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mercredi, 06 janvier 2010

Céline naufragé

celine.jpg6 janvier 1940 : Louis-Ferdinand Céline n’a pas été directement mobilisé en raison des nombreuses blessures qu’il avait reçues pendant la première guerre mondiale. Il a cependant tenu à servir la France en s’engageant comme médecin dans la marine. Le 6 janvier 1940, le navire sur lequel il officie, heurte un bâtiment britannique au large de Gibraltar et fait naufrage. Céline, selon ses propres mots: “a suturé pendant quatorze heures et piqué dans tous les sens – toute la nuit coupaillé ici et là!”.

 

Lovecraft, il bambino che invento l'horror

Lovecraft, il bambino che inventò l'horror

di Francesco Boco

 
Articolo di Francesco Boco
Dal Secolo d'Italia di sabato 6 settembre 2008 / Ex: http://robertoalfattiappetiti.blogspot.com/

Gli anniversari, si sa, sono un’ottima occasione per rispolverare, o scoprire ex novo, i grandi autori. In questo scorcio d’estate, dunque, vale la pena soffermarsi su uno dei maestri indiscussi della letteratura horror e di fantascienza, insieme a Edgar Allan Poe: Howard Philips Lovecraft, del quale si è da poco celebrato il l’anniversario della nascita.
Nichilista. Cinico. Freddo. Così, di recente l’Espresso ha definito lo scrittore francese Michel Houellebecq, autore de Le particelle elementari, vicende di uomini in cerca di un nucleo. Ma quelle tre incisive e rapide parole possono ben adattarsi a descrivere l’autore a cui lo stesso romanziere francese dedicò il suo primo libro nel 1991: H. P. Lovecraft – contro il mondo, contro la vita (Bompiani). Il pamphlet è agile e gradevole, in ossequio al costume francese. Si fa portare volentieri in tasca per essere letto durante una passeggiata, pur non trattando di argomenti propriamente “allegri”. È un suggestivo colpo d’occhio sulla vita e l’opera dello scrittore americano.
Lovecraft, che molto più che autore “di genere” è uno dei maggiori scrittori americani del secolo scorso, nasce il 20 agosto 1980 nel Rhode Island, da un’agiata famiglia borghese. Perde presto il padre e si affeziona molto al nonno Whipple Phillips, dal quale eredita la ricca biblioteca e la passione per la lettura. Tra quegli scaffali il giovane Howard conosce la grande letteratura, le scienze e la mitologia e la sua fantasia inizia a viaggiare, tanto che a sette anni è già autore di brevi racconti fantastici e inizierà presto a essere affascinato dall’inanimato e dal maestoso.
Dopo una crisi nervosa, durante la quale stracciò quasi totalmente i suoi scritti giovanili, nel 1913 viene contattato per degli articoli scientifici dalla United amateur press association, collaborazione che poi si concretizzerà dal 1919, anno in cui Lovecraft riprenderà con entusiasmo l’attività narrativa, potendo finalmente trovare uno sbocco espressivo, seppure amatoriale, ai suoi scritti. Ispirato da grandi maestri come Lord Dunsany, William Hope Hodgson e Arthur Machen scrisse racconti dell’orrore “classico” come La tomba, La dichiarazione di Randolph Carter o Il terribile vecchio, a cui ben presto si affiancarono racconti anticipatori dell’universo mitico per cui è diventato celebre: Dagon (1917) e Nyarlathotep (1920). In questi ultimi ad esempio s’iniziano a intravedere le titaniche e folli città dei “grandi antichi”, gli dèi mostruosi che gorgogliano nell’oscurità stellare. Stupefacenti racconti di fantascienza dove si parla di dimensioni in bilico tra la veglia e il sogno, in cui mostruosi intermediari degli “altri Dèi” e creature informi iniziano a fare la loro comparsa. Con i racconti degli anni seguenti, Lovecraft darà vita al “ciclo di Cthuluh” e a quello di Randolph Carter.
Nel 1923 esce il primo numero della rivista di “science-fiction” Weird Tales, il primo magazine professionale dedicato ai racconti del fantastico e che negli anni costituirà per Howard Phillips il principale sbocco pubblicistico. Nel marzo del 1924 si trasferisce a New York con la giovane moglie Sonia Greene. Qui Lovecraft non si sentirà mai a suo agio. Da “socialista reazionario”, profondamente conservatore e puritano, non riuscirà ad adattarsi alla vita della grande metropoli e la sua paura e avversione per gli immigrati lo travolgerà con delle punte di xenofobia ben note ai critici letterari. A New York prosegue intanto il suo ingrato lavoro di correttore di bozze, che spesso però si trasforma in vera e propria riscrittura di racconti per conto terzi. Tanto che l’edizione completa dei racconti per Mondadori include anche quelli scritti in “collaborazione”. Lo stesso anno, ad esempio, scrisse Sotto le piramidi, su commissione del mago Houdini; perdutolo alla stazione di Providence, dovrà riscriverlo in luna di miele. A New York Lovecraft cerca un impiego, ma il disprezzo per il “business” e la vita movimentata della città lo rendono ben presto insofferente e fu ben felice di fare ritorno alla sua amata Providence nel 1926, in seguito a un trasferimento della moglie nel Midwest per opportunità di lavoro.
Mentre il matrimonio finirà di lì a breve, la sua vena creativa, dopo l’avvilente periodo trascorso nella Grande Mela, è assai prolifica e in questo periodo compaiono molti dei suoi racconti migliori e più famosi. Lo straordinario Il caso di Charles Dexter Ward, Il colore venuto dallo spazio fino al romanzo breve Le montagne della follia (1931). Quest’ultimo era un omaggio al grande Edgar Allan Poe. Si ispirava e proseguiva in quale modo le vicende del romanzo Le avventure di Gordon Pym, prolungandone le suggestioni sull’esplorazione dell’Antartide, allora ancora inesplorato.
I mostruosi miti stellari lovecraftiani prendono forma, compaiono Cthuluh, un terribile incrocio tra un polipo, un toro e un essere volante, altre creature fatte di spore o colori mai visti e così via. La fantasia del “solitario di Providence” è di una vastità e di una potenza straordinarie e la sua scrittura fredda, quasi medica, non fanno che accentuare il senso di disagio e inquietudine che i racconti trasmettono al lettore. L’anno scorso Bompiani ha raccolto, a cura di Gianfranco de Turris, i testi del ciclo di Randolph Carter sotto il titolo Il guardiano dei sogni. Questa interessante iniziativa editoriale presenta un lato meno conosciuto dello scrittore di “cosmic horror”: ci troviamo davanti a una serie di racconti del fantastico che solo in parte hanno a che vedere con l’orrore extraterrestre dei Grandi Antichi. È la vicenda di un lungo viaggio avventuroso, in cui magia e mito, oscurità e luce, s’intrecciano con un ritmo incalzante. Le suggestioni egizie amate da Howard si intravedono nella splendente Città del tramonto e la magia dei gatti lo segue per tutto il viaggio. Si respira un’aria esotica e come rileva giustamente il curatore, qui Lovecraft/ Carter è un novello Ulisse, un cercatore, un viandante che va in cerca della città meravigliosa, e finirà per trovare se stesso. È un racconto che conserva, come molti dell’autore, una costruzione mitica, ma l’immaginazione e il sogno hanno un ruolo determinante. E Lovecraft continua a interrogarci beffardo sulla realtà dei nostri sogni.
Ciò che negli anni ha reso grande questo autore è stata la capacità di superare i vecchi canoni del racconto “gotico” per raggiungere nuove capacità espressive e nuove dimensioni dell’orrore. La paura è inestirpabile dall’animo umano, diceva, e su questo sentimento così radicato egli insistette con grande intensità in tutta la sua opera. Come accennato nasce con Lovecraft l’orrore cosmico, l’orrore cioè che richiama dimensioni altre, al di là di quella semplicemente umana e terrestre. La dimensione del sogno e l’irrazionale fanno la loro comparsa nel mondo e finiscono con l’annientare la vita umana. Il mondo dell’uomo sembra davvero nulla al cospetto dei “grandi antichi”, immobili creature senza vita e senza morte, che scrutano dai più lontani abissi stellari la piccola terra.
Inventò anche la leggenda attorno al libro maledetto chiamato Necronomicon, un trattato blasfemo e proibito in cui sarebbero contenute le formule per evocare i “grandi antichi”. Attorno al mito di questo libro misterioso è fiorita tutta una letteratura fantastica di amanti dell’immaginario e dell’irreale.
L’universo lovecraftiano ha influenzato moltissimi autori contemporanei di racconti dell’orrore o del fantastico, da Stephen King a Fritz Lieber fino al giovane Neil Gaiman artefice del postmoderno e sognante American Gods. Il mondo dei videogiochi è a sua volta debitore all’immaginario legato agli orrori stellari, è il caso della serie Alone in the dark, e anche il cinema ha più volte cercato di omaggiare, con risultati davvero da dimenticare, il maestro di Providence. Tra i pochi, merita d’essere ricordato l’anticonformista John Carpenter, che è riuscito a rendere omaggio a Lovecraft col film Il seme della follia (titolo originale In the Mouth of Madness, che gioca evidentemente con il già citato racconto Le montagne della follia).
Recentemente anche il bonelliano Martin Mystère si è richiamato ampiamente alla mitologia di Cthuluh e orrori vari nel numero di giugno/luglio dal titolo “L’orrore oltre la soglia”, dove tra misteriose cripte e incisioni incomprensibili spunta persino un viscido e gigantesco Cthuluh pronto a fare la pelle agli intrepidi che hanno osato risvegliarlo.
Howard Phillips Lovecraft merita davvero di essere ricordato. La sua influenza sulla letteratura e l’immaginario è immensa e, nonostante le condanne di alcuni censori alla Moorcock, le poche parole incise sulla lapide ancora tengono viva la memoria di un uomo che davvero è diventato un simbolo, e che a ragione ha potuto dire di sé: «Io sono Providence».
Francesco Boco. Nato nel 1984, è specializzando in Filosofia con una tesi su Oswald Spengler e Martin Heidegger. Ha tradotto e curato il saggio di Guillaume Faye su Heidegger, Per farla finita col nichilismo. Collabora a quotidiani e riviste, tra cui: Secolo d’Italia, Letteratura-Tradizione, Divenire e siti web come http://www.uomo-libero.com/ .

Démocratie américaine et dialectique de la liberté

estados-unidos.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990

Démocratie américaine et dialectique

de la liberté

à propos d'un livre de Gottfried Dietze

 

par Hans-Dietrich SANDER

Parmi les livres dignes d'intérêt récemment pa­rus, et soumis à la conspiration du silence, il y a l'ouvrage sur l'Amérique de Gottfried Dietze:

 

Gottfried Dietze, Amerikanische Demokratie — Wesen des praktischen Liberalismus,  Olzog Verlag, München, 1988, 297 S., DM 42.

 

Depuis longtemps déjà, l'auteur n'avait plus pu­blié d'articles dans la Frankfurter Allgemeine Zeitung  et dans Die Welt (Bonn). Il n'est plus membre de la Mount Pelerin Society.  Il s'en est retiré, parce qu'il ne lui a pas été permis de pro­noncer son discours sur Kant en langue alle­mande lors d'une diète de la dite société à Berlin! Mais personne en revanche n'a pu le traiter de «terroriste intellectuel». Gottfried Dietze est pro­fesseur ordinaire de «théorie comparée des pou­voirs» à la John Hopkins University de Baltimore, l'une des cinq universités les plus co­tées aux Etats-Unis (sa faculté occupe d'ailleurs la première place en son domaine). Ses travaux, il les publie en Allemagne chez J.C.B. Mohr (Paul Siebeck) et chez Duncker & Humblot, c'est-à-dire chez les meilleurs éditeurs de matières polito­logiques. La maison Olzog, qu'il a choisie pour éditer son livre sur l'Amérique, ouvrage destiné à un public plus vaste, ne suscite pas davantage les colères des professionnels hystériques qui enten­dent façonner l'opinion publique selon leurs seuls critères. La démocratie ouest-allemande vient manifestement d'atteindre un seuil critique, où, désormais, ceux qui prononcent des paroles libres, claires, transparentes, passent pour des excentriques. Et, «notre démocratie», pour re­prendre les mots de son Président Richard v. Weizsäcker, ne peut pas se permettre des excen­triques politiques.

 

Critique du libéralisme pur et réminiscences tocquevilliennes

 

Dietze passe depuis longtemps déjà pour un ex­centrique dans notre bonne république. Pour être exact, depuis que le Spiegel a découvert, jadis, qu'il servait de conseiller au candidat à la Présidence américaine Barry Goldwater, et cela, au moment où la guerre du Vietnam atteignait son point culminant. Toute évocation de son nom, à l'époque, suscitait la suspicion. Il a tenté de re­venir en Allemagne, en y postulant un poste uni­versitaire. Sans succès. Le dernier des grands théoriciens du libéralisme politique n'est pas le bienvenu dans la République fédérale, acquise pourtant aux principes du libéralisme. Cette si­tuation n'est pas incompréhensible. Elle découle, d'une part, du rapport même que Dietze entretient avec l'idéologie libérale et, d'autre part, de son engagement politique aux côtés de Goldwater. La modestie de Dietze est telle, qu'il n'a pas osé pa­raphraser Kant dans les sous-titres de ses ou­vrages majeurs, Reiner Liberalismus (Le libéra­lisme pur) et Amerikanische Demokratie (La dé­mocratie américaine). Au premier, il aurait parfai­tement pu donner le titre de Kritik des reinen Liberalismus  (Critique du libéralisme pur); au second, Kritik des praktischen Liberalismus  (Critique du libéralisme pratique). Il aurait ainsi imité le grand penseur de Königsberg, avec sa Critique de la raison pure  et sa Critique de la rai­son pratique.

 

Le titre du livre qui me préoccupe ici, Amerikanische Demokratie,  paraphrase pourtant un autre grand théoricien politique, Alexis de Tocqueville, auteur de La démocratie en Amérique. Mais Dietze adopte une perspective critique à l'endroit des idées de Tocqueville. Il cherche à donner d'autres définitions aux con­cepts. Contrairement à Tocqueville, qui, il y a 150 ans, voulait explorer l'essence de la démo­cratie à la lumière de la démocratie américaine, Dietze cerne la démocratie américaine en soi, qui, dans la forme qu'elle connaît aujourd'hui, n'existait pas encore vers 1830-40, sa transfor­mation radicale par Andrew Jackson n'en étant qu'à ses premiers balbutiements. La démocratie américaine, explique Dietze, est fondamentale­ment différente des autres démocraties, ce qui la rend précaire quand elle est imposée à d'autres pays.

 

La néomanie américaine

 

Dietze approche son sujet en analysant les phé­nomènes et les discours de la quotidienneté amé­ricaine, de la banalité quotidienne de l'American Way of Life, qui, soutenu par cette bonne cons­cience typique du «Nouveau Monde», se présente comme une poussée incessante vers la nouveauté (Drang nach dem Neuen), vers tout ce qui est nouveau. Le concept américain de liberté repose sur un fondement problématique: en l'occurrence sur la volonté d'être toujours prêt à réceptionner cette nouveauté. Ensuite, ce concept trouve son apogée dans la notion de Manifest Destiny, du destin et de la mission de l'Amérique, qui est d'apporter cette liberté à tous les autres peuples. Dans la foulée de ses possibilités illimitées, la démocratie américaine n'a pas créé une forme spécifique de libéralisme politique mais des va­riations libérales toujours changeantes.

 

Ce type de démocratie a très fortement marqué le peuple américain et, à l'inverse, le peuple a mar­qué la démocratie américaine. Les origines des Etats-Unis, faites d'émigrations et d'immigrations, se sont transformées en migra­tions et en vagabondages, en manifestations et en agitations. Le résultat: une absence permanente de racines, qui trouve un parallèle saisissant dans le monde juif toujours dé-localisé (ent-ortet). Cette absence de racines est la condition première de la symbiose actuellement dominante. Contrairement aux symbioses d'antan, cette symbiose actuelle ne présente pas une panoplie de négations qui se combinent utilement à des positions données, mais une gamme de négations qui s'imposent sur la scène publique en se créant du tort les unes aux autres.

 

Une pulsion jamais assouvie de liberté jouissive

 

Le pouvoir du peuple en Amérique oscille ainsi de la démocratie élitaire à la démocratie égalitaire, de la démocratie représentative à la démocratie di­recte, de la démocratie limitée à la démocratie il­limitée. Quelle vue d'ensemble cela donne-t-il? Celle d'un «pot-pourri dans le melting pot»; par «melting pot», nous n'entendons pas, ici, le seul mélange des races et des ethnies. Ce jeu chao­tique dérive précisément de cette pulsion inces­sante vers la nouveauté et se maintient par la force intrinsèque dégagée par cette pulsion. Il dérive des droits inaliénables à jouir de la triade life, li­berty and pursuit of happiness, d'une liberté toujours plus grande qui se mesure surtout à la possession de biens matériels et à leur jouissance. Dans une telle optique, le pays n'est rien, l'individu est tout.

 

Ce serait bien là le perpetuum mobile  d'un monde totalement immanent, si la pulsion de li­berté n'était pas pluri-signifiante et à strates mul­tiples. Dans son analyse, Gottfried Dietze déploie une dialectique de la liberté, où sa position vis-à-vis du libéralisme prend des formes socratiques. En effet, le livre, en de longs passages, se lit comme un dialogue, où chaque facette est oppo­sée à son contraire (son négatif), si bien qu'à la fin, on débouche sur des questions ouvertes.

 

La pulsion de liberté du libéralisme pur n'est pas seulement dirigée contre les tyrans: elle s'épuise dans la lutte interne de concurrences diverses aux frais des autres. Cela ne nous mène pas seule­ment à la lutte hobbesienne de tous contre tous, lutte où apparaîtrait juste la crainte de Hegel de voir l'homme considérer qu'une telle liberté au­torise et prône le vol, le meurtre et le désordre, mais aussi à une exploitation despotique de la mi­norité par la majorité, ce qui serait parfaitement conciliable avec le libéralisme, parce qu'il exige plus de liberté pour l'individu sans regard pour les autres.

 

La transposition de cette émancipation dans le domaine de la libido, comme on a pu l'observer au cours de ces dernières décennies en Amérique, fait que cette pulsion, sans regard pour autrui, qui poursuit sa quête insatiable de bonheur conduit à une «jungle sexuelle» que Hobbes n'avait pas pu imaginer.

 

Une symbiose entre

Jefferson et Freund

 

La permissivité engendrée par la lutte concurren­tielle outrancière et la multiplication des contacts sexuels, où la question du bien et du mal n'est plus posée, a forgé une symbiose entre Jefferson et Freud, dont les conséquences excessives ne peuvent surgir qu'en Amérique: «Les idées de Freud, telles qu'elles ont été prises en compte et perçues par les Américains, ont complété celles de Jefferson —du moins dans les interprétations qu'elles avaient acquises au cours du temps; elles les ont complétées de façon telle que le pensée li­bérale ancrée dans ce peuple s'est vue considéra­blement élargie, s'est apurée à l'extrême et s'est détachée de tout contexte axiologique».

 

Sur le plan de la liberté, nous apercevons très vite la différence essentielle entre Tocqueville et Dietze. Tocqueville voyait une démocratie améri­caine liée à l'idée d'égalité, suscitant une tendance générale et progressive à expulser toute notion de liberté. Dietze, au contraire, voit dans la liberté le pôle adverse de la démocratie et de l'égalité; et, pour lui, la liberté est tout aussi illusoire que la démocratie et l'égalité. Ce que Tocqueville crai­gnait jadis, soit de voir advenir une dictature égalitaire de la démocratie, n'a pas eu lieu: la pulsion de liberté s'y est sans cesse heurtée et en a émoussé les contours.

 

La pulsion de liberté, en tant que fondement ul­time du libéralisme à l'américaine, s'est toujours mise en travers de toutes les mesures de contrôle, d'équilibrage et de conservation. Sans ces me­sures, le libéralisme devient un mouvement anti-autoritaire. De ce fait, le despotisme de la majorité et le mouvement anti-autoritaire sont les extrêmes du libéralisme pratique, extrêmes qui se rejoi­gnent dans le libéralisme pur. Prenons deux exemples.

 

Une presse libre qui censure

ce qui ne lui plaît pas

 

Le premier montre comment l'expression «presse populaire» a acquis un sens ambigu. La presse, qui, à l'origine, était un instrument servant à presser des lettres sur du papier, a fini très vite par presser ses vues dans les cerveaux du peuple, à la manière la plus libérale qui soit: «L'ancienne liberté de presse, soit la liberté de la presse vis-à-vis de toute censure étatique, s'est transformée radicalement: elle est devenue liberté pour la presse de censurer, dénoncer et vilipender l'Etat, des citoyens individuels et des groupes précis de la société d'une manière éhontée, nuisant aux cibles infortunées et profitant à ceux qui usent et abusent de cette liberté. Cette situation s'observe dans tous les pays où la presse est libre mais elle est plus frappante encore aux Etats-Unis, écrit Dietze, le plus libéral des pays».

 

Le deuxième exemple nous montre les possibili­tés illimitées que laisse entrevoir le jeu de mot democracy/democrazy,  où le «pouvoir du peuple» apparaît comme l'«enfollement du peuple». Dietze souligne à plusieurs reprises que la quintessence de la démocratie américaine ne permet pas de percevoir cet «enfollement» comme une dégénérescence. Car la quintessence de la démocratie américaine, c'est que son libéralisme est réellement sans principes, dépourvu de tout point de référence éthique et de toute forme de responsabilité.

 

Les déceptions des Européens face à l'extrême versatilité américaine ne sont dès lors pas con­vaincantes: «Vu d'Amérique, vu du lieu où se bousculent toutes les variantes et variations du li­béralisme, il ne peut guère y avoir de déceptions nées du spectacle et du constat de comportements instables, du va-et-vient de la politique améri­caine. On ne peut être déçu que lorsque quelque chose évolue d'une façon autre, pire, que ce que l'on avait prévu. Mais, dans la démocratie améri­caine, qui se rapproche plus du libéralisme pur que n'importe quelle autre démocratie, on ne doit guère s'attendre à une politique constante. Toute constance y disparaît sous la pression des sou­haits et des désirs des individus et du peuple, mus par l'humeur du moment».

 

Anarchie et volonté de simplification outrancière

 

Au point culminant de ses analyses enjouées et sans pitié, qui rappellent celles de Machiavel, Dietze cite le poète irlandais William Butler Yeats: «Things fall apart; the center cannot hold; Mere anarchy is loosed upon the world»  («Les choses se disloquent; le centre ne maintient plus rien; une anarchie brute envahit le monde»). Pour Dietze, Yeats, dans cette phrase résume l'essence du libé­ralisme pur. Quand cette situation d'anarchie est atteinte, toute dialectique de liberté prend fin.

 

Dietze explique ensuite le processus dans son moteur intime et profond: «Bien des signes nous l'indiquent: la complexité croissante de la vie a éveillé une nostalgie du simple, du pur, avec des simplifications outrancières, si bien que la démo­cratie n'apparaît même plus comme une forme politique dans le sens où l'entendaient Locke ou Rousseau mais bien plutôt comme l'entendait Bakounine». La démocratie à l'américaine est le catalyseur de ce courant sous-jacent fondamental: «Sans doute, très probablement, les évolutions du Nouveau Monde, avec la pulsion constante de changement qui règne là-bas, ont accéléré le pro­cessus. Car l'américanisation du monde est un fait que l'on ne saurait ignorer en ce siècle, que les Américains déclarent être le leur, même si le rêve d'une pax americana  est passé depuis long­temps».

 

La question finale que pose le livre de Dietze est la suivante: «Qu'adviendra-t-il de l'Amérique et de l'américanisme? Il faut attendre. L'avenir nous le dira». Question rhétorique ou question ma­cabre? Dietze prononce des vérités que l'on n'aime guère entendre dans la République de Bonn, où l'on considère la démocratie à l'américaine comme une sotériologie, pour ne pas dire comme une vache sacrée, alors que cette dé­mocratie a été instaurée en RFA comme un sys­tème provisoire mais qu'on s'est habitué à consi­dérer comme définitif. Ce sont des vérités que l'on n'aime guère entendre parce qu'elles sonnent justes. On préfère se boucher les oreilles.

 

Après la révolution populaire allemande de RDA, qui fait apparaître la démocratie de Bonn pour ce qu'elle est vraiment, soit un système provisoire, et la remet en question, il n'est pourtant plus possible de se boucher les oreilles. Les Alle­mands devront, en opérant la synthèse de leurs divers systèmes politiques actuels, trouver une réponse adéquate, adaptée à leur histoire, pour dépasser le système de la démocratie à l'amé­ricaine.

 

Hans-Dietrich SANDER.

(recension parue dans Staatsbriefe 1/1990; adresse: Castel del Monte Verlag, Türkenstr. 57, D-8000 München 40).

 

 

 

mardi, 05 janvier 2010

Barack Obama, Interventionist and Ultimate Jihadi Hero

obama_war_monger.jpgBarack Obama, Interventionist and Ultimate Jihadi Hero

December 31, 2009 : http://original.antiwar.com/

In his less-than-fifteen-minute, 28 December statement on the Detroit airliner attack and Iran, President Obama exhilarated America’s Islamist foes and neatly encapsulated the U.S. governing elite’s absolute inability to see that its full-bore interventionism is leading America to ruin.

In his response to the al-Qaeda attack in Detroit, Obama echoed the identical analytic path blazed by his fellow interventionists George W. Bush and Bill Clinton:  

–The would-be bomber was a lone, extremist Muslim who was acting outside the tenets of his Islamic faith — the religion of peace — and was intent on slaughtering the innocent.  

–We — with our allies — will track down the bomber’s colleagues wherever they are and bring them to justice. 

–We will do the tracking-down gently so as not to undermine our most deeply held values. (And instead of being an adult and quietly firing those who failed to stop the Detroit attacker, I will blame my subordinates, publicly humiliate U.S. intelligence services, terrorize Americans by alleging "catastrophic" and "systemic" failure, and publicly detail the holes in our security system.) 

Obama’s prescription for defeating al-Qaeda and like-minded groups maintains continuity with the failed and stubbornly ignorant approach Washington has adhered to since bin Laden declared war on the United States in August, 1996. (Yes, August 1996 — we have been unsuccessfully fighting this enemy for 13.5 years.)  If the history of America’s al-Qaeda-fight proves anything, it is that 

–Al-Qaeda-ism is not outside the parameters of the Islamic faith.  While not mainstream, the religious justification for fighting U.S. interventionism in the Islamic world is growing in acceptance among the 80 percent of the world’s Muslims who deem U.S. foreign  policy an attack on their faith. In addition, bin Laden’s jihad has an extraordinarily strong positive resonance among always historically minded Muslims. Al-Qaeda’s victories remind them of battles fought by the Prophet and Saladin which produced miraculous victories over far more powerful enemies — like a barely trained kid from Nigeria beating the greatest power the world has ever seen. 

–An obviously failing fight that is now approaching 14-year duration ought to be irrefutable evidence that Clinton’s law-and-order-based strategy — even with Bush’s spasms of vigorously applied military power — has not a prayer of succeeding.  

–Whether we do our tracking/arresting/killing ethically or brutally is irrelevant.  Each al-Qaeda attack on the United States — successful or not — strengthens the hands of those politicians and bureaucrats who will curtail the civil liberties of Americans. The next successful al-Qaeda attack in the United States — because the U.S. military has no telling enemy targets left overseas — will yield civil-rights curtailments that will make President Bush look like Clarence Darrow. 

Besides flogging this dog-eared and bankrupt response to al-Qaeda, Obama likewise followed his predecessors’ refusal to explain our Islamist enemies’ motivation to Americans. This failure is completely attributable to the fact that Obama has aligned himself fully the Bush-Clinton-Bush legacy of interventionism in the Muslim world. 

–By bowing to the Saudi king, accepting the jailer Mubarak’s hospitality, putting U.S. arms at the disposal of the dictator of Yemen (where, by the way, Senator Lieberman is panting for another U.S.-waged war to defend Israel), Obama has reinforced Muslim perceptions that America wants them governed by tyrannical police states that will keep oil flowing to the west. 

–By making an IDF veteran his chief of staff, acquiescing to Israeli settlement expansion, and authorizing billions more in arms for Israel, Obama is convincing Muslims he intends to keep warbling that old American standard:  "Israel, Israel Uber Alles."

–By augmenting the U.S. military force in Afghanistan — in numbers sufficient to tread water and bleed but not to win — and sending the first new forces to southern Afghanistan where al-Qaeda forces are minimal, Obama has reinforced both the general Muslim belief that U.S. policy is meant to destroy Islam, not al-Qaeda, and bin Laden’s certainty that the U.S. military is a paper tiger. 

Then there is Iran.  Listening to Obama as he spoke gave the impression that he was eager to get the Detroit-attack stuff out of the way so he could rhetorically intervene in Iran’s internal affairs.  Joining with our allies — read other Western interventionists and pawns of Israel — Obama said he wanted to condemn the Tehran regime’s at-times-lethal crackdown on opposition demonstrators. He said that Ahmadinejad and the ruling clerics were trampling on the "universal rights" of Iranians, and that such actions must stop. There are, of course, no universal political rights; this idea is the pipedream of Western secular intellectuals and interventionists, and is part and parcel of the interventionist nonsense Obama included in his Nobel speech about the "perfectibility" of the human condition through the efforts of "enlightened" men and women. 

Obama’s mind is emerging as a mind filled with war-causing secular theology of the French Revolution. That revolution was all about enlightened leaders "perfecting" the common man for what the revolutionary elite deemed to be his own good, and using the vehicles of government edict, fanatic secularism, and force to do so. (Sounds a bit like the universal health-care plan, doesn’t it?) The French Revolution went on to father Hitler, Stalin, the Khmer Rouge, and other mass-murdering regimes.  In the American context, the revolution’s impact has been the slow but increasingly complete replacement of the Founders’ sturdy non-interventionism — which recognized the pivotal and necessary role religion plays in all polities — by our current bipartisan elite’s obsession with interfering in other peoples’ internal affairs, especially if those internal affairs are interwoven with religion. For Obama and most members of our governing elite, today’s Iran fairly screams for Western intervention to break the mullahs’ backs and install secularism; to destroy an Israeli foe and ensure AIPAC funds to continue to flow into their pockets; and to make them feel good about themselves, no matter the cost to Americans and their children. 

In a statement of less than a quarter-hour, then, Obama demonstrated how thoroughly he slicked Americans in the last presidential election. The "hope" he offered turns out to be not less but more war-causing interventionism framed by a secularist "moral compass" alien to most non-elite Americans; the "Yes we can" slogan has proven to refer to making Obama’s Washington the agent of forced Westernization from the Congo to Afghanistan, and from Burma to Iran; and the president’s much-touted "audacity" seems nothing more than Obama’s brass in continuing to reassuringly chant the Bush-Clinton-Bush lie to Americans that Islamists attack us because of our way of life not because of our interventionism.  

And thus is how a great republic is being ruined by the littlest of arrogant and willful men.

Limes 6/2007 - Pianeta India

Limes 6/2009 in edicola e in libreria dal 31 dicembre

Pianeta India

Sommario






EDITORIALE - IL GIGANTE BUONO





(clicca sulle miniature per andare alle carte)



PARTE I INDIA/INDIE

Francesca MARINO - Esiste l’India?

Quasi nulla accomuna il miliardo e duecento milioni di indiani: né la lingua, né la religione, né l’etnia, né le condizioni socio-economiche. Eppure l’identità nazionale esiste e si propone come modello di convivenza. Una lezione per l’Occidente.

Meghnad DESAI - Un paese di successo che resta molto povero
Le riforme economiche degli ultimi vent’anni hanno prodotto tassi di crescita invidiabili, persino in piena recessione globale. Ma centinaia di milioni di indiani sopravvivono ancora con uno o due dollari al giorno. La stabilità politica e la questione delle caste.
Enrica GARZILLI - Gandhi dinasty
Una grande famiglia per la più grande democrazia del mondo, dove le cariche si tramandano per via parentale. Dal padre del primo capo del governo indiano fino al figlio di Sonia, una storia di potere, influenza e nepotismo.
K.P.S. GILL - La resistibile ascesa dei maoisti nel Bengala senza Stato
Le tappe storiche del movimento naxalita in uno degli Stati più poveri e martoriati della Federazione Indiana. Auge e declino dei ‘nemici’ marxisti. La debole risposta dello Stato. Chi vincerà le prossime elezioni?
Ajai SAHNI - Il cancro maoista si batte con più Stato
La guerriglia naxalita guadagna terreno nelle immense campagne dell’India, escluse dalla modernizzazione. L’ideologia non c’entra niente: a spingere i contadini alla rivolta è la miseria. E decenni di politica corrotta e incompetente.
Kanchan LAKSHMAN - Il Pakistan resta uno Stato canaglia
Malgrado le pressioni americane e i successi dell’intelligence indiana, Islamabad continua a sostenere il terrorismo jihadista. La strage di Mumbai dimostra che, ormai, la minaccia va ben oltre il Kashmir. La mappa del rischio. Le risposte di Delhi.
Daniela BEZZI - Corridoio rosso
Viaggio nel Jharkhand tribale, epicentro di un territorio ingovernabile conteso da etnie, movimenti ribelli, grandi industrie a caccia di materie prime. L’efficienza dei maoisti. Una campagna elettorale tra miseria, corruzione e India Shining.
Francesca MARINO - Il Gujarat è questione di Modi
Lo Stato dell’India occidentale è nelle mani del primo ministro Narendra Modi. Implicato nei massacri del 2002, deve la sua forza al rigore morale e alle capacità amministrative. Strumenti che presto potrebbero portarlo alla guida del paese.
Bhikhu PAREKH - Il dolore di Gandhi se tornasse in India
Lo Stato per il quale il Mahatma si era battuto e che aveva tanto amato oggi calpesta i princìpi del maestro. Corruzione, povertà, indifferenza e ignoranza rispecchiano il fallimento del progetto originario. Le basi del risorgimento gandhiano.
Chitvan GILL - Tutte le strade portano a Delhi
Città dalle mille anime, la capitale dell’India è un concentrato di stranezze e contraddizioni. Nella sua storia tragica e grandiosa è racchiusa l’essenza di una nazione in bilico fra passato e futuro. Che non ha paura del mondo. Ma ha imparato a temere se stessa.
Luca MUSCARÀ - Slums e globalizzazione
In India fioriscono le megalopoli, dove si concentrano in modo stridente le contraddizioni fra le punte ipermoderne dell’industria e la miseria delle baracche. Trecentodieci milioni di anime in cinquemila città: l’urbanizzazione indiana procede senza sosta.
S.D. MUNI - La diaspora indiana: una risorsa strategica emergente
Dai servi per debiti ai grandi manager, l’India ha esportato nel mondo le sue due facce. Dopo esser stati mal considerati, oggi gli emigrati sono premiati con alte onorificenze. I casi della Birmania, dell’Africa Orientale, del Golfo e delle Figi. Le rimesse e il Kerala.
Marco RESTELLI - Se dici cinema dici India
L’industria della cellulosa di Delhi ha saputo negli anni superare i confini nazionali e imporsi nel mondo. Grazie al Middle Cinema, sintesi perfetta tra le pellicole di Bollywood e i film d’autore, e alle cifre d’incasso. Ma l’Italia non se ne èaccorta.
Paola TAVELLA - Nehru e i Mountbatten: amore, sesso e geopolitica
La relazione fra il primo leader indiano e la moglie dell’ultimo viceré britannico sarà al centro di un film che già scatena polemiche internazionali. Un rapporto speciale che favorì l’India nella partizione del Punjab.
Alberto BRACCI TESTASECCA - Il viaggio freak nell’India del velo di Maya


PARTE II NON (ANCORA?) UNA GRANDE POTENZA

Parag KHANNA - Il futuro dell’India è tra i grandi del mondo
Conversazione con Parag KHANNA, direttore della Global Governance Initiative e Senior Research Fellow presso l’American Strategy Program della New America Foundation di Washington, a cura di Fabrizio MARONTA
Beniamino NATALE - La fine di Cindia: venti di guerra sul confine indo-cinese
Negli ultimi mesi sono riesplose le dispute geopolitiche e le antiche rivalità fra Delhi e Pechino. La ricognizione di una frontiera mai definita evidenzia i rischi di un nuovo conflitto fra le due potenze nucleari. Il caso Tibet e la questione dell’Arunachal Pradesh.
P.R. CHARI - A che serve la Bomba
Messi da parte i princìpi gandhiani e considerata la minaccia della coppia Cina-Pakistan, dagli anni Sessanta Delhi ha lavorato al nucleare militare. Il ruolo decisivo di Indira Gandhi. Le ambigue concezioni strategiche delle Forze armate indiane.
Ezio FERRANTE - Oceano nostro
Delhi considera l’Indiano come un vastissimo mare nostrum e sta attrezzando la sua Marina per sostenere tale ambizione. I porti strategici e la produzione in proprio di portaerei. Fantastrategie antiamericane.
Vijay PRASHAD -Tutta colpa dei britannici se ci scanniamo per le frontiere
Le linee tracciate frettolosamente da Londra in Asia meridionale, in specie fra India e Pakistan, sono all’origine dei contenziosi frontalieri nella regione. Conflitti spesso illogici, ma che alimentano potenti warfare States. La disputa sino-indiana.
Raimondo BULTRINI - Dove rinascerà il Dalai Lama?
Il caso del monastero di Tawang, nell’estremo Nord dell’India, dove potrebbe reincarnarsi la guida spirituale tibetana. Un altro motivo di tensione nei rapporti fra Pechino e Delhi. Se l’Oceano di Saggezza si sdoppia.


PARTE III AFPAK: UNA GUERRA INDO-PAKISTANA

Nirupama SUBRAMANIAN e Pervez HOODBHOY - Gemelli diversi
Dopo gli attentati di Mumbai l'Indiasi interroga su quale atteggiamento tenere con il suo turbolento vicino. Spente le luci di una possibile distensione, prevale la prudenza. Meglio un Pakistan democratico ma instabile o la relativa affidabilità dell’esercito? Un’opinione indiana e una pakistana a confronto.
Ayesha SIDDIQA e B. RAMAN - Afghanistan, triangolo a due lati
Solo il concorso di tutti gli attori regionali potrebbe, forse, stabilizzare il baricentro degli equilibri centrasiatici dopo il ritiro definitivo delle truppe Usa. Ma le geometrie immaginate a Islamabad e Delhi, sorrette da paure e ambizioni contrapposte, si elidono l’una con l’altra. Un analista pakistano e uno indiano ci spiegano i rispettivi perché.
Praveen SWAMI - Chi tocca il Kashmir muore
L’assassinio di Fazal Haq Qureshi, leader dei musulmani kashmiri favorevoli al dialogo con Delhi, riapre lo scontro nella regione contesa fra India e Pakistan. Dalla partizione ad oggi, la tormentata storia del conflitto indica che la pace è ancora lontana.


liMesIN PIÙ

John C. HULSMAN - No, he can’t
Dalla disputa israelo-palestinese all’Afghanistan e all’Iran, per il presidente Usa la forbice tra aspettative e risultati si è pericolosamente allargata. Gli eccessi retorici e le aporie strategiche del miglior leader di cui l’America disponga. Qualche suggerimento per far meglio.
Matteo TACCONI - La Bosnia che non esiste entrerà in Europa quando l’Europa sarà morta
La pace fredda, al massimo tiepida, non ha alternative in quel che resta del paese spartito tra croati, serbi e bosgnacchi. Con i soldi altrui e sotto il protettorato internazionale, le tre etnie dominanti si sono arroccate nei rispettivi territori.
Marco ANSALDO - In Corea del Nord non si può passeggiare
Nonostante un certo ammodernamento, il paese asiatico resta isolato dal resto del mondo. Una cortina d’acciaio, fatta di controllo serrato, autocensura e austerità, è stesa con sapienza dal potere che la lascia penetrare solo dagli aiuti umanitari.
Raymond BARRE - Alexandre Kojève, il consigliere del principe (presentazione di Marco FILONI)



Gli articoli del volume elencati in questo sommario sono disponibili solo nella versione di Limes su carta, acquistabile in edicola e in libreria fino all'uscita del volume successivo (e dopo presso l'ufficio arretrati). Sul sito invece è possibile leggere articoli, commenti e (video)carte sul tema della rivista nelle settimane immediatamente successive, oltre poi ai normali contenuti su tutti gli argomenti geopolitici pubblicati quotidianamente su www.limesonline.com.

L'immigration, un instrument du mondialisme

immigration-lampedusa-image.jpgL'immigration, un instrument du mondialisme

Ex: http://unitepopulaire.org/

 

M. Claude Calame, éminent intellectuel du système, directeur d’études à l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales (EHESS) de Paris s’est fendu il y a quelques jours (le 7 décembre) d’une chronique parue dans plusieurs titres de presse en France et en Suisse romande. Le titre de son papier vaut à lui seul le détour : Les apories discriminatoires du libéralisme productiviste. C’est clair pour tout le monde ? Non, pas tout à fait ? Aucune importance, un vrai universitaire ne s’adresse toujours qu’à d’autres universitaires, seuls lecteurs susceptibles de le comprendre – et dans le cas de M. Calame, c’est sans doute mieux ainsi car il n’y a guère que dans la cafétéria de Sciences-Po qu’on peut prendre pour argent comptant les arguments fantaisistes qu’il déploie.

Vous l’aurez compris si vous avez pris la peine de décrypter le titre ampoulé de l’article, il s’agit d’un texte essayant de mettre en lumière les discriminations engendrées par le capitalisme. Sujet intéressant – c’est, en gros, ce que nous faisons ici chaque semaine avec “nos mots à nous”. M. Calame nous expose donc ce qu’est le but du capitalisme et ce qu’il croit être ses moyens :

« Dans la perspective de maximiser le profit économique, il s’agit de favoriser la production et le libre commerce des marchandises mais de restreindre la circulation de leurs producteurs, et davantage encore l’immigration de celles et ceux qui sont exclus d’un système productiviste désormais mondialisé. […] A l’externe, [la politique concertée de développement mondial du capitalisme] empêche l’immigration de celles et ceux qui sont les victimes des vastes crises provoquées par un système refusant toute régulation qui répondrait à des critères autres que celui du profit : crises économiques, alimentaires et désormais financières. »

Il y a à la fois du vrai et du faux dans cette phrase. Du vrai car oui, le capitalisme vise toujours à la maximisation du profit et oui, la mondialisation du système productiviste (c’est-à-dire la transformation de nombreux pays en zones réservées pour telle ou telle tâche précise dans la chaine de production – d’où l’expression “atelier du monde”) met des millions de gens sur la paille et, parmi eux, en pousse un grand nombre à quitter leur pays pour tenter leur chance ailleurs. Du faux car le capitalisme, s’il favorise le libre commerce (libre circulation des biens et des capitaux à travers le monde) ne fait rien, mais vraiment rien, pour faire barrage à la libre circulation des personnes et à plus forte raison des travailleurs. Bien au contraire !

« D’une part on supprime toutes les barrières dont on prétend qu’elles entravent le marché et la circulation des gains financiers qui en sont retirés ; d’autre part on restreint par une panoplie de mesures de discrimination juridique et policière les libertés fondamentales des ouvriers de la société productiviste, souvent au nom de la préservation de l’“identité nationale”. »

M. Calame persiste dans cette erreur grossière – erreur qui tient plutôt du mensonge car on peut espérer qu’un professeur de formation ait tout de même compris les mécanismes généraux de l’économie mondiale. Il fait semblant de croire que les décisions relatives à l’extension des marchés et celles concernant certaines restrictions s’appliquant aux droits des immigrés procèdent de la même autorité, or nous savons bien – spécialement en Suisse – qu’il n’en est rien. Si les mesures prises par l’OMC entrainant la déréglementation des marchés et l’ouverture des frontières n’ont rien de démocratique, les décisions prises de temps à autre chez nous pour “serrer la vis” à nos frontières sont la plupart du temps le fruit d’une votation populaire. M. Calame feint sans doute de l’ignorer pour ne pas avoir à confesser ce désamour de la démocratie qui caractérise aujourd’hui nombre d’intellectuels de la gauche bourgeoise.

Il faudra aussi qu’il nous explique ce que sont les “libertés fondamentales des ouvriers de la société productiviste”. J’aurais tendance  penser qu’il s’agit entre autres du droit de trouver un emploi dans son pays, mais pour M. Calame, cette liberté semble plutôt se résumer au droit de se faire exploiter à l’autre bout du monde en faisant jouer la sous-enchère salariale. Chacun sa vision du socialisme.

Quant à ce qu’il pense de l’identité nationale, l’usage des guillemets dont il entoure cette expression en dit sans doute assez long sur le crédit qu’il lui accorde. Nous faire croire que les multinationales éprouvent le moindre état d’âme pour l’identité nationale relève de la malhonnête intellectuelle pure et simple ! Le principe de la nation s’oppose par essence à celui de la mondialisation libérale : le marché global veut s’immiscer partout mais les nations ont des frontières, il veut libéraliser tous les secteurs mais les nations sont dirigées par des Etats, il veut créer un modèle de consommateur unique mais les nations cultivent leurs identités culturelles respectives.

« L’idéologie de l’économie de marché est devenue national-libéralisme. »

Avec M. Calame, nous ne sommes plus à un oxymore près… Faudra-t-il encore et toujours répéter que le terme fantasmatique “national-libéralisme” porte en lui-même sa propre contradiction ? Si, comme la réalité des marchés en atteste, la forme moderne du libéralisme est résolument mondialiste, comment pourrait-elle être à la fois nationale ? Il faut être méchamment naïf pour croire que si la loi donne à un grand PDG les moyens de maximiser ses profits en délocalisant ou en faisant jouer la concurrence entre travailleurs indigènes et étrangers, il va s’en abstenir par patriotisme ou par conscience civique ! Un national-libéral, si ce type de mutant existait, serait assurément moins libéral qu’un capitaliste global, mais dans la gauche d’aujourd’hui, il faut croire qu’on préfère voir l’ombre menaçante du Grand Capital chez les patrons de PME et les petits indépendants que chez les trusts internationaux…

A titre d’exemple des exclusions prétendument encouragées par le système capitaliste, il cite la récente votation suisse sur les minarets et dit la chose suivante :

« Encore une fois le “ça suffit” populaire que permet la démocratie directe a été détourné sur un autre, diabolisé. »

Et pour le coup, la logorrhée trotskisante passe de moins en moins bien car on désespère d’y trouver encore le moindre signe de cohérence. Si on comprend bien, M. Calame met dans le même panier les décisions prises par le peuple et celles prises par le grand capital – ce qui pour un socialiste est plutôt original – et considère que l’interdiction des minarets fait le jeu du libéralisme mondial, à rebrousse-poil de tous les analystes qui nous assuraient que cette même interdiction allait inévitablement décourager dans notre pays tous les investissements financiers en provenance du monde arabe… Allez comprendre !

Ce qu’on retiendra surtout, c’est que la démocratie est pour M. Calame une bonne chose lorsqu’elle va dans son sens mais qu’il suffit qu’elle s’en écarte (ce qu’elle fait la plupart du temps sans doute) pour qu’elle ait nécessairement été “détournée” de sa cible… Un seul élément évident émerge dans cet imbroglio : les gauchistes, tout en faisant mine – devant un public d’universitaires tiraillés entre leurs idéaux et leur situation sociale – de combattre la droite libérale et ce qu’il est convenu d’appeler les forces de l’argent, vont en fait main dans la main avec leurs frères ennemis puisque leurs visions du monde respectives ne se distinguent plus guère que par la rhétorique qui les emballe. Des deux côtés le mondialisme, des deux côtés l’immigration “libre et non faussée”, des deux côtés la haine et le mépris des nations, des peuples et des identités.

 

pour Unité Populaire, David L’Epée

00:10 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : immigration, mondialisme, europe, affaires européennes | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Intégration ou isolement? Le dilemme de la Grande-Bretagne face au continent

Grande_Bretagne_1689.gifArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990

Intégration ou isolement?

Le dilemme de la Grande-Bretagne face au continent

 

par Gwyn DAVIES

 

Le samedi 24 février 1990 s'est tenu à Londres le colloque annuel de l'association IONA. Sous la présidence de Mr. Richard Lawson, plusieurs orateurs ont pris la parole: le Prof. Hrvoje Lorkovic, Robert Steuckers, Gwyn Davies et Michael Walker. Vouloir publiera chacune de ces interventions. Nous commençons par celle de Mr. Davies.

 

A une époque de grande fluidité, lorsque des changements soudains bouleversent les modèles devenus conventionnels de la vie quotidienne, il est souvent nécessaire de juguler nos impulsions immédiates qui nous poussent à participer à l'euphorie générale que suscite la nouveauté. Lorsque des concepts jadis tenus pour intan­gibles et immuables s'effritent à une vitesse in­soupçonnée, il est trop facile de se laisser porter par l'effervescence d'une liberté nouvelle. Mais l'homme rationnel doit maintenir une saine dis­tance devant l'immédiateté provocatrice du chan­gement, car le changement per se  n'est pas un but en soi mais un simple catalyseur qui fera ad­venir un but. Les actions prestées à des époques aussi décisives ne doivent pas s'arcbouter sur le rien de l'éphémère mais, au contraire, réfléchir des analyses solides, denses et raisonnées. Car lorsque les pratiques conventionnelles subissent une révision radicale, des décisions doivent être prises rapidement, des choix doivent être posés; dans ces moments où nous sommes confrontés à des dilemmes, les fonctions sélectives de notre intelligence doivent pouvoir travailler à bon es­cient. Si les choses doivent se passer ainsi dans la vie personnelle de chacun d'entre nous, il est d'autant plus impératif qu'elles empruntent la même voie temporisatrice, réfléchie, délibérée, lorsque la destinée des nations est en jeu.

 

Lorsque les constantes rigidifiées de l'orthodoxie politique acceptée par tous sont challengées voire balancées par-dessus bord, lorsque la Grundnorm (la norme fondamentale) du gouver­nement des Etats est minée et affaiblie derrière le paravent de la cohésion structurelle de l'ordre existant, les groupes sociaux qui souhaitent de­venir des pièces influantes sur l'échiquier trans­formé n'enregistreront des succès, ne réaliseront leurs ambitions, que s'ils identifient correctement puis résolvent les questions-clefs que soulève la réalité nouvelle.

 

Susciter de nouveaux foyers d’énergie en Europe

 

Les événements récents qui ont agité la partie orientale de l'Europe au cours de ces derniers mois, ont soulevé l'espoir de voir disparaître la division artificielle du continent. Les deux blocs, aux contours bien distincts, qui se sont regardés en chiens de faïence depuis une quarantaine d'années, abrités derrière leurs retranchements respectifs (d'ordre tant physique que philoso­phique), se sont débarrassé aujourd'hui de leur antipathie mutuelle, au point de permettre à leurs satellites de dévier de leurs orbites préétablies.

 

En effet, avec l'implosion imminente de l'une des composantes du binôme USA/URSS, les liens gravitationnels qui avaient préalablement entravé le mouvement des planètes satellisées pourraient très bientôt se dissoudre. Mais les lois de l'ordre naturel nous enseignent que dans tout univers nouvellement émergé, de nouveaux foyers d'énergie doivent rapidement jaillir du chaos pour imposer de la discipline dans le vide désordonné. En gardant ces lois à l'esprit, il est d'une importance vitale de bien évaluer les mo­dèles émergeants hors de ce bouillonnement de transformations et de forger, sur base de telles données, un concept global pour indiquer à la Grande-Bretagne la marche à suivre dans la dé­cennie tumultueuse qui s'ouvre devant nous.

 

Le contexte historique des relations euro-britanniques

 

Avant de vous livrer notre contribution à l'élaboration de ce concept, il m'apparaît néces­saire de passer en revue le contexte historique des relations euro-britanniques.

 

D'abord, il me semble opportun de constater que les Iles britanniques n'ont pas eu la moindre in­fluence sur la scène européenne avant la conquête normande. L'installation par la force d'une aris­tocratie étrangère a conduit l'Angleterre à partici­per activement aux rivalités et machinations des dynasties de l'Occident chrétien et, plus particu­lièrement, à la longue lutte d'hégémonie avec les Capétiens de France. Le rêve angevin d'un Etat anglo-français faillit réussir après le mariage d'Henri II avec Eléonore d'Aquitaine mais le projet s'enlisa dans une orgie de luttes fratri­cides. Après l'échec de cette union, le Royaume d'Angleterre n'a plus eu la possibilité de jouer un rôle déterminant sur la scène politique euro­péenne et les Français affrontèrent seuls les fai­blesses du Saint Empire et les prétentions fragiles des Hohenstaufen.

 

Dès le début du XIIIième siècle, la Couronne anglaise ne s'engagea plus qu'à la périphérie de l'arène européenne en jouant le rôle d'un agent interventionniste. Beaucoup, sans doute, ne se­ront pas d'accord avec mon affirmation et cite­ront, pour la réfuter, les triomphes d'Edouard III et de Henri V en France et la grandiose participa­tion du Prince Noir dans la querelle pour la suc­cession au trône de Castille. Il n'en demeure pas moins vrai que, malgré les épisodes héroïques de Crécy, Poitiers, Navarette et Azincourt, l'Etat anglais fut incapable de transformer ses succès tactiques en gains stratégiques permanents.

 

Avec le début de la Guerre des Deux Roses (entre les partis de York et de Lancaster), la Guerre de Cent Ans touchait à sa fin et le conflit interne, très sanglant, qui se déroula sur le sol anglais, empêcha toute déviation des forces na­tionales vers des objectifs étrangers.

 

Ce ne fut pas avant le règne de Henri VIII que l'appétit pour les engagements transnationaux revint à la charge, aiguillonné par le tort causé au commerce de la laine flamande par la rivalité entre les maisons de Valois et de Habsbourg. L'intervention théâtrale et sans conséquence du Roi Henri peut être considérée comme la dernière expression de l'ancienne doctrine de l'absolutisme monarchique. Ses royaux succes­seurs ne purent plus se payer le luxe de traiter la politique étrangère comme un instrument au ser­vice de leurs ambitions personnelles.

 

L’ère impériale commence

avec Elizabeth Ière

 

L'ère élizabéthaine ouvrait un âge nouveau. La philosophie du temps s'accomodait parfaitement aux exigences du commerce, dont les demandes pressantes annulaient tous les autres impératifs qui tentaient de s'imposer à la Cour. Le com­merce devint ainsi le premier moteur de l'action royale. La Couronne répondit au défi écono­mique en élargissant ses perspectives et en adoptant une vision impériale, reflet de sa propre gloire et de l'agitation vociférante des princes marchands dont les fortunes aidèrent à asseoir l'ordre intérieur.

 

L'hégémonie monolithique des Habsbourgs d'Espagne sur le commerce avec l'Orient créa un goulot d'étranglement et obligea les négociants britanniques à chercher d'autres voies de com­munication; la royauté marqua son accord tacite pour l'organisation de telles expéditions; des compagnies à participation se mirent à proliférer, tirant profit des découvertes et de leur exploita­tion. Les bénéfices engrangés grâce au trafic d'esclaves et à la piraterie frappant les posses­sions espagnoles dans le Nouveau Monde ont conféré une légitimité officielle à l'idéologie ex­pansioniste. Et comme les raiders et les mar­chands avaient besoin de bases et que les bases demandaient à être défendues, l'Angleterre éla­bora une stratégie coloniale pour protéger et fournir en matériaux divers ses postes d'outre-mer. L'existence même de ces dépendances lointaines postulait l'inévitable développement de colonies, car colons, soldats et artisans débar­quaient sans cesse dans les comptoirs initiaux, processus qui assurait la promotion et l'expansion du commerce.

 

La protection des routes commerciales conduisit l'Angleterre à mener des guerres successives contre les puissances continentales, la Hollande, la France et l'Espagne. Ces guerres induisirent à leur tour la politique de Balance of Power (équilibre de puissance), qui atteindra son abo­minable apex dans les désastres humains de la première guerre mondiale.

 

En résumé, l'approche doctrinale des Britanniques vis-à-vis des querelles continentales était la suivante: soutien politique et militaire au parti ou à l'alliance dont la victoire empêcherait la création d'un bloc unitaire hostile disposant de suffisamment de ressources pour priver l'Etat britannique de l'oxygène du commerce. Les ré­sultats engrangés par ce calcul astucieux ont été énormes; il suffit de se remémorer les triomphes britanniques à la suite de la Guerre de Succession d'Espagne (1701-14) et de la Guerre de Sept Ans (1756-63). A la fin de ce conflit, le continent nord-américain était devenu chasse gardée de la Grande-Bretagne et sa suprématie maritime pou­vait faire face à tous les défis.

 

Arrivé au sommet de sa puissance, le régime des rois hannovriens oublia les prudences d'antan et poursuivit les projets d'outre-mer dans le plus parfait isolement. Mais cet oubli de la politique européenne traditionnelle coûta très cher; il en­traîna la perte des treize colonies américaines re­belles, soutenues par ses alliés européens, trop heureux de porter des coups durs à la vulnérable Albion.

 

La clef de la suprématie britannique: le système des coalitions

 

Mais les leçons de la défaite américaine ont été rapidement assimilées. Les guerres de la Révolution et de l'Empire offrirent l'occasion de remettre en jeu les règles du système des coali­tions. Tandis que les alliés de l'Angleterre rece­vaient de considérables subventions et affron­taient les Français sur terre, les Britanniques agissaient sur mer avec brio, contrôlaient les voies de communication maritimes et purent ainsi survivre au blocus continental napoléonien, fermé au commerce britannique, et à la défaite de toutes les puissances européennes devant les ar­mées de l'Empereur corse.

 

Grande-Bretagne-map.jpgEnsuite, après l'effondrement des rêves bona­partistes de conquête de l'Orient consécutif à la bataille perdue du Nil, les Britanniques purent débloquer des ressources considérables pour as­seoir leur domination aux Indes et s'emparer de colonies étrangères dont le site détenait une im­portance stratégique. Au Congrès de Vienne en 1815, c'est un second Empire britannique, fer­mement établi, qui se présentait face aux autres puissances européennes.

 

Dès le début du XIXième siècle, une destinée impériale prenait son envol et allait occuper toutes les imaginations britanniques pendant près d'un siècle. Les troubles intérieurs qui agitaient les puissances rivales permirent à cette destinée de se déployer sans opposition. L'Europe perdait tout intérêt aux yeux des Anglais. J'en veux pour preuves les abandons successifs d'atouts straté­giques en Europe continentale: la dissolution de l'union avec le Royaume du Hannovre en 1837 et, plus tard, l'abandon d'Héligoland pour obte­nir des réajustements de frontière en Afrique orientale.

 

Les Indes: pièce centrale de l’Empire britannique

 

L'ère de la Splendid Isolation  commençait et les seules menaces qui étaient prises en compte, étaient celles qui mettaient l'Empire en danger, et plus particulièrement les Indes. De là, le souci quasi hystérique qui s'emparait des milieux dé­cisionnaires londoniens lorsque la fameuse «question d'Orient» faisait surface et l'inquiétude qui les tourmentait face à l'expansionisme des Tsars en Asie Centrale. Avec toutes les res­sources de ses vastes domaines d'outre-mer, la Grande-Bretagne se croyait à l'abri de toute at­taque directe et les paroles de Joseph Chamberlain, prononcées en janvier 1902, sont l'écho de cette confiance: «Nous sommes le peuple d'un grand Empire... Nous sommes la nation la plus haïe du monde mais aussi la plus aimée... Nous avons le sentiment de ne pouvoir compter que sur nous-mêmes et c'est pourquoi j'insiste en disant que c'est le devoir de tout homme politique britannique et que c'est le de­voir du peuple britannique de ne compter que sur eux-mêmes, comme le firent nos ancêtres. Je dis bien que nous sommes seuls, oui, que nous sommes dans une splendid isolation, entourés par les peuples de notre sang».

 

Mais au moment même où ces paroles étaient prononcées, les réalités politiques du jour heur­taient de plein fouet cette arrogance. L'alliance anglo-japonaise de 1902 marquait une limite dans le déploiement de la politique étrangère britan­nique: Londres était obligée d'abandonner les «formules obligatoires et les superstitions vieil­lottes» (comme l'affirma Lansdowne à la Chambre des Lords), c'est-à-dire ne plus consi­dérer l'isolement comme désirable et adopter à la place une approche plus active de la scène inter­nationale, avec un engagement limité auprès de certaines puissances pour des objectifs spéci­fiques.

 

L'Allemagne wilhelmienne, aveuglée par les possibilités d'un destin impérial propre, renia, à cette époque, les principes de la Realpolitik, en rejetant toutes les offres d'alliance britanniques. La conséquence inévitable de ce refus fut le rap­prochement anglo-français, avec l'Entente Cordiale de 1904, impliquant la résolution à l'amiable des querelles coloniales qui, jusqu'alors, avaient envenimé les relations entre les deux puissances occidentales. Cette amitié nouvelle fut encore renforcée par les crises suc­cessives au Maroc et par la «conciliation des inté­rêts» entre Russes et Britanniques au détriment de la Perse.

 

La polarisation en Europe était désormais un fait et l'équilibre savamment mis au point par Bismarck pour éviter une tragédie fatale fut re­misé au placard et tous se précipitèrent avec une criminelle insouciance vers la destruction mu­tuelle. L'inutile catastrophe que fut la première guerre mondiale blessa et mutila l'Europe au point que même les puissances victorieuses en sortirent exsangues et épuisées par leur victoire à la Pyrrhus. Non seulement ce conflit inutile sema les graines de misères futures mais tous les pro­tagonistes furent désormais exposés aux usurpa­tions extra-européennes. Les bénéficiaires réels des carnages de la Somme et de l'Isonzo, de Verdun et de Tannenberg, furent des puissances observatrices et opportunistes, des belligérants prudents, comme le Japon et les Etats-Unis. Par le sacrifice de ses soldats dans la Forêt d'Argonne, les Etats-Unis, par le droit du sang versé, demandèrent à siéger à la Conférence de Versailles. Pour la première fois, une ombre transatlantique voilait un soleil européen, pâle et malade. La puissance américaine n'était encore qu'au stade de l'enfance et, bien que ses mar­chands avaient exploité à fond les opportunités laissées par les Européens occupés à s'entre-dé­chirer et avaient systématiquement braconné les anciens marchés réservés de l'Europe sur les autres continents, de vastes zones du globe res­taient à l'abri de la pénétration américaine grâce au protectionnisme colonial.

 

Le premier après-guerre

 

Durant ces années cruciales du premier après-guerre, quand la marée montante des nationa­lismes envahissait les débris d'anciens empires continentaux, la Grande-Bretagne quitta, dépitée, le théâtre européen, pour se vautrer une nouvelle fois dans les délices nostalgiques de sa gloire impériale d'antan. Mais la puissance de l'Empire s'était ternie dès les années 90 du siècle passé, lorsque le principe du Two Power Standard  (équilibre des forces entre, d'une part, la Grande-Bretagne, et, d'autre part, les deux na­tions les plus puissantes du continent) ne s'appliquait plus qu'à la flotte. Dans les années 30, qu'en était-il de ce tigre de papier? N'était-ce plus qu'illusion?

 

Tandis que les Français cherchaient à contrer une Allemagne renaissante en forgeant un jeu d'alliances complexes avec des Etats est-euro­péens et balkaniques, les Britanniques restaient stupidement aveugles. La politique étrangère du gouvernement national-socialiste allemand fonc­tionnait à l'aide du Führerprinzip. Les signes avant-coureurs d'un désastre imminent étaient parfaitement perceptibles. Mais un malaise débili­tant paralysait les ministères britanniques suc­cessifs. La crise tchécoslovaque demeurait, pour ces diplomates, «une querelle dans un pays loin­tain, entre des peuples dont nous ne savons rien». L'arrogance et l'ignorance venaient d'atteindre leur apogée.

 

L'incapacité de Neville Chamberlain à saisir le projet hitlérien dans sa totalité apparaît à l'évidence dans les garanties aussi pieuses que sans valeur que son gouvernement accorda à toute une série d'Etats est-européens instables. Ces gestes vains ne firent rien pour arrêter les ambitions germaniques et ne servirent qu'à en­traîner la Grande-Bretagne dans une guerre où la victoire était impossible et la défaite inévitable.

 

Si la première guerre mondiale avait permis aux Etats-Unis d'entrer dans un club d'élite de «courtiers de puissance» internationaux, la se­conde leur permit d'assumer simultanément les rôles de Président et de trésorier. A la Grande-Bretagne, il ne restait plus qu'à devenir le secré­taire scrupuleux, qui enregistre et annonce les motions décidées par le patron-contrôleur.

 

Les buts de guerre des Etats-Unis

 

Les Etats-Unis ne sont pas entrés dans le conflit à son début, animés par une ferveur libérale, par le feu d'une croisade. Ils sont entrés en guerre à contre-cœur, contraints d'agir de la sorte par une agression japonaise délibérée. Mais dès que leurs forces pesèrent dans la balance, les Etats-Unis décidèrent que leurs sacrifices pour la cause de la liberté ne seraient pas si vite oubliés et que le monde devrait leur en savoir gré. Le prix exigé par les Américains pour la sauvegarde de l'Europe était élevé: c'était le remodelage du Vieux Continent ou, du moins, de sa portion dite «libre». L'Europe devait être à l'image de ses li­bérateurs et le Plan Marshall était l'instrument destiné à provoquer la métamorphose.

 

Il n'est guère surprenant que les Américains aient largement réussi dans la tâche monumentale qu'ils s'étaient assignée, à savoir transformer l'Europe sur les plans culturel et économique. Le Vieux Continent, ébranlé, a été obligé d'embrasser la main tendue qui offrait les moyens de la reconstruction, quelqu'aient d'ailleurs été ces moyens. Les Etats-Unis utilisè­rent l'aide alimentaire et les transfusions de dol­lars pour reconstituer les économies des pays tombés dans leur sphère d'influence. Les Soviétiques utilisèrent, quant à eux, des moyens nettement plus frustes: l'Armée Rouge comme élément de coercition et la mobilisation en masse des forces de travail. Quoi qu'il en soit, l'assistance américaine précipita les bénéficiaires dans un réseau étroit de dépendance économique. Par leur «générosité» magnanime, les Etats-Unis s'assurèrent la domination de leur zone de comptoirs à l'Ouest de l'Elbe pendant quelque deux décennies après la fin de la guerre.

 

Si tel était le magnifique butin ramassé par les Américains, que restait-il aux Britanniques, si­non les fruits amères d'une défaite réelle mais non formelle? Les années d'austérité qui s'étendirent jusqu'à la fin des années 50 ternirent la «victoire» et mirent cruellement en exergue le coût de la guerre. L'Empire se désagrégea lente­ment, malgré la conviction têtue que la nation britannique restait un arbitre dans les affaires du monde. Cette illusion fit que les Britanniques se préoccupèrent d'une stratégie globale, au détri­ment d'une stratégie européenne. L'énorme charge des budgets militaires, due à cette volonté de garder une position en fait intenable, retarda la restructuration économique de la métropole, ce qui provoqua la chute de la livre sterling, devant un dollar qui ne cessait de monter.

 

Et malgré le désir de préserver le statut de super-puissance pour la Grande-Bretagne, la politique des gouvernements successifs ne put nullement ôter aux observateurs objectifs l'impression que notre pays n'était guère plus qu'un pion de l'Amérique. L'opération de Suez, qui sera un fiasco, fut lancée par l'état-major britannique malgré l'opposition de Washington. La réaction négative du State Department suffit à arrêter pré­maturément l'opération, ce qui contribua à aigrir les relations franco-britanniques pendant toutes les années 60. La Grande-Bretagne battit sa coulpe et ne tenta plus aucune intervention unila­térale sans recevoir au préalable l'imprimatur  de son «allié» d'Outre-Atlantique.

 

Les «special relationships»

 

Les fameuses special relationships,  dont on parle si souvent, sont effectivement spéciales, car quel Etat souverain délaisse volontairement ses intérêts légitimes pour satisfaire les exigences stratégiques d'un partenaire soi-disant égal? Le mythe de la dissuasion nucléaire indépendante de la Grande-Bretagne montre le véritable visage de ces «relations spéciales»: car sans la livraison par les Etats-Unis des fusées lanceuses, sans leur coopération dans la conception des bombes, sans leurs matériaux nucléaires, sans les facilités qu'ils accordent pour les essais, sans leurs plate­formes de lancement, sans leurs systèmes de navigation et sans leurs informations quant aux objectifs, où résiderait donc la crédibilité de l'arme nucléaire anglaise?

 

Un tel degré de dépendance à l'endroit de la technologie militaire américaine fait qu'un flux continu de concessions part de Londres pour aboutir à Washington: cela va des arrangements particuliers qui permettent aux forces américaines d'utiliser des bases britanniques d'outre-mer  —ce qui réduit à néant les discours pieux sur l'auto-détermination—  jusqu'aux droits de dé­collage et de survol pour les appareils de l'USAF en route pour attaquer des Etats tiers, sans que le gouvernement britannique ne soit mis au courant! Toutes ces concessions font que les Européens perçoivent de plus en plus souvent la Grande-Bretagne comme un simple pion dans la politique américaine; la promptitude empressée de nos politiciens qui obéissent aux moindres lubies du Pentagone signale qu'ils accordent une pleine confiance aux requêtes de Washington.

 

L'affaire de Suez, au moins, a prouvé la fragilité de l'édifice impérial. La course au désengage­ment qui s'ensuivit conduisit à accorder l'indépendance tant aux colonies qui la désiraient qu'à celles qui ne la désiraient pas. Le «rôle glo­bal» du Royaume-Uni ne se justifiait plus, ne méritait plus les soucis et l'attention qu'on lui avait accordé dans le passé. Pendant ce temps, la situation changeait en Europe.

 

Le défi du Traité de Rome

 

En 1957, les Six signent le Traité de Rome et mettent ainsi sur pied deux corps supra-natio­naux, la CEE et l'EURATOM, destinés à com­pléter la CECA déjà existante. Le but déclaré de ces organisations, c'était de favoriser une plus grande unité entre les Etats participants par l'harmonisation des lois et par une libéralisation des régimes commerciaux. Inutile de préciser que ces changements ne suscitèrent que fort peu d'enthousiasme en Grande-Bretagne; les Traités furent ratifiés avant le discours de Macmillan (Wind of Change),  quand le Royaume-Uni se laissait encore bercer par la chimère de la Commonwealth Preference  (La préférence au sein du Commonwealth). Mais l'institution de tarifs douaniers communs par les Etats membres de la CEE frappait les marchandises d'importation venues de l'extérieur. Il fallait ré­pondre à ce défi et c'est ainsi que le RU devint l'un des principaux signataires du Traité de Stockholm de 1959, établissant l'AELE (Association Européenne du Libre Echange; EFTA en anglais). Cette Association fut créée comme un simple mécanisme destiné à faciliter le commerce et n'avait pas d'objectifs en politique extérieure allant au-delà des buts purement mer­cantilistes.

 

Il apparut très vite que l'adhésion à l'AELE/EFTA n'était pas un substitut adéquat à la pleine adhésion à la CEE. Rapidement, les re­présentants des intérêts commerciaux de la Grande-Bretagne exercèrent une pression cons­tante sur le gouvernement, afin qu'il leur garan­tisse un accès préférentiel aux marchés plus lu­cratifs, c'est-à-dire qu'il demande la pleine ad­hésion du RU à la CEE. Macmillan s'exécuta et la première demande britannique fut soumise en juillet 1961, pour être finalement rejetée par De Gaulle en 1963, à la suite de longues négocia­tions inutiles. L'opposition française n'empêcha pas qu'une seconde demande fut formulée en 1967. L'amertume laissée par l'affaire de Suez était passée. Et la Grande-Bretagne entra finale­ment dans la Communauté le 1 janvier 1973, en même temps que l'Irlande et le Danemark. Un ré­férendum en 1975 donna des résultats en faveur de l'adhésion: 67% des votants ayant émis un avis favorable. Les rapports ultérieurs du RU avec la CEE furent souvent turbulents et diffi­ciles, ce qui trahit la profonde ambiguïté des atti­tudes britanniques à l'égard des principes consti­tutifs de l'eurocentrisme.

 

La Grande-Bretagne reste en marge de l’Europe

 

A tort ou à raison, la Grande-Bretagne se perçoit toujours comme une nation à part, jouissant d'un lien particulier, bien que souvent ambigu, avec les pays associés au Commonwealth, lesquels forment un monde où les affinités historiques ac­quièrent fréquemment plus d'importance que la solidarité interne.

 

L'influence pernicieuse des «relations spéciales» freine le développement d'une approche plus eu­rocentrée des relations internationales. Lorsque les intérêts militaires américains exigent que les politiques nationales de Londres et de Washington soient parallèles, comment cela peut-il être possible, comment la collaboration RU/USA peut-elle s'avérer rentable, si la Grande-Bretagne participe activement à un sys­tème protectionniste eurocentré? Il vaudrait la peine de noter le nombre de fois où le gouverne­ment britannique a résisté aux initiatives commu­nautaires parce qu'elles offusqueraient inutile­ment Washington et provoqueraient une «guerre commerciale» soi-disant au détriment de tous.

 

De plus, malgré que la Grande-Bretagne ait ac­cepté l'Acte Unique Européen, dont le premier article déclare que «les communautés euro­péennes et que la coopération politique euro­péenne auront pour objectif de contribuer en­semble à faire des progrès concrets en direction de l'unité européenne», Londres ne respecte que formellement ces aspirations. Tout ce qui va au-delà des paramètres de pure coopération écono­mique est perçu d'un très mauvais oeil à Westminster et les privilèges locaux et étriqués de la Grande-Bretagne sont défendus fanatique­ment, bec et ongles.

 

Pareilles équivoques ne donnent nullement con­fiance aux autres Européens; la crédibilité de la Grande-Bretagne est ruinée. De plus en plus de voix réclament la construction d'une Europe à deux vitesses avec, d'une part, les Etats récalci­trants relégués à un étage inférieur, de façon à permettre aux éléments plus progressistes de poursuivre le rêve de l'unité sans trop d'entraves. Tandis que la Grande-Bretagne croupit, asservie, sous le régime thatchérien, il semble inconcevable qu'une convergence réelle puisse un jour avoir lieu entre les partenaires eu­ropéens.

 

Alors que notre gouvernement proclame à grands cris l'importance du progrès scientifique et tech­nologique, la contribution britannique à l'Agence Spatiale Européenne est incroyablement basse. Alors que notre gouvernement se déclare le dé­fenseur impavide de la livre sterling, il refuse de participer au mécanisme de stabilisation qu'est le serpent monétaire européen. Voilà qui est abso­lument déconcertant. Si des objectifs éminement conservateurs comme ceux-là ne sont même pas activement poursuivis, pourquoi nous étonne­rions-nous que le gouvernement de Madame Thatcher s'oppose implacablement à l'augmentation des droits des travailleurs grâce à une nouvelle Charte sociale?

 

Dans tous ses domaines, le RU exerce ses préro­gatives pour bloquer et retarder les résolutions de la Communauté et pour satisfaire ses propres objectifs, en fin de compte négatifs pour le salut du continent. Si cette opposition s'appuyait sur une critique tranchante des principes mécanicistes et bureaucratiques qui sous-tendent le processus d'unification européenne porté par les institutions communautaires, la position britannique jouirait d'un certain capital de sympathie. Mais, malheu­reusement, cette hostilité ne consiste pas en une censure permanente et constructive du modus operandi;  au contraire, elle présente toutes les caractéristiques d'un nombrilisme malsain et per­vers. En effet, cet égoïsme étroit, justifié par l'«intérêt national», nous oblige à nous demander si le RU doit demeurer associé au processus d'unification européenne, tant que la seule justi­fication qu'il évoque pour son engagement, re­pose sur la base douteuse de l'expédiant écono­mique.

 

Une orientation européenne sans arrière-pensées pour la Grande-Bretagne

 

Or c'est précisément aujourd'hui, en ces jours décisifs, dans le tourbillon de changements qui balaye ce dualisme moribond auquel nous de­vons la division de notre continent, que les têtes pensantes en Grande-Bretagne doivent se mobili­ser pour construire le futur de l'Europe. Ces têtes pensantes doivent ignorer les événements péri­phériques de l'Afrique du Sud et de Hong Kong, montés en épingle pour les distraire. Ce sont des soucis résiduels, hérité d'un Empire qui est bel et bien mort aujourd'hui. Le seul défi actuel con­siste, pour nous, à définir quelles relations le RU entretiendra avec l'Europe. Cette question cru­ciale nous conduit à un dilemme tranché. En ef­fet, deux voies, qui s'excluent l'une l'autre, s'offrent à notre choix: celle de l'isolement et celle de l'intégration.

 

La première de ces voies ne demande pas un ef­fort particulier de lucidité car la politique actuelle de la Grande-Bretagne accentue déjà la tendance au désengagement en Europe. Cependant, il nous faudra bien mettre en évidence les dangers inhé­rents à ce retrait.

 

Un exemple: combien de temps le programme Inward Investment (Investissement intérieur), tant vanté par Madame Thatcher, survivra-t-il dans un RU découplé? Après tout, le rôle de Cheval de Troie pour les industries japonaise et américaine, que joue notre pays, n'est possible que parce que les investisseurs nippons et yankee considèrent le RU comme une tête de pont vers la CEE, idéale pour les opérations «tourne-vis». Ces opérations seraient rapidement évacuées ail­leurs si disparaissaient les opportunités de péné­trer le marché européen dans sa totalité.

 

Certes, les conséquences économiques d'un repli sur soi seraient catastrophiques. La menace qui pèse sur nous est toutefois plus terrible encore si on l'envisage d'un point de vue plus large. Si le RU prend ses distances par rapport à l'Europe, sans plus avoir d'ancrage de sécurité dans un Empire, il dérivera, erratique, sur la mer des re­lations internationales sans motivation et sans punch. Très rapidement, notre nation se réduirait à un simple appendice des puissants Etats-Unis et perdrait, dans la foulée et sans doute à jamais, tout vestige de son ascendance morale et cultu­relle.

 

Avec un tel destin à l'horizon, la perspective de voir un RU isolé, survivant comme une entité bien distincte au XXIième siècle, s'avère pure illusion. La seule vraie chance de préserver l'héritage culturel unique de nos îles, c'est, para­doxalement, de les immerger dans un idéal euro­péen. Cette solution n'est pas aussi contradictoire qu'elle en a l'air à première vue car l'éthos euro­péen n'exige pas un renoncement total à nos identités (à rebours du modèle américain si vo­race et destructeur). L'éthos européen appelle une synthèse entre l'élément national/ethnique et le projet continental. L'élément national/ethnique acquiert ainsi un sens du contexte civilisationnel, soit un sens vital du destin. Le concept d'Europe peut s'accomoder de la multiplicité de ses com­posantes sans mutiler celles-ci par quelque con­centration artificielle, par quelque corset de con­formisme.

 

Dans cette optique, l'idée d'une «Europe aux cent drapeaux» demeure parfaitement compatible avec l'objectif d'un continent plus fort et plus confédéré. Les progrès dans le sens de l'hété­rogénéité doivent toutefois toujours avancer dans le même sens que la marche à l'unité, si l'Europe veut éviter les pièges des monolithismes de tous ordres.

 

Comme la réunification allemande est désormais davantage une question de calendrier que de conjoncture, il existe un risque réel de voir les faibles économies est-européennes basculées dans une nouvelle Mitteleuropa germanocentrée. Les tentations de se livrer à un paternalisme ger­manique menacent la logique d'une Europe des peuples, car la diversité serait asphyxiée sous une uniformité germano-industrielle, terreau sur lequel pourraient germer de nouvelles idéologies autoritaires. Un tel scénario doit être évité à tout prix, si l'on veut faire l'économie d'un conflit. La Grande-Bretagne ne doit pas fuir ses respon­sabilités et doit participer à la sécurité collective du continent.

 

La notion de Balance of power  est sans doute démodée. Mais sauf si l'on pousse le processus d'unification européenne jusqu'à son ultime conclusion, avec la pleine participation de toutes les nations européennes dans l'enthousiasme, le retour de cette vénérable doctrine serait inévitable pour contrer les prédominances dangereuses. Dans le cas particulier qui nous préoccupe, l'énergie déployée par la ferveur pangermanique ne pourra être canalisée que par le consensus et non par la coercition, de façon à ce que, demain, l'Europe puisse être une et que tous les peuples du Continent puissent prospérer avec une égale vigueur.

 

Nous, peuples des Iles britanniques, devons être prêts à renier l'hypocrisie et la rhétorique propa­gée pendant des siècles de désintérêt hautain puis embrasser avec une conviction venue tout droit du cœur notre identité européenne réelle et con­crète. La barrière illusoire que constitue le Pas-de-Calais a longtemps été plus difficile à traver­ser pour nous que les immensités de l'Atlantique. Toutefois, le retour de la vraie perspective euro­péenne doit recevoir la priorité absolue. Re­connaître notre héritage européen commun, vouloir agir positivement à la lumière de cette évidence, voilà les impératifs vitaux à honorer si nous voulons préserver la paix, si nous voulons résister puis repousser l'avance d'une culture créole globale, faites de bric et de broc.

 

Gwyn DAVIES.  

lundi, 04 janvier 2010

Ecole des cadres: sélections d'articles

Synergies Européennes / Ecole des Cadres / Wallonie (Namur)

 

Liste des articles lus et à lire (2009)

 

revues.jpgHISTOIRE :

Georg BÖNISCH, “Kraftprotz und Spieler”, in: Der Spiegel/Geschichte, Nr. 6, 2009 (sur l’Empereur Maximilien I).

Pierre BRIANT, “L’empire de Cyrus le Grand”, in: L’Histoire, les collections de l’Histoire, n°42, janvier-mars 2009.

Pierre BRIANT, “A la cour du Roi des Rois”, in: L’Histoire, les collections de l’Histoire, n°42, janvier-mars 2009.

Pierre BRIANT, “Alexandre, successeur des Achéménides”, in: L’Histoire, les collections de l’Histoire, n°42, janvier-mars 2009.

Olivier BUARD, “Haute antiquité de la pensée stratégique – La bataille de Qadesh”, in: Défense & sécurité internationale, n°53, novembre 2009.

Anne-Lucie CHAIGNE-OUDIN, “Les relations  franco-libanaises et les compétitions occidentales à l’époque du mandat français (1918-1946), in: Moyen-Orient, n°2, octobre-novembre 2009.

Pierre CHUVIN, “D’où viennent les Turcs?”, in: L’Histoire, les collections de l’Histoire, n°45, octobre 2009.

Philippe CONRAD, “Les Etats-Unis et l’Europe: des relations conflictuelles”, in: La nouvelle revue d’Histoire, n°40, janvier-février 2009.

Philippe CONRAD, “La conquête de la Sibérie”, in: La nouvelle revue d’Histoire, n°43, juillet-août 2009.

Philippe CONRAD, “Du Saint Empire à la réunification”, in: La nouvelle revue d’Histoire, n°45, novembre-décembre 2009.

Etienne COPEAUX & Claire MAUSS-COPEAUX, “Chypre: une île, deux Etats”, in: L’Histoire, les collections de l’Histoire, n°45, octobre 2009.

Fabrice D’ALMEIDA, “L’après-guerre italien ou le risque de la désintégration”, in: Marianne, n°609-610, 20 déc. 2008/2 janv. 2009.

Fabrice D’ALMEIDA, “Après le chah, l’Iran devient un monstre babylonien”, in: Marianne, n°609-610, 20 déc. 2008/2 janv. 2009.

Thérèse DELPECH, “Géopolitique d’une puissance régionale”, in: L’Histoire, les collections de l’Histoire, n°42, janvier-mars 2009.

Emma DEMEESTER, “Quand Thucydide inventa l’histoire”, in: La nouvelle revue d’Histoire, n°40, janvier-février 2009.

François-Georges DREYFUS, “La thèse iconoclaste de Shlomo Sand”, in: La nouvelle revue d’Histoire, n°44, septembre-ocotbre 2009.

Manfred ERTEL, “Zauber der Vokale”, in: Der Spiegel/Geschichte, Nr. 6, 2009 (sur l’Empereur Frédéric III).

Jan FRIEDMANN, “Der Volkserzieher”, in: Der Spiegel/Geschichte, Nr. 6, 2009 (Sur l’Empereur Joseph II).

François GEORGEON, “Atatürk invente la Turquie moderne”, in: L’Histoire, les collections de l’Histoire, n°45, octobre 2009.

Prof. Paul GOTTFRIED, “Legenden um Wilhelm II. – Der letzte deutsche Kaiser im Wandel der Zeitgeschichte”, in: Neue Ordnung, Nr. 03/2009.

Brigitte HAMANN, “Ein Diadem als Krone”, in: Der Spiegel/Geschichte, Nr. 6, 2009 (Sur l’Impératrice Marie-Thérèse).

Nadia HAMOUR, “La mise en place de mandats au Moyen-Orient: une “malheureuse innovation de la paix”?”, in: Moyen-Orient, n°1, août-sept. 2009.

Clarisse HERRENSCHMIDT, “Les disciples de Zarathustra”, in: L’Histoire, les collections de l’Histoire, n°42, janvier-mars 2009.

Bernard HOURCADE, “Iran, les paradoxes d’une grande civilisation”, in: Le Monde/La Vie, hors-série, “L’Atlas des civilisations”, 2009.

Philippe HUYSE, “Le temps des Sassanides”, in: L’Histoire, les collections de l’Histoire, n°42, janvier-mars 2009.

Paul-Yanic LAQUERRE, “La Kantogun, fer de lance de la colonisation nippone”, in: 2° guerre mondiale, n°30, décembre 2009-janvier 2010.

Yann MAHE, “Le Golfe s’embrase ! 1941 – la rébellion irakienne”, in: Ligne de front, n°19, septembre 2009.

Yann MAHE, “L’Iran passe sous la coupe des Alliés – 1941”, in: Ligne de front, n°19, septembre 2009.

Yann MAHE, “1941-1942 – La campagne des Indes néerlandaises – le pétrole, l’un des enjeux de la guerre du Pacifique”, in: Ligne de front, n°19, septembre 2009.

Yann MAHE, “1942: Objectif Bakou – Coups de main dans la Caucase”, in: Ligne de front, n°19, septembre 2009.

Robert MANTRAN, “L’âge d’or de l’Empire ottoman”, in: L’Histoire, les collections de l’Histoire, n°45, octobre 2009.

Gabriel MARTINEZ-GROS, “Une province de l’Islam”, in: L’Histoire, les collections de l’Histoire, n°42, janvier-mars 2009.

Nicolas PONTIC, “Tempête d’août – Blitzkrieg soviétique en Mandchourie”, in: 2° guerre mondiale, n°30, décembre 2009-janvier 2010.

Yves PORTER, “La splendeur des Safavides”, in: L’Histoire, les collections de l’Histoire, n°42, janvier-mars 2009.

Jan PUHL, “Sturm auf den ‘Goldenen Apfel’”, in: Der Spiegel/Geschichte, Nr. 6, 2009 (Sur l’assaut ottoman contre Vienne en 1683).

Yann RICHARD, “L’échec de la modernisation”, in: L’Histoire, les collections de l’Histoire, n°42, janvier-mars 2009.

Jean-Paul ROUX, “La prise d’Ispahan par Tamerlan”, in: L’Histoire, les collections de l’Histoire, n°42, janvier-mars 2009.

Anthony ROWLEY, “Espagne: une tragédie de quinze ans”, in: Marianne, n°609-610, 20 déc. 2008/2 janv. 2009.

Johannes SALTZWEDEL, “Business mit Tradition”, in: Der Spiegel/Geschichte, Nr. 6, 2009 (Sur l’Académie Diplomatique de Vienne, fondée par l’Impératrice Marie-Thérèse).

Raphaël SCHNEIDER, “La guerre italo-turque 1911-1912: la conquête de la Libye”, in: Champs de bataille, n°29, sept./oct. 2009.

Matthias SCHREIBER, “An die Grenzen der Macht”, in: Der Spiegel/Geschichte, Nr. 6, 2009 (Sur Charles-Quint).

Laurent THEIS, “En l’an 1000, un nouvel ordre apparaît”, in: Marianne, n°609-610, 20 déc. 2008/2 janv. 2009.

Vladimir TIKHOMIROV & Irina POPOVA, “Khazar : sur les traces du royaume englouti”, in: Courrier international, n°946-947, 18/31 décembre 2008.

Lucette VALENSI, “les tanzimat ou le temps de la réforme”, ?”, in: L’Histoire, les collections de l’Histoire, n°45, octobre 2009.

Claus-M. WOLFSCHLAG, “Schicksaljahr 1919 – Das Deutsche Reich als Republik”, in: Neue Ordnung, Nr. 03/2009.

Stéphane YERASIMOS, “Pourquoi les Turcs ont pris Constantinople?”, in: L’Histoire, les collections de l’Histoire, n°45, octobre 2009.

Helene ZUBER, “Zitadelle der Einsamkeit”, in: Der Spiegel/Geschichte, Nr. 6, 2009 (Sur Philippe II).

 

LITTERATURE:

Pierre CORMARY / Joseph VEBRET,  “Michel Houellebecq irrécupérable?” – Entretien, in: Le magazine des livres, n°19, septembre-octobre 2009.

Philippe D’HUGUES, “L’étincelante génération Brasillach”, in: La nouvelle revue d’Histoire, n°41, mars-avril 2009.

Vibeke KNOOP RACHLINE, “L’épineux hommage de la Norvège à Knut Hamsun”, in: Lire, octobre 2009.

Claudio MAGRIS, “La littérature possède une dimension morale”, Entretien, propos recueillis par Gérard de Cortanze, in: Le magazine littéraire, n°484, mars 2009.

Paul YONNET, “L’éternel mystère Céline”, Entretien (propos recueillis par Jean-Michel BALDASSARI), in: La nouvelle revue d’Histoire, n°45, novembre-décembre 2009.

A ne pas manquer: Le magazine littéraire, n°492, décembre 2009, consacré à George Orwell (tous les articles de ce dossier sont exploitables pour consolider nos soirées de formation sur Orwell).

 

PHILOSOPHIE:

Olivier ABEL, “L’océan, le puritain, le pirate”, in: Esprit, juillet 2009.

Olivier ABEL, “Essai sur la prise. Anthropologie de la flibuste et théologie radicale protestante”, in: Esprit, juillet 2009.

Karen ARMSTRONG, “Religie is zoals muziek of poëzie”, in: De Morgen, 10 november 2009.

Jean-Michel BALDASSARI, “Maffesoli: l’enchanteur de la postmodernité”, in: La nouvelle revue d’Histoire, n°43, juillet-août 2009.

Thomas DARNSTÄDT, “Physiker der Macht”, in: Der Spiegel/Geschichte, Nr. 5, 2009 (Sur Machiavel).

Thérèse DELPECH, “Le déclin de l’Occident”, in: Le Monde, 22/23 nov. 2009.

Jared DIAMOND, “Le collapsus de l’humanité n’est pas inévitable”, in: Le Monde/La Vie, hors-série, “L’Atlas des civilisations”, 2009.

Antoine GARAPON, “L’imaginaire pirate de la mondialisation, in: Esprit, juillet 2009.

Marcel GAUCHET, “Le refus de la modernité”, Entretien, in: Marianne/L’Histoire, hors-série, août-septembre 2009.

Sophie JORRAND, “Daniel Defoe, les pirates et la littérature”, in: Esprit, juillet 2009.

Debora MacKENZIE, “Disparition à l’horizon?”, in: Courrier international, n°946-947, 18/31 décembre 2008.

Marielle MAYO, “S’adapter ou… disparaître”, in: Les Cahiers de Sciences & Vie, n°109, février-mars 2009.

Olivier MONGIN, “De la piraterie protestante aux piratages contemporains. Ou de la capacité à s’incruster dans les interstices”, in: Esprit, juillet 2009.

Christian NADEAU & Julie SAADA, “Guerre juste, guerre injuste – Pour une évaluation morale des conflits militaires”, in: Diplomatie, n°38, mai-juin 2009.

Walter PAULI, “Oorlog in de modder van de tijd”, in: De Morgen, 10 november 2009 (Sur l’ouvrage que Niall Ferguson a consacré à la première guerre mondiale).

Johannes SALTZWEDEL, “Netzwerker der Wahrheit”, in: Der Spiegel/Geschichte, Nr. 5, 2009 (sur Erasme de Rotterdam).

Maurice SARTRE, “Les intégristes sont nés avec le monothéisme”, in: Marianne/L’Histoire, hors-série, août-septembre 2009.

Yves SCIAMA, “De la crise à l’effondrement”, in: Les Cahiers de Sciences & Vie, n°109, février-mars 2009.

Christophe TOURNU, “Les puritains radicaux de Christopher Hill”, in: Esprit, juillet 2009.

Dominique WEBER, “Le pirate et le partisan – Lecture critique d’une thèse de Carl Schmitt”, in: Esprit, juillet 2009.

Norman YOFFEE, “Les civilisations meurent faute d’idées” – Entretien, in: Les Cahiers de Sciences & Vie, n°109, février-mars 2009.

A ne pas manquer: Le nouvel observateur – hors-série, n°66, juillet-août 2009 -  “Le vrai Machiavel” (pour étayer nos travaux sur la pensée de Machiavel – tous les articles de ce dossier sont exploitables).

 

GEOPOLITIQUE:

Morton ABRAMOWITZ & Henri J. BARKEY, “Turkey’s Transformers”, in: Foreign Affairs, vol. 88, nr. 6, November/December 2009 (sur les transformations à l’oeuvre en Turquie aujourd’hui, leurs potentialités et leurs limites).

Samim AKGÖNÜL & Stéphane de TAPIA, “Carte de Ralph Peters et réactions turques”, in: Diplomatie, n°36, janvier-février 2009.

Jean-Patrick ARTEAULT, “Chronique d’une guerre coloniale annoncée”, in: Terre & Peuple magazine, n°39, 2009.

Christopher S. BOND & Lewis M. SIMONS, “The Forgotten Front”, in: Foreign Affairs, vol. 88, nr. 6, November/December 2009 (sur les fronts oubliés de Thaïlande et des Philippines).

Alain CAGNAT, “Géopolitique de l’Eurasie – Le centre du monde et les intérêts américains”, in: Terre & Peuple magazine, n°39, 2009.

Alain CAGNAT, “Occident ou Eurosibérie?”, in: Terre & Peuple magazine, n°39, 2009.

Jean-Claude CASANOVA, “Le temps est venu pour l’Europe de s’émanciper des Etats-Unis”, in: Le Monde, 17 nov. 2009.

Ayméric CHAUPRADE, “Permanences géopolitiques”, in: La nouvelle revue d’Histoire, n°40, janvier-février 2009 (sur la permanence des objectifs géopolitiques de l’hyperpuissance américaine).

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Ayméric CHAUPRADE, “Analyse du piège afghan”, in: La nouvelle revue d’Histoire, n°44, septembre-ocotbre 2009.

Wesley K. CLARK & Peter L. LEVIN, “Securing the Information Highway”, in: Foreign Affairs, vol. 88, nr. 6, November/December 2009 (sur la guerre cybernétique et la nécessité de contrôler les autoroutes de l’information – point de vue américain).

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Barthélémy COURMONT, “La nouvelle politique iranienne de Washington: révolution ou simple changement de ton?”, in: Moyen-Orient, n°1, août-sept. 2009.

Barthélémy COURMONT, Charlotte KARAGUEUZIAN & Julien SAADA, “La politique d’Obama au Moyen-Orient: des objectifs à la pratique”, in: Moyen-Orient, n°3, décembre 2009/janvier 2010.

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Alain JOXE, “L’humanitarisme au service de l’empire”, in: Le Monde/Manière de Voir, n°107, octobre-novembre 2009.

Catherine LE THOMAS, “Le Hezbollah et la communauté chiite au Liban: une adéquation imparfaite”, in: Moyen-Orient, n°2, octobre-novembre 2009.

Meir JAVEDANFAR, “Khamenei fait du pied à la Turquie”, in: Courrier International, n°995, 26 nov./2 déc. 2009. 

Robert D. KAPLAN, “Center Stage for the Twenty-First Century”, in: Foreign Affairs, vol. 88, nr. 2, 2009.

Richard LABEVIERE, “Grand Nord: le réchauffement des cinq frontières…”, in: Géopolitique, n°104, janvier 2009.

Alain LAMBALLE, “L’Inde et la puissance”, in: Diplomatie, n°37, mars-avril 2009.

Gautier LAMY, “Histoire géostratégique de la Crimée”, in: Champs de bataille, n°29, sept./oct. 2009.

Daniel MÖCKLI, “Le conflit israélo-palestinien après la guerre de Gaza”, in: Moyen-Orient, n°1, août-sept. 2009.

Bruno MUXAGATO, “Un parfum de guerre froide en Amérique latine: l’arrivée de la Russie dans le ‘pré carré’ des Etats-Unis”, in: Diplomatie, n°38, mai-juin 2009.

Géraldine NAJA-CORBIN, “Vers une politique spatiale européenne ambitieuse pour répondre aux défis du 21ème siècle”, in: Diplomatie, Hors-série n°9, août-sept. 2009.

Joseph NYE, “Le ‘soft power’ est-il de retour?”, Entretien, propos recueillis par Joel Whitney, in: Courrier international, n°946-947, 18/31 décembre 2008.

Alix PHILIPPON, “Pakistan: l’inconnue de l’équation “Af-pak””?, in: Moyen-Orient, n°3, décembre 2009/janvier 2010. 

Jean-Luc RACINE, “L’Inde et l’Occident”, in: Le Monde/Manière de Voir, n°107, octobre-novembre 2009.

Jean RADVANYI, “Caucase: quand les empires jouent des frontières”, in: Géopolitique, n°104, janvier 2009.

Shri RANJAN MATHAI, “Les questions de sécurité internationale vues par l’Inde”, in: Diplomatie, n°37, mars-avril 2009.

Stéphane de TAPIA, “Un acteur du Grand Jeu – Le ‘monde turc’ (Türk Dünyasi) existe-t-il?”, in: Diplomatie, n°36, janvier-février 2009.

Mehdi TAJE, “Les clefs d’une analyse géopolitique du Sahel africain”, in: Diplomatie, n°38, mai-juin 2009.

Julien THOREX, “Les frontières d’Asie centrale entre ouverture et fermeture”, in: Diplomatie, n°36, janvier-février 2009.

François THUAL, “Pour une génétique des frontières”, in: Géopolitique, n°104, janvier 2009.

Jacques VILLAIN; “Espaces civil et militaire – Le jeu des puissances”, in: Diplomatie, Hors-série n°9, août-sept. 2009.

A ne pas manquer: Questions internationales, n°37, mai-juin 2009 (Thème: “Le Caucase, un espace de convoitises”; tous les textes de ce dossier sont exploitables).

A ne pas manquer: Questions internationales, n°40, novembre-décembre 2009 (Thème: “Mondialisation et criminalité”; tous les textes issus de ce dossier sont exploitables).

 

ECONOMIE:

Wolfgang KADEN, “Vom Berghotel ins Casino”, in: Der Spiegel/Geschichte, Nr. 4, 2009 (sur l’échec de Bretton Woods).

Robert KURZ, “Weltmacht und Weltgeld – Die ökonomische Funktion der US-Militärmaschine im globalen Kapitalismus und die Hintergründe der neuen Finanzkrise”, in: nation24.de, Nr. 04/2008.

Cordula MEYER, “Der Dollar-Orkan”, in: Der Spiegel/Geschichte, Nr. 4, 2009 (sur les prémisses de la crise de l’automne 2008).

Anthony ROWLEY, “De la grande crise de 1929 au choc des Nations”, in: Marianne, n°609-610, 20 déc. 2008/2 janv. 2009.

Jacques SAPIR, “Comprendre la crise actuelle: les leçons des années 30”, in: Géopolitique, n°104, janvier 2009.

Jiro YAMAGUCHI, “Japon: quelle relance après l’alternance?”, in: Le Monde, 14 nov. 2009.

Sylvia ZAPPI, “La crise relance le thème de la décroissance”, in: Le Monde, 15/16 nov. 2009.

 

POLITIQUE/DIVERS:

Jean-Michel BALDASSARI, “Réflexions sur notre drôle de République”, in: La nouvelle revue d’Histoire, n°40, janvier-février 2009 (Sur les thèses de Philippe Nemo à propos de la notion très particulière de “république” en France aujourd’hui).

Steven ERLANGER, “Le petit noir au comptoir, c’est du passé”, in: Courrier international, n°946-947, 18/31 décembre 2008.

Slavoj ZIZEK, “Derrière le Mur, les peuples ne rêvaient pas de capitalisme – L’utopie d’une société juste reste d’une brûlante actualité”, in: Le Monde, 8/9 nov. 2009.

 

EDUCATION / LINGUISTIQUE:

Wilfried STROH, “Anreiz fürs Denken”, in: Der Spiegel/Geschichte, Nr. 1/2009 (sur la nécessité d’apprendre le latin).

 

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Les 25 mythes russophobes

POUTINE-2-20080506.jpg

Alexandre LATSA :

http://alexandrelatsa.blogspot.com/:

Les 25 mythes russophobes

A l'occasion de l'année de la France en Russie, en 2010, j'ai choisi de terminer l'année 2009 sur une petite synthèse du travail de re-information et de décodage de la scène Russe, effectué via ce blog. 
L'idée de cet article m'a été soufflée par Anatoly de sublime oblivion, qu'il en soit remercié. 


Cet article tombe à point puisque le Figaro vient de publier avec de l'encre "orange" un article qui me permet d'attribuer à son auteur le prix du Russophobe de l'année. J'incite tous mes lecteurs à signaler leur mécontentement au Figaro, soit en contactant directement le journal, soit en postant un commentaire à la suite de l'article. Seul ce travail commun et quantitatif peut avoir une influence sur les contenus des articles, alors manifestez vous !


Voila ce sera tout pour 2009. 


Je souhaite à tous mes lecteurs une bonne fin d'année, je les remercie de leur soutien grandissant et leur confirme ma grande détermination à continuer mon travail en 2010, avec de nombreux projets pour rendre le blog plus populaire, plus interactif, et avec sans doute l'arrivée de nouveaux participants ;)


**


1 - Sous Poutine, la vie ne s’est améliorée que pour les Riches et les Oligarques, et les pauvres n’ont pas vu une augmentation de leur niveau de vie.
Faux, sous le gouvernement Poutine, la pauvreté a considérablement diminué. Le taux de Russe vivant sous le seuil de pauvreté est passé de 35 à 23% de 2000 à 2004 et était tombé à 13,5% en 2008 (avant la crise).
2000 (arrivée de poutine au pouvoir): 35%
2004 (fin du premier mandat Poutine): 23%
2008 (fin du second mandant Poutine): 13,5%
Mémo : Il est à noter que en France en 2007 : 13,7% de la population vivait sous le seuil de pauvreté. 


2 - La spirale démographique Russe devrait voir la population de ce pays diminuer à moins de 100 millions d’habitants contre 142 millions aujourd’hui.
Faux. Il est très fréquent de « lire » en effet que le taux de natalité est bas, que le taux de mortalité est élevé, ainsi que le taux d’avortements et de suicides, et que la Russie perdrait inexorablement 700.000 habitants par an. Pourtant ce n’est pas le cas.
En 2005 la population russe a décrue de 760 000 habitants, ce qui était le record absolu.
En 2006 la baisse n’a été « que » de 520 000 habitants.
En 2007 la baisse n’a été « que » de 280 000 habitants.
En 2008 la baisse est de a peu près 116.000 habitants
En 2009 la population a augmenté de 12.000 personnes, la natalité ayant augmenté de 3% sur l’année 2009 et ce malgré la crise économique. Les mesures Medevedev de 2005 ont donc eu un résultat absolument foudroyant.
Mémo : Aujourd’hui les prévisions démographiques Russes ne sont donc pas plus pessimistes que celles de la Chine ou bien de pays du G7 comme l’Allemagne.


3 - Sous Poutine en Russie il y a une baisse des droits de l’homme, plus de 200 journalistes ont été assassinés et la Russie revient à son passé « totalitaire ».
Pas de chance seulement 3% des Russes sont d’accord avec ce point de vue ! En plus si sous le règne de Poutine 17 journalistes ont malheureusement trouvé la mort, c’est bien moins que sous Eltsine (30 morts).
Selon la CIA elle-même , si la Russie est le 4ième pays au monde pour le nombre de journalistes tués depuis 1992, elle n’est que 14ième au ratio du nombre de journalistes assassinés / nombre d’habitants dans le pays, devant Israël et l’Algérie et juste devant la Turquie qui prétend entrer dans l’UE.
Egalement, au classement des pays ex URSS, la Russie n’est que 5ième (sur 13) derrière un pays membre de l’UE, la lettonie.
Enfin il faut rajouter que en 2009, au classement du nombre de journalistes emprisonnés, la Russie est  au même niveau que le Vietnam ou encore la Turquie, candidat à l’UE.


4 - L’économie Russe est basée uniquement sur les matières premières, et la sévérité de la récession de 2009 l’a bien montré.
Personne n’a jamais nié que la Russie (comme d’autres états) est  extracteur et exportateur de matière première. Néanmoins ce n’est pas cela qui a contribué à ce que la Russie subisse la crise de 2009, puisque son économie est relativement fermée et que la demande intérieure est restée forte, ce qui  permet théoriquement de soutenir l’économie.
Par contre les coupures de crédits par les banques occidentales (chez qui les sociétés russes avaient empruntés) ont grandement contribué à freiner le développement économique du pays. En outre, les  appels du département Américain en 2008 a sanctionner la Russie  après l’affaire Georgienne ont grandement contribué à accroitre l’instabilité économique et faire sortir les capitaux de fin 2008 à fin 2009 (anglo saxons en grande partie).


5 - La Russie a brutalement envahie la Géorgie en aout 2008.
En réalité quelques heures après son discours télévisé promettant à tous les habitants de la Georgie la « paix », les chars ouvraient le feu sur l’Ossétie. Aidé par des conseillers militaires et mercenaires Américains, Ukrainiens et Israéliens, ces attaques allaient tuer des civils et des soldats de maintien de la paix sous mandat de l’ONU. Malgré toute la propagande à vouloir laisser paraitre que c’était la partie Russe l’agresseur, la réponse militaire Russe a été juste et proportionnée. Plus que tout, le gros des infrastructures Georgiennes a été épargné (notamment énergétiques) et la capitale pas touchée.
Le rapport de la mission internationale sur ces événements à rendu un rapport le 01 10 2009 affirmant que la Géorgie était à l’origine du déclenchement des troubles militaires et avait la première ouvert le feu (sur l’Ossétie).
En outre, de nombreux trucages photos à destination des Occidentaux ont été fournis, par exemple ici, la ou ici.
Question : pourquoi personne ne s’émeut des manifestations interdites de l’opposition Georgienne, des arrestations d’opposants et des assassinats d’opposants Georgiens à l’étranger ?


6 - Les « libéraux » Russes sont les défenseurs des libertés individuelles et ne peuvent librement agir politiquement car le Kremlin les en empêche.
Ce n’est pas tout à fait exact, les libéraux Russes ont toujours pu librement participer aux élections et exister politiquement en Russie mais leur influence politique ne cesse de baisser (12 % aux élections législatives de 1993, 7 % aux élections législatives de 1995 et 1999, 4 % en 2003, 2 % en 2006 ..)
En outre le modèle de société calquée sur l’occident n’attire « plus » une population Russe qui a beaucoup voyagé (1/4 des citoyens est déjà allé en Europe) et est consciente de ses intérêts a ne pas brader la souveraineté nationale. Enfin les méthodes des kasparov et consorts à organiser des manifestations coup de poing manifestation déclenchées sans autorisations légales (de façon à être délibérément arrêtés) et avec des banderoles en Anglais (à destination des médias étrangers sans doute) ne le rendent pas du tout crédible aux yeux des Russes.


7 - Les Russes sont des racistes, sexistes et haïssent l’Occident.
Les Russes ne sont pas racistes puisque leur pays est absolument multi ethnique et multi confessionnel. Il n’y a pas plus (sinon moins) de racistes en Russie que dans les autres pays dits civilisés (Amérique, Allemagne, Ukraine ..).
Quand aux femmes, les sociétés Slaves sont matriarcales, les femmes y jouent un rôle économique essentiel, et jouissent du droit de vote et à l’avortement depuis bien longtemps. Pou le droit de vote : 30 ans avant les Françaises !


8 - La Russie est agressive avec ses voisins géographiques proches.
Contrairement aux autres grandes superpuissances, la Russie n’a jamais envahi militairement un autre état. Enfin, de nombreux ressortissants des états voisins seraient d’accord pour que leur état ré-intègre la fédération de Russie .


9 - La Russie est frappé par un SIDA endémique.
On lit partout que la Russie comprendrait une part énorme de sa population séropositive etc En réalité, le scan (test) de la population est presque terminé et le gros des séropositifs à été identifié (donc testé). Le plateau a été atteint en 2002 et la tendance depuis est à la baisse sauf dans certaines populations très identifiés (narcomanes par injections, prostituées, prisonniers..)
Par conséquent l’épidémie de sida si elle reste importante (comme dans tous les pays développés) semble sous contrôle et ne devrait pas prendre une tournure sub-saharienne. 


10 - Une nation avec une natalité de type européenne et une mortalité à l’Africaine ne peut avoir aucun avenir.
Et pourquoi cela ?
La baisse de la natalité post soviétique est due à la situation économique des années 90 et au choc moral et économique créé par l’effondrement de l’URSS, hors depuis cette période la natalité est remontée et de type Européenne aujourd’hui (point 2), rien ne dit qu’elle ne soit pas plus élevée demain ou après demain.
Quand à la surmortalité, elle est aujourd’hui est néanmoins en baisse et ne touche que les hommes âgés de cette période, hors ceux la ne contribuent pas à la natalité Russe (ils sont déjà pères, voir grand pères).


11 - L’inégalité est en Russie très forte, du niveau de la Russie Tsariste et cela est aggravé par une corruption endémique. Tout cela s’est aggravé depuis l’arrivé de Poutine au pouvoir.
L’économie Russe est une économie originale, ni totalement libérale, ni  totalement autoritaire. Elle est une économie mi ouverte, mi fermée, est marquée par un très fort  interventionnisme de l’état et une corruption relativement élevée, ce que personne ne le nie.
Néanmoins depuis l’arrivé au pouvoir de Vladimir Poutine, la guerre contre les « oligarques » a été menée avec succès. La presse Occidentale, qui fustigeait ces oligarques enrichis dans les années 90 s’et mise très curieusement a fustigé Poutine lorsque celui-ci à commencer à les mettre au pas. Pour quelles raisons ?
Plus sérieusement, comme le précisait le président 
d’un groupe de sécurité économique lors d’un forum au sénat Français : «  le temps où de méchants garçons en blouson noir venaient frapper aux portes est révolu depuis les années 1995. Le temps est également révolu -depuis les années 2000- où les acteurs informels « rouges » (c'est-à-dire les administrations telles que la police ou les associations des anciens des Services spéciaux) remplaçaient les acteurs informels « noirs ».  L'époque actuelle est presque celle des relations de marché civilisées en Russie ».



12 - La Russie a réprimée dans la violence la plus terrible l’insurrection tchétchène dont les combattant ne souhaitaient que l’indépendance et sortir du Giron Russe.
Faux, après la première guerre en Tchétchénie (1995) et le retrait Russe, les Tchéchènes vivaient une indépendance de facto. La situation a terriblement dégénèré, des groupes mafieux islamistes sous influence étrangère (wahhabites) ont commencé à terroriser la population et des raids militaires ont été effectués par des milices dans les états voisins pour tenter de déstabiliser le Caucase et établir un califat islamiste, indépendant de la Russie. Hors la Tchétchénie se situe « en » Russie et la grande majorité des Tchétchènes ne veut pas l’indépendance mais la paix.
Depuis la fin de la seconde guerre de Tchétchénie, le pays est dirigé par Ramzan Kadyrov d’une main de fer, mais un état légal existe, le pays est presque pacifié et la reconstruction quasi terminée.


13 - Le programme spatial Soviétique a été développé par des « prisonniers » de guerre Allemands.
Malheureusement pour l’Allemagne, le programme Spatial Soviétique est le fait des Russes (comme Korolev), qui n’ont eux pas bénéficié du plan Marshall pour reconstruire le pays après la seconde guerre mondiale. A l’inverse, de nombreux prisonniers Allemands ont été capturés et utilisés aux Etats-Unis pour contribuer au développement, le plus célèbre étant le savant nazi Von Braun.


14 - La Russie n’a pas permis de transition démocratique, Poutine à mis en place sa marionnette Medevedev.
Poutine est régulièrement mal traduit, volontairement mal interprété et systématiquement présenté comme un « dictateur », un « non  démocrate ». Lorsque Medvedev a été élu, la presse nous a assuré qu’il n’en était rien, que rapidement celui c i allait démissionner, ou changer la loi afin que Poutine soit de nouveau au pouvoir. Au final il n’en a rien été, il ne s’agissait une fois de plus que de dénigrements. Le duo Poutine-Medvedev marche main dans la main depuis les années 2000 (il y a 10 ans). 


15 - La situation est catastrophique en extrême orient, colonisé par les Chinois, demain la Sibérie sera entièrement Chinoise !
Les relations Russo-chinoises n’ont jamais été mauvaises, malgré ce qu’affirment les « spécialistes Occidentaux ».  Tout d'abord il n'y a pas une "invasion" de Chinois comme on aimerait nous le faire croire. Plus surprenant, une étude de 2008 a tracé le portrait d'un "migrant Chinois Typique, en interrogeant 1000 personnes dans toutes les grandes villes de Russie. Voila ce qu'il en ressort : 60% sont des hommes, 20% ont une éducation supérieure (la moyenne Chinoise étant de 12%). 94% travaillent et la grande majorité est issue des villes frontalières de la Russie. Plus de la moitié sont auto entrepreneurs et font du commerce.
La grande question est "combien" sont-ils ? D'après le FMS, 200.000 en 2006 et 320.000 en 2007, dont de nombreux travailleurs saisonniers. Bien sur cela ne compte pas les clandestins mais jusqu'à présent, malgré les hurlements de certains (Golts, Latynina..) pas de ville millionnaire Chinoise n'a été découverte en extrême orient Russe. Néanmoins un chiffre de 500.000 (dont les 2/3 de migrants légaux et saisonniers) semble être un chiffre raisonnable.  " En face" de cela il y a 5 millions de Russes. 


Même si les Chinois devaient abandonner leur « objectif » du sud est asiatique (ce qui est improbable) et chercher un conflit avec la Russie (encore plus improbable), la supériorité militaire Russe (notamment nucléaire) est largement dissuasive.


16 - La Russie à prouvée qu’elle n’était pas un partenaire fiable pour l’oues, notamment pour les approvisionnements énergétiques (cf : les coupures de gaz).
Lorsque l’on regarde en détail  « qui » à réellement agressé l’autre on est en droit de penser l’inverse en fait. S’est t’on posé la question de savoir ce que due doivent penser les Russes de l’extension à l’est de l’OTAN, de l’affaire du Kosovo, du traitement des minorités Russes dans les pays Baltes, de l’agression militaire Georgienne, des révolutions de couleurs financées par la CIA etc) ?
De la même façon, les coupures d’approvisionnements de l’hiver dernier ont été déclenchées par l’Ukraine qui n’a pas payé la Russie pour le gaz qu’elle a acheminée sur « son » territoire.
La Russie alimente depuis très longtemps la Turquie en gaz (depuis 2003 via Blue Stream) et il n’y a jamais eu de tels problèmes, preuve s’il en est que la Russie est un partenaire et un fournisseur fiable.


17 - Les Russes exagèrent les accusations de « discriminations » qui frapperaient leurs ressortissants en Estonie et en Lettonie.
Non, de nombreuses associations des droits de l’homme Européennes ont pointé du doigt la terrible situation de ces minorités Russes, brimées à différents niveaux : administratifs, linguistiques, pour l’accès au travail etc.
La conséquence est que dans ces états ¼ de la population est coupée d’un droit à l’enseignement et n’a même pas accès à la citoyenneté ! Certains n’étant pas Russes (ils ont les passeports Soviétiques), ils se retrouvent « sans » nationalités, apatrides et traités comme des citoyens de seconds rangs, le tout au cœur de l’Europe.
Dans ces mêmes états, des marches de vétérans SS sont tolérés et les monuments Soviétiques sont effacés, des russes sont tués et l’UE ne dit rien.


18 - Le potentiel militaire Russe est totalement obsolète, sa doctrine militaire également et la Russie serait incapable de « tenir » une éventuelle confrontation avec la Chine ou l’OTAN.
La réalité est autre : la Russie développe actuellement une quantité d’armes de toutes sortes et de très hautes technologies, que ce soit les chasseurs militaires, les bombardiers lourds, le matériel de surveillance ou encore les armes de destruction massive (boulava, voivoda).. etc.
La guerre en Géorgie a prouvé la supériorité militaire de l’armée Russe sur une armée entrainée et « aidée » par l’OTAN depuis 5 ans.
La nouvelle doctrine militaire Russe est tout sauf obsolète et liée au « plan 2020 », les propositions récentes du Kremlin sur un « nouvel ensemble de sécurité continental » étant au contraire visionnaires et futuristes.  Enfin, le plan de modernisation de l’armée est considérable.


19 - La société civile a été annihilée par Poutine, et le système judiciaire est « tenu ».
En réalité, le nombre de plaignants allant au tribunal à considérablement augmenté entre 1999 et 2009 puisqu’il a été augmenté par six ! Le système des « jurés » a été introduit en Russie et les plaignants gagnent désormais 71% de leurs procès contre l’état. De plus un système d’aide juridique gratuite existe.
L’image des ONGs brutalisées par le pouvoir vient de l’expulsion de la Freedom House en 2004 pour non paiement de loyer. Mais quand on sait les activités révolutionnaires oranges de telles associations, il est normal que le pouvoir est saisi la « première » occasion pour les faire interdire.


20 - Khodorkovsky  a été injustement arrêté et détenu alors que c’était juste un entrepreneur efficace et ouvert aux idées libérales de l’Ouest.
Khodorkovsky est détenu pour des comportements frauduleux, illégaux (corruption, soudoiement, détournement et évasion fiscale..). Plus de la moitié des Russes jugent normal son arrestation. (54% en 2006).
Khodorkovsky a également mis en péril l’intérêt national Russe puisqu’il avait prévu de céder Youkos à Exxon, cédant ainsi les matières premières Russes (qui ne lui appartenaient pas) à une société Américaine, le tout au lendemain de la guerre froide. En outre, ces avoirs « personnels » ont été après son arrestation été transférés à Rothschild ce qui semble normal finalement, Khodor est lié aux néo conservateurs US et siégeait à Carlyle avec les proches de Bush.


21 - Eltsine a été un vrai démocrate.
Il a même posé sur un tank, comme ceux qui ouvraient le feu sur la Douma dont les députés (communistes) s’opposaient à ces réformes « libérales / corrompues ».
Il a ensuite déclenché une guerre non préparée en Tchétchénie, qu’il a perdue. Il a nommé des ministres incompétents et voleurs, permis aux oligarques de s’enrichir, pendant que le peuple s’appauvrissait et que des mafias caucasiennes prenaient le contrôle du pays.
Il était alcoolique et ridiculisait la Russie. Il était pour tout cela extrêmement apprécié par les occidentaux.


22 - La Russie se sert de l’énergie pour « tenir » ses voisins et utilise son expansion énergétique au profit de projets politiques.
Un fournisseur a le droit de choisir son tarif, et les clients de payer ou non. Le pays au monde qui utilise l’énergie à des fins politiques est l’Amérique qui se permet de bombarder des pays comme l’Irak et l’Afghanistan.


23 - La Russie est dirigée par des néo-communistes, eurasiens, nationalistes et qui sont avant tout contre l’Ouest et l’Europe.  
Le système politique Russe est très différent des systèmes politiques Européens. Le spectre politique est très large même au sein d’un seul parti. Mais oui c’est vrai les Russes sont très patriotes et cela dans les partis de droite comme de gauche.
Lorsqu'il a été demandé à Vladimir Poutine de quelle idéologie il se réclamait celui-ci a répondu : « vous ne trouvez pas que les idéologies ont fait assez de mal ?»  Récemment, Sergueï Lavrov affirmait que la Russie se sentait part de la civilisation Européenne.


24 - La Russie sera un califat islamique en 2050.
La réalité est tout autre, les russes ethniques représentent 80% de la population du pays.  Selon un sondage de 2006 seulement 6% des citoyens de Russie se considèrent comme « musulmans », confortant l’adage que « en Russie la vodka a dissous le Coran ». En outre, même au cœur des zones musulmanes de Russie (tatarstan, bachokorstan..) les « russes de souche slave » représentent plus de 50% de la population.
En outre la fertilité des « Russes de souche » est désormais plus élevée que celle des « musulmans » Russes, hormis dans certaines régions comme la Tchétchénie, mais sa population ne représente que «1% de la population Russe.


25 - Berezovsky a permis l’arrivée de Poutine au pouvoir et est désormais soumis à un harcèlement des autorités Russes, l’empêchant de revenir dans son pays.
Comme le général Lebed disait: “Berëzovski est l’apothéose de cette petite clique au pouvoir qui n’est pas satisfaite par montrer qu’elle vole mais qu’elle le fait en toute impunité. Lebed est mort dans un accident d’hélicoptère.
Le journaliste de Forbes Paul Khlebnikov a écrit un livre sur lui « parrain du Kremlin », en mettant en évidence ces liens avec les mafias, celui-ci est également mort assassiné.
Berëzovski a été mis en cause dans de nombreuses affaires scabreuses et meurtres non résolu. Il a des mandats d’arrêts contre lui en Russie mais également en Amérique du sud.
Il n’est pas surprenant que ce « grand démocrate » soit défendu par nombre d’occidentaux.

dimanche, 03 janvier 2010

Entrevista sovre uma das divisoes infantis do nacionalismo europeu

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Entrevista sobre uma das divisões infantis do nacionalismo europeu

by Rodrigo

Já não deposita esperança, como antes ou como alguns “nacional-revolucionários”, no mundo árabe-muçulmano?

Todas as tentativas anteriores de criar um eixo ou uma concertação entre os dissidentes construtivos da Europa manipulada e os parceiros do mundo árabe considerados “Estados-Pária” saldaram-se por falhanços. Os colóquios líbios da “Terceira Teoria Universal” deixaram de existir aquando da aproximação entre Khadaffi e os Estados Unidos e desde que o líder líbio adoptou políticas anti-europeias, nomeadamente participando recentemente no mobbing (mobilização mediática para fazer pressão política) contra a Suíça, um mobbing em curso desde há uns bons 10 anos e que encontrou novo pretexto para continuar depois da famosa votação sobre os minaretes.

O líder nacionalista Nasser desapareceu para ser substituído por Sadat e depois por Moubarak, que são aliados muito preciosos dos EUA. A Síria participou na perseguição ao Iraque, última potencia nacional árabe, eliminada em 2003, apesar do efémero e frágil eixo entre Paris, Berlim e Moscovo. As crispações fundamentalistas declaram guerra ao Ocidente sem fazer distinção entre a Europa manipulada e o Hegemon americano, com o seu apêndice israelita. Os fundamentalistas opõem-se aos nossos modos de vida tradicionais e isso é inaceitável, como são inaceitáveis todos os proselitismos do mesmo tipo: a noção de jahiliyah (idolatria a destruir) é para todos perigosa, subversiva e inaceitável; é ela que veicula esses fundamentalismos, logo à partida instrumentalizando contra os estados nacionais árabes, contra os resíduos de sincretismo otomano ou persa e depois por parte das diásporas muçulmanas na Europa contra todas as formas de politicas não fundamentalistas, nomeadamente contra as instituições dos Estados de acolhimento e contra os costumes tradicionais dos povos autóctones.

Uma aliança com estes fundamentalismos obrigar-nos-ia a renunciarmos ao que somos, do mesmo modo como exige o Hegemon americano, a exemplo do Grande Irmão do romance 1984 de Georges Orwell, exigem que rompamos com os recursos íntimos da nossa historia. O prémio Nobel da literatura Naipaul descreveu e denunciou perfeitamente este desvio na sua obra, evocando principalmente as situações que prevalecem na índia e na Indonésia. Neste arquipélago, o exemplo mais patente, aos seus olhos, é a vontade dos integristas de se vestirem segundo a moda saudita e imitar os costumes da península arábica, quando estas vestimentas e estes costumes eram diametralmente diferentes dos do arquipélago, onde há muito tempo reinava uma síntese feita de religiosidades autóctones e de hinduísmo, como atestam, por exemplo, as danças de Bali.

A ideologia inicial do Hegemon americano é também um puritanismo iconoclasta que rejeita as sínteses e os sincretismos da “Merry Old England” (1), do humanismo de Erasmo, do Renascimento Europeu e das políticas tradicionais da Europa. Neste sentido partilha bom número de denominadores comuns com os fundamentalismos islâmicos actuais. Os Estados Unidos, com o apoio financeiro dos Wahabitas sauditas, manipularam estes fundamentalismos contra Nasser no Egipto, contra o Xá do Irão (culpado de querer desenvolver a energia nuclear), contra o poder laico no Afeganistão ou contra Saddam Hussein, puxando provavelmente ao mesmo tempo alguns cordelinhos no assassinato do rei Faycol, “culpado” de querer aumentar o preço do petróleo e de se ter aliado, nesta óptica, ao Xá do Irão, como brilhantemente mostrou o geopolitólogo sueco, William Engdahl, especialista de geopolítica do petróleo. Acrescentemos de passagem que a actualidade mais recente confirma esta hipótese: o atentado contra a guarda republicana islâmica iraniana, os problemas ocorridos nas províncias iranianas com o fim de destabilizar o país, são obra de integrismos sunitas, manipulados pelos Estados Unidos e a Arábia Saudita contra o Irão de Ahmadinedjad, acusado de recuperar a política nuclear do Xá! O Irão respondeu apoiando os rebeldes zaiditas/xiitas do Yemen, retomando assim uma velha estratégia persa, anterior ao surgimento do Islão!

Os pequenos fantoches que se gabam de ser autênticos nacional-revolucionários e que se deleitam em todo o tipo de farsas pró-fundamentalistas são, na verdade, bufões alinhados por Washington por dois motivos estratégicos evidentes:

1- Criar a confusão no seio dos movimentos europeístas e fazê-los aderir aos esquemas binários disseminados pelas grandes agencias mediáticas americanas que orquestram por todo o mundo o formidável “soft power” de Washington;
2- Provar urbi et orbi que a aliança euro-islâmica (euro-fundamentalista) é a opção preconizada por “perigosos marginais”, por “terroristas potenciais”, pelos “inimigos da liberdade”, por “populistas fascizantes ou cripto-comunistas”.

Neste contexto encontramos também as redes ditas “anti-fascistas”, agitando-se contra fenómenos assimilados, mal ou bem, a uma ideologia política desaparecida desde há 65 anos. No teatro mediático, colocado em prática pelo “soft power” do Hegemon, temos, de uma parte, os idiotas nacional-revolucionários ou neo-fascistas europeus zombificados, mais ou menos convertidos a uma ou outra expressão do wahabismo e, de outra parte, os anti-fascistas caricaturais, largamente financiados com o propósito de mediatizar os primeiros (…).Todos têm o seu papel a desempenhar, mas o encenador é o mesmo e conduz a comédia com mestria. Tudo isto resulta num espectáculo delirante, apresentado pela grande imprensa, igualmente descerebrada.(…)

(…) Efectivamente, é forçoso constatar que o fundamentalismo judaico-sionista é igualmente nefasto ao espírito e ao politico quanto as suas contra-partes islamistas ou americano-puritanas. Todos, uns como outros, estão afastados do espírito antigo e renascentista da Europa, de Aristóteles, de Tito Lívio, de Pico della Mirandola, de Erasmo ou Justo Lipsio. Perante todas estas derivas, nós afirmamos, em alto e bom som, um “non possumus”!Europeus somos e europeus permaneceremos, sem nos disfarçarmos de beduínos, de founding fathers ou de sectários de Guch Emunim.

Não podemos classificar como anti-semita a rejeição desse pseudo-sionismo ultra-conservador que recapitula de maneira caricatural aquilo em que pensam políticos de aparência mais refinada, quer sejam likudistas ou trabalhistas, constrangidos a rejeitar os judaísmos mais fecundos para melhor desempenharem o seu papel no cenário do Próximo e Médio Oriente imaginado pelo Hegemon. O sionismo, ideologia inicialmente de facetas múltiplas, decaiu para não ser mais que o discurso de marionetas tão sinistras quanto os wahabitas. Todo o verdadeiro filo-semitismo humanista europeu mergulha, pelo contrário, em obras bem mais fascinantes: as de Raymond Aron, Henri Bergson, Ernst Kantorowicz, Hannah Arendt, Simone Weil, Walter Rathenau, para não citar mais que um pequeno punhado de pensadores e filósofos fecundos. Rejeitar os esquemas de perigosos simplificadores não é anti-semitismo, anti-americanismo primário ou islamofobia. Diga-se de uma vez por todas!

Excerto de uma entrevista a Robert Steuckers conduzida por Philippe Devos-Clairfontaine (Bruxelas, 7 de Dezembro de 2009)

Les Finlandais bloquent l'Armée Rouge

250px-Siilasvuo_Raatteen_tiell%C3%A42.jpg3 janvier 1940: Après avoir bloqué l’offensive soviétique, les Finlandais constatent que l’Armée Rouge s’enterre le long de la frontière russo-finlandaise et la fortifie, manifestement en vue d’une future offensive, après les grands froids. Le 3 janvier, l’aviation finlandaise lance trois millions de tracts sur Leningrad, afin de démoraliser la population soviétique et de l’informer sur la situation réelle sur le front. Deux jours plus tard, les troupes du Maréchal finlandais Mannerheim encerclent la 18ème Division soviétique au nord du Lac Ladoga. Le 8 janvier, la 9ème Division finlandaise du Général Siilasvuo écrase deux divisions soviétiques, dont elle avait préalablement coupé les approvisionnements. La tactique des Finlandais est “de laisser la faim et le froid affaiblir l’ennemi”.

 

Le nombre "5" dans la tradition indo-européenne

Alberto LOMBARDO :

Le nombre « 5 » dans la tradition indo-européenne

 

Le nombre 5 est un nombre important, tant pour son symbolisme que pour son étymologie : les deux registres se complètent d’ailleurs parfaitement. Selon les reconstructions opérées à l’unanimité par les linguistes, le terme, qui désigne le nombre « 5 », dérive d’une racine indo-européenne *penkwe, que l’on retrouve dans plusieurs aires linguistiques. Comme pour les autres nombres, on constate des formes différentes dans les différentes langues indo-européennes : l’irlandais « coïc » et le gallois « pimp » ; le gothique et le vieil haut allemand « fimf », le lituanien « penki » et le slave ancien « petr », le tokharien A « päñ », le tokharien B « pis », le latin « quinque » et l’ombrien « pumpe » (nas) ; le grec antique « pente », l’arménien « hing » ; le persan avestique « panca » et le sanskrit « panca » dérivent tous de cette unique racine phonétique, qui, selon une interprétation, serait composée de *pen et de *-kwe ; cette dernière syllabe est un suffixe indiquant une conjonction copulative ou plutôt enclitique, c’est-à-dire qui se place à la fin d’une série de termes : ce type de conjonction est encore bien présente en latin, « -que » (ndt : dans la formule « Senatus populusque romanus »).

 

Ces précisions ne relèvent pas seulement de la simple curiosité philologique parce que c’est en réfléchissant sur la signification de ce *kwe/-que que l’on a pu émettre la théorie qu’aux temps archaïques les Indo-Européens comptaient non sur base décimale, comme nous le faisons aujourd’hui, mais sur la base du nombre 5 ; leurs calculs se terminaient donc par une expression pour désigner le nombre final, que nous devrions plutôt traduire par « et 5 », *penkwe / lat. : quinque - it : cinque. L’explication la plus simple est que cinq est le nombre des doigts de la main, sur base de laquelle on effectuait les calculs. Ensuite, le symbolisme du nombre cinq désigne aussi l’homme (le « microcosme ») ; ce chiffre, outre le nombre de doigts, représente aussi la somme de la tête et des quatre membres (ou des quatre extrémités des membres inférieurs et supérieurs, soit les mains et les pieds). Le pentacle ou pentagone, inscrit dans un cercle, fut l’un des symboles les plus prisés du pythagorisme car c’est sur une base de 5 que l’on accède à l’harmonie universelle de l’échelle d’or. On ne s’étonnera pas qu’un symbole aussi riche de signification ait été inversé, comme aujourd’hui, où l’on retourne le pentacle et où on le place pointe vers le bas, devenant ainsi l’emblème des divers groupes de « satanistes » dont bien peu comprennent la sens réel du symbole dont ils se sont emparé.

 

La fleur à cinq pétales indique la « quintessence » ; chez les rosicruciens, la rose à cinq pétales est placée toute entière dans une rose à huit pétales. En Inde, le nombre 5 revêt une importance particulière car il rappelle les couleurs primordiales et les sens de la perception, c’est-à-dire les éléments subtils et bruts. Dans la culture nordique antique (et dans d’autres cultures), le 5 est le nombre de l’équilibre puisqu’il est la somme de 2 et de 3, représentation de l’humain et du divin. L’homme et le divin, tout est dans le nombre 5 : ainsi le microcosme et le macrocosme, le haut et le bas.

 

L’étude des proportions et des équilibres de la main, liée étroitement au nombre 5, fait dire à Athanasius Kirchner (Musurgia universalis) : « De même, les éléments, les qualités, les tempéraments et les humeurs se maintiennent de manière constante en des rapports bien définis ».

 

Alberto LOMBARDO.

(article tiré de « La Padania », 23 juillet 2000 ; trad.. franc. : Robert Steuckers, décembre 2009). 

 

 

samedi, 02 janvier 2010

Presseschau (Januar 2010/1)

Presseschau (Januar 2010/1)
Einige weihnachtliche Links. Zum Anklicken bei Zeit und Muße...

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Zwölfnächte/Rauhnächte

zeitungen_neu.jpgZwölfnächte, Rauhnächte, Rauchnächte, die Nächte zwischen dem 25.12. und 6.1. Sie sind eine Zeit der Wiederkehr der Seelen, der Wilden Jagd und des Erscheinens von Geistern, die bewirtet oder durch Räuchern, Lärmen oder Kreuzeszeichen abgewehrt werden. Jeder dieser Tage soll als Lostag Vorbedeutung für Wetter und Schicksal im betreffenden Monat des folgenden Jahres haben.

(Der Neue Brockhaus in fünf Bänden, 4., neu bearbeitete Aufl., Wiesbaden 1968)

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Zwölf Nächte (Zwölften), im Volksglauben und Brauchtum besonders hervorgehobener Zeitraum, in der Regel (mit landschaftlichen Abweichungen) zwischen Weihnachten und Dreikönigstag; galt als die Zeit von Spukgeistern (Wilde Jagd, Frau Holle, Percht), die mit mancherlei Arbeitsverbot belegt war, sowie als Lostage; zum Schutz vor den Geistern besprengte man in katholischen Gegenden Zimmer und Ställe mit Weihwasser (=>Rauhnächte). Aus dem Wetter der Zwölf Nächte leitete man Voraussagen für das Wetter der 12 Monate des kommenden Jahres ab; auch Träume galten als vorbedeutend.

(Der Brockhaus in fünf Bänden, Leipzig 2000)

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Kopenhagen gescheitert
US-Präsident Obama stürzt vom Klima-Gipfel
Von D. Wetzel und G. Lachmann
Das faktische Scheitern der Klimaverhandlungen in Kopenhagen ist eine schwere Niederlage für US-Präsident Barack Obama auf internationaler Ebene. Nicht nur, daß er und Bundeskanzlerin Angela Merkel vorzeitig abreisten, ohne ein sicherers Ergebnis erzielt zu haben. Er ließ sich zudem von den Chinesen vorführen.
http://www.welt.de/politik/ausland/article5581658/US-Praesident-Obama-stuerzt-vom-Klima-Gipfel.html

Armenien, die Türkei und der Bergkarabach-Konflikt ...
Hundert Jahre Feindseligkeit
http://jetzt.sueddeutsche.de/texte/anzeigen/493977

US-Armee: Iranische Streitkräfte besetzen Bohrturm im Irak
http://www.google.com/hostednews/afp/article/ALeqM5iONNkKSNcihLy5hXhKxCTCKuZuWw
http://www.spiegel.de/politik/ausland/0,1518,668023,00.html

Einfach nur dreist ... (eine Dreistigkeit, der von deutscher Seite kein Halt gesetzt wird)
Nachbarschaftsvertrag
Polen fordern mehr Rechte in Deutschland
Von Gerhard Gnauck
In erster Linie geht es der Regierung in Warschau bei der Verlängerung des deutsch-polnischen Nachbarschaftsvertrages um die Förderung von Polnisch als Muttersprache. Ein Regierungsgutachten kommt darüber hinaus zu dem Schluß, daß der von den Nazis abgeschaffte Minderheitenstatus von Deutsch-Polen weiter Bestand habe.
http://www.welt.de/politik/ausland/article5593463/Polen-fordern-mehr-Rechte-in-Deutschland.html

Generalinspekteur mit Einsatzerfahrung
Von Fritz Friedebold;Thorsten Jungholt
Guttenberg ernennt Volker Wieker zum obersten deutschen Soldaten – Verteidigungsminister weiterhin beliebt
http://www.welt.de/die-welt/politik/article5579050/Generalinspekteur-mit-Einsatzerfahrung.html

ZDF-Bericht über Kämpfe deutscher Truppen in Afghanistan (02:31 min)
http://www.zdf.de/ZDFmediathek/kanaluebersicht/aktuellste/331022#/beitrag/video/927744/Deutsche-Soldaten-unter-Beschuss/

Afghanistanpolitik: Kritik der Bundeswehr wächst
Sie haben sie in den Krieg geschickt und wollen sie jetzt, getrieben von verblendeter Ideologie und poltischem Machtkalkül, am Pranger sehen. Zu Recht werden die Stimmen gegen die Vereinigte Linke aus den Reihen der Bundeswehr immer lauter: „Überspitzt gesagt fragten sich viele Soldaten: Kommt die Öffentlichkeit eher damit klar, wenn wir getötet werden als unsere Gegner?“ teilte jetzt General Volker Bescht mit.
http://www.pi-news.net/2009/12/afghanistanpolitik-kritik-der-bundeswehr-waechst/#more-107806

Ex-Verteidigungsminister
Rupert Scholz verteidigt Luftangriff von Kundus
Der Staatsrechtler und frühere Verteidigungsminister Rupert Scholz ordnet den Einsatz der Bundeswehr in Afghanistan den Rechtskategorien des Kriegsvölkerrechts zu. Sie erlauben das „gezielte Töten“, sagt Scholz, und damit auch den von Oberst Georg Klein ausgelösten Luftangriff, der Talibanführer „vernichten“ sollte.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article5574082/Rupert-Scholz-verteidigt-Luftangriff-von-Kundus.html

Wo bleibt mein Geld, Mr. Brown?
Von Ronald Gläser
Die Kampagne gegen Karl-Theodor zu Guttenberg hört nicht auf. Dabei war der Mann noch nicht einmal Verteidigungsminister, als amerikanische Piloten ihren Angriff bei Kundus ausgeführt haben.
Was also wirft die linke Presse dem Franken überhaupt vor? Es habe eine „gewaltige Vertuschungs-, Verheimlichungs- und Beschönigungsaktion“ gegeben, schreibt der SPIEGEL  in seiner neuesten Ausgabe. Die „deutsche Demokratie“ habe „ein Desaster“ erlebt. Drunter macht’s der SPIEGEL nicht. An Fakten hat er aber nur die spannende Frage, wer wann welches Dossier zu lesen bekommen hat. Gähn. Wenn das ein Skandal sein soll, dann lachen doch die Hühner. Diese rot-grüne Diffamierungskampagne stinkt bis nach Kabul.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display.154+M59b60f06747.0.html

Bundeswehr
Guttenberg entwirft neue Afghanistan-Strategie
Von T. Jungholt und T. Krauel
Verteidigungsminister Karl-Theodor zu Guttenberg (CSU) weist alle Vorwürfe im Zusammenhang mit dem Luftangriff bei Kundus von sich. Derzeit läßt er eine neue Afghanistan-Strategie erarbeiten. Sie könnte eine Aufstockung der Truppen zur Folge haben. Unter Umständen will er auch mit den Taliban sprechen.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article5584812/Guttenberg-entwirft-neue-Afghanistan-Strategie.html


Zuerst! Deutsches Nachrichtenmagazin
Von Götz Kubitschek
Am vergangenen Freitag sah ich am Naumburger Bahnhof die erste Ausgabe des neuen Nachrichtenmagazins Zuerst! ausliegen. Zuhause fand ich sie im Briefkasten: 84 Seiten, Focus-Style, ein paar lesenswerte Artikel und die übliche Werbung. Ich las und blätterte mit Vorkenntnissen zu Planung und Positionierung des Magazins und prüfte, inwiefern der Anspruch, das rechte Milieu zu überspringen, eingelöst wird.
http://www.sezession.de/10135/zuerst-deutsches-nachrichtenmagazin.html#more-10135

Zuerst! – zum zweiten
Von Götz Kubitschek
Ich habe die Diskussion auf meinen Beitrag zum Nachrichtenmagazin Zuerst! nun einmal laufen lassen, ohne groß moderierend oder kommentierend einzugreifen. Ich will diesen Eingriff jetzt vornehmen, indem ich einzelne Kommentare herausgreife und einiges dazu sage.
http://www.sezession.de/10226/zuerst-zum-zweiten.html


Klimaskeptiker
Die letzten Fortschrittsgläubigen
Von Lorenz Jäger
http://www.faz.net/s/RubC5406E1142284FB6BB79CE581A20766E/Doc~EE604428F360A4BE18ADB54220443B8B6~ATpl~Ecommon~Scontent.html

Wir haben’s ja ...
Entwicklungshilfe: China bekommt Millionen für den Klimaschutz
http://www.handelsblatt.com/politik/deutschland/entwicklungshilfe-china-bekommt-millionen-fuer-den-klimaschutz;2501310

Schäuble spart später
Kommentar: Merkels Terminator
Ein unrühmlicher Platz in den Geschichtsbüchern ist ihm so sicher wie weiland Theo Waigel: Im nächsten Jahr wird Wolfgang Schäuble sich als neuer Schuldenkönig inthronisieren, erst von 2011 an will er eisern sparen. Von Ulrich Kaiser
http://www.op-online.de/nachrichten/politik/merkels-terminator-566993.html

Arbeitsrecht
SPD will Kündigung wegen Kleindiebstählen verbieten
Die SPD will den Arbeitnehmerschutz ausweiten. Im Januar will die Fraktion einen Gesetzentwurf in den Bundestag einbringen, demzufolge sofortige Kündigungen wegen Bagatellvergehen künftig verboten werden sollen.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,668299,00.html

Racheakt in Mexiko
Drogenmafia richtet Familie eines Soldaten hin
Die mexikanische Drogenmafia hat auf grausame Art und Weise Rache genommen: Auftragskiller ermordeten die Familie eines der Elitesoldaten, der an der Jagd auf den Drogenboß Arturo Beltrán Leyva beteiligt gewesen und dabei getötet worden war.
http://www.spiegel.de/panorama/justiz/0,1518,668889,00.html#ref=nldt

BKA warnt
Drei rechte Gewalttaten am Tag
http://www.fr-online.de/in_und_ausland/politik/aktuell/2150712_BKA-warnt-Drei-rechte-Gewalttaten-am-Tag.html

Zahl rechtsextremer Straftaten auf neuem Höchststand
http://nachrichten.rp-online.de/article/politik/Zahl-rechtsextremer-Straftaten-auf-neuem-Hoechststand/62033
http://www.welt.de/die-welt/politik/article5568034/Rund-20-000-rechtsextreme-Straftaten.html

Und deshalb sind ja auch dauerhafte finanzielle Zuwendungen für „Gegen Rechts“-Projekte nötig ...
Daueraufgabe
Studie: Rechte Gewalt lässt sich nicht beseitigen
http://www.morgenpost.de/printarchiv/berlin/article1216683/Studie-Rechte-Gewalt-laesst-sich-nicht-beseitigen.html


Kriminalität
Linksextreme Gewalt stark angestiegen
http://www.focus.de/politik/weitere-meldungen/kriminalitaet-zeitungsbericht-linksextreme-gewalt-stark-angestiegen_aid_463669.html
http://www.stern.de/politik/deutschland/linksextreme-straftaten-das-linke-milieu-schlaegt-zu-1527896.html

Liebe Zündler!
Von Martin Böcker
Danke für Eure Aktivität. Danke, daß Ihr Euch zeigt: Wer Ihr seid, was Ihr macht, wie Ihr Probleme lösen wollt. Ein Stück Grillanzünder auf einem Autoreifen reicht, um fünf bis hunderttausend Euro „abzufackeln“. Benzin, eine Pfandflasche und ein wenig Lust auf Krawall reichen auch für anderthalb Tage „Oh“ und „Ah“ in der Medienlandschaft. Wenig Aufwand, viel Leistung.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display.154+M5e21903dace.0.html

Generalsekretär der NRW-CDU, Hendrik Wüst:
„SPD mitverantwortlich für linksextreme Gewalt“
http://nachrichten.rp-online.de/article/politik/SPD-mitverantwortlich-fuer-linksextreme-Gewalt/61920

ERFURT: Debatte über Links- und Rechtsextremismus
http://www.thueringer-allgemeine.de/ta/ta.thueringenticker.volltext.php?kennung=ontaTICRatgeberMantel1261067711&zulieferer=ta&kategorie=TIC&rubrik=Ratgeber®ion=Mantel&auftritt=TA&dbserver=1

„Arbeit macht frei“-Klau in Auschwitz
„Das ist eine Kriegserklärung“
http://www.spiegel.de/panorama/0,1518,668002,00.html

60 Millionen Euro
Berlin gibt Geld für Auschwitz
http://www.fr-online.de/in_und_ausland/politik/aktuell/2150631_60-Millionen-Euro-Berlin-gibt-Geld-fuer-Auschwitz.html

Aktion Sühnezeichen: Der Schuldprotestantismus rekrutiert seinen Nachwuchs ...
Cathérine Schilling verbringt ein Jahr in Polen als kleinen Beitrag zur Verständigung
„Polen ist wirklich ein tolles Land“
http://www.op-online.de/nachrichten/rodgau/polen-wirklich-tolles-land-567601.html

TU Wien ehrte Holocaust-Leugner
Ein goldenes Diplom für einen amtsbekannten Revisionisten stellte die TU Wien aus. Der Geehrte zweifelte am Massenmord in Auschwitz.
http://www.kurier.at/nachrichten/1964006.php

Sinti und Roma: Bundesrat prangert Diskriminierung an
http://www.jesus.de/blickpunkt/detailansicht/ansicht/161081bundesrat-prangert-diskriminierung-an.html

Musikwissenschaftler Eggebrecht an nationalsozialistischen Verbrechen beteiligt?
http://www.klassik.com/aktuell/news/teaser.cfm?ID=7620&nachricht=Musikwissenschaftler%20Eggebrecht%20an%20nationalsozialistischen%20Verbrechen%20beteiligt%3F

Angewandte will Lueger-Statue umgestalten
Die Universität für angewandte Kunst hat einen internationalen Wettbewerb zur Umgestaltung des Lueger-Denkmals in der City in ein Mahnmal gegen Antisemitismus ausgelobt. FPÖ und ÖVP lehnen die Idee ab, die Grünen sind dafür.
http://wien.orf.at/stories/408595/

1973: DER SPIEGEL über die „Invasion der Türken“
Um die Islamisierung Deutschlands besser zu verstehen, lohnt sich zuweilen ein Blick zurück, zum Beispiel ins Jahr 1973. Die Ölkrise, die Watergate-Affäre, der Jom-Kippur-Krieg bestimmen das Weltgeschehen. In Deutschland aber wird – frei von jeder political corrrectness und Neusprech-Terminologie – über die „Invasion der Türken“ diskutiert. Sogar im SPIEGEL, wie nachfolgender Auszug der Ausgabe 31/1973 beweist.
http://www.pi-news.net/2009/12/1973-der-spiegel-ueber-die-invasion-der-tuerken/

Türkische Gemeinde: „Integrations-Agenda“ 2010
Die Türkische Gemeinde in Deutschland fordert ein Integrationsgesetz. Die Debatte um das Zusammenleben mit Migranten sei zunehmend kontrovers, sagte der Bundesvorsitzende Kenan Kolat. In einer Integrations-Agenda 2010 könnte man die unterschiedlichen Ansätze bündeln.
http://www.stern.de/politik/tuerkische-gemeinde-integrations-agenda-2010-1531586.html
http://www.pi-news.net/2009/12/kolat-fordert-integrationsgesetz/#comments

Vorbild Balkanländer
Türkei fordert Aufhebung von Visumspflicht für EU
Serben, Mazedonier und Montenegriner können seit diesem Wochenende ohne Visum in die Europäische Union einreisen. Nun hat auch die Türkei von der EU die Aufhebung der Visumspflicht für ihre Bürger gefordert. Begründung: Die Türkei sei in EU-Fragen schon viel weiter als die Balkan-Länder.
http://www.welt.de/politik/ausland/article5587949/Tuerkei-fordert-Aufhebung-von-Visumspflicht-fuer-EU.html

Prognose für 2010
Asylbewerberzahl steigt zum dritten Mal in Folge
Deutschland muß sich nach Einschätzung des Bundesamtes für Migration und Flüchtlinge (BAMF) im Jahr 2010 zum dritten Mal in Folge auf einen Anstieg der Asylbewerberzahlen einstellen. Die meisten Flüchtlinge werden auch im kommenden Jahr aus muslimischen Ländern erwartet.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article5620972/Asylbewerberzahl-steigt-zum-dritten-Mal-in-Folge.html

Ausländer
2010 mehr Asylbewerber erwartet
Nürnberg/Berlin (dpa) – Deutschland muß sich nach Einschätzung des Bundesamtes für Migration und Flüchtlinge (BAMF) im Jahr 2010 auf einen leichten (?) Anstieg der Asylbewerberzahlen einstellen.
http://www.zeit.de/newsticker/2009/12/23/iptc-bdt-20091223-169-23381956xml

Mehr als 2000 Irak-Flüchtlinge in Deutschland
http://www.greenpeace-magazin.de/index.php?id=55&tx_ttnews%5Btt_news%5D=69506&tx_ttnews%5BbackPid%5D=23&cHash=15d00da830

Abiturientin (18) in Dresden ermordet
Schock in Dresden: Wenige Tage vor Weihnachten ist die Abiturientin Susanna (18) tot aufgefunden worden. Jetzt sucht die Polizei mit Hochdruck nach einem Pakistani (32). Er soll der Freund der jungen Frau gewesen sein.
http://www.bild.de/BILD/news/2009/12/17/dresden-abiturientin/tot-aufgefunden-worden.html
http://www.bild.de/BILD/regional/dresden/aktuell/2009/12/18/mord-an-gymnasiastin/ihr-freund-soll-sie-erwuergt-haben.html
http://nachrichten.lvz-online.de/nachrichten/mitteldeutschland/tod-von-dresdner-schuelerin-polizei-sucht-32-jahre-alten-pakistaner/r-mitteldeutschland-a-6356.html
http://www.pi-news.net/2009/12/dresden-18-jaehrige-tot-in-asylheim-aufgefunden/

Gießen
Wechsel an der Uni-Spitze
Indischstämmiger Anglistik-Professor Joybrato Mukherjee neuer Uni-Präsident
http://www.fr-online.de/frankfurt_und_hessen/nachrichten/hessen/2147587_Giessen-Wechsel-an-der-Uni-Spitze.html

Ethnomorphose-Propaganda
http://edoc.hu-berlin.de/histfor/5/PHP/mietzner-pil-abb-1.jpg

76jährige Geschäftsfrau beleidigt und bespuckt
Mit 76 Jahren (!) betreibt die tüchtige Geschäftsfrau noch ihren Fischhandel. Doch in letzter Zeit gibt es Probleme mit schwarzafrikanischen Dealern. Sie wird gedemütigt, beleidigt und bespuckt. Ein Polizeibeamter kann dazu nur noch achselzuckend feststellen: „Wenn wir einen Schwarzafrikaner festnehmen, läßt ihn die Justizbehörde schon nach kurzer Zeit wieder laufen. Dann steht er wieder da, verkauft weiter seinen Stoff und zeigt uns den Stinkefinger. Wir sind da genauso hilflos wie sie.“
http://www.pi-news.net/2009/12/76-jaehrige-geschaeftsfrau-beleidigt-und-bespuckt/

Überfall: Polizei erschießt 19jährigen Türken
Im baden-württembergischen Leimen wurde in der Nacht zum Heiligen Abend ein 19jähriger Täter türkischer Nationalität nach einem bewaffneten Raubüberfall auf eine Esso-Tankstelle von Polizeikugeln tödlich getroffen. Zwei Mittäter konnten festgenommen werden.
http://www.pi-news.net/2009/12/ueberfall-polizei-erschiesst-19-jaehrigen-tuerken/

Langsame Veränderungen im kulturellen Gefüge ...
Wenn Muslime Geburtshelfer niederschlagen
http://www.tagesanzeiger.ch/ausland/europa/Wenn-Muslime-Geburtshelfer-niederschlagen/story/24584619

Skateboard-Todesfahrer als Straftäter verurteilt
Der Türke, der nach dem tödlichen Skateboard-Unfall in Frankfurt als Halter des Unfallwagens verhaftet worden war, war wohl doch nicht der Fahrer. Verdächtigt wird jetzt sein Sohn, ein verurteilter Straftäter, den ein verständnisvoller Richter zur besseren Wiedereingliederung in die Gesellschaft auf freien Fuß gesetzt hatte. Er ist untergetaucht.
http://www.pi-news.net/2009/12/skateboard-todesfahrer-als-straftaeter-verurteilt/

Migranten verprügeln am liebsten den Schweizer
Viele Ja-Stimmen zum Schweizer Minarettverbot stammten von jungen Bürgern, die sich sonst für Politik wenig interessieren. Sie beteiligten sich an der Volksabstimmung, weil der Islam sie persönlich betrifft: Sie sind die Lieblingsopfer der jugendlichen Migranten mit islamisch-kulturellem Hintergrund. Gemäß Angaben der Polizei sinkt die Hemmschwelle für Gewaltakte, die Brutalität nimmt zu. Die Angriffe erfolgen oft grundlos und ohne Vorwarnung. Sogar wenn die Opfer am Boden liegen, werden sie noch getreten, mit Vorliebe gegen den Kopf.
http://www.pi-news.net/2009/12/migranten-verpruegeln-am-liebsten-den-schweizer/

Vergewaltiger erhält Haftentschädigung
Vom Tatbestand der Vergewaltigung nicht nur freigesprochen wurde in der Schweiz ein Afrikaner, sondern er erhielt auch noch eine ordentliche Haftentschädigung. Grund: Das Opfer war betrunken und hätte sich seine Verletzungen auch anderweitig zuziehen können. Außerdem hatte der Verdächtige von einvernehmlichen Geschlechtsverkehr gesprochen, was angesichts der Tatumstände sehr wahrscheinlich erscheint.
http://www.pi-news.net/2009/12/vergewaltiger-erhaelt-haftentschaedigung/#more-105824

Weihnachtliche Massenschlägerei auf Schulparty
Was letzte Nacht eine Weihnachtsparty an einem Luzerner Gymnasium hätte werden sollen, endete in einer brutalen Massenschlägerei zwischen zwei „rivalisierenden Gruppen von Jugendlichen“. Lucas Berger, der DJ aus dem Aargau, der Mittwoch nacht auf der „X-Mas-Party 2009“ die Scheiben auflegte, ist geschockt. Was mit einer „echt coolen“ Schülerfete begann, wurde auf einmal bereichert: „Die Leute kletterten zu den Fenstern rein, drängten durch die Türe – es wurde immer aggressiver.“
http://www.pi-news.net/2009/12/weihnachtliche-massenschlaegerei-auf-schulparty/#more-107764

Trebur (Hessen)
Schwarzarbeiter in Kebab-Haus erwischt
http://www.bild.de/BILD/regional/frankfurt/dpa/2009/12/16/schwarzarbeiter-in-kebabhaus-erwischt.html

Vom Wäschetrocknen, der Wilden Jagd und Goethes Einsicht
Von Karlheinz Weißmann
Wenn früher jemand im ländlichen Niedersachsen gefragt wurde, was er zwischen Weihnachten und Dreikönig keinesfalls tun dürfe, so lautete die Antwort: „Wäsche zum Trocknen aufhängen“. Faßte man nach und wollte den Grund wissen, hieß es: „Weil sonst jemand im Hause stirbt.“
Meine Urgroßmutter und meine Großmutter haben sich streng daran gehalten, meine Mutter auch, oder doch beinahe: sie brachte die Wäsche auf den Trockenboden unseres Wohnblocks, – aber es blieb ein Unbehagen. Die jungen Frauen heute kennen nicht einmal mehr das.
http://www.sezession.de/9929/vorweihnachtlich-i-vom-waeschetrocknen-der-wilden-jagd-und-goethes-einsicht.html

Die deutsche Weihnacht
Von Karlheinz Weißmann
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display.154+M52c20cd7236.0.html

Friede auf Erden
Von Heinrich Rieker
Sie legten die Waffen nieder, spielten Fußball und rauchten Zigaretten. Zu Weihnachten 1914 verbrüderten sich Deutsche, Briten und Franzosen an der Westfront. Was sie damals erlebten, notierten die Soldaten in Tagebüchern und Feldpostbriefen
http://www.welt.de/print-welt/article359965/Friede_auf_Erden.html

Abstimmung
Wird Guttenberg der „Sprachwahrer des Jahres“?
Er liest Platon im Original, kann eine mitreißende Bierzeltrede halten und spricht das Wort „Krieg“, wenn es um Afghanistan geht, unumwunden aus: Verteidigungsminister zu Guttenberg. Der CSU-Politiker ist jetzt für die Auszeichnung „Sprachwahrer des Jahres“ vorgeschlagen worden.
http://www.welt.de/kultur/article5610205/Wird-Guttenberg-der-Sprachwahrer-des-Jahres.html
http://www.deutsche-sprachwelt.de/berichte/pm-2009-12-22.shtml

Kunstschatz
Kulturstaatsminister will Nofretete behalten
Nofretete bleibt in Berlin, daran lässt Kulturstaatsminister Bernd Neumann keinen Zweifel. Auch wenn Ägypten die Rückgabe der Büste fordert. Der CDU-Politiker will die Königin, die im Neuen Museum zu Hause ist, nicht einmal leihweise herausgeben.
[Wäre ja auch noch schöner. Die Orientalen haben sich doch ursprünglich einen Dreck um ihr Erbe geschert. Und wären die Europäer nicht gewesen, wäre das wohl auch heute noch so ...]
http://www.morgenpost.de/kultur/berlin-kultur/article1227760/Kulturstaatsminister-will-Nofretete-behalten.html

Evolution: Koala-Urahnen verschmähten Eukalyptus
Koalas und Eukalyptusbäume sind praktisch unzertrennlich. Doch das war nicht immer so, wie Forscher jetzt herausgefunden haben: Schädel von Koala-Urahnen beweisen, daß die Beutelbären früher abwechslungsreicher fraßen – bis die Kontinentaldrift dazwischenkam.
http://www.spiegel.de/wissenschaft/natur/0,1518,668249,00.html

Denkmalschutz und Stuttgart 21
Was ist die Stuttgarter Denkart?
http://www.stuttgarter-nachrichten.de/stn/page/1789197_0_2147_denkmalschutz-und-stuttgart-21-was-ist-die-stuttgarter-denkart-.html

Jagdbomber zu Backformen
Von Ellen Kositza
Die Klage über die Profanierung der weihnachtlichen Sitten ist seit Jahren – oder länger? – ins Brauchtum eingemeindet. Als wir vor sieben Jahren nach Mitteldeutschland gezogen sind, war manches für uns ein Schock. Bis dahin hatte ich den Offenbacher Weihnachtsmarkt für einigermaßen häßlich gehalten, hier wurde der Rummel an manchen Orten noch übertroffen.
http://www.sezession.de/10238/jagdbomber-zu-backformen.html

Wintergetränke
Der Glühwein ist nicht schuld an seinem Elend
Billiger Glühwein sorgt schon viel zu lange für Kopfschmerzen. Dabei haben heiße Mischgetränke eine längere Tradition als Cocktails – sie sind im Grunde ihres Wesens einfach und gut. Und: Jeder kann sie zu Hause selber machen. Lorraine Haist hat nach Alternativen zum Heißgetränke-Proletariat geforscht.
http://www.welt.de/lifestyle/article5575054/Der-Gluehwein-ist-nicht-schuld-an-seinem-Elend.html
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Joseph II abolit la torture

joseph-ii-2-sized.jpg2 janvier 1776 : L’Empereur Joseph II d’Autriche, despote éclairé, décide d’abolir la torture dans tous ses Etats. Joseph II entend modeler son système de pouvoir sur les idées nouvelles du 18ème siècle et “se débarrasser des fardeaux inutiles du passé”. Cette volonté de se débarrasser de toutes les bonnes vieilles habitudes de la tradition lui jouera des tours, notamment aux Pays-Bas où ses réformes seront mal accueillies et considérées comme tatillonnes, si bien qu’il récoltera le sobriquet de « roi sacristain » car il avait demandé de légiférer sur la longueur et l’épaisseur des bougies et cierges destinés au culte. De même, il vexera profondément les Hongrois, en ramenant à Vienne la Couronne de Saint-Etienne, qu’il portait au titre de Roi de Hongrie. Quant au palais royal de Prague, il le transformera en caserne de cavalerie, fasciné qu’il était par tout ce qui était « utile ». Joseph II introduit dans ses Etats disparates et composites un centralisme qui ne sera guère apprécié. Cet Empereur d’ancien régime, adepte du despotisme éclairé, a néanmoins « humanisé » les pratiques judiciaires, bien avant le triomphe des idées de 1789, qui, elles, feront un usage zélé de la guillotine.

 

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Le destin de Beppo Römer: des Corps Francs au Parti Communiste Allemand

beppo.jpgHolger SZYMANSKI :

Le destin de Beppo Römer : des Corps Francs au Parti Communiste Allemand

 

Josef Römer, « Beppo » pour ses amis, était un ancien chef des Corps Francs allemands après 1918. Indubitablement, cette personnalité illustre est typique de ces destins troublés qui ont traversé le 20ème siècle.

 

Ceux qui s’intéressent à l’histoire allemande de la première moitié du 20ème siècle connaissent Römer : il fut l’un des initiateurs de l’assaut contre l’Annaberg en Silésie, une hauteur stratégique qui avait été occupée par des francs-tireurs polonais en mai 1921 ; ensuite, il fut un résistant à l’hitlérisme, exécuté en 1944. Entre l’héroïsme de l’Annaberg et la mort tragique de 1944, s’étend une période moins bien connue, celle où notre Capitaine mis à la retraite s’est d’abord engagé dans les rangs nationalistes puis, par le détour du national-bolchevisme, a fini par devenir un compagnon de route du communisme allemand. Pourtant ceux qui s’intéressent aux phénomènes de la « révolution conservatrice » et du national-bolchevisme ignorent une chose : Römer était déjà dans les années 20 un agent du service de renseignement de la KPD communiste allemande. Il y a déjà une quinzaine d’années, la maison d’édition Dietz de Berlin, inféodée à la SED, le parti unique de l’ex-Allemagne de l’Est, avait fait paraître un livre intitulé « Der Nachrichtendienst der KPD 1919-1937 » (= «Le service de renseignement du parti Communiste Allemande – 1919-1937 ») ; cet ouvrage est passé presque totalement inaperçu dans les milieux généralement intéressés à la « révolution conservatrice » et aux nationalismes allemands, sans doute à cause de sa provenance est-allemande et communiste.

 

Les auteurs de ce livre ont sans nul doute suscité des hauts le cœur chez les conservateurs et les nationaux : tous étaient jadis enseignants auprès de la « Hauptverwaltung Aufklärung » (« Administration Principale du Renseignement ») du Ministère de la Sécurité de l’Etat (la « Stasi »). Parmi eux, il y avait également le chef d’un département spécialisé « dans les recherches sur les problèmes spécifiques de lutte et de résistance antifascistes » ; lui aussi relevait du ministère du fameux Général Mielke. Pourtant, ces auteurs, contrairement à beaucoup d’autres historiens, avaient accès aux archives est-allemandes et toutes les références qu’ils citent dans leur livre sont vérifiables dans la mesure où leurs sources sont dûment citées. Pour l’essentiel, nos ex-officiers est-allemands se basent sur les archives de la SED et sur celles du « Département IX/11 » de la Stasi. Aujourd’hui, tous ces documents ont été transférés aux Archives Fédérales (« Bundesarchiv »). A l’époque de la RDA, les résultats des recherches de nos auteurs étaient considérés comme « top secrets » et tenus sous le boisseau. La Stasi se voulait l’héritière du « service de renseignement » de la KPD.

 

D’après les travaux de nos historiens membres de la Stasi, les contacts de Beppo Römer avec les communistes remontaient à 1921 déjà et auraient été rendus possibles par l’entremise d’un député communiste du Landtag de Bavière, Otto Graf. Le service de renseignement du parti finit par prendre contact avec Römer à l’automne 1923. Römer revêtait une grande importance pour les communistes, car il était l’un des dirigeants de la Ligue Oberland (= « Bund Oberland »), issue du Corps Francs du même nom, qui avait joué un rôle important dans les combats de l’immédiat après-guerre. A ce titre, cette Ligue exerçait une grande influence dans le camp nationaliste. Nos auteurs est-allemands en arrivent dès lors à la conclusion suivante, après avoir dépouillé un grand nombre de documents archivés : « Römer fut l’un des informateurs les plus prolixes de la KPD  sur le camp des radicaux de droite en Bavière ». La direction de la KPD était donc très bien informée sur la préparation, l’exécution et l’échec du putsch perpétré par Hitler les 8 et 9 novembre 1923.  

 

Cependant, le travail des informateurs ne servait pas seulement à informer la direction de la KPD mais aussi et surtout à travailler à la dislocation des troupes d’auto-défense et de toutes les autres organisations de droite. Le domaine dans lequel ce travail de dislocation devait s’effectuer s’appelait tout simplement celui des « Fascistes » dans le langage des communistes. Travaillant sous la houlette de son chef, Otto Thomas, Beppo Römer, qui avait achevé des études, obtenu un diplôme et trouvé un emploi civil dans le domaine de l’économie, fonde, avec Ludwig Oestreicher, issu comme lui de la Ligue Oberland, et quelques autres amis, la revue « Die neue Front » (= « Le Front nouveau ») dont l’objectif était de promouvoir des volontés activistes d’orientation nationale-bolchevique parmi les anciens des Corps Francs ; remarquons que, dans le chef de Römer, c’est avec le concours de l’appareil de subversion de la KPD que de telles vocations doivent éclore. La revue ne suscite finalement pas grand intérêt et cesse bien vite de paraître.

 

Römer, libéré de ses tâches de publiciste, s’adonne alors plus intensément à l’espionnage économique et militaire auquel se livrent les communistes allemands pour le bénéfice de leurs camarades soviétiques. Dans ce contexte, Römer est arrêté le 30 septembre 1926 à Berlin. Grâce à une amnistie générale, il ne sera pas jugé. Römer se serait surtout intéressé à la production de gaz toxiques et à fournir des échantillons de produits finis.

 

Beppo Römer ne réapparaît sur la scène de la politique allemande qu’en 1931, lorsqu’apparaissent les groupes de travail « Aufbruch ». Ces cercles politiques voient le jour au moment où l’ancien lieutenant de la Reichswehr, Richard Scheringer, passe de la NSDAP hitlérienne à la KPD communiste. Scheringer, avec ses camarades Hanns Ludin (plus tard ambassadeur du Reich en Slovaquie pendant la seconde guerre mondiale et, à ce titre, exécuté en 1947) et Hans Friedrich Wendt, avait fait de la propagande pour la NSDAP au sein des forces armées. Les trois hommes avaient voulu mettre sur pied des « cellules NSDAP » dans l’armée. Lors du procès de la Reichswehr, qui s’est tenu à Ulm à l’automne 1931, Hitler a été appelé à la barre comme témoin et c’est là qu’il a prononcé son fameux « serment de légalité », par lequel il proclama que la NSDAP ne cherchait à atteindre le pouvoir que par des moyens légaux.

 

Scheringer purgea sa peine à Gollnow où, sous l’influence d’un détenu communiste, Rudolf Schwarz, il finit par adhérer à l’idéologie des Rouges. Rudolf Schwarz n’était pas le premier communiste venu mais avait été le responsable du département « Reichswehr » de l’appareil politico-militaire du parti. Le dirigeant actif, à l’époque, de cet appareil « M », Hans Kippenberger, fit sensation le 19 mars 1931 lorsqu’il annonça pendant un débat au Reichstag l’adhésion de Scheringer à la KPD. La démarche de Scheringer a permis à la KPD de pénétrer des strates sociales qui avaient été jusqu’alors sceptiques à son égard.

 

Pour consolider ces nouveaux contacts, Kippenberger décida de fonder une nouvelle revue, « Aufbruch  - Kampfblatt im Sinne des Leutnants a. D. Scheringer » (= « Aufbruch – Feuille de combat selon les idées du Lieutenant e.r. Scheringer »). Dans un premier temps, les éditeurs de la publication furent l’ancien Premier Lieutenant de police Gerhard Giesecke et l’ancien représentant du Gauleiter NSDAP du Brandebourg, Rudolf Rehm. A partir de 1932, le Capitaine e.r. Dr. Beppo Römer prend en mains la rédaction de la revue. On ne peut affirmer avec certitude si Römer avait adhéré de facto à la KPD à cette époque. Il l’a nié plus tard en dépit d’une note émise par le journal communiste « Die Rote Fahne » en date du 22 avril 1932. Autour de la revue naissent les cercles « Aufbruch » : en 1933, il y en avait vingt-cinq, avec quelque 200 à 300 membres. Leur objectif était de recruter dans les cercles d’officiers des combattants contre le national-socialisme. A la tête de ces cercles se trouvait une « Commission dirigeante », composée de « camarades travaillant sur le mode de la conspiration ». Outre Römer, il y avait, parmi ces « camarades », un certain Dr. Karl-Günther Heimsoth, devenu célèbre par des lettres de sa main, très compromettantes pour son ami intime Ernst Röhm et relatives à l’homosexualité de ce dernier. Pour la KPD, l’existence des cercles « Aufbruch » constituait une formidable aubaine : celle de glaner quantité d’informations et de recruter de nouveaux agents. Après la prise du pouvoir par les nationaux-socialistes en 1933, « Aufbruch » et les cercles qui gravitaient autour de la revue sont interdits. Bon nombre de leurs activistes, y compris Beppo Römer, sont placés en garde à vue ou fuient vers l’étranger. Plus tard, Beppo Römer se joindra à divers mouvements de résistance ; le dernier auquel il adhéra fut d’obédience communiste et sous la direction de Robert Uhrig. Cette adhésion constitua le motif de son arrestation au début de l’année 1942, de sa condamnation à mort et de son exécution, le 25 septembre 1944 à Brandenburg-Görden.

 

Au vu de toutes ces activités au profit du service de renseignement de la KPD, Römer apparaît plutôt aujourd’hui comme un véritable agent communiste et non pas comme un visionnaire rêvant de forger un Axe Berlin-Moscou, comme on l’a cru pendant très longtemps.

 

Holger SZYMANSKI.

(article paru dans la revue « Deutsche Stimme », février 2008 et sur http://www.deutsche-stimme.de/ - trad.. franc. : Robert Steuckers).

 

Bibliographie :

Bernd KAUFMANN et al., « Der Nachrichtendienst der KPD – 1919-1937 », Dietz Verlag, Berlin, 1993, 462 pages.

 

Pour tous les éléments biographiques relatifs à la personnalité de Beppo Römer, se référer au « Taschenkalender des nationalen Widerstandes 2007 », où ses activités d’agent communiste ne sont toutefois pas évoquées.

vendredi, 01 janvier 2010

Symbolisme du cochon chez les Indo-Européens

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Alberto LOMBARDO :

 

Symbolisme du cochon chez les Indo-Européens

 

Les termes pour désigner le porc domestique nous apprennent beaucoup de choses sur notre lointaine antiquité. Dans la langue italienne, il y a trois substantifs pour désigner l’animal : « maiale », « porco » et « suino » (en français : « suidé » ; en néerlandais :  « zwijn » ; en allemand : « Schwein » et « Sau »).  Le dernier de ces termes, en italien et en français, sert à désigner la sous famille dans la classification des zoologues. L’étymologie du premier de ces termes nous ramène à la déesse romaine Maia, à qui l’on sacrifiait généralement des cochons. L’étymologie du second de ces termes est clairement d’une origine indo-européenne commune : elle dérive de *porko(s) et désigne l’animal domestiqué (et encore jeune) en opposition à l’espèce demeurée sauvage et forestière ; on retrouve les dérivées de cette racine dans le vieil irlandais « orc », dans le vieil haut allemand « farah » (d’où le néerlandais « varken » et l’allemand « Ferkel »), dans le lituanien « parsas » et le vieux slavon « prase », dans le latin « porcus » et l’ombrien « purka » (qui est du genre féminin). Ces dérivées se retrouvent également dans l’aire iranienne, avec *parsa en avestique, terme reconstitué par Emile Benveniste, avec « purs » en kurde et « pasa » en khotanais. Quant au troisième terme, « suino », il provient de l’indo-européen commun *sus, dont la signification est plus vaste. La plage sémantique de ce terme englobe l’animal adulte mais aussi la truie ou la laie et le sanglier. Les dérivés de *sus abondent dans les langues indo-européennes : en latin, on les retrouve sous deux formes, « sus » et « suinus » ; en gaulois, nous avons « hwch » ; en vieil haut allemand « sus », en gothique « swein » (d’où l’allemand « Schwein »), en letton « suvens », en vieux slavon « svinu », en tokharien B « suwo », en ombrien « si », en grec « hys », en albanais « thi », en avestique « hu » et en sanskrit « su(karas) ». Dans la langue vieille-norroise, « Syr » est un attribut de la déesse Freya et signifie « truie ».

 

Comme l’a rappelé Adriano Romualdi, « le porc est un élément typique de la culture primitive des Indo-Européens et est lié à de très anciens rites, comme le suovetaurilium romain, ainsi que l’attestent des sites bien visibles encore aujourd’hui ». Les Grecs aussi sacrifiaient le cochon, notamment dans le cadre des mystères d’Eleusis. Chez les Celtes et aussi chez les Germains (notamment les Lombards), nous retrouvons la trace de ces sacrifices de suidés. Le porc domestique est de fait l’animal le plus typique de la première culture agro-pastorale des pays nordiques. Parmi d’autres auteurs, Walther Darré nous explique que cet animal avait une valeur sacrée chez les peuples indo-européens de la préhistoire et de la protohistoire : « ce n’est pas un hasard si la race nordique considérait comme sacré l’animal typique des sédentaires des forêts de caducifoliés de la zone froide tempérée (…) et ce n’est pas un hasard non plus si lors des confrontations entre Indo-Européens et peuples sémitiques du bassin oriental de la Méditerranée, la présence du porc a donné lieu à des querelles acerbes ; le porc, en effet, est l’antipode animal des climats désertiques ». Il nous paraît dès lors naturel que les patriciens des tribus indo-européennes, lors des cérémonies matrimoniales, continuaient à souligner les éléments agraires de leur culture, en sacrifiant un porc, qui devait être tué à l’aide d’une hache de pierre ».  Nous avons donc affaire à un sens du sacré différent chez les Indo-Européens et chez les Sémites, qui considèrent les suidés comme impurs mais qui, rappelle Frazer, ne peuvent pas le tuer ; « à l’origine, explique-t-il, les juifs vénéraient plutôt le porc qu’ils ne l’abhorraient. Cette explication de Frazer se confirme par le fait qu’à la fin des temps d’Isaïe, les juifs se réunissaient secrètement dans des jardins pour manger de la viande de suidés et de rongeurs selon les prescriptions d’un rite religieux. Ce type de rite est assurément très ancien. En somme, conclut Romualdi, « la familiarité de la présence de porcins est un des nombreux éléments qui nous obligent à voir les Indo-Européens des origines comme un peuple des forêts du Nord ».

 

Dans sa signification symbolique, le porc est associé à la fertilité et son sacrifice est lié à la vénération due aux dieux et à la conclusion des pactes et traités. Avec la prédominance du christianisme dans l’Europe postérieure à l’antiquité classique, le porc a progressivement hérité de significations que lui attribuaient les peuples sémitiques, notamment on a finit par faire de lui le symbole de l’impudicité, des passions charnelles, de la luxure, avant de l’assimiler au diable. Dans la Bible, en effet, le « gardien de cochons », image de l’Indo-Européen agropastoral des premiers temps, est une figure méprisée et déshonorante, comme le fils prodigue de la parabole, réduit à garder les porcs d’un étranger.

 

Alberto LOMBARDO.

(article paru dans « La Padania », 30 juillet 2000 ; trad. franc. : Robert Steuckers, décembre 2009).

Le Who's who de la mythologie indo-européenne

olympians.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1999

Le Who's who de la mythologie indo-européenne

 

Patrick CANAVAN

 

«Tous les peuples qui n'ont plus de légendes seront condamnés à mourir de froid»

Patrice de la Tour du Pin

 

L'Europe contemporaine a une dette immense à l'égard de la mythologie païenne, à commencer par son nom. Aimée de Zeus, la belle et blanche Europe, fille d'Agénor, roi de Phénicie, donna son nom à notre continent après avoir fait trois fils au roi des dieux: Minos, Rhadamante et Sarpédon. Le moindre de nos fleuves, la moindre de nos montagnes portent généralement le nom d'une divinité archaïque. Comme en Europe, toutes les renaissances sont toujours des recours au vieux fonds pré-chrétien (la Renaissance italienne, le Romantisme allemand, etc), on voit que la connaissance de cet héritage ancestral s'impose à quiconque entend construire quelque chose de durable.

 

Le mérite principal du beau Dictionnaire des mythologies indo-européennes  que les éditions “Faits et Documents” viennent de publier est justement d'offrir au lecteur non spécialiste, à l'homme cultivé d'aujourd'hui, un outil de travail permettant de “surfer” à travers les mythologies, de l'lnde à la Baltique, de l'Ecosse à la Mer Noire. C'est la première fois que cet exercice hautement excitant pour l'esprit est possible. Grâce à Jean Vertemont, indianiste et informaticien, collaborateur de la Revue d'Etudes Polythéistes Antaios, nous pouvons déambuler au milieu des mythes, des dieux et des héros de nos origines. La structure intelligente de son superbe livre permet, grâce aux renvois systématiques, de faire le lien avec les diverses correspondances. Prenons un exemple: Odhinn, Père de tous, Ase aux corbeaux, renvoie à Varuna, ce que savent les lecteurs de Dumézil, mais pas nécessairement les non spécialistes, les curieux. A lire le Dictionnaire  de Vertemont, on se prend vite au jeu fascinant des liens et des correspondances et, surtout, l'unité fondamentale de la Weltanschauung  indo-européenne apparaît de façon lumineuse. Le lecteur attentif ressentira rapidement une curiosité, une réelle solidarité pour les mythologies balte, scythe ou irlandaise généralement moins connues.

 

Ce dictionnaire est le premier du genre, d'où quelques menues imperfections (coquilles, imprécisions mineures), mais on n'oubliera pas que l'auteur a fait tout le travail en solitaire et qu'il a travaillé près de trente ans à cet ouvrage de référence, déjà incontournable. Dans une préface subtile, Jean Vertemont montre parfaitement l'importance du socle païen dans l'imaginaire européen. Son retour aux sources est une saine réaction contre toutes les monstrueuses idéologies de la table rase, qui sont à la base de tous les totalitarismes, dont l'utopie communiste, sans aucun doute le mythe le plus sanglant du XXème siècle avec ses cent millions de morts. Il est vrai que le libéralisme ploutocratique pratique lui aussi la table rase: en nous faisant oublier nos racines, grâce aux techniques de brouillage mental propres à la modernité (concerts de rock, vidéos irréelles, culte de la consommation et de la performance imbéciles, désinformation systématique, etc), il nous prive de tout avenir. L'abrutissement télévisuel, la censure des médias, la crétinisation de masse via les “loisirs”, tout cela concourt à noyer les identités dans un nouveau chaos, que l'apologie du métissage vient évidemment couronner: c'est la grande partouze planétaire annoncée par Guillaume Faye. Or, la souveraineté authentique, celle que nos ennemis tentent d'annihiler, a pour préalable obligé une claire conscience de son héritage: la Chine, le Japon, l'lnde en sont de bons exemples. Point de longue durée sans mémoire! Qu'attend l'Europe pour reconstituer son axe et pour affirmer sa volonté? La connaissance approfondie des structures des mythologies indo-européennes n'est donc pas un exercice gratuit réservé à quelques poètes ou à des rêveurs sans prise sur le réel.

 

Vertemont montre bien que les mythes archaïques nous enseignent l'essentiel, nous ouvrent des portes sur des domaines inconnus ou refoulés. Par exemple, au principe d'exclusion (un mot à la mode!) typique des religions monothéistes et dualistes, les paganismes indo-européens préfèrent le principe d'inclusion, nettement plus riche et harmonieux. Or, la multiplication des maladies dégénératives est clairement liée à une grave rupture avec les rythmes cosmiques, que la modernité, dans son désir fanatique de tout nier, de tout “démystifier”, a ignorés. Vertemont exprime bien une vérité très profonde, à savoir que le paganisme est bien plus qu'un stade primitif de notre conscience, mais bien le stade premier... et qui n'a rien de primaire. Ecoutons-le un instant: «Le Dieu unique, régnant sur le monde comme un banquier sur ses débiteurs, est devenu le moteur d'une pandémonie égalitaire de l'échange et de l'interchangeabilité, processus qui n'a pas encore atteint son terme. Que le résultat soit un totalitarisme dur ou un totalitarisme mou, il s'agit immanquablement d'une conséquence de la normalisation monothéiste, et de ses corrélats: l'expulsion de l'âme par le désenchantement du monde, l'universalisation par la raison, l'ethnocentrisme, l'homogénéisation par la domestication des âmes, des esprits, et bientôt des corps».

 

Ce somptueux dictionnaire n'est donc pas un livre de plus à ranger religieusement dans sa bibliothèque sans l'avoir réellement lu: il s'agit d'un instrument de travail, non pas un simple travail d'érudition, tout compte fait secondaire, mais bien d'un travail sur soi. Un travail, souvent douloureux, de redécouverte d'une identité première, antérieure à la coupure judéo-chrétienne (l'an “zéro” dont nous fêterons bientôt les deux millénaires: 2000 ans d'imposture et de malentendu). Telle est la quête païenne: être païen aujourd'hui ne consiste pas à arborer de volumineux marteaux de Thor! Mais bien à rentrer en soi, à se reconstruire, étape préalable à toute action sur le monde. Dans un entretien très dense accordé à la revue païenne Antaios  (n°12, solstice d'hiver 1997), Jean Vertemont nous propose sa définition des dieux du paganisme moderne: «Les Dieux sont des agencements de symboles qui acquièrent de ce fait la qualité de condensateurs de forces ou d'énergies primordiales. Ces forces sont opératives si l'on dispose des formes correctes pour les appréhender et les mettre en action». Son beau livre est fondamental pour la renaissance d'un courant païen qui ne se satisfait pas de pitreries ou d'idéologie: Vertemont convie les esprits libres à se retrouver et à créer.

 

Patrick CANAVAN.

 

Jean VERTEMONT, Dictionnaire des mythologies indo-européennes, Faits et Documents, BP 254-09, F-75424 Paris cedex 09, 365 FF. «Entretien avec J. Vertemont (Les Dieux des Indo-Européens)», cf. Antaios  n°12 (168 rue Washington, B-1050 Bruxelles, 110 FF ou 600 FB).