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jeudi, 29 novembre 2012

L’ISLAMISMO CONTRO L’ISLAM?

L’ISLAMISMO CONTRO L’ISLAM?

Sommario del numero XXVIII (4-2012) d'Eurasia - Rivista di studi geopolitici

http://www.eurasia-rivista.org/

L’ISLAMISMO CONTRO L’ISLAM?

Lo strumento fondamentalista

“Il vero problema per l’Occidente non è il fondamentalismo islamico, ma l’Islam in quanto tale”. Questa frase, che Samuel Huntington colloca in chiusura del lungo capitolo del suo Scontro delle civiltà intitolato “L’Islam e l’Occidente”1, merita di essere letta con un’attenzione maggiore di quella che ad essa è stata riservata finora.

Secondo l’ideologo statunitense, l’Islam in quanto tale è un nemico strategico dell’Occidente, poiché è il suo antagonista in un conflitto di fondo, che non nasce tanto da controversie territoriali, quanto da un fondamentale ed esistenziale confronto tra difesa e rifiuto di “diritti umani”, “democrazia” e “valori laici”. Scrive infatti Huntington: “Fino a quando l’Islam resterà l’Islam (e tale resterà) e l’Occidente resterà l’Occidente (cosa meno sicura) il conflitto di fondo tra due grandi civiltà e stili di vita continuerà a caratterizzare in futuro i reciproci rapporti”2.

Ma la frase riportata all’inizio non si limita a designare il nemico strategico; da essa è anche possibile dedurre l’indicazione di un alleato tattico: il fondamentalismo islamico. È vero che nelle pagine dello Scontro delle civiltà l’idea di utilizzare il fondamentalismo islamico contro l’Islam non si trova formulata in una forma più esplicita; tuttavia nel 1996, allorché Huntington pubblicò The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, una pratica di questo genere era già stata inaugurata.

“È un dato di fatto – scrive un ex ambasciatore arabo accreditato negli Stati Uniti e in Gran Bretagna – che gli Stati Uniti abbiano stipulato delle alleanze coi Fratelli Musulmani per buttar fuori i Sovietici dall’Afghanistan; e che, da allora, non abbiano cessato di far la corte alla corrente islamista, favorendone la propagazione nei paesi d’obbedienza islamica. Seguendo le orme del loro grande alleato americano, la maggior parte degli Stati occidentali ha adottato, nei confronti della nebulosa integralista, un atteggiamento che va dalla benevola neutralità alla deliberata connivenza”3.

L’uso tattico del cosiddetto integralismo o fondamentalismo islamico da parte occidentale non ebbe inizio però nell’Afghanistan del 1979, quando – come ricorda in From the Shadows l’ex direttore della CIA Robert Gates – già sei mesi prima dell’intervento sovietico i servizi speciali statunitensi cominciarono ad aiutare i guerriglieri afghani.

Esso risale agli anni Cinquanta e Sessanta, allorché Gran Bretagna e Stati Uniti, individuato nell’Egitto nasseriano il principale ostacolo all’egemonia occidentale nel Mediterraneo, fornirono ai Fratelli Musulmani un sostegno discreto ma accertato. È emblematico il caso di un genero del fondatore del movimento, Sa’id Ramadan, che “prese parte alla creazione di un importante centro islamico a Monaco in Germania, intorno al quale si costituì una federazione ad ampio raggio”4. Sa’id Ramadan, che ricevette finanziamenti e istruzioni dall’agente della CIA Bob Dreher, nel 1961 espose il proprio progetto d’azione ad Arthur Schlesinger Jr., consigliere del neoeletto presidente John F. Kennedy. “Quando il nemico è armato di un’ideologia totalitaria e dispone di reggimenti di fedeli devoti, – scriveva Ramadan – coloro che sono schierati su posizioni politiche opposte devono contrastarlo sul piano dell’azione popolare e l’essenza della loro tattica deve consistere in una fede contraria e in una devozione contraria. Solo delle forze popolari, genuinamente coinvolte e genuinamente reagenti per conto proprio, possono far fronte alla minaccia d’infiltrazione del comunismo”5.

L’uso strumentale dei movimenti islamisti funzionali alla strategia atlantica non terminò con il ritiro dell’Armata Rossa dall’Afghanistan. Il patrocinio fornito dall’Amministrazione Clinton al separatismo bosniaco ed a quello kosovaro, l’appoggio statunitense e britannico al terrorismo wahhabita nel Caucaso, il sostegno ufficiale di Brzezinski ai movimenti fondamentalisti armati in Asia centrale, gl’interventi a favore delle bande sovversive in Libia ed in Siria sono gli episodi successivi di una guerra contro l’Eurasia in cui gli USA e i loro alleati si avvalgono della collaborazione islamista.

Il fondatore di An-Nahda, Rachid Ghannouchi, che nel 1991 ricevette gli elogi del governo di George Bush per l’efficace ruolo da lui svolto nella mediazione tra le fazioni afghane antisovietiche, ha cercato di giustificare il collaborazionismo islamista abbozzando un quadro pressoché idilliaco delle relazioni tra gli USA e il mondo islamico. A un giornalista del “Figaro” che gli chiedeva se gli americani gli sembrassero più concilianti degli Europei il dirigente islamista tunisino ha risposto di sì, perché “non esiste un passato coloniale tra i paesi musulmani e l’America; niente Crociate, niente guerra, niente storia”; ed alla rievocazione della lotta comune di americani e islamisti contro il nemico bolscevico ha aggiunto la menzione del contributo inglese6.

La “nobile tradizione salafita”

L’islamismo rappresentato da Rachid Ghannouchi, scrive un orientalista, è quello che “si richiama alla nobile tradizione salafita di Muhammad ‘Abduh e che ha avuto una versione più moderna nei Fratelli Musulmani”7.

Ritornare al puro Islam dei “pii antenati” (as-salaf as-sâlihîn), facendo piazza pulita della tradizione scaturita dal Corano e dalla Sunna nel corso dei secoli: è questo il programma della corrente riformista che ha i suoi capostipiti nel persiano Jamal ad-Din al-Afghani (1838-1897) e nei suoi discepoli, i più importanti dei quali furono l’egiziano Muhammad ‘Abduh (1849-1905) e il siriano Muhammad Rashid Rida (1865-1935).

Al-Afghani, che nel 1883 fondò l’Associazione dei Salafiyya, nel 1878 era stato iniziato alla massoneria in una loggia di rito scozzese del Cairo. Egli fece entrare nell’organizzazione liberomuratoria gli intellettuali del suo entourage, tra cui Muhammad ‘Abduh, il quale, dopo aver ricoperto una serie di altissime cariche, il 3 giugno 1899 diventò Muftì dell’Egitto col beneplacito degl’Inglesi.

“Sono i naturali alleati del riformatore occidentale, meritano tutto l’incoraggiamento e tutto il sostegno che può esser dato loro”8: questo l’esplicito riconoscimento del ruolo di Muhammad ‘Abduh e dell’indiano Sir Sayyid Ahmad Khan (1817-1889) che venne dato da Lord Cromer (1841-1917), uno dei principali architetti dell’imperialismo britannico nel mondo musulmano. Infatti, mentre Ahmad Khan asseriva che “il dominio britannico in India è la cosa più bella che il mondo abbia mai visto”9 ed affermava in una fatwa che “non era lecito ribellarsi agli inglesi fintantoché questi rispettavano la religione islamica e consentivano ai musulmani di praticare il loro culto”10, Muhammad ‘Abduh trasmetteva all’ambiente musulmano le idee razionaliste e scientiste dell’Occidente contemporaneo. ‘Abduh sosteneva che nella civiltà moderna non c’è nulla che contrasti col vero Islam (identificava i ginn con i microbi ed era convinto che la teoria evoluzionista di Darwin fosse contenuta nel Corano), donde la necessità di rivedere e correggere la dottrina tradizionale sottoponendola al giudizio della ragione e accogliendo gli apporti scientifici e culturali del pensiero moderno.

Dopo ‘Abduh, capofila della corrente salafita fu Rashid Rida, che in seguito alla scomparsa del califfato ottomano progettò la creazione di un “partito islamico progressista”11 in grado di creare un nuovo califfato. Nel 1897 Rashid Rida aveva fondato la rivista “Al-Manar”, la quale, diffusa in tutto il mondo arabo ed anche altrove, dopo la sua morte verrà pubblicata per cinque anni da un altro esponente del riformismo islamico: Hasan al-Banna (1906-1949), il fondatore dell’organizzazione dei Fratelli Musulmani.

Ma, mentre Rashid Rida teorizzava la nascita di un nuovo Stato islamico destinato a governare la ummah, nella penisola araba prendeva forma il Regno Arabo Saudita, in cui vigeva un’altra dottrina riformista: quella wahhabita.

La setta wahhabita

La setta wahhabita trae il proprio nome dal patronimico di Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab (1703-1792), un arabo del Nagd di scuola hanbalita che si entusiasmò ben presto per gli scritti di un giurista letteralista vissuto quattro secoli prima in Siria e in Egitto, Taqi ad-din Ahmad ibn Taymiyya (1263-1328). Sostenitore di ottuse interpretazioni antropomorfiche delle immagini contenute nel linguaggio coranico, animato da un vero e proprio odium theologicum nei confronti del sufismo, accusato più volte di eterodossia, Ibn Taymiyya ben merita la definizione di “padre del movimento salafita attraverso i secoli”12 datagli da Henry Corbin. Seguendo le sue orme, Ibn ‘Abd al-Wahhab e i suoi partigiani bollarono come manifestazioni di politeismo (shirk) la fede nell’intercessione dei profeti e dei santi e, in genere, tutti quegli atti che, a loro giudizio, equivalessero a ritenere partecipe dell’onnipotenza e del volere divino un essere umano o un’altra creatura, cosicché considerarono politeista (mushrik), con tutte le conseguenze del caso, anche il pio musulmano trovato ad invocare il Profeta Muhammad o a pregare vicino alla tomba di un santo. I wahhabiti attaccarono le città sante dell’Islam sciita, saccheggiandone i santuari; impadronitisi nel 1803-1804 di Mecca e di Medina, demolirono i monumenti sepolcrali dei santi e dei martiri e profanarono perfino la tomba del Profeta; misero al bando le organizzazioni iniziatiche e i loro riti; abolirono la celebrazione del genetliaco del Profeta; taglieggiarono i pellegrini e sospesero il Pellegrinaggio alla Casa di Dio; emanarono le proibizioni più strampalate.

Sconfitti dall’esercito che il sovrano egiziano aveva inviato contro di loro dietro esortazione della Sublime Porta, i wahhabiti si divisero tra le due dinastie rivali dei Sa’ud e dei Rashid e per un secolo impegnarono le loro energie nelle lotte intestine che insanguinarono la penisola araba, finché Ibn Sa’ud (‘Abd al-’Aziz ibn ‘Abd ar-Rahman Al Faysal Al Su’ud, 1882-1953) risollevò le sorti della setta. Patrocinato dalla Gran Bretagna, che, unico Stato al mondo, nel 1915 instaurò relazioni ufficiali con lui esercitando un “quasi protettorato”13 sul Sultanato del Nagd, Ibn Sa’ud riuscì ad occupare Mecca nel 1924 e Medina nel 1925. Diventò così “Re del Higiaz e del Nagd e sue dipendenze”, secondo il titolo che nel 1927 gli venne riconosciuto nel Trattato di Gedda del 20 maggio 1927, stipulato con la prima potenza europea che riconobbe la nuova formazione statale wahhabita: la Gran Bretagna.

“Le sue vittorie – scrisse uno dei tanti orientalisti che hanno cantato le sue lodi – lo han reso il sovrano più potente d’Arabia. I suoi domini toccano l’Iràq, la Palestina, la Siria, il Mar Rosso e il Golfo Persico. La sua personalità di rilievo si è affermata con la creazione degli Ikhwàn o Fratelli: una confraternita di Wahhabiti attivisti che l’inglese Philby ha chiamato ‘una nuova massoneria’”14.

Si tratta di Harry St. John Bridger Philby (1885-1960), l’organizzatore della rivolta araba antiottomana del 1915, il quale “aveva occupato alla corte di Ibn Saud il posto del deceduto Shakespeare”15, per citare l’espressione iperbolica di un altro orientalista di quell’epoca. Fu lui a caldeggiare presso Winston Churchill, Giorgio V, il barone Rothschild e Chaim Weizmann il progetto di una monarchia saudita che, usurpando la custodia dei Luoghi Santi tradizionalmente assegnata alla dinastia hascemita, unificasse la penisola araba e controllasse per conto dell’Inghilterra la via marittima Suez-Aden-Mumbay.

Con la fine del secondo conflitto mondiale, durante il quale l’Arabia Saudita mantenne una neutralità filoinglese, al patrocinio britannico si sarebbe aggiunto e poi sostituito quello nordamericano. In tal senso, un evento anticipatore e simbolico fu l’incontro che ebbe luogo il 1 marzo 1945 sul Canale di Suez, a bordo della Quincy, tra il presidente Roosevelt e il sovrano wahhabita; il quale, come ricordava orgogliosamente un arabista statunitense, “è sempre stato un grande ammiratore dell’America, che antepone anche all’Inghilterra”16. Infatti già nel 1933 la monarchia saudita aveva dato in concessione alla Standard Oil Company of California il monopolio dello sfruttamento petrolifero, mentre nel 1934 la compagnia americana Saoudi Arabian Mining Syndicate aveva ottenuto il monopolio della ricerca e dell’estrazione dell’oro.

I Fratelli Musulmani

Usurpata la custodia dei Luoghi Santi ed acquisito il prestigio connesso a tale ruolo, la famiglia dei Sa’ud avverte l’esigenza di disporre di una “internazionale” che le consenta di estendere la propria egemonia su buona parte della comunità musulmana, al fine di contrastare la diffusione del panarabismo nasseriano, del nazionalsocialismo baathista e – dopo la rivoluzione islamica del 1978 in Iran – dell’influenza sciita. L’organizzazione dei Fratelli Musulmani mette a disposizione della politica di Riyad una rete organizzativa che trarrà alimento dai cospicui finanziamenti sauditi. “Dopo il 1973, grazie all’aumento dei redditi provenienti dal petrolio, i mezzi economici non mancano; verranno investiti soprattutto nelle zone in cui un Islam poco ‘consolidato’ potrebbe aprire la porta all’influenza iraniana, in particolare l’Africa e le comunità musulmane emigrate in Occidente”17.

D’altronde la sinergia tra la monarchia wahhabita e il movimento fondato nel 1928 dall’egiziano Hassan al-Banna (1906-1949) si basa su un terreno dottrinale sostanzialmente comune, poiché i Fratelli Musulmani sono gli “eredi diretti, anche se non sempre rigorosamente fedeli, della salafiyyah di Muhammad ‘Abduh”18 e in quanto tali recano inscritta fin dalla nascita nel loro DNA la tendenza ad accettare, sia pure con tutte le necessarie riserve, la moderna civiltà occidentale. Tariq Ramadan, nipote di Hassan al-Banna ed esponente dell’attuale intelligencija musulmana riformista, così interpreta il pensiero del fondatore dell’organizzazione: “Come tutti i riformisti che l’hanno preceduto, Hassan al-Banna non ha mai demonizzato l’Occidente. (…) L’Occidente ha permesso all’umanità di fare grandi passi in avanti e ciò è avvenuto a partire dal Rinascimento, quando è iniziato un vasto processo di secolarizzazione (‘che è stato un apporto positivo’, tenuto conto della specificità della religione cristiana e dell’istituzione clericale)”19. L’intellettuale riformista ricorda che il nonno, nella sua attività di maestro di scuola, si ispirava alle più recenti teorie pedagogiche occidentali e riporta da un suo scritto un brano eloquente: “Dobbiamo ispirarci alle scuole occidentali, ai loro programmi (…) Dobbiamo anche prendere dalle scuole occidentali e dai loro programmi il costante interesse all’educazione moderna e il loro modo di affrontare le esigenze e la preparazione all’apprendimento, fondate su metodi saldi tratti da studi sulla personalità e la naturalità del bambino  (…) Dobbiamo approfittare di tutto ciò, senza provare alcuna vergogna: la scienza è un diritto di tutti (…)”20.

Con la cosiddetta “Primavera araba”, si è manifestata in maniera ufficiale la disponibilità dei Fratelli Musulmani ad accogliere quei capisaldi ideologici della cultura politica occidentale che Huntington indicava come termini fondamentali di contrasto con l’Islam. In Libia, in Tunisia, in Egitto i Fratelli hanno goduto del patrocinio statunitense.

Il partito egiziano Libertà e Giustizia, costituito il 30 aprile 2011 per iniziativa della Fratellanza e da essa controllato, si richiama ai “diritti umani”, propugna la democrazia, appoggia una gestione capitalistica dell’economia, non è contrario ad accettare prestiti dal Fondo Monetario Internazionale. Il suo presidente Muhammad Morsi (n. 1951), oggi presidente dell’Egitto, ha studiato negli Stati Uniti, dove ha anche lavorato come assistente universitario alla California State University; due dei suoi cinque figli sono cittadini statunitensi. Il nuovo presidente ha subito dichiarato che l’Egitto rispetterà tutti i trattati stipulati con altri paesi (quindi anche con Israele); ha compiuto in Arabia Saudita la sua prima visita ufficiale e ha dichiarato che intende rafforzare le relazioni con Riyad; ha dichiarato che è un “dovere etico” sostenere il movimento armato di opposizione che combatte contro il governo di Damasco.

Se la tesi di Huntington aveva bisogno di una dimostrazione, i Fratelli Musulmani l’hanno fornita.

NOTE:

1. Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000, p. 319.

2. Ibidem, p. 310.

3. Rédha Malek, Tradition et révolution. L’enjeu de la modernité en Algérie et dans l’Islam, ANEP, Rouiba (Algeria) 2001, p. 218.

4. Stefano Allievi e Brigitte Maréchal, I Fratelli Musulmani in Europa. L’influenza e il peso di una minoranza attiva, in: I Fratelli Musulmani nel mondo contemporaneo, a cura di M. Campanini e K. Mezran, UTET, Torino 2010, p. 219.

5. “When the enemy is armed with a totalitarian ideology and served by regiments of devoted believers, those with opposing policies must compete at the popular level of action and the essence of their tactics must be counter- faith and counter-devotion. Only popular forces, genuinely involved and genuinely reacting on their own behalf, can meet the infiltrating threat of Communism” (http://www.american-buddha.com/lit.johnsonamosqueinmunich.12.htm)

6. “- Les Américains vous semblent-ils plus conciliants que les Européens? – A l’égard de l’islam, oui. Il n’y a pas de passé colonial entre les pays musulmans et l’Amérique, pas de croisades; pas de guerre, pas d’histoire… – Et vous aviez un ennemi commun: le communisme athée, qui a poussé les Américains à vous soutenir… – Sans doute, mais la Grande-Bretagne de Margaret Thatcher était aussi anticommuniste…” (Tunisie: un leader islamiste veut rentrer, 22/01/2011; http://plus.lefigaro.fr/article/tunisie-un-leader-islamiste-veut-rentrer-20110122-380767/commentaires).

7. Massimo Campanini, Il pensiero islamico contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2005, p. 137.

8. Cit. in: Maryam Jameelah, Islam and Modernism, Mohammad Yusuf Khan, Srinagar-Lahore 1975, p. 153.

9. Cit. in: Tariq Ramadan, Il riformismo islamico. Un secolo di rinnovamento musulmano, Città Aperta Edizioni, Troina (En) 2004, p. 65.

10. Massimo Campanini, Il pensiero islamico contemporaneo, cit., p. 23.

11. Cit. in: Tariq Ramadan, op. cit., p. 143.

12. Henry Corbin, Storia della filosofia islamica, Adelphi, Milano 1989, p. 126.

13. Carlo Alfonso Nallino, Raccolta di scritti editi e inediti, Vol. I L’Arabia Sa’udiana, Istituto per l’Oriente, Roma 1939, p. 151.

14. Henri Lammens, L’Islàm. Credenze e istituzioni, Laterza, Bari 1948, p. 158.

15. Giulio Germanus, Sulle orme di Maometto, vol. I, Garzanti, Milano 1946, p. 142.

16. John Van Ess, Incontro con gli Arabi, Garzanti, Milano 1948, p. 108.

17. Alain Chouet, L’association des Frères Musulmans, http://alain.chouet.free.fr/documents/fmuz2.htm. Sulla presenza dei Fratelli Musulmani in Occidente, cfr. Karim Mezran, La Fratellanza musulmana negli Stati Uniti, in: I Fratelli Musulmani nel mondo contemporaneo, cit., pp. 169-196; Stefano Allievi e Brigitte Maréchal, I Fratelli Musulmani in Europa. L’influenza e il peso di una minoranza attiva, ibidem, pp. 197-240.

18. Massimo Campanini, I Fratelli Musulmani nella seconda guerra mondiale: politica e ideologia, “Nuova rivista storica”, a. LXXVIII, fasc. 3, sett.-dic. 1994, p. 625.

19. Tariq Ramadan, op. cit., pp. 350-351.

20. Hassan al-Banna, Hal nusir fi madrasatina wara’ al-gharb, “Al-fath”, 19 sett. 1929, cit. in: Tariq Ramadan, op. cit., p. 352.

 

mardi, 27 novembre 2012

De l’extension du conflit malien

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De l’extension du conflit malien

 

La communauté d’Etats africains ECOWAS envoie des soldats

 

Le conflit qui frappe le Mali, où des éléments islamistes ont pris le contrôle de la moitié septentrionale du pays depuis le printemps dernier, menace de s’internationaliser. En effet, la communauté d’Etats d’Afrique occidentale ECOWAS, dont le Mali est membre, a décidé très récemment d’envoyer une troupe d’intervention de 3300 hommes dans ce pays secoué par une crise apparemment sans solution, s’il n’y a pas intervention étrangère. L’intervention est provisoirement limitée à une seule année: “Nous prévoyons 3300 soldats pour la durée d’un an” a déclaré le Président du Groupe ECOWAS, Alassane Ouattara.

 

Cette communauté économique ouest-africaine a été contrainte par les Etats-Unis et par l’UE de procéder à cette démarche interventionniste car il s’agit, au Mali, de combattre l’AQMI, soit “Al-Qaeda pour un Maghreb Islamique”. Comme le pensait en octobre dernier le ministre allemand des affaires étrangères Guido Westerwelle, le “Mali ne peut devenir le refuge de terroristes”, car un tel havre de repli dans le nord du pays constituerait une menace pour la sécurité mondiale”, non seulement pour le Mali lui-même mais pour l’Europe. En octobre également, l’UE a décidé d’envoyer des instructeurs militaires dans ce pays africain déstabilisé. De même, on spécule de plus en plus quant à la mise en oeuvre de drones américains.

 

Il s’agit certes de combattre des islamistes mais ce n’est pas tout, loin s’en faut: le conflit qui s’est abattu sur le malheureux Mali sert de prétexte aux Etats-Unis pour s’ancrer de plus en plus profondément en Afrique occidentale et, simultanément, pour enrayer l’influence chinoise sur le continent noir, où Beijing est perpétuellement en quête de matières premières.

 

(source: “zur Zeit”, Vienne, n°46/2012; http://www.zurzeit.at/ ).

 

Conférence de Bernard Lugan

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Renseignements : conference.lugan@hotmail.fr

dimanche, 25 novembre 2012

Le nomos de la terre – dans le droit des gens du Jus publicum europaeum

Le nomos de la terre – dans le droit des gens du Jus publicum europaeum

par Michel Bourdeau

Ex: http://infonatio.unblog.fr/

Schmitt_nomos_de_la_terre-23a63.jpgSi le nom de Carl Schmitt n’est plus tout à fait inconnu en France, où plus d’une dizaine de ses ouvrages ont déjà été traduits depuis 1972, sa personnalité reste encore très controversée. Grand théoricien du droit constitutionnel et international de l’Allemagne de l’entre deux guerres, son attitude à l’égard du nazisme lui valut d’être emprisonné plus d’une année après 1945. Refuser d’aller plus loin serait pourtant regrettable, comme ceux qui voudront bien ouvrir Le nomos de la terre s’en rendront rapidement compte. Publié en 1950 et composé dans des conditions difficiles, ce gros ouvrage offre une vue d’ensemble sur la pensée de l’auteur et passe à bon droit pour son oeuvre maîtresse.

En opposition au positivisme juridique, accusé de verser dans un universalisme vide, Carl Schmitt plaide pour une approche concrète du droit, et met en conséquence l’espace au centre de sa conception : tout ordre juridique est d’abord un ordre spatial. C’est pourquoi, parmi les différents textes législatifs, la loi par excellence est le nomos, les grecs désignant par ce mot (qui vient de nemein : partager) le processus fondamental qui lie localisation et loi. Mais l’espace se présente ici bas sous deux formes contrastées : terre et mer, terre ferme et mer libre, auxquelles correspondent deux ordres spatiaux différents. Cette opposition donne lieu à des développements captivants sur la définition des eaux territoriales, le partage des mers, les guerres maritimes et la piraterie, ou encore sur la question de savoir si la mer est à tous ou à personne, res omnium ou res nullius. Par ce biais, la pensée de Schmitt puise également aux sources mythiques de l’histoire du droit.

Comme le Husserl de L’arche Terre ne se meut pas ou le Comte du Grand Fétiche, il nous invite à faire retour sur ce fait primitif et primordial qu’est notre existence terrestre. Le pari du livre, nous dit la préface, est de chercher le sens qui habite la terre.

L’idée est développée sur le cas du droit des gens, du jus publicum europaeum. Après une première partie présentant la notion de nomos de la terre, les trois suivantes examinent donc tour à tour la genèse (16ième siècle), l’épanouissement (17-19ième siècles) puis le déclin (20ième siècle) de ce droit public européen. Cette histoire se confond avec celle de la guerre, l’originalité du droit public européen consistant, à cet égard, à avoir voulu non abolir la guerre mais la circonscrire. Faute de pouvoir rendre ici toute la richesse de ces analyses, on n’en retiendra que les deux termes : la sortie du moyen âge et l’après 1918, dont nous ne sommes toujours pas sortis.

Dans le premier cas, l’événement décisif a été la découverte ou, pour parler avec les Espagnols, la conquête du nouveau monde. Les célèbres leçons de Francisco de Vitoria (1492-1546) sur les Indes et le droit de guerre, où l’on a voulu voir le début d’une nouvelle idée du droit, appartiennent en réalité encore au moyen âge. Leur auteur est un théologien et sa théorie de la guerre juste présuppose une instance supérieure aux belligérants, en l’occurrence le pouvoir spirituel de la papauté. Pour naître, le droit public européen a dû précisément s’affranchir de la tutelle de la théologie. Silete theologi; silence, théologiens : tel était alors le mot d’ordre. Pour mettre fin aux guerres civiles religieuses qui faisaient rage en Europe, il a fallu séparer le politique du religieux. Le concept moderne d’État est le fruit des efforts des légistes pour définir une sphère neutre, indépendante, où les membres des diverses confessions puissent cohabiter pacifiquement. Schmitt aimait en particulier à se reconnaître dans l’un d’eux, Jean Bodin, victime comme lui des revers de fortune qui guettent les conseillers du prince.

L’engagement personnel est encore plus visible dans le second cas, l’auteur n’ayant jamais caché sa farouche hostilité au Traité de Versailles ou à la Société des Nations. Le livre tout entier trouve même son point de départ dans une réflexion sur le sort réservé à l’Allemagne après la double défaite de 1918 et 1945, sort qui n’est pas conforme au droit public européen péniblement constitué dans les siècles antérieurs et qui en consacre la fin. A la différence du traité de Vienne qui avait réorganisé durablement l’Europe, les traités qui mirent fin à la première guerre mondiale n’instauraient aucune paix véritable, faute d’avoir défini un nouvel ordre spatial. En revanche, une nouvelle conception de la guerre s’y faisait jour. Le droit public européen avait renoncé à l’idée de guerre juste pour lui substituer celle d’ennemi respectable, de justus hostis. Mais les destructions massives rendues possibles par la technique moderne ont besoin d’ennemis absolus. Après 1918, la guerre d’agression est transformée en crime. La fin logique des hostilités ne sera donc plus une paix négociée mais une reddition inconditionnelle, concept forgé aux États-Unis lors de la guerre de Sécession; corrélativement, la diabolisation de l’ennemi permet le retour de l’idée de guerre juste, la Société des Nations se substituant à la papauté dans le rôle d’instance supérieure décidant du bien fondé de la cause.

Le déclin du droit public européen marqua aussi le déclin de l’ordre spatial européo-centré instauré au seizième siècle et les pages consacrées à la montée en puissance de « l’hémisphère occidental », c’est-à-dire des États-Unis apportent, sur la politique nord-américaine, un éclairage inattendu. Aujourd’hui où tout le monde a en tête le God bless America, Carl Schmitt décrit la bonne conscience inébranlable de ses habitants, persuadés d’appartenir à un monde nouveau, meilleur; il rappelle que dans sa fonction première, la doctrine Monroe devait former un cordon sanitaire destiné à empêcher les moeurs et les institutions corrompus du vieux continent de se propager outre Atlantique. Quand les États-Unis se décident, non sans peine, à sortir de leur isolement, leur suprématie devient vite éclatante. Alors que du traité de Westphalie (1648) à la conférence de Berlin (1885) c’est l’Europe qui décidait de l’ordre spatial de la terre, à Paris, en 1919, c’est le monde qui décide de l’ordre spatial de l’Europe. Celle-ci, en reconnaissant explicitement la doctrine Monroe, à l’article 21 du pacte de la Société des Nations, avalisait cet état de fait : elle s’interdisait d’intervenir dans le nouveau monde, sans contrepartie équivalente de l’Amérique, qui désormais est à la fois présente et absente sur le continent européen.

Le Congrès ayant refusé de ratifier le Traité de Versailles pour signer avec l’Allemagne une paix séparée, les États-Unis ne siègent pas à Genève; du moins officiellement car, par le biais des États sud-américains dont ils se sont réservés le droit de faire et défaire à leur gré les gouvernements, ils y sont bien présents et les décisions de Washington pèsent lourd à Londres, à Paris ou à Berlin. Rétrospectivement, on est tenté de donner raison à Carl Schmitt lorsqu’en 1950 il constatait que le Traité de Versailles avait engendré non un ordre mais un désordre spatial et laissait donc sans réponse la question d’un nouveau nomos de la terre. Aujourd’hui où il n’est question que de nouvel ordre mondial, force est d’admettre que nous ne sommes guère plus avancés.

Peter Haggenmacher achève son utile présentation en indiquant quelques faiblesses de l’ouvrage. Pour bien en évaluer les thèses, il conviendrait en particulier de s’interroger sur leurs liens avec une pratique dont on sait qu’elle a été problématique. Il n’est cependant pas nécessaire de partager toutes les idées de l’auteur pour être impressionné par la force avec laquelle elles sont exposées et reconnaître que l’ouvrage est tout simplement passionnant.

Michel Bourdeau

 http://www.parutions.com

Die Sahara, ein schwelendes Pulverfass?

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Die Sahara, ein schwelendes Pulverfass?

Wirtschaftliche und politische Machtspiele

von Ines Kohl *

Ex: http://www.zeit-fragen.ch/

Die territorialen Grenzen in der Sahara zwischen Mali, Niger, Algerien und Libyen sind von jeher durchlässig, und die Tuareg nutzen sie für ihre Strategien mit Handel, Schmuggel und Migration. Doch seit dem Libyen-Krieg hat sich viel verändert. Zudem sind neue Akteure auf den Spielplatz Sahara gekommen, die an den Ressourcen der Region interessiert sind.

«Agence de Voyage: Arlit–Djanet, Arlit–Libya» steht auf dem liebevoll handbemalten Schild, das die kleine Lehmhütte mitten in Arlit, der Uran-Stadt in Nordniger, ziert. In der Hütte steht ein alter Schreibtisch, auf dem Listen mit Namen von Passagieren liegen. An der mit dunkelrotem Stoff verkleideten Wand hängen Fotos, die – einer touristischen Werbung gleich – zeigen, wie die Agentur ihre Passagiere nach Algerien oder Libyen befördert: 30 Personen sitzen fein säuberlich geschlichtet auf einem Toyota-Pick-up und fahren durch die Wüste; jeder von ihnen mit einem 5-Liter-Wasserkanister in der Hand.
Vor der Hütte sitzt Osman; schön gekleidet in einem orangen Bazin, mit einem schwarzen Chech um den Kopf geschlungen. Osman arbeitet hier als Verantwortlicher, wenn der Chef der Agentur, Murtala genannt, seine Dependance in Tahua besucht. Zudem ist er Kamosho, «Passagiere-Auftreiber», und Guide, der den Passagieren zu Fuss den Weg von Algerien nach Libyen weist.


Früher, vor dem Libyen-Krieg, erklärt mir Osman, sind die Autos bis Djanet gefahren und haben die Passagiere in den Gärten vor der Oase abgesetzt. Als jedoch im Zuge des Krieges Tuareg-Militärs und Söldner begonnen haben, das halbe Waffenarsenal al-Gaddafis ausser Landes zu bringen, wurden die Kontrollen der algerischen und nigrischen Sicherheitskräfte verschärft. Seitdem traut sich kaum ein Chauffeur mehr mit seiner illegalen Fracht bis nach Djanet, sondern entlässt seine Passagiere bis zu 70 Kilometer vor dem Ort, mitten in der Sahara. Dadurch ist ein neuer Berufszweig entstanden; jener des Guides, eines lokalkundigen Führers, der die Passagiere zu Fuss direkt über die grüne Grenze nach Libyen bringt.

EU-Absichten und lokale Strategien

Illegal ist das Geschäft mit der Grenze jedoch nur bedingt, denn hier in Niger, einem Mitglied der CEDEAO (Communauté Economique des Etats de l’Afrique de l’Ouest, einer 1975 gegründeten Wirtschaftsgemeinschaft westafrikanischer Staaten) ist es völlig legal, einen Toyota mit «Sans-papiers» vollzuladen und bis an die Grenzen von Algerien oder Libyen zu bringen. Die Gendarmerie Nationale gibt dazu gegen ein kleines Entgelt die Erlaubnis. Bis zur nigrischen Grenze sind die Konvois der Toyotas also völlig legal. Über die Grenze ändert sich das schlagartig: Legaler Transport wird zu illegaler Migration.
Die Europäische Union instrumentalisiert die nordafrikanischen Staaten als Vor­posten der Festung Europa, damit sie gegen die ­potentiellen EU-MigrantInnen vorgehen. Während Libyen unter al-Gaddafi keine wirklichen Massnahmen ergriff, um seine südlichen Aussengrenzen zu schützen und das Land zudem auf die Arbeitskraft der illegalen MigrantInnen angewiesen war, verfolgt Algerien mit aller Härte die transnationalen Akteure und versucht dadurch gleichzeitig, den Benzinschmuggel in den Griff zu bekommen. Die Tuareg,1 die sowohl den Treibstoff- als auch den Menschenschmuggel seit Jahren erfolgreich betreiben und selbst transnationale GrenzüberschreiterInnen par excellence sind, finden jedoch immer wieder neue Strategien, um die staatlichen Hürden zu umgehen (Kohl 2007, 2009, 2010).
«Was sollen wir denn sonst tun», erklärt mir einer der Chauffeure. «Wir alle haben Familie, unsere Kinder haben Hunger, wovon sollen wir leben? Von Luft? In Niger gibt’s keine Arbeit. Der Staat tut nichts, um uns zu helfen. Entweder werden wir alle Rebellen oder Banditen, oder wir packen unsere Toyotas mit Passagieren und Benzin voll. Iban eshughl – keine Arbeit, das ist unser Problem!»
Während des Libyen-Krieges ist der Verkehr zwischen Niger, Algerien und Libyen komplett zum Stillstand gekommen. Nun beginnen langsam die ersten Hausa nach Libyen zurückzukehren und hoffen auf Arbeit. Tuareg kehren noch sehr zögerlich zurück, zu gross ist noch ihre Angst vor dem neuen Libyen.

Arlit, Zentrum für Handel, Schmuggel und Migration

Arlit ist ein Zentrum des innersaharischen Handels und Schmuggels zwischen Niger, Mali, Algerien und Libyen. Gleichzeitig ist die Stadt der Ausgangspunkt der illegalen Migration von Sub-SaharierInnen auf dem Weg nach Libyen, um dort Arbeit zu finden oder weiter nach Europa zu gelangen.
Der nigrische Staat weiss, dass er die «Human trafficking»-Strategien nicht unterbinden kann. Somit wurde eine beiderseitige Lösung zwischen den Akteuren, den Tuareg und dem Staat gefunden: Die Chauffeure müssen ihre Passagiere registrieren. Dies nutzt den Passagieren, die im Falle eines Unfalls oder einer Autopanne gesucht und gefunden werden können, und es schützt sie vor skrupellosen Chauffeuren, die lediglich am Geld interessiert sind, die Passagiere mitten in der Sahara aussetzen und dem Tode preisgeben. Es dient auch den Chauffeuren, die bei einer Kontrolle der Militärs einen Passagierschein vorweisen können und sich dadurch von Banditen, Rebellen oder den Drogenschmugglern unterscheiden und somit nicht verfolgt und sanktioniert werden.
Osman kann viele Geschichten vom Geschäft mit der Grenze erzählen. Er hat bis zum Libyen-Krieg als Guide zwischen Djanet in Algerien und Ghat in Libyen gearbeitet und auf dem dreitägigen Fussmarsch übers Gebirge zahlreiche potentielle EU-MigrantInnen, Tuareg und in Libyen Arbeitssuchende hin- und hergeführt. Mit Beginn der Kämpfe in Libyen hat er wie viele Tuareg fluchtartig das Land verlassen. Zurück in Arlit sind die Chancen, eine Arbeit zu finden, jedoch gering. Vor allem für jene, die keine Schule besucht haben. Allerdings finden auch jene, die Diplome vorweisen können, kaum Arbeit.

Uran – Segen oder Fluch?

Dabei ist Arlit jene Stadt, in der der französische Kernenergie-Konzern Areva seit den späten 60er Jahren die grössten Uran-Minen der Welt betreibt, Somaïr (Exploration seit 1971) und Cominak (seit 1978). Areva, zum grössten Teil in Besitz des französischen Staates, ist der Weltmarktführer in der Nukleartechnik. Gleichzeitig rangiert der Niger auf dem Human Development Index von 20112 auf dem zweitletzten Platz. Zwei Drittel des Landes sind Wüste und Halbwüste. Die ökonomische Grundlage bilden Landwirtschaft und Viehzucht, die durch alle paar Jahre wiederkehrende Dürren und ausbleibende Regenfälle oder neuerdings sturzflutartige Regenfälle stark gefährdet sind. Eine soziale staatliche Versorgung ist nicht vorhanden, Arbeit gibt es keine, und die Rate der ­An­alphabetInnen ist trotz eines staatlichen Schulsystems vor allem unter Frauen und NomadInnen erschreckend hoch (über 80 Prozent). Ibrahima, zwölf Jahre alt, besucht eine der staatlichen Schulen in Arlit. Er ist in der fünften Klasse (CM1) und schildert mir die Situation in seiner Schule: «Wir sind 93 Schüler, Buben und Mädchen. Wir haben zwei Lehrer, und pro Tisch sitzen fünf Schüler.» Das Bildungsniveau ist dementsprechend.
Ein Grossteil der nigrischen Bevölkerung lebt mit ständig drohendem Hunger, hofft auf Almosengaben und ist von europäischen Hilfslieferungen und Entwicklungsprojekten abhängig. Vor allem der von Tuareg bewohnte Norden ist von sozialer und politischer Marginalisierung und ökonomischer Misswirtschaft betroffen. Bizarr, wo doch hier der grösste Arbeitgeber des Landes angesiedelt ist. Die Arbeiter in den Uran-Minen kommen fast alle aus den südlichen Landesteilen, während die hier lebenden Tuareg nach wie vor kaum eingestellt werden.
Seit einigen Jahren ist Areva durch Negativschlagzeilen bekanntgeworden. Greenpeace konnte beweisen, dass bei der Uran-Gewinnung nicht nur die Gesundheit der Minenarbeiter gefährdet ist, sondern dass auch das gesamte Umfeld der Mine von radioaktiver Verstrahlung betroffen ist.3 Rund um Arlit ist ein künstliches Gebirge aus Abraum, jenem Gestein, aus dem das Uran ausgewaschen wurde, entstanden, zu dem jährlich mehrere Tonnen Gestein hinzukommen. Auf dem Markt in Arlit wird kontaminiertes Altmetall aus der Mine verkauft, und der Sand in vielen Häusern ist teilweise bis zu 500fach über dem Normalwert radioaktiv verstrahlt, erzählt mir Moussa, ein Mitarbeiter der lokalen NGO Aghirin Man.4 Die kleine NGO konnte mittlerweile erreichen, dass der kontaminierte Sand in Teilen der Stadt von Areva durch unbedenklichen ersetzt wird.
Moussa, selbst jahrelang in Libyen als Dolmetscher im Tourismus tätig und im Zuge der Kämpfe zurück in den Niger geflohen, hofft, in der neuen von Areva geplanten Mine von Imouraren, 80 Kilometer südlich von Arlit, Arbeit zu finden. Moussas Dossier mit Schulabschlüssen und Diplomen liegt schon seit einem Jahr im Gemeindeamt. Bis dato ohne Antwort. «Ohne Beziehungen oder Korruption», meint er resignierend, «haben Tuareg keine Chance hineinzukommen.»

Eine neue Uran-Mine evoziert tribale Differenzen, aber auch Hoffnung

Für die Vorarbeiten in Imouraren, die 20135 mit der Uran-Exploration beginnen soll, werden nun jedoch ausdrücklich Tuareg aus der Region eingestellt. Damit hofft Areva, die ansässige Bevölkerung zufriedenzustellen und dadurch eine weitere Rebellion oder ein vermehrtes Banditenwesen zu verhindern.
Zu den Forderungen der letzten beiden Rebellionen (1990 bis 1997 und 2007 bis 2009) zählten unter anderem die explizite Teilhabe an den Einkommen der Mine.
Doch die durchaus zu befürwortende Integration der Lokalbevölkerung in die neue Mine löste ein partielles Erstarken tribaler Differenz aus. Tribale Unterschiede wurden in den letzten Jahrzehnten von lokaler Seite selbst mehr und mehr in den Hintergrund gedrängt, und die sozialen und politisch-ökonomischen Ungleichheiten zwischen der vor­kolonialen dominanten «Oberklasse» (imajeren/imujar/imuhar), den ehemaligen Nachfahren von Sklaven (iklan) und den einst tributpflichtigen Gruppen (imrad) verblassten im alltäglichen Leben. Die präferentiell endogamen Heiraten wurden vor allem von der jungen Generation (ishumar) ihrer traditionellen Wichtigkeit enthoben. In Zeiten von kapitalistischer Marktwirtschaft findet man auch Nachfahren ehemaliger Sklaven, die ihre ehemaligen Herren in bezug auf ökonomisches Kapital überflügelt haben. Mit den Arbeitsaussichten bei Areva jedoch beginnen tribale Unterschiede instrumentalisiert zu werden. Jene Stämme (tawsit), die rund um Imouraren leben, in erster Linie Ikazkazen und Kel Agharus, stehen seitdem in Konkurrenz um die Position des Sprechers für die gesamte Region. Zudem sind die auf gleichem Territorium lebenden Stämme seit der Rebellion (2007 bis 2009) in einen Zwist verwickelt, der durch die Entführung eines Stammesältesten der Ikazkazen durch die Kel Agharus ausgelöst und im Zuge der Konkurrenz verstärkt wurde. Auf einer nächsthöheren Ebene jedoch versuchen beide, die Einstellung anderer Gruppen des östlich gelegenen Air-Gebirges zu verhindern, indem sie diese als ­potentielle Rebellen und Banditen denunzieren. Damit versuchen sie vehement, ihre eigenen Leute unterzubringen, selbst wenn sie über keine geeigneten Diplome verfügen.
Doch Imouraren ist die neue Hoffnung für alle nigrischen Tuareg. Viele der aus Libyen geflohenen Tuareg wollen nicht mehr zurück, da sie fürchten, dass sich die Situation in Post-Gaddafis Libyen noch lange nicht stabilisieren wird. Auch mehr als acht Monate nach al-Gaddafis Tod schwebt sein Geist noch immer über dem Land. Vor allem jene, die noch nie in Libyen waren, sind der Meinung, ein Libyen ohne al-Gaddafi könne nicht existieren oder, wie es ein Skeptiker ausdrückt: «Libyen wird weitere 42 Jahre brauchen, damit es wieder gut wird!»

Chaos im freien Libyen

In der Tat sieht es im Süden des Landes nicht gut aus. Zwar gibt es hier keine intertribalen Auseinandersetzungen, und alle Oasen haben sich – bis auf das kleine al-Barkat an der algerischen Grenze gelegen, dass selbst nach dem Tod von al-Gaddafi noch die grüne Fahne hisste – schnell von den Resten des alten Regimes befreit: Alle öffentlichen Ämter und Büros, aber auch Schulen, wurden zerstört und geplündert. Einrichtungsgegenstände und Büromaterial finden sich entweder in diversen Privathaushalten wieder oder wurden von Tuareg ausser Landes geschafft und in Algerien, Mali und Niger zum Verkauf angeboten. Moktar zum Beispiel erbeutete fünf Kopiergeräte und brachte sie zu Fuss nach Djanet, wo sie noch immer auf Käufer warten. In Agadez in Niger stehen auf riesigen Parkplätzen gestohlene Fahrzeuge aus Libyen: nagelneue Toyota-Landcruiser und Pick-ups, verschiedene PKW-Marken und ein Grossteil an Zieraten der chinesischen Baufirmen.
In die leeren Betriebswohnungen der Chinesen in Ghat sind kurzerhand Libyer und MigrantInnen eingezogen. Ajebu, eine nigrische Targia, die mit ihren fünf Kindern und ihrem Mann seit vielen Jahren in Libyen in einem halbzerfallenen Lehmbau einer Altstadt lebt und nie etwas von den sozialen Zuwendungen al-Gaddafis gesehen hat, okkupierte kurzerhand ein leerstehendes Appartement des Wohnhauses einer chinesischen Baufirma. Freudestrahlend erzählte sie am Telefon: «Stell dir vor! Wir haben Wasser und Strom, eine richtige Küche und Fliesen am Boden!»
Kurz nach al-Gaddafis Tod und dem allgemeinen Machtvakuum in Libyen versuchte jeder, so viel wie möglich zu erbeuten. Vor allem das von allen gefürchtete Büro für Innere Sicherheit (maktab hars ad-dachiliy), das zu Zeiten al-Gaddafis das Ziel hatte, mittels eines ausgeprägten Spitzelwesens die Bevölkerung unter Kontrolle zu halten, wurde in Ghat komplett geplündert und zerstört. – Mit der Begründung, dieses Amt sei einzig und allein von al-Gaddafi geschaffen worden und habe nun (endlich!) keine Legitimation mehr. Die erbeuteten Gegenstände, darunter nagelneue originalverpackte Kalaschnikovs und Pistolen, wurden unter den Plünderern verteilt oder verkauft. Die dazugehörende Munition gibt es beim Zigarettenhändler ums Eck zu kaufen: Kugeln für Kalaschnikovs um 50 gersh, jene für Pistolen um 25 gersh: Munition kostet so viel wie Kaugummi. Dementsprechend hoch ist die Gewalt in Südlibyen. Junge Burschen tragen ihre pubertären Konflikte nun mit der Pistole in der Hand aus. Zeinaba, eine seit 15 Jahren in Libyen lebende nigrische Targia, ist bestürzt und meint: «Unsere Kinder werden alle zu Banditen! Gestern haben sie wieder einen Mann in unserer Nachbarschaft erschossen. Wegen Geld. Das passiert jetzt täglich! Ich traue mich kaum noch auf die Strasse.» Ihr Sohn Elias pflichtet ihr bei und ergänzt: «Alkohol kommt in rauhen Mengen hinzu. Die Leute trinken auf der Strasse, schiessen betrunken Salven in die Luft und grölen: ‹Libyen ist frei!›»

Folgen des Libyen-Krieges

Libyens Freiheit hat einen grossen Preis, den nicht nur die LibyerInnen bezahlen müssen, sondern der auf die gesamte Sahara- und Sahelregion aufgeteilt wurde. Die aus Libyen geschmuggelten Waffen haben die gesamte Sahara in ein schwelendes Pulverfass verwandelt. Ein Grossteil des immensen Waffenarsenals al-Gaddafis wurde ausser Landes geschafft und dient nun verschiedenen Rebellen in Mali, im Tschad oder im Sudan. Aber auch extremistische terroristische Gruppierungen, wie zum Beispiel AQMI (al-Qaida du Maghreb Islamique), profitierten davon.
In Niger ist mittlerweile fast jeder Nomade bewaffnet. Auch früher trugen Tuareg-Nomaden Schwerter und Messer: als Arbeitshilfe und zum Schutz gegen Schakale. Heute jedoch sind es Kalaschnikovs aus Libyen. Zum Selbstschutz und zur Selbstjustiz, wie Bala erklärt, da die Polizei und das Militär kaum etwas gegen die zahlreichen Banditen unternehmen, die ihre eigenen Leute überfallen. «Seit dem Libyen-Krieg», fügt er hinzu, «gibt es am Tiermarkt jede Menge Waffen zu kaufen. Und gar nicht teuer. Seitdem haben wir alle eine Kalaschnikov zu Hause, um uns gegen die Banditen zu schützen.» Das Problem der Banditen ist eine direkte Folge der letzten Rebellion. Den Ex-Rebellen wurden im Zuge der Friedensverhandlungen, die al-Gaddafi leitete, Integration ins Militär und Entschädigungszahlungen versprochen, vom nigrischen Staat aber nicht eingehalten. Diese schlecht bis gar nicht ausbezahlten und immer noch grösstenteils bewaffneten Ex-Rebellen formierten sich in den letzten Jahren zu einem unkontrollierten Banditentum und destabilisieren ebenfalls die Sahara.

Die fabrizierte Unsicherheit in der Sahara und im Sahel

Diese zunehmende Phase der Destabilisierung und Unsicherheit der gesamten Region ist jedoch nicht hausgemacht, sondern fremd­initiiert, und zwar seit die USA 2001/2002 unter George Bush den «Krieg gegen den Terror» ausriefen, die Sahara und den Sahel als eine potentielle Zone des Terrorismus brandmarkten und als Rückzugsgebiet für extremistische Militante aus Afghanistan definierten. Die ersten Entführungen von Touristen in Algerien im Jahre 2003 erhärteten das Gerücht von der Sahara als Terrorzone. 2004 kreierte George Bush daher die Pan-Sahel-Initiative (PSI) und bekämpfte mit Unterstützung lokaler Regierungen den angeblichen Terrorismus. Jeremy Keenan zufolge ist klar, dass die Entführungen zwar von den islamistischen Extremisten der GSPC (Groupe Salafiste pour la Combat) begangen, aber von algerischen und amerikanischen Geheimdiensten geplant wurden, um den Verdacht der Sahara als Terrorzone zu erhärten. Wieso?
Laut Keenan ist das Ziel der USA, eine ideologische Basis für die Militarisierung Afrikas zu schaffen, um primär Zugang zu Ressourcen zu bekommen.6 Algeriens Motivation, am inszenierten Kampf gegen den Terror mitzuwirken, lag in seinem Wunsch der politischen Re-Etablierung in EU und Nato begründet. Zudem brauchte Algerien militärische Unterstützung von den USA, um politisch-hegemoniale Ziele in Westafrika zu erreichen und sich gegen Libyen behaupten zu können. Die USA wiederum brauchten einen Verbündeten in Afrika, um ihre Militarisierung durchzusetzen. (Keenan 2006, 2009) Seit 2005 ist ein Rückgang der US-Stimmungsmache erkennbar, aber noch immer finden Entführungen in der Sahara und im Sahel statt, die nun der in AQMI (al-Qaida du Maghreb Islamique) umbenannten Gruppe zugeschrieben werden.
Seit der Entführung von MitarbeiterInnen der Firma Areva in Arlit (Niger) im September 2010 werden auch nigrische Tuareg verdächtigt, Kontakte zu AQMI zu haben. Der Grossteil der Lokalbevölkerung weist die Verbindungen heftig zurück und beschuldigt den nigrischen Staat, ein derartiges Amalgam zu betreiben, um von der EU Gelder für den Kampf gegen den Terrorismus zu bekommen. Einige meinen jedoch, dass es Tuareg geben könnte, die für Geld mit AQMI kooperieren. Aber wenn es Kontakt gibt, dann von ökonomischer und nicht von ideeller Natur.
Einer ganzen Generation von jungen Tuareg wurde durch den inszenierten Kampf gegen den Terror die Lebensbasis entzogen. Der Wüstentourismus brach zusammen, Grenzüberschreitungen wurden schwieriger und Strategien von Handel und Schmuggel kriminalisiert. Der Krieg in Libyen verschärfte die Situation und liess eine grosse Anzahl an geflüchteten arbeitslosen Sub-Sahariern zurück. Einem Grossteil junger Leute wurde die Lebensbasis entzogen. Ihnen bleiben kaum Auswegstrategien aus ihrer kritischen ökonomischen und sozialen Lage.

Ausweg aus der Krise: Rebellion und Separation?

In Mali, wo am 17. Jänner 2012 eine neue Rebellion ausgebrochen ist, ist die Kooperation zwischen einer Fraktion der Tuareg und AQMI eindeutig. Der Führer von Ansar Din, Iyad ag Aghali, kooperiert mit einer Fraktion von AQMI.7
Doch der Grossteil der malischen Tuareg-Rebellen, die sich in der MNLA8 (Mouvement National de libération de l'Azawad) formiert haben, distanzieren sich explizit von Kontakten zu diesen extremistischen Gruppierungen. Der traditionell liberal praktizierte Islam der Tuareg geht mit salafistischen Ideen nicht konform.
Den malischen Rebellen geht es jedoch nicht mehr um Dezentralisierung, ökonomische Teilhabe und soziale Unterstützung, wie in den Rebellionen zuvor. Nachdem ihre bisherigen Forderungen an den Nationalstaat stets ohne Erfolg blieben, kämpfen sie nun um Autonomie und Separation vom malischen Staat. Sie sind in der aktuellen Rebellion sehr erfolgreich, nicht zuletzt, da sie gut vernetzt und organisiert und vor allem durch Waffen aus Libyen sehr gut ausgerüstet sind.

Die Neokolonialisierung der Sahara

Während sich die malischen Tuareg um die Anerkennung ihres neuen Staates bemühen, nigrische Tuareg weiterhin auf Arbeit in der neuen Uran-Mine hoffen und viele WestafrikanerInnen zurück nach Libyen wollen, um Arbeit zu finden, wird der Sahel von einer weiteren Hungerkatastrophe heimgesucht. Früher hat Libyen als einer der ersten Staaten mit Hilfslieferungen die verarmten NomadInnen unterstützt. Heute fehlt es an einem schnell agierenden Partner. Den Akteuren in der Sahara und im Sahel, allen voran Frankreich, die USA und China, aber auch Indien, Korea, Kanada und anderen geht es weder um humanitäre Hilfe noch um Unterstützung zur Demokratisierung, sondern einzig um Ressourcen. Erdöl, Gas, Uran und Phosphat haben neue Akteure auf den Plan gerufen, und vor allem die Tuareg sind auf dem Spielplatz globaler wirtschaftlicher und politischer Interessen gelandet. Die Re-Kolonialisierung bzw. Neo-Kolonialisierung (Claudot-Hawad 2012) der Sahara und des Sahel wird jedoch weder Frieden noch Zugeständnisse von Minderheitenrechten bringen, sondern neuen Zündstoff für das bereits schwelende Pulverfass.    •

Quelle: International. Die Zeitschrift für internationale Politik II/2012; www.international.or.at  

1    Tuareg ist eine Fremdbezeichnung, die jedoch Eingang in den europäischen Sprachgebrauch gefunden hat. Die emischen Termini variieren je nach Region und Dialekt: Imuhagh in Algerien und Libyen, Imushgh in Mali und Imajeghen in Niger. Das in vielen Umschriften gebräuchliche gh wird als im Rachen gesprochenes r prononciert. Auf Grund der breiten Leserschaft dieser Zeitschrift verwende ich wegen des besseren Verständnisses den europäisierten Begriff Tuareg (Pl): Sgl. fein.: Targia, Sgl. mask.: Targi. Wichtig ist mir hierbei nur anzumerken, dass Tuareg schon der Plural ist. Es gibt keine TuaregS!
2    Niger rangiert auf Platz 186 vor der Demokratischen Republik Kongo. http://hdr.undp.org/en/statistics/
3    Greenpeace International (6. Mai 2010)
Areva’s dirty little secret, www.greenpeace.org/international/en/news/features/ArevaS-dirty-little-secrets0605l0/
Greenpeace International (2010), Left in the dust: Areva’s radioactive legacy in the desert town of Niger, www.greenpeace.org/international/Global/international/publications/nuclear/2010/Areva_Niger_report.pdf 
4    www.ciirad.org/actualites/dossiers%202007/uranium-afriq//photos-niger.pdf      
5    www.areva.com/EN/operations-623/a-topranked-deposit-ftir-longterm-minmg.htm
6    Bis 2015 werden 25 Prozent des Erdöl- und Erdgasverbrauchs der USA von Westafrika (besonders aus dem Golf von Guinea) geliefert werden müssen (Keenan 2009: 125 nach CIA Global Trends 2015).
7    Seit der Gründung hat sich die salafistische terroristische Bewegung in verschiedene Gruppen mit unterschiedlichen Strategien und Zielen zersplittert. Derzeit gibt es drei Fraktionen, die von Abdul-Hamid Abu Said, Moktar bei Moktar und Yahya Abu-Hammam, auch Yahya Juani genannt, geführt werden. (Interview mit Jermy Kennan auf France24 am 4. April 2012 www.youtube.com/watch?v=BseudPITb6U)
8    www.mnlamov.net/
Literaturhinweise
Claudot-Hawad, Hélène (2012). Business, profits Souterrains et Strategie de la terreur. La recolonisation du Sahara, www.temoust.org/business-profits-souterrains-et,15758
Keenan, Jeremy (2006). Security and Inseamty in North Africa, in: Review of African Political Economy, Nummer 108, 269–296, www.gees.org/
documentos/Documen-01279.pdf
Keenan, Jeremy (2009). The Dark Sahara: America’s War on Terror in Africa, Pluto Press, New York
Kohl, Ines (2007). Tuareg in Libyen: Identitäten zwischen Grenzen. Reimer, Berlin
Kohl, Ines (2009). Beautiful Modern Nomads: Bordercrossing Tuareg between Niger, Algeria and Libya. Reimer, Berlin
Kohl Ines (2010). Saharan «Borderline»-Strategies: Tuareg Transnational Mobility, in: Tilo Grätz (Hg.). Mobility, Transnationalism and Contemporary African Societies. Cambridge Scholars, Newcastle upon Tyne, 92–105

*Ines Kohl (Mag. Dr.) ist Forscherin am Institut für Sozialanthropologie (ISA) der Österreichischen Akademie der Wissenschaften (ÖAW). Sie arbeitet über Tuareg, Jugendkultur, Mobilität und Transnationalität in Libyen, Algerien und Niger.
Mail: ines.kohl(at)oeaw.ac.at; www.kohlspross.org

 

jeudi, 22 novembre 2012

Energie et défense: les vieux amis et les nouveaux ennemis d’Ankara

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Alessia LAI:

Energie et défense: les vieux amis et les nouveaux ennemis d’Ankara

 

Les rapports entre Turcs et irakiens se sont envenimés depuis quelques mois; en revanche, les relations commerciales avec Israël ont repris récemment...

 

L’EPDK, l’autorité turque qui régule le marché de l’énergie, ne permettra vraisemblablement pas à une société du Nord de l’Irak d’exporter du gaz naturel, parce que cette société n’a pas signé à temps un accord prévu de longue date, vu les tensions politiques qui agitent la région. La société turque Siyahkalem Ltd, qui opère sur le marché de l’énergie, avait décidé d’importer du gaz, en commençant par un volume annuel de 700 millions de m3 à partir de 2014, pour arriver à un volume de 3,2 milliards de m3 en 2033. La société devait soumettre une proposition de contrat à l’EPDK dans un délai de 90 jours mais “les vicissitudes politiques qui rythment les rapports turco-irakiens et les rapports entre le gouvernement central de Bagdad et le gouvernement du Kurdistan irakien du Nord du pays ont conduit à l’échec de l’accord”, précise une source de l’Agence Reuters.

 

Au cours de ces dernières semaines, en effet, les tensions ont augmenté entre Bagdad et Ankara, surtout depuis que la Turquie a accordé l’asile politique à l’ancien vice-président irakien Tareq al-Hashemi, condamné à mort pour terrorisme. L’Irak a également demandé à la Turquie de cesser ses attaques contre les forces rebelles kurdes, repliées sur territoire irakien mais dans la région autonome kurde, sur laquelle le gouvernement central de Bagdad exerce peu de contrôle et avec laquelle les Turcs ont forgé des liens assez étroits ces dernières années, surtout dans le domaine des hydrocarbures, cette région possédant les champs pétrolifères les plus productifs de l’Irak. Le gouvernement irakien, pour sa part, a exclu, le 7 novembre 2012, la société nationale turque d’exploitation pétrolière TPAO de toute présence active dans la zone dite du “bloc 9”, tout en niant que cette mesure soit une rétorsion face aux accords signés par la TPAO dans le Kurdistan irakien.

 

Avec une telle toile de fonds, on ne s’étonnera pas que les relations entre la Turquie et Israël soient redevenues amicales. Une société israélienne, qui concevait des systèmes électroniques pour les avions espions turcs avant la crise diplomatique qui a opposé Tel Aviv à Ankara depuis 2009 (à l’époque de l’opération “Plomb fondu” puis de l’attaque contre la flotille “Mave Marmara”) vient de reprendre ses activités. En 2002, le ministère turc de la défense avait commandé auprès de la firme aéronautique américaine Boeing quatre avions espions Aewc 737-700, ainsi qu’un radar de terre, des systèmes de contrôle et d’autres matériels pour l’instruction du personnel et la manutention. Le site internet du quotidien turc “Hurriyet” rapporte que la firme israélienne Elta Systems a décidé de reprendre la fabrication de dispositifs spéciaux pour les avions espions de type Boeing 737 Aewc. Cette décision, d’après le quotidien turc, permet de reprendre la production, ajournée depuis longtemps, de quatre nouveaux 737-Aewc (pour un prix total de quelque 1,2 milliard d’euro). Enfin, cette décision indique la fin de tout interdit frappant les exporations de matériels destinés à la défense entre Israël et la Turquie. Elles avaient effectivement été gelées depuis deux ans.

 

Alessia LAI.

( a.lai@rinascita.eu ; article paru dans “Rinascita”, Rome, le 10 novembre 2012; http://rinascita.eu/ ).

Geopolitiek aspect van de Griekse crisis

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Geopolitiek aspect van de Griekse crisis

Het is interessant om te zien hoe de Europese Unie, duidelijk tegen de zin van haar leden, er alles aan doet om Griekenland in de EU te houden. Drastisch besparen, de bevolking in armoede, miljarden er in pompen, alles moet maar kunnen. Behalve een Griekse exit. Één van de redenen hiervoor is een geopolitieke.

Eén van de vele besparingsmaatregelen in Griekenland hield het verkopen van staatsbedrijven in. Het gasbedrijf DEPA speelt een belangrijke rol hierin. De verkoop hiervan zou tussen de € 500 miljoen en € 1 miljard moeten opbrengen. De Griekse staat heeft 65% van de aandelen nu in handen, Hellenic Petroleum 35%. In totaal zouden beide aandelenpaketten verkochten moeten zijn bij het begin van 2013. Gazprom en Negusneft, beide Russische bedrijven (Gazprom zelfs een staatsbedrijf), hebben hier reeds grote interesse voor getoond.

In het verleden hebben Rusland en Oekraïne grote ruzie gehad over de prijs van aardgas. Oekraïne wou de Russische prijzen niet betalen en Rusland weigerde nog aan Oekraïne te leveren. Oekraïne ligt echter op de route van de aardgasleidingen tussen Rusland en Europa en tapte dus gewoon af. Het bezitten van een Griekse route zou voor Rusland dit soort problemen moeten vermijden. Tevens bezorgt het Rusland opnieuw een meer voelbare aanwezigheid in het gebied van de zuidelijke Balkan. De laatste jaren zijn ook de banden tussen Griekenland en Rusland sterk aangehaald en ook op Cyprus is Rusland meer aanwezig. Daar hebben ze ook interesse getoond in het helpen verlichten van de Cypriotische schuld, tevens met meer Russische invloed als gevolg.

De Griekse gebieden zijn lange tijd in de Britse invloedssfeer geweest. Ze hebben er dan ook meerdere vlootbasissen. Zeker met het uitzicht op het Suez-kanaal belangrijke feiten. Maar met de huidige opstanden in de Arabische wereld zijn deze basissen nog belangrijker geworden aangezien vandaar interventies kunnen worden gelanceerd (gaande van de huidige inzet van special forces tot eventueel later meer reguliere militaire zetten). Rusland heeft slechts één zeebasis in de Middellandse Zee en dat is in het Syrische Tartus.

Het binnenbrengen van Griekenland en Cyprus in de Russische invloedssfeer zou dan ook een belangrijk alternatief kunnen vormen voor het geval Assad toch zou bezwijken onder de islamistische opstandelingen. Voor de machtige elites in Washington en Brussel zou een toename van Russische invloed echter ten zeerste ongewenst zijn.

mercredi, 21 novembre 2012

Londres refuse de prêter ses bases aux Etats-Unis

Ferdinando CALDA:

Londres refuse de prêter ses bases aux Etats-Unis pour toutes opérations contre l’Iran

 

Le gouvernement britannique se souvient de ses déboires irakiens: il sait désormais que toute attaque préventive viole le droit international

 

xin_58030224084311104011.jpgLondres vient de rejeter le requête de Washington: les Etats-Unis ne pourront pas utiliser les bases militaires britanniques pour d’éventuelles actions contre l’Iran. Les Britanniques avancent pour argument que toute attaque préventive contre Téhéran constituerait une violation du droit international, vu que la République Islamique ne représente pas, ajoutent-ils, une “menace claire et immédiate”. C’est du moins ce qu’écrit le “Guardian”, qui cite des sources gouvernementales britanniques. Selon le célèbre quotidien, Washington aurait demandé à pouvoir utiliser les bases militaires britanniques de Chypre, celles de l’Ile de l’Ascension (au milieu de l’Atlantique) et de Diego Garcia dans l’Océan Indien. A la suite de cette requête américaine, Londres aurait commandé une sorte d’audit légal au Procureur général du Royaume, puis à Downing Street, au Foreign Office et au ministère de la Défense. “La Grande-Bretagne violerait le droit international si elle venait en aide à une opération qui équivaudrait à une attaque préventive contre l’Iran”, a déclaré un haut fonctionnaire britannique au “Guardian”; et il ajoute: “le gouvernement a utilisé cet argument pour rejeter les demandes américaines”.

 

D’autres sources ont souligné que la requête des Etats-Unis n’était pas formelle mais qu’elle constituait toutefois un signal, annonçant un conflit imminent. Il s’agirait plutôt de sonder les positions du gouvernement britannique. La réponse de Londres a certainement fait l’effet d’un coup de tonnerre dans un ciel serein. L’une des sources du “Guardian” aurait par ailleurs déclaré: “Je crois que les Etats-Unis ont été assez surpris que les ministres (britanniques) se soient montrés si réticents à donner anticipativement les garanties nécessaires pour ce type d’assistance”. Et cette source explique: “On aurait pu s’attendre à ce que l’opposition vienne des libéraux-démocrates seulement mais elle a trouvé des voix chez les conservateurs également”.

 

Comme le note encore le “Guardian” dans un autre article, l’opposition du gouvernement britannique à accorder son appui inconditionnel au renforcement de la présence militaire américaine dans la région du Golfe Persique montre clairement que les leçons tirées de la guerre d’Irak de 2003 sont encore très présentes dans les esprits à Londres. A cause de l’appui qu’il avait apporté à l’invasion américaine de l’Irak, l’ancien premier ministre Tony Blair avait dû rendre des comptes devant les juges pour avoir répété les bobards quant aux “armes de destruction massive” de Saddam Hussein. Cette fois, souligne le “Guardian”, la Grande-Bretagne a pris des positions claires: elle n’accordera aucun blanc-seing et prendra ses décisions en toute autonomie quand il s’agira de distinguer ce qui est légal de ce qui ne l’est pas.

 

Cela ne signifie pas pour autant qu’il existe des différences substantielles entre les vues adoptées à Londres et à Washington sur le dossier iranien. Ni sur la nécessité ou l’opportunité d’une intervention militaire. Tant les commandants militaires américains que leurs homologues britanniques, ainsi que les Israéliens et les Iraniens, sont tous convaincus qu’une action militaire, quelle qu’elle soit, aura des conséquences dangereuses dans toute la zone (et même au-delà) et risquerait bien de se révéler contre-productive: Téhéran ne renoncera pas pour autant à son programme nucléaire. Personne cependant n’ose courir le risque de se retrouver impréparé au cas où la situation dégénèrerait. Pour ce qui concerne les Britanniques, il n’y a qu’une dizaine des bâtiments de la marine royale qui croisent actuellement dans le Golfe Persique, y compris un sous-marin nucléaire.

 

La principale inconnue, pour le moment, reste les actions menées par Israël, où, depuis quelques mois, le gouvernement de Benjamin Netanyahu jette constamment de l’huile sur le feu et vicie le climat déjà fort tendu par sa rhétorique tissée de menaces. Depuis les présidentielles américaines, les analystes prévoient une nouvelle série d’initiatives diplomatiques mais aussi que tout nouvel échec (que l’on escompte pourtant pas...) donnerait prétexte aux Israéliens de frapper l’Iran. Et là, si l’Iran riposte en focalisant ses tirs de manière proportionnée sur Israël seul, Washington et ses alliés pourrait difficilement justifier une intervention militaire contre l’Iran devant le droit international. Tant Obama que Romney, les deux candidats à la présidence, ont, pendant la campagne électorale, assuré leur soutien total à Israël en cas d’attaque iranienne. Mais Londres, qui se souvient de ses déboires irakiens, pourrait éprouver des réticences à violer une fois de plus les règles du droit international.

 

Ferdinando CALDA.

( f.calda@rinascita.eu ; articla paru dans “Rinascita”, 27 octobre 2012; http://rinascita.eu/ ).

mardi, 20 novembre 2012

Un regard canadien sur les cultures, les identités et la géopolitique

Un regard canadien sur les cultures, les identités et la géopolitique

par Georges FELTIN-TRACOL

750602755.jpgDans les années 1990, deux géopoliticiens canadiens, Gérard A. Montifroy et Marc Imbeault, publiaient cinq ouvrages majeurs consacrés à la géopolitique et à ses relations avec les démocraties, les idéologies, les économies, les philosophies et les pouvoirs dont certains furent en leur temps recensés par l’auteur de ces lignes. Aujourd’hui, Gérard A. Montifroy et Donald William, auteur du Choc des temps, viennent d’écrire un nouvel essai présentant les rapports complexes entre la géopolitique et les cultures qu’il importe de comprendre aussi dans les acceptions d’identités et de mentalités. Ils observent en effet qu’en géopolitique, « les mentalités constituaient un premier “ pilier ”, se prolongeant naturellement avec les données propres aux identités, celles-ci débouchant sur le contexte dynamique des rivalités (p. 7) ».

Comme dans les précédents ouvrages de la série, le livre présente une abondante bibliographie avec des titres souvent dissidents puisqu’on y trouve Julius Evola, Julien Freund, Éric Zemmour, Danilo Zolo, Éric Werner, Jean-Claude Rolinat, Hervé Coutau-Bégarie, etc. L’intention est limpide : « Il nous fallait sortir de l’actuel esprit du temps qui déforme les raisonnements en débouchant sur la pulvérisation de la réalité des faits. Face à la dictature de la pensée dominante, il existe une défense formidable : les livres aussi “ parlent ” aux livres (p. 08) ». On doit cependant regretter l’absence d’une liste de blogues et de sites rebelles sur la Toile. Car, contrairement à ce que l’on croit, Internet est plus complémentaire que concurrent à la lecture à la condition toutefois de cesser de regarder une télévision toujours plus débilitante. Leur compréhension du monde se fiche des tabous idéologiques en vigueur. « C’est pourquoi la géopolitique, telle que nous la concevons, concourt à faire sortir de l’ombre le dessous des cartes, le monde du réel (p. 9). » Ce travail exige une démarche pluridisciplinaire dont un recours à la philosophie, parce qu’« en géopolitique, l’apport de la réflexion philosophique est essentiel, fondamental même (p. 16) ». Les auteurs ne cachent pas qu’ils s’appuient sur les travaux du général autrichien Jordis van Lohausen, un disciple de Karl Haushofer. Ils mentionnent dans leur ouvrage les écoles géopolitiques anglo-saxonne (britannique et étatsunienne), allemande/germanique et française, mais semblent ignorer le courant géopolitique russe ! Dommage !

La lecture est une nécessité vitale pour qui veut avoir une claire vision des enjeux géopolitiques. Seuls les livres – imprimés ou électroniques – sont capables de répliquer à la désinformation ambiante. « Justifier des guerres d’agression en modifiant le sens des mots relève directement d’une stratégie orwellienne de manipulation mentale : les stratèges de la communication mettent en avant un interventionnisme qualifié d’humanitaire pour justifier l’expression (p. 21). »

Le contrôle des esprits, la modification des mentalités, le dénigrement ou non des identités ont des incidences géopolitiques telles qu’« un État n’est donc pas synonyme d’une mentalité globale (p. 61) ». Cette assertion guère évidente provient de Canadiens. Or le Canada aurait-il pu (peut-il encore ?) se construire un destin ? Les auteurs s’interrogent sur son caractère national, étatique, quelque peu aléatoire du fait de la conflictualité historique entre les Canadiens – Français, les anglophones et les Amérindiens. Et ce, au contraire de la France ! « Pour ses composantes humaines, la France est également née de son propre voisinage : de son “ proche ” contexte. C’est-à-dire que l’identité collective, nationale, est directement issue de populations celtes, latines et germaniques (pp. 69 – 70). » La France a ainsi bénéficié de la longue durée historique pour se forger et se donner une indéniable personnalité politique, temporelle et géographique.

Montifroy et William s’attachent à démontrer les « spécificités géopolitiques canadiennes (p. 87) » et dénoncent leur « vendredi noir ». Ce jour-là, le 20 février 1959, le Premier ministre conservateur-progressiste canadien, John G. Diefenbaker, ordonnait la destruction de l’avion d’interception Avro C.F.-105 Arrow et la fin immédiate du projet au profit des produits étatsuniens. Un vrai sabordage ! Les difficultés de vente actuelles à l’étranger de l’avion français Rafale reproduisent ce lent travail de sape voulu par les États-Unis afin d’être les seuls à armer leurs obligés (et non leurs alliés).

Ce « coup de poignard dans le dos » n’est pas le premier contre le Canada. Deux cents ans plus tôt commençait la Seconde Guerre d’Indépendance américaine (1812 – 1814) entre la Grande-Bretagne et les États-Unis. Dans ce conflit peu connu en Europe, on pourrait en imputer le déclenchement à Londres qui se vengeait du traité de Versailles de 1783. Erreur ! C’est Washington qui déclare la guerre au Royaume-Uni le 18 juin 1812 et essaie d’envahir le Canada. « L’initiative américaine comporte alors un double objectif : couper une source d’approvisionnement stratégique, le bois canadien, remplaçant le commerce des fourrures, matière nécessaire pour les navires anglais, et s’approprier une aire d’expansion aux dépens de possessions britanniques, depuis longtemps convoitées au Nord (p. 95). »

Cette nouvelle guerre aurait pu déchirer la société canadienne divisée entre Canadiens-Français catholiques et anglophones protestants (colons venus d’Europe et « Loyalistes » américains installés après l’indépendance des États-Unis), ce n’est pas le cas ! Une union nationale anti-américaine se réalise. À la bataille de Stoney Creek du 6 juin 1813, 700 combattants canadiens – anglophones et francophones – repoussent environ 3 500 soldats étatsuniens ! Une paix blanche entre les deux belligérants est conclue en 1814. Les États-Unis continueront à vouloir encercler le Canada en acquérant en 1867 l’Alaska, en guignant la Colombie britannique et en lorgnant sur les Provinces maritimes de l’Atlantique. On peut même envisager que Washington attisa les forces centrifuges du futur Canada ?

Les contentieux frontaliers évacués à partir du milieu du XIXe siècle, les classes dirigeantes étatsuniennes et britanniques nouèrent des liens si étroits que « la culture s’impose à la géographie (p. 138) ». Si les auteurs soulignent le grand rôle africain de Cecil Rhodes, ils oublient qu’il fut parmi les premiers à concevoir une entente permanente entre les États-Unis et la Grande-Bretagne. Cette alliance transatlantique allait devenir au XXe siècle une Anglosphère planétaire matérialisée par le réseau d’espionnage électronique mondial Echelon qui est « une organisation ne comprenant que des pays anglo-saxons : Grande-Bretagne, États-Unis, Australie, Nouvelle-Zélande et Canada (majorité anglophone) (p. 180) ».

Depuis la fin de la Guerre froide, les États-Unis et derrière eux, l’Anglosphère-monde, manifestation géographique du financiarisme, s’opposent à l’Europe et à la France en particulier, car « la France est le seul obstacle fondamental à leur domination mondiale sur les Esprits (p. 166) ». Pour l’heure, l’avantage revient au camp anglo-saxon. Gérard A. Montifroy et Donald William déplorent par exemple que la fonction de haut-représentant de l’Union européenne pour les affaires étrangères et la politique de sécurité soit revenue à une tonitruante, gracieuse et charismatique Britannique, la travailliste anoblie Catherine Ashton. « Cette confusion entre l’Europe purement géographique et l’Europe géopolitique constitue l’une des fractures cachées de l’actuelle Union européenne, celle de Bruxelles (p. 149). » À la suite de Carl Schmitt, les auteurs prônent par conséquent qu’« à son tour, l’Europe doit projeter sa propre “ Doctrine Monroe ” (p. 228) ». Un bien bel ouvrage didactique en faveur d’une résistance européenne au Nouvel Ordre mondial fantasmé par les Anglo-Saxons !

Georges Feltin-Tracol

• Gérard A. Montifroy et Donald William, Géopolitique et cultures. Mentalités, identités, rivalités, Béliveau éditeur, Longueil (Québec – Canada), 2012, 251 p., 22 €.


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lundi, 19 novembre 2012

Geopolitica, vol. I, no. 3 (Autunno 2012)

 

Che cos’è la geopolitica?

In corso di stampa: l’inizio della distribuzione è previsto per il 29 novembre

Geopolitica, vol. I, no. 3 (Autunno 2012)

CHE COS’È LA GEOPOLITICA?

“Geopolitica” è oggi un termine molto in voga, usato e persino abusato. Infatti, lo si ritrova spesso utilizzato come sinonimo di “politica internazionale”, affrontata non di rado con un approccio giornalistico. In realtà, la Geopolitica vera e propria è qualcosa di diverso. Si tratta d’una disciplina accademica che si sta affermando in molti paesi, d’un approccio interpretativo e analitico le cui origini affondano a oltre un secolo fa. Ma se gli equivoci prosperano, è anche perché la geopolitica ancora manca d’una chiara definizione degli obiettivi e metodologica, condivisa nel mondo scientifico. Da qui l’esigenza di porsi il fatidico interrogativo: che cos’è la geopolitica?
274 pp., cartografie b/n, ISBN 9781907847134
 

Sommario dei contenuti:

 

Editoriale

Geopolitica: una scienza in evoluzione
Tiberio Graziani

La rinascita della geopolitica sembra aver soppiantato negli ultimi decenni le analisi tipiche delle Relazioni Internazionali riguardo alla identificazione dei futuri scenari globali. Tuttavia, a fronte del successo mediatico di tale disciplina, scarsi risultano essere le riflessioni teoriche a suo sostegno. Manca infatti ancora una valida teoria della geopolitica. Tale carenza sembra essere dovuta alla sua caratteristica di disciplina limite tra impostazione operativa e approccio speculativo.

Focus

Che cos’è la geopolitica?

Aymeric Chauprade

La geopolitica è una scienza dotata d’una propria e precisa metodologia. Essa si può definire come lo studio delle relazioni politiche tra poteri statali, intra-statali e trans-statali a partire dai criteri geografici. Tali criteri sono non solo quelli della geografia fisica, ma anche identitaria (etnica e religiosa) e delle risorse. La nuova scuola francese di geopolitica, inaugurata da Thual nei primi anni ’90, rifiuta qualsiasi ideologizzazione, semplificazione e riduzionismo della storia. Sfortunatamente, il termine “geopolitica”, dopo essere stato a lungo rigettato, è ora diventato di moda al punto che giornalisti che si occupano di affari internazionali sono spesso definiti dai media come “geopolitici”, pur non praticando affatto la materia. Il termine è stato assimilato dall’ideologia dominante ma svuotato di contenuto.

 
Quarantatre teorie e concetti per un modello geopolitico

Phil Kelly

Lo studio della geopolitica classica richiede un modello che ne raccolga gli assunti, i concetti e le teorie, selezionandoli e inquadrandoli rispetto a una ben precisa definizione. Definita la geopolitica come lo studio dell’impatto di certe caratteristiche geografiche sul comportamento degli Stati, s’individuano almeno 43 teorie o concetti che possono appartenere al modello della geopolitica classica. Tra essi ve ne sono alcuni connessi alla dicotomia centro-periferia, altri all’idea del perno, altri ancora al ruolo di confini e frontiere o alla nozione di spazio. Quest’articolo vuol essere un primo passo per elevare la geopolitica a metodo di studio delle relazioni internazionali.

 
A cosa serve la geopolitica? Alcune lezioni dal caso turco

Emidio Diodato

La geopolitica non serve a esprimere l’interesse nazionale e le percezioni spaziali dei popoli, bensì a formulare scenari. V’è la geopolitica degli analisti, che indica vincoli e opportunità ai decisori; la geopolitica dei critici, che decostruisce questi scenari; e la geopolitica delle relazioni internazionali. La geopolitica può infatti inserirsi come paradigma nelle relazioni internazionali, avendo i suoi tratti distintivi nell’impostazione globale e nell’attenzione per i processi di controllo e gestione dello spazio. Il caso della Turchia offre alcuni esempi e lezioni.

 
Spunti di riflessione su geopolitica e metodo: storia, analisi, giudizio

Matteo Marconi

La geopolitica conosce un successo straordinario nel linguaggio giornalistico e sempre più si va diffondendo anche in ambito accademico, pur non avendo una chiara definizione disciplinare. Questo saggio si propone di discutere i presupposti per una fondazione scientifica della geopolitica, tentando di unire all’interno dello stesso problema di ricerca la storia della disciplina, l’analisi dei casi concreti e il giudizio su di essi. La geopolitica sarà scientifica solo se saprà risvegliarsi alla migliore tradizione della sua origine di pensiero, cioè come critica della frammentazione del sapere e della separazione tra scienza e politica.

 
Itinerario d’un geopolitico del XX secolo

François Thual & Emile Chapuis

Il brano seguente è tratto dall’opera La passion des autres. Itinéraire d’un géopoliticien du XX siècle. Conversation avec Emile Chapuis, pubblicata da CNRS Editions di Parigi nei primi mesi del 2011. François Thual, tra i più importanti studiosi di geopolitica viventi, vi ripercorre la propria carriera, sintetizza i propri studi e riflessioni, formula previsioni per il futuro. La parte qui presentata si riferisce all’introduzione ed alle conclusioni del libro, dove discute la sua concezione della geopolitica, lo scopo e i limiti del modello geopolitico, la natura della guerra.

 
Intervista a Carlo Jean

Daniele Scalea

Intervista a cura di Daniele Scalea, segretario scientifico dell’IsAG e condirettore di “Geopolitica”. Il generale Jean discute di definizione e finalità della geopolitica, e suo stato in Italia. La presente intervista è stata realizzata il 6 luglio 2012.

 
Geografia, geopolitica e Heartland: la politica estera britannica e l’eredità di Sir Halford Mackinder

Geoffrey Sloan

H.J. Mackinder sviluppò, unendo la prospettiva geografica di lungo periodo a quella strategico-militare, una visione delle relazioni internazionali concettualizzata nella teoria dell’Heartland. Il presente articolo mira a riepilogare l’esposizione di tale teoria che diede prima nel 1904 e poi nel 1919, e analizzare l’operato di Mackinder quando per la prima e unica volta nella sua vita si trovò in condizione d’influire concretamente sulla politica estera britannica, in qualità di alto commissario in Russia Meridionale durante la guerra civile. Infine, si valuta quanto la teoria dell’Heartland sia ancora rilevante nella situazione geopolitica odierna.

 
Il percorso di un geopolitologo tedesco: Karl Haushofer

Robert Steuckers

Il testo che segue, realizzato come recensione del primo dei due sostanziosi volumi che il professor Hans-Adolf Jacobsen ha dedicato a Karl Haushofer, si concentra sul periodo in cui si forma la visione geopolitica dell’autore tedesco. Si ripercorrono dunque il suo periodo in Giappone, l’esperienza di combattimento nella Prima Guerra Mondiale, e l’elaborazione delle prime teorie geopolitiche negli anni ’20, incentrate principalmente sulla zona del Pacifico. La conclusione è che la geopolitica tedesca di Haushofer prese avvio prima dell’avvento del nazismo e come cambiamento nazional-rivoluzionario più o meno russofilo.

 
Lev Gumilëv e la geopolitica contemporanea

Dario Citati

La teoria etnologica e le ricerche storiche dello studioso russo Lev Gumilëv (1912-1992) hanno esercitato una grande influenza sulle dottrine geopolitiche in molti Paesi dell’ex Unione Sovietica. L’articolo esamina in dettaglio
il pensiero di questo Autore, proponendone una specifica interpretazione complessiva per poi passare in rassegna le letture che ne hanno dato numerosi intellettuali e politici contemporanei: dagli esponenti della cosiddetta etnogeopolitica russa all’eurasismo kazako, dalla proiezione geostrategica di un ex Generale dell’esercito russo alle riflessioni dell’ex Presidente del Kirghizistan Askar Akaev. Ne emerge una ricezione estremamente differenziata, indicante che l’attualizzazione propriamente geopolitica del suo pensiero è frutto molto più della rielaborazione altrui che dei suoi contenuti intrinseci. Ciò malgrado, la sua eredità occupa un posto di rilievo nell’ambito della
storia della storiografia e del pensiero sociale.

 
Polvere, spade e pietre: la comparsa del pensiero geopolitico presso gli storici greci dell’età classica

Mehdi Lazar

Se la geopolitica è lo studio degli antagonismi tra poteri o dell’influenza sui territori – tali antagonismi sono indotti non soltanto da interpretazioni oggettive degli attori ma anche soggettive – allora la geopolitica è antica. Poiché gli antagonismi tra poteri sono propri delle società umane, i pensatori della loro epoca hanno cominciato molto presto a commentare, riportare, spiegare e interpretare questi conflitti. Nella Grecia di allora gli storici viaggiarono, insegnarono, combatterono, pensarono e rifletterono su questioni geopolitiche con formulazioni che soddisfacevano criteri molto diversi ma che fornivano tutte delle risposte, in parte, in un contesto generale. Di conseguenza, molti concetti geopolitici classici fecero la loro comparsa in Europa per la prima volta.

 
L’interpretazione geopolitica del continuum spazio-temporale nell’ambito delle scienze storiche

Vladislav Gulevič

Quando nasce la comprensione propriamente geopolitica dei rapporti fra gli Stati? In questa breve riflessione teorica si propende per una risposta duplice. Da un lato, le relazioni fra i popoli e fra gli Stati hanno avuto sin dall’Antichità un carattere «oggettivamente» geopolitico per via dell’influenza che in forme diverse lo spazio geografico ha sempre esercitato sulla storia. Dall’altro lato, una coscienza geopolitica dello Stato, intesa come rappresentazione di sé e dei propri interessi in relazione allo spazio, è un fenomeno sostanzialmente moderno. Sebbene l’antagonismo fra Roma e Cartagine costituisca forse il primo esempio di coscienza geopolitica da parte di un’entità politica, soltanto con le riflessioni degli ultimi secoli la geopolitica ha assunto una fisionomia specifica come disciplina e come orientamento programmatico delle classi dirigenti.

 
La geopolitica contemporanea e i problemi globali di un mondo in cambiamento

Aleksej G. Černišov

La geopolitica, disciplina che per definizione studia i processi di lunga durata, non può esimersi dall’affrontare uno dei più difficili problemi del mondo contemporaneo: il divario tra una disponibilità limitata di risorse e la tendenza globale a stili di vita insostenibili con essa. Il caso del petrolio, a rischio di esaurimento ma ancora determinante sia nelle economie sia nelle strategie geopolitiche dei diversi Stati, ne costituisce esempio emblematico. L’articolo sviluppa una riflessione generale sull’importanza di inserire questo problema tra le priorità dell’analisi geopolitica, insistendo su due punti: la comprensione che dietro il «villaggio globale» si celano irriducibili diversità identitarie ed enormi disparità di condizione fra fasce di popolazione; la necessità di concepire la geopolitica non nei termini di una corsa allo sviluppo per garantirsi un vantaggio a breve-medio termine sugli altri Paesi, bensì come strategia di lungo periodo che miri anche ad un equilibrio tra bisogni e risorse.

 
La Geopolitica dei Grandi spazi multidimensionali

Vladimir A. Dergačëv

A cavallo tra il secondo e il terzo millennio, nella geopolitica si è verificato un Rinascimento – un ritorno della geopolitica alla sua veste di scienza interdisciplinare analitica. Si avvertiva un urgente bisogno di sistemi analitici dotati di un moderno pensiero geopolitico. Senza la previsione geopolitica è impossibile immaginare il futuro di un Paese. Un buon statista è tenuto a conoscere il pensiero geopolitico. La geopolitica deve diventare una parte integrante della cultura generale. Ogni persona che ambisce ad un attivismo civile nella società dovrebbe avere delle nozioni di geopolitica. L’articolo descrive le principali posizioni della teoria geopolitica dei Grandi spazi multidimensionali, illustrata come “nuova geopolitica”.

 
Geoeconomia: un nuovo paradigma per lo studio della politica mondiale

Ernest G. Kočetov

La Geoeconomia è entrata nel dibattito scientifico e nella pratica mondiale per porre fine alle controversie del vecchio mondo della Pace di Vestfalia. L’attacco al sistema economico semifeudale si è svolto in maniera potente e
senza compromessi, da tre fronti contemporaneamente, ossia da tre scuole geoeconomiche con i propri pionieri: nordamericana (con M. Parmelle, E. Luttwak e altri), russa (E. Kočetov, A. Neklessa e altri) e italiana (C. Jean, P. Savona e altri). Animato da umanismo e nuove conoscenze, mira a costruire la pace. Per capire l’idea di questo potente paradigma umanitario, la geopolitica, bisogna osservare i principi fondamentali, le caratteristiche e i meccanismi della geoeconomia. Nell’articolo è esposto il senso di questa disciplina.

 
La dicotomia geopolitica terra-mare nell’epoca della globalizzazione

Alessio Stilo

La scuola geopolitica classica, sia quella di matrice anglosassone sia quella “continentale”, si connotava per aver riprodotto la millenaria contrapposizione tra potenze talassiche e potenze telluriche. La disamina riassume le maggiori teorie geopolitiche del secolo scorso e analizza lo scenario internazionale contemporaneo alla luce della dualità geopolitica terra/mare e servendosi delle moderne teorie delle relazioni internazionali. S’intende pertanto, seguendo una metodologia comparativa, riconsiderare il ruolo della geopolitica classica nello studio delle relazioni interstatuali, svincolandolo dal determinismo tipico di un approccio meramente ambientale, onde arricchirlo attraverso l’apporto delle varie scienze ausiliarie e dei diversi fattori analitici.

Orizzonti

 
ATOM Project. L’impegno del Kazakhstan per un uso responsabile dell’energia nucleare nel mondo

Luca Bionda

Il fabbisogno energetico mondiale legato soprattutto alle prospettive di sviluppo delle nuove potenze mondiali contribuisce ad orientare l’interesse del mondo scientifico e tecnologico verso la diversificazione delle fonti energetiche, dando nuova linfa al dibattito sull’uso del nucleare per scopi civili. Ad oltre 25 anni dal mai dimenticato incidente nucleare di Černobyl’ ed a seguito dei recenti avvenimenti presso la centrale giapponese di Fukushima Dai-ichi del Marzo scorso, il tema della sicurezza nucleare si ripropone in modo prepotente a livello internazionale. Anche sul fronte del nucleare per scopi bellici il dibattito è sempre vibrante. Per quanto riguarda le iniziative volte a scongiurare la proliferazione nucleare nel mondo per scopi militari, senza dubbio meritevole di considerazione è il cosiddetto “ATOM Project”, nata con il supporto del Centro Nazarbayev per volontà dello stesso presidente kazaco.

 
La società postmoderna dei consumi e i valori estetici della cultura popolare

Wang Ning

Il postmodernismo da tempo esercita una forte influenza sulla vita e la cultura cinese. La nuova cultura popolare di consumo sfida la produzione e circolazione della cultura elitaria. In Cina v’è una notevole differenza tra ricchi e poveri, cittadini e contadini. A Pechino e nelle città costiere la cultura di consumo è dominante, anche se l’80% della popolazione sta ancora modernizzando i suoi stili di vita. La cultura popolare è benvenuta dalla maggioranza della popolazione, che ne fruisce tramite i moderni mezzi di comunicazione. Pochi dei suoi prodotti diventeranno però opere d’arte canoniche degne d’essere riscoperte dai critici e ricercatori del futuro. Su questa base gl’intellettuali umanisti dovrebbero assumere un giusto atteggiamento verso la prevalenza della cultura popolare nella società consumista postmoderna. La versione italiana di quest’articolo è stata curata da Lavinia Benedetti (Università di Catania, ricercatrice) su incarico diretto dell’Autore.

 
“Primavera Araba” o “Risveglio Islamico”?

Ghorbanali Pour Marjan Varjovi

Negli ultimi 18 mesi, in Nordafrica e nel Vicino Oriente, sono accaduti alcuni eventi politici di cui sono state fornite differenti interpretazioni. Nell’articolo seguente si cercano di chiarire alcuni punti cruciali. Il primo è quello, non solo terminologico, della scorrettezza dell’appellativo “Primavera Araba”, frutto di un malinteso o d’una volontà di distorsione occidentale: quello in corso è in realtà un risveglio islamico Tale Risveglio Islamico è in relazione con la Rivoluzione Islamica dell’Iran, e da essa trae ispirazione, ma s’inserisce in un processo di più ampia portata sia geografica sia storica. Il suo effetto sarà la nascita d’una nuova civiltà islamica, improntata all’islamismo moderato e al rifiuto dell’occidentalizzazione.

 
Il problema del Kashmir: un confronto con lo Xinjiang e qualche possibile soluzione

Anand Pratap Singh

L’India amministra oggi circa il 43% del Kashmir, ma il governo indiano su queste aree è contestato dal Pakistan, il quale controlla circa il 37% della regione, vale a dire l’Azad Kashmir e le zone settentrionali di Gilgit e Baltistan. Una piccola porzione di Kashmir è controllata infine dalla Cina. Nell’articolo si prendono in esame gli interessi geopolitici di India, Pakistan e Cina collegati alla regione del Jammu e Kashmir. Si effettua inoltre un confronto tra come l’India ha gestito la questione del Kashmir e come la Cina quella dello Xinjiang. Affinché si trovino pace e sicurezza in Kashmir, è necessario interrompere i sospetti tra le tre parti che da tempo condizionano le loro relazioni, così come sono necessari contemporaneamente una più ampia autonomia per il popolo del Kashmir.

 
I BRICS e la ricerca di un nuovo ordine mondiale

Zorawar Daulet Singh

I BRICS incarnano la speranza di costruire un’alternativa al sistema di governance mondiale, nato dopo la Seconda Guerra Mondiale e guidato da USA, Europa e Giappone, ormai in crisi e screditato. Sono errati i moniti degli analisti occidentali, secondo cui l’alternativa all’unipolarismo sarebbe solo il caos, o che vedono nei BRICS la forza in grado di sorreggere la globalizzazione senza intaccare il predominio occidentale. È altresì vero che i BRICS non potranno rimpiazzare gli USA come egemone, dal momento che alla potenza economica non corrisponde una pari forza militare; né i BRICS potranno costruire una vera alternativa di governance mondiale finché non riusciranno a risolvere i loro squilibri interni e di gruppo.

Gli autori:

LUCA BIONDA Direttore Programma “Sistema Italia” dell’IsAG
AYMERIC CHAUPRADE Direttore di “Realpolitik.tv”, già professore di Geopolitica all’École de Guerre
ALEKSEJ G. ČERNYŠOV Professore di Politologia e preside della Facoltà di Tecnologie sociali (Università di Economia e Commercio di Mosca (RGTEU)
EMILE CHAPUIS Giornalista
DARIO CITATI Ricercatore associato e direttore del Programma “Eurasia” dell’IsAG, dottorando in Slavistica (Università La Sapienza di Roma)
ZORAWAR DAULET SINGH Ricercatore presso il Center for Policy Alternatives di Nuova Delhi
VLADIMIR A. DERGAČËV Doktor nauk in Scienze geografiche
EMIDIO DIODATO Professore associato in Scienze politiche (Università per Stranieri di Perugia)
TIBERIO GRAZIANI Presidente dell’IsAG, direttore di “Geopolitica”
VLADISLAV GULEVIČ Analista del Centro di Studi Conservatori, Università Statale di Mosca
CARLO JEAN Generale dell’Esercito Italiano, docente alla Link Campus University (Roma)
PHIL KELLY Docente di Scienze politiche (Emporia State University, Kansas, USA)
ERNEST G. KOČETOV Presidente dell’Accademia Pubblica di Scienze Geoeconomiche e Globalistiche
MEHDI LAZAR Ispettore del Ministero dell’Istruzione francese. Dottore in geografia presso l’Università Panthéon Sorbonne, laureato al Centre d’Etudes Diplomatiques et Stratégiques e all’Institut Français de Géopolitique.
MATTEO MARCONI Docente di Geografia politica ed economica (Università La Sapienza di Roma), direttore del Programma “Teoria geopolitica” dell’IsAG
WANG NING Professore di Letteratura comparata e direttore del Centro di Letterature comparate e studi culturali all’Università Tsinghua di Pechino, titolare della Cattedra Zhiyuan di Lettere e filosofia presso l’Università Jiatong di Shanghai
GHORBANALI POUR MARJAN VARJOVI Consigliere per gli affari culturali dell’Ambasciata della Repubblica Islamica d’Iran in Italia
ANAND PRATAP SINGH Dipartimento di Scienza politica, Babasaheb Bhimrao Ambedkar University, Lucknow (India)
GEOFFREY SLOAN Direttore del Graduate Institute for Political and International Studies (GIPIS), Università di Reading
ROBERT STEUCKERS Direttore di “Synergies européennes”
ALESSIO STILO Dottore in Relazioni internazionali (Università degli Studi di Messina)
FRANÇOIS THUAL Docente presso il Collège interarmées de défense e la École Pratique des Hautes Etudes

 

Putin the Peacekeeper

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Putin the Peacekeeper

 

By Jamie Wendland

Whenever US President Barack Obama, walks into a room with Russian President Vladimir Putin, his entire demeanor suddenly changes. Far from leader of the free world, he appears more like a mischievous schoolboy.

Gone in an instant is the cocky confidence, arrogance and smooth talk. Before Obama sits a man he cannot charm, he cannot outsmart, he can neither bamboozle nor dazzle. To Putin, Obama is a pipsqueak and an inconvenience he can manage. Vladimir Putin is reminiscent of the glaring, high school tough guy at the end of the hall, just daring some punk to take him on. But Obama, the undersized bully of the defenseless and helpless, has the fear and good sense not to cross him.

Since the end of the cold war, it's been an interesting turn of events and a journey which led to the current, awkward, set of affairs for both nations. Truth be told, regardless of all the threats and saber rattling over a possible strike on Iran, it's probably the safest country on earth right now, thanks to Vladimir Putin.

Under Bush and Obama, the US are now the Imperialist warmongers and Russia the peacemakers. Besides ending the Chechnya War, the only other significant military action by Russia in the past ten years has been intervening at tiny South Ossetia's request and driving out the aggressor Georgia (contrary to US pro-Georgia propaganda).

The dissolution of The Soviet Union also meant South America was no longer a military or financial priority to the US.  Furthermore, Russia was a fledgling democracy itself at the time, and in no position to influence the region either. Throughout the nineties and with minimal outside interference, South America had found herself. By 2000, they had begun to shift left, stabilized by Russia. By the end of 2001, while the US was further diverted by events of 9/11 and its "war on terror," Putin and Russia seized a wide open opportunity. It was a wise investment, as by 2010 South America had become an emerging superpower and, overall, a grateful Russian Ally. The same could be said of Africa where, in the past ten years, Russia has become a major player, rivaling China.

The US became near obsessive over toppling Saddam Hussein in Iraq and conquering phantoms in Afghanistan. Meanwhile, Russia wisely invested heavily in developing nations. The election of Nobel Peace Prize winner and Democrat Messiah Barack Obama brought even more diplomatic opportunities for Putin. Russia carpet bombed the Mideast and Asia with diplomats, treaties and aid, but America spread only more war. Obama found that not only could he embrace the entire Bush Doctrine; he could build upon it with very little opposition at home.

Let's not forget Israel's blood thirsty Netanyahu, who was more than eager to capitalize on Obama's inexperience and ego. Under this influence, Obama moved forward with Zionist ambitions, along with our own Imperialist agenda. Initiating a surge in Afghanistan, he shuffled troops through Iraq, destabilized Egypt and escalated drone attacks in Pakistan, Yemen, and Somalia. But, puffed with pride and seemingly politically infallible, he crossed the line, and Vladimir Putin, by shamefully and merciless fabricating and funding a NATO attack on Libya.

Not only did Obama escalate a manageable situation into full blown civil war and totally destroy and destabilize a thriving, prosperous nation, his administration encouraged the torture and murder of a valued Russian ally, Muammar Qaddafi. As further brash insult, Obama also used Al Qaeda operatives to spread his idea of "Arab Spring" to Syria, where reforms were already underway. But before he could bully NATO into further expanding his empire, Obama not only found himself toe to toe with that tough guy, but also faced with an opened door to a dark, back parking lot.

Putin's message to Obama is loud and clear: If you want WWIII on your conscience, just keep it up.

The US has been asleep at the wheel. Blinded by our obsession with terrorism and arrogance, we're spreading war and initiating terrorist drone attacks, while Russia has been diplomatically and quietly building coalitions and allies. To further sweeten the Putin pot, as the US rants about China taking the very jobs and industries Bill Clinton willingly handed them, he's been wooing them into the Russian fold, as well. Even US "liberated" Iraq is savvy enough to ally itself with the winning side by currently negotiating a relationship and an arms deal with Russia.

In the case of Iran, Obama and Netanyahu are basically nothing more than a pair of schoolyard big mouths, hurling idle threats. It's almost comical watching these two class clowns double-dog daring each other into challenging Putin, with such ridiculous antics as waving graphics of cartoon bombs. This impotence is evidenced by current US military policy. If Iran really is the pressing threat and Syria such a barbaric state, why are there no drone strikes or Special Forces raids? Because American Imperialism has reached a suffocating impasse smothered by the wings of Mother Russia, we're confined to the same insignificant countries we've been assaulting all along.

The US finds itself in a situation where it can only recycle the same wars in the same places; Yemen, Somalia, Afghanistan and Pakistan.  We'll threaten Iran, but keep on bullying the defenseless little guys. We'll point to the perpetual elimination of the apparently very resilient Al Qaeda, "number two," as evidence of true success. The US is forced into a position of distancing from Israel and seeking a diplomatic solution in the region. In the end, the eventual peace may very well be credited to this schoolboy in disgrace. However, while Obama may be the one with another Nobel Peace Prize gathering dust, it will be Vladimir Putin, Peacekeeper, who brought it about with a sneer.

Jamie Wendland

 
 

dimanche, 18 novembre 2012

La face cachée des révolutions arabes

Les «printemps arabes» ont inventé la guerre «low cost» : la face cachée des Révolutions Arabes

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/

Entretien avec Ahmed Bensaada

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Les bouleversements qui caractérisent depuis plus de deux ans de nombreux pays du monde arabe sont diversement analysés. Pour certains, ces «révolutions» ne sont ni plus ni moins que le produit de laboratoires spécialisés dans la déstabilisation d’États de la région dont les politiques gênent les intérêts des puissances occidentales et des États-Unis en particulier. Pour d’autres, elles sont la conséquence de régimes dictatoriaux à bout de souffle. Ahmed Bensaada, chercheur au Canada, plaide en faveur d’une lecture qui ferait la synthèse entre les deux thèses.

  • Un livre va sortir bientôt sur la question des printemps arabes. De quoi s’agit-il ?

Le livre dont il est question s’intitule « La face cachée des révolutions arabes ». Publié par les éditions Ellipses, il sortira à Paris le 4 décembre 2012. Cet ouvrage, auquel j’ai contribué, est un livre collectif dirigé par M. Éric Denécé, directeur du Centre Français de Recherche sur le Renseignement (CF2R). Pas moins de 24 auteurs de différents horizons y ont participé, ce qui en fait un ouvrage très riche et très bien documenté qui contribuera très certainement à la compréhension de ce qui est communément appelé le « printemps arabe ». Ainsi, on pourra y lire des textes écrits par aussi bien des chercheurs que des journalistes, des philosophes ou des politiques.

Le livre est structuré en 3 parties : a) Analyse et déconstruction des révolutions nationales, b) Le rôle majeur des acteurs étrangers et c) Les conséquences internationales du printemps arabe.  Cela en fait un des premiers ouvrages avec une vue d’ensemble sur les différentes facettes des révoltes qui ont secoué les rues arabes depuis près de deux ans.

 

Vous pouvez consulter des extraits du livre « La face cachée des révolutions arabes » en cliquant sur le lien ci-dessous

 

  • Vous y contribuez: quelle thèse défendez-vous ?

La thèse que je défends est celle de l’implication des États-Unis dans les révoltes de la rue arabe par l’intermédiaire d’un réseau d’organismes américains spécialisés dans l’ « exportation » de la démocratie. À ce titre, on peut citer l’United States Agency for International Development (USAID), la National Endowment for Democracy (NED), l’International Republican Institute (IRI), le National Democratic Institute for International Affairs (NDI), Freedom House (FH) ou l’Open Society Institute (OSI). Ce sont d’ailleurs ces mêmes organismes qui ont contribué à la réussite des révolutions colorées qui se sont déroulées dans certains pays de l’Est ou des ex-Républiques soviétiques : Serbie (2000), Géorgie (2003), Ukraine (2004) et Kirghizstan (2005).

L’implication américaine peut se diviser en deux volets distincts mais complémentaires : un concernant le cyberespace et l’autre l’espace réel. Le premier consiste en la formation de cyberactivistes arabes (faisant partie de ce qui est communément appelé la « Ligue arabe du Net ») à la maîtrise du cyberespace. La seconde est relative à la maîtrise des techniques de lutte non-violente théorisées par le philosophe américain Gene Sharp et mise en pratique par le « Center for Applied Non Violent Action and Strategies » (CANVAS), dirigé par d’anciens dissidents serbes qui ont participé aux révolutions colorées.

Les arguments ainsi que des dizaines de références sont présentés aussi bien dans mon livre « Arabesque américaine : Le rôle des États-Unis dans les révoltes de la rue arabe » (Éditions Michel Brûlé, Montréal, 2011; Éditions Synergie, Alger, 2012) que dans un chapitre intitulé « Le rôle des États-Unis dans le printemps arabe » du nouveau livre à paraître : « La face cachée des révolutions arabes ». À noter que dans ce second ouvrage, certaines informations ont été mises à jour alors que d’autres concernant la Libye et la Syrie ont été ajoutées. En effet, à la sortie du premier livre, les révoltes dans ces deux pays n’en étaient qu’à leurs débuts.

  • Qu’est-ce qui fait dire aujourd’hui que les « printemps arabes » ont été conçus dans des laboratoires en dehors de toute volonté des peuples alors qu’il y a dans les pays de la région un véritable problème de gouvernance et de déficit démocratiques?

Certes, ce ne sont pas les États-Unis qui ont provoqué le « printemps » arabe. Les révoltes qui ont balayé la rue arabe sont une conséquence de l’absence de démocratie, de justice sociale et de confiance entre les dirigeants et leur peuple. Tout ceci constitue un « terreau fertile » à la déstabilisation. Ce terreau est constitué de femmes et d’hommes qui ont perdu confiance en leurs dirigeants dont la pérennité maladive ne laisse entrevoir aucune lueur d’espoir. Pour eux, la fin justifie les moyens.

Cependant, l’implication américaine dans ce processus n’est pas anodine, loin de là. Les sommes investies, les formations offertes, l’engagement militaire et les gesticulations diplomatiques de haut niveau le confirment. D’ailleurs, cette implication n’a pas commencé avec les soulèvements de la rue arabe, mais bien avant. Par exemple, on estime qu’entre 2005 et 2010, pas moins de 10 000 Égyptiens ont été formés par les organismes cités précédemment. Ces organismes ont déboursé près de 20 millions de dollars par an en Égypte, montant qui a doublé en 2011. C’est d’ailleurs pour cette raison qu’en 2012, certains de ces organismes ont été poursuivis par la justice égyptienne qui les a accusés de « financement illicite ». Rappelons à ce sujet que 19 américains ont été impliqués dans cette affaire dont Sam LaHood, le directeur Égypte de l’IRI et fils du secrétaire américain aux Transports Ray LaHood.

  • Qu’est-ce qui fait qu’on « emballe » dans le même sac des « printemps » qui ne s’expriment pas de la même façon selon que l’on soit en Égypte où le processus qui a mis à terre Moubarak et son régime a bien fonctionné ou en Syrie, un pays qui risque aujourd’hui le morcellement ?

Il est vrai que les révoltes ont chacune leur propre dynamique. Celles qui ont touché la Tunisie et l’Égypte sont assez similaires. Par contre, bien qu’ayant débuté de manière semblable aux deux premières, les révoltes libyennes et syriennes se sont rapidement transformées en guerres civiles « classiques » avec une ingérence étrangère ostensible. Il faut néanmoins souligner que les États-Unis ont joué un rôle central dans tous ces cas, même si dans les deux derniers la collaboration de certains pays de l’OTAN (France, Grande-Bretagne, Turquie) et arabes (Qatar et Arabie Saoudite) a été importante.

De l’analyse des révoltes du « printemps » arabe, deux leçons peuvent être tirées. La première est que les pays occidentaux (aidés par des pays arabes collaborateurs) peuvent contribuer à changer les régimes et les gouvernements arabes avec un risque quasi-nul de pertes humaines et un investissement très rentable. En Libye, par exemple, des dizaines de milliers de personnes ont été tuées alors que les pertes occidentales sont nulles malgré les dizaines de milliers de frappes aériennes des forces de l’OTAN. D’autre part, le ministre de la défense français avait mentionné que le coût total de l’opération en Libye pour la France pourrait être estimé à 320 millions d’euros au 30 septembre 2011. Des broutilles si on compare ces chiffres avec, par exemple, le coût de l’intervention occidentale en Irak et en Afghanistan où les pertes en vies humaines des coalisés et leurs investissements ont été beaucoup plus conséquents. Avec le « printemps arabe », le concept de guerre « low cost » vient d’être inventé. Évidemment, le faible coût est pour les Occidentaux et non pour les Arabes.

La seconde leçon à méditer est que les pays occidentaux peuvent passer, sans états d’âme, d’une approche non-violente à la Gene Sharp à une guerre ouverte (sous l’égide de l’ONU ou non) avec les moyens militaires de l’OTAN, tout en brandissant, de temps à autres, l’épouvantail de la Cour pénale internationale (CPI).

  • Ne sommes-nous pas dans la thèse du « complot ourdi par l’Occident »?

Le développement d’une thèse sur le rôle des États-Unis dans les révoltes arabes est triplement problématique pour un auteur. Primo, cela peut lui faire porter l’étiquette d’un anti-Américain paranoïaque hanté par des visions conspirationnistes. Secundo, cela risque de le faire passer pour un protecteur, voire un admirateur d’autocrates tyranniques et de dirigeants mégalomanes qui n’ont que trop longtemps usurpé le pouvoir. Tertio, il n’est pas impossible qu’il se fasse taxer d’ennemi de la « noble et grandiose révolution du peuple ».

En fait, dès que le discours d’un intellectuel est différent de celui des médias majeurs, on l’accuse automatiquement de « flirter avec la théorie du complot ». Dans le cas précis des révoltes arabes, le complot vient plutôt de ces médias « mainstream » qui veulent nous faire croire à la spontanéité des révoltes arabes. Je vous rappelle la citation de F.D. Roosevelt : « En politique, rien n’arrive par hasard. Si quelque chose se produit, vous pouvez parier que cela a été planifié ainsi ». Les informations contenues dans les deux livres sont basées sur des faits dont toutes les références sont vérifiables. Je vous rappelle aussi que les médias majeurs qui créent et diffusent l’information proviennent des pays impliqués dans la « printanisation » des Arabes. Ils donnent tous le même son de cloche en hissant un des belligérants (celui qui est contre le gouvernement en place) au rang de héros et en affublant l’autre du rôle du bourreau. La vérité est beaucoup plus complexe et ne se résume pas à un portrait dichromatique en noir et blanc. Un travail journalistique intègre et honnête s’évertuerait plutôt à analyser les différents tons de gris.

L’autre galéjade véhiculée par ces médias veut que ce qui intéresse les Occidentaux, c’est apporter la bonne parole dans ces pays sous forme de démocratie. Dans ce cas, pourquoi ces mêmes Occidentaux n’aident-ils pas les citoyens du Bahreïn à jouir, eux aussi, de la démocratie alors que cela fait des mois que la révolte secoue ce royaume? Et ces pays comme le Qatar et l’Arabie Saoudite qui veulent instaurer la démocratie dans les pays arabes, ne devrait-ils pas commencer par eux-mêmes?

Ainsi, tant que les journalistes de ces médias ne feront pas leur travail correctement, c’est à des personnes comme nous, sans affinité quelconque avec les belligérants, que revient la tâche de démêler l’écheveau de la vérité.

 

Ahmed Bensaada,  Entretien réalisé par Nordine Azzouz (Journal « Reporters »)

Auteur : « Arabesque américaine : Le rôle des États-Unis dans les révoltes de la rue arabe ». Éditions Michel Brûlé, Montréal, 2011; Éditions Synergie, Alger, 2012.

Coauteur : « La face cachée des révolutions arabes ». Éditions Ellipses, Paris. Date de sortie : le 4 décembre 2012.

jeudi, 15 novembre 2012

Syrie : Erdogan/Netanyahu, même combat ?

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Syrie : Erdogan/Netanyahu, même combat ?

Louis DENGHIEN
 
 

Lundi, des chars israéliens ont riposté à la chute d’un obus de mortier syrien sur le Golan occupé. Ces tirs israéliens, apparemment les troisièmes en 48 heures, n’auraient fait aucune victime, alors que selon des sources militaires  le précédent incident aurait touché une position d’artillerie syrienne.

Des obus politiques

Quoiqu’il en soit, on a l’impression que Tel-Aviv  marche dans les pas d’Ankara. Il nous semble d’ailleurs que Netanyahu est dans la même démarche qu’Erdogan : ses obus sont politiques, au sens de la politique intérieure. Au moment où la tension repart sur la frontière de Gaza, le tandem Netanyahu/Barak se veut le défenseur intransigeant de la sécurité israélienne, et en ce qui concerne le Golan, le message (les obus) est destiné autant à l’opinion israélienne (sollicitée d’ici deux ou trois mois pour des législatives anticipées) qu’à Bachar al-Assad. Et, tout comme son alter ego (et allié objectif) Erdogan, Netanyahu ne veut pas la guerre, mais sauver ou maintenir la face, diplomatiquement et politiquement. C’est bien pourquoi, comme sur la frontière turque, les obus n’annoncent aucune opération militaire majeure. Le fait est que ni Damas ni Tel-Aviv n’ont intérêt à un embrasement en l’état actuel des choses.

Cette évidence n’empêche pas certains analystes français – tendance idéologie dominante – de parler de provocation et de stratégie de la tension de la part du pouvoir syrien : ce dernier, en mauvaise posture intérieure, tenterait d’effrayer ses voisins par un esquisse ou une menace d’extension du conflit. Ca conforte la thèse mainstream, un peu fatiguée mais irremplaçable pour notre caste médiatique, du caractère dangereux et diabolique du pouvoir syrien. Mais ça ne correspond pas à la réalité.

Soldats syriens dans un quartier d’Alep, photographiés le 12 novembre : ceux-là, et aussi la grande majorité des Syriens, ne sont pas touchés par la propagande de l’OSDH et de l’AFP, qui mouline à vide depuis des mois…

Triple échec militaire, diplomatique et politique de l’opposition

D’abord, le dit pouvoir n’est pas aux abois :

-Militairement, il a contenu partout les soi-disant offensives de la rébellion : à Alep et Maarat al-Numan, par exemple, il continue de regagner du terrain, ce que reconnait d’ailleurs l’article de l’AFP de ce mardi matin ; et, faisant fi des gesticulations d’Erdogan, il poursuit ses opérations dans le secteur frontalier nord-est, bombardant notamment le poste-frontalier de Rass al-Ain.

À Damas, les scribes de l’OSDH et de l’AFP ont bien du mal à entretenir la fiction d’une nouvelle bataille, en transformant des attentats à la bombe, des assassinats ciblés et des incursions et tirs de mortiers sporadiques à Tadamone, à Harasta et dans la périphérie sud de la capitale en une nouvelle offensive décisive de la rébellion. On ne prend pas Damas avec quelques centaines de desperados, quand plusieurs milliers ont échoué en juillet/août dernier.

Il est vrai que le patron de l’OSDH Rami Abdel Rahmane (marchand de jeans à Coventry dans le civil) est plein de ressources, et trouve presque toujours quelque chose pour relancer sa machine propagandiste. Ainsi, voici quelques jours, il annonçait la « prise » de trois nouvelles villes frontalières par les milices kurdes. Tout est dans les mots : d’abord, il faut vraiment beaucoup agrandir une carte satellite de le Syrie pour qu’apparaissent enfin les « villes » en question : Ar Darbasiyah et Amouda sont en fait de petites bourgades effectivement situées sur la frontière turque, à quelques kilomètres à l’ouest de la ville (une vraie ville, elle), de Qamichli, capitale de fait du « Kurdistan syrien« . Ensuite, rien de nouveau sous le soleil : on sait bien que Damas a négocié un retrait de cette région au profit des milices du PYD kurde-syrien, qui s’opposent très concrètement, à Alep et dans plusieurs secteurs frontaliers avec la Turquie, aux opérations de l’ASL et des islamistes. L’armée et l’administration de Damas restant présentes dans les grandes villes d’ar-Raqqah et d’al-Hassake, et continuant à mener des opérations en certains ponts de cette frontière nord-orientale, notamment dans le secteur de Tal al-Abyad, poste-frontière situé à une cinquantaine de kilomètres au nord d’ar-Raqqah, ou encore, on vient de le voir, à Rass al-Aïn.

Ca ne veut pas dire que la montée en puissance du PYD, allié au PKK, ne pose pas de problème ou de question à l’unité de la Syrie, mais c’est un problème qui doit être négocié après que sera atteint l’objectif prioritaire : l’éradication de la rébellion « atlanto-islamiste ».

Au-delà du « buzz » propagandiste quotidien, on en revint toujours à cette « vérité structurelle » : tout simplement, les distorsions, exagérations et mensonges peuvent fournir à la grande presse française – apparemment la meilleure cliente de l’OSDH – sa ration quotidienne (encore que bien anémiée depuis des semaines) de titres sensationnels et pro-opposition, ils n’en sont pas moins impuissants à transformer la réalité. Et la réalité, c’est que les bandes armes ne peuvent atteindre aucun objectif majeur, ni le conserver quand par hasard ils l’ont atteint ; tout au plus peuvent-ils s’accrocher, au prix de pertes sensibles, à leurs positions : on le voit sur les deux principaux front du moment, à Alep et à Maarat al-Numan, où ils reculent « irrésistiblement » et subissent des saignées.

-Diplomatiquement, la situation du gouvernement syrien n’est pas aussi mauvaise que le disent (et le rêvent) les haut-parleurs – syriens et occidentaux – de l’opposition : la nouvelle Coalition nationale de l’opposition (englobant et maquillant un CNS démonétisé) a sans surprise été reconnue par les divers émirs et roitelets du Golfe, ainsi que par les Américains et leurs principaux suiveurs européens. Mais la Ligue arabe n’a pu, elle, masquer des dissensions à ce sujet : l’Algérie et l’Irak ont exprimé des « réserves » sur la légitimité de cette opposition repeinte à grands frais par le Qatar ; et l’on sait que d’autres pays arabes, comme le Liban, la Mauritanie, voire Oman et le Yémen, sont eux aussi réservés quant à la politique syrienne de la Ligue, quoique plus discrètement. Et que le Qatar et l’Arabie séoudite n’ont pu empêcher Morsi, en Égypte,de se rapprocher de l’Iran.

Et, de toute façon, les gesticulations de Doha n’impressionnent pas la Russie qui a tout de suite demandé à la nouvelle structure de négocier avec Bachar, ce qu’elle a aussitôt refusé.

-Enfin, et on serait tenté de dire surtout, l’opposition radicale a perdu politiquement en Syrie : son radicalisme religieux, sa dimension étrangère, son indifférence nihiliste aux dégâts qu’elle cause partout où elle est en situation de le faire, lui ont aliéné une bonne part de ses  soutiens populaires initiaux. Même des opposants déterminés au régime ont commencé à entrevoir que les bandes armées (la vraie opposition de terrain depuis longtemps) ne sont plus dans une stratégie de révolution, mais de djihad et de terrorisme : sous l’empire des faits, le nihilisme et le fanatisme religieux ont remplacé le projet politique, si tant est qu’il ait jamais fait l’objet d’un consensus entre l’opposition exilée et les différents groupes armés.

Tout cet article pour dire, ou plutôt pour redire, que, en dépit de tout ce qui peut être dit ou écrit par les nomenklaturistes des médias français, l’opposition syrienne manipulée par les émirs et les néoconservateurs transatlantiques est dans une impasse totale. Et qu’elle ne peut que continuer à mener, mécaniquement, qu’une guerre de déclarations, d’annonces et de non événements, en parallèle avec la guerre d’attentats et de coups de mains de ses « troupes » sur le terrain. Les soldats syriens, la majorité du peuple syrien , et bien sûr le gouvernement syrien se moquent des communiqués de l’OSDH, des articles de l’AFP et même des gesticulations diplomatiques de l’Occident.

Louis Denghien sur Infosyrie

mardi, 13 novembre 2012

Le golfe Persique : entre histoire millénaire et conflits actuels

Le golfe Persique : entre histoire millénaire et conflits actuels

par Sarah Mirdâmâdi

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/  

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1) Le golfe Persique : entre histoire millénaire et conflits actuels

Le Golfe Persique (khalidje fârs en persan) a une riche histoire datant de plus de cinq millénaires. Carrefour commercial et lieu d’échange permanent entre Orient et Occident, il est devenu, à la suite de la découverte des premiers gisements de pétrole il y a à peine plus d’un siècle, une zone stratégique au centre de tensions et d’enjeux économiques et géopolitiques sans précédent au niveau régional et international. Plus récemment, le nom même de ce golfe a été l’objet d’une importante controverse ayant entraîné des réactions en chaîne et des tensions politiques entre certains pays arabes et pro arabes l’ayant rebaptisé « Golfe Arabique » ou plus simplement « le Golfe », et les Iraniens faisant valoir la dimension historique irréfutable de l’appellation de « Golfe Persique ».

Cette étendue maritime s’étend sur une surface d’environ 233 000 km². Sa limite occidentale est marquée par le Shatt el-Arab ou « Arvand Roud » en persan, et par le détroit d’Ormoz et le Golfe d’Oman à l’est. Le Golfe Persique borde les côtes de l’Iran, de l’Irak, de l’Arabie Saoudite, de Bahreïn, du Koweït, des Emirats Arabes Unis ainsi que du Qatar. Il mesure environ 1000 km de long et 200 à 350 km de large, avec une profondeur moyenne d’environ 50 m, la profondeur maximale ne dépassant pas 100 mètres. Il est en partie alimenté par divers fleuves iraniens et irakiens, ainsi que par les eaux de l’Océan indien poussées par les courants et pénétrant dans le Golfe par le détroit d’Ormuz.

Historique

Le Golfe Persique a été sous l’influence de nombreuses cultures antiques dont les cultures sumérienne, babylonienne et perse. Les premières traces de civilisation datent de plus de cinq millénaires, lors de l’émergence du royaume de Sumer dans la basse Mésopotamie antique (Sud de l’Irak actuel) puis, au 3e millénaire av. J.-C., du royaume d’Elam situé en bordure du Golfe Persique, au sud-ouest de l’Iran actuel. La conquête du royaume de Babylone par les Perses au VIe siècle av. J.-C. et l’extension considérable de l’empire achéménide qu’elle entraîna consacra l’influence perse dans la zone. Cette prédominance fut ensuite maintenue par les Séleucides, les Parthes et les Sassanides, qui étendirent l’influence perse sur les régions côtières arabes de l’ouest, notamment au travers de nombreux flux de migrations perses. Ceci participa notamment au renforcement des échanges et des liens entre les côtes est et ouest du Golfe Persique.

Cependant, le Golfe Persique semble ainsi avoir été le cœur d’importants échanges commerciaux dès l’époque des Assyriens et des Babyloniens. Après avoir connu un certain déclin sous l’Empire romain, notamment du fait de l’importance accrue de la Mer Rouge, il acquit de nouveau une importance commerciale durant le règne des Sassanides, ainsi que sous le califat Abbaside de Bagdad, au milieu du VIIIe siècle. Ainsi, le port de Sirâf en Iran fut l’une des principales plaques tournantes commerciales régionales aux IXe et Xe siècle. Si la chute du califat abbaside et l’influence mongole qui se développa dans la zone au XIIIe siècle marquèrent un certain déclin de la zone, et une réduction considérable du volume des échanges, une certaine « renaissance commerciale » eut lieu à partir du XVIe siècle, avec la hausse de la demande européenne pour les produits d’orient – notamment les épices – et l’extension considérable de l’influence du Portugal dans la zone. Celle-ci qui se traduisit notamment par le contrôle de nombreux ports dont plusieurs situés au sud de l’Iran, des îles de Qeshm et d’Ormuz – où l’on peut d’ailleurs encore visiter les ruines des citadelles portugaises d’antan – ainsi que, sur la côte Ouest, le contrôle de Bahreïn, Mascate, et du Qatar actuels. Leur domination fut par la suite remise en cause par les Safavides sur la côte est, et quelque peu fragilisée par le développement de l’influence ottomane sur la côte ouest à la suite de la conquête de l’Irak, qui ne parvint pas pour autant à s’emparer des places fortes portugaises de la zone. Aux XVIIIe et XIXe siècles, sous prétexte d’endiguer le développement de la piraterie dans la zone, l’Angleterre parvint à asseoir sa domination sur la majorité des places commerciales de la zone ainsi qu’à contrôler l’exportation des marchandises de ses colonies vers l’Europe. Au début du XXe siècle, elle renforça sa présence notamment en s’assurant une véritable mainmise sur l’exploitation des gisements pétroliers, récemment découverts dans la zone [1], au travers de l’Anglo-Iranian Oil Company, convertissant le Golfe Persique en un enjeu géostratégique sans précédent. D’autres gisements furent ensuite découverts du côté ouest, et leur exploitation connut une croissance exponentielle après la Seconde Guerre mondiale, ces derniers étant pour la majorité contrôlés par les Etats-Unis. L’influence anglaise connut une fin brutale en Iran avec la tentative, avortée, de nationalisation de l’industrie pétrolière par Mossadegh, même si elle fut maintenue au sein de nombreux Etats bordant la zone, notamment les Emirats Arabes Unis actuels, le Koweït, Oman ou encore le Qatar.

Ressources naturelles et enjeux stratégiques

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Œuvres naturelles réalisées à partir de sable et de pierres à l’occasion d’un festival artistique environnemental sur le Golfe Persique

De par sa position stratégique et ses nombreuses ressources naturelles, la région fut constamment au centre d’enjeux et de conflits d’intérêts divers. Dès le 3e millénaire avant J.-C., outre son rôle de lieu de transit des marchandises, tout un commerce s’organisa autour de la vente des perles présentes dans les eaux du Golfe Persique, qui concentre sans doute les lits d’huîtres perlières les plus anciens de l’humanité. A titre d’anecdote, le plus ancien collier de perles ou « collier de Suse » jamais retrouvé aurait ainsi appartenu à une reine de la Perse Antique et daterait d’environ 2400 ans. Ce fut néanmoins la découverte des premiers gisements de pétrole qui provoqua une véritable révolution économique et commerciale dans la zone, et conféra au Golfe Persique l’importance stratégique majeure dont il jouit aujourd’hui. Outre Al-Safaniya, le plus grand champ pétrolier du monde, cette zone détient également d’importantes réserves de gaz.

En outre, le Golfe Persique recèle une faune et une flore très riches, notamment de nombreux récifs de coraux et des huîtres. Cependant, ces dernières ont considérablement été endommagées par l’exploitation excessive du pétrole ainsi que par les récentes guerres ayant affecté la région, que ce soit la guerre Iran-Irak (1980-1988) ou, plus récemment, la deuxième guerre du Golfe (1990-1991), ou encore l’invasion américaine en Irak en 2003.

En 1985, un Conseil de Coopération du Golfe a été créé à Abu Dhabi, sous la pression des Etats-Unis, et dont les membres sont composés de six pays arabes de la zone. Outre son objectif de maintenir une certaine stabilité économique et politique dans la zone, le but ultime de cet organisme, qui était de créer un marché commun dans la zone, a été atteint en janvier 2008 avec la mise en place du Marché Commun du Golfe. Plus officieusement, cette structure vise également à contrer l’influence iranienne dans la région et avait également pour but, avant sa chute, de limiter celle du régime baasiste de Saddam.

Golfe Persique ou Golfe Arabique ? Les raisons d’un conflit

L’influence perse millénaire dans la région a conduit depuis des siècles l’ensemble des géographes, historiens, archéologues et voyageurs de tous horizons à qualifier de « Persique » cette étendue maritime, comme l’attestent les documents historiques et cartographiques des époques passées. Si des documents historiques datant de l’époque achéménide évoquant un « Golfe Persique » n’ont pas été retrouvés, ce nom semble avoir été d’usage dès cette époque. Certains récits consacrés à la narration des voyages de Pythagore évoquent également que le roi achéménide Darius Ier aurait nommé l’ensemble de cette étendue maritime la « Mer de Pars ».

Si, comme nous l’avons évoqué, l’appellation de « Golfe Persique » fit l’objet d’un vaste consensus durant des siècles, dans les années 1960, l’émergence du panarabisme et le renforcement des rivalités arabo-persanes ont incité certains pays arabes, notamment l’Arabie Saoudite et les pays situés en bordure du Golfe Persique, avec le soutien de la Grande-Bretagne, à adopter le terme de « Golfe Arabique » pour désigner cette zone. Cette tendance fut renforcée et encouragée par l’anti-iranisme de l’Occident à la suite de la Révolution islamique, ainsi que pour des motivations économiques et diplomatiques. A titre d’exemple, dans les questions de politique régionale et liées au pétrole, l’usage de l’expression « Golfe Arabique » a eu tendance à se répandre dans certains milieux officiels pro-arabes et occidentaux. Si le Bureau des Etats-Unis pour le nommage géographique (United States Board on Geographic Names) a officiellement consacré l’usage de « Golfe Persique » en 1917, l’évolution de la conjoncture internationale et certains intérêts stratégiques ont parfois rendu cet emploi flexible : ainsi, au cours des dernières décennies, les autorités américaines ont autorisé l’emploi de « Golfe Arabique » lors de la réalisation de transaction avec certains Etats arabes pétroliers, tout en proscrivant l’utilisation de l’expression de « Golfe Persique » aux Emirats Arabes Unis, après que ces derniers aient officiellement revendiqué l’appellation de « Golfe Arabique ».

Cependant, ce fut l’emploi par la National Geographic Society de l’expression « Golfe Arabique », inscrite entre parenthèses comme version alternative sous « Golfe Persique », dans la nouvelle édition de son Atlas géographique mondial en 2004 qui déclencha véritablement l’ire des Iraniens, qui se manifesta notamment par la création de nombreux sites internet et de pétitions en ligne. Ces protestations conduisirent également le gouvernement iranien à prohiber la diffusion des publications de la Société dans le pays jusqu’à la publication, à la fin de l’année 2004, d’une note de mise à jour de l’Atlas spécifiant qu’ « historiquement et plus communément connu sous le nom de Golfe Persique, cette étendue d’eau est appelée par certains « Golfe Arabique« .

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Carte de H.Bunting, 1620, Hanovre
Carte extraite de l’ouvrage Description du Golfe Persique par des Cartes Historiques, Bonyâd-e Irân shenâsi, 2007.

A la suite de cette affaire, un numéro de la revue The Economist ayant évoqué le Golfe Persique sous le simple qualificatif de « Golfe » dans l’une de ses cartes, fut également interdit de distribution en Iran. Suite à cette affaire, le gouvernement iranien a également mis en place un comité technique chargé d’examiner les conditions permettant d’interdire l’importation de marchandises diverses, – notamment des vêtements sur lesquels figure une carte de la région -, portant l’inscription de « Golfe Arabique », en Iran.

Faisant l’objet de nombreuses controverses et pétitions, l’affaire a été portée au niveau des Nations Unies qui, lors de sa 33e session en 2006, a confirmé l’appellation de « Golfe Persique » comme étant la seule appellation officielle acceptée pour cette zone et employée par l’ensemble des membres des Nations-Unies. Cette décision fut notamment appuyée par de nombreux documents historiques et cartes anciennes : ainsi, les cartes des historiens de la Grèce antique évoquent le « Limen Persikos », les Latins le nommant quant à eux le « Sinus Persicus ». Durant les premiers siècles de l’Islam, les plus éminentes figures intellectuelles de cette période tels que Aboureyhân Birouni, Massoudi, Balkhi, Khwârizmi… font tous référence au « Golfe du Fars », ou encore à la « Mer du Fars » (al-Bahr al-Farsi) ou « de Pars » pour désigner le Golfe Persique actuel. En outre, selon plusieurs documents historiques, il semble que l’expression de « Golfe Arabique » servait auparavant à désigner la mer Rouge actuelle. On retrouve notamment cet emploi dans les écrits d’Hécatée de Milet, historien grec du Ve siècle av. J.-C., ainsi que dans l’un des écrits d’Hérodote qui évoque la mer rouge en parlant du « Golfe Arabique ». D’un point de vue historique, l’appellation de Golfe Arabique ferait donc référence à une toute autre zone que celle qu’elle prétend actuellement désigner.

Le conflit n’est pas éteint pour autant, les deux expressions continuant à être utilisées abondamment de façon informelle. La majorité des pays arabes emploient ainsi l’expression « Golfe Arabique » et certains, tel que les Emirats Arabes Unis, ont même été jusqu’à interdire l’emploi de « Golfe Persique ». De nombreuses propositions de noms alternatifs ont été évoquées, comme celles de « Golfe Arabo-persique » ou tout simplement de « Golfe » qui ont été cependant loin de faire l’unanimité, particulièrement du côté iranien, qui a vu dans la dernière expression une tentative à peine déguisée, conduisant peu à peu à l’abandon du nom historique du lieu. Le « Golfe islamique » n’a également pas été retenu.

Dans le but de faire valoir les droits du nom historique du site, de nombreuses publications de cartes ou croquis anciens de grands géographes ou réalisés par des voyageurs plus ou moins connus, sur lesquelles figurent le nom de « Golfe Persique » et ses dérivations issues de différents musées, instituts géographiques, archives historiques et ouvrages anciens ont été édités en Iran au cours des dernières années. Le plus connu demeure l’ouvrage magistral intitulé Description du Golfe Persique dans les cartes historiques [2] publié en 2007 par l’Institut d’Iranologie et rassemblant de nombreuses cartes historiques d’Orient et d’Occident qui, outre leur dimension esthétique, révèlent les racines historiques indéniables de cette appellation.

 

2) Du « Sinus Persicus » au « golfe Persique »

Représentation occidentale du golfe Persique de l’Antiquité au XVIIIe siècle

L’Atlas historique du Golfe Persique a été publié en novembre 2006 en Belgique par l’édition Brepols, dans la prestigieuse collection de « Terrarum Orbis ». Cet atlas est le résultat d’une collaboration fructueuse entre l’Ecole pratique des Hautes études de Paris, l’Université de Téhéran et le Centre de documentation du ministère iranien des Affaires étrangères, dans un projet de recherche scientifique et académique qui a duré deux ans. La publication d’un atlas de cartes historiques du Golfe Persique se justifie par de nombreux motifs. La raison principale, pour les auteurs, était qu’un tel travail n’avait jamais été entrepris dans une démarche savante, malgré le grand intérêt que les historiens et les géographes ont toujours éprouvé pour cette région du monde.

L’Atlas historique du Golfe Persique contient des reproductions d’une centaine de cartes occidentales ayant contribué de manière significative à l’évolution de la cartographie du Golfe Persique aux XVIe , XVIIe et début du XVIIIe siècle.

La cartographie occidentale du Golfe Persique révèle une vérité historique importante : depuis l’antiquité gréco-romaine, cette région maritime a toujours été connue par sa nomination d’origine : le « Sinus Persicus » des Latins qui devient le « Golfe Persique » dans les langues modernes européennes.

Les Grecs

Bien qu’Hérodote n’en fasse pas mention, le Golfe Persique était sans doute connu des Grecs depuis le VIe siècle avant J.-C., principalement grâce au périple de Scylax [1] sur ordre de Darius Ier. Mais c’est l’expédition de Néarque [2], depuis les bouches de l’Indus jusqu’à l’Euphrate, qui fit véritablement entrer le Golfe Persique dans la connaissance grecque à la fin du IVe siècle. Aux IIIe et IIe siècles, Eratosthène [3] construisit par raisonnement la première carte du monde à l’échelle, en distribuant selon un réseau de méridiens et de parallèles les données empiriques recueillies auprès des voyageurs grecs. Le Golfe Persique jouait un rôle important dans cette structuration mentale de l’œcoumène fondée sur la symétrie, car il était placé sur le même méridien que la mer Caspienne considérée par les Grecs comme un golfe de l’Océan extérieur et non pas comme une mer fermée.

Les Romains

Les conditions politiques et économiques dominant au temps de l’empire romain ne furent pas favorables à la collecte de données très précises et à la formation d’un tableau beaucoup plus détaillé sur le Golfe Persique. Rome n’atteignit l’Euphrate que de façon exceptionnelle. Le commerce romain avec l’Orient passait davantage par la mer Rouge. La découverte et l’usage de la mousson, à une date indéterminée entre le Ier avant et le Ier siècle après J.-C., favorisèrent des liaisons directes entre l’Egypte et l’Inde. On retrouve donc essentiellement, chez les auteurs latins, les données recueillies par Néarque. Pour les Latins, le Golfe Persique était, tout comme la mer d’Oman, une division de l’Océan indien. Dans la représentation cartographique des Romains, après une entrée qui ressemble à un cou, le Golfe Persique se développe en prenant la forme d’une tête humaine ; la mesure de sa circonférence est indiquée dans les cartes dessinées à l’époque. Les alluvions du Tigre et de l’Euphrate ont provoqué, dans ces cartes, une avancée du littoral : les îles les mieux connues sont celles d’Icare (île de Faylakah, en face des côtes du Koweït) et de Tylos (Bahreïn) ; les huîtres perlières et le corail abondent. Cette richesse en marchandises précieuses est accompagnée d’une profusion de légendes merveilleuses : les régions voisines sont aussi celles où habitent des êtres étranges. Des monstres marins, baleines et serpents de mers, des îles dangereuses ou fantastiques complètent le tableau dressé par l’imaginaire romain.

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Carte réalisée par Yodows Hondius et Petrus Bertius, Amsterdam, 1616

Dans toutes ces descriptions, en conséquence d’une erreur remontant à Néarque, le Sinus Persicus (Golfe Persique) n’apparaît guère distinct de la mer Erythrée (mer Rouge, en grec), expression qui peut désigner aussi bien la mer Rouge que l’ensemble de l’Océan indien. D’autre part, durant le haut Moyen آge, la mare Rubrum (mer Rouge, en latin), du fait de la couleur qui la caractérisait, avait un contenu de réalité beaucoup plus riche que celui de Sinus Persicus (Golfe Persique), dont le nom renvoyait au peuple perse qui habitait ses rivages.

Le Moyen Âge

Nombre de textes médiévaux reproduisent la même structure d’ensemble des régions allant de l’Egypte à l’Inde. La mer Rouge (c’est-à-dire l’Océan indien, pour les géographes européens de l’époque) y est divisée en deux golfes : Mare Rubrum (la mer Rouge) qui sépare l’Egypte de l’Arabie, et le Golfe Persique qui sépare l’Arabie de l’ensemble formé par la Mésopotamie, la Susiane (Suse), la Perse, et la contrée de Carmanie (Kermân). En réalité, les cartes médiévales les plus anciennes, par delà leurs différences formelles, montrent la persistance des conceptions antiques dans la pensée des cartographes du Moyen آge. C’est la raison pour laquelle l’alignement Caspienne/Golfe Persique de la carte antique d’Eratosthène se repère sur beaucoup de cartes médiévales.

Au XVIe siècle : la cartographie portugaise du Golfe Persique

La cartographie occidentale du XVIe siècle est fortement influencée par les explorations d’une petite nation de marins qui est devenue, à l’époque, un acteur important de manière assez inattendue : le Portugal. Bien que d’autres voyageurs européens, et principalement italiens, aient exploré certaines régions d’Asie à la fin du Moyen آge, ce sont les expéditions portugaises qui ont transformé l’image de l’Eurasie et de l’Afrique de manière si radicale que, rapidement, celle-ci a fini par s’approcher de ce qu’elle est aujourd’hui.

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                                                                                                                                                                      Carte de Gerardus Mercator, Duisbourg, 1578

L’un des tournants les plus significatifs dans le processus d’apprentissage cartographique orchestré par les Portugais a eu lieu en 1502, lorsque la carte « Cantino » a été dessinée à Lisbonne. En réalité, cette carte était une copie illégale d’un document secret appartenant au bureau royal des affaires étrangères de la couronne portugaise.

En ce qui concerne le Golfe Persique, la carte « Cantino » est intéressante car elle montre le peu d’informations dont disposaient les Portugais sur cette région avant d’y accoster finalement eux-mêmes. Au début, les Portugais n’ont pas trouvé de cartes arabes ou perses du Golfe Persique, et ils ont donc dû s’en remettre à l’ancien modèle ptoléméen. Les voyageurs portugais avaient entendu parler des fabuleuses richesses de Hormuz, mais ils n’ont atteint le Golfe d’Oman et l’entrée du Golfe Persique qu’en 1507, quand Alfonso de Albuquerque4 a gagné la région pour la première fois. L’occupation portugaise d’Hormuz était considérée comme une étape essentielle vers le contrôle total du commerce du Moyen-Orient qui passait par la mer Rouge et le Golfe Persique.

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Carte d’Abraham Ortelius, Anvers, 1577

Les voyages et les expéditions militaires des Portugais dans le Golfe Persique ont eu un impact important sur la cartographie du Golfe Persique. Jusqu’à la fin du XVIe siècle, les Portugais étaient les seuls marins occidentaux qui naviguaient dans les eaux du Golfe Persique. Il est important de mentionner que les cartographes portugais ont continué à travailler sur de nouvelles cartes du Golfe Persique à la fin du XVIe siècle et pendant tout le XVIIe siècle. Mais les innovations les plus importantes du XVIIe siècle concernent la cartographie néerlandaise.

Au XVIIe siècle : la cartographie néerlandaise du Golfe Persique

Les Pays-Bas sont devenus le centre de la cartographie européenne, bien avant que les navires néerlandais aient accosté en Orient. Des cartographes éminents tels que Gerardus Mercator [4] et Abraham Ortelius [5] étaient originaires des ports commerciaux de Louvain et Anvers. Or, Anvers entretenait des relations anciennes avec le Portugal. Les relations étaient particulièrement solides parce que les Pays-Bas faisaient partie des territoires des Habsbourg et étaient donc liés politiquement à la péninsule Ibérique. Mercator, qui est principalement connu pour être l’inventeur de l’atlas moderne, a conçu plusieurs globes et cartes pour Charles Quint. A la même époque, cet empereur, qui était également le roi d’Espagne, a subventionné le travail de ce cartographe néerlandais.

Dans leur connaissance de l’Asie, les cartographes flamands et hollandais, tout comme les autres cartographes européens, dépendaient des Portugais qui étaient les premiers européens à obtenir des informations directes sur le terrain. Cet état de fait a persisté durant plusieurs décennies, pendant lesquelles les marchants flamands et hollandais achetaient les produits asiatiques presque exclusivement à Lisbonne et laissaient aux Portugais un monopole incontesté sur l’Océan indien. Cependant, le port d’Amsterdam était alors en train de devenir le nouveau centre du commerce européen et la cartographie fit bientôt son apparition dans cette ville prospère.

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                                                                                                                                                                                      Carte de Guillaume de L’isle, Paris, 1742

La Compagnie hollandaise des Indes orientales a été fondée en 1602. Les fonctionnaires hollandais qui voyageaient sur les navires de la Compagnie dessinaient de plus en plus de cartes. Toutefois, les données sur le Golfe Persique étaient encore presque exclusivement d’origine portugaise. Cela ne devait changer que dans les années 1640. En 1622, face à l’assaut des troupes perses, les Portugais subirent une défaite et perdirent le contrôle de l’île perse d’Hormuz. L’année suivante, la Compagnie hollandaise des Indes orientales établit un comptoir à Ispahan, capitale des Safavides, et conclut un traité commercial avec l’empereur perse Shah Abbas Ier. Les décennies suivantes sont marquées par des contacts croissants entre la Perse et les Pays-Bas. Les relations se sont détériorées en 1637 et la Compagnie hollandaise des Indes orientales a adopté une stratégie agressive à partir de 1645, imposant un blocus sur Bandar Abbas et bombardant la forteresse des Safavides sur l’île de Qeshm.

La cartographie néerlandaise du Golfe Persique a ainsi subi, au milieu du XVIIe siècle, un changement fondamental. Alors que cette activité se résumait à ses débuts à la reproduction de cartes portugaises et italiennes, elle est devenue une pratique de plus en plus innovante centrée sur le regroupement méthodique des données sur le terrain par les capitaines et les topographes.

Malgré beaucoup de hauts et de bas, le commerce et la navigation néerlandais dans le Golfe Persique ont prospéré durant le XVIIe siècle, soutenus par plusieurs missions diplomatiques réussies auprès des souverains safavides. Le commerce des Pays-Bas avec la Perse safavide n’a décliné que lors de la dernière décennie du XVIIe siècle, et ce, du fait de la crise économique générale en Perse : l’invasion afghane et la crise de la dynastie safavide en 1722 ont fini par dégrader les relations, même si les Afghans n’ont pris Bandar Abbas qu’en 1727. La Compagnie hollandaise des Indes orientales a néanmoins ouvert en 1738 un nouveau comptoir à Bushehr, et un autre en 1752 sur l’île de Kharg. Mais les Néerlandais ont dû quitter la région en 1758. Globalement, les relations entre les Pays-Bas et la Perse sont demeurées tendues pendant la plus grande partie du XVIIIe siècle.

Aux XVIIe et XVIIe siècles : la cartographie française du Golfe Persique

La France a été le premier pays à essayer de défier la domination hollandaise sur le champ de la cartographie maritime au XVIIe siècle. La cartographie des territoires d’outre-mer et des océans devenait ainsi une priorité dans le processus de la centralisation mené par Louis XIV et son ministre Colbert.

Il est cependant important de noter que la cartographie française était aussi profondément enracinée dans des traditions étrangères que celles des autres nations. En 1666, Louis XIV fonda l’Académie royale des sciences, l’équivalent français de la Royal Society anglaise. Dans la même année fut créé le corps mixte, militaire et civil, des Ingénieurs du Roi. Les cartes produites par les Ingénieurs du Roi furent publiées en 1693 dans Le Neptune Français. Le dépouillement visuel et la grande clarté et lisibilité en étaient les caractéristiques importantes. Il est intéressant de savoir que Le Neptune Français fut publié la même année à Amsterdam en trois langues différentes (français, néerlandais et anglais). Le projet avait visiblement un grand potentiel commercial.

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Carte de Pieter Van der Keere, Amsterdam, 1610

En ce qui concerne le Golfe Persique, il paraît que l’impact réel de ces développements de la cartographie française sur les cartes du Golfe Persique n’est pas tout à fait clair. En effet, la présence française dans le Golfe Persique fut fragile pendant cette période historique. Contrairement aux Portugais et aux Hollandais, les Français ne réussirent jamais à imposer une présence commerciale ou militaire permanente dans cette région. Même les contacts diplomatiques avec la Perse ne permirent jamais aux Français d’obtenir une présence importante dans la région du Golfe Persique. La première initiative diplomatique sérieuse fut prise sous le règne de Shah Abbas II, dans les années 1660. Les ambassadeurs français à Ispahan informèrent Colbert des possibilités commerciales et politiques qui s’offraient alors en Perse. Louis XIV envoya alors une ambassade en Perse, et en 1665, Shah Abbas II fit sortir un ordre concédant à la Compagnie française des Indes orientales le privilège d’ouvrir un comptoir à Bandar Abbas. Ce ne fut cependant qu’en 1669 qu’une petite flotte de trois vaisseaux français arriva à Bandar Abbas. L’un d’eux fit escale au comptoir français, tandis que les deux autres avancèrent jusqu’à Bassora.

Bien que Shah Abbas II rénova les privilèges en 1671, la Compagnie française ne fit pas de progrès sur le terrain car elle se débattait avec de sérieux problèmes financiers. Peu après, le comptoir de Bandar Abbas était abandonné. Par ailleurs, la dynastie safavide était sur le point de succomber, et sa politique commerciale décadente empêcha l’établissement de relations commerciales permanentes entre la France et la Perse jusqu’à la fin du XVIIIe siècle. Il faut cependant noter que depuis le milieu du siècle les cartes françaises du Golfe Persique s’améliorèrent de façon très considérable même si les navigations étaient occasionnelles dans la région. Ceci s’explique peut-être par une sensibilité cartographique croissante en France, plutôt que par une remontée de l’activité navale sur le terrain.

 

1) Le golfe Persique : entre histoire millénaire et conflits actuels par Sarah Mirdâmâdi pour la Revue de Téhéran

Notes

[1] Le premier gisement pétrolier fut découvert à Soleymanieh en 1908.

2) Du « Sinus Persicus » au « golfe Persique » par Babak Ershadi pour la Revue de Téhéran

Notes

[1] Scylax (VIe siècle av. J.-C.), navigateur et géographe grec, originaire du Caire. Engagé par Darius Ier, il explora les côtes du golfe Persique et de la mer Erythrée (la mer Rouge).

[2] Néarque (IVe siècle av. J.-C.), navigateur grec et lieutenant d’Alexandre, originaire de Crète. Ayant reçu le commandement de la flotte d’Alexandre, il descendit l’Indus avec l’armée, puis il entreprit une exploration des côtes de la mer Erythrée (la mer Rouge) et du golfe Persique jusqu’à l’embouchure de l’Euphrate.

[3] Ratosthène (v. 276-v. 194 av. J.-C.), mathématicien, astronome, géographe et poète grec qui mesura la circonférence de la Terre avec une surprenante précision en déterminant astronomiquement la différence de latitude entre les cités de Syène (aujourd’hui Assouan) et d’Alexandrie, en Égypte.

[4] Mercator, Gerardus (1512-1594), qui fut géographe, cartographe et mathématicien flamand. En 1568, il conçut et réalisa un système de projection de cartes qui porte maintenant son nom. Dans ce système, des lignes parallèles représentent les méridiens, et les parallèles sont des lignes droites qui coupent les méridiens à angle droit. Très utilisée en navigation, la projection de Mercator permet de tracer une route en ligne droite entre deux points sur la carte et de la suivre sans modifier la direction de la boussole.

[5] Ortelius, Abraham (1527-1598), cartographe et géographe flamand qui produisit le premier atlas moderne, intitulé Theatrum Orbis Terrarum (1570). Cet atlas contenait 70 cartes, qui constituaient la plus grande collection de l’époque. Elles représentaient ce qui se faisait de mieux à l’époque, même si beaucoup de ces cartes étaient des copies et que certaines contenaient des erreurs.

vendredi, 09 novembre 2012

Une déclaration de guerre contre la Russie?

 Une déclaration de guerre contre la Russie?

par Alexandre Latsa

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Récemment un théologien sunnite réputé, le cheikh Youssef  Qardaoui, a tenu des propos assez surprenants et plutôt inattendus, en affirmant tout simplement que “Moscou (la Russie) était devenu récemment un ennemi de l’islam et des musulmans, un ennemi numéro un (…) et que la Russie est responsable de la mort des civils en Syrie“.

Pendant son prêche prononcé à Doha (capitale du Qatar), il a dit que les pèlerins musulmans à la Mecque devaient cette année prier Dieu “pour qu’il détruise la Russie, la Chine et l’Iran qui sont selon lui les pires ennemis des musulmans et des Arabes, parce qu’ils soutiennent le régime de Bachar el-Assad par les armes“. Ce théologien avait aussi lancé une Fatwa pour l’assassinat de Kadhafi début 2011, une Fatwa qui a paradoxalement vu sa réalisation grâce aux armées occidentales.

Le cheikh Youssef al Qardaoui, qatari d’origine égyptienne, est bien connu et très populaire dans une partie du monde musulman. Radical et proche de la confrérie des frères musulmans, il considère que la “démocratie n’est simplement pas compatible avec la Charia” ou encore que “le châtiment infligé aux juifs par Hitler était la volonté de dieu et que si Dieu le veut, le prochain châtiment des juifs sera infligé par les musulmans“. Il est aussi un fervent défenseur des attentats suicides du Hamas en Israël et affirme également que l’Islam va revenir en Europe mais cette fois en vainqueur. En 2002, le cheïkh, par ailleurs président d’une instance théologique qui porte le nom de conseil européen de la fatwa et de la recherche (CEFR), avait été accueilli en grande pompe en France.

En 2004, celui-ci avait même été sollicité par l’état français pour contribuer à la libération d’otages français au Qatar. Puis le vent a tourné, et bien que la très officielle UOIF (Union des organisations islamiques de France) soit affiliée au CEFR, le cheïkh s’est vu cette année interdit de séjour en France par l’ancien président Nicolas Sarkozy en personne.

 

Ces propos inquiétants qui surviennent en plein conflit syrien illustrent parfaitement non seulement la tension qui entoure la Russie dans les franges les plus radicales du monde musulman, la guerre qui couve au sein du monde musulman, mais aussi les alliances directes, indirectes ou par ricochet qui sont en train de se créer.

Les Occidentaux qui se sont longtemps fait des illusions sur les printemps arabes peuvent désormais clairement constater à quel point la situation a basculé non pas vers un été démocratique, mais au contraire un hiver islamiste. Et pourtant, la politique du deux poids deux mesures de l’Occident n’a visiblement jamais été aussi prospère.

L’analyste français Alexandre Del Valle constatait récemment avec beaucoup d’étonnement que les puissances occidentales étaient, par exemple, promptes à appliquer leur vision droit-de-l’hommiste et interventionniste du monde pour protéger les sunnites syriens mais n’avaient visiblement pas jugé nécessaire d’intervenir contre le massacre de deux millions de chrétiens au Sud Soudan entre 1960 et 2007, par la dictature militaro-islamiste de Khartoum.

On peut en effet se demander pourquoi la Syrie est mise au ban des nations sous prétexte qu’elle serait une dictature alors que l’Arabie Saoudite ou le Pakistan sont considérés comme des Etats « normaux ». Est-ce simplement parce que les armes atomiques du Pakistan pourraient être dirigées contre l’Inde alliée de la Russie? Est-ce simplement parce que les dictatures wahhabites du Golfe sont des alliées inconditionnels de l’Amérique et ce depuis bien longtemps ? Ce sont pourtant ces monarchies qui sont désormais les centres névralgiques d’un islam radical et totalitaire qui menace tant la Syrie que le Caucase ou de nombreux quartiers dits sensibles des capitales occidentales.

Le nouveau grand jeu oriental est sans doute en train de bruler les doigts de ceux qui pensaient que les Etats arabes étaient de simples pions utilisables pour atteindre des objectifs géostratégiques. La Tunisie tout comme l’Egypte et la Libye sont désormais sous le contrôle politique des frères musulmans, dont est issu le cheikh Youssef al-Qardaoui qui appelle à la guerre sainte contre la Russie. Même le Maroc a  aujourd’hui un premier ministre issu des frères musulmans. Ces pays voient désormais certains de leurs Salafistes et Takfiristes les plus radicaux combattre à l’extérieur, en Syrie ou encore au Mali. Le monde chiite (Iran-Syrie-Hezbollah-Irak) est aujourd’hui soumis à une pression terrible de l’axe sunnite radical, axe qui a pris le pouvoir partout où le printemps arabe est passé et qui bénéficie du soutien des démocraties occidentales. Dernière conséquence de ces éruptions, le Liban est désormais au bord de l’explosion et la Jordanie est sous pression. Il n’y a pourtant là aucune surprise, le ministre russe des Affaires étrangères avait au début de ce mois rappelé que “les Européens ne connaissent rien au Proche-Orient (…) et risquent de déstabiliser la région tout entière, à commencer par le Liban et la Jordanie“.

La Russie, bien que menacée par la nébuleuse islamo-takfiriste, ne perd pourtant pas le nord et défend très logiquement les régimes nationalistes et/ou laïques de la région. La Russie vient d’obtenir la juste récompense d’une politique extérieure équilibrée dans le monde musulman via la signature de contrats d’armement pour une valeur de plus de 4 milliards de dollars en Irak.

Alors que la guerre en Syrie n’en est peut-être qu’à ses prémices, que l’un des candidats à la Maison Blanche qualifie la Russie d’ennemi principal de l’Amérique (!), qu’Al-Qaïda vient officiellement d’appeler à la guerre contre la Syrie de Bachar el-Assad, les hommes politiques européens devraient se demander si leur “collaboration” avec les ennemis de la liberté et de la démocratie n’est pas de nature à se retourner contre eux et contre leurs peuples, bien plus rapidement qu’ils ne le pensent.

RIA Novosti

 

jeudi, 08 novembre 2012

La Russie, puissance d’Eurasie

Vient de paraître : La Russie, puissance d’Eurasie – Histoire géopolitique des origines à Poutine, d’Arnaud Leclercq

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Vient de paraître : La Russie, puissance d'Eurasie - Histoire géopolitique des origines à Poutine, d'Arnaud Leclercq 

4ème de couverture : Après l’effondrement du soviétisme, le plus vaste pays du monde est passé de la superpuissance à l’humiliation, avant de redevenir un acteur majeur du monde multipolaire. Forte de son identité retrouvée et gorgée de richesses naturelles, la Russie dispose d’atouts considérables, comme les nouvelles routes de la soie ou celles de l’Arctique, qui feront d’elle la superpuissance eurasiatique tournée vers une nouvelle économie-monde centrée en Asie. Loin des clichés médiatiques, plongeant dans les profondeurs de l’histoire et de la géopolitique, Arnaud Leclercq nous offre une réflexion atypique et inscrite dans la longue durée, nourrie d’une connaissance intime des Russes. Il met en lumière les constantes religieuses, identitaires, politiques de la Russie et trace les perspectives d’une puissance qui, n’en déplaise à l’Occident, sera de plus en plus incontournable.

Auteur : Arnaud Leclercq (www.arnaudleclercq.com)
Éditeur : Ellipses
Date de parution : 01/11/2012
ISBN : 2729876456 – EAN : 978-2729876456
Prix : 24,40 euros

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mercredi, 07 novembre 2012

L’Artico fra logica spartitoria e militarizzazione crescente

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L’Artico fra logica spartitoria e militarizzazione crescente

Mosca annuncia una istanza all’Onu per il riconoscimento delle rivendicazioni sulla piattaforma continentale artica

Andrea Perrone

Ex: http://rinascita.eu/  

Il Circolo polare Artico si combatte una guerra silenziosa, senza esclusione di colpi, per il controllo geopolitico dell’area e delle sue risorse energetiche.
Il 25 ottobre scorso Aleksandr Popov, direttore dell’Agenzia federale russa per lo sfruttamento del sottosuolo (Rosnedra), ha annunciato una istanza della Russia dinanzi alla commissione Onu, che rappresenta l’unico organismo internazionale preposto al riconoscimento delle rivendicazioni sulla piattaforma continentale artica.
Le spedizioni geologiche condotte da Mosca nell’Artico dal 2010 al 2012 permetterebbero di allargare la parte russa della piattaforma continentale artica di 1,2 milioni di km quadrati. Se Mosca vedesse accolta l’istanza, potrebbe estendere anche i propri diritti di sfruttare le risorse naturali, tra cui i ricchi giacimenti di gas e petrolio, sino a 350 miglia marine dalla costa anziché le 200 attuali della cosiddetta Zona economica esclusiva.
Nel corso del 2012 si sono svolte imponenti esercitazioni militari nell’Artico e incontri ad alto livello dei rappresentanti delle Forze armate di Stati Uniti, Russia, Canada, Norvegia, Danimarca, Svezia, Islanda e Finlandia per discutere la spartizione dell’area. Avvenimenti questi che avranno un peso enorme sul futuro del Polo Nord. Dopo il collasso dell’Urss, gli Usa, d’accordo con la Federazione russa, il Canada, la Norvegia e la Danimarca hanno costituito tre organismi di cooperazione dell’area: il Consiglio degli Stati del Mar Baltico, nato nel 1992; la Cooperazione di Barents, istituita nel 1993; infine, il Consiglio Artico, costituito nel 1996. Tuttavia lo scioglimento dei ghiacci, con l’apertura di nuove rotte marittime commerciali e militari a Nord e le pretese sulla piattaforma sottomarina artica ricca di petrolio, gas e minerali preziosi hanno attirato l’interesse di molti Paesi, così che anche Stati non artici, come Francia, Gran Bretagna e addirittura Cina hanno cominciato ad avanzare pretese. Da parte sua la Danimarca ha deciso il 17 gennaio scorso di nominare il primo diplomatico per le zone dell’Artico.
Il governo di Copenaghen rivendica infatti una porzione dei fondali sottomarini del Polo Nord. Il nuovo ambasciatore, Klavs A. Holm avrà il compito di difendere gli interessi del suo Paese “garantendo alla comunità danese (Danimarca, Groenlandia e isola Far Oer) un posto di primo piano nel dibattito internazionale sull’Artico”, ha dichiarato con un comunicato il ministro degli Esteri danese, Villy Soevndal. Lo scorso agosto, in un documento ufficiale dal titolo “Strategia per l’Artico”, la Danimarca ha annunciato di essere pronta a rivendicare formalmente dal 2014 i fondali marini del Polo Nord, risorse comprese. Anche gli altro quattro Paesi che si affacciano sull’Artico, Russia, Stati Uniti, Canada e Norvegia, rivendicano da parte loro diritti e territori nella regione. Ma veniamo a quanto accaduto di recente. Tutti gli Stati più importanti del mondo, compresi quelli emergenti e quelli prospicienti l’Artico, si stanno preparando per un nuovo tipo di Guerra Fredda al Circolo polare artico approfittando dei cambiamenti climatici.
La regione artica è già animata infatti da un’attività militare e gli analisti ritengono che questa situazione subirà un incremento significativo nei prossimi anni. Infatti, dal 12 al 21 marzo scorso, si è svolta, ospitata dalla Norvegia, una delle più imponenti manovre di sempre, proprio nell’Artico, denominata Exercise Cold Response, che ha visto l’utilizzo di 16.300 militari provenienti da 14 nazioni diverse, impegnati in esercitazioni sul ghiaccio in ogni campo e con l’ausilio di elicotteri, aerei e carri armati, per essere pronti ad opporsi, in caso di necessità, sia alla guerra ad alta intensità che alle minacce terroristiche. Le dure condizioni climatiche in cui si sono svolte le manovre hanno causato la morte di cinque uomini delle truppe norvegesi a causa di un’avaria al loro Hercules C-130 che si è andato a schiantare a poca distanza dalla cima del Kebnekaise, la più alta montagna svedese.
Gli Usa, la Francia, la Gran Bretagna, l’Olanda, il Canada, la Svezia e naturalmente la Norvegia sono gli Stati che hanno dato il maggior contributo all’operazione in termini di uomini e mezzi, e che hanno organizzato tutte le esercitazioni. Anche la Russia da parte sua ha tenuto la sua esercitazione, dal 9 al 15 aprile e denominata Ladoga 2012, presso la base aerea Besovets in Karelia. Alle operazioni ha preso parte la 200° Brigata Rifle motorizzata di stanza a Murmansk che ha eseguito le sue esercitazioni nell’area. Nelle manovre sono stati impegnati anche i carri armati russi T-80, i più adatti a sostenere le condizioni climatiche della regione, grazie ai loro motori a turbina a gas in grado di sopportare maggiormente freddo e intemperie rispetto ai diesel convenzionali. E poi hanno preso parte anche le navi della Flotta del Nord e più di 50 tra velivoli, caccia di tipo Mikoyan MiG-29STM, MiG-31 e Sukhoi Su-27, ed elicotteri delle Forze aeree russe. Durante le operazioni, i piloti di stanza in Karelia, Kaliningrad, Kursk, Murmansk e nella regione di Tver hanno partecipato alle operazioni nei pressi del Lago Ladoga e abbattuto più di 200 obiettivi e bersagli aerei.
Le esercitazioni dei Paesi aderenti alla Nato e quelle della Federazione russa sono stati soltanto uno degli aspetti della rinnovata strategia adottata per ribadire la volontà di dominio sulla regione. Il 12 e 13 aprile, infatti, i capi militari delle otto maggiori potenze dell’Artico – Canada, Stati Uniti, Russia, Islanda, Danimarca, Svezia, Norvegia e Finlandia – si sono incontrati nella base militare canadese di Goose Bay per discutere in particolare delle questioni riguardanti la sicurezza della regione. Nessuno di questi Paesi intende iniziare a combattere una guerra al Polo Nord. Ma visto il crescente numero di lavoratori e di navi impegnati per sfruttare le riserve di petrolio e di gas, ci sarà il bisogno di sorvegliare, di perlustrare i confini e – nella peggiore delle ipotesi – della forza militare per farsi valere sulle rivendicazioni dei rivali.
I leader delle Forze armate hanno concordato sulla necessità di una suddivisione vera e propria delle aree di influenza, oltre che la regolamentazione delle rotte commerciali e della spartizione delle enormi risorse energetiche, spartizione sulla quale al momento pare non esserci ancora nessun accordo. Il vertice si è tenuto il 12 e 13 aprile 2012 in Canada e a cui hanno partecipato i vertici militari di tutte le potenze artiche, tra cui anche la Russia rappresentata da Nikolai Makarov, capo di stato maggiore e generale.
Da quanto emerso finora Russia, Canada e Stati Uniti si spartiscono le porzioni più grandi dell’Artico. Ma, da un lato, Norvegia, Danimarca e Canada e, dall’altro, la Francia stanno rafforzando la loro presenza militare nella regione nella speranza di poter ottenere anche loro una fetta più grande della torta.
E proprio la Federazione ha deciso di non rimanere inerte e si appresta a consolidare la propria presenza in territori da sempre inospitali e che ora il riscaldamento globale sta rendendo progressivamente appetibili, non soltanto per le risorse ma anche per l’apertura di nuove vie di transito praticabili tutto l’anno. Per questo il Cremlino ha deciso di predisporre nell’Artico 20 posti di frontiera per controllare i confini settentrionali e la via marittima del Nord, secondo quanto comunicato dal capo del servizio di frontiera presso il Servizio federale di sicurezza della Russia, Vladimir Pronichev. Una misura questa prevista nel programma federale “Confine di Stato della Federazione Russa per il periodo dal 2012 al 2020”. Presso ogni postazione saranno in servizio 15-20 guardie preposte al monitoraggio della situazione nella regione. Pronichev ha riferito che attualmente la direzione strategica settentrionale risulta essere “senza copertura aerea”: circa 2.500 chilometri esulano dal raggio d’azione dei radar, mentre continuano a verificarsi situazioni di rischio e possibile confronto con “spedizioni scientifiche” abusive, finalizzate più che alla raccolta di dati, all’esplorazione delle risorse artiche e sprovviste di opportune autorizzazioni. Insomma, maggiori controlli da parte di tutte le potenze artiche per garantire la difesa dei propri interessi nell’area.
È quindi un’intera regione prima chiusa al mondo che si sta aprendo a causa del surriscaldamento globale e del conseguente scioglimento della banchisa e del permafrost. L’interesse per le risorse energetiche sta causando un aumento della presenza militare nella regione. E questa situazione è destinata ad accrescersi con il passare del tempo. Una situazione questa che dimostra quanto il Polo Nord stia diventato vitale per gli interessi geostrategici delle superpotenze e degli Stati emergenti, insieme alla necessità di garantirsi l’approvvigionamento energetico in funzione delle loro esigenze nazionali.

http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=17516

mardi, 06 novembre 2012

Le pétrole, le grand stratège d’hier et d’aujourd’hui

La 3ème guerre mondiale expliquée - Le pétrole, le grand stratège d’hier et d’aujourd’hui

La 3ème guerre mondiale expliquée

 

Le pétrole, le grand stratège d’hier et d’aujourd’hui



par Jean Ansar
Ex: http://metamag.fr/
 
Dans son numéro 9, daté d’Octobre 2012, la revue Guerres § histoire confirme toutes ses qualités. Des articles clairs, remarquablement illustrés, des angles originaux,  tout y est avec l’essentiel : connaitre le passé pour comprendre le présent et préparer l’avenir. Le dossier de ce numéro est au regard de ces critères une référence. Il s’intitule : « Le pétrole. L’arme noire qui a fait gagner les alliés ».
 
Une thèse incontestable

Les puissances militaires de l’axe ont perdu la guerre faute de moyens énergétiques suffisants. La hantise du manque de carburant et donc de pétrole explique des choix stratégiques qui sinon seraient incohérents comme certaines offensives allemandes, mais aussi l’entrée en guerre quelque peu précipitée du japon.
 
 
En fait, cette explication éclaire la stratégie américaine d’aujourd’hui qui consiste par la guerre ou des changements de régimes  à  se mettre en position de contrôler l’essentiel des ressources du monde en énergie fossile.
 
On peut se demander dans quel but ?

Il parait évident : isoler la Chine, le seul vrai rival et pousser ce pays à une politique militaire aventuriste. On refait à la Chine le coup du Japon- moyen orient - Asie centrale permettant un isolement énergétique, de l’empire du milieu.
 
Le Pentagone a programmé, pour permettre aux Usa de conserver leur leadership mondial, un conflit contre la Chine. Une troisième guerre mondiale est annoncée. C’est depuis longtemps la conviction  de Metamag, évoquée à plusieurs reprises. Une conviction confortée par la lecture de ce dossier exceptionnel qu’on peut lire par ailleurs comme une simple étude historique originale.
 
Les têtes de chapitre sont éclairantes. A l’orée de la seconde guerre mondiale, les alliés sont dès le départ dans une position dominante dans le jeu pétrolier, impératif pétrolier qui va vite s’imposer à la stratégie des belligérants. L’Italie par exemple n’a pas les moyens de ses ambitions. Elle a une belle flotte de guerre, mais dès 1941 la moitié est à quai, faute de carburants. C’est de toute évidence l’embargo pétrolier qui a provoqué Pearl Harbour et le manque de carburant qui a mis en échec Rommel.
 
 
L’ouverture du deuxième front soviétique s’explique par une offensive préventive par rapport aux plans de Staline mais aussi par la nécessité d’atteindre les réserves du Caucase puis de faire la jonction avec l’Afrika Corps en Irak. Si Hitler avait réussi, tout aurait changé.

 
En 1941, l’Amérique a le pétrole sur son propre territoire. Elle n’a aucun risque de manque. Sa stratégie est libre. Elle peut de plus bombarder le tissus industriel allemand et rester hors de portée. L 'Europe centrale allemande n’a jamais atteint à l’autarcie énergétique, même avec l’apport du charbon. La puissance s’est tarie et n’a pu se renouveler.
Ce n’est pas le courage qui a manqué au soldat allemand ou japonais pour gagner, c’est le manque d’énergie fossile, ce sang noir indispensable à la guerre mécanisée.
Les dirigeants ne l’ont pas suffisamment anticipé et n’ont pas réussi à briser les anneaux de l’encerclement énergétique. Quand on regarde la carte, c’est évident. Rommel n’arrive pas au Caire et le front de l’est est figé avant Grozny. Entre les deux se trouvent les principales réserves mondiales de pétrole, hors Usa et Urss. 
 
Tout est dit. Voilà une remarquable leçon à tirer du passé…. C’est sans doute ce que sont en train de faire les stratèges du pentagone mais aussi ceux de… Pékin. Ce n’est guère rassurant.

lundi, 05 novembre 2012

Les Usa jouent Alger contre Paris

Mali : Les Usa jouent Alger contre Paris

Mauritanie futur protectorat algérien

par Jean Bonnevey

Ex: http://metamag.fr/

Alors que paris tente laborieusement d’organiser une intervention militaire au Mali impliquant les pays riverains, les Usa se rapprochent de l’Algérie. Une intervention militaire sous contrôle américano-algérien serait un bouleversement régional capital et aux conséquences incalculables. Cette perspective inquiète un certain nombre de capitales en commençant par Rabat bien sûr, meilleur ennemi héréditaire de l’ Algérie.
 
 
Tout le monde est d’accord pour l’option militaire. Demeurent quelques inconnues : quand, comment et avec qui ? Sans oublier l’issue de la présidentielle Us qui pourrait peser sur la suite des évènements. On peut donc s’étonner de l’accélération de la diplomatie américaine paralysée par ailleurs notamment au proche orient. Cela peut s’expliquer par des informations alarmantes sur la situation dans le vaste territoire contrôlé par les islamistes. 
 
On sait par exemple que des centaines de combattants islamistes ont rejoint les éléments locaux pour les renforcer. L’Algérie d’autre part sait qu’elle est une cible privilégiée à moyen terme des islamistes et qu’un certain  nombre de  ses nationaux  sont dans Al Qaïda au Maghreb islamique, des anciens du GIA qui ne rêvent que d’une reconquête du pays dont ils ont été chassés par la force.
 
Le quotidien algérien Liberté analyse

« Après la résolution adoptée le 12 octobre dernier par le Conseil de sécurité de l’Onu autorisant le déploiement d'une force internationale de quelque 3 000 hommes au Mali et donnant jusqu'au 26 novembre à la Cédéao (Communauté économique des États d'Afrique de l'Ouest) pour préciser ses plans, la question de l’intervention militaire pour libérer le nord du Mali ne se pose plus. Aujourd’hui, il s’agit de savoir comment elle va se faire et qui y participera. Si Alger n’a jamais exclu cette option, elle a néanmoins privilégié le dialogue pour donner le maximum de chance à la solution politique. Mais force est de constater que la situation, aussi bien sécuritaire qu’humanitaire, se dégrade de jour en jour. Depuis le coup d’état du 22 mars dernier, les islamistes ont proclamé unilatéralement l’indépendance du nord de ce pays en occupant ses principales villes et en détruisant son patrimoine. »
 
La secrétaire d’état américaine, Hillary Clinton,  vient de se rendre à Alger. “Nous avons fait le point sur nos relations bilatérales extrêmement fortes et nous avons souligné le fait que nous venons tout juste de tenir une excellente conférence de dialogue stratégique qui s'est tenue la semaine dernière à Washington, comme nous avons eu des discussions très approfondies sur la situation dans la région et, surtout, la situation qui prévaut dans le nord du Mali”, a déclaré à la presse Mme Clinton, à l'issue de l'audience que lui a accordée le président Bouteflika. Et d’ajouter : “J’ai beaucoup apprécié l'analyse du président Bouteflika qui est fortement enrichie de sa très longue expérience de la région pour faire face à la situation très complexe et aux problématiques très compliquées au nord du Mali, mais aussi pour faire face aux problèmes du terrorisme et du trafic de drogue dans la région.”
 

Hillary Clinton et le président Bouteflika
 
Selon un responsable américain, l’Algérie commencerait à se laisser convaincre par l’idée d’une intervention militaire africaine mais attend de connaître les grandes lignes du plan que doit établir la Communauté des États de l’Afrique de l’Ouest. Alger donne à l’évidence du fil à retordre à ses interlocuteurs américains et français pressés de déloger Aqmi du nord Mali.
 
Puissance régionale effectivement incontournable pour toute intervention, au double plan de la logistique et du renseignement, l’Algérie ne voit pas d’un bon œil une agitation guerrière à ses frontières. Elle préfèrerait  mettre en avant une démarche politique visant à isoler Al-Qaïda  des rebelles touaregs et éviter un embrasement du Mali.
 
Alger est donc réticent. Bouteflika aurait aimé une prise en compte d’Al Qaïda dans la région et se demande pourquoi on veut intervenir et si rapidement au mali. Sous entendu bien sûr, c’est la France qui s’inquiète et l’Algérie n’entend pas voir renforcer dans le sahel d’une manière ou d’ une autre l’influence de Paris.
 
L’Algérie pourrait donc s’engager aux cotés des Usa contre le terrorisme pour s’imposer comme puissance dominante du sahel avec l’accord américain. Alléchant pour Alger mais terriblement dangereux aussi.

jeudi, 25 octobre 2012

The Pakistan-Russia Relationship: Geopolitical Shift in South and Central Asia?

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The Pakistan-Russia Relationship: Geopolitical Shift in South and Central Asia?

The two countries have quietly been building a mutual relationship for the last few years through bilateral as well as multilateral contacts at the highest levels. Pakistan’s status as an observer state in the Shanghai Cooperation Organisation (SCO) has provided it with an important opportunity to have interaction with the top Russian leadership.

In June 2009, President Asif Ali Zardari participated in the SCO Summit in Yaketerinburg and met the then Russian President Dmitry Medvedev. The Russian leader was reported to have expressed a strong desire to develop closer relations with Pakistan in all important areas, including defence, investment and energy.

The establishment of close contacts between the top leadership of Pakistan and Russia and the two sides readiness to open a new chapter in their relationship is not only in the interests of the two countries, it will also serve the interests of peace, security and regional integration in two of the world’  s important regions of Central Asia and South Asia.

* *

Despite being geographically contiguous, Pakistan and Russia had remained politically distant from each other during the last six decades. The framework of the Cold War and the East-West confrontation defined the relations between the two countries during that period.

Another factor that obstructed the development of close and friendly relations between Pakistan and Russia was the latter’s insistence on looking at South Asia only through Indian eyes, ignoring Pakistan’s vital national security concerns. But the post-Cold War transformation of global politics and fast changing geo-political situation in the region following 9/11 have created new and strong imperatives for the two to come closer and enter into productive bilateral cooperation in the political, economic and security areas.

This reality was manifestly recognised in the statements by Pakistan’s Foreign Minister Hina Rabbani Khar and visiting Russian Foreign Minister Sergei Lavrov at a joint press talk in Islamabad earlier this month. “We are longing for better ties with Pakistan,” said Mr Lavrov; while Ms Khar termed the current millennium as “the millennium of (Pakistan’s) relations with Russia.” The visit of the Russian foreign minister has brought the relationship of the two countries to a new and historic threshold.

Pakistan has achieved significant diplomatic success by securing the Russian endorsement of its position on the peace and reconciliation process in Afghanistan. The Russian foreign minister, while talking to the media in Islamabad, had categorically said that his country was against any solution of the Afghanistan problem that is imposed from outside and is not Afghan-owned and Afghan-driven. Instead, Russia would back an indigenous peace and reconciliation process owned and led by the people of Afghanistan. Similarly, the Russian condemnation of drone attacks has strengthened Pakistan’s hands in ensuring the country’s independence, sovereignty and territorial integrity. The Russian position on Afghanistan as articulated by Foreign Minister Lavrov during his recent visit to Pakistan is clear evidence of the greater geo-strategic convergence between Pakistan and Russia on regional issues.

The two countries have quietly been building a mutual relationship for the last few years through bilateral as well as multilateral contacts at the highest levels. Pakistan’s status as an observer state in the Shanghai Cooperation Organisation (SCO) has provided it with an important opportunity to have interaction with the top Russian leadership.

With the induction of a democratic government in Pakistan following the 2008 elections, the process gained momentum and the two sides took important initiatives to promote bilateral trade, economic cooperation and regional connectivity through multilateral frameworks. In June 2009, President Asif Ali Zardari participated in the SCO Summit in Yaketerinburg and met the then Russian President Dmitry Medvedev. The Russian leader was reported to have expressed a strong desire to develop closer relations with Pakistan in all important areas, including defence, investment and energy. According to some sources, Pakistan and Russia were contemplating entering into a commercial defence agreement enabling Pakistan to purchase Russian arms and weapons.

There is vast potential for the growth of bilateral cooperation between Pakistan and Russia in a wide range of areas. Since the two sides have shown a keen desire to explore new areas and strengthen already existing cooperation in multiple fields, the coming years if not months are certain to witness an expansion of cooperation between the two countries. The areas of energy, regional connectivity, infrastructure and trade are going to be the focus of these endeavours.

However, while discussing the future prospects of Pakistan-Russia cooperation in economic and other non-political areas, the political and strategic fallout of the newly-found Russia-Pakistan friendship should also be taken into consideration, particularly by Pakistan, which has to date followed a foreign policy based on a narrow regional and global perspective.

Russia, which is a successor state to a former superpower, has its own worldview. For example, despite the establishment of a strategic partnership between India and the United States symbolised by their deal on civil nuclear cooperation, and robust Sino-India trade and economic relations, Moscow still values New Delhi as a close friend and Russian relations with Pakistan will not be at the cost of the former’s relations with India. As a big stakeholder in peace and tranquillity in South Asia, the growth of the Pakistan-Russia relationship will be a further incentive for Pakistan to pursue peace and normalisation with its eastern neighbour.

The Russians have their own perspective on issues relating to militancy, terrorism and regional peace and security. They are concerned about the prospects of Afghanistan again coming under the rule of the Taliban. Although, as the statement of the Russian foreign minister in Islamabad indicated, the Russians are opposed to the permanent military presence of the United States in Afghanistan; they are frightened on the prospects of NATO failure in Afghanistan as that would lead to serious anarchy and chaos in the country. This is why they are helping ISAF in Afghanistan by allowing their supplies through Russian territory. The Russians are also very worried about the security and law and order situation in Pakistan, particularly, the presence of a large number of foreign militants from Central Asia and Chechnya. During the meeting on the sidelines of the SCO summit at Yaketerinburg in June 2009 between President Zardari and President Medvedev, the latter was reported to have called for the elimination of safe havens of terrorists in Pakistan’s tribal areas.

The establishment of close contacts between the top leadership of Pakistan and Russia and the two sides’ readiness to open a new chapter in their relationship is not only in the interests of the two countries, it will also serve the interests of peace, security and regional integration in two of the world’s important regions of Central Asia and South Asia.

The writer is a professor of International Relations at Sargodha University

mercredi, 24 octobre 2012

CIAO, ALBERTO

CIAO, ALBERTO

Oggi, una mattina come tante, iniziata non bene e non male, nella normalità, mentre stavo iniziando a dedicarmi alle mie occupazioni quotidiane, squilla il telefono, è un mio / nostro sodale che mi da la triste notizia che Alberto B. Mariantoni è andato oltre.

Mi scorrono nella mente ricordi, immagini, idee, le interminabili discussioni fatte in altrettante interminabili nottate, la voglia di combattere contro questo mondo ingiusto ed inumano. Vado a prendere una sua lettera autografa – e già anche nei tempi di internet c’è ancora chi scrive a mano – scritta in bella calligrafia – perché per Alberto, come per la Tradizione estremo orientale, scrivere bene significava pensare bene, scritta con la penna stilografica, come si faceva una volta, anche se si lamentava che l’inchiostro non era più buono come quello di un tempo, la giro e rigiro tra le mani: non riesco a concentrarmi.

Mi sostiene solamente la consapevolezza che continueremo a stare insieme, anche se non materialmente, perché, ad un certo grado di affinità, gli spiriti si pensano.

Economista, saggista, storico, solo pochissime altre personalità possono vantare di essere state autenticamente ribelli ed eretiche. La sua attenzione si è da sempre focalizzata sulla indispensabilità di uscire dall’apparente insolubile dualismo capitalismo-marxismo. Lo studio dei meccanismi dell’economia e, di conseguenza monetari, attraverso l’analisi delle ricorrenti ed inspiegabili crisi inflazionistiche ed economiche formano, negli ultimi tempi, il nucleo centrale del suo interesse extra-storico e politico.

I suoi articoli e saggi di economia, purtroppo, conoscono una lunga notte. Le sue tesi sconvolgono le classiche coordinate di analisi economico-politica. Come pensare che economia libera ed economia statizzata in realtà abbiamo le medesime matrici e producano i medesimi risultati? Come pensare che esse congiuntamente decidano dei destini delle monete ? Come pensare che esse siano organizzativamente e finalisticamente simili ?

Alberto ancora una volta colpirà nel segno.

Testimone e protagonista del suo tempo non indietreggiò, mai, davanti al suo destino, anche quando questo gli fu avverso. Forse proprio per questa sua coerenza, tutto un “ certo “ ambiente lo ha isolato, contribuendo, tuttavia, a farne un uomo troppo alto per essere intaccato da critiche meschine.

Tante volte varcò la porta della stima personale e del successo, a differenza di altri che a quella porta bussarono, con il cappello in mano, senza mai varcarla.

E questo è, forse, il peccato che questo nostro tempo di nani non gli perdona.

“ A mio giudizio, abbiamo quella illudente e fuorviante percezione della nostra esistenza, in quanto continuiamo testardamente ed incosapevolmente a volere assolutamente “ leggere” o interpretare la realtà che ci contorna, attraverso le lenti deformanti e snaturanti della “visione ideologica” della vita e della storia”, così ci diceva e scriveva.

Ciao Alberto.

Claudio Marconi   FotoAlberto

ALBERTO B. MARIANTONI È “ANDATO AVANTI”

ALBERTO B. MARIANTONI È “ANDATO AVANTI”

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/  

 

ALBERTO B. MARIANTONI È “ANDATO AVANTI”

La redazione di “Eurasia” dà l’estremo saluto ad Alberto Bernardino Mariantoni, politologo, saggista storico, esperto di questioni del Vicino Oriente e studioso delle religioni.

Lo ricordiamo come collaboratore della rivista, in particolare col suo storico saggio Dal “Mare Nostrum” al “Gallinarium Americanum”. Basi USA in Europa, Mediterraneo e Vicino Oriente (“Eurasia” 3/2005), il quale ha avuto l’inestimabile merito di sollevare definitivamente la questione dell’occupazione della nostra terra da parte di eserciti stranieri. Dopo tale illuminante articolo, anche i media collaborazionisti cosiddetti “autorevoli” dovettero “correre ai ripari” per tamponare la falla, ovvero la “fuga di notizie”, che rischiava di trasformarsi in un’alluvione; così avvenne che in una trasmissione di una rete televisiva nazionale, citando il saggio di Mariantoni, venne imbastita una ridicola messinscena tra “esperti” i quali, arrampicandosi sugli specchi, cercavano di minimizzare l’inaudita gravità di un apparato tentacolare che, per la sua sola presenza, rende nulla ogni pretesa di indipendenza e sovranità delle nazioni sottoposte a pluridecennale imposizione.

Lo ricordiamo anche come uomo, generoso, tollerante, sempre disponibile e mai “in cattedra”, sebbene, grazie alla sua esperienza diretta delle cose di cui trattava, si sarebbe potuto atteggiare a “professore” più di tanti altri che, per molto meno, fanno sfoggio di conoscenze puramente libresche, imparate dai “bignamini”.

Mariantoni era un “interventista della cultura”, nel più aureo filone dei grandi Italiani che, del loro sapere, non han fatto una base per guadagnare onori e prebende vivendo sempre da “struzzi”, ma lo hanno costantemente messo a disposizione di una “battaglia” sentita come improrogabile: quella per la libertà, l’indipendenza, l’autodeterminazione e la sovranità politica, economica, culturale e militare di tutti i popoli del mondo.

Per chi intendesse saperne di più su questa grande figura di italiano, mediterraneo ed europeo, consigliamo la lettura dei testi contenuti nel suo sito personale: http://www.abmariantoni.altervista.org/

Addio Alberto, che la morte ti sia lieve. Come tu stesso dicevi sempre, è solo la vita che va verso la vita. 

Enrico Galoppini, a nome della Redazione di “Eurasia”

Who was Alberto B. Mariantoni?

Alberto Bernardino Mariantoni è nato a Rieti ( I ), il 7 Febbraio del 1947.

E’ laureato in Scienze Politiche e specializzato in Economia Politica, Islamologia e Religioni del Vicino Oriente. E’ Master in Vicino e Medio Oriente.

Politologo, scrittore e giornalista, è stato per più di vent’anni Corrispondente permanente presso le Nazioni Unite di Ginevra e per circa quindici anni sul tamburino di «Panorama». Ha collaborato con le più prestigiose testate nazionali ed internazionali, come «Le Journal de Genève», «Radio Vaticana», «Avvenire», «Le Point», «Le Figaro», «Cambio 16», «Diario de Lisboa», «Caderno do Terceiro Mundo», «Evénements», «Der Spiegel», «Stern», «Die Zeit», «Berner Zeitung», «Il Giornale del Popolo», «Gazzetta Ticinese», «24Heures», «Le Matin», «Al-Sha’ab», Al-Mukhif Al-Arabi», nonché «Antenne2», «Télévision Suisse Romande», «Televisione Svizzera Italiana», ecc.

E’ esperto di politica estera e di relazioni internazionali, con particolare riferimento ai paesi arabi e musulmani e dell’Africa centrale ed occidentale. Ha al suo attivo decine e decine di inchieste e di reportages in zone di guerra e di conflitti politici. E’ autore di oltre trecento interviste ai protagonisti politici ed istituzionali dei paesi del Terzo Mondo e della vita politica internazionale.

Ha insegnato presso la Scuola di Formazione continua dei giornalisti di Losanna. E’ stato Professore invitato presso numerose Università Europee e Vicino-Orientali.

Ha scritto: «Gli occhi bendati sul Golfo» (Jaca Book, Milano 1991); «Le non-dit du conflit israélo-arabe» (Pygmalion, Paris, 1992); «Le storture del male assoluto» (Herald Editore, Roma, 2011); con AA.VV., «Una Patria, una Nazione, un Popolo» (Herald Editore, Roma 2011); con AA.VV., «Nuova Oggettività – Popolo, Partecipazione, Destino» (Heliopolis Edizioni, Pesaro, 2011).

Dal 1994 al 2004, è stato Presidente della Camera di Commercio Italo-Palestinese.

Nel 2009-2010 ha collaborato, come docente, con lo I.E.M.A.S.V.O - Istituto 'Enrico Mattei' di Alti Studi sul Vicino e Medio Oriente di Roma.

English:

Alberto Bernardino Mariantoni was born in Rieti (Italy), on February 7th, 1947.

He graduated in Political Sciences and specialized in Political Economy, and Islamic studies and Religions of the Middle-East. He is also a post-graduate Master in the Near and Middle East.

As a political commentator, writer and journalist he was – for more than twenty years – permanent correspondent at the United Nations in Geneva (Switzerland). For approximately fifteen years he was included in the list of front-page editorialists of “Panorama” (a major, nationally distributed Italian news magazine). He has collaborated with top-ranking, prestigious national and international media organs, such as “Le Journal de Genève”, “Radio Vaticana”, “Avvenire”, “Le Point”, “Le Figaro”, “Cambio 16”, “Diario de Lisboa”, “Caderno do Terceiro Mundo”, “Evénements”, “Der Spiegel”, “Stern”, “Die Zeit”, “Berner Zeitung”, “Il Giornale del Popolo”, “Gazzetta Ticinese”, “24Heures”, “Le Matin”, “Al-Sha’ab”, and “Al-Mukhif Al-Arabi”, plus “Antenne2”, “Télévision Suisse Romande”, “Televisione Svizzera Italiana”, etc.

He is an expert on foreign politics and international relations, with particular reference to Arabic and Muslim countries, and the countries of Central and West Africa. He has authored many dozens of inquiries into, and reports from, war zones/regions struck by political conflicts. He has also authored more than 300 interviews with political and institutional personages of Third World countries and the international political scene.

He has taught for the continuing professional development school for journalists in Lausanne (Switzerland). He has been ‘guest professor’ at various European and Near-East Universities.

He has written: «Gli occhi bendati sul Golfo» (blindfolded on the Gulf) (published by Jaca Book, Milan, 1991) and «Le non-dit du conflit israélo-arabe» (the unsaid on the Israel-Arab conflict) (published by Pygmalion, Paris, 1992);«Le storture del male assoluto» (Herald Editore, Roma, 2011); con AA.VV., «Una Patria, una Nazione, un Popolo» (Herald Editore, Roma 2011); con AA.VV., «Nuova Oggettività – Popolo, Partecipazione, Destino» (Heliopolis Edizioni, Pesaro, 2011).

From 1994 to 2004, he was Chairman of the Italian-Palestinian Chamber of Commerce.

In 2009-2010, he collaborated as professor with I.E.M.A.S.V.O – ‘Enrico Mattei’ Advanced Studies Institute on the Near and Middle East, Rome (Italy).

 

Qatar : un soutien indéfectible aux extrémistes

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Qatar : un soutien indéfectible aux extrémistes

par Ali El Hadj Tahar

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/   


En février 2010, le Qatar signe un pacte de défense avec la Syrie et l’Iran. Mais pendant que Hamad serrait la main de Bachar El-Assad, il conspirait activement contre lui. Quelques mois plus tard, le pacte de défense devient un pacte d’ingérence avec le financement des terroristes islamistes pour renverser le dernier raïs arabe.

L’opposition qui réside à l’étranger, précisément celle du Conseil national syrien (CNS), avait eu comme premier président le nommé Burhan Ghalioun, celui-là même qui a été le conseiller politique d’Abassi Madani, le chef du FIS dissous ! Désigné par l’Occident comme l’unique représentant de l’opposition syrienne, au mépris des autres formations politiques activant en Syrie ou à l’étranger, le CNS refuse tous les appels d’El-Assad au dialogue et veut un renversement du pouvoir, comme le CNT l’a fait en Libye.

Ce n’est ni l’opposant Haytham Manaa, ni le Comité national de coordination pour le changement démocratique (CNCD), ni les partis de l’opposition présents en Syrie (et activant légalement dans le cadre de la Constitution de février 2012) qui sont reconnus par l’Occident, mais ce CNS dominé par les islamistes et demandant l’ingérence militaire dans leur propre pays. Sur conseil de stratèges militaires, le bras armé du CNS, l’Armée syrienne libre (ASL) — qui écrit sur son Facebook «de trancher la gorge aux soldats du régime» ! — cherche à adopter la même stratégie que celle adoptée en Libye : prendre des villes et en faire des forteresses imprenables, des «zones d’exclusion» en termes militaires ou des «Etats islamiques» en jargon wahhabite. Outre le soutien logistique et politique occidental, les rebelles de l’ASL jouissent aussi de la complicité turque, jordanienne et de certaines factions politiques libanaises affichée sans crainte de choquer qu’Israël soit aussi de la partie contre ce pays arabe qui cesserait aussitôt d’être attaqué s’il disait oui à une «paix des braves» avec Tel-Aviv au détriment du peuple palestinien.

Comme le CNT libyen parachuté par l’OTAN, le CNS se compose d’islamistes notoires et d’opposants vivants à l’étranger, sans aucune légitimité ni assise nationale. Outre le massacre de milliers de civils et de militaires et la destruction des infrastructures du pays par l’entremise de terroristes ramassés aux quatre coins du monde, le complot contre la Syrie ne vise pas que ce pays : sa réussite aura des effets désastreux sur le Liban, la Jordanie et sur la question palestinienne tout en rendant l’Iran très fragile et maintiendra les Etats-Unis comme puissance hégémonique mondiale. C’est pour la résurgence d’un monde bipolaire et équilibré où l’OTAN n’imposerait pas sa loi que la Chine et la Russie ont plusieurs fois opposé leur veto à l’intervention en Syrie. En outre, il y a la volonté de briser la création de l’axe énergétique Iran-Irak-Syrie-Liban. La Jordanie et la Turquie se sont exclues de cet axe, préférant jouer les cartes de l’axe pro-américain, tout comme Doha. En tant qu’allié d’Israël, Erdogan a préféré jouer les couleurs de son parti religieux plutôt que les intérêts stratégiques de son pays. Être du côté des «parias» (Syrie, Irak, Iran) lui a semblé désavantageux mais le rapport des forces actuel donne raison aux faibles, pas à Doha, Riyad ou à Istanbul, sans parler de la Jordanie qui a mal misé toutes ses cartes.

La Syrie est visée car il y a aussi la volonté occidentale de mettre le grappin sur les réserves gazières de la Méditerranée. Selon le Washington Institute for Near East Policy (WINEP, le think-tank de l’AIPAC), le bassin méditerranéen renferme d’immenses réserves de gaz et les plus importantes seraient en territoire syrien ! «La révélation du secret du gaz syrien fait prendre conscience de l’énormité de l’enjeu à son sujet. Qui contrôle la Syrie pourrait contrôler le Proche-Orient», écrit Imad Fawzi Shueibi.

Les sponsors du djihad

Selon l’International Herald Tribune des 4-5 août, «les 2,3 millions de chrétiens, qui constituent environ 10% de la population du pays, connaissaient sous la dynastie Assad une situation encore plus privilégiée que la secte chiite alaouite à laquelle appartient le président». Le journal ajoute que l’Armée syrienne libre aurait chassé 80 000 chrétiens de leurs foyers dans la province de Homs. Pour leur plan, les Occidentaux et leurs supplétifs ont fait venir près de 40 000 mercenaires islamistes de Libye, Jordanie, Égypte, Tunisie, Afghanistan, Pakistan, Irak, Tchétchénie… Même un Palestinien a été arrêté lorsqu’il était sur le point de se faire exploser dans le pays qui a perdu son Golan à cause de la Palestine !

Beaucoup d’autres sont venus du monde dit libre, de France, d’Australie, d’Espagne, de Grande- Bretagne, Hollande, Canada… Selon le Daily Mail du 3 septembre 2012, le MI6 a répertorié près de cent terroristes résidant en Angleterre et qui combattent en Syrie. Ils les appellent «combattants de la liberté» quand ils tuent en Orient, et terroristes s’ils tuent en Occident. Quand ils rentreront en Angleterre, ils ne seront pas inquiétés. Le crime légalisé ! L’un de ces terroristes a même avoué qu’il exerçait comme docteur dans un hôpital anglais ! Un congé sabbatique pour un djihadiste anglais.

L’afghanisation de la Syrie a commencé mais cela ne se fait pas sans la pakistanisation de la Jordanie, du Liban et de la Turquie. Toutes sortes d’armes se déversent en Syrie actuellement. Si les autorités libanaises ont découvert un bateau d’armements et interpellé son équipage, huit ou neuf autres seraient déjà passés. Dernièrement, l’ASL a menacé d’abattre des avions civils syriens, ce qui a fait dire au vice-ministre des Affaires étrangères Guennadi Gatilov : «Les menaces de l’opposition syrienne d’abattre des avions civils est le résultat de livraison irresponsable des Manpads (les systèmes portatifs de défense aérienne).»

Certains médias ont révélé, début août, que l’ASL a obtenu environ 20 Manpads de la Turquie. Selon les experts russes, l’Arabie Saoudite et le Qatar sont derrière ces livraisons. D’ailleurs, fin août dernier, CNN et NBC ont annoncé qu’Obama avait autorisé la livraison d’armements lourds aux rebelles anti-Bachar. Puis comme pour les Stinger livrés aux talibans, on voudra «récupérer» ces Manpads et autres SAM 7 puis on fera semblant d’avoir échoué de les récupérer. Prolifération d’armes = prolifération de terroristes : stratégie idéale pour promouvoir Al-Qaïda. La douane turque, celle d’un pays membre de l’OTAN, a récemment donné l’autorisation de débarquer des dizaines de tonnes d’armes destinées aux terroristes syriens, selon le Times !

Au Moyen-Orient et au Maghreb, le Qatar est depuis longtemps connu comme le principal sponsor de l’islamisme. Et Hamad s’est fait beaucoup d’amis parmi les opposants arabes, même s’ils ne sont pas islamistes comme ce fut le cas au Yémen où il a financé à la fois le parti islamiste Islah (opposé à l’ancien président Ali Abdullah Saleh) et les rebelles Houthis du nord. Cela n’a pas plu à l’Arabie Saoudite, qui veut éradiquer ces opposants chiites qu’elle accuse de vouloir instaurer un khalifat chiite.

En Égypte, Doha a financé les Frères musulmans alors que Riyad a subventionné les salafistes. Si Riyad avait soutenu les Frères musulmans, Doha aurait soutenu les salafistes ! Avoir des vassaux, c’est ce qui compte pour Doha ! Au Caire, la place Tahrir était occupée par une minorité cairote mais Al Jazeera focalisait dessus quotidiennement, gonflant les rumeurs et amplifiant les dérapages pour susciter un surplus d’adrénaline au sein des foules arabes assoiffées de miracles. Alors le prédicateur islamiste, l’Égyptien Youssef Al-Qardaoui, exilé à Doha depuis cinq décennies, animateur de l’émission «La Charia et la Vie» a encore clamé le djihad et ordonné au «Pharaon» de démissionner… En langue qatarie, la contre-révolution se dit révolution ! Un «pharaon» est un impie à massacrer.

10 000 missiles perdus sans blanc-seing étatsunien ?

Les Occidentaux qui tirent les ficelles ont trouvé un argument costaud pour leurrer ou faire taire les masses arabes : l’islamisme politique, disent-ils, s’est assagi et il peut accepter les règles démocratiques. C’est aussi ce qu’a ressassé l’émir du Qatar sur sa chaîne de propagande, Al Jazeera, pour qui le «péril vert» n’existe pas. «Les islamistes radicaux, dont les vues ont été forgées sous des gouvernements tyranniques, peuvent évoluer en participant au pouvoir si les révolutions tiennent leurs promesses de démocratie et de justice», disait en septembre 2011 un Hamad converti en agent de pub pour Abdel Jalil, Ghannouchi, Morsi et consorts. Les milliers de terroristes qu’ils ont envoyés en Libye, en Syrie et au Mali sont bien sages, eux aussi.

L’impérialisme occidental sait désormais qu’il ne peut se passer de l’aide ou plutôt de la joint-venture avec les pays du Golfe ; et la première opération de cette union est probablement la destruction spectaculaire du World Trade Center le 11 septembre, opération transformée en attaque terroriste pour les naïfs. Aujourd’hui, plus de la moitié des habitants de la planète ne croient pas la thèse officielle américaine, dont 90% des Allemands, 58% des Français et 15% des Américains. Le Qatar semble avoir les mains libres partout. Or, accueillir des terroristes, perdre 10 000 missiles en Libye, lancer des attaques contre la Libye, la Tunisie, l’Égypte et la Syrie, sans un blanc-seing américain est impossible !

On ne peut pas remettre en question ou chambouler un ordre géopolitique existant sans la volonté et l’accord des grandes puissances ! Vibrionner ainsi en Afrique du Nord et au Moyen-Orient, dans le terrain de jeu américain et français, est impossible, à moins d’être le fou du roi en personne. Soutenir le terrorisme islamiste ouvertement, en Afrique, en Asie, sans se faire taper sur les doigts, ou au moins récolter l’étiquette «d’Etat voyou» est inacceptable pour l’entendement : c’est ce que disent plusieurs analystes, journalistes, officiels et anciens agents de renseignement occidentaux dont Michel Chossudovsky, et l’ancien officier du MI6, Alistair Crooke. On ne peut pas non plus avoir des velléités de changer la carte géopolitique de l’Afrique, en tout cas ses gouvernements, sans accord ou instruction de l’Oncle Sam : c’est ce que disent plusieurs analystes dont Eric Denécé, le spécialiste des renseignements, et même le frère musulman Tarik Ramadhan.

L’implication du Qatar, donc des Etats-Unis, devient de plus en plus évidente avec le recul et avec le raz-de-marée, prévisible, des islamistes et surtout avec la volonté de casser le dernier bastion républicain et moderniste, la Syrie comme le fut la Libye. Il se peut que l’Arabie Saoudite, trop fragile, n’ait pas été informée de toutes les parties du plan mais a posteriori elle a adhéré à tout, et ne pouvait rien pour sauver Ben Ali et Moubarak, comme elle a accueilli avec bonheur la mort de Kadhafi qui a osé insulter le roi Abdallah. Les ennemis d’Al-Qaïda sont alors éliminés (Ben Ali, Moubarak, Kadhafi) ou visés (Syrie, Mauritanie, Algérie).

Cerise sur le gâteau, le «printemps arabe» donne même lieu à des gouvernements islamistes, proches du Qatar et de l’Arabie Saoudite, qui ont fourni argent, pub et même armes et contingents. L’Occident se devait de récompenser ses amis pour tous les efforts qu’ils ont déployés à leur profit (guerre entre l’Iran et l’Irak, deux guerres contre l’Irak, octroi de bases militaires, approvisionnement en pétrole au prix désiré).

Désormais, ils sont impliqués dans la redéfinition de la carte du monde, d’autant qu’ils sont devenus nécessaires pour toute action en terre arabe ; et ils sont rétribués par la possibilité d’installer leurs copains salafistes, islamistes ou fréristes aux commandes des pays conquis. Les valets deviennent des supplétifs.

Ali El Hadj Tahar

Number 2 U.S. Military Commander In Turkey

Number 2 U.S. Military Commander In Turkey

Hürriyet Daily News
October 23, 2012

US admiral in Turkey to discuss closer cooperation in anti-PKK fight

Sevil Küçükkoşum

Admiral_James_A__Winnefeld,_Jr.jpgANKARA: A top U.S. admiral is visiting Turkey today amid increasing military cooperation between Washington and Ankara on the fight against the outlawed Kurdistan Workers’ Party (PKK) and mounting tension on the Turkish-Syrian border to Syria’s crisis.

Adm. James Winnefeld, the vice chairman of the Joint Chiefs of Staff, is in Turkey as part of a previously scheduled counterpart visit with Deputy Chief of the Turkish General Staff Gen. Hulusi Akar, an official from the U.S Embassy to Turkey said.

“Admiral Winnefeld will participate in a series of discussions on military-to-military cooperation and mutual defense issues impacting both Turkey and the United States,” U.S. embassy spokesman in Ankara, T.J. Grubisha, told the Hürriyet Daily News today.

The fight against the PKK will top the agenda of the talks, while the Syrian crisis will also be discussed, a Turkish official told Daily News prior to the talks with the U.S. admiral. The Turkish side is also set to brief Winnefeld about problems related to intelligence-sharing between the U.S. and Turkey, the official said.

Francis Ricciardone, the U.S. ambassador to Ankara, told the Turkish media last week that a U.S. official would visit Turkey in the upcoming days to discuss cooperation between the two countries on the issue of fight against the PKK.

Ricciardone expressed his disappointment with frequent references to Washington’s unwillingness in the fight against the PKK and said he felt sorry and angered by such suspicions. “This makes our enemy successful in placing suspicion between allies. This might give hope to our enemies,” he said.

Ricciardone also said Washington had suggested that Turkey implement “tactics, techniques and procedures” (TTP), a multidisciplinary military maneuver that paved the way for the killing of Osama bin Laden, the architect of the Sept. 11 terrorist attack.

mardi, 23 octobre 2012

Turkey leads US-sponsored Military Encirclement of Syria

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Turkey leads US-sponsored Military Encirclement of Syria

Despite widely reported concerns of blowback in Syria due to the arming of jihadist groups, a military build-up on Syria’s borders is proceeding apace.

Racep Tayyip Erdogan’s Islamist government in Turkey is leading the way, using the pretext of stray mortar fire from Syria that killed five civilians to legitimise the deployment of 250 tanks, jets, helicopter gunships, troops, artillery emplacements and antiaircraft batteries on the border.

The Turkish Parliament recently granted war powers to Erdogan to send troops into Syria. Daily targeting of Syrian facilities was followed last week by the use of F16s to force down a civilian Syrian Airlines Airbus en route to Damascus from Moscow, with claims that it was carrying Russian weaponry.

Erdogan used the United Nations Security Council as a platform to attack Russia and China—“one or two members of the permanent five”—for vetoing anti-Syrian resolutions and demand an overhaul of the Security Council.

Turkey, along with the Gulf States led by Qatar, is also behind a push to unite Syria’s divided opposition forces, with the explicit aim of overcoming the qualms of the Western powers over arming the opposition and backing it militarily. There is an agreement to announce a joint leadership on November 4 at a conference in Qatar, just two days before the US presidential elections.

Foreign supporters “are telling us: ‘Sort yourselves out and unite, we need a clear and credible side to provide it with quality weapons,’” a source said.

Ensuring an effective command structure under the nominal discipline of the Free Syrian Army (FSA) and the actual control of Turkey and its allies requires the inclusion of rival military leaders Riad al-Asaad, Mustafa Sheikh and Mohammad Haj Ali (all defectors from the regime of Syrian President Bashar al-Assad), as well as various leaders of provincial military councils inside Syria. Funds are also being funneled into the Local Coordinating Committees—hitherto held up by various ex-left groups around the world as being independent of the imperialist powers.

UN Arab League mediator Lakhdar Brahimi is making great play of urging Iran to arrange a four-day cease-fire beginning October 25 to mark the Muslim religious holiday of Eid al-Adha. He is saying less about a proposal, more indicative of the UN’s role, to dispatch a 3,000-strong troop force to Syria.

The Daily Telegraph reported that Brahimi “has spent recent weeks quietly sounding out which countries would be willing to contribute soldiers” to such a force, ostensibly to be made operable following a future truce.

The direct involvement of US and British forces would be “unlikely”, given their role in Iraq, Afghanistan and Libya, so Brahimi “is thought to be looking at more nations that currently contribute to Unifil, the 15,000-strong mission set up to police Israel’s borders with Lebanon.”

These include Germany, France, Italy, Spain and Ireland—“one of which would be expected to play a leading role in the Syria peacekeeping force.”

The proposal was leaked by the Syrian National Council (SNC), with whom Brahami met in Turkey at the weekend. On Monday, the SNC was meeting for a two-day summit in the Qatari capital, Doha. Qatar’s prime minister, Sheikh Hamad bin Jassem al-Thani, took the occasion to push for military intervention in Syria. He told reporters, “Any mission that is not well armed will not fulfil its aim. For this, it must have enough members and equipment to carry out its duty.”

The SNC’s 35-member general secretariat was meeting in Doha to discuss “the establishment of mechanisms to administer the areas which have been liberated” in Syria, according to sources.

Discussions of the direct involvement of European troops in Syria are in line with confirmed reports that the US and Britain have despatched military forces to Jordan, for the purported purpose of policing its border and preventing a spill-over of the conflict.

US Defense Secretary Leon Panetta acknowledged the move at an October 10 meeting of NATO defence ministers in Brussels. The US has repeatedly issued denials of a growing military presence in Turkey located at the Incirlik airbase, but Panetta confirmed that Washington had “worked with” Turkey on “humanitarian, as well as chemical and biological weapons issues.”

The next day, the Times of London and the New York Times reported that Britain too has upward of 150 soldiers and military advisors in Jordan. Jordanian military sources said France may also be involved.

Anonymous senior US defence officials told Reuters that most of those sent to Jordan were Army Special Operations forces, deployed at a military centre near Amman and moving “back and forth to the Syrian border” to gather intelligence and “plan joint Jordanian-US military manoeuvres.”

There is “talk of contingency plans for a quick pre-emptive strike if al Assad loses control over his stock of chemical weapons in the civil war,” Reuters added.

Turkey’s bellicose stand has produced widespread media reports that the US and other NATO powers risk being “dragged into” a wider regional war. This in part reflects real concerns and divisions within imperialist ruling circles and in part an effort to conceal the Western powers’ instrumental role in encouraging military conflict.

Attention has been drawn to the refusal of NATO to heed appeals by Turkey for it to invoke Article 5 of its charter authorising the military defence of a member nation. But despite this, NATO has publicly gone a long way towards endorsing Turkey’s actions.

NATO Secretary-General Anders Fogh Rasmussen told reporters at the same Brussels summit that “obviously Turkey can rely on NATO solidarity… Taking into account the situation at our southeastern border, we have taken the steps necessary to make sure that we have all plans in place to protect and defend Turkey,” [emphasis added].

The previous day, a senior US defence official said, “We engage with Turkey to make sure that should the time come where Turkey needs help, we’re able to do what we can.”

In an indication of the type of discussions taking place in the corridors of power, several policy advisers have gone into print to outline their proposals for a proxy military intervention by Turkey to which the US could then lend overt support.

Jorge Benitez, a senior fellow at the Atlantic Council, urged in the October 15 Christian Science Monitor: “To preserve its credibility in Turkey and the region, NATO should offer radar aircraft and/or rapid reaction forces.”

“Too much attention has been focused on the question of invoking Article 5, the alliance’s mutual defence clause,” he added. Other options were available. Before the US-led war against Iraq in 2003, he noted, Turkey had requested a consultative meeting under Article 4 of the NATO treaty “to discuss how the alliance could help Turkey deter an attack from Iraq.”

Using this pretext, NATO approved Operation Display Deterrence, including the dispatch of four AWACS radar aircraft, five Patriot air defence batteries, equipment for chemical and biological defence, and “more than 1,000 ‘technically advanced and highly capable forces’ to support Turkey during the Iraq conflict.”

Soner Cagaptay of the Washington Institute for Near East Policy published an article in the October 11 New York Times on a three-point strategy he called “the right way for Turkey to intervene in Syria.”

He urged Turkey to “continue the current pattern of shelling across the border every time Syria targets Turkey” in order to “weaken Syrian forces” and let the FSA “fill the vacuum;” to “combine shelling with cross-border raids to target Kurdish militants in Syria;” and, if things “get worse along the border,” to stage “a limited invasion to contain the crisis as it did in Cyprus in the 1970s.”