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lundi, 03 octobre 2011

La Chine veut y voir plus clair avant d’aider la zone euro

La Chine veut y voir plus clair avant d’aider la zone euro

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

La Chine ne peut prêter assistance aux pays lourdement endettés de la zone euro sans avoir un aperçu clair des solutions au problème de la dette souveraine, a déclaré jeudi le président du fonds souverain chinois CIC.

Jin Liqun, président du conseil de surveillance de China Investment Corporation (CIC) qui gère un actif de l’ordre de 230 milliards de dollars, a également jugé que l’Europe devait supprimer les obstacles aux flux d’investissement et commerciaux en provenance de Chine et d’autres pays à forte croissance.

« Nous sommes en Chine préoccupés par la façon dont la situation évolue dans la zone euro. La Chine ne peut apporter son soutien les yeux fermés. On ne peut attendre de la Chine qu’elle achète des instruments à haut risque de la zone euro sans avoir un aperçu clair des programmes de gestion de la dette.« 

« Les pays de l’Union européenne jouissent encore d’un avantage compétitif dans bien des domaines, comme la science et la technologie, la fabrication industrielle et les produits de luxe (..) Avec le temps, les économies de l’UE se tireront d’affaire ; nous sommes optimistes pour leurs perspectives.« 

Les épargnants chinois boudent les banques

 

On pouvait le redouter en Europe… mais c’est en Chine que cela se passe. Selon la presse officielle, les quatre plus grandes banques commerciales chinoises voient les épargnants se tourner vers d’autres alternatives – telles que particuliers et entreprises privées – pour déposer leur argent, poussés en cela par une inflation élevée et des taux d’intérêt faibles.

Selon le Zhongguo Zhengjuan Bao (Journal des valeurs mobilières de Chine), les dépôts de l’Industrial and Commercial Bank of China (ICBC), de la China Construction Bank (CCB), de la Bank of China et de l’Agricultural Bank of China (ABC) ont régressé de 420 milliards de yuans (48,6 milliards d’euros) durant les 15 premiers jours de septembre. Le quotidien économique affirme par ailleurs qu’une grande partie des fonds ont été placés sur un marché du crédit parallèle.

Si particuliers et des entreprises ne sont certes pas dotés de statut d’établissement bancaire, ils offrent néanmoins des rémunérations environ dix fois plus élevées que celles des dépôts bancaires. Rappelons que la hausse des prix à la consommation s’est élevée à 6,2% au mois d’août, alors que la rémunération des dépôts à un an n’est que de 3,5%. Au final, les épargnants perdent donc du pouvoir d’achat en plaçant leur argent en banque.

Précisons par ailleurs que début septembre, l’agence de notation Fitch a indiqué  qu’elle pourrait baisser la note souveraine de la Chine dans les deux prochaines années. Raisons invoquées : les lourdes créances du secteur bancaire chinois, ce dernier ayant massivement octroyé des crédits ces derniers mois.

Investir & Le Blog Finance

mardi, 13 septembre 2011

Il rafforzamento dell’alleanza sino-pakistana

Il rafforzamento dell’alleanza sino-pakistana

Francesco Brunello Zanitti

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Il legame strategico tra Pechino e Islamabad è sempre più forte. Il tradizionale rapporto diplomatico tra i due paesi si è consolidato recentemente con l’intensificarsi dei legami economici, commerciali, energetici e militari, unitamente all’allontamento pakistano nei confronti degli Stati Uniti. La stabilità dell’alleanza sino-pakistana è però messa alla prova dalle sfide poste dai gruppi armati degli estremisti islamici operanti nello Xinjiang cinese.

La crisi dei rapporti tra Stati Uniti e Pakistan degli ultimi mesi ha comportato il rafforzamento dello storico legame esistente tra Islamabad e Pechino. Le relazioni tra i due paesi sono in realtà ottime da circa un trentennio, a differenza di quelle pakistano-statunitensi; il proficuo rapporto diplomatico tra Stati Uniti e Pakistan ha, infatti, ricoperto un ruolo fondamentale nelle rispettive politiche estere durante l’intervento sovietico in Afghanistan tra anni ’70 e ’80, per poi subire un deciso deterioramento all’inizio degli anni ’90. Il rapporto tra Washington e Islamabad è tornato ad essere importante in seguito all’invasione afghana statunitense del 2001, nella quale il Pakistan è stato utilizzato come fondamentale punto d’appoggio per il controllo di Kabul. L’unilaterale bombardamento dei territori nord-occidentali del Pakistan, la crescente ingerenza statunitense nella politica interna pakistana, mediante mezzi militari e servizi d’intelligence, e i comportamenti ambigui pakistani in alcune questioni di primaria importanza hanno comportato un deciso peggioramento delle relazioni tra Stati Uniti e Pakistan. Questo deterioramento ha raggiunto l’apice tra maggio e giugno, in seguito alla rivendicazione statunitense dell’uccisione di Osama Bin Laden in Pakistan.

I sempre più tesi rapporti tra i due paesi sono legati, inoltre, all’avvicinamento statunitense nei confronti dell’India, il quale ha raggiunto il proprio culmine nel 2007, mai così evidente rispetto al passato; l’amminsitrazione Bush e l’attuale governo di Manmohan Singh avevano delle ottime relazioni diplomatiche. Il Pakistan non gradisce, inoltre, il ruolo affidatogli dopo l’invasione statunitense dell’Afghanistan nel 2001, nel quale osserva un pericoloso calo del proprio ascendente strategico su Kabul. L’Afghanistan è tradizionalmente considerato da Islamabad una propria area d’influenza, strategicamente importante nel caso di un conflitto con l’India, poiché visto come territorio di supporto o di ritirata nell’ipotesi di una massiccia invasione del Pakistan dell’esercito di Nuova Delhi.

Il primo paese a difendere il rispetto dell’integrità territoriale di Islamabad in seguito alla notizia della morte di Bin Laden è stata la Cina; visitata poche settimane dopo dal primo ministro Gilani. Il Pakistan avrebbe, inoltre, permesso ai militari cinesi di visionare i resti del velivolo statunitense di tecnologia Stealth impiegato dagli Stati Uniti nel territorio pakistano.

Il legame sino-pakistano rappresenterà un importante elemento delle future relazioni internazionali, in particolar modo nel confronto tra Stati Uniti e Cina, tra quest’ultima e l’India, nonché negli interessi cinesi in Afghanistan e nel più generale contesto del cosiddetto “Nuovo Grande Gioco” in Asia Centrale. Mentre il Pakistan nel corso degli anni ’80 fu un importante alleato degli Stati Uniti durante la guerra sovietica in Afghanistan, fondamentale territorio di transito per i rifornimenti militari destinati ai combattenti anti-sovietici, oggi Islamabad non garantisce, nell’ottica nordamericana, il medesimo contributo per il tentativo statunitense di controllare l’Afghanistan. La relazione con Islamabad rappresenta per gli Stati Uniti un elemento di vitale importanza per i propri interessi a Kabul. Basta considerare l’importanza strategica del paese pakistano, dotato degli unici punti d’accesso via mare per le truppe statunitensi e della NATO e per i rifornimenti militari, nonché territorio di collegamento geostrategico nel cuore dell’Eurasia. Il porto di Karachi è fondamentale per l’arrivo e invio di truppe e materiale bellico, passante poi in territorio pakistano mediante trasporto su strada, giungendo successivamente a Kabul e Kandahar. Gli Stati Uniti stanno ricercando una possibile alternativa ai rifornimenti via Pakistan, data l’insicurezza di Karachi e del confine lungo la linea Durand. Gli altri collegamenti ai porti situati in paesi confinanti con l’Afghanistan, Iran e Cina, sono impraticabili per evidenti motivi politici. Una via d’accesso alternativa è potenzialmente quella passante attraverso le ex-repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale: esiste un discorso aperto con l’Uzbekistan, dal quale passerebbero i rifornimenti provenienti dal porto di Riga, in Lettonia, passando per il territorio russo e kazako. Esiste un’altra opzione, probabilmente maggiormente fattibile rispetto a quella precedente, vista la lunghezza del percorso e la possibile inclusione della Russia nell’affare afghano, prospettiva non gradita a Washington. E’ quella attraverso la Georgia, l’Azerbaigian, il Mar Caspio e il Turkmenistan oppure via Kazakistan e Uzbekistan. L’attenzione statunitense nei confronti di Baku, Ashagabat, Astana e Tashkent è in ogni caso in costante aumento.

Negli ultimi mesi è comunque evidente come il Pakistan punti maggiormente ad adottare una politica estera più autonoma nei confronti di Washington, attivandosi, inoltre, nel potenziamento delle relazioni con i vicini, soprattutto con la Cina, ma anche con Iran e Russia.

L’importanza strategica del Pakistan, unito al suo attivismo in politica estera, ha reso il governo del paese molto più convito nel richiedere il termine dei bombardamenti dei droni statunitensi nelle province nord-occidentali. Nel caso in cui ciò non avvenga, il Pakistan è pronto ad adottare una politica ancor più marcatamente filo-cinese, avendo, inoltre, l’appoggio della Cina, critica nei confronti delle azioni statunitensi nel paese. Un ulteriore fattore è legato al termine dell’aiuto economico statunitense, unito al declinare dei rifornimenti militari: il Pakistan guarda anche in questo caso a incrementare i propri legami economici e militari con la Cina.

Un’altra arma spendibile a livello diplomatico dal Pakistan è legata alle risorse energetiche. Lo stretto rapporto con Pechino, oltre ad aumentare l’influenza cinese in Asia Meridionale e Centrale, comporterebbe un’importante vittoria per la Cina nella competizione riguardante l’approvigionamento di petrolio e gas naturale.

La Cina è interessata a investire massicciamente in Pakistan. I punti chiave della strategia energetica sino-pakistana sono rappresentati dal potenziamento del porto di Gwadar, dalla quale possono passare i gasdotti e oleodotti provenienti dall’Iran. I progetti d’investimento cinese nel paese sono legati alla realizzazione del gasdotto IP, al quale potrebbe partecipare in sostituzione dell’India, con evidenti vantaggi in termini economici per il Pakistan grazie ai diritti di transito. La Cina è interessata al potenziamento di infrastrutture, strade e ferrovie pakistane, unitamente alla costruzione dei collegamenti per il petrolio e il gas naturale lungo il territorio pakistano partendo dalla città beluca per arrivare al Gilgit-Baltistan. I progetti sino-pakistani sono legati al potenziamento degli assi viari che assieme alle pipeline collegherebbero il Pakistan allo Xinjiang. A questo proposito sono in progetto la costruzione di diversi collegamenti stradali e ferroviari tra Kashgar e Abbotabad, e tra la città dello Xinjiang e Havelian. Un ulteriore collegamento tra i due paesi lungo confine è quello delle fibre ottiche, mentre il più importante e ambizioso progetto caratterizzante la cooperazione sino-pakistana è il collegamento stradale, ferroviario ed energetico tra Gwadar e Urumqi.

La recente visita di Gilani a Pechino si è conclusa con la firma di importanti accordi commerciali, finanziari e tecnologici, seguito dei colloqui del dicembre 2010, nei quali erano previsti il potenziamento della cooperazione in diversi settori: energia, sistema bancario, tecnologia, costruzione, difesa e sicurezza. Il crescente legame economico tra Pechino e Islamabad è unito alla tradizionale e comune avversione verso l’India, la quale può essere ostacolata nella sua ascesa in Asia Meridionale dall’azione comune dei due paesi asiatici. La Cina aiutò militarmente il Pakistan in seguito alla guerra sino-indiana del 1962, così come fornì la tecnologia nucleare al paese dopo che l’India nel 1974 iniziò i suoi primi test nucleari. Tra gli anni ’80 e ’90 la Cina ha stabilito un’alleanza militare e nucleare con Islamabad, ancora oggi molto forte. Più del 40% delle esportazioni militari cinesi sono destinate al Pakistan. I due paesi hanno in progetto la produzione congiunta degli aerei da combattimento JF-17 Thunder (FC-1 Fierce in Cina). Durante il mese di marzo 2011 si è svolta un’importante esercitazione aereonautica tra la Pakistan Air Force (PAF) e la People’s Liberation Army Force (PLAFF) denominata Shaheen 1 (in urdu significa aquila). Si tratta della prima manovra militare tra PAF e PLAFF, alla quale si aggiungeranno nel corso del 2011 delle esercitazioni tra il PLA e l’esercito pakistano. Un simile legame militare tra i due paesi, oltre ad essere un importante fattore all’interno degli equilibri asiatici, dimostra come oggi la Cina possa agire molto più attivamente rispetto al passato in uno Stato considerato strategico per gli Stati Uniti per la propria politica in Afghanistan, ma anche in Asia Meridionale. Dato il lento declino economico statunitense, il Pakistan ha individuato nella Cina un’alternativa importante, la quale, a differenza di Washington, è in costante ascesa economica e militare. La cooperazione militare sino-pakistana è valutata da Islamabad e Pechino anche come una forma di bilanciamento nell’area nei confronti delle simili politiche militari adottate da Russia e India.

Inoltre, mentre gli Stati Uniti premono sul Pakistan per il proprio arsenale nucleare, la Cina rappresenta un’importante fonte di tecnologia in questo settore. A questo proposito Pechino sarebbe intenzionata a finanziare i progetti di costruzione per nuovi reattori nucleari in Pakistan.

Per quanto riguarda un fattore negativo legato alle relazioni tra Cina e Pakistan, è possibile fare riferimento all’attuale situazione dello Xinjiang. La regione cinese è un’area ricca di gas e petrolio, confinante con le repubbliche centro-asiatiche e con una considerevole presenza di abitanti di religione musulmana. Il territorio è attraversato da decenni dalla spinta indipendentista degli uiguri. La Cina ha sostenuto che i responsabili degli attentati avvenuti nello Xinjiang poche settimane fa sono estremisti islamici dello East Turkestan Islamic Movement (ETIM) o Turkistani Islamic Party (TIP) provenienti da campi d’addestramento situati nelle zone tribali del Pakistan. L’ETIM ha legami con la rete Haqqani e con il Tehrik – e – Taliban Pakistan (TTP). L’accusa cinese di simili resposabilità pakistane per le violenze degli uiguri rappresentano un campanello d’allarme per Islamabad. Secondo l’intelligence pakistana la Cina starebbe premendo il Pakistan affinché crei delle basi militari nelle aree tribali in modo da controllare la possibile azione degli estremisti e il loro successivo sconfinamento in territorio cinese. La Cina avrebbe anche intenzione di inviare delle proprie truppe nelle FATA e nella Khyber Pakhtunkhwa, senza comunque l’intenzione di creare delle basi militari permanenti. Sarà da valutare come gli Stati Uniti considereranno la possibile presenza militare cinese in Pakistan.

I media cinesi hanno criticano significativamente le autorità pakistane per l’incapacità dell’esercito di controllare le aree tribali del paese. Il quotidiano pakistano “Dawn” ha sostenuto come gli attentati possano portare a della conseguenze negative nelle relazioni bilaterali tra Islambad e Pechino, comportando delle serie ripercussioni soprattutto per il Pakistan. Allo stesso modo l’incapacità di Islamabad nel prevenire l’azione dei terroristi può risultare controproducente per la potenziale cooperazione sino-pakistana in Afghanistan. Una possibile azione congiunta delle autorità pakistane assieme a quelle cinesi potrebbe garantire, invece, nell’ottica di Pechino, un possibile miglioramento della condizione delle aree nord-occidentali del Pakistan, avendo come conseguenza dei possibili benifici per la situazione dello Xinjiang. Una condizione importante per la Cina è rappresentata dal contemporaneo termine dei bombardamenti statunitensi nell’area, i quali possono fomentare l’estremismo islamico. Senza dubbio la cooperazione tra Islamabad e Pechino nelle FATA e nella Khyber Pakhtunkhwa renderà ancora più evidente lo stretto legame sino-pakistano, foriero di interessanti conseguenze nel contesto dell’attuale competizione in corso nella regione.

*Francesco Brunello Zanitti, Dottore in Storia della società e della cultura contemporanea (Università di Trieste). Ricercatore dell’IsAG per l’area Asia Meridionale, è autore del libro Progetti di egemonia (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2011). In “Eurasia” ha pubblicato Neoconservatorismo americano e neorevisionismo israeliano: un confronto (nr. 3/2010, pp. 109-121).

lundi, 12 septembre 2011

L’avenir de l’Eurasie se joue en Mer de Chine

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L’avenir de l’Eurasie se joue en Mer de Chine

par Jure VUJIC

Comme l’a si bien déclaré Z. Brzezinski, l’Eurasie est le pivot mondial du supercontinent. La puissance qui dans les prochaines décennies exercera sur cette masse continentale l’hegemon, exercera corrélativement une grande influence sur les peuples et les deux zones économiques les plus riches et les plus productives du monde : l’Europe occidentale et l’Asie du sud-est.

D’autre part, compte tenu de la proximité géographique de l’Eurasie, la puissance hégémonique en Eurasie exercera de même une grande influence sur l’Afrique et le Moyen Orient. La Chine et l’Inde en tant que puissance émergentes, la renaissance impériale de la Russie en tant qu’hegemon régional, l’émergence du Japon et de la Corée du sud dans le jeu des grandes puissances, laissent présager un éventuel nouveau partage des cartes géopolitiques dans la région. L’ Europe occidentale, avec sa stratégie de défense et sa PÉSC malgré sa dépendance vis-à-vis des mots d’ordre atlantistes de Washington, semble néanmoins consciente de l’enjeu géopolitique eurasiatique.

C’est dans cette optique que l’UE entend promouvoir, dans la région et les pays de Union, davantage de multilatéralisme effectif, afin d’éviter un cloisonnement de cette région et son isolement par la politique européenne du voisinage et la toute nouvelle Union méditerranéenne. Les intérêts géo-économiques et financiers de l’Union dans la région, les enjeux de la globalisation sont trop grands pour que l’Europe soit marginalisée par le jeu des grandes puissances en Eurasie. En suivant les thèses bien connues de Mackinder à propos du heartland, il est aujourd’hui davantage plus clair que les États-Unis et les autres puissances régionales atlantistes entendent parfaire la bien connue stratégie de défense du néo-containement par un contrôle accru des mers et de la zone littorale qui s’étend de Suez à Shangai, et notamment à cause de l’émergence de nouveaux acteurs régionaux d’envergure comme le Japon, la Chine, et l’Inde. C’est dans cette perspective que Bill Émmot l’éditoraliste de The Economist affirme que les nouveaux pouvoirs eurasiatiques renforcent leurs pouvoirs maritimes sous la forme d’installations militaires localisées, pour les mettre au service de la protection de leurs intérêts économiques, la défense de leurs routes stratégiques et afin élargir leurs zones d’influence.“

La stratégie américaine d’encerclement de la Chine

Depuis des décennies et surtout depuis la guerre froide, les États-Unis se posent en pouvoir dominant sur le littoral asiatique méridional.Afin d’améliorer son dispositif hégémonique dans la région et de décourager toute puissance montante continentale en Asie centrale, le système de sécurité maritime américain repose actuellement sur des régions sécuritaires dites pivots : d’une part le canal de Panama qui relie l’Atlantique et le Pacifique, deuxièmement les lily pads qui relient les installations militaires maritimes de San Diego à Hawaï jusqu’à Guam, et de Guam au Japon et la Corée du Sud, et enfin troisièmement, la grande barrière qui s’étend le long du littoral du sud-est asiatique. Grâce à cette barrière maritime qui s’étend du nord de Borneo en passant par Singapour, les États Unis sont assurés d’une présence géostratégique en Asie du sud-est.

Le système de sécurité maritime américain comprend deux têtes de ponts stratégiques : Taïwan et le Japon. Les États Unis ont conclu en octobre 2008 un contrat avec Taïwan pour la vente de de missiles intercepteurs et d’hélicoptères Apaches pour 4.4 milliards d’euro. En chien de garde de la grande barrière sécuritaire maritime, Taïwan a mis la Chine dans une position défensive. Le second pilier du dispositif défensif américain est le Japon qui abrite la plus importante base navale de l’American Seventh Fleeth et possède une armée efficace. La modernisation militaire de la Chine et la montée en puissance maritime de la Corée du Sud ont forcé les cercles militaires et stratégiques japonais à repenser leur doctrine militaire. C’est ainsi que le vice-amiral Hideaki Kaneda à la tête de la force japonaise maritime d’autodéfense explique, en affirmant que la Chine a changé de style de défense maritime vers un sea-power plus agressif, ce qui a poussé le Japon à reformuler sa stratégie maritime nationale. L’armée japonaise vient de se doter d’armements sophistiqués, d’hélicoptères Hyuga qui accroissent les capacités opérationnelles maritimes.

Tokyo utilise le JMSDF (Force japonaise maritime d’autodéfense) en support aux opérations en Afghanistan et en Irak. D’autre part le Japon a acquis une nouvelle force de frappe avec le développement de la garde côtière qui est engagée dans la diplomatie maritime avec leurs partenaires dans l’Asie du Sud-Est. La Corée du sud, allié stratégique des USA dans la grand barrière maritime, vient de construire des bases navales maritimes tout près de la Chine et du Japon. La Corée du Sud, qui a le plus grand budget militaire dans le monde en proportion de son PIB, vient de réorganiser et de moderniser son armée avec la mise sur pied de trois escadrons mobiles stratégiques qui seront opérationnels en 2020 et qui seront constitués de bâtiments équipés de missiles AEGIS combat system. Paul Kennedy dans The Rise and Fall of the Great Powers a déclaré que le Japon et la Corée du Sud se doteront d’un certain degré d’autonomie face à leur allié les États-Unis, mais continueront d’occuper une place prépondérante dans le dispositif de défense américain de la grande barrière maritime.

La stratégie chinoise du collier de perles

La Chine constitue une menace géopolitique certaine pour le Japon et la Corée du Sud. Sa croissance économique a doublé depuis 1990 ; afin de soutenir cette croissance vertigineuse Pékin devra augmenter sa consommation de pétrole de 150% d’ici 2020. Actuellement plus de 6000 navires chinois naviguent dans l’Océan Indien pour approvisionner leur pays en pétrole. Il va de soit que d’ici 2025, la Chine devra importer de considérables ressources énergétiques du Moyen-Orient et de l’Afrique. Les géostratégies maritimes américaine et japonaise buttent uniquement sur la voie maritime chinoise, laquelle passe par la mer de Chine avec ses ramifications le long du détroit de Malacca. 80% des transports maritimes pétroliers empruntent cette artère stratégique. Afin d’assurer la sécurité de ses routes maritimes d’approvisionnement énergétique, la Chine devra contourner les États-Unis et le Japon à l’est. La Russie concentre sa puissance maritime au nord, alors que l’Inde contrôle le flanc sud maritime de l’Océan Indien. En conséquence, la Chine devra renforcer son indépendance et la puissance de son pouvoir naval militaire, en particulier dans l’Océan Indien. La Stratégie maritime chinoise est double : d’une part, elle doit contenir la présence américaine dans le détroit de Taïwan, d’autre part, à l’avenir, elle devra assurer sa poussée maritime vers l’Océan Indien en encerclant l’Inde.

C’est dans le cadre de cette nouvelle stratégie maritime que la Chine vient de s’équiper de sous-marins russes Kilo-class. La deuxième composante du programme de modernisation navale chinois et d’encerclement stratégique de l’Inde est constituée de ce que l’on appelle le collier de perles maritime. Ce collier maritime relie l’installation navale chinosie de Sanya dans le sud avec lîle de Hainan, et d’autre part avec le Moyen-Orient. D’autres colliers maritimes secondaires s’étendent vers le Sri Lanka et dans les Maldives, reliant la baie de Bengale avec Gwadar dans la mer d’Arabie et complétant le triangle stratégique autour de l’Inde. La Chine redoute actuellement que les États-Unis et leurs alliés encerclent la Chine et l’espace maritime privilégié chinois, et c’est pourquoi les thèses d’Alfred Mahan à propos de la nécessité de la sécurisation des routes de transports sont actuellement très en vogue dans les milieux stratégiques militaires chinois. Les perles (étapes) du collier chinois, du Pakistan à Bornéo, vont devenir des couloirs stratégiques dans le littoral qui relie l’Afrique au Moyen-Orient. Afin de diversifier ses routes d’approvisionnement et d’éviter des goulots d’étranglements dans le dispositif du collier de perles, les ressources énergétiques pourront être acheminées par Sittwe et Gwadar, par route et voie ferrée le long de la frontière chinoise avec la Birmanie et le Pakistan en pénétrant dans les provinces chinoises de Yunnan ou le Xingjina. Lorsque la géostratégie chinoise sera consolidée dans l’océan indien, le futur collier de perles pourra s’ouvrir aux Seychelles en étendant la poussée stratégique chinoise vers l’Afrique. Ce n’est pas un hasard si Pékin a annoncé en décembre 2008 la volonté de construire une base aérienne, afin de de sécuriser son collier de perle et de consolider la présence stratégique maritime chinosie dans l’océan indien.

Le contre encerclement de l’Inde et le projet indo-atlantiste

Comme la Chine, l’Inde est extrêmement dépendante des routes maritimes commerciales. 77% des importations indiennes de pétrole proviennent du Moyen-Orient et de l’Afrique. Le Brigadier Arun Sahgal, directeur de l’Institut indien United Service Institution de New Delhi, qualifie la politique géopolitique chinoise de stratégie d’encerclement. En effet, le Nord de l’Inde est directement voisin de la Chine ; à l’Ouest le rival régional pakistanais, avec lequel la Chine développe ses relations, à l’est le Bangladesh pro-chinois et la junte birmane, alors qu’au sud se trouve le collier de perles chinois qui entoure l’Inde tel un serpent maritime géostratégique. Pour certains géopoliticiens et stratèges indiens et américains, une grande coalition des États côtiers et insulaires permettrait d’opérer un contre-encerclement de la Chine. Cette stratégie Indo-Américaine permettrait d’assurer un contre-encerclement par une ceinture géostratégique autour des rimlands asiatiques : l’Inde au sud-ouest de la Chine, la Corée du Sud au Nord-est, le Japon et Taïwan à l’Est, et les Philippines et Guam au sud-est, ce qui obligerait la Chine à adopter une posture géostratégique défensive. Cette stratégie indo-américaine pourrait menacer à long terme la construction d’une alliance eurasienne stratégique maritime et continentale.

L’Inde anticipe de même la menace d’un renforcement des relations entre le Pakistan et la Chine, et a entamé une pénétration géostratégique en Asie centrale : en 2006, New Delhi a étendu son influence dans cette région de l’Eurasie en ouvrant un premier aéroport militaire indien dans cette région, au Tadjikistan, un pays qui borde le Pakistan au Nord et la Chine à l’ouest, et qui offre à l’Inde un pont avancé dans la région. L’Inde renforce son potentiel militaire naval et a construit une nouvelle installation maritime militaire stratégique à Karwar au sud-ouest de la côte indienne, ainsi qu ‘une nouvelle base aéronavale à Uchipuli dans le sud-est, et un poste d’observation à Madagascar lui permettant de concentrer son commandement naval dans les îles d’Andaman. L’Inde a pris place dans la profondeur de la mer de Chine du sud, en pénétrant dans la baie vietnamienne de Cam Ranh, laquelle lui ouvre la voie à une combinaison géostratégique navale et aérienne permettant de projeter sa force de frappe dans la mer arabe, le golfe de Bengale, le long de l’Océan Indien et la partie ouest du Pacifique. Consciente de ces menaces d’encerclement et de contre-encerclement de la profondeur eurasiatique continentale sur les franges maritimes du continent européen et asiatique, la Russie se livre à un redéploiement de sa stratégie militaire eurasiste le long du littoral eurasien et africain, qu’illustre la décision d’ouvrir des bases militaires navales en Syrie, en Libye et au Yémen. Ces décisions sont accompagnées d’un vaste programme de modernisation navale, par des projets de construction d’avions de combats de nouvelle génération et un renforcement des capacités technologiques et logistiques.

Tribulations géopolitiques dans la zone côtière eurasiatique

Il est désormais évident que les stratégies d’encerclement et de contre-encerclement américaines, japonaises, sud-coréennes, chinoises, indiennes et russe se concentrent sur la zone côtière eurasienne, en tant que zone géopolitique pivot pour le contrôle de l’hinterland, la profondeur stratégique de la masse continentale eurasienne. Dans cet ensemble géopolitique émergeant, la ceinture littorale eurasienne passe par des axes géostratégiques composés par le canal de Suez et Shanghai, car ces axes séparent des pouvoirs émergents eurasistes : la Chine, le Japon et la Corée du sud à l’Est, l’Inde au Sud, la Russie au Nord, alors que l’UE se situe à l’extrême ouest, et les USA sont présents dans la région par la présence de bases navales. La revue stratégique de Défense française en 2008 annonçait déjà que le centre de gravité stratégique global glissait vers l’Asie. Dans le cadre d’une reconfiguration multipolaire du monde, au XXIème siècle, la zone Suez-Shanghai jouera le rôle géostratégique de gateway entre les divers pouvoirs continentaux et maritimes de l’Eurasie.

Le jeu sino-américain et la stratégie du linkage en mer de Chine

Point de passage entre la mer de Chine, l’Asie du Sud-Est et l’Asie Orientale, la mer des Philippines offre des possibilités incontournables à l’armée américaine pour s’assurer du contrôle de toute cette zone stratégique. Mais la Chine est la puissance régionale incontestée de la zone. Elle fait figure de menace en raison de son implication dans toutes les zones de conflits, de ses multiples revendications territoriales et de ses réticences à entrer dans un processus de règlement multipolaire. En effet, la Chine cherche à étendre sa zone économique exclusive, notamment sur les archipels de Paracels, Spratly, Pratas et Macclesfield. Au total, depuis les années 90, le renouveau de l’intérêt porté par la Chine à cette mer ne s’est pas démenti. Mais, cela n’est en rien comparable à l’intérêt que Pékin porte à Taïwan.

La Chine est hyper sensible à l’égard de Taïwan, qu’elle considère comme sa 22ème province. Elle ne concède aucun compromis sur la position d’une Chine unique. Bien que les États-Unis aient accepté cette position, la Chine est convaincue que l’aide fournie par les États-Unis à Taïwan lui donne la confiance de s’opposer aux revendications de Pékin ; ce qui entraîne la méfiance de la Chine à l’égard des États-Unis. Il est certain que, de son attitude dépendront la paix et la sécurité de cette partie de monde. Il est aussi certain qu’avec le développement économique, la Chine sera de plus en plus dépendante de son approvisionnement en pétrole et de son commerce maritime.

L’enjeu stratégique de la mer des Philippines

Le rôle éminent joué en Asie, sur le plan militaire, par les États-Unis, au cours des cinquante dernières années, leur a permis de mettre en place un dispositif aux articulations majeures dont la mer des Philippines offre des possibilités qui demeurent incontournables. En effet, les États-Unis sont actuellement, en Asie, la nation la plus puissante, à la fois politiquement, économiquement et militairement. Leur présence actuelle tient principalement à la menace qu’exerce la Corée du Nord dans la péninsule coréenne et au réveil de la Chine. En Asie du Sud-Est, les États-Unis ne sont plus présents de manière permanente, depuis qu’ils ont dû abandonner leurs deux bases des Philippines, en novembre 1992. Néanmoins, dans toute la région sauf, peut-être la Chine, il existe une reconnaissance générale des États-Unis comme seul et important acteur ayant la capacité d’assurer l’équilibre stratégique. Ainsi les États-Unis participent largement au maintien de la sécurité dans cette région du monde. Le commandement du Pacifique, dont l’État major est à Hawaï, est en charge de l’ensemble des forces américaines stationnées entre la côte ouest des États-Unis et la mer des Philippines.

Le contrôle de la mer des Philippines permet à l’armée américaine d’assurer le soutien logistique de ses forces largement disséminées dans la région asiatique et de donner la liberté d’action aux flottes déployées dans la région des Philippines. Disposer à nouveau de bases aux Philippines présente aux yeux des Américains un double intérêt. Le premier est le relais entre les océans Pacifique et Indien, lequel n’est assuré aujourd’hui que par Singapour, où un millier d’hommes s’occupent du ravitaillement et de l’entretien des bâtiments et avions américains. Mais Singapour est une petite île aux capacités limitées et qui se trouve à l’entrée du détroit de Malacca. Les Américains lorgnent le complexe aéroportuaire de Général-Santos qu’ils ont récemment aménagé loin des regards indiscrets dans une baie bien abritée de l’île philippine de Mindanao. Général-Santos est davantage à l’écart que la baie de Subic de la mer de Chine du Sud, des eaux qui sont l’objet d’une querelle ouverte notamment entre la Chine, le Vietnam et les Philippines et dont les États-Unis ne paraissent pas vouloir se mêler. Le deuxième intérêt est de disposer en Asie de l’Est, en cas de conflit en Extrême-Orient, d’un point d’appui solide à l’extérieur du Japon et de la Corée du Sud. Le complexe de Subic et Clark remplissait autrefois cette fonction. Les Philippines pourraient de nouveau le faire si les « manœuvres conjointes » en cours, qui peuvent s’étaler de six mois à un an, débouchent sur un engagement plus durable. Cette possibilité ne peut être exclue si l’on s’en tient aux pressions constantes des Américains sur les Philippins pour aboutir à une « normalisation » des relations militaires qui feraient du vote de 1991 un accident de l’histoire. La mer des Philippines occupe une place stratégique sur le plan militaire aussi bien pour les puissances régionales que pour les États-Unis d’Amérique.

La Chine, quant à elle, cherche à utiliser sa puissance maritime croissante pour contrôler, non seulement l’exploitation des eaux riches en hydrocarbures de cette zone, mais aussi les voies maritimes, parmi les plus fréquentées au monde. Afin de contrer l’influence chinoise en mer jaune et en Chine méridionale, les États-Unis entendent redéployer une ceinture maritime militaire autour de la Chine en s’associant à des exercices maritimes et aériens avec la Corée du Sud, au large de la côte est de la péninsule coréenne. Les liens militaires entre les États-Unis et l’unité d’élite des forces armées indonésiennes s’inscrivent dans le cadre de cette politique navale renouvelée. Ces jeux de stratégie militaire constituent surtout un avertissement lancé à la Corée du Nord sur la force de l’engagement de l’Amérique en Corée du Sud, suite au naufrage du bâtiment de guerre sud-coréen le Cheonan. Mais ils confirment surtout que les engagements de l’armée américaine en Irak et en Afghanistan n’empêchent pas les États-Unis de défendre leurs intérêts nationaux vitaux en Asie. Le deuxième théâtre de ces jeux stratégiques s’est sitUE en mer Jaune, dans les eaux internationales, très proches de la Chine, démontrant encore une fois l’engagement des États-Unis pour la liberté des mers en Asie. S’ensuivit la visite d’un porte-avions américain au Vietnam, le premier depuis la fin de la guerre, il y a 35 ans. La Corée du Nord, s’est violemment opposée à ces jeux stratégiques, menaçant même d’une réponse « physique ». La Chine a non seulement qualifié l’intervention de Mme Clinton au sujet des îles Spratly « d’attaque », mais a aussi organisé des manœuvres navales non prévues en mer Jaune avant les exercices conjoints américano-coréens.

Le théâtre géostratégique de la mer de Chine

La mer de Chine méridionale devient ainsi un théâtre géopolitique parmi les plus critiques de la planète. En effet, se superposent ici les projections d’influence de la Chine à caractère expansif et le rôle régional des États Unis à caractère défensif. Les premières remettent en cause la stabilité régionale, le deuxième préfigure un « soft-containement » d’un type nouveau. A partir du discours d’Obama à Tokyo en novembre 2009, la politique de la nouvelle Administration américaine vise à définir les États Unis comme « une nation du Pacifique ». Cette déclaration, énoncée dans le but de « renouveler le Leadership américain dans le monde », s’adresse non seulement aux alliées historiques de la région, mais également aux pays de l’ASEAN (The Association of Southeast Asian Nations). L’ASEAN constitue un Forum Stratégique de toute première importance pour la stabilité, la paix et le développement économique en Éxtrême Orient et les USA ont demandé d’y adhérer. Dans une perspective de mouvement de l’échiquier asiatique, l’activisme chinois en politique étrangère influence en profondeur les enjeux stratégiques des principaux acteurs régionaux dans la mer de Chine méridionale, dont les ressources naturelles sont disputées par Taïwan, les Philippines, la Malaisie, l’Indonésie, Brunei, Singapour et le Vietnam.

Cette zone est désormais inclue, d’après le New York Times, dans le périmètre des « intérêts vitaux » de la Chine au même titre que le Tibet et Taïwan, et ceci bien qu’aucune déclaration officielle n’ait fait étalage de cette position. La superposition de deux zones d’influence chino-américaine sur le même espace a été confirmée par la Secrétaire d’État, Mme Hillary Clinton à Washington, le 23 juillet 2010, lors d’une déclaration dans laquelle elle a fait référence à des « intérêts nationaux » des États-Unis concernant la liberté de navigation et les initiatives de « confidence building » des puissances de la région à l’encontre d’une prétendue « Doctrine Monroe » chinoise dans la mer de Chine méridionale. Une partie des pays du Sud-Est comptent, de manière explicite, sur la présence des États-Unis pour contre-balancer l’activisme chinois. Rien ne serait plus dangereux pour la politique étrangère de Kung-Chuô, qu’un pareil alignement sur les déclarations américaines, car la Chine n’a aucun intérêt à l’internationalisation de litiges concernant les eaux territoriales. Or le Linkage entre la mer de Chine méridionale et la façade maritime du Pacifique est inscrite dans l’extension des intérêts de sécurité chinois.A travers les mers du sud et les détroits, transite 50% des flux mondiaux d’échange, ce qui fait de cette aire maritime un théâtre de convoitises et de conflits potentiels, en raison des enjeux géopolitiques d’acteurs comme la Corée du Sud et le Japon qui constituent des géants manufacturiers et des pays dépendants des exportations.Une des clés de lecture de cette interdépendance entre zones géopolitique à fort impact stratégique est le développement des capacités navales, sous-marines et de surface, de la flotte chinoise.

L’importance des routes maritimes eurasiatiques

L’importance stratégique des routes maritimes eurasiatiques pour l’économie de l’Europe est grandissante, compte-tenu de l’accéleration de l’industrialisation et du développement commercial de la Chine, de l’Inde et de la Corée du Sud. Parmi les 15 plus grands partenaires de l’UE, 7 d’entre eux (Chine, Japon, Corée du Sud, Inde, Taïwan, Singapour et Arabie Saoudite) sont situés le long de la côte eurasiatique. Le volume d’importation de l’UE via ces pays est passé de 268.3 milliards d’euros en 2003 à 437.1 milliards d’euro en 2007. Par ailleurs, 90 % du commerce maritime de l’UE passe par les voies maritimes, alors que le commerce maritime avec l’Asie constitue 26.25% du total du commerce maritime transcontinental.

Les points de choc et les flash point stratégiques

En raison des risques d’interruption d’approvisionnement en énergie, et plus particulièrement en gaz (comme cela a été le cas plusieurs fois ces dernières années dans la crise du gaz entre la Russie et l’Ukraine), l’UE doit compter sur une diversification croissante des routes énergétiques d’approvisionnement. Il en est ainsi également du commerce maritime cargo dans le cadre des relations commerciales entre l’Europe et l’Asie, lequel doit emprunter des routes maritimes instables et des zones maritimes côtières de Suez à Shangai. Les navires de commerce doivent suivre des routes maritimes qui longent le continent africain, à travers l’océan Pacifique et l’océan atlantique, en passant par des zones géographiques précaires appelées points de frottements. Elles peuvent être définies comme des chaînes. Les navires pétroliers européens qui s’approvisionnent au Moyen-Orient passent par le détroit d’Hormuz, alors que les produits manufacturés d’Asie du Sud -est passent par le détroit de Malacca. Tous les pavillons européens doivent passer par le tunnel maritime stratégique du canal de Suez et de Bab-el Mandeb et le Golfe d’Aden. La localisation géographique de ces points stratégiques, tout près de la corne de l’Afrique, du Moyen-Orient et de l’Asie du sud-est, est d’autant plus sensible dans le contexte d’embrasement du monde arabe et d’intervention occidentale en Libye.

Vers un projet eurasiste pluri-océanique

L’Europe devra prendre conscience de l’importance stratégique des zones maritimes eurasiennes et asiatiques, moyen-orientales et indo-océaniques, et plus particulièrement celles qui se trouvent au carrefour du canal de Suez et de Shangaï, non seulement pour la croissance de son économie mais aussi pour la sécurité militaire et commerciale de sa profondeur continentale euro-sibérienne. Aujourd’hui, la majeure partie des zones eurasiennes côtières à risque est sécurisée par la flotte américaine, mais la dépendance de l’Europe à l’égard des États- Unis sur le plan stratégique et militaire ne fera qu’accroître à long-terme sa faiblesse stratégique commerciale et géopolitique. Le développement d’une stratégie eurasiatique maritime pluri-océanique (avec le développemnt des capacités de frappe et de défense navales appropriées) dans la zone située entre Suez et Shangai, le renforcement d’une géopolitique multipolaire et des partenariats privilégiés avec la Chine, la Russie, l’Inde, Le Brésil, l’Afrique puissances multipolaires émergentes, constituent les véritables défis géostratégiques de l’Europe-puissance de demain.

La dialectique atlantisme/eurasisme, dont les néo-eurasiens actuels font usage dans leurs polémiques anti-américaines, oublie que l’Amérique ne tient pas sa puissance aujourd’hui de sa maîtrise de l’Atlantique, océan pacifié où ne se joue pas l’histoire qui est en train de se faire, mais de son retour offensif dans l’Océan du Milieu, ce qui illustre bien la concentration de ces capacités opérationnelles maritimes en mer de Chine. L’atlantisme ne saurait se réduire à la seule maîtrise des Açores, petit archipel portugais au centre de l’Atlantique, car il ne faut pas oublier que ce qui a précipité la désagrégation de l’URSS, puissance eurasienne, c’est la maîtrise de Diego Garcia, île au centre de l’Océan Indien, d’où partiront plus tard les forteresses volantes pour bombarder l’Afghanistan et l’Irak. La présence de l’Amérique à Diego Garcia est en contradiction avec les intérêts de l’Europe puissance et de la Russie et leurs possibilités de s’ouvrir demain des fenêtres sur les espaces orientaux où se joue le destin du monde.

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dimanche, 07 août 2011

La contesa geopolitica sino-statunitense

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La contesa geopolitica sino – statunitense

Giacomo Giabellini
 
Ex: http://www.eurasia-rivista.org/ 

 

Che la prorompente ascesa di svariati paesi abbia assestato un duro colpo all’assetto mondiale incardinato sull’unipolarismo statunitense è un fatto che pochi oseranno contestare.

La resurrezione della Russia sotto l’autoritaria egida di Putin affiancata all’affermazione della Cina al rango di grande potenza costituiscono i due principali fattori destabilizzanti in grado di ridisegnare i rapporti di forza a livello internazionale.

 

Se la Russia, tuttavia, ha potuto contare sulla monumentale eredità sovietica, la Cina ha fatto registrare un progresso politico ed economico assolutamente straordinario.

 

Il lungimirante progetto di ristrutturazione messo a punto in passato da Deng Xiao Ping ha inoppugnabilmente svolto un ruolo cruciale nell’odierno riscatto cinese e tracciato un solco profondo entro il quale sono andati a collocarsi tutti i suoi successori, da Jang Zemin a Hu Jintao, passando per Jang Shangkun.

 

Come tutti i paesi soggetti a forte sviluppo economico, la Cina si trova a dover soddisfare una crescente seppur già esorbitante domanda di idrocarburi.

 

Per farlo, è costretta ad estendere la propria capacità di influenza ai paesi produttori Medio Oriente e a quelli dell’Africa orientale attraverso i territori dell’Asia centrale e le vie marittime che collegano il Golfo Persico al Mar Cinese Meridionale.

 

In vista di tale scopo, la diplomazia cinese ha escogitato una efficace strategia diplomatica imperniata sul principio della sussidiarietà internazionale e profuso enormi sforzi per dotarsi di un esercito capace di sostenere gli ambiziosi progetti egemonici ideati dal governo di Pechino.

 

L’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai – che raggruppa Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tajikistan, e Uzbekistan e che annovera Iran, Pakistan, India e Mongolia in qualità di osservatori – patrocinata dalla Cina ha promosso una partnership strategica tra i paesi aderenti ad essa atta a favorire un’integrazione continentale in grado di far ricadere cospicui vantaggi su tutto l’insieme.

 

In aggiunta, va sottolineato il fatto che è in fase di consolidamento l’asse Mosca – Pechino nello scambio tra armamenti e petrolio.

 

La Cina acquista gran parte delle proprie forze militari dalla Russia dietro congrui conguagli e costituisce il primo cliente per il mercato bellico russo.

 

Caldeggia la realizzazione di una pipeline che attinga dai giacimenti russi e faccia approdare petrolio ai terminali cinesi, trovando però l’opposizione della Russia, incapace di far fronte tanto alla domanda cinese quanto a quella europea.

 

In compenso, Mosca sostiene la realizzazione del cosiddetto “gasdotto della pace”, un corridoio energetico finalizzato a far affluire il gas iraniano in territorio cinese attraverso Pakistan ed India, in grado di orientare gli idrocarburi iraniani verso est e consentendo in tal modo alla Russia di assestarsi su una posizione assolutamente dominante ed incontrastata sul solo mercato europeo.

 

Ruggini vecchie e nuove hanno impedito la rapida realizzazione dei progetti in questione portando il governo di Pechino ad individuare soluzioni alternative.

 

Non a caso, uno dei grandi scenari in cui si gioca attualmente la partita tra gli Stati Uniti in declino ma decisi a vender cara la pelle e la rampante Cina in piena ascesa economica è l’Africa, che grazie alle sue immense risorse di idrocarburi (e materie prime) costituisce l’oggetto del desiderio tanto dell’una quanto dell’altra potenza.

 

La Storia insegna sia che la scoperta di giacimenti di idrocarburi nelle regioni povere costituisce il reale movente dei conflitti che vedono regolarmente fazioni opposte combattere aspramente, quasi sempre a danno della popolazione, per garantirsene il controllo sia che dietro di esse si celano direttamente o indirettamente quelle grandi potenze interessate ad estendere la propria egemonia geopolitica.

 

Sudan, Nigeria, Congo, Angola, Yemen, Myanmar (l’elenco è sterminato).

 

La penetrazione di Pechino in Africa è proceduta gradualmente, ma il consolidamento di essa è stato reso possibile solo grazie ai passi da gigante fatti registrare dalla marina cinese.

 

Dietro suggerimento dell’influente ammiraglio Liu Huaqing, il governo di Pechino aveva infatti sostenuto il progetto riguardante l’adozione di sottomarini classe Kilo e di incrociatori classe Sovremenniy, oltre al potenziamento dei sistemi di intelligence e delle tecnologie militari necessarie a supportare una flotta efficiente ed attrezzata di tutto punto per fronteggiare qualsiasi tipo di minaccia.

 

Il Primo Ministro Hu Jintao e suoi assistenti di governo hanno inoltre potuto approfittare della risoluzione ONU di fine 2008 finalizzata alla repressione della pirateria del Corno d’Africa per insinuare la propria flotta fino al Golfo Persico e al largo del litorale di Aden, don licenza di sconfinare in aperto Mediterraneo attraverso il Canale di Suez.

 

La pirateria, ben supportata dal caos politico che governa la Somalia, in questi ultimi anni ha esteso consistentemente il proprio raggio d’azione arrivando a lambire le coste dell’Indonesia e di Taiwan ad est e del Madagascar a sud.

 

Ciò ha effettivamente sortito forti ripercussioni sui traffici marittimi internazionali, portando circa un terzo delle cinquemila imbarcazioni commerciali che transitavano annualmente per quella via a propendere per il doppiaggio del Capo di Buona Speranza pur di evitare di imboccare il Canale di Suez.

 

Ciò ha comportato un dispendio maggiore di denaro dovuto alla dilatazione dei tempi di trasporto e rafforzato le ragioni della permanenza della flotta cinese lungo le rotte fondamentali.

 

Tuttavia l’opera di contrasto alla pirateria – sui cui manovratori e membri effettivi ben poca luce è stata fatta – si colloca in un piano del tutto secondario nell’agenda cinese, interessata prioritariamente ad assumere il controllo delle rotte marittime fondamentali e dei paesi che si su di esse si affacciano.

 

Di fondamentale importanza a tale riguardo risultano gli stretti di Malacca e Singapore, specialmente in forza della quantità di petrolio che vi transita, ben tre volte superiore a quella che transita attraverso il Canale di Suez.

 

Circa quattro quinti dei cargo petroliferi provenienti dal Golfo Persico destinati alla Cina passa per lo Stretto di Malacca, mentre gran parte di quelli diretti al Giappone passano per quello di Singapore.

 

E’ interessante notare come, di converso, gli Stati Uniti e i loro alleati abbiano agito pesantemente per destabilizzare i paesi che costituiscono l’asse portante della strategia cinese.

 

La secessione del Sudan del Sud dal governo centrale di Khartoum ha minato l’integrità della Repubblica del Sudan privandola dell’area ricca di petrolio e compromettendone gran parte degli introiti legati alle esportazioni.

 

Nel fomentamento dei dissidi si è intravista la mano pesante di Israele, che per ammissione dello stesso ex direttore dello Shin Bet Avi Dichter aveva sostenuto attivamente le forze indipendentiste del sud.

 

Un’operazione atta a privilegiare le etnie e le tribù meridionali invise alla preponderanza araba del resto del paese, che segna una logica soluzione di continuità rispetto alla classica strategia antiaraba propugnata da Tel Aviv, interessata costantemente a stringere legami con i paesi regionali non arabi.

 

Gli Stati Uniti, dal canto loro, avevano rifornito di aiuti i paesi limitrofi al Sudan affinché sovesciassero il governo centrale di Khartoum fin dall’era Clinton, mentre attualmente si sono “limitati” a stanziare corpose iniezioni di denaro a contractors privati incaricati di addestrare le frange secessioniste.

 

La Cina era il principale sponsor del presidente sudanese Omar Hassan El Bashir, con il quale erano stati regolarmente barattati tecnologie, armamenti e infrastrutture in cambio di petrolio.

 

Un altro paese fortemente destabilizzato in relazione alla sua posizione strategicamente cruciale è lo Yemen, cui gli Stati Uniti hanno richiesto con insistenza la concessione dell’isola di Socotra per installarvi una base militare che, se unita alla Quinta Flotta stanziata nel vicino Bahrein, formerebbe la principale forza militare dell’intero Golfo Persico.

 

L’isola si situa a metà strada tra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano ed occupa una posizione che coincide con il crocevia delle rotte commerciali che collegano il Mediterraneo, mediante il Canale di Suez, al Golfo di Aden e al Mar Cinese Meridionale.

 

Myanmar è stato invece oggetto di una vera e propria rivoluzione colorata, quella “color zafferano” che deve il suo nome al colore delle vesti indossate dai monaci buddhisti protagonisti delle rivolte antigovernative.

 

Non è un segreto che la giunta militare guidata dall’enigmatico generale Than Shwe si sia resa responsabile di efferatezze che la rendono difficilmente difendibile, ma siccome gli stati non hanno mai conformato il proprio operato alle tavole della legge morale non stupisce che il sostegno statunitense accordato alle frange rivoltose non abbia nulla a che vedere con la tutela dei diritti umani, ma risponda a ben precisi obiettivi geopolitici.

 

Il dominio degli stretti di Malacca e Singapore consente infatti di esercitare un controllo diretto sugli approvvigionamenti energetici destinati alla Cina.

 

La Cina ha però effettuato le proprie contromosse, fornendo il proprio appoggio politico all’isolato governo di Rangoon e raggiungendo con esso accordi commerciali e diplomatici di capitale importanza strategica.

 

Pechino ha rifornito la giunta militare al potere di armamenti e tecnologie militari, ha stanziato fondi sostanziosi per la costruzione di numerose infrastrutture come strade, ferrovie e ponti.

 

In cambio, ha ottenuto il diritto di sfruttare i ricchi giacimenti gasiferi presenti sui fondali delle acque territoriali ex birmane oltre a quello di dislocare le proprie truppe e di installare basi militari nel territorio del Myanmar.

 

Alla luce dei fatti, risulta che il Myanmar corrisponda a un segmento fondamentale del “filo di perle” concepito da Pechino, l’obiettivo strategico che prevede l’installazione di basi militari in tutti i paesi del sud – est asiatico che si affacciano sull’oceano indiano.

 

Tale obiettivo è oggettivamente favorito dall’evoluzione dei rapporti tra Pakistan e Stati Uniti, in evidente rotta di collisione.

 

Islamabad ha mal digerito tanto le accuse di connivenza con il terrorismo rivolte ai propri servizi segreti (ISI) quanto le sortite unilaterali compiute dai droni statunitensi in territorio pakistano e ha giocato sulla centralità mediatica di cui è stato oggetto il poco credibile blitz che avrebbe portato all’uccisione di Osama Bin Laden per esternare pubblicamente la propria ferma protesta nei confronti dell’atteggiamento di Washington, che ha a sua volta replicato aspramente per bocca del Segretario alla Difesa Robert Gates e poi  per il suo successore Leon Panetta.

 

Ciò ha spinto Pechino a scendere in campo al fianco del Pakistan, suscitando il plauso del Presidente Ali Zardari.

 

Tuttavia le relazioni tra Cina e Pakistan erano in fase di consolidamento da svariati mesi e hanno prodotto risultati letteralmente allettanti.

 

La realizzazione del porto sia civile che militare di Gwadar, dal quale è possibile dominare l’accesso al Golfo Persico,  è indubbiamente il più importante di essi.

 

Il progetto in questione comprende inoltre la costruzione di una raffineria e di una via di trasporto in grado di collegare lo Xinjiang al territorio pakistano.

 

Un valore aggiunto al porto di Gwadar  è già stato inoltre conferito dall’intesa raggiunta con Islamabad e il governo di Teheran relativa alla realizzazione di un corridoio energetico destinato a far approdare il gas iraniano ai terminali cinesi.

 

In tal modo  lo sbocco portuale di Gwadar promette di divenire una dei principali snodi commerciali per l’energia iraniana, attirando Teheran verso l’orbita cinese e consentendo quindi al governo di Pechino di inanellare un’ulteriore gemma alla propria “collana di perle”.

 

 

 

La chiara vocazione eurasiatica del progetto cinese ha ovviamente suscitato forti preoccupazioni presso Washington, che non mancherà di lastricare di mine la nuova “via della seta” finalizzata a compattare il Vicino e Medio Oriente all’Asia orientale e suscettibile di sortire forti contraccolpi sulla politica energetica europea, destinata a legarsi indissolubilmente alla Russia.

 

mercredi, 01 juin 2011

Le face à face russo-chinois

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Le face à face russo-chinois : le « vide » sibérien face « au trop plein » chinois

par Marc ROUSSET

La Russie coopère avec la Chine dans le cadre de l’Organisation de coopération de Shanghaï (O.C.S.) qui vise à empêcher toute incursion de l’O.T.A.N. (ou des États-Unis seuls) en Asie centrale. Mais parallèlement, Moscou est très préoccupée de la montée en puissance de la Chine avec qui elle partage 4 300 km de frontières communes. La Russie ne peut oublier que les seules invasions  du territoire russe qui  aient réussi venaient toujours de l’Est. Moscou est donc de facto très ouvert à toute coopération européenne qui lui permet d’accroître l’encadrement international de la puissance chinoise émergente et également de renforcer sa capacité à défendre les richesses et le potentiel économique de la  Sibérie, l’enjeu du XXIe siècle entre la Grande Europe de Brest à Vladivostok et la Chine.

J’ai à maintes reprises demandé aux puissances occidentales de ne pas identifier le communisme soviétique à la Russie et l’histoire de la Russie »  a pu dire Alexandre Soljenitsyne. La Russie est en fait la sentinelle de l’Europe face à la Chine et à l’Asie centrale. L’Europe doit se considérer  comme l’« Hinterland » de la Russie  et voir dans la Sibérie  le « Far East » de la Grande Europe. L’Europe ne va pas de Washington à Bruxelles, mais de Brest à Vladivostok. En Sibérie, en Asie centrale, l’Européen, c’est le Russe ! Ces thèmes ont été abordés dans mon ouvrage La Nouvelle Europe Paris-Berlin-Moscou. Il est donc  intéressant de s’interroger sur ce que certains ont appelé le « péril jaune » pour le monde européen, suite au déséquilibre structurel démographique entre la Chine et la Russie et au « vide sibérien » face au « trop plein » chinois.

La démographie chinoise

La population de la République populaire  de Chine s’élevait fin  2010  à 1 341 000 000 d’habitants. Si l’on y rajoute Hong Kong, Macao et Taïwan, la population de la Chine est la plus grande du monde et  s’élève à 1 370 000 000 d’habitants, soit plus du cinquième de l’humanité.

La baisse rapide de la mortalité et le retard du contrôle des naissances sous  Mao Tsé-Toung, encourageant un temps les Chinois à procréer une armée de « petits soldats » ont contribué à une forte croissance démographique. En 1953, la Chine totalisait seulement 582 000 000 habitants.

Toutefois, selon les dernières projections démographiques de l’O.N.U. (2008), la population chinoise pourrait ne jamais atteindre 1 500 000 d’habitants, plafonnant à 1 460 000 000 en 2035 avant d’amorcer une décroissance. La politique de l’enfant unique pratiquée par la Chine depuis 1979 sur la décision de Deng Xiao-Ping a porté ses fruits : quatre cents millions de naissances auraient été évitées en vingt-cinq ans. Le taux de fécondité a atteint une moyenne de 1,77 enfant par femme entre 2005  et 2010 quand il était de 4,77 entre 1970 et 1975 et déjà de 2,93 enfants par femme en moyenne les cinq années suivantes.

Il faut bien mesurer les limites de la politique de l’enfant unique. Dès sa mise en place, la loi obligeant tous les Chinois mariés à n’avoir qu’un seul enfant a été battue en brèche par deux exceptions  de taille : les couples de paysans avaient droit à deux enfants si le premier s’avérait être une fille, et les ethnies non Han n’étaient pas soumises à la loi car menacées puisque minoritaires. D’autre part, seules les zones urbaines et les six provinces relevant du pouvoir central ont été soumises à la loi de l’enfant unique. Cet ensemble constitue 35 % seulement de la population chinoise totale. La totalité de la Chine a donc, en réalité, 1,47 enfant par couple.

En 2002, une loi autorisait un couple à avoir plusieurs enfants moyennant une taxe de six cents euros par enfant supplémentaire. Depuis juillet 2007, le gouvernement central autorise les couples composés de deux enfants uniques à avoir, eux-mêmes, deux enfants. Une ville comme Shanghaï, dont le niveau de vieillissement de la population est l’un des plus élevé du pays, est allée plus loin en 2009. Elle encourage les couples à avoir deux enfants en supprimant notamment les aides sociales allouées jusque là aux couples sans enfants.

Le gouvernement chinois aurait ainsi tendance à assouplir la politique de l’enfant unique. La Chine est tiraillée entre deux maux, surpopulation et déséquilibre entre les sexes, vieillissement de la population provoqué par un faible taux de la natalité. Les plus de 65 ans étaient cent millions en 2008; ils seront trois cent quarante millions en 2050, soit près de 25 % de la population. La réalité compliquée de la question démographique chinoise ne préjuge pas de ce que décidera finalement le gouvernement chinois. Un fait structurel et objectif  demeure : il y aura toujours plus d’un milliard de Chinois au Sud de la Sibérie. Le déséquilibre  structurel démographique de l’ordre de 1 à 10 avec la Russie est d’autant plus préoccupant que, comme le disait Aristote, « la nature a horreur du vide ».

Évolution et perspectives de la démographie russe

Le  début du déclin démographique russe coïncide avec l’arrivée de  Gorbatchev au pouvoir (1985 – 1991), c’est-à-dire avec la mise en place de la Perestroïka suivie de l’effondrement du système soviétique. En 1990, la Russie comprenait cent quarante-neuf millions d’habitants, cent quarante-cinq millions d’habitants en 2001 et cent quarante-deux millions en 2007, soit sept millions d’habitants en moins de vingt ans, un rythme de croisière de disparition du peuple russe de 400 000 citoyens de moins chaque année. En fait, le rythme de disparition était d’environ   800 000  habitants par an car, depuis la fin de l’U.R.S.S., 400 000 Russes ont quitté chaque année les ex-républiques soviétiques pour la mère patrie.

Au début des années 2000, selon Boris Revitch du Centre de démographie russe, l’espérance de vie était de 59 ans pour un homme à la naissance, soit vingt ans de moins qu’en Europe occidentale, pour plusieurs raisons : l’alcoolisme (34 500 morts par an), le tabagisme (500 000 morts par an), les maladies cardio-vasculaires (1 300 000 de morts par an), le cancer (300 000 morts par an), le S.I.D.A., les accidents de la route (39 000 morts par an), les meurtres (36 000 morts par an), les suicides (46 000 décès par an), la déficience du système de santé qui faisait la fierté de l’U.R.S.S. et qui était devenue une catastrophe sanitaire avec, par exemple, une mortalité infantile (11 pour 1000), deux fois plus élevée que dans l’U.E.

Tandis que de plus en plus de Russes mouraient, de moins en moins naissaient. À la fin des années 1990, il y avait au minimum trois millions d’I.V.G. par an en Russie, pour un million de naissances, avec un taux de fécondité tombé au plus bas en 1999 à 1,16 enfants par femme. L’habitat trop exigu dans les grands immeubles du système soviétique contribuait  à la nouvelle habitude de l’enfant unique.

Dans son discours au Conseil de la Fédération en mai 2006, le président Poutine a confirmé la mise en place d’une politique nataliste par son bras droit Dimitri Medvedev, en aidant les jeunes couples à faire un second, voire un troisième enfant. Une batterie de mesures a été prise pour aider à la natalité. Les plus importantes sont des primes financières de l’État, des avantages fiscaux, mais aussi des aides au crédit et au logement. Les résultats  du plan Medvedev couplés avec une politique migratoire  de Russes de l’ex-U.R.S.S. et de nombreux Ukrainiens ont été fulgurants. La population a décru de 760 000 habitants en 2005, 520 000 habitants en 2006, 238 000 en 2007, 116 000 en 2008. En 2009 avec 1 760 000 naissances, 1 950 000 décès, 100 000 émigrants et 330 000 naturalisations, la population russe a augmenté pour la première fois depuis quinze ans de quelque 50 000 habitants. Le taux de fécondité de 1,9 enfant par femme en 1990, tombé à 1,1 enfant par femme en 2000 était remonté à 1,56 enfants par femme en 2009, soit un taux similaire à celui de l’Union européenne de 1,57 enfants  par femme. Bien que le nombre d’avortements ait diminué, on recensait encore en 2008 1 234 000 avortements  pour 1 714 000 naissances.

D’ici à  2050,  la démographie russe  va donc être soumise à deux forces contradictoires : d’une part, la politique nataliste gouvernementale, l’opinion publique hostile à l’immigration non russe, la construction en plein essor, les améliorations en matière d’éducation, d’agriculture et de santé (les quatre « projets nationaux »), le retour aux valeurs traditionnelles, à la religion orthodoxe et d’autre part l’effet d’hystérésis, suite à la chute de l’U.R.S.S., qui correspond à un rétrécissement structurel de la strate de population en âge de procréer (1), les influences néfastes de l’Occident et de sa « culture de mort » (libéralisation de la contraception, de l’avortement, de l’homosexualité, féminisme et travail des femmes, regroupement des populations dans les métropoles, destruction des petits agriculteurs, allocations familiales attribuées de plus en plus aux populations immigrées)

Trois prévisions démographiques majeures ont été envisagées pour l’année 2030 en 2010 par le Ministère russe de la Santé.

Selon une prévision estimée mauvaise, la population devrait continuer à baisser pour atteindre 139 630 000 en 2016 et 128 000 000 d’habitants en 2030. Le taux d’immigration resterait « faible »  autour de 200 000 par an pour les vingt prochaines années.

Selon une prévision estimée moyenne, la population devrait atteindre 139 372 000 habitants en 2030. Le taux d’immigration serait contenu à 350 000 nouveaux entrants par an.

Selon une prévision haute, la population devrait augmenter à près de 144 000 000 habitants en 2016 et continuer à augmenter jusqu’à 148 000 000 en 2030. Le taux d’immigration serait plus élevé dans  cette variante, soutenant la hausse de la population et avoisinerait les 475 000 nouveaux entrants par an. Sur vingt ans, on arriverait à une « immigration » équivalente à 8 % de la population du pays. Celle-ci serait principalement du Caucase et de la C.E.I., soit  des  populations post-soviétiques, russophones dont des communautés sont déjà présentes en Russie, et donc pas foncièrement déstabilisantes.

Pour l’année 2050, il nous paraît bien difficile pour ne pas dire impossible de se prononcer. Il semble donc plus raisonnable de retenir pour l’année 2050 dans les  prévisions 2006 de l’O.N.U. (2), le point haut de 130 millions d’habitants, la prévision de l’O.N.U. étant de 107 800 000 habitants avec un point bas de 88 000 000 habitants.

L’enjeu de la Sibérie

Sibérie tient son nom de la petite ville de Sibir. L’étymologie du mot est incertaine, mais le terme pourrait provenir du turco-mongol sibir désignant un peuplement très dispersé. La Sibérie est la partie asiatique de la Fédération de Russie : une immense région  d’une surface de 13 100 000 km2 (environ vingt-quatre fois la surface de la France) très peu peuplée (39 000 000 habitants soit environ 3 habitants au km2). Cette partie Nord de l’Asie représente 77 % de la surface de la Russie, elle-même deux fois plus grande que les États-Unis, mais seulement 27 % de sa population.

La Sibérie a les plus grandes forêts de la planète. L’intérêt économique majeur réside dans les richesses de son sous-sol, de pétrole et de gaz qui pourraient aller jusqu’au pôle Nord où la Russie a planté son drapeau par plus de 4 000 m de fond en juillet 2007. La Sibérie fournit de l’hydro-électricité et du charbon avec de riches bassins tels que celui du Kouzbass. Grâce à la Sibérie, avec cinq cents années de réserve, la Russie est le deuxième producteur mondial de charbon derrière les États-Unis. La Sibérie possède des gisements d’argent, d’or, d’uranium, de cuivre, de titane, de plomb, de zinc, d’étain, de manganèse, de bauxite, molybdène, de nickel… Un diamant sur quatre extrait dans le monde provient de Sibérie. Le réchauffement climatique ouvre la perspective d’exploitation d’autres immenses ressources en hydrocarbures. Moscou va être un acteur de premier plan dans la pièce qui va se jouer pour les ressources naturelles, la science et le transit maritime du XXIe siècle dans le Grand Nord.

La Sibérie d’aujourd’hui : un avant-poste des Européens face à la Chine

La Moscovie s’est construite contre les vagues déferlantes tartares et s’est toujours représentée comme une forteresse érigée au cœur d’un océan de plaines immenses et sans bornes. Les Russes ont colonisé la Sibérie, le Caucase et l’Asie centrale parce qu’ils étaient obligés de le faire. La Russie a connu pendant deux siècles le joug tartaro-mongol. La colonisation russe correspondait à des impératifs vitaux pour sa survie, à l’obligation géopolitique de trouver des frontières naturelles dont elle était dépourvue et qui était indispensable à sa protection. L’expansionnisme russe, contrairement à celui de l’Europe occidentale, était défensif et structurel.

Si les savants ont déclaré solennellement le paisible Oural au paysage ondulé, dont la pente ne devient raide que dans le nord, loin de la toundra, comme une ligne de démarcation entre l’Asie et l’Europe, les autochtones, eux, le considèrent comme une ligne de partage des eaux couverte de forêt, et rien de plus.

Les Russes se souviennent de Yermak comme d’un aventurier cosaque aussi remarquable que Magellan, d’un conquistador aussi intrépide que Cortez, car ce fut Yermak qui conduisit la première mission réussie dans la mystérieuse Sibérie, et qui inspira aux Russes l’idée de repousser leurs frontières de 6 200 km plus à l’Est, jusqu’à la côte asiatique du Pacifique. Trois fois dans l’histoire, la Sibérie fut traversée par des conquérants : par les hordes de cavaliers d’Attila et de Gengis Khan puis, en sens inverse, par le millier d’hommes de Yermak. C’est en 1558 qu’Ivan IV le Terrible accorde des privilèges d’exploitation des territoires situés à l’Est de l’Oural aux Stroganov, équivalents des Fugger, à la recherche de fourrures. Un  mouvement est lancé qui conduira les cosaques sur les rives du Pacifique en 1639 (et même plus tard en Alaska). Tandis que Français et Allemands se disputaient quelques lambeaux de territoire en Italie et aux Pays-Bas, une poignée de cavaliers navigateurs explorateurs parcourait une étendue vaste comme vingt fois la France ou l’Allemagne, plusieurs centaines de fois l’Alsace, la Flandre ou le Milanais. À la fin du XVIIIe siècle, la Russie a conquis la Sibérie. Ce territoire reste aujourd’hui  vide même si l’une des principales retombées du Transsibérien fut l’augmentation substantielle de la migration vers l’Est de l’Empire russe. 3 800 000 personnes émigrèrent vers la Sibérie entre 1861 et 1914 et contribuèrent à la russification des populations indigènes de Sibérie. Sans le Transsibérien, ces populations auraient émigré vers l’Amérique. La Sibérie  ne comptait  que 1 500 000 habitants en 1815, dix millions en 1914 et vingt-trois millions en 1960.

La nécessité de l’espace : une vérité qui n’est plus reconnue

Que depuis toujours la politique soit une lutte pour l’espace, pour acquérir une base, une place, que l’espace constitue l’alpha et l’oméga de toute vie, que la politique, la science, le commerce ne sont rien d’autre que l’acquisition de cet espace, voilà une vérité qui n’est plus reconnue.

Un avantage évident revient à qui, outre sa technicité, dispose aussi des matières premières nécessaires. Qui n’a que sa technique à offrir et doit importer les matières premières est désavantagé. C’est l’indépendance à long terme que de pouvoir se nourrir des produits de sa terre, que d’exploiter ses propres matières premières indispensables à la vie et à la protection, que de pouvoir se défendre avec des armes conçues et fabriquées chez soi. La certitude de pareils avantages, c’est un espace suffisamment grand qui la confère, si l’on s’en tient à l’exemple américain. A contrario, le Japon redeviendra à terme le vassal de la Chine simplement en raison du manque d’espace et donc de sa plus faible population  par rapport à son futur suzerain.

L’espace contient tout ce dont nous avons besoin, même l’air que nous respirons et l’eau qui nous désaltère. Il constitue donc le bien suprême. Plus d’espace, c’est plus d’oxygène, plus de pain, plus de rivières et de forêts, plus de terrain pour bâtir sa maison, plus de terre pour les jardins, plus de possibilités de repos, plus de distance d’homme à homme, une sphère privée élargie pour chacun, plus d’occasions de fuir les bruits et l’intoxication des villes, plus de calme pour penser, élaborer des projets, travailler, rêver, réfléchir. C’est accroître tout ce qui rend la vie digne d’être vécue et qui, hélas, se fait de plus en plus rare. Renoncer à l’espace, c’est renoncer à la vie.

L’Eurasie, du Pacifique à la Baltique, peut contenir plus d’hommes que le territoire de l’Europe occidentale. Un droit à l’occupation doit donc être reconnu aux peuples européens sur l’espace allant du Sud du Portugal au détroit de Behring, en incluant le Nord-Caucase et la totalité de l’espace sibérien. Sur cet espace, cinq cents millions d’Européens et cent cinquante millions de Russes devraient pouvoir prolonger jusqu’à Vladivostok les frontières humaines et culturelles de l’Europe. Le grand défi de la Sibérie est son trop faible peuplement par trente-neuf millions de Russes avec le risque d’une colonisation rampante par la Chine. La  Sibérie restera-t-elle russe et donc sous le contrôle civilisationnel européen ou deviendra-t-elle chinoise et asiatique ?

Les traités inégaux et l’actuelle frontière entre la Chine et la Russie

En 1689, suite à cinquante ans de confrontations armées inégales numériquement entre les cosaques et les Mandchous, les empires chinois et russe signent le traité de Nertchinsk : la Russie renonce à l’intégralité du bassin de l’Amour. L’empire Qing n’avait jamais occupé ces terres du nord, mais il ne souhaitait pas voir les Russes s’y installer. À partir du  XVIIIe siècle, la Russie cherche cependant à devenir une puissance navale dans l’océan Pacifique; elle encouragea les Russes à venir s’y établir et développe une présence militaire dans la région. La Chine n’avait jamais gouverné réellement la région et les avancées russes passèrent inaperçues. Les habitants de ces territoires n’étaient pour la plupart pas des Hans, mais des Mandchous, des Tibétains ou des Turcs. Au milieu du XIXe siècle, le bassin de l’Amour restait ainsi une terre sauvage où sur un million de km2 ne vivaient pas plus de trente mille personnes.

Mais dans les années 1850, la donne géopolitique a changé, l’Empire chinois est affaibli. En 1842, la Chine, suite à la Guerre de l’Opium, avait cédé Hong Kong par le traité de Nankin. Une nouvelle expédition russe a lieu pour explorer la région du fleuve Amour. En 1858, la Chine doit signer le traité d’Aïgoun, considéré comme un des nombreux traités inégaux avec les puissances occidentales. La Russie prend le contrôle de la rive gauche de l’Amour, de l’Argoun à la mer. « La Russie a réussi à arracher à la Chine un territoire grand comme la France et l’Allemagne réunis et un fleuve long comme le Danube », commentait Engels dans un article. Deux ans plus tard, en même temps que le sac du Palais d’Été par la coalition franco-anglaise, la Russie confirme et amplifie ses gains par la convention de Pékin. Elle obtient la cession de la région de Vladivostok et  Khabarovsk sur les rives droites de l’Amour et de l’Oussouri. Vladivostok qui était un village chinois du nom de Haichengwei « Baie des concombres de la mer » est fondée officiellement en 1860 et signifie « Seigneur de l’Orient ».

La Russie cherche plus tard à contrôler la Mandchourie pour protéger la Sibérie et élargir son ouverture sur l’océan Pacifique. Elle obtient la cession de Port-Arthur (Lüshunkou en chinois). La défaite face au Japon en 1905 ruine cette politique. La Russie renonce à la Mandchourie et doit céder Port-Arthur. Ce dernier retrouvera temporairement la souveraineté soviétique entre 1945 et 1955.

Dans les années 1960, les relations entre la Chine et l’U.R.S.S. se dégradent fortement et MaoTsé-Toung remet en cause les traités signés  au XIXe siècle entre les empires russe et mandchou. À partir de 1963, les incidents frontaliers se multiplient. Dès 1964, le président Mao, dans un discours aux parlementaires japonais, fait allusion aux territoires perdus. Ces tensions aboutissent en 1969 à un affrontement armé pour le contrôle de l’île Damanski sur la rivière Oussouri  qui fait des centaines de morts, en majorité chinois, mais n’aboutit pas à un nouveau tracé. L’U.R.S.S. envisage même de détruire préventivement les installations nucléaires chinoises. Dans les années qui suivent, la situation reste très tendue et n’évolue guère jusqu’aux années 1980.

À partir de 1988, à l’instigation de Mikhaïl Gorbatchev, les relations entre l’U.R.S.S. et la Chine se détendent et les négociations reprennent. Le 16 mai 1991, la Russie et la Chine signent un traité sur les frontières, qui laisse toutefois en suspens le sort de certains petits territoires  disputés. Ces derniers points sont réglés par différents accords signés dans un contexte diplomatique nettement plus détendu. Le dernier traité est signé en 2004. À l’issue de ces règlements, la Chine a réalisé quelques gains territoriaux très mineurs par rapport aux traités antérieurs.

Le résultat final, c’est qu’aujourd’hui la frontière sino-russe est constituée de deux morceaux de longueurs très inégales situés de part et d’autre de la Mongolie. Elle est définie dans son intégralité depuis 2004. Le tronçon de l’Ouest ne mesure que 50 km. Le tronçon de l’Est mesure  4 195 km. C’est la sixième plus longue frontière internationale du monde. L’intégration des territoires frontaliers par les deux empires russe et chinois a été tout à fait différente. Les plaines du Nord-Est de la Chine ont été rapidement peuplées et mises en valeur par des colons chinois dès le début du XIXe siècle. Par contre, le peuplement de l’Extrême-Orient russe par des colons venus de Russie d’Europe a été moins important et beaucoup plus long (3). La différence entre les deux peuplements a donné naissance à une ligne de discontinuité de part et d’autre du fleuve Amour et de la rivière Oussouri : d’un  côté, sept millions de Russes, de l’autre, plus de soixante millions de Chinois vivant dans les provinces frontalières du Jilin et du Heilongjiang. Les manuels d’histoire chinois apprennent aux écoliers que l’Extrême- Orient russe a été pris par la force à La Chine qui a signé les traités sous la menace.

Le danger chinois démographique et économique à court terme en Extrême-Orient et en Sibérie russe

En Russie, l’opinion publique est hostile à l’immigration. Contrairement aux affabulations de l’Occident, même si le « péril jaune » est très réel à terme, plus particulièrement en Sibérie et en Extrême-Orient, il y a à ce jour en Russie, un maximum de 400 000 Chinois, selon Zhanna Zayonchkouskaya, chef de Laboratoire de migration des populations de l’Institut national de prévision économique de l’Académie des Sciences de Russie, et non pas plusieurs millions comme cela a pu être annoncé. Les Russes ont veillé au grain et ont pris des mesures très sévères pour éviter une possible invasion. La seule immigration qui a été favorisée est le rapatriement de Russes établis dans les anciennes républiques soviétiques (Kirghizistan, Kazakhstan, Pays baltes, Turkménistan. ). Des villes comme Vladivostok, Irkoutsk, Khabarovsk, Irkoutsk Krasnoïarsk… et même Blagovetchensk, à la frontière chinoise, sont des villes européennes  avec seulement quelques commerçants ou immigrés chinois en nombre très limité. Une invasion aurait pu avoir lieu en Extrême-Orient dans les années 1990, tant la situation s’était dégradée. Il est à remarquer que les migrants  chinois de l’époque ont profité du laxisme et  de l’anarchie ambiante pour filer à l’Ouest de la Russie. Être clandestin n’est pas aisé aujourd’hui en Extrême-Orient et en Sibérie : la frontière est relativement imperméable; le risque est grand; les hôtels sont sous contrôle étroit; le chaos qui suivit l’éclatement de l’U.R.S.S. est déjà loin.

Il n’en reste pas moins vrai qu’un climat d’hostilité, voire de peur, s’est développé envers les Chinois chez les Russes d’Extrême-Orient qui a été largement utilisé dans le débat russe sur les orientations de politique étrangère (3). En 2001, le XVe congrès du Parti communiste chinois avait décidé d’une stratégie de consolidation de la présence chinoise à l’étranger, en encourageant la population à émigrer. Pékin avait fait savoir à Moscou qu’il n’appuierait sa candidature à l’O.M.C. que contre la promesse de ne pas réglementer l’entrée de la main-d’œuvre chinoise sur le marché du travail russe. Le ministre russe de la Défense, Pavel Grachev, avait pu déclarer : « Les Chinois sont en train de conquérir pacifiquement les confins orientaux de la Russie ». Et, selon un haut responsable russe des questions d’immigration, « nous devons résister à l’expansionnisme chinois ». Le problème est d’autant plus grave, au-delà du taux de la natalité, que la région se vide et que de nombreux Russes repartent  en Russie de l’Ouest. Ces dernières années, la région de Magadan a été délaissée par 57 % de sa population, la péninsule du Kamtchaka par 20 % et l’île Sakhaline par 18 %. La densité moyenne en Extrême-Orient est de 1,2 habitant au kilomètre carré contre une moyenne nationale de 8,5. Bref, selon les prévisions les plus pessimistes, l’Extrême-Orient russe peuplé de 6 460 000 personnes au 1er janvier 2010 pourrait ne compter que 4 500 000 habitants en 2015, contre 7 580 000 au plus haut.

Sur le plan économique, en 2002, selon l’analyste Andreï PIontkovsky, 10 % seulement des échanges  de l’Extrême-Orient russe se faisaient avec les autres régions de Russie. 90 % des achats extra-provinciaux  venaient  de Chine, Corée du sud ou Japon à cause du coût prohibitif du fret aérien ou ferroviaire avec l’Ouest de la Russie. À Vladivostok, Khabarovsk, et à Irkoutsk en Sibérie, la plupart des voitures avaient le volant à droite parce qu’elles venaient  directement du Japon où l’on conduit à gauche. Des  mesures ont été prises tout récemment par les autorités, non sans difficultés, pour favoriser l’achat de voitures  russes et abaisser le coût du fret.

La structure des échanges commerciaux bilatéraux avec la Chine s’est renversée depuis la fin de la guerre  froide. La Russie devient le « junior partner » de la Chine. Dans les exportations russes vers la Chine, les matières premières dominent : produits minéraux (56,4 %) en  2008, principalement pétrole et dérivés; bois et dérivés (15,5 %); produits de la chimie (13,9 %); métaux et dérivés (5,3 %); seulement 4,4 % pour les machines, l’équipement et les moyens de transport. Les exportations chinoises vers la Russie sont, pour l’essentiel, constituées de ces derniers articles(53,9 %), ainsi que de métaux(8,4 %), de produits chimiques (6,8 %) et de textiles (15,1 %). Les autorités russes ne se satisfont visiblement pas de cet état de fait. Le Kremlin n’accepte pas que la Russie devienne un réservoir de matières premières pour la Chine et insiste constamment sur la nécessité de corriger la structure des exportations russes.

La Russie s’efforce aussi d’orienter les investissements chinois de façon à endiguer la désindustrialisation de l’Extrême-Orient russe. Plus globalement, le Kremlin est convaincu que fermer l’Extrême-Orient et la Sibérie à la Chine et à d’autres partenaires étrangers (Corée, Japon, pays d’Asie du Sud-Est ) reviendrait à les condamner à terme, voire à les perdre en les rendant plus vulnérables aux appétits territoriaux d’autres pays de la région, la Chine en premier lieu. En revanche, mettre en concurrence plusieurs pays étrangers dans cette région permet d’espérer qu’aucun d’entre eux « ne parviendra à atteindre l’hégémonie »; de plus, si les relations avec la Chine devaient se détériorer, la Russie aurait acquis la possibilité de défendre plus efficacement ses zones frontalières puisqu’elle les aura mieux développées. Moscou, on le voit, n’écarte pas complètement la perspective d’une réouverture des problèmes territoriaux avec la Chine, malgré le règlement du litige frontalier en 2008 et l’engagement des deux pays, dans leur traité d’amitié et de bon voisinage, à s’abstenir de toute revendication territoriale mutuelle.

Ce  souci russe en Asie orientale apparaît encore plus nettement en Asie centrale. Dans cette région, Moscou ne se sent plus aussi sûr que par le passé de la force de ses moyens d’influence (minorités russes, liens historiques et économiques…). La Chine a considérablement étoffé sa présence économique dans cette zone depuis le début des années 2000 et semble en passe de supplanter la Russie comme premier partenaire commercial des États centre-asiatiques. Face à la force de frappe financière et économique de la Chine, la Russie va-t-elle longtemps pouvoir faire le poids ? Au sein de l’O.C.S., à l’heure de la crise économique globale, c’est Pékin qui a occupé le terrain en consentant aux membres de l’Organisation des prêts d’un montant de dix milliards de dollars. La situation est encore plus grave, aux yeux de Moscou, dans le domaine énergétique : la politique de Pékin va directement à l’encontre de la stratégie du Kremlin, déterminé à contrôler le plus possible les hydrocarbures de la zone Caspienne/Asie centrale afin de conforter ses positions  face aux clients européens. Le lancement, fin 2009, du gazoduc Turkménistan – Ouzbékistan – Kazakhstan – Chine qui s’ajoute à l’oléoduc  kazakho-chinois ne réjouit pas plus la Russie que les tubes Caspienne – Turquie contournant son territoire promus dans les années 1990 par les États-Unis. Au point que certains experts russes estiment que Moscou pourrait être tenté de fomenter des troubles dans le Turkestan oriental pour faire dérailler les accords énergétiques Chine – Asie centrale.

Les visées chinoises inéluctables à moyen terme sur la Mongolie extérieure et à très long terme sur la Sibérie

Le temps n’est plus où la Russie débordait de forces vives, jusqu’à pouvoir sacrifier vingt millions d’hommes dans la lutte contre le nazisme. On comprend mieux pourquoi les responsables russes  continuent de refuser pour le moment de vendre certains matériels de portée stratégique tels que les chasseurs bombardiers de type TU 22 ou TU 95, ou encore des sous-marins de quatrième génération de la classe « Amour » ou « Koursk ». Selon le chancelier Bismarck, « l’important, ce n’est pas l’intention, mais le potentiel » et comme chacun sait, l’histoire n’est pas irréaliste (Irrealpolitik) et  droit-de-l’hommiste, mais réaliste (Realpolitik) et imprévisible.

La montée en puissance de la Chine ne se traduira pas seulement par le remplacement progressif de l’anglo-américain par le mandarin en Asie, mais aussi par des visées territoriales.

L’expansionnisme  nationaliste chinois se  traduit d’une façon forte et brutale pour mater dans l’œuf et empêcher toute velléité de résistance, aussi bien au Tibet qu’au Xinjiang. Le chemin de fer à 6 200 000 dollars qui relie Pékin à Lhassa renforce l’emprise de la Chine sur le Tibet et sa capacité de déploiement militaire rapide contre l’Inde. Il est probable qu’après avoir maintenant récupéré Hong Kong et Macao de façon pacifique et selon les traités, la Chine a déjà et aura comme première préoccupation de rétablir sa souveraineté sur l’île de Taïwan. Avec ses 1 400 missiles pointés vers « l’île rebelle », Pékin a menacé d’écraser sous le feu ses « frères » taïwanais, s’ils devaient proclamer leur indépendance. Dans les faits, la réunification avec Taïwan est bel et bien en marche. Le mandarin est  la langue officielle à Taïwan. Les vols aériens et les communications ont été progressivement rétablis avec le continent. La symbiose est de plus en plus étroite entre les deux économies

Une fois Taïwan sous sa coupe, la Chine cherchera tout naturellement à récupérer la Mongolie extérieure cédée par la Chine à la Russie en 1912 et devenue ensuite une république populaire, puis un État indépendant lors du démantèlement de l’U.R.S.S. « La Chine va d’abord s’occuper de Taïwan, puis ce sera notre tour » a pu dire B. Boldsaikhan, chef politique en Mongolie extérieure du mouvement Dayar Mongol. État de 1 535 000 km2, sous-peuplée avec seulement 2 800 000 habitants, dotée de très riches gisements aurifères et d’uranium, la Mongolie extérieure, pendant de la Mongolie intérieure autonome chinoise, est déjà contrôlée économiquement par les Chinois, quelque 100 000 Russes ayant fait très rapidement leurs valises en 1990. La Mongolie extérieure sera un jour inéluctablement envahie comme le Tibet et, au-delà de quelques protestations américaines, la Chine rétablira en fait une souveraineté légitime historique  sur l’ensemble de la Mongolie qui date de la soumission de la Mongolie aux Mandchous en 1635. Gengis Khan est considéré en Chine comme un héros de la nation chinoise; un mausolée lui a été construit à Ejin Horo, dans la province chinoise de Mongolie intérieure, pour le huit centième anniversaire de sa naissance.

Puis ce sera le tour de l’Extrême-Orient russe. Selon Andreï Piontkovsky, directeur du Centre d’études stratégiques de Moscou, c’est la Chine de l’Orient et non pas l’Occident qui représente la menace stratégique la plus sérieuse pour la Russie. Ces revendications s’inscrivent dans le droit fil du concept stratégique « d’espace vital » d’une grande puissance qui, selon les théoriciens chinois, s’étend bien au-delà de ses frontières.

La Russie et la Chine occupent ensemble un espace géographiquement continu entre la mer Baltique et la Mer de Chine de 26 600 000  km2, habités par 1 400 000 000 personnes. Des  similitudes apparaissent lors de l’analyse de l’histoire de ces deux grands et complexes blocs géopolitiques. Tous deux s’étaient constitués au détriment de l’empire nomade des Mongols, dont la Mongolie enclavée  entre la Chine et la Russie, constitue le dernier vestige, avec la Mongolie intérieure, rattachée à la Chine, et la Bouriatie faisant partie de la Russie. Tous deux possèdent une zone périphérique, peu peuplée et sous-exploitée (la Sibérie et l’Extrême-Orient pour la Russie, le Tibet et le Xinjiang pour la Chine). Cependant, la Chine est plus peuplée que la Russie. Son poids démographique constitue en même temps un atout (le marché  le plus grand de la planète) et un handicap majeur (le pays est surpeuplé et proche de la saturation). Certains spécialistes estiment que le seuil de l’auto-suffisance chinoise se trouve à 1 500 000 000 habitants. En Sibérie et en Extrême-Orient, il y a tout ce qui manque à la Chine : les hydrocarbures, les matières premières et l’espace pour développer l’agriculture. Un paradoxe se dessine,  car  la Russie est un géant géographique et la Chine manque d’espace. Ces deux ensembles géopolitiques sont donc condamnés soit à collaborer, soit à s’affronter. On se rappellera  que le projet communiste a réuni ces deux géants  géopolitiques pendant onze ans. La perspective d’un tel rapprochement était devenue le pire des cauchemars pour les responsables occidentaux et américains.

Le retour de la Russie sur le Pacifique était logique et inévitable. Cependant, avec un déclin démographique, la Russie est-elle capable de mettre seule en valeur la Sibérie ? Il n’est pas suffisant d’avoir une volonté politique, il faut également disposer de moyens. C’est pourquoi l’affrontement paraît à long terme inéluctable. Il est clair que l’O.C.S. n’est qu’une parenthèse tactique pour les deux futurs adversaires afin de mieux pouvoir contrer l’Amérique en Asie centrale. La puissance  balistique de la Russie avec ses 2 200 têtes nucléaires est dans un horizon prévisible la seule garantie de non invasion de la Sibérie  par la Chine.

Une leçon à méditer…

Selon Hélène Carrère d’Encausse, la Sibérie est « un espace vide aux abords d’une Chine surpeuplée » (4). Si l’Europe se considère à terme comme l’Hinterland de la Russie et ne se laisse pas envahir par l’immigration extra-européenne en préservant sa civilisation, elle peut constituer avec la Russie la Grande Europe qui serait une forteresse inexpugnable face à la Chine, l’Islam et l’Asie centrale. Dans ce cas, la Sibérie pourrait rester sous contrôle civilisationnel russe et donc européen.

Le schéma alternatif, c’est que les cent quarante millions descendants des Scythes soient envahis par un milliard et demi de Chinois qui brûlent de passer l’Amour tandis que l’Europe, déversoir naturel de l’Afrique, comme l’a d’ailleurs explicité le Libyen Kadhafi, est  tout aussi menacée !

Pour ceux qui trouveront ces propos bien pessimistes, je souhaiterais leur rappeler cette magnifique exposition du musée Guimet : « Kazakhstan : Hommes, bêtes et dieux de la steppe ». Il fut un temps, dès le deuxième millénaire avant notre ère, où le Kazakhstan et l’Ouzbékistan  étaient le domaine non des Asiates, mais des Aryens : les Scythes. D’origine et de langue indo-européennes, décrits par Aristote citant Hérodote comme ayant des « cheveux blonds et blanchâtres », les Scythes nomadisaient de l’Ukraine à l’Altaï. Leur civilisation était très riche et d’une rare finesse (art funéraire, maîtrise des métaux précieux, travail des objets utilitaires…). Comment une civilisation aussi brillante dont les chefs entreprenants et guerriers ne craignaient rien tant que mourir dans leur lit, ont-ils disparu ? Sans doute ont-ils été victimes de ce que les Slaves appellent « la peste blanche », la dénatalité. Et son inéluctable corollaire, la submersion par des ethnies à la natalité galopante et l’inévitable métissage. Dans leur match démographique contre la déferlante asiatique, les Scythes ne pesèrent pas lourd. Les hordes tartares les avalèrent et le génie de la race se tarit.

Une leçon à méditer pour les Européens de l’Ouest face à l’Afrique et pour les Russes en Sibérie face au trop plein chinois.

Marc Rousset

Notes

1 : Hélène Carrère d’Encausse, La Russie entre deux mondes, Fayard, 2009, p. 65.

2 : cf. le rapport de l’O.N.U., World Population Prospects : the 2006 revision.

3 : Sébastien Colin, « Le développement des relations frontalières entre la Chine et la Russie », dans les Études du C.E.R.I., n° 96, juillet 2003.

4 : Hélène Carrère d’Encausse, op. cit., p. 172.


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URL to article: http://www.europemaxima.com/?p=1982

lundi, 30 mai 2011

China: The New bin Laden

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China: The New bin Laden

by Paul Craig Roberts

Ex: http://www.lewrockwell.com/

Recently by Paul Craig Roberts: Americans Are Living In 1984

George Orwell, the pen name by which Eric Blair is known, had the gift of prophecy, or else blind luck. In 1949 in his novel, 1984, he described the Amerika of today and, I fear, also his native Great Britain, which is no longer great and follows Washington, licking the jackboot and submitting to Washington’s hegemony over England and Europe and exhausting itself financially and morally in order to support Amerikan hegemony over the rest of the world.

In Orwell’s prophecy, Big Brother’s government rules over unquestioning people, incapable of independent thought, who are constantly spied upon. In 1949 there was no Internet, Facebook, twitter, GPS, etc. Big Brother’s spying was done through cameras and microphones in public areas, as in England today, and through television equipped with surveillance devices in homes. As everyone thought what the government intended for them to think, it was easy to identify the few who had suspicions.

Fear and war were used to keep everyone in line, but not even Orwell anticipated Homeland Security feeling up the genitals of air travelers and shopping center customers. Every day in people’s lives, there came over the TV the Two Minutes of Hate. An image of Emmanuel Goldstein, a propaganda creation of the Ministry of Truth, who is designated as Oceania’s Number One Enemy, appeared on the screen. Goldstein was the non-existent "enemy of the state" whose non-existent organization, "The Brotherhood," was Oceania’s terrorist enemy. The Goldstein Threat justified the "Homeland Security" that violated all known Rights of Englishmen and kept Oceania’s subjects "safe."

Since 9/11, with some diversions into Sheik Mohammed and Mohamed Atta, the two rivals to bin Laden as the "Mastermind of 9/11," Osama bin Laden has played the 21st century roll of Emmanuel Goldstein. Now that the Obama Regime has announced the murder of the modern-day Goldstein, a new demon must be constructed before Oceania’s wars run out of justifications.

Hillary Clinton, the low-grade moron who is US Secretary of State, is busy at work making China the new enemy of Oceania. China is Amerika’s largest creditor, but this did not inhibit the idiot Hilary from, this week in front of high Chinese officials, denouncing China for "human rights violations" and for the absence of democracy.

While Hilary was enjoying her rant and displaying unspeakable Amerikan hypocrisy, Homeland Security thugs had organized local police and sheriffs in a small town that is the home of Western Illinois University and set upon peaceful students who were enjoying their annual street party. There was no rioting, no property damage, but the riot police or Homeland Security SWAT teams showed up with sound cannons, gassed the students and beat them.

Indeed, if anyone pays any attention to what is happening in Amerika today, a militarized police and Homeland Security are destroying constitutional rights of peaceful assembly, protest, and free speech.

For practical purposes, the U.S. Constitution no longer exists. The police can beat, taser, abuse, and falsely arrest American citizens and experience no adverse consequences.

The executive branch of the federal government, to whom we used to look to protect us from abuses at the state and local level, acquired the right under the Bush regime to ignore both US and international law, along with the US Constitution and the constitutional powers of Congress and the judiciary. As long as there is a "state of war," such as the open-ended "war on terror," the executive branch is higher than the law and is unaccountable to law. Amerika is not a democracy, but a country ruled by an executive branch Caesar.

Hillary, of course, like the rest of the U.S. Government, is scared by the recent International Monetary Fund (IMF) report that China will be the most powerful economy in five years.

Just as the military/security complex pressured President John F. Kennedy to start a war with the Soviet Union over the Cuban missile crisis while the US still had the nuclear advantage, Hillary is now moving China into the role of Emmanuel Goldstein.

Hate has to be mobilized, before Washington can move the ignorant patriotic masses to war.

How can Oceania continue if the declared enemy, Osama bin Laden, is dead. Big Brother must immediately invent another "enemy of the people."

But Hillary, being a total idiot, has chosen a country that has other than military weapons. While the Amerikans support "dissidents" in China, who are sufficiently stupid to believe that democracy exists in Amerika, the insulted Chinese government sits on $2 trillion in US dollar-denominated assets that can be dumped, thus destroying the US dollar’s exchange value and the dollar as reserve currency, the main source of US power.

Hillary, in an unprecedented act of hypocrisy, denounced China for "human rights violations." This from a country that has violated the human rights of millions of victims in our own time in Iraq, Afghanistan, Pakistan, Yemen, Libya, Somalia, Abu Ghraib, Guantanamo, secret CIA prisons dotted all over the planet, in US courts of law, and in the arrests and seizure of documents of American war protestors. There is no worst violator of human rights on the planet than the US government, and the world knows it.

The hubris and arrogance of US policymakers, and the lies that they inculcate in the American public, have exposed Washington to war with the most populous country on earth, a country that has a military alliance with Russia, which has sufficient nuclear weapons to wipe out all life on earth. The scared idiots in Washington are desperate to set up China as the new Osama bin Laden, the figure of two minutes of hate every news hour, so that the World’s Only Superpower can take out the Chinese before they surpass the US as the Number One Power.

No country on earth has a less responsible government and a less accountable government than the Americans. However, Americans will defend their own oppression, and that of the world, to the bitter end.

May 16, 2011

Paul Craig Roberts [send him mail], a former Assistant Secretary of the US Treasury and former associate editor of the Wall Street Journal, has been reporting shocking cases of prosecutorial abuse for two decades. A new edition of his book, The Tyranny of Good Intentions, co-authored with Lawrence Stratton, a documented account of how Americans lost the protection of law, has been released by Random House.

Copyright © 2011 Paul Craig Roberts

vendredi, 27 mai 2011

USA und Pakistan fast im offenen Krieg

USA und Pakistan fast im offenen Krieg. Chinesisches Ultimatum an die Adresse Washingtons: kein Angriff!

Webster G. Tarpley

US-Pak-Relations-pakistan defence news blog.jpgChina hat die Vereinigten Staaten offiziell wissen lassen, dass ein von Washington geplanter Angriff auf Pakistan als Akt der Aggression gegen Peking ausgelegt werden wird. Diese unverblümte Warnung ist das erste seit 50 Jahren – den sowjetischen Warnungen während der Berlin-Krise von 1958 bis 1961 – bekannt gewordene strategische Ultimatum, das den Vereinigten Staaten gestellt wird. Es ist ein Anzeichen dafür, dass sich die Konfrontation zwischen den USA und Pakistan zu einem allgemeinen Krieg auszuweiten droht.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/webster-g-tarpley/usa-und-pakistan-fast-im-offenen-krieg-chinesisches-ultimatum-an-die-adresse-washingtons-kein-angr.html

Deutliche Warnung an die USA

Deutliche Warnung an die USA: Moskau bezieht Position zu arabischen Aufständen

libya_xlarge.jpgAm Tag vor der Grundsatzrede des amerikanischen Präsidenten Barack Obama zur Nahostpolitik am Donnerstag, dem 19. Mai, äußerte der russische Präsident Dmitrij Medwedew eine deutliche Warnung in Richtung Washington. Auch wenn der Inhalt der Warnung in keinem direkten Zusammenhang zum Nahen und Mittleren Osten steht, zeigt der Zeitpunkt doch, dass sie eine große Bedeutung für die Region besitzt. Sollte es im Falle des neuen Raketenabwehrschildes nicht zu einer Einigung kommen, erklärte der russische Präsident, könnte dies dazu führen, dass sich seine Regierung aus dem neuen Abrüstungsvertrag zurückziehe und in einen neuen Kalten Krieg gegen den Westen eintrete.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/redaktion/deutliche-warnung-an-die-usa-moskau-bezieht-position-zu-arabischen-aufstaenden.html

lundi, 16 mai 2011

Chine-Turquie: la question du Xinjiang

 

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Chine-Turquie: la question du Xinjiang
par Tancrède Josseran
Ex: http://www.realpolitik.tv/
L’effondrement de l’Union soviétique, l’affirmation de l’Islam politique, la mondialisation ouvrent de nouveaux horizons. La Turquie tourne son regard vers l’immensité des steppes d’Asie Centrale. Le pantouranisme, la volonté de penser les peuples turcs de l’Adriatique à la muraille de Chine comme une même communauté de destin et de civilisation imprègne l’ensemble de l’arc politique. Cette idée d’une aire géographique à l’échelle continentale est à la source d’un puissant sentiment d’appartenance et de fierté.

Le Xinjiang ou Türkestan oriental jouit d’une place particulière dans l’imaginaire national. À l’origine, le berceau historique du premier empire turc, se situait entre le désert de Gobi et les monts de l’Altaï. Signe de la prégnance de cette plus longue mémoire, un décret oblige depuis 1993 l’insertion d’une carte du monde turc, à la fin de chaque manuel scolaire.

Peu avant sa mort, le fondateur de la Turquie moderne, Mustapha Kemal prédisait : « Un jour le monde verra avec stupeur s’éveiller et se mettre en marche cet empire invisible qui gît, encore ensommeillé dans les flancs de l’Asie ». Kemal était convaincu qu’à un moment donné cette entité prendrait conscience d’elle-même et se détacherait de la tutelle des Russes et des Chinois comme la Turquie républicaine s’était arrachée des griffes de l’Occident.

Cette conception hypertrophiée de l’identité renvoie à la politique étrangère d’Ankara. Elle se décline en trois grandes familles de pensée :
- La synthèse islamo-nationaliste
- Les souverainistes
- L’école néo-ottomane

Ce classement est arbitraire dans la mesure où les délimitations sont souvent floues. Un même auteur peut se situer à la confluence de plusieurs courants. Bien que leur influence soit inégale, ils marquent chacun à des degrés variables un intérêt pour les populations turques vivant hors d’Anatolie. Si l’école islamo-nationaliste influence les réactions épidermiques les plus visibles de l’opinion publique, son impact réel sur la politique étrangère d’Ankara est limité. Inversement, les tenants du néo-ottomanisme, proches du parti islamiste au pouvoir, ou les souverainistes, liés à l’armée, sont davantage en mesure de peser sur les décisions. Ami, rival, partenaire, ennemi, Pékin est inclus dans un large spectre de points de vue. Mais, à chaque fois, l’analyse des positions turques renvoie à la question du Xinjiang.

La synthèse islamo-nationaliste

La synthèse turco-islamique allie religion traditionnelle et nationalisme. Elle est depuis le début des années 80 l’idéologie officieuse de l’État turc. Instaurée avec l’aide des militaires soucieux d’éradiquer la subversion gauchiste en canalisant la soif de sacré de la population, elle revendique une voie particulière. Les Turcs sont prédestinés à l’Islam, leur croyance chamaniste annonçait déjà l’idée d’un Dieu unique. Les Turcs en se convertissant à la religion de Mahomet ont sauvé l’Islam des croisés. A contrario, sans l’Islam, l’identité turque aurait dépéri. Les islamo-nationalistes rappellent souvent l’exemple des Bulgares, des Hongrois qui ont perdu leur turcité en refusant l’Islam. Dès lors, la Turquie doit reprendre son rôle de protectrice des musulmans et des Turcs à travers le monde.

Théoricien de la synthèse islamo-nationaliste et du courant souverainiste, Suat Ilhan définit le monde turc de la manière suivante : Il rassemble : « les États Turcs indépendants, les communautés autonomes turques, les minorités turques, les pays dans lesquels il y a des ressortissants turcs, les traces de culture turque. Le Taj Mahal en Inde, les ponts sur la Drina, la mosquée de Tolun en Egypte sont autant de vestiges cette grandeur passée » (1). Si l’on applique cette grille de lecture à la Chine, il est de fait qu’une partie importante de son territoire relève du monde turc. La grande muraille qui a protégé pendant des siècles la Chine des assauts des peuples nomades turcophones, n’est qu’à 70 kilomètres de Pékin…
La Chine est perçue avec une profonde défiance. En raison de son régime politique, elle est assimilée à une dictature athée qui opprime les musulmans. Necemettin Özfatura, penseur issu des cercles nationalistes et contributeur régulier au quotidien Türkiye, souligne la dimension religieuse qu’il perçoit dans la répression de Pékin : « Le génocide commis par les Chinois au Türkestan oriental, n’est ni le premier, ni le dernier commis contre des Turcs musulmans » (2). Pour ce courant, le Xinjiang est partie intégrante de la communauté des croyants (Umma). Il abrite le tombeau du maître soufi Bugra Khan. Il est islamisé depuis des siècles. Il existe une communauté d’appartenance irrévocable entre la Turquie et le Türkestan oriental. « Le Türkestan oriental est partie intégrante de notre âme et de nous-même. Pendant 11 ans de 1886 à 1877 le Türkestan fut une province ottomane » (3) [ Le Türkestan avait symboliquement reconnu l’autorité du Sultan-calife] s’exclame Özfatura. En d’autres termes, il semble qu’à partir du moment où l’attention de l’opinion mondiale se fixe sur un territoire qui a relevé de la Sublime Porte, l’orgueil national turc brutalement réveillé, ne peut admettre que la souveraineté y soit exercée par un pays tiers. C’est le complexe de la souveraineté évincée…

Les théoriciens de la synthèse islamo-nationaliste considèrent la Chine comme un géant au pied d’argile miné par des dissensions internes, prêt à s’affaisser sur lui-même à la première crise. La « Chine comme l’union soviétique éclatera et le régime s’effondrera, nous le verrons un jour » (4). Si les républiques d’Asie centrale se sont libérées du joug communiste, l’indépendance du Türkestan oriental est, elle aussi, inéluctable. Ses ressources en matière première (gaz, pétrole, uranium) garantissent largement sa viabilité.

Aussi, Ankara n’a pas intérêt à ménager particulièrement Pékin y compris pour des raisons d’ordre économique. Les échanges entre les deux pays profitent en priorité à Pékin. « Les Chinois exportent 80 % de leurs marchandises contre 20 % pour nous. Dès qu’un navire chinois arrive dans nos ports une usine ferme » (5). Selon les islamo-nationalistes, il serait donc normal que la Turquie adopte une politique plus protectionniste et qu’elle ait recours à l’arme du boycott.

Manifestation le 4 novembre 2010 à Paris - copyright photos : sylvielasserre.blog.lemonde.fr

Manifestation le 4 novembre 2010 à Paris - copyright photos : sylvielasserre.blog.lemonde.fr

Ces représentations sont largement répandues dans l’opinion publique. Elles servent de prêt-à-penser à toute une génération de politologues, d’historiens et de journalistes. Elles forment un consensus rarement remis en question et sont à l’origine de pensées-réflexes particulièrement perceptibles en cas de tensions ou de crises. Les propos de Tayip Erdogan qualifiant la répression chinoise des émeutes de juillet 2009 de « génocide » en sont une illustration parmi d’autres. Néanmoins, si l’on quitte la sphère de l’émotionnel et des réactions épidermiques, l’influence de la synthèse turco-islamique est restreinte. Elle n’influe pas réellement sur les grandes orientations politiques. L’on peut juger de son influence à l’aune de son impact sur la crise yougoslave. En dépit d’une très forte campagne dans l’opinion sur le thème : « La Bosnie ne sera pas une nouvelle Andalousie », Ankara ne s’est jamais départie d’une grande prudence dans sa politique balkanique. Tout au plus la Turquie a-t-elle permis l’acheminement d’une aide humanitaire. La réserve d’Ankara prend son origine dans son refus d’avaliser un précédent qui remettrait en cause l’intangibilité des frontières. Cela est particulièrement vrai pour le Kosovo. Ces considérations renvoient bien entendu au problème kurde…

Les réseaux de soutien aux Ouïgours liés à la mouvance islamo-nationaliste se retrouvent dans certains partis de la droite radicale :
- le Parti de la Grande Union (BBP) scission islamiste du Parti d’Action Nationaliste (MHP) ;
- le Parti de la Félicitée (Saadet Partisi) parti islamiste orthodoxe ;
- le Milli Görüs, organisation islamiste interdite en Turquie mais autorisée en Europe, matrice originelle de la plupart des partis islamistes en Turquie ;
- des quotidiens populaires à grands tirages : Türkiye, Vakit, Milli Gazete ;
- la confrérie des Nakshibendis.

Les souverainistes

Le mouvement souverainiste a émergé en Turquie au tournant des années 2000. Par-delà le traditionnel clivage droite-gauche, il rassemble des patriotes d’obédiences diverses mais tous attachés au maintien de l’État et de la nation dans la forme léguée par Mustapha Kemal à sa mort en 1938. Il mêle kémalistes proche du Parti Républicain du Peuple et nationalistes bon teints sympathisants du Parti d’Action Nationaliste. Cette mouvance conjugue rejet de l’Occident, attachement au rôle de l’État, refus du processus d’adhésion à l’Union européenne. Hostile aux États-Unis, elle considère avec une grande suspicion le Parti de la Justice et du Développement qu’elle accuse de servir les ambitions de Washington et d’être à l’avant-garde d’un projet d’Islam modéré en contradiction avec les principes fondateurs de la République.

Pour cette mouvance, Ankara doit rompre avec l’Union Bruxelles et réorienter sa politique étrangère dans une perspective eurasiste. La Russie, les Républiques d’Asie Centrale et dans une certaine mesure la Chine offrent des voies alternatives. Proche de l’institution militaire, cette mouvance dispose de solides réseaux dans les rangs des officiers supérieurs.

À la différence de la synthèse turco-islamique, les souverainistes ne font pas de la religion un point non-négociable de leur orientation en politique étrangère. Au contraire attachés aux notions de laïcité, d’État-nation, de non-ingérence dans les affaires étrangères, ils ont tendance à se méfier des courants religieux ou politiques à vocation transnationale. Ils sont fidèles en cela à la devise kémaliste « Paix dans le monde, paix dans le pays ». Les rapports avec la Chine sont donc perçus sous l’angle de la realpolitik. Les souverainistes pointent deux problèmes dans les rapports turco-chinois :
- Chypre ;
- le PKK ;

Défendant l’intangibilité des frontières et la notion d’intégrité du territoire, Pékin est en accord avec les thèses de Nicosie. Elle défend un règlement dans le cadre des Nations Unies et une réunification de l’île sous l’égide du seul gouvernement reconnu officiellement par la communauté internationale. La Chine n’a jamais appuyé les projets séparatistes ou de nature confédérale d’Ankara sur l’île d’Aphrodite (6).

Les souverainistes turcs reprochent aux chinois leur immixtion dans les problèmes intérieurs turcs en particulier sur la question kurde. Ils énumèrent les ouvrages et les revues, journaux édités par des organismes d’État en faveur de la cause séparatiste. En outre, ils soulignent l’importance de l’armement chinois équipant les milices kurdes d’Irak du nord (7).

Toutefois les souverainistes reconnaissent que certaines critiques chinoises sont justes. On ne peut réprimer le PKK au nom de l’unité nationale et, d’un autre coté, se faire le porte-parole d’un mouvement séparatiste au Xinjiang sous le prétexte qu’il s’agit d’un peuple turcophone. En substance, chacun devrait ne pas se mêler des affaires intérieures des autres. L’amitié de la Chine doit être recherchée et cela pour trois raisons :
- la Chine est un grand pays et elle est membre du Conseil de sécurité des Nations Unies. En 2030 elle aura dépassé les États-Unis ;
- sur la question de Chypre et du PKK, la Chine peut influencer la communauté internationale. Autant donc ne pas la provoquer ;
- la Turquie doit travailler à prendre des parts de marché en Chine.

Pour les Dr Hidayyet Nurani Ekrem, chercheur au TÜRKSAM, think-tank souverainiste proche de l’armée « la politique extérieure d’un pays est le prolongement de sa politique intérieur. En même temps, la politique extérieure d’un pays a pour devoir de préserver les intérêts nationaux. La politique étrangère doit bénéficier aux intérêts nationaux » (8). Dès lors, comme le Kurdistan, le Xinjiang relève des affaires intérieures de la chine. « Le Türkestan doit jouer le rôle de point de contact entre la Turquie et la Chine. Dans cette perspective l’intérêt stratégique du Türkestan doit prendre le rôle d’un pont entre les deux pays » (9). Sans l’avouer trop ouvertement les souverainistes turcs reconnaissent que les Chinois ont accordé un statut de région autonome au Xinjiang, des droits en matière culturelle, linguistique, éducative qu’ils n’auraient jamais eux-mêmes concédés aux kurdes…

Aussi, il n’existe pas à proprement parler dans la mouvance souverainiste d’organisations de soutien aux Ouïgours. La priorité demeure la défense et le maintien de l’État turc dans ses frontières actuelles.

L’école néo-ottomane

L’école néo-ottomane désigne à l’origine un groupe de personnalités issues de la mouvance religieuse et nationale-libérale gravitant autour de Türgüt Özal, Président de la République dans les années 80-90. Pour bon nombre, ils sont proches à l’origine de la synthèse turco-islamique. Ils considèrent le kémalisme avec scepticisme. La Turquie républicaine par la brutalité de ses réformes s’est, selon eux, coupée de son environnement traditionnel. Depuis lors, elle souffre d’une véritable lobotomie culturelle. La Turquie est le pays le plus apte à prendre le flambeau du monde musulman, comme le fut auparavant l’empire ottoman. Toutefois, à la différence des cercles islamo-nationalistes, l’école néo-ottomane ne rejette nullement l’ouverture vers l’Occident. Au contraire, elle nourrit une certaine fascination pour le modèle anglo-saxon capable d’allier en même temps foi, démocratie et économie de marché. Loin de succomber à la tentation chimérique d’une hypothétique restauration impériale, les Néo-ottomans prônent le recours au soft power.

À l’image des grandes puissances et de leurs anciens espaces coloniaux, la Turquie peut légitimement prétendre à sa propre zone d’influence. Ahmet Davutoglu, actuel ministre des Affaires étrangères et principal théoricien de cette mouvance estime que la Turquie appartient par ordre décroissant à trois grands espaces :
- le monde arabo-musulman ;
- le monde turcique avec l’Asie centrale ;
- l’Occident avec l’espace balkanique.

Ankara doit se libérer des chaînes autarciques de la politique kémaliste pour devenir un acteur global de l’échiquier planétaire.

Dans son ouvrage fondamental, Strategik Derinlik, (Profondeur stratégique), il insiste sur la notion de puissance civilisationnelle. Les civilisations islamiques, indiennes, confucéennes ont autant le droit d’affirmer leur spécificité que la civilisation occidentale.

L’erreur à éviter, selon Davutoglu, serait de « juger la politique chinoise à l’aune de critères humanitaires et non à partir de sa culture ». La Turquie est asiatique par son histoire aussi « jouer la carte culturelle est susceptible de procurer des avantages immédiats ». De cette façon, « la Turquie pourra compenser sa faiblesse numérique par celle de l’insertion culturelle » (10).

Une fois prise en compte cette dimension, il faut replacer les relations turco-chinoises dans leur environnement. Davutoglu souhaite voir Ankara jouer un rôle actif en Asie Centrale, en devenant un arbitre à l’intersection des États-Unis, de la Russie et de la Chine. La Turquie, remarque Davutoglu, est le « seul membre de l’OTAN à disposer d’une profondeur stratégique en Asie » (11). Cependant, cette appartenance au camp occidental ne doit pas faire renoncer à Ankara ses propres spécificités géostratégiques. Au contraire, en s’affirmant la Turquie pourra approfondir sa marge de manœuvre dans la consolidation de ses rapports avec Pékin sans pour autant être estampillé automatiquement comme fourrier de Washington. L’Asie Centrale et les liens particuliers qui unissent la république anatolienne à ses épigones des steppes offrent à Ankara la possibilité de devenir une puissance médiane à « la croisée du local, du global et du continental » (12).
Quatre puissances influent directement sur le devenir de l’Asie centrale selon Davutoglu : la Russie, la Turquie, la Chine, le Japon. La rivalité d’Ankara avec Moscou est le pendant de la confrontation opposant à l’autre extrémité Pékin à Tokyo. « Mais il y a aussi une concurrence entre la Chine et la Russie sur l’Asie Centrale, des motifs de discorde entre le Japon et la Russie au sujet des îles Kouriles. Dès lors chaque relation transversale influe sur l’ensemble de l’Asie centrale » (13). Conséquence de ce billard à plusieurs bandes, Ankara doit ajuster ses relations en permanence avec la Chine, la Russie, le Japon.

Cet équilibre entre puissances est précaire. Une démographie incontrôlée peut tout bouleverser estime Davutoglu. Le Kazakhstan est plus étendu que le plus grand pays de l’UE, or sa population s’élève à peine à 17 millions d’habitants. En comparaison, avec sa superficie, surenchérit Davutoglu, « le Türkestan oriental qui recoupe 25 % du territoire chinois est faiblement peuplé. C’est comme si en proportion la superficie de l’Afrique était peuplée de manière équivalente à la Sibérie » (14).

Il est donc évident que le décalage existant entre les très fortes densités de population existant en Chine maritime et le vide existant en Asie centrale induit un déséquilibre et de futures crises, car « l’Asie centrale est l’espace de projection du trop plein démographique » (15) chinois. Sur le long terme la Chine élargit son emprise démographique et économique sur l’Asie orientale, mais pour cela elle a besoin de se porter au-devant des ressources énergétiques en gaz, pétrole d’Asie centrale et du Moyen-Orient. Davutoglu note qu’avec la disparition de l’Union soviétique, il est beaucoup plus difficile de juguler la pénétration chinoise en Asie Centrale. A contrario, simultanément, l’émancipation des républiques turcophones a fait germer au Xinjiang « le désir d’autodétermination » (16).

Davutoglu appréhende la poussée chinoise en Asie Centrale. Démographiquement et économiquement la Russie et les Républiques turcophones ne sont pas en mesure de faire obstacle. Dès lors la formation de point d’abcès ralentissant cette progression vers les champs énergétiques, n’est pas forcément inutile. La crise au Xinjiang peut faire gagner de temps. En outre, Davutoglu, à l’inverse du courant souverainiste, ne remet pas fondamentalement en cause le tropisme atlantiste de la Turquie. Aussi, la Turquie peut-t-elle ponctuellement sous-traiter la politique américaine en Asie centrale. D’autant que la présence de Washington en Afghanistan s’explique en grande partie par la volonté de bloquer les routes énergétiques de la Caspienne à Pékin.

Réseaux pro-Ouïgours et main de la CIA ?

Les Ouïgours peuvent compter sur l’appui discret de cercles proches du gouvernement turc et du parti au pouvoir, l’AKP. La confrérie nurcu de Fethullah Gülen, qui compte un nombre important de membres de l’AKP, est en première ligne (17). Cette confrérie travaille en Asie centrale depuis de nombreuses années à la formation des élites locales. Outre des écoles, des universités, les Fethullacis possèdent de nombreux journaux, chaînes de radio et télévisions. Étroitement associée à la CIA, l’activité de la confrérie est considérée avec défiance par Moscou qui l’a interdite de séjour sur son territoire.

Marc Grosseman et Morton Abramowitz, anciens ambassadeurs des États-Unis à Ankara, supervisent l’action de la confrérie. Ils agissent conjointement avec Graham Fuller, ancien vice-président de la CIA et principal promoteur du projet d’Islam modéré. Fuller est par ailleurs auteur d’un rapport sur le Xinjiang en 1998, révisé en 2003 pour la Rand Corporation. Abramowitz, Fuller ont parrainé en septembre 2004 à Washington « un gouvernement du Türkestan en exil ». Par ailleurs, Enver Yusuf Turani chef de ce gouvernement fantôme est un proche de Gülen.

Tancrède Josseran

Références

1) Suat Ilhan, Türk olmak zordur, Alfa, Istanbul, 2009, p. 632.
2) Türkiye, 14 juillet 2009, Necati Özfatura, Dogu Türkistan’da zülüm, [La tyrannie au Türkestan oriental].
3) Idem.
4) Idem.
5) Türkiye, 4 août 2009, Necati Özfatüra, Dogu Türkistan’da son durum, [Dernier état des lieux au Türkestan oriental].
6)
www.turksam.org/tr/a35.html Hiddayet Nurani Ekrem Türkiye-çin iliskisinde dogu Türkistan [Le Türkestan oriental dans les relations turco-chinoises].
7) Idem.
8) Idem.
9) Idem.
10) Ahmet Davutoglu, Stratejik Derinlik, [Profondeur stratégique], Kure, Istanbul, 2008, p.494.
11) Ibid.p.492.
12) Ibid.p.493.
13) Ibid.p.494.
14) Ibid.p.464.
15) Idem.
16) Ibid.p.478.
17) Merdan Yanardag, Fethullah Gülen hareketinin perde arkasi Türkiye nasil kusatildi ?[ derrière le rideau du mouvement de Fethullah Gülen, comment la Turquie a été encerclée], Siyah Beyaz, Istanbul, 2008.

mardi, 10 mai 2011

El misterio de los chinos rubios

El misterio de los chinos rubios

Ex: http://www.idpress.org/

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Si nos pusiésemos a pensar cuáles son los rasgos físicos y/o característicos de los chinos, coincidiríamos en decir que suelen ser más bajos, ojos rasgados y oscuros, pelo moreno y nariz pequeña. Ahora, imaginaos a un grupo de chinos cuyos rasgos son todo lo contrario: altos, rubios, ojos azules y nariz grande.

Liqian, una población al noroeste de China y a 300 kilómetros del Desierto del Gobi, cuenta entre sus habitantes con un nutrido grupo de personas que responden a estas últimas características.

Pruebas realizadas han demostrado que poseen un 56% de ADN caucásico, y aunque no se descarta ni asegura ninguna hipótesis, las conclusiones apuntan a que estas personas podrían ser herederos genéticos de un grupo de legionarios romanos que, muy posiblemente, llegaros hasta China dos mil años antes…

En el año 53 AC, siete legiones de soldados romanos, comandados por el general Marco Licinio Craso, fueron masacrados en la Batalla de Carrhae, la que debía de ser la gran conquista hacia la Ruta de la Seda del Imperio Romano.

Todo parece indicar que un centenar de legionarios pudieron escapar y huir en dirección a Oriente.

Tras miles de kilómetros y 17 años de peregrinación, llegaron al noroeste de China y allí se asentaron, prestando servicios como mercenarios y ayudando al ejército local en la Batalla de Zhizhi entre chinos y hunos.

Llamó especialmente la atención la forma de luchar de los recién llegados mercenarios. Su perfecta formación y disciplina hicieron que fuesen bien recibidos allí. Tras la batalla, los supervivientes de ese grupo se instalaron en la población de Liqian.

Hoy en día, dos mil años después, se tiene cierto convencimiento de que aquellos legionarios romanos son los antepasados de este grupo de chinos con aspecto europeo.

Esta teoría fue presentada por primera vez en la década de 1950 por Homer Dubs, profesor de Historia China en la Universidad de Oxford.

En el año 2007, se llevaron a cabo una serie de pruebas las cuales detectaron dos tercios de ADN caucásico entre ese grupo de habitantes.

Nadie se atreve a asegurar la ascendencia de esos chinos con rasgos occidentales, y lo atribuyen al continuo paso de diferentes etnias por la ruta de la seda.

Hay que recordar que un porcentaje alto de hunos eran caucásicos, lo cual también podría ser el origen de esta incógnita.

De momento, las diferentes excavaciones llevadas a cabo en la zona no han aportado ningún elemento proveniente de soldados romanos, como monedas, armas o cascos, por ejemplo. Si este hecho se produjese, podría ser esclarecedor para revelar si realmente aquel grupo de legionarios romanos que pudieron huir de la Batalla de Carrhae, llegaron a establecerse en China.


http://es.noticias.yahoo.com/blogs/ciencia_cultura/los-chinos-rubios-descendientes-de-los-romanos-p14121.html

 

vendredi, 06 mai 2011

The Coming Chinese Superstate

Richard HOSTE

Ex: http://www.counter-currents.com/

Review: Richard Lynn
Eugenics: A Reassessment
Westport, Conn.: Praeger Publishers 2001

eugenics.jpgOne of the only valid points made by the critics of Bell Curve was that if the science was accepted, then eugenics, which Hernstein and Murray refused to endorse, becomes the rational solution to society’s ills. Steven Pinker, the next major public thinker associated with the hereditarian position, likewise refused to follow his own logic far enough. One scholar who doesn’t flinch is psychologist Richard Lynn. Eugenics is not only right, but we have a duty to increase the frequency of genes for positive traits and reduce the frequency of genes for negative traits. Once you determine that something is a genetic problem it cries out for a genetic solution. Eugenics: A Reassessment looks at the history of eugenics, the ethical case for it and its future. Here Lynn goes beyond his role as a psychologist and gives us his own theory of the coming end of history.

The Rise and Fall of Eugenics

Eugenic ideas existed long before the publications of Darwin’s On the Origin of Species and The Descent of Man. In The Republic, Plato pictured a society where rulers, soldiers, and workers would be bred on the same principles of the breeding of plants and livestock, about which much must have been known in 380 B.C. Still, it was the discovery of evolution that was the catalyst of these ideas taking off in the late nineteenth and early twentieth centuries. Biologist, statistician, and psychologist Sir Francis Galton was the main prophet of eugenics. He spent his life forming organizations, writing, and spreading the word about humanity’s potential for improvement. He carried out the first studies that showed nature to be more important than nurture in determining intelligence and character.

By the early 1900s eugenics was endorsed by practically all biologists and geneticists, politicians such as Theodore Roosevelt, Herbert Hoover, Woodrow Wilson, and Winston Churchill, and thinkers across the political spectrum, including Bertrand Russell, H. L. Mencken, and George Bernard Shaw. Lynn makes the distinction between positive eugenics, encouragement given to society’s best to produce children, and negative eugenics, trying to set limits on the breeding of the inferior. It was the latter that was easier to legislate on.

The first American sterilization law was passed in Indiana in 1907 “to prevent the procreation of confirmed criminals, idiots, imbeciles, and rapists.” By 1913 similar acts had been passed in 12 states and a further 19 had laws on the books by 1931. The constitutionality of these laws was challenged in court and in 1927 Buck v. Bell went to the supreme court. The case centered around a mentally retarded woman who was born to a mentally retarded mother and gave birth to yet another retard. Her hospital applied to have her sterilized, and Christian groups protested. The court ruled 8-1 in favor of sterilization. Justice Oliver Wendell Holmes wrote the following in the famous decision.

We have seen more than once that the public welfare may call upon the best citizens for their lives. It would be strange if it could not call upon those who already sap the strength of the state for these lesser sacrifices . . . in order to prevent our being swamped with incompetence. It is better for all the world if, instead of waiting to execute the degenerate offspring of crime, or to let them starve for their imbecility, society can prevent those who are manifestly unfit for continuing their kind. The principle that sustains compulsory vaccinations is broad enough to cover cutting the Fallopian tubes. Three generations of imbeciles are enough.

Unfortunately, over the twentieth century only about 60,000 American sterilizations would take place, which amounted to less than 0.1 percent of mentally retarded and psychopathic people. Sweden did a little better, sterilizing the same amount, totaling one percent of the entire population. In Japan, 16,520 women met the same fate until their law was repealed in 1996. In Denmark, a third of all retards over a ten year span. Unsurprisingly, the all-time champions of sterilization were the Germans, who sterilized 300,000 people after their sterilization law was passed in 1933.

As Lynn points out, it’s not all that unusual for a scientific theory to be accepted and then rejected. What makes eugenics unique is that it’s a rejected theory that turned out to be true. While the importance of heredity in determining individual and group traits is well-established, by the end of the twentieth century to call something eugenic was to condemn it. The author blames horror at the crimes of Nazi Germany and the increasing value given to individual over social rights. In recent years courts in the US and Britain have said that parents can have retarded women in their care sterilized, ruling against civil liberties organizations who’ve joined with Christian groups in arguing that all people have a right to as many children as they can produce. While these legal decisions aren’t made on eugenic grounds, we should be thankful for the effect.

The arguments against eugenics don’t hold up. First is the claim that we can’t decide what positive and negative traits are. It’s hard to argue with Galton’s original three characteristics of intelligence, health, and character (close enough to conscientiousness in modern psychology) being desirable. Who would argue that disease could be preferable to health or stupidity to genius? It’s a case of moral relativism taken to the extreme.

Lynn looks at other characteristics we may select for but doesn’t find any beyond Galton’s original three. Society needs a wide range of people on the continuum of extraverted/introverted and neurotic/relaxed in a way that it doesn’t need a wide range of propensity to break the law or catch diseases. He also says that beauty provides no social good, and people have different definitions of it. Here is the only place I part ways with the author. Among environmentalists (people who care about the environment, not anti-hereditarians), beauty is seen as a legitimate reason to preserve certain forests and trees that provide no economic good. It’s why we save redwood trees but not swamps. As far as the lack of a universal standard, Peter Frost demolishes that as a PC myth. Even if everyone didn’t agree that blue eyes and white skin were the most beautiful, every race could select based on their own standards.

The idea that eugenics wouldn’t work is also answered here. If we determined that it wouldn’t be possible to select for certain traits in living organisms, then not only eugenics but horticulture, animal domestication and even evolution itself would all have to be rejected too. As a matter of fact, heritability of running speed among horses has been found to be between 15 and 35 percent heritable, lower than the lowest estimates for intelligence or psychopathy among humans. Any trait that is passed on genetically can be made more or less common or enhanced among a population.

Classical Eugenics

Lynn differentiates between classical eugenics and new eugenics, the use of biotechnology. A section is given to each.

The only country to practice classical positive eugenics in the modern world has been Singapore, under the leadership of Lee Kuan Yew. Higher earners were given tax breaks for children and a government unit was set up to bring college graduates together in social settings like dances and cruises to encourage relationships and procreation. In three short years, the results were impressive.

Births in Singapore

 

Education Level of Mother 1987   1990  
  Number Percent Number Percent
Below Secondary 26,719 61.3 26,718 52.3
Secondary and above 16,012 36.7 24,411 47.7

Between 1987 and 1990, births to college educated women went from 36.7 percent of all births to 47.7. Obviously, it’s not hopeless, and the problem of dysgenics can be corrected if a government sets its mind to it. In Nazi Germany, loans were given to couples determined to be of good genetic stock. For each child they produced, 25 percent of the loan would be written off. Whether such things can be done in a democracy, especially a multi-racial one, is a different question.

The biggest victory for negative eugenics has been the liberalization of abortion laws. Although justified as based on a “woman’s right to choose,” those who have unintended pregnancies are usually of low intelligence and those with anti-social tendencies. Thus, increasing the availability of abortion is eugenic. Those who are concerned about good breeding should support causes traditionally associated with the left like abortion on demand and making birth control freely available.

The Promise of Biotechnology

The most exciting part of this book is the section on the new eugenics, and how biotechnology may make all the questions raised here obsolete. Prenatal diagnosis can now screen for some of the most common genetic diseases, and the fetuses can be aborted. In the 1990s, this was estimated to reduce incidences of genetic disorders at birth by 5 percent. As the technology becomes better and more widely available we can expect the rate of genetic disease to drop. It’s a matter of time before embryos can be screened for other traits like beauty and intelligence.

Gene therapy is the attempt to help an individual by inserting genes for positive traits. These genes are then passed on to offspring. In the 1980s, this technology was used on mice to treat a heredity disease and by the 1990s was used to treat human disorders. Like prenatal screening, it’s only a matter of time before this technology can be used for the selection of whatever parents desire.

Embryo selection consists of taking a number of eggs from a woman, fertilizing them with the sperm of a partner in vitro, testing each for desirable traits and inserting the best embryo. The second, third, and fourth best can be saved for possible future use and the rest discarded. When Lynn’s book was written in 2001, it was possible to test for sex and thousands of genetic diseases.

In the twenty-first century it will become possible to test embryos for the presence of genes affecting numerous other characteristics, including late-onset diseases and disorders; intelligence; special cognitive abilities, such as mathematical, linguistic, and musical aptitudes; personality traits; athletic abilities; height; body build; and physical appearance. It will then be possible for couples to examine the genetic printouts of a number of embryos and select for implantation the ones they regard as having the most desirable genetic characteristics.

Before this happens some technical issues need to be addressed, such as identifying the desirable genes. That’s going to happen over the next few decades. Right now it’s possible to hormonally stimulate a woman to produce around 25 embryos at one time. With this technology, even parents of poor stock will be able to produce at least average children. Couples can be expected to produce embryos within a range of 30 IQ points; 15 over the parents‘ average to 15 below. With embryo selection the IQ of a population will have the potential to be raised 15 points in a single generation. Average intelligence can be expected to keep increasing until we hit our limit and new mutations pop up, the way average speed among thoroughbreds has been rising without the fastest times doing so in decades. In 2001, in vitro fertilization cost between $40,000 and $200,000 in the US and $3,000 to $4,000 in Britain, due to lower health care costs in general. Today, it’s a fraction of that. Like all technology, the quality can be expected to improve and the price to drop.

Western governments may outlaw all these technologies, but they will be legal somewhere, and as these options became cheaper and better known more couples will travel to take advantage of them. The situation will be similar to when abortion was only available in certain US states or European countries, and women desiring to have one would simply take a bus.

Not everybody will be able to afford biotechnology, and some ethicists reject it on those grounds. Of course, there are all kinds of things that rich people can afford that the poor can’t; we don’t outlaw them all. Lynn optimistically points out that no technology that can help humanity has ever been successfully suppressed. The inherent quality gap between the genetically engineered upper class and the ‘natural’ lower class will continue to grow until the former decides to sterilize the latter or forces them to use biotechnology themselves.

Why China is the Future

In 1994 China passed the Eugenic Law. All pregnant women were required to undergo embryo screening and abort fetuses with genetic disorders. This was a follow-up to the famous one-child policy introduced in 1979 that brought the birth rate down to 1.9 per woman.

Attitudes of elites and those who work in the relevant fields are likely to determine what technologies are accepted and how liberally they’ll be used. A survey was conducted between 1994 and 1996 asking geneticists and physicians around the world whether they agreed with the statement “An important goal of genetic counseling is to reduce the number of deleterious genes in the population.”

Country Percentage of Geneticists and Physicians Agreeing with Eugenic Goals
China 100
India 87
Turkey 73
Peru 71
Spain 67
Poland 66
Russia 58
Greece 58
Cuba 57
Mexico 52
Major 

 

Western

Democracies

<33

In addition to the negative attitudes of the elites towards anything eugenic, other reasons we can expect these ideas not to win fast acceptance in the West are the value placed on individual rights, democracy, and the existence of low IQ minorities who would be disproportionately affected by any measures aimed at improving the genetic quality of the population. While many countries in the third world might feel positively about eugenic measures, the attitudes in China are the most favorable and when that is combined with the advantages of an authoritarian government, a lack of dysgenic immigration, and a high IQ starting point it’s not hard to believe that the Chinese will continue to be the most enthusiastic and efficient users of biotechnology.

So how will this nation of a billion people treat the rest of the world after it’s raised its IQ to 150+? Lynn might be too optimistic here. He believes the Chinese will colonize the world and try to improve the IQs and living standards of their subjects. The Europeans will be kept around for their biological uniqueness and admired for their cultural accomplishments, the way that the Romans subjugated the Greeks but appreciated their philosophy and art. If the Chinese decide that the Europeans should be preserved they’d be doing more for them than whites are currently doing for themselves. A global eugenic superstate led by by the Chinese will be the “end of history.”

Lynn’s forecasts the next 100 years with a stone-cold detachment. The first government to utilize the power of biotechnology will take over the world. Thanks to third world immigration and egalitarianism, the decline of the West seems inevitable and eugenic policies unlikely. The future of humanity being in the hands of the dictators in Beijing may not be the most comforting idea in the world, but at least the reader of Eugenics may be convinced that intelligence and civilization will continue somewhere.

For a review of Richard Lynn’s Dysgenics see here.

vendredi, 25 février 2011

"Lahme Ente" contra chinesischer Drache

»Lahme Ente« contra chinesischer Drache

 

von Dr. Kersten Radzimanowski

 

Ex: http://www.deutsche-stimme.de/

 


 Supermächte: Der neue Start-Vertrag symbolisiert ein verändertes Kräfteverhältnis in der Welt


chine-dragon.jpgEs war kurz vor Weihnachten. US-Präsident Obama durfte seinen letzten Auftritt als »starker« US-Präsident absolvieren, bevor mit Jahreswechsel Senat und Repräsentantenhaus in neuer Zusammensetzung zusammentreten, die ihn vollends zur lahmen Ente degradiert.


Wie im griechischen Drama wurde zunächst die Spannung hinsichtlich des Abstimmungsergebnisses angeheizt, damit der mit dem Friedensnobelpreis ausstaffierte Präsident 43 A die politische Bühne nutzen konnte, um die heimische wie internationale Öffentlichkeit zu täuschen: Obama als Architekt atomarer Abrüstung und Retter der Welt!
Doch was steckt dahinter? Was sieht der nun von den USA ratifizierte neue Start-Vertrag tatsächlich vor? Ist er wirklich ein Meilenstein auf dem Weg zur atomaren Abrüstung der Kernwaffenstaaten? Oder soll er ein Alibi gegenüber den atomaren Habenichtsen darstellen, die immer stärker auf eigene Verfügungsgewalt über Atomwaffen drängen, um sich der politisch-militärischen Erpressung von Staaten wie den USA und Israel zu erwehren?
In den nächsten Jahren werden es an die 40 Länder sein, die über eigene Atomwaffen verfügen, und der Kreis derer, die mit dieser militärischen »Lebensversicherung« liebäugeln, wird immer größer. Da bedarf es der Augenwischerei, Taschenspielertricks à la Obama, um zumindest den Eindruck zu erwecken, auch die atomaren Schwergewichte USA und Rußland würden sich in Richtung Reduzierung ihrer Atomwaffenpotentiale bewegen, um ihre Verpflichtungen aus dem Atomwaffensperrvertrag zu erfüllen. Obamas Zauberstab für die Vorführung hieß START. Start steht für »Strategic Arms Reduction Treaty«, zu Deutsch: »Vertrag zur Verringerung der strategischen Waffen«.


Washington ringt um die Hegemonie


Der neue Start-Vertrag sieht eine Reduzierung der Zahl der nuklearen Sprengköpfe innerhalb der nächsten sieben Jahre auf 1550 und der Zahl der Trägersysteme auf jeweils 800 vor. Damit braucht Washington seine aktiven strategischen Trägersysteme nur um wenige Dutzend zu reduzieren, um die neue Höchstgrenze von 800 Trägern zu erreichen, Moskau gar keine. Es hat nur noch 556 Träger.
Ähnlich das Bild bei den Sprengköpfen: Da nur aktiv stationierte Sprengköpfe zählen, hat Hans Kristensen von der Federation of American Scientists berechnet, muß Washington die Zahl seiner aktiven Sprengköpfe rechnerisch nur um 100, Moskau um 190 reduzieren.
Hinzu kommt, daß das Pentagon seine alten Pläne zur Modernisierung der nuklearen Trägersysteme umsetzen darf. Eine neue nuklearfähige Jagdbomberversion, der Joint Strike Fighter, wird weiter entwickelt. Die Arbeit an einer neuen Generation strategischer Raketen-U-Boote geht ebenfalls weiter. Auch die Entwicklung eines neuen luftgestützten Langstreckenmarschflugkörpers wird ebenso in Angriff genommen wie die Planungen für einen neuen strategischen Bomber. Selbst die Voruntersuchungen für eine neue Generation von Interkontinentalraketen sollen anlaufen.
Zusätzlich haben die Republikaner sich ihre Zustimmung zum neuen Start-Vertrag damit »versüßen« lassen, daß in einem Zusatz zum Vertrag von den USA einseitig festgelegt wurde, daß dadurch der Aufbau der US-Raketenabwehr und die Einführung von Langstreckenraketen mit konventionellen Sprengköpfen nicht berührt werden.
Gerade die Pläne zur Raketenabwehr ließen das russische Parlament nicht wie vorgesehen noch zum Jahreswechsel den Start-Vertrag ratifizieren. Es sucht vielmehr nach diplomatischen Formeln, um eben diese Zusätze wieder aufzuheben. Nach Ansicht des Verfassers waren auch die angenommen Zusätze nur Tricksereien. Denn den herrschenden Kreisen in den USA ist sehr daran gelegen, Moskau auf ihre Seite zu ziehen. Zumindest aber zu neutralisieren, wenn es zur (militärischen) Konfrontation mit China kommen sollte.


Glanzleistung der chinesischen Diplomatie


Die Eindämmung und das »roll back« des weltpolitischen Einflusses Chinas hat für die USA höchste Priorität. Davon zeugt nicht nur die Eskalation der Spannungen auf der koreanischen Halbinsel und im Gelben Meer, sondern auch die massive Formierung eines antichinesischen militärischen Blockes mit Japan, Korea, Australien und weiteren Staaten.
Der Start-Vertrag offenbart aber die Erkenntnis der Plutokraten, daß die USA allein nicht mehr in der Lage sind, die weltweite Herrschaft des Geldadels durchzusetzen. Deshalb die Kurskorrektur der USA, um den einstigen Hauptfeind an das eigene Lager zu binden. Doch dieses Ansinnen ist nicht sehr aussichtsreich. Weiß Rußland doch zu gut, daß der mächtige Nachbar im Osten kraftvoll, dynamisch und zudem verläßlich ist, während die USA ihren Zenit längst überschritten haben und zudem nur auf ihren eigenen Vorteil bedacht sind.
China hingegen betreibt seit längerem eine kluge und weitsichtige Außenpolitik, die sich nicht der andernorts üblichen Großmachtallüren bedient, sondern auf Interessenausgleich und beiderseitigen Nutzen abzielt. Das »Reich der Mitte« hat das diplomatische Meisterstück vollbracht, auch sein Verhältnis zum wichtigsten Konkurrenten Indien konstruktiv zu gestalten, ohne seine engen Beziehungen zu Pakistan zu beschädigen.
China und Indien stellen heute zusammen mehr als ein Drittel der knapp sieben Milliarden Erdbewohner. Ein auch für die hochgerüstete USA uneinnehmbares Bollwerk, das zudem die »gekaufte Demokratie« des Westens entschieden ablehnt. Beide Länder gehen sehr verschiedene politische wie wirtschaftliche Entwicklungswege, aber sie sind keine Kopie des von ihnen verachteten westlichen Herrschaftsmodells, das das Volk in Geiselhaft der mächtigen Interessengruppen genommen hat, wie etwa bei der »Bankenrettung« oder dem sogenannten Euro-Rettungsschirm. Asien geht seinen eigenen Weg.


Das amerikanische Zeitalter endet


Auch im Handel sind die USA längst als Weltmacht abgeschrieben. Der innerasiatische Warenaustausch wächst kräftig. Indiens wichtigster Handelspartner ist heute China und das Handelsvolumen zwischen beiden Ländern betrug im Jahre 2010 etwa 60 Milliarden Dollar. Es dürfte sich laut Schätzungen bis 2015 mehr als verdreifachen.
Doch während Merkel und die bundesdeutschen Medien gegen China wegen der Verletzung von Menschenrechten wettern und dabei selbst im Glashaus sitzen, tränenreich und pflichtschuldig die Verurteilung des jüdischen Millionenbetrügers, Geldwäschers und Ex-Oligarchen Michail Chodorkowski in Rußland beklagen, haben deutsche Unternehmer schon längst die Zeichen der Zeit erkannt und arbeiten eng mit russischen und chinesischen Partnern zusammen.
Dabei besinnen sie sich sogar ihrer alten deutschen Werte und produzieren kundengerecht, so etwa Daimler, der in Indien eine komplette Modellreihe einfacher Lastwagen entwickelt, die so billig sein sollen, daß sie im Preiswettbewerb mit dem indischen Marktführer Tata Motors mithalten können.
In China und Indien gibt es zusammen etwa eine Milliarde Menschen, die man zur dortigen Mittelschicht zählen kann und die technisch solide Produkte zu günstigen Preisen benötigen. Qualitätsarbeit aus Deutschland, damit können wir in China, Rußland und Indien punkten und getrost Uncle Sam jenseits des Atlantik vergessen, der wie so viele Fremde in Deutschland und der EU zwar nicht gewillt ist, selbst etwas Konstruktives zu schaffen, aber von unserer Hände Arbeit ein gutes Leben führen will.


Unser Autor Dr. Kersten Radzimanowski war letzter geschäftsführender Außenminister der DDR

mercredi, 16 février 2011

Ägypten: Warum Unterstützer der Demokratiebewegung für Regen in China beten müssen

Ägypten : Warum Unterstützer der Demokratiebewegung für Regen in China beten müssen

Udo Ulfkotte

 

Auch Revolutionäre müssen essen. Und völlig unabhängig vom Ausgang der politischen Entwicklung in Ägypten braut sich über dem Land etwas zusammen, was ausländische Beobachter in den Revolutionswirren bislang irgendwie verdrängt haben: Ägypten ist der größte Weizenimporteur der Welt. Und China, größter Weizenproduzent der Welt, kämpft mit einer gewaltigen Dürre und wird in diesem Jahr riesige Mengen Weizen importieren müssen. Damit wird China den Weltmarktpreis für Weizen steil nach oben treiben – wenn es in China nicht bald regnet. Weizenbrot ist in Ägypten allerdings das wichtigste Grundnahrungsmittel. Und der Brotpreis ist in Ägypten (wie in ganz Nordafrika) ein politischer Preis. Steigt er, dann steigt auch die Wut im Volk. Und er wird mit dem ausbleibenden Regen in China stark steigen – völlig unabhängig davon, wer in Kairo in den kommenden Monaten regiert. Die Folgen sind absehbar und passen wohl kaum in das verbreitete optimistische Bild von den Folgen der ägyptischen Revolution.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/udo...

mercredi, 05 janvier 2011

Sur la Chine

chine-langues.gif

Robert STEUCKERS :

 

Sur la Chine

 

Conférence prononcée à Gand, le 21 avril 2010, àla tribune de l'association étudiante KASPER

 

Mesdames, Messieurs, Chers amis,

 

Je suis un peu honteux de venir prononcer ici une brève conférence sur la Chine, alors que dans l’espace linguistique néerlandais, nous avons deux éminents spécialistes de la question : le Professeur Koenraad Elst et Alfred Vierling. Tous deux auraient accepté votre invitation et vous auraient fourni une conférence passionnante. Ce sont eux qui auraient dû se trouver à ma place ce soir. Vous me dites qu’ils sont indisponibles et que je dois les remplacer : je tenterai donc de faire du mieux que je puis en vous donnant les clefs nécessaires pour comprendre les ressorts philosophiques, idéologiques et politiques de ce géant qui défie aujourd’hui la superpuissance américaine. Pour donner corps à mes arguments, je me référerai aux ouvrages de Jean-François Susbielle, géopolitologue français contemporain, auteur de plusieurs ouvrages, dont Les Royaumes combattants – Vers une nouvelle guerre mondiale (First Editions, 2008). Dans ce livre consacré aux grandes puissances effectives et émergentes (dont le Brésil), Susbielle décrit de manière particulièrement didactique les linéaments profonds de l’histoire chinoise, le passage de la Chine maoïste à celle de Deng Xiaoping, prélude au formidable développement économique chinois auquel nous assistons aujourd’hui. Je serai donc, ce soir, le simple porte-paroles de Susbielle, dont je recommande vivement trois ouvrages consacrés à la Chine ou aux rapports entre la Chine et les autres puissances mondiales : celui que je viens de citer puis Chine-USA : la guerre programmée et La morsure du dragon.

 

La première chose qu’il convient de dire en parlant de la Chine, c’est qu’elle possède une histoire très longue, qui s’étend sur une période entre trois et cinq millénaires. La mémoire chinoise est donc très profonde, bien plus profonde que celle de l’Occident, qui a trop souvent érigé l’oubli et l’amnésie historique au rang de vertus. Ma tâche n’est donc pas aisée et il va falloir me montrer très succinct.

 

« La Chine, c’est quoi ? »

 

Première question : la Chine, c’est quoi ?

C’est un monde en soi, bien balisé, parfois volontairement hermétisé par rapport à son environnement. Ce monde souvent clos, qui pratique l’ouverture seulement quand ses intérêts immédiats le postulent, est doté de quelques valeurs bien spécifiques, mises en exergue par une historienne des religions, Karen Armstrong, dont l’ouvrage The Great Transformation s’est inspiré de la méthode du philosophe allemand Karl Jaspers (1). Ce dernier avait forgé le concept de « période axiale » de l’histoire (Achsenzeit der Geschichte). Toute « période axiale » de l’histoire est une période, selon Karl Jaspers et Karen Armstrong, où émergent les valeurs structurantes et impassables d’une civilisation, celles qui lui donnent ses caractéristiques principales. Pour la Chine, selon Karen Armstrong, ces principales caractéristiques sont :

-          le culte des ancêtres, donc de la continuité, chaque Chinois se sentant dépositaire d’un héritage qu’il doit conserver ou enrichir, sous peine de perdre la face devant ses ascendants, qui le jugent depuis un au-delà ;

-          la centralité de la Chine dans le monde (2) ;

-          une culture essentiellement paysanne, où les sciences et les technologies ne jouent qu’un rôle secondaire ;

-          l’absence de toute vision linéaire de l’histoire : tout recommence ou recommencera un jour pour répéter une fois de plus ce qu’il y a toujours eu auparavant ; la Chine ne connaît donc pas de ruptures brutales, de césures irréversibles dans le temps, en dépit des apparences, des radicalités révolutionnaires comme la révolte de Tai Ping, le mouvement des Boxers, la révolution moderniste de Sun Ya Tsen, la prise du pouvoir par les communistes de Mao ou la révolution culturelle des années 60, suivie par la rupture tout aussi radicale, bien que plus douce, de Deng Xiaoping face à l’établissement maoïste.

 

Toujours pour répondre à notre question initiale, « La Chine, c’est quoi ? », passons maintenant aux caractéristiques géopolitiques de la Chine en tant qu’espace géographique sur la planète Terre. Pour le général autrichien Jordis von Lohausen, la Chine, c’est :

Sur le plan géographique :

-          la masse géographique la plus compacte d’Asie orientale ;

-          la plaque tournante entre a) le Japon et l’Inde ; b) entre la Russie et l’Australie ; c) entre le désert de Mongolie et l’archipel malais ;

Sur le plan stratégique, elle est une forteresse naturelle entre :

-          la forêt vierge au sud ;

-          les glaciers du Tibet ;

-          les déserts du nord et de l’ouest ;

-          l’océan à l’est ;

Cette situation particulière dans l’espace est-asiatique explique pourquoi la Chine demeure inchangée dans le fond, en dépit des transformations superficielles de nature idéologique. Elle a en permanence à faire face aux défis que lance cet espace naturel.

 

Sur le plan politique, la Chine est (ou était) :

-          la principale puissance représentant la race jaune dans le monde ;

-          la puissance prépondérante des peuples de couleur qui défiaient l’ordre mondial blanc, au temps de Mao (et aujourd’hui, sous d’autres oripeaux idéologiques, en Afrique noire) ;

-          la puissance principale du tiers-monde (aujourd’hui la notion de « tiers-monde » n’a plus la même signification que dans les années 60 ou 70 du 20ème siècle) ;

-          la puissance sur le territoire de laquelle se déroulait la « révolution villageoise » (au nom de l’idée de « civilisation paysanne » née à la période axiale de l’histoire chinoise).

Aujourd’hui, la Chine ne revêt plus entièrement cet aspect de puissance principale des races non blanches ou du tiers-monde. Elle représente un capitalisme dirigé (différent du capitalisme du libre marché tel qu’on le connaît dans l’américanosphère occidentale), expurgé de toutes velléités d’interpréter ou de déformer le monde tel qu’il est par le biais d’une idéologie trop rigide ou trop caricaturale, que cette idéologie soit le marxisme à la Mao ou l’idéologie américaine et cartérienne des « droits de l’homme ». L’exagération maoïste en matière de slogans idéologiques a été corrigée par le pragmatisme confucéen de Deng Xiaoping : la Chine ne vise plus à transformer les structures traditionnelles des peuples, en plaquant sur des réalités non chinoises des concepts maoïstes ; elle ne cherche pas non plus à imiter les Américains qui veulent imposer leur propre vision de la « bonne gouvernance » à tous les peuples du monde. La Chine laisse à chacun le soin de gérer son pays à sa guise : elle se borne à entretenir des rapports diplomatiques de type classique et à avoir de bonnes relations commerciales avec un maximum de pays dans le monde. La Chine est désormais sevrée des messianismes d’inspiration communiste ou de ce que l’on appelait dans les années 60 et 70 du 20ème siècle, des messianismes du tiers monde.

 

Pour définir la Chine et répondre encore une fois à notre question initiale, mettons en exergue la différence majeure entre l’Europe et la Chine :

-          L’Europe est une entité centrifuge, sans unité durable, tiraillée entre une multitudes de pôles régionaux ; elle est devenue un espace civilisationnel privé de valeurs « orientantes » communes ;

-          La Chine est une unité, protégée par la nature : face à la Russie, des montagnes et des déserts la protègent ; face au Sud indien (également centrifuge), des montagnes et une zone de forêts vierges la protègent ; face à l’Amérique, c’est l’immensité de l’Océan Pacifique qui la protège, tout autant que sa propre profondeur territoriale, une profondeur territoriale que ne possédait pas le Japon lors de sa confrontation aux Etats-Unis pendant la seconde guerre mondiale.

 

Une succession de grandes dynasties

 

Dans ce pays protégé par la nature, une histoire particulière va se dérouler.

L’histoire de la Chine est surtout l’histoire de grandes dynasties, comme le souligne très opportunément Jean-François Susbielle.

Au début de l’histoire chinoise, nous n’avons pas d’unité mais une juxtaposition conflictuelle de « royaumes combattants » qui s’affrontent dans des guerres interminables (comme en Europe !). Cette période s’étend de 500 à 221 avant J.C. C’est à cette époque, comme en Grèce ou en Judée, qu’émerge la fameuse « période axiale » de l’histoire chinoise, selon Karen Armstrong. C’est aussi l’époque où trois grands penseurs chinois écrivent leurs œuvres :

-          Confucius (Kong Fuzi) qui dit que la vertu doit régner et qu’un Etat fonctionne de manière optimale s’il favorise une véritable méritocratie (il n’y a dès lors pas de système de classes dans l’idéal de Confucius) ;

-          Lao Tzi (Lao Tsö), fondateurs des filons taoïstes et auteur du Tao Te King ;

-          enfin, Sun Tzu, auteur de l’Art de la guerre, préconisant la ruse.

On oublie généralement Han Fei, auteur d’un manuel pour le Prince. Les principales valeurs de la société chinoise émergent à cette époque, avant l’apparition de l’empire proprement dit, en réaction au chaos généré par les hostilités permanentes entre « royaumes combattants ». Ce chaos et cette désunion seront dès lors les modèles négatifs à ne pas imiter, à proscrire. Notons, avec Karl Jaspers et Karen Armstrong, que la période axiale de l’histoire chinoise est contemporaine de Socrate et de Platon en Grèce et de Bouddha en Inde. La République de Platon et les conseils de Han Fei au Prince méritent une lecture parallèle.

 

Après la période anarchique des « royaumes combattants », le premier empereur surgit sur la scène chinoise : Qin Shi Huang Di (-221 à -207). Il donne son nom à la Chine : « Qin » se prononce « Tchine ». Son œuvre est d’avoir uni les sept royaumes combattants, d’avoir commencé les travaux de la Grande Muraille, d’avoir introduit l’écriture et un système de poids et de mesures, d’avoir énoncé les premières lois. Il s’oppose aux disciples de Confucius, dont il fait brûler les textes, exactement comme le feront les adeptes de Mao lors de la « révolution culturelle » dans les années 60 du 20ème siècle.

 

De -207 à 220 après J.C., vient la période Han. Ce seront 400 années d’expansion, où la Chine atteindra les dimensions qu’elle a actuellement, excepté le Tibet et le Sinkiang. Après cette période de développement, viennent quatre siècles d’anarchie, sans plus aucune unité. C’est le retour des « royaumes combattants ».

 

Carte_Chine_Tang.gifLa restauration vient avec la dynastie Tang, de 618 à 907, véritablement âge d’or de la civilisation chinoise. Les empereurs sont alors les alliés des Ouïghours contre les autres peuples turcs. L’influence chinoise s’étend jusqu’en Ouzbékistan. Elle s’exerce aussi sur la Corée, le Vietnam et le Cambodge. De 907 à 960 survient une nouvelle période de chaos, mais qui ne sera que de courte durée.

 

En 960, par un coup d’Etat, les Song arrivent au pouvoir, rétablissent l’unité et inaugurent une ère de prospérité généralisée, où les sciences chinoises inventent la machine à imprimer, la boussole et certains navires de haute mer. La Chine a bien failli devenir une puissance maritime dès cette époque. En 1279, cette ère de prospérité prend fin par l’invasion mongole.

 

china-yuan-large.pngDe 1279 à 1368, c’est la domination d’une dynastie mongole, les Yuan. Pékin devient la capitale de l’empire sous Qubilaï Khan. Entre 1274 et 1281, les Mongols avaient tenté d’inclure le Japon dans leur orbe mais les vents du Pacifique, les kamikazes, s’étaient levés et avaient détruit la flotte mongole en mer, évitant au Japon une conquête violente et préservant, du coup, sa spécificité en Asie orientale. Les Mongols douteront dorénavant de leur propre invincibilité et les Japonais acquerront un sentiment d’invulnérabilité qu’ils garderont jusqu’en 1945.

 

Après la dynastie mongole des Yuan, vient la dynastie des Ming (1368-1644). Elle acquiert le pouvoir suite à une révolte paysanne contre les Mongols, donc à une insurrection de la substance han autochtone face à un pouvoir étranger. Ming, chef de cette insurrection générale des populations rurales chinoises, devient empereur et règne sur environ 100 millions de sujets. Comme il n’y a plus de danger qui vient du Nord, la Chine des Ming se tourne alors vers la mer : Yong Ze envoie l’Amiral Zheng He sur les mers en 1405. Ce Zheng He est un géant de deux mètres de haut ; il est musulman et eunuque. Les arsenaux de l’Empire lui fournissent des navires de 150 mètres de long (ceux de Colomb n’en avaient que 30). L’objectif est-il la conquête de terres ? Non. C’est une entreprise de « relations publiques » : Zheng He doit présenter la Chine et ses richesses dans le vaste monde. Cette orientation maritime sera de courte durée : dès 1433, l’Empereur décide d’interdire la construction de navires. Car les Mongols reviennent à la charge : toutes les ressources de l’Empire doivent dès lors être mobilisées pour conjurer ce danger venu du nord.

 

Carte_Chine_Ming.gifLes fonds alloués aux immenses navires de Zheng He sont consacrés à la Grande Muraille, à l’agriculture, aux champs de riz, à l’irrigation, aux canaux. La Chine n’aura plus de grands projets mondiaux : elle revient à ses valeurs paysannes, nées lors de la période axiale de son histoire. Durant l’ère Ming, des contacts auront lieu entre Européens et Chinois par l’intermédiaire de l’Ordre des Jésuites. Matteo Ricci, jésuite italien, amorce une politique de conversion, faisant, dès ce moment-là, du christianisme un facteur qui compte en Chine. C’est aussi l’époque où notre compatriote, le Père Verbist, deviendra le principal astronome de la cour chinoise. Pour convertir la Chine, il aurait fallu forger un syncrétisme. Le Pape a refusé. L’Empereur n’a pas compris ce refus pontifical. Le christianisme sera interdit en 1724.

 

Le siècle de la honte

 

Après les Ming, ce sera la dynastie Qing qui règnera sur la Chine, de 1644 à 1911. Les Qing sont Mandchous. Ils font fermer les ports pour mettre la Chine à l’abri des pirates du Pacifique. La Chine se ferme en même temps à tout commerce extérieur. En 1800, elle compte déjà 350 millions d’habitants. Elle connaît pour la première fois dans son histoire le problème de la surpopulation, entrainant des tensions sociales et infléchissant le pays dans son ensemble vers une phase de déclin. Le 19ème siècle sera ainsi, pour les Chinois, le « siècle de la honte ». En 1793, Georges III d’Angleterre veut inaugurer des relations avec l’Empire chinois : il envoie un certain Lord MacCartney pour négocier à Pékin. Mais cet ombrageux Ecossais refuse de se prosterner devant l’Empereur, qui, ensuite, refuse d’entretenir des relations avec l’Angleterre. Les Anglais vont venger l’affront fait à la dignité de leur ambassadeur en faisant entrer de l’opium en contrebande en Chine, où la consommation de cette drogue était interdite. L’objectif était de briser la volonté chinoise d’autarcie en pourrissant la population, en lui ôtant tout ressort. Les Anglais vendent tant d’opium qu’une majorité de Chinois sombre dans la toxicomanie. Petit à petit la balance commerciale penche en faveur de la Grande-Bretagne. En 1839, les Chinois réagissent : le haut fonctionnaire impérial Lin Zexu fait détruire les stocks d’opium qui se trouvent à Canton et fait arrêter des négociants étrangers : les Anglais déclarent la guerre. Ce sera la première guerre de l’opium. Elle durera trois ans et se soldera par une victoire britannique. En 1842, Hong Kong est cédé pour 99 ans à la Couronne britannique. Celle-ci se ménage également des facilités dans un grand port comme Shanghai (où le quartier européen jouit d’extra-territorialité). En 1858, Français et Anglais mènent la deuxième guerre de l’opium, forçant, après leur victoire, la Chine à libéraliser son commerce et à s’ouvrir aux missions catholiques françaises (nous ne sommes pas encore à l’époque de la IIIème République maçonnique). Les soldats des deux puissances européennes pillent le palais d’été de Pékin et détruisent la bibliothèque impériale. 

 

Taiping2.png

Pour affaiblir encore le pouvoir impérial, Français et Anglais favorisent le soulèvement des Tai Ping. De 1853 à 1864, à l’appel d’un leader converti à une sorte de christianisme protestant, de larges strates de la population se soulèvent contre les empereurs mandchous, entendent abolir toutes les formes d’esclavage et toutes les modes jugées désuètes (comme l’atrophie des pieds des filles et les longs cheveux pour les hommes) et introduire comme idéologie d’Etat un fondamentalisme chrétien et protestant. Cette guerre civile fera vingt millions de morts, soit 5% de la population. En fin de compte, les Français et les Anglais volent au secours de l’Empereur, dès le moment où le pouvoir éventuel des révolutionnaires s’avère anticipativement plus dangereux que celui, écorné, de la dynastie mandchoue. Les Occidentaux abandonnent leur golem. Plus tard, les Boxers reprennent le relais : ils ne sont plus chrétiens, comme les adeptes de Tai Ping, ils s’adonnent aux arts martiaux chinois et cultivent une xénophobie sourcilleuse, y compris contre les importations utilitaires des Européens, comme le chemin de fer et le télégraphe. La Chine ne connaît pas une « Ere Meiji » comme le Japon à partir de 1868. En 1911, la Chine devient une république, mais l’avènement de cette république sera suivi de trente-sept années de chaos, de guerres civiles, sur fond d’occupation japonaise. Les nationalistes s’opposeront aux communistes, mais tous s’entendront pour se débarrasser du dernier représentant de la dynastie mandchoue, Pu Yi.

 

 

 

 

 

De la prise du pouvoir par les communistes à l’alliance américaine

 

En 1949, la Chine devient communiste sous la houlette de Mao Tse Toung, qui met un terme aux luttes entre factions, en exilant les derniers partisans de Tchang Kai Tchek sur l’île de Formose, qui deviendra Taiwan. En 1958, les troupes de Mao envahissent définitivement le Tibet dont la conquête progressive avait commencé quelques années plus tôt. 1958 est aussi l’année de la rupture avec l’Union Soviétique. Le pouvoir de Mao étant battu en brèche par d’autres forces à l’intérieur du PC chinois, le « Grand Timonier » déclenche une « révolution culturelle » en 1966, qui s’inspire partiellement de la révolte de Tai Ping (les maoïstes disent « oui » à ses tentatives de modernisation mais « non » à son christianisme) et de la révolte des Boxers (les maoïstes refusent l’anti-modernisme technophobe des Boxers mais acceptent leur refus de toute influence étrangère). En 1968 et 1969, les armées chinoises s’opposent aux armées soviétiques en Mandchourie, le long du fleuve Amour. Les Chinois ont le dessous et songent à changer d’alliance : les Soviétiques sont accusés systématiquement de « révisionnisme », de propager un marxisme édulcoré, dépouillé de sa vigueur révolutionnaire. En 1972, la Chine renoue avec les Etats-Unis et devient l’alliée de revers de Washington contre l’URSS de Brejnev. Les règles de la géopolitique triomphent dès cette année-là des discours idéologiques.

 

Les problèmes actuels de la Chine sont :

1)     Le Tibet, qui fut, à certains moments de l’histoire, un grand empire qui comprenait également de vastes territoires han, dans l’est de la Chine proprement dite. Le Tibet possède donc une identité différente de la Chine et celle-ci recèle dans ses provinces orientales des éléments qui ne sont pas purement han.

2)     Le Sinkiang, ou « Turkestan chinois », où vivent les Ouïghours turcophones et musulmans, anciens alliés des empereurs Tang, aujourd’hui ennemis du pouvoir établi à Pékin (qui considère dès lors cette volteface ouïghour comme une trahison  à l’endroit de l’histoire chinoise).

Les problèmes du Tibet et du Sinkiang sont des problèmes réels, indubitablement, mais ils servent surtout, dans le contexte actuel, à miner la cohésion de la partie centrale de l’Eurasie. L’indice le plus patent de cette stratégie de fractionnement est la présence d’agitateurs fondamentalistes wahhabites au Sinkiang. Le conflit entre les Etats-Unis et les réseaux de Ben Laden est peut-être réel dans la péninsule arabique ou en Afghanistan mais complètement fictif ailleurs, quand il s’agit d’affaiblir la Russie, la Chine ou leurs alliés en Asie centrale. En Tchétchénie, au Daghestan et au Sinkiang, les réseaux wahhabites travaillent bel et bien pour la stratégie de balkanisation de l’Eurasie, voulue par Washington. C’est potentiellement le cas en Tatarie et en Bachkirie aussi.

 

La réforme de Deng Xiaoping : une perestroïka sans glasnost

 

Le sinologue et géopolitologue français Jean-François Susbielle analyse le rôle de Deng Xiaoping dans le renouveau chinois, après la parenthèse maoïste. Dès 1977, Deng Xiaoping tolère que s’expriment des voix critiques et abolit le culte de la personnalité qui avait quelque peu ridiculisé le maoïsme. Deng Xiaoping se veut surtout un pragmatique. Jugeons-en par ces quelques citations que Susbielle met en exergue :

« Il n’est pas important que le chat soit blanc ou gris : il doit capturer les souris ». Cette citation montre que Deng Xiaoping ne juge pas l’idéologie importante : seules comptent la pratique et l’efficacité.

« La pratique est le seul critère de vérité ».

« Pas de débat : c’est là mon invention ».

« Il faut traverser la rivière en tâtant chaque pierre du pied ».

Sun Tzu : « Dissimuler ses intentions et ses forces ».

 

L’entrée de la Chine dans l’ère postcommuniste est différente que celle qu’avait préconisé Gorbatchev en URSS, rappelle fort opportunément Susbielle. Celui-ci avait annoncé la « glasnost » (la transparence) et la « perestroïka » (la restructuration). La Chine, elle, a opté pour la « perestroïka » sans la « glasnost ». Par conséquent, elle a échappé à la crise russe qui a sévi pendant dix ans avant que Poutine ne prenne les choses en mains. Les Chinois semblent meilleurs disciples de Carl Schmitt que les Russes : ils évitent toute culture stérile du débat, de la discussion interminable (Donoso Cortès), et maintiennent les arcanes de leur politique à l’abri des regards (le secret selon Schmitt). L’objectif de Deng Xiaoping est de revenir à la situation optimale de la Chine à la fin du 18ème siècle. A cette époque, la Chine, l’Inde et le Japon comptaient à trois pour 50% de l’économie mondiale. La Chine, en outre, représentait 35% de la population mondiale et 28% de la production.

 

Deng-Xiaoping.jpgAtteindre l’objectif que s’est fixé Deng Xiaoping passe par une restructuration des relations entre peuples de la masse continentale eurasienne. L’instrument de cette restructuration est le « Groupe de Shanghai », d’une part, et le BRIC (Brésil, Russie, Inde, Chine), d’autre part. Face à ces relations inter-eurasiennes ou eurasiennes/latino-américaines, l’américanosphère table sur une instrumentalisation militante et offensive de l’idéologie des droits de l’homme. Pour l’idéologie occidentale, qui s’estime affranchie de toute croyance de nature religieuse, les droits de l’homme sont des principes intangibles au même titre que ceux des théologiens fondamentalistes chrétiens ou musulmans. En réalité, derrière cette nouvelle religion occidentale, rigide parce que refusant toute interprétation différente ou toute adaptation pragmatique, se profile un cynisme mu par des intérêts économiques et géopolitiques. Le Président américain Jimmy Carter avait recréé cette idéologie de toutes pièces pour miner la cohésion de l’URSS ou pour subvertir tous les Etats hostiles aux Etats-Unis et tous les régimes insuffisant dociles. La Chine a toujours bien perçu cette nouvelle idéologie occidentale comme un instrument d’immixtion permanente dans les affaires des autres pays. Elle a riposté en estimant que chaque aire dominée par un hégémon particulier (ou chaque espace civilisationnel) devait pouvoir interpréter les droits de l’homme à sa manière, selon ses propres critères et donc, in fine, selon des critères nés lors de la « période axiale » de l’histoire spécifique de cette aire civilisationnelle. La Chine a opté pour le polycentrisme des valeurs et pour la pluralité des interprétations des droits de l’homme. Ceux-ci ne peuvent servir à subvertir les fondements des civilisations autres que l’Occident.

 

Dans l’Océan Pacifique, la Chine nouvelle du capitalisme dirigé cherche à s’emparer de Formose (Taiwan) et des îles de la Mer de Chine méridionale : elle risque là une confrontation directe avec l’Amérique. Face à l’Inde, autre géant économique potentiel au marché intérieur immense, la Chine garde un contentieux dans l’Himalaya. En 1962, une guerre sino-indienne avait tourné à l’avantage des Chinois, maîtres du Tibet, qui occupent depuis lors une partie du territoire indien, située très haut dans la chaine de l’Himalaya. L’Inde, quand elle était entièrement dominée par le Parti du Congrès, était un allié tacite de l’URSS, qui lui fournissait des armes contre le Pakistan musulman allié des Etats-Unis et contre la Chine, hostile au « révisionnisme » soviétique. L’Inde reçoit toujours des armes russes mais elle commence depuis peu à en recevoir des Etats-Unis. Le Pakistan, ennemi héréditaire de l’Inde, reste un allié de la Chine même si le fondamentalisme islamiste menace les intérêts chinois dans le Sinkiang. En Afrique, la Chine risque aussi une confrontation directe avec les Etats-Unis, car les deux puissances briguent les richesses minérales du continent noir et les richesses halieutiques de ses mers (dont l’Europe a également besoin). Avec la Russie, tout va bien pour le moment mais il y a un risque potentiel : la conquête progressive de l’espace sibérien par le trop-plein démographique chinois. Certes, la Chine et la Russie subissent un déclin démographique ; la Chine n’a jamais eu l’intention de conquérir la Sibérie mais la donne peut changer sous la pression des faits.

 

Sur le plan économique, l’accroissement démesuré de l’industrie chinoise crée une pollution de grande ampleur, contraire à l’éthique chinoise traditionnelle de gestion optimale et mesurée de l’environnement. Actuellement la Chine pollue plus que les Etats-Unis. Pour l’Europe, le danger chinois vient de la délocalisation et du dumping qui en découle. Mais là la balle est dans notre camp : c’est à nous à prendre des mesures contre les délocalisations (en Chine et ailleurs), contre ceux qui les pratiquent au détriment de nos propres tissus sociaux.

 

Conclusion : l’histoire de la Chine démontre la récurrence potentielle de tous les problèmes qui peuvent affecter une civilisation. L’histoire de la Chine est centripète, tandis que celle de l’Europe est centrifuge. Malgré ses faiblesses passagères, comme celle qui l’a marquée profondément pendant le « siècle de la honte », la Chine a tous les réflexes mentaux pour retomber sur ses pattes. L’Europe est dépourvue d’une telle force. L’anarchie et le chaos règnent dans les esprits en Europe. L’Europe attend toujours son Qin Shi Huang Di. Il aurait pu être Charles-Quint mais ce ne fut pas le cas car l’Empereur né en 1500 dans les murs de cette bonne ville de Gand a été torpillé par son rival François I, par les émeutiers protestants et les manigances du pape Clément. En attendant, malgré l’illusion que procure une UE sans projet, l’Europe n’a toujours pas dépassé le stade des guerres entre « duchés combattants ».

 

Robert STEUCKERS.

 

Notes :

(1)    Karl Jaspers patronnera également la thèse d’Armin Mohler sur la « révolution conservatrice » allemande entre 1918 et 1932. Armin Mohler parle, tout comme le promoteur de sa thèse de doctorat, de « période axiale » de l’histoire, où les valeurs dominantes, en l’occurrence celles de la révolution française et des Lumières qui l’ont précédée, sont battues en brèche par de nouvelles valeurs, qui appelle de nouvelles formes politiques.

(2)    La centralité de la Chine dans le monde implique que les Chinois estiment ne pas avoir d’ancêtres dans d’autres parties du monde. Sur le plan de la raciologie, cette prise de position actuelle, découlant tout naturellement de l’idée de la centralité de la Chine née à la période axiale de l’histoire chinoise, implique le polygénisme. Les Chinois n’acceptent donc pas la théorie monogéniste de l’émergence de l’homme en Afrique, au départ de « Lucy ».

 

Bibliographie :

-          Jean-François SUSBIELLE, Les royaumes combattants – Vers une nouvelle guerre mondiale, First Editions, Paris, 2008.

-          Jordis von LOHAUSEN, Mut zur macht – Denken in Kontinenten, Vowinckel, Berg am See, 1979.

-          Karen ARMSTRONG, The Great Transformation – The World in the Time of Buddha, Socrates, Confucius and Jeremiah, Atlantic Books, London, 2006.

-          SPIEGEL SPECIAL, China – Die unberenchenbare Supermacht, Nr. 3/2008.

-          COURRIER INTERNATIONAL, n°995 (26/11 au 02/12 2009).

mardi, 04 janvier 2011

Frans Boenders over Oost en West, primordiale traditie...

Frans Boenders, een Vlaamse Mishima-kenner, over o.a. Oost en West, primordiale traditie en de culturele kaalslag in China

Ex: http://www.h-vv.be/50-jaar-de-pil-Frans-Boenders-over-Oos...

20060221-frans-boenders-3.jpgFrans Boenders gaf begin dit jaar aan de FVG een lezing met als thema Oost en West. Een enorm omvangrijk thema, maar twee kernwaarden kwamen snel bovendrijven: verlichting en verlossing. Verlichting associeerde hij met het Oosten, verlossing met het Westen!

Frans Boenders: Dat komt omdat bij ons de leidende godsdienst of levensvorm er een is van verlossing. De mens is zwak, is wel een afspiegeling van God, maar hij moet zich realiseren hoe zwak hij is en hij moet zich eigenlijk overgeven. Dus de overgave impliceert dat je ergens ook wordt opgevangen, en dat is dan de verlossing, de basisbeweging of de basis dubbele richting. Er is een enorme liefde die de verlossing in het vooruitzicht stelt en de mens moet vertrouwen hebben, bijna blind, in die liefde, en dan zal hij verlost worden. Wat is nu verlichting? Verlichting is iets wat je zelf kunt doen, want we hebben allemaal een bewustzijn gekregen dat kritisch is, sceptisch moet zijn volgens de Boeddha. Het boeddhisme is dan toch immers de enige universele religie die in het Oosten is ontstaan en universeel is geworden, net zoals het christendom ontstaan is in het Nabije Oosten en universeel is geworden. Die laten zich dus uitstekend vergelijken. In het boeddhisme is Boeddha trouwens niets anders dan ‘bodhi’, wat licht is, of wijsheid, als je het anders interpreteert. Je hebt dus een bewustzijn, en met dat bewustzijn moet je het doen. Er zijn modellen, Boeddha zelf zegt: als je dat wilt, kun je mij als model nemen, maar je zult toch altijd kritisch moeten blijven, want je moet het zelf doen. Het zelf doen betekent niet dat je op een arrogante manier op je kennis en je eruditie berust; ik denk zelfs dat te veel kennis en te veel eruditie wegen zijn die niet direct leiden naar de verlichting. Maar je moet bij wijze van spreken eerst tabula rasa maken, een soort leegte in jezelf maken, om het licht te laten schijnen. Dat is natuurlijk maar een metafoor, maar dat zegt wat verlichting is, versus de verlossing.

Maar eigenlijk gaat het dan toch wel om een heel fundamenteel verschil, en dat komt ook tot uiting wanneer je het hebt over denken en bewustzijn! Bijvoorbeeld: ‘ ik BEN een bewustzijn’ tegenover ‘ik HEB bewustzijn’!

Wij zeggen: ‘ik HEB een bewustzijn’. Denk aan Descartes! En we leven toch nog altijd onder die fantastische revolutie. Descartes heeft gezegd: ik kan aan alles twijfelen behalve aan het feit dat ik twijfel, dus dat ik denk. En dus, dat heb ik omdat ik een bewustzijn heb. Ik heb alles, eigenlijk bezitten wij alles, vinden wij. Als we nu even God, de Schepper of de Natuur opzijzetten. Die Natuur werkt ook in mij, maar eigenlijk sta ik boven de Natuur door het hebben van dat bewustzijn. In het Oosten gaat het over: ‘ik BEN bewustzijn’. Dat wil zeggen dat ik een onderdeel ben van het bewustzijn dat eigenlijk het universum is. Het universum denkt in mij. Het vreemde is dat dat in de Franse filosofie ook werd gezegd, door hen die je kunt noemen de poststructuralisten of de late structuralisten: ‘ça pense en moi’, het denkt in mij. Dus die komen daar een beetje in de buurt. Alleen Heidegger, overigens niet mijn favoriet, een westerse filosoof, vond eigenlijk ook dat we een onderdeel zijn van iets wat veel groter is. En de Japanse boeddhisten zijn Heidegger gaan bestuderen, die, toen hij nog leefde, het fantastisch vond dat hij aansluiting kon vinden bij hen. Maar inderdaad, het verschil is dus: in het Oosten houdt men veel minder vast, men bezit veel minder, men hecht ook minder aan bezit. Natuurlijk, met onze kapitalistische uitstraling is dat nu wel allemaal anders geworden, maar traditioneel is het wel zo. Men voelt zich een onderdeel van iets heel groots, en of je dat nu kosmos, universum of de wereldgeest noemt, lazert eigenlijk niets; het is gewoon een manier van leven die toch totaal anders is en die verklaart waarom sommige auteurs, maar daar ben ik het eigenlijk niet mee eens, hebben gezegd dat het Westen altijd het Westen en het Oosten altijd het Oosten zal blijven. ‘And the twain shall never meet’, zoals Kipling het zegt. Daar ben ik het niet mee eens. We kunnen zeker elkaar begrijpen en dat is ook volop bezig, denk ik.

Vaak zie je de opdeling: in het Westen streeft men naar iets, er is een doel, er is een project. In het Oosten zou men zich eerder onderwerpen aan het geheel, zou men eerder berusten! Maar in hoeverre beantwoordt zo’n opdeling nog aan enige realiteit? Economisch bijvoorbeeld zijn nu net India en China dé grote groeiers op wereldniveau!

Dat is de grote paradox vandaag. Tot hiertoe heb ik in zeer algemene termen (want anders kun je het niet, je hebt het in het begin zelf gezegd) Oost en West vergeleken. Ik ging uit van de traditionele levensvormen, om dat wittgensteiniaanse woord te gebruiken. De traditie die dieper gaat dan de verschillende tradities. De traditie die we eigenlijk niet meer kunnen benoemen, maar die de basis vormt van de tradities. Dus ik ben heel ver teruggegaan. Ik heb het boeddhisme ook gezien als een offshoot, als een scheut aan een boom die veel ouder is en die teruggaat tot de vedische tijd, misschien tot de zoroastrische tijd enzovoorts. Aan de andere kant heb ik het christendom ook beschouwd als een scheut van een veel grotere boom, waar natuurlijk het jodendom in het vizier komt, maar ook vele andere dingen. Ook een stuk van het zoroastrisme. Dus uiteindelijk zouden we weer terug kunnen komen. Zo ver ben ik teruggegaan. Dat is natuurlijk gedeeltelijk geïdealiseerd, om niet te zeggen sterk geïdealiseerd. Vandaag zien we dat er maar één ideologie meer bestaat, en dat is het kapitalisme. Of men dat nu in communistische termen of linkse termen het laatkapitalisme noemt, in de hoop dat het zal verdwijnen, dat durf ik niet te zeggen. Ik zie alleen dat het kapitalisme bloeit op een verschrikkelijke manier en dat, zoals je zelf hebt geïmpliceerd in je vraag, China maar ook India (India, waarvan we altijd gedacht hebben dat het veel spiritueler was dan wij) nu plotseling onze meesters worden in het hedendaagse kapitalisme, in onze manier om de informatica en de technologie te gebruiken, allemaal dingen die in wezen van ons komen, dus de westerse wetenschap, dat is het enige geüniversaliseerde kennen. Dat heeft men dan ogenschijnlijk op dit moment, ik zou zeggen, allemaal naar voren geschoven in de hoop, voor sommigen althans, in China en zeker in India, dat datgene wat eronder ligt en waaraan ik daarnet refereerde, als de basis van de tradities, uiteindelijk toch wel zal overleven zoals het altijd heeft gedaan. Maar men begint eraan te twijfelen. En versta onder men, ik begin daar ook aan te twijfelen.

Zeker in China zie je dat. Ik ben toevallig vorig jaar nog naar de Heilige Bergen geweest, die gedeeltelijk boeddhistisch en taoïstisch zijn en eigenlijk die twee religies syncretiseren. Daar blijft niets van over! Wat men heeft gedaan en wat de Chinezen altijd doen, is alles eerst afbreken tot op het bot en dan op hun manier, vanuit hun visie, heropbouwen. Dus wat ik daar zag, was een volkomen loze, valse en misleidende vorm van taoïsme en boeddhisme. Alleen erop gericht om toeristen te lokken, vooral de binnenlandse toeristen overigens, want het is ook een bekend fenomeen dat de hedendaagse Chinezen die vandaag weer internationaal gaan reizen (dat wil zeggen die nieuwe rijken tussen dertig en vijfenveertig jaar, de middenmoot die rijk is, heel rijk is in China), toch die leegte aanvoelen en nu overal in het Oosten, maar ook in het Westen, tempels en kerken gaan bezoeken in de hoop daar iets van op te steken. Ze snappen er dus geen moer meer van en het is een heel rare situatie. Mensen die veel meer vertrouwen hebben in de gang van zaken, los van de interventies van de mens, die zeggen: ‘Dat zal zijn tijd wel hebben, dat komt weer terug. In China heb je altijd van die periodes.’ Ik heb daar mijn twijfels over. Laten we niet vergeten wat er gebeurd is tijdens de culturele revolutie, die officieel maar tien jaar heeft geduurd, van ’65 tot ’75 in de vorige eeuw, maar die eigenlijk al begonnen is in voorbereiding vanaf 1950, de stichting van de volksrepubliek, en geduurd heeft tot het aantreden van Deng Xiaoping in 1979. Dus dat zijn twee generaties die zijn opgevoed zonder enige vorm van religie in de zin van een verbinding van geestelijke solidariteit. En dus, zal dat terugkomen? Ik mag het hopen. Maar een teken aan de wand vond ik dat, toen Deng Xiaoping aantrad en ik voor de BRT toen die documentaires maakte over oosterse religies, dat iemand die later mijn vriend is geworden, de grote specialist op het gebied van het taoïsme, Rik Schipper, gevraagd werd in China om de leden van de Sociale Academie, dus de intellectuele top van China, onderricht te geven in het taoïsme. Want nagenoeg alles was verdwenen. De tempels waren verwoest, de teksten waren vernietigd en diegene die over waren gebleven, werden bestudeerd in het Westen. Op zichzelf is het natuurlijk interessant dat wij in het Westen nu niet de pretentie, maar misschien wel de knowhow hebben om de traditie van de Chinezen en de Indiërs weer nieuwe bedding te geven. Dat is vroeger nog gebeurd met het christendom en de islam, wat de Griekse traditie van ons betreft. Dus het kan wel, maar ik vrees, samenvattend, dat het kapitalisme op dit moment zo allesomvattend is, en dus ook niet te bestrijden valt omdat er niemand is die verantwoordelijk is voor het kapitalisme als ideologie. Het is dus bij wijze van spreken een sluipende ideologie die zich niet kenbaar maakt, maar die wel overal aanwezig is, zodat ik op dit moment niet zie hoe ze tot een einde kan komen. En ik denk wel dat het nodig is om terug te komen tot een waarachtige spiritualiteit.

dimanche, 02 janvier 2011

Peter Scholl-Latour über Demokratie und Willkür

 

Peter Scholl-Latour über Demokratie und Willkür

vendredi, 31 décembre 2010

Türkei und China auf Schmusekurs

Türkei und China auf Schmusekurs

MIchael WIESBERG

Ex: http://www.jungefreiheit.de/

China-Tuerkei.jpgDie Türkei war jahrzehntelange Hätschelkind der US-Außenpolitik, das die Vereinigten Staaten zu gerne auch als EU-Mitgliedsstaat gesehen hätten. Jetzt wird die Entwicklung des kleinasiatischen Staates jenseits des Ozeans mit steigendem Mißmut betrachtet.

Ein Grund dafür ist die chinesisch-türkische Annäherung, die Michael Auslin, Leiter für Japanstudien am American Enterprise Institute, in einem Artikel für die  einflußreiche, als konservativ und wirtschaftsliberal geltende Tagezeitung Wall Street Journal unter dem bezeichnenden Titel analysiert: „Kommt eine türkisch-chinesische Achse? Ankara wendet sich von Israel ab und schmeichelt sich bei China ein“.

Ausgangspunkt der Betrachtungen Auslins sind die Folgen der seit einiger Zeit gestörten israelisch-türkischen Beziehungen und die Hinwendung der Türkei zu „aufstrebenden, selbstbewußten Regimen“, darunter eben auch China, das nicht nur bemüht sei, im entlegenen Afrika eine größere Rolle zu spielen, sondern auch in anderen geopolitisch wichtigen Staaten.

Die türkisch-israelische Kooperation

Auslin gibt dann einen Überblick über die Entwicklung der israelisch-türkischen Beziehungen, angefangen bei der Anerkennung des Staates Israel durch die Türkei im Jahre 1948, bis hin zur Kooperation der beiden Staaten in Sicherheitsfragen, zum Beispiel gegenüber Staaten wie dem Iran und Syrien, in den Achtziger und Neunziger Jahren; dazu gehörte auch die Unterstützung Israels bei der Modernisierung türkischer Waffensysteme. Israel konnte im Gegenzug zum Beispiel türkische Luftwaffenstützpunkte nutzen.

Wendepunkt Gaza-Hilfsflotte

All das ist mittlerweile Geschichte: Zwar habe der türkische Premierminister Recep Tayyip Erdoğan anfänglich mit Israel kooperiert, so Auslin, dann aber begann er sich Staaten wie Syrien oder dem Iran zuzuwenden. Als Argumente für die sich abkühlenden Beziehungen zu Israel gab Erdoğan dessen Vorgehen im Gazastreifen im Jahre 2008 und vor allem die Vorgänge um die „Gaza-Hilfsflotte“ Mitte des Jahres an, bei der acht türkische Staatsbürger durch israelische Einwirkung ums Leben kamen. Seitdem liegen die Beziehungen zwischen der Türkei und Israel auf Eis.

Konsequenzen für die NATO

Erdoğans Annäherung an eine weitere „autoritäre Macht“, gemeint ist China, tangiere nun allerdings auch die Interessen der USA, konstatiert Auslin, und zwar spätestens seit der Einladung Ankaras an die chinesische Luftwaffe, am Luftwaffenstützpunkt Konya gemeinsame Manöver abzuhalten. Damit erwüchsen ernste Zweifel daran, ob es bei den engen Beziehungen der Türkei zu „liberalen Nationen“ wie den USA und Israel bleibe.

In diesem Zusammenhang spiele nicht nur eine Rolle, daß die „strategische Partnerschaft“, die Erdoğan und Chinas Staatspräsident Hu Jintao vereinbart hätten, eine Steigerung des Handelsvolumens von derzeit 17 Milliarden Dollar auf 100 Milliarden Dollar im Jahre 2020 vorsehe.

Viel schwerwiegender seien die Konsequenzen für die NATO. Wie weit nämlich könnte die chinesisch-türkische Zusammenarbeit gehen? Auslin nennt hier ein konkretes Beispiel: Die Türkei gehört unter anderem zu einem Konsortium, das am Bau des ersten Tarnkappen-Mehrzweckkampfflugzeuges Lockheed Martin F-35 Lightning II beteiligt ist. Wird die Türkei China einladen, dieses Flugzeug zu inspizieren oder gar Probe zu fliegen? Welche anderen Waffengeschäfte könnte die Türkei mit China vereinbaren?

Türkei droht Isolation

Es sei jedenfalls eine Notwendigkeit, das westliche Analytiker damit begönnen, sich nicht nur mit den Auswirkungen der chinesisch-türkischen Annäherung, sondern auch mit dem wachsenden Netzwerk antiwestlicher Staaten zu beschäftigen. Mit Blick auf Erdoğan konstatiert Auslin, falls der türkische Premier weiter Alliierte bei den „autoritären Staaten“ suche, werde er die Türkei von der liberalen westlichen Welt isolieren.

Das Gewicht der Türkei vergrößern

Auslins Artikel ist in mancherlei Hinsicht instruktiv: So spiegelt er zum Beispiel die Irritation der USA im Hinblick auf das Ausgreifen Chinas in Regionen, die die USA als ihre angestammte Einflußsphäre betrachten. Erdoğan sieht sich in der angenehmen Lage, aufgrund der Heraufkunft des neuen „global players“ China mit dem geopolitischen Pfund der Türkei zu wuchern. Der Konsens der „westlichen Wertegemeinschaft“ interessiert ihn dabei herzlich wenig; sein Ziel besteht ganz offensichtlich darin, das internationale Gewicht der Türkei weiter zu erhöhen.

Mit der Türkei bekommen die USA ganz konkret vorgeführt, daß ihre Position als „einzige Supermacht“ Geschichte ist. Ab jetzt steht mit China ein ernsthafter Herausforderer im Ring, der jede Schwachstelle, die die westliche Führungsmacht bietet, nutzen wird. Zu diesen Schwachstellen gehört, das zeigt sich mehr und mehr, die einseitige Option für Israel.

mercredi, 29 décembre 2010

The Geopolitical Agenda behind the 2010 Nobel Peace Prize

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The Geopolitical Agenda behind the 2010 Nobel Peace Prize

By F. William Engdahl

Ex: http://www.engdahl.oilgeopolitics.net/

 With almost flawless political timing, the Nobel Peace Prize Committee of the Norwegian Parliament announced the giving of the 2010 Nobel Peace Prize to Chinese  critic, political activist Liu Xiaobo. The announcement came just as US Treasury Secretary Timothy Geither was upping the pressure on the government of China to agree to a substantial revaluation of the Yuan, a move that would do little for the embattled dollar but cause great harm to China’s economy. The Nobel Prize theater is part of an escalating long-term pressure strategy of Washington against China.

The award of the Nobel Peace Prize to Liu Xiaobo was clearly no coincidence of events. Rather it must be understood in my view as a calculated part of a long-term strategy, not from a few members of the Norwegian Parliament, but from the leading elite circles of the world’s hegemonic power, the United States, to break China’s stride to become a sovereign and leading world economic factor. From their point of view, China must be “cut down to size.”

The Nobel Peace Prize's world media theater is a calculated part of this strategy―trying to make China “lose face” in the eyes of the rest of the world. That is all part of an orchestrated deeper game, using “human rights,” and a web of NGOs and organizations that Washington controls directly or indirectly, as a weapon of Washington geopolitics.

It is not likely to succeed any more than Washington’s calculated incitement of Tibetan riots around circles tied to the Dalai Lama in March 2008, or its covert encouragement of unrest in China’s Xinjiang Province in July 2009, or its attempt to activate a destabilization in China’s neighbor country, Mýanmar in 2007, the so-called Saffron Revolution. The circles running these pin-prick operations are aware of that. What they are doing is carefully preparing the international climate to turn the Peoples Republic of China from a partner and "friend" into the new “enemy image.” It's a very high risk strategy on Washington’s part. It is also rooted in a certain desperation over the USA's geopolitical situation.

Liu Xiaobo’s funny foreign friends

There is an old English expression that bears much truth, that a man is known by the company he keeps. I am not qualified to speak to the person of Liu Xiaobo. I have never met the man nor have I read his works. What I find significant however, is the company he keeps, especially Liu’s funny foreign friends.

Liu Xiaobo was President of the Independent Chinese PEN Center until 2007 and currently holds a seat on its board according to his official biography at the PEN International website.1 PEN is not just any random collection of writers. It is an integral part of the Anglo-American web of human rights and democracy advocacy NGOs and private organizations used to achieve defined geopolitical goals of its sponsors.

PEN calls itself the “world’s oldest human rights organization,” and was established in the 1920’s in London by two of the leading geopolitical strategists of the British Empire at the time, G.B. Shaw and H.G. Wells. It is supported by a network of private US and European foundations and corporations including Bloomberg, as well as the Norwegian Ministry of Foreign Affairs and “other donors who wish to remain anonymous.” It aims to create something it calls a “world culture.” That smells suspiciously like the Anglo-American theme of “Global Governance” or David Rockefeller’s “New World Order.” PEN is part of a larger web called the International Freedom of Expression Exchange or IFEX, an international network, based in Canada, of some ninety NGOs with the noble-sounding aim of defending “the right to freedom of expression,” whatever that might mean. IFEX members include the Washington-based Freedom House, itself financed by the US State Department, and the National Endowment for Democracy (NED).

Freedom House, created in 1941 to promote American entry into World War II, was used during the Cold War as a vehicle for CIA-directed anti-communist propaganda. Its recent activities have been a central role as NGO in Washington-directed destabilizations in Tibet, Myanmar, Ukraine, Georgia, Serbia, Kyrgyzstan and other countries apparently not pursuing policies satisfactory to certain powerful people in the USA. Its past president was former CIA Director James Woolsey. Freedom House chairman, Bette Bao Lord, was also a leading figure in the International Committee for Tibet at the time of the 2008 Tibet riots. Freedom House has worked closely with George Soros’ Open Society Institutes and the Norwegian Ministry of Foreign Affairs in promoting such projects as the Washington-financed 2005 Tulip Revolution in Kyrgyzstan that brought the Washington-friendly dictator and drug boss, Kurmanbek Bakiyev to power.2

So much for the PEN relations of Liu Xiaobo. Now we should look at why the Nobel award was made to him.

The little-known story of Tiananmen 1989

In their announcement of the Nobel award the committee cited Liu’s role in the 1989 Tiananmen protests as a major factor, as well as his co-authorship of something called Charter 08 in 2008, which Time magazine called “a manifesto calling for democratic political reform in oppressive communist China.”3

Liu Xiaobo reportedly flew back from teaching at America’s elite Ivy League Columbia University in spring of 1989 to play a leading role in student protests at Beijing’s Tiananmen Square. The events of Tiananmen Square in June 1989 are shrouded in the images of CNN for much of the world. What few know is that Tiananmen Square in June 1989 was an early attempt of the US intelligence to interfere in the internal affairs of the Peoples' Republic of China and to implement what later came to be called Color Revolutions. Similar Color Revolutions were later run by Washington in Serbia against Milosevic, in Ukraine with the so-called Orange Revolution, Georgia’s Rose Revolution and other geopolitical destabilizations aimed at creating Washington-friendly regime changes.

As I describe in my book, Full Spectrum Dominance: Totalitarian Democracy in the New World Order, the man who urged then-President George Herbert Walker Bush to impose strong sanctions against the Beijing government for the events of Tiananmen was US Ambassador James R. Lilley, long-time Bush friend and CIA official. There is good reason to believe that Lilley was the case officer running the destabilization operation. Gene Sharp of the Albert Einstein Institution in Boston, the author of the textbook for “non-violence as a form of warfare” as he terms it, was also in Beijing days before the Tiananmen protests escalated. Sharp’s organization and text, especially his book, Civilian-Based Defense: A Post Military Weapons System, reportedly played a significant role in the Color Revolutions in Serbia, Ukraine and Georgia as well. Perhaps just a coincidence that Sharp was in Beijing in June 1989…perhaps not.4

And at the time of the destabilizing events of Tiananmen in 1989, a foundation headed by George Soros, Fund for the Reform and Opening of China, was also reportedly forced to close down after Chinese officials accused it of working with the CIA to destabilize China during the June 1989 Tiananmen time.5

It is useful to recall that US intelligence in just this time was active in bringing the collapse of the Soviet Union as well. So the fact that Liu Xiaobo decides to drop a promising academic career in New York’s elite Columbia University to jump into the middle of events at Tiananmen in spring 1989 suggests at the very least he might have been encouraged to do so by some of his funny foreign friends in the US.

In terms of Liu’s role in drafting the Charter 08, his timing here is also remarkable and curious. At a time when China is modernizing its economy and allowing what appear to this writer as in many cases more individual freedom than one finds in certain Western so-called democracies, Liu escalates political pressures on the Beijing government. And he does it in 2008, clearly knowing well that Chinese officials are extremely sensitive to possible efforts by Tibet and other groups such as Uighurs to embarrass Beijing during the Olympics. The US State Department admitted that the 2008 Tibet Dalai Lama-supported protests and riots were the most serious internal unrest in the history of the Peoples’ Republic. It was hardly a time to demand more opening of dissent if one were really serious about such themes. It suggests that the activities of Liu Xiaobo might have another deeper agenda which perhaps his funny foreign friends provide.

The Nobel Prize Nomination

In this context, the list of names who formally nominated Liu Xiaobo to get the Nobel Peace Prize in 2010 is worth noting. The nomination was proposed by none other than the Dalai Lama, a long-time recipient of US Government financial largesse, from both the CIA and the US Congress v ia the National Endowment for Democracy. The fact that the Dalai Lama nominated Liu says much of the geopolitical nature of this year’s Nobel Peace Prize.

If we then look at a list of the other persons who nominated Liu Xiaobo, it reads like an international membership list of David Rockefeller’s very secretive Trilateral Commission, an ultra-elite membership-by-invitation-only group of three hundred of the most powerful persons in North America, Europe and Japan (China has not been invited to this select club).

Along with Dalai Lama, Karel Prince of Schwarzenberg and Czech Foreign Minister, former WTO head Mike Moore, Russian free market opposition politician Grigory A. Yavlinsky, all nominated Liu.

Prince Karel, Moore and Yavlinsky are all members of the elite Trilateral Commission suggesting that might be where plans were made to make Liu Xiaobo the Nobel winner.

Pro-NATO former Czech President Vaclav Havel, who is chairman of the International Council of the George Soros-financed Human Rights Watch, also joined in nominating Liu for the prize. Havel, who is close friends with Prince Karel, notes that Liu’s Charter 08 was modeled on Havel’s Czech Charter 77 which was used, with covert US backing, to destabilize the Soviet Union in the 1980's.6 It all suggests a close-knit club as Havel, and the club dues are paid by Washington in this case.  

About the Nobel Committee of the Norwegian Parliament little is made public. Their website stresses their complete independence which is less than credible if one looks to the list of names they have awarded the prize to. It includes the Dalai Lama, Burmese jailed opposition leader Aung San Suu Kyi, Barack Obama who got the award after only two weeks in office and despite the fact his military buildup of the war in Afghanistan was explicit before his nomination, Henry Kissinger who as Secretary of State backed repressive death squad regimes of Latin American dictators during the 1970's. And of course, just when Wall Street banks and Anglo-American establishment decides to promote the fraud of global warming, the Nobel Peace Prize is awarded to the discredited UN IPCC and to global warming promoter Al Gore. To put the facts in the open, evidence is clear that the Nobel Peace Prize is part of the geopolitical instruments of the NATO circles used to put pressure on governments it does not completely approve of. Norway is a founding member of NATO and has extremely close ties to leading US circles.

The Deeper Geopolitical Significance

The question as to why US powerful circles chose this moment to escalate pressure on the Peoples' Republic of China by awarding the Peace Prize to Liu Xaiobo is evident from the recent emergence of China as a strong and dynamically-growing world economy at the same time that the United States sinks into the worst economic depression in more than two hundred years of its existence.

Official US strategic policy remains that elaborated in the September 2002 National Security Strategy of the United States, sometimes termed the Bush Doctrine which states that "America's political and military mission in the post-cold-war era will be to ensure that no rival superpower is allowed to emerge in Western Europe, Asia or the territories of the former Soviet Union." That formulation has been explicit Pentagon doctrine since 1992.7

The reason China is being targeted? Simply because China today exists, and exists as a dynamically emerging world factor in economics and politics, creating foreign alliances to support that growth in places like Sudan or Iran where Washington has less control. At his point China's existence as a dynamic stable nation is a growing strategic threat to the United States, not because China threatens war as Washington is doing all round the world. The threat is that the United States and those who dominate its policy lose that global hegemonic position as China, Russia, the Shanghai Cooperation Organization countries of Central Asia as well as countless other countries move toward a far more diverse multi-polar world. According to the Bush Doctrine and US strategic geopolitics, that further dynamic must be prevented at all costs now while it is still possible. The recent escalation of sanctions against Iran by the UN Security Council under strong US pressure had less to do with Iran and its nuclear ambitions than with the fact that Iran is a strategic economic partner of China.

The award of the Nobel Peace Prize to Liu Xiaobo, far from a gesture in promotion of peace ought better to be seen for what it is: a US-guided, NGO-fostered part of a declaration of irregular warfare against the sovereign existence of China. British Balance of Power geopolitics since two hundred or more years has had as axiom that the hegemonic empire must always seek out the weaker of two potential adversaries and ally with it to destroy the stronger. US policy with regard to India since 2001 and with regard to China since 2008 has been just that, pursuit of a military and strategic alliance with the vastly weaker but useful India against strategic Chinese interests in Asia especially Pakistan and Afghanistan.

The official presence of NATO in Afghanistan, far away from the North Atlantic area of NATO ought to signal that all this is not about promotion of democracy or freedom of expression, but about a declining hegemon desperately trying every weapon in its arsenal to reverse reality. Liu Xaiobo is but a convenient tool in their efforts, one of countless many, like the Dalai Lama or Rebiya Kadeer of the Washington-backed World Uyghur Congress. They seem to have less effect as American credibility declines along with its economic stability, a highly unstable mix.


 

1 PEN America Center Website, China: Liu Xiaobo, accessed here

2 Philip Shishkin, In Putin's Backyard, Democracy Stirs -- With US Help, The Wall Street Journal, February 25, 2005

3 The Nobel Peace Prize Committee, The Nobel Peace Prize 2010: Liu Xiaobo, accessed here. For the Time quote, see

4 F. William Engdahl, Full Spectrum Dominance: Totalitarian Democracy in the New World Order, Wiesbaden,
edition.engdahl, 2009, pp. 43, 117. As well, for more on the methods of Sharp and the RAND Corporation, Jonathan Mowat, The new Gladio in action?, Online Journal, March 19, 2005, accessed here

5 United Press International (UPI), China Fund employee reportedly interrogated, August 9, 1989.

6 Vaclav Havel et al, A Chinese Champion of Peace and Freedom, January 18, 2010, accessed here

7 Patrick E. Tyler, U.S. Strategy Plan Calls for Insuring No Rivals Develop: A One-Superpower World, The New York Times, March 8, 1992.
 

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Russie, Chine, Inde: une voie trilatérale vers un monde multipolaire

Russie, Inde, Chine : une voie trilatérale vers un monde multipolaire

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Une semaine après que le président américain Barak Obama eut annoncé son soutien à l’Inde qui revendique un siège permanent au Conseil de sécurité de l’ONU, les ministres des Affaires étrangères de la Russie, de l’Inde et de la Chine (RIC) se sont réunis à Wuhan en Chine, les 14 et 15 novembre.

Les réformes de l’ONU faisaient partie des questions internationales les plus pressantes abordées par S.M. Krishna (Inde), Yang Jiechi (Chine) et Sergei Lavrov (Russie). Mais New Delhi est resté sur sa faim : la rencontre s’est clôturée par un communiqué conjoint en faveur des réformes mais n’allant pas au-delà d’une « appréciation positive du rôle joué par l’Inde dans les affaires internationales » .

La Russie a fortement appuyé la candidature indienne à un siège permanent, mais la Chine a refusé de clarifier sa position, mettant ainsi en évidence une compétition d’ambitions et de projets entre les deux membres pourvus du droit de véto au Conseil de sécurité – Chine et Russie – et le pays qui aspire à les rejoindre à la grande table.

Ces dissonances sur les questions décisives versent de l’eau au moulin des sceptiques qui considèrent que la RIC n’est qu’un club de parlote de plus. Cette conclusion est pourtant erronée. Ce qui compte ici, c’est l’importance croissante de la consultation au sein du trio des puissances émergentes qui détiennent les clés de l’ordre changeant du XXIe siècle.

 

De façon significative, la dixième rencontre trilatérale à Wuhan s’est tenue une semaine après que l’Association des nations de l’Asie du Sud-Est (ANASE [ou ASEAN]) eut approuvé l’admission des États-Unis et de la Russie au sommet de l’Asie orientale. Au lendemain aussi d’une rencontre entre les dirigeants indiens et chinois à Hanoï, dans un contexte tendu.

Pour conclure, la triade a réitéré son appel à un ordre mondial multipolaire, tout en insistant, dans le même mouvement, qu’ « aucun pays tiers » n’était visé (un euphémisme pour les États-Unis).

L’Inde, la Russie et la Chine ont manifesté des inquiétudes communes à propos de l’Afghanistan, mais leur coopération sur ce point n’a pas avancé. La triade a résolu d’intensifier la coopération antiterroriste mais il semble que Pékin ait bloqué la proposition indienne d’inclure une référence à l’élimination des « refuges » pour les terroristes, allusion au Pakistan pour son rôle en Afghanistan.

Ces différences d’approche et de point de vue des trois puissances émergentes sont naturelles, et c’est exactement pour cela que l’idée de cette triade avait été proposée il y a plus de dix ans par le Premier ministre russe Evgueny Primakov, afin de contrebalancer l’hégémonie de Washington.

La triade encourage aussi l’approfondissement de la coopération dans des domaines divers : agriculture, santé, changements climatiques, catastrophes naturelles et problèmes économiques mondiaux, qui peuvent transformer la vie des populations. La proposition de relier les centres d’innovation des trois grandes économies (Bangalore et Skolkovo par exemple), noyau de la croissance mondiale, est l’une de ces idées qui mêle l’ambition d’une renaissance nationale partagée par les trois pays à leur désir collectif d’avoir plus de poids dans les questions internationales.

Trois, c’est peut-être un de trop, mais dans ce cas-ci, le trio n’a d’autre choix que de gérer ses divergences car chacun des trois pays a plus d’intérêts que de désavantages dans les progrès réalisés par les deux autres. Alors que l’idée d’un G2 est une chimère et tandis que la réforme du Conseil de sécurité de l’ONU reste une perspective à long terme, le RIC représente un microcosme d’une ère asiatique en gestation qui accentue la nécessité de renforcer la confiance entre les trois piliers d’un monde multipolaire.

La Russie d’Aujourd’hui

mardi, 28 décembre 2010

China und Russland schaffen den Dollar ab

China und Russland schaffen den Dollar ab

Michael Grandt

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

China und Russland haben beschlossen, den US-Dollar als Sicherheit für den bilateralen Handel aufzugeben und auf ihre eigenen Währungen zurückzugreifen. Zudem will Peking Russland helfen, sich wieder als Großmacht zu etablieren.

Chinesische Experten sagten aus, dass die engeren Beziehungen zwischen Peking und Moskau nicht gegen den Dollar gerichtet seien, sondern die eigenen Volkswirtschaften schützen soll.

Im Zuge von Handelsvereinbarungen hatten die beiden Staaten unlängst beschlossen, auf ihre eigenen Währungen zurückzugreifen. Im chinesischen Interbankenmarkt wurde bereits damit begonnen, den Yuan gegen den russischen Rubel zu handeln; umgekehrt soll dies mit der chinesischen Währung auch bald in Russland möglich sein.

Beide Länder hatten ihren bilateralen Handel bisher hauptsächlich mit dem Dollar getrieben. Doch im Zuge der Finanzkrise begannen hochrangige Beamte beider Länder, andere Möglichkeiten zu eruieren.

Sun Zhuangzhi, leitender Forscher an der chinesischen Akademie der Sozialwissenschaften, stellte fest, der neue Modus der Geschäftsabwicklung zwischen China und Russland folge einem globalen Trend, nachdem die Finanzkrise die Fehler eines vom Dollar dominierten Weltfinanzsystems aufgezeigt habe. Pang Zhongying, die in der Renmin University of China auf internationale Politik spezialisiert ist, sagte, der Vorschlag fordere den Dollar nicht heraus, sondern richte sich auf die Vermeidung der Risiken, die der Dollar darstelle.

Die neue Zusammenarbeit zwischen China und Russland soll vor allem in den Bereichen Luftverkehr, Eisenbahnbau, Zoll, Schutz des geistigen Eigentums und der Kultur stattfinden. Inoffiziellen Verlautbarungen nach will Peking zudem zwei Atomreaktoren aus Russland kaufen.

Der chinesische Ministerpräsident Jiabao Wen sagte, die Partnerschaft zwischen Peking und Moskau habe »ein beispielloses Niveau« erreicht und versprach, die beiden Länder »werden sich nie mehr verfeinden. China wird dem Weg der friedlichen Entwicklung folgen und die Renaissance Russlands als Großmacht unterstützen«.

Peking ist außerdem bereit, mit Moskau in Zentralasien und der asiatisch-pazifischen Region zusammenzuarbeiten. Ebenso soll in den wichtigen internationalen Organisationen und Mechanismen eine »faire und vernünftige, neue Ordnung« in der internationalen Politik und Wirtschaft angestrebt werden.

 

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Quelle:

http://www.chinadaily.com.cn/china/2010-11/24/content_115...

lundi, 27 décembre 2010

L'incubo geopolitico di Washington: Russia e Cina piu vicine

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L’incubo geopolitico di Washington: Russia e Cina più vicine

Fonte: “

Reseau Voltaire [1]

Qualsiasi siano i conflitti in corso all’interno delle mura del Cremlino fra Medvedev e Putin, ci sono ultimamente chiari segnali che sia Pechino sia Mosca si stiano muovendo con decisione, dopo un lungo periodo di esitazione, al fine di rafforzare la cooperazione strategica economica a fronte del palese sgretolarsi del ruolo d’unica superpotenza degli USA. Se questa tendenza si rafforzasse, si verificherebbe il peggiore incubo geopolitico di Washington: una massa continentale eurasiatica riunita, in grado di sfidare l’egemonia economica globale dell’America.


Parafrasando il proverbio cinese, potremmo affermare di vivere senza dubbio in «tempi interessanti». Non appena sembrava che Mosca si stesse avvicinando a Washington nel corso della Presidenza di Medvedev, accettando di cancellare la vendita all’Iran di un controverso sistema di difesa missilistica S-300 e iniziando a cooperare con Washington sui progetti della NATO, incluso forse lo scudo antimissile, Mosca e Pechino si sono accordati su una serie di misure che possono avere grosse implicazioni geopolitiche, non ultime per il futuro della Germania e quello dell’Unione Europea.

Nel corso d’incontri di vertice tenutisi a San Pietroburgo, il primo ministro cinese Wen Jiabao e la sua controparte russa, Vladimir Putin, hanno fatto una serie d’annunci passati relativamente inosservati nei principali mezzi di comunicazione occidentali, temporaneamente ossessionati dai dubbi scandali legati a “Wikileaks”. È già la settima volta che i dirigenti dei due paesi si incontrano quest’anno, e certamente questo significa qualcosa.

Ad oggi non ci sono stati molti investimenti cinesi nel mercato russo e quelli che si sono verificati, avevano forma prevalente di prestiti. Il valore degli investimenti diretti e di portafoglio in progetti concreti rimangono insignificanti, così come il livello di investimento della Russia in Cina: la situazione è destinata però a cambiare. Alcune società russe sono già quotate alla Borsa di Hong Kong ed esiste un numero di progetti di investimento russo-cinesi per la creazione di tecnoparchi sia in Russia sia in Cina.

Lasciando cadere il dollaro

I due Primi Ministri hanno annunciato, fra l’altro, di aver raggiunto un accordo per rinunciare al dollaro nel loro commercio bilaterale utilizzando al suo posto le proprie valute. Inoltre hanno raggiunto accordi potenzialmente di vasta portata su energia, commercio e modernizzazione economica delle remote regioni del vasto spazio euroasiatico dell’Estremo Oriente russo.

Fonti cinesi hanno rivelato alla stampa russa che questa mossa rifletterebbe relazioni più strette fra Pechino e Mosca e lo scopo non sarebbe quello di sfidare il dollaro. Putin ha allegramente annunciato: «Per quanto riguarda la compensazione commerciale, abbiamo deciso di usare le nostre valute». Egli ha aggiunto che la moneta cinese yuan ha cominciato ad essere scambiata col rublo russo nel mercato interbancario cinese, mentre il renminbi, fino ad ora solo moneta domestica e non convertibile, avrà presto una parità col rublo in Russia.

Ad oggi il commercio fra i due paesi avveniva in dollari. In seguito allo scoppio della crisi finanziaria nel 2007 e l’estrema volatilità del dollaro e dell’euro, entrambe le nazioni hanno cercato nuovi modi di evitare l’uso della valuta statunitense nel commercio, tentativo potenzialmente importante per il futuro della stessa. Al fine di ottimizzare lo sviluppo e la struttura del commercio, i due governi hanno creato la Camera di Commercio russo-cinese per i macchinari e prodotti tecnologici. Il Greenwood World Trade Center a Mosca, attualmente in costruzione da una società cinese, sarà nel 2011 un centro espositivo e commerciale di prodotti cinesi in Russia e servirà da piattaforma per incrementare gli scambi non governativi tra i due paesi.

Allo stato attuale il commercio fra Russia e Cina è in rapida crescita. Nei primi 10 mesi di quest’anno, il volume del commercio bilaterale ha raggiunto circa 35 miliardi di euro, un incremento su base annua del 45%. Quest’anno si prevede che gli scambi totali supereranno i 45 miliardi, portandosi così vicini al livello precedente alla crisi finanziaria. Entrambe le parti hanno intenzione di aumentare il volume degli scambi in maniera significativa nei prossimi anni e alcuni analisti russi credono che potrebbe anche raddoppiare nel giro d’un triennio. L’esclusione del dollaro non è cosa da poco e, se seguita da altri Stati dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (il gruppo di sei paesi eurasiatici instaurato da Cina e Russia nel 2001) potrebbe indebolirne il ruolo di valuta di riserva mondiale.

Dal Trattato di Bretton Woods nel 1944 il dollaro è stato posto al centro del sistema di commercio globale e l’egemonia statunitense si è basata su due pilastri indispensabili: il dominio degli Stati Uniti come potenza militare insieme al ruolo esclusivo del dollaro come valuta di riserva mondiale. La combinazione di potenza militare e ruolo di riserva della propria valuta per tutto il commercio di petrolio, altre materie prime essenziali e prodotti finanziari, ha permesso a Washington di finanziarsi concretamente le sue guerre per il dominio globale col “denaro degli altri”.

Cooperazione energetica

Accordi interessanti sono stati siglati anche nell’ambito della cooperazione energetica bilaterale. È chiaro che i due colossi euroasiatici hanno in programma di espandere il commercio bilaterale al di fuori del dollaro in modi interessanti, includendo in maniera significativa l’energia, dove la Cina ha enormi deficit e la Russia enormi sovrappiù e non solo nel petrolio e nel gas.

Le due parti espanderanno la cooperazione nell’energia nucleare a partire dall’aiuto offerto dalla Russia alla Cina per la costruzione di centrali nucleari e di progetti congiunti russo-cinesi al fine di arricchire l’uranio in linea con le normative AIEA e produrlo in paesi terzi ed inoltre per costruire e sviluppare una rete di raffinerie petrolifere in Cina. È già in essere il primo progetto, Tianjin. Un accordo prevede l’acquisto di due reattori nucleari russi da parte della centrale nucleare cinese di Tianwan, il complesso più avanzato di energia nucleare in Cina. Così pure l’esportazione del carbone dalla Russia alla Cina dovrebbe superare i 12 milioni di tonnellate nel 2010, ed è destinata ad aumentare.

Le compagnie petrolifere cinesi forniranno anche gli investimenti necessari per aggiornare i progetti per l’esplorazione e lo sviluppo dei giacimenti d’idrocarburi e la raffinazione del petrolio, in joint venture con società statali e private russe. In aggiunta, un gasdotto russo-cinese diventerà operativo a fine anno. Un punto importante ancora da sistemare è l’ammontare del prezzo del gas russo alla Cina: l’accordo è previsto nei prossimi mesi. La Russia chiede un prezzo per la fornitura di gas Gazprom che sia uguale a quello per i clienti europei, mentre Pechino richiede uno sconto.

I maggiori progetti di sviluppo industriale

Ci saranno intensi e reciproci investimenti industriali nelle remote regioni lungo i 4200 km di frontiera in comune, in particolare fra la Siberia e l’Estremo Oriente russi ed il Dungbei cinese, dove negli anni ’50 e ’60, prima dell’incrinarsi delle relazioni fra Unione Sovietica e Cina, l’URSS aveva costruito centinaia di impianti industriali leggeri e pesanti. Quest’ultimi sono stati modernizzati e rimpiti di nuove tecnologie cinesi o d’importazione, ma le solida fondamenta industriali d’epoca sovietica sono ancora là.

Questo – sostengono alcuni analisti russi – conferirà alla cooperazione regionale un livello tecnologico più elevato, soprattutto fra i territori di Chabarovsk e Primor’e, le regioni di Čita e Irkutsk, la Transbaikalia, tutta la Siberia, l’Heilongjiang ed altre province cinesi.

Nel 2009 Cina e Russia firmavano un programma con scadenza 2018 per lo sviluppo congiunto di Siberia, Estremo Oriente russo, e province nord orientali della Cina, attraverso un chiaro piano d’azione che comprendeva dozzine di progetti di cooperazione tra le specifiche regioni per sviluppare 158 strutture nelle aree di confine, nel settore del legno, chimica, infrastrutture stradali e sociali, agricoltura e diversi progetti di esportazione di energia.

Il viaggio di Wen segue la visita di tre giorni del Presidente Medvedev in Cina a settembre, durante la quale assieme al presidente Hu Jintao ha lanciato il da tempo discusso gasdotto trans-frontaliero da Skovorodino, nella parte orientale della Siberia, a Daqing, nel nord est della Cina. Entro la fine del 2010 il petrolio russo inizierà a fluire verso la Cina al ritmo di 300.000 barili al giorno per i prossimi vent’anni, grazie ad un accordo di tipo “credito in cambio di petrolio” da 20 miliardi di euro, stipulato lo scorso anno.

La Russia sta cercando di espandersi all’interno del crescente mercato energetico asiatico e in particolar modo in quello cinese, e Pechino vuole migliorare il suo approvvigionamento energetico diversificando rotte e fonti. Il gasdotto raddoppierà l’esportazione di petrolio russo in Cina, oggi trasportato principalmente tramite una lenta e costosa rotta ferroviaria, e farà della Russia uno dei suoi primi tre fornitori di greggio alla Cina, assieme a Arabia Saudita e Angola; un importante realizzo geopolitico per entrambi.

Il premier cinese Wen durante una conferenza stampa a San Pietroburgo ha affermato che la partnership fra Pechino e Mosca ha raggiunto «livelli di cooperazione senza precedenti» e ha promesso che i paesi «non diventeranno mai nemici». È dalla rottura sino-sovietica durante la Guerra Fredda che la geopolitica di Washington cerca di creare una profonda spaccatura tra i due paesi per rafforzare la sua influenza sul vasto dominio eurasiatico.

Come ho affermato in precedenza, l’unica potenza del pianeta che in teoria potrebbe ancora offrire un deterrente nucleare credibile a Washington è la Russia, per quanti problemi economici possa avere. La capacità militare cinese è ancora distante anni da quella russa, ed è principalmente difensiva. Sembra essere la Cina l’unica potenza economica in grado di rappresentare una sfida per il declinante gigante statunitense. La complementarità fra i due sembra essere stata pienamente compresa. Forse le prossime rivelazioni di Wikileaks “scopriranno” dettagli imbarazzanti su questa cooperazione; dettagli convienti per l’agenda geopolitica di Washington. Per il momento, però, la crescente cooperazione economica sino-russa rappresenta il peggior incubo geopolitico di Washington in un momento in cui la sua influenza globale è chiaramente in declino.

(Traduzione di Eleonora Ambrosi)


* F. William Engdahl, economista e co-direttore di “Global Research”, fa parte del Comitato Scientifico di “Eurasia”.

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mercredi, 08 décembre 2010

Washingtons geopolitischer Albtraum: China und Russland verstärken die wirtschaftliche Zusammenarbeit

Washingtons geopolitischer Albtraum: China und Russland verstärken die wirtschaftliche Zusammenarbeit

F. William Engdahl

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Jenseits aller fraktionellen Auseinandersetzungen, die im Kreml zwischen Putin und Medwedew geführt werden mögen, mehren sich in jüngster Zeit eindeutige Hinweise darauf, dass sich Peking und Moskau nach langem Zögern darauf orientieren, die wirtschaftliche Zusammenarbeit zu stärken. Ausschlaggebend dafür mag auch die offenkundige Desintegration der USA als alleiniger Supermacht gewesen sein. Wenn sich der gegenwärtige Trend fortsetzt, dann wird Washingtons schlimmster geopolitischer Albtraum wahr: Einigkeit zwischen den Staaten auf der eurasischen Landmasse, die gemeinsam in der Lage sind, die Hegemonie Amerikas als Wirtschaftsmacht herauszufordern.

 

 

Ein genauer Blick auf die Karte zeigt, warum die wirtschaftliche Kooperation zwischen Russland und China Washington Kopfschmerzen bereitet

 

Wie es in einem chinesischen Sprichwort heißt, leben wir in »interessanten Zeiten«. Gerade noch sah es so aus, als bewegte sich Moskau unter Präsident Medwedew stärker auf Washington zu: Medwedew hatte eingewilligt, den umstrittenen Verkauf von S-300-Raketenabwehrsystemen an den Iran auf Eis zu legen und schien einer Kooperation mit Washington über Fragen der NATO einschließlich eines möglichen Raketenschildes nicht abgeneigt. Doch jetzt haben sich Moskau und Peking auf eine ganze Reihe von Maßnahmen verständigt, die weitreichende geopolitische Auswirkungen haben können, nicht zuletzt auf die Zukunft Deutschlands und der Europäischen Union.

Nach Gesprächen auf höchster Ebene haben Chinas Premierminister Wen Jiabao und sein russischer Amtskollege Wladimir Putin kürzlich in St. Petersburg öffentlich mehrere Projekte angekündigt, die in den westlichen Mainstream-Medien, die zurzeit von den Wikileaks-Skandalen geradezu besessen sind, relativ wenig Beachtung gefunden haben. Es war das siebte Mal in diesem Jahr, dass hochrangige Vertreter der beiden Länder zu Gesprächen zusammenkamen. Das allein ist schon ein Hinweis auf wichtige Entwicklungen.

Bisher gibt es kaum nennenswerte chinesische Investitionen in Russland, die wenigen Ausnahmen erfolgen zumeist in Form von Darlehen. Direkte und Portfolio-Investitionen in reale Projekte sind nach wie vor unbedeutend. Auch russische Investitionen in China sind bislang unbedeutend, doch das soll sich nun ändern. Mehrere russische Unternehmen sind bereits an der Börse in Hongkong gelistet; im Rahmen des Aufbaus gemeinsamer Technologieparks in Russland und China werden inzwischen eine Reihe russisch-chinesischer Hochtechnologie-Investitionsprojekte verfolgt.

Der Dollar wird fallengelassen

Unter anderem gaben die beiden Premierminister bekannt, man habe sich darauf geeinigt, im bilateralen Handel auf den Dollar zu verzichten und auf die eigenen Währungen zu setzen. Außerdem wurden potenziell weitreichende Vereinbarungen bezüglich Energie, Handel und die wirtschaftliche Modernisierung entlegener Regionen im Fernen Osten Russlands getroffen.

Chinesische Quellen berichteten in der russischen Presse, sie hielten diesen Schritt für Anzeichen engerer Beziehungen zwischen Peking und Moskau; der Dollar solle nicht infrage gestellt werden. Unbekümmert kündigte Putin an: »Wir haben beschlossen, bei der Abwicklung des Handels auf unsere eigenen Währungen zu setzen.« Der chinesische Yuan werde mittlerweile auf dem chinesischen Interbankenmarkt gegen russische Rubel gehandelt, während der Renminbi, der bis vor Kurzen noch als chinesische Inlandswährung nicht konvertibel war, laut Putin auch bald in Russland gegen den Rubel gehandelt werden könne.

Bisher war der gesamte Handel zwischen beiden Ländern in US-Dollar abgewickelt worden. Mit

Putin und Wen haben sich bei ihrem jüngsten Treffen auf mehr als nur die Rettung des Tigers geeinigt

Beginn der US-Finanzkrise 2007 und angesichts der extremen Volatilität des Dollar und des Euro hatten beide Länder nach Wegen gesucht, den Warenverkehr demnächst unabhängig vom Dollar abzuwickeln – mit möglicherweise weitreichenden Folgen für Letzteren. Um die Struktur des Handels zu optimieren und neue Entwicklungsmöglichkeiten zu eröffnen, haben die beiden Länder die Chinesisch-Russische Handelskammer für Maschinenbau- und Elektronikprodukte eingerichtet. Das Greenwood-Welthandelszentrum, das von einem chinesischen Unternehmen gebaut wird, soll 2011 als Ausstellungs- und Handelszentrum für chinesische Produkte in Russland eröffnet werden und als öffentliches Forum zur Stärkung des nicht-staatlichen Handels zwischen Russland und China fungieren.

Der bilaterale Handel zwischen Russland und China wächst zurzeit kräftig. In den ersten zehn Monaten dieses Jahres erreichte er ein Volumen von fast 35 Milliarden Euro, das bedeutet gegenüber dem Vorjahr einen Anstieg um 45 Prozent. Insgesamt wird für das ganze Jahr ein Handelsvolumen von 45 Milliarden Euro erwartet, womit beinahe wieder das Niveau vor der Finanzkrise erreicht wird. Beide Seiten wollen den Handel in den kommenden Jahren deutlich ausweiten; in Russland gehen einige von einer Beinahe-Verdopplung in den nächsten drei Jahren aus.1 Deshalb hat die Frage, ob der Dollar dabei umgangen wird, einiges Gewicht. Wenn mehr Länder der Shanghai Cooperation Organization – der 2001 von Russland und China gegründeten Organisation aus sechs eurasischen Staaten – diesem Beispiel folgen, so würde der Dollar in seiner Rolle als Weltreservewährung erheblich geschwächt.

Seit der Dollar 1944 im Bretton-Woods-Abkommen als zentrale Währung des Welthandelssystems etabliert wurde, beruhte die Hegemonie der USA auf zwei unabdingbaren Säulen: erstens der militärischen Dominanz und zweitens der Rolle des Dollars als Weltreservewährung. Durch die Kombination von Militärmacht und strategischer Bedeutung des Dollar beim Handel mit Öl, anderen wichtigen Rohstoffen und im Finanzwesen allgemein war Washington in der Lage, die eigenen Kriege um die weltweite Vorherrschaft mit „dem Geld anderer Leute“ zu finanzieren.

Kooperation im Bereich Energie

Auch im Bereich internationaler Energie-Kooperation wurden interessante Abkommen unterzeichnet. Die beiden großen eurasischen Mächte Russland und China planen, den vom Dollar unabhängigen bilateralen Handel auf interessante Weise auszubauen, besonders im Bereich Energie, in dem China erhebliche Defizite und Russland ebenso erhebliche Überschüsse nicht nur an Öl und Gas aufzuweisen hat.

Beide Staaten wollen die Zusammenarbeit bei der Nutzung der Kernenergie ausbauen. zunächst sollen in China mit russischer Hilfe Kernkraftwerke gebaut und gemeinsame russisch-chinesische Projekte zur Urananreicherung entwickelt werden, die den Standards der Internationalen Atomenergiekommission entsprechen. In Drittländern soll Uran gefördert werden; außerdem soll in China ein ganzes Netz von Ölraffinerien gebaut und entwickelt werden. Das erste Projekt, das chinesische Kernkraftwerk Tianjin, ist bereits unter Dach und Fach. Vereinbart wurde der Kauf von zwei russischen Kernreaktoren für Tianjian, den modernsten Kernkraftwerk-Komplex in China.

Auch der Export russischer Kohle nach China wird voraussichtlich 2010 über 12 Millionen Tonnen erreichen und in Zukunft weiter steigen.

Chinesische Ölgesellschaften investieren in die Nachrüstung russischer Projekte zur Exploration, Entwicklung und Verarbeitung von Erdöl, in Joint Ventures mit staatlichen und privaten russischen Unternehmen. Die Inbetriebnahme einer russisch-chinesischen Pipeline ist für Ende 2010 geplant.

Noch nicht abgeschlossen sind Preisverhandlungen über russisches Gas, das nach China geliefert wird; doch auch hier wird in den nächsten Monaten eine Einigung erwartet. Russland verlangt für das von Gazprom gelieferte Gas denselben Preis, der auch europäischen Kunden in Rechnung gestellt wird; Peking fordert einen Preisnachlass.

Große Industrie-Entwicklungsprojekte

Auf der Liste stehen auch gemeinsame industrielle Investitionen in den entlegenen Regionen entlang der 4200 km langen Grenze zwischen Sibirien und dem Fernen Osten Russlands und der chinesischen Region Dungbei. Dort hatte die Sowjetunion in den 1950er und 1960er Jahren, vor dem Bruch mit China, Hunderte Fabriken der Leicht- und Schwerindustrie gebaut. Diese sind in der Zwischenzeit modernisiert und mit neuer chinesischer oder importierter Technik ausgerüstet worden, aber das solide industrielle Fundament aus der Sowjetära besteht noch. Dies wird nach Auskunft russischer Analysten zu regionaler Zusammenarbeit auf einem höheren technischen Niveau beitragen, besonders zwischen den Distrikten Chabarowsk und Primorye sowie den Regionen Chita und Irkutsk, dem Gebiet Transbaikal und ganz Sibirien sowie auf chinesischer Seite der Provinz Heilongjiang und anderen Provinzen.2

2009 haben sich China und Russland außerdem ein bis 2018 terminiertes Programm für die gemeinsame Entwicklung Sibiriens und des Fernen Ostens sowie den nordöstlichen Provinzen Chinas geeinigt. Es umfasst Dutzende von Kooperationen zwischen bestimmten Regionen zur Entwicklung von 158 Industrieanlagen im russisch-chinesischen Grenzgebiet, vor allem von Betrieben der Holzverarbeitung und der chemischen Industrie, beim Straßenbau, der sozialen Infrastruktur und Landwirtschaft sowie mehrere Projekte für den Export von Energie.

Die Russlandreise von Premierminister Wen folgte auf den dreitätigen China-Besuch des russischen Präsidenten Medwedew im September, bei dem dieser gemeinsam mit Präsident Hu Jintao das lange geplante grenzüberschreitende Pipeline-Projekt von Skoworodina in Ostsibirien nach Daqing in Nordost-China in Gang gebracht hatte. Ende 2010 wird erstmals russisches Öl nach China fließen, und zwar mit einer Rate von 300.000 Barrel pro Tag. Der im vergangenen Jahr geschlossene Liefervertrag hat eine Laufzeit von 20 Jahren und ein Volumen von 20 Milliarden Euro.

Russland strebt an, auf den schnell wachsenden asiatischen, besonders den chinesischen Energiemarkt vorzustoßen; Peking will die Energiesicherheit erhöhen, indem Quellen und Versorgungsrouten diversifiziert werden. Durch die neue Pipeline wird sich der Export von russischem Öl nach China, der bisher über eine langsame und teure Eisenbahnroute erfolgt, verdoppeln. Russland wird damit neben Saudi-Arabien und Angola zum dritten wichtigen Rohöl-Lieferanten für China – für beide Seiten ein wichtiger geopolitischer Gewinn.

Bei einer Pressekonferenz in St. Petersburg erklärte Premierminister Wen, die Partnerschaft zwischen Peking und Moskau habe eine »nie dagewesene Ebene« erreicht; er gelobte, dass beide Länder »nie zum Feind des anderen« werden sollten. Seit dem chinesisch-sowjetischen Bruch während des Kalten Krieges ist Washingtons Geopolitik darauf gerichtet, einen Keil zwischen die beiden Staaten zu treiben und damit ihren Einfluss über den weiten eurasischen Raum auszuhebeln.

Wie ich bereits in früheren Beiträgen betont habe, bleibt Russland allen wirtschaftlichen Problemen zum Trotz die einzige Macht, die gegenüber Washington über eine glaubwürdige nukleare Abschreckung verfügt. Davon ist die militärische Macht Chinas, die ja hauptsächlich zur Selbstverteidigung aufgebaut wurde, noch Jahre entfernt. Die einzige Wirtschaftsmacht, die die schwindende wirtschaftliche Macht der USA herausfordern kann, ist China. Offenbar hat man verstanden, wie gut sich beide ergänzen. Vielleicht wird Wikileaks demnächst peinliche Details über diese Zusammenarbeit »aufdecken«, die Washingtons geopolitischen Absichten entgegenkommen. Für den Augenblick jedoch bedeutet die wachsende Wirtschaftskooperation zwischen China und Russland für Washington den schlimmsten geopolitischen Albtraum, und das genau zu dem Zeitpunkt, wo der weltweite Einfluss Washingtons schwindet.


1 Sergei Luzyanin, Russian Chinese economic cooperation serves the longterm domestic goals, RIA Novosti, 26. November 2010, unter http://en.rian.ru/valdai_op/20101126/161505920.html

2 Ebenda

 

Cina e Russia, addio al dollaro tra politica ed economia

Cina e Russia, addio al dollaro tra politica ed economia

Yuan e rubli negli scambi bilaterali. Paolo Manasse: "Ricerca di stabilità e di autonomia da Washington. Ma non è guerra delle valute"

Cina e Russia hanno deciso di effettuare le transazioni commerciali bilaterali nelle proprie valute (yuan-renminbi e rublo), rinunciando al dollaro come moneta universale di scambio.
L'anno scorso, il commercio tra i due Paesi è stato stimato attorno ai quaranta miliardi di dollari. Si pensa che a fine 2010 ammonterà a sessanta miliardi.
Nell'accordo siglato da Vladimir Putin e Wen Jiabao a San Pietroburgo il 24 novembre, molti hanno visto un capitolo di quella "guerra delle valute" che agita sia i mercati finanziari sia la geopolitica mondiale, con il rinnovato interesse dell'amministrazione Obama per l'Estremo Oriente e la crescita record della Cina, nuova superpotenza.
PeaceReporter ha chiesto un parere a Paolo Manasse, professore di Macroeconomia e di Politica Economica Internazionale all'Università di Bologna, docente di Macroeconomia all'Università Bocconi di Milano.

Come si spiega la decisione di Russia e Cina?

C'è un motivo economico e ce ne è uno politico.
Dal punto di vista economico, siamo in un periodo di volatilità dei cambi legato alla crisi. Quando si parla di volatilità, ci si riferisce soprattutto al rapporto tra euro e dollaro. La Russia ha un grande volume di scambi con l'Europa, idem la Cina che ce l'ha anche con gli Usa, quindi sono esposte ai rischi di questa volatilità. E' probabile che almeno nello scambio bilaterale vogliano tutelarsi dai rischi di cambio delle valute, utilizzando le proprie.
L'aspetto politico sta nel fatto che soprattutto la Cina, così facendo, afferma la propria sovranità anche valutaria, mostrando di poter fare a meno del dollaro, cioè contrastando il privilegio tutto statunitense di battere moneta. Può essere letto in chiave di sfida.

C'entra con la cosiddetta "guerra delle valute"?

La guerra delle valute dura da anni. Muove dall'accusa Usa secondo cui la Cina terrebbe la propria moneta artificialmente bassa per guadagnare competitività. Nei meccanismi di mercato, alla domanda molto alta di merci cinesi dovrebbe corrispondere anche una domanda molto alta di yuan per pagarle. La conseguenza naturale dovrebbe essere la crescita di valore della moneta cinese e il deprezzamento del dollaro. Qui invece interviene la banca centrale cinese comprando dollari e vendono yuan per calmierarne il prezzo. Le conseguenze sono il valore basso dello yuan e un accumulo di dollari nelle riserve cinesi.
E' comunque una faccenda che riguarda soprattutto gli Usa, perché sono loro ad avere un enorme deficit commerciale con la Cina. L'Europa molto meno.
Tecnicamente, la scelta di Russia e Cina non c'entra molto con la guerra delle valute.
Anzi, potrebbe avere come effetto la riduzione della domanda di dollari e quindi l'indebolimento della valuta Usa. Chiaramente, non è scontato che ci sia un simile effetto, dipende da quali saranno i volumi degli scambi tra Cina e Russia. Ma comunque l'accordo non può essere visto come un tassello della guerra delle valute.

C'è anche il tentativo di diversificare le proprie riserve valutarie, riducendo la parte in dollari?

Il monopolio del dollaro come moneta di riserva [cioè la valuta con cui le banche centrali dei diversi Paesi accumulano le proprie riserve, date generalmente dal surplus commerciale, ndr] è già finito con l'avvento dell'euro. In genere le banche centrali tengono un portafoglio abbastanza bilanciato, diversificato, per evitare che fluttuazioni nel mercato dei cambi provochino problemi. Non si punta mai al cento per cento su una sola valuta.
In questo caso, mi sembra che si punti più a evitare l'impatto delle fluttuazioni sulle transazioni, sul commercio. A parte la valutazione politica, certo, cioè l'affermazione di indipendenza da parte della Cina.
Se un cinese esporta merci facendosi pagare in dollari o euro, e una delle due monete crolla, ci perde un sacco di soldi. Dal momento in cui si fanno le transazioni al momento in cui vengono liquidate, si rischia. Di solito ci si assicura con il mercato a termine: uno vende i dollari di domani a un prezzo che conosce oggi. Ma se fa gli scambi con la moneta nazionale, ha risolto il problema alla radice.

Gabriele Battaglia

mardi, 30 novembre 2010

La Chine et la Russie abandonnent le dollar comme devise de leurs échanges commerciaux

La Chine et la Russie abandonnent le dollar comme devise de leurs échanges commerciaux

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

La Chine et la Russie ont convenu de ne plus utiliser le dollar dans leurs échanges commerciaux mais leur propre devise, ont annoncé mardi le Premier ministre chinois, Wen Jiabao et son homologue russe, Vladimir Poutine, à l’issue de la quinzième rencontre de haut-niveau entre les deux nations.

Les deux dirigeants ont déclaré que cette décision reflétait un renforcement des liens entre Pékin et Moscou et n’était pas destinée à remettre en cause la devise américaine mais à protéger leurs économies respectives.

Par le passé, la Chine et la Russie utilisaient dans leur commerce bilatéral d’autres devises, dont le dollar, mais la crise financière internationale et la baisse du billet vert ont conduit les deux parties à considérer une autre alternative.

 

La rouble est actuellement la sixième devise étrangère, après le dollar, l’euro, la livre Sterling, le dollar de Hong Kong et le ringgit malais à être autorisée par la Chine dans ses échanges commerciaux, annonce le Moscow Times.

Le China Foreign Exchange Trade System, le régulateur chinois d’échanges commerciaux avec l’étranger, a indiqué dans un communiqué que cette décision permettra de réduire les risques et de faciliter le commerce bilatéral entre la Chine et la Russie.

La première transaction commerciale de cette nouvelle donne a eu lieu lundi et concerne l’Industrial & Commercial Bank of China Ltd. et la Bank of China Ltd., pour un montant d’un million de yuans (151.000 dollars), selon Bloomberg.

La National Bank of China évalue un yuan à 4,6 roubles pour le départ de ces nouvelles régulations, annonce RT.

Cette annonce conjointe est perçue comme le résultat d’une augmentation des échanges commerciaux entre les deux pays. Durant les dix premiers mois de l’année 2010, le volume global des échanges a atteint 45,1 milliards de dollars, soit une hausse de 43,4% par rapport à la même période, l’année passée.

Les discussions entres les deux pays devraient maintenant porter sur les prix du gaz naturel importé par Pékin et que les Chinois espèrent réviser à la baisse…

Tout sur la Chine

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Article lié :

La Chine et la Russie éjectent le dollar

Le Premier ministre chinois Wen Jiabao et son homologue Vladimir Poutine ont annoncé, à l’issue de leur rencontre du 23 septembre à Saint-Pétersbourg, que le dollar n’est désormais plus la monnaie utilisée pour leurs échanges commerciaux bilatéraux.

C’est la première fois que le dollar est ainsi déréférencé par deux puissances économiques majeures. La première fois, mais peut-être pas la dernière… Alors que les Etats-Unis, noyés dans les déficits, tentent de relancer leur économie et que la Fed révise à la baisse ses prévisions de croissance.

Le rouble et le yuan servent maintenant à régler les échanges commerciaux bilatéraux, se substituant au dollar, utilisé par la Russie et la Chine à ce jour. Le Premier ministre russe le confirme : « Le rouble et le yuan ont déjà commencé à se négocier sur les marchés interbancaires des deux pays. Dans une étape ultérieure, le renminbi sera lui aussi utilisé ». Et le ministre russe des Finances Alexeï Koudrine, d’enfoncer le clou : « Le yuan pourrait devenir une monnaie de réserve au cours des dix prochaines années ».

Les deux pays ont également signé un accord pour renforcer leur coopération dans les secteurs de l’aviation, de la construction ferroviaire, de l’énergie y compris le nucléaire. Le document couvre également les questions douanières et de propriété intellectuelle. Wen Jiabao a salué cet accord, déclarant que « le partenariat stratégique entre les deux nations avait atteint un niveau sans précédent ».

Le moniteur du commerce international

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Autre article lié :

Poutine appelle à contrer le « monopole excessif » du dollar

Le premier ministre russe Vladimir Poutine, en visite à Berlin, a qualifié l’euro de monnaie stable et appelé à renoncer au monopole excessif du dollar en tant que devise de réserve, rapporte vendredi le correspondant de RIA Novosti.

« On observe actuellement des problèmes au Portugal, en Grèce et en Irlande, l’euro chancelle quelque peu, mais, somme toute, c’est une bonne devise mondiale, une monnaie stable », a indiqué le chef du gouvernement russe lors d’un forum économique réunissant les dirigeants des plus grandes entreprises allemandes.

« Le monopole excessif exercé ces derniers temps par le dollar en tant qu’unique monnaie mondiale de réserve était à mon sens mauvais, et nous devons y renoncer. C’est mauvais pour l’économie mondiale. Cela l’a déséquilibrée », a estimé M.Poutine.

Le forum économique berlinois a été organisé par le journal allemand Süddeutsche Zeitung.

Ria Novosti

samedi, 27 novembre 2010

Kauft China künftig keine US-Staatspapiere mehr?

Kauft China künftig keine US-Staatspapiere mehr?

F. William Engdahl

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Unter Hinweis auf die jüngste Entscheidung der US-Notenbank Federal Reserve, weitere 600 Milliarden Dollar zu drucken, um die taumelnden Wall-Street-Banken und den Immobiliensektor zu stützen, hat die chinesische Ratingagentur Dagong vor wenigen Tagen das Kreditrating für amerikanische Staatsanleihen heruntergestuft. Wenn die People’s Bank of China, die chinesische Zentralbank, dieser Einschätzung folgt und entsprechend weniger US-Staatspapiere kauft, dann stehen dem Dollar harte Zeiten bevor. Es kommt nicht überraschend, dass sich New Yorker Hedgefonds und Spekulanten genau in diesem kritischen Moment anschicken, eine neue Runde finanzieller Kriegsführung gegen Europa zu richten, dieses Mal wegen der prekären Lage einiger irischer Banken.

 

 

AnleihenpapierUSDollar.jpgDie Kreditrating-Agentur Dagong Global Credit, Chinas konservative Antwort auf das Monopol der von Amerika kontrollierten Agenturen Moody’s und Standard & Poor’s, hat vor wenigen Tagen die Qualität der Staatsverschuldung der Vereinigten Staaten von Amerika heruntergestuft; sie betrachtet die jüngste »Quantitative Lockerung« als absichtliche Abwertung des Dollar.

Dagong bewertet die amerikanischen Versuche, sich durch die Ausgabe von Anleihen den Weg aus den Schulden zu bahnen, mit großem Vorbehalt. Die Agentur kritisiert vor allem die, wie sie sagt, konkurrierende Abwertung der Währung und prognostiziert für die USA eine »lang anhaltende Rezession«.

In ihrer Erklärung heißt es: »Um die Krise im eigenen Land zu bewältigen, greift die US-Regierung zu der extremen wirtschaftlichen Politik, den US-Dollar um jeden Preis abzuwerten; dieser Schritt weist auf das tiefsitzende Problem in der Entwicklung und im Managementmodell einer nationalen Ökonomie hin. Es könnte für die USA schwierig werden, den richtigen Weg zu finden, die US-Wirtschaft wiederzubeleben, wenn die Regierung die Ursache der Kreditklemme und das Entwicklungsgesetz einer modernen Kreditwirtschaft nicht erkennt und weiterhin in dem Denken des traditionellen Wirtschaftsmanagement-Modells verharrt; es ist ein Anzeichen dafür, dass die wirtschaftliche und gesellschaftliche Entwicklung in eine längerfristige Rezessionsphase eintritt.«

Auf gut Deutsch: Die staatliche chinesische Ratingagentur erklärt, dass sie das Vertrauen in die Stabilität der enormen Bestände an Treasury Bonds, den amerikanischen Staatspapieren, verloren hat. China hat in den vergangenen Jahren Japan als größten Halter amerikanischer Staatsanleihen verdrängt, es wird geschätzt, dass die People’s Bank of China US-Staatspapiere im Wert von 1,4 Billionen Dollar hält.

In ihrer Analyse kommt die Agentur Dagong zu dem Schluss: »Die Gesamtkrise, in die die Welt aufgrund dieser Abwertung des US-Dollars gestürzt werden könnte, macht einen Wirtschaftsaufschwung in den USA noch weniger wahrscheinlich. Da sich keiner der für die US-Wirtschaft maßgeblichen Wirtschaftsfaktoren erkennbar verbessert hat, ist es möglich, dass die USA ihre geldpolitische Lockerung ausweiten, was den Interessen der Gläubiger zuwiderläuft.« Mit Letzteren ist eindeutig China gemeint.

In der Erklärung heißt es noch: »Angesichts der derzeitigen Lage könnten für die Vereinigten Staaten in den kommenden ein bis zwei Jahren nicht vorherzusagende Solvenzrisiken bestehen. Dementsprechend erteilt Dagong die Bewertung ›Ausblick negativ‹ für das in- und ausländische Kreditrating der Vereinigten Staaten.«

Die Herabstufung ist ein echter Paukenschlag, sie entspricht der wachsenden Sorge, die westliche Fondsmanager, einschließlich der amerikanischen Großbank Merrill Lynch, in den vergangenen Tagen bezüglich der Aussichten für die Inhaber von Staatspapieren zum Ausdruck gebracht haben.

Dagong genießt hohes Ansehen als unabhängige Kreditrating-Agentur, die eine konservativere Sicht vertritt als die bekannteren amerikanischen Agenturen. Bis vor Kurzem galt die amerikanische Staatsverschuldung als über jede Kritik erhaben, doch nach Aussage unabhängiger Analysten verschlechtert sich die Lage und wird sich auch in Zukunft weiter verschlechtern.

Just in dem Moment, in dem der Dollar erneut unter Verkaufsdruck gerät, wenden sich amerikanische Hedgefonds und Spekulanten gegen den Euro, dieses Mal geht es gegen Irland als das schwächste Glied. Genauso wie im vergangenen Dezember – als dem Dollar eine schwere Krise drohte – plötzlich auf wundersame Weise die griechische Krise losbrach, was den Dollar kurzfristig entlastete, so entdecken Hedgefonds jetzt, da sich eine neue Dollarkrise anbahnt, dass Irland genauso wie Griechenland die Zahlungsunfähigkeit drohen könnte. Einige Frankfurter Banker sprechen zutreffend von »finanzieller Kriegsführung«. Voller Naivität neigen die Regierungen der EU-Länder zu der Annahme, die New Yorker Finanzmärkte hielten sich an die offenen und transparenten »Spielregeln«. Die jüngsten kritischen Äußerungen von Finanzminister Schäuble über die Währungs- und Wirtschaftspolitik der USA lassen darauf schließen, dass man in Berlin kritisch überdenkt, was wirklich gespielt wird.

Bleiben Sie dran, denn hier bahnt sich ein größeres Drama in den atlantischen Beziehungen an.