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mardi, 27 mars 2012

Per non dimenticare il 24 Marzo 1999

Per non dimenticare il 24 Marzo 1999, inizio dei "bombardamenti democratici" sulla Jugoslavia

di Andrea Salomoni

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]

http://sites.etleboro.com/thumbnails/news/18433_NATO_bombs_hit_downtown_Belgrade_1999.jpg

Il 24 Marzo del 1999, iniziarono i bombardamenti "democratici" sulla Jugoslavia e la criminale aggressione contro il suo popolo; mentre il 10 giugno venivano stipulati gli accordi di pace a Kumanovo, e dopo 13 anni ecco che la verità faticosamente si fa largo anche a livello ufficiale:...Altro che “genocidi e fosse comuni mai trovate”, “diritti umani negati” e “pulizie etniche” mai avvenute, se non dopo l’occupazione della NATO, e compiuta dalle bande criminali dell’UCK nei confronti dei serbi e di tutte le minoranze non albanesi, oltre che contro gli albanesi jugoslavisti. A dodici anni dalla fine dell’aggressione la verità lentamente emerge, altro che “ingerenza umanitaria”, ecco a cosa miravano i criminali bombardamenti “terapeutici” sulla Jugoslavia. Erano semplicemente mire imperialiste, soltanto che ora non lo diciamo più noi "complottisti" come facciamo dal 1999, adesso ci sono le prove e le dimostrazioni. Sotto trovate una cartina della Serbia Montenegro, con indicati gli obiettivi e gli interessi che la NATO ha richiesto al nuovo governo, docile vassallo dell’occidente, come condizione per entrare nella lista d’attesa per la Partnership per l’organizzazione atlantica e per poter aspirare ad entrare un giorno, nell'Europa dei padroni. La cartina vale forse più che tutte le analisi, ipotesi, disquisizioni teoriche fin qui fatte, nella sua fredda sinteticità è come l’esibizione dell’arma del delitto, tutte le menzogne, le falsità, gli alibi degli aggressori, crollano come un castello di carte. La cartina è su ciò che si discusse tra i vertici NATO e il nuovo governo serbo montenegrino; rappresenta gli obiettivi e gli interessi ritenuti “necessari” dall’Alleanza atlantica e dagli USA: porti, aeroporti, caserme, siti logistici per installazioni radar, zone considerate strategiche per basi, ecc. ecc. Nella regione balcanica, ora che sono state portate la libertà e la democrazia…occidentali, ovviamente, la situazione di agibilità e sovranità, per i popoli e stati è sinteticamente questa:

in Ungheria l’ex base sovietica di Tasar è ora la principale base militare americana fino alla Russia; 

in Albania sono state posizionate le basi navali più grandi, oltre all’aeroporto vicino a Tirana;  

in Macedonia sono state occupate dalle truppe Nato le due più grandi caserme del paese a Tetovo e a Kumanovo, oltre all’aeroporto di Petrovac, Skoplije e al poligono militare di Krivolak; 

la Bosnia Erzegovina è stata adibita per l’aviazione: l’aeroporto di Dubrovac, Tuzla è diventato base aerea Nato, così come a Brcko e Bratulac, sono state messe due basi terrestri; 

i maggiori porti della Croazia sono stati adibiti per le unità navali, mentre all’aeroporto vicino Pula c’è ora una base dell’Alleanza oltre al poligono di Slunj vicino Djakova.

 

Dalla Romania è stata presa la base navale di Costanza, l’aeroporto militare vicino a Bucarest, le basi terrestri vicino Timisoara, a Costanza, Kluza e Vlaskoj, ma ne sono richieste altre tre per ultimare il dislocamento delle truppe nella regione. 

 In Bulgaria è stata collocata una base navale a Varna e una terrestre a Sarafovo Infine in Kosovo vi è Camp Bondstel a Urosevac e un'altra base a Gnjlane. Da questo scenario geo-militare dei Balcani una cosa salta immediatamente all’occhio, in quest’elenco manca solamente un paese, che ancora non risulta “occupato” da basi straniere, ed è la Serbia Montenegro, ex Repubblica Federale Jugoslava; ecco svelato l’arcano dei mille contorcimenti mass mediatici, inventati per giustificare l’aggressione e lo smantellamento di quell’ultmo pezzo di Jugoslavia, che aveva una gravissima colpa per questi tempi: quella di pretendere e difendere la propria indipendenza e sovranità e quella di non volere truppe straniere a casa propria. E questo nel ventunesimo secolo è una colpa gravissima, perché si diventa un ostacolo “de facto” ai piano geo-strategici dell’imperialismo americano, e non può essere ammesso. O si accetta o si viene spazzati via, certo le motivazioni pro forma vengono trovate e pianificate attraverso la disinformazione strategica, c’è sempre un buono e sacro motivo democratico per aggredire un popolo o un paese “ non asservibile” con pressioni o dollari.  Qui come in Iraq, come in Palestina, Libia, Libano, Siria, Iran, Cuba, Corea del Nord, Venezuela, Bielorussia ecc. ecc perché la lista è continuamente suscettibile di cambiamenti o aggiornamenti, a seconda degli eventi che accadono. E così si può tranquillamente capire come, nelle trattative tra un nuovo governo serbo montenegrino, creato, sponsorizzato e finanziato per arrivare al potere, scalzando un governo di unità nazionale che impediva questi scenari in terra serba, la discussione è come fosse una riunione amministrativa di riscossione di quanto dovuto. Ai “Quisling” locali il governo amministrativo, alla NATO ed agli USA il potere di decidere e comandare, a casa di altri. Il ministro della difesa, nei colloqui di Londra per poter entrare nella Partnership Nato ha ricevuto le seguenti richieste, ritenute necessarie per “armonizzare” le relazioni tra la nuova Serbia e l’occidente:

la stazione radar di Kopaonik, la più avanzata tecnologicamente dell’esercito serbo ed anche strategica per qualsiasi minima concezione difensiva del paese e quella di Pesterska;

basi aeree a Batajnica vicino Belgrado, Zlatibor, Kraljevo, Nis e Visoravan:basi terrestri a Novi Sad, Pancevo, e Nis;

le basi navali di Herceg Novi e Bar sulla costa montenegrina.

Oltre alla richiesta di una consistente riduzione degli effettivi dell’esercito federale, a cui l’ossequiente nuovo governo “libero” ha risposto con una proposta  di passare da 70.000 militari a circa 35.000. Quindi trasformare quello che era  l’esercito più forte e organizzato di tutti i Balcani, in una poco più di milizia territoriale, debole e quindi sottomessa e ubbidiente. Già, perché una delle clausole presupponeva anche la presenza di “esperti militari” statunitensi nei vertici degli Stati Maggiori serbo montenegrini. 

E qualcuno osa chiamare tutto questo…libertà?

Queste trattative e richieste sono la dimostrazione che le aggressioni ai popoli e paesi “renitenti o resistenti”, non cessano con il rumore dei bombardamenti “intelligenti”, ma proseguono con la distruzione degli stati sociali, delle condizioni di vita dei lavoratori e della popolazione, con le politiche di privatizzazioni e svendite delle ricchezze nazionali, nell’immiserimento che investe la stragrande maggioranza della società, ed infine con l’asservimento militare, ultimo passaggio per annientare completamente qualsiasi inversione di tendenza politica, essendo coscienti che il malessere e il disagio sociali, prima o poi si trasformeranno in lotte e conflittualità. 

Così saranno garanti della pace sociale e degli interessi di coloro, che nel frattempo parallelamente, si sono  formati ed arricchiti : le borghesie “compradore” locali, veri e propri pirati e banditi in doppiopetto, ma legati a doppio filo con gli interessi del capitale straniero; che sono altro da quella borghesia nazionale che perlomeno, aveva trovato un alleanza con le forze patriottiche e popolari, per resistere all’invasione e asservimento economico, politico e sociale del paese, in un ottica di interesse nazionale.

Questi gli obiettivi e le richieste fatte dalla NATO, al governo della Serbia Montenegro, per diventare uno Stato “democratico, libero ed europeo”. 


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lundi, 26 mars 2012

Domineert Qatar straks de gehele Arabische ruimte?

Domineert Qatar straks de gehele Arabische ruimte?

Ex: Nieuwsbrief Deltastichting Nr. 57 - Maart 2012
 
Het lijkt onwaarschijnlijk dat het kleine Arabische emiraat Qatar, gelegen aan de Perzische Golf, het schiereiland dat grenst aan Saoedi-Arabië, de ganse Arabische ruimte politiek zou kunnen domineren. En toch, toch zijn er bepaalde elementen die wijzen op het stijgende politieke belang van het kleine Qatar.
 
Qatar maakte, net als zovele andere Arabische gebieden, deel uit van het Ottomaanse Rijk. De Turkse overheersing kende een einde aan het begin van de Eerste Wereldoorlog, en Qatar werd een protectoraat van het Verenigd Koninkrijk, waarvan het onafhankelijk werd in 1971. Enige tijd was er sprake van dat het deel zou uitmaken van de emiraten, die momenteel de Verenigde Arabische Emiraten uitmaken, maar die vlieger ging uiteindelijk niet op.
 
Qua bevolking is het land in enkele decennia volledig gewijzigd. Door de vondst van aardolie kwam een sterke immigratie op gang. In 2005 bijvoorbeeld is de grote meerderheid van het land afkomstig uit andere landen, andere Arabische staten, maar ook uit landen als Indonesië, India, Pakistan, Iran, en zelfs het Verenigd Koninkrijk.  In 2003 werd een nieuwe grondwet ingevoerd, die de godsdienstvrijheid, de vrije meningsuiting en het recht op vergaderen en vereniging vastlegde, maar ook het verbod voor moslims om zich tot een andere godsdienst te bekeren. 20% van de bevolking van Qatar, die van, 47.000 in 1950 steeg tot 1,7 miljoen, zou nog autochtoon Qatari zijn.
 
Dat Qatar internationaal wel degelijk een rol speelt, kan men onder andere hiervan aflezen dat het wereldkampioenschap voetbal er in 2022 doorgang zal vinden.
 
Waar moet het belang van deze kleine oliestaat worden gezocht? En waarom zou het politiek zo’n belangrijke rol kunnen spelen? Natuurlijk speelt de olierijkdom een belangrijke rol. Maar ook met de vaststelling dat Qatar door de oprichting van het satellietkanaal Al Jazeera in 1996 zowat het belangrijkste informatienetwerk van de Arabische wereld is geworden.

In de verschillende vormen van Arabische revolte die in de afgelopen maanden aan ons televisiescherm voorbij trokken, speelden Facebook, Twitter en andere sociale netwerken een belangrijke rol, maar ook Al Jazeera, eigendom van de emir van Qatar, sjeik Hamad Bin Khalifa Al-Thani.  Maar Qatar is ook de verblijfplaats van sjeik Yoessoef al Qaradawi, de geestelijke leider van de Moslimbroeders, die na hun verkiezingsoverwinning in Egypte zowat de belangrijkste pionnen zijn geworden op het schaakbord van de Arabische sjeik Hamad Bin Khalifa Al-ThaniLente en van de Egyptische politiek. Ook al Qaradawi heeft heel wat aan Al Jazeera te danken en aan de media-aandacht die hij erdoor kreeg. Wekelijks was hij te zien en te horen in een uitzending “de sjaria en het leven”, waar hij vragen beantwoordde van toehoorders uit de ganse islamitische wereld.

Qatar is inderdaad zowat een veilige haven voor opinievluchtelingen van alle soort. De voormalige buitenlandminister van Saddam Hoessein bijvoorbeeld, Nadschi Sabri, vond er onderdak, maar ook Hamas-functionarissen, socialistische politici uit Zuid-Jemen, of moslimbroeders uit Egypte.  Er zijn geen politieke gevangenen in Qatar, er bestaat tolerantie en een bepaalde mate van vrijheid.

Maar er is meer. Op het moment dat de grote staten Egypte en Syrië in de maalstroom van volksopstanden terecht kwamen, was het het kleine Qatar dat als het ware een soort bemiddelaar en onderhandelaar werd van de Arabische Liga. Dit werd duidelijk in Libië, waar Qatar het enige Arabische land was dat actief de interventies van de NAVO ondersteunde. In het geval van Syrië werd de rol nog duidelijker.  Want welk Arabisch land zou durven optreden tegen de hevigste tegenstander tegen Israël, de hevigste en meest fundamentele verzetshaard? Toch is het opnieuw Qatar dat de leiding neemt. Vooral de minister van Buitenlandse Zaken, Hamad Bin Jassim Bin Jabr Al-Thani verkondigde al luid dat hij met Arabische troepen wil tussenkomen. Hij heeft het zover gekregen dat de Arabische Liga hierin meegaat. Gedeeltelijk toch.

De invloed van Qatar stijgt dus. Zo zou Qatar momenteel ook bij het bestuur van de radikaal-islamitische Palestijnse Hamas aan het onderhandelen zijn om haar leider Chaled Maschaal van Damascus naar Jordanië over te brengen, en begin januari ontving de Jordaanse koning Abdoellah II de leider van Hamas in zijn land. Er zou zelfs sprake zijn om de Hamas-leider naar Qatar over te brengen, waarmee Syrië zijn laatste medestander in de soennitische islam kwijtgespeeld is.

Chaled MaschaalNeen, daarmee houdt het niet op, want ook in het conflict in Aghanistan is Qatar actief. Eerste zichtbare resultaat hiervan: de radikaal-islamitische Taliban opende in januari een officiële vertegenwoordiging in het emiraat. Via dit kantoor zouden vredesgesprekken op gang komen. En in die vredesgesprekken zouden ook de VSA en de EU kunnen worden betrokken. Kaboel houdt de boot voorlopig af en heeft aangedrongen op bilaterale gesprekken …met Qatar.
 
Qatar heeft ook in het verleden al nieuwe paden betreden. Als enig land op het Arabisch schiereiland – waar in Saoedi-Arabië joden niet worden toegelaten – heeft Qatar een joodse handelsmissie op zijn grondgebied geopend. Sinds 2008 is er zelfs een ambassade, maar het begin van de Gaza-oorlog in 2009 drukte zelfs Qatar eventjes met de neus op de werkelijkheid: de ambassade werd gesloten.
 
Vermeldenswaard is tenslotte de vraag van Midden-Oosten-expert Guido Sternberg (geciteerd in het Duitse conservatieve tijdschrift Junge Freiheit) of het conflict met Syrië de vijandschap van Teheran tegen Qatar zal verscherpen.  “In het licht van de krachtverhoudingen tussen de beide landen is dit een zeer riskante politiek”, aldus de expert. Qatar geldt als het meest vrije islamitische land in het Midden-Oosten, maar het kan niemand ontgaan dat ook hier de islam staatsgodsdienst en de sjaria staatsrecht is. Het blijft afwachten welke dominante rol dit emiraat in de Arabische wereld, waar de kaarten politiek en geopolitiek volledig door elkaar worden geschud, zal spelen.
 
Peter Logghe
 

samedi, 24 mars 2012

Géopolitique de la France

 
Géopolitique de la France
Géopolitique de la France
Pascal Gauchon
Puf

2012
 
Auteur, il y a quelques années, d'un remarquable Modèle français devenu aujourd'hui un classique, Pascal Gauchon - qui enseigne l'économie en classe préparatoire et a déjà publié un Dictionnaire de géopolitique et de géoéconomie lance une nouvelle collection consacrée à la géopolitique dont le premier volume a pour sujet la France et il a tenu à traiter lui-même d'un domaine qui n'a rien d'évident, nombre d'observateurs et de commentateurs ayant admis une fois pour toutes que la France, intégrée à l'Europe et plongée dans la mondialisation, n'avait plus vocation à demeurer une puissance autonome, ce qui constitue une condition nécessaire pour constituer un sujet géopolitique. Le sous-titre de l'ouvrage - Plaidoyer pour la puissance - peut donc faire figure de provocation mais la solidité de la documentation utilisée et la qualité d'un argumentaire fondé sur une réflexion originale et sur un regard qui va bien au delà des limites généralement fixées à la seule analyse économique permettent à l'auteur d'affirmer son propos et de délivrer un message qui, sans tomber dans les excès et les simplifications d'un manifeste n'en ouvre pas moins des perspectives plus optimistes que celles attribuées à la « France qui tombe » décrite par certains. L'historien revient tout d'abord sur la construction de l'espace national, sur la genèse d'un hexagone dont Fernand Braudel a montré dans son Identité de la France qu'il s'inscrit dans les paysages et dans les conditions qui furent celles de l'installation humaine dans la très longue durée. Celle qui explique les quinze milliards de tombes chères à Pierre Chaunu et, sur un mode plus littéraire à Maurice Barrès attaché « à la terre et aux morts ». Mais la « doulce France » s'est également construite à partir du travail de ses habitants et des transformations qu'ils ont imposées à une nature certes généreuse mais qu'il a cependant fallu maîtriser. Le survol de l'Histoire pointe justement les moments où la France des rois, de la Grande Nation révolutionnaire ou de Napoléon est apparue en mesure de dominer l'Europe, et les séquences marquées par la défaite ou le déclin, enrayés à plusieurs reprises par des sursauts venus de loin et combinant la vitalité réveillée d'u peuple rebelle et l'imaginaire d'un destin collectif porté un temps par la foi chrétienne, avant que le messianisme révolutionnaire et les valeurs de la liberté n'ouvrent sur des temps nouveaux sur le point aujourd'hui d'être révolus. Le poids de l'Etat, l'attachement au modèle politique et social laborieusement défini au cours des deux derniers siècles, la crise identitaire née de l'ouverture sur l'Europe et le monde et de la renaissance des régions font l'objet d'analyses claires et pertinentes qui fournissent une riche matière à réflexion, particulièrement bien venue dans les temps d'incertitude que nous connaissons aujourd'hui. La tradition centralisatrice, la crise de l'Etat-nation et celle de l'aménagement du territoire, la faillite des « élites » attachées avant tout à leur reproduction contrastent avec la richesse des atouts disponibles. Pascal Gauchon recense ainsi tous les aspects de la puissance française, des performances agricoles à l'autonomie nucléaire, des incontestables succès industriels aux réussites des entreprises de services, sans dissimuler les difficultés nées d'une mondialisation qui s'opère souvent au détriment de pans entiers de l'activité nationale. Il confronte les faiblesses françaises sur le terrain de la compétitivité aux atouts qui font l'attractivité incontestable d'un territoire doté depuis longtemps d'excellentes infrastructures. Il conclut son « plaidoyer pour la puissance » en dénonçant les « géopolitiques du nirvana » oublieuses du réel et des rapports de forces, fondées sur la seule idéologie et la seule bien-pensance, des références dont ne peuvent que se gausser les autres puissances. Mais, sur ce terrain, la France n'est pas plus mal lotie que l'Europe et certains acteurs ont encore la volonté de lui conserver un rang de « moyenne grande puissance », résultante de la combinaison de ce qui lui reste de hard power avec les capacités d'influence que lui procure le tout nouveau soft power. Familier du temps long des historiens, Pascal Gauchon parie sur le retour du réel, qui peut être aussi le retour du tragique dans un monde aveuglé par les illusions de la mondialisation, heureuse : « Laissons faire le temps, qui ramènera au monde réel du rapport des forces et du conflit. Si la France ne va pas à ses ennemis, ses ennemis viendront à elle. Alors les conditions d'une autre géopolitique que celle du nirvana seront posées... ».

mardi, 20 mars 2012

LEAP : Les cinq orages dévastateurs de l’été 2012 au cœur du basculement géopolitique mondial

LEAP : Les cinq orages dévastateurs de l’été 2012 au cœur du basculement géopolitique mondial

Communiqué public du Laboratoire Européen d’Anticipation Politique, 15 mars 2012

Joseph Vernet, Une tempête, vers 1770 (cliquez pour agrandir)

Dans son numéro de janvier 2012, le LEAP a placé l’année en cours sous le signe du basculement géopolitique mondial. Le premier trimestre 2012 a largement commencé à établir qu’une époque était en effet en train de se terminer avec notamment : les décisions de la Russie et de la Chine de bloquer toute tentative occidentale d’ingérence en Syrie (1) ; la volonté affirmée des mêmes, associées à l’Inde (2) en particulier, d’ignorer ou de contourner l’embargo pétrolier décidé par les Etats-Unis et l’UE (3) à l’encontre de l’Iran ; les tensions croissantes dans les relations entre les Etats-Unis et Israël (4) ; l’accélération de la politique de diversification hors du dollar US conduite par la Chine (5) et les BRICS (mais également le Japon et l’Euroland (6)) ; les prémisses du changement de stratégie politique de l’Euroland à l’occasion de la campagne électorale française (7) ; et l’intensification des actes et discours alimentant la montée en puissance de guerres commerciales trans-blocs (8). En mars 2012, on est loin de mars 2011 et du « bousculement » de l’ONU par le trio USA/UK/France pour attaquer la Libye.

Mars 2011, c’était encore le monde unipolaire d’après 1989. Mars 2012, c’est déjà le monde multipolaire de l’après crise hésitant entre confrontations et partenariats.

 

Evolution des réserves de change chinoises et de leur part en titres US (2002-2011) (en milliers de milliards de dollars) (en vert : total ; en saumon : titres US ; courbe rouge : évolution en % de part des titres US dans le total) – Sources : Banque populaire de Chine / Trésor US / Wall Street Journal / DollarCollapse, mars 2012

Ainsi, comme anticipé par le LEAP, le traitement de la « crise grecque » (9) a rapidement fait disparaître la soi-disant « crise de l’euro » des unes des médias et des inquiétudes des opérateurs. L’hystérie collective entretenue à ce sujet au cours du second semestre 2011 par les médias anglo-saxons et les eurosceptiques aura fait long feu : l’Euroland s’impose de plus en plus comme une structure pérenne (10), l’euro est à nouveau en vogue sur les marchés et pour les banques centrales des pays émergents (11), le duo Eurogroupe/BCE a fonctionné efficacement et les investisseurs privés auront dû accepter une décote allant jusqu’à 70% de leurs avoirs grecs, confirmant ainsi l’anticipation du LEAP de 2010 qui parlait alors d’une décote de 50% quand personne ou presque n’imaginait la chose possible sans une « catastrophe » signifiant la fin de l’euro (12). In fine, les marchés se plient toujours à la loi du plus fort… et à la peur de perdre plus, quoi qu’en disent les théologiens de l’ultra-libéralisme. C’est une leçon que les dirigeants politiques vont précieusement garder en mémoire car il y a d’autres décotes à venir, aux Etats-Unis, au Japon et en Europe. Nous y revenons dans ce [numéro].

Cliquer sur le graphique pour l'agrandir

Encours de la dette publique détenue par la banque centrale (2002-2012) – Etats-Unis (en violet), Royaume-Uni (en gris), Euroland (en pointillés violets), Japon (en pointillés gris) – Sources : Datastream / banques centrales / Natixis, février 2012

Parallèlement, et cela contribue à expliquer la douce euphorie qui alimente les marchés et nombre d’acteurs économiques et financiers ces derniers mois, pour cause d’année électorale et par nécessité de faire à tout prix bonne figure face à une zone euro qui ne s’effondre pas (13), les médias financiers américains nous refont le coup des « green shots » du début 2010 et de la « reprise » (14) du début 2011 afin de peindre une Amérique en « sortie de crise ». Pourtant les Etats-Unis de ce début 2012 ressemblent bien à un décor déprimant peint par Edward Hopper (15) et non pas à un chromo 60s rutilant à la Andy Warhol. Comme en 2010 et 2011, le printemps va d’ailleurs être le moment du retour au monde réel.

Dans ce contexte d’autant plus dangereux que tous les acteurs sont bercés d’une dangereuse illusion de « retour à la normale », en particulier du « redémarrage du moteur économique US » (16), le LEAP estime nécessaire d’alerter ses lecteurs sur le fait que l’été 2012 va voir cette illusion voler en éclats. En effet, nous anticipons que l’été 2012 verra la concrétisation de cinq chocs dévastateurs qui sont au cœur du processus de basculement géopolitique mondial en cours. Les nuages noirs qui s’amoncellent depuis le début de la crise en matière économique et financière sont maintenant rejoints par les sombres nuées des affrontements géopolitiques.

Ce sont donc, selon le LEAP, cinq orages dévastateurs qui vont marquer l’été 2012 et accélérer ainsi le processus de basculement géopolitique mondial :

. rechute des USA dans la récession sur fond de stagnation européenne et de ralentissement des BRICS
. impasse pour les banques centrales et remontée des taux
. tempête sur les marchés des devises et des dettes publiques occidentales
. Iran, la guerre « de trop »
. nouveau krach des marchés et des institutions financières.

Dans ce [numéro], notre équipe analyse donc en détail ces cinq chocs de l’été 2012.

Parallèlement, en partenariat avec les Editions Anticipolis, nous publions un nouvel extrait du livre de Sylvain Périfel et Philippe Schneider, « 2015 – La grande chute de l’immobilier occidental », à l’occasion de la mise en vente de sa version française. Il traite des perspectives du marché immobilier résidentiel américain.

Enfin, nous présentons nos recommandations mensuelles ciblées dans ce numéro sur l’or, les devises, les actifs financiers, les bourses et les matières premières.

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Notes :

(1) Un article de CameroonVoice, publié le 06 mars 2012, offre un tour d’horizon intéressant de cette situation de blocage qu’il nous paraît utile d’analyser sous l’angle géopolitique autant que sons l’angle humanitaire qui a tendance à camoufler nombre de paramètres derrière les « évidences de la cause juste ». Souvenons-nous de l’attaque sur la Libye et des conséquences désastreuses qu’elle entraîne aujourd’hui pour de nombreux Libyens et pour toute la région ; dernière en date : la déstabilisation de toute une partie de l’Afrique sub-saharienne, comme le Mali par exemple. A ce sujet, on peut lire la très intéressante analyse de Bernard Lugan dans Le Monde du 12 mars 2012.

(2) Et au Japon qui fait profil bas mais n’a pas l’intention d’arrêter de s’approvisionner en pétrole iranien. La Chine et l’Inde de leurs côtés accroissent leurs livraisons de pétrole iranien et s’engouffrent dans le vide laissé par les Occidentaux. Les Indiens utilisent même désormais l’Iran comme une porte vers le pétrole d’Asie centrale. Sources : Asahi Shimbun, 29 février 2012 ; Times of India, 13 mars 2012 ; IndianPunchline, 18 février 2012

(3) Attendons de voir ce que sera la volonté de l’UE en la matière dans la seconde moitié de 2012. Avec la fin de la tutelle US sur la politique étrangère française suite au changement de président français, de nombreux aspects de la politique internationale de l’Europe vont changer.

(4) Nombreux sont les responsables israéliens et américains qui se demandent dans quel état vont être les relations entre les deux pays à l’issue de cette quasi-confrontation sans précédent sur la question d’une éventuelle attaque de l’Iran. Pour certains, on s’approche du moment de « ras-le-bol » d’Israël de la part des Etats-Unis, comme l’analyse l’article de Gideon Levy dans Haaretz du 04 mars 2012.

(5) Derniers exemples en date : l’accord des BRICS pour organiser entre eux des échanges en devises nationales, et particulièrement en yuan du fait de la volonté de Pékin d’internationaliser sa devise ; et la décision du Japon d’acheter des bons du Trésor chinois en accord avec Pékin. Pékin agit ainsi à l’opposé du Japon « dominant » des années 1980 qui n’avait jamais osé pousser à l’internationalisation du yen. Cet aspect suffit à réduire à néant toutes les comparaisons entre l’ascension avortée du Japon et la situation de la Chine aujourd’hui. Tokyo était sous contrôle de Washington ; Pékin ne l’est pas. Sources : FT, 07 mars 2012 ; JapanToday, 13 mars 2012

(6) Les banques de l’Euroland se dégagent de leurs activités de prêts en dollars. Source : JournalduNet, 23 février 2012

(7) A savoir la fin du social-libéralisme qui avait pris la place de la social-démocratie européenne au cours de ces deux dernières décennies ; et le retour de l’ « économie sociale de marché » au cœur du modèle rhénan, modèle historique européen continental. De la Slovaquie du nouveau premier ministre Fico à la France du futur président Hollande (ceci n’est pas un choix politique mais le résultat de nos anticipations publiées dès novembre 2010 dans [notre numéro du 15 novembre 2010]) en passant par l’Italie de Mario Monti et une Allemagne où conservateurs et sociaux-démocrates doivent désormais faire le chemin européen ensemble puisqu’il le faut pour obtenir la majorité nécessaire à la ratification des nouveaux traités européens, on voit se dessiner les contours de la future stratégie économique et sociale de l’Euroland : fiscalité progressive renforcée, solidarité sociale, efficacité économique, mise sous contrôle du secteur financier, vigilance douanière… en résumé : éloignement à grande vitesse du modèle anglo-saxon à la mode depuis 20 ans parmi les élites du continent européen.

(8) Derniers épisodes en date : l’attaque devant l’OMC de la politique commerciale chinoise concernant les « terres rares » par les Etats-Unis, appuyés par l’UE et le Japon ; les nouveaux rebondissements des accusations réciproques USA/UE toujours devant l’OMC concernant les subventions à Boeing et Airbus ; la « guerre monétaire » déclenchée par le Brésil contre les Etats-Unis et l’Europe. Sources : CNNMoney, 12 mars 2012 ; Bloomberg, 13 mars 2012 ; Mish’s GETA, 03 mars 2012

(9) D’ailleurs, impensable pour beaucoup il y a seulement trois mois, l’agence de notation vient de remonter la note de la Grèce. Source : Le Monde, 13 mars 2012

(10) Les questions de démocratisation de ces structures se posent comme nous l’avons souligné. Mais ces structures (MES, BCE…) sont désormais établies. Aux acteurs et forces politiques des deux prochaines années d’entamer leur mise sous contrôle par les citoyens plutôt que de passer leur temps à regretter un temps merveilleux… où les citoyens n’avaient même pas la moindre idée de comment leur pays gérait sa dette. Et ce n’est pas en attaquant les technocrates qui ont fait le « sale boulot » au milieu de la tempête que les politiques trouveront le chemin de la légitimation démocratique des institutions de l’Euroland, mais en proposant de nouveaux mécanismes et des processus d’implication des peuples dans les décisions. A ce propos, il est utile de savoir qu’au Parlement européen, le groupe PPE (où siègent notamment les partis de Nicolas Sarkozy et Angela Merkel) tente de tuer dans l’œuf une proposition trans-partisane de création de 25 sièges du Parlement européen qui seraient élus sur des listes transnationales avec l’UE comme circonscription unique. Selon le LEAP, cette proposition est un petit pas sur le seul chemin qui peut conduire à un contrôle citoyen des décisions européennes. Il est regrettable que des chantres de la nécessité de rapprocher l’Europe des peuples soient en fait complices du blocage d’une première tentative sérieuse dans cette direction. Source : European Voice, 11 mars 2012

(11) Même le Financial Times, pourtant l’un des acteurs-clés de l’hystérie anti-euro, doit désormais reconnaître que les marchés émergents (acteurs publics et privés) ont retrouvé leur appétit pour la devise européenne. Source : Financial Times, 26 février 2012

(12) Nous insistons sur ces points car il ne faut pas oublier trop vite les discours dominants de 2010 et 2011 qui ont incité les investisseurs à acheter de la dette grecque car c’était une « affaire en or » ! Souvent les mêmes « experts » ont aussi pronostiqué une parité euro/dollar entraînant nombre d’opérateurs à vendre leurs euros pour acheter du dollar dans cette même logique. Résultat : ces « experts », qui peuplent les unes des médias et les émissions financières, ont fait perdre beaucoup d’argent aux uns et aux autres. Pour savoir anticiper l’avenir, il faut aussi entretenir sa mémoire !

(13) N’oublions pas que sans l’hystérie collective entretenue autour de la « crise de l’euro », dès la fin 2011, les Etats-Unis auraient été incapables de financer leurs énormes déficits. Wall Street et la City ont dû peindre une Europe au bord du gouffre pour pouvoir maintenir le flux d’achats de leurs titres. Maintenant que cette propagande ne fonctionne plus, il est donc vital d’essayer d’embellir la situation US faute de tarir la source extérieure du financement de l’économie américaine. Voir [nos numéros du 15 octobre 2011 au 15 janvier 2012].

(14) Pour mémoire, mi-2010, le FMI se préoccupait de ne pas « handicaper la reprise ». Et en janvier 2011, les experts se demandaient comment bénéficier de la « reprise » démontrée par les fameux « indicateurs clés » ! Sources : FMI, 07 juillet 2010 ; CreditInfocenter, 27 janvier 2011

(15) Notre équipe tient à préciser que nous apprécions le talent de Hopper et qu’il n’est cité ici que parce qu’il est le peintre par excellence de la classe moyenne de l’ « âge d’or » des Etats-Unis, qu’il a pourtant en général montrée dans une atmosphère très dépressive. Nous ne pouvons qu’imaginer ce que serait l’ambiance de ses tableaux aujourd’hui avec une classe moyenne en perdition dans un « âge de fer » pour le pays.

(16) Nous rappelons que c’est le credo fondamental sur lequel repose tout le système économique et financier global. Et en trois ans de crise, pour la première fois depuis 1945, ce moteur ne fonctionne plus. Alors il faut prétendre le plus longtemps possible, en espérant un miracle. A l’été 2012, les orages porteront bien des éclairs mais il n’y aura pas de foudre miraculeuse ; bien au contraire.

Laboratoire Européen d’Anticipation Politique

lundi, 19 mars 2012

L'Inde menacée de sanctions pour le refus de réduire les achats de pétrole à l'Iran

L'arrogance des Etats-Unis met à l'index l'Inde pour ses achats pétroliers à l'Iran. Ils envisagent des sanctions contre l'Inde à partir de l'été. Il serait temps qu'une politique commune de rétorsion économique se prenne au BRICS contre les USA.

L'Inde menacée de sanctions pour le refus de réduire les achats de pétrole à l'Iran

  Ex: http://mbm.hautetfort.com/

Photo: EPA
 
     
Les États-Unis pourraient imposer des sanctions contre l'Inde, si elle ne restreint pas les importations du pétrole iranien, rapporte Bloomberg.

La loi, qui est entrée en vigueur aux États-Unis, pénalise tout pays pour le règlement du pétrole iranien par le biais de la Banque centrale d'Iran, si ce pays ne réduit pas significativement le volume des achats de pétrole à Téhéran dans la première moitié de cette année. Et si l'Inde ne le fait pas, le président des États-Unis sera obligé d'introduire des sanctions contre ce pays à partir du 28 juin, a indiqué l'agence en citant des responsables américains.

L'Inde achète à l'Iran, en moyenne 328.000 barils de pétrole par jour. Le pays est le troisième plus grand importateur de pétrole iranien, après la Chine et le Japon.

La Syrie comme cimetière de leurs illusions ?

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Le "Bloc Américaniste Occidentaliste" (BAO) s'est piégé dans la crise syrienne dont il fut l'instigateur. Piégé par lui-même, par les effets incohérents d'un système à la dérive incontrôlable. L'Iran et la Russie jouent la carte de l'habileté en Syrie.

La Syrie comme cimetière de leurs illusions ?

Ex: http://mbm.hautetfort.com/

Il est possible que la crise syrienne évolue vers une véritable guerre, qu’on qualifie d’une façon incantatoire de “civile”, mais qui serait déjà internationalisée, et où la coalition du bloc BAO et de ses alliés arabes (les démocrates saoudiens et qataris), si elle se trouvait impliqués, aurait à faire face à forte partie… C’est pour cette raison qu’il ne faut pas (plus) écarter certaines révisions déchirantes. (Comme on le voit par ailleurs, ce même 19 mars 2012, les présidentielles françaises ont leur rôle à jouer.)

D’autres raisons vont dans le même sens des révisions déchirantes, selon d’autres évolutions sur le terrain, sans nécessairement le transit insaisissable de la “guerre civile“. Ces dernières semaines, la situation, sur le même terrain, a évolué en faveur du régime Assad. DEBKAFiles, le 17 mars 2012, donnent des détails sur cette évolution. (Comme on l’a déjà vu, le site DEBKAFiles, par ailleurs férocement extrémiste lorsqu’il s’agit de l’Iran, se fait notablement plus modéré lorsqu’il s’agit de la Syrie, et assez prompt à publier de ces nouvelles peu favorables aux rebelles que soutient le bloc BAO, nouvelles qui sont en général assez peu proclamées. Les Israéliens ne goûtent pas vraiment, pas plus qu’ils ne l’ont goûtée en Libye, la perspective d’un “régime change” en Syrie, qui pourrait conduire à un chaos d’où des islamistes fort suspects auraient de grandes chances d’émerger en bonne position.) DEBKAFiles, utilisant toutes ses sources, est prompt à faire des deux attentats de Damas du 16 mars (27 morts) une tentative téléguidée par le Qatar et l’Arabie pour tenter de relancer une révolte qui a subi de très sérieux revers bien qu’elle exprimerait, selon la presse-Système unanime dans le bloc BAO, un mouvement irrésistible de libération spontanée, etc.

Par ailleurs, dans la même analyse, DEBKAFiles donne des informations précises d’un très grand intérêt, à la fois sur l’intervention et la présence des Iraniens et des Russes en Syrie. Cela ne peut faire de mal à l’argumentaire général israélien, qui est de dire dans ce cas qu’en entretenant la révolte contre Assad on donne l’occasion aux Iraniens et aux Russes de s’implanter militairement, non seulement dans le pays mais dans la région elle-même. Ainsi l’intervention iranienne, décrite comme massive, est-elle présentée comme une “répétition” d’autres possibles opérations du même genre, – tout cela organisant un boulevard pour les capacités d’expansion de la puissance iranienne. (Au reste, d’autres exemples de cette sorte de “répétition” sont cités, vers Gaza et au Yemen.) Est-ce bien habile, demandent implicitement les Israéliens à leurs alliés du bloc BAO ? (Observons, amère cerise sur le gâteau, sur laquelle nous revenons par ailleurs, la mention de la coopération active des Irakiens avec les Iraniens, malgré des demandes US dans le sens inverse…)

«2. The airlift carrying aid to Assad last month, the biggest Iran had ever organized, was critical in helping him win out over the revolt. As OC US Central Command Gen. James Mattis explained March 3 to the Senate Armed Services Committee: They (Iranians) are working earnestly to keep Assad in power. They have flown in experts. They are flying in weapons. It is a full-throated effort by Iran to keep Assad there and oppressing his own people.”

»DEBKAfile’s military sources add: This effort was made possible by Baghdad’s permission to fly over Iraq directly to Syria. According to our Washington sources, US President Barack Obama tried interceding with Iraqi Prime Minister Nouri al-Maliki to block the Iranian transport flights to Syria only to be turned down.

»The massive air transport of equipment on behalf of Bashar Assad served also as a practice maneuver for Iran to staged airlifts of hardware to Middle East arenas of interest in other potential conflicts, such as hostilities between Syria and Lebanon and Israel.

»This week, therefore, the Iranians took active part in two Middle East conflicts in Syria and the Gaza Strip, where Israelis were partly consoled by the performance of their homemade Iron Dome interceptor in blowing up a large number of Iran-supplied Grad missiles before they landed on their cities. Iran’s heavy involvement in a third area Yemen attracted less attention. Tehran is keeping up a supply of arms and cash to northern and southern Yemeni tribes fighting the government with a view to gaining a foothold in Yemen ports and access to the Red Sea and Bab al-Mandeb Sraits, the meeting point between the Gulf of Aden, the Red Sea and the Indian Ocean.

»3. Tuesday, March 13, Deputy Russian Defense Minister Alexei Antonov vigorously denied accusations that Russian Special Forces were stationed in Syria. He would only admit that “Syria has technical experts of the Russian military,” going on to explain: “For example, where we export tanks… we have to send technical experts to train our foreign counterparts to use the equipment.”

»Intelligence sources confirm that the Russian official mentioned tanks, but not the 50 Pantsyr-S1 interceptor batteries, now the backbone of Syrian air and missile defenses, which Moscow sold Syria or that Russian military crews have since mid-January taken over their operation from Syrian personnel. This is what Gen. Martin Dempsey, Chairman of the US Joint Chiefs of Staff, meant when he pointed out that “Syria's air defenses were five times more sophisticated as those in Libya, making airstrikes riskier and more complicated”…»

… Bref, si l’on peut dire, cette affaire syrienne pourrait tourner en une étonnante composition. Si l’on oublie l’épuisant détail du scénario qui se déroule depuis des mois du côté américaniste-occidentaliste, des rencontres, des réunions, des déclarations solennelles et des menaces à peine voilées, et autour de cela, gravitant comme des satellites inévitables et hostiles, les soupçons, les hypothèses de machiavélisme, les dénonciations d’hégémonie contre ce rassemblement américaniste-occidentaliste qui joue un peu trop sur l’air de la vertu et se croit investi du droit international à lui seul, et être “la communauté internationale” à lui seul, – si l’on écarte tout cela, que reste-t-il à retenir ? Depuis des mois, le bloc BAO, auréolé de toute sa gloire libyenne, fait effectivement bloc pour menacer le monde entier d’une intervention en Syrie, sans faire rien de décisif. Bien entendu, il ne se prive pas d’actions illégales, comme celle de faire intervenir, à peine secrètement, ses sempiternelles “forces spéciales” en soutien des rebelles, mais là non plus rien de décisif.

Contre ces prétentions non suivies d’effets décisifs, les pays les plus concernés ont agi beaucoup plus sérieusement. Ils ont établi des systèmes, organisé une défense, renforcé le régime que l’on juge impérativement, à l’Ouest, comme promis à disparaître (“ce n’est pas une question de ‘si’, mais une question de ‘quand’”). Ainsi apparaît-il aujourd’hui, si l’évolution de la situation se poursuit dans le sens actuel, que l’Iran et la Russie sont en train d’établir en Syrie et alentour, des têtes de pont stratégiques d’importance, plus fondées sur le déploiement de forces diverses et sur des coopérations et des intégrations actives, que sur les discours et des intentions furieuses guère suivies d’effets ; tout cela va les faire prendre, si ce n’est le cas déjà, infiniment plus au sérieux que les acteurs américanistes-occidentalistes de la pièce. A côté de cette situation novatrice et paradoxalement (puisque fondée sur la défensive) offensive, ces deux pays parviennent habilement à passer, l’un (l’Iran) pour une victime en devenir offerte à la vindicte d’une attaque qualifiée à l’avance, et justement, d’illégale et de dévastatrice, et qui n’aura peut-être pas lieu ; l’autre (la Russie), pour une puissance amie de la paix et qui cherche à susciter un arrangement général ; et le plus fort est bien dans ce que ces deux pays, tout en verrouillant leur avantages stratégiques, n’usurpent rien en passant également pour ce qu’on en dit à l'instant.

Le problème du bloc BAO, c’est que, lorsqu’on menace et qu’on veut jouer au gendarme il faut agir et imposer son ordre ; sans cela, on perd son crédit et on donne au reste toute latitude pour agir, y compris une certaine légitimité pour le faire. Mais le bloc BAO est évidemment prisonnier, a la fois du Système qui le soumet, et du discours que cette soumission suscite chez lui pour n’avoir pas trop l’air soumis ; en général, il est admis dans ces milieux que les discours suffiront à réorienter les régions et les pays visés selon les orientations proposées, qui sont confondues avec les évidences de l’ordre international. Rien de tout cela ne fonctionne plus et il se passe que le roi est nu, que les pays du bloc BAO n’ont plus les moyens d’agir d’une façon efficace, que leurs opinions publiques ne les y poussent aucunement et même au contraire, que leurs situations intérieures sont de plus en plus instables et difficiles, et ainsi de suite... (Ce qui aurait pu et a pu paraître à certains comme une “diversion” propre à renforcer les directions politiques face aux difficultés intérieures de ces pays s’inverserait alors complètement pour tendre à devenir une charge impopulaire d’engagements stériles et coûteux, pesant de plus en plus sur ces situations intérieures.)

Le dernier facteur à considérer, comme un autre élément peu habile et peut-être potentiellement catastrophique pour le bloc BAO, c’est l’alliance très activiste de l’Arabie et du Qatar. Ces deux pays se sont transformés en de redoutables interventionnistes, poussés autant par l’ambition colorée d’activisme religieux que par une fuite en avant pour contenir leurs propres désordres intérieurs (cela, pour l’Arabie, essentiellement). Si l’opération syrienne ne donne pas les résultats escomptés, eux-mêmes (surtout l’Arabie, avec le supplément du désordre à Bahreïn) pourraient se retrouver menacés de déstabilisation interne, dont les désordres sporadiques actuels en Arabie seraient un signe avant-coureur.

Là encore, dans ce tableau général, l’Iran et la Russie apparaissent bien plus sérieux et habiles, si l’on fait la comparaison. La différence tient effectivement à la substance même des politiques développées, son insubstance justement du côté américaniste-occidentaliste, en raison des diverses causes signalées plus haut et de l’emploi massif de communication sans but politique précis sinon les slogans humanitaristes dont l’éclat médiatique ne dissimule le vide que pour un temps limité. Dans ces conditions, et en raison des conditions exceptionnelles de l’affaire libyenne en 2011, il se pourrait bien que cette affaire, au contraire du “modèle” (“modèle libyen”) qu’on en a fait, s’avérât être une exception qui aurait alimenté et confirmé une règle en forme d'évolution catastrophique pour le bloc BAO dans toute la région, et qui aurait ainsi servi, du fait même de ce bloc BAO, de leurre, d’illusion et finalement de piège pour lui-même.

 

lundi, 12 mars 2012

„Nach einer westlichen Befreiung würden die Kirchen brennen!“

Im Gespräch mit Manuel Ochsenreiter über Syrien II:

„Nach einer westlichen Befreiung würden die Kirchen brennen!“

     


Geschrieben von: BN-Redaktion  

Ex: http://www.blauenarzisse.de/
 

Im ersten Teil unseres Gesprächs betonte ZUERST!-Chefredakteur Manuel Ochsenreiter, die Medien würden uns falsche Eindrücke aus Syrien übermitteln. „Derzeit sitzt das westliche Publikum wohl einer riesigen Desinformationskampagne auf, geboren in einem Londoner Ladengeschäft, verbreitet durch die großen etablierten Medien“, so der Nahost-Experte. Im zweiten Teil geht es nun um die weltpolitische Bedeutung der Konflikte. Ochsenreiter warnt dabei vor einem großen „Tabula rasa“ in der Nahost-Region.

BlaueNarzisse.de: Wie schätzen Sie die Situation der Minderheiten in Syrien ein? Könnte die Unterstützung Assads ihnen bei einem Erfolg der Revolution zum Verhängnis werden?

Manuel Ochsenreiter: Die religiösen Minderheiten führen in Syrien ein vergleichsweise gutes Leben. Sie verstehen sich vor allem zunächst als Syrer, dann erst als Christen, Alawiten oder Sunniten, um nur diese drei Glaubensrichtungen zu nennen. Auf den Demonstrationen für die Regierung halten Freunde von mir Transparente in der Hand mit dem Schriftzug „Unsere Religion ist syrisch!“. Bei ihnen steht die nationale Identität über der religiösen. Andere Demonstranten halten ein Kreuz und einen Koran in die Höhe, als Zeichen der Gemeinsamkeit. Frauen sind verschleiert oder auch nicht. Bei einigen meiner Freunde weiß ich nicht einmal, ob sie Christen oder Muslime sind, weil das nie ein Thema ist. Besonders loyal ist zudem die armenisch-christliche Minderheit im Land, die nach der brutalen Verfolgung durch die Türken zu Beginn des letzten Jahrhunderts unter anderem auch in Syrien aufgenommen wurde.


Natürlich blicken vor allem jene religiösen Minderheiten – aber auch die Sunniten, die die Mehrheit stellen – mit Sorge auf die internationale Entwicklung. Das Beispiel des Irak führte ihnen vor Augen, was nach einer „westlichen Befreiung“ passiert: Kirchen brennen, Priester und Gläubige werden ermordet, viele Christen sehen sich gezwungen, das Land zu verlassen, in dem sie fast zweitausend Jahre lang leben konnten. Und die syrischen Christen werden sich dann fragen: Wohin?

Radikale Sunniten geben ihnen heute bereits die Antwort und skandieren: „Alawiten ins Grab, Christen nach Beirut!“ Doch der Libanon ist bereits ein Land, das nach 15 Jahren Bürgerkrieg (1975 bis 1990) auf einem brüchigen religiösen Proporz- und Quotensystem basiert. Verändern sich dort die Mehrheiten beispielsweise durch eine Flüchtlingswelle von syrischen Christen, könnten wieder bewaffnete Konflikte drohen. Damit kämen die syrischen Christen vom Regen in die Traufe. Letzter Ausweg wäre dann der Westen – auch Deutschland.

Das ist eine bittere Ironie der deutschen Außenpolitik: Durch die Unterstützung für die bewaffneten Kräfte, die gegen die syrische Regierung kämpfen, könnte die deutsche Politik dazu beitragen, daß wir bald einer Flüchtlingswelle gegenüberstehen. Vor allem CDU-Politiker halten sich in ihren Solidaritätsbekundungen für die sogenannte „Opposition“ kaum zurück. Damit attackieren diese vor allem die Lebensgrundlage der syrischen Christen. Die gleichen Politiker werden später behaupten, sie könnten gar nicht nachvollziehen, wie es zu dem Flüchtlingsdrama kommen konnte und von den Deutschen und Europäern natürlich einfordern, möglichst viele Kriegsflüchtlinge aufzunehmen. Die Leidtragenden sind dabei wie immer die entwurzelten Flüchtlinge und die Aufnahmegesellschaft.

Welche Rollen spielen Rußland und China? Welche eigenen Interessen sind im Spiel?

Vor allem Rußland ist so etwas wie eine „Garantiemacht“ für die syrische Souveränität in diesen Tagen. Rußland unterhält einen Marinestützpunkt an der syrischen Mittelmeerküste, und das bereits seit den Jahren des Kalten Krieges. Damaskus ist ein alter, verläßlicher Verbündeter von Moskau. Rußland durchschaut das Spiel: Wenn die sogenannte „Opposition“, die derzeit in Istanbul logiert, dort das Ruder übernimmt, dürfte es aussein mit den engen Beziehungen. Wenn Sie einen Blick auf eine Landkarte werfen, sehen Sie schnell, daß Rußland – aber auch China – seit dem Ende des Kalten Krieges immer mehr mit US-amerikanischen Stützpunkten „eingehegt“ wird.


Aus dem Afghanistankrieg der Sowjets weiß man in Moskau nur zu gut, daß sich der Westen bei seinen „Regime Changes“ gerne lokaler Kämpfer bedient, die mit Waffen und Material ausgerüstet werden – und zwar ganz unabhängig davon, welches Gedankengut diese Partisanen pflegen. Genau das ist bereits jetzt in Syrien der Fall. Der geheime Krieg tobt längst in Syrien. Die sogenannte „Freie Syrische Armee“ – eine Rebellen- und Terroristentruppe – wird bereits jetzt vom Westen massiv unterstützt. Rußland sieht das und ist an einer Stabilisierung der politischen Situation interessiert. Daher legte das Land auch bei der UN-Sicherheitsratssitzung sein Veto gegen die Sanktionspläne ein. In Syrien wiederum ist vor allem in den letzten Monaten ein regelrechter Rußland-Boom ausgebrochen. Als der russische Außenminister Sergej Lawrow vor einigen Wochen Syrien besuchte, wurde er begeistert empfangen. Auf den großen Demonstrationen werden neben syrischen auch russische und chinesische Fahnen geschwenkt. Es ist sehr bedauerlich, daß wir Deutschen den Syrern derzeit keinen Grund geben, auch unsere Fahnen zu schwenken.

Glauben Sie, daß die Gefahr eines Stellvertreterkrieges zwischen den Ost- und Westmächten besteht und der Syrien-Konflikt auch hinsichtlich eines möglichen Iran-Krieges eine geostrategische Rolle spielt?

Ein solcher Stellvertreterkonflikt ist ja bereits im vollen Gang. Und natürlich geht es dabei nicht um „Menschenrechte“ oder „Demokratie“, sondern um Hegemonialbestrebungen und die Interessen vieler umliegender Staaten. Syrien und der Iran sind sozusagen die „letzten Störenfriede“ in der Region, die sich bislang der Einmischung aus dem Westen erfolgreich widersetzten. Seit Jahren schon pumpen westliche NGOs Geld in die sogenannten „Oppositionsbewegungen“ beider Länder, doch bislang zeigte das keine große Wirkung.


Washington geht dafür wieder ein unheiliges Bündnis mit Saudi-Arabien und den anderen Golfmonarchien ein – Staaten übrigens, die meist weder eine Verfassung noch ein Parlament haben. Doch bei denen sieht man das alles nicht so eng. Während in Syrien und im Iran beispielsweise Christen Glaubensfreiheit genießen, ist in Saudi-Arabien bereits die Einfuhr einer Bibel verboten. Doch man hört aus dem Westen kaum Kritik, sieht man mal von ein paar kleineren Vereinen ab, die das problematisieren. Daher sieht man, daß es nicht um die stets im Munde geführten „Freiheitsrechte“ geht, die man angeblich verteidigen und allen Menschen zuteil werden lassen möchte.

Doch es spielen viele Interessen eine Rolle: Syrien gilt als enger Verbündeter des Iran. Das Interesse Saudi-Arabiens ist die Schwächung des Iran, den man als schiitische Republik als muslimischen Konkurrenten um den Führungsanspruch in der islamischen Welt betrachtet. Der Iran bezeichnet wiederum das saudische Staatssystem als „unislamisch“ und sieht sich als Schutzmacht unterdrückter Schiiten, die in Saudi-Arabien nach offiziellen Angaben etwa zehn bis 15 Prozent ausmachen. Ein Fall Syriens würde den Iran schwächen, seinen Einfluß eindämmen. Die syrische Opposition in Istanbul hat bereits angekündigt, sie werde im Falle einer Machtübernahme die Beziehungen nach Teheran zurückfahren. Solche Aussagen gehen in Riad runter wie Öl. Das gehört zum Kalkül auf der arabischen Halbinsel. Die alte Achse Washington-Riad funktioniert daher.

Die Türkei träumt wieder den alten osmanischen Traum und fühlt sich als Ordnungsmacht in der Region. Das NATO-Land unterstützt die Terroristen in Syrien daher mit Ausbildern, Beratern und Waffen – mit den Amerikanern im Rücken. Gleichzeitig bekämpft man weiterhin brutal die Kurden in der Türkei und läßt schon mal Panzer über die irakische Grenze rollen. Der Westen hält die Füße still und protestiert kaum. Man war bei der Wahl der Verbündeten im Kampf für Menschenrechte und Demokratie ja nie besonders zimperlich.

Was ist Ihr Tip: Wie wird sich der Syrien-Konflikt entwickeln? Könnte durch das Referendum von Assad, das in vielerlei Hinsicht auf die Islamisten zugeht, der Konflikt an Schärfe verlieren und sich das Augenmerk wieder auf den Iran richten?

Es erscheint mir etwas zynisch, angesichts der drohenden Folgen eines Umsturzes mit Bürgerkrieg einen „Tip“ abzugeben. Geht es nach der überwiegenden Mehrheit der Syrer, bleibt die Regierung im Amt und führt die Reformen gemäß der neuen Verfassung durch. Daß es den militanten Gegenkräften gar nicht um Reformen, sondern um einen „Regime Change“ geht, sieht man an den Aufforderungen, die Abstimmung zu boykottieren. Die radikalen Sunniten wollen ja keine „Teilhabe“, sie wollen die Macht ganz und gar. Das ist ein großer Unterschied. Die drohende Tragödie im Falle eines Sturzes von Präsident Baschar al-Assad und seiner Regierung durch radikale Kämpfer im Verbund mit westlichen Truppen würde das Land um Jahrzehnte zurückwerfen.

Daß zeitgleich der Iran immer mehr in die Zange genommen wird und daß nun sogar schon konkrete Termine für einen Angriff auf Teheran öffentlich debattiert werden, zeigt, daß es Pläne gibt, in der ganzen Region einmal endlich „Tabula rasa“ zu machen.

Herr Ochsenreiter, vielen Dank für das Gespräch!

Das Gespräch führte BN-Autor Robin Classen. Hat Ihnen dieses Gespräch gefallen? Dann übernehmen Sie eine Autorenpatenschaft für ihn. Mehr darüber hier.

Syrië, de strategische inzet

Syrië, de strategische inzet

door Antoine Uytterhaeghe

Ex: http://www.uitpers.be/

De transportroute over land van het zwarte goud uit het Midden-Oosten gaat over Homs zonder Bachir Assad. De westerse machten die erg energie-afhankelijk zijn, zijn verplicht de olie- en gasdistributie uit het Midden-Oosten te beveiligen. De maritieme aanvoer via de straat van Hormuz en het Suezkanaal is niet langer volledig gegarandeerd en dus wordt uitgekeken naar alternatieven, zoals het aanleggen van pijplijnen over land.

Syrië biedt de mogelijkheid voor een strategische opening naar de Middellandse Zee en de Europese Unie. De stad Homs ligt op een strategische plaats en zou in dit plan een belangrijk knooppunt en overslagplaats kunnen worden. Daarvoor is het nodig om het Assad-regime ten val te brengen, door zoals in Libië een verbond aan te gaan met de moslimbroeders. Een dergelijke alliantie is aldus een prioriteit geworden voor de VS en zijn bondgenoten.

 

 

De spanning met Iran, dat al een hele tijd bedreigd wordt met een aanval van Israël en onder zware druk staat van de VS, maakt dat de bevoorrading via de straat van Hormuz onveilig is geworden. Dagelijks passeert daar 17 miljoen barrel ruwe olie, grotendeels afkomstig uit de Golfstaten, Irak en Iran. Iran heeft gedreigd de Straat van Hormuz af te sluiten indien Israël daadwerkelijk tot de aanval over gaat.

Aan de andere kant van het Arabisch Schiereiland, naar het westen, wordt de maritieme route geteisterd door de Somalische piraterij die zich verder heeft uitgestrekt naar de Rode Zee. Het gaat om een gesloten binnenzee die bij een gewapend conflict gemakkelijk kan worden geblokkeerd. Saoedi-Arabië bouwt een pijplijn met terminus aan de Rode Zee en heeft de kwetsbaarheid ervan zeer goed begrepen. Er is ook Jemen dat zich in een sleutelpositie bevindt aan de zee-engte van Bab-el-Mandab die het Arabische schiereiland scheidt van de Hoorn van Afrika. Een woelig gebied waar de petromonarchieën van de Golf het volksprotest in hun landen met harde hand neerslaan, maar er niet in slagen de opstandige bevolking het zwijgen op te leggen.

Tenslotte is er verder naar het noorden nog Egypte, dat sinds de verkiezingsoverwinning van de moslimbroeders en de salafisten verre van stabiel is. Het Egyptische leger houdt zich vast aan de macht en doet er alles aan om de privilegies uit de Moebarak-periode veilig te stellen. Dat zorgt voor voortdurende interne conflicten. Het olietransport vanuit het Midden-Oosten richting Europa gaat via het Suezkanaal dat gemakkelijk kan geblokkeerd worden als een maxi-tanker tot zinken wordt gebracht. Bij een dergelijk scenario zijn de olietankers verplicht 9600 km om te varen rond Afrika om de olie uit het Midden-Oosten ter bestemming te brengen. Hoe strategisch gevoelig het Suezkanaal is, bleek al in de zomer van 1956, toen de Egyptische president Nasser besloot om het Suezkanaal te nationaliseren, wat meteen tot een militaire reactie leidde van Israël, Frankrijk en Groot-Brittannië.

Met dit alles krijgt het transport over land een speciale betekenis van zowel de westerse machten, Turkije en de Golfstaten. De beveiliging van de energiebevoorrading zal in een dergelijk situatie desnoods met militaire middelen verdedigd worden.

 

 

Het is in die context dat het debat over en de effectieve bewapening, opleiding, logistieke en financiële steun van islamitische, vooral soennitische opposanten en huurlingengroepen moet worden gezien. Het gaat dan ook om een aanval op de as van het Syrië van Bachir Assad, met Iran, Hezbollah in Libanon en Hamas in Palestina, die samen te duchten tegenstanders zijn van de Israëlische en westerse hegemonie in de regio.

Het is niet de eerste keer dat de oliedistributie een belangrijke overweging vormde om militair optreden en oorlog te voeren, zoals we al konden zien in Afghanistan, Irak en Libië. Door de vele bedreigingen van de maritieme olie- en gastrafiek is het Westen verplicht om meer aandacht te besteden aan de aanleg van pijplijnen over land. Deze zijn zekerder en gemakkelijker te verdedigen. Maar er zijn ook lessen getrokken uit Afghanistan en Irak, waar een militaire invasie en bezetting een riskante onderneming is gebleken en op weinig populariteit kan rekenen van de publieke opinie. Dit verplicht hen om in de betrokken landen steun te verlenen aan krachten die in staat zijn de macht te veroveren en de belangen van het Westen te verdedigen.

Syrië vormt een strategisch bruggenhoofd tussen de olie- en gasproducerende landen in het oosten enerzijds en de maritieme route door de Middellandse Zee naar Europa anderzijds.

De voortdurende zoektocht naar nieuwe bevoorradingslijnen is niet nieuw. Al in 2003 kort na de Amerikaanse invasie van Irak werd in samenwerking met het Pentagon een studie gemaakt om de pijplijn Mossoul–Haifa terug te activeren. Die werd door de Britten in 1935 in gebruik genomen, maar in 1948 bij de uitroeping van de staat Israël gesloten. De beoogde oliepijplijn vanuit Irak, via Homs en Tartous – met mogelijke verbindingen met de Golfstaten - richting Europa met een vertakking naar Turkije biedt ook de mogelijkheid om Rusland als belangrijke energieleverancier voor Europa af te bouwen.

Er zijn in Syrië reeds pijpleidingen voor het transport van de eigen weliswaar bescheiden olieproductie, maar die hebben lang niet de capaciteit van de huidige grote maritieme aanvoerroutes langs de Straat van Hormuz en het Suezkanaal. Daarnaast is er het project van de Arab Gas Pipeline dat Egyptisch gas exporteert naar Jordanië, Syrië en Libanon met een aparte aftakking naar Israël.

Dit verklaart wellicht de houding van de Turkse premier Erdogan tegenover Syrië en de verschillende pogingen om Assad ten val te brengen. Als de Syrische moslimbroeders, die nauwe banden hebben met Erdogan, erin zouden slagen de macht in Damascus te grijpen, dan zou dit een goede troefkaart zijn voor Ankara dat een rol ambieert als belangrijk centraal knooppunt voor de Europese energiebevoorrading. Het zou ook de positie van Ankara versterken in de discussie rond het lidmaatschap van Turkije als EU-lidstaat.

Het definitieve tracé voor deze megapijplijn is nog niet vastgelegd. Wat we wel zeker kunnen stellen is dat het traject niet via Damascus zal verlopen. De olie- en gasterminal moeten zich aan de kust van de Middellandse Zee bevinden. De meer noordelijke stad Homs ligt dicht bij de haven van Tartous dat een belangrijk platform kan worden voor het olietransport uit het Midden-Oosten. De haven van Tartous werd door Rusland uitgebouwd en toegankelijk gemaakt voor het aanmeren van marineschepen en olietankers. Zo heeft Tartous het potentieel om een belangrijke oliehaven te worden, met een aftakking richting Turkije.

Dat plaatst de gewelddadige strijd van de islamitische groepen en huurlingen om de controle over de stad Homs in handen te krijgen en te houden in een ander perspectief. De controle over Tartous is daarbij een tweede objectief. Dat kan gebeuren wanneer de situatie in Syrië verslechtert en Rusland zou beslissen om haar in de haven werkende onderdanen per schip te evacueren.

De door de moslimbroeders gecontroleerde gewapende milities bereiden zich voor op de macht en hopen dan de olieroyalty’s voor het transit van het zwarte goud op te strijken.

De regering Obama heeft onlangs medegedeeld dat het 800 miljoen dollar heeft vrijgemaakt om de 'Arabische lente' te steunen. Maar nu blijkt dat de macht van de moslimbroeders of islamistische-extremistische groepen is toegenomen, met de contrarevolutionaire steun van Saoedi-Arabië en Qatar onder het goedkeurende oog van Washington, Londen en Parijs. Syrië kan zonder Assad een deel van de taart krijgen, dat weten de islamistische en andere huurlingen ook.

De monarchen van Qatar en Saoedi-Arabië hebben al laten verstaan dat zij een alternatieve route voor hun olie en gas willen ontwikkelen om niet langer afhankelijk te moeten zijn van de maritieme route via Hormuz en het Suezkanaal. Hun voorkeur gaat naar transport over land. Beide landen zijn binnen de Arabische Liga de hevigste tegenstanders van het regime van Assad.

Anderzijds zijn deze petromonarchieën er niet in geslaagd om hun stroman Hariri in Libanon aan de macht te houden, of de Libanese weerstand van Hezbollah tijdens de Israëlische oorlog in 2006 - die ze toejuichten – te breken, ook al werd daarvoor het land verwoest en verloren veel burgers het leven verloren.. Hierdoor kan Libanon geen deel uitmaken van de geplande megapijplijn.

Egypte is als gasexporteur de aanleg van een aftakking van de Arab Gas Pipeline vanuit Homs richting Turkije niet onwelwillend. e hardnekkigheid van de huidige machthebbers in Cairo tegen het Syrië van Assad is een gevolg van de groeiende macht van de moslimbroeders, gesteund door de VS. Egypte verdedigt ook zijn regionale positie en economische belangen, meer speciaal deze van de Arabische elite.

Jordanië heeft geen petroleum en ook geen financiële middelen om de aanleg van een pijplijn te financieren voor de bevoorrading van de eigen energiebehoeften. Het land heeft zich aan de zijde geschaard van de Golfstaten tegen het regime van Assad, in de hoop daarvoor te kunnen genieten van de megapijplijn.

Om dit project met succes te kunnen uitvoeren is het een prioriteit geworden om Rusland en de Russische vloot uit Tartous te verdrijven. Het bondgenootschap van Damascus met Rusland is bovendien al decennia een doorn in het oog van het Westen. De Russische invloed op het vlak van energiebevoorrading van de EU moet verminderen. Dat kan alleen maar als er andere bevoorradingslijnen tot stand kunnen komen. Voor Turkije is het uitschakelen van de afhankelijkheid van Rusland ook van groot belang. Daarom streeft het naar een vlugge val van Assad, ten einde zijn streven naar geostrategische politieke en economische dominantie in de regio kracht bij te zetten.

Wanneer deze landen er niet in slagen om Assad ten val te brengen, dan is er nog de ultieme optie om Syrië op te delen (te balkaniseren) om zo toch nog het project van een grote pijplijn naar de Middellandse Zee uit te voeren. Assad zou dan in Damascus aan de macht blijven maar geen toegang meer hebben tot de Middellandse Zee en bijgevolg geen economisch perspectief hebben.

(Uitpers nr. 140, 13de jg., maart 2012)

dimanche, 11 mars 2012

L’art de la guerre : Iran, la bataille des gazoducs

La redistribution des cartes énergétiques en direction de l'Asie est en jeu dans la guerre de l'information entre l'Iran et l'Occident, mais elle est bien cachée par ce dernier.

L’art de la guerre : Iran, la bataille des gazoducs
par Manlio Dinucci

Ex: http://mbm.hautetfort.com/

 

Sur la scène de Washington, sous les projecteurs des media mondiaux, Barack Obama a déclamé : « En tant que président et commandant en chef, je préfère la paix à la guerre ». Mais, a-t-il ajouté, « la sécurité d’Israël est sacro-sainte » et, pour empêcher que l’Iran ne se dote d’une arme nucléaire, « je n’hésiterai pas à employer la force, y compris tous les éléments de la puissance américaine » (étasunienne, NdT). Armes nucléaires comprises donc. Paroles dignes d’un Prix Nobel de la paix. Ça, c’est le scénario. Pour savoir ce qu’il en est vraiment, il convient d’aller dans les coulisses. A la tête de la croisade anti-iranienne on trouve Israël, l’unique pays de la région qui possède des armes nucléaires et, à la différence de l’Iran, refuse le Traité de non-prolifération. Et on trouve les Etats-Unis, la plus grande puissance militaire, dont les intérêts politiques, économiques et stratégiques ne permettent pas que puisse s’affirmer au Moyen-Orient un Etat qui échappe à son influence. Ce n’est pas un hasard si les sanctions promulguées par le président Obama en novembre dernier interdisent la fourniture de produits et de technologies qui « accroissent la capacité de l’Iran à développer ses propres ressources pétrolifères ». A l’embargo ont adhéré l’Union européenne, acquéreur de 20% du pétrole iranien (dont 10% environ importé par l’Italie), et le Japon, acquéreur d’un pourcentage analogue, qui a encore plus besoin de pétrole après le désastre nucléaire de Fukushima. Un succès pour la secrétaire d’état Hillary Clinton, qui a convaincu les alliés de bloquer les importations énergétiques venant d’Iran contre leurs propres intérêts mêmes.

L’embargo cependant ne fonctionne pas. Défiant l’interdiction de Washington,Islamabad a confirmé le 1er mars qu’il terminera la construction du gazoduc Iran-Pakistan. Long de plus de 2mille Kms, il a déjà été réalisé presque entièrement dans son tronçon iranien et sera terminé dans celui pakistanais d’ici 2014. Il pourrait ensuite être étendu de 600 Kms jusqu’en Inde. La Russie a exprimé son intérêt à participer au projet, dont le coût est de 1,2 milliards de dollars.

Parallèlement, la Chine, qui importe 20% du pétrole iranien, a signé en février un accord avec Téhéran, qui prévoit d’augmenter ses fournitures à un demi million de barils par jour en 2012. Et le Pakistan aussi accroîtra ses importations de pétrole iranien. Furieuse, Hillary Clinton a intensifié la pression sur Islamabad, utilisant la carotte et le bâton : d’un côté menace de sanctions, de l’autre offre d’un milliard de dollars pour les exigences énergétiques du Pakistan. En échange, celui-ci devrait renoncer au gazoduc avec l’Iran et miser uniquement sur le gazoduc Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-Inde, soutenu par Washington. Son coût est estimé à 8 milliards de dollars, plus du double que prévu initialement.

A Washington, c’est cependant la motivation stratégique qui prévaut. Les gisements turkmènes de gaz naturel sont en grande partie contrôlés par le groupe israélien Merhav, dirigé par Yosef Maiman, agent du Mossad, un des hommes les plus influents d’Israël. Mais la réalisation du gazoduc, qui en Afghanistan passera par les provinces de Herat (où sont les troupes italiennes) et de Kandahar, est en retard. En l’état actuel, c’est celui Iran-Pakistan qui a l’avantage. A moins que les cartes ne soient redistribuées par une guerre contre l’Iran. Même si le président Obama « préfère la paix ».

Edition de mardi 6 mars 2012 de il manifesto

http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2...

Traduit de l’italien par Marie-Ange Patrizio

Das türkische Trauma

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Das türkische Trauma

Der türkische Traum von der Hegemonie im Nahen Osten bleibt unerfüllt

Ex: http://www.andreas-moelzer.at

Es war der schwedische Außenminister Carl Bildt, der dieser Tage erklärte, Österreich möge doch das Trauma der Türkenbelagerung von 1683 endlich vergessen. Man müsse die Türkei möglichst schnell in die Europäische Union holen, damit diese in Zukunft auf der weltpolitischen Bühne eine Rolle spielen könne. Nur mit der Türkei sei dies möglich.

Nun mag es wirklich stimmen, daß die Österreicher mehr als andere Europäer im historischen Unterbewußtsein so etwas wie eine traumatische Furcht vor den Ambitionen der Osmanen haben. Zwar sind die Türkenkriege nahezu 400 Jahre vergangen, und in der Zwischenzeit war das Osmanische Reich sogar „Waffenbruder“ der Habsburger Monarchie im Ersten Weltkrieg, aber die Österreicher wissen, daß die Türkei, insbesondere als eine Art islamische Vormacht, geradezu das Gegenbild zu Europa, zum alten Abendland darstellt. 

Bei einem Besuch in der türkischen Hauptstadt Ankara konnte der Autor dieser Zeilen vor wenigen Monaten Gespräche mit führenden türkischen Parlamentariern und mit dem Staatspräsidenten Abdullah Gül führen. Dabei wurde den europäischen Gesprächspartnern durchaus der Eindruck von aufgeklärter Vernunft vermittelt, auch von politischer Berechenbarkeit, darüber hinaus aber von einem gewaltigen Selbstbewußtsein und einer gewissen Verachtung für die Europäer. Wirtschaftlich und politisch fühlen sich die türkischen Eliten offenbar derart im Aufschwung begriffen, daß man die europäischen Bedenkenträger eher belächelt als ernstnimmt.

Das betrifft die Behandlung des kurdischen Volkes, das betrifft die Haltung Ankaras gegenüber Zypern und das betrifft natürlich auch die türkische Geschichtspolitik in Hinblick auf den Armenier-Genozid. Es sind diese drei Bereiche, an denen man die mangelnde Europareife der Türkei am klarsten erkennen kann. Recep Tayyip Erdogan, ganz in der Attitüde eines neuen Sultans, macht aus seinem Herzen auch keine Mördergrube. Bei seinen großen Rede-Auftritten, etwa vor einigen Jahren in Köln oder in Kuwait, sagt er klar und deutlich, daß die neue Türkei sich zwar als einzige wirkliche Demokratie europäischer Prägung im islamischen Bereich fühlt, daß sie aber gleichzeitig so etwas wie eine neo-osmanische Politik der neuen Machtentfaltung und beinharter Interessenswahrung betreiben will. Die sich zunehmend islamisierende Türkei hat zunehmenden Einfluß in die Turk-Staaten bis hinein nach Zentralasien. Sie gilt zunehmend als Modell für die islamisch-arabischen Staaten des Nahen Ostens und Nordafrika. Und sie strebt weiterhin nach Europa, wobei sie insbesondere in den islamischen Bereichen des Balkans ihren Einfluß auszudehnen versucht.

Europäische Werte, etwa die Respektierung des EU-Staats Zypern, eine Entschuldigung für den Armenier-Genozid oder die Respektierung von Minderheitenrechten des großen kurdischen Volkes, liegen den Türken im Zuge dieses neo-osmanischen Aufbruchs fern. Man setzt auf neue politische Stärke, auf andauernden Wirtschaftsaufschwung, auf die eigene militärische Kraft und auf nationales Selbstbewußtsein. Europa will man offenbar nur benützen.

samedi, 10 mars 2012

Notes sur le BRICS, l’OCS et Poutine

L'Occident avait rêvé détruire la Russie par déstabilisation intérieure. Le résultat des élections, ayant tournure de plébiscite pour Poutine, a eu la conséquence inverse. Loin d'être isolé, Poutine devient le Commandeur de la fronde anti-Occident.

Notes sur le BRICS, l’OCS et Poutine

Ex: http://mbm.hautetfort.com/

La nébuleuse de crise du Moyen-Orient (Syrie, Iran, notamment) bouleverse toutes les données générales des relations internationales et, en tant que ce que nous avons désigné comme archétype de la “crise haute”, ne cesse d’effectuer une poussée vers un élargissement constant. Nous abordons d’abord le problème de l’Inde au travers d’un plus vaste ensemble, qui est le fameux BRICS (rassemblement informel du Brésil, de la Chine, de la Russie, de l’Inde et de l’Afrique du Sud), – dont un sommet est justement prévu les 28 et 29 mars à Delhi. Puis nous élargissons notre propos à l'OCS (Organisation de Coopération de Shanghai), avec la proximité entre la Chine et la Russie... Tout cela doit être vu à la lumière de l’élection de Poutine, qui constitue un évènement nouveau et important.

C’est l’excellent commentateur, l’ancien diplomate indien M K Bhadrakumar, sur son blog baptisé Indian Punchline, qui lance l’idée d’une offensive du BRICS qui pourrait s’élaborer à cette occasion.

La colère de M K Bhadrakumar

Mais voyons la chronologie… D’abord, M K Bhadrakumar avait exprimé, le 2 mars 2012, une saine et juste colère à l’encontre de son pays, qu’il accusait de céder, pris de panique, aux pressions US dans divers domaines. Deux choses avaient fait bouillir M K Bhadrakumar, d’habitude attentif à conserver un ton diplomatiquement contenu… Deux dépositions au Congrès US, celui de Clinton et celui de l’amiral Robert Willard, commandant en chef US pour la zone Pacifique.

«What stunned me is that in the same breath Clinton also commended the Manmohan Singh government for “making steps that are heading in the right direction.” Clinton told the US Congressmen not to take seriously the public utterances of Indian officials regarding friendly relations with Iran or Delhi’s grit to keep up the oil imports from Tehran. She revealed, in essence, that Uncle Sam did some tough talking and Manmohan Singh government panicked.

»Clinton’s statement means only this: Manmohan Singh government has taken ordinary Indians — you and me — for a ride by secretly complying with the US sanctions against Iran while professing publicly that India will only heed the UN sanctions. I have no reason to doubt Clinton, because the US Administration takes the Congressional hearings bloody seriously.

»Therefore, equally, I am inclined to believe the latest revelation by the Pentagon about the government’s security policies. The Pentagon has revealed that the US Special Forces are stationed on Indian soil with regard to improving India’s “counter-terrorism capabilities and in particular on the maritime domain” and assisting India’s security agencies in terms of “internal counter-terror and counter-insurgency challenges.” Again, the statement was made during a US Congressional hearing and there is no reason to doubt its veracity. A Congress-led government on Raisina Hill accepted US military personnel’s presence on Indian soil to safeguard the country’s security!»

L’Inde sermonne la Ligue Arabe

Deux jours plus tard, le 4 mars 2012, le même M K Bhadrakumar exprimait, selon un sentiment tout à fait inverse, toute sa satisfaction devant la prise de position de l’Inde lors d’un entretien du ministre des affaires étrangères indien avec le président de la Ligue Arabe. Les deux interlocuteurs discutèrent longuement du sujet de la Syrie et conclurent qu’ils se trouvaient devant une divergence majeure. La position de la Ligue Arabe, qui est celle imposée par l’Arabie et les Emirats du Golfe, est connue ; celle de l’Inde est, au contraire, du refus de toute ingérence, et de laisser les affaires syriennes aux seuls Syriens.

TheHindu.com expliquait, le 4 mars 2012 : «India and the Arab League on Saturday held extensive discussions on Syria, but have been unable to chart out a common route that would end the crisis in the strife-torn nation. After a lengthy dialogue between visiting External Affairs Minister S.M. Krishna and Arab League head, Nabil ElAraby, the two sides failed to find convergence on one core issue — the fate of Syrian President Bashar Al Assad.

»The Arab League, citing the Syrian Constitution itself as the basis, says it has called upon Mr. Assad to step down and hand over power to his Vice President and a national unity government. In contrast, India's view is non-prescriptive: It is up to the Syrians themselves to internally decide how they need to resolve their crisis. Foreign intervention of any kind was both unhelpful and unnecessary.»

Les incertitudes assurées d’Hillary

Cette nouvelle sur la position indienne vis-à-vis de la Syrie, c’est-à-dire vis-à-vis de la position du bloc BAO, est confirmée par ailleurs par les nouvelles venues régulièrement des relations entre l’Inde et l’Iran. (Il s’agit pour nous de la même “crise haute”, qui évolue autour, pour ou contre, de la politique du bloc BAO, c’est-à-dire la “politique-Système de l’idéologie et de l’instinct”.)

Il s’agit, par exemple, du développement des relations commerciales entre l’Inde et l’Iran, qui implique évidemment une prise de position contraire aux pressions du bloc BAO. (Voir le 6 mars 2012, sur PressTV.com : «Tehran Chamber of Commerce, Industries and Mines will host the Indian delegation, comprising 70 businessmen and exporters from the South Asian country. The businessmen, headed by Joint Secretary of India’s Ministry of Commerce and Industry Arvind Mehta, are due to meet with their Iranian counterparts on Saturday March 10, 2012. Discussing trade opportunities in various fields including oil, gas, chemicals, minerals, electronics, agriculture, sugar production, textile machinery, tire-making, car-manufacturing and medicine will be on the agenda of the meeting. India seeks to upgrade its trade balance with Iran that is currently tilted in Tehran's favor.»)

Cet exemple est donné comme tel, simplement comme un pas de plus dans un enchaînement d’accords commerciaux entre l’Inde et l’Iran qui prend son rythme structurel. Cela se place évidemment en complète contradiction avec le contenu de la déclaration d’Hillary Clinton au Congrès…

Hillary ment-elle au Congrès ? Sans doute pas. Elle ne fait qu’émettre les avis impératifs de ses services après sa rencontre avec la direction indienne. L’interprétation est qu’elle-même a émis des conseils et des vœux appuyés qui, dans son esprit, étaient des ordres (à cette direction indienne). Les dirigeants indiens n’ont pas dit non car ils ne se distinguent pas par un courage exceptionnel, mais répondirent vaguement. Cela fut pris pour un engagement ferme d’“obéir aux ordres”, et ainsi régurgité au Congrès sous une forme de bouillie bureaucratique satisfaite d’elle-même. (De même, Washington et Hillary vécurent-ils en général, et peut-être continuent à vivre, avec la certitude d’avoir permis aux Indiens enthousiastes d’acheter le JSF, jusqu'à faire de l'Inde un client assuré et soumis.)

Des troupes US en Inde

L’affaire des “troupes US” stationnée en Inde, que soulève également M K Bhadrakumar, est encore plus révélatrice de la difficulté d’apprécier précisément la réalité de la situation et de la nécessité de se garder de l’extraordinaire montage virtualiste accentué d’un aussi peu ordinaire imbroglio bureaucratique que constitue, constamment et irrésistiblement, sans même la conscience de ceux qui effectuent le montage, la “politique” étrangère et de sécurité nationale des USA (du bloc BAO)… La déposition au Congrès de l’amiral Willard à laquelle M K Bhadrakumar fait allusion a aussitôt été contredite par plusieurs sources : l’ambassade US en Inde, les ministères indiens de la défense et des affaires étrangères.

Antiwar.com exprimait brièvement l’affaire et ses contradictions, le 2 mars 2012 : US Pacific Command head Admiral Robert Willard announced today that US special forces have been deployed to India, along with Nepal, Bangladesh, Sri Lanka and Maldives, as an effort to fight the Lashkar-e Taiba (LeT), a militant faction mostly active in Kashmir.

»Though Willard was very clear about there being teams deployed to India, the US Embassy and the Indian Defense Ministry later denied the claims, saying that there are no US troops of any type inside India. The revelation is already causing political waves in India, with the opposition Communist Party demanding to know why parliament wasn’t consulted. The External Affairs Ministry’s statement that the US never sought nor had India approved any deployment seems difficult to believe.»

Qui croire ? Malgré le scepticisme de Antiwar.com, nous répondrons : tout le monde… L’explication la plus évidente est que ce déploiement est d’abord une manœuvre conjointe, incluant 200 soldats US sous le commandement d’un colonel, et qui n’avait pas été signalée aux autorités civiles des deux pays (département d’État aux USA, les deux ministères indien) dans son détail. C’est une habitude propre au Pentagone, entraînant aisément des “partenaires” étrangers dans la même discrétion, de mener des opérations, surtout d’entraînement, sans en dévoiler les caractéristiques auprès des pouvoirs ou ministères civils concernés.

Le résultat est douteux et se constate dans le désordre le plus complet. Après tout, la présence de militaires US, plus innocente sur l’instant qu’elle n’y paraît, a soulevé des remous sérieux en Inde, et compromis si on en avait l’idée toute perspective d’installation structurelle de militaires US en Inde. Au contraire, elle pousse un peu plus l’Inde hésitante à s’engager plutôt sur une voie plutôt “anti-BAO”, ne serait-ce que pour ne pas se trouver captive d’un entraînement servile et captif, pro-BAO.

De l’Inde au Brésil

L’ensemble de constats et de nouvelles permet de cerner une image de l’Inde dans ces diverses composants de la crise centrale (crise haute) qui est à la fois incertaine et orientée de facto vers un engagement de moins en moins sympathique aux vœux des USA et du bloc BAO qui suit. (On a déjà vu d’autres signes de cette évolution de l’Inde, notamment par rapport à l’Iran.) Cette tendance générale affecte également le Brésil, puissance émergente au statut assez semblable à celui de l’Inde, notamment par le biais du groupe BRICS.

• On peut noter l’intervention sévère pour les pratiques américanistes-occidentalistes, le 2 mars 2012 (PressTV.com), de la présidente Dilma Rousseff, au cours d’un séminaire au Brésil… «Instead of using fiscal policies to invest in their own economies in order to avert the crisis, the rich nations have spilled USD 4.7 trillion in the world to make problems worse, thus putting emerging markets in jeopardy” […] Brazilian President Dilma Rousseff has slammed the rich countries fiscal policies, accusing them of unleashing a ‘monetary tsunami’ that is cannibalizing the emerging economies.»

• On peut noter également l’intervention du ministre des affaires étrangères Antonio Patriota auprès du secrétaire général de l’ONU (NewsBeaconIreland.com, le 3 mars 2012) : «Last week, Brazil’s Foreign Affairs Minister, Antonio Patriota, reminded Ban Ki-moon regarding his role as UN Secretary General. It referred to the issue of criminal actions in derogation of international law. “One sometimes hears the expression, ‘all options are on the table.’ But some actions are contrary to international law” Patriota told UN Secretar General Ban Ki-moon.»

BRICS à Delhi, avec Annan ?

On conclut de tout cela que des membres en général moins engagés dans l’affrontement avec le bloc BAO sont conduits à prendre des positions qui se radicalisent par la seule force de la dynamique en cours. Il n’en faut pas plus, dans tous les cas pour l’Inde qui est son pays, pour lire, le 4 mars 2012, du même M K Bhadrakumar, une plaidoirie pour un BRICS beaucoup plus engagé dans le sens qu’on devine… Justement, l’occasion ne ferait-elle pas le larron ? En d’autres termes, pourquoi le BRICS, qui se réunit à Delhi, les 28-29 mars, sous présidence indienne, n’inviterait-il pas, à propos de la Syrie, Kofi Annan, dont M K Bhadrakumar, qui connaît la qualité de l’homme et sa carrière intelligente pour freiner les folies américaniste, sait parfaitement qu’il saura défendre une position conforme aux intérêts et à la dynamique du BRICS ?

«In sum, a BRICS voice needs to raised and India is going to chair the forum through the coming one-year period. India is too big a country to take a limited, opportunistic perspective of the situation as a mere new game on the West Asian chessboard. It is a fallacy to imagine that being ‘non-aligned’ via-a-vis West Asian situation means simply not taking sides between Saudi Arabia and Iran.

»Being ‘non-aligned’ actually means to be able to occupy the heights from where it becomes possible for India introduce into the West Asian situation the impetus toward creating an authentic Arab narrative that is free of manipulation by Nicolas Sarkozy or David Cameron. That is what Nehru would have done.

»Alas, South Block didn’t consider it necessary to issue even a one-line statement commending the arrival of Kofi Annan on the scene. Annan is a great friend of India. We respect him profoundly as a man of peace. We trust his integrity and his wisdom. We rely on his vast experience in conflict management. Why don’t we invite Annan to New Delhi to meet the BRICS leaders as they gather for the annual summit on March 28-29? The BRICS, after all, stands for the primacy of the United Nations in resolving international disputes and regional conflicts.

»South Block needs to think big — real big. Don’t let this period be written off as a chronicle of wasted time, of small men grappling with a big world.»

…En attendant l’OCS

Du groupe BRICS à l’OCS (Organisation de Coopération de Shanghai), il n’y a qu’un pas. Nous passons de Delhi à Pékin, les deux vieux ennemis qui sont bien obligés par les obligations du caractère eschatologique de la “crise haute” de se regrouper dans des ensemble à dimensions mondiales, – celles du groupe émergent, BRICS-OCS.

Un texte de China Daily, ce 6 mars 2012, détaille d’une façon générale les ambitions de la Chine pour le sommet de l’OCS, le 15 juin dans la capitale chinoise. Le texte s’articule notamment sur la mention de l’important évènement qu’est l’élection de Poutine à la présidence de la Russie, dimanche dernier. Il importe d’observer un rapport de complémentarité, sinon d’auto accélération, dans la convergence affichée des deux évènements : cette proximité symbolique dans un texte chinois indique sans aucun doute ce que les Chinois attendent à la fois de l’élection de Vladimir Poutine et du sommet de l’OCS.

«Following incumbent Russian Prime Minister Vladimir Putin's victory in the country's presidential election on Sunday, Chinese President Hu Jintao has sent a congratulatory message to Putin, Foreign Ministry spokesman Liu Weimin said Monday. […]

»“We are confident that with the joint efforts of the two countries, the China-Russia comprehensive strategic partnership of coordination will achieve even greater results,” the foreign minister said.

»China will play host to this year's summit of the Shanghai Cooperation Organization (SCO), which marked its 10th anniversary of establishment in 2011. One of the main agendas of this year's summit, Yang said, is to plan the practical cooperation of the SCO, particularly the establishment of institutional safeguards for the financing of multilateral cooperation.

»The summit will also discuss regional and international situations, with a focus on improving SCO measures in coping with situations that pose a threat to regional peace, stability and security, Yang said. Founded on June 15, 2001, the SCO groups China, Russia, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan and Uzbekistan. Observer countries include Mongolia, Pakistan, Iran and India while Belarus and Sri Lanka are dialogue partners.»

Dynamique de formation d’un “bloc anti-BAO”

Ainsi une diagonale est-elle tracée, de l’Inde au Brésil et au BRICS, à l’élection de Poutine, aux relations sino-russe, et au sommet de l’OCS. Cette diagonale encore tourmentée et manquant de solidité, est néanmoins l’indication la plus ferme et la plus évidente de la formation en cours d’un “bloc anti-BAO”, à organiser en fonction de toutes les tensions et crises en développement. La surprise incontestable de cette opportunité, c’est le rôle soudain qu’y tient la Russie, non en tant que telle, mais bien à la lumière de l’élection de Poutine.

…Car cette élection, en trois jours, grâce à l’activisme absolument forcené et affolant du bloc BAO pour la discréditer, et aboutissant à un fiasco de ce point de vue, a enfanté l’effet exactement inverse ; alors qu’elle n’était au départ qu’une formalité assez banale et avec effectivement un certain volume d’apprêt et de mise en scène qui en amoindrissait l’effet, l’élection de Poutine brusquement dramatisée par le bloc BAO, et d’une dramatisation aboutissant à un fiasco du point de vue du bloc, s’impose en sens inverse, comme un triomphe de Poutine et de sa conception de la Russie. C’est ce que nous interprétions (le 6 mars 2012) comme une légitimation de Poutine dans une position de dirigeant nécessairement ambitieux et affirmé de la Russie dans un rôle global renouvelé, réaffirmé... «D’une certaine façon extrêmement paradoxale et en agissant par simple effet de réaction antagoniste, l’évènement a accentué la légitimité de Poutine, et la légitimité de la nouvelle politique qu’il sera conduit à appliquer.»

Légitimation d’un rôle extérieur de Poutine

La mise en cause d’un caractère obsessionnel par le bloc BAO de cette élection et des fraudes qui l’auraient marquée, concernant la démocratie, le fonctionnement de l’élection, etc., constitue indirectement un témoignage puissant sur les angoisses propres des dirigeants politiques dépendant du Système, et concernant leur propre légitimité ; en quelque sorte, leur illégitimité tentant de se projeter sur l’élection de Poutine pour les exonérer de leur propre handicap s’étant heurtée au succès de l’élection, a légitimé paradoxalement et par effet inverse Poutine, et accentué leur propre illégitimité. Là-dessus, passant nécessairement d’un plan intérieur au plan extérieur parce que les évènements y pressent, cette paradoxale légitimation de Poutine se projette sur son rôle extérieur.

En effet, c’est ce rôle extérieur que nous considérons, hors des éventuels problèmes intérieurs russes qui obsèdent le système de la communication du bloc BAO. L’élection propulse Poutine, de cette façon symbolique qui est au moins aussi importante que le domaine politique, comme meneur naturel d’un regroupement anti-BAO, qui passe évidemment par l’alliance chinoise dans le cadre de l’OCS, puis par l’extension vers les grands pays du BRICS, c’est-à-dire l’Inde, le Brésil et l’Afrique du Sud.

Champ de bataille en formation subreptice

Au contraire de l’organisation structurelle du bloc BAO, qui passe nécessairement par les postures de servilité imposée par le Système, le rôle de Poutine devrait être effectivement celui d’un meneur coordinateur, éventuellement d’un inspirateur, valant essentiellement par l’exemple de l’entraînement bien plus que par une autorité qui n'est pas dans les habitudes de ces regroupements. C’est pour cette raison que l’organisation de cette sorte de “bloc anti-BAO” doit se faire plutôt subrepticement, par des dynamiques naturelles dont on a vu l’exemple plus haut pour l’Inde et pour le Brésil, cela largement favorisé par les extraordinaires maladresses, les contretemps systématiques des actions et des réactions du bloc BAO. Ainsi devrait-on voir surgir ce rassemblement sans avertissement, plutôt de façon impromptue et inattendue, à la suite de mouvements souterrains qui se seraient déroulés sans signes annonciateurs.

Cela devrait réserver des surprises, à mesure que la crise haute s’étend et se développe. D’autre part, il s’agit du signe de la confirmation que nous nous trouvons en présence de forces puissantes et autonomes, celles qui animent la dynamique de la crise haute, qui agissent par pressions indirectes et contribuent à rendre extrêmement difficiles des actions de retardement, de freinage ou de blocage. Le champ de la bataille et les acteurs qui s’y trouveront se mettent en place d’eux-mêmes, sans que nous ne voyons rien venir.

De foyer d’incendie en foyer d’incendie

On observera combien la stratégie générale de ces grands mouvements métahistoriques qui organisent la bataille générale passe avec régularité d’un “front à l’autre”, rendant encore plus difficile de bloquer ou de contrôler leur action. Ainsi depuis un an et demi sommes-nous passés du “front du printemps arabe“ au “front intérieur” des USA (Occupy, prémisses de la campagne présidentielle), au “front européen” parallèlement, à nouveau au front “extérieur” issu du “printemps arabe” (Syrie, Iran), qui pourrait s’étendre désormais à un front “anti-BAO” après avoir concerné le front intérieur russe, et ainsi de suite.

A chaque fois, un foyer de désordre nouveau (contre le Système) s’allume et continue ensuite à brûler, sans pouvoir être éteint ni même vraiment réduit. C’est bien d’une stratégie globale antiSystème qu’il s’agit. Inutile de chercher à identifier les auteurs-comploteurs. Ils sont hors de notre portée.

La chute du gouvernement syrien favoriserait une attaque contre l’Iran

La chute du gouvernement syrien favoriserait une attaque contre l’Iran.

Des troupes britanniques et qataries préparent une incursion militaire par la Turquie

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/

 

Selon Aviation Week, « les nouvelles installations syriennes perfectionnées servant à la collecte de renseignements et à la surveillance à distance » représentent un obstacle à une attaque israélienne contre l’Iran.

Soulignant la coopération entre la Syrie et l’Iran, l’article explique :

La chute du gouvernement du président Bachar Al-Assad pourrait créer un chaos qui protégerait une attaque des États-Unis ou d’Israël contre l’Iran. Autrement, la Syrie pourrait fournir à l’Iran une alerte rapide. (David Fulghum, Syria Key To Iranian Defenses Against West, 6 mars 2012.)

Cette information appuie l’argument avancé par plusieurs médias indépendants voulant que « la route vers Téhéran passe par Damas ». Selon de nombreux reportages, l’insurrection armée en Syrie, appuyée par l’étranger, est une opération clandestine visant à renverser le gouvernement syrien, le seul allié de l’Iran dans la région. Les médias dominants occidentaux continuent de présenter l’insurrection comme un mouvement de contestation pacifique, même si la secrétaire d’État des États-Unis, Hillary Clinton a admis qu’Al-Qaïda en faisait partie.

L’article d’Aviation Week mentionne que la chute de Bachar Al-Assad affaiblirait l’Iran et faciliterait une attaque des États-Unis et d’Israël.

On ajoute qu’une attaque contre l’Iran par Israël se ferait « par l’espace aérien de la Syrie, de la Turquie, de la Jordanie ou de l’Arabie Saoudite ».

Toutefois, les systèmes de renseignement perfectionnés de la Syrie permettent dorénavant la surveillance électronique « d’Israël, de la Jordanie et du nord de l’Arabie Saoudite », ainsi qu’une station radar installée sur le Mont Sannine, « dominant le plateau du Golan, occupé par Israël, ainsi que la plaine de Bekaa, contrôlée par le Hezbollah et la Syrie ».

Les améliorations apportées par les Russes aux systèmes syriens serviront par ailleurs à « suivre les trajectoires navales et aériennes des États-Unis et d’Israël dans l’est de la Méditerranée, y compris en Grèce et à Chypre (où les États-Unis possèdent leur propres installations vouées au renseignement) ».

D’autres reportages affirment que des troupes britanniques et qataries établies à Homs « sont en train d’ouvrir la voie à une incursion militaire clandestine [de la Syrie] par la Turquie ». (British and Qatari troops already waging secret war in Syria?- 13 undercover French army officers seized in Syria, Lanka Newspapers, 6 mars 2012.)


Julie Lévesque

vendredi, 09 mars 2012

L’Indonésie envisage de se joindre aux pays du BRICS

Le BRICS pourrait prochainement accueillir un nouveau membre dans la fronde envers l'hégémonie des USA: l'Indonésie. Plus grand et premier pays musulman (4ème population mondiale) proposant sa présence à leurs côtés.

L’Indonésie envisage de se joindre aux pays du BRICS

Ex: http://mbm.hautetfort.com/

 

 
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© Photo: EPA
 
       

L’Indonésie envisage de se joindre aux pays du BRICS. C’est ce qu’a déclaré l’ambassadeur de ce pays à Moscou.

Il a souligné à part le rôle du BRICS (Brésil, Russie, Inde, Chine, Afrique du Sud).

Quatrième pour l’importance de la population dans le monde, l’Indonésie peut contribuer à étendre l’influence du BRICS aussi bien à l’Asie du Sud-est, comme au monde islamique. Le pays joue un rôle actif au sein de l’Organisation de la coopération islamique.

mercredi, 07 mars 2012

Turkije dreigt met annexatie Noord-Cyprus

Turkije dreigt met annexatie Noord-Cyprus


Ex: http://rechtsactueel.wordpress.com/

In augustus 1960 werd Cyprus onafhankelijk van Groot-Brittannië nadat de Cypriotische politici hadden beloofd af te zien van enosis (eenheid met Griekenland) en taksim (verdeling van Cyprus tussen Grieken en Turken). Na politieke spanningen viel Turkije Cyprus binnen op 20 juli 1974 en dwong de taksim op. De Grieken in het noorden van Cyprus werden verdreven en het noorden werd de Turkse Republiek van Noord-Cyprus. Nu dreigt Turkije met de volledige annexatie van het gebied, dat wettelijk gezien een deel van de EU is.

Onderhandelingen over hereniging van de twee Cyprussen slepen al langer aan. Men moet echter rekening houden met het feit dat de Europese Unie Cyprus als geheel ziet als een volwaardig lid van de EU en de Noord-Cypriotische regering niet erkent.  Griekenland zit nu echter in diepe problemen en de verkiezingen van 29 april gaan daar niets aan verbeteren. Als die verkiezingen nog wel doorgaan aangezien de kans groot is dat Griekenland op 20 of 23 maart economisch volledig instort. Turks premier Erdogan heeft dit ook gezien en ziet de kans schoon.

Op 4 maart 2012  zei Turks minister voor Europese Zaken Egemen Bagns tegen de Turks Cypriotische krant Kibris dat indien de onderhandelingen voor hereniging niet een pak positiever worden (lees: gunstiger voor de Turken) Noord-Cyprus wel eens zou kunnen teruggebracht worden tot een Turkse provincie doordat Turkije zou overgaan tot annexatie. Dat laatste woord werd letterlijk gebruikt door de Turkse minister. De logische verdere vraag is dan ook de houding die het het Turkse leger aanneemt wanneer het opnieuw landt op Cyprus, hun deel overneemt en vervolgens ziet dat de andere kant momenteel in chaos verkeert. Het zou niet de eerste keer zijn dat men in naam van stabiliteit, ordebewaring, etc… dan ineens zou kiezen voor de volledige annexatie van Cyprus.

Dreigen met het opschorten van onderhandelingen over Turks lidmaatschap door de EU gaan niet veel uithalen. Op 27 juli zou Cyprus immers het roterende voorzitterschap van de EU overnemen in welk geval Turkije dreigt met het afbreken van enige dialoog met de EU. De Italiaanse minister van Buitenlandse Zaken maakte alvast een mooie buiging voor Turkije door bij een ontmoeting met Turks minister van Buitenlandse Zaken, Ahmet Davutoglu, te stellen dat er snel concrete vooruitgang moet komen in de herenigingsgesprekken. Ironisch genoeg is de enige kritiek op het Turkse dreigement te horen vanuit Turks Noord-Cypriotische hoek. De Republikeinse Turkse Partij, de oppositie in Noord-Cyprus, verwierp het Turkse dreigement als complete waanzin en als volledig onaanvaardbaar.

Ondertussen blijft het stil in de media hierover. Het was anders voorpaginanieuws in Cyprus en Griekenland.

lundi, 05 mars 2012

Eurazië, nieuwe zet van Moskou

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Eurazië, nieuwe zet van Moskou

door Georges Spriet

Ex: http://www.uitpers.be/

De CSTO is bij ons niet zo bekend. Deze Collective Security Treaty Organisation werd in 2002 opgericht en omvat vandaag Rusland, Armenië, Wit-Rusland, Kazachstan, Kirgizië, Tadzjikistan en Oezbekistan. Opvallend is de aankondiging na de CSTO-top van december 2011 dat Moskou een vetorecht zou krijgen over de buitenlandse militaire basissen in de CSTO-lidstaten.

CSTO als opvolger van een vroeger militair akkoord onder bepaalde leden van de het Gemenebest van Onafhankelijke Staten (GOS), is een militaire alliantie die in vergelijking met de geoliede mechanismes van de NAVO over een eerder beperkte slagkracht beschikt: er is een CSTO rapid reaction force, maar niemand weet echt hoe operationeel die (al) zou zijn. Rusland was de initiatiefnemer voor de GOS en voor de militaire samenwerking: wat Washington voor de NAVO is, is Moskou voor de CSTO.

Menig commentaarschrijver is het eens over de zwakke interne samenhang van de CSTO. Er wordt daarbij steeds gewezen op de binnenlandse moeilijkheden van bepaalde lidstaten met hierbij Kirgizië op kop; van Armenië wordt gezegd dat het alleen met zichzelf bezig is en geen inbreng heeft in een gemeenschappelijke veiligheidsstrategie. Tadzjikistan heeft de naam niet erg loyaal te zijn. De relaties tussen Moskou en Wit-Rusland zijn na verschillende prijsdisputen over het aardgas ook niet meer zo stevig, en Kazachstan zou steeds meer een eigen koers gaan varen. Oezbekistan trad tot de CSTO toe in 2006, maar het is duidelijk dat dit land de CSTO verhinderde om militair tussen te komen bij de Kirgizische crisis van 2010. Anderzijds loopt er sedert 2002 een strategisch partnership akkoord tussen Oezbekistan en de USA. Maar hier zijn de relaties ook aan het verkoelen. Tijdens haar Azië rondreis van november vorig jaar gaf Hilary Clinton heel wat opmerkingen over de mensenrechtensituatie in Oezbekistan. Oezbekistan had zelf al eerder openlijk kritiek geuit op de Amerikaanse oorlogsstrategie in Afghanistan. Het feit dat de Oezbeekse president Islam Karimov toch persoonlijk aanwezig was op de CSTO top in Moskou moet wellicht ook in dit licht worden gezien.

Onder het principe van roterend CSTO voorzitterschap gaf Belarus de fakkel door aan Kazachstan. De Kazachse president Nazerbayev verklaarde na afloop dat deze top de interne cohesie van de alliantie sterk had verbeterd; in die mate zelfs dat er is afgesproken dat een land buiten de CSTO slechts militaire basissen op het grondgebied van de CSTO-lidstaten kan installeren na het akkoord van alle leden. Dit geeft alle leden, maar in de allereerste plaats het centrum van de alliantie met name Moskou, een vetorecht over buitenlandse militaire basissen bij de collega lidstaten.

Naar verluidt werd hierover een protocol getekend - dus nog geen volwaardig akkoord? – dat echter naliet de buitenlandse militaire aanwezigheid te definiëren. Deze regeling zou niet van toepassing zijn op de bestaande afspraken met westerse legers zoals het US transit centrum in Manas, Kirgizië, het Duitse luchtsteunpunt in Oezbekistan, en de Franse luchtmachtrechten in Tadzjikistan. De VS basis van Manas in Kirgizië werd opgericht kort na de terreuraanslagen in New York als logistieke steun voor de Amerikaanse militaire operaties in Afghanistan. In februari 2009 had het Kirgizische parlement al 's de sluiting van de basis gestemd na onenigheid over de 'huurprijs'. President Atembayev blijft herhalen dat hij het contract na 2014 niet meer zal verlengen omdat het niet bijdraagt tot de eigen veiligheid van de Kirgizische Republiek. "Manas is een burgerluchthaven en dat moet zo blijven in plaats van een mogelijk doelwit te worden van eventuele represailles", stelde hij onlangs.

Deze militaire steunpunten in de Centraal-Aziatische landen zijn van essentieel belang voor de bevoorrading van de westerse operaties in Afghanistan. De beslissing op de CSTO top over de buitenlandse militaire basissen zou ook geen invloed hebben op het NDN- netwerk voor Afghanistan. Inderdaad het opdrijven van het aantal Amerikaanse troepen in Afghanistan – de zogenaamde surge – ging gepaard met meer dan een verdubbeling van de behoefte aan niet-militaire bevoorrading. Daarom werd het Northern Distribution Network opgezet, een reeks commerciële logistieke regelingen die de Baltische en Kaspische havens met Afghanistan verbinden via Rusland, Centraal-Azië en de Kaukasus.

Nu de breuk tussen Pakistan en de VS steeds dieper lijkt te worden en de militaire bevoorrading door dit land is opgeschort na de 24 Pakistaanse doden bij een Amerikaanse drone-aanval op 26 november 2011, is het belang van de Centraal-Aziatische landen als logistieke lijn voor de troepen in Afghanistan enorm toegenomen. Rapporten wijzen op de ernstige stijging in de kosten nu ladingen uit de Pakistaanse havens moeten worden verscheept naar Indische havens om dan naar Afghanistan te worden gevlogen, of per trein noordwaarts te worden gebracht om via een van de NDN-routes ter bestemming te worden gebracht.

Deze beslissing van gezamenlijke toestemming voor buitenlandse militaire basissen in CSTO-lidstaten krijgt ook groter gewicht in het perspectief van eventuele Amerikaanse luchtaanvallen tegen Iran en vooral in het vooruitzicht van de terugtrekking van de westerse troepen uit Afghanistan in 2014. Er is namelijk ook sprake van een westerse herpositionering van militaire contingenten in Centraal-Azië. Een kopie van het 'weg-is-niet-weg' patroon uit het Irak dossier.

Dit moet dan nog gekoppeld aan de nieuwste strategieverschuiving in de USA waar men de militaire samenwerkingen in Azië als absolute topprioriteit gaat beschouwen als indamming van de Chinese invloed. Ten slotte kan deze beslissing Poetin helpen om de stemmen van de patriottische vleugel in de Russische samenleving voor zich te garanderen bij de aankomende presidentsverkiezingen.

Indien dit nieuwe 'CSTO-protocol' effectief zou worden nageleefd betekent het zonder meer een versterking van de Russische invloed in de regio, en een stevige zet tegenover de nieuwe strategische accenten van het Pentagon.

(Uitpers nr. 139, 13de jg., februari 2012)

lundi, 27 février 2012

Géopolitique de l’ingérence occidentale au Moyen-Orient

Géopolitique de l’ingérence occidentale au Moyen-Orient : Les “Etats arabes” otages de leur “Ligue”, entre l’immobilisme, la subordination et l’attrape-nigaud

Depuis sa création en 1945 par sept pays arabes, dont la Syrie, la « Ligue des États arabes » a pour objectif d’unifier la « nation arabe », de défendre les intérêts des États membres, de faire face à toute ingérence des puissances dans la région. Elle se voulait aussi une force de proposition et d’impulsion. Mais les divergences sont telles que ses actions et initiatives, même de paix, restent au mieux à effets modestes. Les 22 États membres connaissent des divisions liées aux vicissitudes des relations dues à la nature de leurs systèmes politiques souvent antinomiques.

Deux visions politiques s’affrontent à ce jour. L’une “pro-occidentale” que mène l’axe monarchique, l’autre plus indépendantiste que mène l’axe républicain. Sur la trentaine de sommets organisés entre 1946 et 2011, dont 12 sommets en urgence – où les résolutions les plus importantes concernent la Palestine – on ne relève aucun qui eut un impact signification. Le semblant d’unité apparait plutôt dans l’hostilité à Israël ; quoi que… car, le dossier palestinien n’a pas vraiment unis les membres même lors de l’agression israélienne contre Ghaza, le Qatar, pays hôte du sommet de 2009, avait tenté de mener un camp favorable au Hamas contre l’Autorité palestinienne, ou contre le Liban. Il y a aussi ce « lâchage » de la Syrie qui avait refusé, avec le Liban, d’adhérer à la convention sur le « terrorisme » qui ne distingue pas ceux qui luttent pour la liberté et l’indépendance ; allusion au Hezbollah. Ajoutons la partition du Soudan, le chaos de la Somalie, l’invasion de l’Irak, l’agression du Liban et de la Libye et maintenant les provocations et menaces sur la Syrie. La ligue arabe a été non seulement d’aucune utilité, mais a joué un rôle négatif contre certains de ses propres membres.

La géniale maxime anonyme, (elle n’est pas d’Ibn Khaldoun) qui dit que « les arabes se sont entendus pour ne pas s’entendre » est d’une réalité affligeante qui va plus loin puisque c’est la première fois qu’ils « s’entendent », dans la même année, mais pour… autoriser l’agression par l’Otan de la Libye ; suspendre, sanctionner et menacer la Syrie. Une première dans l’art de se faire châtier par l’organisation censée protéger ses membres. Un grand progrès dans le…ridicule et l’abaissement !

Les peuples arabes savent que cette organisation a perdu son sens pour s’être laissé pervertir en un instrument au service du Grand Capital comme le sont toutes les organisations internationales, y compris droits de l’homme, l’AIEA. La plupart dépendantes des multinationales, leurs donatrices. L’ONU et ses institutions ne servent plus qu’à produire des alibis contre les pays ciblés ; que les ONG et les “journalistes” font dans l’espionnage ; que la CPI s’utilise pour criminaliser les dirigeants indociles ; que le FMI sert à ruiner et gager les pays ; que la presse dites « mainstream » se consacre à la manipulation, la tromperie et le contrôle de l’opinion ; que l’OTAN se réserve pour l’agression et dévastation.

La Ligue arabe ne peut échapper aux plans des lobbies militaro-financiers, de quadrillage du monde pour mieux se servir. Ce sont ces lobbies qui commanditent les guerres, déstabilisent et assassinent et qui, après l’Irak, l’Afghanistan, le Liban et la Libye, bousculent à une confrontation avec l’Iran via la déstabilisation de la Syrie. L’Afrique en paie le prix le plus cher avec l’assassinat de 21 présidents depuis 1960 : de Sylvanus Olympio en 1963 président du Togo à Kadhafi.

Quel autre moyen le plus sûr pour déstabiliser États arabes – qui présentent un danger pour leurs intérêts et Israël ou seraient un mauvais exemple pour les monarchies vassales – que celui de le faire par les arabes eux-mêmes en leur faisant la guerre avec leurs propres citoyens ! La Syrie reste le dernier « verrou » tenace pour sa résistance, dans la région.

L’État le mieux indiqué pour mener la tâche de manipuler et de piéger, tel un cheval de Troie, la Ligue Arabe – après l’éviction par leur peuple des deux renégats Moubarak et Ben Ali – est bien le Qatar en la personne de son Emir – ce vaguemestre des américano-sionistes, celui qui a renversé son père, – et ce, pour sa forte dépendance de l’Occident et ses prédispositions à la félonie. Ce Qatar qui offre aussi des possibilités d’actions militaires proches des zones convoitées. Il est assisté par la Turquie d’Erdogan, un nouveau ottoman, chargée de servir de base pour les actions armées et subversives.

Le choix de la Libye, en priorité, est stratégique – car un carrefour entre le MO, l’Afrique et l’Occident et constituant de plus, une porte moins risquée pour l’Afrique – puis tactique car, pays riche, moins peuplé et moins puissante militairement, dont la chute donnerait d’une part, selon leur vision, un exemple aux autres africains et d’autre part plus d’ardeur pour faire abdiquer la Syrie ; le point d’achoppement des velléités occidentales et sionistes. Cette indomptable Syrie qui fait le poids dans l’équilibre des forces entre l’Occident et l’Asie que représente en particulier la Russie et la Chine, dans ce que l’on appelle l’Organisation de Coopération de Shanghai (OCS) créée à Shanghai en 2001 dont l’Iran est membre.

Ce complot de l’Occident que pilote les EU pour le contrôle des richesses du MO – qui vise à neutraliser ces puissances adverses traditionnelles afin de les rendre plus dépendante et donc plus vulnérables – semble trouver en la Ligue un allié de taille au moment où des États Arabes traversent une période d’incertitudes politiques que l’Occident n’arrive pas à décrypter. D’où ses ingérences pour récupérer ces « révoltes » incontrôlée – qui remettent en cause les fondements et structures politiques archaïques – dans le sens de leurs intérêts sinon en susciter d’autres “contrôlées” pour ensuite intervenir et recomposer dans le sens souhaité en usant des fallacieux prétextes humanistes et nouvellement du grotesque « protection des populations civils ».

Ce masochisme de la Ligue arrange bien certains. Nietzsche disait bien que « si la souffrance, si même la douleur a un sens, il faut bien qu’elle fasse plaisir à quelqu’un… ». Ce sont bien les États-liges du Golfe – organisés dans le « Conseil de Coopération des États arabes du Golfe », qu’appui la Turquie d’Erdogan – qui sont chargés d’engager le bellicisme diplomatique en dictant à la Ligue ce qui doit et ne doit pas se faire. Ces monarchies ont le même rôle dans les institutions et organisations arabes que les sionistes dans les organisations et gouvernements Occidentaux ; celui de déstabiliser tous ceux qui présentent un danger « idéologique » pour les monarchies ou « d’intérêts » pour le Grand Capital. D’où ce “Conseil” des « six pétromonarchies » – qui se voulait un « bloc commercial » – mais qui travaille en fait pour des objectifs sournois ceux de servir les intérêts stratégiques de domination américaine et sioniste. Son influence est telle que ce CCG est surnommé le « bureau politique » de la Ligue puisque les résolutions sont décidées avant même que cette Ligue se réunisse. Avec le CCG, les valeurs sont inversées dans le sens où ce sont les monarchies qui gouvernent leurs contrées sans légitimité, que celle que leur fournit leurs protecteurs occidentaux, qui prennent le bâton de pèlerin pour imposer la démocratie et la liberté aux “républiques”. Et la Turquie ? Les analyses soutiennent qu’Obama aurait répondu favorablement aux dirigeants d’Ankara pour un « sous-impérialisme néo-ottoman » contrôlé par Washington après les inquiétudes de la Turquie de la domination exercée au M.O par Israël et les USA.

 

Par la Ligue, on se permet désormais d’exclure, de sanctionner et de menacer d’une intervention militaire étrangère, les États membres dont les politiques ne concordent pas avec les vues et objectifs de l’Occident sur la région, dont la prédominance d’Israël, conformément au projet du « Grand Moyen-Orient ».

Ce projet, devant dissoudre le monde musulman dans les fondements euro-atlantistes, consiste à agiter les peuples – en mettant en conflit les arabes musulmans et les chrétiens, les musulmans sunnites et chiites, les ethnies – ensuite, recomposer dans le sens désiré. Le grand capital n’ayant pas de limite géographique ou morale considère le MO, d’un intérêt vital, région qu’il faut dominer par tous les moyens.

Il a été déployé un monstrueux dispositif d’endoctrinement et d’actions psychologiques que mènent des chaînes occidentales et les chaînes des pétromonarchies à savoir Aljazeera et Alarabia. Leur matraquage médiatique, a dérouté les plus éveillés. Beaucoup ont épousé leur cabale médiatique qu’a légitimé la Ligue du méprisant Amr Moussa et que semble aussi accepter l’autre nouveau égyptien Nabil Al-Arabi puisqu’il ne fait que lire ce qu’on lui présente sous l’œil du ministre Qatari des AE. Pour avoir encore plus de légitimité, on instrumentalise même la religion en obtenant la caution de Cheikhs réputés qui décrètent des “fatwas” scélérates rendant licites ou illicites les mêmes choses et comportements en fonction des objectifs attendus du pays concerné, en s’appuyant sur des interprétations orientées et calculées de certains préceptes de l’Islam, allant jusqu’à rendre licite l’agression de la Libye par l’Otan ou bien appelant carrément à un bain de sang en Syrie comme le fait l’imam sunnite syrien al-Aroor, réfugié en Arabie Séoudite. Voilà encore le sinistre Cheikh Al-Qardawi, le protégé de l’Émir du Qatar, l’auteur de la “fatwa” autorisant l’invasion de la Libye et l’assassinat de Kadhafi, qui appelle maintenant les libyens à se… « réconcilier » en même temps qu’il autorise les « opposants syriens » à faire appel à l’Otan. Cet « Islam » là, modulable au gré des intérêts des puissants du moment et de leurs chimères, est bien étrange !

Dans cette offensive, on remarque bien que ce sont les régimes « républicains » réfractaire et pas les monarchies, que l’on vise pour les rendre au moins obéissants en installant des gouvernements composés souvent d’opposants, félons et renégats. Sinon des États dit « Islamiques » sous forme d’« Émirat » en soutenant les tendances rétrogrades, obscurantistes et violentes désignés par « terroristes islamistes », que l’occident dit combattre, mais qu’il instrumentalise, comme en Libye, selon ses désidératas.

Que constate-t-on en Libye ? Un CNT – installé par l’Otan « représentant légitime du peuple libyen » pour réinstaurer un État-lige – dans la panique et aux abois qui n’arrive pas à mettre en place un gouvernement représentatif et qui fait appel, à nouveau, à la « communauté internationale » pour l’aider à se débarrasser des mêmes rebelles qu’il a employés pour installer le chaos. Un CNT qui cherche à récupérer les cadres de l’ancien régime pour reconstituer un état et redémarrer car, impossible de le faire avec l’armée de miliciens ignorants que l’on a utilisé comme chair à canon pour détruire leur pays et qui sombrent dans le désœuvrement. Un CNT qui constate des Benghazi se retourner contre lui par des manifestants réclamant une “nouvelle révolution”. Des libyens, ayant vécu dans la Jamahiriya mieux que beaucoup d’européens par les facilités et les biens gratuits que permet le système, qui se retrouvent maintenant par leur perfidie et prétention en abattant l’ « nourricier », avec rien ; obligés de quémander la nourriture ou de s’adonner au pillage, au racket et au trafic d’armes. Un pays déstructuré et insécurisé aux mains de brigands et d’aventuriers qui ont tué des dizaines de milliers (entre 50 et 70 000 morts) de leurs compatriotes civils que l’Otan a aidés par les bombardements aux missiles. Un pays où le peuple, de tempérament vengeur et tribal, n’oubliera jamais le sang innocent versé et les viols commis. Un pays réduit à la mendicité et aux pénuries y compris d’argent après des dizaines d’années de vie dans l’aisance. Des milices au début “unies” mais qui maintenant, divisées, se font la guerre. Des « révolutionnaires » – composés de prisonniers libérés, de frustrés, d’ignares, de paumés – floués et livrés au pillage et à la rapine, qui deviennent une armée de chômeurs…en arme défiant la nouvelle autorité. Une autorité – composée en grande majorité d’opposants opportunistes et cupides, de tendances contradictoires sous tutelle de la NED/CIA et le MI6 ou de renégats – qui n’arrive pas à s’installer sur le territoire libyen à cause de l’insécurité et des attentats. Un pays ou les libyens, habitués au bien-être et au confort, ne sauront jamais faire le travail réservé à la main-d’œuvre immigrée qui représentait plus de 50 % de la population active ; oui comment demander à 2 millions de libyens de remplacer les 2 millions d’immigrés qui sont partis. Même les candidats à l’émigration ne s’y aventureront plus à cause de l’insécurité et des caisses vides. Un pays où l’on a cédé la place au désordre et où l’on a éveillé l’esprit de résistance avec la naissance d’un « Front de libération ». L’État libyen, avec ses institutions, est bien cassé et pour longtemps ! « Mais que croyaient ces zozos du CNT ? » disait Allain Jules. Citons aussi Félix Houphouët-Boigny « on n’apprécie le vrai bonheur que lorsqu’on l’a perdu ».

Dans le cas de la Libye, le sinistre Bernard-Henri Lévy « philosophe » du mal a été l’entremetteur chargé de faire sous-traiter par la France de Sarkozy cette « opération Libye » et la Ligue arabe servir de caution. Avant même que la Libye ne tombe, ce manipulateur sioniste franco-israélien avait déclaré, à l’Université de Tel Aviv, en compagnie de Tzipi Livni, « si nous réussissons à faire tomber Kadhafi ce sera un message pour Assad ». Par affront, il a déclaré aussi lors d’une réunion du CRIF « c’est en tant que juif que j’ai participé à cette aventure politique, que j’ai contribué à définir des fronts militants, que j’ai contribué à élaborer pour mon pays et pour un autre pays une stratégie et des tactiques ». Malgré les déclarations de Rasmussen, qui avait affirmé le mois d’octobre que l’alliance n’avait « … aucunement l’intention d’intervenir en Syrie… la seule façon d’avancer en Syrie … est de tenir compte des aspirations légitimes du peuple syrien… nous avons pris la responsabilité de l’opération en Libye parce qu’il y avait un mandat clair des Nations unies, car nous avons eu un soutien fort et actif des pays de la région…aucune de ces conditions n’est remplie en Syrie », les choses ont évolué autrement.

Nous revoilà en Syrie avec les mêmes tactiques, mensonges et diversions avec l’usage des mêmes méthodes et procédés ! C’est-à-dire : 1/ Faire infiltrer les manifestations pacifiques et légitimes par des groupes chargés de détourner les revendications en révoltes contre le régime tout en chargeant d’autres embusqués de tirer sur les manifestants ; en même temps on active les cellules dormantes de passer à l’action armée 2/ Imputer les exactions et crimes au « régime » en l’accusant de « tuer des civils qui manifestent pacifiquement ». 3/ Tromper les opinions en leur faisant croire à un régime « dictatorial, répressif » pour le faire condamner par la « communauté internationale ». 4/ Introduite auprès du CS des résolutions pour des sanctions économiques afin d’exacerber les choses et pousser le peuple à se révolter contre ses dirigeants. 5/ Faire admettre des « enquêteurs » et autres « journalistes » qui sont en fait des espions de guerre. 6/ Intervenir militairement sous des prétextes « humanitaire » en particulier « protéger les civils ». 7/ Instaurer le chaos. 8/ Créer une entité, en lieu et place du gouvernement composée d’éléments à leur solde 9/ Traduire les responsables comme des criminels de guerre devant un Tribunal Spécial.

Cependant, le monde a bien changé dans les relations politiques et économiques, dans les rapports de force avec la fin de la “guerre froide”, dans les alliances stratégiques à cause surtout des crises et des contradictions que génère le capitalisme actuel fait de spéculations et d’injustices suscitant des conflits d’intérêts voire d’existence.

C’est donc sans compter, cette fois, sur le double véto russe et chinois qui ne veulent pas s’y faire prendre comme en Libye où l’Otan a bafoué toutes les règles. Le même scénario en Syrie a d’autres portées autrement plus stratégiques car, il vise à resserrer le “noeud coulant” autour du puissant Iran en mettant en place, en Syrie, un « pont littoral » qui puisse servir à attaquer ce pays et par conséquent affaiblir irréversiblement la Russie et la Chine.

Il ne restait que « Ligue arabe » pour réaliser ce qu’ils n’ont pas pu faire passer par le C.S et faire, par cette pression, abdiquer ces deux puissances. L’objectif étant, par la Ligue, de mettre « au pas » tous les régimes présentant des obstacles à la politique hégémonique des lobbies financiers et industriels que soutiennent, par vassalité, les monarchies arabes et par nature, Israël. La Syrie étant l’obstacle primordial, il s’agit, pour l’Otan, de prêter main forte, par la Turquie, à l’insurrection armée – intégrée préalablement par des islamistes “djihadistes” et des mercenaires – en l’entrainant, l’armant puis en répandant de grandes quantités d’armes variées dans les régions en trouble, comme du temps de la guerre soviéto-afghane, plutôt que de réitérer la méthode désastreuse des frappes comme en Libye.

Le coup d’envoi a été donné à Deraa pour s’étendre à Homs puis à d’autres villes. On tend des embuscades aux éléments de l’armée et des services de sécurité tuant plus de 1100 ; leur armement est acheminé depuis la Turquie et la frontière libanaise. On assassine des centaines citoyens, des responsables civils, des intellectuels, des médecins, des commerçants (on parle de 5000). On viole les domiciles et kidnappe des citoyens pour des rançons. On détruit, incendie et sabote les infrastructures économiques comme les gazoducs, les usines et les voies ferrées. On réserve des camps sur le territoire Turc pour accueillir des mercenaires, essentiellement des « rats » libyens, dont-on a plus quoi faire, puis ériger avec quelques apostats et révoltés une « armée syrienne libre ». On “décrète”, avec menace, une grève générale qui a échoué. On lance un appel au boycottage des élections locales, issues des nouvelles réformes, qui a aussi échoué au regard de la participation. On s’acharne à en faire une « guerre civile » pour neutraliser ce pays et laisser faire les prédateurs. Le Qatar s’engage une nouvelle fois à tout financer. On requiert, via la Ligue, des sanctions économiques.

Des sanctions qui semblent n’avoir aucune chance de faire plier le gouvernement syrien. D’abord, parce que 95 % des avoirs ont été rapatriés et en

plus, ce sont les États arabes de la région qui pâtiront d’un éventuel boycott des produits syriens dont-ils dépendent en grande partie, mais qui ne représentent qu’une modeste proportion des exportations de la Syrie. La grande part est absorbée par l’Irak, qui refuse les sanctions et la Turquie qui se retrouve en situation de « l’arroseur arrosé » puisque les Turcs grognent déjà contre leur gouvernement pour les effets néfastes qu’ils commencent à sentir mais, le verdict vient de l’Iran qui annonce un important accord de libre-échange et d’investissements avec la Syrie ! Quant à l’embargo sur son pétrole, il a déjà trouvé preneur.

Ils continueront jusqu’à à la dernière carte à accuser trompeusement le gouvernement syrien des pires atrocités que commettent en réalité des terroristes à leur solde – selon les témoignages de journalistes indépendants, des délégations ayant visité la Syrie ou le reportage récent d’une agence américaine – contrairement aux soldats qui ripostent pour se protéger ou empêcher le chaos. Ils continueront avec leur “merdias” à travestir la réalité, à fabriquer des faits made Aljazeera, Alarabia, BBC arabic et France 24. Cependant, au regard de l’évolution des choses et devant le haut niveau de conscience des syriens, la puissance et l’expérience de leur armée qui n’a pas encore utilisé ses moyens et capacités, la modestie et la persévérance de leur président, les manifestations de masses contre l’ingérence et les décisions de la Ligue, le complot semble en phase d’échec.

Malgré cela, le gouvernement Syriens, a pris plusieurs mesures pour reformer les institutions et le régime dans le sens d’une démocratisation effective avec projet d’une nouvelle. Il s’emploie à s’ouvrir aux tendances par le dialogue, y compris avec « l’opposition à l’étranger », en leur proposant de régler pacifiquement la crise entre syriens « en Syrie » avec toutes les garanties, en acceptant même des médiateurs. Malheureusement, c’est sans compter sur les « décideurs/brigands », ceux qui jouent les grandes marionnettes, qui bloquent tout ce qui permet l’apaisement en incitant l’opposition à renoncer au dialogue et en avisant les groupes armés de ne pas déposer les armes.

Voilà que la Russie sonne le tocsin en mettant en garde contre toute velléité de déstabilisation ou de guerre contre la Syrie en même temps qu’elle annonce s’opposer à toute ingérence étrangère dans les affaires de ce pays. Elle y met les moyens en dépêchant son armada dissuasif dans la région afin « d’empêcher une guerre aux conséquences graves ». Lavrov met aussi en garde contre le langage par « les avertissements et les menaces » à l’endroit de la Syrie après avoir dénoncé, devant le conseil de l’OSCE, l’utilisation des résolutions des Nations Unies visant à « mettre fin illégalement » à des conflits et cette pratique du « deux poids, deux mesures ». La Chine prend le relais en annonçant s’opposer aux ingérences tout en déclarant soutenir toutes les initiatives qui permettent d’instaurer le calme et la stabilité. L’Inde fait de même à Moscou lors de la visite du PM Manmohan Singh. Mieux, selon Farsnews qui se réfère au bulletin du département d’État US (Europian Union Times), le président chinois aurait averti, devant son homologue russe et son premier ministre, que la seule voie permettant de stopper une intervention militaire américaine contre l’Iran est une action armée. « On fera la guerre même si cela déclenche la troisième guerre mondiale » aurait prévenu Jin Tao. Cet aboutissement est déjà signalé, en novembre, par le chef d’État-major général russe Nikolaï Makarov, lors de son intervention devant la Chambre civile (Kremlin). L’agence “Novosti” avait rapporté que ce général, en se référant à l’expansion de l’Otan en Europe de l’Est avec le bouclier antimissiles et le contexte post-Libye de pression sur la Syrie et l’Iran, avait lancé un message sans équivoque en affirmant qu’« il devient évident que le risque d’implication de la Russie dans des conflits locaux a augmenté… sous certaines conditions, les conflits régionaux risquent de dégénérer en conflits d’envergure avec un possible emploi d’armes nucléaires ». La messe donc est dite !

Tant que les Russes et les Chinois soutiendront la Syrie, les va-t-en-guerre n’auront aucune chance de réussir.

Au même moment les iraniens font atterrir, par une prouesse technologique hors-pair le drone-espion américain furtif de type RQ170 le plus sophistiqué ; sa destruction comme prévu en cas d’interception n’a pas réussi. Les USA, sonnés par ce revers, perdent ainsi un atout technologique majeur en le mettant “gratuitement” à disposition de l’Iran. Ils échouent aussi dans cet essai débile de création d’une « ambassade virtuelle » au « service » des iraniens pour mieux, en fait, espionner et manipuler.

Mais l’impérialisme n’est pas encore épuisé ses forces.

Il essayera encore de réintroduire le dossier syrien auprès du CS via encore…la Ligue “arabe” avec d’autres ruses comme nous le constatons avec la sortie “émouvante” de l’ambassadeur de France à l’Onu, Gérard Araud – qui ressemble au “chant du cygne” – qui ose qualifier la situation syrienne d’ « épouvantable et d’effroyable » pour les 5000 morts en majorité tués par les groupes armés que la France soutient ; oubliant que son pays a participé aux massacres par l’OTAN des libyens et l’assassinat programmé de Kadhafi. Cette France suiviste sarkozienne divisée, stigmatisée qui redonne une image colonialiste par ses ingérences et actions de déstabilisation des États africain. Cette France qui sombre dans la récession ; qui paie des rançons aux terroristes. On s’essaye, par revanche, à déstabiliser, cette fois, la… Russie, en sautant sur l’occasion des élections, pour exacerber les mécontentements dus à quelques cas de fraudes. C’est la Clinton qui donne le coup d’envoi avec son « aspirations du peuple russe à espérer un avenir meilleur » à propos des manifestations. Mais le ministre russe de l’Intérieur Nourgaliev averti qu’il mettrait fin à « toute tentative d’organiser un événement non autorisé ». Vladimir Poutine lance – à propos des ONG russes, en particulier “Golos” que finance la NED et l’UE pour le recrutement de ses membres à travers les services Suédois – devant ses partisans « premièrement, Judas n’est pas le personnage biblique le plus respecté chez les Russes [en référence à la trahison], deuxièmement, ils feraient mieux d’utiliser cet argent pour payer leur déficit public et d’arrêter de dépenser de l’argent pour des politiques étrangères coûteuses et inefficaces ». La « Ligue arabes » osera-t-elle ce genre de réplique ? Qu’avaient répondu les arabes lorsque Martin Van Crevel, historien militaire israélien avait souhaité la « déportation collective » des palestiniens dans une interview ? Qu’elle est la répondre leur « Ligue », à la récente ineptie de l’idiot « utile » Newt Gingrich ex “speaker” de la Chambre des représentants, qui brigue l’investiture républicaine, à la déclaration, sur la chaine “The Jewish Channel”, par une inversion accusatoire, que le peuple palestinien est une « invention » et que les palestiniens « … faisaient partie de l’empire ottoman avant la création d’Israël » ? (Ce sot est diplômé en… histoire). Aux dernières nouvelles, il y aurait divergence entre les membres de la Ligue sur les mécanismes appropriés pour régler cette crise syrienne. Le Qatar, l’Arabie Saoudite, les Emirat, le Bahreïn, le Koweït, la Tunisie et le CNT Libyen sont pour l’introduction du dossier auprès du CS alors que l’ Égypte, l’Algérie, le Liban, l’Irak, Oman et le Soudan sont pour le dialogue entre syriens.

Enfin, l’Occident est bien au bord d’une crise majeure, conséquence de son capitalisme sauvage sans limites, qui martyrise les populations de la planète, où l’homme est une marchandise. On observe une tendance vers un effondrement spectaculaire de son économie sous les poids de ses défaites militaires et de ses crises économiques internes, mais aussi de son immoralité. Le monde de la finance se retrouvant agonisant, il se débat, telle une bête blessée, en voulant s’en sortie au détriment des autres États en piétinent toutes les règles internationales et morales. Il veut faire payer, comme toujours, aux peuples les crises qu’il engendre.

Ce qui se déroule dans le monde arabe a été planifié par les américano-sionistes, comme 1ère étape, pour trouver une sortie de crise. Pour eux, il n’y a de morale qui n’intervienne que pour l’exiger aux autres. Ce sont des criminels qui s’habillent d’oripeaux élogieux – droits de l’homme, liberté et démocratie – pour faire croire en une quelconque vertu afin de mieux tromper les consciences et spolier. Leurs prétentions les aveugles au point où ils perdent la raison. « On passe sa vie à vouloir atteindre un objectif, à courir après des rêves, à croire qu’obtenir ce que l’on veut nous ouvrira les portes du bonheur. Mais ça ne se passe pas ainsi. C’est le chemin qui fait l’existence, pas l’aboutissement… dit Jorge Molist (Le Rubis des Templiers).

Pourtant, la déstabilisation d’une région entière, carrefour de trois continents, aurait des retombées catastrophiques sur tous les pays. Ce n’est rentable à personne ; ni aux pays de la région, ni aux EU, ni à l’Europe, ni à la Russie, ni à la Chine encore moins à Israël que l’on croit protéger. Un embrasement sera fatal aussi aux monarchies. Les islamistes salafistes ou les terroristes d’Al Qaida ou autres mercenaires que l’on croit dompter et instrumentaliser par l’argent, qu’appui des Cheikhs opportunistes, ne seront d’aucun secours dans le cas d’une guerre totale.

Faudra-t-il une autre guerre mondiale à cause de quelques trusts et cartels puissants qui s’évertuant à vouloir dominer le monde par la force ? L’humanité ne donne pas d’exemple de réussite de cette nature.

Quand on sait que les monarchies du golfe, qui dirigent cette Ligue, sont déjà sous la protection des EU, de quelle autre mission est chargée alors cette Ligue si ce n’est de contrôler les faits et gestes des pays membres récalcitrants pour dominer cette région. Surprise de dernière minute, la Russie introduit un projet de résolution, qui s’apparente à un contre-pied aux occidentaux, condamnant les violences des « deux côtés » ainsi que les ingérences, exigeant l’apaisement et le dialogue entre et les syriens. Ce projet, qui ne demande pas l’éviction de Bachar, a mis dans l’embarra les occidentaux qui veulent apporter des “modifications” mais aussi la Ligue « arabe » qui a …reporté ses « décisions » certainement, par subordination, pour voir vers où penche le rapport de force.

À notre sens, certains pays arabes doivent en urgence se retirer de cette funeste « Ligue », qui devient plus un attrape-nigaud qu’un bouclier de protection. Il leur sera plus avantageux, à l’avenir, de se regrouper en pôles régionaux d’intérêts communs, sur des bases réelles c’est-à-dire économiques, culturelles et de défense que sur une base « identitaire » chimérique, contre-productive comme on le constate.

Il est certain qu’avec l’axe Russie-Chine-Iran-Syrie-Liban, qu’appuieront les autres États du « BRICS », les complots en cours ou en gestation seront un coup d’épée dans l’eau et qu’en lieu et place du « Grand Moyen Orient » planifié par les EU, c’est un « Nouveau Moyen Orient », à l’opposé de celui espéré, qui surgira pour un autre ordre mondial basé sur d’autres règles, d’autres principes !

Amar DJERRAD

mercredi, 22 février 2012

Alexander Rahr: Mit gedeihendem Europa kann Russland völlig neues Spiel beginnen

Alexander Rahr: Mit gedeihendem Europa kann Russland völlig neues Spiel beginnen

Der deutsche Politologe Alexander Rahr
 Alexander Rahr, Leiter des Berthold Beitz-Zentrums - Kompetenzzentrum für Russland, Ukraine, Belarus und Zentralasien bei der Deutschen Gesellschaft für Auswärtige Politik (DGAP) - hat RIA Novosti folgendes Interview gewährt.

Ex: http://de.rian.ru/

RIA Novosti: Die Wahlen in Russland finden in einer neuen sozialen und wirtschaftlichen Situation statt. Die Eurozone steckt in einer Krise, Wirtschaftsexperten warnen vor einer zweiten Welle der globalen Finanzkrise. Mit welchen Herausforderungen und Problemen wird nun der neue russische Präsident konfrontiert.

Rahr: Der russische Präsident wird es mit einer Europäischen Union zu tun haben, die immer mehr mit sich selbst und mit der Rettung des eigenen sozialökonomischen Systems beschäftigt ist. Die EU wird bestimmte politische Erschütterungen durchmachen müssen. Ende 2012 wird die EU jedenfalls ganz anders sein als heute.

Zwei Entwicklungsvarianten kommen in Frage: Entweder retten die starken Staaten nur sich selbst, stellen eine neue spezielle Stabilisierungsnorm innerhalb der EU her und schaffen ein Fundament für die Gründung der Vereinigten Staaten Europas oder kommt es zu einer langsamen Schwächung der Europäischen Union und der politischen Fähigkeit einzelner Staaten, ihre eigene Wirtschaft zu führen. Dies ist eine schlechte Variante, die aber nicht ausgeschlossen werden kann.

RIA Novosti: Wie kann sich jede dieser Varianten auf Russland auswirken?

Rahr: Für Russland ist es in erster Linie wichtig, dass die EU-Wirtschaft nicht zusammenbricht, dass sie sich erfolgreich entwickelt, weil die russischen globalwirtschaftlichen Interessen eng an die EU gebunden sind.

Die Europäische Union ist der wichtigste Absatzmarkt für russische Energieträger. Kauft die EU Öl und Gas nicht mehr in dem Umfang, in dem Russland diese verkaufen will, so wird der russische Haushalt, wie ich denke, katastrophal wenig bekommen und ebenfalls leiden.

Es ist eine große Frage, inwieweit es Russland gelingt, seine Wirtschaft innerhalb dieses Jahres schnell zu modernisieren. Deshalb müsste es für die Entwicklung der Stabilität innerhalb der Eurozone sorgen.

RIA Novosti: Wie könnte Russland das machen?

Rahr: Ich glaube, in erster Linie auf dem Wege einer Festigung der Beziehungen. Bei der Vertiefung seines Kurses auf Modernisierung könnte Russland seinen Markt für westliche Technologien öffnen.

Warum nicht? Warum muss es alles in Russland produzieren, umso mehr, als Russland vieles nicht mehr produzieren kann? Es wäre besser, dies im Westen zu kaufen, solange das Geld da ist, westliches Know-how zu erwerben und sich für westliche Investitionen in Russland zu öffnen.

Russland ist ein guter Absatzmarkt für die EU, weil es relativ günstige Arbeitskräfte hat. Russland könnte sogar menschliches Kapital - hochqualifizierte Europäer - heranziehen, den Braindrain aus Russland in den Westen aufhalten sowie westliche Unternehmer, Anwälte und Experten für die Modernisierung der russischen Wirtschaft anwerben.

Ich denke, Russland müsste weiter an der Schaffung einer gemeinsamen Wirtschaftszone, einer Freihandelszone mit der Europäischen Union arbeiten. Der erste Schritt wurde mit dem Beitritt Russlands zur Welthandelsorganisation getan, dies ist aber nur ein erster Schritt, der nun konkretisiert werden muss.

Wenn ein Europa geschaffen wird, in dem der Euro dennoch gedeihen und in dem Stabilität herrschen wird, so könnte Russland mit einem solchen Europa ein völlig neues Spiel beginnen. Ich glaube, dass eine solche Situation 2012 endlich entstehen kann.

In den letzten 15 Jahren wollte die EU mit Russland nur in der Sprache der westlichen Werte sprechen: Russland müsse diese akzeptieren und ein demokratisches Land mit einer liberalen Wirtschaft werden, dann könnte die EU eine gewisse Partnerschaft mit Russland herstellen. Russland war dazu nicht bereit, und die Europäer waren nicht abgeneigt, Russland zu isolieren und es nur als ihr Ressourcenanhängsel anzusehen.

Nun wird sich die Situation nach meiner Ansicht nach ändern. Das russische Geld wird attraktiv, Russland könnte in die westliche Wirtschaft investieren, und die EU wird nicht „nein“ sagen. Eine Erweiterung des russischen Marktes in Richtung Europa wird zu einem äußerst wichtigen Schritt für das Überleben Westeuropas.

RIA Novosti: Heißt das, dass die Krise der Eurozone die EU zu einer Milderung ihrer Position gegenüber Russland bewegen kann?

Rahr: Eine gewisse Milderung ist zu spüren, jedenfalls bei Wirtschafts- und Finanzinstituten innerhalb der EU. Indessen beginnt Russland, zusammen mit Kasachstan eine Art gemeinsamen Markt herzustellen, was es bisher nicht gab. Jetzt entsteht eine Eurasische Union, der keine Dominanz Russlands zu Grunde liegt. Dies ist etwas Neues. Vielleicht werden wir Zeugen der Entstehung einer neuen Ost-EU, die die EU im Westen einholen und womöglich auch überholen wird.

vendredi, 17 février 2012

Les Etats-Unis et la Grande-Bretagne dressent des obstacles à l'Abkhazi

Le racket de l'Occident exercé sur les pays qui reconnaitraient l'indépendance de l'Abkhazie ne fonctionnera pas éternellement. D'ailleurs, la Belgique avait déjà reconnu, de facto, l'Ossétie du Sud en 2008 par son aide financière.

Les Etats-Unis et la Grande-Bretagne dressent des obstacles à l'Abkhazie

 

 

Photo: RIA Novosti
     

Les Etats-Unis et la Grande-Bretagne torpillent sciemment la reconnaissance de l'Abkhazie. Sans la pression de leur part la souveraineté d'Abkhazie serait officiellement approuvée, au cours de cette dernière année, au moins par 20 pays de la région Asie-Pacifique. Iouris Goulbis, ambassadeur en mission spéciale du ministère des Affaires étrangères d'Abkhazie, en est convaincu.

La tactique de Washington et de Londres est simple. Ils disent sans dissimuler aux pays qui commencent à établir les relations avec Soukhoum que ces pays ne doivent pas le faire. La désobéissance étant menacée de dures sanctions économiques, raconte Iouris Goulbis.

Les grandes puissances à savoir les Etats-Unis, la Grande-Bretagne et l'Union européenne prise dans son ensemble soutiennent la Géorgie et négligent complètement la position d'Abkhazie. Celle-ci a le droit entier d'être reconnue comme pays indépendant. Cela étant, Tbilissi réclame sa restitution. Les grandes puissances quant à elles s'efforcent de mettre en échec nos plans et nos possibilités de reconnaissance.

Les petits Etats insulaires ayant déjà reconnu l'Abkhazie se sont retrouvés dans une situation particulièrement compliquée. Il s'agit notamment de Nauru, du Vanuatu et des Tuvalu. L'Occident a tout simplement arrêté le financement des projets d'une importance vitale pour ces pays. Par là il ne punit pas seulement les habitants de ces pays, mais aussi laisse entendre les autres quelle attitude les attend dans l'hypothèse de la reconnaissance de l'Abkhazie.

Cependant tous ne cèdent pas au chantage. Au moins 12 pays de la région Asie-Pacifique ayant accédé à l'indépendance ces 30-50 dernières années saluent l'aspiration de l'Abkhazie à la liberté. Bien qu'ils ne soient pas encore prêts à établir les rapports diplomatiques à part entière avec l'Abkhazie, ils ne dissimulent pas leur sympathie, note Iouris Goulbis.

Ils reconnaissent que l'Abkhazie existe, qu'un gouvernement d'Abkhazie existe et que l'Abkhazie a sa population. Ils comprennent qu'à l'heure actuelle il y a un conflit lequel, je l'espère, sera réglé dans un proche avenir. Lors des votes à l'ONU, ils ne se prononcent pas contre nous, mais soit gardent une neutralité, soit donnent leur voix en notre faveur.

La négation par les pays occidentaux de la souveraineté d'Abkhazie sur le fond du lobbying intense de la séparation du Kosovo vis-à-vis de la Sérbie met en évidence leurs raisons. C'est que Washington, Londres et l'Union européenne poursuivent leurs intérêts géopolitiques et jouent la carte de Géorgie-Abkhazie pour affaiblir le prestige de la Russie dans l'arène internationale, estime Evguénia Voïko, expert au Centre de la conjecture politique.

Dès qu'un pays reconnaît l'indépendance de l'Ossétie du Sud et de l'Abkhazie cela confirme que la décision de la direction de Russie prise en 2008 de reconnaître leur souveraineté était juste. Il va de soi que les Etats-Unis et l'Union européenne font feu de tout bois pour que le nombre de pays prêts à reconnaître l'indépendance de ces républiques caucasiennes à présent ou dans un futur proche ne croisse pas.

Néanmoins Iouris Goulbis est convaincu que dès l'année en cours les pays à reconnaître l'indépendance d'Abkhazie et d'Ossétie du Sud seront plus nombreux. Un travail intense est mené dans cette direction, a communiqué le diplomate. Il a cependant refusé de nommer les pays avec lesquels les documents appropriés peuvent être signés dans l'avenir le plus proche. Car beaucoup ne ménagent pas leurs efforts pour torpiller les accords. Aussi préférons-nous garder le secret le plus longtemps possible, a noté l'ambassadeur.

jeudi, 16 février 2012

Brzezinski prend acte de la crise du Système

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Zbigniew Brzezinski a présenté son dernier ouvrage à la presse, et le moins qu'on puisse dire est que l'amoureux de la puissance mongole s'est assagi radicalement reconnaissant l'effondrement du système.

Brzezinski prend acte de la crise du Système

Ex: http://mbm.hautetfort.com/

Zbigniew Brzezinski a bien modifié sa vision du monde, depuis son jeu d’échec des années 1990 qui décrivait le triomphe global des USA grâce à d’habiles combinaisons géopolitiques mélangeant la force brute, le cynisme et les pressions d’influence. (Voir, le livre Le grand échiquier de Zbigniew Brzezinski, en 1997.) Aujourd’hui, en 2012, il publie Strategic Vision: America and the Crisis of Global Power ; plus rien à voir avec les échecs, et tout avec l’échec de la puissance américaniste tant célébrée...

Arnaud de Borchgrave a écouté une conférence de présentation de son livre par l’auteur. Ainsi nous apprend-il que, pour Brzezinski, la crise est au cœur du pouvoir et de sa puissance, dans la notion même de pouvoir et dans la puissance que le pouvoir prétend exprimer et déployer à son profit ; dans la disparition des centres de pouvoir irrésistibles (des “empires”, si l’on veut), y compris le plus important de tous, les USA ; dans l’installation du désordre général, enfin… Bref, qui ne reconnaîtrait dans tout cela la grande crise d’effondrement du Système ?

Borchgrave rend compte de la chose pour UPI, le 13 février 2012

«Talking about his 20th book ‘Strategic Vision -- America and the Crisis of Global Power’ – and arguably best geopolitical tome, Zbig, as he is universally known, said: “After the dissolution of the Soviet Union, we saw the emergence of a single power -- the United States. Many believed we had been chosen by God and commissioned by history to be the world's dominant power.” “Now here we are, two decades later, no longer pre-eminent,” he told a luncheon at the Women's National Democratic Club. “We're not declining, as some are suggesting, but we no longer command the world's respect, and we keep reading that China will soon supersede the United States, somewhere between 2016 and 2018” – four to six years from now.

»“No single state is a hegemon,” Brzezinski, a Center for Strategic and International Studies counselor, points out, “and we are still the most powerful. But our society is stagnating. We have just blown $1.5 trillion on two unnecessary and costly wars, both in blood and treasure, that were falsely justified and totally unwinnable.” “The consequences,” he argues, “were a dramatic decline in America's global standing in contrast to the last decade of the 20th century, a progressive delegitimation of America's presidential and hence also national credibility and a significant reduction in the self-identification of America's allies with American security.”»

Le reste du propos tel que le rapporte Borchgrave est composé d’appréciations qu’on peut considérer comme justes si elles sont prises séparément, – d’une façon réductionniste et “négationniste” de la spécificité de la crise centrale, – mais qui se révèlent alors contradictoire du propos essentiel qui est la prise en compte, justement, de cette crise centrale. Ainsi apprend-on que les USA sont dans un état pitoyable (infrastructures désintégrées, gouvernement paralysé, direction politique continuellement à vendre, etc.), mais qu’ils ne sont pas en déclin et qu’ils restent tout de même capables de mener le bloc BAO vers des lendemains qui chantonneraient encore un peu ; mais que la crise iranienne, qui pourrait permettre à Israël d’entraîner les USA dans une attaque de l’Iran, serait catastrophique, d’abord pour les USA ; qu’il aurait fallu intégrer la Russie dans l’OTAN pour la “civiliser” (le Polonais Américain parle) ; que la Chine va devenir la puissance dominante qu’il ne faut surtout pas “démoniser”, alors que le même Zbig nous dit par ailleurs que le concept de “puissance dominante” ne signifie plus grand’chose…

«Why the United States no longer commands the world's respect as it did when it emerged victorious from the Cold War struggle with the Soviet Union isn't too hard to understand. But the United States is still the richest country in the world, innovative, with residual energy and patriotism, which can still be harnessed and led in the right direction. The United States can take the lead on human rights and freedom of the press and has what it takes to revitalize the Western powers in a concerted effort. […]

»Brzezinski argues the United States should enlarge the West by incorporating Russia. U.S. leaders missed the boat at the end of the Cold War when some leading Cold War warriors said publicly it was time to invite a new Russia into NATO, which would have compelled Russia's new leaders to opt for the democratic West. Vladimir Putin would like to create a Eurasian union, says Brzezinski, made up of the former states of the Soviet Union but most of these countries are determined not to go back in to a union dominated by the men in the Kremlin. […]

»Demonizing China, says Brzezinski, is simply to invite China's leaders to demonize the United States back. The United States is interdependent in many areas and weaving China's leadership into a web of mutual interests with the United States makes more geopolitical sense than confrontation.

»An Israeli attack on Iran, Brzezinski says, would be an unmitigated disaster for the United States more than for Israel in the short run and a fundamental disaster for Israel in the long run. It would trigger a collision with the United States and make our task in Afghanistan impossible. It would set the Persian Gulf ablaze; increase the price of oil three or fourfold. Americans, already paying almost $4 a gallon, would see this quickly escalate to $12 or more. Europe would become even more dependent on Russian oil than it already is. So what would be the benefit for the United States?»

D’une certaine façon, Brzezinski montre qu’il reste, parmi les vieux “penseurs” de l’américanisme qui s’appuient sur l’expérience et sur une vision intégrée du monde, certainement le plus “réaliste” et le plus apte à accepter les changements fondamentaux ; rien à voir avec un Kissinger, qui restera jusqu’au bout un puissant penseur “de cour”, attentif à flatter le pouvoir en place, quel qu’il soit. Brzezinski fut ainsi, au long des années 2000, celui qui se montra le plus critique de la conception alarmiste et obsessionnelle que l’Amérique a adoptée à l’égard du terrorisme. Il est aussi un des rares, à Washington toujours, à ne pas faire dépendre son jugement des chiffres faussaires du chômage soi disant en baisse ou des chiffres abracadabrantesques du budget du Pentagone soi-disant mesures de la puissance. Par conséquent, son diagnostic de la crise du pouvoir per se comme crise globale fondamentale, pour ne pas être exceptionnelle désormais, le distingue au moins de ses pairs washingtoniens. (On a vu tout de même que ce constat est désormais largement partagé, dans nombre d’administrations de sécurité nationale, dans nombre de pays, y compris du bloc BAO.)

Pour autant, Brzezinski ne va pas au bout de sa logique, qui est simplement la mise en cause du Système, c'est-à-dire sa perversité intrinsèque et sa destruction assurée. La logique est pourtant lumineuse (mais la lumière est parfois si vive qu’elle devient aveuglante pour certains, certes). Un tel effondrement du pouvoir et de la puissance, sans défaite majeure, et même sans défaite du tout, sans catastrophe bouleversante, au contraire avec une activité militariste impudente des USA dans le monde entier, avec des interventions discrétionnaires et comme en terrains conquis, avec des manipulations sans nombre, etc., devrait conduire à la conclusion qu’il y a quelque chose d’infiniment pourri au cœur de la chose, c’est-à-dire dans le Système lui-même. (Certes, la dynamique de la surpuissance se transformant en dynamique d’autodestruction.) Brzezinski ne va pas jusque là, parce qu’il s’agit d’un territoire véritablement inconnu pour lui, voire impensable et inconcevable pour un esprit qui s’est formé sous l’influence formidable du concept de puissance et du goût de la puissance de l’américanisme comme émanation du Système. Il n’empêche que tout se passe comme s’il le faisait, mais inconsciemment ; s’il ne l’affirme pas et s’il n’en a pas une conscience claire, Brzezinski prend donc acte de la crise d'effondrement du Système. Cette prise de position apporte sa contribution à la dissolution de l’édifice du Système.

 

mercredi, 15 février 2012

Egypte : Les Etats Unis et l’ UE à la tête d’un complot visant à diviser le pays en quatre mini-Etats ?

Egypte : Les Etats Unis et l’ UE à la tête d’un complot visant à diviser le pays en quatre mini-Etats ?

 
Des unités des forces armées ont été déployées dans les rues et les artères de l’ensemble des villes égyptiennes. Des blindés et des véhicules militaires ont pris position tout au long de la route menant vers l’aéroport, devant les édifices publics, les alentours des bâtiments et les immeubles abritant les sièges administratifs.

Il en est de même pour les représentations diplomatiques qui furent également quadrillées par les militaires. Si les autorités et le conseil militaire ne se sont pas encore exprimés sur ces nouveaux développements de la situation, la presse égyptienne, citant des sources judiciaires, évoquent la mise à nu d’un complot visant à diviser le pays en quatre mini-Etats. La thèse d’un éventuel coup d’Etat militaire a été également évoquée par des milieux islamistes mais sans donner de détails. En effet, les forces armées se sont déployées dans les principales artères de la capitale alors que des unités militaires ont quadrillé les institutions de l’Etat, a rapporté la presse égyptienne. Il en est de même pour Alexandrie et les autres grandes villes du pays qui sont sous le contrôle des forces armées.

La presse égyptienne parle de mise à nu d’un complot visant à diviser le pays en quatre mini-Etats. Selon l’information rapportée par plusieurs titres, le projet prévoit la création de trois nouveaux Etats, l’un pour les chrétiens avec comme capitale Alexandrie, le deuxième au Sinaï. Le troisième pour les Berbères et le quatrième à Nouba. Cet état de fait intervient également à la veille du début d’une grève générale et à deux jours de la désobéissance civile, lancées par le mouvement des jeunes du 6 avril et plusieurs organisations de la société civile. Le Conseil militaire n’a pas justifié pour l’instant le déploiement de ses troupes dans les villes égyptiennes. Seul un communiqué du Conseil suprême des forces armées (CSFA) a annoncé l’envoi de patrouilles à travers le pays pour maintenir la sécurité des bâtiments publics et privés. De son côté, le général Sami Anane, chef d’état-major des forces armées égyptiennes, a exhorté les citoyens à préserver la sécurité et la stabilité du pays par le travail et la production, a-t-il indiqué.

Le complot contre l’Etat est la thèse retenue par deux magistrats instructeurs dans l’enquête incriminant des organisations nationales et étrangères activant sous le chapeau d’associations à caractère caritatif. Ces organisations avaient pour mission de diviser le pays en quatre mini-Etats, a indiqué le journal Al-Ahram, citant des sources judiciaires. En plus du plan dudit découpage, des cartes géographiques détaillées du territoire égyptien, des photos de casernes et d’églises auraient été découvertes au siège d’une association. Une autre organisation allemande, la fondation Konrad Adenauer, et deux de ses employés de nationalité allemande sont accusés dans cette affaire. Des sommes d’argent estimées à 55 millions de dollars avaient été utilisées entre les mois de mars et décembre 2011, par cinq organisations américaines, selon les deux magistrats. Quant à l’organisation allemande, elle a dépensé une somme de 1 600 000 euros. A ce même sujet, les associations égyptiennes ont reçu le financement de 85 millions de dollars, selon les enquêteurs.

Quarante personnes égyptiennes et étrangères, dont 19 Américains, sont poursuivies par la justice mais n’ont pas encore été jugées. Des interdictions de quitter le territoire concernant les Egyptiens et les étrangers avaient été délivrées par la justice égyptienne. Ces mesures ont touché le fils d’une haute personnalité américaine, a-t-on appris. Ces membres d’associations sont accusés d’avoir agi sans autorisation pour mener des activités purement politiques. «Nous sommes en possession de l’acte d’accusation et nous sommes en train de l’étudier pour comprendre qui est mis en cause et ce à quoi nous pouvons nous attendre». Telle a été la réaction du département d’Etat américain à ce sujet. L’aide annuelle américaine, estimée à 1, 3 milliard de dollars en faveur de l’armée, aurait été suspendue. Un autre sénateur républicain, Lindsey Graham, avait averti que l’aide militaire américaine à l’Egypte était, selon lui «en jeu». Trois autres sénateurs américains – les républicains John McCain et Kelly Ayotte ainsi que leur collègue indépendant Joe Lieberman – ont mis en garde l’Egypte sur ce sujet, estimant que le risque d’une rupture entre les deux pays avait rarement été aussi grand. Répliquant aux déclarations des Américains, le Premier ministre égyptien a indiqué que son pays ne céderait pas au chantage de quiconque et que la justice mènerait son travail jusqu’au bout, a-t-il conclu.

Comme nous l’avons indiqué dans nos précédentes éditions, un appel à la désobéissance civile à partir du 12 février a été lancé par plusieurs organisations égyptiennes à travers le réseau social «Facebook». Néanmoins, des politologues égyptiens expliquent que le déploiement des forces armées avait des relations non seulement après les informations évoquant un complot contre l’Etat mais également à la suite de la grève générale et à l’appel à la désobéissance civile. Une quarantaine d’organisations et d’associations égyptiennes ainsi que 16 pays auraient indiqué qu’ils respecteraient l’appel à la grève et à la désobéissance civile. Selon un représentant de l’organisation du 6 Avril, la durée de la grève et de la désobéissance civile est fixée à 3 jours. Des leaders islamistes ont déclaré à la presse qu’un coup d’Etat militaire n’est pas à écarter mais sans donner plus de détails. Ces remous interviennent aussi à la veille du premier anniversaire du renversement de l’ex-Président Hosni Moubarak.

Les protestataires et les activistes des mouvements cités plus haut réclament le transfert immédiat du pouvoir aux civils. A ce sujet, les Frères musulmans ont indiqué que leurs militants ne suivraient pas le mot d’ordre visant à paralyser le pays alors que la confrérie a appelé les Egyptiens à resserrer les rangs et à ne pas mettre le pays en péril. Ces dernières 24 heures, la télévision d’Etat a multiplié les entretiens avec les citoyens et les responsables des entreprises qui rejettent l’appel lancé par le mouvement des jeunes et plusieurs autres organisations indépendantes.

Moncef Rédha

mardi, 14 février 2012

Pechino scopre in Berlino un alleato vulnerabile

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Ex: http://www.eurasia-rivista.org

Pechino scopre in Berlino un alleato vulnerabile

La visita di due giorni della Cancelliera tedesca Angela Merkel in Cina la scorsa settimana è coincisa con notevoli progressi nella cooperazione bilaterale nonostante la persistente divergenza relativa a diverse questioni, tra cui l’Iran.

Come ha dichiarato il Presidente Hu Jintao durante l’incontro dello scorso venerdì con la Merkel, la visita di quest’ultima cementa “la fiducia e la sintonia” tra i due Paesi.

I tempi della visita della Merkel rendono bene l’idea di come i due Paesi prestino grande attenzione alla cura delle relazioni bilaterali. La Cina è il primo Paese extraeuropeo che la Merkel visita quest’anno, e la Merkel stessa è in assoluto il primo leader straniero che i dirigenti cinesi hanno incontrato nell’Anno del Dragone.

Nel corso del suo incontro con Hu la Merkel non ha mancato di sottolineare come in Germania questo sia l’Anno della Cultura Cinese e come la Cina sia l’ospite d’onore dell’annuale fiera espositiva Hannover Messe.

In occasione di un incontro separato tenuto giovedì con la Merkel, il Premier cinese Wen Jiabao ha reso noto che la Cina potrebbe decidere di contribuire al fondo europeo salva-Stati, anche se non ha fornito le cifre esatte del contributo economico. “La Cina sta analizzando e sta valutando attraverso il Fondo Monetario Internazionale (FMI) le vie più indicate per essere coinvolta più profondamente nella soluzione definitiva della crisi dei debiti sovrani europei usando i canali preposti dal Meccanismo Europeo di Stabilità/Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria”, ha detto Wen nel corso di una conferenza stampa congiunta con la Merkel.


La visita cinese della Merkel è solo l’ultima di una lunga serie negli ultimi due anni. La frequenza con cui i rappresentanti ufficiali dei due Paesi fanno la spola tra Pechino e Berlino mette bene in luce come i legami tra le due maggiori Nazioni esportatrici al mondo non siano mai stati tanto stretti, e come i due Stati non abbiano mai avuto tanti interessi strategici in comune come oggi.

Apparentemente Pechino considera il miglioramento delle proprie relazioni con la Germania, leader economico dell’eurozona, come la chiave di volta per intensificare i rapporti con l’UE. Il fatto che Wen abbia annunciato il possibile soccorso cinese all’Europa proprio in occasione della visita della Merkel non è certo una semplice coincidenza.

Prima di lasciare la Cina la Merkel ha poi osservato come la sua amministrazione stesse attualmente adoperandosi per implementare gli accordi di cooperazione strategica tra i due Paesi in una serie di campi che vanno dallo sviluppo tecnico, all’economia, al sistema legale fino alla tecnologia agricola. Presso l’Accademia Cinese delle Scienze Sociali ha dichiarato: “Oggi possiamo parlare a pieno titolo di una partnership di cooperazione strategica, vista la nostra stretta collaborazione in diversi settori. Oggi arrivo qui proprio nella speranza di consolidare ulteriormente tale cooperazione”.

Soltanto tre mesi prima del viaggio della Merkel in Cina (il quinto da quando ha assunto la carica istituzionale nel 2005), il Ministro degli Esteri cinese Yang Jiechi si trovava a Berlino per il secondo appuntamento del dialogo strategico sino-tedesco tra i rispettivi Ministri degli Esteri. In quell’occasione ha dichiarato:

“Il Mondo Moderno sta vivendo un periodo di profondi cambiamenti. La comunità internazionale deve prestare sempre maggiore attenzione nei confronti di temi quali cooperazione e sviluppo. Sebbene l’Europa stia attualmente vivendo dei momenti difficili, essa rappresenta ancora uno degli attori più importanti sulla scena internazionale. Cina e Germania rafforzano i loro rapporti di cooperazione bilaterale, e la loro rispettiva influenza sugli eventi globali è in continua crescita. Entrambi i Paesi dovrebbero sfruttare la situazione globale e le occasioni uniche che ci si presentano per il futuro sviluppo delle relazioni bilaterali per promuovere senza sosta l’accrescimento stabile e a lungo termine della partnership strategica tra i due Stati”.

Il dialogo strategico, la cui prima tornata si è svolta lo scorso aprile a Pechino, rappresenta solo la punta della fitta e profonda serie di scambi di visite ufficiali in corso tra i due Paesi.

Nel gennaio 2011, il Vice Primo Ministro cinese Li Keqiang, favorito per succedere a Wen Jiabao nella veste di premier a inizio 2013, è stato in visita a Berlino. Il Vice Cancelliere e Ministro degli Esteri Guido Westerwelle ha visitato Pechino tra marzo e aprile dell’anno passato. E’ di tutta evidenza come le relazioni sino-tedesche vivano uno stato di salute decisamente buono dopo avere toccato il punto più basso nel corso del 2008.

I rapporti tra Cina e Germania avevano raggiunto la massima freddezza nel 2008, dopo che la Merkel nel 2007 aveva incontrato il Dalai Lama (la massima autorità spirituale del Tibet attualmente in esilio). Berlino aveva anche offerto il suo sostegno indiretto al Movimento per il Tibet Libero e aveva deciso di boicottare la cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici Estivi di Pechino nel 2008 adducendo a motivazione il sostegno cinese al regime del Sudan, che Berlino accusava di genocidio.

La crisi era giunta dopo che la Merkel si era recata in visita ufficiale in Cina nel 2007, facendo sorgere la speranza di un roseo futuro per le relazioni sino-tedesche sulla scia dell’operato dei suoi predecessori, Helmut Kohl e Gerhard Schroeder. Questo però non le impedì di virare ben presto verso una diplomazia “orientata dai valori” come esplicitato nella relazione strategica sull’Asia presentata dal suo partito nel 2007.

Pechino giudicò mosse ostili l’incontro della Merkel col Dalai Lama e le iniziative prese dall’amministrazione tedesca; in risposta rimandò o cancellò del tutto una serie di visite ufficiali, incontri e forum di cooperazione bilaterale. Le relazioni non ritornarono a livelli normali fino a quando la Merkel non rilasciò alcune dichiarazioni che correggevano il tiro a margine del summit Asia-Europa tenutosi nell’ottobre del 2008 a Pechino.

Le relazioni sino-tedesche ritornarono gradualmente ai livelli standard, tanto che oggi Berlino appare l’alleato informale di Pechino in Europa (specialmente per quel che riguarda gli affari internazionali), e Pechino sembra dal canto suo l’alleato strategico di Berlino nel continente asiatico.

Questa evoluzione nei rapporti tra i due Paesi è arrivata senza alcun cambio delle rispettive classi dirigenti ai vertici, a dimostrazione che i due Stati hanno trovato un terreno d’incontro comune sebbene Berlino non abbia abbandonato la sua Strategia Asiatica “orientata dai valori”.

Ci sono diversi elementi concreti alla base dei passi in avanti della “partnership strategica” tra Cina e Germania.

Il più importante è probabilmente quello dei legami economici e degli interessi finanziari in comune. Si stima che il volume di interscambio commerciale tra Cina e Germania sia destinato a raggiungere i 160 miliardi di dollari quest’anno, in crescita rispetto ai 142 dell’anno passato, e pari a un terzo del volume totale del commercio della Cina con l’Unione Europea. Ciò mette chiaramente in luce come i due Paesi siano diventati ancora più dipendenti dai mercati dell’altro, in particolare in un periodo di recessione economica globale come quello presente in cui poi l’UE è sottoposta alla forte pressione della crisi interna dei debiti sovrani.

Dal momento che l’UE assorbe il 60% delle esportazioni tedesche, la Germania (in quanto economia fondamentalmente basata sull’export) ha dovuto sondare il terreno alla ricerca di nuovi mercati. La Cina è divenuta naturalmente la destinazione ideale per i prodotti tedeschi. Anche la Germania da parte sua costituisce un importante mercato di riferimento per la Cina, nonché partner di rilievo nel settore della cooperazione tecnologica.

Pechino e Berlino hanno inoltre posizioni simili in tema di affari economici internazionali. Sia la Cina che la Germania si oppongono a forme di protezionismo, in costante crescita per via dei dazi doganali diretti o indiretti che diversi Paesi adottano per “tutelare” i propri mercati interni.

I due Stati sono accomunati anche da visioni comuni in politica estera. Nel marzo del 2011 sia Pechino che Berlino si sono astenute dal votare la Risoluzione 1973 delle Nazioni Unite che sosteneva l’imposizione di una no-fly zone sulla Libia. Atteggiamento analogo tenuto anche nelle settimane seguenti nei confronti dell’azione militare intrapresa contro il regime di Tripoli dalla North Atlantic Treaty Organization (NATO) col sostegno degli Stati Uniti d’America.

Punti di vista simili sui maggiori temi internazionali hanno anche indotto i rappresentanti diplomatici dei due Paesi ad esprimere apprezzamento e sostegno reciproco nei loro confronti, nonostante tali prese di posizione siano fondate su concezioni ideologiche totalmente differenti. E’ interessante notare a tal riguardo come il Cancelliere tedesco Merkel abbia ricevuto la nomina come candidata al premio Confucio per la Pace (riconoscimento nato dall’iniziativa di un privato in risposta al Premio Nobel per la Pace) per essersi opposta all’attacco aereo della NATO in Libia.

Lo scorso giovedì Wen ha affermato che Cina e Germania dovrebbero operare congiuntamente in risposta ai temi della crisi finanziaria internazionale e dei debiti sovrani europei. Se l’offerta di aiuto della Cina in merito alla crisi del debito europeo potrebbe essere più retorica che concreta (Wen ha fatto notare come spetti all’Europa risolvere la propria crisi interna, anche se la Cina continuerà a sostenere la stabilità dell’Euro), resta il fatto che l’annuncio del sostegno cinese al piano di salvataggio è rilevante per lo sviluppo della partnership strategica.

E’ fondamentale che la Germania, in quanto leader di punta dell’economia dell’eurozona, cerchi il sostegno di altri Paesi per la risoluzione della crisi attuale, dal momento che ogni successo in tal senso andrebbe a rafforzare la leadership di Berlino all’interno della UE. Ciò ha un suo significato particolare anche perché Pechino non si affida più alla tattica del “divide et impera” nel suo approccio alla politica europea (cosa che faceva quando raffreddava i rapporti con uno Stato stringendo contemporaneamente quelli con un altro).

Per la Cina intrattenere oggi buoni rapporti con la Germania significa intrattenerli con l’Unione Europea, che considera attore di vitale importanza nella lotta per arrivare a un mondo multipolare e alla fine dell’egemonia statunitense.

Mentre gli USA procedono nella loro strategia di “ritorno in Asia” e la Cina viene messa sotto pressione dai Paesi confinanti alleati di Washington, garantirsi buone relazioni con l’UE attraverso buone relazioni con la Germania può contribuire in maniera positiva a sconfiggere i disegni statunitensi per isolare la Cina sullo scenario globale.

Se da un lato Berlino può beneficiare del mercato cinese in costante crescita e della cooperazione economica, dall’altro la Cina può beneficiare della Germania e dell’Europa sul piano economico e su quello politico. In altre parole: una Cina in rapido sviluppo e un’Europa forte e unita hanno potenzialmente diversi interessi in comune.

Questo matrimonio apparentemente sereno non è comunque costruito unicamente su basi solide, se si considera il rischio legato a scontri valoriali e ideologici.

Una volta che la crisi del debito nella UE sarà stato risolto e l’Occidente si sarà risollevato dalla sua crisi odierna, potrebbe riemergere e tornare in primissimo piano il “vecchio” spirito di critica dell’Europa verso Pechino su diritti umani, protezionismo commerciale e diritti sulla proprietà intellettuale. Ritornerà prepotentemente sulla scena l’obiettivo strategico dell’Europa di “allineare” o “normalizzare” (leggasi “occidentalizzare”) la Cina. Va poi detto anche che le relazioni atlantiche tra Stati Uniti ed Europa resteranno sempre più salde rispetto a quelle di quest’ultima con la Cina.

A questo scenario generale si aggiunga poi il conflitto di interessi euro-cinese per quanto attiene tre settori di competenza principali: l’alta tecnologia (la Cina sta velocemente colmando il divario che la separa dall’Occidente), l’export su scala globale e il mercato delle risorse naturali (soprattutto provenienti dai Paesi in via di sviluppo). Questo significa di non doversi aspettare che la Cina possa in futuro continuare a mantenere una partnership accomodante e priva di problemi con la Germania e l’Europa senza ostacoli di alcun tipo. I punti di vista condivisi e gli interessi in comune tra le parti sono tante quante le loro divergenze.

Per questa ragione Cina e Germania devono necessariamente stabilire i propri legami per lo sviluppo nel lungo termine sulla base di considerazioni pragmatiche e razionali. Lasciare che l’emotività abbia la meglio sulla diplomazia può avere potenzialmente ricadute pesanti in uno scenario internazionale complesso come quello attuale.

Dottor Jian Junbo, ricercatore universitario dell’Istituto di Studi Internazionali dell’Università di Fudan, in Cina, attualmente assistente accademico in visita presso la London School of Economico and Political Sciente nel Regno Unito.

(Copyright 2011 Asia Times Online (Holdings) Ltd.).

Traduzione di Alessandro Iacobellis

Vers un scénario libyen en Syrie ?

Vers un scénario libyen en Syrie ?

Les récentes révélations des médias israéliens selon lesquelles le Royaume-Uni et le Qatar auraient déployé en Syrie des unités de leurs forces spéciales n’ont pas laissé les autorités de Moscou indifférentes.

Jeudi, le porte-parole de la diplomatie russe, Alexandre Loukachevitch, a déclaré que si ces informations s’avéraient exactes ce serait «une nouvelle très inquiétante». En effet, le site israélien Debkafile a rapporté jeudi que les combattants qui luttent contre l’armée syrienne aux alentours de la ville de Homs sont assistés par des instructeurs appartenant à des forces spéciales du Royaume-Uni et du Qatar. Selon Debkafile, les militaires étrangers ne participent

"C'est un fait que personne ne peut nier: la Syrie reçoit des armes destinées aux insurgés et aux extrémistes religieux qui profitent des mouvements de contestation pour s'emparer du pouvoir", a déclaré le chef de la diplomatie russe Sergueï Lavrov

pas directement aux hostilités, mais agissent comme con-seillers militaires, assurent la communication et fournissent aux combattants armes et munitions. En outre, ces spécialistes étrangers assurent également le transport des combattants dans la zone du conflit, ainsi que la livraison de cargaisons militaires en provenance de différents fournisseurs, dont la Turquie.

Pour sa part, Hanane Aâchraoui, membre du comité exécutif de l’OLP, a considéré que l’étape franchie par la Tunisie et les pays du Conseil de coopération du Golfe (CCG), consistant dans le renvoi des ambassadeurs syriens, prouve l’existence d’une coordination entre Israël, les USA et certains pays arabes. Pour Mme Aâchraoui, les USA tentent de semer la division dans toute la région et pas seulement en Syrie, afin d’obtenir un Grand Moyen-Orient qui réponde aux attentes américaines donc israéliennes dans cette région névralgique du globe. Elle ne manquera pas, ainsi, d’exprimer, la mort dans l’âme, sa profonde désolation de voir des pays arabes impliqués dans ce plan américano-sioniste dont l’exécution ressemble étrangement au scénario libyen. Mme Aâchraoui a même précisé au journal palestinien Al Thawra al Ikhberia que l’expulsion des ambassadeurs syriens faisait partie des résolutions du congrès de Herzlia tenu en Israël sur le thème de la sécurité du Grand Israël. De nombreuses sources font état de plus en plus fréquemment  d’une subversion en Syrie fomentée depuis l’étranger.

Damas affirme que le pays est en proie à des terroristes islamistes financés et armés depuis l’étranger et déplore la perte de plus de 2 000 militaires et membres des forces de l’ordre. La télévision nationale a rapporté jeudi que l’armée syrienne a mené une opération antiterroriste dans la ville d’Al-Qoussaïr, dans la province de Homs. D’après cette source, les commandos islamistes ont disposé des explosifs dans les immeubles et  dans les rues de cette ville frontalière avec le Liban. Au terme de l’opération, l’armée syrienne aurait réussi à arrêter plusieurs terroristes, mais elle aurait, aussi, essuyé des pertes, deux soldats tués et plusieurs autres blessés. Un reportage de la chaîne Surya TV a montré, jeudi soir, que la vie reprend progressivement son cours à Homs, théâtre depuis cinq jours d’une opération antiterroriste d’envergure.  Pour sa part, l’opposition syrienne a signalé de lourdes pertes humaines.

D’après l’Observatoire syrien des droits de l’homme basé à Londres, plus de 400 personnes ont péri dans la ville depuis le 4 février. Les autorités syriennes démentent ce chiffre et assurent que la ville était pilonnée par des commandos qui, en outre, distribuaient des vidéos truquées pour compromettre le pouvoir et provoquer une ingérence étrangère en Syrie. Sur ce dernier point, personne n’a pu contredire jusqu’à présent les responsables syriens. Ni le Royaume-Uni, ni  le Qatar, soupçonnés, eux, d’avoir envoyé des troupes au sol.

A. Abdelghafour

lundi, 13 février 2012

Le Mali, première victime « collatérale » de l'intervention occidentale en Libye

 

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Le Mali, première victime « collatérale » de l'intervention occidentale en Libye

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Depuis le début de cette erreur politique majeure que fut l’ingérence franco-otanienne dans la guerre civile libyenne, j’ai expliqué qu’avec l’élimination du colonel Kadhafi, l’arc de tension saharo-sahélien allait de nouveau être bandé. La raison en est simple, et il est proprement affligeant que les conseillers africains de l’Elysée, informés aux meilleures sources, n’aient pas réussi à freiner les ardeurs guerrières de certains.
 
Après avoir longtemps déstabilisé la région, le colonel Kadhafi avait changé de politique depuis quelques années et au moment où nous lui avons déclaré la guerre, il la stabilisait. Il avait ainsi mis « sous cloche » les velléités des Toubou libyo-tchadiens et l’irrédentisme des Touaregs du Mali. Etrangement, nous l’avons supporté quand il nous combattait, et nous l’avons combattu dès lors qu’il était devenu notre allié…
L’intervention franco-onusienne s’étant produite avec les résultats que l’on sait, à savoir l’anarchie libyenne, les forces de déstabilisation saharo-sahéliennes qui avaient perdu leur mentor ont aussitôt repris leur autonomie.
Du côté des Toubou et apparentés, la situation est pour le moment sous contrôle en raison de la présence d’Idriss Deby Itno que la presse française, toujours prompte à déstabiliser les pouvoirs stabilisateurs, ne cesse d’attaquer. Son pouvoir est solide, mais la question de sa succession se posera un jour avec toutes les conséquences qui en découleront.
Aujourd’hui, le maillon le plus faible de l’arc saharo-sahélien est le Mali. Or, c’est très exactement là que se produisent actuellement des évènements dont les conséquences risquent d’être catastrophiques en raison de la proximité de ces trois autres foyers de déstabilisation que sont le nord du Nigeria avec la secte fondamentaliste Boko Haram, la région du Sahara nord occidental avec Aqmi et les confins algéro-maroco-mauritaniens avec le Polisario.
 
Au Mali où, depuis 1962, la guerre n’a jamais véritablement cessé entre les Touaregs et l’Etat contrôlé par les Noirs sudistes, les hostilités ont repris au mois de janvier 2012. Plusieurs milliers de Touaregs, dont nombre d’anciens militaires libyens, ont en effet pris le contrôle de l’Azawad, le nord nord est du Mali.
Leur chef militaire est Ag Mohammed Najem, de la tribu des Igforas. Cet ancien colonel de l’armée libyenne qui commandait une unité spécialisée dans le combat en zone désertique et qui était casernée à Sebha, a quitté la Libye avec armes et bagages quelques jours avant le lynchage du colonel Kadhafi par les fondamentalistes de Misrata. Son groupe dispose d’un matériel de pointe, y compris des missiles sol-air ; l’un d’entre eux a semble t-il abattu un avion de l’armée malienne.

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Remarque importante : ces rebelles qui se réclament du MNLA (Mouvement national pour la Libération de l’Azawad) ne demandent plus une meilleure intégration des Touaregs dans l’Etat malien, comme lors des précédentes insurrections, mais la sécession pure et simple. Ils combattent ainsi pour la prise en compte de la réalité géographique et humaine régionale contre l’utopie consistant à vouloir faire vivre dans le même Etat les agriculteurs noirs sédentaires du Sud et les nomades berbères du Nord. Nous retrouvons là l’idée qui fut longtemps portée par le colonel Kadhafi qui prônait la création d’un Etat touareg au centre du Sahara.
 
Totalement dépassées par la situation, les autorités maliennes tentent d’obtenir une intervention directe des Occidentaux en affirmant que les insurgés ont des liens directs avec Aqmi. Ces derniers disent au contraire qu’étant Berbères, ils sont le meilleur rempart contre les fondamentalistes arabo-musulmans. Certes, mais un petit groupe touareg, très minoritaire toutefois, ayant participé à une récente opération menée par Aqmi, le risque de porosité n’est pas exclu.

La situation est donc à suivre[1].
 
 
Bernard Lugan
07/02/12 


[1] Cette question sera développée dans le prochain numéro de l’Afrique réelle que les abonnés recevront par PDF le 15 février.

JAPON : LE TRAUMATISME DE 1945 PEUT-IL ÊTRE SURMONTÉ ?

JAPON : LE TRAUMATISME DE 1945 PEUT-IL ÊTRE SURMONTÉ ?

Ex: http://lepolemarque.blogspot.com/

Le 3 décembre 2011, le Polémarque était l’invité du Centre d’Histoire et de Prospective Militaires à Pully Verte Rive en Suisse.

Thème de la communication, convenu avec Pierre Streit (cf. l’entretien du mois de septembre 2011 avec le directeur scientifique du CHPM sur ce même blog) : « Japon : le traumatisme de 1945 peut-il être surmonté ? » Une heure durant, le Polémarque put ainsi donner libre cours à ses penchants nippophiles devant un parterre d’intéressés de tous âges, réunis sous l’œil complice, mais point complaisant, du général Guisan.

La version étoffée, enrichie des questions posées par le public, paraîtra dans les Actes du CHPM à la fin de l’année 2012.
 

C’est sa première mouture que nous livrons ici.

L. Schang

(crédit photo : wuxinghongqi.blogspot.com)


INTRODUCTION

Que savons-nous des événements en Extrême-Orient ? Savons-nous même qu’au moment où je vous parle, des faits d’une portée considérable s’y déroulent, bien au-delà de l’Asie ? Éblouis par les projecteurs braqués sur l’Afghanistan et dans une moindre mesure sur l’Irak, nous oublions qu’à l’autre bout du continent eurasiatique, une partie se joue, dont le résultat encore incertain va dessiner le visage du 21e siècle. Bien plus que l’avenir de la Syrie ou l’éclatement de la zone euro.
 
1. Songez qu’en 2010, la moitié des matières premières et des biens échangés dans le monde ont transité par les routes maritimes que bordent la Chine, la Corée du Sud et le Japon. Soit trois des douze premières puissances économiques mondiales, dont la 2e : la Chine, et la 3e : le Japon. Dans 20 ans – demain – tous les indicateurs nous montrent que la zone du Pacifique Nord, aussi appelée Asie du Nord-Est, sera le nouveau centre du monde économique et financier. C’est dire si un conflit à cet endroit affecterait l’économie mondiale.
 
2. Or, entre avril et septembre 2011, l’armée de l’air chinoise a violé 83 fois l’espace aérien japonais. Elle l’avait fait 386 fois en 2010.
 
En octobre 2008, une flottille de 4 bâtiments de la marine chinoise traversait impunément le détroit de Tsugaru, situé dans les eaux territoriales japonaises. Il ne s’agissait pas de sa première incursion.
 
Au mois de novembre de cette année ont eu lieu au large des îles Spratley – vietnamiennes mais revendiquées par les Chinois – des manœuvres aéronavales conjointes réunissant Américains et Philippins.
 
En décembre 2010, des manœuvres américano-japonaises avaient mobilisé pas moins de 44.000 hommes (imaginez de tels effectifs pour des manœuvres en Europe), dont 34.000 Japonais, 400 avions et 60 bâtiments dans l’archipel des Ryukyu, entre le Japon et l’île de Taiwan. Elle aussi revendiquée par la RPC. Cette fois-ci, le message était adressé à la Corée du Nord.

La même Corée du Nord, détentrice de l’arme nucléaire depuis 2000, s’est payé le luxe en 2009 de tester un vecteur balistique au-dessus du Japon. En mars 2010, toujours pour la Corée du Nord, une corvette sud-coréenne était torpillée par un sous-marin nord-coréen. Total des pertes : 50 marins. Enfin, le 23 novembre 2010, ce sont 170 obus qui étaient tirés depuis la Corée du Nord sur l’île sud-coréenne de Yeongpyeong. Je m’arrête là, la liste n’est pas exhaustive.

3. Vous en conviendrez, en droit international, autant de casus belli. J’ajouterai que nous parlons d’une zone où il n’existe pas d’architecture militaire type OTAN mais plusieurs puissances économiques rivales, au fort potentiel militaire et nucléaire et dont les contentieux historiques restent très vivaces.
Des pays où la mondialisation n’a pas dépassé le stade des échanges de biens et de capitaux et qui, de plus, se livrent depuis les années 90 à une surenchère dans la course aux armements.

Pensez que le seul budget militaire du Japon a augmenté de 100% entre 1985 et 2001.

4. Pour autant, celui-ci reste étrangement timide dans ses réactions. En effet, le Livre blanc 2010 admet bien qu’il lui faut se doter d’une force militaire plus ambitieuse, plus en phase avec la situation que je viens d’évoquer. Mais dans le même temps, le Livre blanc réitère la doctrine officielle du Japon, basée uniquement sur la prévention et le rejet d’une agression sur son sol.

À l’évidence, le Japon rechigne toujours à s’affirmer comme une puissance militaire avec laquelle il faut compter. J’en veux pour preuve l’article 9 de la Constitution de 1946. Cet article oriente encore en 2011 la politique de défense du Japon. Je vous le livre :
« Aspirant sincèrement à une paix internationale fondée sur l’ordre et la justice, le peuple japonais renonce à jamais à la guerre en tant que droit souverain de la nation. Il ne fera pas usage de la force armée ou ne menacera pas d’y avoir recours, en tant que moyen de règlement des conflits internationaux – afin d’atteindre le but indiqué ci-dessus, il ne sera jamais maintenu de forces terrestres, navales ou aériennes, ou tout autre potentiel de guerre – le droit de belligérance de l’État n’est pas reconnu. »

5. Les raisons historiques sont connues et de fait, de leur création à la première guerre du Golfe, les Forces d’autodéfense japonaises ou FAD furent conçues sous la seule forme d’une « Reichswehr » limitée au rôle d’appoint à l’armée américaine.

6. Ceci étant, on le constate, depuis le début du 21e siècle, le Japon renoue avec une diplomatie plus active et redécouvre, bon gré mal gré, la puissance militaire qui l’accompagne – sans oser encore se l’avouer.

La question est de savoir si cette position restera encore longtemps tenable. Le maintien de ce que d’aucuns nomment un carcan institutionnel, voire une « camisole juridique », pose en effet la question de la normalisation de l’État japonais sur la scène internationale.
C’est cette question que je me propose de voir avec vous.

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I.

1. L’histoire des Forces d’autodéfense japonaises commence avec la guerre de Corée. Le Japon et la Corée du Sud constituent alors les éléments clé du dispositif américain dans le Pacifique face au bloc sino-soviétique.

Trois ans après le désarmement du Japon, les Américains commencent à envisager la reconstitution de forces armées dans l’archipel, ceci afin de les assister en cas d’invasion par le Nord, depuis les îles Kourile occupées par les Soviétiques. Les Américains voient d’abord leur propre intérêt. Il ne s’agit que d’une police : 75.000 hommes chargés de la sécurité intérieure et d’un corps de garde-côtes, tous civils. Okinawa et les îles Ryukyu restent placées sous le contrôle exclusif de l’armée américaine.

2. Je l’ai dit, l’élément déclencheur va être l’invasion de la Corée du Sud par la Corée du Nord en 1950. À noter que si le général Mac Arthur, commandant suprême des forces d’occupation américaines au Japon, se rallie à l’idée d’une police autochtone, lui qui y était hostile par crainte des réactions en Asie, le gouvernement japonais se montre peu enthousiaste. Cinq ans après la fin de la guerre, les Japonais sont surtout préoccupés par la reconstruction du pays et ils s’inquiètent d’un possible retour du militarisme, ajouté aux coûts engendrés par la reconstitution d’une telle armée.

3. Une première étape est néanmoins franchie le 4 septembre 1951, lors de la Conférence de la paix de San Francisco. La souveraineté japonaise se voit rétablie sur ses îles contre le renoncement à son empire et la cession à l’URSS des îles Kourile et de Sakhaline. Les Américains conservent la maîtrise des Ryukyu et de l’archipel Nanpô (si ce nom ne vous évoque rien, pensez à Iwo Jima) – petit aparté, l’île d’Okinawa ne rentrera dans le giron japonais qu’en 1972. Enfin, sous l’égide de l’ONU, le droit à l’autodéfense est rendu au Japon, toujours sous la protection des Américains qui restent les garants de la sécurité des quatre îles principales.

4. À partir de cette date, on peut considérer la machine comme lancée.

Outre les forces de sécurité côtière et de la police de réserve, l’Agence nationale de sécurité voit le jour le 1er août 1952 – on ne parle pas encore de ministère.

Le 1er juillet 1954, neuf ans après la reddition du Japon, l’acte de naissance officiel des FAD est signé, en japonais Jieitai – on ne parle toujours pas d’armée – avec ses trois composantes, terrestre, les FTAD, maritime, les FMAD, et aérienne, les FAAD. Ses missions sont la préservation de la paix et de l’indépendance, le maintien de l’ordre public et de la sécurité nationale. Demeurent interdits la conscription, le droit à la belligérance et le déploiement à l’étranger, préservant l’esprit de l’article 9.

5. En 1956, un Conseil national de Défense vient coiffer l’ensemble, présidé par le Premier ministre, encadré par le ministre des Affaires étrangères, le ministre des Finances, le directeur de l’Agence de sécurité et le directeur de l’Agence de planification économique. Il s’agit donc bien d’une « force pacifique » subordonnée à l’autorité civile.

6. Le 19 janvier 1960, un nouveau traité américano-japonais dit de Washington accélère la coopération entre les deux pays. Les Américains n’occupent plus l’archipel, ils le protègent seulement.

Globalement, le Japon assure à moindre frais sa sécurité. La réduction des FAD à une force d’appoint minimale permet au pays de se concentrer sur son développement économique. La mission des FAD se résume à recevoir le premier choc de l’agression ennemie – jamais nommée – en attendant la réplique américaine.

7. La doctrine ne bougera plus jusqu’en 1976. Cette année-là, les FAD vont opérer une mue spectaculaire avec la publication d’un Livre blanc intitulé Grandes Lignes du Programme de Défense Nationale (acronyme anglais : NDPO).

Plusieurs raisons expliquent ce virage.

Fait inédit depuis 1945, des militaires osent prendre la parole en public pour exiger du gouvernement qu’il pose les bases d’une vraie politique de défense. Leur constat est simple : sans vision politique, pas de politique de défense possible. De plus, l’équipement des troupes terrestres est encore hérité de la Deuxième Guerre mondiale, mélange de matériels américains et japonais. À quoi bon dans ce cas continuer à entretenir une pseudo-armée ?
Ce mouvement de fond correspond aussi à un revirement de la diplomatie américaine, laquelle insiste désormais pour que les Japonais s’investissent davantage dans leur autodéfense. Une insistance prise très au sérieux par Tokyo. Pour la première fois dans le Livre blanc de 1977, la menace du retrait du parapluie nucléaire américain est abordée.

8. Le deuxième coup de semonce va retentir à l’orée des années 80. L’étau soviétique se resserre : ouverture de bases navales au Vietnam, invasion de l’Afghanistan. Une grande première : le Livre blanc de 1979 cible nommément la menace soviétique.

Les Américains exigent un nouveau partage des tâches, d’autant plus que l’économie des États-Unis montre des signes de fléchissement. Les Républicains arrivés au pouvoir à Washington le commandent sans ambiguïté : les FAD doivent se transformer. Les Japonais prennent alors conscience qu’il leur faut à la fois moderniser et autonomiser leur défense. De cette époque date notamment la fixation du budget militaire japonais à 1% du PNB.

9. Lors de la première guerre du Golfe en 1990, les Américains sollicitent l’intervention militaire du Japon. Sauf qu’un déploiement hors des limites du territoire japonais invaliderait l’article 9. En réponse à la demande des Américains, les Japonais financent la guerre à hauteur de 13 milliards de dollars mais n’interviennent pas directement, ce qui va durablement refroidir les relations entre Tokyo et Washington. De toute évidence, les Japonais doivent repenser leur stratégie et surtout sortir de leur isolement militaire.

10. Ils vont commencer à le faire, modestement, en participant à plusieurs missions de paix dirigées par les États-Unis avec l’aval de l’ONU. Une loi est votée en ce sens par la Diète japonaise, loi dite PKO : Peace Keeping Operations.

La première opération extérieure du Japon a lieu au Cambodge au début des années 90 : 600 casques bleus japonais sont envoyés sur place. Suivront quelques dizaines d’autres déployés dans le Golan et au Mozambique, 480 au Rwanda, 2000 en Indonésie, 1500 au Timor oriental, 160 à Haïti : mais toujours dans le cadre de missions civilo-militaires, comme dernièrement en Afghanistan, où les FAD ont participé à la formation de la police et à des projets de reconstruction, et pour lequel le Japon a débloqué 5 milliards de dollars étalés sur 5 ans. Les FAD demeurent donc bien une « force pacifique », ce que montre la catastrophe survenue en mars 2011 à la centrale nucléaire de Fukushima, où avec 107.000 hommes issus des 3 armes, les FAD ont été la cheville ouvrière de l’assistance aux populations sinistrées.

Cantonnées à des missions non-combattantes : soutien logistique, surveillance des routes maritimes, soutien médical, ravitaillement, les FAD le sont, y compris en zone de conflit ouvert. C’est le cas en Irak où 600 hommes des FTAD sont déployés en novembre 2003. En effet, si la possibilité de recourir à leurs armes leur a été accordée pour la protection des populations placées sous leur autorité, leur propre sécurité est confiée aux soldats néerlandais de la coalition. En tout, de 2003 à 2008, date de leur retrait complet, 5700 soldats des FAD opèrent en Irak. On pourra relativiser cette participation au vu de ce qui vient d’être rapporté, néanmoins un pas important est franchi, car il s’agit bien du premier déploiement de troupes japonaises en armes à l’étranger.

11. Par ailleurs, les très graves crises de 2001, 2002 et 2003 avec la Corée du Nord et l’acquisition par celle-ci de l’arme nucléaire vont provoquer un resserrement des liens, quelque peu distendus, entre le Japon et les États-Unis. Ceci notamment avec la mise en œuvre du projet BMD (Balistic Missiles Defense) qui oblige le Japon à entrer dans un système de défense collective, ce qui lui était jusqu’à présent interdit.

Un nouveau cap est franchi en 2004. Le Livre blanc japonais change de nom. Il s’appellera désormais « Directives sur le Programme de la Défense Nationale » et sera établi pour une période de dix ans. Ce document est assorti d’un autre, plus concret, le MTDP ou Programme de Défense à Moyen Terme, qui détaille les mesures à adopter, entre autres une interopérabilité accrue, le renforcement qualitatif des matériels, la création d’une force de réaction rapide et l’autonomisation de la collecte des renseignements. Une action plus directe donc et une capacité de projection militaire inconcevable dix ans plus tôt.

Mais toujours dans le respect des contraintes imposées par l’article 9, soit une armée tournée entièrement vers la défense, dans l’impossibilité pratique de mener une guerre à l’extérieur.
Moins d’hommes, mais mieux formés, une tendance qu’on retrouve dans toutes les armées occidentales, et moins de matériels mais de meilleure qualité. Les garde-côtes montrent l’exemple avec 12.000 hommes et 455 navires en première ligne face aux Chinois et aux Nord-Coréens. C’est eux, et non les FMAD, qui couleront un bateau espion nord-coréen en décembre 2001.

12. Ce qui nous amène à examiner les FAD telles que nous les connaissons aujourd’hui. En décembre 2006, l’Agence de la défense a enfin pris le nom de Ministère et ce nouveau Ministère s’est doté d’un Conseil d’État-major réduit, aux prérogatives renforcées autour du Premier ministre et du ministre de la défense. Le Japon occupe aujourd’hui le 6e rang mondial en termes de budget militaire, sans dépasser le 1% de son PNB. Il a développé son industrie militaire, acquis une autonomie technologique et monté des programmes d’armement. Poussé par les événements, un amendement lui accorde désormais le droit de riposte en cas d’attaque balistique, mais aussi, ce qui est plus important, le droit à l’attaque préventive.

13. L’accession historique du Parti Démocrate Japonais au pouvoir en 2006 n’a pas remis fondamentalement en cause ces dispositions. La proposition du Premier ministre Hatoyama aux Chinois d’une communauté régionale sur le modèle de l’Union européenne a fait long feu, avec une monnaie unique et un Parlement commun, et le Japon est revenu à sa logique de coopération étroite avec les États-Unis, tout en s’ouvrant à des partenariats avec ses voisins et en inscrivant l’utilisation de l’espace dans sa politique de défense, un domaine jusqu’ici réservé aux Américains.

Ceci étant, parler d’une normalisation complète serait abusif. À l’heure actuelle, ni les Japonais ni leur allié américain ne semblent pressés d’en débattre, chacun ayant ses raisons.
Dans les faits, si décision il y a, elle pourrait bien venir de l’extérieur, en l’occurrence de la Chine.

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II.

1. En effet, nul n’est plus censé l’ignorer, la Chine affirme son ambition sur l’Asie-Pacifique et l’océan Indien.

2. Quelques faits d’abord. Avant 2050, la Chine sera la première puissance mondiale. Elle est le premier importateur du Japon devant les États-Unis et le deuxième consommateur de pétrole au monde. Un pétrole qu’elle importe d’Afrique via l’océan Indien, ceci pour échapper à la mainmise américaine sur les gisements du Moyen-Orient. 80% des importations chinoises en hydrocarbures passent par le détroit de Malacca. Autant dire que son économie dépend des routes maritimes, du golfe d’Arabie à la mer de Chine.

3. Le Japon, lui, est le premier investisseur en Chine, après avoir contribué à l’envolée économique des pays de l’Asie de l’Est.

Mais Chine et Japon sont de gros consommateurs et concurrents en hydrocarbures et des différends territoriaux subsistent, notamment autour des îles japonaises de Senkaku (que les Chinois nomment Diaoyutai), des îles situées entre Taiwan et les Ryukyu, minuscules par la taille mais supposées riches en hydrocarbures. D’où les pénétrations régulières de la marine chinoise dans la zone maritime japonaise, à des fins d’intimidation. Cette agressivité s’est encore manifestée en septembre 2010 par un incident : un bateau de pêche chinois a délibérément heurté deux bâtiments des garde-côtes japonais au large des Senkaku, et un porte-hélicoptères chinois est intervenu sur zone. Il va de soi que de tels actes ont ravivé les craintes et des Japonais et des Sud-Coréens.

4. C’est un fait, la décennie 2000 a vu les Américains reculer en Asie-Pacifique et les Chinois en ont profité pour renforcer leurs positions dans la région par divers programmes de développement économique, technologique et militaire. Les Chinois savent que les FAAD sont vieillissantes. Là aussi les nombreuses violations de l’espace aérien japonais doivent être comprises comme des tests.

5. De son côté, le Japon dépend lui aussi des mers de par sa situation géographique, et donc de sa force navale pour la sécurisation de ses approvisionnements. Son économie est tout autant tributaire du fret maritime : 1 milliard de tonnes de marchandises entrent et sortent des ports japonais chaque année : matières premières, produits industriels, agroalimentaire, etc. Or, dans un contexte où le trafic maritime international s’intensifie, le Japon voit une marine chinoise se développer, jusqu’à construire des ports particuliers dans les pays en bordure de l’océan Indien, baptisée par les Chinois du nom poétique de « Collier de perles ».

6. Aujourd’hui les Chinois ne font plus mystère de leurs ambitions. Ils pensent et font savoir à tous que l’heure d’une nouvelle ère de domination chinoise en Asie de l’Est est venue. Et ni le Japon ni les États-Unis ne sauraient contrarier leurs projets.

D’où un changement notable de sa stratégie, avec un passage à une capacité de projection militaire au-delà des mers littorales, jusqu’à ce que les experts appellent les « 3 chaînes d’îles » : 1) une première chaîne Japon/Taiwan/Philippines ; 2) une deuxième des îles Sakhaline au sud-ouest du Pacifique ; 3) une troisième des îles Aléoutiennes, au large de l’Alaska, à l’Antarctique.

7. La sortie en août 2011 du premier porte-avions chinois, l’ex Varyag ukrainien, a donc retenu toute l’attention des spécialistes occidentaux, pour qui elle inaugure sa future force de projection aéronavale. Info ou intox, les Chinois ont annoncé le lancement de deux autres porte-avions à propulsion classique d’ici à 10 ans. Un 3e porte-avions, nucléaire cette fois et de fabrication nationale, serait également à l’étude. D’ores et déjà la Chine aligne la 3e flotte militaire mondiale en tonnage derrière les États-Unis et la Russie. Après plusieurs siècles d’absence, on parle bien d’un retour à une marine océanique chinoise.

8. Autre dossier sensible : Taiwan. La Chine garde toujours en ligne de mire sa réunification, qu’elle juge inéluctable, y compris si une guerre avec les États-Unis s’avérait nécessaire. En dépit d’un accord de libre-échange signé en juin 2010, Beijing maintient la pression sur Taipei. Pour la Chine communiste, il ne s’agit pas seulement d’une question d’orgueil national, car Taiwan verrouille le passage entre la mer de Chine de l’Est et la mer de Chine du Sud, ce qui bien sûr contrecarre ses plans de projection maritime en direction du Pacifique. Les eaux taiwanaises redevenues chinoises formeraient un promontoire sur l’océan. D’où aussi l’importance de son indépendance pour les États-Unis qui viennent encore de lui vendre pour 6 milliards et demi de dollars d’hélicoptères, de missiles antimissiles, de chasseurs de mines et de matériel de guerre électronique.

9. La conclusion de tout ceci, partagée par Washington et Tokyo, est que la Chine n’entend pas renoncer au « hard power » dans sa stratégie de puissance, à l’inverse du Japon qui, lui, continue de miser sur le « soft power » économique et culturel pour s’imposer sur la scène asiatique.

10. La Chine ira-t-elle jusqu’au bout de ses ambitions ? Les Américains y réfléchissent, sans exclure la possibilité d’une confrontation directe du fort au fort, que précéderaient une vague massive de cyberattaques sur leurs réseaux informatisés et leurs systèmes de communication.
De même Washington ne cache pas son inquiétude devant le succès remporté par les Chinois avec leur missile balistique ZID « Dong Feng », d’une portée de 2000kms, qualifié par eux de « tueur de porte-avions ».

11. De fait le budget militaire chinois ne cesse d’augmenter et si les données communiquées sont en dessous de la réalité, il frise ou atteint les deux chiffres tous les ans depuis plusieurs années, soit 65 milliards de dollars par an minimum – à relativiser toutefois par rapport aux 500 milliards américains. Et lorsqu’on les interroge sur cette boulimie, les Chinois arguent qu’Indiens et Russes en font autant. Ce qui est vrai.

12. Cependant il ne faut pas s’y tromper, cette puissance, ce « hard power » affichés, a aussi valeur de symbole pour des Chinois qui se perçoivent comme encerclés, assiégés par l’Occident. Et toute cette politique de puissance vise en priorité à desserrer cet étau présumé autour de la Chine pour pouvoir maintenir son niveau de développement.

D’une armée pauvre et comptant sur le nombre, l’Armée populaire de libération se mue en une armée riche, avec aussi les problèmes que représentent la coopération interarmes, la mise en réseau des échelons conventionnel/électronique/cybernétique/spatial, la multiplicité des systèmes d’armes, la mise en place d’un bouclier antimissiles étanche.

13. Des doutes subsistent également sur sa marine : si elle dispose d’environ 1000 bâtiments, soit le double de la marine américaine, la marine chinoise s’est développée en totale autarcie, sans coopération ni expérience acquise lors d’exercices communs avec ses homologues internationaux. Sa technologie copie encore pour beaucoup celle des Russes. Quant à avoir un groupe aéronaval opérationnel, on sait le temps que cela nécessite.

14. Pour l’instant les Chinois pratiquent donc une guerre économique à coups de finance et de commerce, d’investissements tous azimuts – une guerre somme toute pacifique et capitaliste ; une guerre d’influence et pas d’expansion territoriale. Pour l’instant…

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III.

1. Aussi, parce que cet instant pourrait ne pas durer et parce que le développement économique mutuel ne constitue pas une garantie fiable contre la guerre, les Japonais ont veillé à réaffirmer l’alliance avec les États-Unis dans leur Livre blanc 2010, tout en prenant en compte leur déclin relatif. Si le Japon a rétrogradé à la 3e place mondiale des puissances économiques, son armée est de l’avis général de qualité. Le petit 1% du budget consacré aux FAD n’en fait pas moins un des plus élevés au monde avec 51 milliards de dollars investis en 2010 et 276 autres milliards programmés pour sa défense d’ici à 2015, avec l’accent mis sur la modernisation et le renforcement du nombre des sous-marins d’attaque, qui devraient passer de 16 à 22 unités. Au programme, voté le 17 décembre 2010, figurent les grandes lignes suivantes : prévenir et rejeter toute agression extérieure, promouvoir la coopération internationale, maintenir les 3P, participer plus activement à la paix du monde, créer une force rapide crédible, mieux équipée, développer la production nationale et suivre les progrès technologiques internationaux.

2. Le Livre blanc axe ses priorités sur la Chine et la Corée du Nord, cette dernière étant désignée nommément comme l’ennemi numéro.

3. Plus concrètement les FMAD comme les autres composantes des FAD sont en cours de déménagement du nord au sud-ouest de l’archipel.

4. Détail emblématique : alors que pendant la Deuxième Guerre mondiale, le Japon était passé expert dans l’arme aéronavale, les FMAD renouent avec les navires porte-aéronefs, mais seulement pour hélicoptères, car jugés moins offensifs que des avions de combat.
À l’horizon 2015, la classe 22DDH, avec un emport de 14 voiles tournantes, devrait avoir remplacé la classe 16DDH, qui en accueille 11 à son bord. Personne ne doute cependant qu’ils soient rapidement transformables en porte-avions. Et on pourrait dire la même chose de l’arme nucléaire.

Au total, l’aéronavale (45.000 hommes) devrait aligner 48 destroyers, 22 sous-marins et 150 appareils de combat.

5. Le Livre blanc se préoccupe également de la piraterie, une activité en plein essor et un sérieux problème pour le Japon quand 70 % de son approvisionnement énergétique passe lui aussi par le détroit d’Ormuz, le golfe d’Aden et le détroit de Malacca, trois haut lieux de la piraterie en ce début de 21e siècle. Raison pourquoi le Japon participe depuis 2009 à la lutte anti-piraterie, tout comme les Chinois d’ailleurs. À cet effet les Japonais ont installé au premier semestre 2011 une base à Djibouti, ce qui là aussi constitue en soi un événement historique.

6. Le Japon garde une avance certaine sur son rival asiatique en matière d’armement de pointe. L’armée de l’air va ainsi remplacer ou moderniser l’ensemble de son parc aérien, soit par l’achat d’appareils américains fabriqués sous licence, soit par des productions nationales. 47.000 soldats, tous engagés volontaires, travailleront en 2015 sur 340 appareils, dont 260 avions de combat.

7. Le climat avec les États-Unis semble lui aussi apaisé. Le PDJ avait été appelé au pouvoir sur un programme de réformes socio-économiques, par conséquent centré sur la politique intérieure ; un programme dans lequel figurait la renégociation du maintien des troupes américaines sur le sol japonais : 47.000 hommes dans la seule préfecture d’Okinawa contre 18.000 pour toute la Corée du Sud. Une présence, faut-il dire, entièrement financée par l’impôt japonais. Le gouvernement japonais a retenu la leçon, l’incident diplomatique provoqué, les 20 et 21 octobre 2009, par le secrétaire d’État américain à la Défense Robert Gates, qui excédé par ces discussions avait refusé d’honorer les invitations des ministres de la Défense et des Affaires étrangères japonais, est oublié.

8. Malgré l’acquisition de plusieurs destroyers de type AEGIS spécialisés dans l’interception des missiles, le Japon sait sa marine insuffisante pour garantir seule la protection de l’archipel.

Sa proximité avec le continent, son insularité devenue inutile avec les missiles à longue portée : tout plaide pour le maintien du bouclier anti-missiles américain au-dessus de sa tête et de la 7e flotte américaine dans ses eaux.

9. De plus, si la Chine agresse militairement Taiwan, simple aberration historique à ses yeux, le Japon n’aura d’autre choix que d’engager ses forces dans le conflit. En attendant, le ministère des Affaires étrangères japonais s’émancipe et propose en réponse aux manœuvres diplomatiques des Chinois la constitution d’un arc des démocraties, tendu de l’océan Indien au Pacifique Sud, regroupant l’Inde, les États-Unis, la Corée du Sud, Singapour et l’Australie. Depuis quelques années Tokyo accroît en particulier sa coopération économique et militaire avec l’Inde, dont les Japonais ont fait leur partenaire privilégié dans leur stratégie pour prendre à revers la Chine et la contrer dans l’océan Indien.

10. Reste la Corée du Nord.

État imprévisible, la Corée du Nord se doit de créer de la tension à l’extérieur pour maintenir sa cohésion interne. Son seul objectif n’est pas comme on pourrait le croire l’invasion de sa voisine du sud mais sa sauvegarde et toute son action internationale consiste à obtenir de ses vis-à-vis les concessions nécessaires à sa survie. Les pourparlers à six sur le désarmement nucléaire en Corée du Nord ou PP6 réunissant les deux Corées, les États-Unis, la Russie, la Chine et le Japon, l’ont montré.

Pour les États-Unis, Pyongyang légitime le renforcement de leur présence dans la région Asie-Pacifique.

Pour la Chine, la Corée du Nord forme un État tampon entre ses frontières et la Corée du Sud pro-américaine.

Quant aux Japonais, malgré le danger potentiel que représente le régime de Pyongyang, ils n’envisagent pas la possible réunification des deux Corées sans appréhension.
Pour l’heure, on le voit, le statu quo dans la péninsule coréenne arrange plutôt leurs affaires.

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CONCLUSION

1. En conclusion de cette rapide analyse, que peut-on dire ? Peut-être avec l’ancien leader du PLD, Ozawa Ichirô, que le temps est venu pour le Japon de passer d’un « pacifisme passif à un pacifisme actif ». Car au vu de la situation décrite, les contraintes constitutionnelles qui restreignent l’usage de la force à la seule autodéfense pourraient bien aujourd’hui se retourner contre le Japon.

2. Le regain des tensions intercoréennes a momentanément fait taire les discours anti-américains au Japon. Au contraire, réalistes, les gouvernements qui se sont succédé depuis deux ans, bien qu’issus du même parti, ont contribué à redonner une dynamique à l’alliance avec les États-Unis. Le parapluie nucléaire américain est maintenu, la 7e flotte de l’US Navy reste sur zone.

3. En soi le Japon demeure donc une anomalie : un État anormal qui n’est pas doté des moyens militaires de sa puissance économique. « Nation riche, armée forte », souvenons-nous, tel était déjà le mot d’ordre de l’ère Meiji. Toutefois, on ne saurait nier que le Japon a commencé à repenser sa politique de défense nationale. Si l’abrogation de l’article 9 n’est pas à l’ordre du jour, on peut considérer que la normalisation militaire suivra automatiquement la normalisation politique du pays. Cela dépend de la Chine. In fine cela dépendra des Japonais eux-mêmes et d’une chose : de leur capacité à admettre leur premier mort au combat.

Je vous remercie.

L. Schang


Bibliographie indicative

-Jean-Marie Bouissou, François Gipouloux, Éric Seizelet, Japon : le déclin ?, Bruxelles, Éditions Complexe, 1995
-Christopher Hughes, Japan’s Re-emergence as a « Normal » Military Power, Londres, Routledge, 2004
-Glenn D. Hook, Julie Gilson, Christopher W. Hughes, Hugo Dobson, Japan’s International Relations : Politics, Economics and Security, Londres, Routledge, 2005
-Valérie Niquet, Chine-Japon L’affrontement, Paris, Perrin, 2006
-Richard J. Samuels, Securing Japan. Tokyo’s Grand Strategy and the future of East Asia, Ithaca et Londres, Cornelle University Press, 2007
-Mémoire de géopolitique du Capitaine de Frégate Marc Elsensohn, De quelle manière le Japon va-t-il conserver sa position prédominante en Asie orientale ?, Collège Interarmées de Défense, avril 2007
-Peter J. Katzenstein, Rethinking Japanese Security. Internal and external dimensions, Londres & New York, Routhledge, 2008
-Éric Seizelet, Régine Serra, Le pacifisme à l’épreuve, le Japon et son armée, Paris, Les Belles Lettres, 2009
-Guibourg Delamotte, La Politique de défense du Japon, Paris, PUF, 2010
-Barthélémy Courmont, Géopolitique du Japon, Perpignan, Artège, 2010
-Sophie Boisseau du Rocher (dir.), Asie. Forces et incertitudes de la locomotive du monde, Paris, La Documentation française, 2010

Publications périodiques

Défense et Sécurité Internationale Magazine (DSI)
Diplomatie Magazine

Sites Internet

www.mod.go.jp
www.iris-france.org
www.diploweb.com
www.realpolitik.tv

dimanche, 12 février 2012

EURASIA - BRICS: i mattoni del nuovo ordine

BRICS: i mattoni del nuovo ordine

BRICS: i mattoni del nuovo ordine

http://www.eurasia-rivista.org


Editoriale:
Tiberio Graziani, BRICS: i mattoni dell’edificio multipolare [1]

 

Dossario: BRICS: i mattoni del nuovo ordine
Come Carpentier de Gourdon, L’ascesa del BRICS. Da scenario finanziario a blocco strategico
Vagif Gusejnov, BRICS: stato e prospettive
Konstantin Zavinovskij, Cina e Russia in mezzo agli altri “mattoni”
Amb. José Filho, Il Brasile e i BRICS: lettera dell’Ambasciatore brasiliano
Roberto Nocella, Il Brasile e il Consiglio Diritti Umani
Vincenzo Mungo, L’India contemporanea: un progresso tra luci e ombre
Francesco Brunello Zanitti, L’ascesa geopolitica di Nuova Delhi: ostacoli e paradossi
Zorawar Daulet Singh, L’India dev’essere orientale o eurasiatica?
Alessandro Lattanzio, Le forze strategiche del BRICS
Aldo Braccio, E se il BRICS diventasse BRICST?
Hendrik Strydom, Potenze emergenti e governo mondiale?
Ignazio Castellucci, Il diritto nel mondo dei molti imperi
Marco Marinuzzi, Le relazioni tra i paesi lusofoni e la Cina
Giovanni Andriolo, Lega Araba e Nazioni Sudamericane

 

Continenti
Miguel Angel Barrios, Europa-Mercosur nella dinamica geopolitica del XXI secolo
Tommaso Cozzi, Europa: evoluzione dei consumi e dei costumi
Eleonora Gentilucci e Rémy Herrera, Gli effetti economici sulle spese militari
Hans Koechler, Collasso della globalizzazione e nuovo ordine mondiale
Cristiana Tosti, Seggio europeo all’ONU: un primo passo?

 

Interviste e recensioni
Enrico Galoppini, Intervista all’ambasciatore M.A. Hosseini
Orazio M. Gnerre, Claudio Mutti, Intervista al console Istvan Manno
Enrico Verga, Intervista al sottosegretario Enzo Scotti
Luca Bionda, recensione a Emanuele Aliprandi, Le ragioni del Karabakh
Claudio Mutti, recensione a Johann Jakob Bachofen, Matriarcato mediterraneo. Il popolo licio
Matteo Finotto, recensione a Francesco Brunello Zanitti, Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto
Alessandro Lattanzio, recensione a Roj A. Medvedev e Zores A. Medvedev, Stalin sconosciuto. Alla luce degli archivi segreti sovietici
Zorawar Daulet Singh, recensione a Farzana Shaikh, Making Sense of Pakistan