crimea. The Revolutionary Committee of Crimea, led by a Hungarian Jew, Bela Kun, was formed. In three years of Wrangel’s rule in Crimea, about 1,500 were arrested by the Whites, with as many as 300 shot. As for the Red terror, not less then 50,000 people died on the peninsula (according to other statistical data, up to 100,000). Rozalia Zalkind, a Jewish communist from Ukraine, excelled during the repression. She headed a political department of the Red Army and personally took part in executions by shooting. The tragic epic of the White movement in the south was over.

7. Civil War on the Far East

Having achieved a temporary victory, the Bolsheviks managed to establish a severe dictatorship in central Russia in the first three years of the Revolution despite an unprecedented toll in civilian victims and territorial losses. But it never led to peace, prosperity or justice as originally promised by the Bolsheviks. Due to the political and economic crisis, industry declined by 82% compared with 1913.

The number of wealthy Russian refugees (émigrés) grew constantly and amounted to over 1.5 million by the end of the Civil War. The villagers, having nowhere to run, protested and in their own ways fought for the rights the Bolsheviks were suppressing. There were numerous peasant uprisings that later became a popular war.

The Tambov Revolt, led by Alexander Antonov (1888-1922), took place in 1920-1921. A whole army of peasant partisans soon formed, 30 000 strong.

Antonov was a "Right Socialist-Revolutionist," a non-Bolshevik leftist, and a Russian patriot. He fought against the “suppression of the people by capitalist exploitation” during the tsarist period. But when the Bolsheviks actually usurped the power by taking advantage of the revolutionary situation, Antonov declared war on the impostors who dared speak in the name of the workers and peasants. He addressed the people with a leaflet, in which he called upon “the Russian warrior to arise and save the Motherland by liberating Moscow from the hands of the Red butchers.”

To suppress the Tambov Revolt, the Red marshal Tukhachevsky sent in more then 100,000 soldiers of the regular army, including mercenaries from Lithuanian and Chinese units of the Red Army (over 40,000 Chinese served in the RKKA during the Civil War and afterward). The repressive force used armoured troops, aircraft and chemical weapons. They were severe to the local population, sometimes burning down houses with the families inside. Although the guerrillas were not numerous, it took the repressors almost a year to suppress the rebellion. But the armed partisans could be seen in the forest of Tambov long after that.

In March 1921 another rebellion was suppressed by the Bolsheviks – the rebellion of Kronstadt, in the bay before St. Petersburg). It was started by sailors of the Baltic fleet; one of the slogans of the rebellion was: “Government without Jews and communists!” Peasant rebellions took place all over the country: in the Ural, Siberian and Volga regions. Hundreds and thousands were killed as a result of armed clashes with the peasants.

Mass-killings of wealthy peasants (known as the "Kulak annihilation" or raskulachivanie) and landowners during the establishment of Soviet power in the villages led to devastation of the large farms, resulting in mass starvations. The 1921 starvation (golodomor) took place in the Volga region and began spreading all over Russia. In the cities, which were left without supplies of foodstuffs, the poorest citizens were destined to die, as well as some representatives of the intellectual elite, who deliberately refused to accept the food allowances of the Bolsheviks.

In order to quash critics, the Bolsheviks began a systematic persecution of dissenters. On Lenin's personal order, more then 200 representatives of the intelligentsia and cultural workers were expelled from the country on a specially prepared ship: those were the writers, philosophers, and scientists Berdyaev, Iliin, Lossky, Karsavin and many others. Famous and prolific poets such as Gumilev, Esenin or Klyev were either killed or driven to suicide. As for the writers and poets who survived the persecution, a strong censorship by the Glavlit (Central Committee for Literature) was imposed on them.

***

The White counter-revolutionist movement in the eastern Russia had many talented politicians and leaders within its ranks. The name of Admiral Alexander Kolchak deserves special mention.

Alexander Kolchak was an outstanding leader with a remarkable biography. His professional education was at the Naval Military school and he took part in several expeditions in the Pacific Ocean; he also commanding an ice-breaker during an expedition to the North Pole. All in all, he crossed four oceans during his career.

For his outstanding achievements, in the First World War Kolchak was appointed commander of the Black Sea Fleet. At first, he was in favour of the Revolution, but once he understood it was leading to the devastation of the Motherland, he started his own resistance movement.

He began armed resistance to Bolsheviks and their allies in the Far East, in central Siberia and in the Ural regions. In September 1918 Kolchak was appointed minister of defence in the Provisional Government. In January 1919 his new-born army took Perm in the Ural mountain area. The army soon grew to 112,000 and began an offensive on a wide front – from Uralsk and Orenburg to Vyatka. Inspired by the admiral's success, his brothers-in-arms and many other representatives of the White movement considered him the supreme leader of the true Russia.

A strange, ambiguous and even mysterious role on the eastern front of the Civil War was played by the so-called Czechoslovak Legion. It consisted predominantly of Czech and Slovak soldiers within the Austro-Hungarian army, more then 30,000 soldiers, who surrendered or were captured by Russia during the First World War. Originally, they were kept in the Ukraine area.

After the revolution, agents of the Entente managed to place the Legion under French command, which then ordered the Legion to be sent to France. It would have been rational to send the soldiers out by ships from the harbours of the Black Sea.

But due to a logic that now seems strange, on March 26, 1918 the Revolutionary government decided to evacuate the so-called “internationalist warriors” eastward through Siberia to Vladivostok, obliging them to hand over their weapons to the local soviets. Few of the Czech soldiers returned home travelling via Europe. The Bolsheviks were afraid (and their fears were quite understandable) that the Czechs would join forces with the Volunteer Army in the South. The troops of the Czech Legion ended up stretched out over the whole Siberian trunk-railway, over 7000 km long!

On their way east, the prisoner soldiers rebelled and joined forces with the counter-revolutionists: Socialist-Revolutionists, Cadets (Constitutional Democrats) and Social-Democrats. Together with the Whites, they conquered Novosibirsk (Novonikolaevsk), Penza, Syzran, Tomsk, Omsk, Samara and Krasnoyarsk. After that, having launcher a counter-offensive, they liberated Ufa, Simbirsk, Ekaterinburg and Kazan. In the Volga and Ural regions, as well as in Siberia, the Legion assisted local authorities in creating provisional governments for the convocation of a Constituent Assembly. It became one of the turning points of the Civil War.

Having prevented the junction of the White Armies in the East and South, the Reds launched a counter-offensive in Ural and Siberia in early 1920. Apart from frontal attacks they also used revolutionary propaganda and active secret services (counter-reconnaissance) aimed at eroding the enemy from inside. The Whites were outnumbered by the Reds; the forces of the army of Kolchak (together with the Czech Legion) were much weakened by then.

Neither the manly presence nor the bravery of the admiral could deter the aggression of the Reds. After the retreat from Irkutsk, with power there taken by the Left S-R's, Kolchak was forced to hand command of the army over to the ataman George Semenov (1890-1946).

On January 4, 1920, betrayed by his comrades-in-arms, Admiral Kolchak resigned. In this situation General Denikin became the supreme ruler of the true Russia. Under circumstances that remain unclear even today, Kolchak was taken into custody by the Czechs, who on Jan. 14 handed him over to the Socialist Revolutionists. The latter transferred Kolchak to the Bolseviks and he was shot on the personal order of Lenin.

The further history of the White Guards in the East was quite tragic. The troops of General Vladimir Kapell (1883-1920), who died soon after Kolchak, attempted a severe winter crossing over Lake Baikal to Chita. Lieutenant General Mikhail Diterichs (1874-1937), who succeeeded Kolchak as the supreme leader of the true Russia, had to retreat and later to emigrate after two more years resisting the Reds. All in all, hundreds of thousands people emigrated out through Vladivostok (as well as through the Crimea), including more then 56 thousand civilians, attached to the Czech Legion.

In the Pacific maritime region (Primorie) the battles against the Reds went on till the autumn of 1922. Later, the remains of the White units of atamans Dutov and Semyonov left Russia via China and Korea. Minor armed conflicts and clashes occurred in the Far East until 1923, but in those conflicts primarily guerrillas, not organized troops took part.

8. Baron Ungern and his Mongolian Troops

The story of the Asian Division Cavalry, led by Baron Roman von Ungern-Sternberg (1886-1921), a distant relative of the Tsar and a fanatical monarchist, deserves special mention.

The most famous facts of Ungern’s biography are connected with Mongolia, where he wanted to create a new Empire of his own and a launching pad for the White Revenge. During the years of the Revolution, this vast mountainous land had lost its independence (that it had attained in 1911 from China, supported by Russia). The Chinese were planning to take advantage of Mongolia’s temporary weakness and to resubjugate their neighbour to the North by sending troops to the city of Urga (now Ulan-Bator).

Having collected the remains of ataman Semyonov’s divisions (800 mounted Cossacks and 6 cannons), Ungern created an audacious plan to liberate Urga from foreign invaders. First, looking for support from the common people, he addressed the Mongols with a religious proclamation. After that he carried out a sophisticated clandestine operation and managed to liberate Bogdo-Geghen, the Khan of Mongolia from the Chinese-occupied capital city. Finally, he attacked Urga and took the city by storm, despite its defense by a Chinese garrison of more then 10 000 soldiers.

Having obtained a rest and resupply area and supported by the natives, the baron enthusiastically started to flesh out his grand plan. He believed that after the Bolshevik revolution one could no longer hope to restore traditional monarchies in Europe, for the peoples of the west were perverted by the ideas of materialism and socialism:

Russia is devastated in terms of its economy, morals and spirituality; its future is appalling and can hardly be predicted. The revolution will triumph and the higher culture will perish under the onslaughts of a coarse, grasping and ignorant mob, gripped by the madness of revolutionary destruction and led by international Jewry” – Ungern wrote in one of his letters.

The baron stated that to establish peace, spirituality and order in the world, one should not hope for any help from the degraded West. Instead, he proposed to create a “Kingdom of Middle” in the East. It was to unite Mongolia, Sindzyan and Tibet (all now in western China) a "White Empire of the East" aimed at eradicating the world evil that came to the earth to “destroy the Divine within the souls of men.”

For fulfilling this divine mission, the baron adopted Buddhism. He later married a Chinese lady of noble origin and was awarded the title of "Prince of Mongolia" by Khan Bogdo-Gegen. Later, he proudly wore a princely caftan of the finest Chinese silk together with the uniform of a tsarist officer. The baron began sending official letters in which he proposed to the volunteers of the White armies that they join his troops.

The remainder of White units from the Baikal region, Tuva and the Mongolian steppes gathered under the banners of the Baron (named “the God of War”). Together with brigades, led by the atamans Kazagrandi, Kaigorodov, Bakich and others, the army of Ungern soon grew to be 4,000 sabres and dozens of artillery units strong. The army was able to execute minor raids along the coasts of the Selenga River. It also attacked Kyahcta, a small town on the Mongolian border, where the Bolsheviks had Chan Suhe-Bator as their protégé. It was in this period that the White unit were particularly cruel to communists, commissars and Jews, for whom (according to the Baron) “only one punishment was adequate – death!” But the militia of the Baron were outnumbered by the Reds and their efforts were not enough to prevail.

An expeditionary corps was sent from Chita to destroy the troops of Ungern. It had 7,500 of infantry, 2,500 sabres, 20 field guns, 4 aircraft and 4 river steamers. As the Reds were supported by Mongolian revolutionists, they managed to suppress the resistance of the counter-revolutionists. The White leaders of the east, including Ungern himself were imprisoned, interrogated and later executed.

The Red terror in the Far East had its own peculiarities, since not only monasteries and Khans’ estates, but also Russian bureaus and official institutions were looted. Much later, Lenin annulled the state debt of Mongolia of 5 million golden rubles and awarded the pro-Soviet general Sukhe-Bator the decoration of the Red Star during the official visit of the Mongolian leader to Kremlin in 1921.

9. Conclusions.

Confronting the Bolsheviks in the Civil War were not only White monarchists but also Social-Revolutionists, Democrats and Anarchists, as well as a major portion of the free Cossacks and wealthy peasants. The chaos of the whole revolutionary situation brought confusion and hindered the people from realizing the danger of Proletarian Dictatorship, which in reality turned out to be the tyranny of Bolsheviks, headed by Lenin and then Stalin.

It is however a false statement that during the Civil War "Russians fought Russians." In reality it was the Red Internationale that fought the White Guards. It is true however, that certain Russians as well as Cossacks from different regions of the Empire, and Ukrainians, Germans and Czechs, were present at the command posts of the Revolution. But within the Revolutionary leadership, Russians were an absolute minority.

Russian-speaking Jews, Ukrainians, Poles, Lithuanians, Magyars, Tatars, Chinese and minor Caucasian peoples predominated. The non-Russian, international units of the Reds counted more then 200,000 men.

All in all the Red army won rather due to revolutionary fanaticism and numerical superiority, but not due to strategic successes or the talents of the leaders. The Red Army occupied key strategic positions, plus it was approximately ten times as big as the White army. But it suffered many deserters and was close to total collapse in 1919.

Both fighting sides exhibited brutality, but the Whites never made terror a core instrument of their politics as the Red commissars did. They never exterminated whole classes or groups of the population and never created blocking detachments ("zagradotryady") or concentration camps.

All in all, the civil war turned out to be a real racial genocide.

Declaring and promoting opposite ideological slogans and ideas, the Reds and the Whites slaughtered each other in bloody war. Their readiness to spill blood and to march for internecine battle was reflected in the songs of those ruthless times. When marching and before the attacks, the Reds often sang a song with the following lines:

We will march to fight for the Power of Soviets

And die like one fighting for that.

The Whites used the same tune, but the lyrics were different:

We will march to fight for Holy Russia

And spill as one man our blood for Her.

But whatever was the text of the song, the blood of Russian soldiers and officers was always spilt, which almost ruined the gene pool of the Nation.

Most of the peasants believed in the revolutionary "Decree of Land" and never expected the Bolsheviks to turn against one of their main class allies within several years. They never saw the Whites as their potential protectors and mostly waged their own local war, fighting on their own during the rebellions.

The people traditionally believed all of the tsarist generals to be monarchists, but in reality, their ideological views were much broader. In fact, in the beginning of the revolutions, most of the generals and high army officials were in favour of the dethronement of the Tsar. For instance, General Kornilov and Admiral Kolchak arrested the most prominent members of the Tsar’s family in St. Petersburg and on the Crimea.

The tsarist officers overestimated their own forces, as they got bogged down in the fronts of the World War. They hoped for a miracle from God through their Christian faith, and they counted on the bravery of the Cossacks, on military support from the West and on the help of the peasants. But none of their hopes came true.

This firm belief in the power of Truth and in the triumph of Divine Justice and Law was maintained by the White Guards in exile. One of the most prominent leaders of the Russian émigrés wrote in his diary:

Years will pass, the communists will be gone, and the Revolution will be but a thing of the past. But the White cause, renewed in this struggle will not be gone: Its spirit will stay with our future generations and will become a part of our National being and will help to build a New Russia”.

Pavel Tulayev.

01:40 Publié dans Eurasisme, Histoire | Lien permanent | Commentaires (0) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook