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mardi, 29 mars 2011

La guerra anglo-boera

La guerra anglo-boera

di Angelo Cani

Fonte: Conflitti e strategie [scheda fonte]


angloboera2.jpgDue guerre, quella degli Stati Uniti del 1898 contro la Spagna, per la conquista di Cuba e delle Filippine, e quella intrapresa dall’Inghilterra, contro le due piccole repubbliche boere: il Transvaal e lo Stato libero d’Orange, segnarono l’inizio di una nuova epoca, l’epoca dell’imperialismo e del dominio del capitale finanziario.

Nella storia del passato si erano combattute molte guerre, allo scopo di estendere il commercio e i possedimenti delle potenze imperialistiche, ma mai gli interessi del capitale monopolistico e finanziario avevano avuto un ruolo così decisivo e determinante.

La guerra anglo-boera, scoppiata nel 1899, è stata la prima guerra imperialistica.

La piccola repubblica del Transvaal, fondata nel 1837 dai discendenti dei contadini olandesi, che erano emigrati al Capo di Buona Speranza alla metà del XVII secolo, aveva goduto di una relativa pace fino al 1886, anno della scoperta dei giacimenti d’oro.

Dei 300 mila kg. d’oro, che a quei tempi si estraevano ogni mese in tutto il pianeta, 80 mila provenivano dalla piccola Repubblica. La sola Inghilterra, ogni mese, estraeva dalle proprie colonie 80 mila kg. e se si Fosse impadronita della repubblica boera, come era sua intenzione, sarebbe diventata padrona di più della metà della produzione mondiale di oro. Per questa ragione i dirigenti inglesi, subito dopo la scoperta del metallo prezioso, si attivarono per la conquista della Repubblica del Transvaal. L’impresa venne affidata a Cecil Rodes, fondatore e direttore della “Chartered Company”, capo del potente sindacato “de Beers”, che forniva il 90% della produzione diamantifera mondiale, primo ministro della Repubblica del Capo e padrone della Rhodesia. Egli preparò, molto accuratamente, un grandioso piano per creare un impero inglese che avrebbe dovuto estendersi da Città del Capo fino al Cairo. La conquista della Repubblica boera faceva parte di questo piano. I mezzi per raggiungere tale obiettivo furono i più svariati. In primo luogo, in base a un trattato imposto ai boeri nel 1884, l’Inghilterra aveva il diritto di esercitare il controllo sui rapporti di questa Repubblica con l’estero. In secondo luogo essi potevano esercitare una costante pressione sul governo boero agendo sugli immigrati inglesi che avevano ottenuto la cittadinanza della piccola Repubblica e speravano di prevalere sui boeri. In terzo luogo l’Inghilterra aveva cercato di accerchiare e isolare il Transvaal con i suoi possedimenti. Quest’ultimo tentativo fallì perché la Repubblica boera si era unita direttamente con una ferrovia con il porto portoghese Laurenco Marques situato sulla costa della baia di Delagoa. Il tentativo di conquistare, da parte del governo inglese, il controllo di questo porto e della ferrovia fallì per l’opposizione del governo portoghese dietro il quale agiva attivamente la diplomazia e il capitale tedesco che aveva già costruito la ferrovia che collegava Pretoria direttamente al mare. Inoltre per dimostrare il suo appoggio a Pretoria e per dissuadere gli inglesi il governo tedesco, nel gennaio del 1895, mandò dimostrativamente a Delagoa due navi da guerra. Sempre in questo periodo l’influenza economica, la penetrazione dei capitali e delle merci tedesche nella Repubblica boera si sviluppò considerevolmente. L’industria meccanica tedesca, i trusts elettrotecnici, le grandi ditte di costruzioni, la Società per l’industria dell’acciaio di Bochum, la fabbrica di vagoni Deutzer di Colonia, la Krupp e la Siemens trovarono in questo paese lo sbocco per la propria produzione.

angloboera1.jpgLe banche tedesche non si limitavano a partecipare alla banca del Transvaal, ma di fatto la controllavano. Nell’ottobre del 1895 la Dresdner Bank aprì a Pretoria una succursale e grande interesse mostrò anche la Deutsche Bank. Il capitale tedesco investito in Transvaal raggiungeva in questo periodo la somma di 500 milioni di marchi.

Attratti dai fantastici guadagni, accorsero nella Repubblica boera numerosi avventurieri, commercianti e industriali tedeschi. Solo nella città di Johannesburg i tedeschi immigrati erano 15000. Questi immigrati si consideravano il nucleo della nuova grande Germania nell’Africa meridionale. Il loro progetto era quello di instaurare sul Transvaal il protettorato della Germania e per questo era necessario eliminare il pericolo di un protettorato inglese. I circoli tedeschi dichiararono unanimi la loro disponibilità a difendere i boeri da un’eventuale attacco inglese.

Nell’aprile 1895 i tedeschi riuscirono, d’accordo con il Portogallo, a strappare agli inglesi il controllo sul servizio postale lungo la costa sudorientale dell’Africa. La reazione dell’Inghilterra non si fece attendere. Il 30 dicembre, con il benestare del governo, bande della “Chartered Company”, forti di oltre 800 uomini, armate di cannoni e mitragliatrici, al comando di Jamenson, stretto collaboratore di Rhodes, entrano nel territorio del Transvaal e marciano verso Johannesburg, dove si attendeva da un momento all’altro l’insurrezione organizzata da tempo sempre da Rhodes.

Il giorno dopo la notizia arriva a Berlino. Il governo reagisce: rompe le relazioni diplomatiche con l’Inghilterra, invia una unità militare a Pretoria, ordina al comandante dell’incrociatore “Seeadler”, dislocato nelle acque della baia di Delagoa, di sbarcare un reparto di fanteria marina e di inviarlo nel Transvaal. Ma quando la tensione tra Londra e Berlino sta ormai per raggiungere un punto di non ritorno sono gli avvenimenti del giorno dopo a far allentare la tensione.

Le bande di Jamenson vengono circondate dai boeri e catturate assieme al loro capo. Anche il complotto organizzato a Johannesburg Fallisce miseramente. L’incursione delle bande inglesi smascherano Rhodes di fronte alla popolazione e al governo del Transvaal che, pur contando sull’aiuto tedesco, comincia ad armarsi per potersi difendere autonomamente. Buona parte delle armi vengono acquistate in Germania. La ditta Krupp riceve, proprio in questo periodo, grandi ordinazioni di cannoni e la ditta berlinese Lewe trae grandi guadagni dalla vendita di un gran numero di fucili Mauser.

I boeri, con l’acquisto di armi belghe, fecero guadagnare molto denaro anche ad alcune ditte commerciali inglesi, le quali erano a conoscenza che tali armi sarebbero state usate contro i soldati inglesi. Ma furono soprattutto le ditte tedesche a trarre i massimi guadagni fornendo ai boeri armi per la guerra contro l’Inghilterra e contemporaneamente fornendo all’esercito inglese armi e munizioni per la guerra contro i boeri. Interesse di queste ditte era quindi quello di mantenere il più a lungo possibile lo stato di tensione nei rapporti tra inglesi e boeri.

Dopo la crisi del 1895-96 possiamo notare un graduale cambiamento del governo tedesco per quanto riguarda i rapporti anglo- boeri. Le ragioni del mutamento politico vanno ricercate nei diversi interessi del capitale tedesco.

Nella Repubblica boera oltre ai circoli della Deutsche Bank e della Darmstadt Bank, che deteneva un grosso pacco di azioni delle ferrovie del Transvaal, avevano grossi interessi anche le acciaierie Krupp, gli armatori di Amburgo e altri esportatori. Un ruolo importantissimo veniva svolto da uno dei più grandi gruppi del capitale finanziario tedesco: la Disconto – Gesellschaft. Soprattutto il capo di questa banca, il banchiere Hansemann, s’interessava proprio in questo momento della costruzione di una ferrovia che doveva collegare l’Africa orientale tedesca con l’Africa sud – occidentale tedesca. Il progetto prevedeva che la ferrovia attraversasse ilterritorio del Transvaal.

La Lega pangermanica, appoggiata dalla Disconto, si affrettò, attraverso la stampa, a sostenere tale progetto. Era però chiaro, fin dall’inizio, che questa banca da sola non avrebbe potuto assicurare il finanziamento di un’impresa così grandiosa. Il tentativo di avere l’appoggio della Deutsche Bank fallì, lo stesso avvenne con la City di Londra che era interessata alla realizzazione della linea ferroviaria, che da Città del Capo arrivava al Cairo, progettata da Rhodes.

Hansemann assieme ad una parte dei commercianti anseatici, della compagnia navale Werman e altri grandi circoli finanziari chiedeva al governo tedesco di svolgere una politica più attiva nell’Africa del sud e una lotta più incisiva per avere un peso più determinate nel Transvaal. Ma per quanto questo gruppo fosse influente, il governo tedesco doveva tener conto anche degli interessi di un altro gruppo finanziario alla cui testa si trovava la Deutsche Bank: anche questo gruppo chiedeva al governo un impegno maggiore e una politica più attiva nella Repubblica boera, ma i suoi dirigenti, molto informati sugli interessi dell’imperialismo inglese e sull’atteggiamento dei boeri, avevano cominciato ad elaborare vasti piani verso l’Impero ottomano, l’Asia sud-occidentale e la Cina. Al centro di questo grandioso piano espansionistico stava il progetto della costruzione della ferrovia, che partendo dal Bosforo passava per Bagdad e giungeva fino al Golfo Persico.

Questi circoli legati alla Deutsche Bank, dopo aver ottenuto la concessione dal governo turco per la costruzione della ferrovia, avevano incominciato, per l’impossibilità di fermare la crescente pressione dei capitalisti inglesi, a disinteressarsi degli affari del Transvaal. Infatti Siemens e gli altri dirigenti della Deutsche Bank si erano resi conto che sarebbe stato più conveniente, per il capitale tedesco, rinunciare alle mire

espansionistiche nel sud Africa e sfruttare le posizioni politiche ed economiche di cui disponevano in quella zona, per costringere l’Inghilterra a scendere a patti. Essi rivendicavano, in cambio di un loro disinteresse sulla piccola Repubblica del Transvaal, grossi compensi finanziari e coloniali. Fu così che in questi gruppi del capitale finanziario cominciò a prendere forma una linea di ritirata invece di una linea di politica attiva nella Repubblica boera. Questa politica coincideva con gli interessi delle classi dominanti: borghesia e junker.

Nella lotta tra i due gruppi del capitale finanziario tedesco, uno capeggiato dalla Deutsche e l’altro dalla Disconto, prevalse, grazie all’appoggio del governo, la tendenza che considerava più conveniente alimentare e accentuare la tensione nei rapporti tra l’imperialismo inglese e i boeri. Da un lato i circoli della lega pangermanica facevano credere ai boeri che la Germania non gli avrebbe mai abbandonati. Dall’altro lato, il Kaiser, il capo del governo von Bulow e l’ambasciatore tedesco a Londra, non rinunciavano a sondare il terreno presso il ministro inglese Salisbury , sui compensi per l’amicizia che la Germania avrebbe potuto concedere, a determinate condizioni, all’Inghilterra.

angloboera3.pngNell’estate del 1898, la diplomazia tedesca venuta a conoscenza che il governo inglese si accingeva ad approfittare della difficile situazione finanziaria in cui era venuto a trovarsi il Portogallo per mettere le mani sui suoi possedimenti coloniali, pretese dall’Inghilterra la propria parte, cioè avere libero accesso alla spartizione delle colonie portoghesi. Per rendere più convincente la sua richiesta il governo tedesco minacciò di intervenire a fianco dei boeri, di allearsi con la Russia e altre potenze rivali dell’Inghilterra, ma in realtà questo era solo un ricatto per poter aumentare le proprie pretese.

Alla fine, dopo lunghi contrasti e mercanteggiamenti, arrivano ad un accordo per la spartizione delle colonie portoghesi. Tutti i partiti dominanti accettarono tale accordo, eccezion fatta per la lega pangermanica, che aveva a cuore gli interessi della Disconto, che lo qualificò come tradimento a danno dei boeri.

Nel marzo 1899 Cecil Rhodes, per assicurarsi della neutralità dei circoli tedeschi in caso di guerra contro il Transvaal, si recò a Berlino e si impegnò: ad esercitare pressioni sulle alte sfere inglesi per strappare concessioni coloniali, particolarmente nelle isole Samoa, che i circoli della marina tedesca consideravano una importante base strategica nell’Oceania, favorire la Germania nella costruzione della linea telegrafica e della ferrovia transafricana e appoggiare la Deutsche Bank nell’Asia sud – occidentale.

La linea politica, del non intervento, del governo tedesco poggiava sul sostegno della Deutsche Bank perché vi vedeva la condizione per il successo per la sua espansione sia verso l’Asia sud-occidentale, sia verso la Cina. I circoli collegati con la Disconto -Gesellschaft non erano entusiasti, ma aspettavano anche loro i grossi vantaggi, promessi da Rhodes, per la costruzione della ferrovia africana. I Krupp e gli altri grandi magnati dell’industria bellica avevano già ottenuto grossi profitti prima della guerra e se ne aspettavano altri ancora maggiori in caso di inizio guerra .

Il 22 settembre il governo inglese, dopo essersi assicurato la neutralità della Germania, proclamò la mobilitazione di un corpo d’armata. Alcuni giorni dopo una parte considerevole venne mandata in Africa del sud.

Il 9 ottobre il presidente del Transvaal, Kruger, presentò l’ultimatum al governo inglese chiedendo di ritirare le truppe a ridosso della frontiera. Il governo inglese le respinse. Kruger, dopo aver avuto l’appoggio del presidente della Repubblica d’Orange, prese l’iniziativa e occupò il Natal. La guerra era cominciata.

La guerra inizialmente fù sfavorevole per gli inglesi. I boeri in tre distinte battaglie sconfissero le truppe britanniche. E per tre anni, prima di essere sconfitti dal potente esercito inglese nel 1902, inflissero dure perdite alle forze britanniche.

La fine della guerra anglo-boera non pose fine ai contrasti coloniali tra le potenze europee e la Germania, anzi, dopo l’accordo tra Francia e Inghilterra, firmato nel 1904, per la spartizione dell’Africa settentrionale, divennero irreversibili. Con questo accordo la Francia rinunciò alle pretese egemoniche nei confronti dell’Egitto e ne riconobbe l’influenza Inglese. l’Inghilterra si dichiarò a sua volta favorevole ad un ampliamento del dominio francese in Tunisia, Algeria e Marocco. Ma proprio in quest’ultimo paese le banche e le grosse imprese tedesche, già da tempo, avevano intrapreso una intensa e redditizia attività commerciale e non erano per niente disposte a farsi da parte. La Germania per superare i contrasti e far valere le proprie ragioni promosse una conferenza internazionale che si tenne nella città spagnola di Algesiras nel 1906.

L’incontro non eliminò nessun contrasto, anzi l’unico effetto che sortì fu l’isolamento politico e l’indebolimento economico dell’Impero tedesco. Ad esasperare ulteriormente i contrasti fu la crisi di sovrapproduzione industriale, incominciata 1907, che interessò tutti i paesi capitalistici, in particolar modo la Germania.

Nel luglio del 1911 le speranze tedesche di sfruttare i giacimenti di ferro, di piombo e manganese, in Marocco, vennero cancellate definitivamente con l’occupazione militare da parte della Francia. Venuta meno questa possibilità le industrie e le banche tedesche rivolsero l’attenzione all’area balcanica e al Medio Oriente. La Disconto fornì alla Romania, Grecia e Bulgaria prestiti per completare le loro reti ferroviarie ed elettriche mediante acquisti di materiale dalle industrie tedesche. Sempre la Disconto riescì ad ottenere la concessione per lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio di Ploesti, vendendo in Germania tutto il petrolio estratto.

La Deutsche Bank portò avanti lo sfruttamento dei giacimenti di cromonell’Asia Minore e il collegamento ferroviario tra Istambul e Bagdad. L’ascesa al potere in Turchia dei “giovani Turchi” nel 1908 accentuò il legame con la Germania e le banche concessero grossi prestiti per rinnovare il suo armamentario con acquisti di materiale bellico dall’industria tedesca e in particolar modo dalla Krupp. Negli ambienti capitalistici tedeschi si fece strada l’idea di poter superare la crisi economica facendo di tutta l’area balcanica e medio-orientale un vasto mercato in grado di dare uno sbocco all’industria pesante tedesca e al contempo fornirle a basso costo le materie prime necessarie. Questo disegno del capitalismo tedesco creò però sempre più gravi tensioni internazionali.

L’Inghilterra premeva sul governo persiano per non permettere il passaggio della ferrovia nel suo territorio. La Francia cercava con tutti i mezzi di ridurre l’influenza tedesca in Serbia, Grecia, Bulgaria e Romania.

Le due guerre combattute nel 1912/13 che hanno interessato i paesi dell’area balcanica (passate alla storia come guerra balcaniche) avevano portato sull’orlo della bancarotta le nazioni che vi avevano partecipato.

Alla fine del conflitto la Serbia si rivolse per un grosso prestito alle banche tedesche, che non disponevano, per ragioni storiche, di capitali liquidi e quindi non erano in grado di concedere alcun prestito. La Serbia si rivolse allora alla Francia che, grazie alla disponibilità di capitali liquidi, non aveva difficoltà a concedere il prestito, ponendo, però, come condizione l’acquisto di merci francesi.

Anche la Romania chiese un prestito alle banche tedesche ottenendo, come la Serbia, lo stesso risultato negativo. L’unica strada percorribile, per la grande disponibilità di liquidità, era quella francese, che concesse il prestito, ma ponendo come condizione il controllo dei pozzi petroliferi già controllati dai tedeschi.

La stessa dinamica si svolse in Turchia che prima chiese alle banche tedesche il denaro per riarmare il proprio esercito e costruire le fortificazioni nei Dardanelli, ma non avendolo ottenuto si rivolse alla Francia che pone anche in questo caso come condizione l’acquisto di armi dalle proprie industrie. A questo punto l’unico sbocco alle incessanti

contraddizioni che la crisi capitalistica aveva generato, coinvolgendo tutte le potenze industrializzate, e in particolar modo la Germania che aveva l’esercito più potente del mondo, non poteva essere che la guerra.

 


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lundi, 28 mars 2011

"Aube de l'Odyssée" contre la Libye: grands principes et jeux de dupes

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« Aube de l'odyssée » contre la Libye : Grands Principes et jeux de dupes

Ex: http://www.polemia.com/ 

Qui tire les ficelles contre la Libye ? Sous le couvert des Droits de l’homme, manipulations partisanes, intérêts pétroliers et calculs politiciens font rage.

Dans l’après-midi du 19 mars, veille des cantonales, le chef de l’Etat se fendait, devant les drapeaux entrecroisés de la France et de l’Europe, d’une intervention aussi pathétique que martiale pour nous annoncer que, des peuples arabes ayant « choisi de se libérer de la servitude dans laquelle ils se sentaient depuis trop longtemps enfermés », ils « ont besoin de notre aide et de notre soutien ».

« C'est notre devoir », ajoutait Nicolas Sarkozy. « En Libye, une population civile pacifique (…) se trouve en danger de mort. Nous avons le devoir de répondre à son appel angoissé (…) au nom de la conscience universelle qui ne peut tolérer de tels crimes » et le président de la République concluait avec emphase : « Nos forces aériennes s'opposeront à toute agression des avions du colonel Kadhafi contre la population de Benghazi. D'ores et déjà, nos avions empêchent les attaques aériennes sur la ville. D'ores et déjà d'autres avions français sont prêts à intervenir contre des blindés qui menaceraient des civils désarmés. »

En effet, dix-huit Mirage et Rafale étaient mobilisés pour établir la zone d’exclusion aérienne comme l’ONU en avait finalement donné mandat, cependant que le porte-avions Charles De Gaulle recevait l’ordre de cingler vers la Tripolitaine.

Aux ordres du Pentagone

Ainsi la patrie des Immortels Principes apparaissait-elle en héraut de la conscience universelle et en fer de lance de la résistance armée au satrape de Tripoli. Seul ennui : au moment même où le petit Nicolas se livrait à ce solennel exercice d’autopromotion – présenté sur le site officiel de l’Elysée sous le titre ronflant « Crise en Libye : l'action forte, concertée et déterminée du président Nicolas Sarkozy », le vice-amiral William E. Gortney précisait du Pentagone que l'opération, baptisée Odyssey Dawn (Aube de l'odyssée), était « placée sous le commandement du général Carter F. Ham, chef du U.S. Africa Command (Africom), basé à Stuttgart (Allemagne) ». « Une force navale portant la dénomination Task Force Odyssey Dawn est commandée à la mer par l'amiral américain Samuel J. Locklear III, dont l'état-major est embarqué à bord du navire de commandement USS Mount Whitney », précisait l’amiral Gortney.

Ce que, sur le site LePoint.fr, le spécialiste militaire Jean Guisnel commentait assez cruellement : « Les autorités politiques françaises présenteront sans doute une version les plaçant en tête de gondole, mais la réalité est plus prosaïque : les Américains sont aux manettes et assurent le contrôle opérationnel de l'ensemble du dispositif (OPCON, pour Operational Control) en assurant la coordination de l'ensemble des missions et des moyens qui leur sont attribués… Les Français sont donc des « fournisseurs de moyens » à la coalition qui leur a accordé le « privilège » (ou vécu comme tel par Nicolas Sarkozy) de prendre l'air les premiers. »

En somme, dans cette affaire exhalant un fort relent de pétrole, Sarkozy serait l’estafette de la Maison-Blanche comme Giscard avait été, selon Mitterrand en 1981, « le petit télégraphiste du Kremlin ». Marine Le Pen qui, interrogée sur Europe 1 le 18 mars, mettait en garde contre le risque de guerre car « il faut être conscient que si nous engageons notre armée, d'abord il va falloir la retrouver parce qu'elle est éparpillée partout dans le monde, embourbée en Afghanistan, mais aussi parce que mener un acte de guerre contre un pays, ce n'est pas un jeu vidéo, il faut s'attendre à ce qu'il y ait une réplique », n’avait donc pas tort de se demander ensuite « si les Etats-Unis n’ont pas, une fois de plus, envoyé la France au charbon avec toutes les conséquences qui vont suivre ».

« Carnage » et lâchage… de la Ligue arabe

Ces conséquences, on les connaît :

- risque d’enlisement même si la Libye est désertique et son armée peu connue pour son efficacité (mais on se souvient quel échec fut pour Israël son intervention « Pluie d’été », pourtant apparemment sans dangers, contre le Hezbollah libanais en juillet 2006) ;
- risque de représailles terroristes ;
- risque de raz-de-marée migratoire puisque Kadhafi n’a plus aucune raison de bloquer sur son sol les candidats à l’exode vers l’Europe comme il le faisait depuis son accord avec Berlusconi ;
- et surtout revirement du monde arabo-musulman contre la « croisade occidentale » dès les premiers « dommages collatéraux », lesquels n’ont pas tardé.

Dès le 21 mars, en effet, nos pilotes étaient accusés par Libération et le Herald Tribune de s’être livrés à un « jeu de massacre » et à un « carnage », après avoir pris pour une colonne de blindés loyalistes une colonne de blindés saisis par les rebelles s’étant également emparés d’uniformes. Mais, du ciel et même avec l’aide de drones, comment reconnaître les « bons » démocrates (que l’AFP a d’ailleurs décrits « faisant les poches » des soldats tués) des « mauvais », suppôts du tyran ? Inéluctables, de telles bavures n’avaient pas été envisagées, semble-t-il, par le généralissime de l’Elysée, qui pourrait bien se retrouver en posture d’accusé si la promenade de santé tournait à la déculottée.

Au demeurant, le revirement avait été très vite amorcé : alors que, dans son allocution du 19 mars, Nicolas Sarkozy s’était targué du soutien complet d’Amr Moussa, président des Etats de la Ligue arabe – et présent au sommet de l’Elysée –, l’Egyptien se déchaînait dès le lendemain (à 14h 43) contre l’Aube de l’odyssée. Pour Moussa, candidat à la succession de Moubarak et donc soucieux de se ménager l’opinion égyptienne en vue de la présidentielle, « ce qui s'est passé en Libye diffère du but qui est d'imposer une zone d'exclusion aérienne : ce que nous voulons c'est la protection des civils et pas le bombardement d'autres civils ». Quel camouflet pour Sarkozy !

Un devoir d’ingérence très sélectif

Mais peu importe à celui-ci puisque, simultanément, dans Le Parisien, Bernard Henri Lévy lui tressait des lauriers pour s’être montré « lucide et courageux » dans le déclenchement de la « guerre juste » destinée à débarrasser la Libye « dans les délais les plus brefs, du gang de Néron illettrés qui ont fait main basse sur leur pays et l'ensanglantent, pour l'heure, impunément ».

Vive donc le devoir d’ingérence si cher à Bernard Kouchner ! Débarqué le 13 novembre 2010 du Quai d’Orsay pour incompétence, il aura remporté avec cette intervention en Libye une fameuse victoire « posthume » – dont il se réjouit d’ailleurs sans retenue, célébrant lui aussi le « courage » de Nicolas Sarkozy.

On remarquera toutefois que ce prétendu devoir s’inscrit dans une géométrie éminemment variable ainsi que le notait d’ailleurs Polémia dans son « billet » du 18 mars : « Les Occidentaux, philanthropes expérimentés, voleront au secours de la population libyenne en la bombardant. (Préservez-moi de mes amis…) Pourquoi la Libye et pas la Côte d'Ivoire ? Pourquoi Kadhafi et pas Gbagbo ? »

De même, pourquoi défendre les « résistants » de Benghazi et de Tobrouk et abandonner à leur triste sort ceux de Bahrein que, circonstance aggravante, les troupes saoudiennes et émiraties ont envahi le 14 mars à seule fin de prêter main forte au monarque de cet Etat du Golfe qui ne parvenait pas à juguler l’opposition ? Une incroyable intervention que Paris n’a pas cru devoir condamner. Quant aux Etats-Unis, ils se sont bornés à appeler leurs alliés saoudiens à la « retenue » alors qu’ils avaient fait frapper d’un embargo sauvage puis ravagé en 1990-1991, par « Tempête du désert », l’Irak coupable d’avoir envahi en août 1990 le Koweit, sa « dix-septième province ».

Et que dire du mutisme assourdissant des champions aujourd’hui autoproclamés de la conscience universelle devant la sanglante opération « Plomb durci » déclenchée fin décembre 2008 par les Israéliens contre la bande de Gaza, où la plupart des (milliers de) victimes furent des civils, de tous âges et de tous sexes ?

Les mensonges de mars

Mais on sait qu’Israël bénéficie d’une grâce d’état. Quant aux manifestants bahreinis, ils sont chiites : considérés comme vassaux de l’Iran, ils sont donc traités en supplétifs de l’« axe du mal ». On peut ainsi les réduire en charpie sans que les bonnes âmes ne s’en émeuvent, comme elles l’ont fait, à l’instar de Bernard Henri Lévy, devant les deux mille morts faits par la répression à Benghazi fin février dernier.

D’ailleurs, y en eut-il réellement deux mille ? Ce chiffre, alors avancé sur TF1, et au conditionnel, par un médecin français confiné dans son hôpital, n’a jamais été confirmé de source sûre. Il n’en est pas moins – ce qui n’est pas une première dans l’histoire – accepté sans discussion par les chancelleries occidentales et les cercles de l’OTAN.

Mais attention ! Sous le titre « Yougoslavie, Irak, Libye : les mensonges de mars », le quotidien britannique The Guardian rappelait utilement le 20 mars : « En mars 1999, on nous a dit qu’il nous fallait intervenir en Serbie parce que le président yougoslave Slobodan Milosevic avait lancé contre les Albanais du Kossovo « un génocide de type hitlérien » alors que ce qui arrivait au Kossovo était une guerre civile entre les forces yougoslaves et l’Armée de Libération du Kossovo soutenue par les Occidentaux, avec des atrocités commises des deux côtés (*). Et les proclamations sur l’arsenal de destruction massive détenu par l’Irak étaient une pure foutaise (pure hogwash) inventée pour justifier une intervention militaire… En mars 1999 comme en mars 2003, nos dirigeants nous ont menti sur les raisons réelles de notre engagement dans un conflit militaire. Comment pouvons-nous être sûrs qu’il en va différemment en mars 2011 malgré l’aval donné par l’ONU à l’intervention en Libye ? »

Le retour des faucons « néo-cons »

D’autant que les manipulateurs sont les mêmes, en commençant par Bernard Henri Lévy, à la manœuvre en Libye comme il l’avait été dans les années 1990 en Bosnie puis au Kossovo, et surtout les stratèges neo-conservative américains Paul Wolfowitz et William Kristol, ce dernier venu du trotskisme mais « partisan passionné d'Israël, de la puissance américaine et du renforcement de la présence américaine au Moyen-Orient », comme le souligne Wikipedia. Quant à Wolfowitz, secrétaire adjoint à la Défense entre 2001 et 2005 dans le gouvernement de George W. Bush puis président de la Banque mondiale jusqu’en mars 2007, c’est lui qui fabriqua la « foutaise » des armes de destruction massive irakiennes comme il l’avoua avec cynisme dans le n° de mai 2003 du magazine Vanity Fair, alors que l’Irak était crucifié. Point de détail : la nouvelle compagne de cet inquiétant personnage, Shaha Riza, est une Lybo-Britannique précédemment chargée des droits des femmes arabes à la Banque mondiale et aujourd’hui apparatchik au département d'Etat des Etats-Unis.

De son côté, le compère Kristol, auquel les frappes aériennes sur Tripoli et Syrte ne suffisent plus, préconisait le 20 mars sur FoxNews le déploiement au sol des troupes de la coalition. Contredisant Barack Obama dont il est pourtant devenu l’un des plus proches conseillers après avoir instrumentalisé Bush jr., il affirme ainsi : « Non, nous ne pouvons pas laisser Kadhafi au pouvoir et nous ne le laisserons pas au pouvoir. »

Un programme aussitôt applaudi par BHL et auquel notre président adhérera sans doute, quitte à risquer la vie de nos soldats, puisque ledit BHL est devenu son directeur de conscience et, tant pis pour l’avantageux Juppé, le vrai chef de notre diplomatie. Et tant pis également si l’opération Aube de l’odyssée favorise l’instauration d’un « Emirat islamique de la Libye orientale dans la région pétrolière de Tobrouk », avènement redouté par le ministre italien des Affaires étrangères, Franco Frattini, dans une déclaration du 22 février. Tout comme Tel Aviv finança le Hamas pour affaiblir l’OLP de Yasser Arafat, la « croisade » (dénoncée le 21 mars par Vladimir Poutine) aboutira-t-elle au remplacement de Kadhafi par des Barbus ? Beau résultat, en vérité !

Kadhafi, sinistre bouffon mais roi de Paris

Peu nous chaut évidemment le sort du colonel libyen qui, depuis des décennies, n’a eu de cesse de monter contre la France ses anciennes colonies africaines, au prix de sanglantes guerres civiles. Comme au Tchad où il soutint sans défaillance Hussein Habré, kidnappeur de Mme Claustre, assassin du commandant Galopin et, parvenu au pouvoir, responsable de plus de 40.000 morts, ce qui lui a valu le 15 août 2008 d’être condamné à mort (par contumace) pour crimes contre l'humanité par un tribunal de N'Djaména. Et nous n’oublions pas la responsabilité directe de Kadhafi dans d’innombrables actes de terrorisme, dont l’attentat de 1989 contre un avion de la compagnie française UTA – 170 morts.

Mais, justement, Sarkozy, lui, avait oublié ces faits d’armes, de même que l’impitoyable répression s’abattant depuis quarante ans sur les opposants au chef de la « Jamariya » quand, en décembre 2007, il réserva un accueil triomphal au sinistre bouffon – qui, après avoir obtenu de planter sa tente bédouine dans le parc du vénérable Hôtel de Marigny, fit d’ailleurs tourner en bourriques les services du protocole et la préfecture de Paris. Il est vrai qu’à l’époque, le président français avait cru pouvoir annoncer la signature de contrats pour une valeur d' « une dizaine de milliards d'euros ». Soit, selon Claude Guéant, alors secrétaire général de l’Elysée, « l'équivalent de 30.000 emplois garantis sur cinq ans pour les Français ». Essentiellement dans le domaine militaire puisque l’on nous faisait miroiter la vente, dans « deux ou trois mois », s’il vous plaît, de quatorze Rafale – les mêmes Rafale qui, finalement jamais achetés, bombardent aujourd’hui la Libye.

Un calcul bassement politicien

Autant que le non-respect par Kadhafi des sacro-saints droits de l’homme, et l’habituel alignement sur l’Hyperpuissance, est-ce le dépit engendré par ces illusions perdues qui a incité le chef de l’Etat à nous lancer dans l’aventure libyenne ?

Sans doute, mais même si BHL, toujours lui, félicite Sarkozy d’avoir eu « le juste réflexe – pas le calcul, non, le réflexe, l'un de ces purs réflexes qui font, autant que le calcul ou la tactique, la matière de la politique », il est difficile de ne pas voir dans la démarche présidentielle un calcul politique. Et même politicien. A l’approche d’élections annoncées comme catastrophiques pour la majorité, l’Elyséen devait à tout prix se « représidentialiser ». Quoi de mieux, pour y parvenir, que d’adopter la flatteuse posture de chef des armées, de plus arbitre planétaire des élégances morales ?

Echec sur toute la ligne. Aux cantonales du 20 mars, l’UMP, talonnée par un FN à 15,56% (résultat jamais atteint dans ce type de scrutin), n’a obtenu que 17,07% des suffrages, contre 25,04% au PS.

Alors, tout ça (car il faudra bien donner un jour le coût du ballet aérien et de la croisière du Charles-De-Gaulle) pour ça ?

Camille Galic
21/03/2011

(*) Voir notre article du 28 février « Albanie : la dictature de la corruption, meilleur allié de l'islamisation » :

Correspondance Polémia - 22/03/2011

La grande guerre de Nicolas le petit

La grande guerre de Nicolas le petit

 

Sarkozy_guerre_libye_kadhafi.jpgÉric Besson avant de se renier, alors qu’il était encore socialiste, publia un petit opuscule fort bien fait intitulé « Sarkozy l’Américain ». Il y expliquait comment les néo-con yankees mettaient tous leurs espoir dans l’élection de Nicolas Sarkozy à la présidence de la République. Ils ne le soutenaient pas, à ses yeux, comme ils soutiendraient n’importe quel candidat de droite, mais parce qu’il était le seul homme politique français important qui incarnait leurs idées. Pour eux, Nicolas Sarkozy était l’espoir d’en finir une fois pour toutes avec l’hydre à deux têtes constituée par ce qui reste du modèle social français et de la politique étrangère indépendante de la France.

Et de rappeler qu’alors qu’il était déjà candidat à la présidence de la République, Sarkozy de passage aux États-Unis n’avait pas hésité à déclarer qu’il se sentait étranger dans son propre pays, qu’il était fier qu’on l’appelle « l’américain » et qu’il considérait comme arrogant le discours d’un premier ministre français (de Villepin à l’ONU en 2003) qui a fait l’admiration du monde entier.

Au lendemain de son accession à l’Élysée, l’universitaire Jean Bricmont, n’avait pas hésité à écrire, quant à lui, que cette « victoire représente une inféodation de la France à l’étranger comme il n’y en a jamais eu dans le passé, sauf suite à des défaites militaires. »

Tout ceci pouvait sembler excessif.

Malheureusement il n’en était rien et ce qu’avaient prédit ces auteurs s’est malheureusement confirmé : la France de Sarkozy est devenu le caniche de l’oncle Sam.

L’opération en Libye nous en donne une nouvelle preuve.

La propaganda staffel des médias aux ordre nous présente dans cette affaire une « France aux commandes » et un Président « chef de guerre »… Cela avec un objectif purement politique évident : rehausser l’image du nain hongrois en chute libre dans les sondages en donnant l’impression qu’il a une véritable surface internationale et qu’il est, au moins, capable de réussir quelque chose… Fut-ce faire tuer des femmes et des enfants par des missiles téléguidés !

La réalité est plus cruelle et nous pouvons la découvrir dans la presse yankee dont les articles sont repris en France par quelques blogs et sites « mal-intentionnés ». La réalité c’est que, comme l’écrit Jean Guisnel sur Le Point.fr, « la France est placée sous commandement américain » et que Paris est uniquement un « fournisseur de moyens » de la coalition internationale engagée contre Kadhafi. Et notre journaliste d’expliquer «  Lors d’un briefing organisé samedi au Pentagone, le vice-amiral William E. Gortney a précisé que l’opération (…) est placée sous le commandement du général Carter F. Ham, chef du U.S. Africa Command (Africom), basé à Stuttgart (Allemagne). Une force navale portant la dénomination Task Force Odyssey Dawn est commandée à la mer par l’amiral américain Samuel J. Locklear III, dont l’état-major est embarqué à bord du navire de commandement USS Mount Whitney. À ce stade, les conditions précises de l’organisation de l’opération Odyssey Dawn ne sont pas entièrement définies. Les autorités politiques françaises présenteront sans doute une version les plaçant en tête de gondole, mais la réalité est plus prosaïque : les Américains sont aux manettes et assurent le contrôle opérationnel de l’ensemble du dispositif (OPCON, pour Operational Control) en assurant la coordination de l’ensemble des missions et des moyens qui leur sont attribués. La raison en est simple : alors que la coalition pourrait compter jusqu’à une vingtaine de pays dans les jours qui viennent, seuls les Américains sont en mesure de gérer un tel dispositif. Les Français sont donc des « fournisseurs de moyens » à la coalition qui leur a accordé le « privilège » (ou vécu comme tel par Nicolas Sarkozy) de prendre l’air les premiers. »

Pire, une lecture de la presse américaine permet d’apprendre que ce sont les États-Unis, seuls, qui ont décidé qu’il était enfin possible de se lancer dans l’opération diplomatique ouvrant la voie à l’emploi de la force contre la Libye et que une fois ces opérations entamées, la France sarkozyste a été placée sous commandement américain et obéit depuis au doigt et à l’œil à ce que disent et décident Hillary Clinton et le président Obama.

Ainsi, notre pays est engagé dans une opération militaire, dont on ne comprends guère le sens et dont on ignore tout de l’issue, pour des raisons qui n’ont rien à voir avec notre intérêt national mais beaucoup avec celui des États-Unis et avec l’avenir politique d’un lilliputien ambitieux.

Voici à quoi sont utilisés nos impôts (le coût de cette opex devrait rapidement se chiffrer à plusieurs dizaines, voire centaines si elle dure, millions d’euros), voici pourquoi le sang de Français sera peut-être versé demain !

Mais que Nicolas le petit et ses sbires n’aient crainte, tout se paie (parfois pas uniquement dans les urnes…) et le peuple de France a commencé à faire l’addition. La vague bleu marine de dimanche pourrait bien n’être encore qu’une vaguelette en comparaison des élections futures !

Gaddafi und Merkel

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Baal Müller

Gaddafi und Merkel

 

Ex; http://www.jungefreiheit.de/

Die der untergehenden DDR entstammende Wendehalsigkeit, mit der sich Angela Merkel derzeit beinahe zur Atomkraftgegnerin wandelt und außenpolitisch plötzlich an der Seite Rußlands und Chinas wiederfindet, wird ihrer Partei trotz „German Angst“ und Pazifismus keine Sympathiepunkte bei den bezitterten Landtagswahlen in Baden-Württemberg einbringen. Auch das als Sieg interpretierte Wahlergebnis der CDU in Sachsen-Anhalt – 32,5 Prozent bei 51,2 Prozent Wahlbeteiligung – kann kaum als Wende betrachtet werden.

So pazifistisch sind die Deutschen nämlich gar nicht; es kommt auf die Feindbilder und deren Inszenierung an: Gegen den Irak-Krieg und für Gerhard Schröders – von der „Transatlantikerin“ Merkel bekämpften – Kurs war eine Mehrheit, weil George W. Bush gegenüber Saddam Hussein damals als größere Friedensbedrohung galt (zumal letzterer, anders als die von Afghanistan aus operierende Al-Kaida, den Westen nicht akut bedrohte) und weil die Propaganda von den irakischen Massenvernichtungswaffen allzu unglaubwürdig erschien.

Auf der Seite der palavernden Zauderer

Der heutige amerikanische Gegenspieler des allgemein als irrer Despot dargestellten Gaddafi ist freilich der Friedens(Nobelpreis-)Engel Obama, dem niemand einen als „Kreuzzug gegen das Böse“ verbrämten Krieg ums Öl ernsthaft zutraut. Zudem zeigen die Massenmedien junge, für Demokratie kämpfende Menschen, die man doch nicht im Stich lassen darf. Endlich ist klar, wer gut und wer böse ist! Und Merkel hat sich in den Augen „werteorientierter“ Gutmenschen mit ihrem um das Überleben seiner Partei ringenden Außenminister auf die Seite der palavernden Zauderer, also de facto der Bösen, verrannt.

Dem Häuflein aus Merkel-CDU, in Agonie liegender FDP und prinzipiell antiwestlicher Linkspartei steht eine ebenso schillernde Front gegenüber, allen voran die obersten Einpeitscher grüner Kriegspolitik, Joschka Fischer und Daniel Cohn-Bendit: Ersterer schämt sich in der Süddeutschen für das „Versagen unserer Bundesregierung“ und wirft dem Außenminister in seiner Flegelsprache vor, „den Schwanz einzuziehen“; letzterer preist im Spiegel-Interview eine „Befreiungsbewegung, die es fast aus eigener Kraft geschafft hätte, einen Diktator zu stürzen“, und bemüht – ähnlich wie Fischer seinerzeit ein drohendes Auschwitz auf dem Balkan erfand – allen Ernstes das Warschauer Ghetto als Parallele zur Rebellenhochburg Bengasi.

Hintermänner der libyschen Freiheitskämpfer ausgeblendet

Führte Gaddafi nicht selbst 1969 in den Augen der „antiimperialistischen“ Linken eine „Befreiungsbewegung“ an, als er den libyschen König Idris stürzte, sodann die Ölvorräte des Landes verstaatlichte, die Alphabetisierung der Bevölkerung vorantrieb und trotz der ungeheuren Bereicherung seines Clans den allgemeinen Wohlstand steigerte? Und warum erfahren wir eigentlich so wenig über Organisationen, Geldgeber und Hintermänner der heutigen libyschen „Freiheitskämpfer“, von denen sogar der Spiegel berichtet, daß sie tatsächliche oder vermeintliche Gaddafi-Anhänger massakrieren?

Die auf westliche Geheimdienstaktivitäten spezialisierte Zeitschrift Geheim vom 19.03.2011 nennt vor allem die „National Front for the Salvation of Libya“, die „Libyan Constitutional Union“ sowie die „Islamic Fighting Group“, die seit vielen Jahren geheimdienstlich unterstützt würden. Seit Beginn des Aufstandes hätten auch militärische Spezialeinheiten in Libyen operiert, den Rebellen Waffen geliefert und logistische Hilfe geleistet. Der Krieg gegen Gaddafi – der sein Öl, worauf Michael Wiesberg in seiner JF-Kolumne vom 14. März hingewiesen hat, in Zukunft vor allem nach China und Indien exportieren wollte – habe somit schon lange vor der UN-Resolution 1973 begonnen.

Wahlkampf statt souveräner Außenpolitik

Dazu paßt, daß diese nicht nur, wie zunächst allgemein gefordert, die Einrichtung einer Flugverbotszone, sondern auch die Bekämpfung von Bodentruppen zum Schutz der Zivilbevölkerung erlaube. Da Gaddafi aufgrund seiner gewaltigen, wahrscheinlich im Süden an den Grenzen zu Tschad und Niger gebunkerten, Goldreserven zu einer längeren Kriegführung fähig ist, wird man wohl sukzessive weitere Maßnahmen ergreifen müssen.

Deutschland hat, wie der Ex-Generalinspekteur der Bundeswehr Klaus Naumann (CSU) bejammert, „zum ersten Mal seit 1949 einen Alleingang gewagt“ – ob man darin nicht nur hilflosen Wahlkampf, sondern eine eigenständige Außenpolitik erkennen kann, ist fraglich, aber zumindest kein Grund, sich dafür mit Naumann, Fischer oder Cohn-Bendit, zu „schämen“.

Baal Müller, freier Autor und Publizist, geboren 1969 in Frankfurt/Main, studierte Germanistik und Philosophie in Heidelberg und Tübingen; 2004 Promotion zum Dr. phil. Für die JF schreibt er seit 1998. 2005 legte er eine belletristische Neubearbeitung des Nibelungenliedes vor. Jüngste Buchveröffentlichung: Der Vorsprung der Besiegten – Identität nach der Niederlage, Schnellroda 2009. Er ist Inhaber des Telesma-Verlags

 

 

dimanche, 27 mars 2011

Libye: le "médiamensonge", arme suprême

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Libye : le « médiamensonge » arme suprême

Ex: http://www.polemia.com/

Michel Collon a plublié sur son site un article assez virulent en cinq points, dans lequel il dénonce la médiatisation complaisante et partisane des événements libyens. Nous ne partageons pas forcément l’intégralité du contenu, mais nous invitons nos lecteurs à se rendre sur ce site pour en prendre connaissance. Il est très éclairant.

Au moment où Polémia organise sa deuxième cérémonie des Bobards d’Or le 5 avril prochain, il nous paraît intéressant de le leur signaler. En plus et en avant goût de notre manifestation, nous reproduisons le point 5 qui traite d’un sujet qui nous est cher : le « médiamensonge », que l’on retrouve pratiquement à l’origine de chaque conflit. C’est le thème de Michel Collon.

En fin d’article, on trouvera  les références de cette publication qui a pour titre : 

Cinq remarques sur l’intervention contre la Libye
et dont les cinq points sont :

  1. Humanitaire, mon œil !
  2. Qui a le droit de « changer de régime » ?
  3. Les buts cachés
  4. La « communauté internationale » existe-t-elle ?
  5. Chaque guerre est précédée d’un grand médiamensonge

Chaque guerre est précédée d’un grand médiamensonge.

Même dans la gauche européenne, on constate une certaine confusion : intervenir ou pas ? L’argument massue « Kadhafi bombarde les civils » a pourtant été démenti par des sources occidentales et des sources de l’opposition libyenne. Mais répété des centaines de fois, il finit par s’imposer.

Etes-vous certains de savoir ce qui se passe vraiment en Libye ? Quand l’Empire décide une guerre, l’info qui provient de ses médias est-elle neutre ? N’est-il pas utile de se rappeler que chaque grande guerre a été précédée d’un grand médiamensonge pour faire basculer l’opinion ? Quand les USA ont attaqué le Vietnam, ils ont prétendu que celui-ci avait attaqué deux navires US. Faux, ont-ils reconnu des années plus tard. Quand ils ont attaqué l’Irak, ils ont invoqué le vol des couveuses, la présence d’Al-Qaida, les armes de destruction massive. Tout faux. Quand ils ont bombardé la Yougoslavie, ils ont parlé d’un génocide. Faux également. Quand ils ont envahi l’Afghanistan, ce fut en prétendant qu’il était responsable des attentats du 11 septembre. Bidon aussi.

S’informer est la clé.

Il est temps d’apprendre des grands médiamensonges qui ont rendu possibles les guerres précédentes.

Michel Collon
20/03/2011

Source :

Cinq remarques sur l’intervention contre la Libye, à lire sur :
http://www.michelcollon.info/Cinq-remarques-sur-l-intervention.html

Correspondance Polémia – 22/03/2011

samedi, 26 mars 2011

L'affaire libyenne et l'Opération "Odyssey Dawn"

 

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Communiqué de SYNERGIES EUROPEENNES – 23 mars 2011

 

L’affaire libyenne et l’Opération « Odyssey Dawn »

 

Il va de soi que nous sommes contre l’intervention militaire actuelle lancée contre la Libye du Colonel Khadafi. D’abord parce qu’elle est une intervention américaine en Méditerranée et que les Etats-Unis n’ont rien à faire en Méditerranée et que leur présence en ces eaux revient à nier toute souveraineté européenne en Europe même. Ensuite, l’intervention américaine, moins intempestive qu’en Afghanistan ou en Irak, est appuyée par un tandem franco-britannique. On sait, depuis la moitié du 19ème siècle, que tout tandem entre ces deux puissances occidentales est contraire aux intérêts généraux de l’Europe et que toute réédition de l’Entente implique soit la guerre soit une issue contraire à ces intérêts généraux de notre continent. Les positions allemandes, russes et chinoises sont les bonnes : Berlin a raison de tourner le dos à une nouvelle Entente Paris/Londres et de préférer in petto l’alignement sur la sagesse du Groupe BRIC ; Moscou y voit une nouvelle intervention occidentale ruinant les efforts du dégel entrepris depuis la perestroïka de Gorbatchev ; et la Chine demeure fidèle à ses principes de non intervention et de non immixtion dans les affaires intérieures des pays tiers, surtout en Afrique.

 

Un des motifs majeurs de l’intervention occidentale est bien entendu de s’emparer du pétrole libyen, dont Khadafi avait suggéré la vente prioritaire aux Chinois et aux Indiens. L’intervention dans le cadre de l’Opération « Odyssey Dawn » est intéressante à plus d’un titre :

 

-          Obama n’apparaît plus comme le pacificateur américain, issu de la communauté afro-américaine qui allait allègrement gommer les aspérités de la gestion néoconservatrice de Bush. On sait désormais partout que Républicains ou Démocrates sont également bellicistes, que l’Âne ou l’Eléphant sont tout autant va-t’en-guerre. Pire : Bush avait demandé l’avis du Congrès pour lancer les opérations en Afghanistan ou en Irak. Obama s’est passé de l’avis des parlementaires américains. Mais on nous chantera, à gauche comme à droite de l’échiquier politique, dans les colonnes des gazettes politiquement correctes, qu’il est, dans le fond, dans sa bonne nature d’Afro-Américain, plus démocrate que les autres…

 

-          Sarközy choisit la fuite en avant : les sondages fiables et le résultat des dernières cantonales en France montrent que ses actions sont fortement en baisse. Il faut de la gloriole, il faut détourner l’attention du peuple vers des épopées faciles pour faire oublier une gestion néolibérale qui a hérissé le peuple de France contre son UMP. Sarközy a également trahi le gaullisme, l’esprit diplomatique offensif de Couve de Murville qui jamais n’aurait déclenché une intervention aux côtés des Britanniques et des Américains contre un pays arabe client en Méditerranée.

 

-          Les Britanniques sont finalement les plus logiques dans l’affaire : la Libye, ils la convoitent depuis toujours. Ils avaient pris le relais d’Atatürk, organisateur des tribus senoussi du Sud contre les Italiens. Au départ de l’Egypte et du Soudan, les Britanniques avaient incité les Senoussi à lutter contre la mainmise de l’Italie sur cette partie hautement stratégique du Sahara, à hauteur de la zone de turbulences qu’est aujourd’hui le Darfour soudanais. Le Roi Idriss, renversé par Khadafi en 1969, était un personnage arabe folklorique mis en place par Londres qui, en retour, exploitait le pétrole libyen. Les Britanniques espèrent remettre un Senoussi en place : à leurs yeux, ce serait un juste retour des choses.

 

-          L’Italie, conquérante de la Tripolitaine et de la Cyrénaïque contre les Turcs ottomans en 1911, a conservé des intérêts importants en Libye, malgré l’expulsion des Italiens par Khadafi au début de son règne. Les relations commerciales italo-libyennes ont toujours été de bonne ampleur. Berlusconi n’est entré dans l’opération « Odyssey Dawn » que contraint et forcé : sa position en Italie même est chancelante et il espère un appui des Etats-Unis. Mais la diplomatie italienne enrage de voir la place de l’Italie prise par la France, qui cherche sans doute des compensations pétrolières et surtout, probablement, à exploiter les nappes phréatiques du sous-sol libyen (par l’intermédiaire de la « Lyonnaise des Eaux » ?), et qui enrage aussi d’assister au retour des Britanniques dans la région. Le ministre Frattini veut un cadre « OTAN » pour l’Opération, ce que Sarközy refuse. Et la Lega Nord, partie prenante du gouvernement Berlusconi, refuse l’intervention, en demeurant dans sa bonne logique anti-interventionniste, celle qu’elle avait déployée lors de l’attaque criminelle de l’OTAN contre la Serbie en 1999.

 

-          Le Belgique, elle, cherche a prouver « urbi et orbi » qu’elle existe encore malgré la crise politique qui la frappe depuis juin 2010, la rendant incapable de former un gouvernement au bout de neuf mois de négociations. L’unanimité du parlement pour légitimer « Odyssey Dawn » laisse pantois : sur tous les parlementaires présents, aucun n’est donc capable de formuler une analyse un tant soit peu cohérente de la situation en Méditerranée et de la position importante que revêt la Libye, en dépit des frasques de son leader. On notera que les députés populistes flamands ont communié dans cet occidentalisme et cet atlantisme de mauvais aloi au même titre que tous les autres pitres de notre guignol politicien, prenant ainsi des positions diamétralement opposées à celle de ses alliés de la Lega Nord et aussi, dans une moindre mesure, de ses alliés de la FPÖ autrichienne et des Allemands qui lui sont proches. On sourit aussi dans sa barbe quand on sait que le relais en Belgique de Bernard-Henri Lévy, conseiller de Sarközy ès matières libyennes, a été Guy Verhofstadt, l’ancien leader de la fameuse coalition arc-en-ciel, qui a prononcé un discours belliciste tonitruant, caractérisé par une faiblesse déplorable sur le plan de l’argumentation factuelle. Le même Verhofstadt qui recevait en grande pompe Khadafi à Bruxelles en 2004, quand Washington venait de décider qu’il « n’était plus un méchant ». On sourit également quand on s’aperçoit que les députés du VB ont suivi Verhofstadt, qu’ils vilipendaient naguère. L’entrée en « guerre » de la Belgique a été illégalement décidée par un gouvernement d’affaires courantes, prouvant une fois de plus une inféodation atlantiste navrante. Et un abandon de la politique plus circonspecte de Pierre Harmel.

 

Le personnage de Khadafi pose évidemment problème : nous n’avons plus affaire au jeune et fringant Colonel modernisateur qui, sanglé dans un uniforme impeccable et bras nus, siégeait aux côtés d’émirs bédouins auxquels il prêchait la fraternité arabe. Nous avons désormais affaire à un homme vieillissant, affublé d’accoutrements bizarres et ne donnant plus l’impression de l’ardeur, de la modernité et de l’innovation. On oublie que Khadafi a eu des débuts très prometteurs. Et que les réalisations concrètes de son régime méritent tout de même l’admiration : création d’un bon système médical/hospitalier, mise sur pied d’un système d’éducation meilleur que dans les pays arabes voisins, bonne gestion de la manne pétrolière et redistribution à la population et, enfin, last but not least, l’exploitation des immenses nappes phréatiques du sous-sol saharien, via le projet de « Great Man Made River ». Jusqu’ici, quelques fermes collectives seulement fonctionnaient grâce à l’irrigation en provenance de ces nappes phréatiques ; le projet allait se concrétiser à grande échelle dans les mois prochains. La Tunisie de Ben Ali et l’Egypte de Moubarak s’y intéressaient. L’Egypte, on le sait, parvient à grand peine à satisfaire les besoins en eau de sa population : le Nil ne suffit plus. Certes Khadafi s’est enrichi personnellement,  mais ni plus ni moins (et plutôt moins…) que certains de ses collègues. La redistribution est toutefois mieux agencée en Libye.

 

Voyons maintenant le côté pile. Il y a l’imprévisibilité du Colonel. Ses foucades inacceptables du point de vue diplomatique : l’expulsion des Italiens, l’affaire des infirmières bulgares, volontaires pour structurer son système hospitalier (affaire qui, elle, aurait mérité une intervention plus musclée de la part de tous les Etats européens), la participation au mobbing contre la Suisse et la rétention d’otages helvétiques (affaire où l’Europe est restée étrangement silencieuse), les soutiens plus ou moins déguisés à des terroristes ou à des actes terroristes (Lockerbie, la discothèque berlinoise), mais on sait qu’en matière de terrorisme, le scepticisme est de mise car, pour Washington, le terroriste d’hier pour devenir l’allié de demain et vice-versa, comme ce fut d’ailleurs bien le cas pour Khadafi. D’ennemi, celui-ci est devenu ami puis redevenu ennemi.  Les Français reprochaient l’intervention de Khadafi au Tchad mais, le Tchad demeure tout de même, géographiquement parlant, l’arrière-cour de la Libye, que celle-ci soit ottomane, sous tutelle italienne ou britannique, ou indépendante. Khadafi s’est aligné dès 2006, cela n’a servi à rien : tous les candidats à l’alignement savent désormais à quoi s’en tenir !

 

La force de Khadafi, au temps de sa gloire de jeune et bel officier, a été son incontestable charisme et sa volonté de moderniser un pays qui n’existait pas en réalité. La Libye est un territoire où se juxtaposent un grand nombre de tribus. La population obéit à des logiques tribales et non pas à l’idée d’un Etat central et moderne. Dans l’esprit de la population, la division du territoire en deux vilayets ottomans (Tripolitaine et Cyrénaïque) correspond peu ou prou à deux ensembles de tribus, séparés par plus de mille kilomètres de désert. Khadafi a fédéré cette population éclatée en tribus. Ce pacte fédéral a été rompu récemment et une partie des tribus a réclamé une révision du pacte, des redistributions et un réaménagement du pouvoir : dissensus sans doute provisoire, où s’est immiscé un Occident prompt à exploiter les manifestations centrifuges dans les Etats qui se défendent bien sur le plan de la gouvernance.

 

Khadafi a certes une logique islamique mais non islamiste : contrairement aux intégrismes habituels, de facture hanbalite ou wahhabite, qui fondent leurs démarches sur le Coran, certes, mais aussi sur les hadiths, les commentaires et les ajouts divers des ulémas. Ce sont ces addenda post-coraniques qui encombrent l’islam d’archaïsmes qui déplaisent notamment aux Occidentaux mais aussi à tous les modernisateurs et les nationalistes arabes. Khadafi a prôné un islam exclusivement coranique, sans les exégèses ou interprétations postérieures dont se réclament hanbalites et wahhabites. Ce coranisme khadafiste débouche sur l’idée d’une « Troisième Voie Universelle », théorisée à l’époque où le monde était encore scindé en deux camps, ceux de la Guerre Froide entre orbes communiste et capitaliste. Empressons-nous de dire que cette « Troisième Voie Universelle », bien que sympathique dans ses intentions, nous est toujours apparue comme extrêmement faible sur le plan intellectuel et théorique : si quelques petits comploteurs se réclamant d’une « Troisième Voie » ont pondu des dithyrambes enflés sur cette théorie khadafienne ou se sont bousculés dans les auditoires de Tripoli dans l’espoir de récolter une manne sonnante et trébuchante, nous n’avons pas participé à la farce et nous avons préféré potasser les « non-conformistes des années 30 » ou les idées gaulliennes de participation et d’intéressement (Loichot). Histoire de rester européens. Et contents de l’être.

 

La fragilité de l’édifice politique khadafien vient de ce fond anthropologique des Libyes, demeuré foncièrement tribal. Ce sont les tribus qui remettent l’édifice en question. Il convient de replacer cette révolte des tribus (surtout celles de Cyrénaïque et du Sud-Est anciennement senoussi, selon certains observateurs) dans un cadre plus général : force est de constater que les Américains lâchent depuis quelques décennies leurs anciens alliés et hommes de main devenus âgés et malades. Ce fut le cas du malheureux Shah d’Iran en 1978-79. C’est le cas de Moubarak aujourd’hui, et aussi, bien sûr, de Ben Ali, celui qui avait évincé le vieux Bourguiba… Washington entend gérer ainsi les transitions et casser simultanément des logiques fortes au sein des Etats alliés, car, on l’oublie trop souvent, depuis Clinton, les Etats-Unis raisonnent comme s’ils n’avaient plus d’alliés mais seulement, face à eux, des « alien societies », auxquelles il ne faut pas nécessairement demeurer fidèles. Moubarak a bien servi la cause de Washington et de Tel Aviv : pour ce faire, il a sans doute bénéficié de mannes assez plantureuses, avec lesquels il a réalisé des projets d’infrastructure pour rendre son pays plus fort. Il est vieux et malade. On va l’évincer, non pas par le soutien clair et sans fard à des putschistes comme en Iran en 1953, mais en créant un désordre apparemment « spontané » dans les rues d’Egypte. Derrière cette effervescence populaire, l’armée s’empare discrètement du pouvoir. Washington, contrairement à ce qui s’est passé en Iran en 1978-79, n’est pas passé par le détour du fondamentalisme islamiste pour éliminer un allié devenu trop puissant et donc potentiellement dangereux : les Frères musulmans, qui ont cru profité de la révolte populaire égyptienne, ont été mis échec et mat ; en compensation, on leur permet de se défouler sur les Coptes.

 

En Libye, les insurgés appartiennent à des tribus moins gâtées par Khadafi et les siens. Pour l’observateur allemand Günther Deschner, il s’agit surtout des Warfalla, matés une première fois en 1993. La Libye fait donc face à un risque : l’éclatement du pays en deux nouvelles entités étatiques, la Cyrénaïque et la Tripolitaine, selon les frontières internes à l’espace ottoman avant la conquête italienne de 1911. D’un point de vue européen, une telle transition, patronnée par Washington, ne serait guère valable. Il conviendrait de maintenir l’unité de la Cyrénaïque et de la Tripolitaine sous une forme ou sous une autre, centralisatrice, fédérale ou confédérale, pour éviter une réédition de la sécession kosovare. L’important, pour l’Europe, c’est de conserver sur la rive sud de la Méditerranée, les acquis positifs du régime khadafiste, c’est-à-dire le système d’éducation, le système médical/hospitalier, la gestion du pétrole avec redistribution des dividendes à la population et la gestion des eaux issues des nappes phréatiques, car ces acquis constituent un excellent modèle pour l’ensemble des pays d’Afrique du Nord. En effet, une telle gestion fixe la population sur son sol et ne la condamne pas à l’émigration vers l’Europe. Dans cette optique, un régime post-khadafiste qui maintiendrait intacts les acquis de la gestion positive du Colonel (et nous débarrasserait de ses foucades inadmissibles) mériterait la coopération européenne. Les effets bénéfiques du projet de « Great Man Made River » permettrait d’avoir, aux portes de l’Europe, un immense jardin irrigué à la place d’un désert infertile, ce qui, comme nous venons de le dire, fixerait les populations nord-africaines sur leur sol natal, dans leur espace arabo-berbère, et fournirait à l’Europe des surplus qui accentueraient la nécessaire indépendance alimentaire qu’elle doit viser, notamment en matière de fruits et légumes. Ces projets d’irrigation avaient été formulés dans les années 40 par le tandem germano-italien mais avaient été prestement « oubliés » par les libérateurs britanniques qui avaient hissé le Roi Idriss sur le trône, pour récompenser les efforts de guerre anti-italiens des Senoussi, instruments d’une « low intensity warfare » inspirée par Lawrence d’Arabie.

 

La Libye de Khadafi a attiré d’ailleurs une immigration marocaine, algérienne et tunisienne, qui combat aujourd’hui sous le drapeau vert (coranique) de Khadafi contre les néo-senoussistes.

 

Enfin, l’intervention n’est pas de mise à nos yeux car l’Europe devrait avoir d’autres priorités, d’autres dangers à éliminer à ses portes : le Maroc qui lorgne sur les Canaries espagnoles, vise à englober les Presidios de la côte méditerranéenne (Ceuta et Melilla), comme l’a prouvé l’incident de l’Ile de Perejil en juillet 2002 et qui continue à produire 70% du cannabis consommé en Europe. L’UE avait donné des subsides aux agriculteurs du Rif pour qu’ils s’adonnent à des cultures de substitution. On s’est bien vite aperçu que la manne européenne a servi à tripler voire à quadrupler le territoire où était cultivé le cannabis. Cet état de choses aurait mérité une intervention musclée, sous la forme d’un bombardement à l’agent orange des champs où est cultivée cette drogue mortelle pour la stabilité de nos sociétés. De même, les navires qui participent à l’opération « Odyssey Dawn » feraient œuvre bien plus utile en traquant les trafiquants qui franchissent chaque jour la Méditerranée entre les côtes marocaines et les côtes andalouses sur des embarcations ultra-rapides contenant chacune une bonne tonne de cannabis. Les hélicoptères européens pourraient faire de magnifiques cartons…

 

Ensuite, autre danger bien plus mortel que les dérapages de Khadafi en proie à la révolte de certaines tribus libyennes : la Turquie qui laisse délibérément ouvertes ses frontières de Thrace à toute l’immigration d’Anatolie, du Kurdistan et de l’Asie centrale, menace la Grèce en Egée, occupe Chypre. Et, par la voix de son premier ministre islamiste Erdogan, envisage de créer partout en Europe des espaces sociaux turcs, soustraits de facto à l’autorité des pouvoirs autochtones, voire des espaces turco-mafieux directement protégés par Ankara. Par deux fois, Erdogan a réitéré la menace, a appelé les Turcs d’Europe à refuser l’intégration : à Cologne en février 2008, à Düsseldorf en février 2011. Les menées turques en Thrace, en Egée et à Chypre, les discours d’Erdogan à Cologne et à Düsseldorf sont des menaces bien plus graves pour l’Europe que les rodomontades récentes de Khadafi en Italie où il a prêché son islam coranique devant un parterre de figurantes sémillantes, recrutées par Berlusconi dans des agences de mannequins, un Berlusconi qui est un incontestable connaisseur en la matière. Pour la Turquie, l’adhésion à l’UE n’a qu’un seul objectif : le pillage des systèmes de sécurité sociale par l’envoi du trop-plein démographique anatolien et kurde, voire des pays avec lesquels la Turquie a signé des accords de libre circulation, en Asie centrale turcophone et au Proche-Orient (Syrie, Liban, Jordanie), selon des logiques historiques pantouranienne ou néo-ottomane. Cette défiance à l’endroit de la Turquie ne doit pas nous empêcher de nous féliciter qu’Ankara a brisé la cohésion du machin OTAN  (quand va-t-il enfin disparaître…?) dans le sillage de l’Opération « Odyssey Dawn » : la Turquie, depuis Erbakan, prédécesseur islamiste d’Erdogan, avait renoué avec la Libye ; 30.000 coopérants turcs s’y étaient établis et viennent de rentrer dare-dare en Anatolie. Le néo-ottomanisme turc nous dérange moins en Libye qu’en Egée ou à Chypre.  

 

La déstabilisation de toute l’Afrique du Nord, Maroc excepté, risque de provoquer un exode nord-africain vers l’Europe. Nous en voyons les signes avant-coureurs à Lampedusa au large de la Sicile. La Libye formait barrage pour deux raisons : elle absorbait une main-d’œuvre nord-africaine et freinait l’exode d’Afrique venu d’au-delà du Sahara (en réclamant une aide européenne). Sans un régime stable en Libye, cette barrière n’existera plus. Il aurait donc mieux valu que les choses restassent en leur état (« res sic stantibus »).     

Libyen: Grösster Militäreinsatz seit der Irak-Invasion

Libyen: Größter Militäreinsatz seit der Irak-Invasion – auf dem Weg in langwierige Kampfhandlungen

Prof. Michel Chossudovsky

Unverblümte Lügen der internationalen Medien: Bomben und Raketen werden als Instrumente des Friedens und der Demokratisierung gepriesen: Hier geht es nicht um ein Eingreifen aus humanitären Gründen. Der Krieg in Libyen eröffnet einen neuen Kriegsschauplatz. In der Großregion Naher und Mittlerer Osten sowie Zentralasien existieren drei unterschiedliche Kriegsschauplätze: Palästina, Afghanistan und der Irak. Vor unseren Augen entwickelt sich ein vierter Kriegsschauplatz der USA und der NATO in Nordafrika und erhöht das Risiko einer Eskalation. Diese vier Kriegsschauplätze sind funktionell miteinander verbunden; sie sind Teil einer integrierten militärischen Agenda der USA und der NATO.

 

 

Die Luftangriffe auf Libyen wurden schon seit Jahren von den Planungsstäben des Pentagon vorbereitet, wie der frühere NATO-Kommandeur General Wesley Clark bestätigte. Operation Odyssey Dawn wird als die »größte militärische Intervention des Westens in der arabischen Welt seit der Invasion des Irak vor genau acht Jahren« bezeichnet. (»Russia: Stop ›indiscriminate‹ bombing of Libya«, Taiwan News Online, 19. März 2011)

Dieser Krieg ist Teil des Kampfes um Erdöl.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/prof-michel-chossudovsky/libyen-groesster-militaereinsatz-seit-der-irak-invasion-auf-dem-weg-in-langwierige-kampfhandlunge.html

vendredi, 25 mars 2011

Libyen: Zwischen Stamm und Staat

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Martin J.G. Böcker


Libyen: Zwischen Stamm und Staat

Ex: http://www.jungefreiheit.de/

In Libyen erleben wir in diesen Wochen, welch enorme Macht die Stämme haben. Der Staat zerfällt, weil sie die Machtfrage stellen. Der Konflikt dauert an, weil Ghaddafis Familie nicht schwach genug ist, um weggefegt zu werden. Und währenddessen kommt die Frage auf, was eigentlich nach dem libyschen Krieg passieren soll? Ein ehrliches Ziel wäre: Ein stabiles Libyen, das Öl liefert – und keine Flüchtlinge. Ein hehres, aber vorerst unrealistisches Ziel wäre: Die Etablierung einer Demokratie, die diesen Namen verdient hat.

Dieser Prozeß wäre wohl „langwierig“ und „von Rückschlägen“ gezeichnet, wie es Wolfram Lacher von der Stiftung Wissenschaft und Politik euphemistisch formuliert. Die Konkurrenz zwischen Stamm und Staat ist ein Phänomen, welches in Libyen nun mit aller Macht zu Tage tritt, aber wohl für ganz Europa mitsamt seiner Peripherie von immer größerer Bedeutung werden könnte.

Gewaltmonopol und Beamte notwendig

Für das Verhältnis zwischen den Stämmen und einem Staat lohnt ein Blick auf das Werden der westlichen Demokratie: Laut Max Weber war die „gewaltsame Herrschaft“ mit einem „Monopol legitimer physischer Gewaltsamkeit“ unabdingbar. Das setzte einen funktionierenden Verwaltungsstab und einen politischen Enteignungsprozeß voraus. Der Verwalter war also nicht mehr im Besitz des Verwalteten; er bestritt seinen persönlichen Unterhalt nicht mehr durch das verwaltete Gut. Vielmehr lebte er von Unterhaltszahlungen, die er von einer herrschenden Instanz erhielt. Sprich: Er wurde verbeamtet. Nur so war das Werden der westlichen Demokratie möglich.

Daraus ergab sich die Ausdifferenzierung, welche die technische, bürokratische, ökonomische und politische Überlegenheit des Westens bedingte. Gleichzeitig bedeutete sie aber auch den Abschied von der emotionalen, pathetischen oder abhängigen Bindung an den Fürsten, also den Abschied vom Grund für Treue. Der Nationalismus scheint als Ersatz für diese Bindung nur von vorübergehender Wirkung gewesen zu sein.

Vorstaatliche Patronage- und Stammesstrukturen

Die Stärke des bürokratischen Westens bedingt also gleichzeitig dessen Schwäche. Denn – wie zum Beispiel Thorsten Hinz in seinem Essay über die „Zurüstung zum Bürgerkrieg“ dargestellt hat – manche Zeitgenossen empfinden die Energie arabischer und türkischer Großfamilien (also Patronage- und Stammesstrukturen) in den europäischen Innenstädten als Bedrohung für die europäisch-christliche Kultur. Durch ihren Zusammenhalt und ihre familiäre Bindung ist sie der deutschen Vater-Mutter-Kind-Familie in mancher Hinsicht überlegen.

Aber: Wenn uns schon die Anwesenheit solcher großfamiliärer Strukturen in unseren Innenstädten wie eine Bedrohung, wie schleichende Islamisierung, wie das Ende des Abendlandes vorkommt; wie unermeßlich apokalyptischer muß einem libyschen Obergefreiten dann die – im wahrsten Sinne des Wortes sagenhafte! – Feuerwirkung der alliierten Luftstreitkräfte erscheinen?

Bürokratischer Staat versus Stammesgesellschaft

„Hier“ haben wir den bürokratischen Staat, „dort“ die Stammesgesellschaft. Nach Weber geht mit der Entwicklung des modernen Staates auch das Ende des „ständischen Verbandes“ einher, also bedroht die Bürokratie den Stamm und im Umkehrschluß der Stamm die Bürokratie. Jeder den anderen auf seine Weise. Das meint nicht den Stamm, der sich der Bürokratie unterordnet; das meint auch nicht den Stamm, der sich einer Bürokratie bedient, um sich selbst zu verwalten.

Es geht vielmehr um die Situation, in der die Machtfrage gestellt wird – siehe Libyen. Das heißt die Situation, in der das staatliche Gewaltmonopol die Loyalität zum Stamm bricht beziehungsweise die Loyalität zum Stamm in der Lage ist, sich über das Gewaltmonopol hinwegzusetzen. So wie uns die Energie einer archaischen Stammeskultur bedrohlich vorkommt, kann der Stammeskultur unsere technische, wissenschaftliche, ökonomische, politische Überlegenheit beängstigend vorkommen – zumal wir sie letztlich erst durch den Abschied von den archaischen Strukturen erlangen konnten.

Die Globalisierung hat zur Folge, daß so eine Feindschaft Grenzen überwindet. Es ist eben nicht mehr so, daß die Türken vor Wien stehen oder die Kreuzritter nach Jerusalem ziehen. Die jeweils andere Seite ist „hier“ wie „dort“ in vielfältigen (vornehmlich ökonomischen) Beziehungsformen zugegen. Also als Geschäftspartner, Arbeitgeber, Arbeitnehmer, Sozialhilfeempfänger, Entwicklungshelfer, Urlauber, natürlich auch als Missionar. Das heißt freilich nicht, dass die Bedrohung der jeweils anderen Struktur durch die eigene damit aufgehoben wäre. Der Kampf der Strukturen setzt sich unvermindert fort – nicht nur in Libyen.

jeudi, 24 mars 2011

Las verdaderas razones de Occidente para intervenir en Libia

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LAS VERDADERAS RAZONES DE OCCIDENTE PARA INTERVENIR EN LIBIA

Libia en crisis. Occidente pide invadir para apoderarse del petróleo y el gas
Crisis en Libia

Hipocresía y oro negro

Las pinzas que se cierran sobre Libia promueven un escenario abierto para que las potencias centrales se apropien de su riqueza petrolera.
 
Ex: http://elnomadeenlaciudad.blogspot.com/

Levantamientos en Libia, ni tan espontáneos ni tan ingenuos.

Por Diego Ghersi


Habrá mil maneras de explicar, y otras mil más de no entender, cómo fueque la oposición política de un país fue capaz en horas de atacar de igual a igual al poder militar de un Estado y confinar al gobierno a un radio de 50 kilómetros de la capital.

A diferencia de lo ocurrido en Túnez, Marruecos, Jordania, Yemen oEgipto, en Libia no hubo protestas pacíficas sino que las acciones incluyeron toma de cuarteles, armas, tanques y ataques al Ejército oficial.

La paridad militar es tan notoria que la única diferencia a favor de Muammar Kadaffi la hace el control del aire, cuestión que las fuerzas opositoras intentan equilibrar solicitando apoyo aéreo de combate al extranjero.

Es evidente que el Consejo Nacional Libio de Bengasi considera que con tal apoyo podrían imponerse a la fuerzas de Kadaffi por sí mismos sin necesidad de una invasión explícita de fuerzas multinacionales encabezadas por Estados Unidos. Por las dudas, Washington sigue concentrando su flota frente a las costas del país.

Es también evidente -por la magnitud de los choques- que Libia se encuentra en un escenario de guerra civil entre fuerzas equilibradas en disputa por el poder.

Cuesta entender cómo fue que una masa que protestaba pacíficamente según la prensa internacional hegemónica- adquirió en horas el exitoso vuelo táctico digno de un ejército entrenado, a menos que se abone la hipótesis de que las revueltas fueron coordinadas por cuadros militares y de inteligencia- seguramente extranjeros.

No es la primera vez en la historia que eso sucede: en Vietnam era tarea de la CIA y de los Boinas Verdes, en el Afganistán soviético era Bin Ladeny, de nuevo, la CIA.

La composición de las fuerzas interiores que se oponen y atacan a Muammar Kadaffi es conocida, compleja y de orden tribal.

Se sabe que Libia es una nación formada por diferentes tribus y que históricamente los manejos políticos al menos desde que Kadaffi llegara al poder- perjudicaron a unas y favorecieron a otras pero, fundamentalmente, desplazaron al orden tribal.

En el primigenio sistema político de Kadaffi -básicamente socialista- no había lugar para las tribus ni para los partidos políticos.

Sí lo había para comités y congresos populares, y los 40 años de la era Kadaffi con sus buenas y sus malas- no fueron suficientes para digerir la idea del fin del orden tribal que, con sus clanes y subdivisiones, fue la única institución que reguló durante siglos la sociedad en las zonas de Tripolitania, Fezzan y Cirenaica.

Aún así, articular una fuerza capaz de competir militarmente con un Estado no se logra en un segundo y tiene que haber sido organizada y plasmada durante largo tiempo, quizás como parte de otro plan desestabilizador que las circunstancias del efecto dominó norafricano aceleraron.

Las acciones militares terrestres fueron combinadas con los discursos generados por las grandes corporaciones periodísticas de Europa y deEstados Unidos funcionales a los intereses petroleros de los países centrales.

La contribución mediática utilizada para estrangular al gobierno de Libia es transparente: desprestigiar al gobierno de Kadaffi ante el mundo para allanar el camino de la intervención armada de fuerzas multinacionales amparadas por las Naciones Unidas.

La invasión militar extranjera apuntaría a barrer de la faz de la tierra todo residual apoyo al régimen.

Muchos analistas denunciaron en los últimos días la carencia de imágenes de los supuestos bombardeos en Tobruk; Bengasi o Trípoli. Tampoco se vieron los miles de muertos anunciados en los partes noticiosos.

El 22 de febrero, las noticias fijaban en el orden de 300 a 400 el número de fallecidos.

Al día siguiente, el canal Al Arabiya Arabic afirmaba que el gobierno de Kadaffi había causado 10 mil muertos y 50 mil heridos por bombardeos en Trípoli y Bengasi.

Pero no se vieron ni rastros de bombardeos, ni de edificios dañados, ni de los restos de los aviones supuestamente abandonados por pilotos que prefirieron desobedecer antes que proceder con el bombardeo ordenado.

Lo que sí se vio corroborado por Telesur y Al Jazera- fue gente que apoyaba a Kadaffi en la Plaza Verde. Telesur y Al Jazera, presentes en Trípoli, son cadenas de otra matriz ideológica y sus informes confrontan con los de la prensa hegemónica internacional.

La estrategia mediática no se detuvo simplemente en destrozar la figura del líder libio sino que intentó capitalizar como bonus las mentiras tendidas sobre el Presidente de Venezuela Hugo Chávez acusándolo falsamente y desde el principio- de brindar asilo en Caracas a Kadaffi, cuestión por la que por supuesto- nadie pidió disculpas posteriormente.

La campaña informativa contra Kadaffi ha cobrado importancia fundamental porque sobre los informes periodísticos dudosos se fundó ladeterminación del Consejo de Derechos Humanos de Naciones Unidas (ONU) para condenar a Libia y suspender del organismo al país africano.

Es más, antes de votar, el mismísimo secretario de la ONU, Ban Ki-Moon citó reportes de prensa acerca de asesinatos indiscriminados, incluidos algunos contra soldados que se negaron a disparar contra los manifestantes antigubernamentales.

A nadie se le ocurrió la idea de mandar veedores seguramente convencidos de que lo que sale publicado en los diarios es siempre la verdad.

Es más, los mismos reportes han sido suficientes para acusar a Kadaffi en el Tribunal Penal Internacional de La Haya.

Lo gracioso del caso es que la mismísima Canciller de Estados Unidos,Hillary Rodham Clinton, ha apoyado la comparecencia del líder libio ante ese estamento jurídico sin siquiera ruborizarse por el hecho de que su país jamás apoyó someterse a ese organismo judicial. Una verdadera vergüenza.

Pero los medios hegemónicos no han hecho más que explotar una gran ventaja, como en el caso de Saddam Hussein antes de la invasión de Irak, Muammar Kadaffi es indefendible desde el punto de vista del imaginario occidental.

Después de lo de Lockerbie, y de haberlo visto montar su carpa beduina en las puertas de la ONU, el impoluto hombre blanco europeo está listo para creer cualquier cosa que le cuenten acerca del líder libio y también aceptará que se le haga llover plomo desde buques y aviones de combate.

La ventaja es aún mayor porque Muammar Kadaffi no es indefendible solo por esas liviandades.

En efecto, el perfil revolucionario de Kadaffi empezó a cambiar en 1992 cuando firmó un tratado con Rusia que abrió el mercado petrolero libio a las nacientes mafias moscovitas.

Posteriormente, entre 1995 y 2006, firmó pactos políticos, financieros y comerciales con el FMI, el Banco Mundial y con las multinacionales de de la Unión Europea, Estados Unidos y China.

Gracias a estas conductas, los europeos decidieron reivindicarlo desde 1996 y además de recibirlo y homenajearlo, firmaron con él pactos de extradición de “terroristas”, de concesiones petroleras, de control de la migración africana y le levantaron los embargos de armas en octubre de 2004, cuestión que abrió las puertas a pertrechos de origen español, italiano, británico y alemán.

En su discurso del 31 aniversario de la Revolución, Kadaffi notificó al mundo que renunciaba al “comportamiento revolucionario” que hacía de Libia un Estado Rebelde debido a que explicó- no aceptar la legalidad internacional impuesta por Washington implicaría el fin del país.

Congraciarse con Occidente no alivió la situación del pueblo libio. Una radiografía de Libia tomada un minuto antes de la actual situación de revuelta mostraría un país que no tiene soberanía alimentaria -importa a las multinacionales europeas el 75 % de los alimentos que consume-, con una tasa de desempleo del 30 % y de analfabetismo en un 18 %. Ni que hablar de la extrema pobreza.

Son estas las verdaderas razones por las que Kadaffi es indefendible y son de mucho más peso que meras cuestiones de imagen.

Aún así, la prensa necesita explicaciones más sencillas para justificar la guerra ante sus ciudadanos y, además, los países centrales no pueden desprenderse tan fácil de un personaje al que antes adularon para favorecerse con sus negocios sin que su hipocresía los ponga en evidencia.

El cuadro de crisis interna que hoy se compone con cruentos combates es la oportunidad esperada por las naciones europeas, cuyoobjetivo principal es asegurar el suministro del petróleo y de gas a su Unión.

Y en este orden de cosas Estados Unidos se apoderaría de las fuentes y de la comercialización del fluido.

La situación pone en aprietos a los gobiernos progresistas del mundo: no se puede defender a Kadaffi pero tampoco se puede avalar la intervención armada internacional en un país soberano.

De hecho, los antecedentes son lapidarios: no ha servido de nada en Haití; ni en Irak; ni en Afganistán ni en Somalia, países donde sólo se ha cosechado el desastre.

Ante situaciones de debacle interna de un país cualquiera correspondería la actitud de silencio stampa y no injerencia en asuntos extranjeros.

Pero cuando las Naciones Unidas van en camino de autorizar una intervención armada liderada por Estados Unidos la cuestión cambia sustancialmente y requiere de la firme condena diplomática de los gobiernos para frenar el intento de saqueo de los poderosos.

Nada de eso está pasando. La creciente concentración de buques estadounidenses en el Mar Mediterráneo parece ser demasiado importante como para que no se produzca la intervención armada en Libia en cuanto todas las armas estén en posición.

Solo la voz en solitario de Hugo Chávez se escucha en otro sentido, probablemente porque -más que diplomático o político- es en el fondo un soldado galvanizado con la impronta característica de las tropas paracaidistas: sería de cobardes culpar de las muertes en el país magrebí al Gobierno de Kadaffi sin conocer lo que está pasando .

Chávez también se anima a denunciar la maniobra en ciernes: Estados Unidos “está distorsionando las cosas para justificar una invasión. Se frotan las manos por el petróleo libio. Sobre Libia se teje una campaña de mentiras".


La voz del líder bolivariano se torna incómoda porque no filtra diplomáticamente ninguna verdad que por otra parte nadie ignora aunque insistan en mirar para otro lado: Porqué no condenan a Israel cuando bombardea Faluya y mata a niños y mujeres?; Quién condena a Estados Unidos por matar a millones de inocentes en Irak, en Afganistán, en el mundo entero?”.

Lo de Faluya parecería un error porque Israel no bombardeó la ciudad iraquí pero, sin embargo, existen testimonios de que fuerzas de Israel tomaron parte de la batalla. Otro dato es que en Faluya se usaron proyectiles de uranio empobrecido que hoy causan mortalidad inusual en la población.

Aún así, la campaña de mentiras sobre Libia parece ser más eficiente porque ha creado el sentido común de que en Libia se está produciendo una masacre contra un pueblo indefenso que se manifestaba en paz por sus derechos.

Nadie se ha movido para verificarlo y mostrar las imágenes al mundo. Da la sensación de que es una realidad creada y tiene la extraordinaria virtud de que muchísima gente quiere creerla, le conviene económicamente creerla.

También es el presidente bolivariano el único que ha acercado una propuesta de paz al convocar a la comunidad mundial a no dejarse llevar por los tambores de la guerra y buscar una “fórmula política” que sugiere- podría comenzar con una comisión internacional de buena voluntad países amigos de Libia- enviada para evitar una guerra civil.

La interesante propuesta ha sido aceptada sólo por Kadaffi y rechazada por su oposición, el Consejo Nacional Libio de Bengasi.

Al respecto, Mustafá Gheriani, encargado de la prensa del Consejo Nacional opositor sostuvo que “Tenemos una posición muy clara: es demasiado tarde, se ha derramado demasiada sangre. Sin embargo, como señal de que el Consejo Nacional Libio no está interesado en salidas pacíficas, el 2 de marzo solicitó a las fuerzas internacionales que implementen apoyo de fuego aéreo estratégico contra Kadaffi. Las repercusiones al plan Chávez no son todo lo entusiastas que cabría esperar de una comunidad internacional ávida de paz.Desde París, el ministro francés de Relaciones Exteriores, Alain Juppé, rechazó la idea de Chávez y recalcó que cualquier mediación que permita al coronel Kadaffi sucederse a sí mismo evidentemente no es bienvenida“.

El ministro de Relaciones Exteriores italiano, Franco Frattini, estimó que“será muy difícil” que la comunidad internacional acepte la propuesta del presidente venezolano.

Desde Europa, solo los socialistas españoles han acompañado tibiamente la iniciativa bolivariana. La canciller española, Jiménez sostuvo que, a pesar de no conocer a fondo la propuesta venezolana, estaría bien si sirve para ayudar. Sería el colmo que un gobierno de corte socialista como el del PSOE español dijese algo diferente.

Mientras los enfrentamientos entre los leales a Kadaffi y los rebeldes se intensifican, el secretario general de la Liga árabe, Amir Musa, sostuvo que en su organización se estaba considerando el plan de paz del presidente venezolano.

Desde Washington la respuesta negativa al plan de Hugo Chávez llegó elípticamente de boca del propio Barack Obama quién reiteró que Estados Unidos está listo para actuar inmediatamente: Será una decisión que tomaremos junto con la comunidad internacional.

Philip Crowley, vocero del departamento de Estado de Estados Unidos,fue menos diplomático: No se necesita que una comisión internacional le diga al coronel Khadafi lo que tiene que hacer por el bien de su país, y la seguridad de su pueblo. Es claro que Estados Unidos no quiere salida pacífica.

En general se entiende la apatía: la propuesta viene de Chávez eterno postulante a ser el próximo blanco- y anularía un lucrativo negocio que la comunidad internacional ya cuenta en sus balances. Pero ¿y si Brasil apoyara la propuesta venezolana? ¿Y si Sudamérica en bloque la apoyara?

En ese sentido, algunas fuentes señalaban al ex presidente brasileño Luiz Inacio Lula Da Silva como un mediador de consenso internacional y, los países de la Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América (ALBA) apoyaron la propuesta de paz.

Resulta interesante pasar revista a las opiniones tomadas de Reuters- que despierta la propuesta de Hugo Chávez entre los miembros del establishment mundial.

Chistophe Barret, analista, Credit Agricole CIB de Londres opina que el plan parece muy vago y no creo que sea considerado seriamente.

Samuel Ciszuk, analista de Oriente Medio, IHS Energy: No creo que otro líder relativamente extremista que es aliado de Kadaffi tenga una oportunidad de ser aceptado como mediador de paz. Es muy poco probable que funcione.

Olivier Jakob, de la firma de investigación suiza Petromatrix: Chávez no tiene mucha credibilidad, el único valor de esa propuesta sería que ofreciera una salida honorable para el clan Kadaffi.

Carsten Fritsch, analista de Commerzbank en Frankfurt: Es altamente improbable que una propuesta de paz de Chávez pueda funcionar. Tim Riddell, jefe de análisis técnico de ANZ en Singapur: Si sale de Chávez, puede no tener ningún grado de sustancia. Obviamente, estas gentes derrochan un optimismo contagioso.

El fondo de la cuestión no es el mismísimo Kadaffi sino lo que se vendría después de un traumático y en este estado de cosas casi seguro- derrocamiento del líder.

Y no hay que ser adivino para visualizar lo que se viene si el plan de paz fracasa: una invasión extranjera someterá a Libia a un baño de sangre concreto que las cadenas informativas del mundo ignorarán como enIrak, Afganistán o Gaza- y el Consejo de Seguridad de la ONU no se reunirá velozmente como lo ha hecho ahora para derrocar al líder libio.

En lo comercial, las potencias que secunden la invasión se repartirán el botín petrolero y dejarán a los libios -que hoy piden apoyo de fuego extranjero- en su inhóspito desierto para que lo transiten en camello y tribalmente como hace mil años, mientras sus recursos son esquilmados hasta el tuétano.

FUENTE: soydondenopienso - http://wp.me/poKd-5EG

mercredi, 23 mars 2011

Après la Libye, le Yémen? Barhein? ... Ou alors la Turquie?

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Après la Libye, le Yémen? Barhein? ... Ou alors la Turquie?

Par Pieter Kerstens

 

Ex: http://synthesenationale.hautetfort.com/

 

Le premier trimestre de cette année est riche en évènements géopolitiques et pimenté de catastrophes naturelles et humaines…

 

Soucieux de redorer sa cote de popularité, après des déclarations inopportunes concernant l’affaire Cassez et  les « amitiés » franco-tunisiennes, Sarko a déclaré la guerre à son client/fournisseur le bédouin Mouammar.

Forts d’une autorisation onusienne à bombarder les armées d’un tyran sanguinaire, dictateur mégalomane et bourreau de son peuple, les « coalisés occidentaux » mettront le paquet pour réduire le guide à néant.

 

Car ce colonel, tombeur du roi Idriss 1er en septembre 1969, avait entamé une révolution de type socialo/nationaliste dont le modèle était celle de Nasser en Egypte et durant de nombreuses années fut aussi soutenu par l’intelligentsia gaucho-bobo.  Il a entretenu des relations très équivoques avec d’anciens agents de la CIA, a financé le terrorisme international, a organisé moult attentats ayant entraîné des centaines de morts et n’a cessé de s’ingérer dans les affaires intérieures des pays africains pour y créer un chaos désastreux.

 

S’il est exact que sous sa férule, la Libye a pu se développer d’une manière spectaculaire grâce à la manne pétrolière et à la mise en place d’un réseau d’irrigation performant (issu d’un « fleuve » souterrain pharaonique), que l’Indice de Développement Humain compte parmi les plus élevés d’Afrique, que la situation de la femme n’est plus comparable celle des Egyptiennes, Marocaines ou Soudanaises, Kadhafi est bien l’un des seuls qui a pu juguler l’expansion islamiste au Maghreb, en jouant des alliances avec les tribus qui lui sont inféodées.

 

Bien des potentats africains, des éminences européennes ou des barons de multinationales lui sont redevables et surtout ceux du complexe militaro-industriel ! Il détiendrait donc des informations et des documents compromettant certains de ceux qui veulent sa peau aujourd’hui…ces va-t-en-guerre haineux et méprisables.

 

Deux poids, deux mesures ?

 

Au prétexte de sauver les insurgés, ces rebelles qui ne songent qu’à renverser le « guide » au nom d’ALLAH le tout-puissant, l’ONU, par sa résolution 1973, permet l’envoi de forces militaires afin de destituer dans un ouragan de fer un dirigeant mégalomaniaque.

 

Mais alors, serait-ce le SEUL ? L’ONU va-t-elle également prendre les mêmes dispositions envers le président du Yémen Ali Abdallah Al-Salih qui lui aussi fait tirer sur la foule des insurgés ? Une autre résolution onusienne pour contraindre par un embargo Hamad Ibn Isa Al Khalifa, monarque de Bahreïn, au cessez-le-feu contre les manifestants de la place de la Perle à Manama ? Avant l’envoi de chasseurs-bombardiers ?

Et pour ce qui est des guerres civiles en Côte d’Ivoire, au Nigeria, en RDC, et tutti quanti, l’ONU pourra-t-elle fermer les yeux encore longtemps sur les massacres perpétrés par des « tyrans sanguinaires », sans prendre des résolutions identiques à la 1973 ?

 

Et que dire des situations dramatiques vécues par les populations innocentes par exemple au Zimbabwe, en Corée du Nord et même au Mexique (aux portes de l’ONU) où les narcos trafiquants, bien mieux armés que les va-nu-pieds de Benghazi, ont acheté l’Etat de Droit cher au cœur des humanistes et massacrent à tour de bras.

 

Devoir de mémoire ?

 

Les états membres (192) s’engagent à remplir les obligations prévues par la Charte, en vue de sauvegarder la paix et la sécurité internationale et d’instituer entre les nations une coopération économique, culturelle et sociale. Cà c’est pour les intentions …car chaque pays membre est obligé de faire respecter les résolutions du Conseil de Sécurité et l’Histoire nous oblige à constater que de la théorie à la pratique, il y a un gouffre !

 

Les résolutions 181,194, 242, 476, 478, et 672 par exemple, prises de 1947 à 1990, n’ont JAMAIS été respectées par Israël, qui persévère quant à son attitude belliqueuse et refuse de libérer les territoires occupés.

 

Même chose pour  l’occupation et l’annexion illégale du Tibet par la Chine en 1950.

 

Ne parlons pas des deux guerres en Irak où règne l’anarchie la plus totale et où la population subit des exactions pires que sous le régime de Saddam Hussein.  

 

Idem en Afghanistan qui devient un copié collé de la guerre du Vietnam…

 

En Somalie, les onusiens de 1992 à 1995 (avec Kouchner et son sac de riz) se sont fait aplatir par les milices islamistes, qui ont maintenant muté en une coopérative de piratage international et preneur d’otages maritimes.

 

Plus près de nous, l’armée turque occupe militairement le nord l’île de Chypre depuis 1974, sans que l’ONU n’ait pris une résolution permettant un embargo contre la Turquie, ni le bombardement d’Ankara : et on voudrait même que l’Europe accepte cet agresseur en son sein !

Libia. Evviva i "buoni" !

Libia. Evviva i “buoni”!

di Alberto B. Mariantoni

Fonte: mirorenzaglia [scheda fonte]

 

Ci risiamo… Tuh, tuh, tuh tuuuh… Qui Londra, vi parla Ruggero Orlando: I “buoni”, parlano ai “buoni”. Stiamo arrivando a “liberarvi”!

Ed ancora una volta, come in uno scenario di film a moviola che si ripete instancabilmente all’infinito, i soliti “buoni” dell’Occidente (Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti)[1] – con addirittura, questa volta, il supporto politico[2], militare[3] e logistico[4] degli abituali “struzzi-meharisti”, sempre ben colonizzati ed obbedienti, dell’Italia del 150° Anniversario… – sono volati in “soccorso” delle “povere”, angariate e tormentate “popolazioni” libiche in rivolta, per salvarle, in extremis, dalle ire furenti e vendicative del Colonnello di Tripoli ed offrire loro una sicura chance, di “libertà” e di “democrazia” (sic!)!

A partire, dunque, dalle 17:45 di Sabato 19 Marzo 2011, i “buoni di cui sopra, in questa occasione con il nome d’arte di “Coalizione dei volenterosi” – nascondendosi furbescamente dietro l’occasionale ed ipocrita “dito” delle Risoluzioni, “1970” (26 Febbraio 2011) e “1973”[5], del 17 Marzo 2011 (approvata, quest’ultima, con soli 10 voti favorevoli, su 15, e 5 astenuti) del Consiglio di Sicurezza dell’ONU – hanno incominciato a sferrare, con le loro rispettive forze aeree militari, i loro sanguinosi e sproporzionati attacchi, contro le installazioni militari (e civili…) del “cattivo” di turno: la Libia del Colonnello Gheddafi.

Contro la Libia, naturalmente, e non contro lo Yemen o il Bahrein, dove – nonostante il triste computo dei morti civili sia abbastanza comparabile e la repressione dei contestatori altrettanto violenta e brutale – esistono regimi arabi (“moderati”…) che sono strettamente infeudati ai “buoni” di cui sopra. Meno ancora contro Israele, dove – da almeno 63 anni – avvengono più gravi e sistematiche stragi di civili, senza contare le abominevoli e reiterate violazioni dei Diritti dell’Uomo, a danno dell’annosamente martirizzata ed indifesa popolazione palestinese. Ancora meno, contro uno qualsiasi della decina di Paesi nell’Africa nera, dove da all’incirca 30 anni, continuano regolarmente a svolgersi sanguinosissime e poco mediatizzate guerre civili, sistematicamente alimentate (sottobanco…) – in armi, munizioni e tecnici – dal discreto, affaristico e solerte impegno “democratico” degli apparati militaro-industriali dei succitati Paesi “buoni.

Questo, nel momento in cui, le forze militari e paramilitari del Colonnello Gheddafi erano riuscite, abbastanza rapidamente e con molti sacrifici, a riconquistare un certo numero di località del Centro-Nord, del Centro-Nord-Est e del Nord-Ovest del Paese, fino ad allora, in mano ai “ribelli”.

In particolare: all’Est di Tripoli – sul litorale mediterraneo o adiacenti a quest’ultimo – i gheddafiani avevano rioccupato: Ras Lanouf, Al Uqalia, Al Bicher, Brega, Misratah/Misurata, Syrte/Sirte, Ajdabiya/Agedabia, fino alle porte di Benghazi; all’Ovest di Tripoli, invece, sempre sulla costa, avevano facilmente ripreso il controllo delle città di As Zawiyyah (nell’omonimo distretto) e di Zuwara/Zuara (distretto di An Niqat Al Khams), nonché del territorio della località di Mellitah (dove esistono importanti impianti ed installazioni che – oltre a far convergere e recepire gas, petrolio e condensati, sia dai pozzi di Bahr Es-Salam, nel Mediterraneo, che da quelli di Wafa, nel deserto, ai confini con la Tunisia – congiungono direttamente, in uscita, il Nord-Ovest della Libia con Capo Passero/Gela, in Sicilia, attraversogli all’incica 520 km. del gasodotto Greenstream).

Allora, per tentare di accertare il “chi”, “dove”, “come”, ”quando” e “perché” di quella che i Media mainstream dell’Occidente continuano a chiamare “l’intera popolazione libica in rivolta”[6], prendiamoci pazientemente il tempo di andarci a fare un “giretto” da quelle parti.

Intendiamoci: non per fare il “distinguo”, come i “liberatori” di cui sopra, tra chi sono i buoni e chi sono i cattivi dell’attuale guerra, ma semplicemente, per cercare di non morire ignoranti!

Ecco, allora, senza nessun commento, l’effettivo quadro della situazione, nel campo dei cosiddetti “ribelli”:

a.  Cirenaica:

-         un buon 30% della grande Tribù (in arabo: qabila) arabizzata[7] degli Az-Zuwayya o Zuwayya o Zawiya che è situata all’Est di Benghazi ed all’interno della porzione di territorio che è formata dalle città di Ajdabia o Agedabia, Jalu e Marsa al Burayqa, con alcune propagini (per ora, rimaste neutrali nell’attuale conflitto) che sono dislocate: da un lato, attorno alla città di Tazirbu o Tazerbu ed all’Oasi di Kufra; dall’altro, nelle vicinanze della città di Sehba, nel Fezzan, essendo legate con una parte della grande Tribù berbera degli Al Asauna[8];

-         alcuni Clan della Tribû arabizzata degli Al Abaydat o Abdiyat o Beidat – all’interno della quale confluiscono all’incirca 15 Clan distinti – che è, in maggioranza, posizionata sulla regione costiera mediterranea, tra la città di Darnah o Darneh e quella di Bardiya o Bardia, con forti presenze individuali, sia a Tobruk che a Benghazi;

-         all’incirca il 30% degli effettivi della grande Tribù arabizzata degli Al Barasa (a cui, tra l’altro, appartiene la seconda moglie del Colonnello, Safia, figlia di un alto dignitario dei Firkeche[9], un Clan molto influente all’interno di questa tribù) che, in parte, è situata a Benghazi e dintorni e, l’altra parte, all’interno del Sud delle regioni di Al Fatih, Al Bayda e Darnah;

-         alcuni elementi della modesta Tribù arabizzata dei Drasa che è insediata nella regione che è compresa tra le città costiere di Tûkrah, Al Bayda e Susah, oltre che a Benghazi;

-         alcuni gruppi della modesta Tribù arabizzata degli Arafah che è situata tra i territori della Tribù dei Darsa e quella degli Al Barasa;

-         alcuni membri della Tribù arabizzata degli Al Awaqir o Awagir (storicamente conosciuta per la sua accanita resistenza contro la colonizzazione italiana) che è insediata nella regione di Barqa o Barkah;

-         diversi membri della Tribù arabizzata dei Mesratha (da non confondersi con gli abitanti della città di Misratah o Misurata, in Tripolitania) che è impiantata, oltre che a Benghazi ed a Darnah o Darneh, parimenti nei loro circondari limitrofi;

-         un buon 20% dei componenti della Tribù arabizzata degli Al Fawakhir che è insediata nella regione cirenaica di Murzuq (all’Est della regione di Ajdabiya o Agedabia), come pure sulle colline di Qārat al Fawākhir e le zone di Qalb Thamad `Ulaywah, Bayādat ash Shajarah, Qarārat Umm Uthaylah, `Unqūd al Yāsirāt, Thamad `Ulaywah, etc.;

-         alcuni membri della Tribù arabizzata dei Tawajeer o Tawaglir che è impiantata, tra Bardiyah o Bardia e l’Oasi di Al Jaghbub o Giarabub;

-         qualche gruppo delle Tribù arabizzate dei Kawar (regione di Kawar o Kauar) e dei Kargala che è insediata, tra il Gebel Akhdar (o Jebell-el-Akhdarr o al-jabal al-ʾaḫḍar o ‘Montagna verde’), l’Oasi di Yégabibs o Yegabob ed il deserto cirenaico;

-         diversi componenti delle Tribù arabizzare dei Ramla, dei Masamir o Masameer e degli Awajilah (tribù, queste ultime, tradizionalmente ubicate a ridosso del confine cirenaico-egiziano);

-         qualche Clan del ramo cirenaico della Tribù araba ed arabizzata degli Al Majabrah[10] o Magiabra (che è insediata nella regione di Jalo o Gialo, a Sud-Est della città di Ajdabia o Agedabia; mentre, la maggioranza – rimasta neutrale o fedele al regime di Gheddafi – è stanziata tradizionalmente al Sud-Ovest di Tripoli e sulle montagne dell’Ovest della Tripolitania);

b. Syrte o Sirte e Golfo di Sidra (Khalij Syrt):

-         alcuni Clan della Tribù arabizzata degli Al Farjan che è fissata nella città di Sirte, con una sua forte presenza nella regione di Zliten o Zlitan (all’Ovest del Paese, in Tripolitania): un’area costiera, quest’ultima, che è praticamente a sandwich, tra la città di Al Kums o Al Khoms (distretto di Al Murgub) e quella di Misratah o Misurata, del distretto omonimo;

-         un’esigua minoranza della Tribù arabizzata degli Al Magharba che è impiantata al Nord-Est di questa regione, tra le località di As Sidrah e quella di Marsa al Burayqah;

c. Tripolitania:

-         all’incirca il 3-4% della Tribù araba[11] degli Orfella o Warfalla o Werfella (la più numerosa della Libia, con i suoi 52 Clan ed all’incirca 1 milione di effettivi): quella frazione della medesima tricù, cioè, che, nel caso particolare, è insediata all’interno del distretto montagnoso di Bani Walid (125 km. al Sud di Tripoli)[12]; mentre la quasi totalità degli Orfella o Warfalla o Werfella (che, fino ad ora, sembra, siano rimasti neutrali o fedeli al regime di Gheddafi) è insediata nel distretto di Misratah o Misurata ed, in parte, in quello di Sawfajjn;

-         una parte della Tribù arabizzata degli Az Zintan o Zentan che è allogata a circa 150 km. al Sud-Ovest di Tripoli, a mezza costa, sui rilievi montagnosi occidentali, in un territorio idealmente delimitato dalle città berbere di Kabaw, Jado, Yefren e Nalut;

-         alcuni Clan della Tribù berbera (leggermente arabizzata) degli Awlad Busayf che è stabilita sulla regione costiera di Az Zawiyah;

-         alcuni gruppi dissidenti della Tribù berbera degli Ait Willul che sono impiantati, sempre sul litorale, tra le città di Zuwarah o Zuara, di Al Mangub e la località di Ras Jedir o Gedir, sul confine libico-tunisino.

Insomma, come abbiamo potuto constatare, quella che, fino ad oggi – con la flagrante ed inaccettabile complicità dei Media embedded dell’Occidente – ci è stata definita e “venduta” come “la rivolta generalizzata dell’intera popolazione libica, contro il regime del Colonnello Gheddafi”, ha piuttosto l’aria di essere un’ordinaria o straordinaria insurrezione di alcune frazioni di Tribù del Paese, contro quelle – senz’altro molto più numerose (almeno il 60%, su all’incirca 140 tribù che conta la Libia) – che continuano ad appoggiare e sostenere il medesimo regime.

Ecco, ora, dunque, per cercare di capire meglio la situazione, il “filo conduttore” ideologico (democratico?) della rivolta in questione…

La Senussiya

Chi ha un minimo di dimestichezza con la Libia, sa perfettamente[13] che il principale ed indissolubile “legame” (generalmente invisibile o inavvertibile, ai non “addetti ai lavori”…) che, da almeno due secoli, tende a mettere in relazione ed a tenere unite – e molto di più, nell’attuale situazione di Guerra civile, collettivamente solidali e cobelligeranti – le suddette, diverse, variegate e parziali realtà geo-etnico-politico-tribali (attualmente in aperta ribellione armata contro il regime di Mu’ammar Gheddafi), non può essere nient’altro che il loro specifico, caratteristico e comune credo religioso. Nel caso particolare, una fede – non soltanto nei principi e nei valori, nei dogmi e nella tradizione, dell’Islam sunnita[14] di “scuola” malikita[15] (confessione e rito, nei quali la maggioranza dei maghrebini musulmani – ed a maggior ragione libici – ha solitamente tendenza a riconoscersi), ma addirittura – in una specifica ed esclusiva “lettura” ed interpretazione del sunnismo-malikita: quella, per l’appunto, che è ordinariamente rivendicata, espressa, professata, propagandata e diffusa dai membri di una singolare e poco nota (in Occidente) Setta (in arabo: firqa) o Confraternita (tariqa) mistico-missionaria-militante dell’Islam sunnita che esiste ed opera in Libia ed in alcuni Paesi dell’Africa sahariana e centrale, e che risponde all’appellativo o alla denominazione di Senussiya.

Questa Confraternita, infatti, a differenza di molte altre dello stesso genere o filone, non preconizza solamente – come, ad esempio, i Wahhâbiti[16] o (forse) gli Zaiditi[17] – il ritorno dei fedeli, al Corano (al-Qur’ân)[18] ed alla Sunna (la tradizione che si riferisce alla vita ed all’insegnamento del Profeta Muhammad). Essa annuncia, proclama e pretende altresì – aggiuntivamente – il rifiuto della semplice “imitazione” (taqlid)[19] delle vie tracciate dai principali e tradizionali Saggi dell’Islam, e la sistematica e puntuale riapertura della “porta dell’ijtihâd” (lo “sforzo di riflessione”)[20] che, secondo la maggior parte degli storici delle consuetudini e della prassi di questa religione, sarebbe stata definitivamente chiusa nel IV secolo dell’Egira (il nostro X secolo).

Va da sé, dunque, che questo suo modo di concepire e vivere l’Islam – a causa delle sue “innovazioni” (bid’a) dottrinali – ha generalmente tendenza ad essere contestato e condannato (o quanto meno, biasimato, respinto o censurato…), sia dalla maggioranza dei teologi delle “scuole” hanafita, shafita e hanabalita che da quelli della “scuola” malikita[21].

Altro, dunque, che “anelito di libertà” e di “democrazia” di “tutto un popolo” che ci viene enfaticamente sottolineato dalla maggior parte dei “nostri” politici e ripappagallato, parola per parola, fino alla noia, dall’insieme dei Media meanstream dell’Occidente!

La Setta Senussita, infatti – che perfino il grande Jules Verne (1828-1905), nel suo romanzo, intitolato Mathias Sandorf[22], non aveva affatto esitato, già nel suo tempo, a definire o ad acquarellare, come semplicemente delirante ed estremamente aggressiva– venne fondata nel 1837, sul monte Abû Qubais (nella Penisola arabica, a prossimità della città di Mecca), da un berbero della Tribù algerina (secondo le diverse fonti) dei Walad Sidi Abdallah o dei Medjaher e del Clan degli Ulad o Ulad Sidi Jusuf (Clan insediato, all’epoca, nella regione di Hillil o al-Wasita, a prossimità delle città di Relizane e di Mostaganem), di nome Sayyed o Sidi Muhammad al-Sanûsi o al-Senussi[23] (1787-1859 o 1792-1859): un personaggio, bonariamente soprannominato Ben Al-Attzoc, e la cui famiglia pretendeva[24] di discendere dal Profeta dell’Islam, via sua figlia Fatima, e, di conseguenza, aveva tendenza ad auto-fregiari del titolo di Sharîf dell’Islam.

Questa particolare tariqa (o Confraternita) incominciò ad impiantarsi ed a funzionare, in Libia, nel 1843. Inizialmente, per puro caso: quando, cioè, il medesimo Muhammad al-Sanûsi o al-Senussi (il suo fondatore) – essendo di passaggio in questo Paese, nel corso di un suo ordinario viaggio di trasferimento dall’Egitto all’Algeria – decise di realizzare a Baida (nei pressi dell’antica città di Cirene), un suo primo centro religioso (zâwiya). E, qualche anno dopo, nel 1856, quando, il medesimo personaggio, ritenne opportuno prendere di nuovo l’iniziativa di istituire una seconda e più importante zâwiya (divenuta, poi, in seguito, la sede principale di questa Confraternita) nell’Oasi di Jaghbub o Giarabub[25]: una località situata a circa 300 km. dalla costa mediterranea, ed al crocevia di una serie di piste carovaniere che conducono a Bir Tengeder ed a Bir El-Gobi, nonché alle oasi di Jalo o Gialo e di Augila (sempre in Libia) e di Siwa, in Egitto.

Negli anni successivi, dopo il successo ottenuto da quei primi Centri religiosi, incominceranno a fiorire numerose altre zâwiya: ad esempio, quella di Misratah o Misurata (nella regione della Sirte), di Bani Walid e di Homs (in Tripolitania), di Benghazi e di Derna (in Cirenaica), di Amamra, di Mezdha (situata al Sud di Gharian), di Ghadames, di Matrès (all’Est di Ghadames), di Murzuk e di Zuila (nel Fezzan), etc. Questo, fino a coprire, con la presenza e l’attività di proselitismo dei suoi numerosi ed intraprendenti missionari, non soltanto la maggior parte delle città e distretti amministrativi della Libia, ma ugualmente numerose regioni (vilâyet) fuori da quest’ultima, come alcune località del Sahara, del Nord del Ciad e del Niger, e parimenti dell’Ovest dell’Egitto e del Sudan, nonché del Sud della Tunisia e dell’Algeria.

Sin dall’inizio della sua attività in Libia, la conduzione politico-culturale-religiosa di questa Setta ebbe ad assumere un carattere prettamente dinastico e gerarchico. Caratteristica che sarà successivamente ed invariabilmente confermata da tutti i naturali discendenti del primo fondatore[26]: vale a dire, da Sayyed o Sidi Muhammad bin ‘Ali al-Sanûsi o al-Senussi (1843-1859); da Sayyed o Sidi Muhammad al-Mahdi bin Sayed Muhammad al-Sanûsi o al-Senussi (1859-1902); da Sayyed o Sidi Ahmad al-Sharîf bin Sayyed Muhammad al-Sharîf al-Sanûsi o al-Senussi (1902-1916) e, dulcis in fundo, da Sayyed o Sidi Muhammad Idris al-Mahdi al-Sanûsi o al-Senussi (1916-1969). Personaggio, quest’ultimo, che il 24 Dicembre del 1951, diventerà – grazie alla volontà ed agli inconfessabili interessi degli Inglesi e degli Americani che allora occupavano militarmente il Paese – il Primo re di Libia, con il nome di Idris I. E’, dunque, questo re, ed allora capo pro-tempore della Senussiya, che venne militarmente spodestato da Gheddafi e dagli Ufficiali nasseriani, il 1 Settembre 1969.

L’organizzazione gerarchica di questa Setta, ancora oggi (anche se segretamente, in quanto, il Libia, dagli anni ’70, è chiaramente proibita!), è immutabilmente così composta…

A suo vertice, c’è lo Sheikh Supremo (o Sceicco detentore della “Santa Barakah”[27]). Carica e responsabilità che sono attualmente rivestite e personificate dall’ultimo rampollo, in ordine di tempo, della famiglia del solito primo fondatore: cioè, in questo caso, da Sayyed o Sidi Muhammad bin Sayyed Hasan ar-Rida al-Mahdi al-Sanûsi o al-Senussi (1992-fino ad oggi) che, con molta discrezione e diplomazia, dal suo confidenziale e dorato esilio di Londra, continua a dirigere (per conto terzi?) questa Confraternita.

Subito dopo, nell’immediato sott’ordine, troviamo tre principali alti dignitari: il Gran Khalifa (o Vicario dello Sceicco Supremo); l’Ukil o l’Uqil (o Amministratore/Tesoriere); ed il Responsabile centrale dell’insieme dei tolba[28] (gli studenti coranici) delle zâwiya della Setta.

In una porzione di grado leggermente inferiore, troviamo una serie di Sheikh el-zâwiya che altro non sono che dei responsabili ufficiali e qualificati dei diversi Centri religiosi regionali della Confraternita. Seguono a ruota, e praticamente a “pioggia” verso il basso, una miriade di medi e piccoli Mokkaddem (direttori o soprintendenti) che, generalmente, sono permanentemente impiantati nelle diverse regioni e province di maggiore interesse di questa Congregazione, oppure hanno l’incarico speciale – in nome e per conto di quest’ultima – di svolgere la particolare, delicata ed aggregante mansione di missionari itineranti.

L’insieme dei succitati dignitari – per potere rivestire le cariche che rivestono ed esercitare gli incarichi che esercitano – hanno l’assoluta e indispensabile necessità di potere prioritariamente vantare il possesso di quello che viene chiamato il “diploma mistico” (Ijéza o Igéza). E per riuscire a poterlo conseguire – in uno qualsiasi dei diversi “gradi” previsti (un po’ come all’Università) dall’ordinamento interno della Setta – debbono ugualmente e preventivamente avere frequentato e superato le lunghe, esigenti ed intransigenti trafile ideologico-teologico-religiose all’interno delle principali madaariss (al singolare: madrassa = “scuola coranica”) della loro Congregazione.

In fine, al più basso “gradino” del medesimo ordine gerarchico interno, troviamo l’insieme degli affiliati a questa Confraternita. I quali, a loro volta, sono ugualmente ed individualmente distinti e differenziati (secondo la loro personale sensibilità, il livello di convinzione e/o la loro specifica preparazione spirituale) in, Responsabili di cellula, militanti e semplici aderenti e simpatizzanti.

Insomma, l’immagine che tende ad emergere o ad evidenziarsi da un qualsiasi approfondimento del modo di essere, di esistere e di agire di questa peculiare Comunità di fedeli, è quella di una particolare organizzazione di iniziati ideologico-teologico-religiosi (khuan) che è estremamente e particolarmente ordinata, affiatata e strutturata. Una specie di organismo “para-militare”, cioè, che lascia a sua volta intuire o dedurre che, al suo interno, i singoli membri della Setta, non siano soltanto dei convinti, mansueti e subordinati adepti che accettano semplicemente ed attivamente di frequentare le prescritte riunioni religiose collettive (hadrah) di ogni Venerdì di preghiera. Ma bensì, un vero e proprio corpus gerarchico che è disciplinatamente predisposto, sia ad obbedire ciecamente all’insieme dei dettami dei suoi diretti superiori che a difendere, contro chiunque e con qualsiasi mezzo, la particolare dottrina dell’Islam nella quale ognuno di loro tende ordinariamente a riconoscersi e ad identificarsi, nonché a cercare di materializzare l’insieme degli scopi che sono comunemente perseguiti dalla loro Confraternita. A maggior ragione, in una situazione di aperta rivolta contro le istituzioni del regime del Colonnello Gheddafi, come quella a cui stiamo assistendo dal 17 Febbraio ad oggi.

E’ questa Setta politico-religiosa, in ogni caso, per intenderci, che è la famosa “al-Qaida” di cui continua sistematicamente a parlare il Colonnello libico, nei suoi ormai quasi quotidiani ed accalorati speech televisivi. E contro la quale, sin dall’inizio della rivolta, minacciandola di drastiche e sanguinose rappresaglie, ha cercato di mettere in guardia quelli che, fino al giorno prima, lui aveva ingenuamente creduto che fossero davvero diventati i suoi “amici” dell’Occidente!

Ora, se per pura ipotesi – dopo aver tenuto in seria e ponderata considerazione la natura e la portata di questa Confraternita – si potesse ugualmente accertare che dei particolari interessi economici esterni o estranei alla Libia, per degli scopi che ancora non conosciamo (sottrarre, ad esempio, all’Italia[29] la sua invidiata ed ambita manna petrolifera e gasiera di cui, fino a prima della crisi, stava godendo, in maniera privilegiata?), siano riusciti – in questa occasione – a corrompere o a manipolare i principali responsabili della suddetta Setta, si potrebbe altresì ed analogamente comprendere tutta una serie di altri aspetti della “guerra civile” in questione. Tra i tanti, uno in particolare: la facilità, cioè, con la quale, i dirigenti della Confraternita in questione, sono stati capaci, da un giorno all’altro, di mobilitare, da un lato, l’insieme dei loro adepti (che – come abbiamo visto – sono disparatamente ed irregolarmente disseminati all’interno delle diverse e variegate tribù e regioni del Paese) e, dall’altro, di farli simultaneamente e collettivamente insorgere in armi (con tanto di “consiglieri” di “specialisti miltari” fatti espressamente giungere dall’Afghanistan…) e con flagrante ed indiscutibile sincronia militare, contro le istituzioni della Jamahiriya libica.

La “prova del nove” di questa mia “scorretta” e sicuramente “disturbante” ipotesi, essendo che la pretesa “insurrezione popolare” è stata solo ed unicamente registrata – guarda caso… – in quelle località della Libia, dove la Senussiya è sempre stata e continua ad essere maggiormente presente ed influente.

Insomma, per concludere, mi pongo e pongo al lettore questa domanda: dopo aver constatato ciò che finora abbiamo avuto la possibilità  di constatare, non incominciano ad apparire, ai nostri occhi, come un po’ strane e sospette, sia l’improvvisa e generalizzata “rivolta delle popolazioni libiche” che la successiva, aggressiva e sproporzionata solerzia con la quale, la Francia (Total-Fina) in primis, ed i soliti “liberatori” di sempre, Stati Uniti (ExxonMobil + Chevron + Occidental Petroleum) e Gran Bretagna (British Petrleum + Shell), hanno preso la frettolosa e drastica iniziativa di intervenire militarmente, come delle vere e proprie parti in causa, nella “guerra civile” (o tentativo di Colpo di Stato?) che sta vivendo la Libia, dal mese di Febbraio scorso?

Alberto B. Mariantoni ©


[1] Sul “diritto”, i “principi” e la “morale” invocati dai suddetti “buoni”, vedere: http://www.abmariantoni.altervista.org/internazionale/Cri... – per le aggressioni militari dei soli Stati Uniti, vedere: http://www.youtube.com/watch?v=5aEOm1lRLD0&feature=re...

[2] Le stolte ed affrettate dichiarazioni di “circostanza” dell’insieme– salvo Bossi e la Lega – della classe politica italiana, tradizionalmente asservita ai voleri ed ai ricatti dei “Padroni del mondo”.

[3] Alcuni Tornado che continuano incessantemente a decollare dall’aeroporto militare di Trapani-Birgi, in Sicilia.

[4] Per potersene sincerarsene: http://www.youtube.com/watch?v=zta5359CHhA

[5] Per il testo integrale di questa Risoluzione, vedere: http://www.ticinolive.ch/esteri/no-fly-zone-il-testo-della-risoluzione-del-consiglio-di-sicurezza-dellonu-13858.html

[6] Un’ “intera popolazione” che – secondo le immagini che ci sono state fino ad ora trasmesse – si riduce, in realtà, a qualche centinaio di manifestanti nelle strade di Benghazi e di Misurata, e qualche decina di insorti in armi che in posa, davanti alle telecamere, mentre agitano i loro mitra o manovrano due o tre gipponi Mazda o uno o due vecchi carri armati ex-sovietici, illegalmente sottratti alla Forze armate del Paese.

[7] Le uniche tribù arabe della Libia, infatti, sono esclusivamente i discendenti dei Bani Salim o Salem che – insieme ai Bani Hilal (i cui discendenti, in maggioranza, secondo la tradizione, sarebbero, oggi, i membri della Tribù degli Orfella o Warfalla o Werfella, in Tripolitania) – penetrarono in questo Paese e vi si stanziarono (i primi, in Cirenaica; i secondi, in Tripolitania), in provenienza dalla Penisola arabica, al seguito dell’espansione militare verso il Maghreb e la Spagna (El-Andalus), dei regni Fatimidi d’Egitto, nell’XI secolo.

[8] Tribù, in maggioranza, rimasta fedele, per ora, alla Jamahiriya libica, essendo legata, sia alla maggioranza della Tribù degli Orfella o Werfella o Werfalla della Tripolitania che alla Tribù degli Awlah Soleiman o Soluiman (per il momento, rimasta neutrale) del Fezzan.

[9] Clan rimasto fedele al Colonnello di Tripoli.

[10] A cui appartiene il Comandante in capo delle Forze Armate libiche (chiamate: Es.Shaâb El Mussalah o “popolo armato”), il Generale Abu-Baker Yunis Jaber o Giaber (uno dei 12 Ufficiali che, con Gheddafi, realizzarono il Colpo di Stato nasseriano del 1 Settembre 1969).

[11] Come ho già precisato, la tradizione li considera discendenti diretti dell’antica Tribù Araba, di confessione Musulmana-Fatimida, dei Bani Hilal, giunti in Libia, nell’XI secolo, assieme ai Bani Salim o Banu Salem (in tutto, all’epoca, qualche migliaio).

[12] Località che ospita ugualmente i membri della Tribù arabizzata degli Al Riaina o Rayaina che, per ragioni di rivalità clanistica, si è invece completamente schierata con il Colonnello Gheddafi.

[13] Strano, insomma, che lo sappia io, e non i più alti responsabili del Ministero degli Esteri e del Governo italiano!

[14] Designati variabilmente ed indistintamente con il nome arabo diahl al-sunna wa ‘l-giama’a (letteralmente, le ‘genti della tradizione e dell’assemblea’), di ahl al-Kitab wa ‘l-sunna (le ‘genti del Libro e della tradizione’), di ahl al-giama’a (le ‘genti dell’assemblea o della comunità’), di ahl al-hadith (les ‘genti delle fonti imitative’) o di ahl al-igtima (le ‘genti del consenso’), i Sunniti corrispondono generalmente ad una visione particolare dell’Islam. Quella per l’appunto, che scaturisce da una concezione generalmente maggioritaria e conformista di questa religione, ed allo stesso tempo moderata e realista. Senza essere ‘ortodossi’ – poiché l’Islam non conosce nessun magistero capace di definire una tale norma – i rappresentanti di questa dottrina si presentano come i ‘portavoce qualificati del pensiero di Muhammad (come d’altronde lo farebbe qualunque Setta o Fazione di questa religione) e tendono ad esplicitare il loro pensiero attraverso una catena ininterrotta di garanti, depositari ed interpreti fedeli dell’insegnamento del Profeta.

[15] Vale a dire, quella “scuola” che tende a riconoscersi negli insegnamenti religiosi del teologo Malik inb Anas (m. 795). Le altre “scuole” di rito sunnita, essendo: quella hanafita, del teologo arabo-persiano Abu Hanifa (m. 767); quella shafita, del teologo ash-Shafii (m. 820); quella hanabalita, del teologo Ibn Hanbal (m. 855).

[16] Il Wahhâbismo è una dottrina che è nata in seno alla “scuola” hanabalita. E’ stato fondato (1745) e guidato inizialmente da Mohammed ibn Abd el-Wahhâb (1703 -1792), uno sceicco arabo della tribù dei Banû Tamim, e futuro alleato del principe Mohammed ben Saoud ben Mohammed, detto ibn Saoud (1710 -1765), il capostipite dell’attuale monarchia saudita. Da cui, il fatto che il Wahhâbismo è stato, e continua ad essere, la tendenza religiosa ufficiale dell’attuale Arabia Saudita.

[17] “Seguaci di Zaid ibn ‘Ali (riformatore religioso musulmano dell’VIII secolo, nipote di Husayn – uno dei figli del quarto Califfo ‘Ali e, dunque, parente del Profeta Muhammad) e costituenti una delle più importanti correnti Shi’ite” (http://www.sapere.it/enciclopedia/Zaiditi.html). Gli affiliati a questa Confraternita continuano a possedere alcuni centri di influenza politico-religiosa sulle montagne a Sud del Caspio e nello Yemen, con qualche propaggine in Africa.

[18] Dalla radice QaRa’A che significa recitare, recitare salmodiando, declamare, leggere, leggere attentamente, studiare. Chiamato ugualmente El–tenzît (“la Rivelazione”) o Kitâb-Allah (“il Libro di Dio”) o El-Kitâb (“il Libro”), l’intero Corano comprende 114 Sure (o Capitoli); ogni Sura è composta da un numero variabile di Ayat o āyyāt (versetti), per un totale di all’incirca 6.236 versetti e 77.250 parole.

[19] Seguire, cioè, senza discuterle, le decisioni dell’Autorità religiosa, nei vari campi abbordati, senza dovere necessariamente esaminare, criticare o rimettere in discussione le interpretazioni verbali o scritte che hanno inizialmente giustificato quella decisione.

[20] Lo sforzo, cioè, che originariamente fu compiuto dai primi ‘Ulemā (Teologi), dai primi Mufti (Responsabili che sono in grado dare delle risposte decisive su delle controversie o di fare conoscere la verità attraverso una risposta giuridica) e dai primi Fuqahā (Giuristi) musulmani, per cercare di interpretare il più oggettivamente possibile i testi fondatori dell’Islam e poterne dedurre la Sha’ria (il “Diritto musulmano”). Questo, al solo fine di potere correttamente informare i fedeli di questa religione, a proposito di ciò che, per loro, è lecito, illecito o disapprovato/vietato.

[21] “Pretesa che fu condannata a Cairo, già nel 1843, da un malikita, le Sheik ‘Alaish, l’avversario di Jamâl al-Din al-Afghani” (Henri Laoust, Les schismes de l’Islam, Payot, Paris, 1983, pag. 355).

[22] Romanzo scaricabile su questo sito: http://www.livres-et-ebooks.fr/ebooks/Mathias_Sandorf-4608/

[23] Per esteso: Sheikh Sidi Muhammad ben Ali ben El Senussi el Khettabi el Hassani el Idrissi el Mehajiri.

[24] Dico “pretendeva”, in quanto, essendo di origine berbera, difficilmente, a mio giudizio, avrebbe potuto discendere da Abu al-Qâsim Muhammad ibn ‘Abd Allah ibn ‘Abd al-Muttalib ibn Hâshim (in chiaro: Muhammad, figlio di Abdallah e di Aamina, appartenente al Clan degli Hâshim ed alla Tribù araba dei Quraysh), Messaggero di Allah (Rassul-Allâh), Vicario (Khalifa) e Sigillo dei Profeti (Khatam-al-Nabíyín). In altre parole, il nostro Maometto.

[25] Luogo abbastanza conosciuto, in Italia, poiché li – tra il 9 Febbraio ed il 21 Marzo del 1941 – si svolse la celebre ed eroica resistenza ad oltranza del presidio militare italo-libico comandato dal Colonnello Salvatore Castagna, che era stato accerchiato da preponderanti forze britanniche ed australiane, nel corso della Seconda guerra mondiale (per saperne di più sull’argomento, vedere: Salvatore Castagna, «La difesa di Giarabub», Ed. Longanesi & C., Milano, 1958).

[26] Che è considerato, dai fedeli di questa Confraternita, il Mahdi (Imam nascosto) o il Sahib al-waqt (o Maestro dell’ora) della fine dei tempi, che un giorno ritornerà sulla Terra, per ristabilire la pace e la giustizia.

[27] Saggezza o Benedizione (inviata da Allah).

[28] In arabo: taleb o t’aleb = studente; tolba o t’olba = studenti. Da cui, l’appellativo forzatamente occidentalizzato di “talebani” che è stato diffuso, dai Media, nel contesto di un altro scenario di “guerra per la pace”: quello che conosciamo dal 2001, da quando è iniziata la Guerra in Afghanistan.

[29] Per farsene un’idea e cercare di capire, vedere: http://salvatoretamburro.blogspot.com/2011/03/libia-colpo-di-stato-usa-nato-in-atto.html

 

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Libia. Dalla guerra civile alla guerra del petrolio

Libia. Dalla guerra civile alla guerra del petrolio

di Sergio Cararo

 Fonte: megachip [scheda fonte]

 

“E’ una rivolta dei giovani. Sono loro che hanno iniziato la rivoluzione… noi ora la stiamo completando”. In questa breve considerazione che il colonnello Tarek Saad Hussein riferisce al settimanale statunitense “Time” a fine febbraio, è possibile comprendere gran parte del processo che è stato impropriamente definito come “rivoluzione libica” (1)

pompeguerrPerché è saltato l’equilibrio di potere di Gheddafi? Chi sono “quelli di Bengasi”? Questa è una vera guerra del petrolio, rivelatrice della competizione globale e piena di incognite

 

 

Il col. Hussein è uno degli alti ufficiali del regime di Gheddafi passato quasi subito con i ribelli di Bengasi. Insieme a lui c’è tutto un settore rilevante dell’apparato statale del regime che ha dato vita allo scontro mortale con Gheddafi per sostituirlo con una nuova leadership. E’ vero, hanno mandato prima avanti i giovani. A Bengasi il 15 febbraio erano stati i giovani e i familiari dei prigionieri politici della rivolta del 2006 nella capitale della Cirenaica ad essere scesi in piazza davanti al commissariato dentro cui era stato rinchiuso l’avvocato Ferhi Tarbel, difensore degli arrestati nella rivolta di cinque anni prima. La manifestazione del 15 febbraio era stata repressa duramente – come purtroppo è la norma in Libia e in tutti i paesi del Medio Oriente. Due giorni dopo, una nuova manifestazione, vedeva però i manifestanti, già armati, passare subito all’escalation sul piano militare contro i poliziotti del regime di Gheddafi (2)

Una tempistica rapidissima e bruciante che non ha avuto neanche il tempo di manifestarsi come rivolta popolare di piazza per diventare subito una guerra civile. E’ vero, hanno iniziato i giovani, esattamente come avevano fatto i loro coetanei in Tunisia, Egitto, Algeria o – in tempi e modi diversi – nelle strade di Roma o nelle banlieues francesi. Avevano tutte le ragioni per farlo, anche nella Libia di Gheddafi. Ma dietro i giovani libici, hanno preso subito la situazione in mano – piegandola ai loro interessi - gli uomini del vecchio apparato di regime in rotta con il leader e ansiosi di ridefinire gli equilibri interni sconvolti dalla crisi finanziaria del 2008/2009 e dalle misure “liberiste ma non liberali” introdotte da Gheddafi nel 2003.

La brusca e feroce escalation militare nella brevissima rivolta popolare libica, ci ha convinti che quella avviatasi era piuttosto una guerra civile e per alcuni aspetti con tutte le caratteristiche di una “guerra di secessione” come avvenuto negli anni Novanta in Jugoslavia o più recentemente in Sudan. Una guerra civile ed una possibile secessione della Libia alla quale non sono certo estranei gli interessi delle potenze europee e degli USA sul petrolio e il gas libico.

Su questa valutazione abbiamo introdotto una prima chiave di lettura sulla crisi in Libia che ci ha portato molti consensi ma anche numerose critiche in molti ambiti della sinistra, persino di quella più radicale.

 

 

 

 

 

 

 

Con il brutale e consueto intervento militare, con i bombardamenti sulla Libia da parte di Francia, USA, Gran Bretagna ed altre potenze della NATO, la discussione potrebbe dirsi conclusa attraverso la realtà dei fatti. I fatti spiegano la realtà meglio di mille opinioni. Eppure riteniamo che questa vicenda della Libia debba e possa prestarsi ad un lavoro di chiarezza, informazione, formazione di un punto di vista critico e rivoluzionario della realtà, che stenta enormemente a farsi strada tra tante soggettività della sinistra e degli stessi attivisti dei movimenti No war.

Perché è saltato l’equilibrio su cui si reggeva il potere di Gheddafi?

Uno splendido articolo del direttore del giornale arabo Al Quds Al Arabi segnala la preoccupazione per uno scenario che spiani la strada a quello che l’autore definisce il “Chalabi libico”. Abd al Bari Atwan, direttore palestinese di questo autorevolissimo giornale in lingua araba, descrive perfettamente la trappola dentro cui Gheddafi è caduto – volontariamente – per mano dei suoi nuovi amici occidentali, i quali, secondo Atwan, “hanno utilizzato con il colonnello libico lo stesso scenario che avevano utilizzato con il presidente iracheno Saddam Hussein, con alcune necessarie modifiche che sono il risultato delle mutate condizioni e della differente personalità di Gheddafi”. Il colonnello si è disperato perché i suoi nuovi amici occidentali non lo hanno aiutato mentre i ribelli di Bengasi lo stavano accerchiando. Se l’alleanza occidentale era stata costretta a sbarazzarsi di Mubarak, afferma Atwan, perché mai sarebbe dovuta intervenire a salvare Gheddafi? L’illusione del leader libico derivava dalle concessioni fatte a USA e Gran Bretagna nel 2000 e che nel 2003 lohanno portato fuori dalla lista nera dei “rogues states” e quindi lontano dai bersagli della guerra infinita scatenata dall’amministrazione Bush nel 2001.

 

 

 

 

“Washington e Londra hanno utilizzato l’esca della “normalizzazione” e della riabilitazione del regime libico, che avrebbe aperto la strada al suo ritorno nella comunità internazionale in cambio della sua rinuncia alle armi di distruzione di massa” – osserva Atwani – “Ciò avvenne nel 2003, cosicché americani e britannici poterono dire che la loro guerra in Iraq aveva cominciato a dare i suoi frutti. Dopo averlo spogliato delle armi di distruzione di massa, lo hanno adescato spingendolo a porre le sue riserve di denaro nelle banche americane e ad aprire nuovamente il territorio libico alle compagnie petrolifere britanniche ed americane, ancora più che in passato”. (3)

L’analisi dell’analista palestinese è spietata ma pertinente: “L’errore più grave che Gheddafi ha commesso è stato quello di fare all’Occidente tutte le concessioni che quest’ultimo gli chiedeva, e di non fare invece alcuna concessione al suo popolo che gli chiedeva libertà, democrazia e una vita dignitosa”.

La storia degli ultimi dieci anni ci racconta di un Gheddafi che ha aperto agli investimenti stranieri in cambio del ritiro delle sanzioni economiche a cui la Libia era sottoposta da anni. Non solo, nel 2033 vara un pacchetto di misure che include la privatizzazione di 360 imprese statali. “La Libia dopo la svolta compiuta da Gheddafi nei primi anni 2000” si è aperta agli investimenti occidentali - scrive un autorevolissimo sito specializzato sul Medio Oriente – Nel paese sono affluiti capitali italiani, inglesi, americani, turchi, cinesi”. Nel 2003 la Libia era diventata una delle nuove frontiere della globalizzazione del continente” – riferiscono gli analisti dell’autorevole sito Medarabnews – “il nuovo Eldorado per molte società europee e americane” (4)

Mentre la produzione petrolifera è rimasta bloccata dalle quote imposte dall’OPEC (ma con significativi aumenti del prezzo del petrolio), tra il 2003 e il 2007 la produzione di gas naturale libico è praticamente triplicata. Non solo, la qualità e i costi di recupero del greggio relativamente bassi del petrolio libico, “rendono la Libia un importante attore del settore energetico globale” (5).

La Libia si è trovata così a disporre di una enorme liquidità finanziaria da investire – tramite il boom dei fondi sovrani sviluppatisi nei paesi petroliferi – in banche e attività nei maggiori paesi capitalisti. Da qui l’entrata in Unicredit, Finmeccanica, Eni o la permanenza nel capitale della Fiat.

Per il regime di Gheddafi sono dieci anni d’oro dopo anni di embargo e ostracismo. Incontri con Condoleeza Rice e l’amministrazione USA. Incontri favolosi con Berlusconi (ma anche con Prodi). Non solo. Vengono siglati dei Trattati bilaterali con i paesi europei che sono posti a guardia delle due maggiori vulnerabilità dell’Unione Europea: garanzie dell’approvvigionamento energetico e blocco delle ondate migratorie. Gheddafi diventa così il garante di entrambe.

Qualche giorno prima degli incidenti di Bengasi a febbraio, lo stesso Fondo Monetario Internazionale il 9 febbraio rilasciava una valutazione del nuovo corso libico quasi entusiasta: “Un ambizioso programma per privatizzare banche e sviluppare il settore finanziario è in sviluppo. Le banche sono state parzialmente privatizzate, liberati i tassi di interesse e incoraggiata la concorrenza” (6)

A sconquassare la “Belle Epoque” libica, così come del resto del mondo legato al ciclo economico del capitalismo euro-statunitense, è arrivata la crisi finanziaria e globale del 2008/2009. Secondo alcuni osservatori attenti a valutare le conseguenze della crisi libica sull’Occidente, il punto di rottura è stato proprio questo: “La crisi finanziaria tra il 2008 e il 2009, ha ridotto del 40% i ricavi dei pozzi di petrolio, intaccando il rapporto tra il capo e le tribù, che con la ribellione stanno rompendo il patto economico e d’onore” (7).

E’ la crisi globale, dunque, la stessa crisi sistemica che sta squassando i capitalismi negli USA e in Europa a mettere in crisi l’equilibrio raggiunto tra Gheddafi e le varie componenti (economiche e tribali) su cui si è retto per 41 anni il regime libico. Ma non c’è solo questo.

La svolta panafricana di Gheddafi nel 1997, che porta alla rottura definitiva con l’ipotesi panaraba perseguita fino ad allora, apre le frontiere della Libia ad una enorme immigrazione dall’Africa che destabilizza gli equilibri nella popolazione, nel mercato del lavoro e nella distribuzione delle rendite petrolifere. Su una popolazione libica di 6,5 milioni di abitanti, si tratta di “circa un milione e mezzo (forse due milioni, nessuno conosce la cifra esatta) di lavoratori provenienti da paesi come il Mali, il Niger, la Nigeria, Il Sudan, l’Etiopia, la Somalia etc. forniscono manodopera a bassissimo costo per l’industria petrolifera, il settore edile, quello dei servizi, l’agricoltura” ma l’apertura delle frontiere libiche all’Africa sub-sahariana “suscita gravi tensioni nel paese a causa dell’enorme afflusso di immigrati” (8)

L’effetto di questa immigrazione nelle relazioni sociali in Libia, è anche la causa della vera e propria esplosione di episodi razzismo contro gli africani (additati come “mercenari di Gheddafi”) da parte dei ribelli di Bengasi, segnalati anche da Amnesty International e Human Rights Watch e da tutti i corrispondenti e inviati nelle zone controllate dai ribelli.

“La rivolta libica ha innescato la più vasta esplosione di violenza razziale registrata in un paese nordafricano….Lo stesso regime del Colonnello è corresponsabile di un’ondata di razzismo cos’ feroce. I nemici del colonnello stanno istigando sciovinismo e xenofobia contro i neri africani. Permettere che un simile, palese fanatismo razzista si diffonde all’interno delle aree “liberate” è rischioso” scrive un autorevole giornale arabo decisamente ostile a Gheddafi (9).

Chi sono “quelli di Bengasi”?

La domanda che in molti si pongono e alla quale pochi sanno o vogliono dare risposte è: chi sono i ribelli contro Gheddafi? Qualcuno la risolve con troppa semplicità definendoli come “il popolo libico” e dunque i nostri alleati morali e politici. Altri brancolano totalmente nel buio. Altri ancora li guardano con sospetto solo dopo averli visti inneggiare ai bombardamenti della NATO sulla Libia così come fecero i kossovari dell’UCK in Jugoslavia nel 1999. Conoscere serve per capire, e capire serve a definire la propria azione politica.

Secondo alcuni analisti dei think thank vicini alla NATO e ai suoi circoli in Italia, l’interrogativo è se la rivolta contro Gheddafi e nelle rivolte avvenute nei paesi del Maghreb “evolverà verso un nuovo sistema politico più stabile, in grado di soddisfare le esigenze delle nuove classi che hanno iniziato questo processo, oppure se, in mancanza di ciò, gli stati arabi continueranno a indebolirsi fino a fallire” (10).

La rottura del patto con Gheddafi, farebbe emergere in Libia “l’esistenza di una elite di funzionari civili e filo-occidentali che in queste ore sta prendendo le distanze dalla carneficina scatenata da “cane matto” sostiene l’Istituto Affari Internazionali (11).

Altri analisti preferiscono alimentare lo schema secondo cui la rivolta libica è stata in tutto simile a quelle della Tunisia e dell’Egitto, con un ruolo preponderante dei giovani e soprattutto di giovani interni alla modernità ed estranei alle eredità tribali della struttura sociale libica. “Il movimento ribelle ha dimostrato una maturità democratica insospettata e una stupefacente capacità di auto-organizzarsi e di coordinare le diverse città e le diverse componenti della rivolta. Anche in questo caso i giovani hanno giocato un ruolo di primo piano nella gestione delle proteste e della lotta contro il regime”. E a proposito di giovani gli estensori di questa analisi precisano: “I giovani libici si affacciano sul Mediterraneo e guardano all’Europa. Essi hanno formato la loro coscienza anche grazie a strumenti come internet e i social network che hanno favorito il fluire delle idee e l’abbattimento delle barriere solitamente presenti in un regime dittatoriale” (12).

Questa analisi della composizione dei “ribelli di Bengasi” opta decisamente per una visione generazionale, moderna e conseguentemente democratica della rivolta libica, offrendo un modello perfettamente coincidente con quanto le società civili europee potrebbero e vorrebbero desiderare per sentirsi in una sorta di comunità di destino con i ribelli libici.

Altri osservatori insistono invece molto sulla dimensione tribale dei rivoltosi contro Gheddafi. In alcuni casi la strumentalità di questa analisi è evidente cercando di alimentare il punto di vista sionista e neoconservatore statunitense. Secondo costoro i ribelli di Bengasi o già sono o possono diventare manovalanza per l’estremismo islamico. Le notizie sull’emirato islamico fondato a Derna dai ribelli anti-Gheddafi hanno circolato abbondantemente ma non hanno trovato finora conferme significative. Certo, la Cirenaica è la regione libica dove l’influenza dei gruppi islamisti – nonostante la repressione – è rimasta più forte. L’ultima rivolta – quella di Bengasi nel 2006 contro le provocazioni del ministro italiano Calderoli – era apertamente ispirata e sostenuta dai gruppi islamisti e fu repressa da Gheddafi con il consenso e il plauso di tutti i governi europei, arabi “moderati” e dagli Stati Uniti.

In altri casi, la chiave di lettura dello scontro tribale non indugia nell’alimentare il fantasma di Al Qaida, ma segnala come la struttura tribale della Libia abbia da un lato impedito la costruzione di uno Stato propriamente detto e dall’altra ne minaccia la precipitazione tra “gli Stati falliti” evocando lo spettro della Somalia. Secondo un esperto statunitense di un centro studi sul Medio Oriente ed ex agente della CIA nella regione, le tribù contano molto, anzi “sono decisive” nella guerra civile in atto in Libia. “Dopo essere state per quarant’anni obbligate a ubbidire ai desideri del colonnello e della sua tribù, che è molto piccola, ora vedono la possibilità di rovesciare l’equilibrio delle forze, prendendosi molte rivincite” (13).

Certo la struttura tribale in Libia non è affatto un dettaglio. Alcuni ne contano 140 alle quali apparterrebbero l’85% dei libici, di cui due/tre più importanti di altre. Gheddafi negli anni ’90, aveva rinnovato la propria alleanza con i leader tribali, le tribù diventarono di fatto i garanti dei valori sociali, culturali e religiosi del paese. In particolare strinse un’alleanza con la tribù Warfalla, la principale tribù della Tripolitania (circa un milione di persone). I posti chiave dei servizi di sicurezza vennero dati ai membri delle tribù Qadhafha e Maqariha, la prima è la tribù dello stesso Gheddafi, alla seconda appartiene l’ex delfino Jalloud defenestrato più di vent’anni fa. Entrambe erano il nucleo centrale della Rivoluzione del 1969.

Se è vero che con la crisi finanziaria del 2008/2009 c’è stata una severa riduzione della torta da spartire nel patto tra le tribù, l’ipotesi che questo abbia coinciso con lo scontro interno al gruppo dirigente libico e determinato la guerra civile, appare estremamente plausibile. Sicuramente il fattore tribale non è affatto rimovibile da una seria analisi della composizione dei “ribelli di Bengasi” e in qualche modo offusca l’idea di una rivolta fatta solo di giovani con l’Ipod e il computer che aspirano alla democrazia e che “guardano all’Europa”.

Ma sulla composizione dei ribelli di Bengasi e del Consiglio Provvisorio di Transizione , una struttura che è stato riconosciuta ufficialmente dalla Francia e che alcuni pacifisti guerrafondai o bellicisti umanitari vorrebbero far riconoscere anche dal governo italiano, ci sono ancora alcune cose da dire e non certo per importanza.

Non può non colpire il fatto – non l’opinione – che tra i membri più influenti del Consiglio Provvisorio di Bengasi ci siano tanti esponenti del vecchio apparto del regime di Gheddafi.

Il presidente è l’ex ministro della giustizia libico Mustafà Abdel Jalil, bengasino come lo è l’ex ministro degli interni, il generale Abdul Fattah Younes passato con i ribelli alla fine di febbraio. Praticamente due che hanno condiviso con il regime la repressione e la “giustizia”…fino a febbraio.

L’ex generale ed ex ministro Abdul Fattah Younes “è stato già individuato dagli osservatori internazionali come possibile attore del futuro della Libia; il ministro degli esteri britannico William Hague ha già parlato a lungo al telefono con lui” (14)

Ma tra i ribelli ci sono anche l’ ex ambasciatore presso la Lega Araba Abdel Monehim Al Honi, l’ambasciatore presso l’ONU Abdullarhin Shalgam (tra l’altro ex ambasciatore in Italia per moltissimi anni), gli ambasciatori in Inghilterra, Francia (guarda un po’), Spagna, Germania, Grecia, Malta e l’attuale ambasciatore libico in Italia. A Bengasi ci sono poi i militari come il colonnello Hussein citato all’inizio del nostro articolo e tanti altri ex alti ufficiali delle forze armate libiche. Alcuni fonti confermano che Gheddafi nel tempo aveva trascurato le forze armate regolari a vantaggio delle forze di sicurezza personali inducendo malumori, gelosie ma soprattutto riduzioni di prebende tra le gerarchie militari. Su questo hanno indubbiamente lavorato nei mesi precedenti la “rivolta” i servizi segreti britannici, statunitensi, francesi ma anche quelli italiani. “Intuiamo dietro i ribelli un agitarsi dei servizi segreti occidentali, specie anglosassoni, ma non abbiamo un’idea del loro reale livello di coinvolgimento” scrive un importante esperto di Medio Oriente (15).

Ma in questi giorni stanno ormai emergendo con maggiore precisione queste “presenze sul campo”dei corpi speciali delle truppe britanniche al fianco dei ribelli di Bengasi già nei primissimi giorni della “rivolta” contro Gheddafi: “centinaia di militari delle Sas, uno dei corpi più elitari del pianeta, sarebbero infatti in azione al fianco dei ribelli da un mese, con il compito di distruggere i sistemi di lancio dei missili terra-aria del colonnello” scrive il corrispondente da Londra de La Stampa (16)

 

Perché “quelli di Bengasi” non possono essere i nostri interlocutori o alleati

E’ ormai evidente come nel Consiglio Provvisorio di Bengasi sia preponderante una parte dell’ex apparato di potere del regime libico e che, come afferma sardonicamente il colonnello Hussein alla giornalista del Time…”hanno completato la rivoluzione iniziata dai giovani”. I giovani o quelli ispirati a oneste istanze di democratizzazione e autodeterminazione del popolo libico, sono stati immediatamente emarginati e ridotti al silenzio, esattamente come le voci o i cartelloni a Bengasi che si dicevano contrari all’intervento straniero in Libia per regolare i conti con Gheddafi.

Al contrario, il settore ormai prevalente nel Consiglio Provvisorio non vuole una rivoluzione, vuole solo sostituire il potere di Gheddafi con il proprio ed ha trovato nelle potenze europee e negli Stati Uniti, ma anche in certi correnti di consenso “democratico” in occidente, la leva giusta per scalzare dal potere Gheddafi, sostituirlo e dare vita ad una nuova spartizione della ricchezza derivante dal gas e dal petrolio della Libia.

Per fare questo hanno approfittato della congiuntura favorevole derivata dalle rivolte popolari in Tunisia ed Egitto (queste sì possiamo ritenerle tali), hanno mandato avanti i giovani, hanno tentato un colpo di stato e di fronte al suo fallimento hanno scatenato una guerra civile, forti del fatto che quest’ultima aveva maggiore possibilità di “internazionalizzare” la crisi interna libica e favorire l’intervento di agenti esterni. Le bombe della Francia e della Gran Bretagna, i missili statunitensi che stanno piovendo sulla Libia confermano che questo è lo scenario possibile.

Se tolgono di mezzo Gheddafi il cerchio si chiude e lo “scenario A” può realizzarsi.

Se Gheddafi resiste è pronto lo “scenario B”, quello secessionista, che porterebbe la Cirenaica (dove ci sono la maggioranza dei pozzi petroliferi e del gas) nelle mani della camarilla che controlla il Consiglio Provvisorio di Bengasi e gli consentirebbe di trattare direttamente le multinazionali petrolifere di una Francia affamata di petrolio e gas a fronte della crisi del nucleare, di quelle di una Gran Bretagna danneggiate dall’incidente nel Golfo del Messico (la BP), di quelle statunitensi alla ricerca di un petrolio meno caro da estrarre come quello libico rispetto ad altri giacimenti petroliferi costosi come sono le piattaforme in mezzo al mare.

Il terzo scenario – la cosiddetta “Somalizzazione” – per ora viene esorcizzato da tutte le componenti, ma non possiamo negare che le vecchie potenze coloniali cominciano ormai ad agire come apprendisti stregoni seminando in giro più sangue e destabilizzazione che stabilità (vedi Afghanistan, Iraq, Corno d’Africa, Medio Oriente).

 

No all’intervento militare contro la Libia… ma né Gheddafi né Bengasi!!

Vogliamo dirlo chiaro e tondo. Non abbiamo motivo di particolare simpatia per Gheddafi. Ha avuto un suo passato anticolonialista, ha subìto i bombardamenti USA nel 1981 e nel 1986 e gli attacchi militari francesi per le sue iniziative antiegemoniche e anticolonialiste contro gli Stati Uniti e la Francia, ma ha fatto anche volontariamente tutte le scelte che lo hanno riportato nella trappola dell’occidente. Ha firmato trattati bilaterali vergognosi con l’Italia e l’Unione Europea ed ha riportato gli interessi del proprio popolo e dell’economia della Libia dentro gli interessi strategici dei vari competitori imperialisti. Sulla sua sorte possiamo solo augurargli di non finire come Ben Alì e Mubarak fuggiti all’estero e di resistere o morire con dignità nel proprio paese.

Ma vogliamo dire anche chiaro e tondo che nessuno venga a proporre di sostenere o riconoscere “quelli di Bengasi”. Per moltissimi aspetti sono peggiori di Gheddafi. Non sono affatto “il popolo libico in rivolta”, sono solo un gruppo di potere in lotta contro il vecchio apparato di potere.

Il popolo libico, messo alle strette dalla realtà è stato costretto a schierarsi una parte con Gheddafi e una parte con quelli di Bengasi. Le sue legittime aspirazioni alla democratizzazione e alla redistribuzione della ricchezza derivante dalle risorse del paese, al momento non trovano spazio nella polarizzazione seguita alla guerra civile né, tantomeno, nelle priorità degli interessi strategici delle potenze occidentali impegnate nell’intervento militare in Libia.

Per questo abbiamo affermato che quella in Libia non era una rivolta popolare, come avvenuto in Tunisia e in Egitto, ma era una guerra civile via via resa sempre più funzionale agli interessi strategici delle multinazionali europee e statunitensi. Interessi che possono coincidere o divaricarsi rapidamente dentro il Grande Gioco della competizione globale sulle risorse energetiche oggi in una fase resa acutissima dalla crisi internazionale.

 

Quella in Libia è una vera guerra per il petrolio. Rivelatrice e piena di incognite

Emblematico di questa realtà della competizione ormai a tutto campo sul piano energetico, è ad esempio il ruolo giocato dentro la Lega Araba e contro la Libia dalle petromomarchie arabe del Golfo riunite nel Consiglio di Cooperazione del Golfo. Da un lato hanno ottenuto con questa collaborazione all’attacco militare che nessun membro della “comunità internazionale” mettesse becco sulla repressione contro le rivolte popolari in Yemen e Barhein (dove c’è stato addirittura l’intervento militare diretto dell’Arabia saudita nella repressione). Emblematico anche il ruolo dell’emirato del Qatar – azionista di riferimento della televisione satellitare Al Jazeera – che non solo ha inviato quattro aerei da combattimento a bombardare la Libia, ma che stavolta ha affiancato l’altra emittente satellitare Al Arabija (sotto controllo saudita) nel lavoro di manipolazione informativa e di legittimazione dell’attacco militare in Libia.

Dall’altro le petromonarchie arabe del Golfo hanno svolto il ruolo di garanzia sia alle forniture petrolifere per i paesi europei di fronte al buco apertosi con l’interruzione delle forniture libiche, sia di garanzia affinchè le transazioni petrolifere continuassero ad essere pagate in dollari (un enorme assist per l’economia USA alle prese con un debito pubblico stellare), sbarrando così la strada all’ipotesi che qui e là veniva emergendo, di pagamento in euro e yuan cinese nelle transazioni petrolifere da parte di diversi paesi petroliferi come l’Iran, il Venezuela, la Libia, la Russia e … la Libia, una sorta di nuova Opec diversa e separata da quella sotto stretto controllo saudita.

E’ evidente come la stessa crisi del nucleare esplosa insieme alla centrale atomica di Fukushima in Giappone, espone alcune potenze come la Francia a tutta la vulnerabilità di un sistema energetico fondato proprio sul nucleare. La fretta e l’oltranzismo di Sarkozy nello scatenare la guerra sulla Libia non è solo per recuperare l’immagine offuscata dalla vicenda Tunisia o un riequilibrio sul piano militare verso la Germania dominante sul piano economico nella gerarchia dell’Unione Europea (in questo agisce il solito gioco di sponda con la Gran Bretagna), ma è anche il diktat delle multinazionali del petrolio e del gas francesi al loro governo per assicurarsi almeno una parte dei molto vicini giacimenti libici e delle multinazionali del nucleare affinchè – a fronte di una impennata dei prezzi petroliferi dovuti alla guerra in Libia – l’opzione nucleare francese continui a rimanere ben presente sul terreno nonostante lo stop all’atomo che sta crescendo dopo la catastrofe nucleare in Giappone.

L’intervento militare delle potenze della NATO nel conflitto, a sostegno di una fazione (quella di Bengasi) contro l’altra fazione (quella di Gheddafi), conferma la validità della tesi della guerra civile e non di una rivolta popolare in Libia. Ma questa per noi non può essere una consolazione. E’piuttosto la consapevolezza della drammaticità della crisi globale dell’economia capitalista e della brusca ridefinizione dei rapporti di forza internazionali, cioè di quel piano inclinato del capitale che indicammo chiaramente all’inizio di questo decennio e che sembra portare la civiltà del capitalismo verso un baratro dove sta trascinando l’intera umanità.

O da questa crisi di civiltà del capitalismo o sapremo far emergere una nuova opportunità per le forze “rivoluzionarie” in grado di invertire la tendenza oppure, come diceva il vecchio Marx, rischia di concludersi “con la fine di tutte le classi in lotta”.

 

Note:

(1) Corrispondenza di Abigail Hauseloner sul “Time” del 26 febbraio 2011

(2) “Così è nata la rivoluzione. Per i soldi non per l’islam”, La Stampa del 2 marzo 2011

(3) Abd Al Bari Atwan. “Attenti al Chalabi libico” su Al Quds Al Arabi del 2 marzo 2011

(4) L’emirato libico e il letargo dell’Europa. In www.medarabnews.com febbraio 2011

(5) “Crisi libica e impatto energetico con l’Italia” in Affari Internazionali del 25 febbraio 2011. Affari Internazionali è una pubblicazione web dell’Istituto Affari Internazionali, un think thank italiano strettamente legato agli ambienti NATO e filo-atlantici.

(6) www.imf.org/external/mp/sec/pn/2011

(7) “E se il rais resta al potere? Tre scenario per l’Occidente”, Corriere della Sera, 4 marzo 2011

(8) Analisi redazionale di Medarabnews. com del 16 marzo 2011-03-20

(9) Al Ahram weekly del 16 marzo 2011

10) “Nord Africa, rivoluzione o Gattopardo?”; Stefano Silvestri su Affari Internazionali del 14 /2/2011

11) “Libia è il momento di interferire”, Roberto Aliboni su Affari Internazionali del 24 marzo

12) Analisi redazionale di Medarabnews.com del 25 febbraio 2011

13) Intervista a Frank Anderson, su La Stampa del 9 marzo 2011

14) Il Foglio del 5 marzo 2011

(15) Giuseppe Cucchi, coordinatore dell’area di politica e sicurezza internazionale di Nomisma. “Tre scenari per la Libia” Pubblicato in Affari Internazionali del 5 marzo 2011.

(16)”I Sas di Sua Maestà a fianco dei ribelli”, su La Stampa del 21 marzo 2011

Tratto da: http://www.radiocittaperta.it/index.php?option=com_conten....


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

 

 

 

 

 

Bernard Lugan sur la Libye

Libye: l'éditorial de Bernard Lugan dans le nouveau numéro de l' "Afrique réelle"

 
Par Bernard Lugan
 
libye,afrique,afrique du nord,affaires africaines,méditerranée,monde arabe,actualité,monde arabo-musulmanLa France a son Lampedusa, mais un Lampedusa à la puissance 10. Pour la seule année 2010, 26 405 clandestins en furent expulsés, ce qui donne une idée du chiffre réel du nombre des arrivants... 
 
Le nom de ce poste frontière submergé est Mayotte, petite île de l’océan indien qui, dans moins de trois semaines, juste après les élections cantonales, « en douce », sans que les Français aient été consultés, va devenir notre 101° département[1]. Par la décision de quelques politiciens irresponsables, toute l’Europe va désormais être accessible aux miséreux de l’océan indien, de l’Afrique orientale et de plus loin encore...
 
Arc-boutés sur l’immédiat, les observateurs n’ont pas vu la portée des récents évènements de Côte d’Ivoire. Le ratissage des quartiers d’Abobo et de Treichville ou les tirs sur des femmes n’ont ainsi été traités que sous l’angle de l’émotionnel alors qu’il s’agit du déroulé d’une stratégie mûrement réfléchie par le camp de Laurent Gbagbo. Quelle est en effet la situation ?
 
1) Comme je ne cesse de le dire depuis le premier jour, l’expédition de la CEDEAO est plus que jamais problématique ;
2) Dans ces conditions, Alassane Ouattara est donc incapable de chasser Laurent Gbagbo du pouvoir ;
3) Gbagbo sait qu’il ne tiendra jamais le nord et Ouattara est conscient qu’il ne s’imposera jamais au sud.
Conclusion : la partition est donc consommée.
 
Certes, mais pour Laurent Gbagbo, un gros problème demeure, celui des nordistes vivant dans le sud, notamment à Abidjan, ville qui a voté à 50% pour Alassane Ouattara. Sa priorité est donc de supprimer cette menace au coeur même de son pouvoir et c’est pourquoi, par la terreur il a entrepris de donner à la ville une plus grande homogénéité ethnique[2]. Son objectif étant d’éviter l’ouverture d’un front intérieur, tout le reste n’est qu’analyses superficielles et émois médiatiques.
 
Le président Sarkozy a reconnu comme représentant du « Peuple libyen » une coalition tribale de Cyrénaïque s’étant donné le nom de Conseil National de l’Opposition.
 
Cette reconnaissance précipitée est particulièrement insolite. En serrant longuement et ostensiblement la main des membres de la délégation du CNO, et cela alors que les marches du palais de l’Elysée étaient encore chaudes des pas du colonel Kadhafi, le président de la République n’a en effet pas reconnu l’ « opposition libyenne », mais les seuls représentants des tribus insurgées de Cyrénaïque ce qui, convenons-en, n’est pas exactement la même chose…
 
En écoutant BHL et non les spécialistes de la région, le président Sarkozy a donc involontairement redonné vie au plan Bevin-Sforza rejeté par les Nations Unies en 1949. Ce plan proposait la création de deux Etats, la Tripolitaine, qui dispose aujourd’hui de l’essentiel des réserves gazières, et la Cyrénaïque qui produit l’essentiel du pétrole.
 
Voilà donc la première étape de ce plan oublié désormais réalisée avec la reconnaissance par la France, suivie par l’UE, du gouvernement insurrectionnel de Cyrénaïque. Plus important encore, Paris a annoncé l’envoi d’un ambassadeur à Benghazi, capitale de cette même Cyrénaïque…
 
A l’heure où ces lignes sont écrites (13 mars 2011), et comme la coalition des tribus de Tripolitaine semble se maintenir autour du colonel Kadhafi dont les forces paraissent avoir repris l’offensive, deux Etats existent donc sur les ruines de la défunte Libye : la Cyrénaïque - provisoirement ? - aux mains des insurgés, et la Tripolitaine.
 
C’est à partir de cette donnée qu’il convient d’analyser la situation, tout le reste n’étant une fois encore que stérile bavardage, vaine gesticulation et soumission à la dictature de l’émotionnel.
 
Notes
 
[1] Que Mayotte soit à la France, bien évidemment oui pour des raisons diverses, mais que Mayotte soit la France est une toute autre affaire et comme nous ne cessons de le dire dans les divers numéros de la revue, il y avait d’autres alternatives à la départementalisation.
[2] Laurent Gbagbo ne fait que s’inspirer de ce qu’avaient fait avant lui les Bosniaques musulmans qui déserbisèrent Sarajevo par le massacre ou encore avant eux le FLN algérien quand il provoqua l’exode des Européens comme nous l’expliquons à l’intérieur de la revue.
 
L'Afrique réelle cliquez ici

 

lundi, 21 mars 2011

Bomben im Namen der Humanität

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Bomben im Namen der Humanität

Michael Wiesberg

Aus: http://www.jungefreiheit.de/

Seit dem Wochenende bombt nun eine neuerliche „Koalition der Willigen“; vorgeblich um in Libyen im Namen der Menschlichkeit eine Flugverbotszone durchzusetzen („Operation Odyssey Dawn“). Das geschieht just in dem Moment, in dem sich die Waagschale zugunsten Gaddafis zu neigen begann, der mit seinen Truppen bereits vor der Rebellenhochburg Bengasi stand, dem Ausgangspunkt der Revolte.

Damit steht die konkrete Gefahr im Raum, daß der zum „Menschheitsfeind“ hochgeschriebene Gaddafi an der Macht bleiben könnte. Die Prognose in meinem letzten Blog, nämlich daß sich der Westen in eine Lage manövriert hat, die nur noch eine militärische Intervention zuläßt, wenn Gaddafis politisches Überleben droht, hat sich damit bereits einige Tage später als zutreffend erwiesen.

Umfassende militärische Intervention

Den Luftschlägen vorausgegangen war in der Nacht vom Donnerstag zum Freitag eine Resolution im UN-Sicherheitsrat, die vornehmlich von Frankreich, den USA und Großbritannien – Staaten also, die noch vor ein paar Monaten um die Gunst des Gaddafi-Clans gebuhlt haben – betrieben wurde.

Diese Resolution, die mit zehn Ja-Stimmen bei fünf Enthaltungen, darunter auch Deutschland, angenommen wurde, sieht indes nicht nur die Durchsetzung einer Flugverbotszone vor; sie eröffnet überdies die Möglichkeit einer umfassenden militärischen Intervention, wenn in ihr die Rede davon ist, daß „alle notwendige militärische Gewalt“ einzusetzen sei, „um Zivilisten und von Zivilisten bewohnte Gebiete vor Angriffen zu schützen“. Wann das der Fall ist, darüber entscheiden die Gutmenschen der „Koalition der Willigen“.

Die deutsche Stimmenthaltung

Daß sich Deutschland vor diesem Hintergrund der Stimme erhalten hat, ist aufgrund der weitgehenden Implikationen dieser Intervention nachvollziehbar. Entsprechend erklärte der deutsche UN-Botschafter Peter Witte, daß die Anwendung militärischer Gewalt „die Wahrscheinlichkeit von hohen Verlusten an Menschenleben“ erhöhe. Nicht ausgeschlossen werden kann weiter, daß es irgendwann doch zum Einsatz von Bodentruppen kommen wird, um das apostrophierte Ziel zu erreichen, nämlich Gaddafi aus dem Amt zu treiben.

Dessenungeachtet nahm unter anderem der sattsam bekannte Transatlantiker Richard Herzinger, der hier pars pro toto aus der Schar humanitärer Bellizisten herausgehoben sei, die deutsche Stimmenthaltung zum Anlaß für einen Angriff auf Bundesaußenminister Westerwelle, der angeblich „unser Land blamiert“ habe.

Keinerlei „belastbare Informationen“

Deutschland habe sich, so Herzinger, in eine Reihe „mit Rußland und China gestellt“, die er als „notorische Blockierer“  abqualifiziert. Es zeigten sich unter Westerwelle „Symptome einer Regression in die nationalpazifistische Borniertheit“. Herzinger ist indes nicht präzise genug: Deutschland hat sich, um es genau zu sagen, in eine Reihe mit den BRIC-Staaten gestellt, die gemeinhin als Herausforderer der westlichen Führungsmacht USA angesehen werden.

Hier liegen die Frontlinien im Sicherheitsrat und hier liegt der eigentliche Skandal für Richard Herzinger, der als Obergutmensch gerne den publizistischen Herold der „westlichen Wertegemeinschaft“ mimt. Wenn er schon die Argumente Rußlands und Chinas nicht gelten lassen will, sollte er zumindest die indische Begründung für die Stimmenthaltung im Sicherheitsrat studieren. Der indische UN-Botschafter Hardeep Singh Puri erklärte nämlich, der Sicherheitsrat handle, obwohl er über keinerlei „belastbare Informationen“ über die „Lage vor Ort“ verfüge. Überdies gebe es keine Klarheit in Hinsicht auf eine Reihe anderer relevanter Parameter der Intervention. All das sind beste Voraussetzungen für eine neuerliche „Schlacht der Lügen“ mit ihren bekannten propagandistischen Nebelwänden.

Chinas Interessenpolitik

Bleibt die Frage, warum sich China der Stimme enthalten hat, das bei einem politischen Überleben Gaddafis mit Sicherheit zu den Profiteuren gehören würde, weil es einen privilegierten Zugriff auf die Erdölressourcen des Landes in Aussicht gestellt bekommen hat. Der chinesische Botschafter verwies in diesem Zusammenhang auf die Entscheidung der Arabischen Liga, vom UN-Sicherheitsrat die Einrichtung einer Flugverbotszone zu verlangen.

Mit anderen Worten: China vertritt nach Abwägung aller Argumente offenbar die Auffassung, eine Blockade der Resolution könnte womöglich eine Schädigung chinesischer Geschäftsinteressen im arabischen (und westlichen) Raum zur Folge haben und entschied sich deshalb für eine Stimmenthaltung. So hat jede Seite ihre Gründe. Nur eines ist bei diesen Gründen mit Sicherheit nicht ausschlaggebend, nämlich die Durchsetzung von „Frieden und Demokratie“ für die „Menschen in Libyen“. Genau das aber versuchen, um in der Diktion zu bleiben, bornierte Wertegemeinschafts-Bellizisten wie Herzinger e tutti quanti glauben zu machen.

Michael Wiesberg, 1959 in Kiel geboren, Studium der Evangelischen Theologie und Geschichte, arbeitet als Lektor und als freier Journalist. Letzte Buchveröffentlichung: Botho Strauß. Dichter der Gegenaufklärung, Dresden 2002.

 

Libya: Kosovo Redux

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Libya: Kosovo Redux

By Richard Spencer
 

I must confess that I have a half-written blog entry on how the Obama administration has, in essence, given up on the American Empire. Due to fiscal constraints, its own incompetence, and its lack of self-assurance in the wake of Iraq and rising anti-Americanism, the Democratic power elite (along with allies like Robert Gibbs) simply doesn’t have the will to act. It was thus unwilling to save Israel’s ally Hosni Mubarek and has been dragging its feet instituting a no-fly zone over Libya. Actively toppling the Gaddafi regime would be out of the question.

I further argued that this inaction will be opposed and demeaned by the mainstream Republican presidential contenders (with the possible exception of Haley Barbour), who will shriek about how Obama is “appeasing dictators.” (On this front, see the Politico’s recent piece “The Return of the Neocons.”)

I was to conclude that for those of us who think the American Empire is a liability for both the American people and the West in general, the Democrats‘ dilly-dallying is actually preferable to the Republicans’ lunatic war-mongering.

Well, needless to say, my half-written blog has been overtaken by events, and my sense that the Democrats are giving up on empire now seems like wishful thinking.

Instead, what we are experiencing today in Libya is a situation that, in many ways, resembles the last time a Democratic president engaged in major military action overseas.  It’s Kosovo all over again:

  • The UN offers its imprimatur;
  • NATO provides the muscle;
  • The U.S. declares war on a small national regime with no clear objectives or exit-strategy;
  • A statesman (Milošević/Gadaffi), whom Washington had dealt with civilly only months before, is depicted as a Hitlerian menace (and the dutiful media eats it up);
  • The U.S. takes sides in a civil war and uses its air and missile power on behalf of a group (the KLA/Libyan rebels) that is -- at best -- highly dubious.

Libya might actually turn out far worse than Kosovo in that it will eventuate in a failed state and a mass Muslim refugee flow into Europe.

Daniel Larison is quite good on these matters:

The similarities with Kosovo are eerie, and that is a very bad sign for the people living in eastern Libya. Perhaps the only thing worse than intervening in a civil war in which the U.S. and our allies have nothing at stake is to intervene and then opt for those tactics that will do just enough to commit us to the fight without protecting the people our forces are supposed to be protecting. Quite apart from the outrageous harm done to both Albanian and Serb civilians in the prosecution of the air campaign, the war in Kosovo facilitated and caused the mass refugee exodus from Kosovo that it was officially trying to avert. The U.S. and our allies weren’t going to be responsible for what happened to the people in eastern Libya, but our governments have now assumed responsibility for them.

Whatever you want to say about them, the ’99 House Republicans were steadfastly against Clinton’s Kosovo adventure; Gov. George W. Bush (in another life) actually scolded Al Gore for engaging in “nation-building.” After the entire mainstream GOP went “all in” for Iraq, they now have nothing to run on.

Totalitarian Humanism Versus Qaddafi

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Totalitarian Humanism Versus Qaddafi

By Keith PRESTON
 

In past blog postings for AltRight, I have discussed the phenomenon of what I call totalitarian humanism,” a particular worldview that I regard as being at the heart of the most serious political and cultural problems currently facing the modern West. Specifically, I consider totalitarian humanism to be an intellectual and ideological movement among contemporary Western elites that serves as a replacement for older worldviews such as Christianity, nationalism, cultural traditionalism, Eurocentrism, or even Marxism. Such features of modern life as political correctness and victimology serve as a representation of the totalitarian humanist approach to domestic policy. The present war against the Libyan state provides an illustration of what the totalitarian humanist approach to foreign policy and international relations involves.

The regime of Colonel Qaddafi poses no conceivable threat to Western nations. Allegations of Qaddafi’s insanity not withstanding, his substantive efforts over the past two decades to ease tensions between Libya and the West have shown his capabilities for behaving as a rational actor and practicing realpolitik. As recently as August of 2009, Qaddafi was described by David Blair of the Daily Telegraph as having “gone from being the epitome of revolutionary chic to an eccentric statesman with entirely benign relations with the West.” These benign relations ended with the outbreak of the present civil war between Qaddafi and opponents of his regime. Richard Spencer has pointed out the nearly identical parallels between Western intervention in Kosovo in 1999 and the current intervention in Libya. Both interventions serve as prototypes for the vision for the world that our contemporary elites possess. An interesting discussion that aired earlier today on ABC’s This Week cuts to the chase of the matter. Former Congresswoman Jane Harman, now of the aptly named Woodrow Wilson Center, monster neoconservative Paul Wolfowitz, and Wilson Center scholar Robin Wright provided rationales for the intervention that involved no consideration whatsoever of national interests, geopolitical questions, or legitimate defensive concerns. Essentially, their rationales amount to little more than “Qadaffi runs an illiberal regime.”

Libya under Qadaffi represents everything Western elites despise: a conservative, religious, nationalistic, traditional, patriarchal, tribal society that has resisted the penetration of its own culture by the norms of Western, secular, liberal, humanism and globalism. According to the religion of Western elites, Qaddafi is an infidel and must be punished or destroyed. The intervention in Libya is essentially about spreading the Jacobin revolution to the Middle East (a plausible argument of a comparable nature could be made concerning the Bush administration’s invasion of Iraq). The role of the United Nations and the participation of certain usually rather pacific European nations in the assault on Libya is rather telling. The vision of the elites is one where a global super-state maintains an international army whose purpose is the eradication of political institutions and cultural values that fail to conform to the standards of totalitarian humanism. Kosovo and Libya are essentially pilot programs for this future vision.

Die "Libysche Revolution" und die gigantischen libyschen Wasserreserven

Die "Libysche Revolution" und die gigantischen libyschen Wasserreserven

Die Dämonisierung Gaddafi in der westlichen Pressehurerei nach dem Motto: “Ein bißchen Wahrheit vermischt mit einer Menge Lügen” lässt nur zu deutlich darauf schließen, wer hinter der “Libyschen Revolution” steckt. Nachdem die Russen die westliche Presse wieder einmal wegen der angeblichen Bombardierung der Bevölkerung durch Gaddafis Luftwaffe der Lügen strafen konnten, ist es keineswegs mehr von der Hand zu weisen, dass die “Libysche Revolution” in Gänze auf Befehl der einschlägigen Weltbrandstifter in London angezettelt wurde.

Die “eingefrorenen” Milliarden im Ausland, die angeblich im Privatbesitz Gaddafis waren, dürften eher Gelder sein, die dem libyschen Staat gehören. Und an die wollen die Globalisten heran. Wo werden wohl Mubaraks abgebliche 70 Milliarden Auslandsguthaben landen? Und in Zukunft die saudischen , bahrainischen und kuwaitischen Auslandsvermögen? Gewiss nicht bei der Bevölkerung dieser Staaten. Noch lukrativer sind natürlich die Erdölbestände dieser Länder, die bald unter direkter Kontrolle der Londoner City stehen werden.

Gaddafi ist ( oder war) die vielleicht wichtigste Figur in Nordafrika, denn es hat sein Land an die Spitze des afrikanischen Kontinent gebracht und die Erdöleinnahmen Libyens nicht in Paläste, Yachten und Fuhrparks gesteckt, sondern in sein Land investiert. Darauf wurde in diesem Artikel schon eingegangen. Aber das ist noch nicht alles:

Der “wahnsinnige” Gaddafi hat 1980 ein riesiges Projekt zur Wasserversorgung für Libyen, Ägypten, Sudan und den Tschad begonnen und beinahe fertiggestellt. Es ist gefährlich, ohne einen Cent der Weltbank und des IWF ein Projekte durchzuziehen, welches das Potential hat, ganz Nordafrika in einen blühenden Garten zu verwandeln. Das steht dem Ziel der Destabilisierung der Region entgegen, welche die Londoner City anstrebt, um die Weltdikatur der Konzerne durchzusetzen. Am 01. September 2010 konnte der erste Großabschnitt des Projektes nach dreißigjähriger Planung und Bauzeit in Betrieb genommen werden. Das sind 5 Monate vor Beginn der Unruhen, also bevor das Projekt im wahrsten Sinne des Wortes Früchte tragen konnte.

Im Süden Libyens gibt es vier große Wasserreservoirs (Kufra basin, Sirt basin, Morzuk basin und Hamada basin), in denen 35.000 Kubikkilometer(!) Wasser lagern. Um sich von der Größe der Reservoirs ein Bild zu machen: Nehmen Sie die Fläche der Kolonie Deutschland und stellen sie sich einen ebenso großen See mit 100 Metern Wassertiefe vor! Diese quasi unerschöpflichen Wasserreserven sind für die Globalisten, die das Weltwassergeschäft monopolisieren wollen, viel wichtiger, das das libysche Öl! Ein Kubikmeter unbelastetes, extrem reines Wasser kann mit einem Kostenaufwand von unschlagbaren 35 Cent gefördert werden.

Unterstellt man einen Abgabepreis von nur 2 Euro/Kubikmeter (den Globalisten werden sicherlich lukrativere Geschäftsmodelle einfallen), so beziffert sich der Wert dieser Wasserreservoirs höchster Güte auf 58 Billionen (58.000.000.000.000.-) Euro!

Mit diesem Projekt hätte Libyen eine wahrlich “grüne Revolution” in Gang gesetzt und die Versorgung Afrikas mit Lebensmitteln übernehmen können. Vor allem hätte es Libyen und Nordafrika aus den Klauen des IWF befreit und unabhängig gemacht. Selbstversorgung? Ein Reizwort für das Bankster- und Konzernkartell, das auch schon den Jonglei-Kanal vom weißen Nil in den Süden Sudans blockierte, in dem die CIA die Sezessionskriege im Südsudan anheizte.  Die Globalisten setzten lieber auf teure Entsalzungsanlagen, selbstverständlich über die Weltbank finanziert und von ihren Konzernen erbaut.

Am 20.03.2009 konnte man in den Maghreb-Nachrichten lesen:

Libysche Offiziere präsentierten zum ersten Mal auf dem 5. Weltwasserforum in Istambul ein Projekt zur Wasserförderung, das auf 33 Milliarden Dollars geschätzt wurde. Das Projekt wurde als die  8. Weltwunder bezeichnet und  sieht die Errichtung eines künstlichen Flusses vor, damit die Bevölkerung im Norden Libyens mit trinkbarem Wasser versorgt werden können.   Die Projektarbeiten wurden seit 1980 auf Aufrag des libyschen Führers, Muammar Gaddafi, eingeführt. 2/3 des Projekts wurde bereits fertig gestellt. Es handelt sich um eine 4 000 Km lang Wasserleitung, die im Grunde liegendes gepumptes Wüstenwasser durch die libysche Sahara in den Norden fliessen lässt.  „Die Studien zeigten, dass das Projekt kostensparender als die anderen Altrnativen war.“ meldete der für das Grundwassermanagement zuständige  Fawzi al Sharief Saeid.

Lake Gabron, one of the Germa Lakes, Fezzan, Libya. Photo: Martin Spencer Greening the desert projects Like at Jardinah and Sulug near the coast south of Benghazi, there are a few highly irrigated and extremely larger farms in the desert which are irrigated using water from the “Great Man Made River project”. This project taps into huge underground aquifers under the desert. The two largest farms are near Kufra in the central eastern desert and at Makunsah which is 50 kilometres south of the middle of the Germa lake complex. These farms have a micro-climate greatly different from the surrounding desert.

Der Wasservorrat reicht nach Berechnungen bis zu 4.860 Jahren, wenn die davon profitierenden Staaten Libyen, Sudan, Tschad und Ägypten ihn wie es vorgesehen verwenden.

Haben Sie davon schon gehört, oder lesen Sie etwa  die Maghreb-Nachrichten nicht? Warum erfährt man davon im Westen so wenig? Bei der Einweihungsfeier sagte Gaddafi , dass dieses Projekt “die größte Antwort auf Amerika ist, das uns anklagt, den Terrorismus zu befördern.”  Auch Mubarak war ein großer Anhänger des Projekts.

Quelle:

http://www.water-technology.net/projects/gmr/

http://de.wikipedia.org/wiki/Jonglei-Kanal

http://poorrichards-blog.blogspot.com/2011/03/virtually-u...

http://american_almanac.tripod.com/libya.htm

http://www.africanbirdclub.org/countries/Libya/geography....

http://www.goumbook.com/tag/libya/

http://www.politaia.org/kriege/die-libysche-revolution-un...

Der Artikel hier als PDF-Dokument zum herunterladen: Die libysche Revolution

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dimanche, 20 mars 2011

Les enjeux de la bataille pour Tripoli

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Les enjeux de la bataille pour Tripoli

Alexandre LATSA

Ex: http://fr.rian.ru/

Le directeur de l’Institut du Proche-Orient, Evgueny Satanovsky à donné récemment une interview extrêmement intéressante sur la position que la Russie devrait selon lui adopter face aux révolutions dans le monde Arabo-musulman. Cette interview mérite une place dans le panthéon du multilatéralisme et du non-interventionnisme.

Selon lui, ces mutations dont on ne peut pour l’instant réellement prédire l’évolution pourraient également s’étendre aux pays d’Afrique noire (car ceux-ci sont victimes des même maux et que leurs frontières issues de la décolonisation sont fragiles) mais également à certains pays d’Asie comme par exemple le Pakistan, par ailleurs doté de l’arme nucléaire.

Cette potentielle agitation pourrait donc entrainer une modification des frontières mais aussi des grands équilibres internationaux. La Russie, poursuit Evgueny Satanovsky devrait "s’abstenir d’intervenir et conserver son énergie et son argent sur son développement intérieur, et ne pas du tout rentrer dans une logique néo-soviétique d’investissement à perte". Il affirme que "la Russie devrait probablement imiter la Chine qui construit des routes et des chemins de fer sur son territoire et qui ne va au Proche-Orient et en Afrique qu’à la recherche des matières premières". Enfin rappelle t-il "beaucoup de régions russes en Sibérie et en Extrême-Orient ont un niveau de vie inférieur aux pays que la Russie pourrait être tentée d’aider".

Ces révolutions qui se déclenchent ci et là ne sont réellement pas toute de mêmes natures même si on peut leur trouver des points communs, le premier étant d’appartenir à ce grand moyen orient que l’administration Américaine en 2003 s’était juré de remodeler et transformer en une zone libre, comprenne qui pourra. Certes la plupart des pays concernés ont en général une situation interne propice à des explosions sociales mais on peut se poser la question de savoir comment interpréter l’offensive diplomatique et médiatique anti-Kadhafi en faveur de rebelles, en partie Islamistes, mais qui ont déjà les faveurs de Nicolas Sarkozy, de Bernard Henri Lévy et de quasiment toute la communauté internationale. Bien sur le colonel Kadhafi est loin d’être un grand démocrate et la Lybie loin d’être une social-démocratie à l’Européenne, mais la Lybie n’a jamais adhéré à l’Islamisme radical global.

La révolution socialiste y a abouti à la constitution d’un régime qui n’est finalement pas le moins démocratique ni le plus pauvre de la région, et ce malgré 10 ans d’embargo, et un leader ennemi public de la communauté internationale. En 40 ans, la population libyenne à été multipliée par quatre, une classe moyenne éduquée à vu le jour, le taux d'analphabètes était en 2006 de 8% pour les hommes (contre 36% au Maroc et 16% en Tunisie) et 29% pour les femmes (contre 50% au Maroc et 36% en Tunisie). Enfin les droits des femmes y sont mieux défendus que dans nombre d’autres pays musulmans puisque elles sont actuellement majoritaires dans l’enseignement supérieur. Une leçon aux Ben-Ali et autres Moubarak, amis de la communauté internationale, de l’Occident et du FMI, mais incapables d’instaurer le moindre embryon de justice sociale et financière au sein de leurs sociétés.

J’ai brièvement expliqué dans ma précédente tribune le risque quasiment nul qu’une révolution à l’Egyptienne puisse survenir en Russie. Pour autant, la Russie reste très attentive aux derniers évènements, notamment en Libye. Les conséquences que la chute du régime Libyen, souhaitée hâtivement par les Occidentaux, France en tête, auraient par ricochet sur la Russie sont en effet assez importantes. Bien sur depuis le début des évènements dans le monde arabe la Russie profite de la hausse du prix du pétrole qui lui permet de réduire fortement son déficit budgétaire mais également de consolider ses réserves financières. En outre, et peut être surtout, la Russie apparait désormais (et il était temps) à l’Union Européenne comme un fournisseur stable et apte à compenser le manque libyen.

L’analyste Dmitri Babitch à même souligné que la crise Libyenne était d’ailleurs devenue le catalyseur des bonnes relations Russie/UE. Néanmoins cette dépendance confortable et accrue envers l’or noir ne va pas dans le sens voulu par les autorités russes. La Russie souhaite en effet réorganiser et renforcer son industrie et ne souhaite pas s’installer seulement dans la rente pétrolière. Rappelons-nous également que la dernière flambée excessive des prix du pétrole en aout 2008 avait mené (plus ou moins directement) à l’implosion financière mondiale qui a fait tant de mal à l’économie russe. Enfin, les pertes économiques qui pourraient résulter d’un remplacement de Kadhafi ou d’une dislocation à la Yougoslave de la Libye pourraient faire perdre à la Russie des milliards de dollars, que l’on pense aux contrats en cours de vente d’armes, d’extraction de pétrole, de constructions d’installations énergétiques ou hydrotechniques, ou de l’immense projet par les chemins de fers russe de construction d’un réseau ferré à travers tout le pays.

Les évènements en Lybie restent donc aujourd’hui l’équation la plus incertaine pour la Russie. Ce qui justifie les positions neutres et non interventionnistes russes, cherchant sans doute un statuquo. C’est peut être pour cette raison que Kadhafi, après avoir joué la carte du Panarabisme, du Panafricanisme, puis la carte d’un rapprochement désordonné avec l’Occident, vient de sortir un  joker BRIC en appelant  très récemment la Russie, la Chine et l’Inde à investir en Libye. Il est également possible que si les contestations venaient à se généraliser et s’étendre, le Caucase, voir l’Asie centrale pourraient être touchés par ces "agitations non violentes". Pas plus tard que avant-hier, l’Azerbaïdjan a par exemple connu sa première manifestation Facebook.

Bien sur il est possible que ces révolutions entrainent également la chute de régimes plutôt hostiles à la Russie comme en Géorgie, mais pour autant l’instabilité de son étranger proche n’a jamais contribué à sa sérénité intérieure, surtout à la veille d’élections. Evgueny Satanovsky pense lui que "la boite de Pandore est ouverte, et qu’on verra ce qui va en sortir". Une chose est certaine, la Libye pourrait marquer un coup d’arrêt à ces mouvements de protestations si Kadhafi arrivait à restaurer l’ordre et écraser la rébellion, ou les accélérer dans le cas contraire.

La disparition des "dictateurs" a déclenché un courant d’enthousiasme dans de nombreux pays occidentaux, qui comprennent mal l’attitude prudente de la Russie. Il suffit pourtant de regarder le prix de l’essence à la pompe pour comprendre ce qui se passe. Si d’autres producteurs de pétrole sont déstabilisés, notamment dans le golfe arabo-persique, c’est la faible croissance économique des USA et de l’Europe occidentale qui sera menacée en premier.


"Un autre regard sur la Russie": Tunis, Le Caire, mais pas Moscou!

Nicht nur Libyen brennt : Islamistische Gewalt in Ägypten und Tunesien in beängstigendem Ausmass

 

Nicht nur Libyen brennt : Islamistische Gewalt in Ägypten und Tunesien in beängstigendem Ausmass

Geschrieben von: Robin Classen 

Ex: http://www.blauenarzisse.de/  

 

GaddafiDie Ereignisse in Nordafrika überschlagen sich, der Überblick droht für den Westeuropäer immer mehr verloren zu gehen. Die Volksaufstände, die ihren Ausgang in Tunesien fanden, haben sich nach der erfolgreichen ägyptischen Revolution nun auch auf dutzende andere arabische Staaten ausgebreitet. Selbst ölreiche Staaten wie Saudi-Arabien, die ihre Bevölkerung seit Jahrzehnten mit „Brot und Spiele“ bei Laune halten, haben bereits prophylaktische Demonstrationsverbote und ähnliche repressive Anordnungen erlassen. Am stärksten wütet der Volkszorn der arabischen Welt momentan jedoch in Libyen, dem seit Jahrzehnten vom Gaddafi-Clan in diktatorischer Art und Weise geknechteten nordafrikanischen Nachbar von Tunesien und Ägypten.

Seit Wochen sind sowohl Printmedien als auch Fernsehen und Internetmagazine voll von Meldungen über den Stand der Kämpfe in Gaddafis Staat, so dass die Entwicklungen in Ägypten und Tunesien völlig ins Hintertreffen geraten. Die befürchtete islamisch-religiöse Dimension der Konflikte scheint sich dort derweil zu bestätigen. In Tunesien, dem wohl liberalsten nordafrikanischen Land, wurden die Rotlichtviertel in Tunis von Islamisten abgebrannt und ein polnischer Priester enthauptet.

Noch dramatischer ist die Lage in Ägypten, welches momentan bereits an der Schwelle zum islamistischen Gottesstaat steht. Die schon während der Revolution auftretenden Berichte über Angriffe auf koptische Kirchen und Kloster haben sich verdichtet. Die imposante Kirche des Heiligen Georg in Rafah wurde beispielsweise komplett ausgebrannt und geplündert. Als die koptische Gemeinde wenigstens die Kirchturmglocke reparieren wollte, rief dies einen 3000-Mann starken islamischen Mob auf den Plan, der mit Macheten bewaffnet das koptische Heiligtum stürmen und komplett zerstören wollte. Außerdem wurden christliche Kloster von der ägyptischen Armee beschossen, die Mauern mit Bulldozern eingerissen und Priester in den heiligen Gemäuern mit Maschinenpistolen hingerichtet.

Verdrehte Freund- und Feindbilder in den westlichen Medien

Berichtet wurde über diese Vorkommnisse in den Medien so gut wie gar nicht, was wohl daran lag, dass man eine solche Entwicklung der arabischen Revolution schon zu Beginn hätte erahnen können, aber nicht hat wahrhaben wollen. Wie verdreht die Freund- und Feindbilder der westlichen Medien schon bei den ersten Demonstrationen in Ägypten waren, zeigte sich bereits an der Vergewaltigung der amerikanischen Journalistin Lara Logan. Diese dachte offensichtlich im neuen, angeblich demokratischen Ägypten in westlicher Kleidung auftreten zu können. Während sie von Anhängern der „Demokratiebewegung“ geschlagen, getreten und letztlich einer Massenvergewaltigung zum Opfer fiel, waren es die „Schlägerbanden“ und „Mörder“ Mubaraks, die die Frau aus den Händen des islamistischen Mobs retteten.

Interessant ist, dass nach dem Rücktritt Mubaraks die Berichterstattung in den westlichen Medien praktisch ausgesetzt, in den arabischen Medien aber erst richtig angefangen hat. Die Information, dass eine der größten Demonstrationen auf dem Tahrir-Platz erst nach dem Sturz-Mubaraks stattgefunden hat, wurde in Tagesschau und Heute-Journal mit keiner Silbe erwähnt, wohingegen der islamische Sender Al-Jazeera seinem Publikum Live-Bilder sendete. Die Versammlung auf dem Tahrir-Platz, von der die Rede ist, war anlässlich einer Ansprache des islamistischen und radikal-antisemitischen Fernsehpredigers Yusuf al-Qaradawi, der nach Jahrzehnten des Exils – Islamisten waren unter Mubarak in Ägypten unerwünscht – wieder in seine alte Heimat zurückgekehrt ist.

Zusammen mit mehreren Millionen Zuschauern stimmte der Islamist Sprechchöre an, die die Zerstörung Israels und die Fortsetzung der islamischen Revolution forderten. „Oh Allah, nimm diese unterdrückende, tyrannische Bande von einem Volk [...] nimm diese unterdrückende jüdische Zionistenbande von einem Volk [...] lasse nicht einen einzelnen übrig. Oh Allah, zähle sie und töte sie, bis zum allerletzten von ihnen”, tönte der Hassprediger bereits in der Vergangenheit.

Gaddafi war in der Vergangenheit ein sehr wichtiger afrikanischer Staatsmann

Vor diesem Hintergrund nehmen auch die Kämpfe in Libyen einen ganz anderen Charakter an. Zu Beginn der Ausschreitungen war kaum etwas über Ausmaß und Wahrheitsgehalt der lediglich als Gerüchte auftretenden Berichte bekannt. Gaddafi hatte praktisch das ganze Land von ausländischen Medienvertretern gesäubert und jegliche Verbindung zur Außenwelt gekappt. Trotz der vollkommen unübersichtlichen Lage war auch hier den westlichen Medien in beeindruckender Sturheit klar: Die Demonstranten sind Teil einer Demokratiebewegung.

Zugegeben: Momentan lässt sich weder dies, noch das Gegenteil behaupten, denn anders als in Tunesien und Ägypten handelt es sich bei Gaddafi keineswegs um einen Herrscher, der enge Kontakte zum Westen pflegte und eher dem gemäßigten Lager angehörte. Gaddafi war für die Vertretung afrikanischer Interessen ein gewichtiger Faktor, weswegen sich auch die anderen afrikanischen Staatsmänner bedeckt halten und nicht offen gegen ihn Stellung nehmen. Gaddafi hat in den vergangen Jahren Unmengen in den Aufbau von Infrastruktur in ganz Afrika investiert. Außerdem hat er die „Afrikanische Union“ als starke Interessenvertretung Afrikas in der Welt gegründet und Europa immer wieder mit der Drohung einer Masseneinwanderung von Muslimen und Afrikanern in das christliche Abendland unter Druck gesetzt.

Unvergessen sind seine Ankündigungen, dass Europa noch in diesem Jahrhundert islamisch werde und sein Besuch in Italien, für den er sich hunderte Prostituierte in einen Saal bestellte, um ihnen aus dem Koran vorzulesen. Diese exzentrischen, aber doch bedrohlichen Auftritte brachten ihm in der radikalislamischen Welt viele Sympathien ein und rechtfertigen das Prädikat „Islamist“ für den lybischen Staatschef. Doch wesentlich stärker als Mubarak, vereinigt Gaddafi einige Charaktermerkmale auf sich, die mit der islamischen Lehre nicht in Einklang zu bringen sind.

Der Nationalsozialist Gaddafi: Nicht im Einklang mit islamischer Lehre

Gaddafi ist wohl wie kein zweiter Staatschef selbstverliebt, herrschsüchtig und begreift sich selbst als obersten Herrn auf Erden, als eine Art Propheten. In jeder libyschen Gemeinde liegt deshalb auch das „Grüne Buch“, ein religiös-politisches Ideologiepamphlet, mit welchem Gaddafi Libyen über Jahrzehnte hinweg mit eiserner Faust regierte. Inhaltlich lässt sich die Gaddafi-Ideologie, die eine für Islamisten nicht akzeptable Einmischung und Veränderung der in Koran und Scharia verankerten Prinzipien darstellt, wohl am ehesten als mit islamistischen und spirituell-esoterischen Elementen versehener Nationalsozialismus bezeichnen.

Zu dieser islamischen „Gotteslästerung“ kommt auch noch die Sozialpolitik, die in Tunesien beispielsweise die Proteste erst ins Rollen gebracht hat. Gaddafi lebt als selbsternannter Prophet in persönlichem Reichtum, während sein Volk in gesellschaftlicher und wirtschaftlicher Armut vor sich hin vegetiert. Es ist also, im Kontext der islamistischen Entwicklungen in Ägypten und zum Teil auch in Tunesien, durchaus nicht unwahrscheinlich, dass in Libyen gerade der eine Islamist durch eine Gegenbewegung von anderen, genuinen Islamisten zu Fall gebracht wird. Dies würde auch eine Fernsehbotschaft Gaddafis erklären, in der gerade er davor warnte, dass Libyen in die Hände von Fundamentalisten fallen könnte.

Die Folgen für Europa sind derweil kaum überschaubar, eine Analyse kann daher nur bruchstückhaft und ohne Anspruch auf Vollständigkeit erfolgen. Abgesehen von den Drohungen Gaddafis gegen Europa, war er trotzdem bisher ein verlässlicher Partner zahlreicher westlicher Regierungen, insbesondere der italienischen unter Berlusconi, zu welchem er eine eigenartige Männerfreundschaft pflegt. Aus dieser heraus wurde auch ein Abkommen geboren, in welchem Libyen gegen Geld zusichert, eine Masseneinwanderung nach Europa zu verhindern und bereits in Italien gelandete Flüchtlinge aufzunehmen. Außerdem erhielten italienische Firmen Mammutaufträge, wie den des Baus einer 1700 Kilometer langen Autobahn.

Gaddafi war bisher in der Lage, die ehemalige italienische Kolonie, die sich aus dutzenden, miteinander mehr oder weniger verfeindeten und zerstrittenen Stämmen konstituiert, zu einen und zu stabilisieren. Dass dies nur durch eine beinharte, repressive Politik und durch die Zahlung von Bestechungsgeldern an die Stammesfürsten möglich war, ist die andere Seite der Medaille. Die Zukunft Libyens ist daher ungewiss und lässt eine Spaltung des Landes und einen jahrelangen Bürgerkrieg zwischen verfeindeten Stämmen und Gruppierungen befürchten. Momentan scheint der Osten des Landes zwar vereint gegen Gaddafi vorzugehen, doch wenn erst einmal das gemeinsame Feindbild weggebrochen ist, werden Verteilungs- und Machtfragen für Streit sorgen.

Libyen ist ohne eine Kooperation mit dem Westen nicht lebensfähig

Schon allein die Verteilung der libyschen Ölquellen wird für Rivalitäten unter den Stämmen sorgen, von der von europäischen und amerikanischen Energieunternehmen in Zusammenarbeit mit einem libyschen Staatsunternehmen geplanten Erschließung der gigantischen Gasvorkommen unter der libyschen Wüste gar nicht zu reden. Gerade diese scheint jedoch auch Anlass zur Hoffnung zu geben, denn ohne Kooperation mit dem Westen, zumindest im Bereich des Energiehandels, ist Libyen nicht lebensfähig.

Heute speisen sich rund 60 Prozent der staatlichen Einnahmen aus dem Erdölhandel und Alternativen sind nicht in Sicht. Libyen könnte sich zu einem nordafrikanischen Musterknaben wandeln, sofern die Öleinnahmen endlich gerecht verteilt und in Bildung und Infrastruktur investiert würden. Diese positive Zukunftsvision liegt jedoch noch in weiter Ferne, solange Islamismus und regionale Feindseligkeiten das Bild des Landes bestimmen.

Eine weitere mögliche Entwicklung wäre, dass Gaddafi wider aller Erwartungen die Macht halten könnte. Momentan befinden sich die Rebellen, die den Osten des Landes unter ihre Kontrolle gebracht haben, in der Defensive. Gaddafi bombardiert rücksichtslos sein eigenes Volk. Er heuert immer mehr Söldner aus Schwarz-Afrika an und verfügt noch über zwanzig- bis dreißigtausend absolut loyale Elitetruppen, die notfalls auch die Waffe gegen Zivilisten richten werden. Beistand aus Europa für die Revolutionäre?

Viel Blut in Libyen in den nächsten Monaten. Nach dem Kampf gegen Gaddafi werden innere Verteilungskämpfe folgen.

Außer Lippenbekenntnissen, dem vorsichtigen Vorstoß von Frankreichs Präsident Sarkozy und zaghaften UN-Resolutionen ist bisher nichts passiert, der bisherige, bestenfalls als peinlich, schlimmstenfalls als katastrophal zu bezeichnende Umgang der westlichen Staatsführer mit ihren wackelnden nordafrikanischen Despoten-Freunden wird fortgesetzt. Gaddafis Stuhl wackelt – der Westen könnte ihn zu Fall bringen, doch stattdessen antworten die UN-Papiertiger mit Resolutionen, anstatt der arabischen Welt mit handfester, militärischer Unterstützung zu signalisieren, dass man eben nicht auf der Seite der volksfeindlichen Diktatoren steht.

Sollte das libysche Volk es tatsächlich schaffen, Gaddafi zu stürzen, so wird sich sein Hass danach gegen den Westen richten, der bei den blutigen Massakern mehr oder weniger tatenlos zugesehen hat. Neben der esoterisch-nationalistisch-sozialistischen Ausrichtung vereint Gaddafi noch ein weiterer Umstand mit Hitler: Im Gegensatz zum pragmatisch-säkularen Mubarak wird Gaddafi „bis zum letzten Mann und bis zur letzten Frau“ kämpfen und nicht freiwillig den Rückzug antreten. Diese bereits mehrfach verlautbarte Drohung müsste dem Westen eigentlich umso deutlicher machen, wie notwendig ein militärisches Eingreifen jetzt ist.

Auch die Passivität Ägyptens verwundert, liegt das Land doch direkt nebenan und könnte mit seiner 500.000-Mann Armee dem libyschen Volk zur Seite springen und damit das Fundament für eine langfristige Freundschaft der beiden Völker, aber auch für einen tiefgreifenden Einfluss der ägyptisch-islamistischen Strömungen in Libyen sorgen.

Die beste Lösung wäre wohl ein durch ein UN-Mandat legitimiertes militärisches Eingreifen westlicher Mächte und ein darauf folgender Aufbau eines demokratischen Staatswesens, um die westlichen Energieinteressen und die Stabilität und Modernisierung des libyschen Staates zu sichern. Ob dabei die möglicherweise islamistischen Protestbewegungen jedoch überhaupt mitspielen würden, ist ungewiss. Fest scheint nur zu stehen, dass die nächsten Monate das libysche Volk noch viel Blut und viele Menschenleben kosten werden und dass die Zukunft des Landes, sowie des gesamten arabischen Kulturraums noch in den Sternen steht.

Où va la Libye?

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Où va la Libye?

Un entretien avec Pierre Le Vigan

La Libye est déchirée par la situation actuelle. Inutile de revenir sur les morts, des centaines ou des milliers. Visiblement Kadhafi ne veut pas finir lamentablement comme Moubarak ou Ben Ali. Il a de l’énergie, et sans doute un grain de folie qui fait les vrais hommes d’État, ce qui n’atténue pas la réalité de ses erreurs ou de ses crimes.

Justement Kadhafi est-il autre chose qu’un infâme dictateur ?

La politique n’est pas la morale. L’essentiel n’est pas de « s’indigner » mais de comprendre et ensuite de faire des choix politiques. Il faut d’abord rappeler ce qu’est la Libye : moins de 7 millions d’habitants, dont 2 millions à Tripoli et 650 00 à Benghazi la deuxième ville du pays. 90 % d’Arabes et moins de 5 % de Berbères, à l’ouest, près de la Tunisie. Beaucoup d’immigrés aussi : ils constituent 20 % de la population et 50 % de la population active. Une population essentiellement concentrée sur la zone côtière. Et trois régions, la Tripolitaine à l’Ouest, la Cyrénaïque à l’est, le Fezzan, presque désert, au sud.

La vérité c’est que la Libye moderne est née avec Kadhafi.  Romanisée sous l’Antiquité, normande quelques années au XIIe siècle ( !), colonie turque conquise par les Italiens en 1911-12, la Libye devient indépendante en 1951 sous un roi, en fait l’ancien émir de Cyrénaïque, chargé implicitement de la maintenir dans l’orbite anglo-saxonne. Il n’y a alors qu’un million d’habitants en Libye. C’est à l’époque le principal pays africain producteur de pétrole, avec un gros essor à partir des découvertes de 1958. En 1969 le coup d’État du capitaine Mouammar Kadhafi et d’un groupe d’ « officiers libres » - la terminologie est la même qu’en Égypte - est un coup de tonnerre anti-occidental. Le capitaine, devenu colonel, Kadhafi, fait évacuer les bases anglo-américaines de Libye, et nationalise les compagnies pétrolières en 1973. C’est un proche de Nasser. Kadhafi tente une fusion avec l’Égypte et la Syrie en 1971. Elle éclate 2 ans plus tard. En 1974 c’est avec la Tunisie qu’une tentative de fédération est menée. Elle avorte aussi. Kadhafi  publie en 1976 son Livre Vert sur la troisième voie. Il y critique l’enrichissement personnel incompatible avec la justice, et prône la démocratie directe, en fait une démocratie plébiscitaire, à la place de la démocratie parlementaire occidentale. Sa radicalisation anti-américaine et anti-israélienne, son soutien présumé (par ses adversaires) à des groupes terroristes amène les Américains à essayer de l’assassiner en avril 1986 par des raids meurtriers sur Tripoli et Benghazi. La fille adoptive de Kadhafi est tuée. À partir de là l’évolution dictatoriale et erratique de Kadhafi s’accentue. Ses sorties médiatiques s’orientent vers une certaine clownerie involontaire, même si, en France ou avec G-W Bush nous avons parfois été confrontés à ces décalages entre l’être et la fonction. Un jour, il annonce que William Shakespeare est en fait un Arabe («Cheikh Spir »), un autre jour il plante sa tente bédouine à coté de l’Élysée, et cultive  un look auprès duquel Galliano est un garçon sans imagination.

Jusqu’à la fin des années 90 la Libye est mise au ban de l’ONU et soumise à un embargo militaire. La détente s’amorce à partir de 2003-2004 avec la fin de l’embargo militaire (« Le nouveau Kadhafi », Le Monde, 7 janvier 2004). Kadhafi se rapproche des Occidentaux, démantèle son programme nucléaire,  et se présente comme un rempart contre le terrorisme. Et aujourd’hui encore il prétend que les émeutes sont manipulées par Al-Qaida maghreb, la prétendue AQMI.

Pourquoi ce tournant occidentaliste de Mouammar Al-Kadhafi ?

 Vous aurez remarqué que 2003 c’est la deuxième guerre du Golfe et l’agression américaine contre l’Irak. Cela donne à réfléchir. Surtout quant on voit que l’Irak, pays de 30 millions d’habitants, à réelle tradition militaire, n’a rien pu faire contre les envahisseurs alors que la Libye ne compte qu’un peu plus de 6 millions d’habitants.

Quel a été le rapport de Kadhafi à l’Islam ?

 

Que restera t-il de Kadhafi quand on pourra poser un regard distancié sur son action politique ?

La modernisation du pays, un formidable effort d’éducation qui fait de la Libye le pays du Maghreb où il y a le plus haut niveau d’éducation, l’accession des femmes à l’enseignement – elles sont actuellement majoritaires dans l’enseignement supérieur -, le recul de l’âge du mariage des femmes, la mixité jusqu’à l’équivalent du collège, en fait, globalement on retiendra  une modernisation-occidentalisation accélérée tout en étant jusqu’aux années 1990 un ennemi déterminé des politiques impérialistes de l’Occident Atlantique (et atlantiste).

Ce que nous montre la géographie des émeutes, c’est que l’est de la Libye semble particulièrement hostile à Kadhafi tandis que ce dernier paraît encore en mesure de contrôler l’ouest, du coté de la capitale Tripoli. Dès lors, la Libye n’est-elle pas appelée à disparaître, à éclater ? N’est-elle pas un État artificiel ?

La Libye n’est pas plus artificielle que la France, c’est une construction historique. Libye désignait sous l’Antiquité tout ce qui est à l’ouest de l’Égypte en Afrique du Nord. Il y eut le royaume de Cyrène des VI et Ve siècle av. J-C, habité par les Libous (Libyens), et la Marmarique, entre Égypte actuelle et Libye. La capitale de la province de Libye était Barqa, à 100 km à l’est de Benghazi. Il se trouve que la Libye a déjà – ce n’est pas rien – une identité négative : elle n’est pas l’Égypte, elle n’est pas non plus la région de Carthage. C’est sans doute néanmoins avec la Tunisie qu’il y aurait le plus de raisons pour la Libye – et réciproquement pour la Tunisie - de se rapprocher. D’autant que le poids démographique des deux nations est proche et que de ce fait aucun n’a à craindre d’être absorbé par l’autre.

Comment voyez vous finir la crise libyenne ?

La pression internationale contre Kadhafi est très forte. On voit mal comment il pourrait résister durablement. Mais rien n’est joué. Ce qui est sûr, c’est que l’Europe ne doit aucunement s’associer à une éventuelle intervention américaine. L’inculpation de Kadhafi pour crimes contre l’humanité n’a pas non plus de sens, elle n’est pas de nature à favoriser une solution qui ne peut être viable qu’entre Libyens. Une intervention des pays arabes, qui serait l’une des moins mauvaises solutions, ne parait pas souhaitée par ceux-ci. Il est vrai qu’ils ne sont guère en état de donner des leçons de stabilité et de consensus. Une médiation sud-américaine, avec Hugo Chavez, offrait une bonne possibilité de sortie de crise, mais les Occidentaux bellicistes, Sarkozy en tête, se sont empressés de la rejeter. Le problème de la Libye c’est qu’il n’y a pas d’élite autochtone prête à prendre la succession de Kadhafi sur la base du maintien de l’indépendance nationale. La solution, s'il y en a une dans l'intérêt des peuples européens et méditerranéens, ne peut se trouver qu'à partir d'un compromis négocié : le contraire de ce que proposent David Cameron et Nicolas Sarkozy (conseillé par Bernard-Henri Levy!) qui font comme d'habitude les rabatteurs pour l'axe impérialiste Washington-Tel-Aviv.

Source Esprit européen : cliquez ici

 

Bernard Lugan: "L'Afrique n'est pas un continent économique"

Bernard Lugan : « L’Afrique n’est pas un continent économique »

Ex: http://fr.novopress.info/

Le 8 mars dernier a eu lieu une conférence sur « Les grands problèmes de l’Afrique subsaharienne d’aujourd’hui », donnée à la Chambre de Commerce et d’Industrie de Versailles, par Bernard Lugan, historien spécialiste de l’Afrique [1].

L’actualité récente de la Côte d’Ivoire illustre parfaitement la résistance de l’Humanité diverse contre le mondialisme uniformisateur. Selon Bernard Lugan (photo), « les Africains sont des gens enracinés. Ils comparent Alassane Ouattara, vainqueur de l’élection présidentielle, à un Dominique Strauss-Kahn noir », les deux hommes étant professionnellement liés au FMI, le Fonds monétaire international.

Bernard Lugan observe que « depuis 1960, les approches de l’Afrique ont toujours été économiques. Les Africains sont perçus comme des Européens pauvres à la peau sombre ». Or appliquer le modèle économique occidental au continent noir se révèle inadapté, ne serait-ce que pour des raisons culturelles. Ayant enseigné pendant 11 ans à l’Université nationale du Rwanda, Bernard Lugan explique que « les notions d’Hier et de Demain ne sont pas les mêmes qu’en Occident. Les Africains se demandent pourquoi prévoir, puisque demain n’appartient qu’à Dieu et aux Dieux ». Une constatation nullement raciste car « comme le disait Lyautey, les Africains ne sont pas inférieurs, ils sont autres », souligne Bernard Lugan.

Le système économique occidental repose sur une soif de consommation importante en comparaison avec d’autres civilisations humaines. Plaquer ce style de vie fortement individualiste sur les corps communautaires africains mènerait à des troubles sociologiques. « L’individu n’existe pas en Afrique. L’Homme fait partie d’un lignage ; le culte des ancêtres fait que chaque africain est capable de réciter sa généalogie sur plusieurs générations », explique Bernard Lugan. Le cas des noirs américains des classes populaires baignant dans un environnement culturel mondialiste indique que cette voie ne saurait-être la bonne pour l’épanouissement du continent noir. Gavé de « malbouffe » issue des chaînes de fast-foods, de musiques RAP agressives et de films violents, le noir New-Yorkais est, aux yeux de Bernard Lugan, « un zombie déraciné, pas un Africain ».
La démographie galopante du continent complique également la tâche. « 100 millions d’habitants en 1900, 1 milliard aujourd’hui », précise Bernard Lugan. Pour toutes ces raisons, « l’Afrique n’est pas un continent économique », conclut-il.

Aurélien Dubois, pour Novopress France


samedi, 19 mars 2011

Libye: la nouvelle puissance des tribus

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Libye: la nouvelle puissance des tribus

par Günther Deschner

Remarque préliminaire : Ce texte a été rédigé au moment où les insurgés libyens semblaient avoir le dessus et où l’on imaginait un départ imminent de Khadafi, pareil à la fuite de Ben Ali en Tunisie et de Moubarak en Egypte. Nonobstant la contre-offensive jusqu’ici victorieuse des partisans de Khadafi et vu la non-intervention des Etats-Unis, las d’intervenir partout, et de l’Europe, où le tandem pacifiste germano-italien réussit à contrecarrer les va-t-en-guerre habituels que sont la France et la Grande-Bretagne, l’analyse de Günther Deschner nous apprend comment fonctionnent la Libye et son système tribal intact malgré toutes les modernisations.

 

D’abord la Tunisie, puis l’Egypte. C’est maintenant au tour de la Libye d’entrer en ébullition. Cette réaction en chaine, où l’on voit vaciller et s’effondrer des régimes apparemment bien établis, revêt une dimension géostratégique importante, dans la mesure où la tectonique politique de l’Afrique du Nord se voit modifiée de fond en comble. Uri Avnery, bon connaisseur de l’Orient, analyste très avisé de la situation dans  cette région du monde et « enfant terrible » de la politique israélienne, se souvient, dit-il d’un récit des Mille et Une Nuits : « L’esprit sort de l’amphore et il semble qu’aucune puissance sur la Terre ne soit capable de le retenir ».

Lorsque, dans une première phase, la Tunisie fut ébranlée, les observateurs imaginaient encore que son cas était isolé : un pays arabe, relativement sans importance, qui avait toujours été un peu plus « progressiste » que les autres, entrait en turbulence : cela, pensaient-ils, ne pouvait avoir guère de suites. Pourtant, peu de temps après le séisme tunisien, c’est l’Egypte qui entrait en ébullition. Là, le mouvement prenait une autre ampleur…

La jeunesse n’a ni avenir ni perspectives, la corruption règne partout, le régime réprime toute opposition : ces faits ont justifié l’effervescence populaire en Tunisie et en Egypte. C’est également le cas en Libye. Pourtant, si l’on peut raisonnablement dire qu’à première vue ces trois pays vivent des situations similaires, le cas libyen est cependant assez différent de ceux des deux pays voisins. Les conditions sociales et économiques sont différentes, en effet, sous bien des aspects : l’identité libyenne actuelle procède de l’action entreprise depuis quatre décennies par son leader, le Colonel Mouamar Khadafi. En fait, le pays doit sa configuration politique, économique et sociale aux pétrodollars et à une structuration tribale.   

La Libye n’occupe que la dix-septième place dans la hiérarchie des pays producteurs de pétrole mais ses revenus et son budget national dépendent à 95% de ses seuls hydrocarbures. Ils font de cet Etat désertique le pays le plus riche de toute l’Afrique du Nord. La masse des pétrodollars forme la pièce centrale de l’économie libyenne et détermine aussi, on s’en doute, le mode de pouvoir politique qui s’y exerce. Pendant quatre décennies, la stabilité intérieure de la Libye et la légitimité du pouvoir détenu par Mouamar Khadafi a procédé d’un partage fort avisé des revenus pétroliers. Selon l’experte ès questions libyennes de la Fondation berlinoise « Wissenschaft und Politik » (« Science et Politique »), Isabell Werenfels, Khadafi a utilisé les revenus du pétrole pour acheter littéralement les tribus du pays et pour les manœuvrer à sa guise. Isabell Werenfels : « Traditionnellement, les tribus ont été en Libye l’un des plus importants facteurs, sinon le facteur le plus important, sur les plans social et politique ».

Une mosaïque de tribus

Dans la Libye de Khadafi, les structures traditionnelles se sont maintenues plus fermement que dans les pays voisins et elles jouent en temps de crise un rôle plus important encore que d’habitude. Comme Khadafi n’a toléré ni opposition ni partis indépendants, l’appartenance à une tribu ou à un clan sert généralement d’orientation à la personne et justifie ses loyautés.

Il y a environ une douzaine de tribus importantes en Libye aujourd’hui, chacune étant subdivisée en un nombre difficilement saisissable de sous-tribus. Elles sont différentes les unes des autres sur le plan linguistique et divergent de par leurs traditions culturelles et sociales. Elles s’identifient par rapport à leur région d’origine et non pas par rapport à l’Etat central. Khadafi a encore accentué cette mosaïque : il a généreusement soutenu l’économie de l’Ouest, région dont sa propre tribu est originaire, tout en négligeant l’Est et le Sud. A plus d’une reprise, les régions orientales et méridionales du pays ont subi des actes de répression brutale de la part du régime.

Khadafi lui-même appartient à une petite tribu, sans importance apparente selon les critères en vigueur en Libye : les Khadafa, qu’il a favorisés massivement pendant la quarantaine d’années de son régime. Pourtant Khadafi était apparu sur la scène politique internationale en 1969 comme un « modernisateur » ; mais les querelles intestines et sourdes entre les révolutionnaires d’alors ont induit Khadafi à miser de plus en plus souvent sur le vieux réflexe tribal. On a bien vite remarqué que les postes les plus importants de l’Etat étaient distribués à des ressortissants de son propre clan et de sa tribu.

Révolte des Warfalla

Pour se maintenir au pouvoir, les Khadafa ont dû, très rapidement, se trouver des alliés. Khadafi a donc dû s’allier avec des tribus plus importantes numériquement, en leur distribuant des postes importants dans l’appareil d’Etat et dans les services de sécurité. Dans une phase ultérieure, il joué les tribus les unes contre les autres, apparemment sans grande subtilité : en 1993 déjà, les services de sécurité libyens ont dû contrecarrer une tentative de putsch, fomentée par des officiers, parmi lesquels on trouvait beaucoup de ressortissants de la tribu des Warfalla, numériquement très importante  —plus d’un million de membres. Les Warfalla n’étaient plus satisfaits de la situation car on ne leur attribuait que des postes subalternes dans l’armée. Beaucoup d’officiers, issus de la tribu des Warfalla, ont été exécutés à la suite de cette tentative de renverser le régime.

Les protestations et les désordres des semaines qui viennent de s’écouler sont essentiellement les conséquences de cette politique de clientélisme qui a perdu tout équilibre. Les ressentiments se sont accumulés : certaines tribus ont été favorisées, d’autres ont été discriminées. Les rancœurs se sont dirigées contre l’Etat central de Tripoli, jusqu’à devenir explosives. Après que la Libye ait cessé d’être isolée et boycottée sur la scène internationale, dégel qui s’est manifesté à partir de 2004, beaucoup avaient espéré, à moyen terme, une ouverture du pays sur le plan intérieur. Rien ne s’est passé. Le régime est resté fermé à toute réforme et a organisé la répression. Pour Isabell Werenfels : « Ce que nous avons vu à Benghazi récemment procédait pour l’essentiel d’une révolte propre à une région laissée pour compte et à des tribus défavorisées par le régime. Tout l’Est du pays a été négligé et s’est vengé ».

Chaos et violence ?

Personne ne sait ce qu’il adviendra de la Libye dans un futur proche. L’analyse la plus fine de la situation, nous la devons, ces jours-ci, au Guardian britannique, très bien informé sur les questions du monde arabe : « La Libye est un cas particulier. Dans les autres pays en proie à l’agitation de ces dernières semaines, dont l’Egypte, la Jordanie et le Bahreïn, on peut se risquer à imaginer des scénarios plausibles. En Libye, on ne peut prédire rien d’autre que le chaos et la violence ».

Les experts craignent en effet que la Libye, en cas de chute du régime, pourrait se repositionner selon ses anciennes frontières. Il y a exactement cent ans, les troupes italiennes étaient entrées dans ce territoire, placé sous la souveraineté de l’Empire Ottoman ; mais il a fallu attendre 1934 pour que les Italiens puissent proclamer enfin que la Libye était, dans l’entièreté de son territoire, une colonie de Rome. On nous dit : « La population de l’Est du pays estime que Benghazi est sa véritable capitale ». Dans une analyse produite, il y a quelques jours, par l’Institut « Stratfor », une boîte-à-penser américaine spécialisée en études géostratégiques, on nous annonce une « correction de l’histoire ».

Pour George Friedman, analyste chez « Stratfor » et éditeur du site internet du même nom, la domination de la région de Tripoli, actuelle capitale de l’Etat libyen,  s’est imposée seulement sous Khadafi. Friedman ajoute : « Il se pourrait bien que la Libye se scinde à nouveau en deux entités : la Tripolitaine et la Cyrénaïque. Il y aura alors deux nouveaux centres de pouvoir ».

Günther DESCHNER.

(article paru dans « Junge Freiheit », Berlin, n°10/2011 – site internet : http://www.jungefreiheit.de/ ).      

vendredi, 18 mars 2011

Cheerleader "humanitärer Interventionen"

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Cheerleader „humanitärer Interventionen“

Michael WIESBERG

Ex: http://www.jungefreiheit.de/

Die Rollen sind einmal mehr klar verteilt: Hier der „verrückte“, „skrupellose“ Wüsten-Despot Gaddafi und sein raffgieriger Clan, und dort die hehren Rebellen, die den „Menschen in Libyen“ nichts anderes als Freiheit und Demokratie bringen wollen. Hier das Dunkel, dort das Licht. Diese manichäische Klippschulen-Hermeneutik verkünden westliche Politiker und Medien mit Blick auf die Vorgänge in Libyen rund um die Uhr.

Manches indes spricht dafür, daß es sich hier um eine Art Recycling der Kosovo-Kriegspropaganda handeln könnte, wo das „sogenannte Abendland“ nach den Worten des damaligen Außenministers Joschka Fischer für die „Menschenrechte eines muslimischen Volkes“ (komfortabel in Flugzeugen) gekämpft haben soll bzw. ein „neues Auschwitz“ zu verhindern suchte (Die Zeit, 16/1999). Es fehlt eigentlich nur noch, daß aus Gaddafi „Hitlers Wiedergänger“ wird. Mit dieser wohlfeilen Wendung stempelte einst Hans-Magnus Enzensberger Saddam Hussein zum Jabba the Hutt des Mittleren Ostens.

Kreuzzüge im Namen der „Humanität“

Ganz vorne dabei im Chor derer, die eine westliche Intervention in Libyen fordern – schließlich könnte Gaddafi wie weiland Saddam ja Giftgas einsetzen – steht mit Daniel Cohn-Bendit eine Figur, von der nicht bekannt ist, daß sie irgendeine militärische US-NATO-Intervention der letzten Jahrzehnte nicht befürwortet hätte.

Cohn-Bendit muß seinen Kopf schließlich nicht hinhalten, wenn es darum geht, die Kreuzzüge in Namen der „Humanität“ vor Ort durchzufechten. Politiker wie er geben lieber die „passiven cheerleader von US-NATO-Kriegen“, wie es der streitbare theoretische Physiker Jean Bricmont pointiert ausgedrückt hat. Cohn-Bendit hat jetzt für seine Forderungen einen einflußreichen Befürworter gefunden, nämlich Frankreichs Staatspräsident Sarkozy, der in Libyen gezielte Bombardements (für die Menschlichkeit?) durchführen lassen möchte. Noch findet er mit dieser Forderung keine Mehrheit.

Was nicht ist, kann indes noch werden, denn aus Sicht des Westens ist das Verschwinden Gaddafis mittlerweile eine Kardinalfrage; es kann nach all den humanitären Erregungs-Tsunamis der letzten Wochen keine Kooperation mit ihm mehr geben. Das nämlich ist, um ein Bonmot des oben bereits angesprochenen Jean Bricmont aufzunehmen, die Konsequenz eines „humanitären Imperialismus“, der ausschließlich mit moraltriefender Betroffenheit operiert und dies auch noch für Politik hält.

Folgen westlicher Interventionen

Diese Positionierung, lautstark vertreten vor allem von Politikern des linksliberalen bis linken Spektrums, konterkariert politische Lösungen, weil sie eben nur mehr eine Option zuläßt – alles andere wird als „Appeasement-Politik“ denunziert –, nämlich die der „humanitären Intervention“. Die Beispiele Afghanistan, Irak und letztlich auch der Kosovo – wo zwielichtige Figuren wie der einstige UÇK-Führer Hasim Thaci, jetzt kosovarischer Premierminister, mit westlicher Hilfe nach oben gespült wurden – zeigen aber, welch fragwürdige Folgen eine derartige Politik haben kann.

Dessenungeachtet stehen im Westen wieder alle Zeichen auf Intervention. Und man täusche sich nicht: Auch die Amerikaner, die sich bisher in dieser Frage bisher sehr bedeckt gehalten haben, werden wieder mitmischen, wenn auch – folgt man z. B. den Berichten von Robert Fisk, rühriger Korrespondent der britischen Zeitung Independent im Mittleren Osten – in einer eher indirekten Rolle. Laut seinen Recherchen sollen die Amerikaner Saudi-Arabien, das im übrigen mindestens so „despotisch“ regiert wird wie Libyen, gebeten (besser wohl aufgefordert) haben, die Aufständischen mit Waffen zu versorgen.

Erkenntnisse russischer Aufklärung

Interessant ist auch, was der von Moskau aus operierende internationale Nachrichtensender „Russia Today“ (RT) letzte Woche berichtete: Er behauptete nämlich, mit Hinweis auf Erkenntnisse der russischen Militäraufklärung, daß die immer wieder verurteilten Luftschläge gegen die libysche Zivilbevölkerung in der behaupteten Form gar nicht stattgefunden hätten.

In Rußland seien die Vorgänge in Libyen mit Hilfe moderner Aufklärungsmittel, wozu auch die Satellitenbeobachtung gehört, von Anfang an verfolgt worden. Nun mag man dies als russische Propaganda gegen den Westen abtun; möglicherweise aber hat dieser Bericht doch auch einen wahren Kern, und wir befinden uns mit Blick auf Libyen einmal mehr in einer „Schlacht der Lügen“.

Der GAU für den Westen

Die Interventionspropaganda gegen Libyen verfolgt ein ganz konkretes Ziel, nämlich den GAU aus der Sicht des Westens mit allen Mitteln zu verhindern. Der „worst case“ träte ein, wenn Gaddafi – dessen „unverzüglichen Rücktritt“ die EU am vergangenen Freitag forderte – an der Macht bliebe: Was passiert dann mit den Erdölressourcen des Landes?

Anfang März hatte Gaddafi in einer Rede bereits durchblicken lassen, daß er chinesische und indische Ölfirmen ermutigen werde, die Geschäfte der westlichen Ölfirmen zu übernehmen. Es steht kaum zu erwarten, daß der Westen, allen voran die USA, dabei zusehen werden, wie Gaddafi den libyschen Erdölkuchen an die neuen Emporkömmlinge aus Indien und China verteilt.

jeudi, 17 mars 2011

"Operation Libya" und der Kampf ums Erdöl: Neuzeichnung der Landkarte Afrikas

»Operation Libya« und der Kampf ums Erdöl: Neuzeichnung der Landkarte Afrikas

Prof. Michel Chossudovsky

Die geopolitischen und wirtschaftlichen Auswirkungen eines militärischen Eingreifens seitens der USA und der NATO reichen weit. Libyen gehört mit etwa 3,5 Prozent der weltweiten Erdölreserven, die damit doppelt so groß wie die amerikanischen Lagerstätten sind, zu den führenden Erdöllieferanten der Welt. [Die Erdölwirtschaft liefert etwa 70 Prozent des BIP des Landes.] Operation Libya ist Teil einer umfassenderen militärischen Agenda für den Nahen und Mittleren Osten sowie Zentralasien, die darauf abzielt, die Kontrolle und Besitzrechte über mehr als 60 Prozent der Weltreserven von Erdöl und Erdgas, einschließlich der Erdgas- und Erdölpipelines, an sich zu reißen.

»Moslemische Länder wie Saudi-Arabien, der Irak, der Iran, Kuwait, die Vereinigten Arabischen Emirate, Katar, Jemen, Libyen, Ägypten, Nigeria, Algerien, Kasachstan, Aserbeidschan, Malaysia, Indonesien, Brunei verfügen abhängig von den Quellen und der Methode der Schätzungen über 66,2 bis 75,9 Prozent der gesamten Erdölreserven.« (Siehe dazu: Michel Chossudovsky, »The ›Demonization‹ of Muslims and the Battle for Oil«, in: Global Research, 4. Januar 2007.)

Mit 46,5 Mrd. Barrel (1 Barrel = 158,99 Liter) an nachgewiesenen Reserven (zehnmal mehr als Ägypten) ist Libyen die größte afrikanische Erdölwirtschaft, gefolgt von Nigeria und Algerien (Oil and Gas Journal). Im Gegensatz dazu werden die nachgewiesenen amerikanischen Erdölreserven nach Angaben der Behörde für Energieinformation mit etwa 20,6 Mrd. Barrel beziffert (Stand Dezember 2008, »U.S. Crude Oil, Natural Gas, and Natural Gas Liquids Reserves«).

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/pro...

 

mercredi, 16 mars 2011

Aufstand und militärisches Eingreifen - der versuchte Staatsstreich der USA und NATO in Libyen?

Aufstand und militärisches Eingreifen – der versuchte Staatsstreich der USA und NATO in Libyen?

Prof. Michel Chossudovsky

Die USA und die NATO unterstützen einen bewaffneten Aufstand im Osten Libyens in der Absicht, ein »Eingreifen aus humanitären Gründen« zu rechtfertigen.

Hier geht es nicht um eine gewaltfreie Protestbewegung wie in Ägypten oder Tunesien. Die Lage in Libyen ist grundsätzlich anders geartet. Der bewaffnete Aufstand im Osten Libyens wird direkt von ausländischen Mächten unterstützt. Dabei ist von Bedeutung, dass die Aufständischen in Bengasi sofort die rot-schwarz-grüne Flagge mit dem Halbmond und dem Stern hissten – die Flagge der Monarchie unter König Idris, die die Herrschaft der früheren Kolonialmächte symbolisiert.

Militärberater und Sondereinheiten der USA und der NATO befinden sich bereits vor Ort. Die Operation sollte eigentlich mit den Protestbewegungen in den benachbarten arabischen Staaten zusammenfallen. Der Öffentlichkeit sollte glauben gemacht werden, die Proteste hätten spontan von Tunesien und Ägypten auf Libyen übergegriffen.

Die Regierung Obama unterstützt derzeit in Abstimmung mit ihren Alliierten einen bewaffneten Aufstand, und zwar einen versuchten Staatsstreich:

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/pro...