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lundi, 28 mai 2012

Il Canale di Suez alla luce della “primavera egiziana”

ns4tsabr.jpgIl Canale di Suez alla luce della “primavera egiziana”

 

Eliana Favari

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

 

Il Presidente della Suez Canal Port Authority ha recentemente annunciato che, nonostante la grave crisi economica che ha colpito l’Egitto negli scorsi mesi e la diminuzione del numero di navi che hanno attraversato il Canale, i guadagni provenienti dai traffici nel 2011 sono aumentati di quasi mezzo milione di dollari rispetto all’anno precedente. Il Canale di Suez oltre ad essere una delle più importanti fonti di reddito del Paese è anche un indicatore delle attività commerciali mondiali. Gli interessi vitali che gravitano attorno ad esso coinvolgono, oltre all’Egitto, vari attori della comunità internazionale, a cominciare da Israele e Stati Uniti.

A livello globale e regionale l’importanza geopolitica e commerciale del Canale di Suez, che tra non molto compirà 150 anni, non può essere sottovalutata. Il Canale è la più breve via di navigazione internazionale che collega il Mar Mediterraneo con Port Said e il Mar Rosso. La sua importanza, dettata in primo luogo dalla particolare posizione geografica, è legata sia all’evoluzione del trasporto marittimo degli ultimi anni (2/3 del commercio mondiale avviene via mare) che del commercio mondiale in generale. Secondo gli ultimi dati ufficiali, quotidianamente passa per il Canale l’8% del commercio mondiale marittimo e circa 2,4 milioni di barili di petrolio. Inoltre, attraverso il gasdotto SuMed, che collega Ein Sukhna sul Golfo di Suez con Sidi Krir sulla costa del Mediterraneo, passa ogni giorno l’equivalente di 2,5 milioni di barili di petrolio (circa il 5,5% della produzione mondiale)1. Durante la crisi che ha portato alla caduta di Mubarak è bastato lo spettro della sua chiusura (com’era già accaduto all’inizio della Guerra dei sei giorni del 1967) per influire sul prezzo del greggio, ma l’allarme è rientrato quando la giunta militare ha deciso l’invio di unità speciali a guardia delle sue rive. Gli scenari di crisi ipotizzati sulle gravi conseguenze negative per l’economia marittima a seguito dell’eventuale chiusura del Canale sono drammatici. Di certo verrebbero penalizzati quei paesi, come ad esempio l’Italia, la cui economia dipende completamente dal trasporto marittimo. Questo è già avvenuto tra il 1967 e il 1975, durante i lunghi anni della chiusura del Canale nel corso dei quali sono state adottate strategie alternative e a costi maggiori, sviluppando il trasporto del petrolio con superpetroliere lungo la rotta del Capo di Buona Speranza.

Nei mesi successivi alle rivolte, nel febbraio 2011, è sorto un nuovo caso che ha rotto la monotona routine del Canale di Suez: il transito di due navi da guerra iraniane dirette in Siria ha messo in allarme in primo luogo Israele. Dopo giorni di annunci e smentite, due navi da guerra iraniane sono entrate nel Canale di Suez e si sono dirette verso il Mediterraneo per una missione di addestramento. Era la prima volta in trent’anni che le navi militari iraniane attraversavano il canale. Le relazioni tra Egitto e Iran si sono interrotte dopo la Rivoluzione islamica iraniana del 1979 e con il Trattato di pace tra Egitto e Israele dello stesso anno. Questa operazione, definita una “provocazione” dal Ministro degli Esteri israeliano, è stata considerata il primo passo verso il riavvicinamento tra i due Paesi. In molti hanno visto nell’atteggiamento dell’Iran un tentativo di rompere il suo isolamento e di estendere la sua influenza nel Medio Oriente, in parte anche a causa dell’attuale instabilità del suo alleato principale della regione, la Siria. Questa prospettiva ha allarmato soprattutto gli storici alleati dell’Egitto, l’Arabia Saudita e gli altri Paesi del Golfo, ma anche Israele e gli Stati Uniti.

Le questioni fin qui esposte inducono a riflettere sulla complessità degli interessi che ruotano attorno al canale di Suez, ed è bene quindi analizzare gli aspetti storico-giuridici correlati per avere un chiaro punto della situazione. L’art. I della Convenzione di Costantinopoli del 29 ottobre 1888 relativa alla libera navigazione del Canale di Suez che ancor oggi ne disciplina il regime di transito recita: “Il Canale marittimo di Suez sarà sempre libero ed aperto, in tempo di guerra come in tempo di pace, ad ogni nave mercantile o da guerra, senza distinzione di bandiera2. Secondo questo accordo (di cui è parte anche l’Italia) il Canale è soggetto ad un regime di demilitarizzazione. Questo significa che nessun atto di ostilità può essere compiuto al suo interno, ma esso può essere usato da nazioni belligeranti, in tempo di guerra, per eseguire azioni in aree esterne. Tale regime fu strettamente osservato nel corso delle due guerre mondiali, ed anche nel 1936 durante la campagna dell’Italia contro l’Etiopia. Al termine della crisi di Suez del 1956 seguita alla nazionalizzazione della Compagnia del Canale da parte del presidente Nasser, l’Egitto s’impegnò con la Dichiarazione del 24 luglio 1957 a “mantenere libero il Canale e non interrompere la navigazione a favore di tutte le Nazioni entro i limiti e in accordo con le previsioni della Convenzione di Costantinopoli del 18883. L’impegno dell’Egitto a rispettare tale regime non impedì tuttavia di applicare il divieto di transito nei confronti di navi israeliane. Il divieto fu successivamente esteso a qualsiasi carico diretto in Israele, a prescindere dalla bandiera della nave utilizzata per il trasporto, con motivazioni di vario genere riconducibili, in sostanza, alla tesi che il governo egiziano avesse il diritto, in ragione delle ostilità in corso, di adottare misure difensive. La situazione di ostilità tra i due paesi sfociò nel conflitto del giugno 1967, durante il quale Israele occupò la Penisola del Sinai sino alle rive del Canale, mentre l’Egitto bloccò il transito della via d’acqua mediante l’affondamento di quindici navi. Il Canale fu chiuso sino al 1975.

La situazione e le relazioni tra i due Paesi cambiarono con il Trattato di pace del 1979 seguito agli accordi di Camp David tra Sadat, Begin e Carter secondo il quale le “navi di Israele godranno del diritto di libertà di transito attraverso il Canale di Suez e delle sue rotte di avvicinamento lungo il Golfo di Suez ed il Mediterraneo sulla base della Convenzione del 1888…4. Lo stesso Trattato riconosce inoltre che lo Stretto di Tiran ed il Golfo di Aqaba sono vie d’acqua internazionali aperte alla libertà di navigazione di tutte le Nazioni. In aggiunta a questo riconoscimento internazionale dei diritti di Israele, un’ulteriore garanzia è costituita dal Memorandum bilaterale del 1979 con cui gli Stati Uniti, sulla base del Trattato di Pace dello stesso anno, si impegnano ad adottare le misure necessarie a proteggere gli interessi di Israele relativi alla libertà di passaggio nel Canale e alla navigazione nello Stretto di Tiran e nel Golfo di Aqaba. Tali previsioni sono volte in sostanza ad impedire un nuovo blocco marittimo a Israele.

In teoria, quindi, nulla impedisce all’Iran di far transitare proprie navi. A fronte dei diritti di Israele garantiti dagli accordi appena ricordati vi è il generico diritto di cui gode l’Iran, al pari di qualsiasi altra nazione, di avvalersi del regime stabilito dalla Convenzione del 1888. Correttamente, perciò, l’Autorità del Canale ha gestito il caso in modo asettico adottando un basso profilo. Le unità iraniane (una vecchia fregata di costruzione britannica ed una grossa nave appoggio, entrambe dotate di armamento tradizionale) hanno atteso nei pressi di Jedda qualche giorno. Poi sono entrate nel Canale di Suez dirigendosi verso il Mediterraneo per una missione di addestramento ad attività antipirateria in Siria. Apparentemente niente di straordinario, dunque, anche se pare che l’Egitto negli ultimi trent’anni avesse sempre fatto in modo che l’Iran non avanzasse richieste di transito. Da questo punto di vista è chiaro che l’Iran ha abilmente sfruttato la caduta di Mubarak per mettere piede nel Mediterraneo e testare la politica estera del nuovo governo militare egiziano. Peraltro l’Egitto dopo il 1975 ha sempre autorizzato il transito di unità israeliane, compresi i sommergibili classe “Dolphin” dotati di missili balistici diretti nel Golfo Persico. Altro problema è che la presenza iraniana nel Mediterraneo è stata considerata una sfida ravvicinata alla sicurezza di Israele. Ma questo non riguarda il Canale, quanto piuttosto l’assetto geopolitico dello stesso Mediterraneo che, è bene ricordarlo, non è né un mare chiuso come il Mar Nero né una zona smilitarizzata.

Un mese dopo il passaggio delle navi iraniane, il ministro degli Esteri egiziano, Nabil al-Arabi, e il suo omologo iraniano, Ali Akbar Salehi, hanno espresso pubblicamente la volontà di rilanciare i rapporti tra i loro Paesi. «Egiziani ed iraniani meritano di avere relazioni reciproche che riflettano la loro storia e civiltà: l’Egitto non considera l’Iran come un Paese nemico», ha dichiarato al-Arabi, mentre secondo Salehi «le buone relazioni tra i due Paesi aiuterebbero a riportare la stabilità, la sicurezza e lo sviluppo nell’intera regione»5. Ma a preoccupare maggiormente Israele sono state le successive dichiarazioni del Ministro egiziano, il quale ha riconosciuto Hezbollah come parte del tessuto politico e sociale del Libano ed ha affermato di voler intraprendere relazioni più distese con la Siria e con Hamas. A conferma di ciò, non solo è stato riaperto il valico di Rafah, ma i leader di Hamas si sono incontrati con le autorità egiziane per la prima volta alla sede del Ministero degli Esteri, e non in un hotel: un segnale che l’Egitto considera Hamas un partner diplomatico e non più solo un “rischio per la sicurezza”.

Tuttavia, secondo alcuni analisti il riavvicinamento tra Egitto e Iran non dovrebbe causare troppe preoccupazioni perché, per il momento, non si tradurrà in un’alleanza strategica e non andrà ad alterare le alleanze già esistenti sia con i Paesi arabi del Golfo come l’Arabia Saudita che con gli Stati Uniti. La portavoce del Ministero degli Esteri egiziano ha infatti dichiarato: «L’Iran è un vicino regionale con il quale si sta cercando di normalizzare le relazioni. L’Iran non è percepito né come un nemico, come lo era durante l’ex regime, né come un amico»6.

Un personaggio chiave che ha sempre spinto per la ripresa dei rapporti tra i due paesi è Amr Mousa, ex segretario della Lega Araba, ex Ministro degli Esteri egiziano e uno dei favoriti alla successione di Mubarak. Attraverso una politica filo-iraniana, alternativa agli USA ed all’Arabia Saudita, e soprattutto ostile ad Israele, Mousa ha cercato il consenso dei vari partiti formatisi dopo lo tsunami politico causato dalle proteste di febbraio, trovando nell’islamismo il collante giusto per conquistare il potere. Sulla stessa linea si muove Fahmi Howeydi, analista esperto in geopolitica, giornalista e intellettuale. L’ipotesi lanciata da Howeydi ha una logica perfetta, cercando di aggirare il millenario ‘scisma’ tra sunniti e sciiti. Secondo Howeydi il nuovo Egitto dovrebbe rispondere alle richieste del popolo, e quindi prendere le distanza dall’Occidente e dal suo alter ego regionale: Israele. Inoltre, per consolidare la stabilità del Medio Oriente si dovrebbe puntare alla creazione di una triplice alleanza tra Iran, Egitto e Turchia. Una politica estera in grado di mantenere buoni rapporti, ma più equilibrati, con gli USA e di ristabilire l’influenza del paese come leader regionale è fortemente sostenuta a livello popolare dalla maggior parte degli egiziani. La caduta del regime di Mubarak ha creato una situazione politica in cui l’Egitto si è schierato maggiormente a favore del popolo palestinese e sta prendendo le distanze da Israele. Tuttavia, l’Egitto e l’Iran hanno opinioni divergenti sulla questione palestinese: l’Egitto chiede ulteriori negoziati nella regione per una Palestina stabile, mentre l’Iran continua ad incoraggiare la resistenza nei confronti di Israele. D’altra parte, l’Egitto è ben consapevole dell’importanza crescente dell’Iran nel Medio Oriente e della sua influenza su alcune forze regionali, tra cui Hezbollah in Libano, Hamas in Palestina, e gli sciiti in Iraq. Tuttavia, il pieno significato dei rapporti tra Egitto e Iran non è ancora stato rivelato e non è chiaro come si svilupperanno, in particolare in seguito alle elezioni presidenziali egiziane che sono in corso in questi giorni.

* Eliana Favari è dottoressa magistrale in Scienze Internazionali – Global Studies (Università degli Studi di Torino).


NOTE:

1 http://www.suezcanal.gov.eg/

2 Fabio Caffio, Glossario di Diritto del Mare, “Supplemento alla Rivista Marittima”, nr 5/2007.

3 Ibidem.

4 Ibidem.

5 Gomaa Hamadalla, Egyptian FM: Gulf fears of Egypt-Iran détente ‘unjustified’, “al-Masry al-Youm”, 17 aprile, 2011.

6 Davis D. Kirkpatrick, In Shift, Egypt Warms to Iran and Hamas, Israel’s Foes, “New York Times”, 28 aprile 2011, accessibile su http://www.nytimes.com/2011/04/29/world/middleeast/29egypt.html?_r=2 [1] (ultimo accesso effettuato il 15 maggio 2011).

dimanche, 06 mai 2012

L'Afrique Réelle N° 28 - Avril 2012

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L'Afrique Réelle N° 28 - Avril 2012

 
Sommaire
 
Ex: http://bernardlugan.blogspot.com/

Actualité :
 
- La guerre du Mali : un conflit dont la résolution passe par le retour au réel ethnique
- Libye : la guerre Toubou-Arabes peut-elle embraser le Tchad ?
- Le Somaliland en quête d’une reconnaissance par l’Union Européenne
 
Dossier : Les berbères
 
- Le long combat identitaire des Berbères
- Entretien avec Bernard Lugan
- L'Egypte et les Berbères
- Les royaumes berbères durant l'antiquité
- L'arabisation ethnique de la Berberie
- L’opposition entre Berbères et Arabes dans le mouvement nationaliste algérien
- Le Maroc, l'Algérie et la Berbérité
 
Editorial de Bernard Lugan
 
La guerre du Mali a fait exploser sous nos yeux ces deux grands mythes destructeurs de l’Afrique que je ne cesse de dénoncer depuis des décennies : celui de l’Etat-nation pluri ethnique et celui de la démocratie fondée sur le principe du « un homme, une voix ». En effet :
 
1) Le mélange ethnique au sein d’un même Etat artificiel est par lui-même crisogène ; d’autant plus que le phénomène est aggravé par la démocratie, cette ethno-mathématique qui donne le pouvoir aux plus nombreux, réduisant les peuples minoritaires à l’esclavage ou les contraignant à la rébellion armée.
2) Après les guerres Nord contre Sud au Tchad, en Côte d’Ivoire, au Nigeria, au Soudan, le Mali montre à son tour que les Etats post-coloniaux sont des coquilles vides. En ce sens, la malencontreuse intervention franco-otanienne en Libye aura au moins eu un effet positif : le colonel Kadhafi n’étant plus là pour les contenir, les Touaregs qui ont repris leur liberté ont en effet fait sauter le principal tabou qui interdit à l’Afrique de redevenir elle-même, donc d’exister.
 
Or, au moment où les Touaregs démontrent que les lois historiques inscrites dans la longue durée sont plus fortes que nos fantasmes universalistes et démocratiques, au moment où le réel triomphe des idéologies, nos dirigeants, incapables de prendre la mesure de la situation, s’accrochent tels des automates à ces frontières cicatrices, ces lignes prisons tracées au mépris de toutes les réalités physiques et humaines.
Relisons Ferhat Mehenni et son livre manifeste dans lequel il parle d’«_Etats sans nations ». Méditons une réflexion de l’auteur pour qui les dirigeants européens, au lieu de s’interroger sur l’avenir d’Etats artificiels, mettent au contraire en cause les Peuples qui les combattent au nom de légitimes revendications identitaires.
 
Plus que jamais, la solution, au Mali comme ailleurs en Afrique, est la partition. On objectera que ce serait alors la porte ouverte à la balkanisation. Probablement. Mais de la Balkanisation peuvent sortir de nouveaux équilibres ; pas du néant actuel. N’oublions pas que pour mettre fin à la Guerre de Trente ans les Traités de Westphalie dotèrent l’Europe d’une poussière d’Etats dont des dizaines de micro-Etats. D’ailleurs, pourquoi toujours penser en termes de vastes ensembles ; y aurait-il un étalon maître à ce sujet ?
L’avenir de l’Afrique est à des Etats plus « petits » et aux frontières épousant plus fidèlement les réalités des peuples.
Faisons un retour en arrière et oublions les invectives et les anathèmes pour ne parler que de la pertinence du système : les Sud-africains avaient tenté, maladroitement certes, cette expérience avec la politique des Etats nationaux ethniques, dite politique des Bantustan, solution visionnaire qui fut rejetée avec indignation par la bien-pensance internationale engluée dans ses dogmes.
Aujourd’hui, après l’indépendance de l’Erythrée, du Sud Soudan, demain du Somaliland et de l’Azawad, après plus d’un demi siècle de guerres qui ont bloqué tout développement en Afrique, le débat ne mérite t-il pas d’être à nouveau ouvert dans un climat enfin dépassionné ?

samedi, 05 mai 2012

Soudan : les causes d’une guerre annoncée

Bernard Lugan:

Soudan : les causes d’une guerre annoncée

Ex: http://bernardlugan.blogspot.com/

 
soudan220_2705.jpgIl ne fallait pas être grand clerc pour prévoir que le Nord et le Sud Soudan allaient immanquablement se faire la guerre. Dans le numéro de l’Afrique Réelle daté du mois de juin 2011, j’avais ainsi signé un article titré : « Soudan : guerre pour le saillant d’Abyei ? ». Moins d’un an plus tard, le 10 avril 2012, la guerre a effectivement éclaté à Heglig, zone produisant 50% de tout le pétrole extrait dans le Nord Soudan et qui touche le saillant d’Abyei. Une violente contre-attaque accompagnée de raids aériens contre certaines villes du Sud, dont Bentiu, permit ensuite aux forces de Khartoum de reprendre le terrain perdu ; le 20 avril, après de durs combats, les forces sudistes se replièrent.
 
Trois grandes raisons expliquent cette guerre :
 
1) La région d’Abyei et d’Heglig est le homeland de certaines tribus Dinka dont les Ngok. Elle est actuellement occupée par l’armée nordiste. Un référendum devrait décider de l’appartenance d’Abyei au Nord ou au Sud Soudan ; or, les Dinka y ayant été l’objet d’un vaste nettoyage ethnique opéré par les milices islamiques favorables à Khartoum, la composition du corps électoral y a profondément changé.
 
2) Au mois de juillet 2009, la Cour d’arbitrage de La Haye préconisa le partage de toute la région entre Dinka et Arabes de la tribu des Misseryia sur la base de l’occupation actuelle, entérinant ainsi la spoliation des Dinka, la zone pétrolière d’Heglig étant, elle, définitivement rattachée au Soudan Khartoum.
 
3) Avant la partition de 2011, le Soudan produisait 470 000 barils/jour dont les ¾ au Sud. Or, les 350 000 barils/jour extraits dans le nouvel Etat du Sud Soudan sont exportés par un pipe line traversant tout le Nord Soudan pour aboutir sur la mer Rouge. Les négociations entre les deux pays portant sur les droits de transport du brut du Sud à travers le pipe line du Nord ont été rompues. Pour ne plus dépendre du Nord Soudan, le Sud Soudan a signé deux accords de désenclavement prévoyant la construction de deux nouveaux pipe line, l’un avec le Kenya et l’autre avec l’Ethiopie. Puis, le 26 janvier 2012, le Sud Soudan a  fermé tous ses puits situés à proximité de la frontière avec le Nord Soudan. Avec cette mesure, certes il se pénalisait, mais il privait en même temps le Soudan du Nord des droits de transit de son propre pétrole.
 
Quand, le 10 avril 2012, le Sud Soudan lança son offensive surprise à Heglig, il n’avait pas pour objectif de s’emparer de cette région, ce que Khartoum n’aurait jamais accepté. Son but était d’y détruire les infrastructures pétrolières afin d’affaiblir encore davantage le Nord Soudan pour le contraindre à accepter, à la fois ses revendications territoriales et celles portant sur le coût du transit de son pétrole en attendant la construction des deux pipe line sudistes.
 
Bernard Lugan
25/04/2012 


[1] La question de la guerre du Soudan sera développée dans le numéro de mai de l’Afrique réelle.

dimanche, 15 avril 2012

MAIN BASSE AMERICAINE ET ISLAMIQUE SUR LE MALI

 

MAIN BASSE AMERICAINE ET ISLAMIQUE SUR LE MALI

Quelle capitale dicte la politique étrangère de la France ?

Michel Lhomme

Ex: http://metamag.fr/

 

 



Mohamed Merah avait souhaité mettre la France à genoux. Elle l’est déjà. Elle l’est, non seulement par sa politique sécuritaire et économique, mais surtout, par sa politique étrangère, qui semble avoir été dictée, sous Nicolas Sarkozy, à Washington ou à Tel Aviv. Au point de nous demander, parfois, s'il n’aurait pas été, de tout temps, un bon agent américain infiltré ?
 
Après les violents combats qui ont opposé l’armée malienne et les rebelles touaregs au Nord du Mali –ils avaient fait plus de 100 morts, début mars, près de Tessali dans le Nord du Mali- l’armée régulière vaincue, repliée sur Bamako et dirigée par des capitaines putschistes de second rang (trois excellents officiers supérieurs avaient rejoint en octobre la rébellion touarègue) assiste à l’éclatement des divisions du Nord, entre nomades indépendantistes et musulmans intégristes. Ces derniers seraient en train, au prix du massacre impitoyable des rares chrétiens présents, de tortures et d’une politique de la terreur et du chantage pratiquée sur les populations (la charia contre les voleurs) de contrôler Tombouctou et le Nord du pays. 
 
 
La France est incapable matériellement et, semble-t-il, moralement d’intervenir militairement, sauf à décréter, irrationnellement, un embargo qui affectera, en priorité, les populations pauvres de Bamako, les familles des Maliens de Montreuil qui, d’ailleurs, ne vont pas manquer, très vite, de réagir et de descendre dans la rue ! Si le but de l’embargo contre le Mali est de couper les approvisionnements d’essence, il faut, en effet, être bien naïf pour ne pas comprendre que, très vite, cet approvisionnement se fera par le Nord, renforçant du coup les réseaux illégaux, c’est-à-dire la logistique et les finances des rebelles.
 
Que Paris vire Juppé et Longuet, rappelle Talleyrand et Foccart
 
La diplomatie française de Sarkozy-Bhl-Juppé est au tapis. Le Mali, comme l’a bien souligné Jean Bonnevey, est la conséquence directe de l’intervention en Libye et du « printemps islamiste » qui l’a suivi. Depuis, la France paraît avoir été ingénue, régie par la politique de l’émotion médiatique ou, alors, elle s’est faite tout simplement manipulée en beauté par des intérêts pétroliers et américains. Dans le premier cas, naïveté ou angélisme politique du Quai d’Orsay et d’un Ministre escroc à l’ego démesuré, nous avons de quoi nous inquiéter. En réagissant en direct sur n’importe quelle déstabilisation orchestrée (Libye, Syrie), la France se prive de toute vision géopolitique à long terme et, surtout, du réalisme, forcément machiavélique qui doit animer pourtant toute vraie politique étrangère.
 

Que Paris vire Juppé !
 
Cela fait plus d’un an que quatre Français sont détenus dans la région. Ils sont retenus par la katiba (phalange) Tareq Ibn Zyad, dirigée par Hamadou Abid Aboud Zeid, au nord du Mali, dans la région montagneuse du Timétrine, au nord-ouest de l’Adrar des Iforas. L’AQMI (branche d’Al-Qaida au Maghreb) y a sanctuarisé sa zone. Depuis la guerre en Libye, les groupes intégristes musulmans, qui gravitent autour de l’AQMI, mais aussi les rebelles touaregs, ont été lourdement armés et renforcés par la venue de combattants enhardis, à peu près 400, anciens khadafistes, prêts à en découdre, entre autres, avec la France, accusée de haute trahison. La religion est forcément, culturellement, le moteur identitaire de ces groupes disparates. Mais, il ne faut pas non plus se voiler la face, leurs motivations profondes demeurent surtout l’argent. 
 

Des otages pour de l'argent !
 
Le Nord du Mali, territoire des Touaregs, ces anciens marchands d’esclaves florissants, est devenu comme elle l’a toujours été, la zone de tous les trafics, y compris de la cocaïne, venue de Bissau et remontant vers l’Europe. Si l’on en croit certaines informations, les Touaregs auraient perdu le leadership de la révolte du Nord. Nous en doutons un peu. Comme à l’accoutumée, un marché a sans doute été conclu. Mais, à qui sert le contrôle idéologique du Nord, qui n’est pas seulement une poudrière de barbaresques, mais surtout une réserve de matières premières, en particulier du pétrole, récemment découvert par Total ? 
 
Contrôle des ressources: la France dindon de la farce 
 
Si Al-Qaïda n’a souvent été, comme certains bien informés le prétendent, que la « base » manipulée de la CIA dans le monde musulman, alors, nous n’avons pas simplement affaire à une montée de l’islamisme radical au Mali, mais à l’éviction indirecte de la France sur son propre terrain par les Etats-Unis, la Chine étant embusquée derrière les barbelés (voir ses prêts à taux zéro au Niger et le gaz qu’elle y a découvert) et ce, dans une véritable course aux matières premières (les régions inexplorées du Nord du Mali renfermeraient des mines d’uranium, du gaz à la frontière de la Mauritanie et du pétrole). 
 
Il faut savoir que la couverture satellitaire très précise de la région est assurée par les Etats-Unis et que ceux-ci ne transmettent pas nécessairement ses images aux services français et même, parfois, s’y refusent ouvertement ! Enfin, le capitaine Amadou Haya Sanogo, chef des rebelles et nouvel homme fort du Mali arbore fièrement sur son uniforme l’écusson des Marines américains. Il a été formé non seulement à Fort Benning en Géorgie mais, surtout, il a reçu une formation d’officier du renseignement sur la base moins connue de Fort-Wachica en Arizona.
 

Or et phosphates parmi les richesses du Mali
 
Les islamistes du Nord du Mali sont issus, en partie, des groupes algériens djihadistes, du groupe salafiste pour la prédication et le combat (ex-GSPC). Ces groupes ont, ensuite, été absorbés par Al-Qaïda, dans la volonté de cette dernière de rapprocher sa ligne de front avec l’Occident. Leur repaire, c’est le Sahara, grand comme 15 fois la France et partagé par dix pays riverains. Leur but : recruter de nouveaux « fous de Dieu », procéder à des coups de main (rançons d’otages et même hold-up comme celui du port de Nouakchott et ses 4 millions d’euros), s’approvisionner en armes grâce aux multiples trafics qui sont opérés dans cette immense zone grise. Le désert malien est la zone d’entraînement des combattants, l’armée malienne étant incapable de la contrôler et le gouvernement civil aujourd’hui déchu de Touré, complètement corrompu (on raconte dans certains milieux informés que des billets numérotés d’une rançon française pour la libération d’otages libérés auraient été retrouvés dans le sac à main de la première dame, lorsqu’elle faisait ses achats à Paris !). Touré, grand ami de l’Algérie, n’a-t-il pas, toujours, joué un double jeu avec Paris, sécurisant, par exemple, les routes ou les convois du trafic de drogue entre Bamako et le Nord ? L’Algérie, véritable clef du problème malien avec ses 2 000 km de frontières communes. 
 
Concrètement, les islamistes paient trois fois le prix des bidons de 200 litres d’essence, qu’ils enterrent dans le sable. Leur ravitaillement est prédisposé sur plusieurs itinéraires. Les membres des katiba affectionnent les Toyota à grosse cylindrée de 4,5, équipées de mitrailleuses de 12,7mm, mais aussi d’appareils de navigation GPS, qui permettent aux hommes de localiser des caches secrètes d’eau et de vivres dans les vastes étendues de sable. Dans chaque petit groupe, un « ingénieur » est chargé des communications grâce à des mails codés, envoyés par des ordinateurs couplés à des téléphones satellitaires. 
 
En Libye comme au Sahara, les Américains voient tout
 
Seul, les Etats-Unis ont les moyens logistiques de tout contrôler. En 2004, lors de la traque de l’islamiste algérien Ammari Saïfi, les Marines américains ont poursuivi, avec des combattants des forces spéciales algériennes, les bandes djihadistes sur la frange de 5 000 km que les Américains appellent la « ceinture d’instabilité » : minorités insoumises, faillite économique, sécheresse et famine récurrentes, dégradation environnementale. D’ailleurs, au même moment où éclate la crise malienne (lâchage de Touré par la France ou par les USA ?), les services de l’ONU lancent un appel de détresse, au sujet de la famine sahélienne où se prépare, pour les semaines à venir, une véritable catastrophe humanitaire. 
 
 
En fait, la France n’a pas compris la nouvelle guerre du XXIème siècle, la guerre en réseau, cette forme de combat dans laquelle agents de renseignement et militaires américains collaborent avec les forces armées locales et autres groupes clandestins, mercenaires privés et bandes mafieuses. La France est, de fait, larguée par la qualité de la surveillance électronique américaine, la coordination du renseignement humain et des données satellitaires, ceci en Afrique, sur sa chasse gardée mais aussi, aussi sur son propre territoire (les câbles Wikileaks de l’Ambassade des Etats-Unis à Paris, la troublante affaire Merah, les réseaux de vente et d’achat d’armes de guerre en banlieue).
 
Enfin, comment ne pas voir, aussi, que la partition du Mali, en cours, est la conséquence directe de celle du Soudan, avec ce rêve, devenu réaliste, de la remise en question des frontières africaines artificielles issues de la colonisation. Après tout, le Nord du Mali devient un Etat touareg et un peuple, fut-il nomade, choisit « librement » son destin ! En validant le précédent du Sud-Soudan, là encore avec d’évidentes arrière-pensées pétrolières, les Occidentaux ont ouvert la boîte de Pandore qui permettrait, à terme, de remodeler l’Afrique sur des considérations ethnico-culturelles, plus conformes à son histoire et seule voie de stabilité pour le continent. 
 
Pour une Europe des peuples en Afrique 
 
Seul, ce long processus de redéfinition des frontières internes assurera la vraie maîtrise de leur continent par les Africains (lire à ce propos les analyses anciennes de l’africaniste Bernard Lugan) et, en même temps, la sécurité pour les puissances américaine ou chinoise plus pragmatiques dans la gestion des territoires outre-mer. Qu’importe, au fait, qu’ils soient fanatiques si les puits sont bien gardés et l’acheminement des extractions minières sécurisées ! 
 
Les vieilles frontières coloniales n’ont de toute façon pas de sens en Afrique et sont perpétuellement violées dans les faits. Il n’y a pas de principe d’intangibilité des frontières en plein désert. Au Sahel, on passe même d’un pays à l’autre sans s’en rendre compte ! Déjà, on a redessiné le Soudan, la Somalie, le Maroc avec son Sahara Occidental autonome, l’Erythrée. Il faut poursuivre et, peut-être, envisager, dès maintenant, une conférence internationale sur ce sujet tabou, discuter de la question de manière décomplexée et refondre la carte africaine. 
 

Après la Lybie, la Tunisie, Sarkozy porte la poisse à ses invités
 
Finalement, le Petit Prince a grandi. Il ne dira plus "S’il te plaît, dessine-moi une frontière", mais "redessinons-nos frontières !" Pourquoi la France, au lieu de s’arc-bouter dans la peur et dans l’inquiétude, ne tenterait-elle pas de proposer et de réussir ce remodelage pacifique de tout un continent ? Ne disposerait-elle pas encore de diplomates compétents, après avoir limogé toutes les têtes qui dépassent du Quai d’Orsay et de la Défense ? Serait-elle encore une fois tétanisée et paralysée par son immigration intérieure, comme celle des Maliens de Montreuil ? 
 
Elle devrait pourtant, avec l’Union Européenne, proposer cet objectif : aider les Africains à modifier leurs frontières nationales internes au lieu de craindre arbitrairement une islamisation improbable de tout le continent. Les Européens ont là un double rôle historique à jouer : d’une part, ce sont eux qui ont inventé l’Etat-nation et l’ont exporté brutalement en Afrique par la colonisation. Mais, d’autre part, ce sont eux qui ont aussi inventé l’intégration régionale pacifique qui a dépassé, en l’intégrant pacifiquement dans une entité plus vaste, ce même Etat-nation, faisant des frontières non des barrières mais des interfaces, au sens informatique du terme. 
 
Si les Européens ne font rien au Mali, pour le pacifier diplomatiquement, c’est peut-être en effet une autre crise systémique globale qui va clore la domination française sur le Sahel, tandis que les Etats-Unis, à trop jouer avec le feu, finiront par perdre les « marches arabes » de leur empire au profit de la Chine, neutre religieusement parlant, mais principal prêteur bancaire de la région. A Paris, Alain Juppé et Gérard Longuet ne semblent pas sortir de leur torpeur intellectuelle et de l’illusion qui consiste à croire qu’il existe encore un leadership américain : ils paraissent incapables d’avoir des visions à long terme et de reprendre la main. On appelle cela une fin de règne mais aussi, sans doute, la fin d’une époque, l’enterrement de la "Françafrique" si décriée. La France n’est plus puissante en Afrique. Mais les Africains le sont, plus que jamais, à Paris.

vendredi, 13 avril 2012

Histoire des Berbères, des origines à nos jours

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Sortie du nouveau livre de Bernard Lugan :
Histoire des Berbères, des origines à nos jours. Un combat identitaire pluri-millénaire.
 
IMPORTANT : Ce livre édité par l'Afrique Réelle n'est pas disponible dans les librairies ou les sites de commandes en ligne. Seule l'Afrique Réelle le distribue.
 
Prix (frais de port compris) :
- 29 € pour livraison en France / Dom-Tom / Europe
- 38 € pour livraison dans le reste du monde (en recommandé avec AR)
- 25 € à partir de 5 livres
 
Pour le commander, 2 possibilités :
- Par carte bleue ou Paypal :
- Par chèque avec le bon de commande ci-joint à imprimer et à nous retourner
 

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Présentation de l'ouvrage
 

Les Berbères ou Imazighen (Amazigh au singulier) constituent le fond ancien de la population de l’Afrique du Nord. Ils formaient à l’origine un seul Peuple peu à peu fragmenté par une histoire à la fois riche, complexe et mouvementée. Des dynasties berbères régnèrent  sur le Maghreb jusqu’au XVI° siècle.

Les partisans de l’arabo-islamisme affirment que les Berbères sont sortis de l’histoire, leur conversion à l’Islam les ayant inscrits de façon irréversible dans l’aire politico-culturelle de l’arabité. Dans les années 1950, la revue Al Maghrib alla ainsi jusqu’à écrire qu’ils ne peuvent accéder au Paradis que s’ils se rattachent à des lignées arabes. Quant auministre algérien de l’Education nationale, il déclara en 1962 qu’ils « sont une invention des Pères Blancs ».

 Aujourd’hui, les dirigeants arabo-islamiques nord africains doivent faire face au réveil berbère si fortement exprimé en 2004 par Mohammed Chafik au travers de sa célèbre question réponse: « Au fait, pourquoi le Maghreb arabe n’arrive-t-il pas à se former ? C’est précisément parce qu’il n’est pas Arabe ». Cette phrase était incluse dans un article dont le titre explosif était : « Et si l’on décolonisait l’Afrique du Nord pour de bon ! », intitulé signifiant qu’après avoir chassé les Français, il convenait désormais pour les Berbères d’en faire de même avec les Arabes…

Qui sont donc les Berbères ? Quelle est leur origine ? Comment furent-ils islamisés ? Quelle est leur longue histoire ? Comment se fait aujourd’hui la renaissance de la berbérité? Peut-elle être une alternative au fondamentalisme islamique ?

C’est à ces questions qu’est consacré ce livre qui n’a pas d’équivalent. Son approche est ethno historique et couvre une période de 10 000 ans. Il est illustré par de nombreuses cartes en couleur et par des photographies.

 

Table des matières

 

Première partie : La Berbérie jusqu’à la conquête arabe

 

Chapitre I : Une très longue histoire

A) L’état des connaissances
B) L’Egypte, une création berbère ?

 

Chapitre II : Les Berbères durant l’Antiquité classique

A) Les Peuples et les Etats
B) Les Berbères furent-ils romanisés ?

 

Chapitre III : Les Berbères, les Vandales et les Byzantins

A) L’intrusion vandale
B) L’échec de Byzance

 

Deuxième partie : Les Berbères se convertissent à l’islam mais ils résistent à l’arabisation (VI°-XV°siècle)

 

Chapitre I : Les Berbères face à la conquête et à l’islamisation

A) Les résistances à la conquête
B) La révolte berbère du VIII° siècle

 

Chapitre II : Le monde berbère du IX° au XII° siècle

A) La Berbérie au IX° siècle
B) Le Maghreb berbéro musulman du X° au XII° siècle

 

Chapitre III : Les  grandes mutations du monde berbère (XII°-XV° siècle)

A) Les Berbères almohades et l’arabisation du Maghreb (XII°-XIII°)
B) La question arabe
C) Le tournant des XIII°-XV° siècles

 

Troisième partie : Des Berbères dominés à la renaissance de la Tamazgha

 

Chapitre I : Les Berbères perdent la maîtrise de leur destin (XVI°-XIX° siècle)

A) Le Maroc entre Arabes et Berbères
B) Les Berbères et les Ottomans (XVI°-XIX° siècle)

 

Chapitre II : Les Berbères et la colonisation

A) Algérie : de la marginalisation à la prise de conscience
B) Maroc : les Berbères victimes du Protectorat ?

 

Chapitre III : La renaissance berbère aujourd’hui

A) Maroc : de la stigmatisation à la cohésion nationale
B) Algérie : entre berbérisme et jacobinisme arabo-musulman
C) Les autres composantes de la Tamazgha

 

- Bibliographie
- Index des noms de personnes
- Index des tribus et des peuples

 

mardi, 03 avril 2012

Du Mali à la Libye, la recomposition de l'Afrique sahélo-saharienne est en cours.

 

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Bernard LUGAN:

Du Mali à la Libye, la recomposition de l'Afrique sahélo-saharienne est en cours

Pour s'abonner à l'Afrique Réelle pour l'année 2012 :
 
Au Mali, après Gao, Tombouctou, la « cité mystérieuse » qui fit tant rêver les explorateurs du XIX° siècle, semble désormais à la portée des combattants touaregs. Sans une intervention étrangère de dernière heure, on ne voit pas comment la ville pourrait leur échapper. Toute la rive nord du fleuve Niger sera donc entre leurs mains. L’actuel conflit a débuté le 17 janvier 2012, à Menaka et dans la région de Kidal, les Touaregs revendiquant l’autodétermination et l’indépendance, leur guerre étant destinée à « libérer le peuple de l’Azawag de l’occupation malienne ».
 
Plus à l’Est, en Libye, dans les régions de Sebha et de Koufra, les combats meurtriers entre les Toubou et les tribus arabes  ont repris le 26 mars et les Toubou revendiquent désormais, eux aussi, un Etat indépendant.  Comme la moitié de l’ethnie toubou vit au Tchad où elle est connue sous le nom de Goranes, les actuels évènements risquent d’y rallumer par contagion une autre guerre, interne celle là, entre les Toubou-Goranes et les  Zaghawa qui sont au pouvoir à N’Djamena.  
 
Voilà le double résultat de l’intervention franco-otanienne en Libye. Le président tchadien Idriss Déby Itno avait vu juste quand il avait mis en garde Paris, affirmant qu’elle allait déstabiliser toute une région aux fragiles équilibres[1].
 
Face à cette situation, qu’est-il possible de faire ?
 
Pour le moment, au Tchad, le président Déby a la situation sous contrôle, mais il ne peut pas laisser les Toubou de Libye se faire massacrer au risque de voir les Toubou-Goranes échapper à son autorité.
 
Au Mali, l’alternative est simple :
 
- Soit nous laissons le cours de la longue histoire reprendre son déroulé et nous admettons la réalité qui est que le Mali n’a jamais existé et que les Touaregs ne veulent plus être soumis aux Noirs du Sud. Dans ce cas, nous entérinons le fait accompli séparatiste et nous veillons à ce que les Touaregs qui auront obtenu ce qu’ils demandaient deviennent nos alliés dans le combat contre Aqmi.
- Soit, de concert avec les Etats de l’Ouest africain, nous intervenons militairement contre les Touaregs pour reconstituer une fiction d’Etat malien et nous  jetons ces derniers dans les bras d’Aqmi avec tous les risques de contagion qu’une telle politique implique.
 
Bernard Lugan
01/04/2012


[1] Le point sur ces conflits sera fait dans le numéro de l’Afrique réelle du mois d’avril que les abonnés recevront prochainement.

lundi, 02 avril 2012

Politische Naivität

Politische Naivität

Ein Schuldenerlaß der EU wird Nordafrika keine Demokratie bringen

Andreas MÖLZER

Ex: http://www.andreas-moelzer.at/

Dem Vernehmen nach erwägen die Mitgliedstaaten der Europäischen Union einen Schuldenerlaß für jene nordafrikanischen Ländern, in denen es im vergangenen Jahr im Zuge des „Arabischen Frühlings“ zu einem Regimewechsel gekommen ist. Als Gegenleistung werden demokratische Reformen erwartet, was ein Zeugnis für den in den europäischen Staatskanzleien vorherrschenden politischen Realitätsverlust ist.

Wie nämlich die Wahlergebnisse in Ägypten und Tunesien gezeigt haben – und auch die vom Gaddafi-Regime befreiten Libyer werden aller Voraussicht nach denselben Weg einschlagen –, ist die Annahme, in Nordafrika würden nun Demokratien nach europäischen Vorbild entstehen, geradezu naiv. Nicht Parteien der „Generation Facebook“ oder westlich-liberale Kräfte haben einen überwältigenden Wahlsieg eingefahren, sondern Islamisten jedweder Schattierung. In den Umbruchstaaten am südlichen Rand des Mittelmeeres sehen die Menschen ihr Heil also nicht in irgendwelchen Menschenrechtskonventionen westlichen Zuschnitts, sondern im islamischen Recht, der Scharia. Wenn es daher zu Schuldenerlässen kommen soll, dann werden diese nicht die geringsten Auswirkungen haben und nicht die erhofften demokratischen Reformen bringen.

Anstatt über zusätzliche Belastungen der EU-Staaten in Form von Schuldenerlässen nachzudenken, müßte bei den reichlich aus Europa fließenden Förderungen oder bei den von der EU gewährten Vergünstigungen angesetzt werden. Diese Zuwendungen sind an Gegenleistungen zu koppeln, und zwar in der Verpflichtung der betreffenden Staaten, ihre Staatsbürger, die illegal in die Europäische Union eingereist sind, zurückzunehmen. Nicht zuletzt auch deshalb, weil es für die nach Europa „geflüchteten“ Nordafrikaner in ihren Heimatländern viel  und vor allem Wichtiges zu tun gibt – nämlich neue, funktionierende Gemeinwesen aufzubauen.

mercredi, 21 mars 2012

La Libye évolue comme on pouvait s'y attendre

 

La Libye évolue comme on pouvait s'y attendre - Nouvelle guerre civile et exportation du terrorisme islamiste

La Libye évolue comme on pouvait s'y attendre

Nouvelle guerre civile et exportation du terrorisme islamiste

Jean Bonnevey
Ex: http://www.metamag.fr/
 
Les apprentis sorciers de l’exportation démocratique dans le monde arabo-musulman par la subversion technologique ou la guerre sont en train de récolter les fruits de leur irresponsabilité libyenne. Comme annoncé, ici et ailleurs, par tous les esprits critiques non sclérosés par un sectarisme idéologique, la Libye, sans Kadhafi, se dirige vers tout, sauf vers la démocratie.
 
Elle se dirige vers une nouvelle guerre civile, alors même que les islamistes les plus durs prêtent main forte à leurs compagnons de route syriens, sous les yeux attendris d'Alain Juppé. Bengazi. La capitale cyrénaïque s'est doté d'un conseil autonome, étape vers l’indépendance souhaitée. A Tripoli, le CNT menace donc d'utiliser la force pour empêcher l'Est du pays de se soustraire à son influence. L'Est du pays veut profiter de son pétrole et se débarrasser de cet Ouest et ce Sud coûteux et suspects au regard des premiers révolutionnaires.
 

La Cyrénaïque a proclamé son autonomie
 
Promise par Alain Juppé et d’autres à un avenir stable, fondé sur des bases démocratiques, la Libye post-Kadhafi va de fait de mal en pis. Jusque-là, c'est en grande partie la situation sécuritaire qui était la plus préoccupante. C’était la loi des milices et des tribus dans le chaos.
 
 
Le Conseil national de transition, qui fait déjà face à une situation plus que délicate, se voit confronté aux aspirations séparatistes, ou officiellement autonomistes, des chefs de tribus et de milices de l'Est libyen à Benghazi, d'où est partie la révolte. Les «autonomistes» revendiquent un système fédéral. Dans un communiqué conjoint, ils avaient fait état de l'élection d'Ahmed Zoubaïr el-Senoussi à la tête de la Cyrénaïque.
 
La Cyrénaïque autonome : une forte odeur de pétrole
 
La région s’estime marginalisée durant les 42 années de règne du colonel. Des milliers de personnes ont assisté à la cérémonie, au cours de laquelle a également été nommé un Conseil chargé de gérer les affaires de cette région, qui fut longtemps indépendant de la Tripolitaine. Ce Conseil reconnaît toutefois le Conseil national de transition, qualifié de «symbole de l'unité du pays et représentant légitime aux sommets internationaux».
 
A cette prétention d’éloignement, le président du Conseil national de transition, Moustapha Abdeljalil, a répondu «Nous ne sommes pas préparés à une division de la Libye», dans des propos diffusés par la télévision, appelant ses frères de cette région baptisée «Cyrénaïque» au dialogue. Il les a ainsi mis en garde contre les «restes» de l’ancien pouvoir, en précisant qu'ils devraient savoir que des «infiltrés» et des restes du régime déchu tentaient de les utiliser. «Nous sommes prêts à les en dissuader, même par la force», a averti Abdeljalil.
 
Soutien officialisé des Islamistes libyens au rebelles syriens
 
Ce n’est pas tout. Les Islamistes, bien présents comme l’avait dit le défunt colonel, sont actifs déjà en dehors des frontières. L'ambassadeur russe à l'ONU a accusé le gouvernement libyen d'abriter un camp d'entraînement pour des rebelles syriens qui ont mené des actions contre le régime de Damas.
 
"Nous avons reçu des informations selon lesquelles il existe en Libye, avec le plein soutien des autorités, un centre d'entraînement spécial pour des rebelles syriens; ces personnes sont ensuite envoyées en Syrie pour attaquer le gouvernement en place", a lancé Vitali Tchourkine, lors d'une réunion du Conseil de sécurité dédiée à la Libye, en présence du Premier ministre par intérim, Abdel Rahim al-Kib. "Cette situation est totalement inacceptable sur le plan légal et de telles activités sapent la stabilité au Moyen-Orient", a renchéri l'ambassadeur, provoquant la fureur du responsable libyen.
 
Le diplomate a, par ailleurs, souligné que son pays était certain que l'organisation extrémiste, Al-Qaïda, est présente en Syrie. D'où cette question à présent: est-ce que l'exportation de la rébellion démocratique libyenne va se transformer en une exportation du terrorisme dans le moyen orient? Question accessoire, BLH et Juppé sont-ils toujours aussi contents d’eux ?

jeudi, 15 mars 2012

La Libia è una nuova Somalia

La Libia è una nuova Somalia

di Angelo Del Boca - Tommaso di Francesco

Fonte: Il Manifesto [scheda fonte]

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«L'autonomia armata dell'Est getta il Paese, già diviso dalle fazioni che hanno deposto Gheddafi, nel caos a tre mesi dal voto di giugno. Per l'Onu i diritti umani sono violati. Interessi italiani a rischio»

Roma, 9 marzo 2012, Nena News – Un'assemblea delle tribù e delle milizie della Cirenaica riunita a Bengasi due giorni fa ha dato vita al Consiglio provvisorio di Barqa (Cirenaica) chiedendo la piena autonomia della regione da Tripoli. Mustafa Abdel Jalil, presidente del Cnt fino alle prossime elezioni di giugno, ha definito l’iniziativa la «sedizione dell’est» accusando non meglio precisati «paesi arabi» di avere fomentato la «cospirazione».

E ieri ha minacciato: «Devono sapere che gli infiltrati e i fedelissimi dell’ex regime tentano di utilizzarli e noi siamo pronti a dissuaderli. Anche con la forza». E anche Hamid Al-Hassi, capo militare del Consiglio di Barqa ammonisce: «Siamo pronti a dare battaglia. Siamo dunque a quel rischio di guerra civile che lo stesso Jalil paventava di fronte all’anarchia delle milizie che spadroneggiano in Libia. Ne parliamo con Angelo Del Boca, storico della Libia e del colonialismo.

La Libia sembra diventata quella «nuova Somalia», in preda alle milizie islamiche» che profetizzava Gheddafi, linciato solo nell’ottobre scorso, poche settimane prima della fine della guerra aerea della Nato fatta «per proteggere i civili»…

In un certo senso sì, proprio una nuova Somalia. Per 42 anni Gheddafi era riuscito, più con le cattive che con le buone, a tenere insieme il Paese e a guidarlo in mezzo a burrasche non da poco. Morto lui sembra che tutto vada nel disastro. Perché le milizie non mollano le armi, il governo provvisorio fa di tutto per raccoglierle ma non ce la fa. Siamo arrivati addirittura al pronunciamento da Bengasi per dividere il paese, fatto non in maniera provvisoria, perché a capo di questo fantomatico governo c’è addirittura Ahmed Al Senussi, pronipote d re Idris. Quindi non è solo una divisione amministrativa ma soprattutto politica. Al Senussi è un personaggio poco noto perché sono passati tanti anni dal colpo di stato con cui Gheddafi depose re Idris, è stato per molti anni nelle galere del raìs per avere tentato un golpe contro di lui nel 1970, poi è stato liberato negli anni Ottanta. Ma certo rappresenta almeno la memoria della monarchia libica. Non dimentichiamo che in Cirenaica la rivolta l’hanno fatta con la bandiera dei Senussi, della monarchia. Lì è scoppiata la vera resistenza che ha dato filo da torcere agli italiani e alla fine, quando gli inglesi hanno deciso di consegnare la Libia a un personaggio di rilievo, l’hanno messa nelle mani di Al Senussi, re Idris, nato e vissuto a Tobruq. Inoltre la Senussia oltre ad essere stata una organizzazione politica è anche una confraternita religiosa con più di cento anni di vita.

Che cos’è la Cirenaica quanto a interessi petroliferi della Libia?

Diciamo che i porti più importanti sono proprio in Cirenaica che presenta il più alto numero di giacimenti e di raffinerie, a Ras Lanuf con 220mila barili al giorno, a Marsa el Brega e a Tobruq. Certo ce ne sono anche in Tripolitania e nella Sirte, molti pozzi sono anche in mare, ma la parte principale di queste «oasi del petrolio» sono proprio in Cirenaica. Ricca, non dimentichiamolo, anche di acqua. Il grande progetto di Gheddafi, il famoso River, il fiume sotterraneo – che anche gli insorti chiesero alla Nato di non bombardate – scorre da Kufra fino al mare, prosegue lungo tutta la costa e risale da Tripoli verso Gadames. È costato circa 30 miliardi di dollari e non si sa quanto durerà quest’acqua. È una enorme bolla sotterranea dalla quale attingono tutte le aree vicine, così gigantesco che è stata costruita una fabbrica per allestire manufatti addatti alla canalizzazione. È il rubinetto della Cirenaica e della Libia. Chi lo controlla controlla il Paese. Qundi non ci sono solo gli introiti petroliferi ma questo «rubinetto» di una fonte come l’acqua decisiva quanto s enon più del petrolio. Un’acqua che ha creato una fertilità che da tempo ha dato quasi l’autonomia alimentare alla Libia, trasformando il litorale nell’orto che produce per i sei milioni di abitanti.

Quale «paese arabo» potrebbe esserci «dietro»questo pronunciamento della Cirenaica? Shalgam, l’autorevole ambasciatore all’Onu della Libia, prima con Gheddafi e poi passato agli insorti, ripete che non vuole «una Libia controllata dal Qatar»…

Indubbiamente il Qatar è interessato. C’era un inserto straordinario di Le Monde la scorsa settimana tutto dedicato ai nuovi interessi strategici della petromonarchia del Qatar, sul Medio Oriente, in Africa e nel mondo intero dove ha comprato terre ovunque. Il Qatar punta ad avere riserve di petrodollari enormi. E non dimentichiamo che fra le milizie che combattevano contro Gheddafi c’erano alcune centinaia – migliaia per altre fonti – di militari del Qatar. E hanno anche capacità d’intelligence e di forniture di armi.

L’unico accordo possibile in Libia è sull’Islam, che finirà nella nuova Costituzione. Per il resto, le milizie spadroneggiano in armi e cresce il ruolo degli integralisti islamici con il capo militare di Tripoli Belhadj…

Peggio. Il rapporto dell’Onu conferma le denunce di Amnesty International, le stragi contro i vinti, le carcerazioni arbitarie, con quasi 8.000 i detenuti, la pratica diffusa della tortura contro i civili lealisti. Mi chiedo come in questo enorme disordine si potrà arrivare alle elezioni di giugno, così vicine. E si aprono problemi per l’Italia che sta cercando nuovi scambi industriali e di recuperare investimenti e ruolo. Dopo le mega-promesse di Gheddafi, nulla sarà più facile. E poi c’è la questione della famosa litoranea che dovevamo costruire in 25 anni: adesso i nuovi dirigenti della Libia chiedono che venga fatta in cinque anni e con un esborso enorme di finanziamenti.

Nena News

Tratto da: http://nena-news.globalist.it/?p=17650.


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

mardi, 13 mars 2012

La Libye, de la « libération » à la somalisation

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La Libye, de la « libération » à la somalisation 

par Camille Galic - Ex: http://www.polemia.com/ 

Alors que les turbulences se poursuivent en Egypte et en Tunisie, où l’asphyxie du tourisme et le départ des investisseurs provoquent un chômage sans précédent, le risque (prévisible) de sécession de la Cyrénaïque remet la Libye au premier plan, affolant chancelleries et rédactions.

Le 8 mars était trompettée une excellente nouvelle : après « trente-trois ans » de total dévouement à un régime qu’il vient de découvrir « criminel », Abdo Hussameddine, vice-ministre syrien du Pétrole, choisissait de « rejoindre la révolution du peuple qui rejette l'injustice » et de reprendre ainsi « le droit chemin ». Cette miraculeuse conversion à la démocratie est aussi une inestimable prise de guerre pour les rebelles syriens réputés, par notre ministre Alain Juppé en particulier, incarner les droits de l’homme.

Mais cette sensationnelle annonce faisait bientôt place à une autre, beaucoup moins réjouissante pour les zélateurs des « printemps arabes » : l’éventualité de la « dislocation de la Libye », avec la proclamation unilatérale de l'autonomie de l'Est libyen par des dignitaires locaux, chefs de tribu et commandants de milice réunis à Benghazi – deuxième ville du pays et berceau de l'insurrection qui a renversé Muammar Kadhafi – devant des milliers de personnes qui les ont follement applaudis. Moustapha Abdeljalil, président du Conseil national de transition (CNT) au pouvoir, répliquait aussitôt à cette « provocation » par la menace de « recourir à la force » pour mater les « séparatistes ». S’il réprime la rébellion de ces derniers avec la vigueur d’un Bachar al-Assad, quel dilemme pour Nicolas Sarkozy qui, le 1er septembre à l’Elysée, et au nom des « Amis de la Libye » (dont le Britannique David Cameron, l’onusien Ban-Ki-Moon et l’émir du Katar), remettait au même Abdeljalil 15 milliards de dollars pour la « reconstruction de la Libye nouvelle » ! Un mirage exalté par tous les médias.

Un pays livré à des milices surarmées

Du coup, c’est l’affolement dans les rédactions. « Libye : l’autonomie de l’Est fait craindre une partition du pays », titrait Le Parisien, « Menace d‘une nouvelle guerre civile », s’inquiétait Libération, « Libérée de Kadhafi, la Libye s’enfonce dans le chaos », constatait avec tristesse Le Nouvel Observateur ; l’AFP évoquait un « risque de somalisation » et Le Point lui-même, où sévit Bernard-Henri Lévy, héraut de la « croisade » contre Kadhafi et tombeur du raïs, admettait par la plume de son correspondant Armin Arefi l’extrême gravité de la situation : « Ce devait être le grand succès international du quinquennat de Nicolas Sarkozy. Mais la Libye post-Kadhafi semble inexorablement basculer dans l'impasse. L'annonce de l'autonomie de la région de Cyrénaïque a fait l'effet d'une bombe. » Les conséquences en seront d’autant plus graves et plus sanglantes que, depuis la révolution, la Libye souffre d’un « fléau » : « l'abondance d'armes en libre circulation à travers le pays ». Ces armes, fournies notamment par les « officiers de liaison » français envoyés par Paris, avaient été « confiées aux rebelles organisés en milices pour se débarrasser de Muammar Kadhafi ». Las ! Les milices sont désormais « hors de contrôle » et, selon le diplomate français Patrick Haimzadeh cité par l’hebdomadaire de François Pinault, il n'est donc pas exclu que les autonomistes de Benghazi « aillent à l'affrontement avec le gouvernement central, en cas de refus », tant ils sont convaincus que « la révolution a été déviée » et qu’elle leur a été confisquée par Tripoli.

Conclusion de Armin Arefi : « Si le candidat Nicolas Sarkozy peut se targuer d'avoir évité le bain de sang que promettait Muammar Kadhafi à Benghazi, il semble bien moins se soucier aujourd'hui du sort d'un pays miné par les intérêts personnels et les rivalités, tant régionales que tribales […] Nicolas Sarkozy s'attendait à une guerre pliée en une semaine, car il ne connaissait pas la société libyenne. Or on ne change pas une culture politique en quelques mois. Cette situation va durer au moins dix ans. »

« Silence médiatique » malgré le tocsin

Mais qu’importait, sans doute, aux yeux du président-candidat ! « Le temps où les caméras, appareils photo et plumes du monde entier informaient non-stop sur la Libye paraît bien loin. La Libye est retournée au silence médiatique. Les regards se sont tournés vers la révolution suivante, en Syrie », commentait de son côté Gaël Cogné sur France TV Info, grand service de « l’actu en continu » lancé en fanfare le 14 novembre dernier par le géant France Télévisions, avec l’ambition d’être « la première plateforme d'informations en temps réel du service public », alimentée par les multiples rédactions de la télévision d’Etat.

Evoquant les cent cinquante tribus composant la société libyenne et agitées de violents antagonismes, Gaël Cogné écrit benoîtement que « ces divisions ne sont pas une surprise ».
Eh bien si, c’en est une, et de taille pour le bon peuple, qui a financé de ses deniers durement gagnés une intervention militaire (au coût exorbitant en ces temps de crise : plus de 350 millions d’euros, estimait L’Express du 28/09/2011) mais dont on lui avait juré qu’elle procurerait un avenir radieux au peuple libyen et, à la France, un marché du siècle : « A ceux qui parlent d’argent, je fais remarquer que c'est aussi un investissement sur l'avenir », avait osé déclarer un mois plus tôt notre inénarrable ministre des Affaires étrangères au quotidien Le Parisien (du 27/8/2011). Un investissement bien compromis par les événements actuels.

Pourtant, les mises en garde n’avaient pas manqué. Le fils du colonel Kadhafi, Seif Al-Islam, avait prédit dès les premiers temps de l'insurrection que les tensions entre tribus « pourraient causer des guerres civiles ». Une mise en garde avait été lancée d’emblée par Polémia qui, sur son site, avait multiplié les alertes (1) dans des articles où était clairement souligné le risque de « partition » du pays, à partir des travaux de Bernard Lugan. Dès le 13 mars 2011, le célèbre africaniste avait déploré qu’ « en écoutant BHL et non les spécialistes de la région, le président Sarkozy ait involontairement redonné vie au plan Bevin-Sforza rejeté par les Nations unies en 1949 ». Et Lugan d’expliquer : « Ce plan proposait la création de deux Etats, la Tripolitaine, qui dispose aujourd’hui de l’essentiel des réserves gazières, et la Cyrénaïque, qui produit l’essentiel du pétrole. Voilà donc la première étape de ce plan oublié désormais réalisée avec la reconnaissance par la France, suivie par l’UE, du gouvernement insurrectionnel de la Cyrénaïque… Deux Etats existent donc sur les ruines de la défunte Libye : la Cyrénaïque – provisoirement ? – aux mains des insurgés, et la Tripolitaine. C’est à partir de cette donnée qu’il convient d’analyser la situation, tout le reste n’étant une fois encore que stérile bavardage, vaine gesticulation et soumission à la dictature de l’émotionnel. »

La fidélité de BHL… à Israël

Mais qui avait écouté Lugan (2) parmi les innombrables « spécialistes » de France Télévisions et des autres médias qui nous affirment aujourd’hui assister « sans surprise » aux déchirements libyens ?

Le seul qui ait eu alors droit à la parole était M. Lévy, promu par le chef de l’Etat véritable ministre en exercice des Affaires étrangères et de la Guerre (et même des Finances puisqu’il nous fit attribuer en juin dernier une première aide de 290 millions d'euros à ses protégés du Conseil national de transition) alors qu’on sait aujourd’hui qu’il n’agissait nullement au profit de la France. Au contraire. Dans l’affaire de Libye, « J'ai porté en étendard ma fidélité à mon nom et ma fidélité au sionisme et à Israël », devait-il proclamer fièrement le 20 novembre devant le Conseil représentatif des institutions juives de France (CRIF) qui tenait à Paris sa première convention nationale – voir le « Billet » de Polémia du 22/11/2011. Allez savoir pourquoi, cette brûlante profession de foi (et d’allégeance à un Etat étranger) fut occultée… comme l’avaient été les risques de notre interventionnisme en Libye, et les fruits amers qu’il ne manquerait pas de porter, en commençant par l’éclatement du pays prétendument libéré – avec la vague migratoire et la réaction islamiste que cela ne manquera pas de susciter. Ce n’est du reste pas un hasard si, sans doute informés des intentions des « séparatistes » de Benghazi, les barbus libyens, déjà très influents au sein du CNT, avaient créé le 3 mars le parti Justice et Construction présidé par Mohammed Sawane, représentant des Frères musulmans… et farouchement opposé à l'autonomie de la Cyrénaïque, qu'il considère selon Armin Arefi comme « une première étape avant la scission totale de la région ».

Une dislocation organisée

Mais la « dislocation géopolitique mondiale » ne fut-elle pas l’objectif de l'OTAN en Libye, comme le soulignait ici même Xavière Jardez le 9 août 2011 en commentant un rapport du Laboratoire européen d'anticipation politique (LEAP), think-tank monégasque dirigé par Franck Biancheri (3)? L’entreprise était alors menée par Washington, le Katar se chargeant d’une partie du financement et de la mise en scène médiatique, celle de la « libération » de Tripoli par exemple. Or, simple hasard, cet émirat pétrolier serait aujourd’hui très actif auprès des autonomistes de Benghazi.

Evoquant la campagne de l’OTAN, X. Jardez écrivait : « On demanda à l’opinion publique d’approuver, non de penser. » Et voilà cette opinion frappée de stupéfaction quand elle apprend que le pays qu’on lui avait dit arraché à la tyrannie et à la barbarie risque de connaître l’épouvantable destin de la Somalie, livrée à des factions se livrant une guerre inexpiable et redevenue un repaire des pirates. Ce que furent, soit dit en passant, la côte des Syrtes et celle de la Cyrénaïque pendant des siècles.

Camille Galic
9/03/2012

Notes

(1) Voir entre autres les articles sur Polémia

(2) Une interview par Robert Ménard fut déprogrammée en catastrophe fin décembre dernier par la chaîne itélé car elle n’était pas « dans la ligne » – voir http://www.polemia.com/article.php?id=4408
(3)
Opérations militaires de l'OTAN en Libye : accélérateur d'une dislocation géopolitique mondiale ?

Correspondance Polémia – 9/03/2012

dimanche, 26 février 2012

L'Afrique réelle n°26 - Libye: un an après !

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L'Afrique réelle n°26
Libye: un an après !

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En ce premier anniversaire de l’ « insurrection libyenne », et alors qu’une « résistance verte » dont il est difficile d’évaluer la force réelle, semble être en mesure d’opérer sur la totalité du territoire, la Libye apparaît comme étant coupée en trois :

 

La Cyrénaïque n’accepte pas les décisions prises depuis Tripoli par le CNT. De plus, et les journalistes ne l’ont naturellement pas vu, les tensions y sont fortes entre les islamistes fondamentalistes et les membres des confréries soufies dont le poids régional est important. Les premiers pourchassent les seconds en les traitant d’hérétiques et des heurts se sont récemment produits lors des processions traditionnelles. Les fondamentalistes ont commis l’irréparable le 13 janvier, à Benghazi, quand ils ont passé un cimetière au bulldozer et profané une trentaine de tombes de saints - les marabouts du Maghreb -, dont ils ont dispersé les ossements. Pour eux, les rassemblements autour de leurs tombeaux, l’équivalent des moussem du Maroc, ne sont rien d’autre que de l’idolâtrie, donc du paganisme.

 

Le sud de la Libye a éclaté en deux zones qui, toutes deux, échappent totalement au CNT. Celle de l’ouest, peuplée par des Touaregs constitue la base arrière de l’insurrection qui embrase le nord du Mali depuis le mois de janvier dernier. Dans le centre/sud/est, des combats ont éclaté entre Toubou et Arabes. Comme il est peu probable que les ombrageux toubou du Tchad laissent leurs frères du Nord se faire massacrer sans réagir, un autre front risque donc de s’ouvrir avec tous les risques de contagion qui en découleraient.

 

La Tripolitaine est quant à elle coupée en quatre :

 

- Misrata est aux mains de milices gangstéro-fondamentalistes unanimement détestées. Ce furent leurs membres qui massacrèrent le colonel Kadhafi et qui tranchèrent les mains de son fils.

- Au Sud, la tribu des Warfalla qui, à elle seule totalise environ 30% de la population de la région, refuse de reconnaître l’autorité du CNT.

- Tripoli est sous le contrôle de milices rivales qui n’obéissent qu’à leurs chefs respectifs, le président du CNT, M. Mustapha Abd el-Jalil, étant quant à lui totalement impuissant.

- Pour le moment, les seules forces « solides » sont les milices berbères de Zentan et du jebel Nefusa. Celle de Zentan est composée de Berbères arabophones, cousins de ces Berbères berbérophones dont le centre est la ville de Zouara et qui peuplent une partie du jebel Nefusa autour de Nalout et de Yafran. Pour mémoire, les berbérophones -et non tous les Berbères-, totalisent +- 10% de la population libyenne, mais comme ils vivent à plus de 90% en Tripolitaine, ramenée à cette seule région, ils y sont +- 20%.

 

Les miliciens de Zentan qui détiennent Seif al-Islam, le fils du colonel Kadhafi, jouent pour le moment une subtile partie de poker menteur. Pour tenter d’y voir clair il faut avoir à l’esprit que :

 

1) Les berbérophones savent que le CNT suivra une politique arabo-islamique niant leur spécificité et qu’ils n’ont donc rien à attendre de lui.

2) Les Berbères arabophones de Zentan n’ont rien obtenu de tangible du CNT et, pour le moment, ils refusent donc de coopérer avec lui.

3) Les Warfalla ainsi que la tribu du colonel Kadhafi, adversaires naturels du CNT, sont en attente.

 

Si ces trois forces qui représentent ensemble +- 70% de la population de la Tripolitaine, s’unissaient, elles en prendraient facilement le contrôle. Or, avec Seif al-Islam, les Zentaniens ont dans leur jeu une carte maîtresse, ce dernier étant en mesure de leur apporter l’appui outre des Warfalla et des Kadhafa, celui également des Touaregs et des Toubous. Le seul problème est que la justice internationale a émis contre lui un mandat d’arrêt.

C’est autour de ces données complexes et mouvantes qu’un âpre et discret marchandage a lieu en ce moment en Libye. A suivre…[1]

 

Bernard Lugan

18/02/2012

 

 


L'Afrique Réelle N°26 (février 2012)
 
Sommaire :
 
Actualité :
Vers la désintégration du Nigeria ?
 
Dossier : La nouvelle guerre des Touaregs au Mali
- Une guerre de cinquante ans
- Une revendication clairement indépendantiste
 
Dossier : Du rapport Bruguière à "l'expertise Trévidic"
- Comment Paul Kagame manipule la justice pour mieux "échapper à l'histoire"
- Une expertise insolite et qui pose bien des questions
 
Livres :
Françafrique : Entretien avec Michel Lunven
 
Editorial de Bernard Lugan :
 
Les cocus de l’AN I
 
En ce premier « anniversaire » du chaos libyen et de la victoire des Frères musulmans en Tunisie et en Egypte, il paraît utile de rendre hommage aux cocus de l’AN I, à savoir ces journalistes qui se sont toujours trompés. Ceux-là même qui tombèrent en pâmoison devant le prétendu « printemps arabe », qui applaudirent une révolution tunisienne qu’ils sentirent embaumant le jasmin, qui eurent des vapeurs et même des émois place Tahir au Caire. Ceux enfin qui laissèrent éclater une joie indécente lors de l’écrasement du régime libyen, mais qui se turent devant les images atroces du lynchage de son « guide ».
Les mêmes qui seront une nouvelle fois cocus quand le départ du président Assad aura débouché sur un affreux bain de sang, sur le pogrom des minorités alaouite, druze, chrétienne et sur une nouvelle victoire des Frères musulmans. Car, et ne nous y trompons pas, derrière tous ces évènements, cette organisation supranationale dont le but est la création d’un califat mondial, avance méthodiquement ses pions, abritée par le paravent de l’incommensurable bêtise des dirigeants politiques occidentaux. Et grâce, naturellement, à l’aide des journalistes cocus ! Ces journalistes cocus et contents qui, par aveuglement et par manque de culture, n’ont pas vu que les conséquences de la destruction du régime libyen allaient se faire sentir dans tout l’arc sahélien.
Dans ce numéro de l’Afrique Réelle, nous montrons ainsi que les évènements du Mali découlent très directement de cette colossale erreur que fut notre engagement aux côtés d’un camp contre un autre dans une guerre civile libyenne qui ne nous concernait en rien.
Après avoir longtemps déstabilisé la région, le colonel Kadhafi avait en effet changé de politique depuis quelques années et au moment où nous lui avons déclaré la guerre, il stabilisait l’arc de crise sahélien. Il avait ainsi mis « sous cloche » à la fois les velléités des Toubou libyo-tchadiens et l’irrédentisme des Touaregs du Mali et du Niger.
L’intervention franco-otanienne a eu pour résultat de libérer les forces de déstabilisation saharo-sahéliennes.
L’exemple des Touaregs qui ont repris la guerre au Mali en attendant de l’étendre au Niger est éloquent. Voilà des mouvements qui jusque là étaient « sous contrôle » et qui, depuis la disparition du colonel Kadhafi, ont décidé de jouer leur propre carte. Désormais, c’est l’autodétermination qu’ils exigent et cela, afin de préparer la sécession pure et simple afin que soit prise en compte la réalité géographique et humaine régionale contre l’utopie consistant à vouloir faire vivre dans le même Etat les agriculteurs noirs du Sud et les nomades berbères du Nord.
Le problème est qu’en raison de la proximité de trois autres foyers de déstabilisation respectivement situés dans le nord du Nigeria avec la secte fondamentaliste Boko Haram, dans la région du Sahara nord occidental avec Aqmi et dans la zone des confins algéro-maroco-mauritaniens avec le Polisario, cette nouvelle guerre risque d’embraser toute la sous-région.
Voilà encore des développements auxquels les journalistes cocus n’avaient pas pensé, ce qui ne les empêchera pas de continuer à discourir doctement sur des sujets qu’ils ne maîtrisent pas…
 


[1] Pour recevoir mes communiqués dès leur parution, il vous suffit d’envoyer votre adresse mail à contact@bernard-lugan.com

mercredi, 15 février 2012

Egypte : Les Etats Unis et l’ UE à la tête d’un complot visant à diviser le pays en quatre mini-Etats ?

Egypte : Les Etats Unis et l’ UE à la tête d’un complot visant à diviser le pays en quatre mini-Etats ?

 
Des unités des forces armées ont été déployées dans les rues et les artères de l’ensemble des villes égyptiennes. Des blindés et des véhicules militaires ont pris position tout au long de la route menant vers l’aéroport, devant les édifices publics, les alentours des bâtiments et les immeubles abritant les sièges administratifs.

Il en est de même pour les représentations diplomatiques qui furent également quadrillées par les militaires. Si les autorités et le conseil militaire ne se sont pas encore exprimés sur ces nouveaux développements de la situation, la presse égyptienne, citant des sources judiciaires, évoquent la mise à nu d’un complot visant à diviser le pays en quatre mini-Etats. La thèse d’un éventuel coup d’Etat militaire a été également évoquée par des milieux islamistes mais sans donner de détails. En effet, les forces armées se sont déployées dans les principales artères de la capitale alors que des unités militaires ont quadrillé les institutions de l’Etat, a rapporté la presse égyptienne. Il en est de même pour Alexandrie et les autres grandes villes du pays qui sont sous le contrôle des forces armées.

La presse égyptienne parle de mise à nu d’un complot visant à diviser le pays en quatre mini-Etats. Selon l’information rapportée par plusieurs titres, le projet prévoit la création de trois nouveaux Etats, l’un pour les chrétiens avec comme capitale Alexandrie, le deuxième au Sinaï. Le troisième pour les Berbères et le quatrième à Nouba. Cet état de fait intervient également à la veille du début d’une grève générale et à deux jours de la désobéissance civile, lancées par le mouvement des jeunes du 6 avril et plusieurs organisations de la société civile. Le Conseil militaire n’a pas justifié pour l’instant le déploiement de ses troupes dans les villes égyptiennes. Seul un communiqué du Conseil suprême des forces armées (CSFA) a annoncé l’envoi de patrouilles à travers le pays pour maintenir la sécurité des bâtiments publics et privés. De son côté, le général Sami Anane, chef d’état-major des forces armées égyptiennes, a exhorté les citoyens à préserver la sécurité et la stabilité du pays par le travail et la production, a-t-il indiqué.

Le complot contre l’Etat est la thèse retenue par deux magistrats instructeurs dans l’enquête incriminant des organisations nationales et étrangères activant sous le chapeau d’associations à caractère caritatif. Ces organisations avaient pour mission de diviser le pays en quatre mini-Etats, a indiqué le journal Al-Ahram, citant des sources judiciaires. En plus du plan dudit découpage, des cartes géographiques détaillées du territoire égyptien, des photos de casernes et d’églises auraient été découvertes au siège d’une association. Une autre organisation allemande, la fondation Konrad Adenauer, et deux de ses employés de nationalité allemande sont accusés dans cette affaire. Des sommes d’argent estimées à 55 millions de dollars avaient été utilisées entre les mois de mars et décembre 2011, par cinq organisations américaines, selon les deux magistrats. Quant à l’organisation allemande, elle a dépensé une somme de 1 600 000 euros. A ce même sujet, les associations égyptiennes ont reçu le financement de 85 millions de dollars, selon les enquêteurs.

Quarante personnes égyptiennes et étrangères, dont 19 Américains, sont poursuivies par la justice mais n’ont pas encore été jugées. Des interdictions de quitter le territoire concernant les Egyptiens et les étrangers avaient été délivrées par la justice égyptienne. Ces mesures ont touché le fils d’une haute personnalité américaine, a-t-on appris. Ces membres d’associations sont accusés d’avoir agi sans autorisation pour mener des activités purement politiques. «Nous sommes en possession de l’acte d’accusation et nous sommes en train de l’étudier pour comprendre qui est mis en cause et ce à quoi nous pouvons nous attendre». Telle a été la réaction du département d’Etat américain à ce sujet. L’aide annuelle américaine, estimée à 1, 3 milliard de dollars en faveur de l’armée, aurait été suspendue. Un autre sénateur républicain, Lindsey Graham, avait averti que l’aide militaire américaine à l’Egypte était, selon lui «en jeu». Trois autres sénateurs américains – les républicains John McCain et Kelly Ayotte ainsi que leur collègue indépendant Joe Lieberman – ont mis en garde l’Egypte sur ce sujet, estimant que le risque d’une rupture entre les deux pays avait rarement été aussi grand. Répliquant aux déclarations des Américains, le Premier ministre égyptien a indiqué que son pays ne céderait pas au chantage de quiconque et que la justice mènerait son travail jusqu’au bout, a-t-il conclu.

Comme nous l’avons indiqué dans nos précédentes éditions, un appel à la désobéissance civile à partir du 12 février a été lancé par plusieurs organisations égyptiennes à travers le réseau social «Facebook». Néanmoins, des politologues égyptiens expliquent que le déploiement des forces armées avait des relations non seulement après les informations évoquant un complot contre l’Etat mais également à la suite de la grève générale et à l’appel à la désobéissance civile. Une quarantaine d’organisations et d’associations égyptiennes ainsi que 16 pays auraient indiqué qu’ils respecteraient l’appel à la grève et à la désobéissance civile. Selon un représentant de l’organisation du 6 Avril, la durée de la grève et de la désobéissance civile est fixée à 3 jours. Des leaders islamistes ont déclaré à la presse qu’un coup d’Etat militaire n’est pas à écarter mais sans donner plus de détails. Ces remous interviennent aussi à la veille du premier anniversaire du renversement de l’ex-Président Hosni Moubarak.

Les protestataires et les activistes des mouvements cités plus haut réclament le transfert immédiat du pouvoir aux civils. A ce sujet, les Frères musulmans ont indiqué que leurs militants ne suivraient pas le mot d’ordre visant à paralyser le pays alors que la confrérie a appelé les Egyptiens à resserrer les rangs et à ne pas mettre le pays en péril. Ces dernières 24 heures, la télévision d’Etat a multiplié les entretiens avec les citoyens et les responsables des entreprises qui rejettent l’appel lancé par le mouvement des jeunes et plusieurs autres organisations indépendantes.

Moncef Rédha

lundi, 13 février 2012

Le Mali, première victime « collatérale » de l'intervention occidentale en Libye

 

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Le Mali, première victime « collatérale » de l'intervention occidentale en Libye

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Depuis le début de cette erreur politique majeure que fut l’ingérence franco-otanienne dans la guerre civile libyenne, j’ai expliqué qu’avec l’élimination du colonel Kadhafi, l’arc de tension saharo-sahélien allait de nouveau être bandé. La raison en est simple, et il est proprement affligeant que les conseillers africains de l’Elysée, informés aux meilleures sources, n’aient pas réussi à freiner les ardeurs guerrières de certains.
 
Après avoir longtemps déstabilisé la région, le colonel Kadhafi avait changé de politique depuis quelques années et au moment où nous lui avons déclaré la guerre, il la stabilisait. Il avait ainsi mis « sous cloche » les velléités des Toubou libyo-tchadiens et l’irrédentisme des Touaregs du Mali. Etrangement, nous l’avons supporté quand il nous combattait, et nous l’avons combattu dès lors qu’il était devenu notre allié…
L’intervention franco-onusienne s’étant produite avec les résultats que l’on sait, à savoir l’anarchie libyenne, les forces de déstabilisation saharo-sahéliennes qui avaient perdu leur mentor ont aussitôt repris leur autonomie.
Du côté des Toubou et apparentés, la situation est pour le moment sous contrôle en raison de la présence d’Idriss Deby Itno que la presse française, toujours prompte à déstabiliser les pouvoirs stabilisateurs, ne cesse d’attaquer. Son pouvoir est solide, mais la question de sa succession se posera un jour avec toutes les conséquences qui en découleront.
Aujourd’hui, le maillon le plus faible de l’arc saharo-sahélien est le Mali. Or, c’est très exactement là que se produisent actuellement des évènements dont les conséquences risquent d’être catastrophiques en raison de la proximité de ces trois autres foyers de déstabilisation que sont le nord du Nigeria avec la secte fondamentaliste Boko Haram, la région du Sahara nord occidental avec Aqmi et les confins algéro-maroco-mauritaniens avec le Polisario.
 
Au Mali où, depuis 1962, la guerre n’a jamais véritablement cessé entre les Touaregs et l’Etat contrôlé par les Noirs sudistes, les hostilités ont repris au mois de janvier 2012. Plusieurs milliers de Touaregs, dont nombre d’anciens militaires libyens, ont en effet pris le contrôle de l’Azawad, le nord nord est du Mali.
Leur chef militaire est Ag Mohammed Najem, de la tribu des Igforas. Cet ancien colonel de l’armée libyenne qui commandait une unité spécialisée dans le combat en zone désertique et qui était casernée à Sebha, a quitté la Libye avec armes et bagages quelques jours avant le lynchage du colonel Kadhafi par les fondamentalistes de Misrata. Son groupe dispose d’un matériel de pointe, y compris des missiles sol-air ; l’un d’entre eux a semble t-il abattu un avion de l’armée malienne.

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Remarque importante : ces rebelles qui se réclament du MNLA (Mouvement national pour la Libération de l’Azawad) ne demandent plus une meilleure intégration des Touaregs dans l’Etat malien, comme lors des précédentes insurrections, mais la sécession pure et simple. Ils combattent ainsi pour la prise en compte de la réalité géographique et humaine régionale contre l’utopie consistant à vouloir faire vivre dans le même Etat les agriculteurs noirs sédentaires du Sud et les nomades berbères du Nord. Nous retrouvons là l’idée qui fut longtemps portée par le colonel Kadhafi qui prônait la création d’un Etat touareg au centre du Sahara.
 
Totalement dépassées par la situation, les autorités maliennes tentent d’obtenir une intervention directe des Occidentaux en affirmant que les insurgés ont des liens directs avec Aqmi. Ces derniers disent au contraire qu’étant Berbères, ils sont le meilleur rempart contre les fondamentalistes arabo-musulmans. Certes, mais un petit groupe touareg, très minoritaire toutefois, ayant participé à une récente opération menée par Aqmi, le risque de porosité n’est pas exclu.

La situation est donc à suivre[1].
 
 
Bernard Lugan
07/02/12 


[1] Cette question sera développée dans le prochain numéro de l’Afrique réelle que les abonnés recevront par PDF le 15 février.

vendredi, 10 février 2012

Le Département d'Etat US joue avec le feu en alimentant la subversion afin d'encourager le départ des militaires égyptiens

Le Département d'Etat US joue avec le feu en alimentant la subversion afin d'encourager le départ des militaires égyptiens

L'Egypte pourrait se retrouver bientôt dans le camp du BRICS avec Iran et Syrie comme alliés

Les militaires égyptiens contre Washington, pour leur sauvegarde ?

Ex: http://mbm.hautetfort.com/

Est-il si difficile de prévoir qu’un pouvoir aux abois, pressé par un mécontentement populaire très puissant et qui a entre ses mains divers membres d’organisations activistes dépendant d’une puissance étrangère, dont il est aisé de prouver l’activisme dans le soutien des manifestations de certains aspects de ce mécontentement, trouve dans cette occurrence une voie idéale pour tenter de désamorcer une partie de ce mécontentement en dénonçant une violation de la souveraineté nationale ? Mais les USA ne s’intéressent pas à cette sorte de prolongement, s’ils l’imaginent seulement.

Par conséquent, c’est une crise en aggravation rapide, qui s’installe entre l’Égypte et les USA. En cause, cette vilaine affaire d’ONG, dont certaines de nationalité US bien entendu, qui sont désormais la cible privilégiée des autorités égyptiennes, militaires et civiles réunies en l’occurrence. Les USA ont réagi avec violence devant la perspective du jugement de 19 citoyens US impliqués dans des ONG de même nationalité, avec un discours où Clinton menace de suspendre l’aide annuelle de $1,5 milliard à l’Égypte. Toujours la même fine tactique, avec une légèreté de souliers cloutés et de bruits de bottes… Les Égyptiens ont à leur tour réagi avec violence, – avec une délégation militaire qui se trouvait à Washington pour parler de cette affaire, annulant brutalement, pour repartir en Égypte, une rencontre avec des sénateurs pompeux et puissants, crime de lèse-majesté pour des visiteurs venus à Washington selon un rituel d’allégeance minutieusement conformé aux conceptions de l’establishment américanistes… Ce que résume ainsi Russia Today le 7 février 2012

«Egyptian military officials who were scheduled to meet with US Senators John McCain, Joseph Lieberman and Carl Levin on Tuesday were reportedly recalled to Egypt, according to Reuters. This comes following Hillary Clinton’s warning that a crackdown by Egypt's military rulers on US and local pro-democracy groups could put aid for the Arab nation at risk.

»Clinton said the US has worked very hard to put in place financial assistance and other support for the economic and political reforms in Egypt. However, under the current circumstances the aid will have to be reviewed. “Problems that arise from this situation that can impact all the rest of our relationship with Egypt,” she said. The US Secretary of State spoke to the media in Munich, where she met Egyptian Foreign Minister Mohamed Kamel Amr on the sidelines of an international security conference.

Auparavant, RT avait publié un texte plus général sur la détérioration continuelle des relations entre le pouvoir égyptien et les USA, à la lumière de cette affaire des ONG. (Le 6 février 2012.)

«The honeymoon between the United States and the new post-Mubarak government in Egypt didn't last long. […] The Egyptian government vows that they will bring 19 Americans to trial for allegedly influencing the violent revolutions after last year’s ousting of former President Hosni Mubarak with the aid of foreign funds. Nearly 20 Americans have been named in an Egyptian investigation over how foreign pressure help fund unrest by way of international pro-democracy groups. An English-language website out of Egypt published the names of 43 persons being charged on Monday, including 19 Americans.

»Washington initially vowed to impose sanctions on Egypt if they follow through with charges against the Americans. On Monday, Cairo ignored warnings and insisted that the 19 Americans will be brought to trial. Egyptian leaders say that during and after the fall of Mubarak, the nearly four dozen people in question used foreign funds to encourage violence, unrest and revolution in Egypt. Among the Americans that are facing trial are the son of US Transportation Secretary Ray LaHood, and Patrick Butler, the vice president of programs at the DC-based International Center for Journalists…»

Cette affaire est effectivement un feu de discorde qui sera difficile à éteindre, car il y a une épreuve de force entre deux pouvoirs qui ont également mis leur prestige, ou ce qu’il leur reste de prestige dans la balance ; et cette épreuve de force portant sur une procédure judiciaire, un procès, etc., toutes choses qui prennent du temps et entretiennent constamment la tension ; et, naturellement, cette épreuve de force avec un aspect public à forte pression de communication, qui pousse encore plus à l’intransigeance les deux partis.

Les militaires au pouvoir en Égypte sont dans une situation extrêmement précaire et, avec le pouvoir civil qu’ils ont installé, ils sont de plus en plus irrités par les menaces US constantes de rupture de l’aide annuelle des USA à l’Egypte. Ils le sont d’autant plus qu’ils sont persuadés que cette menace est un pur moyen de pression et de chantage. Selon leurs sources à Washington, et notamment avec le Pentagone, en effet, les militaires égyptiens savent que le Pentagone est opposé à cette mise en cause de l’aide (essentiellement militaire), principal lien d’influence et de coopération avec les forces armées égyptiennes, qui constituent traditionnellement (constituaient ?) un point d’appui puissant de sa présence dans la région… Mais, dans cette affaire, le département d’Etat joue sa propre carte, avec soutien de la Maison-Blanche, et du Congrès bien entendu, et cette ligne dure est pour l’instant privilégiée à Washington selon l’équation des pouvoirs impliqués et les pressions de communication. Certaines indications montrent que le Pentagone, ou dans tous les cas certaines fractions du Pentagone, encouragent secrètement cette riposte égyptienne dans l’espoir qu’elle brisera la politique dure du département d’Etat et permettra une détente avec l’Égypte.

Mais le jeu est délicat, et il n’est nullement assuré que l’ Égypte ne se dirige pas, plus radicalement, vers une réorientation radicale de sa politique à l’occasion de cette affaire des ONG. L’intransigeance des militaires observée jusqu’ici constitue une carte majeure de communication, pour tenter de désamorcer le mécontentement populaire en jouant sur le réflexe nationaliste et l’exaspération générale des intrusions US dans les affaires intérieures du pays. Parallèlement, le pouvoir militaire ne lutte guère contre les activités clandestines dans le Sinaï (anti-israéliennes, naturellement), dont un des effets est un très récent nième attentat de rupture d’une oléoduc vers Israël. Enfin, il y a la possibilité pour l’instant théorique mais favorisé éventuellement par les évènements, d’un rapprochement avec la Russie, voire de l’établissements de liens inédits avec la Chine, qui pourraient se faire en même temps qu’une évolution de l’Égypte vers une opposition marquée à la politique du bloc BAO en Syrie. Il s’agit d’options classiques d’un dispositif de réalignement de l’Égypte, qui choisirait alors un réalignement d’abord international (et non pas régional en premier), par la seule nécessité d’une ferme prise de distance des USA et d’une ouverture vers la tendance des pays du BRICS. A ce moment, le réalignement régional suivrait naturellement, avec la confirmation de la politique de méfiance vigilante contre Israël et une possible mise en cause du traité de paix de Camp-David, avec une plus grande implication anti-US en Syrie, avec la possibilité d’une évolution vers des relations plus actives avec l’Iran. Tout cela mettrait-il également en péril les relations de l’Egypte avec l’Arabie ? La direction égyptienne n’en est pas assurée, estimant que l’Arabie est beaucoup moins contrainte par sa politique activiste qu’on ne croit, et qu’elle est plus que jamais inquiète des rapports et des évolutions politiques des USA et d’Israël, dans les deux crises, syrienne et iranienne.

On voit combien cette affaire des ONG, que Washington traite avec son habituelle arrogance, constitue bien plus qu’un vif incident de parcours, combien elle pourrait servir de détonateur pour le pouvoir militaire égyptien, pour un prolongement politique important dont il attendrait des dividendes intérieurs, lui-même dans cette situation précaire qu’on sait. En d’autres mots, l’“incident de parcours” tomberait à point pour justifier un tournant décisif vers une voie plus “panarabe” selon la vieille formule nassérienne mais avec l’apport islamiste supposé pacifié comme différence et contre la tendance libérale pro-occidentaliste en Égypte, tout cela vu comme une voie décisive pour rompre le cercle vicieux de l’impopularité et des troubles intérieurs. Le schéma prend en compte également un réalignement général international de la situation avec la crise iranienne, et la potentialité d’un activisme nouveau des pays du BRICS, qui constitue une des nouveautés potentielles révolutionnaires dans le jeu des influences au Moyen-Orient. L’essentiel à retenir dans ces hypothèses est le climat dans la direction militaire égyptienne : cette direction se trouve de plus en plus aux abois face aux pressions populaires et il lui faut trouver un évènement politique important qui rompe cette pression en constante augmentation, qui risque de lui faire perdre le contrôle de la situation. (Et, à ce point du raisonnement, nous revenons à notre point de départ ; car les militaires, qui commencent à bien connaître les USA dans leur actuelle période, soupçonnent des organisations US de continuer à jouer un jeu de soutien subversif dans les troubles actuels, – soupçon qu’on ne serait nullement surpris de voir justifié.)

 

lundi, 30 janvier 2012

Syrie, Egypte: les guerres civiles menacent

Syrie, Egypte: les guerres civiles menacent

Entretien avec Peter Scholl-Latour

Propos recueillis par Bernhard Tomaschitz

Q.: Lors des élections législatives égyptiennes, la parti radical islamiste “Nour” sera le deuxième parti du pays, immédiatement derrière les Frères Musulmans. En êtes-vous surpris?

PSLarabien.jpgPSL: Que les Frères Musulmans allaient constituer le premier parti d’Egypte, ça, nous le savions dès le départ. Ce qui m’a surpris, c’est la force des mouvements salafistes; elle s’explique partiellement par deux faits: d’abord, les petites gens, surtout dans les campagnes, adhèrent à une forme rigoriste de l’islam; ensuite, les salafistes reçoivent appui et financement de l’Arabie Saoudite.

Q.: Les Frères Musulmans ont annoncé qu’ils organiseront un référendum populaire sur le traité de paix avec Israël; cette consultation amènera une majorité d’Egyptiens à rejeter ce traité de paix. Quelles vont en être les conséquences?

PSL: Pour israël, cela créera une situation entièrement nouvelle, où l’état de guerre sera restauré en pratique. Cela signifie que l’armée israélienne devra à nouveau se renforcer le long de la frontière du Sinai: c’est une charge supplémentaire et considérable. Et surtout l’Egypte ira soutenir le Hamas dans la Bande de Gaza, ce qui créera une situation très lourde à gérer pour Israël, surtout si, en Syrie, le régime d’El-Assad tombe et que, au Nord aussi, la frontière cessera d’être plus ou moins sûre.

Q.: Récemment, vous étiez à Damas et vous y avez rencontré El-Assad: quelle est le situation que vous avez observée en Syrie?

PSL: Lorsque j’étais à Damas, tout était absolument calme. Je suis allé me promener et j’ai pu voir quelques manifestations organisées pour soutenir El-Assad. Dans une autre partie de la ville, se déroulait, paraît-il, une manifestation contre El-Assad, où il y aurait eu trois morts. Mais ce genre d’incident est à peine perceptible dans une ville qui compte six millions d’habitants: les magasins étaient ouverts et les Syriens sirotaient comme d’habitude leur café aux terrasses. L’impression que donnait la ville était absolument pacifique; surtout, on ne voyait pas d’uniformes, sans doute parce la police secrète patrouillait en civil.

Q.: La guerre civile menace-t-elle en Syrie, comme le pense la Ligue Arabe?

PSL: Pour partie, on peut dire que la guerre civile sévit déjà, mais elle se limite aux régions frontalières du Nord, le long de la frontière turque. A Homs, la frontière libanaise est toute proche et, au-delà de celle-ci, un mouvement radical islamiste est très actif et offre un appui aux rebelles syriens. La guerre civile, qui éclatera probablement à l’échelle du pays entier, est indubitablement téléguidée depuis l’étranger.

Q.: Et qui incite à la guerre civile en Syrie, et pour quels motifs?

PSL: Dans le fond, l’enjeu n’est pas tant la Syrie. Ce pays est certes géré par une dictature qui n’hésite jamais à faire usage de la violence, mais ni plus ni moins que d’autres dictatures de la région; cependant, il faut savoir que la Syrie a amorcé une certaine coopération avec l’Iran et l’objectif de la manoeuvre en cours est d’empêcher les Iraniens de bénéficier d’un lien territorial, via l’Irak et la Syrie, avec le Hizbollah libanais et de créer ainsi de facto une zone chiite entre l’Afghanistan et la Méditerranée.

(entretien paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°3/2012 – http://www.zurzeit.at ).

Le rêve d’une Libye “libérée” s’évanouit comme neige au soleil...

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Billy SIX:

Le rêve d’une Libye “libérée” s’évanouit comme neige au soleil...

Des milices s’affrontent et menacent la paix précaire et le pouvoir du gouvernement de transition

Le Général Youssef Mangouche ne doit certainement pas être envié, vu le boulot qu’il doit prester. Ce chef d’état-major, fraîchement promu, de la nouvelle armée libyenne a pour tâche de désarmer les milices qui sévissent dans le pays. Cette mission est désespérée comme le prouvent les féroces combats qui ont eu lieu ce mois-ci à proximité de la capitale. Depuis des mois, ces troupes irrégulières mais puissamment armées s’affrontent pour obtenir pouvoir et influence. La seule chose qui unit encore les révolutionnaires vainqueurs, c’est leur haine inassouvie contre Mouammar el-Kadhafi.

Il n’est guère étonnant, dès lors, que les nouveaux dirigeants s’efforcent en permanence de maintenir en vie l’image de cet ennemi pourtant terrassé. Toutes les explosions de violence, que l’on ne parvient pas à expliquer de manière satisfaisante, sont attribuées au “Tabhour Hams”, que l’on définit comme une “cinquième colonne” composée de nostalgiques du régime de Kadhafi. Plusieurs anciens dignitaires du gouvernement seraient ainsi empêchés de participer aux élections qui devront se tenir cet été. La banque centrale du gouvernement de transition, elle aussi, poursuit la lutte contre l’ancien dictateur disparu: progressivement, tous les billets de banque à l’effigie de Kadhafi devront être mis hors circulation.

Tout ce qui ressemble à une poursuite logique de la révolution a sa “face sombre” car la figure de Kadhafi unit amis et ennemis. L’alliance des rebelles d’hier est bel et bien en train de se fissurer. Les armes des arsenaux pillés sont depuis longtemps réparties sur l’ensemble du territoire. Le 3 janvier 2012 des milices antagonistes se sont mutuellement canardées dans une rue commerçante de la capitale. Six combattants ont été tués. Le président du gouvernement de transition, l’ancien ministre de la justice Moustafa Abdoul Djalil (59 ans), a prononcé de sombres paroles: “Ou bien nous nous montrons sévères à l’endroit de tout dérapage et nous amenons ainsi les Libyens au beau milieu d’une confrontation militaire ou nous nous séparons et cela conduira à la guerre civile”. Au début de l’insurrection, on disait encore, avec jubilation, à Benghazi: “Nous sommes un seul pays”. On laissait l’Occident penser que les conflits qui avaient opposé jadis les 140 clans familiaux que compte le pays étaient des “reliques du passé”. L’engagement gratis et pro deo de petites gens avait généré une ambiance extrêmement positive. On se donnait l’illusion qu’arrivaient enfin dans les sables de Libye la tolérance entre factions religieuses et l’amitié pour l’Occident. L’avènement de la liberté était dans l’air. Entretemps, la magnifique promenade le long de la Méditerranée à Benghazi, citadelle du mouvement protestataire, est désertée. La nuit, on n’y voit plus que des drogués et des hommes armés. La masse des gens s’affaire à la gestion du quotidien, à chercher une place dans la nouvelle Libye.

Quoi qu’il en soit: tout l’Est du pays est effectivement demeuré à l’abri des violences. Surtout parce que la structure de la société y est plus mûre, parce que les tribus claniques de tempérament conservateur y ont imposé un consensus, avec l’aide des dignitaires musulmans. C’est surtout la majorité des citoyens dans l’Ouest de la Libye qui a beaucoup à perdre: cette région occidentale du pays avait bénéficié d’aides sous Kadhafi, grâce aux milliards du pétrole. L’élimination du régime du colonel, par l’intermédiaire de l’engagement de l’OTAN, a laissé un grand vide, rapidement comblé par des rebelles venus d’autres régions du pays. Dans ces bandes, on trouve beaucoup de têtes brûlées totalement indisciplinées et de toxicomanes patentés. Les pères de familles locaux, qui ont combattu dans les rangs rebelles, préfèrent généralement sécuriser leur région natale.

Ce que l’on remarquera surtout dans les affrontements entre factions rivales, représentant l’“ordre nouveau”, c’est que de nouvelles milices arrivent sans cesse de la ville de Misrata, en bordure de la Méditerranée. Dans cette ancienne métropole de marchands d’esclaves se concentrent aujourd’hui industrie et argent. Plus de cent bandes armées viennent de Misrata, ce qui est frappant. Bon nombre de ces bandes sont financées par des parrains très riches, qui, déjà, sous Kadhafi avaient fait fortune. Sans doute faudra-t-il trouver un compromis politique. Que ce soit ouvertement ou clandestinement, personne ne paie ici en pure perte 3000 dollars américains pour une seule Kalachnikov.

Billy SIX.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°4/2012; http://www.jungefreiheit.de/ ).

lundi, 23 janvier 2012

Et si la Libye devenait le nouveau sanctuaire d’al-Qaïda ?

Et si la Libye devenait le nouveau sanctuaire d’al-Qaïda ?

La nébuleuse djihadiste serait-elle en passe de quitter le Pakistan pour la Libye?

Des sympathisants d’Oussama Ben Laden le 6 mai 2011. Reuters/Naseer Ahmed

 

D’après le Guardian,  qui cite des sources proches de mouvements islamistes en Afrique du Nord, Al-Qaida serait progressivement en train de migrer des zones tribales du Pakistan vers l’Afrique du Nord. Derrière cette nouvelle stratégie se cache notamment un homme, Abu Yahya al-Libi, numéro 2 officieux d’Al-Qaida qui semble suivre les événements libyens de très près. Deux membres très expérimentés d’Al-Qaida auraient déjà rejoint la Libye et plusieurs autres djihadistes ont récemment été arrêtés en chemin. Sous les coups des forces de l’OTAN en Afghanistan et au Pakistan, les militants d’Al-Qaida chercheraient à trouver refuge en Afrique du Nord et dans le Sahel, des régions qui leur offrent actuellement des conditions optimales pour prospérer.

Nébuleuse djihadiste en Afrique

L’influence d’Al-Qaida au Maghreb Islamique s’accroît en Afrique. Au Nigeria, la secte Boko Haram qui a revendiqué les attentats sanglants contre la communauté chrétienne, a vu plusieurs de ses combattants nouer des liens avec AQMI et les Shebabs en Somalie. «Les liens entre l’AQMI et Boko Haram étaient très faibles au départ, mais depuis deux ans environ on peut penser qu’il y a davantage de ramifications, notamment sur le plan logistique» explique Philippe Hugon, directeur de recherche à l’IRIS. Les enlèvements de plus en plus fréquents de ressortissants occidentaux au Mali et au Niger, ainsi que les combats en Somalie entre les milices shebab et les soldats kenyans et éthiopiens, confirment que les combattants islamistes n’ont jamais été aussi puissants dans cette partie du monde.

L’Afrique du Nord et plus précisément l’Algérie et la Libye pourraient être les prochaines destinations des djihadistes. Dans une récente vidéo datée du 5 décembre, Abu Yahya al-Libi a expliqué que la révolution libyenne ne sera réellement achevée que lorsque la charia aura été proclamée. S’adressant aux combattants libyens, il leur a ordonné de ne pas rendre leurs armes, sous peine d’être à nouveau «réduits en esclavage» comme sous le régime du colonel Kadhafi. Cette vidéo n’est pas la première. Le 29 octobre dernier, il avait exprimé le même message aux combattants libyens.

Des armes françaises aux mains d’al-Qaïda?

La question des armes apparaît primordiale. Depuis plusieurs semaines, les autorités libyennes peinent à désarmer les katibas ayant combattu les troupes de Mouammar Kadhafi. De nombreux pays, dont la France, ont fourni des armes aux combattants rebelles. Sauf que ces armes circulent rapidement via un trafic d’armes organisé en Libye et au nord du Sahel.  Mokhtar Belmokhtar, l’un des leaders d’Aqmi, a d’ailleurs affirmé en avoir «tout naturellement» récupéré une partie.

Alors que «deux membres très expérimentés d’Al-Qaida» seraient actuellement en Libye, on peut soupçonner Abu Yahya al-Libi, ressortissant libyen, d’être très attentif à leurs prochaines actions. Celui-ci (dont le vrai nom est Mohamed Hassan Qaïd) est souvent présenté comme le réel successeur d’Oussama Ben Laden.

Aussi bon théologien que grand communiquant (entre 2001 et 2002, à Karachi, au Pakistan, il occupa le poste de webmaster pour le site Internet des talibans Al-Imarah al-Islamiyah), il était à la fin des années 1980 parmi les premiers membres du Groupe de combat islamique libyen (GCIL) avant de faire l’essentiel de sa «carrière» en Afghanistan et au Pakistan. Arrêté par les services de renseignements pakistanais le 28 mai 2002 et incarcéré à la prison de Bagram en Afghanistan, il réussit à s’échapper le 10 juillet 2005, construisant ainsi une grande partie de sa légende auprès des aspirants djihadistes. Abu Yahya al-Libi, officiellement directeur du comité de droit d’al-Qaida, serait le véritable numéro 2 de l’organisation, selon Jarret Brachman, expert américain en contre-terrorisme, qui estime qu’il a l’aura et les compétences pour être le nouveau maître à penser d’Al-Qaida. «Je ne parle pas de chef au sens propre, mais d’un pouvoir bien plus important et imprévisible: le pouvoir d’inspirer.»

Des membres d’al-Qaïda parmi les combattants anti-Kadhafi?

En juillet, certains, citant la division «intelligence» de l’Otan, estimaient à 200 à 300 hommes le nombre de membres d’Al-Qaïda parmi les combattants libyens anti-Kadhafi. Ces djihadistes avaient été recrutés au début des années 1990 par deux lieutenants d’Oussama Ben Laden: Abu Laith al-Libi (sans lien de parenté), aujourd’hui décédé, et Abu Yahya al-Libi.

Plus nombreux, les anciens miliciens du GICL d’Abdelhakim Belhadj auraient rompu définitivement avec Al-Qaida en 2007 (bien que Belhadj affirme n’avoir jamais eu de lien avec Oussama Ben Laden).

«Le nouveau maître de Tripoli» et ses troupes semblent avoir joué le jeu de la coopération avec les occidentaux et le Qatar lors de la guerre civile libyenne jusqu’à devenir «l’islamiste fréquentable aux yeux des occidentaux». Une arrivée massive de combattants d’Al-Qaida et de djihadistes internationalistes dans la région pourrait donc clairement changer la donne.

Arnaud Castaignet

samedi, 21 janvier 2012

L'Afrique Réelle N° 25 - Janvier 2012

L'Afrique Réelle N° 25

Janvier 2012

 


Sommaire :

Dossier :
La Libye après Kadhafi

Actualité :
La RDC entre anarchie, dictature et partition

Génocide rwandais :
- L'assassinat du président Habyarimana : entre incertitude, interrogations et "enfumage"
- D'où est parti le tir contre l'avion présidentiel rwandais le 6 avril 1994 ?
- Selon les derniers jugements rendus par le TPIR le génocide du Rwanda ne fut pas programmé
- Réponse à l'association Enquête Citoyenne

Editorial :
L’année 2011 s’est terminée par une censure. Alors que j’avais été invité à venir présenter mon dernier livre Décolonisez l’Afrique, Monsieur Albert Ripamonti, directeur de l’information d’I-Télé, a en effet interdit d’antenne l’entretien que Robert Ménard avait enregistré avec moi dans le cadre de son émission quotidienne « Ménard sans interdit ». Cette lamentable affaire digne de l’ancienne RDA, illustre le double langage de ces petits marquis de la presse parisienne qui ne cessent de donner des leçons de démocratie au monde entier alors qu’ils se comportent comme ceux qu’ils prétendent dénoncer. En l’occurrence, Monsieur Ripamonti est apparu comme le produit estampillé du couple sadomasochiste composé de la repentance européenne et de la victimisation africaine.

Cette censure montre d’abord que le système médiatique est affolé, la réalité africaine et notamment libyenne ayant emporté les pauvres digues morales et philosophiques derrière lesquelles il pensait que ses certitudes étaient abritées. Alors que BHL avait assuré qu’une fois la dictature renversée, les fontaines démocratiques laisseraient couler le lait et le miel, le mercredi 5 janvier dernier, M. Mustapha Abdeljalil, président du CNT a déclaré que la Libye était au bord de la guerre civile. Adieu « printemps arabe »…

En 2012 plusieurs régions vont se trouver au coeur de l’actualité. Dans la Corne au sens élargi, en plus des questions territoriales non réglées avec le Soudan Khartoum, le Sud Soudan indépendant va devoir faire face à plusieurs graves problèmes découlant de l’extrême division de ses populations. Six cents tribus ou fractions de tribus existent ainsi au Sud Soudan où la référence est clanique et tribale en plus d’être ethnique. D’autant que l’ethno mathématique électorale qui va donner le pouvoir aux plus nombreux, donc aux Dinka, provoque déjà des tensions avec les autres ethnies, notamment les Nuer. En Somalie, l’armée kenyane est embourbée face aux milices islamistes et au Darfour, la guerre n’a pas cessé.

Au centre du continent, une explosion majeure peut survenir à n’importe quel moment en RDC. A l’ouest, en Côte d’Ivoire, où les tensions ont été artificiellement mises sous cloche, les milices nordistes font régner la terreur cependant qu’au Nigeria, les tensions ethno religieuses menacent la cohésion de la mosaïque ethnique nationale.

Dans tout le Sahel où les Etats artificiels sont coupés entre des Nord peuplés par des nomades et des Sud habités par des sédentaires noirs, la guerre civile libyenne a provoqué un bouleversement de la situation géopolitique régionale dont profitent les bandes islamistes qui se sont équipées dans les arsenaux libyens.

Au Sénégal, la situation est potentiellement explosive et de très graves troubles pourraient éclater durant le premier trimestre 2012. Espérons que la communauté française ne se trouvera pas prise en otage comme cela fut le cas en Côte d’Ivoire.

En Algérie, la cleptocratie d’Etat se cramponne au pouvoir en donnant chaque jour des gages aux islamistes tandis que la renaissance berbère sape le jacobinisme arabo-islamique devenu dogme d’Etat. La Tunisie est ruinée et la chape religieuse y tombe insidieusement sur une bourgeoisie occidentalisée qui s’est tiré une balle dans le pied en renversant le président Ben Ali. La Libye est comme nous l’avons vu au bord de la guerre civile, quant à l’Egypte…

Comme toujours l'Afrique Réelle suivra cette actualité pour ses abonnés.

mardi, 17 janvier 2012

¿Qué pasa en Marruecos?

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¿Qué pasa en Marruecos?

 
Ernesto MILA

Ex: http://info-krisis.blogspot.com/

 
Info|krisis.- Las cosas no van bien en Marruecos. A pesar de que el 12 de febrero del año pasado, Zapatero echara el primer capote al gobierno marroquí (esto es, a la monarquía de Mohamed VI) y proclamase en una entrevista inolvidable con la agencia Reuters que la situación en ese país es completamente diferente a la de Túnez, Egipto o Libia, lo cierto es que un año después existe la sensación de que las cosas han llegado al límite y también Marruecos se acerca a un cambio histórico que, obviamente, por la proximidad geográfica, nos afectará queramos o no.

La crisis marroquí es la acumulación de cinco procesos bien diferenciados que han llegado al límite: Crisis política, crisis económica, presión demográfica, crisis internacional y crisis cultural. Y, de la misma forma que en cualquier otro país del mundo árabe, puede establecerse que no hay interlocutor válido con peso social y prestigio suficiente entre la población aparte del islamismo, en Marruecos, no solamente ocurre otro tanto, sino que se engaña quien vea a partidos, a monarca o a fuerzas económicas como interlocutores válidos y posibles aliados. 
 
Francia se equivocó pensando que bastaba con que las élites sociales hablaran francés para hacer de Marruecos una “zona de influencia” gala. Los EEUU se equivocaron al pensar que a la vista de que, comparado con Argelia, Marruecos parecía ser un país estable, era posible allí instalar el gran portaviones norteamericano en África. De hecho, si Mohamed VI sustituyó a Francia por los EEUU en el rango de “primera potencia aliada” fue, precisamente porque, a la vista de lo que se le venía encima, el Pentágono ofrecía más garantías que el Elíseo. Y, a la vista de la situación económica interior de los EEUU parece que también aquí el Rey y sus consejeros se equivocaron. 

Marruecos, a la hora de la verdad –esto es, cuando estalle la revuelta socio-política- estará sola frente a las hordas islamistas. Y, de hecho, es probable que nadie en Europa derrame una lágrima por la monarquía de Mohamed VI a la vista de que para la UE no ha sido otra cosa que un verdadero “chantajista” que ha atizado todo tipo de amenazas y desatado todo tipo de riesgos en caso de que la UE no accediera a sus deseos.

La crisis económica se puso ya de manifiesto en 2003 cuando el Partido de la Justicia y el Desarrollo se configuró como la segunda fuerza política del país, mientras que la ONG del jeque Jassin, Caridad y Justicia, pasaba a ser la gran fuerza islamista ajena a los canales de la política oficial pero con una fuerza creciente entre los profesionales y entre los estudiantes. Mohamed VI intentó conjurar el ascenso islamista recurriendo a los servicios de inteligencia y a sus hábiles “operaciones especiales”. Las bombas de Casablanca en 2004, por ejemplo, supusieron un primer intento que seguía el modelo del 11-S y que precedería al 11-M: atentados de dudoso origen presentados como “violencia islamista” que justificaban, no solamente el desprestigio de las opciones políticas islamistas (la primera de todas el PJD y la ONG CyJ), sino también la represión contra los mismos. Mas tarde, la creación de partidos falsamente islamistas vinculados y gestionados por los amigos de la Casa Real, taponaron el ascenso del PJyD durante siete años. Los vínculos cada vez más estrechos entre los EEUU y Mohamed VI hicieron que se desplazara a este país la sede del Africom (el mando para África del Pentágono) y si bien los yacimientos petroleros de ese país han resultado más escasos de lo que se preveía y no tienen interés estratégico, si que es cierto que esa base militar supone un portaviones para los EEUU en África, cerca de la zona petrolera del Golfo de Guinea y de los yacimientos de gas argelinos.

Las contradicciones que aparecen ahora en la política marroquí son muchas y generarán tensiones insuperables que solamente se saldarán con movilizaciones callejeras, protestas, disturbios y finalmente con la monarquía de Mohamed VI tambaleándose. En efecto, por una parte hay que distinguir:

- Contradicciones entre el “Islam oficial” dirigido desde la Casa Real a través de la figura de Mohamed VI, “emir de los creyentes” (como si Rouco Varela fuera a la vez presidente de la Conferencia Episcopal y rey de España) y el islam wahabita financiado desde las monarquías del golfo pérsico.

- Contradicciones entre el majzén (el entorno de influencias del Palacio Real, centro de todas las corrupciones en el vecino país) y las clases desfavorecidas (que van creciendo y que se ven cada vez más afectadas por el paro).

- Contradicciones entre Marruecos y sus vecinos del Magreb (éste país no ha podido superar la rivalidad y desconfianza proverbial con Argelia, los recelos mauritanos, la desconfianza con que es visto el régimen desde los nuevos gobiernos islámicos del norte de África).

- Contradicciones entre Marruecos y el África Negra (Marruecos sufre una presión demográfica propia –duplica su población cada 20 años- y al mismo tiempo la presión demográfica del África negra).

- Contradicciones entre los EEUU y Francia (que se disputan el ser potencia hegemónica en Marruecos).

- Contradicciones entre la imagen que el país proyecta de sí mismo (occidental, democrático) y la realidad (simbiosis entre una democracia limitada y una dictadura feroz).

- Contradicciones en el interior del actual gobierno entre los islamistas moderados y los fieles a Mohamed VI (el gobierno marroquí cada vez tiene menos ministros elegidos a dedo por el rey y, por tanto, más hombres que anteponen su lealtad al partido y al islam antes que al monarca).

Estas contradicciones no tienen solución e irán produciendo desgarrones y tensiones en el interior del país hasta el estallido final. En Marruecos se tiene muy presente la transición española y en los últimos años lo que se ha producido es un intento de comandar desde el majzén un modelo local de transición que garantice la preponderancia el rey en lo esencial y el aspecto de democracia formal del país. Ese intento puede darse hoy por fracasado: con los islamistas en el poder va a ser muy difícil realizar una transición hacia cualquier otra cosa que no sea una república islámica. Estas contradicciones encierras en sí mismas las crisis a las que aludíamos antes: crisis política, crisis económica, presión demográfica, crisis internacional y crisis cultural.

La proximidad de Marruecos a España hace que todo lo que ocurre en aquel lugar nos afecte muy directamente. De hecho, se calcula que una sequía (y este es año de sequía) 250.000 campesinos se va a vivir a los arrabales de las grandes ciudades o emigran a Europa. Por otra parte, históricamente, siempre que la monarquía marroquí tiene problemas interiores busca superarlos mediante aventuras exteriores que siempre tienen como objeto al eslabón más débil en Europa: nuestro país. 

Que el estallido social y político está cantado en Marruecos, de eso no cabe la menor duda. La duda estriba en el momento en el que se producirá y en la intensidad del mismo. Pero nadie duda de que se producirá. No se puede hacer nada para evitarlo especialmente desde España, sino solamente tomar medidas para que no nos afecte excesivamente. Marruecos exporta productos agrícolas, haschisch (casi 100.000 hectáreas de cultivo de cannabis en el valle del Rif), inmigrantes y problemas… de lo que se trata es de que nada, absolutamente nada de todo esto nos afecte. 

Y esto implica convertir la zona del Estrecho en el eje estratégico de nuestra defensa previendo lo que puede suponer un conflicto fronterizo y en un aumento de la tensión en la zona. No es interés de Europa quién gobierno en la orilla sur del Mediterráneo, se da por supuesto que esa es la zona islámica por excelencia y que a la vista de la falta de tradición de los partidos políticos en esos países, el gran interlocutor en la zona es el islam. ¿Es posible entenderse con el Islam? Sí, si se le garantiza estabilidad e integridad, no injerencia en los asuntos internos del Magreb, a cambio de que el Mediterráneo sea la última frontera del islam. No hay lugar para el islam al norte de Gibraltar.
 
© Ernesto Milà – Prohibida la reproducción de este texto sin indicar origen.

vendredi, 13 janvier 2012

La Nouvelle Usine Renault au Maroc, symbole de notre suicide économique !

 

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La Nouvelle Usine Renault au Maroc, symbole de notre suicide économique !

Par Marc Rousset

 

Chômage des travailleurs européens ou profits des multinationales dans les pays émergents fournissant des produits manufacturés à l’Europe : il va falloir choisir ! Sinon la révolte éclatera d’une façon inéluctable  lorsque le taux de chômage sera tellement insupportable que la folie libre échangiste mondialiste  apparaitra comme un nez au milieu de la figure ! Pour l’instant nous sommes seulement  à mi-chemin de la gigantesque entreprise de désindustrialisation initiée dans les années 1950 aux Etats-Unis pour favoriser les grandes entreprises américaines, et dont le flambeau a été  depuis repris par toutes les sociétés multinationales de la planète ! Pendant ces 30 dernières années, la France a perdu 3 millions d’emplois industriels, l’une des principales raisons de la crise de notre dette souveraine ! Si un protectionnisme douanier ne se met pas en place d’une façon urgente, les choses vont encore aller en s’accélérant ! L’oligarchie mondiale managériale, actionnariale et financière a des intérêts en  totale contradiction et en opposition frontale avec le désir des peuples européens de garder leur « savoir faire » et leur emploi !

 

L’usine géante  Renault de Melloussa au Maroc

 

Alors que la production automobile de Renault recule dans l’hexagone, l’usine géante de Melloussa au Maroc dans la zone franche du port de Tanger, avec une capacité de 340 000 véhicules par an, commence à produire des voitures « low-cost » sous la marque Dacia. Le site a pour vocation d’exporter à 85% vers le Vieux Continent. Cette usine marocaine vient s’ajouter au site roumain de Pitesti qui produit  813 000 voitures par an. Renault et les équipementiers de la région de Tanger pourraient créer 40 000 emplois ! Le salaire net mensuel d’un ouvrier marocain est de 250 euros par mois, contre 446 euros par mois en Roumanie. Le coût salarial horaire d’un ouvrier dans les usines Renault est de  30 euros /heure en France, 8 euros par heure en Turquie, 6 euros par heure en Roumanie et ô surprise 4,5 euros par heure au Maroc, à deux jours de bateau des côtes françaises, Algésiras en Espagne étant seulement à 14km ! C’est la raison pour laquelle le monospace « Lodgy 5 ou 7 places » (10 000 euros) fabriqué à Melloussa sera deux fois moins cher que le Renault Grand Scenic (24 300 euros) assemblé à Douai. Il ne fait donc aucun doute qu’à terme, suite au rapport qualité/ prix et en faisant abstraction de quelques gadgets Marketing et des dénégations du Groupe Renault, les consommateurs  français, s’ils ne sont pas trop bêtes, achèteront des Lodgy fabriquées au Maroc en lieu et place des Grand Scenic fabriquées à Douai ! Bref, une délocalisation élégante supplémentaire avec  les miracles et les mensonges de la Pub et du  Marketing comme paravent !

 

Alors que faire ? Qui incriminer ? Certainement pas Carlos Ghosn et les dirigeants de Renault qui font parfaitement leur travail  avec les règles du jeu actuel, car ils  rendent compte à leurs actionnaires et  doivent affronter une concurrence terrible, la survie du Groupe Renault  étant même en jeu s’ils ne délocalisent pas ! Non, les responsables, ce sont nous les citoyens, nous  les électeurs, qui acceptons cette règle économique du jeu ;les  principaux coupables, ce sont nos hommes politiques incapables, gestionnaires à la petite semaine avec un mandat de 5 ans, subissant les pressions du MEDEF et des médias à la solde des entreprises multinationales. Les dirigeants d’entreprise et les clubs de réflexion qui mentent comme ils respirent, le MEDEF, tout comme le lobby des affaires à Washington et à Bruxelles, voilà ceux qui sont à l’origine du mal et nous injectent délibérément car conforme à leurs intérêts financiers, le virus, le venin destructeur malfaisant du libre échangisme mondialiste dans nos veines ! Le mondialisme  doit laisser sa place d’une façon urgente à un libre échangisme strictement européen ! Les hommes politiques des démocraties occidentales ne sont pas des hommes d’Etat, mais des gagneurs d’élection et ne voient pas plus loin que le bout de leur nez ; ils ne s’intéressent en aucune façon aux intérêts économiques à long terme de la France et de l’Europe ! Ils attendent tout simplement la catastrophe du chômage structurel inacceptable et la révolte des citoyens pour réagir, comme cela a été le cas en Argentine et comme c’est le cas actuellement avec la crise des dettes souveraines.

 

Les idées de la préférence communautaire et du Prix Nobel Maurice Allais triompheront

 

Les  idées  de Maurice Allais triompheront car elles sont justes et correspondent aux tristes réalités que nous vivons ! On ne peut pas arrêter une idée lorsqu’elle est juste ! L’idéologie économique libre échangiste mondialiste s’écroulera totalement devant les réalités du chômage, comme le Mur de Berlin en raison de l’inefficacité du système soviétique, comme l’idéologie droit de l’hommiste devant les réalités néfastes de l’immigration extra-européenne avec à terme les perspectives d’une guerre civile ! Il est clair qu’il faut changer le Système, non pas en attendant la disparition totale de notre industrie, mais dès maintenant en mettant en place tout simplement des droits de douane au niveau européen! Même l’Allemagne ne réussira pas à terme à s’en sortir avec le libre échange mondialiste. Elle résiste encore aujourd’hui car elle n’a pas fait les mêmes bêtises que les autres pays européens, mais à terme elle sera également  laminée par la montée en puissance de l’éducation  et le trop  bas coût de la main d’œuvre dans les pays émergents. Aux Européens de savoir préserver les débouchés de leur marché  domestique suffisamment grand pour assurer un minimum d’économies d’échelle! La « théorie des débouchés » va très vite revenir à l’ordre du jour !

 

La vieille théorie des « avantages comparatifs »de Ricardo n’a plus grand-chose à voir avec la réalité. Pour la première fois dans l’histoire du monde, des Etats (la Chine, l’Inde et le Brésil) vont en effet posséder une population immense ainsi qu’une recherche et une technologie excellentes. L’égalisation par le haut des salaires, selon la théorie  de Ricardo, n’ira nullement de soi du fait de « l’armée de réserve » rien qu’en Chine  de 750  millions de ruraux, soit 58% de l’ensemble de la population, capables de mettre toute l’Europe et les Etats-Unis au chômage.  300 millions d’exclus vivent, selon la Banque asiatique du développement, dans l’Empire du milieu, avec moins d’un euro par jour. La Chine ne se classe qu’au 110e rang mondial du PIB par habitant. Ce ne  sont pas quelques succès épars européens  mis en avant par les médias, suite à des effets de mode ou de luxe, qui doivent nous faire oublier le tsunami du déclin des industries traditionnelles en Europe (quasi disparition des groupes Boussac, DMC et de l’industrie textile dans le Nord de la France, de l’industrie de la chaussure à Romans, de l’industrie navale, des espadrilles basques...). Les pays émergents  produiront inéluctablement de plus en plus, à bas coût,  des biens et des services aussi performants qu’en Europe ou aux Etats-Unis. Les délocalisations deviennent  donc  structurelles et non plus  marginales !

 

L’épouvantail contre le protectionnisme mis en avant par les lobbys du MEDEF et des multinationales comme quoi  25% des Français  travaillent pour l’exportation est un mensonge d’Etat parfaitement mis en avant par Gilles Ardinat d’une façon indiscutable dans le dernier Monde Diplomatique. Les multinationales,  le MEDEF confondent délibérément valeur ajoutée et chiffre d’affaires des produits exportés, ce qu’il fait qu’ils arrivent  au ratio fallacieux de 25%. La Vérité est qu’un salarié français sur 14 seulement vit pour l’exportation en France ! (1)

 

Dans un système de préférence communautaire, l’Europe produirait davantage  de biens industriels et ce que perdraient les consommateurs européens dans un premier temps en achetant plus cher les produits  anciennement « made in China », serait plus que compensé par les valeurs ajoutées industrielles supplémentaires créées en Europe . Ces dernières  augmenteraient le PIB et  le pouvoir d’achat, tout en créant des emplois stables et moins précaires, système que la CEE a  connu et qui fonctionnait très bien.  Alors, au lieu de s’en tenir au diktat idéologique de Bruxelles et au terrorisme intellectuel anglo-saxon du libre échange, remettons en place le système de la préférence communautaire !

 

Les investissements occidentaux  et les délocalisations

 

Il importe  de faire la distinction entre marché domestique européen  intérieur et marché d’exportation. Ce qu’il faut, c’est, grâce à une politique douanière de préférence communautaire fermer l’accès aux pays émergents qui détruisent les emplois européens  pour des produits consommés sur le marché intérieur européen.

 

 Il n’est pas réaliste d’accepter le dogme stupide que délocaliser la production physique d’un bien ne représente qu’une infime partie de sa valeur, même s’il est inéluctable que le poids relatif de l’Occident continue à décliner au profit de l’Asie. Intégristes du tout marché et théoriciens d’un libéralisme de laboratoire se délectent du déclin de la France et des Etats-Nations ; complices ou naïfs, ces inconscients nous emmènent à la guerre économique comme les officiers tsaristes poussaient à la bataille de Tannenberg des moujiks armés de bâtons. Les Européens ne peuvent se contenter d’une économie composée essentiellement de services. La seule façon de s’en sortir  pour tous les pays européens, et plus particulièrement la France, est de réduire d’une façon drastique le nombre des fonctionnaires et les dépenses publiques, diminuer la pression fiscale sur les entreprises et les particuliers, mettre en place une politique industrielle inexistante à l’échelle de l’Europe, développer la recherche et l’innovation, encourager le développement des jeunes pousses, favoriser le développement des entreprises moyennes, et enfin  restaurer la préférence communautaire avec des droits de douane plus élevés ou des quotas afin de compenser les bas salaires des pays émergents !

 

Le problème de fond du déficit commercial de la France n’est pas lié au taux de change de l’euro, mais au coût du travail. Le coût horaire moyen de la main d’œuvre dans l’industrie manufacturière est de l’ordre de vingt dollars en Occident contre 1 dollar en Chine ! Un ouvrier en Chine travaille quatorze heures par jour, sept jours sur sept. 800 millions de paysans chinois dont deux cents millions de ruraux errants forment une réserve de main d’œuvre inépuisable capable de mettre les Etats-Unis et toute l’Europe au chômage, nonobstant la main d’œuvre tout aussi nombreuse d’autres pays émergents !

 

Attirés par les bas salaires, les investissements étrangers en Chine s’élèvent à plus de 100 milliards de dollars par an, soit davantage qu’aux Etats-Unis. Le fait que les exportations chinoises soient réalisées à 65% par des entreprises détenues totalement ou partiellement par des Occidentaux n’est qu’un argument de plus pour nous endormir et une étape intermédiaire dans le déclin programmé du continent paneuropéen et de l’Occident. Les seuls investissements justifiés géopolitiquement  sont les implantations  pour s’intéresser au marché domestique chinois, des autres pays d’Asie et de tous les  pays émergents. Ce qu’il faut bien évidemment combattre, ce sont avant tout les investissements européens en Chine ou ailleurs pour alimenter le marché européen qui sont suicidaires mais justifiés pour les chefs d’entreprise,  tant que les Européens et la Commission de Bruxelles  n’auront pas rétabli la préférence communautaire et des droits de douane afin de compenser les bas coûts de main d’œuvre chinois, source première  du chômage et de la précarité en Europe. 

 

Conclusion

 

Il ne faut pas acheter français, ce qui ne veut plus rien dire, mais acheter « fabriqué en France »  en se méfiant des noms francisés et des   petits malins avec des usines tournevis  ou d’assemblage dont toute la valeur ajoutée industrielle viendrait en fait des pays émergents ! Seule une politique de droits de douane défendra l’emploi du travailleur européen et combattra efficacement d’une façon implacable le recours démesuré aux sous-traitants  étrangers ! Tout cela est si simple, si clair, si évident qu’il nous manque qu’une  seule chose, comme d’habitude, dans notre société décadente : le courage ! Le courage de changer le Système, le courage de combattre les lobbys des entreprises multinationales avec les clubs de réflexion à leur botte, le courage de mettre en place une protection tarifaire, mais sans tomber pour autant dans le Sylla du refus de l’effort, de l’innovation, du dépassement de soi, du refus de s’ouvrir au monde et de tenter d’exporter autant que possible, le Sylla de l’inefficacité et des rêveries socialistes utopistes qui refusent la concurrence et l’efficacité intra-communautaire. L’introduction de la TVA sociale est une excellente décision, mais elle est totalement incapable de compenser les bas salaires de l’usine marocaine Renault  de Mélissa et ne vaut que pour améliorer la compétitivité de la Maison France par rapport aux autres pays européens !

 

Note

 

(1)   Gilles Ardinat, Chiffres tronqués pour idée interdite, p12, Le Monde Diplomatique, Janvier 2012.

vendredi, 06 janvier 2012

Tragedia en el Mare Nostrum ―qué demonios pasa con Libia

Tragedia en el Mare Nostrum ―qué demonios pasa con Libia

Ex: http://europa-soberana.blogia.com/


La primavera árabe en general y la Guerra de Libia en particular, son los acontecimientos estelares del 2011, junto con los movimientos de protesta supuestamente espontáneos que están teniendo lugar en todo Occidente. A diferencia de Iraq, con Libia no se han visto a las masas populares gritando "No a la guerra". Existen varios motivos. Uno de los más importantes es que la Guerra de Libia no ataca a los intereses de la oligarquía capitalista de Francia, sino que los defiende. El otro es la desinformación: según nuestros medios de comunicación, el mundo árabe ha decidido perrofláuticamente que quiere ser demócrata como sus "admirados" prohombres de Occidente, y Gaddafi era simplemente un sátrapa que había que derribar. Pero ¿acaso no lo era Saddam Hussein? ¿Y no lo siguen siendo Mohamed VI (la familia real acumula el 75% del PIB de Marruecos) y el rey saudí Abdulá? ¿Por qué ha atacado la OTAN a Libia y por qué se ha armado, en tiempo récord, un extraño movimiento "rebelde", que en buena parte no es ni siquiera libio?

 

Para ver el origen de los problemas actuales, es necesario retroceder en el tiempo. Toda la orilla sur del Mediterráneo fue, durante la Antigüedad, de influencia fuertemente europea. Desde los bereberes del Rif hasta los faraones egipcios, los norafricanos eran de orígenes más europeos que africanos. Los fenicios (fundadores de Tripoli), cartagineses, griegos (fundadores de Cirene), macedonios y romanos, batallaron y conquistaron la orilla sur del Mare Nostrum. Durante el Imperio Romano, toda la costa norte de África era de cultura genuinamente europea-clásica, y florecieron ciudades que aun hoy dejan translucir su esplendor pasado. Fue con la caída del Imperio Romano que el norte de África —la mitad del Mediterráneo— se perdió para Europa. Y aunque los bizantinos, españoles, venecianos y genoveses mantuvieron muchas plazas, el Islam, la entrada de la cultura árabe y finalmente el Imperio Otomano, haría que el Magreb se alejase definitivamente de Europa hasta la época colonial. En el Siglo XIX, con la revolución industrial y el progresivo retroceso del Imperio Otomano, Europa vuelve a ganar protagonismo en Noráfrica.

 

PROYECTOS COLONIALES EN ÁFRICA: ITALIA Y RUSIA

 

Durante la Conferencia de Berlín de 1884, las potencias europeas, tirando de escuadra y cartabón, se reparten el mapa de África como un inmenso pastel. Los países más influyentes ―Gran Bretaña y Francia―, se quedan con las partes más jugosas del pastel, y los menos influyentes se conforman con las migajas. Así, mientras que a los españoles se nos adjudicaba la minúscula Guinea Ecuatorial, los franceses y británicos se quedaron con vastos territorios, llenos de materias primas y de enorme valor estratégico. Estados Unidos, que seguiría siendo una potencia continental hasta la guerra contra España en 1898, fue el gran ausente del reparto. Italia, un país recién constituido 23 años atrás, tendrá que esperar aun años para reclamar su parte.

 

La conferencia de Berlín, que supuestamente buscaba un reparto sensato, no supuso ni la paz ni el orden en el continente negro: al contrario, los problemas acababan de empezar. Por un lado, aunque se habían designado esferas de influencia, estas esferas no se hacían efectivas hasta la toma de posesión formal, y por otro lado, todavía quedaban territorios independientes (Liberia y Abisinia) y territorios que aun pertenecían al Imperio Otomano (entre ellos, Libia).

 

Italia, que se había quedado sin colonias, miró hacia un espacio que no estaba en el punto de mira de ninguna potencia europea: Abisina (actual Etiopía). El emperador local, Menelik II, había pactado en 1890 que los italianos controlarían Eritrea, es decir, la costa. En 1893, alegó que la versión etíope del pacto difería de la versión italiana, y lo repudió, supuestamente para obtener una salida fiable al Mar Rojo. Los italianos cruzaron militarmente la frontera entre Etiopía y Eritrea, prendiendo la mecha de la Primera Guerra Italo-Abisinia.

 

Aunque Italia poseía superioridad tecnológica y armamentística, la victoria no pintaba tan fácil. Por un lado, los italianos eran pocos y carecían de una tradición militar sólida, y por otro, los etíopes no estaban solos: les apoyaba el Imperio Ruso. Alejandro III había concebido en 1888-89 un proyecto para establecer una "Nueva Moscú" a orillas del Mar Rojo, en lo que hoy es Yibuti. Al hacerlo, estaba entrando automáticamente en conflicto con franceses, italianos y británicos. El Zar incluso consiguió establecer contacto con las fuerzas del Mahdi (un líder rebelde que luchaba en Sudán contra los ingleses), mandando a un coronel cosaco, Nikolai Ivanovich Ashinov. Ashinov pretendía colaborar con Francia para utilizar a Etiopía como Estado-tapón ante el avance británico e italiano en el cuerno de África. Con ese objetivo lideró una expedición religioso-militar de 150 personas, que incluían un obispo, diez sacerdotes, veinte oficiales militares, y mujeres y niños. Pactó con una tribu local, se negó a entregar las armas a las autoridades francesas y estableció una colonia en Sagallo, Somalilandia Francesa (actual Yibuti). Rusia pretendía que esta colonia, en pleno estrecho de Bab el-Mandeb (bisagra entre el Mar Rojo y el Índico) sirviese para ejercer de contrapeso al control británico de Suez y al control turco del Bósforo, y como base para extender su influencia por todo el Cuerno de África. Sin embargo, los franceses despacharon dos barcos a la zona, dieron un ultimátum y bombardearon el asentamiento, matando a varios colonos (dos niños, cuatro mujeres y un hombre) y sofocando el sueño ruso cuando aun estaba en su cuna. Las colonias ultramarinas nunca se le dieron bien a la ultra-continental telurocracia rusa... pero el Imperio no cejó en su empeño de penetrar en África a través del Mar Rojo.

 

Localización de Sagallo (colonia rusa) y Adua (batalla entre Italia y Etiopía).

 

El Negus (emperador) etíope, atacado por los italianos, mandó una delegación diplomática (sus príncipes y su obispo) a San Petersburgo en 1895. Rusia respondió con asesores, armamento y algunos voluntarios, incluyendo un equipo de cincuenta soldados a las órdenes de un oficial cosaco del Kubán, el capitán Nikolai S. Leontiev. También mandaría a Alexander K. Bulatovich, una curiosa combinación de oficial militar de caballería, monje ortodoxo, geógrafo, escritor y explorador. Este hombre acabaría haciéndose asesor y confidente del emperador etíope. El Zar consideraba a Etiopía de alto valor estratégico debido a que poseía las fuentes del Nilo Azul, vitales para Egipto ―que ya estaba empezando a caer en la órbita británica. Además, el cristianismo herético practicado en Abisinia interesaba estratégicamente a los patriarcas ortodoxos rusos (igual que les sigue interesando a día de hoy todas las variedades cristianas de Grecia, Próximo Oriente e India).

 

Los italianos acabaron confiándose demasiado, y sufrieron una derrota humillante en la Batalla de Adua (1896): 7.000 muertos, 1.500 heridos y 3.000 prisioneros. A 800 combatientes askari (etnia eritrea considerada "traidora" y colaboracionista con Italia), se les mutiló, amputándoles la mano derecha y el pie izquierdo. La tasa de muertes sufrida por el Ejército italiano en Adua fue mayor que la de cualquier batalla europea del Siglo XIX, si todos los imperios han tenido sus desastres (Roma en Teutoburger, Gran Bretaña en Khyber, España en Annual, Francia en Dien Bien Phu, etc.), el de Adua fue sin duda el desastre italiano por excelencia. Hubo graves disturbios en las ciudades italianas y el gobierno del primer ministro Crispi se derrumbó. El Tratado de Adis-Abeba estableció claramente la frontera etíope-eritrea y obligó a Italia a reconocer a Etiopía como Estado soberano e independiente. Este desastre, a diferencia del español de 1898, fue un desastre a medias: Eritrea se convertiría en una próspera colonia italiana, donde se desarrollaría la agricultura, la industria, la arquitectura y el ferrocarril, mientras que Etiopía se veía privada de su salida al Mar Rojo.

 


 

 

En 1911, mismo año en el que empezaría la guerra de España en el Rif, la prensa italiana, representando los intereses de las oligarquías nacionales, empezó a pedir una invasión a Libia, pintándola como una tierra rica en minerales y asegurando que se trataría de un paseo militar, con una población nativa hostil a los otomanos y sólo 4.000 soldados turcos defendiendo la plaza. Además, Turquía ya estaba lidiando con una revuelta en Yemen, y la mecha estaba a punto de prender también en los Balcanes. El Partido Socialista, que tenía mucha influencia sobre la opinión pública italiana, adoptó una postura ambigua; Benito Mussolini, que por aquel entonces militaba en sus filas, se opuso a la guerra.

 

Tripoli, Tobruk, Derna y Al Khums cayeron rápidamente en manos italianas, pero una plaza estratégica turca fue más complicada de tomar: Bengasi. En las filas del Imperio Otomano luchaba un joven oficial llamado Mustafa Kemal Ataturk, posterior líder nacionalista turco. Los italianos también aniquilaron preventivamente las fuerzas turcas en Beirut (Líbano). 

 

Esta guerra fue precursora de la Primera Guerra Mundial y del desmembramiento del Imperio Otomano. Por primera vez, se vería el empleo militar de la aviación: la primera misión de reconocimiento aéreo y la primera bomba lanzada desde un avión. Italia fue pionera en la militarización del aire, en parte gracias a las teorías del general Giulio Douhet, que revolucionó la geopolítica afirmando que el espacio aéreo añadía una tercera dimensión a las tradicionales dos dimensiones de la guerra, que la supremacía aérea sería crucial en las guerras del futuro y que los bombardeos sobre infraestructuras civiles podían decidir un conflicto bélico. Douhet fue el gurú de los ataques aeroquímicos: consideraba que la aviación debía emplear primero bombas explosivas para destruir los objetivos, luego incendiarias para incendiar las estructuras dañadas y luego gas venenoso para impedir la acción de los bomberos y equipos de rescate. Estas tácticas brutales se enmarcaban en el novedoso concepto de la "guerra total". Irónicamente, serían los angloamericanos los que, tres décadas después, llevarían estos principios a sus últimas consecuencias, en los bombardeos masivos sobre Centroeuropa y Japón.

 


Ataturk (izquierda) con un oficial otomano y tropas beduinas locales.

 

Como resultado de la Guerra Italo-Turca, Roma obtuvo las provincias otomanas de Tripolitania, Fezzan, Cirenaica (que componen la actual Libia) y las islas del Dodecaneso (actual Grecia).

 

La Segunda Guerra Italo-Abisinia estalló en 1935, durante el régimen fascista. Los problemas fronterizos entre la Somalia Italiana y Abisinia, fueron la excusa de Italia para volver a invadir lo que hoy es Etiopía y derrocar al emperador absolutista Haile Selassie. Mussolini autorizó el uso de lanzallamas, armas químicas, la ejecución de prisioneros, las represalias y el terror hacia la población en general.

 

Este proyecto italiano, mucho más ambicioso que los anteriores, tenía por objetivo establecer un puente entre el Mediterráneo y el Índico —sin pasar por el canal de Suez— y a la vez atenazar al canal (Franco pensaba entrar en la guerra a favor del Eje, pero sólo si tomaban Suez, en cuyo casi él tomaría Gibraltar y el Mediterráneo quedaría asegurado como Mare Nostrum de nuevo; ése era el objetivo de toda la campaña del Norte de África, y de las luchas de Rommel y Montgomery en Tobruk y otros lugares).

 

Del mismo modo que los portugueses intentaban unir Angola (Atlántico) y Mozambique (Índico), y los alemanes Namibia (Atlántico) y Tanzania (Índico), para no depender del Cabo de Buena Esperanza ni de Suez o Gibraltar, los italianos pretendían conseguir una continuidad territorial entre Libia y la Somalia Italiana. Sudán, en manos del Imperio Británico, frustraba esta posibilidad.

 


Proyecto geopolítico de Italia (1940-41). Rojo: imperio italiano. Rosa: territorios ocupados. La idea de Italia era unir su colonia libia con sus posesiones en el Cuerno de África, o al menos establecer un puente de transporte. Ello le habría permitido a Roma obtener una continuidad territorial desde la costa mediterránea hasta la costa del Índico, emancipándose de su dependencia de Gibraltar, Suez, el Mar Rojo y Yibuti, y acercándose peligrosamente a Iraq e Irán (donde habrían podido enlazar con efectivos alemanes procedentes del Cáucaso). Al III Reich, que compartía frontera con Italia, esta salida al Índico le interesaba también. Como venía siendo habitual, el Imperio Británico ya había cortado de tajo por anticipado cualquier intento de burlar su control de Suez: los ingleses habían ocupado una franja continua de terreno que iba desde Egipto hasta Sudáfrica, y Sudán dividía el proyecto italiano. De un modo parecido, la colonia británica de Zambia frustraba las ambiciones de los alemanes (Namibia y Tanzania) y/o de los portugueses (Angola y Mozambique) de obtener una continuidad territorial desde el Atlántico hasta el Índico. La mayor parte de las bisagras oceánicas estuvieron siempre en manos del Imperio Británico. La versión moderna del sueño italiano, gestionada esta vez por Gaddafi, tenía una traducción sencilla e inaceptable para el atlantismo: China obtendría un puente desde el Índico hasta el Mediterráneo, pudiendo comerciar con Europa sin tener que pasar por Bab-el Mandeb (Yibuti, Yemen, Golfo de Adén, Mar Rojo) y el canal de Suez.

 

El sueño africano de Italia en el cuerno de África finalizó en 1941 con la caída de Eritrea en manos británicas, al final de la campaña de África Oriental. El emperador etíope Haile Selassie, que se había exiliado a Reino Unido, volvió al poder, y en 1952, la ONU reconocería la unión de Etiopía y Eritrea. En 1974, un golpe de Estado socialista derrocó a Selassie y convirtió Etiopía en un aliado del bloque comunista, en cierto modo coronando las antiguas ambiciones zaristas. Tras la caída del Telón de Acero, Etiopía y Eritrea se enzarzarían en cruentísimas guerras, que resultarían en su separación y en un tremendo caos en el Cuerno de África y en Yemen.

 

En tiempos más recientes, Gadafi había heredado el proyecto geopolítico italiano, lanzando un gasoducto hacia Italia (el Green Stream), aliándose con Sudán, entrando en el Cuerno de África y acercándose peligrosamente al Índico, al Atlántico, al Mar Rojo, y también al Congo. La respuesta del eje atlantista ha sido, entre otras cosas, independizar Sudán del Sur (banderas israelíes a destajo en la fiesta de independencia), apoyar al gobierno de facto somalilandés… y aniquilar Libia.

 

Los países-bisagra, a caballo entre dos o más mares (como España, Egipto, Israel, Arabia Saudí, Sudáfrica, Singapur, Yemen, Turquía, Panamá, etc.), son de una enorme importancia estratégica. En África, la única bisagra directa entre el Atlántico y el Índico es Sudáfrica, y es un país que queda lejos de los principales mercados (Europa Occidental, Norteamérica y Asia Oriental) y fuentes de materias primas (Golfo Pérsico y Caspio), interesándose más por Brasil e India, por lo que la opción marítima más común para Europa y China es tomar la ruta Gibraltar-Suez-Yibuti. Sin embargo, Gadafi estaba intentando fortalecer otras dos opciones. La primera era estabilizar, mediante pactos con las tribus locales, la franja (el Sahel) que va desde el Sahara Occidental hasta la costa de Sudán y Somalia. La segunda, intentar consolidar Sudán (en lugar del Atlántico) como la salida de las materias primas del Congo (la independencia de Sudán del Sur ha bloqueado el contacto de Sudán con las fronteras del Congo). China habría sido la gran beneficiada de esta política, ya que habría obtenido una salida al Mediterráneo y otra al Atlántico, sin tener que pasar por Bab el-Mandeb, Suez o Gibraltar.

 

EL REY IDRIS Y LA REVOLUCIÓN VERDE

 

Idris era un jefe local que en 1920 fue reconocido por el Imperio Británico como emir de Cirenaica, estableciéndose en la ciudad de Bengasi. Dos años después, fue también reconocido como emir de Tripolitania. Ese mismo año, que coincidió con las campañas militares italianas, Idris se exilió a Egipto, desde donde dirigió la guerra de guerrillas contra Italia. Durante la II Guerra Mundial, luchó junto con el Imperio Británico en contra del Eje. Libia saldría de la II Guerra Mundial como uno de los países más pobres del mundo, Idris volvería a establecerse como emir de Cirenaica y Tripolitania, y en 1951, con apoyo británico, se erigió como rey de Libia. Durante la época del panarabismo y los nacionalismos árabes, Idris mantuvo fuertes lazos con Reino Unido y Estados Unidos, albergando una base aérea estadounidense cerca de Trípoli y por tanto dándoles claramente la espalda a los movimientos árabes socialistas. Su política fuertemente pro-occidental le fue granjeando la enemistad de la mayor parte de su pueblo, especialmente después de la Guerra de los Seis Días (1967), en la que las principales potencias panarabistas se enfrentaron a Israel.

 

En 1969, por motivos de salud, el rey Idris abdicó en su sobrino. En Septiembre de ese año, mientras recibía tratamiento militar en el extranjero, su gobierno fue derrocado por un golpe de Estado encabezado por Muammar el-Gaddafi, un abogado y oficial militar de 27 años que inmediatamente estrechó lazos con el líder egipcio Nasser, propuso un frente común para luchar contra Israel y comenzó a liquidar a sus opositores políticos dentro de Libia. Además, nacionalizó el petróleo, expulsó las bases militares extranjeras, y se colocó, aunque no incondicionalmente, bajo el paraguas de la URSS.

 


Gaddafi en su época de ascenso político.

 

En 1977, Gaddafi proclamó la Yamahiriya (Estado de las masas, o autoridad de la multitud), por la cual dejaba de ser dictador, delegando su poder en asambleas locales y tribales, aunque siguió controlando el Ejército y la política exterior. El pensamiento político de Gaddafi es esencialmente social-tribal. Consideraba que la democracia representativa paralamentaria era una institución corrupta diseñada para dividir al pueblo y permitir la infiltración de entidades comerciales y financieras en los aparatos estatales. Defendía un partido único y una democracia directa y participativa, plagada de referéndums, no muy diferente a lo que muchos movimientos de tipo 15-M han pedido a lo largo de 2011.

 

El pensamiento político de Gaddafi se resume en el Libro Verde, a su vez dividido en tres libretos: La solución del problema de la democracia (Yamahiriya), La solución del problema económico (Socialismo) y La base social de la tercera teoría universal, títulos esenciales para comprender el régimen libio de entre 1969 y 2011.

 


 

 


PODEROSO CABALLERO ES DON PETRÓLEO ―POLÍTICA PETROLERA DE GADAFI

 

Libia tiene en común con otros países árabes que es pobre y desértico… pero con petróleo a raudales. Se trata del país africano con más petróleo y gas natural, un crudo de alta calidad y bajo coste de extracción. El 95% de los ingresos de exportación del país procedía del oro negro; sin él, Libia habría sido una especie de Yemen mediterránea. Obviamente, esta enorme riqueza requiere un modelo político, económico y social estable para administrarla. El modelo de la mayor parte de petro-regímenes árabes (Arabia Saudí, Emiratos Árabes, Qatar, Kuwait, Bahrein, etc.) es sencillo: una minúscula e impresentable oligarquía de familias reales, emires y jeques da manos libres a las multinacionales petroleras occidentales (destacando British Petroleum, Exxon Mobil ―Esso en Europa―, Chevron-Texaco, Royal Dutch Shell, etc.), y a cambio, éstas suministran a las oligarquías (fuertemente relacionadas con los servicios de Inteligencia de Reino Unido, Estados Unidos e Israel) una corriente ininterrumpida de dólares recién impresos y sin ningún tipo de respaldo. En Washington, la Reserva Federal imprime dólares y es como si imprimiese petróleo ―es el sencillo e inmoral negocio del petrodólar, que ya desencadenó en 1973 la Guerra del Yom Kippur. Estos petrodólares tienen, por lo general, dos salidas:

 

1- Financiar los caprichos de los jeques, por ejemplo: colecciones enteras de Rolls-Royce (uno de cada color del arco-iris), rifles de caza con doble cañón y doble cerrojo, centros mundiales del lujo como Burj-Dubai, palacios decorados con pieles de felinos, playas privadas, fiestas orgiásticas, propinas millonarias, camiones de talla mastodóntica, mansiones en el extranjero, cuentas en paraísos fiscales, pagar los destrozos de una fiesta en un hotel de cinco estrellas y cualquier vicio imaginable. Los típicos lujos de nuevo rico, propios de una casta sin tradición, que acaba de salir del tercermundismo más absoluto y que no tiene ni idea de qué hacer con tanto dinero, de modo que cae en manos del consumismo más atroz.

 

2- Financiar el radicalismo islámico sunnita, especialmente de la rama salafista. A través de redes comerciales, financieras y de Inteligencia, el dinero va a parar a las mezquitas, madrasas y células terroristas de Europa, el Magreb, Chechenia, Asia Central, India, Nepal, Bangla-Desh y especialmente Pakistán (donde engendró el movimiento talibán). Con esto se persiguen muchos objetivos: contener la expansión de la influencia chiíta (que es un gravísimo problema para el atlantismo, especialmente en el Golfo Pérsico), cristiana-oriental (muy relacionada con Rusia) o en su día de la expansión soviética, tener una excusa para intervenir militarmente en el continente eurasiático, desestabilizar y balcanizar espacios enteros haciendo inviables las rutas comerciales continentales, derrocar regímenes hostiles, etc.

 

Por tanto, puede decirse que el dinero de la mayor parte del petróleo árabe no va precisamente a mejorar las condiciones de vida de los pueblos árabes. Dicho pueblos viven en dictaduras fundamentalistas donde está prohibido cantar, bailar, beber alcohol o escuchar música, donde las mujeres deben ir tapadas y no pueden conducir o salir a la calle solas, y donde la homosexualidad se pena con la muerte ―mientras que las petro-élites poseen playas privadas con prostitutas en bikini y se montan orgías homosexuales con drogas, música occidental, alcohol a mansalva, etc.. Éste es el tipo de régimen político árabe opresivo, despótico, aliado del atlantismo y que nunca será bombardeado por la OTAN.

 

La Libia del rey Idris caminaba hacia este sistema, hasta que en la década de los 70, Gaddafi comenzó a nacionalizar las compañías petroleras al estilo socialista. De este proceso surgiría la empresa estatal conocida en el ámbito internacional como National Oil Corporation (NOC), que antes de la guerra producía alrededor del 50% del petróleo libio. Gaddafi era bien consciente de que su país, pobre y con una población de menos de 7 millones, debía jugar bien la carta del petróleo si quería tener un peso en el panorama internacional, o al menos para no ser arrollado por el imperialismo de otras potencias y poder dedicar sus beneficios a la construcción de escuelas, universidades, hospitales e infraestructuras diversas (carreteras, puentes, ferrocarril, acueductos, una planta de acero en la ciudad de Misrata, etc.). Muchos beneficios petroleros incluso eran ingresados directamente en la cuenta corriente de cada ciudadano libio. Con razón diría la revista "African Executive" en 2007 que los libios "a diferencia de otros países productores de petróleo como Nigeria, utilizan los beneficios del petróleo para desarrollar su país".

 


Logo de la National Oil Corporation (NOC) de Libia.

 

En 2003, Gaddafi condenó la Guerra de Iraq y provocó la ira de Arabia Saudí al decir que la Kaaba de La Meca estaba "bajo el yugo de una ocupación americana", pero cuando cayó Baghdad, se dio cuenta de que tenía que cambiar su política exterior y dejar de ser un Saddam Hussein del Mediterráneo, so pena de acabar como el susodicho y con su país arrasado y ocupado. Jugó la única carta que tenía: la del petróleo, abriendo las puertas de Libia a las compañías extranjeras. Enseguida, Occidente abolió las sanciones contra Trípoli, y las petroleras occidentales acudieron con grandes expectativas. Es la época del amigueo entre Occidente y Libia, es la época de las relaciones diplomáticas, del levantamiento de sanciones, de las disculpas, de las famosas fotos de Gaddafi con los mismos dirigentes internacionales que años después promoverían su derrocamiento o lo dejarían caer.  

 

Sin embargo, las compañías occidentales quedarían decepcionadas por esta imagen aperturista. Bajo el sistema de contratos "Epsa-4", el Gobierno libio concedía licencias de explotación petrolífera sólo a las compañías que le otorgaban a la petrolera estatal NOC la mayor parte del petróleo (en ocasiones, hasta el 90%). El ex-presidente de ConocoPhillips en Libia [1], Bob Fryklund, dijo específicamente que "A escala mundial, los contratos Epsa-4 eran los que contenían las condiciones más duras para las compañías petroleras". La traducción de esto es que Gaddafi quería asegurar que la mayor parte de beneficios de la explotación del petróleo revirtiesen en su país, y que si una compañía extranjera quería beneficiarse del petróleo libio, pagase por ello.

 


El destino de las exportaciones petroleras de Libia. Los porcentajes no son exactos y variaron con el tiempo, pero dan una idea. Nótese el papel de Italia y Alemania. Antes de estallar la guerra, aproximadamente el 85% del petróleo libio exportado iba para la Unión Europea. 

 

Por tanto, Gaddafi permitía que las compañías occidentales obtuviesen beneficios, pero no los suficientes: buena parte iba para el Estado libio. En 2009 se empezó a rumorear que era inminente una nueva ronda de nacionalización del petróleo y subida de precios, y además Gaddafi estaba a punto de sellar pactos privilegiados con dos nuevos protagonistas emergentes que empezaban a asomar tímidamente sus tentáculos por el Mediterráneo: China y Rusia.  

 

Los intereses petroleros de China en Libia no eran especialmente fuertes, Libia destinaba el 10% de sus exportaciones petroleras a China, que obtenía de allí sólo el 3% de su petróleo importado. Los intereses chinos en Libia estaban más orientados a la construcción de infraestructuras: durante los últimos 4 años anteriores a la guerra, la China State Construction Engineering Corporation (CSCEC) había firmado contratos por valor de más de 2,67 mil millones de dólares. Sólo en el 2008, las compañías chinas habían invertido más de 100 mil millones de dólares (para hacernos una idea de cuánto significa esta cifra, pensemos que el total de capital estadounidense invertido en China es de 50 mil millones) en 180 proyectos de construcción (ferroviarios, de telecomunicaciones y otros), la mayor parte en la provincia de Cirenaica, posterior epicentro de la insurrección andi-gaddafista. En estos proyectos, trabajaban unos 36.000 chinos de diversas cualificaciones, que tuvieron que ser evacuados apresuradamente. Cabe especular que, si China estaba tan involucrada en un país rico en petróleo como Libia, era porque esperaba obtener una ampliación de sus concesiones petrolíferas.

 

Rusia era otro país cuyos intereses no eran tanto petroleros como, en este caso, armamentísticos y de construcción de infraestructuras (terminales de gas natural licuado, ferrocarril, plantas eléctricas). Aquí estaba activamente involucrado el gigante estatal gasífero ruso Gazprom, que también mantenía conversaciones con el gobierno nigeriano para patrocinar un gasoducto trans-sahariano que, a través de Níger y Argelia, suministrase gas a la Unión Europea. En octubre de 2008, buques de guerra rusos hicieron escala en Trípoli en su camino a Venezuela, y al mes siguiente, Gaddafi hizo su primera visita oficial a Rusia desde la era soviética, debatiendo con Putin y Medvedev la posibilidad de formar una especie de "OPEP del gas", cártel gasífero que incluiría a Rusia (que posee las mayores reservas de gas del mundo), Irán (las segundas), Argelia, Libia y varios países centroasiáticos (especialmente Turkmenistán). Qatar (el tercer país en reservas de gas) quedaba excluido de este club elitista, y a cambio sería babosamente cortejado por Occidente. Aunque los medios de comunicación rusos han sido mucho más sinceros que los occidentales, y aunque ha habido muestras de apoyo a Libia desde Rusia, Moscú se ha abstenido de intervenir militarmente.

 

El 14 de Marzo de 2011, cuando ya había serios problemas con los rebeldes y la mayoría de compañías occidentales se habían marchado apresuradamente, Gaddafi intentó meterse en el bolsillo a China, Rusia, India y Alemania (a Italia ya la tenía, aunque Washington la hizo meter el rabo entre las piernas), pero ya era demasiado tarde. Tanto China como Rusia han salido claramente perjudicadas por la Guerra de Libia, por una parte debido a la cancelación de sus contratos privilegiados (la empresa Agoco, en manos de los rebeldes, amenazó a ambos países con retirarles los contratos por no haber apoyado la insurrección anti-gaddafista) y por otra parte a la irrupción de las multinacionales extranjeras. Por lo pronto, la China National Petroleum Corporation ha cancelado seis proyectos de exploración en Libia y Níger, y actualmente está intentando llegar a acuerdos con el nuevo gobierno rebelde.

 

Quizás la gran perdedora de la Guerra de Libia haya sido Italia. La geografía manda: Italia tiene relaciones con el norte de África, para bien y para mal, desde la época de Cartago y el mito de Eneas y Dido. La petrolera Eni, que en el 2007 pagó mil millones de dólares para asegurar sus concesiones petroleras hasta el año 2042, controlaba antes de la guerra el 30% de las exportaciones libias. En los últimos tiempos, Italia ha hecho una política cada vez más desligada del eje atlantista. Se ha acercado a Rusia (en parte gracias al futuro gasoducto South Stream) y a Libia (mediante contratos petroleros, un tratado de no-agresión y el gasoducto Green Stream, que fue inaugurado en 2004 por Gaddafi y Berlusconi, y que conecta Libia con Italia). Casi daba la impresión de que cada vez que Berlusconi escandalizaba al mundo con sus excesos y sus bunga-bunga, era únicamente para extender una cortina de humo sobre sus turbias maniobras geopolíticas. Este acercamiento italo-ruso preocupaba a Estados Unidos (ver aquí). Italia y Libia tenían muchos intereses comunes, y durante los posteriores bombardeos, Gaddafi llamaría a Berlusconi todos los días para que intentase presionar a los angloamericanos y franceses, en vano: Berlusconi era el primero que estaba a su vez presionado por estos mismos países, a pesar de que sabía perfectamente que la guerra de Libia era inauditamente perjudicial para los intereses italianos, que como hemos visto antes, vienen de muy antiguo.

 


 


Triángulo de gasoductos Nigeria-España-Italia. El gasoducto trans-sahariano, en rojo, no está completado, y el GALSI, en naranja, tampoco. El Medgaz (azul) fue inaugurado en Marzo de 2011, en plena primavera árabe. Son especialmente importantes el gasoducto trans-mediterráneo (gasoducto Enrico Mattei) en el contexto de las revueltas en Túnez, y el gasoducto Green Stream en el contexto de la Guerra de Libia. La situación de España con Argelia es muy similar a la de Italia con Libia: existe un gasoducto directo (el Medgaz) y uno que pasa por un país intermediario (el Maghreb-Europe), que en este caso es Marruecos. Cuando se complete el gasoducto trans-sahariano (si se completa), toda esta infraestructura se conectará, a través del Sahara, con los yacimientos gasíferos del delta nigeriano, donde chocan los intereses del atlantismo con los de China, Irán, Rusia y, hasta hace poco, Libia y la Unión Africana. Se comprenden mejor los intereses de Gaddafi, Francia y el atlantismo en el país-bisagra Níger (país que, además, tiene importantes yacimientos de uranio y donde los chinos buscan petróleo...).  

 

Alemania ha sido otro Estado notable por su ambigüedad en torno a la Guerra de Libia, no en vano recibía en torno al 20% de las exportaciones petroleras de ese país y entre 2005 y 2007 supuestamente contribuyó en el entrenamiento de las fuerzas de seguridad libias. Berlín va dándose cuenta de que tiene muchos más intereses en común con Moscú que con Washington: el 18 de Febrero de 2011, Alemania votó a favor de una resolución de la ONU condenando como ilegales los asentamientos judíos en Cirjordania, y una semana después, Angela Merkel se permitía recriminarle al Primer Ministro israelí Benjamin Netanyahu que no hubiese dado pasos para obtener la paz con los palestinos; este gesto diplomático es muy fuerte para un país tan acomplejado y delicado en el tema israelí como Alemania. El 8 de Noviembre de 2011, se inauguró un gasoducto (el Nord Stream) que le proporciona a Alemania gas ruso a través del Báltico, y Berlín está empezando a desmarcarse inquietantemente de la política atlantista.

 

En la cumbre del G8 el 15 de Marzo de 2011, la canciller alemana se negó a ser presionada por Reino Unido y Francia, y bloqueó la propuesta atlantista de establecer una zona de exclusión aérea sobre Libia ―pero al día siguiente, un repentino y oportuno "problema" con su helicóptero la hizo cambiar de opinión. El 17 de Marzo, se abstuvo (junto con Brasil, China, India y Rusia) de votar la resolución del Consejo de Seguridad de la ONU decretando la zona de exclusión aérea y, si bien declaró pasivamente que dicha resolución debía aprobarse, se negó a mandar tropas a Libia. Esto cambió en Agosto, cuando, reaccionando a las presiones extranjeras, envió unidades de operaciones especiales a combatir en Libia, contraviniendo la resolución 1973 de la ONU. Por ahora, Estados Unidos ha conseguido que Alemania vuelva, a regañadientes, al redil atlantista, pero se trata de un éxito efímero que no hace más que retrasar lo inevitable: la ruptura entre la Europa continental y el atlantismo, agudizada por el acercamiento de Europa a Rusia y de EEUU al Pacífico.

 

¿Cómo se ha visto afectada España? Libia era nuestro segundo suministrador de crudo (el primero es Irán), y a lo largo de 2010, España había aumentado un 33% el suministro de petróleo libio. En 2008, Repsol (que se preciaba de ser "la verdadera embajada de España en Libia") había firmado una prolongación de su contrato hasta 2032, y en 2009, había realizado importantes descubrimientos, consolidándose como la primera petrolera privada de Libia y produciendo 360.000 barriles al día. A esta compañía, que siempre se ha vanagloriado de tener mejor información que el mismísimo CNI, los conflictos le cogieron totalmente por sorpresa, y tuvo que evacuar desordenadamente a sus empleados en Libia. En Octubre de 2011, Repsol volvió a reanudar su producción en Libia... con sólo 30.000 barriles al día.

 

Cuando comenzó la zona de exclusión aérea y los "bombardeos humanitarios", los primeros objetivos de la OTAN fueron asegurar los pozos petrolíferos, refinerías, oleoductos, puertos y otras infraestructuras petroleras ―no en vano la rebelión había comenzado en Cirenaica. Con el derrocamiento de Gaddafi y el reconocimiento apresurado del Consejo Nacional de Transición libio, Washington, Londres y París han creado una nueva empresa petrolera, la Libyan Oil Company, totalmente desregulada y con las puertas abiertas para los inversores occidentales, con lo cual es previsible que buena parte de sus beneficios acabe en paraísos fiscales y, en todo caso, que el pueblo libio no los vea ni en pintura. La OTAN ha previsto privatizar también la NOC.

 

Entre tanto jaleo, el mundo ha podido asistir perplejo al bochornoso espectáculo de cómo una larga lista de petroleras occidentales (especialmente la británica British Petroleum y la francesa Total), así como las variopintas facciones de "los rebeldes libios", se disputan como buitres los contratos y los derechos de explotación del petróleo. Para estos señores codiciosos, arrasar un país próspero, sumir a su pueblo en la miseria y mandar a la muerte a docenas, puede que cientos, de soldados de operaciones especiales ―la flor y nata de la Civilización Occidental― sólo habrá valido la pena si logran hacerse con un trozo del pastel.


NIVEL DE VIDA EN LIBIA Y POLÍTICAS SOCIALES DE GADAFI


¿De qué opresión está hablando? Los libios se beneficiaban de créditos a 20 años sin intereses para construir sus casas, un litro de gasolina costaba 14 céntimos, la comida no costaba absolutamente nada y un jeep surcoreano KIA podía ser comprado por sólo 7.500 dólares.

 (Vladimir Chamov, ex-embajador ruso en Libia, cuando le mencionaron en una entrevista la "opresión al pueblo" de Gaddafi).

 

Hay que tener en cuenta que lo que desea la mayor parte de la población de cualquier país, es tranquilidad y prosperidad y, al ser posible, que no la bombardeen aviones extranjeros o la asesinen/violen/torturen mercenarios extranjeros. No hay pueblo que no desee un gobierno paternalista y protector, y eso era lo que Gadafi intentaba proporcionar. Antes de continuar, dejaremos que los datos hablen por sí sólos.

 

• PIB per capita: 14.884 $ (comparar con 4.900 en Marruecos). Libia era el primer país africano en el Índice de Desarrollo Humano (IDH).

 

• Consumo calórico diario per capita: 3144 (en España 3270).

 

• Deuda/PIB: 3,3 % (comparar con el 60% de EEUU). Libia era el país menos endeudado del mundo con respecto a su PIB, ver aquí y aquí.

 

• Población urbana: 78%, la mayor parte en ciudades de la costa. Ver aquí.

 

• Esperanza de vida: 74 años (la más alta de África). En 1980, era de 61 años.

 

• Tasa de fertilidad: 2,6 (comparar con 5,4 en Marruecos o 6,5 en Yemen).

 

• Tasa de mortalidad infantil: 19 de cada mil. En 1980, era de 70 por cada mil.

 

• Índice de alfabetización: 83% (compárese con el 52% de Marruecos, o el 5% de Libia antes de que llegase Gadafi al poder).

 

• Préstamos bancarios: sin intereses. Todos los préstamos eran a 0% de interés por ley.

 

• Grandes negocios inmobiliarios y mercados hipotecarios: prohibidos.

 

• Ayudas a la vivienda y a la adquisición de automóviles: prácticamente cada familia tenía una casa y un coche. El Estado concedía préstamos automáticamente para adquirir vivienda y automóvil. El 50% de la adquisición del automóvil la costeaba el Estado. Gadafi prometió una vivienda a todos los libios antes de concedérsela a su propio padre, y cumplió su promesa: su padre murió viviendo en una tienda. En 1969, antes de la revolución gadafista, el 40% de los libios vivían en tiendas o chabolas. En 1997, prácticamente todos los libios adultos poseían su propia vivienda.

 

• Ayuda a la vivienda para recién casados: 64.000 $ (en Libia, el coste de la vida es 1/3 con respecto a los países del sur de Europa, de modo que, cambiando a euros y ajustando el coste de la vida, la ayuda equivaldría para nosotros a 140.000 €).

 

• Cheque-bebé: 7.000 $ (cambiando de moneda y computando costes de vida, equivaldría a 15.219 € en el sur de Europa).

 

• Ayudas estatales anuales por cada miembro de familia: 1.000 $ (equivaldría a 2.170 € en el sur de Europa).

 

• Ayudas a familias numerosas: precios simbólicos en alimentos esenciales y bienes de primera necesidad. Cuarenta barras de pan costaban 14 céntimos de dólar.

 

• Sanidad: de alta calidad y costeada por el Estado. Acceso gratuito a médicos, clínicas, hospitales y productos medicinales y farmacológicos. Si un libio necesitaba una operación que no podía ser llevada al cabo en Libia, el Estado costeaba el viaje al extranjero y el coste de la operación. Entre 1969 (revolución gadafista) y 1978, la cantidad de médicos se multiplicó por 5.

 

• Educación: primaria, secundaria y superior costeada por el Estado. Becas y estudios en el extranjero costeados por el Estado. Gran cantidad de alumnos libios estudiando en universidades europeas, una intelligentsia libia bien formada, gran cantidad de libios que hablan bien el inglés. El 25% de los libios tenía titulación universitaria. La proporción de profesores-alumnos era de 1:17. Cuando un licenciado no encuentra trabajo, el Estado le paga el salario medio de alguien con su cualificación hasta que lo encuentre.

 

• Situación de la mujer: junto con Siria, la mejor de cualquier país árabe. Las mujeres accedían a la universidad, tenían los mismos derechos legales que los hombres, podían entrar en el Ejército, votar, conducir un coche, pilotar un avión, trabajar, viajar, ostentar cargos públicos (ha habido ministras libias), ser propietarias de un negocio, formar asociaciones, recitar el Corán en público, poseer su propia cuenta bancaria o casa, y salir solas a la calle. Las bajas por maternidad eran muy amplias y no se les permitía el trabajo físico intenso. No regía la Sharia (ley musulmana radical), se prohibieron los matrimonios de menores de edad y las mujeres obtuvieron el mismo derecho a divorcio que los hombres. En 2001, el 16% de las mujeres libias tenía un grado universitario. En la educación secundaria y superior, las chicas eran un 10% más que los chicos. Existían centros de "rehabilitación moral" donde una mujer podía refugiarse si tenía problemas con una familia fundamentalista. La pintoresca guardia personal de Gadafi, compuesta exclusivamente por mujeres, tenía por objeto llamar la atención al mundo sobre la situación de la mujer libia. En Occidente no se han visto manifestaciones de feministas protestando por la caída del único estadista que podía garantizar los derechos de la mujer libia. Ver más aquí.

 

• Salario de una enfermera: 1.000 $ (equivaldría a 2.170 € en el sur de Europa).

 

• Indemnización por desempleo: 730 $ mensuales (equivaldría a 1.580 € mensuales en el sur de Europa).

 

• Precio de un litro de gasolina: 14 céntimos de dólar (comparar con 1,3 euros en España), menos que un litro de agua. Esto da una idea de cómo en Occidente las multinacionales petroleras fijan precios como un cártel mafioso ―lo llaman "libre mercado".

 

• Precio de la electricidad: gratuito. No existían las facturas de la luz.

 

• Impuestos y tasas: la mayor parte prohibidos.

 

• Venta y consumo de alcohol: prohibidos.

 

• Ayuda estatal por cada apertura de PYME: 20.000 $ (equivaldría a 43.485 € en el sur de Europa).

 

• Ayudas al desarrollo de la agricultura: cualquier libio que quisiera irse a vivir al campo y dedicarse a la agricultura, recibía gratuitamente del Estado tierra, casa, animales de ganado, material de granja y semillas.

 

Estos logros están a años luz de lo que cualquier país del Tercer Mundo ha logrado bajo la democracia-a-la-occidental y las directrices de los Programas de Ajuste Estructural (SAP por sus siglas inglesas) del Fondo Monetario Internacional y el Banco Mundial. También están a años luz de las petro-monarquías árabes del Golfo, a pesar de que éstas son más ricas en petróleo que Libia. Tanto es así que, en 2005, la ONU elogió a Libia por sus avances sociales, sin parangón en toda África. Libia venía a ser el ejemplo perfecto de lo lejos que puede llegar un país cuando emplea bien los recursos que la providencia le dio, sin intermediarios, parásitos, mercaderes, especuladores o saqueadores extranjeros. Libia era, en suma, el caso opuesto al Congo-Kinshasa ―un país tremendamente rico en recursos, pero desorganizado y saqueado.

 


Por sus políticas sociales, Gaddafi era muy popular entre la abrumadora mayoría del pueblo libio. Manifestación del 1 de Julio de 2011 en la Plaza Verde de Trípoli. Se juntaron 1,7 millones de libios: el 95% de la población de Tripoli. Esta manifestación no encontró apenas eco en los medios de comunicación occidentales.

 

 


EL PROBLEMA DEL AGUA: RESUELTO

 

El mundo árabe no se caracteriza por ser precisamente rico en agua, el oro azul es un recurso tan escaso que se han dado muchísimos conflictos en torno a él. El control de las fuentes del Nilo Azul es la causa de la desconfianza entre Egipto e Etiopía y, en su día, del ansia de los italianos por apoderarse de Abisinia (estrangular a Suez). En Cisjordania, los asentamientos de colonos judíos coinciden casi exactamente con la distribución de los acuíferos. Las fuentes del río Jordán han sembrado la discordia en las relaciones entre Israel y Jordania, el agua de las Granjas de Cheba tiene mucho que ver en la enemistad Israel-Siria, y las montañas del Líbano ("la Suiza de Oriente Medio") son un buen motivo más para que Israel desee dominar la zona. Lo mismo se puede decir respecto a las fuentes del Tigris y el Éufrates y las inestabilidades en las zonas armenias y kurdas de Turquía: en todo Oriente Medio, el agua puede ser una bendición o una maldición, según se mire. Incluso donde Oriente Medio se convierte en Extremo Oriente, el fenómeno persiste: la lucha por los recursos hídricos del glaciar de Siachen y varias zonas montañosas, ha puesto patas arriba a toda la región de Cachemira, contestada por tres potencias nucleares: China, India y Pakistán.

 

Precisamente debido a la escasez de agua, los musulmanes en general y árabes en particular, han heredado una larga tradición de aprovechamiento de recursos hídricos. Las civilizaciones mesopotámicas, persa, romana y bizantina fueron acumulando valiosas tradiciones de control y administración de aguas, y actualmente, hasta en los valles más recónditos de Afganistán se construyen acequias cuidadosamente y se consigue mantener verdes los cultivos.  

 


 

 

A diferencia de Marruecos o Líbano, que tienen regiones montañosas y verdes, Libia es de los países árabes más áridos: el 95% de su espacio es desierto puro. En él tuvo lugar la mayor temperatura jamás registrada: 58º C, en El-Azizia, el 13 de Septiembre de 1922. El clima es tremendamente seco, y sólo el 2% del territorio (zonas de costa y de oasis) recibe suficientes precipitaciones como para poder dedicarse a la agricultura. Paradójicamente, en el Sahara se encuentra también el mayor acuífero de agua fósil del planeta: el Sistema Acuífero de Piedra Arenisca de Nubia, con 150.000 kilómetros cúbicos (!) de agua. El acuífero, que fue descubierto accidentalmente en 1953 mientras se buscaba petróleo, abarca zonas de Libia, Chad, Sudán y Egipto.

 


El sistema acuífero de piedra arenisca de Nubia.

 

África entera está llena de enormes acuíferos, pero con líderes corruptos, pueblos desordenados y deudas odiosas contraídas con bancos internacionales, nunca se los ha explotado como es debido, y se recurre en cambio a costosas plantas de potabilización de agua que cubren de beneficios a las compañías desalinizadoras occidentales. Gaddafi fue el primer estadista que buscó seriamente un modo de aprovechar el potencial hídrico del Sahara para que su país fuese autárquico en agua. Para ello, el  "tirano" y "sátrapa" libio financió (25.000 millones de dólares) una obra faraónica denominada Gran Río Artificial, el mayor proyecto de irrigación del mundo, y una de las mayores obras de ingeniería jamás realizadas. El objetivo era traer agua desde los acuíferos y oasis del Sahara hasta las sedientas ciudades de la costa, algunas de las cuales (como la misma Bengasi) no podían beber agua de sus propios acuíferos debido a la invasión de agua marina. Se cavaron 1.300 pozos (casi todos de más de 500 m de profundidad) y se construyeron 2.820 km de canalizaciones subterráneas y acueductos. Antes de ser bombardeado y destruido por la OTAN, el Gran Río Artificial ―al que Gaddafi se refería orgullosamente como "la octava maravilla del mundo"― bombeaba 6,5 millones de metros cúbicos de agua a la costa cada día.

 

Click para agrandar. La infraestructura hídrica de Gaddafi logró hacer florecer el desierto. Estos vergeles, situados en pleno Sahara, eran sólo el comienzo de un plan enorme para convertir Libia en un país agrario, haciéndola una potencia económica regional y atrayendo inversiones, contratos y trabajadores. Cada una de estas parcelas tiene un diámetro aproximado de un kilómetro. Gaddafi planeaba desarrollar 160.000 hectáreas de cultivos, para hacer de Libia un país autárquico en lo alimentario, y también para convertirla en una potencia agraria exportadora.

 

Click para agrandar. Los campos de Kufra, situados cerca de un oasis, podían ser vistos fácilmente por los astronautas desde el espacio y eran una aparición común en los atlas de tipo "El mundo visto desde el aire". Su forma circular se debía al empleo de una técnica mecanizada, el sistema de riego por pivote central, que riega en círculos y minimiza la pérdida de agua por evaporación.

 


Evolución de los vergeles libios de 1972 a 2001. Se cultivaban cereales, frutas, verduras y forraje para ganado. Principales perjudicados: Marruecos, Egipto e Israel. Principal beneficiado: el pueblo libio. Todo esto ha sido destruido por bombardeos de la OTAN el 22 de Julio de 2011, en Brega y otros lugares. Al día siguiente, la OTAN bombardeó la fábrica que construía las piezas y tramos del ducto.

 


De 1988 a 2006.

 


Red hídrica de Libia. Las fases III y IV estaban aun bajo construcción cuando fueron bombardeadas. El Gran Río Artificial era descrito en el Libro Guiness de los Récords como una "maravilla del mundo moderno".

 

En Agosto, UNICEF advirtió que el bombardeo de las infraestructuras hídricas por parte de la OTAN podía "convertirse en un problema sanitario sin precedentes". Poco importa: el Fondo Monetario Internacional, el Banco Mundial y las empresas constructoras de Occidente, se frotan ya las manos pensando en el dinero que le van a prestar al nuevo gobierno libio y los beneficios que obtendrán reconstruyendo el país. Destruir países y luego reconstruirlos como más convenga, sin importar la cantidad de damnificados, es uno de los mayores negocios de la era de la globalización.

 


Más información:


http://news.bbc.co.uk/2/hi/science/nature/4814988.stm

http://www.traxco.es/blog/pivotes-de-riego/cultivar-en-el-desierto-libia

http://www.traxco.es/blog/wp-content/uploads/2010/11/pivotes-de-riego-en-libia-y-jordania.pdf

Página oficial del Gran Río Artificial:

http://www.gmmra.org/en/index.php?option=com_content&view=article&id=76&Itemid=50

 


 

 


EL TEMA IDENTITARIO —GADDAFI Y LAS TRIBUS LIBIAS

 

Si pretende sobrevivir a largo plazo, todo Estado debe tener en cuenta las particularidades étnicas que conforman su espacio. Los regímenes que le dan la espalda a los problemas étnicos, los niegan o pretenden llevar al cabo chapuceras políticas de homogeneización, acaban sumergidos en ellos. Por eso la misma globalización, que pretende imponer este proceso sobre todo el planeta, está abocada al fracaso tarde o temprano, y terminará entre cruentos conflictos étnicos.

 

En Europa, la tradición de los Estados, el orden y la jerarquía, es muy antigua y, aunque no se trata de un continente homogéneo étnicamente, se puede decir que la mayor parte de países europeos, e incluso el concepto mismo de Europa, es étnicamente viable siempre que se respeten las identidades y no se las pretenda amalgamar. Libia es harina de otro costal. La existencia de Libia como Estado independiente, con sus fronteras actuales, es muy reciente. Debido a la dificultad de cultivar el suelo, la vida sedentaria en Libia es una aparición muy tardía, y prácticamente sólo circunscrita a la costa de la provincia de Cirenaica. Hasta bien entrado el Siglo XX, la mayor parte de los libios eran nómadas sumamente pobres, y las únicas estructuras de organización que existían eran las extranjeras de carácter colonial (Italia y Reino Unido principalmente) y las autóctonas de carácter tribal. Luego llegarían las extranjeras de carácter empresarial, que desafortunadamente para ellas, coincidirían con la organización de la estructura estatal por parte del dictador libio. Gaddafi, un beduino de Sirte que nunca se avergonzó de sus orígenes humildes, quiso basar un Estado libio fuerte en los pactos con las diversas tribus, y consideró que la única manera que tenía Libia de no ser arrollada por el extranjero era expulsar a las formas de organización alógenas (empresas y sátrapas relacionados con el antiguo colonialismo imperialista) y actualizar la organización tribal libia, pactando con los patriarcas locales y dándole a cada tribu un lugar en el seno del Estado. Es así como Gaddafi pudo llegar a ser popular en prácticamente todas las tribus libias, desde los árabes de la costa hasta los tuareg del desierto.

 

Pero existía una sombra en la política étnica gaddafista: los bereberes del Oeste del país (montañas Nafusa y alrededores). Los colonos italianos concedieron autonomía religiosa y judicial a esta minoría, ya que es de religión Ibadi (una secta musulmana que se extendió durante la conquista árabe del Magreb). Los ibaditas, aunque se consideran básicamente sunnitas (en Occidente no se los considera ni sunnitas ni chiítas), difieren ligeramente de los malekitas, que componen el resto de la población libia. No tienen sus propias mezquitas y se juntan con el resto de fieles, pero han forjado lazos con Omán, el único Estado gobernado por el ibadismo. Éste es el primer problema de los bereberes libios: sus relaciones con un régimen esencialmente pro-occidental.

 


Zonas bereberes en naranja, zonas árabes en marrón, zonas deshabitadas en gris.

 

El otro problema de los bereberes son los lazos de algunos de sus líderes con el CMA (Congrès Mondial Amazigh), una ONG francesa que, como todas las ONG’s, es la fachada legal de operaciones de ingeniería social, diplomacia, agitación e Inteligencia. Este organismo era percibido por el régimen libio como hostil e interesado en promover la sedición en Libia para desestabilizar al Estado y hacerlo vulnerable a la penetración extranjera.

 

Gaddafi quería un Estado fuerte y unido. Aunque no se metía con la vida privada de los bereberes, el idioma amazigh estaba ausente en las instituciones públicas, y el sistema educativo no mencionaba a los bereberes en la historia de Libia. La Declaración Constitucional de 1969 describía a Libia como un Estado árabe y establecía el árabe como único idioma oficial. En 1977, la Declaración de Establecimiento de la Autoridad del Pueblo puso aun más énfasis en la naturaleza árabe de Libia, llamando a su Estado "Yamahiriya Árabe Libia". Hasta 2007, una ley prohibía que se diese nombres bereberes a los recién nacidos. Aunque los bereberes nunca sufrieron limpieza étnica ni terrorismo estatal como los armenios en Turquía o los kurdos en Iraq, Gaddafi no simpatizaba con ellos y siguió considerándolos como un sector social demasiado proclive a ser utilizado como vector de penetración extranjera. En 1985 el líder libio había declarado que "Si tu madre te transmite este idioma (el amazigh), te está alimentando con la leche del colonialismo, y te transmite su veneno". Es comprensible que los bereberes se levantasen contra Gaddafi cuando, a principios de 2011, comenzó el conflicto libio ―si bien los problemas con los bereberes han sido menores y el mayor conflicto ha sido el de Cirenaica, que precisamente tiene fama de ser una región "multitribal".

 

Todos los etnólogos del Siglo XX consideraban que los bereberes libios estaban fortísimamente arabizados tanto cultural como racialmente. Un estudio italiano de 1932 concluía que no quedaban bereberes puros en Libia. El censo colonial de 1936 no diferenciaba entre árabes y bereberes: ambos eran incluidos en la denominación "libios". Los censos más recientes también incluían a ambas etnias en la misma categoría, de modo que no existen estadísticas fiables sobre la cantidad de bereberes en Libia; sus números pueden andar entre 25.000 y 150.000. La población de habla amazigh, incluyendo los tuareg (que son leales al gaddafismo) y los habitantes de Ghaddames, pueden ser alrededor del 10% de la población.

 

La política tribal de Gaddafi, que consistía básicamente en pactar con las tribus del interior y dejarlas en paz, era un problema para la globalización. Los espacios donde subsisten estas formas de organización social y familiar (como también en la frontera afgano-pakistaní), son un gran problema para el comercio internacional. Estas gentes no se integran en la economía de mercado, son autárquicos, realizan sus intercambios comerciales a nivel regional sin someterse a política fiscal alguna, y no dependen de la oferta de las multinacionales o de las fluctuaciones en bolsa: ellos se lo guisan, ellos se lo comen, sin contar con el resto del mundo. Se trata de un estilo de vida que la globalización quiere desmantelar e integrar en las urbes de la costa. Con la irrupción de la OTAN en Libia y la caída del régimen gaddafista, se puede esperar que el modus vivendi de las tribus desérticas se vea cada vez más amenazada.

 

El futuro de los tuareg es incierto. Durante los años 70, muchos tuareg se enrolaron en la Legión Islámica, un ejército mercenario que Gaddafi utilizaba para apoyar o desestabilizar países vecinos (Chad, Sudán, Líbano) o movimientos guerrilleros. El buen comportamiento de estos hombres les ganó el apoyo de Gaddafi en sus propias rebeliones regionales, especialmente en Níger y Mali. Aunque la Legión fue desbandada en 1987, muchos de sus miembros se quedaron sirviendo en las Fuerzas Armadas de Libia. Los tuareg son actualmente un factor de peso en la geopolítica del interior de África. Se les relaciona inevitablemente con Gaddafi, y cualquiera que pretenda dominar la franja del Sahel deberá contar con ellos tanto para bien como para mal. Se cree que buena parte de los cuadros gaddafistas han huído Níger y que se encuentran escoltados por tuaregs.

 

GADDAFI Y LA RELIGIÓN

 

En el mundo musulmán, la religión tiene un papel importantísimo, incluso para los que no son islamistas radicales o siquiera practicantes serios. Para ellos, ser judío o cristiano es infinitamente mejor que ser un ateo. Por lo general, los musulmanes son incapaces de concebir que un hombre no tenga fe religiosa de ningún tipo, y consideran que, si no tuviesen al Islam, no serían nada y el mundo los devoraría.

 

Aunque en el pasado han existido regímenes islámicos muy fundamentalistas (como los almorávides y almohades), el radicalismo islámico tal y como lo conocemos hoy, es una aparición muy reciente. El mundo musulmán iba camino a modernizarse gradualmente y emerger como potencia internacional, hasta que un acontecimiento truncó este ascenso: el establecimiento del Estado de Israel en 1948. Desde entonces aparecieron numerosos movimientos radicales, la mayor parte relacionados con redes de Inteligencia enquistadas en Egipto, Marruecos, Arabia Saudí y Pakistán. Quizás los talibán sean el ejemplo más perfecto, con un integrismo sin precedentes en el mundo musulmán: imposición del burka, militantes que desde niños dedican sus vidas a aprenderse el Corán de memoria, y que cuando ya se lo saben, vuelven a memorizárselo desde cero, pero esta vez al revés. Cuando fallan al recitarlo, se les golpea con un palo. La letra, con sangre entra. Los talibán fueron apoyados directamente desde Washington para contener la expansión soviética (y el que dude, puede darle un vistazo a la peli "Rambo III"), y después fueron la excusa perfecta para que el Pentágono invadiese Asia Central.

 

A pesar de que EEUU se hace pasar por paladín del anti-radicalismo, es aliado de dictaduras religiosas como Arabia Saudí y otras, mientras que ataca a países árabes laicos y avanzados como Iraq, Libia, Líbano o Siria. Curiosamente, también los cristianos orientales (maronitas, caldeos, coptos, armenios) están en la lista negra del atlantismo. Por poner un ejemplo, un cristiano armenio disfruta en Irán de una libertad religiosa que sería impensable en países aliados de EEUU como Marruecos o Arabia Saudí. Lo mismo rezaba para los cristianos caldeos en Iraq bajo Saddam Hussein.

 

Gaddafi, como ex-panarabista y heredero del socialismo árabe, a pesar de ser creyente, consideraba que la política debía ser independiente de la religión; su modelo no era Mahoma, sino Nasser. Gaddafi además era perfectamente consciente de que los islamistas radicales le eran hostiles y de que se trataban de una quinta columna del enemigo en su país. A diferencia de lo que pasa en Europa (donde existen mezquitas donde se predica el radicalismo sin ningún impedimento), Gaddafi asignó "observadores" a las mezquitas libias para vigilar los discursos de los clérigos, e incluso vigilaba a los hombres con barbas demasiado largas, rasgo asociado al fundamentalismo. Gaddafi también estableció centros de acogida para que las mujeres que hubiesen tenido problemas con una familia "demasiado" tradicional pudiesen encontrar refugio. Esto no sucede en la mayor parte del mundo musulmán, donde este tipo de disputas suele zanjarse con el apuñalamiento de la mujer involucrada, un chorro de ácido en la cara, una nube de piedras, latigazos o una decapitación.

 

Sin embargo, hay que reiterar que Gaddafi no era ningún ateo. Mencionaba a Alá en sus discursos con mucha frecuencia y amaba la cultura árabe y musulmana. En plena Guerra Fría, durante una visita a Moscú, Gaddafi se negó a bajarse del avión o encontrarse con el secretario general soviético Brezhnev hasta que no se le llevase a ver un funeral musulmán, como prueba de que el Islam no estaba perseguido en la URSS.

 

El cristianismo no estaba perseguido bajo el régimen de Gaddafi. Antes de la guerra, había en Libia 60.000 coptos ortodoxos, la comunidad religiosa más antigua del país. Había también 40.000 católicos, una prefectura apostólica (en Misrata), tres vicariatos (Trípoli, Bengasi y Derna) y dos obispos (Trípoli y Bengasi). En Trípoli había también una congregación anglicana de inmigrantes procedentes de las antiguas colonias británicas en África subsahariana. Si bien había libertad de culto, no estaba permitido hacer proselitismo entre musulmanes, la literatura religiosa estaba sometida a censura y si un varón no-musulmán quería casarse con una mujer musulmana, debía convertirse al Islam.

 


Iglesia de Santa Maria degli Angeli en Trípoli, fundada en 1645 por la comunidad maltesa.

 

 


TERRORISMO PATROCINADO POR LIBIA

 

El terrorismo internacional es, en su mayor parte, terrorismo de Estado ―es decir, perpetrado por servicios de Inteligencia de diversos países para forzar acontecimientos o tendencias geopolíticas. Lo mismo podríamos decir de buena parte del crimen organizado. Casi todos los países han patrocinado terrorismo de Estado de una forma o de otra, y Libia sin duda apoyaba a muchos grupos armados en el extranjero (tuaregs, piratas somalíes, grupos palestinos, etc.). Los atentados que los medios de comunicación occidentales atribuyen a Libia han sido utilizados para poner a diversos organismos de poder en contra de Gaddafi y para atacar el país, de modo que no está de más tratar, aunque sea por encima, dos de los más sonados.

 

El primero de ellos tuvo lugar en la discoteca "La Belle" de Berlín-Oeste, un local frecuentado por marines estadounidenses. Murieron tres personas (una mujer turca y dos sargentos norteamericanos) y otras 230 resultaron heridas, muchas de ellas permanentemente. La opinión pública más informada consideró que el atentado de la discoteca de Berlín fue la respuesta gaddafista al hundimiento de dos barcos libios, que a su vez se habría debido a los ataques terroristas del 27 de Diciembre de 1985 en Roma y el aeropuerto de Viena.

 

El juez que llevó el caso, Peter Mahofer, dijo que no estaba nada claro que el ataque tuviese nada que ver con el régimen libio. Otro magistrado, Detlev Mehlis (el mismo que décadas después manipularía la investigación sobre el asesinato del primer ministro libanés Rafik Hariri en 2004 [2]) aceptó las declaraciones de un tal Musbah Abdulghasem Eter para incriminar a un diplomático libio y su supuesto cómplice, Mohammed Amairi. Fue mucho más adelante, en 1998, que se supo, gracias a la cadena de TV alemana ZDF, que el primer nombre no sólo era falso testigo, sino también agente de la CIA, mientras que el segundo trabajaba directamente para el Mossad.

 

El entonces presidente estadounidense Ronald Reagan respondió al atentado llamando a Gaddafi "perro rabioso", congelando los activos libios, suspendiendo el comercio con el país y lanzando Operación El Dorado Canyon: un bombardeo sobre Trípoli y el puerto de Bengasi, en el que murieron 60 libios (incluyendo una hija adoptiva de Gaddafi, de 15 meses) y más de 2.000 resultaron heridos (incluyendo otro hijo de Gaddafi, Khamis, de 3 años).

 

Tras negociar con el gobierno alemán, en 2004 Libia accedió a indemnizar a las víctimas del atentado con 35 millones de dólares. Esto ponía fin al vacío diplomático entre ambos países… provocado por Washington.

 


El emblemático monumento en Bab al-Aziziya conmemoraba el bombardeo estadounidense en el que Gaddafi perdió a una hija adoptiva. EEUU perdió un cazabombardero F-111 y los dos hombres que conformaban su tripulación.

 

El otro famoso "atentado libio" tuvo lugar en Escocia, el 21 de Diciembre de 1988, sobre la localidad escocesa de Lockerbie: un avión de la compañía aérea Pan Am explotó en pleno vuelo, matando a 270 personas. Fue el atentado más sanguinario contra civiles estadounidenses (189 de las víctimas lo eran) hasta el 11 de Septiembre del 2011.

 

Las investigaciones sobre el caso estuvieron a cargo de la CIA, el FBI… y la policía local de Dumfries y Galloway. En 1991, señalaron como autores del atentado a dos ciudadanos libios que supuestamente trabajaban para la Inteligencia de su país: Abdelbaset Ali Mohmed Al Megrahi, jefe de seguridad de las Aerolíneas Árabes Libias (LAA) y Al Amin Khalifa Fhimah, director de la estación de las LAA en un aeropuerto de Malta. El departamento de Acción Psicológica del Mossad (Inteligencia israelí) inmediatamente dio consignas a varios periodistas de diversos medios de comunicación (entre ellos a Gordon Thomas, autor de "El Mossad: historia secreta") para culpar a Libia del atentado, y se inició una campaña mediática de acoso y derribo contra el régimen gaddafista.

 

Pan Am pertenecía a Yuval Aviv, ex-oficial del Mossad. La compañía exigió la comparecencia del FBI, la CIA y la DEA (muy experta en basar maletines con contenido turbio), pero estas agencias se negaron a declarar, acogiéndose a motivos de "seguridad nacional". A raíz del juicio, el Consejo de Seguridad de la ONU y la Unión Europea aprobaron duras sanciones contra Libia, ya que Trípoli se negó a extraditar a los acusados. Estas sanciones, y las diversas negociaciones diplomáticas con Gaddafi, dieron como resultado que en 1999 el estadista libio entregase a las autoridades británicas a los dos ciudadanos acusados para ser juzgados en Reino Unido. Gracias a ello, la UE retiró sus sanciones contra Libia. El segundo acusado, Fhimah, fue absuelto, y el primero, Megrahi, fue condenado en 2001 a 27 años de prisión ―si bien él siempre afirmaría ser inocente.

 

En Octubre de 2002, Gaddafi pagó 2.700 mil millones de dólares a los familiares de las víctimas del atentado ―10 millones por cada víctima. En Agosto de 2003, aceptó formalmente la responsabilidad libia en Lockerbie; al mes siguiente, la ONU levantó sus sanciones. Era la época de la Guerra de Iraq, Saddam Hussein había caído y Gaddafi consideraba que sólo podría salvar su país de ser bombardeado si agachaba la cabeza y hacía gestos aperturistas para calmar los ánimos en Occidente.

 


Atentado de Lockerbie, 21 de Diciembre de 1988.

 

La verdadera autora del atentado de Lockerbie fue una facción de la CIA que operaba en Alemania, y que introdujo el explosivo en el avión durante una escala en Frankfurt. En 2005 se supo que, según el ex-jefe escocés de policía que había investigado el caso, las evidencias (esencialmente el temporizador de la bomba) fueron fraguadas por la CIA para incriminar a los libios. El mismo "experto" que examinó el temporizador admitiría más tarde que él mismo lo fabricó, y el testigo-estrella (un tendero maltés) que proporcionó un vínculo entre la bomba y el maletín reconocería que fue sobornado por el Gobierno de los Estados Unidos con 2 millones de dólares para mentir en el estrado e incriminar a los libios. Esto hizo que las autoridades escocesas se propusieran revisar el caso, pero la salud del condenado no lo permitió: se interrumpió su condena y fue oportunamente enviado a Libia. No es el objetivo de este artículo extenderse más en este asunto, quien esté realmente interesado sabrá investigar y llegar a sus propias conclusiones.

 

EL FRACASO DEL PANARABISMO Y EL ÉXITO DEL PANAFRICANISMO: LOS ESTADOS UNIDOS DE ÁFRICA

 

Cualesquiera que fuesen los defectos de Gaddafi, era un verdadero nacionalista. Yo prefiero nacionalistas a marionetas en las manos de intereses extranjeros… Gaddafi ha hecho grandes contribuciones en Libia, África y el Tercer Mundo. Debemos recordar eso como parte de su visión de independencia, echó a las bases británicas y americanas de Libia tras tomar el poder.

(Yoweri Museveni, Presidente de Uganda).

 

Tras haber intentado infructuosamente establecer un espacio común con Egipto y Siria, Gadafi sabía que el panarabismo estaba acabado. Egipto había caído en 1982 en manos del atlantismo, el poder de Israel estaba fuera de toda duda, Siria era demasiado pro-soviética y a los petro-regímenes árabes sólo les importaban los petrodólares. En un discurso ante la Liga Árabe, Gaddafi echó en cara al resto del mundo árabe, entre otras cosas, que no moviese un dedo por Iraq y que sus agencias de Inteligencia conspirasen unas contra las otras. En otra ocasión le puso las pilas bien puestas a Abdulá, el rey de Arabia Saudí: "detrás de ti está la mentira y delante de ti está la tumba; fuisteis creados por Gran Bretaña y estáis protegidos por América". Gaddafi se estaba aislando poco a poco del mundo árabe, y decidió poner sus energías en un proyecto quizás más coherente con la geopolítica de Libia: un imperio africano. Consciente de que la ONU no había impedido docenas de conflictos por estar controlada por el Consejo de Seguridad, y de que la Organización de Unidad Africana (que se originó en las luchas anti-coloniales de los años 60) era un circo inútil, en 2002 fundó la Unión Africana.

 

Gadafi sabía que, en el mundo moderno, los Estados modestos no pueden tener peso en el panorama internacional, y que sólo los bloques geopolíticos unidos y coherentes pueden ya conservar un mínimo de soberanía ante la apisonadora de la globalización. Su idea era formar un superestado pan-africano de unos 200 millones de habitantes, distribuidos en diversas etnias árabes, bereberes y negras. Una unión con un solo ejército, una sola moneda y un solo pasaporte, que habría podido negociar de tú a tú con los otros pesos pesados del tablero, en el seno de un mundo multipolar (Estados Unidos, Europa, China, India, Rusia, Brasil… África). Gaddafi adoptó rápidamente una parafernalia pan-africanista, relajó su hostilidad hacia los bereberes, se declaró "rey de reyes" en África (algo que a un occidental le parece una horterada, pero que a los africanos, especialmente subsaharianos, les funciona; además le servía para tratar de tú a tú con las realezas de otros países, especialmente árabes) y, en octubre de 2010, se convirtió en el único líder mundial que pidió perdón formalmente a los negros por el papel de los árabes en el negocio de la esclavitud. También se ofreció a mediar en numerosos conflictos y negoció altos el fuego en Congo, Uganda, Etiopía y Eritrea.

 


Marruecos (que es una anomalía geopolítica en África igual que Reino Unido lo es en Europa) nunca se unió a la Unión Africana debido, entre otras cosas, a que ésta reconocía a la República Árabe Saharaui Democrática. Mauritania fue suspendida tras el golpe de Estado de 2008, y Madagascar tras la crisis política de 2009. Como se ve, los centros financieros de la Unión forman un eje de Libia-Nigeria-Camerún, tres importantes países petroleros que Gaddafi pretendía unir a través de Níger. Demasiado a menudo se nos habla de la necesidad de "ayudar a los africanos" y dirigirles millones de dólares y euros , "ayudas" inútiles que, como expone claramente la autora zambia Dambisa Moyo en su libro "Dead Aid", no hacen más que endeudarlos y convertirlos en esclavos de los bancos internacionales. Esto, a su vez, los hace emigrar a Occidente, donde causan gravísimos problemas. Rara vez se escucha en Occidente que quienes deben cambiar su situación deberían ser los mismos africanos, sin ayuda externa, y que precisamente eso era lo que Gaddafi estaba intentando.

 

A través de la Unión Africana, Gaddafi ayudaba a vertebrar y estabilizar el continente, proporcionando préstamos, ayuda humanitaria, desarrollo de infraestructuras y tropas para misiones de paz. En Liberia había invertidos 65 millones de dólares en proyectos de inversión, en Darfur (Sudán) había 20.000 efectivos militares de la UA, en Somalia 8.000 y tanto en Mali como en Níger y Chad, Gaddafi apoyaba a los gobiernos económica y militarmente, y en 2001, mandó tropas paracaidistas para repeler un asalto a la capital de Chad. En Somalia, Gaddafi quería un gobierno fuerte para controlar el espacio marítimo (de los más estratégicos del mundo) y someter el enorme tráfico comercial a una política fiscal y arancelaria. Esto obviamente no le convenía a los países atlantistas. Cuando Eritrea (apoyada por Libia, Sudán, Irán y China) bloqueó las exportaciones etíopes, éstas buscaron salida al mar a través de Somalilandia (una provincia de Somalia que es soberana de facto y que si no se ha independizado es debido a Egipto, que conspira contra Etiopía). Somalilandia le conviene mucho al comercio internacional, ya que tiene las leyes más liberales del mundo, sus puertos son como bebederos de patos y han servido para el enriquecimiento de una élite de caciques locales. Cuando se hizo claro que el gobierno somalí no controlaba más que unas calles de Mogadishu y que el Estado somalí había fallado, Gaddafi orientó sus ayudas hacia la región de Puntlandia y la piratería, que él concebía algo así como un impuesto a la circulación marítima, que debía establecerse para compensar la caída del Estado somalí. En cualquier caso, muchos de estos países estaban dejando de depender de la finanza internacional, basada en Nueva York y Londres, y orientando su dependencia hacia la mayor potencia africana, Libia, que intentaba que los países africanos defendiesen sus propios intereses.

 

Asimismo, Gaddafi financiaba directamente al RASCOM (Organización Regional del Satélite Africano de Comunicaciones). RASCOM había lanzado, con ayuda francesa y desde las instalaciones de la Agencia Espacial Europea en la Guayana Francesa, un satélite el 21 de Diciembre de 2007, aunque iba a tener una vida útil de unos dos años. El 4 de Agosto de 2010, se lanzó el primer satélite de telecomunicaciones genuinamente pan-africano. Este satélite brinda televisión (entre ellas la cadena estatal libia Arrai, basada en Damasco, Siria), Internet y comunicaciones telefónicas (incluyendo en el olvidado mercado de telefonía móvil en las zonas rurales) a toda África, acabando con el "telón de acero digital" que separaba al continente del resto del mundo, y sin necesidad de depender de compañías extranjeras.

 

Pero el  principal problema era que la Unión Africana estaba en proceso de crear un sistema financiero africano, que se basaba principalmente en el Banco Africano de Inversiones (Trípoli, Libia), el Banco Central Africano (Abuja, Nigeria) y especialmente el Fondo Monetario Africano (Yaundé, Camerún), que disponía de 40 mil millones de dólares y estaba empezando a suplantar al Fondo Monetario Internacional (que ha dirigido buena parte de la economía africana hasta ahora, abriendo las puertas a las multinacionales y a los bancos occidentales, y canalizando toda la riqueza de los países africanos hacia las costas y los mares). A esto hay que unir el proyecto del dinar-oro libio, que iba a suplantar al franco-CFA y al dólar como moneda de reserva de la Unión Africana. Esto lo veremos inmediatamente con más detalle.

 

La UA ha intentado desesperadamente evitar la Guerra de Libia. El 9 de Abril, pidió el cese inmediato de hostilidades y el envío de asistencia humanitaria, así como la protección de trabajadores inmigrantes en Libia. El comité de la UA intentó volar a Libia para discutir estos planes, pero la ONU le denegó el permiso. 

 

 

EL DINAR-ORO Y EL DOMINIO DE ÁFRICA

 

Libia es una amenaza para la seguridad financiera de la humanidad.

(Nicolas Sarkozy).

 

Que la economía —especialmente la economía financiera, especulativa y comercial— está en la base de la mayor parte de conflictos modernos, no se le escapa ya a casi nadie. Los experimentos financieros poco ortodoxos fueron la causa de la caída de estadistas como Napoleón, Abraham Lincoln, Hitler… y ahora Gaddafi. La opinión pública tiene relativamente claro que, en el caso de la guerra de Libia, el motivo económico es el petróleo. Sin embargo, hay otros motivos económicos igual de importantes o más. Para poder comprender por qué Gaddafi estaba amenazando gravemente a la Internacional del Dinero, hay que examinar primero el papel del dólar.

 

El dólar es actualmente la causa de buena parte de las inestabilidades financieras del mundo. Para saber por qué esto es así, tenemos que retroceder en el tiempo y ver cómo funcionaba la economía comercial antes de 1971. En aquella época, la riqueza estaba basada en el patrón-oro, y el dólar, la principal moneda de reserva, tenía, desde la conferencia de Bretton Woods de 1944, un cambio fijo con respecto al oro: una onza de oro equivalía a 350 dólares. Por regla general, los países buscan exportar más de lo que importan, a fin de que su balanza comercial (diferencia entre exportaciones e importaciones) sea positiva. Para ello, deben tener una economía productiva, para poder vender y obtener divisas para comprar bienes a otros países. Sin embargo, Estados Unidos estaba empezando a aprovecharse de que el dólar se cambiaba directamente a oro y de que era la principal moneda de reserva, para imprimir más billetes que oro existente, pagando sus importaciones con esos billetes, que en la práctica, cada vez valían menos. Esto tuvo como efecto que muchos países le pidiesen a Estados Unidos oro en vez de dólares como pago por sus exportaciones. Uno de estos países fue la Francia de De Gaulle. Cuando los barcos franceses aparecieron en el puerto de Nueva York pidiendo oro, Nixon decretó en 1971 la abolición del patrón-oro y la convertibilidad fija del dólar a oro… precisamente para evitar que el Departamento de la Tesorería perdiese sus reservas.

 

A partir de entonces, el dólar se convierte en la moneda de reserva mundial y se considera una riqueza de por sí. La mayor parte de las transacciones comerciales se hacen en dólares, pero la realidad es que el dólar ya no está respaldado por nada (esto queda claro por el hecho de que, desde que el dólar ya no tiene un cambio fijo con respecto al oro, la onza de oro ha subido desde 350 dólares en 1971 a 1700 en 2011). La Reserva Federal o FED, el banco central emisor de dólares, puede crear (siempre a crédito) la cantidad de papel-moneda que quiera sin límite alguno, abusando de la "confianza de los mercados" para adquirir todo tipo de bienes (especialmente petróleo), y así importando (consumiendo) muchísimo más de lo que exporta (produce). Se trata de un negocio redondo: dándole a la máquina de imprimir billetes, la FED está automáticamente imprimiendo petróleo, gas natural, alimentos, sobornos, fondos para fundaciones políticas y financiación de movimientos subversivos en el extranjero, etc. No importa que la balanza comercial estadounidense sea la más deficitaria del mundo o que su deuda sea la mayor con diferencia: todo puede solucionarse imprimiendo dólares… a menos que un día el dólar deje de ser la moneda de reserva internacional y sus socios comerciales dejen de aceptarlo y exijan que les paguen con otras divisas.

 

En cambio, los otros países, que no tienen poder para crear dólares, para poder entrar en el comercio mundial, deben obtener dólares siguiendo las reglas del mercado: siendo honrados, trabajando de forma productiva, exportando al extranjero y pidiendo que les paguen dichas exportaciones en dólares para poder, a su vez, comprar otros bienes. En suma, produciendo más de lo que consumen.

 

Por este motivo, se puede entender el nerviosismo de Wall Street cada vez que un país pide, a cambio de sus exportaciones, otra cosa que no sean dólares (como oro en el caso de De Gaulle y Gaddafi, euros en el caso de Saddam Hussein, Irán y Noruega, rublos en el caso de Siria, etc.), ya que eso automáticamente aniquila la hegemonía del dólar, Washington perdería su as en la manga y Estados Unidos se vería obligado a producir y exportar para obtener otras divisas y pagar su deuda: tendría que seguir las mismas reglas que el resto de países del mundo, y se encontraría conque la falta de un tejido económico productivo (trasladado a Asia Oriental) y su posición geográfica (pésima para exportar, a diferencia de Alemania o Japón) le condenarán al aislamiento internacional.

 


El dólar fiduciario es el mayor negocio de la historia, y no está en manos del Gobierno de los Estados Unidos, sino de un banco privado: la Reserva Federal. El 4 de Junio de 1963, mediante la Presidential Order 11110, Kennedy (el único Presidente católico de la historia estadounidense) le arrebató de un plumazo a la Reserva Federal el poder de crear dinero, entregándole ese poder al Gobierno. El Departamento de Tesorería comenzó a emitir billetes marcados en rojo y con la leyenda "US Note" (en vez de los tradicionales marcados en verde y con la leyenda "Federal Reserve Note"). Estos nuevos billetes eran propiedad del Gobierno y del pueblo americano, estaban totalmente libres de deuda y de interés, y se hallaban respaldados por reservas de plata [3]. Llegaron a circular 4 mil millones de estos dólares "reales". Cinco meses después, Kennedy era asesinado y todos los billetes gubernamentales marcados con "US Note" fueron retirados de circulación. Nadie le falta al respeto a la Reserva Federal ―y si Kennedy lo pagó, Gaddafi no iba a ser menos.

 

Puesto que el dólar no está respaldado por ningún activo tangible, cada vez que la Reserva Federal emite dólares y aumenta su masa monetaria (sin respaldarla con producción de riqueza real), está devaluando la moneda (y los precios de los principales productos comerciales, que se fijan en dólares), y esta devaluación afecta especialmente a los países extranjeros, que ven cómo sus reservas de dólares valen cada vez menos por culpa de la inflación. Además, el exceso de masa crediticia creada, se dedica a flotar ociosa en el maremágnum de los mercados, especulando, causando burbujas, buscando mercados inverosímiles y sentando las bases de futuras crisis. Se cree que, por culpa del dinero fiat (creado indiscriminadamente de la nada), la masa monetaria que hay en el mundo, entre dinero físico y virtual, es diez veces superior al PIB mundial, es decir, el conjunto de bienes y servicios susceptibles de ser comprados. Es por ello que a menudo se oyen declaraciones muy contundentes criticando a la finanza estadounidense, como cuando el Primer Ministro ruso Putin dijo que EEUU era el "parásito" de la economía global —una frase totalmente acertada, ya que cada vez que la FED emite moneda, está literalmente robándoles riqueza a los países tenedores de dólares y/o de deuda estadounidense (China, Japón, Rusia, etc.)., importando todo lo que quiere y, a cambio, exportando sólo papeles con tinta. Esto ha escalado hasta convertirse en una guerra financiera entre oligarquías capitalistas del mundo. Una de estas oligarquías parece todavía atada al poder del dólar, y las otras consideran que, definitivamente, "el dinero no tiene patria", y que ha llegado la hora de efectuar una globalización monetaria total.

 

Ya el economista John M. Keynes había pedido en su día el establecimiento de una moneda mundial (el "bancor"), pero ha sido especialmente después de la quiebra de la banca Lehman Brothers en 2008, que han surgido infinidad de voces pidiendo la adopción de una nueva moneda de reserva que no sea el dólar. El euro es la alternativa más creíble (razón por la que los ataques de los mercados estadounidenses contra Europa y los países que exportan en euros son muchos), pero también se han escuchado peticiones a favor de una moneda global totalmente nueva —lo cual cerraría definitivamente el círculo de la globalización y sometería la economía internacional a un Banco Central, probablemente el FMI. Mientras este proyecto no se concreta, muchos han sido los países (especialmente musulmanes) que han tonteado con los yuanes-oro, los dinares-oro y los dirhams-plata. El más importante ha sido Libia.

 


Antes de la invasión de la OTAN, Gaddafi estaba a punto de lanzar su invento financiero: el dinar-oro. Esta moneda iba a estar respaldada por oro, del cual el Banco Central libio tenía las mismas reservas que Reino Unido (144 toneladas, valoradas en 6500 millones de dólares), pero con un 10% de su población, con lo cual, en la práctica, el pueblo libio tenía 10 veces más oro que el Reino Unido. Gaddafi quería que el dinar-oro se convirtiese en la moneda de reserva de la Unión Africana y en la única divisa válida para vender sus exportaciones, obligando a los países que quisiesen comprar petróleo libio a obtener antes dinares-oro, ya pagando con oro, productos comerciales u con otros bienes y servicios ―pero en todo caso no con dólares ni otras divisas abstractas.

 

Mediante esta política, Gaddafi estaba a punto de socavar el dominio en África de dos importantes monedas: el dólar y el franco-CFA (Colonias Francesas de África). Esta última moneda, oportunamente, tiene un cambio fijo con respecto al euro, y su emisión se decide desde París para controlar económicamente su patio trasero geopolítico en África Subsahariana: un arco que va desde el Cabo Verde (Senegal), pasa por el río Níger y el centro de África, y termina en la desembocadura del río Congo. En todo este espacio, París mantiene numerosas campañas militares, generalmente desconocidas por la opinión pública ―trabajo sucio hecho principalmente por la Legión Extranjera francesa, a menudo en contra de los intereses de Washington, al menos hasta que Francia volvió al redil de la OTAN en 2009.

 


Países donde está implantado el franco-CFA como moneda de reserva. En estos países, Francia mantiene su propio negocio particular, similar al dólar de EEUU en el resto del mundo: simplemente a base de crear francos de la nada, prestarlos a interés y endeudar países, París obtiene cacao, oro, algodón, sal, diamantes, madera, pescado, algo de petróleo y gas natural, fosfatos, uranio y otros minerales, etc. En una frase, obliga a todo el aparato productivo de sus ex-colonias a dirigir sus esfuerzos hacia el comercio exterior, mientras obliga a todos sus presupuestos públicos a dedicarse al reembolso de la deuda. A cambio, los países africanos obtienen billetes sin ningún valor real, y que sus fondos sean propiedad de la Tesorería francesa. Gaddafi iba a darles a estos países la oportunidad de obtener riqueza real a cambio de sus exportaciones, pagando su deuda y liberándose de las tiranías monetarias. El franco-CFA está controlado desde París y desde bancos centrales africanos bajo control del Tesoro francés (que no de la Unión Europea): el Banco Central de los Estados de África Occidental (Dakar, Senegal), el Banco de los Estados de África Central (Yaundé, Camerún) y en menor medida el Banco Central de las Comores.

 

¿Por qué eran el dólar y el franco-CFA herramientas sumamente útiles para controlar a África? Cuando un país africano (o casi cualquier país del mundo) necesita dinero, lo pide prestado a un banco central, que lo crea de la nada, imprimiéndolo a tutiplén sin ningún respaldo (oro, plata, trabajo, riqueza real, etc.). Este banco central extranjero no da el dinero alegremente sin más: lo presta a interés. Es decir, no se trata de dinero real, sino de crédito, o deuda. Eso significa que el país africano de turno debe todo el dinero que tiene, más una cantidad adicional. Para ir devolviendo su deuda (que siempre es impagable en dinero, ya que es mayor que la masa monetaria), el país africano se ve forzado a comerciar con la potencia emisora de su deuda para que le vaya "perdonando" dólares o francos, y en última instancia, privatizando sus recursos e infraestructuras, liberalizando su economía y abriendo las puertas a compañías extranjeras. Capitalismo global-neoliberal en estado puro.

 

La ruptura de Gaddafi iba a consistir en lo siguiente: África ya no tendría que pedir prestados euros, dólares o francos a potencias extra-africanas. Ahora cualquier país africano (salvo Marruecos) podría pedirle a la Unión Africana dinares-oro sin interés alguno. Como esta moneda sería muy fuerte (respaldada por riqueza real: oro y petróleo), enseguida se haría un hueco en el comercio internacional, pagando su deuda, no volviendo a contraer deudas jamás, liberándose de la tiranía de las monedas parasitarias del mundo, encareciendo sus exportaciones, abaratando sus importaciones, mejorando su nivel de vida y escogiendo con qué países establecen lazos comerciales según sus propios intereses. Nos encontramos conque Gaddafi iba a desplazar al Fondo Monetario Internacional y otros bancos como prestamista internacional, e iba a derribar al dólar y al franco-CFA del podio monetario africano. Gaddafi, no las ONG’s ni los bancos, era la solución al problema del hambre en África. Puede que ahora comprendamos por qué era tan popular en África subsahariana y por qué Estados Unidos y Francia tenían ese interés por acabar con él.

 


Billete de 20 dinares con mapa del Gran Río Artificial.

 


La conexión Strauss-Kahn y Libia

 

Puede decirse sin miedo a desvariar que Dominique Strauss-Kahn es un cerdo capitalista típico. Sin embargo, es un cerdo capitalista sensato y consecuente que, en vista de los daños que el dólar está haciendo a su amado capitalismo, quiso proponer una solución. DSK era el valedor de las oligarquías capitalistas europeas y BRIC (Brasil, Rusia, India, China) en el Fondo Monetario Internacional, y se estaba empezando a oponer denodadamente a las estrategias de la oligarquía estadounidense.

 

Es preciso remontarnos al 29 de Marzo de 2009, fecha en la que Zhu Xiaochuan, gobernador del Banco Central de China (es decir, el banco que emite los yuanes) criticó la supremacía del dólar y propuso crear una nueva moneda virtual de reserva, respaldándola con DEG (Derechos Especiales de Giro, activos emitidos por el FMI que son cambiables a dólares, euros, yens y libras esterlinas, y que cobran protagonismo especialmente cuando el dólar está débil, ya que muchos inversores se refugian en ellos). Días después, en la cumbre del G20 de Londres, Washington aceptó la emisión de DEG por valor de 250.000 millones de dólares. En la cumbre del G8 en Aquila, el 8 de Julio de 2009, Moscú propuso concretar el proyecto, emitir realmente esta nueva moneda de reserva, llegando a mostrar prototipos. Gaddafi, que había concebido el dinar-oro en el 2000, decidió unirse a este proyecto, con la idea de respaldar su moneda con los DEG del FMI. El asunto pasó al examen de la ONU, y estaba a punto de ver la luz el 26 de Mayo de 2011, durante la cumbre del G8 en Deauville. El dólar habría dejado de ser la moneda de referencia del mundo, y EEUU habría tenido que renunciar a financiar su crecimiento y su maquinaria militar a través de la deuda indefinida.

 

Sin embargo, la detención de DSK, presidente del FMI, 11 días antes de la cumbre, interrumpió todo este proceso. El capitalista (que años atrás había elogiado el progreso económico de Libia) fue acusado de acosar a una empleada de hotel, y fue detenido y aislado durante días, justo cuando (según webs como voltaire.net) se disponía a tomar un avión para Berlín, donde iba a entrevistarse con la canciller alemana Angela Merkel, para encontrarse después con emisarios gadafistas e intentar obtener una firma de Gaddafi para aprobar el proyecto de la nueva moneda. El FMI parecía interesado en emplear el sistema en Libia como campo de ensayo, para luego generalizarlo internacionalmente. ¿Por qué Libia? Por un lado, porque Libia tenía un inmenso fondo soberano (que incluía sus reservas de oro y 150 mil millones de dólares), y por otro lado, porque el Banco Central libio ya emitía dinero libre de deuda y de interés.

 


El antiguo Banco Central Libio.

 

Es inquietante constatar que en Sudamérica está teniendo lugar algo parecido a lo que proponía Gaddafi con su Unión Africana y dinar-oro: un nuevo banco central común (el Banco Sur) y una nueva moneda de reserva (el SUCRE) para el continente sudamericano. Esta moneda podría respaldarse con oro, cobre y petróleo, pero parece que, a diferencia de la moneda gaddafista, seguirá empleando el interés.

 

 

"Des-gaddafización" del sistema financiero libio y la rentabilidad de la guerra de Libia

 

Destruir el sistema financiero gaddafista, que le negaba beneficios al poder financiero internacional, era una de las prioridades de la OTAN. Para lograrlo, han hecho varias cosas.

 

• Congelar los fondos de la familia Gaddafi.

 

•  Congelar los activos del Estado libio, del Libyan Foreign Bank y de la Libyan Investment Authority en el extranjero, incluyendo 150 mil millones de dólares, de los cuales 100 mil millones están en manos de países de la OTAN. Supuestamente, las reservas de oro libias fueron trasladadas por las autoridades gaddafistas a Níger y a Chad (donde hay petróleo, que la CNPC china ya aseguró en el 2007 firmando un tratado con el gobierno, aunque las estadounidenses ExxonMobil y Chevron tienen importantes intereses allí, incluyendo un oleoducto).

 

• Londres, París y Nueva York mandaron cuadros de los bancos HSBC (guardián de 25 mil millones de euros en inversiones libias bloqueadas) y Goldman Sachs,  para crear un nuevo banco central (el Central Bank of Libya). Este nuevo banco, que es una mera filial de los anteriormente mencionados, emite, ya con el gobierno rebelde, una nueva masa monetaria de un dinero como el que tenemos en Occidente: dinero-fiat o fiduciario, deuda a interés, que tiene el mismo valor que el papel + la tinta que lo compone, y que encima condena al propietario a pagar una deuda con un activo tangible (el sudor de su frente). Los activos del antiguo Banco Central libio (un banco 100% controlado por el Estado, cuya sede en Trípoli fue de los primeros edificios gubernamentales en ser bombardeados por la OTAN) son confiscados, y cuando se desbloqueen los fondos que Libia había invertido en el extranjero, este banco será el encargado de gestionarlos.

 



 

• Asegurarse de que el CNT (Consejo Nacional de Transición) libio se comprometa a pagar la "ayuda" de la OTAN a Libia.

 

• Irónicamente, los países que han congelado y saqueado los fondos de Libia, acordaron en París prestárselos (a interés, por supuesto) al nuevo gobierno rebelde, para financiar la reconstrucción del país. Libia está llamada a formar parte de las filas de países africanos tercermundistas, irreversiblemente endeudados con el poder financiero internacional y con sus valiosos recursos saqueados por empresas privadas extranjeras cuyos beneficios, para colmo, no van a su país de origen, sino a una reducida élite con cuentas corrientes en paraísos fiscales y paraísos esclavistas.

 

• Neutralización del poder financiero de la Unión Africana, que emanaba directamente de las inversiones libias y que amenazaba con emancipar a África de la tiranía monetaria internacionalista. Esto incluye el Banco Africano de Inversiones, el Banco Central Africano y el Fondo Monetario Africano.

 

• El Fondo Monetario Internacional, ya bajo la dirección de Christine Lagarde (una valedora de los intereses atlantistas, cuyo nombramiento suscitó las protestas de Rusia y China), rápidamente reconoció el nuevo consejo de gobierno libio como un poder legítimo, abriendo las puertas a una miríada de entidades prestamistas que ahora podrán "ofrecer su financiación" (léase endeudar) al nuevo Estado. Por su parte, el Banco Mundial, en cooperación con el FMI, ofrece ayudar a reconstruir infraestructuras destruidas y apoyar "preparaciones presupuestarias" (léase medidas de austeridad).

 

• KBR (Kellog Brown Root), una empresa subsidiaria de Halliburton, se ha hecho con los contratos de reconstrucción de los acueductos y otras infraestructuras civiles arrasadas por los bombardeos de la OTAN.

 

• La guerra de Libia ha sido un escaparate para la industria armamentística de medio mundo. La declaración de la zona de exclusión aérea primero, y las miles de misiones de bombardeo después, han permitido a la UE y a EEUU lucir sus juguetes de guerra para que los posibles compradores vayan tomando nota. La empresa francesa Dassault Aviation SA, muy relacionada con Sarkozy, ha podido exhibir sus cazas Rafale. La multinacional estadounidense Lockheed Martin se dedicó a pasear su F-16 Fighting Falcon, y la poderosa Boeing su F/A-18 Super Hornet, mientras que el consorcio Eurofighter (Reino Unido, Alemania, Italia y España), pudo desplegar sus Typhoon. Atentos a este macabro desfile estaban los tiburones de países como India, Japón, Arabia Saudí, Qatar, Kuwait, Omán y Suiza, países que están pensando en dotarse de nuevos aparatos para su aviación militar.

 


 

 

Más sobre el patrón-oro

 

http://www.liberalismo.org/articulo/222/12/patron/oro/

http://www.oroyfinanzas.com/2010/08/se-cumplen-39-anos-desde-que-nixon-abandonara-el-patron-oro/

http://luiseduardoherrera-luiseduardoherrera.blogspot.com/2010/04/desde-que-nixon-elimino-el-patron-oro.html

 

 


QUIÉNES ESTÁN DETRÁS DE LA GUERRA DE LIBIA

 

El motor de la Guerra de Libia ha sido los intereses de una oligarquía económica francesa cristalizada en torno a Sarkozy, y el lobby sionista de Estados Unidos y Reino Unido.

 

El senador Joseph Lieberman fue quien transmitió una petición de Tel-Aviv a la Casa Blanca en Febrero de 2011, exigiendo que Obama suministrase armas, asesoramiento y dinero a los rebeldes para poder establecer una zona de exclusión aérea sobre Libia. Otro senador, Lindsey Graham, declararía en la CNN que "Mi recomendación para la OTAN y la Administración es cortar la cabeza de la serpiente: ir a Trípoli y empezar a bombardear".

 

En una carta abierta a la House of Republicans, una serie de personajes de la política estadounidense pedían que Washington se saltase las resoluciones "humanitarias" de la ONU de Marzo de 2011 y empezase a armar a los "rebeldes" para derrocar a Gaddafi y propiciar un cambio de régimen. Los firmantes: Elliot Abrams, John Podhoretz, Robert y Fred Kagan, Lawrence Kaplan, Robert Lieber, Michael Makovsky, Eric Eldelman, Kenneth Weinstein, Paul Wolfowitz (que tuvo un papel esencial apoyando la Guerra de Iraq en 2003), Randy Schneunemann y el neocon William Kristol, quien en la Fox declaró simplemente "No podemos dejar a Gadafi en el poder, y no vamos a dejar a Gadafi en el poder".

 

En la edición del 22 de Agosto de 2011 del Financial Times, un artículo titulado "Libia ahora necesita botas sobre el terreno", Richard Haass, el presidente del CFR (Council on Foreign Relations), finalmente reconocía abiertamente que las operaciones en Libia tenían por objetivo derrocar a Gaddafi (ni rastro de "proteger a la población civil" o brindar "ayuda humanitaria").

 

La Guerra de Libia puede interpretarse en buena medida como una operación comercial por parte de las petroleras angloamericanas y francesas para resarcirse de las posiciones perdidas respectivamente en Iraq (a favor de Irán y China) e Irán (cuando Francia aceptó retirar su petrolera Total debido a las sanciones internacionales sobre Teherán).

 

 

 

¿QUIÉNES SON "LOS REBELDES LIBIOS"?

 

En Libia NO ha habido un cambio de régimen por "revueltas populares". Gaddafi era extraordinariamente popular, no sólo en Libia, sino en buena parte de África subsahariana. Las famosas "revueltas de Libia" no han sido sino un golpe de Estado, un alzamiento por parte de una porción del Ejército y otros cuadros de mando del régimen libio. Estas facciones gubernamentales se desgajaron de la autoridad de Trípoli cuando Gaddafi anunció otra ronda de nacionalizaciones petroleras. Dicha acción iba a privar a estos señores de acaparar beneficios y erigirse en la versión libia de los jeques árabes del Golfo. Así tenemos por ejemplo al presidente del CNT (Consejo Nacional de Transición), Mustafá Abdul Jalil, antiguo ministro de justicia de la Yamahiriya. Jalil fue invitado a Londres para discutir su participación de los beneficios petroleros. En la práctica, puede decirse que es simplemente un disidente gaddafista sobornado por Occidente. Lo mismo puede decirse de Mahmud Jibril, alto funcionario económico que había intentado "neoliberalizar" el país con una oleada de privatizaciones, y que no veía con buenos ojos el proyecto de redistribución de riqueza que Gaddafi había anunciado en 2008. Seis meses antes del conflicto libio, Jibril, cuyo modelo de Estado económico liberal era Singapur, se había reunido en Australia con Bernard-Henri Lévy, un "intelectual" francés, para discutir sobre la formación del Consejo Nacional de Transición y el derrocamiento de Gaddafi. En cuanto estalló la rebelión en Bengasi, Jibril voló inmediatamente a Cairo, para encontrarse con el igualmente rebelde Consejo Nacional Sirio y con Lévy de nuevo. Puede ser una de las razones por las que el nuevo gobierno libio ha reconocido al CNS como el gobierno legítimo de Siria.

 

En cuanto a los "rebeldes libios" propiamente dichos, la mayoría ni siquiera son propiamente libios, sino soldados qataríes (y ver aquí) y jordanos, así como mercenarios y muyahidines saudíes (concretamente del príncipe Bandar), emiratenses, kuwaitíes, ex-talibanes, ex-"presos" de Guantánamo, al-qaederos pakistaníes e incluso contratistas colombianos y mexicanos (de hecho, en el vídeo de la captura de Gaddafi se ha podido escuchar a varios "rebeldes libios" hablando en español iberoamericano). Esta heterogénea tropa ha estado activamente asesorada desde primeros de Marzo de 2011, puede que antes, por la CIA, el MI6, la Inteligencia francesa y grupos de operaciones especiales de EEUU y Reino Unido. Buena parte de estos combatientes son la respuesta de los petro-regímenes del Golfo a la ayuda brindada por EEUU durante las revueltas populares en lugares como Bahrein y Yemen ―que fueron sofocadas con tremenda brutalidad pero que, a diferencia de Libia, no han suscitado una respuesta por parte de "la Comunidad Internacional". La presencia de combatientes del Golfo era tan obvia para las fuerzas lealistas de Gaddafi que a menudo, para distinguir a los "rebeldes", les bastaba hablarles en árabe libio. Si la respuesta era en árabe del Golfo, se les tiroteaba sin más.

 

Aquellos rebeldes que sí son libios son principalmente radicales musulmanes y gente vinculada con Al-Qaeda, procedentes esencialmente de Derna y Bengasi, al Este del país, y cuyo objetivo es imponer la Sharia en Libia, cosa que por cierto van a conseguir. A toda esta morralla se le debe que hayamos escuchado innumerables gritos de "¡Allah akbar!" en diversos vídeos sobre los "rebeldes" filtrados a la opinión pública, igual que en el caso de los "rebeldes sirios".

 

La democracia llega a la Plaza Verde: la base social de la "rebelión libia" celebra su triunfo.

 

Estos "rebeldes" no son, ni mucho menos, una fuerza homogénea, igual que no ha sido homogénea la fuerza multinacional que ha atacado Libia. Las diversas facciones "rebeldes" incluso han combatido entre ellas, especialmente en Trípoli, debido a sus procedencias tan diversas, sus intereses tan divergentes y especialmente por las concesiones petrolíferas de diversas multinacionales extranjeras. Finalmente, dos son las banderas que se han impuesto en Libia. Una es la antigua bandera monárquica del rey Idris ―un títere de los angloamericanos. La otra es la de Al-Qaeda.

 

 

CÓMIENZA LA GUERRA

 

La Guerra de Libia forma parte de la primavera árabe y los "movimientos espontáneos" de Occidente. Se trata de un conjunto de movimientos variopintos, patrocinados por fundaciones y ONGs del tipo USAID, Albert Einstein Institution, NED, NDI, IRI, ACIL, ICNC, CIPE, Safe Democracy Foundation, CEIP, etc. Y ver aquí. Estas organizaciones son fachadas legales de la CIA que operan en el extranjero bajo la excusa de expandir la democracia liberal, con el verdadero objetivo de privatizar los recursos, propiciar cambios de régimen y abrir las puertas a la influencia extranjera.

 

La resolución 1973 de la ONU (17 de Marzo de 2011), propuesta por Francia, Líbano y Reino Unido, fue adoptada para "tomar todas las medidas necesarias" para "proteger a los civiles y a las áreas pobladas bajo amenaza de los ataques". Esto incluía crear una zona de exclusión aérea sobre Libia, es decir, "desmilitarizar" su espacio aéreo, impedir que la aviación militar libia se echase al cielo. En la práctica, la zona de exclusión aérea tomó un cariz bien distinto. La resolución 1973, desde el principio, se basó en una mentira: la mentira de que Gaddafi había bombardeado a su pueblo en Febrero. El Ministerio de Asuntos Exteriores de Rusia, que monitorizó Libia desde el principio con satélites del Ejército, afirmó tajantemente que Gaddafi no había emprendido ningún bombardeo.

 

"La primera víctima de la guerra es la verdad", dice la conocida frase de un senador americano. En este caso, la mentira del bombardeo sirvió para tres cosas:

 

1- Para que la OTAN atacase Libia, lanzando EEUU su "Operación Amanecer de la Odisea", con el único objetivo de servir de ala aérea a los rebeldes, impedir que las fuerzas gaddafistas se defendiesen, asegurar el petróleo y arrasar las infraestructuras civiles y militares de Libia.

 

2- Para legitimar a Jalil, quien tuvo un pretexto para dimitir como ministro de justicia, desmarcándose así del régimen de Gaddafi y lavando su cara para pasar, en tiempo récord, a ser presidente del Consejo Nacional de Transición.

 

3- Para poporcionar una envoltura humanitaria a un paquete en el que no hay más que una intervención militar violenta a favor de sórdidos beneficios monetarios, petrolíferos y geoestratégicos.

 

Los únicos países que han voceado una crítica seria y enérgica contra la chapuza de la Guerra de Libia han sido Rusia, Turquía e Irán. En Occidente, la única política que ha sido mínimamente honesta con Libia ha sido Marine Le Pen. Libia ha pasado a formar parte de otras víctimas de la mentira como Serbia (bombardeos humanitarios para proteger a los "pobres e indefensos" albanokosovares), Afganistán (atentados del 11 de Septiembre) e Iraq (armas de destrucción masiva).

 

Entretanto, otros regímenes árabes, como Yemen y Bahréin, han reprimido verdaderas manifestaciones masivas con increíble brutalidad, sin que los medios de comunicación de Occidente les condenasen ni se rasgasen las vestiduras lo más mínimo. Así, las tropas saudíes pudieron entrar con tanques en Manama, irrumpir en hospitales (incluyendo el Centro Médico Salmaniya), violar a las enfermeras, hacer fuego contra ambulancias, practicar detenciones ilegales, ametrallar al grueso de una manifestación desde carros blindados y helicópteros Cobra made in USA, utilizar gases nerviosos, etc. Incluso desaparecieron "misteriosamente" los órganos de muchos cadáveres (como ya ha pasado y sigue pasando en Kosovo con los serbios) y un preso murió torturado en la cárcel en circunstancias poco claras. Todo bajo la atenta mirada de la V Flota de los Estados Unidos, estacionada en Bahréin. No hubo resolución ni contra Arabia Saudí ni contra la familia real Khalifa (una casta sunnita que gobierna despóticamente un país chiíta, con el único objetivo de contener la influencia iraní en el Golfo Pérsico). No sólo no se brindó nigún apoyo a los rebeldes bahreiníes, sino que hasta se les tachó de extremistas en los medios de comunicación occidentales (por ejemplo, en "El País"). Este repugnante e hipócrita doble estándar está totalmente en contradicción con los elevados valores morales, solidarios, humanitarios y caritativos que, nos hacen creer, mueven cada intervención de la OTAN.


ORGANIZACIÓN TERRORISTA DEL ATLÁNTICO NORTE —CRÍMENES DE GUERRA DE LA OTAN EN LIBIA

 

El atlantismo no parece haber cambiado su naturaleza piratesca, saqueadora y mercenaria desde que Drake y Hawkins atacaban a los barcos españoles en el Siglo XVI. El nuevo nombre de la operación de bombardeo sobre Libia ("Protector Unificado") es una cruel burla. José Riera, el nuevo embajador español en Libia, ha dejado claro que hay mucho que hacer y reconstruir, ya que Libia ha quedado totalmente destruida, pero no por los bombardeos de la OTAN o las atrocidades de los rebeldes, sino... ¡por "cuarenta años de dictadura"! La desfachatez e hipocresía de los políticos occidentales clama al cielo y debe ser denunciada.

 

La realidad sobre la "intervención humanitaria" es que la OTAN, con la excusa de proteger a los civiles de supuestos bombardeos… ha bombardeado a esa misma población civil y se ha cargado casi todas las infraestructuras económicas de Libia, condenando a la población a la miseria, la hambruna, la sequía y la enfermedad. Más de 14.000 misiones de bombardeo han devuelto el país a la edad media. En Septiembre, el nuevo ministerio de sanidad del gobierno rebelde ha hablado de 30.000 muertos y 50.000 heridos sólo en los primeros 6 meses de guerra. La verdadera cifra de muertos en los 9 meses de guerra podría ser mucho mayor: el periodista Thomas C. Mountain habla de 30.000 bombas lanzadas (sin contar 100 misiles de submarinos británicos y estadounidenses) y 60.000 civiles muertos, sólo hasta finales de Agosto. Repasemos brevemente los cargos contra la OTAN:

 

1- La OTAN ha bombardeado a la población civil. Ha destruido pueblos, barrios residenciales, universidades, un mercado de verduras y hasta una escuela de síndromes de Down en Trípoli. También ha bombardeado edificios gubernamentales muy valiosos: uno de los primeros edificios bombardeados la OTAN fue la Agencia Libia Anti-Corrupción de Trípoli, el objetivo de este bombardeo era destruir documentos sobre políticos libios que se quedaban con beneficios petroleros y los depositaban en bancos suizos ―estos políticos casualmente fueron los mismos que se pasaron inmediatamente al bando "rebelde". Un obispo católico, Giovanni Innocenzo Martinelli, denunció los sanguinarios "éxitos" de las misiones de bombardeo en Trípoli, que incluyen 40 muertos civiles al colapsar un edificio en el distrito de Buslim.  

 

Así ha quedado Sirte.

 

2- La OTAN ha bombardeado infraestructuras vitales. Se trata de los "objetivos de uso dual", así llamados porque pueden ser usados tanto por civiles como por militares (puentes, carreteras, edificios, refugios, acueductos, tendido eléctrico, generación eléctrica, fábricas, etc.).  Esta táctica, que ya se vio en la Guerra del Líbano de 2006, viola totalmente la resolución 1973 de la ONU, por lo cual se han dado casos de pilotos y altos oficiales que se niegan a obedecer las órdenes, sabiendo que en el futuro se les podrá someter a consejo militar y procesar por crímenes de guerra.

 

3- La OTAN ha empleado armas químicas y armas de destrucción masiva. Uranio empobrecido, gas mostaza, bombas termobáricas, fósforo blanco y bombas-racimo. A menudo ha acusado a las fuerzas gaddafistas de utilizar estos métodos, al tiempo que impedía que los periodistas y ONGs accedieran a los lugares de los hechos para verificarlos.

 

4- Los "rebeldes" han cometido numerosas atrocidades y crímenes de guerra contra población civil desarmada. Esto incluye el asesinato de 267 partidarios de Gaddafi en Sirte, 100 personas muertas al estallar una bomba tras el funeral de Gaddafi, el asesinato a traición del anciano jefe de la tribu Warfalla (la más numerosa e importante de Libia), el asesinato de 120 miembros de dicha tribu en Bengasi, el terrorismo contra los pobladores de Tawerga, leales a Gaddafi, el empalamiento de niños, la decapitación de soldados gaddafistas, el ahorcamiento sin juicio de oponentes y el asedio de Beni Walid, durante el cual los rebeldes y la OTAN impidieron a las ONGs suministrar agua, comida y medicamentos a los resistentes. Los rebeldes también se han dedicado al saqueo, a la violación, al linchamiento y al vandalismo en las localidades que han tomado, y lo más probable es que la mayor parte de sus atrocidades no hayan llegado a la opinión pública occidental.

 

5- Los "rebeldes" han llevado al cabo una limpieza étnica en toda regla contra los negros. Gaddafi era muy popular en África subsahariana y acogía a numerosos inmigrantes de esta región. También contaba con la lealtad de muchas tribus como los tuareg, y con unidades de mercenarios negros. El resultado es que todos los negros, incluso los negros libios que simplemente trabajan como obreros de la construcción, están bajo sospecha de ser mercenarios gaddafistas, y se les está liquidando sistemáticamente.

 

6- Gaddafi ha sido aseinado sin juicio y violando el tan cacareado "derecho internacional". Los "rebeldes libios" no han tenido empaque en secuestrar a un hombre de 70 años, herido y aturdido por un bombardeo, insultarlo, maltratarlo, humillarlo, golpearlo y finalmente lincharlo, todo sin dejar de gritar Allah akbar. También podemos añadir a esto la profanación de las tumbas de los padres de Gaddafi por parte de yihadistas, o el asesinato de Mutassim Gaddafi a manos de unos individuos que no hacen más que gritar Allah akbar.

 

Para colmo, tanto la OTAN como buena parte de la prensa occidental se han dedicado a manipular datos para intentar criminalizar al régimen gaddafista. Así, hemos podido ver cómo desenterraban en Abu Salim una fosa común de supuestos represaliados por Gaddafi que luego resultaron ser huesos de camellos (caso no muy distinto a los huesos de cabra y perro de Órgiva, Granada, que los subvencionados de la "memoria histórica" quisieron hacer pasar por 2.000-4.000 represaliados del franquismo), hemos visto a los atlantistas utilizando gas mostaza en Beni Walid y luego acusando a Gaddafi de hacerlo, hemos visto a los periodistas de la BBC entrando en un hospital de Trípoli lleno de cadáveres putrefactos, sin decir quiénes fueron los verdaderos asesinos, etc.

 

Un breve recuento de los crímenes de la OTAN puede ser encontrado aquí.

 


Trípoli antes de los bombardeos.

 


 


Los vergonzosos titulares de la prensa occidental en general y angloamericana en particular, mostraron bien hasta qué punto la objetividad y la imparcialidad saltaron por la ventana desde el instante en el que Libia se enemistó con el poder del dólar. "La primera víctima de una guerra es la verdad". El mensaje para el resto del mundo: esto es lo que les pasa a los que no doblan la cerviz ante las potencias hegemónicas de la globalización capitalista y neoliberal, esto es lo que les pasa a los regímenes que rechazan la globalización. Que vayan tomando nota Siria, Líbano, Irán, Sudán del Norte, Bielorrusia, Corea del Norte, Cuba, Myanmar, Turkmenistán y Venezuela.

 

 


LIBIA EN EL GRAN TABLERO: LA ATLANTIZACIÓN DEL MEDITERRÁNEO

 

El Atlántico está perdiendo poco a poco su importancia estratégica. En 2008, la mayor parte del flujo comercial marítimo se lo llevó el Pacífico, con 20 millones de TEUs (contenedores de 20 pies), seguido muy de cerca por el Mediterráneo, con 18,2 millones. El Atlántico sólo vio un flujo de 6,2 mllones. Esta tendencia parece que va a persistir, por un lado porque, desde la adopción del euro y el atentado del 11-S, Europa y Norteamérica han dejado paulatinamente de comerciar, volviéndose ambos continentes hacia Asia Oriental. Y por otro lado, existen proyectos, como el Corredor Mediterráneo, que tienden a restarle más protagonismo aun al Atlántico. Además, la nueva doctrina geoestratégica del America’s Pacific Century, enunciada por el Departamento de Estado en Noviembre de 2011, desde luego que no ayuda a reforzar el atlantismo propiamente dicho. ¿Caminamos hacia un, valga el palabro a falta de otro mejor, "pacifismo"? Cabría recordar que, para construir su "red de relaciones privilegiadas" con el Atlántico y Europa, Washington tuvo que arrasar el corazón de nuestro continente para quitarse del medio al "macho-alfa" regional: Alemania. No fue mediante la diplomacia, sino mediante la guerra, el bombardeo masivo y la represión, que se erigió el atlantismo ―y lo mismo podría decirse de las relaciones de Washington con Tokio. ¿Se erigirá el "pacifismo", o Chimerica, sobre la destrucción del "macho-alfa" de Asia Oriental?

 

Sea como fuere, estas no son buenas noticias para el eje atlantista, que ahora debe esforzarse aun más para garantizar su influencia en el Mediterráneo, a costa de Rusia, China y, en menor medida, las potencias de la Europa continental. El establecimiento del Estado de Israel en 1948 fue el primer gran paso de este proceso. La desintegración de Yugoslavia en 1992 y la neutralización de Serbia en 1999 fue otro, y la Primavera Árabe de 2011, el más reciente. Atlantizar el Mediterráneo ¿significa desestabilizarlo y balcanizarlo para que el comercio Europeo se oriente al Atlántico y el chino al Pacífico, por la inviabilidad de las rutas navales China-Europa? ¿Le conviene al atlantismo la expansión del radicalismo islámico por todo el Mediterráneo? Al menos eso parece ser lo que está favoreciendo la OTAN en nuestro mar.

 

Libia es el país africano con más costa en el Mediterráneo. A pesar de que en el pasado había intentado llevarse bien con todo el mundo, su tendencia a partir de la crisis crediticia en EEUU fue estrechar rápidamente lazos con Rusia, China y dos países que Gaddafi pensaba podían beneficiar a Libia: Italia y Francia. Como hemos visto antes, en la provincia de Cirenaica, que es donde estalló la rebelión, "casualmente" había 75 compañías chinas distintas y 36.000 trabajadores chinos (y no sólo obreros, sino también ingenieros, empresarios, funcionarios del Partido y personal de Inteligencia) trabajando en unos 50 proyectos petrolíferos, ferroviarios e inmobiliarios, en los que China había invertido miles de millones de dólares. Que el Mediterráneo albergue un trozo de China es inaceptable para el atlantismo, del mismo modo que albergue un trozo de Rusia: la base naval y de Inteligencia de Tartus (Siria), desde donde se monitoriza todo tipo de movimientos en Chipre, Israel, Suez y Oriente Medio.

 

Para las potencias atlantistas, el Mediterráneo tiene una cara y una cruz: la cara es que dicho mar es una enorme ría que les permite internarse profundamente en la "Isla Mundial" e interferir en Eurasia y África. La cruz es que estos movimientos dependen del control de puntos estratégicos y de toda una red de puertos y bases muy alejados de las metrópolis ―este control es extremadamente caro y exige una corriente continua de capital.

 


La perspectiva de "Oceanía" (entendiéndose como tal el concepto geopolítico de vocación marítima y basado en Estados Unidos y Reino Unido). En la idea anglosajona-israelí del Mare Suus (Mar Suyo) el Mediterráneo es un inmenso lago interior, una ría, que les permite a las potencias marítimas penetrar profundamente en "Eurasia" (entendiéndose por tal el concepto geopolítico basado en Europa y la Federación Rusa), estableciendo bases-portaaviones-lanzamisiles al fondo del lago (Israel y Georgia) y en otros lugares estratégicos (Marruecos, Albania-Kosovo, Rumanía, España), pasando al Mar Rojo, al Golfo Pérsico y al Índico, interviniendo en los asuntos internos de infinidad países y accediendo a sus recursos. El estrecho de Gibraltar es clave en esta estrategia. También son claves los contraataques del Kremlin en forma de bases navales (como la de Sebastopol en Ucrania o Tartus en Siria) y de "rusoductos" gasíferos —uno por el Báltico (Nord Stream), otro por el Mediterráneo (South Stream) y otro por África (Trans-Saharan)— que no vienen representados en el mapa.

 

La importancia del control español sobre la entrada del Mediterráneo quedó de manifiesto en 1973, cuando Franco y Carrero Blanco prohibieron a Washington emplear sus bases españolas para apoyar a Israel durante la guerra del Yom Kippur. La guerra vino en el contexto de una enorme crisis (que no fue petrolera como nos han contado, sino monetaria, del dólar) y produjo un embargo petrolero ―que afectó poco a nuestro país, gracias al petróleo que nos mandaba Saddam Hussein desde Iraq. Actualmente, tanto Siria como Libia, Gaza, Líbano y Argelia (y Serbia antes de taponarse su salida marítima con el estado artificial de Montenegro) son desafíos a la atlantización del Mediterráneo. Al norte, la situación se repite con el Báltico y los Estados-tapón (Estonia, Letonia, Lituania y Polonia). Tanto el Báltico como el Mediterráneo son empleados por Washington para atenazar a Rusia, contener su expansión hacia Europa y frustrar un entendimiento entre Berlín y Moscú.

 


Teoría del "Mare Nostrum". Una potencia continental eurasiática acerroja Gibraltar y Suez, blindando el Mediterráneo y haciendo sus países costeros tan inaccesibles al poder marítimo como Suiza o Bielorrusia. "Oceanía" perdería su acceso a Estados como Georgia, Libia, Kosovo, Rumania o Siria, pero seguiría teniendo acceso a Israel (a través del Golfo de Aqaba), a Arabia Saudí y a Iraq. Israel (a menos que se bloquease Aqaba) pasaría a ser un nuevo canal de Suez, una "bisagra de emergencia" entre el Mediterráneo y el Mar Rojo. Sin embargo, abastecer a Israel a través de esta nueva ruta, muchísimo más larga, entrañaría un coste muchísimo mayor, y no está el horno del dólar para bollos. Si el coste económico de este apoyo fuese mayor que el coste de una guerra contra Eurasia, habría guerra.

 

El Imperio Romano fue la primera y última potencia que consiguió asegurar plenamente todo el Mediterráneo. Tras la caída de Roma, el Mediterráneo se convirtió en un caos de potencias enfrentadas (bizantinos, vándalos, árabes, normandos, cruzados, aragoneses, venecianos, genoveses, turcos, españoles, franceses, británicos, israelíes, etc.), hasta nuestros días. Durante la II Guerra Mundial, Carrero Blanco aconsejó a Franco no entrar en el conflicto a favor del Eje a menos que los alemanes tomasen el canal de Suez, así acordaron Franco y Hitler en Hendaya. El plan sería frustrado por la derrota de Rommel en El Alamein. Durante el franquismo, hubo entendimientos entre Franco y el líder egipcio Nasser que incomodaron mucho al eje atlantista, que temía se pudiese estrangular a la nueva potencia mediterránea: Israel. Hoy en día, incluso aunque se acerrojasen Gibraltar y Suez, Israel podría seguir manteniéndose gracias a su minúscula franja costera en el  Mar Rojo (a menos que desde Egipto y Jordania se bloquease el Golfo de Aqaba).

 

Las potencias oceánicas tienen que danzar alrededor de las masas de tierra, colarse por los estrechos, establecerse en islas y ascender por las cuencas fluviales. Para una potencia oceánica, controlar, abastecer y sostener un punto costero lejano entraña un coste enorme, coste que actualmente el atlantismo sólo puede cubrir gracias a su control de las rutas comerciales y a su monopolio sobre la moneda de reserva mundial. Para una potencia continental, en cambio, cerrar un estrecho es mucho más fácil, ya que el teatro de operaciones está cercano y en muchas ocasiones ni siquiera es necesario echarse a la mar.

 


La pesadilla de Oceanía y el único modo de "eurasiatizar" el Mediterráneo al 100%: que Eurasia, como "Estado comercial cerrado", se aproveche de sus masas de tierra, cerrando a cal y canto los estrechos. Oceanía pierde definitivamente su acceso a países como Israel, Iraq o Arabia Saudí, y se convierte en lo que nunca debió dejar de ser: la periferia del mundo. (Seguiría teniendo acceso a los Emiratos Árabes Unidos y por tanto al Golfo Pérsico, a menos que se hiciese algo para bloquear la salida de Al-Fujayrah en el emirato de Abu Dhabi). En este proyecto, cobran una importancia capital Yemen y el Cuerno de África. Estas zonas precisamente se han vuelto altísimamente inestables a medida que ha aumentado el comercio entre Asia Oriental y Europa. Tanto Gadafi como Irán y China estaban/están muy involucrados en el Mar Rojo actualmente.

 

Esta serie de mapas hace más fácil entender por qué la obesión del atlantismo anglo, desde Clement Attlee hasta Hillary Clinton, ha sido asegurar el liberalismo y "la libertad de navegación en todos los mares": se trata del ideal del "Mare Liberum", formulado por el holandés Hugo Grocio en 1630 (en contraposición a quienes querían someter el mar a leyes, como el inglés John Selden con su doctrina del "Mare Clausum" de 1635).

 

 

FUTURO DE LIBIA Y PRÓXIMOS PASOS DEL ATLANTISMO EN ÁFRICA

 

La Libia gaddafista era un Estado estable que mantenía a raya al radicalismo islámico y que destinaba la mayor parte de su petróleo a la Unión Europea. Con la caída de Gaddafi, varias son los guiones posibles para Libia, pero tres cosas están claras.

 

1- El nuevo gobierno va a destinar la mayor parte de su petróleo a países como Estados Unidos, Reino Unido y Francia, en detrimento de otros como Italia, Alemania, España, China y Rusia. Los beneficios de la explotación petrolera ya no se quedarán en Libia, sino que engrosarán los bolsillos de las multinacionales y de una nueva oligarquía de petroleros autóctonos, al estilo de los jeques árabes del Golfo. El pueblo libio va a hundirse en la miseria.

 

2- Libia puede convertirse en una base de la OTAN, del mismo modo que Afganistán, Iraq, Albania y Kosovo. Bengasi puede pasar a albergar un nuevo Camp Bondsteel (la mega-base estadounidense en Kosovo). Su cercanía a Europa debería ser motivo de preocupación: puede ser una fuente de narcotráfico, trata de blancas, crimen organizado, tráfico de órganos y de armas, inmigrantes y terrorismo (ver cómo los arsenales gaddafistas acabaron en manos de Al-Qaeda).

 

3- Libia va a ser un país inestable. El orden de la época de Gaddafi y la Yamahiriya no volverá. Probablemente la resistencia lealista gaddafista tardará mucho en sofocarse y el escenario será comparable a Iraq. Esta inestabilidad se contagiará a Sudán, la franja del Sahel y el Cuerno de África además de África guineana y el Congo.

 

4- El Islamismo radical ganará posiciones en Libia. Por lo pronto ya hemos visto la bandera negra de Al-Qaeda ondeando en el palacio de la justicia de Bengasi, y hemos visto al CNT hablando de imponer la Sharia en el país. Más info aquí sobre la presencia de Al-Qaeda en Libia.


5- Libia va a convertirse en un país emisor de refugiados e inmigrantes. La Libia gadafista era un país lo bastante avanzado como para, no sólo no emitir apenas emigrantes a Europa (sin contar estudiantes becados y similares), sino además atraer inmigrantes de Egipto, Túnez, media África y hasta China. Ahora es previsible que la cosa cambie y que Libia se convierta en un país tercermundista de refugiados, damnificados, desheredados y muertos de hambre, que, desesperados, se precipitarán sobre Italia primero y el resto de la UE después. Por añadidura, los trabajadores subsaharianos que antes emigraban a Libia, ahora lo harán a la UE. La avalancha de negros que Gaddafi predijo se precipitaría sobre Europa si él caía, puede desencadenarse bien pronto, especialmente si tenemos en cuenta que la caída de Gaddafi va a desestabilizar Argelia, Chad, Níger, Sudán, República Centroafricana, Cuerno de África, etc. Esto no sería un problema si la política migratoria de Europa no estuviese controlada por multinacionales codiciosas y políticos vendidos, pero no es el caso.

 

Como hemos visto más arriba, los intereses del atlantismo en África son muchos, y no se detienen en Libia. Washington ha mandado fuerzas especiales a la República Centroafricana, y la independencia de Sudán del Sur es el primer paso para frustrar los intereses chinos en África Central. El nuevo país sudanés es un Estado-tapón que evita que el Atlántico y el Mar Rojo se comuniquen a través de dos enormes países (Congo y Sudán). Argelia, país extraordinariamente rico en gas natural y que busca desesperadamente una salida al atlántico a través del Sahara Occidental, ha acogido a Aisha Gaddafi y se niega a extraditarla. El presidente argelino Abdelaziz Buteflika temía tanto la acción extranjera que, durante los bombardeos de la OTAN sobre Libia, ni siquiera le cogió el teléfono a Gaddafi. Cuando, el 22 de Febrero de 2011, la Liga Árabe suspendió a Libia como miembro, Argelia fue uno de los dos Estados que se opuso. El otro fue Siria.

 

En Níger puede encontrarse Said Gaddafi, que, protegido por mercenarios sudafricanos, se llevó a dicho país las reservas de oro libias (que puede utilizar para financiar una resistencia armada) y numerosas obras de arte. El gobierno de Niamey se niega a extraditarlo. Lo mismo reza para Saadi, otro hijo de Gaddafi que escapó a Níger el 11 de Septiembre de 2011 con la ayuda de veteranos de las fuerzas especiales de Rusia e Iraq. Níger es también importante por sus reservas de uranio (controladas por la compañía francesa Areya, pero también en el punto de mira de China), por su frontera con Nigeria (que tiene grandes reservas de hidrocarburos) y por utilizar el franco-CFA como moneda de reserva.

 

El atlantismo parece estar usando los viejos lazos de Francia con África subsahariana para penetrar en lo más profundo del continente, con el objetivo expreso de contener la expansión de la influencia china. Al atlantismo le interesa especialmente frustrar el gasoducto trans-sahariano ―que en buena medida no deja de ser otra tenaza rusa igual que el Nord Stream y el South Stream― y desestabilizar Argelia, Níger y el norte de Nigeria, para que todo el gas y petróleo nigerianos se orienten a las rutas marítimas. También es de particular interés hacer todo lo posible para desestabilizar las zonas interiores del Congo y países limítrofes, para que los abundantes recursos congoleños se dirijan hacia el Oeste (costa atlántica) en lugar de hacia el interior (Mar Rojo, Puerto Sudán). La desestabilización de la mitad norte de Nigeria (donde se ha implantado la Sharia) tiene también por objetivo evitar que sus hidrocarburos encuentren salida hacia el Norte (Argelia y la Unión Europea) a través de Níger.

 

La zona idónea para balcanizar todo este espacio es cerca de la triple frontera de Argelia-Mali-Níger, donde tiene su base AQMI (Al-Qaeda en el Magreb Islámico) y donde podrían encontrarse los hijos de Gaddafi. AQMI es realmente todo un ejército privado y una red de Inteligencia con contactos en el ámbito saudí, marroquí y anglosajón, y opera en buena parte del Sahel (ataques a tropas gubernamentales, control de regiones enteras, secuestro de turistas y voluntarios de ONGs, etc.), desestabilizándolo y brindando cassus belli para la intervención de potencias extranjeras (especialmente Francia mediante su Legión Extranjera y EEUU con AFRICOM) [4]. Precisamente Gaddafi prestaba apoyo a los gobiernos de Mali, Níger y Argelia para que luchasen contra esta milicia y estabilizasen la zona, ya que sin estabilidad regional, el gasoducto trans-sahariano no es viable.

 

Níger es por ello una especie de encrucijada estratégica. No sólo parte por la mitad las rutas norte-sur (Argelia-Nigeria), sino que también parte por la mitad una importantísima ruta este-oeste: el Sahel, una franja semi-árida que va desde el Atlántico hasta el Mar Rojo. En particular, la porción del Sahel que incluye la cuenca del río Níger, fue clave históricamente para el florecimiento de muchos imperios africanos (como los almorávides, la época próspera de Timbuktu y una variedad de reinos subsaharianos) que obtenían su poder y enormes riquezas de este núcleo, los recursos que albergaba (especialmente oro) y las rutas que se entrecruzaban en él. La tendencia de los almorávides, canalizada por la geografía, fue dirigirse hacia el Norte, invadiendo las actuales Marruecos y Argelia y penetrando finalmente en España. Finalmente, en el Sahel tiene sus bases el recientemente organizado Frente de Liberación Libio (LLF por sus siglas inglesas), un ejército de resistentes gaddafistas.

 


La geografía, los yacimientos de hidrocarburos y las infraestructuras energéticas señalan los pasos del atlantismo en África. Las rutas norte-sur (gasoducto trans-sahariano), que conectan el Mediterráneo con el Atlántico, y las rutas este-oeste (franja del Sahel), que conectan el Mar Rojo con el Atlántico, se cruzan en Níger, un país intermedio que es el candidato perfecto para balcanizar todo este espacio desmantelando la "cruz", y que es clave para dominar el corazón de África. También es de notar el papel de España e Italia como receptoras de gran cantidad de hidrocarburos africanos y transmisoras de energía a Europa (papel que se incrementaría enormemente si Nigeria se conectase a la red de gasoductos). El atlantismo quiere evitar a toda costa que se formen rutas terrestres estables y que los países se emancipen de la dependencia de las rutas marítimas. Por tanto, es una mala noticia para el eje Washington-Londres-Tel-Aviv que el gas y el petróleo se dirijan hacia el interior continental en lugar de hacia los puertos marítimos.

 

 

España y Argelia

 

La energía es probablemente el principal móvil en la estrategia de las grandes potencias modernas, es por ello que los hidrocarburos tienen un papel tan importante en la geopolítica. De ellos, el carbón fue el primer protagonista, luego el petróleo ha sido durante mucho tiempo el tesoro más codiciado, y en tiempos recientes, el gas natural ha ido adquiriendo un protagonismo cada vez mayor. Los "rusoductos" de Europa del Este han causado graves problemas diplomáticos y son el eje del acercamiento germano-ruso. La diplomacia del gas natural es tan importante para Rusia que el actual Presidente ruso, Dimitri Medvedev, fue anteriormente presidente de la compañía estatal gasífera Gazprom. El campo gasífero de Pars del Sur es una de las razones de la adjudicación del Mundial de fútbol de 2018 a Qatar, el Green Stream era el eje de las relaciones italo-libias, el South Stream amenaza con provocar la resurrección de Serbia y el gasoducto proyectado de Irán-Pakistán-India es un gravísimo problema para Estados Unidos, que se ha opuesto vehementemente al proyecto y está haciendo lo posible por desestabilizar Pakistán (a quien pidió formalmente en Enero de 2010 que cancelase el proyecto, sin éxito), especialmente la región de Baluchistán y las provincias tribales. Hamid Karzai (presidente de Afganistán) y Zalmay Khalilzdad (ex-embajador de EEUU en la ONU, Afganistán e Irak), trabajaron ambos antiguamente para la petrolera Unocal (actualmente parte de Chevron), que tenía intereses gasíferos en el Caspio y Asia Central; el objetivo era construir un gasoducto (el TAP, no confundir con el TAP adriático, que es parte del South Stream ruso) que canalizase el gas del Caspio ―evitando expresamente a Rusia y a Irán― directamente hacia la costa pakistaní, donde sería saqueado por las compañías multinacionales. Esto ha sido frustrado por la decisión de Turkmenistán de exportar gas exclusivamente a Irán, Rusia y China.

 

Todo esto da una idea acerca de la importancia que la estrategia del gas está adquiriendo en el tablero mundial. El gas natural es el hidrocarburo menos contaminante, más barato, más abundante y más eficiente que existe, y además las reservas gasíferas actuales durarán supuestamente 60 años: dos décadas más que las reservas petrolíferas. El gas natural se emplea extensamente en la calefacción, la cocina, producción de energía, fertilizantes y también han empezado a aparecer los primeros vehículos que funcionan a base de gas (y se está trabajando en producir aviones). El atlantismo desearía que no hubiese ni un solo gasoducto en toda Eurasia, o que, en todo caso, los gasoductos fuesen directamente a parar a puertos y espacios marítimos controlados por él [5].

 

En el mapa de más arriba hemos visto que la relación de España y Argelia guarda algunas inquietantes similitudes con la relación entre Italia y Libia. Antaño, los intereses españoles en Argelia venían representados por el peligro de la piratería berberisca, Orán, Argel y otras plazas. Ahora, vienen de la mano del gas natural. Desde 1996, existe un gasoducto, el Maghreb-Europe (también llamado gasoducto Pedro Durán Farell), que conecta el importante campo gasífero de Hassi R’Mel (Argelia) con Córdoba y el resto de la red ibérica y europea. Este gasoducto tiene un problema, y es que pasa por Marruecos, forzando a Europa a estar pendiente de las veleidades de la monarquía alahuita, totalmente adicta a Washington. De hecho, el gobierno marroquí figura en la lista de socios comerciales y operadores del gasoducto (Sonatrach, Reino de Marruecos, Enagás, Metragaz y Transgas).

 

Por ello, se construyó otro gasoducto, el Medgaz, que unía directamente Argelia con España, concretamente con el importante gasoducto Almería-Albacete. La fecha de inauguración del Medgaz, que libra a España y a Europa de su dependencia gasífera de Marruecos, es sorprendente: 1 de Marzo de 2011, en plena primavera árabe y dos semanas antes de las resoluciones de la ONU sobre Libia. Quizás el único problema planteado por el Medgaz es que se encuentra en una zona geológicamente inestable (véase el terremoto de Lorca el 11 de Mayo de 2011).

 


Es posible que la OTAN lleve al cabo una tentativa de desestabilización del régimen argelino. Para ello, podría combinar acciones de AQMI con alguna "rebelión popular" financiada desde el extranjero. El atlantismo teme que Rusia, Argelia, Irán y Turkmenistán formen un cártel gasífero, una especie de OPEP del gas. Argel está bien relacionado con Moscú desde la época soviética. En Marzo de 2006, Putin se convirtió en el primer mandatario ruso en visitar Argelia desde el presidente soviético Nikolai Podgorny en 1969. Los temores a una política gasífera común entre Argelia y Rusia se manifestaron en el "Financial Times" de Londres (23 de Mayo) y en "Le Monde" de Francia (29 de Junio).

 

Buena parte del material de la Armada argelina es de origen ruso, incluyendo dos corbetas "Tiger" compradas en Julio de 2011. También resultan interesantes las relaciones argelinas con Italia, a cuya empresa Orizzonte Sistemi Navali ha pedido un buque desconocido (probablemente un transporte anfibio de tipo "San Giorgio"). El acercamiento de Italia a Rusia, Argelia y Libia es un fenómeno inevitable que el atlantismo no ve con buenos ojos.

 

 


AFRICOM Y EL PROYECTO ATLANTISTA PARA ÁFRICA

 


Mandos regionales del pentágono.

 

El Pentágono divide el planeta en varias porciones geoestratégicas, que, reveladoramente, tienen mucha más coherencia que la actual red de alianzas militares. Durante mucho tiempo, África fue parte de EUCOM, el mando europeo, fundado en 1952 y con sede en Stuttgart, Alemania. El hecho de que los asuntos africanos se controlasen desde Europa se debía probablemente a que la mayor parte de África aun estaba en manos de potencias europeas, y a que Europa nunca perdería sus contactos con África. Por contraste, la influencia de EEUU en el continente negro todavía era casi inapreciable.

 

Entre 2006 y 2008, coincidiendo con la irrupción diplomática y comercial de China en África (varios mandatarios chinos hicieron giras por todo el continente asegurando contratos, invirtiendo dinero y construyendo infraestructuras), se creó un mando nuevo para África, AFRICOM. En un principio, la sede estuvo también en Stuttgart, quizás porque ningún país africano permitió establecer semejante centro de espionaje y desestabilización en su territorio (sólo Liberia, cuyo derecho naval es de risa, se ofreció), o quizás porque EEUU aun no había ocupado militarmente ningún país africano. Sudáfrica, Nigeria y Libia se opusieron abiertamente a que se estableciese un cuartel general en su continente.

 

Sin embargo, en 2008 se supo que Marruecos (el caballo de troya del atlantismo en África, igual que Reino Unido lo es en Europa) había aceptado albergar el cuartel general de AFRICOM, o al menos uno de sus sub-mandos regionales. Se trata de Tan Tan, cerca de Wad el-Drâa (ver aquí). El emplazamiento se encuentra al lado de lo que antes era la frontera entre Marruecos y el Sahara Español, 300 kilómetros al este de la isla española de Lanzarote. La excusa para establecer la base ha sido apoyar a las flotas estadounidenses que entran y salen del Mediterráneo, hacer frente a "catástrofes naturales"… y luchar contra el oportuno problema del terrorismo, concretamente la "amenaza" de Al-Qaeda en el Magreb Islámico, o AQMI. Esto viene enmarcado en la Iniciativa Anti-Terrorista Transahariana (TSCTI por sus siglas inglesas), aprobada por el Congreso de los Estados Unidos para "estabilizar" buena parte del Sahel… y otros países de propina. La verdadera excusa es controlar-desestabilizar el Sahel para impedir la formación de un bloque regional estable y para tener un motivo para intervenir en lugares tan ricos en recursos y posición estratégica como Argelia, Nigeria o Níger. 

 

La nueva base aeronaval estadounidense de Tan-Tan es la instalación militar más grande del continente africano, con una superficie de mil hectáreas. También se está construyendo un reactor nuclear.

 

Tanto Yibuti como Sudán del Sur y Etiopía son otras dos candidatas perfectas para albergar instalaciones militares estadounidenses de AFRICOM, cuya independencia es aun solo nominal y sigue dependiendo en buena medida de EUCOM. Es vital para AFRICOM obtener una gran base en el Nilo o cerca (Sudán del Sur, Etiopía, Uganda, Kenia...). Libia desde luego puede convertirse a largo plazo en una enorme base de la OTAN, y no hay duda de que la Guerra de Libia, y las operaciones venideras, ayudarán a afianzar AFRICOM definitivamente.

 

Pero entretanto, hay más movimientos por parte de Marruecos: la monarquía alahuí ha emprendido la construcción de otra base (ver aquí) en Kasar Seghir, a 20 kilómetros de Ceuta y justo enfrente de la costa de Tarifa. Esta base viola el acuerdo oficioso vigente entre España, Reino Unido y Marruecos: no construir más bases militares en la zona estratégica del estrecho. Aunque en los medios de comunicación españoles estas noticias han pasado mayormente desapercibidas (el fútbol y el corazón acaparan más atención, y no por casualidad), ambos movimientos en Marruecos son particularmente inquietantes en tanto se dirigen estratégicamente contra las únicas posesiones españolas en África: las Islas Canarias, Ceuta y Melilla. Estas dos últimas NO están garantizadas por la OTAN: si Marruecos atacase la España continental, tendríamos el apoyo de la OTAN... pero en caso de que las víctimas fuesen Ceuta y Melilla, estaríamos solos contra un país apoyado por EEUU y Reino Unido.

 


Nueva base militar marroquí en el estrecho de Gibraltar. Ambas bases son una respuesta del eje atlantista a la progresiva pérdida de protagonismo del Atlántico en el gran tablero mundial. La Libia gaddafista, enemiga de Marruecos, como Argelia, hubiera podido ser un socio estratégico muy interesante para España, pero mientras Madrid esté sometida a las directrices de Washington, nuestro país no defenderá nunca sus verdaderos intereses.

 

 

 

CONCLUSIONES

 

Libia fue atacada porque:

 

• Estaba a punto de pedir oro en vez de dólares a cambio de su petróleo.

 

• Iba a utilizar oro para respaldar una nueva moneda de reserva, y tenía en esto el apoyo de Dominique Strauss-Kahn y el Banco Central chino.

 

• Iba a establecer esta nueva moneda común en quizás el 70% del continente africano.

 

• Con la Unión Africana, amenazaba crear un bloque geopolítico que podría vertebrar al continente africano y cerrarlo en banda a los saqueos de bancos y multinacionales extranjeros.

 

• Su política de dar préstamos a gobiernos africanos estaba suplantando la influencia de los bancos internacionales.

 

• Creaba su propio dinero libre de deuda y de interés, en vez de pedirlo prestado como crédito a interés a un banco privado controlado por extranjeros.

 

• Estaba imponiendo condiciones demasiado duras a las compañías petroleras angloamericanas y abriendo las puertas a la influencia china y rusa en el Mediterráneo, justo en un momento en el que EEUU está decidido a cortar de tajo la expansión china por África.

 

• Su decisión de emprender otra ronda de nacionalización del petróleo entró en conflicto con oligarquías autóctonas que pretendían convertirse en jeques del Mediterráneo.

 

• Estaba activamente involucrada en Sudán, el Cuerno de África y la franja del Sahel, y hubiera podido proporcionarle a China un puente estable desde el Índico hacia el Mediterráneo sin tener que pasar por Suez.

 

• Lejos quedan los tiempos en los que EEUU podía controlar un continente por las buenas. Tras la irrupción de China en África, el dólar por sí mismo no basta. Al ser papel mojado, debe ser respaldado a tiros y misilazos.

 

• Gadafi le tomó mal la medida a la OTAN. Pensaba que estaba lo bastante agonizante como para no atacarlo, pero se equivocaba.

 

• Libia e Iraq se parecen en muchas cosas. Ambos emprendieron un proceso de modernización para ser autárquicos en tecnología, industria, alimentación y política monetaria, y ambos fueron arrasados.

 


Por caricaturesca que pueda parecer, esta imagen no difiere mucho de la realidad de la Guerra de Libia.

 

 


NOTAS


[1] Compañía que, junto con ExxonMobil (Esso), Occidental, Marathon, Hess, ChevronTexaco, Morgan Stanley, Petro-Canada, British Petroleum y otras angloamericanas, se retiró oportunamente de Libia antes de los problemas.

 

[2] Hariri fue asesinado por un misil lanzado desde un dron israelí fabricado en Alemania. En años subsiguientes, se ha intentado utilizar esta muerte para incriminar a altos jefes de la organización libanesa Hezbolá, vinculada con Irán.

 

[3] Un plan que ya se había intentado abordar durante el Antiguo Régimen para los países católicos en Europa: la Orden Teutónica, el Temple y el Real de a Ocho español (que en su día fue adoptado por Estados Unidos), trabajaban en esta dirección.

 

[4] Ver aquí, aquí, aquí, aquí y aquí.

 

[5] Ver aquí cómo las rutas continentales asiáticas (en buena medida vertebradas en torno a la antigua Ruta de la Seda), mucho más sencillas y rápidas, podrían restarle un protagonismo descomunal a la ruta marítima tradicional para llevar el petróleo del Golfo Pérsico a Asia Oriental. El único motivo por el que estos proyectos no se consolidan es por las inestabilidades regionales artificiales que azotan la región y frustran las relaciones diplomáticas. El primer interesado y promotor de la mayor parte de dichas inestabilidades es el atlantismo.

mardi, 27 décembre 2011

La riconquista della Libia e la putrefazione morale della sinistra europea

La riconquista della Libia e la putrefazione morale della sinistra europea

di Bahar Kimyonpur

Fonte: aurorasito.wordpress

KADHAFI 03.jpgCome è possibile che il movimento contro la guerra abbia lasciato fare? Come è possibile che degli scaltri attivisti siano arrivati ad inghiottire tutto ciò che Sarkozy, TF1, Le Monde, France 24 e BBC hanno rovesciato su Gheddafi? Come è possibile che esseri dotati di coscienza e di acuta intelligenza non abbiano imparato la lezione della tragedia che tuttora si sta svolgendo sotto i loro occhi in Afghanistan e in Iraq? Come è possibile che l’estrema sinistra europea abbia potuto applaudire la coalizione militare più predatrice al mondo? Come è possibile che il linciaggio di un capo del terzo mondo, torturato a calci, pugni e calci di fucile, sodomizzato con un cacciavite; il supplizio di un nonno di 69 anni, che ha visto quasi tutta la sua famiglia spazzata via, compresi dei neonati, abbia riunito nel medesimo coro gli “Allah o Akbar” dei teppisti jihadisti, il “Mazel Tov” del filosofo Legion d’honore franco-israeliano Bernard-Henri Lévy, il cin-cin dei signori della NATO, l’esplosione di gioia cinica di Hillary Clinton sulla CBS e gli applausi dei pacifisti europei?

 


Ricordiamoci che per evitare l’invasione dell’Iraq, il cui regime era molto più dispotico di quello di Muammar Gheddafi, eravamo  dieci milioni in tutto il mondo. Da Jakarta a New York, da Istanbul a Madrid, da Caracas a New Delhi, da Londra a Pretoria, avevamo messo da parte la nostra ostilità nei confronti della dittatura baathista, per fermare l’atto più irreparabile, più distruttivo, più vergognoso, più terroristico e barbaro, e cioè la guerra.
A parte le molte espressioni di sostegno alla Jamahiriya libica, organizzate nel continente africano e, in misura minore, in America Latina e in Asia, la solidarietà con il popolo libico è stata quasi inesistente. Questo popolo composto da una miriade di tribù, di costumi e di volti, questo popolo che ha commesso il crimine di amare il suo dirigente e “dittatore”, di appartenere alla parte sbagliata, alla tribù cattiva, alla zona sbagliata o al quartiere sbagliato, non ha ricevuto alcuna compassione.

 


I media allineati hanno ignorato l’esistenza di questo popolo che, il 1° luglio, di nuovo, era un milione per le strade di Tripoli a difendere la propria sovranità nazionale, la sua vera rivoluzione autentica, e questo in barba dei cacciabombardieri della NATO. Allo stesso tempo, un altro popolo, quasi identico a quello di Tripoli, un popolo altrettanto innocente, che non aveva raccolto più di poche decine di migliaia di manifestanti, anche con l’appoggio schiacciante dei commandos del Qatar [1], dei propagandisti della Jihad di Egitto, Siria e Giordania [2], anche con le ingannevoli tecniche di ripresa di al-Jazeera per amplificare l’effetto della folla, vennero scelti nel ruolo di “unico popolo.”

 


Questo popolo godette di ogni favori e attenzione. Anche di ogni armi e ogni impunità. L’umanesimo paternalistico e interessato della NATO verso questi poveracci, ha commosso i nostri sinistri, al punto di  fargli dire: “Per una volta, la NATO ha fatto bene a intervenire”.
Non c’è dubbio che il miraggio degli sconvolgimenti sociali, chiamati abusivamente “Primavera araba”, ha contribuito a confondere le acque, probabilmente l’inversione di tendenza (in coincidenza con le dimissioni di molti giornalisti indipendenti), dei canali satellitari arabi come al-Jazeera, che ora sono i giocattoli delle monarchie del Golfo e degli strateghi statunitensi, ha creato confusione, non c’è dubbio che la guerra di propaganda questa volta era meglio preparata, probabilmente le farneticazioni di Muammar Gheddafi e del figlio Saif al-Islam, deliberatamente tradotte male dalle agenzie stampa internazionali, hanno aiutato la propaganda occidentale a rendere questi uomini odiosi. Tuttavia, questo può spiegare l’incredibile silenzio di approvazione dei movimenti alternativi europei, che sostenevano il cambiamento sociale.

 

Difendere i deboli contro i forti

 


Sin dagli albori dell’umanità, è una virtù che da sempre ha sollevato l’uomo, il senso della giustizia. Quando la giustizia è assente, a volte, gli uomini sono presi da una sete inestinguibile e lottano per essa, a costo della loro vita. Nel corso della storia, diversi movimenti filosofici e sociali hanno preso la causa della giustizia.
Oggi e nei nostri paesi, le donne e gli uomini che bruciano per Dame Themis, si dicono spesso di essere di sinistra. Hanno fatto della difesa dei deboli contro i potenti la loro lotta, a volte, il loro scopo. Rifiutano categoricamente la legge della giungla. Scrutando la storia, questi amanti della giustizia si pongono quasi per riflesso dalla parte degli Spartani contro le truppe del re persiano Serse, dalla parte dei Galli e dei Daci contro le legioni romane, dalla parte degli Aztechi o degli Incas contro i conquistadores di Pizarro o Cortes, o dalla parte dei Cheyenne contro la Cavalleria USA del colonnello Chivington o del Generale Custer [3].
Il giusto non si lascia ingannare. Sa che è in nome delle nobili cause come civiltà, modernità o diritti umani, che il colonizzatore ha ridotto i “barbari” in stato di schiavitù e distrutto quasi 80 milioni di indiani americani.

 


Sa anche che difendendo il diritto alla vita degli amerindi, ad esempio, indirettamente avvalla società che erano impegnate in conflitti fratricidi e in guerre di annessione, che praticavano sacrifici umani o lo scalpo. Il Giusto è consapevole che se si opponeva alla guerra in Iraq, riconosceva implicitamente la sovranità nazionale dell’Iraq e, quindi, la continuazione del potere di Saddam Hussein. Questo paradosso non ha impedito la giusta indignazione del trattamento da parte del regime iracheno baathista o dalla Jamahiriya libica, dei loro avversari. Ha giustamente denunciato l’abuso di potere e alcuni privilegi del sistema Gheddafi, a cominciare dalla Guida stessa, dalla sua famiglia e dal suo clan, torture e esecuzioni sommarie perpetrate dai servizi di sicurezza libici, le operazioni di seduzione che il regime aveva lanciato verso le potenze imperialiste corrompendone i capi di Stato.
Ma quando i dissidenti libici si sono compromessi coi peggiori nemici del genere umano, quando divennero dei volgari agenti dell’Impero e si sono a loro volta impegnati in tali atti barbarici contro i lealisti, le loro famiglie, i libici neri e i migranti sub-sahariani, i nostri giusti non hanno fatto marcia  indietro. Non hanno denunciato l’impostura. Avrebbero potuto dire “piuttosto che  fare la guerra in Libia, salviamo il Corno d’Africa sacrificato dai mercati finanziari“.

 


Distruggendo il paese più prospero e più solidale dell’Africa, mentre il Corno d’Africa muore di fame e di siccità, l’Impero ci ha dato un’opportunità unica per schiaffeggiarlo. Ma invece di richiamare la realtà crudele ma anche intelligibile e concreta di un semplice slogan di lotta, il nostro giusto si sono rifugiati nel silenzio, accontentandosi di rivangare gli stessi vecchi luoghi comuni sul regime libico, per sentirsi bene e giustificare la loro codardia.
Eppure il giusto non sta mai zitto con gli stolti, come non ulula mai con i lupi. Non accosta mai indietro il piccolo e il grande tiranno. Non che lui apprezzi il piccolo tiranno, ma sente che in un mondo in cui il Leviatano atlantista è caratterizzato da avidità, violenza e criminosità senza pari, sia indegno di unire le forze con esso per schiacciare il piccolo tirano, in questo caso Gheddafi.

 


Se la resistenza anti-regime, che ha avuto inizio in Cirenaica, roccaforte dei monarchici, dei salafiti e di altri funzionari filo-occidentali, avesse rilevato un qualche slogan anti-imperialista, se fosse un poco patriottico, progressista, onesto, coerente e organizzato, allora la questione del sostegno non si sarebbe postam perché con un tale programma e un tale profilo, non riuscendo a corromperla, la NATO avrebbe almeno cercato di sostenere l’altra parte, cioè quella di Gheddafi.

 


Ma dall’inizio della rivolta, era ovvio che la presenza al suo interno di alcuni intellettuali e cyber-dissidenti vuoti, ricevessero un eccezionale sostegno multimediale (anche se, ovviamente, non rappresentavano che se stessi e i loro protettori occidentali), non ne facevano un movimento democratico e rivoluzionario.

 


Pertanto, in Libia, il Giusto doveva difendere Gheddafi, nonostante Gheddafi. Doveva difenderlo non per simpatia per la sua ideologia o le sue pratiche, ma per realismo. Perché, nonostante alcuni aspetti discutibili delle sue manovre diplomatiche e del suo governo, in Libia, in Africa e nel Terzo Mondo, Gheddafi rappresentava con i suoi investimenti economici, programmi sociali, il suo sistema secolare, il tentativo (anche se senza successo) di creare una democrazia diretta garantita dalla Carta verde del 1988, la sua politica monetaria che sfidava la dittatura del franco CFA e, infine, le sue forze armate, l’unica alternativa reale e pratica al dominio coloniale, in assenza di qualcosa di meglio in una regione dominata da correnti oscurantiste e servili.

 

La stupidità del “né-né”

 


Né la NATO né Slobodan. Né Saddam né gli USA. Né gli Stati Uniti né i taliban. In ogni guerra, ci servono la stessa ricetta. Di fronte a un predatore che l’umanità non ha mai sperimentato prima, che ora controlla terra, mare e cielo, un nemico senza legge che ha giurato di mettere l’umanità in ginocchio e di far dominare il secolo americano, il loro motto è un vibrante “né-né”. Mentre il vaso di ferro ha polverizzato il vaso di coccio, ciò che trovano da dire è semplicemente un “né-né”. Questa posizione di apparente innocenza, serve solo a scoraggiare e a smobilitare le forze della democrazia e della pace. Offre quindi un assegno in bianco alle forze che dirigono le operazioni di conquista della Libia.
Tra i “né-né” alcuni intellettuali che si pretendono trotskisti come Gilbert Achcar, che ha tristemente applaudito la guerra di conquista della NATO. [4]

 


Altri, come il Nuovo Partito Anticapitalista (NPA), hanno adottato un atteggiamento schizofrenico, che va dalla critica “formale” della NATO (quando comunque non passano che per dei pro-imperialisti, in ogni caso) e l’approvazione delle sue missioni per eliminare Gheddafi. [5]

 


Altri attivisti vicini allo stesso movimento [6], sono giunti a chiedere di lanciare armamenti ai mercenari jihadisti al soldo della NATO, quegli stessi fanatici che vogliono combattere il nazionalismo di Gheddafi considerato una minaccia al loro progetto pan-islamico, bruciando il suo Libro Verde, tacciato di essere una “opera perversa”, “comunista e atea“, volta a “sostituire il Corano“.

 


Secondo alcuni membri di una IV Internazionale tanto ipotetica quanto inoffensiva, il CNT sarebbe malgrado tutto ancora una “forza rivoluzionaria”. Poco importa se il CNT è composto da ex torturatori di Gheddafi, da mafiosi e  islamisti sgozzatori di “miscredenti laici”, poco importa che il CNT sia nostalgico del fascismo e del colonialismo italiano [7] e che desideri consegnare la Libia all’Impero su un piatto d’argento, se il CNT è finanziato e armato dalla CIA, dai commandos britannici delle SAS, dai regni del Qatar e dell’Arabia Saudita e anche dal presidente sudanese Omar al-Bashir, perseguito dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità, indipendentemente dal fatto che la NATO abbia commesso crimini contro la popolazione civile della Jamahiriya, i nostri amici trotzkisti hanno deciso: il CNT è l’avanguardia rivoluzionaria…

 


Nostalgici della guerra civile spagnola come sempre, alcuni di loro mi hanno detto che bisognava offrire ai ribelli libici delle nuove brigate internazionali. Senza dubbio erano contenti quando il bullo dei salotti, il grande amatore delle tirate anti-franchiste, il rinomato BHL li ha dato ascolto. Brandendo la clava della libertà che riflette la sua sacra immagine e con la bandiera fregiata con l’invincibile rosa dei venti, il Durruti miliardario ha sbaragliato le truppe di Gheddafi battendosi il suo petto glabro. Entrò a Tripoli senza fretta alla testa della sua Brigata Internazionale, a cavallo di un missile Tomahawk …

 


Non è forse alquanto ridicolo, per dei sinistri che non hanno mai toccato una pistola nella loro vita e che sputano su tutti i guerriglieri marxisti del mondo, perché sono stalinisti, fare campagna per la consegna di armi prodotti dalla fabbrica bellica belga FN di Herstal, destinate ai mercenari indigeni al soldo della nostra élite?

 


Compagni trotzkisti, diteci allora quante armi avete inviato ai “vostri” liberatori? Quanti brigatisti avete inviato sul campo di battaglia? Quanti corrieri avete reclutato? Onestamente, tra gli ausiliari barbuti della NATO e i soldati dell’esercito di Gheddafi arruolati sotto la bandiera del panafricanismo, chi assomiglia di più alle Brigate Internazionali? Come una tale cecità, un tale decadimento ideologico e morale si sono potuti verificare tra le forze che si pretendono radicali e progressiste?

 


Dopo averci scioccato e, a volte disgustato, per le sue scappatelle, il suo orgoglio e la sua eccentricità, Muammar Gheddafi, al termine della sua vita, ha almeno avuto il merito di riconnettersi con il suo passato rivoluzionario. Al momento più critico della sua vita, ha resistito alla NATO. E’ rimasto nel suo paese, sapendo che l’esito della battaglia sarebbe stato fatale. Ha visto i suoi figli e i suoi nipoti essere massacrati, e tuttavia non ha tradito le sue convinzioni e il suo popolo.

 


Possiamo sperare che un giorno un terzo del quarto del coraggio, dell’umiltà e della sincerità di Gheddafi, sia nei nostri compagni della sinistra europea, nella loro lotta contro il comune nemico del genere umano?

 

Note
[1] Su ammissione del generale Hamad bin Ali al-Attiya, Capo di Stato Maggiore del Qatar. Fonte: Libération, 26 ottobre 2011
[2] Ribelli “libici” che parlavano dialetti provenienti da diversi paesi arabi, sono stati regolarmente mostrati sui canali satellitari arabi.
[3] In tutti questi casi, tribù in lotta con i loro fratelli nemici hanno chiamato o si sono alleati con gli invasori. L’alleanza CNT-NATO è l’episodio finale della lunga storia di guerre di conquista supportate dai popoli indigeni.
[4] Intervista a Gilbert Achcar di Tom Mills sul sito britannico New Left Project, 26 agosto 2011. Versione in francese dell’intervista disponibile su Alencontre.org
[5] Comunicato della NPA del 21 agosto e 21 ottobre 2011.

[6] Lega Internazionale dei Lavoratori – Quarta Internazionale (VI Internazionale), Partito Operaio argentino…
[7] L’8 ottobre 2011, il Presidente del Consiglio nazionale di transizione (CNT) libico, Mustafa Abdel Jalil ha celebrato il centenario della colonizzazione italiana della Libia assieme al ministro della difesa italiano Ignazio La Russia, del Movimento sociale italiano (MSI), un partito neofascista. Questo periodo di deportazioni, esecuzioni e saccheggi per Abdel Jalil era l’”era dello sviluppo“. Fonte: Manlio Dinucci, Il Manifesto, 11 ottobre 2011

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora


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samedi, 24 décembre 2011

BERNARD LUGAN CENSURE SUR I-TELE !

BERNARD LUGAN CENSURE SUR I-TELE !

9782729870836.jpgAprès un véritable psychodrame, la direction d’I-Télé a censuré un entretien que Robert Ménard avait enregistré avec l’africaniste Bernard Lugan dans le cadre de son émission quotidienne « Ménard sans interdit ». Bernard Lugan avait été invité pour présenter son essai « Décolonisez l’Afrique » qui vient de paraître chez Ellipses.
 
Cette décision relève de la censure et de l’atteinte à la liberté d’expression dont se réclament pourtant les journalistes. Une telle mesure montre que ceux qui se permettent de donner des leçons de démocratie, de tolérance et de « droits de l’homme » au monde entier ne supportent pas le parler vrai.
 
Quelle était donc la teneur des propos « scandaleux » tenus par Bernard Lugan ? Robert Ménard, avait posé à ce dernier quatre grandes questions :
 
1) Dans votre livre vous écrivez que les Africains ne sont pas des « Européens pauvres à la peau noire » ; selon vous, c’est pourquoi toutes les tentatives de développement ont échoué en Afrique ?
 
Le refus de reconnaître les différences entre les hommes fait que nous avons imposé à l’Afrique des modèles qui ne lui sont pas adaptés. Nous l’avons fait avec arrogance, comme des jardiniers fous voulant greffer des prunes sur un palmier et noyant ensuite le porte-greffe sous les engrais. C’est ainsi que depuis 1960, 1000 milliards de dollars d’aides ont été déversés sur l’Afrique, en vain. De plus, nous avons voulu européaniser les Africains, ce qui est un génocide culturel. De quel droit pouvons-nous en effet ordonner à ces derniers de cesser d’être ce qu’ils sont pour les sommer d’adopter nos impératifs moraux et comportementaux ? L’ethno-différentialiste que je suis refuse cette approche relevant du plus insupportable suprématisme. Contre Léon Blum qui déclarait qu’il était du devoir des « races supérieures » d’imposer la civilisation aux autres races, je dis avec Lyautey qu’il s’agit de pure folie car les Africains ne sont pas inférieurs puisqu’ils sont « autres ».
 
2) Dans votre livre vous proposez de supprimer l’aide.
 
Oui, car l’aide, en plus d’être inutile, infantilise l’Afrique en lui interdisant de se prendre en main, de se responsabiliser. Dans la décennie 1950-1960, les Africains mangeaient à leur faim et connaissaient la paix tandis que l’Asie subissait de terribles conflits et d’affreuses famines. Un demi siècle plus tard, sans avoir été aidées, la Chine et l’Inde sont devenues des « dragons » parce qu’elles ont décidé de ne compter que sur leurs propres forces, en un mot, de se prendre en charge. Au même moment, le couple sado-masochiste composé de la repentance européenne et de la victimisation africaine a enfanté d’une Afrique immobile attribuant tous ses maux à la colonisation.
 
3) Vous dénoncez l’ingérence humanitaire que vous définissez comme un hypocrite impérialisme et une forme moderne de la « guerre juste », mais n’était-il pas nécessaire d’intervenir en Libye pour y sauver les populations ?
 
Parlons-en. Nous sommes en principe intervenus pour « sauver » les populations civiles de Benghazi d’un massacre « annoncé ». En réalité, nous avons volé au secours de fondamentalistes islamistes, frères de ceux que nous combattons en Afghanistan. Cherchez la logique ! Violant le mandat de l’ONU et nous immisçant dans une guerre civile qui ne nous concernait pas, nous nous sommes ensuite lancés dans une entreprise de renversement du régime libyen, puis dans une véritable chasse à l’homme contre ses dirigeants. Or, le point de départ de notre intervention reposait sur un montage et nous le savons maintenant. Que pouvaient en effet faire quelques chars rouillés contre des combattants retranchés dans la ville de Benghazi ? On nous a déjà « fait le coup » avec les cadavres de Timisoara en Roumanie, avec les « couveuses » du Koweït ou encore avec les « armes de destruction massive » en Irak. A chaque fois, la presse est tombée dans le panneau, par complicité, par bêtise ou par suivisme.
 
Mais allons plus loin et oublions un moment les incontournables et fumeux « droits de l’homme » pour enfin songer à nos intérêts nationaux et européens, ce qui devrait tout de même être la démarche primordiale de nos gouvernants. Nos intérêts étaient-ils donc menacés en Libye pour que nos dirigeants aient pris la décision d’y intervenir ? Etaient-ils dans le maintien au pouvoir d’un satrape certes peu recommandable mais qui, du moins, contrôlait pour notre plus grand profit 1900 kilomètres de littoral faisant face au ventre mou de l’Europe ? Nos intérêts étaient-ils au contraire dans la déstabilisation de la Libye puis son partage en autant de territoires tribaux livrés aux milices islamistes ? Sans parler des conséquences de notre calamiteux interventionnisme dans toute la zone sahélienne où, désormais, nos intérêts vitaux sont effectivement menacés, notamment au Niger, pays qui fournit l’essentiel de l’uranium sans lequel nos centrales nucléaires ne peuvent fonctionner…
 
4) Votre conception du monde n’a-t-elle pas une influence sur vos analyses et prises de positions ?
 
J’ai une conception aristocratique de la vie, je dis aristocratique et non élitiste, la différence est de taille, et alors ? Depuis 1972, soit tout de même 40 ans, je parcours toutes les Afriques, et cela du nord au sud et de l’est à l’ouest, ce qui me donne une expérience de terrain unique dans le monde africaniste ; c’est d’ailleurs pourquoi mes analyses ont du poids. Dès le mois de décembre 2010, dans ma revue, l’Afrique Réelle, j’ai annoncé ce qui allait se passer en Egypte trois mois plus tard. De même, dès le début, j’ai expliqué que le « printemps arabe » n’était qu’un mirage, un miroir aux alouettes autour duquel tournaient les butors de la sous-culture journalistique cependant que, méthodiquement et dans l’ombre, les Frères musulmans préparaient la construction du califat supranational qui est leur but ultime.
 
Voilà les propos que les téléspectateurs d’I-Télé n’ont pas eu le droit d’entendre.
 
Comment riposter à cette censure ?
 
1) En rejoignant les centaines de milliers d’internautes qui ont visité le blog officiel de Bernard Lugan : cliquez là
2) En s’abonnant à la revue mensuelle par PDF L’Afrique Réelle, la seule publication africaniste libre.
3) En achetant « Décolonisez l’Afrique » (Ellipses, novembre 2011).
4) En faisant savoir autour de vous que dans la « Patrie des droits de l’homme », un directeur de chaîne de télévision peut impunément censurer un universitaire auteur de plusieurs dizaines de livres consacrés à l’Afrique, conférencier international et expert de l’ONU.

vendredi, 23 décembre 2011

L'Afrique réelle n°24

Ex:
 
 
L'Afrique Réelle n°24
Décembre 2011

SOMMAIRE :
 
Actualité :
- L'année 2011 en Afrique
- Egypte : la grande misère des Coptes

Dossier : 
Les tragiques conséquences de la départementalisation de Mayotte

Repentance :
Le procès de Tintin au Congo

Opinion :
L'immigration choisie cette détestable forme moderne de la Traite des Africains
 
EDITORIAL :
 
Derrière la victoire des islamistes en Tunisie, en Libye et en Egypte, se cache une réalité ignorée de la plupart des observateurs qui en sont encore à opposer islam « radical » et islam « modéré », ne voyant pas que depuis le XXe siècle, deux grands courants parcourent le monde arabo-musulman sunnite[1] :
 
1) Synthèse du socialisme et du panarabisme, le « nassero-baassisme » a un temps prôné l’union du monde arabe avant de se fragmenter en plusieurs nationalismes sous l’influence de leaders charismatiques comme Gamal Abd-el Nasser en Egypte, Saddam Hussein en Irak ou même d’une certaine manière Hafez el-Hassad en Syrie. Alors que la realpolitik commandait aux Occidentaux de s’appuyer sur ces Etats, ils les ont au contraire combattus et l’échec du « nassero-baassisme » dont ils sont largement responsables, a créé un vide désormais comblé par l’islamisme politique.
 
2) L’islamisme politique a la même aspiration supranationale que le « nasserobaassisme », mais pour lui, c’est la religion islamique et non la langue arabe qui doit être l’élément fédérateur.
 
Durant des années, les Occidentaux se sont comportés à la manière des alouettes devant un miroir : attirés par la nébuleuse Al-Qaïda, ils sont partis à sa recherche en Irak et en Afghanistan, laissant ainsi le terrain libre à cet islamisme politique que BHL qualifie de « modéré ». Or, ce courant a pour objectif, non pas de faire sauter des bombes en Europe, mais de prendre appui sur la population immigrée musulmane pour y imposer son contre-pouvoir. En France, cela est déjà clairement le cas dans plusieurs émirats de la périphérie de villes comme Paris, Marseille ou Lyon, où les populations vivent de fait selon la loi islamique et où il ne reste plus à l’islamisme politique qu’à faire élire des municipalités - ce qui ne saurait tarder - afin de légitimer démocratiquement sa conquête territoriale.
 
Le moteur de cette gigantesque subversion qui se déroule sous nos yeux et que la bienpensance interdit de voir est l’Organisation des Frères musulmans, mouvement né en 1928 en Egypte et qui a reçu deux grandes idées de ses deux principaux fondateurs, Hassan Al-Banna et Sayyed Qutb.
 
1) Pour Hassan Al-Banna le panarabisme était une vision politique ethnoréductrice car tous les musulmans ne sont pas des Arabes. En revanche, l’arabe est bien la langue liturgique commune à tous les musulmans. Cette vision non raciale fait de l’organisation un modèle universel pour tous les croyants.
 
2) Pour Sayyed Qutb exécuté par Nasser en 1965, le monde était divisé en deux, d’une part le dar el-Islam et d’autre part le monde de l’ignorance (de Dieu) ou jahaliyya.
Le but des Frères musulmans est l’instauration d’un Etat islamique mondial, mais le réalisme commandant de procéder par étapes, la priorité est de renverser les régimes arabes nationalistes ou bien alliés de la jahaliyya ; si possible d’ailleurs avec l'aide de cette dernière, comme cela vient d’être réalisé en Tunisie, en Egypte, en Libye et demain en Syrie. Plus tard, une fois l’unification du dar el-Islam réalisée, la guerre sera menée contre la jahaliyya afin d’établir l’Etat islamique universel. Mais avant de passer à cette étape finale, il est nécessaire de la désarmer mentalement et de la rassurer en lui tenant les discours lénifiants qu’elle attend et dont sa lâcheté, autant que son masochisme, se satisferont avec à la fois soulagement et gourmandise.
 
Les cocus d’Occident qui rêvaient de démocratie en se pâmant devant le « printemps arabe » ont donc offert le pouvoir à leurs pires ennemis. Il est minuit moins cinq, docteur Schweitzer…
 
Bernard Lugan
 
[1] Pour ce qui concerne les chiites, la clé de compréhension est différent

00:05 Publié dans Revue | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : revue, afrique, affaires africaines, bernard lugan | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

dimanche, 04 décembre 2011

Réflexions sur la "victoire politique" des islamistes marocains

Bernard LUGAN:

Réflexions sur la "victoire politique" des islamistes marocains

Ex: http://fr.novopress.info/

Contrairement à ce qui est affirmé par les médias, c’est une victoire relative que viennent de remporter les islamistes marocains alors même qu’ils menèrent une très forte campagne de mobilisation et annonçaient un raz de marée électoral. Leur victoire apparente n’est due en effet qu’à une nouvelle disposition constitutionnelle faisant obligation au roi de nommer un Premier ministre issu du parti arrivé en tête lors des élections législatives. Sans cela, ils auraient été mathématiquement écartés du pouvoir.

Que l’on en juge :
Le parti islamiste PJD (Parti de la Justice et du développement) qui affirme à la fois sa « modération » et son attachement à la monarchie, a réuni 30 % des votants, soit 15% des inscrits, et obtenu 107 sièges sur 395 dans la nouvelle assemblée. Il est donc clairement minoritaire, à la fois dans l’absolu mais également face aux deux grandes coalitions sortantes. En renversant la perspective nous constatons en effet que 70% des votants ne lui ont pas accordé leurs suffrages et qu’au parlement, 288 députés appartiennent à des formations autres que la sienne.

Le parti arrivé en seconde position est l’Istiqlal, parti nationaliste historique ancré comme le PJD sur le terreau islamique et qui remporte 60 sièges au Parlement. En troisième et quatrième position, nous trouvons deux partis liés au Palais, à savoir le RNI (Rassemblement national des Indépendants) qui obtient 52 sièges et le PAM (Parti Authenticité et Modernité) 42 sièges, soit à eux deux quasiment autant que le PJD. En cinquième place, l’USFP (Union socialiste des Forces Populaires) poursuit son délitement avec 39 sièges, puis, arrivent le MP (Mouvement Populaire), parti berbériste monarchiste avec 32 sièges, l’Union Constitutionnelle avec 23 sièges et le PPS (Parti du progrès et du Socialisme) avec 18 sièges. Dix autres partis totalisent les sièges restants.

Les responsables du PJD ont déclaré qu’ils étaient prêts à former un gouvernement de coalition, ce que, avec sa légèreté coutumière, la presse française a salué comme une preuve de maturité politique. Or, cette « conscience démocratique » doit, elle aussi, être relativisée car le PJD n’a pas d’autre choix que de nouer des alliances. Il est même acculé à trouver des alliés puisqu’il lui manque au moins 90 sièges pour disposer d’une majorité de gouvernement.

Quelques réflexions et questions :
- On ne peut comparer le référendum du 1° juillet 2011 sur la Constitution qui a rassemblé 72% des inscrits et les dernières élections législatives, avec un taux de participation de 45,4%. Le premier fut en réalité un référendum sur la Monarchie au moment où, monté en épingle par la presse internationale, un mouvement révolutionnaire agitait la rue, demandant sa mise sous tutelle ou même sa disparition. Or, 99 % des Marocains, ont voté en faveur d’une monarchie certes modernisée, mais d’abord traditionnelle avec un roi qui continue à régner, même s’il ne dirige plus seul. Si le présent scrutin législatif n’a réuni qu’un peu plus de 45 % des citoyens inscrits sur les listes électorales – pour mémoire celui de 2002 n’en avait attiré que 37 % -, la raison de cette faible participation n’est pas à rechercher dans un désaveu du souverain, mais dans celui de la classe politique et de partis totalement discrédités.
- Le roi Mohammed VI va laisser les partis jouer le jeu constitutionnel après avoir nommé un membre du PJD comme Premier ministre. Puis, deux cas de figure se présenteront :
Une majorité de gouvernement sera constituée avec pour conséquence la dissolution des revendications du PJD qui n’aura pas la force politique lui permettant d’imposer un retour en arrière au sujet des grandes réformes entreprises par le souverain au début de son règne, notamment le code de la famille.
Un blocage du système avec anarchie parlementaire et impossibilité de constituer une véritable et stable majorité de gouvernement, ce qui contraindrait alors le roi à intervenir pour mettre fin à la crise. Ne perdons pas de vue, et le règne d’Hassan II l’a montré, que chaque tentative d’instauration d’une démocratie véritable au Maroc a, par le passé, débouché sur des évènements gravissimes obligeant le souverain à reprendre directement le contrôle des affaires [1].
- Autre question : le PJD a-t-il atteint son étiage ou bien ce scrutin n’est-il qu’une étape dans une lente et inexorable progression ? Ne va-t-il pas profiter du discrédit qui va encore davantage entourer des partis politiques s’entre-déchirant pour le pouvoir et ses avantages ? Ne risque t-il pas au contraire d’être emporté dans le tourbillon des intrigues parlementaires qui s’annoncent et dans ce cas, laisser filer ses électeurs déçus vers ces radicaux extra parlementaires qui contestent à la fois la monarchie et la notion de Commandeur des Croyants ?

[1] Voir à ce sujet les pages 327 à 332 de mon livre intitulé Histoire du Maroc, Ellipses, 2011.