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lundi, 12 septembre 2011

La distruzione della Libia, una crescente minaccia per la Russia

La distruzione della Libia, una crescente minaccia per la Russia

Guennadi Ziouganov

Ex: http://gazeta-pravda.ru/content/view/8768/34/

Pravda, 1 Settembre 2011

 

Secondo i media, le forze che cercano di rovesciare il governo della Libia hanno occupato la capitale, Tripoli, e diverse altre città. Ovunque siano commettono omicidi di massa e saccheggi. E’ stato anche saccheggiato l’eccezionale museo nazionale di Tripoli.

 

Tutto questo parla da se del tipo di persone coinvolte nella lotta contro il governo legittimo. E’ ben noto che l’”opposizione” che si sarebbe ribellata contro la “tirannia” di Gheddafi, sta ricevendo armi dall’estero. Ma ancora, non avrebbero potuto affrontare le truppe del governo libico, senza il sostegno massiccio dell’aviazione della NATO, che ha distrutto i centri di comando, depositi di munizioni e armi e le linee di comunicazione. I “ribelli” appaiono solo dopo che la tempesta di fuoco della NATO ha distrutto ogni cosa sul suo cammino.

 

Questo è certamente un intervento militare, accuratamente nascosto dietro lo schermo trasparente dei “ribelli”. In Libia, si sta perfezionando una nuova tattica per rovesciare i governi indesiderabili all’Occidente, con ampio uso di eserciti privati e di mercenari come ausiliari alla NATO. Tutto questa orgia si svolge sotto la copertura della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e con l’attuazione del “no-fly zone”, il cui presunto obiettivo era proteggere la popolazione civile della Libia dai bombardamenti. In pratica, gli aerei della NATO ha lanciato attacchi con missili e bombe, non solo contro le posizioni dell’esercito libico, anche contro le strutture civili nelle città. Di conseguenza, essi hanno ucciso migliaia di civili, tra cui anziani e bambini. Fatti come questi sono, secondo il diritto internazionale, un crimine contro l’umanità. Ma la lingua dei Gesuiti della NATO, le vite distrutte vengono chiamate “danni collaterali”.

 

La Libia è l’ultima vittima dell’intervento globale della NATO, che è diventato possibile dopo la distruzione dell’Unione Sovietica. Proprio in questo momento, con la scomparsa di una forza capace di affrontare l’avventurismo dell’oligarchia mondiale, apparve al nostro attuale “partner” la sensazione dell’impunità. Imposta dall’esterno, ebbe inizio la guerra civile in Jugoslavia, che si è conclusa dopo 78 giorni di bombardamenti di città e cittadine indifese.

 

Poi gli Stati Uniti ed i suoi alleati hanno invaso l’Iraq, impigliandosi nel filo spinato di quel paese. Poi seguì l’Afghanistan, convertito dalle truppe di occupazione in un ritrovo per la produzione di droga. Nel frattempo, le agenzie d’intelligence dell’Alleanza avviarono le rivolte “arancione” in Georgia, Ucraina e Moldavia. Passando anni a cercare di rovesciare il Presidente bielorusso Lukashenko.

 

La Siria è prossimo della lista, sottoposta ad attacchi di insorti armati dall’esterno. Assistiamo alla guerra di informazione contro il governo siriano. Prova eloquente dei preparativi per l’intervento della NATO.

 

Oggi il mondo affronta un nuovo colonialismo, nella sua variante più disgustosa e cinica, proprio come lo era due secoli fa. L’ex potenze coloniali, USA, Regno Unito e Francia ancora rivendicano il diritto di decidere del destino di qualsiasi stato sovrano. Durante questa operazione “umanitaria” hanno calpestato la Carta delle Nazioni Unite e le norme del diritto internazionale. Come risultato, la Libia è stata sommersa nel caos, e potrebbe eventualmente svilupparsi successivamente nello scenario somalo: la divisione in innumerevoli tribù e clan che si combattono tra loro. La Russia è anch’essa responsabile della tragedia in Libia, dal momento che il governo ha dato il via libera alla risoluzione anti-Libia delle Nazioni Unite, non usando il suo potere di veto e, quindi, unendosi alle sanzioni contro la Libia. Questo ha significato non solo che abbiamo perso 20 miliardi di dollari di potenziali benefici dal commercio e della cooperazione economica con questo ricco paese africano, ma abbiamo anche perso uno degli stati amici che avevamo nella regione strategicamente importante del Mediterraneo.

 

Se non finisce questa orgia del neo-colonialismo, la Russia con i suoi sconfinati territori e le sue enormi riserve di materie prime, diventerà uno degli obiettivi futuri dell’esportazione atlantista della “democrazia”. Indebolito da due decenni di cosciente deindustrializzazione e decadenza, con un esercito demoralizzato e distrutto, il nostro Paese inevitabilmente diventerà un bersaglio per l’intervento.

 

Il PCRF condanna la pirateria mondiale dell’oligarchia coloniale ed esorta il governo della Federazione Russa a prendere coscienza delle conseguenze più pericolose che comporta la collusione con gli aggressori.

 

Solo un governo forte e patriottico, in grado di rilanciare l’industria, l’agricoltura, l’istruzione, la scienza e la cultura, il nostro passato di potenza e il ritorno delle nostre Forze Armate, può salvare la Russia dal ripetersi dello scenario libico delle rivoluzioni “colorate”.

 

Link: [1] http://josafatscomin.blogspot.com/2011/09/destruccion-de-libia-crecela-amenaza.html [2] http://gazeta-pravda.ru/content/view/8768/34/ http://tortillaconsal.com/tortilla/print/9378

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru http://www.bollettinoaurora.da.ru http://aurorasito.wordpress.com

samedi, 10 septembre 2011

Wer wird das libysche Erdöl kontrollieren?

Wer wird das libysche Erdöl kontrollieren?

Auf einem Treffen französischer Diplomaten aus aller Welt am Mittwoch, dem 31. August, lobte der französische Staatspräsident Nicolas Sarkozy die Unterstützung der libyschen Rebellen durch das NATO-Bündnis als »unverzichtbares Instrument« und wichtigstes Ergebnis des Kriegs, auch wenn sich Washington entschieden habe, in den Hintergrund zu treten. »Zum ersten Mal stellte die NATO ihre Dienste einer Koalition zur Verfügung, die aus zwei entschlossenen europäischen Ländern bestand – Frankreich und Großbritannien«, bemerkte er in einem Tonfall, der seinen Stolz darüber, Frankreich mit der Entscheidung, sich dem militärischen Vorgehen der NATO in Libyen, die auf den Sturz Muammar al-Gaddafis abzielte, anzuschließen, wieder zu seiner früheren imperialen Größe zurückzuführen, nicht verhehlen konnte.

 

 

Die Prahlerei des französischen Präsidenten Sarkozy über einen erfolgreichen europäischen Krieg ist nur zum Teil berechtigt. Auch wenn Amerika die Führung an England und Frankreich abgetreten hatte, wäre keines dieser Länder ohne amerikanische Aufklärungssatelliten, Spionageflugzeuge und US-Nachschub in der Lage gewesen, Tripolis zu erobern, und Gaddafi hielte sich immer noch in Bab al-Aziziya versteckt.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/redaktion/wer-wird-das-libysche-erdoel-kontrollieren-.html

 

vendredi, 09 septembre 2011

Warum das Gaddafi-Regime gestürzt wurde

Geheimdienste, Euro-Krise und Libyen: Warum das Gaddafi-Regime wirklich gestürzt wurde

Udo Ulfkotte

Zugegeben, man kann das Wort »Libyen« inzwischen nicht mehr hören. Aber selbst in den Hauptnachrichtensendungen wird inzwischen so viel Unsinn über Libyen verbreitet, dass wir nachfolgend einfach einmal jene Fakten auflisten, die von offiziellen Medien aus Unwissenheit oder absichtlich verschwiegen werden. Die Wahrheit sieht dann etwas anders aus. Und Sie werden schnell merken, wie Sie als Durchschnittsbürger von Politik und Medien an der Nase herumgeführt wurden. Denn ohne die Aktionen in Libyen wären französische Banken zusammengebrochen.

 

 

Tatsache ist: In Ländern wie Bahrain, Saudi-Arabien oder den Vereinigten Arabischen Emiraten ist keine militärische Intervention geplant, um die dortigen Diktatoren zu stürzen. Im Gegenteil: Länder wie Deutschland wollen die Diktatoren dort sogar noch mit deutschem Fachpersonal und mit Waffen unterstützen. Warum also intervenierte man ausgerechnet in Libyen? Kennen Sie die Fakten, dann kennen Sie die Wahrheit.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/europa/udo-ulfkotte/geheimdienste-euro-krise-und-libyen-warum-das-gaddafi-regime-wirklich-gestuerzt-wurde.html

 

Why Gaddafi got a red card

Why Gaddafi got a red card
By Pepe Escobar

Surveying the Libyan wasteland out of a cozy room crammed with wafer-thin LCDs in a Pyongyang palace, the Democratic People's Republic of Korea's Dear Leader, Kim Jong-il, must have been stunned as he contemplated Colonel Muammar Gaddafi's predicament.

"What a fool," the Dear Leader predictably murmurs. No wonder. He knows how The Big G virtually signed his death sentence that day in 2003 when he accepted the suggestion of his irrepressibly nasty offspring - all infatuated with Europe - to dump his weapons of mass destruction program and place the future of the regime in the hands of the North Atlantic Treaty Organization (NATO).

Granted, Saif al-Islam, Mutassim, Khamis and the rest of the
Gaddafi clan still couldn't tell the difference between partying hard in St Tropez and getting bombed by Mirages and Rafales. But Big G, wherever he is, in Sirte, in the central desert or in a silent caravan to Algeria, must be cursing them to eternity.

He thought he was a NATO partner. Now NATO wants to blow his head off. What kind of partnership is this?

MORE: http://atimes.com/atimes/Middle_East/MI01Ak02.html

Libye: pétrole et droits de l'homme

Libye pétrole et droits de l'Homme

Ex: http://www.insolent.fr/

110902 La campagne militaire engagée au printemps contre le régime de Kadhafi étant terminée, pour la mission initialement définie, on peut maintenant parler tout à fait librement de la Libye sans risquer d'attenter au moral de l'armée française.

Je redis en cette occasion que, de mon point de vue, (1)⇓ la capacité de défense et d'action des nations européennes représente, dans ce type de situation, un enjeu beaucoup plus important que toutes les autres considérations.

Les gouvernements de Paris et de Londres s'étaient engagés, pour la première fois depuis 1956, dans un processus de confrontation : il eût été catastrophique que cette opération échouât comme il était advenu de celle de Suez.

Défendre l'armée française partout où elle se bat me semble à la fois un impératif moral et politique qui devrait s'imposer à tous les Français. Et, en même temps il implique de se préoccuper sérieusement des insuffisances de nos capacités militaires que dénoncent les plus hautes instances de l'État-major : on pouvait craindre au printemps que la France et l'Angleterre ne soient pas en mesure d'atteindre leurs objectifs.

On peut remarquer à cet égard, et on doit le souligner, que les forces adverses leur ont tenu la dragée haute plus longtemps que prévu.

Quant aux dépenses qu'a engendrées cette affaire, on les estime pour la république jacobine à hauteur de 200 millions d'euros contre 270 millions de livres sterling, soit 306 millions d'euros du côté britannique, (2)⇓ beaucoup moins que l'effort financier des États-Unis qui revendiquent 27 % des sorties aériennes.

Depuis hier 1er septembre la réunion des 60 pays présentés pour "amis de la Libye" se tient à Paris. Elle met en lumière les vraies préoccupations de la plupart des États participants. L'attitude "chacun pour soi" des gouvernements européens persiste à se présenter de manière de plus en plus inquiétante.

Rappelons qu'une des conditions essentielles du traité négocié à Maastricht en 1991, beaucoup plus importante que les critères monétaires, comportait une identité de défense autour de l'Union de l'Europe occidentale. Et on remarquera que, depuis, celle-ci a disparu.

On soulignera également l'évanescence de la politique extérieure commune sous la responsabilité de Lady Ashton. Reconnaissons-lui au moins ce mérite : elle joue sans défaillir ce rôle de figuration intelligente pour lequel on l'a embauchée.

On savait l'Union européenne plus encline à se préoccuper de consommatique que de géopolitique. On découvre que, désunie, l'Europe réduite à son grouillement de 27 nains, qu'aucune Blanche Neige ne semble envisager de sortir de leurs enfantillages, se révèle encore plus mercantile dans la division.

Des soupçons contradictoires avaient été exprimés au moment de la décision d'intervenir en Libye.

Par charité chrétienne on m'abstiendra de citer ici ceux qui pensaient que l'on faisait la guerre pour complaire à BHL, aussi bien que leurs contradicteurs aux yeux desquels on prenait pour Tobrouk un taxi, conduit par feu Oussama bin Laden.

Car, non seulement les uns et les autres se fourvoyaient eux-mêmes, plus encore qu'ils ne trompaient leurs lecteurs ou leurs auditeurs, mais, se croyant anticonformistes, ils se situaient bien au-dessous de la vérité.

Le roi de la brosse à reluire glapissait sa chronique ce 2 septembre sur RTL consacrée au dossier libyen sans prononcer le mot pétrole. Autant dire qu'il s'agissait de la question essentielle puisqu'Alain Duhamel n'en parlait pas.

Le fameux projet surnommé "Eurabia" se développe en effet depuis bientôt 40 ans dans un contexte de servilité devant la finance pétrolière. On l'a rebaptisé, ces derniers temps, "Union pour la Méditerranée" et on veut à tout prix nous fourguer comme paradigme le modèle turco-démocratique de l'AKP, en oubliant bien sûr que l'habile démagogue Erdogan avait accepté en 2010 de recevoir le "prix Kadhafi des Droits de l'Homme". Dernière survivance du traité de Sèvres, l'Irak petroleum company n'aspire plus qu'à redevenir la Turkish petroleum company.

Ne nous parlez donc plus de guerre pour les droits de l'Homme. Dites en toute franchise que vous cherchez à rassurer les émirs et à défendre les intérêts du CAC 40. Cela deviendra plus crédible et plus tangible.

Mais quels que soient les motifs à court terme de ce genre de confrontations, on doit mettre en garde nos compatriotes quant aux échéances des conflits futurs. Ils surgiront de manière d'autant plus inéluctable que nos moyens de défense ont été rognés, d'année en année, depuis maintenant un demi-siècle.

On fait de la sécurité intérieure un enjeu électoral, et cela ne manque pas de justification.

Qui osera se faire écho, dans la prochaine campagne présidentielle, et au cours de la campagne législative qui suivra, des signaux d'alarme très nets lancés par les chefs militaires ?

JG Malliarakis
        
Apostilles

  1. cf. notre chronique du 21 mars "Les occidentaux face à leurs ennemis" qui nous a valu bien sûr quelques crachats.
  2. f. Le Canard enchaîné du 24 juillet.
  3. cf. "Le prétendu modèle turc".

Vous pouvez entendre l'enregistrement de nos chroniques
sur le site de Lumière 101

mercredi, 07 septembre 2011

Der Westen will die Kontrolle über den Erdölreichtum Libyens an sich reissen

Der Westen will die Kontrolle über den Erdölreichtum Libyens an sich reißen

Prof. Michel Chossudovsky

Die libyschen Revolutionäre haben den Krieg in dem erdölreichen nordafrikanischen Land noch gar nicht gewonnen, da diskutieren die westlichen Mächten bereits etwa darüber, dass die Übergangsregierung in der Ära nach Gaddafi die Erdölverträge erfüllen müsse.

 

Wären die USA und ihre NATO-Verbündeten auch bereit, im Falle interner Streitigkeiten in der libyschen Krise ihre Erdölinteressen mit Bodentruppen durchzuzusetzen?

 

In einem Interview mit Press TV erläutert Michel Chossudovsky, Direktor des Zentrums zur Forschung zur Globalisierung, die derzeitigen Entwicklungen. Im Folgenden lesen Sie eine geringfügig überarbeitete Fassung des Interviews.

 

 

Interview mit dem Direktor des Zentrums für Forschung zur Globalisierung (CRG) Prof. Michel Chossudovsky

 

Die Westmächte haben erklärt, die internationale Gemeinschaft werde den politischen Übergang zu einem freien und demokratischen Libyen unterstützen. Welche Form wird diese »Unterstützung« annehmen? Soll Libyen eine »Demokratie nach westlichem Vorbild« aufgezwungen werden? Was bedeutet das für die libysche Bevölkerung? Die gleiche Sprache und die gleichen Begriffe waren auch zu hören, als sie vor zehn Jahren Afghanistan und vor acht Jahren den Irak angriffen. Die Vereinigten Staaten beharren immer noch darauf, dass ihre Soldaten Immunität vor Strafverfolgung genießen sollten. Womit ist in Libyen zu rechnen?

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/prof-michel-chossudovsky/der-westen-will-die-kontrolle-ueber-den-erdoelreichtum-libyens-an-sich-reissen.html

mardi, 16 août 2011

Opérations de l'OTAN en Libye: accélérateur d'une dislocation géopolitique mondiale?

Opérations militaires de l'OTAN en Libye : accélérateur d'une dislocation géopolitique mondiale ?

Xavier JARDEZ

Ex: http://www.polemia.com/ 

otan-libye.jpgDans son bulletin GEAB N° 51 (Global Europe Anticipation Bulletin – janvier 2011)*, le Laboratoire Européen d'Anticipation Politique (LEAP) – think tank monégasque dirigé par Franck Biancheri - prévoyait que l’année 2011 serait une année difficile pour ceux qui n’étaient pas préparés à la crise systémique globale, c'est-à-dire « une crise que affecte les fondements même du système (tous les secteurs et tous les relais, et non pas un secteur particulier comme c'était le cas avec la bulle Internet par exemple) et une crise qui affecte simultanément toute la planète (et non pas comme en 1929 un espace atlantique Etats-Unis et Europe de l'Ouest encore peu intégré in fine) ». Selon le LEAP, l’intervention anglo-américano-française en Libye en est la parfaite illustration ainsi qu’un puissant soutien à la dislocation géopolitique mondiale.

On demanda à l’opinion publique d’approuver, non de penser

Le vrai contexte du conflit libyen n’a rien à voir avec ce que gouvernements et médias en donnent tant en Grande-Bretagne qu’en France et aux Etats-Unis. Il débute avec la révolution en Tunisie et sa propagation aux autres pays arabes avec des résultats divergents. Dans l’analyse de GEAB 52 (février 2011), la Libye apparaissait dans la catégorie des « pays dont les régimes pouvaient contenir jusqu’à la fin de 2012, en recourant à la violence, les tentatives de changement ». Y figuraient aussi l’Algérie, l’Arabie saoudite, la Syrie contre lesquels, selon le bulletin, ni la Grande-Bretagne, ni la France, ni les Etats-Unis n’oseraient lancer une action militaire « pour défendre les populations » ou « accélérer le changement » pour les raisons suivantes :

  • -une trop grande population
  • -des régimes dont la déstabilisation serait dangereuse pour l’Occident
  • -des implications régionales potentiellement « explosives »
  • -des obstacles logistiques
  • -une certaine opposition de puissances non-occidentales à une résolution onusienne de soutien
  • -un destin militaire incertain
  • -un fort impact sur les prix mondiaux du pétrole et du gaz.

La différence de traitement entre la Libye et ces derniers pays est que les opérations militaires y apparaissaient techniquement, politiquement et militairement possibles à moindre risque contrairement aux pays cités. Kadhafi a été diabolisé dans les médias occidentaux mais a été courtisé, ces dernières années par les leaders occidentaux, notamment Sarkozy lui offrant tous les honneurs, pour lui vendre armes et réacteurs nucléaires. Son pays est vaste mais peu peuplé, croulant sous le pétrole dans une région hostile à la centralisation du pouvoir. Il était donc la cible rêvée si l’on arrivait à donner à cette action militaire une légitimité internationale.

Qui fut la suivante :

« Le peuple libyen est attaqué brutalement par un dictateur méprisable ; les démocraties (une espèce de mini-OTAN) doivent protéger de toute urgence le peuple libyen en révolte (dont personne n’a vu de photos même dans Benghazi, à l’inverse de ce qui s’est passé pour les foules en Egypte, au Yémen à Bahreïn, en Jordanie), de massacres de masse perpétrés par le dictateur libyen (ici encore pas de preuves, pas de photos) ; les révolutionnaires ont de plus formé un gouvernement alternatif dont la légitimité doit être soutenue (sans savoir vraiment qui en faisait partie à l’exception de l’ancien ministre de l’intérieur, Abdel Fattah Younis – certainement un grand démocrate - et quelques exilés de Londres et des Etats-Unis depuis des décennies). »

On demanda donc, spécialement en France, à l’opinion publique d’approuver, non de penser.

Pas de plan B en cas d’échec occidental

Les jours qui suivirent ont très rapidement montré

  • -que le peuple libyen ne s’est pas soulevé ;
  • -que les services secrets français, britanniques et la CIA opéraient en Libye bien avant le « déclenchement » officiel de la rébellion ;
  • -que le soutien à cette coalition de la part des pays arabes ou africains a été quasi inexistant ;
  • -qu’une large portion de l’Occident (Allemagne, Pologne…) a été opposé à cette intervention militaire ;
  • -que Sarkozy, Cameron et Obama n’avaient pas de plan B si le « blitzkrieg » échouait ;
  • -que la situation était source de risques géopolitiques majeurs pour le monde arabe et l’Europe.

(….)

Quels étaient les objectifs des participants à l’intervention militaire ? Pour Obama, pris au piège de l’effondrement du « mur du pétro-dollar » dû à la révolution arabe, et englué dans des problèmes budgétaires, financiers et économiques, à qui il était impossible de s’afficher comme un adversaire direct d’un autre pays musulman après l’Irak et l’Afghanistan, il s’agit de maintenir « le mur » par l’établissement de régimes « amis », de consolider le camp occidental en générant des conflits entre l’Occident et le reste du monde, de vendre des armes et d’engendrer des zones d’instabilité autour de l’Europe pour ralentir toute velléité d’indépendance stratégique de l’Europe. Pour Cameron, soutien fidèle des Etats-Unis, ses buts traditionnels épousent ceux de leur parrain, et s’y ajoute, celui jamais démenti, d’affaiblir la cohésion de l’Europe continentale. Sarkozy, converti aux vertus de l’américanisme, légitimant au nom de la démocratie, tout action servant les intérêts de l’Occident, a abandonné, sur l’autel de l’intervention en Libye, les deux pendants de la politique étrangère des dernières décennies, à savoir, le renforcement de la cohésion européenne autour de la France et de l’Allemagne et l’affaiblissement de l’influence US en Méditerranée. Pour Sarkozy, même les plus fervents soutiens à l’intervention en Libye affirment qu’elle est là à des fins de politique domestique, pour remonter sa popularité. Si rien ne marche en Libye, il deviendra pour Obama, le principal coupable.

Quant aux pays arabes, opposés a priori à l’intervention en Libye, ils s’y sont ralliés car le danger pour eux n’est pas Kadhafi, mais les révolutions populaires arabes et tout ce qui peut les affaiblir est le bienvenu. Ils ont ainsi eu le plaisir de voir l’Occident engager un conflit qui leur évite d’étendre un soutien aux mouvements révolutionnaires qui éclatent chez leurs voisins. Si Israël joue dans ce conflit la carte de la discrétion, il ne fait aucun doute que son influence est primordiale dans le conflit libyen, car il lui permet de miner le mouvement révolutionnaire arabe qui l’inquiète.

Cauchemar géopolitique

C’est ainsi que le conflit libyen accélère le processus de dislocation géopolitique mondial selon certaines lignes :

  • -incapacité des Etats-Unis à assumer le leadership militaire. Depuis 1945, c’est la première fois que la coalition qu’ils ont assemblée réunit si peu de pays. L’Occident étant réduit au strict minimum. Il n’y a ni Asiatiques, ni Africains, ni Latino-Américains. Des Arabes, seul le Qatar est visible.
  • -LEAP pense que le conflit libyen aboutira à l’émergence d’un vrai centre européen de défense et au-delà de la défense, la position de l’Allemagne axée sur la diplomatie prévaudra.
  • -failles dans l’unité de l’OTAN
  • -naissance d’une diplomatie Euro-BRIC avec l’abstention de l’Allemagne au Conseil de Sécurité fidèle à sa ligne d’indépendance vis-à-vis de Washington, initiée par Schröeder
  • -impasse de l’Europe sur la « Somalie méditerranéenne » : piraterie, mafias en tous genres, terrorisme, instabilité régionale… ces conséquences sont loin des promesses de changements démocratiques en Libye prophétisées par la coalition.

L’intervention en Libye peut donner lieu à un cauchemar géopolitique pire que celui de la Yougoslavie, l’Irak et l’Afghanistan réunis. Elle est une aubaine pour ceux qui souhaitent affaiblir les mouvements révolutionnaires dans le monde arabe. En France, concernant cette guerre, la propagande médiatique est telle qu’il est impossible d’accorder la moindre foi aux sondages. Le Laboratoire Européen d'Anticipation Politique (LEAP) remarque d’ailleurs que « la cote de popularité d Nicolas Sarkozy continue de chuter, ce qui est bien incompatible avec les fortes adhésions à sa politique libyenne affirmées par les sondeurs » (1).

LEAP
24/07/2011
Extrait GEAB n°54 (15 avril 2011)
Résumé et synthèse par Xavière Jardez

Polémia invite ses lecteurs à se reporter sur le site http://www.france-irak-actualite.com/ . Ils y trouveront des informations sur la situation actuelle de la Libye au lendemain de l’assassinat du général Younès, chef de l’armée rebelle, et sur les doutes quant à l'avenir, formulés par le président Sarkozy et son ministre des affaires étrangères, sur lesquels les médias français se montrent assez discrets.

*Version intégrale : http://www.leap2020.eu/Operation-militaire-en-Libye-Un-accelerateur-puissant-de-la-dislocation-geopolitique-mondiale_a6826.html

(1) Alors qu’en mars 63% des Français soutenaient - soi-disant - l’intervention française en Libye, le 1er juillet ils n’étaient plus que 30% à y être « plutôt favorable ». Selon une enquête de l’hebdomadaire Le Point, publiée le 20 juillet : 66% des Français ne souhaitent pas la réélection de Nicolas Sarkozy.

Correspondance Polémia – 9/08/2011

 

Xavière Jardez

mercredi, 03 août 2011

Somalie: merci, mais nous avons déjà amplement donné...

Somalia.jpg

Somalie : merci, mais nous avons déjà amplement donné…

 

Communiqué de Bernard Lugan

 

29 juillet 2011

 

 

La Somalie étant encore frappée par une famine, une nouvelle fois les médias déversent des images atroces accompagnées de commentaires dégoulinants de bons sentiments et chargés de reproches culpabilisateurs. Comme si nous, Européens, avions la moindre responsabilité dans ce drame dont les deux principales causes répétitives sont clairement identifiées :

 

- Une guerre tribale que se livrent des clans historiquement rivaux.

- Une surpopulation suicidaire qui a détruit le fragile équilibre écologique régional. Comment pourrait-il d’ailleurs en être autrement avec un taux de natalité brute de plus de 48% et un indice de fécondité par femme atteignant 6,76 enfants ?

 

Au moment où une intense campagne vise à préparer les esprits à une intervention, il est impératif de donner les clés du problème somalien tant il est vrai que seul le retour à l’histoire permet de tempérer les émois humanitaires :

 

1) La Somalie est en guerre depuis 1978. Le problème n’y est pas ethnique mais tribal, le grand ensemble ethnique somali qui occupe une vaste partie de la Corne de l’Afrique est en effet divisé en trois grands groupes (Darod, Irir et Saab), subdivisés en tribus, en clans et en sous clans qui se sont toujours opposés. Hier pour des points d’eau et des vols de chameaux, aujourd’hui pour des trafics plus « modernes ».

 

2) Le 15 octobre 1969, après l’assassinat du président Ali Shermake, le général Siyad Barre prit le pouvoir. C’était un Darod de la tribu Maheran. En 1977, il lança son armée dans l’aventureuse guerre de l’Ogaden. Dans un premier temps, l’armée éthiopienne fut balayée, puis l’offensive somalienne se transforma en déroute. Après cette défaite, les réalités tribales s’imposèrent avec encore plus de force qu’auparavant et le gouvernement ne fut plus désigné que sous l’abréviation MOD, qui signifiait Marehan-Ogadeni-Dhulbahante, à savoir les trois clans associés aux affaires.

 

3) Une terrible guerre tribale opposa ensuite les Darod entre eux. Finalement, la tribu Hawiyé l’emporta sur celle des Maheran et le 27 janvier 1991 le général Siyad Barre fut renversé.

 

4) La Somalie subit alors la loi de deux factions antagonistes du CSU (Congrès  somalien unifié), mouvement tribal des Hawiyé, qui éclata sur un critère clanique opposant le clan agbal d’Ali Mahdi Mohamed au clan Habar Gedir dirigé par le « général » Mohamed Farah Aidid. Dans le nord du pays, le 18 mai 1991, le Somaliland, ancien protectorat britannique, se déclara indépendant.

 

5) La guerre des milices provoqua une atroce famine et l’opinion américaine se mobilisa. En France le docteur Kouchner lança la campagne du « sac de riz pour la Somalie ». Puis, au mois de décembre 1992, un corps expéditionnaire  US débarqua dans une mise en scène théâtrale pour « rendre l’espoir » aux populations somaliennes. L’opération « Restore Hope » avait été déclenchée au nom d’une nouvelle doctrine inventée pour la circonstance, l’ingérence humanitaire, ce colonialisme des bons sentiments. Ce fut un échec cuisant et le 4 mai 1993, l’ONU prit le relais des Etats-Unis en faisant débarquer un corps expéditionnaire de 28.000 hommes. Le 5 juin, 23 Casques Bleus pakistanais furent tués par les miliciens du « général » Aidid et le 12 juin, un commando américain échoua dans une tentative de représailles contre le chef de guerre somalien. Le 3 octobre enfin, 18 soldats américains perdirent la vie dans l’affaire de la « chute du faucon noir ».

 

6) Au mois de mars 1994, à Nairobi, un accord de réconciliation fut signé entre les deux chefs hawiyé, mais il demeura lettre morte. A partir du mois d’août, l’anarchie fut totale, les hommes d’Ali Mahdi contrôlant le nord de Mogadiscio et ceux du « général » Aidid le sud. Le 22 août, 7 Casques Bleus indiens furent tués. Les Américains rembarquèrent alors, abandonnant dans le bourbier somalien le contingent de l’ONU composé de soldats pakistanais et bengalais. Le 28 février 1995, il fallut un nouveau débarquement baptisé opération « Bouclier unifié » pour extraire les malheureux devenus otages. L’ONU quittait  la Somalie sur un cuisant échec politique et militaire qui lui avait coûté 136 morts et 423 blessés.

 

7) Les clans somalis se retrouvèrent  alors entre eux et ils s’affrontèrent de plus belle. Le 1° août 1996, le « général » Aidid, grièvement blessé au combat mourût. Son fils Hussein Aidid lui succéda à la tête de son parti, le CSU/UNS (Congrès somalien unifié/Union nationale somalienne), c’est à dire sa milice tribale composée du noyau dur du sous clan des Saad, lui-même étant une sous division du clan des Habr Gedir de la tribu hawiyé. Dans le sud du pays, les miliciens de Hussein Aidid s’opposèrent aux Rahanwein, ces derniers s’affrontant ensuite en fonction de leur appartenance clanique tandis que dans le nord-est, plusieurs composantes des Darod dirigées par Abdullahi Yussuf Ahmed créaient au mois d’août 1998 une région autonome baptisée  Puntland.

 

8) En 2004, après d’interminables discussions entre les factions claniques, un accord  de partage du pouvoir fut trouvé, mais le Gouvernement Fédéral de Transition, incapable de s’installer en Somalie fut contraint de « gouverner » depuis le Kenya.

 

9) Puis un nouveau mouvement fit son apparition sur la scène somalienne, les Tribunaux islamiques dont les milices, les Shababs (Jeunes) menacèrent de prendre Mogadiscio. Au mois de décembre 2006, pour les en empêcher, l’armée éthiopienne entra en Somalie sans mandat international, mais encouragée par les Etats-Unis.

 

10) Par le vote de la Résolution 1744 en date du 21 février 2007, le Conseil de sécurité de l’ONU autorisa ensuite le déploiement d’une mission de l’Union Africaine, l’AMISOM. L’UA avait prévu qu’elle serait composée de 8000 hommes, or les pays volontaires ne se bousculèrent pas.

 

Depuis, à l’exception du Somaliland et dans une mesure moindre du Puntland, les islamistes contrôlent  la majeure partie du pays. Or, pour eux, la famine est une véritable aubaine car :

- Elle va leur permettre d’être reconnus par la « communauté  internationale » qui devra traiter avec eux pour l’acheminement de l’aide alimentaire.

- Elle va leur permettre d’achever la prise de contrôle du pays.

- Elle va leur permettre de tirer de juteux profits des détournements de cette aide, comme cela avait été le cas lors de la grande famine d’Ethiopie dans les années 1984-1985. 

 

La conclusion de cette mise au point est donc claire : nous n’avons rien à faire dans cette galère. A moins, naturellement, de vouloir verser dans le « tonneau des Danaïdes » somalien une aide qui serait pourtant tellement utile à nos SDF et à toutes ces familles françaises qui ne mangent plus à leur faim.

Enfin, mes pensées vont à cet officier français - et à sa famille -, prisonnier des milices somaliennes depuis deux longues années et dont le sort n’émeut pas particulièrement l’opinion. Mais il est vrai qu’il n’a pas la chance d’appartenir à la corporation journalistique...

 

Pour en savoir plus sur l’actualité africaine libérée du prisme de la pensée unique et du politiquement correct, je ne puis que vous conseiller de vous abonner à la revue l’Afrique Réelle envoyée par PDF le 15 de chaque mois. Pour en savoir plus : 

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Bernard Lugan  

samedi, 23 juillet 2011

Mediterraneo e Asia Centrale: le cerniere dell'Eurasia

Mediterraneo e Asia Centrale: le cerniere dell’Eurasia

Tiberio GRAZIANI

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

 La transizione dal sistema unipolare a quello multipolare genera tensioni in due particolari aree della massa eurasiatica: il Mediterraneo e l’Asia Centrale. Il processo di consolidamento del policentrismo sembra subire una impasse causata dall’atteggiamento “regionalista” assunto dalle potenze eurasiatiche. L’individuazione di un unico grande spazio mediterraneo-centroasiatico, quale funzionale cerniera della massa euroafroasiatica, fornirebbe elementi operativi all’integrazione eurasiatica.

Nel processo di transizione tra il momento unipolare e il nuovo sistema policentrico si osserva che le tensioni geopolitiche si scaricano principalmente su aree a forte valenza strategica. Tra queste, il bacino mediterraneo e l’Asia Centrale, vere e proprie cerniere dell’articolazione euroafroasiatica, hanno assunto, a partire dal primo marzo del 2003, un particolare interesse nell’ambito dell’analisi geopolitica riguardante i rapporti tra gli USA, le maggiori nazioni eurasiatiche e i Paesi del Nord Africa. Quel giorno, si ricorderà, il parlamento della Turchia, vale a dire il parlamento della nazione-ponte per eccellenza tra le repubbliche centroasiatiche e il Mediterraneo, decise di negare l’appoggio richiesto dagli USA per la guerra in Iràq1. Questo fatto, lungi dal costituire solamente un elemento di negoziazione tra Washington e Ankara, come in un primo momento poteva apparire (e certamente lo fu anche, a causa di due elementi contrastanti: la fedeltà turca all’alleato nordamericano e la preoccupazione di Ankara per l’effetto che l’ipotizzata creazione di un Kurdistan, nell’ambito dell’allora probabile progetto d tripartizione dell’Iràq, avrebbe avuto sulla irrisolta “questione curda” ), stabilì tuttavia l’inizio di una inversione di tendenza della cinquantennale politica estera turca2. Da allora, con un crescendo continuo fino ai nostri giorni, la Turchia, tramite soprattutto l’avvicinamento alla Russia (facilitata dalla scarsa propensione dell’Unione Europea ad includere Ankara nel proprio ambito) e la sua nuova politica di buon vicinato, ha cercato di praticare una sorta di smarcamento dalla tutela statunitense, rendendo di fatto scarsamente affidabile un tassello fondamentale per la penetrazione nordamericana nella massa eurasiatica. Oltre gli ostacoli costituiti dall’Iràn e dalla Siria, gli strateghi di Washington e del Pentagono devono oggi tener conto infatti anche della nuova e poco malleabile Turchia.

Il mutamento di condotta della Turchia è avvenuto nel contesto della più generale e complessa trasformazione dello scenario eurasiatico, tra i cui elementi caratterizzanti sono da registrare la riaffermazione della Russia su scala continentale e globale, la potente emersione della Cina e dell’India nell’ambito geoeconomico e finanziario e, per quanto concerne la potenza statunitense, il suo logoramento sul piano militare in Afghanistan e in Iràq.

Quello che, a far data dal crollo del muro di Berlino e dal collasso sovietico, sembrava apparire come l’avanzamento inarrestabile della “Nazione necessaria” verso il centro della massa continentale eurasiatica, seguendo le due seguenti predeterminate direttrici di marcia:

 - una, procedente dall’Europa continentale, volta all’inclusione, a colpi di “rivoluzioni colorate”, nella propria sfera d’influenza dell’ex “estero vicino” sovietico, prontamente ribattezzato la “Nuova Europa”, secondo la definizione di Rumsfeld, e destinata strategicamente, nel tempo, a “premere” contro una Russia ormai allo stremo;

- l’altra, costituita dalla lunga strada che dal Mediterraneo si protrae verso le nuove repubbliche centroasiatiche, volta a tagliare in due la massa euroafroasiatica e a creare un permanente vulnus geopolitico nel cuore dell’Eurasia;

si era arrestato nel volgere di pochi anni nel pantano afgano.

Falliti gli ultimi tentativi di “rivoluzioni colorate” e sommovimenti telediretti da Washington nel Caucaso e nelle Repubbliche centroasiatiche, rispettivamente a causa della fermezza di Mosca e delle congiunte politiche eurasiatiche di Cina e Russia, messe in atto, tra l’altro, attraverso la Organizzazione della Conferenza di Shanghai (OCS), la Comunità economica eurasiatica e il consolidamento di relazioni di amicizia e cooperazione militare, gli USA al termine del primo decennio del nuovo secolo dovevano riformulare le proprie strategie eurasiatiche.

 

La prassi egemonica atlantica

 

L’assunzione del paradigma geopolitico proprio al sistema occidentale a guida statunitense, articolato sulla dicotomia Stati Uniti versus Eurasia e sul concetto di “pericolo strategico”3, induce gli analisti che lo praticano a privilegiare gli aspetti critici delle varie aree bersaglio degli interessi atlantici. Tali aspetti sono costituiti comunemente dalle tensioni endogene dovute in particolare a problematiche interetniche, disequilibri sociali, disomogeneità religiosa e culturale4, frizioni geopolitiche. Le soluzioni approntate riguardano un ventaglio di interventi che spaziano dal ruolo degli USA e dei loro alleati nella “ricostruzione” degli “stati falliti” (Failed States) secondo modalità diversificate (tutte comunque miranti a diffondere i “valori occidentali” della democrazia e della libera iniziativa, senza tenere in alcun conto le peculiarità e le tradizioni culturali locali), fino all’intervento militare diretto. Quest’ultimo viene giustificato, a seconda delle occasioni, come una risposta necessaria per la difesa degli interessi statunitensi e del cosiddetto ordine internazionale oppure, nel caso specifico degli stati o governi che l’Occidente ha valutato, preventivamente e significativamente, in accordo alle regole del soft power, “canaglia”, quale estremo rimedio per la difesa delle popolazioni e la salvaguardia dei diritti umani5.

Considerando che la prospettiva geopolitica statunitense è tipicamente quella di una potenza talassica, che interpreta il rapporto con le altre nazioni o entità geopolitiche muovendo dalla propria condizione di “isola”6, essa identifica il bacino mediterraneo e l’area centroasiatica come due zone caratterizzate da una forte instabilità. Le due aree rientrerebbero nell’ambito dei cosiddetti archi di instabilità come definiti da Zbigniew Brzezinski. L’arco di instabilità o di crisi costituisce, come noto, una evoluzione ed un ampliamento del concetto geostrategico di rimland (margine marittimo e costiero) messo a punto da Nicholas J. Spykman7. Il controllo del rimland avrebbe permesso, nel contesto del sistema bipolare, il controllo della massa eurasiatica e dunque il contenimento della sua maggiore nazione, l’Unione Sovietica, ad esclusivo beneficio della “isola nordamericana”.

Nel nuovo contesto unipolare, la geopolitica statunitense ha definito come Grande Medio Oriente la lunga e larga fascia che dal Marocco giunge fino all’Asia Centrale, una fascia che andava secondo Washington “pacificata” in quanto costituiva una ampio arco di crisi, a causa delle conflittualità generate dalle disomogeneità sopra descritte. Tale impostazione, veicolata dagli studi di Samuel Huntington e dalle analisi di Zigbniew Brzezinski, spiega abbondantemente la prassi seguita dagli USA al fine di aprirsi un varco nella massa continentale eurasiatica e da lì premere sullo spazio russo per assumere l’egemonia mondiale. Tuttavia alcuni fattori “imprevisti” quali la “ripresa” della Russia, la politica eurasiatica condotta da Putin in Asia Centrale, le nuove intese tra Mosca e Pechino, nonché l’emersione della nuova Turchia (fattori che messi in relazione alle relative e contemporanee “emancipazioni” di alcuni paesi dell’America Meridionale delineano uno scenario multipolare o policentrico) hanno influito sulla ridefinizione dell’area come un Nuovo Medio Oriente. Tale evoluzione, emblematicamente, venne resa ufficiale nel corso della guerra israelo-libanese del 2006. In quell’occasione, l’allora segretario di Stato Condoleeza Rice ebbe a dire: «Non vedo l’interesse della diplomazia se è per ritornare alla situazione precedente tra Israele ed il Libano. Penso sarebbe un errore. Ciò che vediamo qui, in un certo modo, è l’inizio, sono le doglie di un nuovo Medio Oriente e qualunque cosa noi facciamo, dobbiamo essere certi che esso sia indirizzato verso il nuovo Medio Oriente per non tornare al vecchio»8. La nuova definizione era ovviamente programmatica; mirava infatti alla riaffermazione del partenariato strategico con Tel Aviv ed alla frantumazione – indebolimento dell’area vicino e medio orientale nel quadro di quello che alcuni giorni dopo la dichiarazione di Condoleeza Rice venne precisato dal primo ministro israeliano Olmert essere il “New Order” in “Medio Oriente”. Parimenti programmatico era il sintagma “Balcani eurasiatici” coniato da Brzezinski in riferimento all’area centroasiatica, giacché utile alla formulazione di una prassi geostrategica che, attraverso la destabilizzazione dell’Asia Centrale sulla base delle tensioni endogene, aveva (ed ha) lo scopo di rendere problematica la potenziale saldatura geopolitica tra Cina e Russia.

Negli anni che vanno dal 2006 alla operazione “Odyssey Dawn” contro la Libia (2011), gli USA, nonostante la retorica inaugurata dal 2009 dal nuovo inquilino della Casa Bianca, hanno di fatto perseguito una strategia mirante alla militarizzazione dell’intera striscia compresa tra il Mediterraneo e l’Asia Centrale. In particolare, gli USA hanno messo in campo, nel 2008, il dispositivo militare per l’Africa, l’Africom, attualmente (aprile 20011) impegnato nella “crisi” libica, finalizzato al radicamento della presenza statunitense in Africa in termini di controllo e di pronto intervento nel continente africano, ma anche puntato nella direzione del “nuovo” Medio Oriente e dell’Asia Centrale. In sintesi, la strategia statunitense consiste nella militarizzazione della fascia mediterranea-centroasiatica. Gli scopi principali sono:

  1. creare un cuneo tra l’Europa meridionale e l’Africa settentrionale;

  2. assicurare a Washington il controllo militare dell’Africa settentrionale e del Vicino Oriente (utilizzando anche la base di Camp Bondsteel presente nel Kosovo i Metohija), con una particolare attenzione all’area costituita da Turchia, Siria e Iràn;

  3. tagliare” in due la massa eurasiatica;

  4. allargare il cosiddetto arco di crisi nell’Asia Centrale.

Nell’ambito del primo e del secondo obiettivo, l’interesse di Washington si è rivolto principalmente verso l’Italia e la Turchia. I due paesi mediterranei, per motivi diversi (ragioni eminentemente di politica industriale ed energetica per l’Italia, ragioni più propriamente geopolitiche per Ankara, desiderosa di ricoprire un ruolo regionale di primo livello, peraltro in diretta competizione con Israele) hanno negli ultimi anni tessuto rapporti internazionali che, in prospettiva, poiché forti delle relazioni con Mosca, potevano (e possono) fornire leve utili per una potenziale exit strategy turco-italiana dalla sfera di influenza nordamericana. Il tentativo oggettivo di aumentare i propri gradi di libertà nell’agone internazionale operati da Roma e Ankara cozzavano contro non solo gli interessi generali di natura geopolitica di Washington e Londra, ma anche contro quelli più “provinciali” dell’Union méditerranéenne di Sarkozy.

 

Il multipolarismo tra prospettiva regionalista e eurasiatica

 

La prassi applicata dal sistema occidentale guidato dagli USA volta, come sopra descritto, ad ampliare le crisi in Eurasia e nel Mediterraneo al fine non della loro stabilizzazione, bensì del mantenimento della propria egemonia, mediante militarizzazione dei rapporti internazionali e coinvolgimento degli attori locali, oltre ad individuare altri futuri e probabili bersagli (Iràn, Siria, Turchia) utili al radicamento statunitense in Eurasia, pone alcune riflessioni in merito allo “stato di salute” degli USA e alla strutturazione del sistema multipolare.

Ad una analisi meno superficiale, l’aggressione alla Libia di USA, Gran Bretagna e Francia, non è affatto un caso sporadico, ma un sintomo della difficoltà di Washington di operare in maniera diplomatica e con senso di responsabilità, quale un attore globale dovrebbe avere. Esso evidenzia il carattere di rapacità tipico delle potenze in declino. Il politologo ed economista statunitense David. P. Calleo, critico della “follia unipolare” e studioso del declino degli USA, osservava nel lontano 1987 che «…le potenze in via di declino, anziché regolarsi e adattarsi, cercano di cementare il proprio barcollante predominio trasformandolo in un’egemonia rapace»10. Luca Lauriola nel suo Scacco matto all’America e a Israele. Fine dell’ultimo Impero11, sostiene, a ragione, che le potenze eurasiatiche, Russia, Cina e India trattano la potenza d’oltreatlantico, ormai “smarrita e impazzita”, in modo da non suscitare reazioni che potrebbero generare catastrofi planetarie.

Per quanto invece riguarda il processo di strutturazione del sistema multipolare, occorre rilevare che quest’ultimo avanza lentamente, non a causa delle recenti azioni statunitensi in Africa Settentrionale, ma piuttosto per l’atteggiamento “regionalista” assunto dagli attori eurasiatici (Turchia, Russia e Cina), i quali stimando il Mediterraneo e l’Asia Centrale solo in funzione dei propri interessi nazionali, non riescono a cogliere il significato geostrategico che queste aree svolgono nel più ampio scenario conflittuale tra interessi geopolitici extracontinentali (statunitensi) ed eurasiatici. La riscoperta di un unico grande spazio mediterraneo-centroasiatico, evidenziando il ruolo di “cerniera” che esso assume nell’articolazione euroafroasiatica, fornirebbe elementi operativi per superare l’ impasse “regionalista” che subisce il processo di transizione unipolare-multipolare.

 * Tiberio Graziani è direttore di “Eurasia” e presidente dell’IsAG.

1 Elena Mazzeo, “La Turchia tra Europa e Asia”, “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici”, a. VIII, n.1 2011.

2 La Turchia aderisce al Patto Nato il 18 febbraio 1952.

3 «Geopoliticamente l’America è un’isola al largo del grande continente eurasiatico. Il predominio da parte di una sola potenza di una delle due sfere principali dell’Eurasia — Europa o Asia — costituisce una buona definizione di pericolo strategico per gli Stati Uniti, una guerra fredda o meno. Quel pericolo dovrebbe essere sventato anche se quella potenza non mostrasse intenzioni aggressive, poiché, se queste dovessero diventare tali in seguito, l’America si troverebbe con una capacità di resistenza efficace molto diminuita e una incapacità crescente di condizionare gli avvenimenti», Henry Kissinger, L’arte della diplomazia, Sperling & Kupfer Editori, Milano 2006, pp.634–635.

«Eurasia is the world’s axial supercontinent. A power that dominated Eurasia would exercise decisive influence over two of the world’s three most economically productive regions, Western Europe and East Asia. A glance at the map also suggests that a country dominant in Eurasia would almost automatically control the Middle East and Africa. With Eurasia now serving as the decisive geopolitical chessboard, it no longer suffices to fashion one policy for Europe and another for Asia. What happens with the distribution of power on the Eurasian landmass will be of decisive importance to America’s global primacy and historical legacy.» Zbigniew Brzezinski, “A Geostrategy for Eurasia,” Foreign Affairs, 76:5, September/October 1997.

4 Enrico Galoppini, Islamofobia, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2008.

5 Jean Bricmont, Impérialisme humanitaire. Droits de l’homme, droit d’ingérence, droit du plus fort?, Éditions Aden, Bruxelles 2005; Danilo Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi, Torino 2000; Danilo Zolo, Terrorismo umanitario. Dalla guerra del Golfo alla strage di Gaza, Diabasis, Reggio Emilia 2009.

6 «Un tipico descrittore geopolitico è la visione degli USA come una “isola”, non troppo diversa geopoliticamente dall’Inghilterra e dal Giappone. Tale definizione esalta la loro tradizione di commercio marittimo ed interventi militari oltremare e, ovviamente, di sicurezza basata sulla distanza e l’isolamento.» Phil Kelly, “Geopolitica degli Stati Uniti d’America”, “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici”, a. VII, n.3 2010.

7 Nicholas Spykman, America’s Strategy in World Politics: The United States and the Balance of Power, Harcourt Brace, New York 1942.

8 «But I have no interest in diplomacy for the sake of returning Lebanon and Israel to the status quo ante. I think it would be a mistake. What we’re seeing here, in a sense, is the growing — the birth pangs of a new Middle East and whatever we do we have to be certain that we’re pushing forward to the new Middle East not going back to the old one», Special Briefing on Travel to the Middle East and Europe, US, Department of State, 21 luglio 2006

9 Tiberio Graziani, “U.S. strategy in Eurasia and drug production in Afghanistan”, Mosca , 9-10 giugno 2010 (http://www.eurasia-rivista.org/4670/u-s-strategy-in-eurasia-and-drug-production-in-afghanistan )

10 David P. Calleo, Beyond American Hegemony: The future of the Western Alliance, New York 1987, p. 142.

11 Luca Lauriola, Scacco matto all’America e a Israele. Fine dell’ultimo Impero, Palomar, Bari 2007.


Article printed from eurasia-rivista.org: http://www.eurasia-rivista.org

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mercredi, 13 juillet 2011

Der Islam als geopolitisches Werkzeug zur Kontrolle des Nahen und Mittleren Ostens

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Die Kräfte der Manipulation: der Islam als geopolitisches Werkzeug zur Kontrolle des Nahen und Mittleren Ostens

Mahdi Darius Nazemroaya

Bei ihrem Vormarsch gegen das Eurasische Herzland versuchen Washington und seine Gefolgsleute, sich den Islam als geopolitisches Werkzeug zunutze zu machen. Politisches und soziales Chaos haben sie bereits geschaffen. Dabei wird versucht, den Islam neu zu definieren und ihn den Interessen des weltweiten Kapitals unterzuordnen, indem eine neue Generation sogenannter Islamisten, hauptsächlich unter den Arabern, ins Spiel gebracht wird.

Das Projekt Neudefinition des Islam: die Türkei als das neue Modell eines »Calvinistischen Islam«

Die heutige Türkei wird den aufbegehrenden Massen in der arabischen Welt als demokratisches Modell präsentiert, dem es nachzueifern gilt. Unbestreitbar hat Ankara Fortschritte gemacht im Vergleich zu den Zeiten, als es verboten war, in der Öffentlichkeit Kurdisch zu sprechen. Dennoch ist die Türkei keine funktionsfähige Demokratie, sondern eher eine Kleptokratie mit faschistischen Zügen.

Mehr:http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/mahdi-darius-nazemroaya/die-kraefte-der-manipulation-der-islam-als-geopolitisches-werkzeug-zur-kontrolle-des-nahen-und-mitt.html

mercredi, 08 juin 2011

L'Afrique n'est plus le (seul) berceau de l'Homme moderne

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L’Afrique n’est plus le (seul) berceau de l’Homme moderne

 
Communiqué de Bernard Lugan
2 juin 2011
 
 
Déclarant à la revue Science et Avenir (n° 772, juin 2011) que « L’Afrique n’est pas le seul berceau de l’Homme moderne », Yves Coppens (photo) fait voler en éclats le postulat de l’exclusivité des origines africaines de l’humanité. Il évacue également d’une phrase plusieurs dizaines d’années d’un hallucinant « bourrage de crâne » scientifique construit autour du paradigme du « Out of Africa ». Pour mémoire, selon ce dernier, les Homo sapiens seraient sortis d’Afrique sous leur forme moderne entre moins 100 000 ans et moins 60 000 ans, et ils auraient partout remplacé les populations antérieures, ce qui fait que nous sommes tous des Africains...
 
C’est en prenant en compte les découvertes récentes qu’Yves Coppens a radicalement révisé ses anciennes certitudes. Désormais, pour lui, ni l’Homme moderne européen, ni l’Homme moderne asiatique ne descendent de l’Homme moderne africain puisqu’il écrit : « Je ne crois pas que les hommes modernes aient surgi d’Afrique il y a 100 000 à 60 000 ans (…) Je pense que les Homo sapiens d’Extrême-Orient sont les descendants des Homo erectus d’Extrême-Orient ».
Comment serait-il d’ailleurs possible de continuer à soutenir que les Asiatiques ont une origine africaine quand, dans une Chine peuplée en continu depuis 2 millions d’années, les découvertes s’accumulent qui mettent en évidence la transition entre les hommes dits archaïques et l’Homme moderne dont les Chinois actuels sont les très probables descendants (Dong, 2008 : 48)[1]. Il en est de même avec les Européens.
Les importantes découvertes archéologiques qui ont permis une totale révision des modèles anciens ne sont pas des nouveautés pour les lecteurs de l’Afrique Réelle. Dans un dossier publié dans le numéro 11 du mois de novembre 2010[2], il a ainsi été montré que l’Homme moderne, qu’il soit asiatique, européen ou africain est issu de souches locales d’hominisation ayant évolué in situ. Un peu partout dans le monde, nous voyons en effet et clairement des Homo erectus se « sapiensiser » et donner naissance à des lignées locales, peut-être les plus lointains marqueurs des « races » actuelles.
Ces « sapiensisations » observables à la fois en Asie, en Europe, dans le monde méditerranéen et en Afrique, réduisent à néant le postulat du diffusionnisme au profit de l’hypothèse multi régionaliste que je défends depuis de nombreuses années[3]. Les découvertes qui s’accumulent, de la Georgie[4] à l’Espagne[5], de la Chine au Maroc ou encore d’Israël à l’Australie et à la Mongolie vont ainsi toutes dans le sens d’hominisations indépendantes de (ou des) l’hominisation africaine.
Cette déferlante ayant fait céder les fragiles digues dressées par la pensée unique, ses derniers défenseurs en sont réduits à jongler avec les faits. Le célèbre généticien André Langaney n’a ainsi plus qu’un pauvre argument à opposer aux nombreuses et très sérieuses études faites en Chine puisqu'il ne craint pas d'écrire : « Des scientifiques orientaux au nationalisme mal placé veulent à toute force que l’homme de Pékin ou d’autres fossiles chinois soient leurs ancêtres » (Sciences et Avenir, page 63). Fin du débat !
Le dossier de Science et Avenir  constitue une étape essentielle dans la libération des esprits car il va toucher le plus grand nombre. En dépit d’inévitables scories idéologiques qui font surface ici ou là, et de concessions appuyées au politiquement correct, sa publication signifie qu’il n’est désormais plus possible de cacher au grand public une vérité que les spécialistes connaissaient mais qu’ils conservaient prudemment dans leurs tiroirs afin de ne pas désespérer le « Billancourt de la paléontologie »… La théorie de « l’Eve africaine » et celle d’ « Out of Africa » peuvent donc être désormais rangées dans le rayon des idéologies défuntes, quelque part entre la « lutte des classes » et le mythe de la « colonisation-pillage ».
Bernard Lugan
2 juin 2011
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[1]Dong, W., (2008) « Les premiers hommes vus de Chine ». Les Dossiers de la Recherche, n°32, août 2008, pp. 47-49.
[2] Pour les synthèses les plus récentes, voir l’Afrique Réelle n°11 (novembre 2010) et  Lugan, B., (2009) Histoire de l’Afrique des origines à nos jours. Ellipses, pp.15-19.
[3] Notamment dans un livre paru en 1989 et aujourd’hui dépassé sur plusieurs points qui a pour titre Afrique, l’Histoire à l’endroit.
[4]Lieberman, D.E., ( 2007) « Paleoanthropology : Homing in on early Homo ». Nature, n° 449, 20 septembre 2007, pp. 291-292.
[5]Carbonell, E et alii ., (2008) « The First European ? » Nature, n° 452, 27 mars 2008, pp. 465-469.
 

samedi, 04 juin 2011

La rivolta di Maritz e De Wet nel 1914

La rivolta di Maritz e De Wet nel 1914, preannuncio della rivincita boera sull’Inghilterra

Autore: Francesco Lamendola

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

La Repubblica Sudafricana, come è noto, era uscita dal Commonwealth britannico nel 1949 e vi è stata riammessa solo nel 1994, dopo che era stato rimosso l’oggetto del contendere, ossia dopo che fu smantellata la legislazione sull’Apartheid.

A volere fortemente la politica della “separazione” fra bianchi e neri era stata la componente di origine boera della comunità europea, insediatasi al Capo di Buona Speranza nel XVII secolo e poi, durante le guerre napoleoniche (1797), respinta verso l’interno dagli Inglesi, ove, nel XIX secolo, aveva dato vita alle due fiere Repubbliche indipendenti del Transvaal e dell’Orange.

Poiché la Grande Migrazione dei Boeri al di là del fiume Orange, o Grande Trek, come è nota nei libri di storia sudafricani, ebbe luogo all’incirca nella stessa epoca in cui, da settentrione, giunsero le tribù bantu che, originarie della regione dei laghi dell’Africa orientale, a loro volta respingevano Boscimani e Ottentotti, i Boeri e, in generale, i bianchi sudafricani hanno sempre negato validità all’affermazione secondo cui, nel loro Paese, una minoranza bianca si sarebbe imposta su di una maggioranza nera, sostenendo, al contrario, che essi avevano raggiunto e colonizzato le regioni dell’interno prima dei Bantu, e non dopo.

Sia come sia, i Boeri sostennero due guerre contro l’imperialismo britannico: una, vittoriosa, nel 1880-81, ed una, assai più dura, nel 1899-1902, terminata con la piena sconfitta della pur coraggiosa resistenza boera, guidata dal leggendario presidente Krüger. Il conflitto era stato reso inevitabile non solo dai grandiosi progetti espansionistici dell’imperialismo inglese, impersonato in Africa da uomini come il finanziere Cecil Rhodes e dal celebre slogan “dal Cairo al Capo” (di Buona Speranza), ma anche e soprattutto dalla scoperta di ricchi giacimenti auriferi e di miniere di diamanti nel territorio delle due Repubbliche boere.

Non fu, quest’ultima, una vittoria di cui l’immenso Impero Britannico poté andar fiero: esso riuscì a piegare la resistenza di quel piccolo e tenace popolo di contadini-allevatori solo dopo che ebbe messo in campo tutte le risorse umane, materiali e finanziarie di cui poteva disporre nei cinque continenti e solo dopo che i suoi comandanti ebbero fatto ricorso alla tattica della terra bruciata, distruggendo fattorie e raccolti, e soprattutto trasferendo ed internando la popolazione boera nei campi di concentramento, ove a migliaia morirono di stenti e di malattie.

È pur vero che la pace, firmata a Pretoria il 31 maggio 1902, ed il successivo trattato di Veereniging, che sanciva la sovranità britannica sulle due Repubbliche, accordarono ai vinti delle condizioni relativamente miti, se non addirittura generose. In particolare, il governo inglese si accollò l’onere del debito di guerra contratto dal governo del presidente Krüger, che ammontava alla bellezza di 3 milioni di lire dell’epoca, ed accordò uno statuto giuridico speciale alla lingua neerlandese, non riconoscendo ancora la specificità della lingua afrikaans.

manie_maritz.jpgÈ degno di rilievo il fatto che nel trattato di stabiliva esplicitamente la clausola che ai neri non sarebbe stato concesso il diritto di voto, ad eccezione di quelli residenti nella Colonia del Capo, in cui i coloni inglesi costituivano la maggioranza bianca; perché, nell’Orange e nel Transvaal, i Boeri non avrebbero mai accettato una eventualità del genere, e sia pure in prospettiva futura.

L’intenzione del governo britannico era quella di integrare progressivamente i Boeri nella propria cultura, a cominciare dall’educazione e dalla lingua; ma il progetto di anglicizzare i Boeri attraverso la scuola si rivelò fallimentare e nel 1906, con l’avvento al governo di Londra del Partito Liberale, esso venne abbandonato. Non solo: le autorità britanniche dovettero riconoscere l’afrikaans come lingua distinta dal neerlandese e questo rappresentò un primo passo verso il rovesciamento dei rapporti di forza, all’interno della comunità bianca sudafricana, tra i coloni di origine britannica e quelli di origine boera.

Picture: Manie Maritz

Un altro passo fu la nascita, il 31 maggio 1910, dell’Unione Sudafricana, grazie alla riunione delle quattro colonie del Capo, del Natal, dell’Orange e del Transvaal: a soli otto anni dalla conclusione di una guerra straordinariamente sanguinosa e crudele, caratterizzata da pratiche inumane tipicamente “moderne”, quali la distruzione dei raccolti, il trasferimento forzato di intere popolazioni ed il loro internamento in veri e propri lager, il Sudafrica diventava un Dominion autonomo nell’ambito dell’Impero britannico, con una maggioranza afrikaner; processo che sarebbe culminato nel 1931 con la conquista della piena indipendenza, votata dal Parlamento di Londra con il cosiddetto Statuto di Westminster.

Un episodio poco noto al pubblico occidentale è quello della rivolta anti-britannica scoppiata nell’Unione Sudafricana nel 1914, sotto la guida dei generali boeri Manie Maritz e De Wet, in coincidenza con lo scoppio della prima guerra mondiale, cui l’Unione medesima partecipò al fianco della Gran Bretagna, soprattutto per il deciso appoggio dato alla causa britannica da uomini prestigiosi della comunità afrikaner come Louis Botha e Jan Smuts.

In effetti, non tutte le ferite dell’ultimo conflitto erano state sanate e una parte della popolazione afrikaner, animata da forti sentimenti nazionalisti, non immemore della simpatia (sia pure solamente verbale) mostrata dal kaiser Wilhelm II Hohenzollern per la causa boera, ritenne giunto il momento della riscossa e si dissociò dal governo di Pretoria, invocando, anzi, la lotta aperta contro gli Inglesi al fianco della Germania.

Al di là del corso inferiore dell’Orange, dal 1884, si era costituita la colonia tedesca dell’Africa Sudoccidentale (oggi Namibia) e i capi afrikaner insorti speravano che da lì – o, più verosimilmente, da una rapida vittoria degli eserciti tedeschi in Europa – sarebbero giunti gli aiuti necessari per sconfiggere le forze britanniche e per rialzare la bandiera dell’indipendenza boera sulle terre dell’Orange e del Transvaal.

Così ha rievocato quella vicenda lo storico francese Bernard Lugan, “Maître de Conferences” all’Università di Lione III, specialista di storia dell’Africa e per dieci anni professore all’Università del Ruanda, nel suo libro Storia del Sudafrica dall’antichità a oggi (titolo originale: Histoire de l’Afrique du Sud de l’Antiquité a nos jours, Paris, Librairie Académique Perrin, 1986; traduzione italiana di L. A. Martinelli, Milano, Garzanti, 1989, pp. 195-99):

«Quando, il 4 agosto 1914, scoppi la guerra, l’Unione Sudafricana si trovò automaticamente impegnata, in quanto Dominion britannico, a fianco degli Inglesi, ossia nel campo dell’Intesa. Ne risentì immediatamente la coesione fra le due componenti bianche della popolazione. Gli anglofoni accettarono l’entrata in guerra come un dovere verso la madrepatria, mentre gli Afrikaner si divisero in due gruppi: il primo, uniformandosi alle vedute di Botha e di Smuts, proclamò la propria solidarietà con la Gran Bretagna, il secondo, con alla testa Hertzog, propose che l’Unione rimanesse neutrale fino a quando non avesse a subire un attacco diretto. Il fondatore del Partito nazionalista rifiutava ogni obbligo diretto, ed affermava il diritto del Sudafrica di decidere liberamente, in situazioni drammatiche come quella presente. Quando, nel settembre 1914, il Parlamento di Città del Capo accolse la richiesta di Londra di arruolare nell’Unione un corpo militare per l’occupazione dell’Africa sud-occidentale tedesca, in una larga parte dell’opinione pubblica afrikaner le reazioni furono violente. Scoppiò un’insurrezione, capeggiata dagli antichi generali boeri Manie Maritz e De Wet, che si diffuse rapidamente fra gli ufficiali superiori dell’esercito sudafricano: dodicimila uomini, per lo più originari dell’Orange, presero le armi contro il loro governo. Sembrava imminente una guerra civile fra Afrikaner, e il rischio era grande perché i ribelli avevano proclamato la Repubblica sudafricana:

“PROCLAMA

DELLA RESTAURAZINE

DELLA REPUBBLICA SUDAFRICANA

Al popolo del Sudafrica:

Il giorno della liberazione è giunto. Il popolo boero del Sudafrica è già insorto ed ha iniziato la guerra contro

LA DOMINAZIONE BRITANNICA, DETESTATA ED IMPOSTA.

Le truppe della Nuova Repubblica Sudafricana hanno già ingaggiato la lotta contro le truppe governative britanniche.

Il governo della Repubblica Sudafricana è provvisoriamente rappresentato dai signori

Generale MARITZ

maggiore DE VILLIERS

maggiore JAN DE WAAL-CALVINIA

Il Governo restituirà al popolo sudafricano l’indipendenza che l’Inghilterra gli ha sottratto dodici anni or sono.

Cittadini, compatrioti, voi tutti che desiderate vedere libero il Sudafrica,

NON MANCATE DI COMPIRE IL VOSTRO DOVERE VERSO L’AMATA

E BELLA BANDIERA “VIERKLEUR”!

Unitevi sino all’ultimo uomo per ristabilire la vostra libertà e il vostro diritto!

IL GOVERNO GERMANICO,LA CUI VITTORIA È GIÀ SICURA, HA PER PRIMO RICONOSCIUTO ALLA REPUBBLICA SUDAFRICANA IL DIRITTO DI ESISTERE, ed ha con ciò stesso mostrato di non avere alcuna intenzione di intraprendere la conquista del Sudafrica come hanno preteso i signori Botha e Smuts al Parlamento dell’Unione.

Kakamas, Repubblica Sudafricana, ottobre 1914.

IL GOVERNO DELLA REPUBBLICA SUDAFRICANA

(Firmato) MARITZ, DE VILLIERS, JAN DE WAAL”.

Botha decise di proclamare la legge marziale il 12 ottobre, due giorni dopo che Maritz, alla testa di un reggimento sudafricano, aveva disertato per raggiungere le truppe germaniche proclamando la propria intenzione di invadere la provincia del Capo. I sostenitori più irriducibili della causa boera giudicavano la Germania capace di infliggere all’Inghilterra una sconfitta definitiva, e che quindi si presentasse loro un’occasione unica per prendersi la rivincita sui vincitori del 1902, e restituire il Sudafrica agli Afrikaner. Ma il movimento fu disordinato: i “kommando”, organizzati frettolosamente, male armati, malvisti da una parte della popolazione che aveva appena finito di medicare le ferite del 1899-1902, non furono in grado di affrontare le unità dell’esercito regolare. Gli ultimi ribelli si arresero il 2 febbraio 1915.

Poté così cominciare la campagna contro l’Africa sud-occidentale tedesca. Londra aveva fatto sapere che essa sarebbe stata considerata come un servizio reso all’Impero, e di conseguenza l’Impero ne avrebbe tratto dei vantaggi politici al momento del trattato di pace.

La sproporzione delle forze era tale che i Tedeschi non potevano far altro che cercar di ritardare una sconfitta inevitabile. Disponevano di 1.600 effettivi, rinforzati da 6.000 riservisti mobilitabili su di una popolazione bianca di 6.000 persone. Il colonnello Heydebreck non poté impedire la manovra sudafricana: Botha sbarcò a Swakompund cin 12.000 uomini, Smuts a Lüderitz con 6.000, ed oltre 30.000 uomini passarono il fiume Orange. Il 5 maggio 1915 venne occupata Windhoek, la capitale della colonia tedesca; una sporadica resistenza continuò ancora, favorita dalla vastità della steppa, fino al 9 luglio 1915, quando ad Otavi fu sottoscritta la resa delle truppe del Reich. La campagna era stata breve e le perdite umane limitate: con essa Botha diede all’Unione il protettorato sull’Africa sud-occidentale.

Alle elezioni generali dell’ottobre 1915 Botha dovette affrontare l’opposizione sempre più forte del Partito nazionale di Hertzog. I nazionalisti afrikaner respingevano nuove forme di partecipazione del Sudafrica alla guerra, e in particolare si opponevano all’invio di contingenti in Africa orientale. Per esprimere e difendere gli interessi afrikaner durante la campagna elettorale il Partito nazionale diede vita a un proprio giornale, “Die Burger”.

Botha conservò la maggioranza in Parlamento con 54 seggi, ai quali si aggiunsero i 40 seggi ottenuti dagli Unionisti che appoggiavano la politica militare del primo ministro. Tuttavia il Partito nazionale, con 27 seggi, poté far sentire la propria voce: da quel momento si sarebbero dovuti fare i conti anche con esso.

Nel 1916 fu inviato in Tanganica un corpo di 15.000 Sudafricani in rinforzo al’armata inglese che, quantunque numerosa, non riusciva ad aver ragione delle truppe tedesche del generale Lettow-Vorbeck. Nell’agosto del 1914 quest’ultimo – allora colonnello – aveva a disposizione aveva a disposizione solo 3.000 europei e 16.000 ascari per la difesa dell’intera Africa orientale tedesca: ma con queste scarsissime forze e senza ricevere rifornimenti alla madrepatria resistette fino al novembre 1918 ad oltre 250.000 soldati britannici, belgi, sudafricani e portoghesi. Nella guerra di imboscate con la quale Alleati e Tedeschi si affrontarono nel Tanganica meridionale, il contingente sudafricano, comandato prima del generale Smuts e in seguito dal generale Van Deventer, ebbe una parte di primo piano.

La 1a Brigata sudafricana sbarcò a Marsiglia il 15 aprile 1916. Incorporata nella 9a Divisione scozzese fu inviata nel giugno sul fronte della Somme, ove fra il 14 e il 19 giugno i volontari si distinsero nei combattimenti del bosco di Delville, mantenendo le loro posizioni a prezzo di fortissime perdite: 121 ufficiali su 126 e 3.032 soldati su 3.782. Ricostituita con l’arrivo di altri volontari, la brigata prese parte nel 1917 alla battaglia di Vimy e di Ypres, e nel 1918 alla battaglia di Amiens, nel corso della quale perdette 1.300 uomini su 1.800 impegnati nel combattimento. Fu ricostituita per la terza volta e poté partecipare alle ultime fasi della guerra.

In complesso l’Unione Sudafricana fornì agli Alleati un contingente di 200.000 uomini, dei quali 12.452 caddero in guerra. Sempre più numerosi divennero gli Afrikaner che non vollero più esere chiamati obbligatoriamente a combattere per la Gran Bretagna, ben decisi a conquistarsi un autonomia maggiore e magari una totale indipendenza. Su questo punto Hertzog non ottenne a Versailles alcuna soddisfazione, perché gli Alleati confermarono la situazione esistente pur offrendo all’Unione un mandato sull’Africa sud-occidentale».

 

Paradossalmente, proprio la presenza di un protettorato germanico sulla sponda settentrionale del fiume Orange, ai confini della Provincia del Capo, aveva svolto una funzione importante nel rafforzare i legami fra l’Unione Sudafricana e la madrepatria britannica, dal momento che la componente inglese della popolazione bianca sudafricana aveva vissuto con disagio quella vicinanza, se non con un vero e proprio senso di pericolo.

Nel 1878, la Colonia del Capo aveva ottenuto da Londra un tiepido consenso ad occupare la Baia della Balena, enclave strategica in quella che ancora non era la colonia tedesca dell’Africa sud-occidentale; ma quando, nel 1884, quasi da un giorno all’altro, il cancelliere Bismarck aveva proclamato il protettorato del Reich, cogliendo del tutto alla sprovvista il Foreign Office, quella sensazione di minaccia si era concretizzata quasi dal nulla e certamente svolse un ruolo importante nel rinsaldare il legame di fedeltà del Dominion con l’Inghilterra, prima e durante la guerra mondiale del 1914-18.

Una situazione analoga si era verificata, in quegli stessi anni, con il Dominion dell’Australia (e, in minor misura, della Nuova Zelanda): la presenza tedesca nell’Oceano Pacifico, specialmente nella Nuova Guinea nord-orientale, nell’Arcipelago di Bismarck e nelle isole Marshall, Marianne, Palau e Caroline, oltre che in una parte delle Samoa, abilmente sfruttata dalla propaganda inglese, generò una sorta di psicosi nell’opinione pubblica australiana che, in cerca di protezione da una possibile minaccia germanica, fu spinta a cercare nel rafforzamento dei legami morali e ideali con la madrepatria uno scudo contro i Tedeschi (la stessa cosa si sarebbe ripetuta nel 1941, questa volta nei confronti della minaccia giapponese, ben più concreta e immediata).

Per quel che riguarda la rivolta boera di Maritz e De Wet, il suo rapido fallimento fu dovuto alla scarsa adesione della popolazione boera: scarsa adesione che fu l’effetto non già di un sentimento di solidarietà o di una problematica “riconoscenza” verso la Gran Bretagna, entrambe impossibili e per varie ragioni, quanto piuttosto, come evidenzia Bernard Lugan, per la stanchezza dovuta alla prova durissima del 1899-1902 e per il desiderio di non riaprire troppo presto quelle ferite e di non mettere a repentaglio, e in circostanze a dir poco incerte, quei margini di autonomia che, bene o male, il governo inglese a aveva riconosciuto ai Boeri.

Si trattava, come abbiamo visto, di margini di autonomia che essi, specie attraverso l’azione politica dei nazionalisti di Hertzog e Malan, erano decisi ad allargare per via pacifica, ma con estrema determinazione, fino alle ultime conseguenze, stando però attenti a giocare bene le loro carte e a non esporsi, con una mossa imprudente, ad una nuova sconfitta, con tutti gli effetti politici negativi che ciò avrebbe inevitabilmente comportato.

In questo senso, il fatto che solo con estrema fatica, e solo dopo due anni dall’inizio della guerra, l’Unione Sudafricana accettasse di inviare un consistente corpo di spedizione contro l’Africa Orientale Tedesca (la breve campagna contro l’Africa Sud-occidentale tedesca del 1915 era stata solo il naturale corollario del fallimento della rivolta boera); e che, nel 1917-18, una sola brigata venisse inviata a combattere fuori del continente africano, mentre forze canadesi, australiane e neozelandesi ben più consistenti stavano combattendo o avevano già combattuto al fianco della Gran Bretagna, in Europa e nel Medio Oriente (campagna di Gallipoli), sta a testimoniare quanto poco l’opinione pubblica sudafricana fosse giudicata “sicura” all’interno del sistema imperiale e quanto poco affidabili le truppe sudafricane, soprattutto boere, in una campagna militare che si svolgesse lontano dai confini dell’Unione e che, quindi, non presentasse un carattere chiaramente difensivo.

Anche il “mandato” sulla ex Africa Sud-occidentale tedesca, in effetti, si deve leggere soprattutto come un palliativo ideato dal governo di Londra che, tramite i suoi buoni uffici presso la Società delle Nazioni, intendeva dare un contentino al nazionalismo afrikaner, sempre illudendosi di poter allontanare la resa dei conti con il partito di Hertzog e Malan e la perdita di ogni effettiva sovranità sul Sudafrica e sulle sue immense ricchezze minerarie.

Si trattò, invece, di un calcolo miope, che non servì a distrarre l’attenzione dei nazionalisti afrikaner dal perseguimento della piena indipendenza e che, viceversa, creò i presupposti per una ulteriore complicazione internazionale: perché, come è noto, il governo sudafricano considerò il mandato sull’Africa Sud-occidentale come una semplice finzione giuridica e il Parlamento sudafricano legiferò nel senso di una vera e propria annessione di quel territorio e non certo nella prospettiva di avviarlo all’indipendenza.

Non bisogna mai dimenticare che l’Impero britannico, nel 1914, comprendeva un quarto delle terre emerse e un complesso di territori, come l’India, abitati da centinaia di milioni di persone, con ricchezze materiali incalcolabili. Lo storico del Novecento e, in particolare, lo storico delle due guerre mondiali, non dovrebbe mai prescindere dalla ferma, tenace volontà dei governi inglesi, specialmente conservatori, di difendere in ogni modo quell’immenso patrimonio, nella convinzione di poter trovare la formula politica per allentare, forse, la stretta, ma di conservare la sostanza di quella situazione, estremamente invidiabile per la madrepatria.

I governanti britannici erano talmente convinti di poter riuscire nell’impresa che perfino Churchill, firmando, nel 1941, la Carta Atlantica insieme a Roosevelt, nella quale si sanciva il solenne impegno anglo-americano in favore della libertà e dell’autodecisione dei popoli, era lontanissimo dal supporre che solo sei anni dopo l’Inghilterra avrebbe dovuto riconoscere l’indipendenza dell’India e del Pakistan, cuore e vanto di quell’Impero.

Essi temevano l’effetto domino di qualunque rinuncia coloniale sul resto dell’Impero ed è per questo che repressero con tanta ferocia l’insurrezione di Pasqua del 1916, a Dublino, salvo poi concedere all’Irlanda, ma solo a guerra finita, una indipendenza mutilata, conservando quell’Ulster in cui, fra nazionalisti protestanti e indipendentisti cattolici, si sarebbero riprodotte, ma a parti rovesciate, le stesse dinamiche distruttive del Sudafrica, diviso fra bianchi di origine inglese e bianchi di origine boera, dopo la vittoria militare inglese del 1902.

La storia ci mostra che non sempre chi vince sul piano militare vince anche, nel medio e nel lungo periodo, sul piano politico.

Tale fu anche il caso del Sudafrica, dopo la conquista britannica del 1902; e, in questo senso, anche la fallita insurrezione boera del 1914, forse, deve essere valutata più come il primo annuncio della futura indipendenza del Sudafrica dall’Inghilterra, che come l’ultimo sussulto della precedente guerra anglo-boera.


Francesco Lamendola

South African Nationalist Manie Maritz

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South African Nationalist Manie Maritz

Ex: http://xtremerightcorporate.blogspot.com/

Salomon Gerhardus Maritz was undoubtedly the most troublesome Boer nationalist for Great Britain for the longest time. He might not have been the best at what he did but long after more able Boer leaders embraced the British Empire he continued to resist. Maritz was to oppose the British in the Boer War, in his own rebellion in World War I and even leading up to World War II by becoming something of an Afrikaner Nazi. Few could be said to be as devoted a defender of Boer nationhood than General Maritz and he spent his life in the service of Boer independence. He was born on July 26, 1876 into an old and illustrious Boer family and as a young man he served in the Jameson Raid which sparked the Second Boer War in which he served with distinction. Maritz was one of the irreconcilables but nonetheless when British rule prevailed and many Boers began collaborating and even running South Africa again to a large extent he went with the times and eventually became the governor of a military district based at Upington.
Yet, the Boer Wars were hard for the Afrikaners to overcome. Truth be told the British had been magnanimous conquerors and South Africa had prospered under British rule but bitter memories still remained. For many, such as Maritz, it did not matter how gentle the British had been after the war it did not erase their memories of the succession of British invasions, the wars of conquest or the British concentration camps where Boer women and children died horribly of disease and starvation. Men like Maritz were simply biding their time for yet another opportunity to take their revenge and drive out the British and with the coming of World War I it seemed that their chance had come. Making common cause with the Germans only seemed natural. During the Boer War the Germans were openly sympathetic to the Afrikaners and Kaiser Wilhelm II had got into some controversy with his British cousins over his words to Boer leader Paul Kruger. German colonial forces in Africa were very weak compared to the surrounding Allied powers and the colony of German Southwest Africa in particular knew they would soon come under attack by the British in South Africa. Their only hope for survival was for a Boer rebellion which would throw the British off balance and allow the Germans and the Afrikaners to unite against them.

The British themselves were rather worried about how the Boers would respond to the outbreak of war with Germany and with good reason. Of the three preeminent Boer leaders from the freedom wars; Louis Botha, Christiaan De Wet and Jacobus Hercules (Koos) De la Rey only Botha was considered reliably loyal to the British. Many Afrikaners took divergent positions based on different motives but a sizeable minority at least were not prepared to fight against a nation that had sympathized with them in their own struggle for freedom in the service of those who had conquered them. The First World War was their opportunity to take revenge and the Germans counted on this, stockpiling a great deal of weapons and ammunition to equip the rebel Boer army they hoped would soon emerge. The Germans had been spreading the word for some time that with their help the Boers could drive out the British and establish a greater empire for themselves in Africa more to their own liking. As war erupted in Europe both sides began to form up in South Africa.

Louis Botha, newly elected Prime Minister of the Union of South Africa, pledged his loyalty to the British Empire and agreed with London to launch the conquest of German Southwest Africa which many Boers opposed. Christiaan De Wet was advocating opposition to Britain and alliance with Germany and General Koos De la Rey, who was believed to be on the side of rebellion, was gunned down by British police before his influence could have effect. Likewise, Christiaan Frederik Beyers, commandant-general of the Union of South Africa Defense Force, resigned his position to join the rebel faction as did General Jap Christoffel Greyling Kemp who was in charge of the training post at Potchefstroom. However, the most dangerous of them all was Colonel Salomon Gerhardus (Manie) Maritz who was to have been on the front lines of the invasion of German territory. Maritz was sent orders to report to Pretoria in the hopes of neutralizing him but he smelled the trap and ignored the order. War might have been headed for German Southwest Africa but it was to hit South Africa first.

British intelligence reported that Maritz and his officers were openly speaking of joining the Germans. True enough, Maritz announced his intention to ally with the Germans to his commandos and his allegiance to the provisional rebel government of the former Boer republics. He proclaimed the independence of South Africa, the Orange Free State, Cape Province and Natal and called upon the White population to join him and their German comrades in revolt against the British. It was October, 1914, and Maritz gave his men one minute to decide whether they were on the side of the Boer-German alliance or the British. Most followed their commander but about 60 remained loyal to Britain and were duly handed over to the Germans as prisoners of war. Rallies were held, speeches were given, and passionate appeals on behalf of Afrikaner nationalism were voiced as the rebellion seemed to be catching on. Beyers, De Wet, Maritz, Kemp and Bezuidenhout were chosen to lead the provisional Boer government and newly promoted General Manie Maritz occupied Keimos around Upington which had been his previous area of operations. Fighting broke out in local clashes between rebel and loyalist factions.
 

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On October 26, 1914 the British side made the state of war clear when Louis Botha personally took command of the forces assembling to crush the Boer rebellion. It was the first and so far only time that a British Empire/Commonwealth prime minister led troops into battle while in office. Moreover, this was especially difficult for old Boer soldiers like Botha and Jan Smuts who would be fighting against their own people, many of them their own comrades from the previous wars against the British. However, Botha and Smuts were truly committed to the Allied cause and when Australian troops on their way to Europe were offered to help crush the rebellion Botha refused and preferred to use loyalist Afrikaners to suppress the rebel Afrikaners so as not to exacerbate the Boer-British ethnic tensions which were obviously already running high. Volunteers, reserves, support personnel and the like were all mobilized in this massive effort by the Union government to stamp out the uprising before the Boer rebels spread their influence and forged a coordinating strategy with the Germans which would have been disastrous.

The Boer rebels were busy as well. General De Wet took his Lydenburg commandos and seized Heilbron and captured a British train which provided a wealth of supplies and ammunition. Soon De Wet had 3,000 men under arms while General Beyers mobilized more in the Magaliesberg in addition to those already assembled around Upington under General Maritz. On the loyalist side, Botha took command of 6,000 cavalry and some field guns assembled at Vereeniging in the Transvaal with the aim of destroying De Wet. Martial law was declared and overwhelming government force was brought down on the rebels. General Maritz was defeated on October 24 but escaped into German Southwest Africa where he continued his own resistance. Botha caught General De Wet at a farmhouse in Mushroom Valley and broke the Boer rebels on November 12. General De Wet and a remnant of his men retreated into the unassuming but brutal Kalahari Desert. General Beyers and his commandos met with an initial defeat at Commissioners Drift after which he joined forces with General Kemp. However, they too were beaten and Beyers drowned while trying to escape across the Vaal River. Kemp led the rest of his men to safety in German territory to join up with General Maritz but only after a long and brutal march across the Kalahari. Kemp was eventually captured in 1915 though by his former comrade General Jaap van Deventer after which he served time in prison and went on to become minister of agriculture in 1924.

The potential Boer rebellion had been crushed in its infancy and Prime Minister Botha went ahead with his invasion of German Southwest Africa. On hand to oppose him was Manie Maritz who had no intention of giving up so easily. He was aided by the fact that the Germans had probably the best colonial army in Africa and although hopelessly outnumbered they fought with considerable skill and tenacity. Early German victories hurled the British invasion back and forced Botha to take a more careful approach. He heard of General Maritz again when the rebel Afrikaner took his Boer troops and with German assistance attacked his former base at Upington, inflicting quite a bloody nose before General van Deventer beat them back. The Union troops faced stiff German resistance, harassing artillery fire, poisoned water wells and land mines in their march into the interior of Southwest Africa. The Germans won a number of stunning victories but eventually the strength of British numbers, some 60,000 troops, proved impossible to overcome and German Southwest Africa was conquered. The British also liberated the loyalists Maritz had turned over to the Germans when they took Tsumeb where the Germans had also been keeping their weapons stockpile for the Boer rebellion.

However, the rebellious General Manie Maritz was not to be captured having escaped yet again, this time to the safety of then neutral Portuguese West Africa (Angola). For the rest of the war years he traveled to Portugal itself and later Spain before returning to his native South Africa in 1923. Once back he proved just as troublesome for the British as he ever had and still somewhat attached to Germany as time would tell. In 1936 he organized a South African Nazi type party with typical anti-Semitic rhetoric thrown into the mix. Of course, in reality, Jews were hardly a presence in South Africa, but it was part of an overall Afrikaner nationalist program and to the disgust of the British and pro-Union South Africans he continued his agitation even after the start of World War II. He did not live to see the final defeat of Nazi Germany though as he died in a car wreck on December 19, 1940 in Pretoria. A lifelong Afrikaner nationalist and enemy of Great Britain he certainly regretted nothing. It would be easy to say (and many have) that the entire Maritz rebellion and the German defeat in Namibia were an exercise in futility and a complete waste of time. However, although the Boers remained subject to Britain and the Germans lost what was arguably their most profitable colony, in a way the German and Boer campaigns were a success for the Central Powers in that they delayed considerably the mobilization of South African troops for use against the more formidable German colonial army in German East Africa (which went on a rampage) and they prevented any transfer of South African troops to the western front during the vital battles fought in 1914. That being said, the evaluation of these actions still depends a great deal on the point of view of the observer. To the British and loyalists General Maritz was a traitor of the blackest sort, a collaborator and ranked at the top of the list of enemies of the British Empire. However, General Maritz is still revered by some Afrikaner nationalists for his dogged defiance and by modern day neo-Nazi Boers who think he was on the right side in World War II as well.

vendredi, 03 juin 2011

Gaddafi ind die Rebellenkommandeure einigen sich auf Waffenstillstand

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Gaddafi und die Rebellenkommandeure einigen sich auf Waffenstillstand – NATO setzt Krieg fort

Die Kämpfe in Libyen schwächen sich ab. Militärquellen berichten, Muammar al-Gaddafi und die Rebellenkommandeure stünden nach zweiwöchigen Geheimverhandlungen kurz vor Abschluss einer ganzen Reihe von Abkommen zur Beendigung des Krieges. Während die Kampfflugzeuge der NATO ihre Angriffe auf die libysche Hauptstadt Tripolis auch in der Nacht zum Mittwoch, dem 25. Mai, fortsetzten, wurden die Bodenkämpfe bis auf wenige örtliche Ausnahmen in einigen kleineren Kampfzonen, in denen einige wenige Rebellenkommandeure noch ausharren, praktisch eingestellt. Aber in den zuletzt heftig umkämpften Städten Misrata, Brega und Adschabia ist Ruhe eingekehrt, als der Waffenstillstand seine Wirkung entfaltete.

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mardi, 31 mai 2011

Peter Scholl Latour: révolutions arabes et élimination de Ben Laden

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Révolutions arabes et élimination de Ben Laden

 

Entretien avec Peter Scholl-Latour

 

Propos recueillis par Bernhard Tomaschitz

 

Q. : Professeur Scholl-Latour, vous revenez tout juste d’un voyage en Algérie. Quelle est la situation aujourd’hui en Algérie ? Une révolution menace-t-elle aussi ce pays ?

 

PSL : La situation en Algérie est plutôt calme et j’ai même pu circuler dans les campagnes, ce qui n’est pas sans risques, mais notre colonne a bien rempli sa mission. Vers l’Ouest, j’ai pu circuler tout à fait librement mais en direction de l’Est, de la Kabylie, je suis arrivé seulement dans le chef-lieu, Tizi Ouzou ; ailleurs, la région était bouclée. Pas tant en raison d’actes terroristes éventuels —ceux-ci surviennent mais ils sont assez rares—  mais parce que des enlèvements demeurent toujours possibles et les autorités algériennes les craignent.

 

Q. : Au contraire de l’Algérie, la Libye ne retrouve pas le calme, bien au contraire. Tout semble indiquer que la situation de guerre civile conduit au blocage total. Comment jugez-vous la situation ?

 

PSL : Je pense qu’à terme Kadhafi et son régime vont devoir abandonner la partie ou que le Colonel sera tué. Mais ce changement de régime et cette élimination du chef n’arrangeront rien, bien évidemment, car, en fin de compte, les deux régions qui composent la Libye, la Tripolitaine et la Cyrénaïque sont trop différentes l’une de l’autre, sont devenues trop antagonistes, si bien que nous nous trouverons toujours face à une situation de guerre civile. Surtout que le pays n’a jamais connu de système politique démocratique. Cela n’a jamais été le cas ni dans la phase brève de la monarchie ni auparavant sous la férule italienne : finalement, il n’y a pas de partis constitués en Libye ni de personnalités marquantes qui pourraient s’imposer au pays tout entier. On peut dire que le système ressemble, mutatis mutandis, à ceux qui régnaient en Tunisie et en Egypte.

 

Q. : Donc ce qui menace la Libye, c’est un scénario à l’irakienne…

 

PSL : Cela pourrait même être pire. Nous pourrions déboucher sur un scénario à la yéménite (BT : faibles structures étatiques et conflits intérieurs) ou, plus grave encore, à la somalienne (BT : effondrement total de toutes les structures étatiques et domination de groupes islamistes informels). La réaction générale des Algériens est intéressante à observer : je rappelle que, dans ce pays, les militaires avaient saisi le pouvoir en 1991, parce que le FIS islamiste, à l’époque encore parfaitement pacifique, avaient gagné les élections libres et emporté la majorité des sièges ; à la suite du putsch militaire, les Algériens ont connu une guerre civile qui a fait 150.000 morts. Aujourd’hui, l’homme de la rue en Algérie dit qu’il en a assez des violences et des désordres. Les Algériens observent avec beaucoup d’inquiétude les événements de Libye et se disent : « Si tels sont les effets d’un mouvement démocratique, alors que Dieu nous en préserve ! ».

 

Q. : Quel jugement portez-vous en fait sur les frappes aériennes de l’OTAN contre Kadhafi, alors que la résolution n°1973 de l’ONU n’autorise que la protection des civils ? Il semble que l’OTAN veut imposer de force un changement de régime…

 

PSL : Bien entendu, l’OTAN a pour objectif un changement de régime en Libye. Le but est clairement affiché : l’OTAN veut que Kadhafi s’en aille, y compris sa famille, surtout son fils Saïf al-Islam et tout le clan qui a dirigé le pays pendant quarante ans. Pourra-t-on renverser le régime de Kadhafi en se bornant seulement à des frappes aériennes ? Ce n’est pas sûr, car les insurgés sont si mal organisés et armés qu’ils essuient plus de pertes par le feu ami que par la mitraille de leurs ennemis.

 

Q. : Comment peut-on jauger la force des partisans de Kadhafi ?

 

PSL : A Tripoli, c’est certain, les forces qui soutiennent Kadhafi sont plus fortes qu’on ne l’avait imaginé. Certaines tribus se sont rangées à ses côtés, de même qu’une partie de la population. Car, en fin de compte, tout allait bien pour les Libyens : ils avaient le plus haut niveau de vie de tout le continent africain. Certes, ils étaient complètement sous tutelle, sans libertés citoyennes, mais uniquement sur le plan politique. Sur le plan économique, en revanche, tout allait bien pour eux. Kadhafi dispose donc de bons soutiens au sein de la population, ce que l’on voit maintenant dans les combats qui se déroulent entre factions rivales sur le territoire libyen. De plus, dans les pays de l’aire sahélienne, il a recruté des soldats qu’il paie bien et qui combattent dans les rangs de son armée.

 

* * *

 

peterscholllatour.jpgQ. : Après la mort d’Ousama Ben Laden, le terrorisme islamiste connaîtra-t-il un ressac ? Al-Qaeda est-il désormais un mouvement sans direction ?

 

PSL : Au cours de ces dernières années, Ousama Ben Laden n’a plus joué aucun rôle et je ne sais pas s’il a jamais joué un rôle… Ben Laden était un croquemitaine, complètement fabriqué par les Américains. Ousama Ben Laden n’a donc jamais eu l’importance qu’on lui a attribuée. Le rôle réel de Ben Laden relève d’un passé bien révolu : il a été une figure de la guerre contre l’Union Soviétique, qui, dans le monde arabe, en Arabie Saoudite, en Iran et ailleurs, a coopéré avec les Américains et les services secrets pakistanais pour récolter de l’argent et des armes afin d’organiser la résistance afghane contre les Soviétiques. Dès que ceux-ci ont été vaincus, il s’est probablement retourné contre les Américains mais il n’a certainement pas organisé les prémisses de l’attentat contre le World Trade Center.

 

Q. : Et qu’en est-il d’Al-Qaeda, qui, selon toute vraisemblance, semble agir depuis l’Afghanistan ?

 

PSL : Les combattants d’Al-Qaeda, qui ont été actifs sur la scène afghane, ne sont pas ceux qui se sont attaqués au World Trade Center. Les auteurs de cet attentat étaient des étudiants, dont une parte est venue d’Allemagne et qui étaient de nationalité saoudienne. Ensuite, il faut savoir que le mouvement al-Qaeda n’est nullement centralisé et, de ce fait, centré autour de la personnalité d’un chef, comme on aime à le faire croire. La nébuleuse Al-Qaeda est constituée d’une myriade de petits groupuscules et c’est la raison majeure pour laquelle je ne crois pas qu’elle cessera d’agir à court ou moyen terme.

 

Q. : Les Etats-Unis veulent étendre à la planète entière la « démocratie » et l’Etat de droit, mais voilà que Ben Laden est abattu sans jugement par un commando d’élite. Cette action spectaculaire aura-t-elle des effets sur la crédibilité des Etats-Unis au Proche et au Moyen Orient, surtout sur les mouvements de démocratisation ?

 

PSL : Cela n’aura absolument aucun effet. Car les Etats du Proche ou du Moyen Orient agiraient tous de la même façon contre leurs ennemis. Au contraire, dans ces Etats, on se serait étonné de voir un procès trainer en longueur. De plus, Ousama Ben Laden aurait pu dire des choses très compromettantes pour les Américains. D’autres gouvernements, y compris en Europe (sauf bien sûr en Allemagne…), auraient d’ailleurs agi exactement de la même façon que les Américains.

 

Q. : Pendant des années, Ben Laden a pu vivre tranquillement au Pakistan. Dans quelle mesure le Pakistan est-il noyauté par les islamistes ?

 

PSL : La popularité de Ben Laden équivaut à zéro en Afghanistan, pays à partir duquel il avait jadis déployé ses actions, parce que les gens ne le connaissent quasiment pas là-bas. Mais au Pakistan, il est désormais devenu une célébrité, parce que son élimination a été perpétrée en écornant la souveraineté pakistanaise. Le Pakistan ne reproche pas tant aux Américains d’avoir éliminé Ben Laden, mais d’avoir enfreint délibérément, et de manière flagrante, la souveraineté territoriale de leur pays, dans la mesure où Washington n’a jamais informé les autorités pakistanaises de son intention d’envoyer un commando pour liquider le chef présumé d’Al-Qaeda. C’est essentiellement cela que les Pakistanais reprochent aujourd’hui aux Américains. Cette manière d’agir est contraire à l’esprit de tout bon partenariat, un partenariat que l’on dit exister entre les Etats-Unis et leur allié pakistanais.

 

(entretien paru dans « zur Zeit », Vienne, n°21/2011 ;  http://www.zurzeit.at/ ; trad.. franc. : Robert Steuckers).

vendredi, 27 mai 2011

Deutliche Warnung an die USA

Deutliche Warnung an die USA: Moskau bezieht Position zu arabischen Aufständen

libya_xlarge.jpgAm Tag vor der Grundsatzrede des amerikanischen Präsidenten Barack Obama zur Nahostpolitik am Donnerstag, dem 19. Mai, äußerte der russische Präsident Dmitrij Medwedew eine deutliche Warnung in Richtung Washington. Auch wenn der Inhalt der Warnung in keinem direkten Zusammenhang zum Nahen und Mittleren Osten steht, zeigt der Zeitpunkt doch, dass sie eine große Bedeutung für die Region besitzt. Sollte es im Falle des neuen Raketenabwehrschildes nicht zu einer Einigung kommen, erklärte der russische Präsident, könnte dies dazu führen, dass sich seine Regierung aus dem neuen Abrüstungsvertrag zurückziehe und in einen neuen Kalten Krieg gegen den Westen eintrete.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/redaktion/deutliche-warnung-an-die-usa-moskau-bezieht-position-zu-arabischen-aufstaenden.html

jeudi, 26 mai 2011

Hinter dem Rücken der NATO

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Hinter dem Rücken der NATO: Libysche Rebellenführer stehen kurz vor Einigung mit Gaddafi

Eine Delegation des Nationalen Übergangsrates, der die Rebellen in Libyen vertritt, war am Donnerstag, dem 12. April, zu Gesprächen mit dem britischen Premierminister David Cameron in London eingetroffen. Aufmerksamen und genauen Beobachtern dürfte nicht entgangen sein, dass der Delegation kein einziger Militärkommandeur angehörte. Zwei Tage später reiste die Delegation am 14. April nach Paris weiter, um sich mit dem französischen Staatspräsidenten Nicolas Sarkozy zu treffen.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/redaktion/hinter-dem-ruecken-der-nato-libysche-rebellenfuehrer-stehen-kurz-vor-einigung-mit-gaddafi.html

jeudi, 19 mai 2011

Le Projet DESERTEC, un enjeu géostratégique

Le projet Desertec, un enjeu géostratégique

 

 
Il est temps, pour tenir compte à la fois de la crise du nucléaire et du printemps des peuples arabes, que les Européens réactivent des projets jusqu'ici jugés utopiques

 


La conviction selon laquelle les pays développés doivent envisager des programmes de grande ampleur pour produire de l'électricité à partir d'énergies renouvelables se répand de plus en plus. Le terme de programmes de grande ampleur désigne des projets technologiques se chiffrant en dizaines de milliards d'euros, s'étendant sur plusieurs décennies, susceptibles d'intéresser des industriels majeurs et d'avoir une signification géopolitique de grande portée.

Ceci ne veut pas dire qu'il faille négliger ni de petits investissements à ambition locale, ni les économies d'énergie, qui demeureront indispensables. Mais si l'on veut progressivement commencer à remplacer à la fois le nucléaire de fission et les centrales au charbon, qui fournissent actuellement l'essentiel de l'électricité consommée, il faut voir grand. Il faut aussi, ne l'oublions pas, parler aux imaginations afin de susciter les vocations technoscientifiques et les épargnes.

Il se trouve que, dans le domaine de l'énergie solaire, existait depuis quelques années, à partir d'une initiative principalement européenne, un grand programme de cette nature, nommé Desertec. Pour différentes raisons (notamment la résistance des intérêts investis dans les formes actuelles de production d'énergie) ce programme avait été recouvert par ce qu'il faut bien appelé une chape de silence. Deux facteurs différents poussent à le relancer.

Le premier est bien entendu l'accident de Fukushima au Japon. Le second, de nature géopolitique, découle de ce que l'on a nommé le printemps arabe. Un certain nombre de pays du sud-méditerranéen se sont débarrassés de leurs dictatures. Ils se sont ouverts au dialogue avec les pays du nord et ont montré que leurs populations se détournaient progressivement des fantasmes de djihad. Mais ce faisant ces pays posent, en premier lieu aux Européens, la question de savoir si les économies du Nord pourront ou non proposer, en dehors de tout retour au néocolonialisme, des projets de co-développement susceptibles de créer des emplois par miliers et des revenus susceptibles de se réinvestir sur place. Sans ces emplois et ces revenus, les nouvelles démocraties retomberont nécessairement dans le désordre. Or c'est précisément ce que le projet Desertec, s'il était bien mené, pourrait permettre: une vague de co-développement à l'échelle euro-africaine.

Nous pensons donc essentiel que l'Union européenne s'intéresse désormais officiellement à Désertec, tant au regard de ses retombées socio-économiques que pour ses composantes géopolitiques. Il s'agirait de concrétiser, pour toute l'Europe et non pour les seuls pays européens du sud, le thème évoqué par le projet d'Union pour la Méditerranée: créer dans cette partie du monde un grand ensemble d'intérêts communs. L'intérêt de Desertec est à cet égard de pouvoir s'étendre au delà de la seule Méditerranée. Il pourrait intéresser, en conjuguant d'autres sources de production d'électricité, notamment l'éolien et le marée-moteur, une grande partie de l'hémisphère nord à l'est du 20e Méridien. Pour l'Europe, il s'agirait donc également d'une démarche véritablement emblématique

Les adversaires du projet ont fait valoir qu'impliquant directement des Etats ou des régions sahariennes plus ou moins en but au terrorisme, des organisations telles que l'actuelle AQMI pourraient en profiter pour exercer un chantage permanent sur les partenaires du projet. Mais il s'agit d'une vue de l'esprit. Si Desertec était mis en oeuvre avec la volonté d'associer dès le début les Etats et les populations du Maghreb, il représenterait un tel enjeu qu'il serait non pas agressé  mais protégé et soutenu par tous les partenaires africains du programme.

 

Nous extrayons des sites de la Fondation Desertec et de Wikipédia quelques informations permettant de préciser la teneur de cette grande ambition.

Le Projet Desertec est un projet éco-énergétique de grande envergure mené par la Desertec Foundation. Il a été initialisé sous les auspices du Club de Rome et de la Trans-Mediterranean Renewable Energy Cooperation.

Il s'agit de créer un réseau interconnecté alimenté par des centrales solaires du Maroc à l'Arabie Saoudite, reliées par des réseaux à très haute tension. Le projet vise à répondre en grande partie aux besoins des pays producteurs d'Afrique du Nord et du Moyen-Orient, et à fournir 15% (dans un premier temps) de l'électricité nécessaire à l'Europe.

Un protocole d'accord pour le projet a été signé par douze sociétés basées en Europe, au Proche-Orient et en Afrique du Nord, le 13 juillet 2009 à Munich. En mars 2010, quatre nouveaux investisseurs ont annoncé qu'ils s'associaient au projet, ce qui porte à 17 le nombre de partenaires (16 entreprises représentant un potentiel technique et de savoir-faire considérable) et la fondation Desertec elle-même.

L'entreprise vise à connecter plusieurs grandes centrales solaires thermiques et peut-être d'autres installations d'énergies renouvelables (fermes éoliennes) entre elles ainsi qu'au réseau de distribution de l'électricité qui alimenterait l'Afrique du Nord, l'Europe et le moyen-Orient, ce réseau pouvant être optimisé via une approche de type SuperGrid.

Mais Desertec ne se limitera pas à la production d'énergie : il participera aussi au développement des pays en créant de nombreux emplois locaux. Dans un premier temps, il s'agira de la main d'œuvre acceptant de travailler dans les conditions difficiles du milieu désertique.Mais il faudrait très vite que s'y investissent les ingénieurs et gestionnaires originaires des pays du sud.

Les promoteurs estiment qu'un tel réseau pourrait avant 2050 fournir plus de 50 % des besoins en électricité de la région EUMENA (Europe + Moyen-Orient + Afrique du Nord).
Les difficultés à résoudre seront nombreuses, mais tout à fait à la portée des technologies actuelles ou disponibles dfans un proche avenir .

Pour la production, on envisage des centrales solaires thermodynamiques à concentrateurs, c'est-à-dire utilisant des miroirs paraboliques pour produire de la vapeur d'eau à très haute température et sous forte pression, qui fait tourner une turbine et un alternateur produisant de l'électricité. Divers équipements de cette nature existent déjà en Europe
Ces centrales consomment beaucoup d'eau douce (un problème en zone aride) et conduisent à modifier la météorologie du désert et contribuer peut-être à exacerber certains effets du dérèglement climatique. Mais des remèdes sont possibles.

Pour le transport de l'électricité, les concepteurs du projet espèrent pouvoir utiliser de nouveaux types de lignes Haute Tension (lignes de transmission modernes en Courant Continu Haute Tension ou CCHT ou HVDC) devant permettre de transporter l'électricité sur de grandes distances avec beaucoup moins de pertes en ligne (3% pour 1.000 km) qu'avec les lignes classiques à courant alternatif, et presque sans pollution électromagnétique. Dans la conjoncture actuelle, caractérisée par le prix croissant du cuivre et alliages conducteurs, il s'agira d'une partie fragile, à protéger.

Pour le strockage, la production d'électricité ne se faisant que de jour, une partie de celle-ci pourra en être utilisée pour pomper l'eau vers des lacs de montagne en Europe, qui en possède beaucoup. L'utilisation la nuit de l'énergie de cette eau dans des turbines assurerait sa mise à disposition homogène au profit de l'ensemble du réseau.

Le coût global du projet a été estimé à 400 milliards d'euros sur plusieurs dizaines d'années, dont 50 milliards pour construire 20 lignes CCHT de 5 GW chacune. On peut craindre que ce coût n'augmente. Mais il sera aisément amorti grâce au prix de vente de l'électricité, dont les pays développés doivent cesser de considérer qu'il s'agit d'une énergie bon marché.

 

 

 

08/05/2011

samedi, 14 mai 2011

Mayotte, département français: une calamité!

Par Robert Spieler (*)

MAYOTTE.gifMayotte, ce confetti situé dans le canal du Mozambique, entre Madagascar et l’Afrique, est devenue le 101ème département français, le 4 avril 2011, suite au référendum du 29 mars 2009 : une calamité…

 

Un peu d’histoire :

 

Mayotte, située dans l’archipel des Comores ne représente qu’une surface minuscule (374 km2) : deux îles entourées d’un récif corallien et d’un magnifique lagon. On la surnomme l’île aux parfums, tant la présence de l’ylang-ylang, utilisé en parfumerie, est abondante. Les Comores sont, au XIXème siècle, l’objet de luttes incessantes entre roitelets locaux. Elles survivent avec peine grâce au trafic d’esclaves à destination du Moyen-Orient. Un sultan malgache, qui règne sur Mayotte, appelle au secours un Français, le commandant Pierre Passot. Et cède son île à la France pour la modique somme de 1 000 piastres. L’archipel ne représente en réalité aucun intérêt pour la métropole : éloigné des grandes routes maritimes, pauvre, sans ressources, il n’intéresse guère l’administration coloniale. Mayotte, une des îles de l’archipel (il y a aussi Anjouan, Grande Comore et Mohéli) ne compte que 3 000 habitants.

 

La situation administrative des Comores perdurera jusqu’en 1968, où la France lui concède une large autonomie interne, prélude à l’indépendance. Mais les maladresses vont succéder aux maladresses. Jacques Foccart, l’homme ‘Afrique ‘ de De Gaulle choisit un riche commerçant, Ahmed Abdallah, de l’île d’Anjouan, concurrente de Mayotte pour diriger le pays. Les Mahorais ont peur de ce tyranneau et, pour s’en protéger, proclament leur attachement indéfectible à la France. Un référendum décisif a lieu le 22 décembre 1974. Les Mahorais se prononcent à 63% contre l’indépendance, les autres Comoriens votent à 95% pour. Dès lors, le problème devient inextricable. La grande majorité des Comoriens a voté pour l’indépendance. On arrête là ?  Non, au mépris du droit international, et aussi sur la pression de groupes « nationalistes » français, notamment royalistes (Pierre Pujo et Aspects de la France furent très actifs dans ce lobbying), qui s’émerveillent de voir le drapeau tricolore flotter sur tous les continents, la calamité nationale Giscard d’Estaing, deux ans avant le « regroupement familial », décide de reconnaître à Mayotte le droit de vivre sa vie. Sa vie au sein de la France. Le 8 février 1976, les habitants de Mayotte votent par référendum à 99% en faveur de l’intégration à la France.

 

Depuis lors, Mayotte est administrée par des fonctionnaires venus essentiellement de métropole.

 

Les conséquences

 

Mayotte, qui comptait en 1841, 3000 habitants, en compte aujourd’hui 200.000, tous musulmans. Toutes les nuits, à partir de l’île d’Anjouan, distante de cinquante kilomètre, des comoriennes sans papier embarquent, enceintes, dans des embarcations de fortune, les kwassa-kwassa pour venir accoucher à Mayotte, c'est-à-dire en France. Et c’est à Mamoudzou, chef-lieu de la collectivité territoriale, que se trouve la plus grande maternité de France : 5000 naissances par an sur un total de 8000. Les comoriennes ne sont, au demeurant, pas les seules à débarquer. Des malgaches, des africaines qui viennent faire bénéficier leurs enfants du droit du sol … Inutile de relever qu’il y a un fossé culturel entre Mayotte et la France. Il y a quelques années, on pouvait lire sur les feuilles d’impôts de l’île « première femme », « deuxième femme » dans la liste des personnes à charge à déclarer…

 

Grâce à Mayotte, le Ministère de l’Intérieur peut se targuer de chiffres quelque peu valorisants de reconduite à la frontière de clandestins. Mais ces chiffres n’ont aucune signification. Tous les matins, la police procède à l’arrestation de clandestins dans les villages de brousse.  Qui sont expulsés et reviennent tranquillement dans les semaines qui suivent. On en voit même qui, désireux de retourner à Anjouan, pour un décès ou une fête de famille, se rendent d’eux-mêmes à la gendarmerie pour réclamer leur rapatriement en avion ou en bateau. Tous frais payés. Et qui reviennent derechef…

 

Quant au système éducatif, il est en toute première ligne pour encaisser le choc de cette natalité considérable et de cette immigration massive. Beaucoup ne sont pas francophones. On bricole pour faire face. On recrute des instituteurs au niveau du bac. On instaure un système de rotation : la moitié des classes viennent de 7 à 12h20, l’autre moitié de 12h30 à 17h40. Pour suivre, il faudrait construire trois collèges par an ! Et combien de lycées demain ?

 

La délinquance progresse, quant à elle, de façon spectaculaire. On envisage la construction d’une deuxième prison. Le nombre d’enfants ou d’adolescents livrés à eux-mêmes est énorme. Les conditions d’hébergement du centre de rétention épouvantables. Un apartheid de fait existe à Mayotte : des quartiers habités par les blancs, ultra protégés. Quant aux autres…

 

Mayotte est de fait, en état de faillite. Prendre en charge cette île va coûter des sommes astronomiques. Il y a certes, sans doute, de l’argent à faire, au profit de certains privilégiés, à Mamoudzou. Pour des banquiers, des entrepreneurs de travaux publics, des fonctionnaires. On s’apprête à construire un hôtel de luxe… Et des écoles, et des prisons, et sans doute demain un somptueux Hôtel du Département… L’essentiel de cette « richesse » qui se déversera sur l’île proviendra, bien sûr, de la poche des contribuables français.

 

Quelle folie que Sarkozy se soit engagé dans la départementalisation ! En ce 35ème anniversaire du regroupement familial, voulu par Chirac et Giscard d’Estaing, désignons cette droite méprisable, collaborationniste, qui trahit les intérêts de notre Peuple. Et considérons que c’est elle, l’ennemi principal…

 

(*) Tribune libre publiée dans Rivarol n°2995 (30 avril 2011)

 

Source : le blog de Robert Spieler, cliquez ici

 

jeudi, 12 mai 2011

Der Krieg in Libyen, amerikanische Macht und der Niedergang des Petrodollar-Systems

Der Krieg in Libyen, amerikanische Macht und der Niedergang des Petrodollar-Systems

Peter Dale Scott

Der gegenwärtige Kampfeinsatz der NATO gegen Gaddafi in Libyen hat sowohl unter denjenigen, die diesen wirkungslosen Krieg führen, als auch unter denen, die ihn beobachten, für große Verwirrung gesorgt. Viele Menschen, deren Ansichten ich normalerweise respektiere, halten dieses Vorgehen für einen notwendigen Krieg gegen einen Verbrecher – wobei einige Gaddafi als den Verbrecher sehen, andere dagegen auf Obama deuten.

Nach meiner persönlichen Auffassung ist dieser Krieg geleichermaßen schlecht durchdacht und gefährlich – er bedroht die Interessen der Libyer, der Amerikaner, des Mittleren Ostens und durchaus vorstellbar auch der ganzen Welt. Neben dem vorgeschobenen Anliegen der Sicherheit der libyschen Zivilbevölkerung gibt es noch einen verborgeneren Beweggrund, der kaum offen zugegeben wird: die westliche Verteidigung der derzeitigen weltweiten Petrodollar-Wirtschaft, die im Niedergang begriffen ist.

Die Verwirrung in Washington, zu der das Fehlen jeglicher Diskussion über ein vorrangiges strategisches Motiv für eine amerikanische Einmischung passt, steht symptomatisch für die Tatsache, dass das Ende des »Amerikanischen Jahrhunderts« gekommen ist und es auf eine Weise zu Ende geht, die einerseits auf lange Sicht vorhersehbar ist und andererseits sprunghaft und unkontrollierbar in den Einzelheiten erfolgt.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/peter-dale-scott/der-krieg-in-libyen-amerikanische-macht-und-der-niedergang-des-petrodollar-systems.html

 

 

mercredi, 11 mai 2011

Africa and the New World Order

Africa and the New World Order

 
 
africommap.jpgTo paraphrase Harold Macmillan, a “wind of change” is blowing through Africa. But, unlike 1960, when the former British Prime Minister made his famous remark, the wind today is not that of a growing national consciousness in the mud huts and shanty-towns, but instead the stiff breeze of a new kind of Neocolonialism.

Already this year, we have seen significant events in three places: Sudan, Libya, and most recently Ivory Coast, where the country’s President, Laurent Gbagbo was successfully removed from power with the active military participation of France and the United Nations. In these three cases we can see the emerging lineaments of a new modus operandi in Africa, one that secretly recognizes the limitations of African society and under a false flag of humanitarian concern ruthlessly exploits what the continent has to offer.

To understand what is happening, we need to bear in mind Africa’s very specific role in the greater global economic order. In fact, this also explains a lot about its history. In order to maximize economic efficiency in the last few decades, the world has seen a major separating-out of the key economic functions, rather like the division of labour described by Adam Smith in The Wealth of Nations, and while any racial implications in this reorganization are strenuously denied, much of it is based on the inherent characters of different national and racial groups.

For example, the qualities of the Germans and the Asians have marked them out as the world’s premier manufacturers; while the individualism, extravagance, sense of entitlement, and former economic greatness of North Americans and some Europeans make them the perfect global consumer class. While many may look askance at citing consumption as an important economic function, in our overproducing global economic system it is vital. Without the massive trade deficits of the West, the rest of the World would be sunk. Indeed, it is the world’s overwhelming need for a major consumer that more than anything shores up America’s increasingly hollow power.

It may have been the dawning sense of this new global “division of labour” that hastened the removal of the old colonial system from Africa rather than any impetus caused by the largely feeble efforts of African nationalism. Although colonialism certainly taught the African to hate the White man by driving home his inferiority in a number of key indices, anyone who has lived in Africa, as I have, will know that petty tribalism, and not broad-based nationalism, has been and is always likely to be the driving force in that considerable part of the world.

So, what use does the global economic order have for Africa? Sadly, the Africans are terrible producers, lacking the precision, conscientiousness, group ethic, and self-sacrificing qualities needed to constitute a hard-working, reliable industrial population. Not to mention the issue of IQ! They are equally inept when it comes to consumption, and not only because of their proverbial penury and otherwise laudable penchant for reusing every piece of junk that comes their way. Even when they have money to burn, they seem more attracted to simple bling than to acquiring the wide variety of gizmos, gadgets, home appliances, bric-a-brac, and exotic interests that support vast export industries. The lack of protection accorded property in Africa also plays an important role in disqualifying them from this key economic function.

This means that Africa’s economic destiny is simply to be a raw material source—oil, gas, minerals, and a few tropical crops—something for which its still relatively virgin vastness makes it an ideal candidate. In the past this was always the case, although then it was gold, ivory, and slaves that slowly turned the wheels of commerce. Nobody thought the continent was worth bothering about beyond this, especially the Sub-Saharan portion. That was until the discovery of the Americas, two virgin continents that proved eminently more developable.

The tragic shortage of labour in the fast developing New World, in large part caused by European diseases, led to the unfortunate institution of the trans-Atlantic slave trade, and while the labour mobilized at the crack of whip played a key role in working sugar cane plantations and silver mines, the partial success of the system also fostered the mistaken belief among Europeans that Africa and the Africans had the same sort of economic potential as anywhere and anyone else in the World. All it would take would be a few guns, Bibles, and copies of Samuel Smiles Self-Help to turn Bulawayo into Chicago.

This is how 19th-century colonialism really should be seen—as a vote of confidence by Europeans in the capabilities and ultimate potential of the Black man. Without the belief that the African could ultimately become just as economically upstanding as the European or Asian, the great 19th-century wave of colonization and investment in the Dark Continent would never have happened.

Harold Macmillan’s Winds of Change speech probably marks the point when European colonialists and capitalists realized that the game was up and that, for one reason or another, Africa was never going to be America or Japan, leapfrogging from wilderness or agrarian backwater to economic greatness.

Once the colonialists upped sticks, merely allowing Africa to revert to its wild state was not an option. In the period before colonization, various goods from the interior had naturally trickled down to the European and Arab trading posts and forts dotted along the coast. However, in the post-colonial period the kind of amounts produced by this process were wholly insufficient. Although the flags were lowered, Africa had to be kept on tap. This is what determined the characteristics of Neocolonialism: a system that could get the raw materials out more efficiently than the natives would left to themselves. Absolute efficiency was not required as that would simply flood the market and reduce profits, but some quickening of Africa’s natural tendencies was required.

The characteristics of the system of Neocolonialism that emerged included:

  1. Creating and maintaining vast ethnic and tribal patchwork states that ignored the principle of local self-determination

  2. Fostering tribal divisions to keep the states weak, encourage tyranny, and to exert leverage on the rulers

  3. Various forms of bribery, including corporate bribery, foreign “aid,” and other incentives

  4. Granting major Western corporations carte-blanche exploitation rights and allowing them access to cheap unskilled labour to supplement imported skilled labour

  5. Occasional, low-key military intervention

The most successful African dictators, like the Congo’s Joseph Mobutu and Ivory Coast’s Félix Houphouët-Boigny, realized that their role was to facilitate raw material extraction, rather than develop their countries or challenge the ex-colonial masters. They instinctively understood that their slice of the profits should be used in ways the Neocolonialists found non-threatening—depositing the money in Swiss banks, for example, importing European haute-couture, or building shining palaces or cathedrals in the jungle.

Mobutu and Nixon

Joseph Mobutu and Richard Nixon, 1973

But Neocolonialism could only work when applied to weak states, of which Africa has plenty. Some African rulers, buoyed up by Islam, Communism, or Arab Nationalism, could escape its grasp. Examples here include Nasser in Egypt, Gaddafi in Libya, and Mengistu in Ethiopia. Against such rulers, Neocolonialism could do little except play a waiting game.

Nor was Neocolonialism always negative. Under its first president Houphouët-Boigny, Ivory Coast saw particularly good relations with its ex-colonial power, France, and the development of the country’s coffee and cocoa crops, with a large influx of foreign labour from poorer Northern countries like Burkina Faso and French experts who helped run everything from the army and economic planning to the cocoa harvest. This gave the country one of the highest standards of living in post-colonial Africa, leading to the term “The Ivorian Miracle,” although problems started to set in following the slump in the price of its main export cocoa in the 1980s.

Many of the coups and revolutions in post-colonial African history that otherwise look so random and pointless, and seem like the result of tribalism or over-ambitious army officers, start to make more sense in the context of Neocolonialism. Ivory Coast is a good example. In 1999, Houphouët-Boigny’s successor, Henri Konan Bédié, was removed by a coup; while in 2002 an attempted coup tried to remove Laurent Gbagbo, and ended up splitting the country into Northern and Southern halves. Unlike their esteemed predecessor, both these leaders succeeded in antagonizing France, most noticeably by attempting to shore up their positions through mobilizing resentment against immigrant labourers and foreign economic interests.

But old-fashioned Neocolonialism of the type that was behind removing Bédié and putting and keeping Mabuto in power in the Congo had to rely on low-key opportunism and subtle methods. The public back home could not be made too aware of the bribery, contacts with thugs and tyrants, weapons smuggling, and occasional employment of small groups of mercenaries. The environment of the Cold War also meant that Neocolonialism had to tread softly, so much so that even petty dictators like Robert Mugabe, who could benefit from the crutch of having a White population to oppress, were able to defy it.

But the soaring need for African commodities combined with the festering apathy of Africans, who, after 50 years of being tyrannized and brutalized by their own kind, have largely lost their faith in the dream of independence, has led to a major revamping of Neocolonialism, so much so that it has effectively become something else that can best be termed “Global-colonialism” because (a) it is designed to subordinate Africa to the global division of economic functions, (b) the moral justification for the system hinges on globalist “humanitarian values,” and (c) its chief agents are the key globalist nations, America, Britain and France.

The system retains many of the methods of Neocolonialism, including setting tribe against tribe, extensive bribery, weapons smuggling, and giving the green light to those with their own axe to grind. But there are also important differences:

  1. Unlike Neocolonialism, which preferred long-term rulers and only sought to remove leaders who were uncooperative, Global-colonialism has a preference for shorter-term leaders and places more emphasis on elections. This actually creates more leverage as rulers constantly need the endorsement of the West. Even if elections produce the “wrong” result, they can always be declared invalid due to ballot fraud or corruption as these phenomena are always present in any African election.
  1. While Neocolonialism tended to be low-key and avoided publicity, Global-colonialism is noisy and demonstrative. It always tries to involve the media, which is one of its key arms. (In the event that the individuals and groups it elevates turn out to be Al-Qaeda sympathizers or genocidal thugs, expect Orwellian U-turns and the full exploitation of the public’s short attention span and near total ignorance of Africa.)
  1. Global-colonialism is prepared to use much greater military force. This includes the smuggling of larger quantities of arms than before, as well as higher calibre weapons, such as the Ukrainian tanks the U.S. was caught smuggling to the Southern Sudanese rebels through Kenya in 2008. It also includes direct military intervention of the kind that removed Gbagbo and prevented Gaddafi crushing the Libyan rebellion. There is a preference for air power and specialist ground forces rather than the kind of heavily involved military intervention that has occurred in other parts of the world. Cost may be a factor. Nevertheless, this is certainly a step up from the old days of “The Dogs of War.”
  1. To justify such military action, “human rights” and “protecting the civilian population” are tirelessly invoked. However, such “Totalitarian Humanism” can be applied very selectively, as we see in the case of Ivory Coast, where massacres by the French- and UN-approved rebels did not result in any military action being taken except on behalf of the same rebels.
  1. There is a willingness to change borders as seen in Sudan and the suggestion that Libya too might be partitioned.
  1. Perhaps because the system is new, Global-colonialism places great importance on getting someone—indeed anyone—to sign the chit for its actions. This is supposed to give a disinterested gloss to any intervention. Ideally, the signer should be the United Nations, but other suitable candidates include the African Union, the Arab League, or even, I suspect, the local chapter of the Abidjan Boy Scouts.

Global-colonialism can be seen as a combination of three separate pre-existing strands: (i) Neocolonialism, (ii) the kind of humanitarian intervention pioneered by the United Nations Mission to Sierra Leone in 1999, and (iii) a more cynical but equally virulent form of the old neocon crusading spirit.

The element of humanitarian intervention, oddly enough, has rock n’ roll roots, stemming from the naïve do-goodism of Bob Geldof’s Live Aid and other efforts by pop stars like Bono to “improve” the world without touching their own bank balances. This has played a significant role in seeding the idea among the wider public and giving Global-colonialism its strong pseudo moral imperative.

Given Neocolonialism’s preference for large ethnic patchwork states, Global-colonialism’s willingness to change borders is noteworthy. This has its precedents in the campaign to help the Kosovars and Montenegrins break away from Serbia, but seeing this concept applied to Africa in the case of Sudan is intriguing. If followed to its logical conclusion, the decision to support the creation of new states based on local ethnic factors would lead to practically every border in Africa being redrawn, with the creation of dozens, if not hundreds, of new statelets. Clearly this would remove a useful mechanism for imposing effective tyrannies over large areas or destabilizing and removing leaders it did not like, so why has Global-colonialism supported it in this case?

Blair and GaddafiThe PR men for Global-colonialism would claim that, after decades of civil war and millions of deaths, partition is the only way to “save human lives” and achieve a “lasting peace.” But this ignores the fact that both the states created by this division will still be ethnic patchworks. A more likely explanation is that, in addition to wishing to humiliate Khartoum, the Global-colonialists are simply removing an overly polarizing division that serves to unite the diverse groups on either side of the divide. With the non-Muslims in the South out of the way, the simmering divisions between the Muslim Furs, Nubians, Bejas, and various Arab-speaking groups in the North will move to the fore; while, in the same way, in the new state of South Sudan ethnic divisions long suppressed by the need to fight Islamic oppression will also bubble to the surface. This, in effect, creates much better conditions for the profitable exploitation of the oil fields in the region.

Global-colonialism means that no African ruler can now count himself safe. This was vividly demonstrated in Côte d'Ivoire, where Laurent Gbagbo was perhaps its first clear-cut scalp. Having displeased the French with his anti-immigrant and anti-French populism, he suffered an old style Neocolonialist coup in 2002 that didn’t quite work. After a stand-off lasting several years that was resolved by an agreement to hold an election, the campaign against him then entered a new phase that was clearly Global-colonialist in character.

After a disputed election result, Gbagbo’s authority was undermined by foreign criticism and calls for him to stand down, immediately followed by a military push from the Northern rebels supported by France and then the UN, along with a media blitz. At the same time that NATO was bombing Libya to “protect human life,” the rebel forces on their way south committed massacres, most notably at the town of Duekoue, but rather than NATO or even France bombing the roads carrying the rebels south, the issue was fudged and forgotten, allowing the perpetrators to close in on Gbagbo’s power base of Abidjan.

With the rebels unable to storm the president’s heavily-defended compound, French ‘peacekeepers’ in the country since 2002, along with some Ukrainian helicopter gun-ships under the auspices of the UN, blew away Gbagbo’s heavy defences, leading to his capture. There have also been rumours that rather than the undisciplined rebel forces, it was actually French specialist ground troops who delivered the coup de grâce. Either way, the rebel leader and the new president, Alassane Ouattara, with his immigrant origins, ties to the old Houphouët-Boigny regime, and French-Jewish wife is much more to the tastes of the old Neocolonialists as well as the new Global-colonialists.

With successes in The Sudan and the Ivory Coast, the new paradigm of Global-colonialism has so far been proving itself effective. Cheaper than full-scale war, but with more cutting edge than Neocolonialism, Global-colonialism seems the ideal tool for integrating Africa’s resources into the global economy.

Of the three cases mentioned, Libya is obviously proving the more difficult one, but even here the removal of half the country from the control of Gaddafi must be counted a success. This is the kind of result that Neocolonialism could never have achieved. The Gaddafi clan may hang on. They may even regain control over the rebel-held part of the country. But, even if they do, they will be much weaker than they were before and may well decide to follow the route of Mabuto and Houphouët-Boigny, especially as the next generation of the clan is likely to lack the Quixotic tendencies of its founder.

In its early days Gaddafi’s regime gave a glimpse of what a new kind of radical African nationalism might be like. Rather than spending the nation’s oil revenue on the bling that attracted other African leaders, Gaddafi used it to stir up trouble and challenge the status quo, rather like a latter day Hannibal taking on the Roman Empire. This was possible in the post-colonial age when Neocolonialism had to tread lightly and pull its punches, but now recalcitrant African leaders face a different beast, armed with longer teeth and sharper claws and the kind of PR that makes it seem all fuzzy and cute. Back in the ‘50s and ‘60s, the Wind of Change ruffled the coat tails of a departing colonial order, but now, the hurricane of Global-colonialism is blowing the other way.

 
 
 
Colin Liddell

Colin Liddell

Colin Liddell is a Tokyo-based journalist.

Brèves réflexions sur les "révolutions arabes"

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Bernhard TOMASCHITZ :

Brèves réflexions sur les « révolutions arabes »

 

Les Egyptiens ont placé d’énormes espoirs dans leur révolution. Mais maintenant que le régime dictatorial d’Hosni Moubarak appartient définitivement à l’histoire, une strate particulière de la population égyptienne verra sans doute sa situation changer de manière dramatique. Je veux parler de la minorité copte, qui forme quelque 10% des 80 millions d’habitants de l’Egypte et qui, déjà, depuis un certain temps, est la cible de débordements et de violences.

 

Quoi qu’il en soit, la nouvelle constitution du pays, acceptée avec une très large majorité en mars, ne laisse rien augurer de bon pour les Coptes, car elle prévoit que la Charia, c’est-à-dire le droit islamique, sera « la source principale du droit ». Ce qui est le plus étonnant, c’est que ce refus de toute forme laïque d’Etat ne provoque aucun cri d’orfraie en Occident chez les fabricants d’opinions et chez les exportateurs patentés de « démocratie ». Finalement, les victimes potentielles de cette nouvelle constitution islamiste ne seront « que de simples chrétiens ». Or il y a eu un précédent : les chrétiens d’Orient, dans l’Irak d’après Saddam Hussein, constituent le groupe ethno-religieux qui a eu le plus à souffrir du changement. Dans le pays du Tigre et de l’Euphrate vivait près d’un million de chrétiens : aujourd’hui, d’après les estimations, il n’y en aurait plus que 300.000 et leur nombre diminuerait encore. Les chrétiens de Syrie pourraient subir le même sort que leurs homologues irakiens, après la chute du régime d’el-Assad, dès que le pays pourrait jouir des « libertés démocratiques », ce qui amènerait probablement les « Frères musulmans » à devenir la principale force politique à Damas.

 

Mais il n’y a pas que les chrétiens qui risquent de connaître des temps sombres : certains musulmans sont également dans le collimateur des nouveaux pouvoirs potentiels. Au cours de ces dernières semaines, en Egypte, plusieurs attentats ont été commis contre des sanctuaires chiites. Le chiisme, on le sait, est une variante de l’islam, qui met surtout l’accent sur le mysticisme, ce qui fait que les islamistes les considèrent comme relaps par rapport à la « vraie foi ». Ces destructions de sanctuaires chiites sont attribuées aux  salafistes qui professent un islam particulièrement intolérant à l’égard des syncrétismes et des modernisations. Les salafistes prétendent vouloir retourner à un islam « pur », pareil à celui des origines.

 

Mais derrière tous les événements qui ont animé les scènes arabes au cours de ces quelques derniers mois, il n’y a pas que des querelles religieuses. Il s’agit plutôt de savoir qui exercera le plus d’influence dans le monde arabe. L’Arabie Saoudite, où le salafisme domine la vie sociale et politique sous la forme locale du wahhabisme, est le plus généreux des promoteurs des groupes salafistes en Afrique du Nord, au Proche et au Moyen Orient. Pour le royaume intégriste et rigoriste du désert arabique, les choses sont claires : les époques d’agitation révolutionnaire sont des époques d’incertitude ; l’insécurité et l’incertitude permettent d’orienter les hommes déboussolés vers la « bonne voie », afin de remplir très vite un vide de pouvoir.

 

Bernhard TOMASCHITZ.

(article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°15/2011 ; http://www.zurzeit.at/ ).   

mardi, 10 mai 2011

Prof. Boyle - Libye: "Il s'agit de dominer l'économie mondiale"

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Libye : « Il s’agit de dominer l’économie mondiale »

Entretien avec le Prof. Francis A. Boyle (University of Illinois)

 

Spécialiste renommé du droit des gens, le Professeur Francis A. Boyle, qui enseigne à l’Université de l’Etat d’Illinois, critique la guerre amorcée en Libye. Propos recueillis par l’avocat munichois, Dr. G. Frey jr.

 

GFj : Professeur Boyle, nous Allemands, ne sommes guère satisfaits que les officiels de l’OTAN se soient rencontrés à Berlin pour discuter de la mise au point de leur stratégie face à la Libye. La France veut une intervention plus musclée dans le conflit. L’Allemagne ne participe pas aux frappes aériennes. Où se situe le droit ?

 

FAB : Je voudrais encourager expressément le gouvernement allemand, dans les propos que je vais énoncer ici, à se tenir éloigné de toutes les opérations militaires qui se dérouleront en Libye. La même position devrait valoir pour tous les projets concoctés par l’EUFOR, structure militaire européenne à laquelle appartient aussi l’Allemagne. L’Allemagne doit se tenir en dehors de toutes ces opérations parce qu’en réalité l’objectif est de s’emparer du pétrole libyen, non de garantir des droits ou de faire valoir le droit international. Cela n’a rien à voir avec les considérations d’ordre humanitaire que l’on nous invoque en nous parlant des misères du peuple libyen. La dernière fois que des soldats allemands se trouvaient en Libye, c’était avec la Wehrmacht de Rommel. J’espère que les souvenirs historiques relatifs à ces opérations nord-africaines pendant la seconde guerre mondiale feront en sorte que l’Allemagne actuelle s’abstiendra de se laisser entrainer dans toute intervention occidentale en Libye. Le rôle que joue aujourd’hui l’Italie est bien misérable. Et je le rappelle : en Libye, Rommel a combattu une armée britannique tandis que les Italiens avaient éliminé 100.000 Libyens, sous leur roi puis sous Mussolini. Lorsque j’étais en Libye, j’ai visité un musée où les massacres perpétrés par les Italiens étaient présentés au public !

 

Lorsque je dis que l’Allemagne ne doit pas davantage se laisser entrainer dans ce conflit, que ce soit en fournissant des bombardiers ou en livrant des troupes au sol, je pense que bon nombre d’Allemands suivent mon raisonnement.

 

(…)

 

GFj : La proposition d’armistice énoncée par l’Union Africaine a été rejetée par les rebelles libyens. Que faut-il en penser ?

 

FAB : Cette proposition a également été rejetée par Mme Clinton ! C’est exact. Mais si la situation militaire continue d’être bloquée, il va s’avérer un moment nécessaire de négocier. Il serait très utile alors de voir un Etat puissant en Europe, comme l’Allemagne, membre et de l’OTAN et de l’UE, qui puisse coopérer avec l’Union Africaine, pour obtenir une cessation des combats par des moyens pacifiques. L’Allemagne pourrait jouer un rôle important dès le moment où les protagonistes, même contre leur gré, se rendront compte que des négociations sont incontournables. Mais, en attendant, les Américains et les rebelles libyens, les Français et les Britanniques excluent toutes négociations, même si l’article 2, paragraphe 3, de la Charte des Nations Unies prescrit la résolution pacifique des conflits internationaux. Et si l’on se réfère au Pacte Briand-Kellog de 1928, auquel ont adhéré l’Allemagne, les Etats-Unis, la France, la Grande-Bretagne et l’Italie, on doit savoir que la guerre, comme moyen d’obtenir une solution en tous litiges internationaux, est proscrite. Le règlement des conflits doit dès lors s’effectuer uniquement par des moyens pacifiques. Nous avons, je le rappelle, traduit en justice les chefs de l’Allemagne nationale-socialiste lors du procès de Nuremberg pour avoir enfreint les principes du Pacte Briand-Kellog !

 

GFj : La Charte des Nations Unies, dans son article 2, paragraphe 7, stipule également que les Nations Unies ne sont pas compétentes pour intervenir dans les affaires intérieures d’un Etat…

 

FAB : Oui et cette interdiction est aussi valable pour le Conseil de Sécurité de l’ONU. Les résolutions de l’ONU n’autorisent jamais une quelconque intervention en faveur d’un changement de régime politique. Malgré cela, Mme Clinton, la France et la Grande-Bretagne ont exigé le départ de Kadhafi. Rien ne leur donnait l’autorisation de poser une telle exigence, si bien que nous pouvons parler d’une immixtion illégale dans les affaires intérieures de la Libye. De surcroît, cette exigence inconsidérée constituera un obstacle lors de toute solution négociée. Pour cette exigence, il n’existe donc aucun fondement légal.

 

GFj : La France et l’Italie ont déjà reconnu les rebelles libyens, regroupés dans le « Conseil National de Transition », que ces deux puissances reconnaissent désormais comme le gouvernement légitime de la Libye…

 

FAB : Cela aussi constitue une immixtion illégale dans les affaires intérieures de la Libye. Toutes les questions relatives à ce type d’immixtion ont été traitées par la Cour Internationale dans le cas du Nicaragua en 1986 : les rebelles libyens doivent être considérés, sur le plan du droit, comme le furent à l’époque les Contras nicaraguéens. L’Allemagne ne doit en aucun cas suivre le mauvais exemple de la France. Elle ne doit pas coopérer à l’action militaire et diplomatique française car celle-ci enfreint le droit des gens en exigeant qu’il soit procédé à un changement de régime en Libye.

 

Je dis et je répète que l’enjeu, dans les circonstances qui nous préoccupent ici,  c’est le pétrole. La Libye possède d’énormes réserves de brut et de gaz naturel. Les raids de pillage de type impérialiste n’ont rien devant eux car le pays peut à peine se défendre. Et c’était déjà le cas avant que toute cette affaire ne se déclenche. Les néoconservateurs, ici aux Etats-Unis,  ont remarqué, en jetant un coup d’œil sur la carte du monde : nous allons ramasser un gros paquet de pétrole et de gaz en Libye, en payant un prix très réduit. Pour comprendre, il faut jeter un regard rétrospectif sur l’histoire de la Libye : celle-ci est devenu un Etat après la seconde guerre mondiale, notamment par la grâce des Etats-Unis, qui se sont servi de l’ONU pour camoufler leurs intentions réelles. Les Américains se sont dit : nous allons hisser le bon roi Idriss sur le trône, qui sera un homme de paille parfait. Un peu plus tard, les grandes compagnies pétrolières britanniques et américaines sont arrivées sur le terrain et ont littéralement « piqué » les dividendes du pétrole au peuple libyen. Kadhafi organise un coup d’Etat en 1969, renverse le roi et chasse du pays les compagnies pétrolières britanniques et américaines. Il nationalise le pétrole, chasse les Américains de la base aérienne de Wheelus, qu’ils utilisaient pour contrôler et dominer toute la rive méridionale de la Méditerranée. Kadhafi a poursuivi son action en distribuant directement la rente pétrolière à son peuple. Toutes les statistiques nous montrent —et je l’ai aussi constaté de visu en Libye—  que la Libye avait le niveau de vie le plus élevé d’Afrique. Les Etats-Unis et le Royaume-Uni n’ont jamais pardonné Kadhafi. Voilà pourquoi nous assistons aujourd’hui à une tentative de se débarrasser définitivement de lui et de reprendre un contrôle total sur le pétrole libyen. C’est aussi la raison pour laquelle les Italiens se retrouvent là-bas : une grosse quantité du pétrole et du gaz libyens va vers l’Italie.

 

GFj : Le grand économiste, Prix Nobel, Joseph Stiglitz a démontré que le coût de la guerre en Irak était exorbitant. Dès lors, la question se pose : prendre le pétrole par la force n’est-ce pas plus onéreux que de l’acheter, tout simplement ?

 

FAB : Il faut envisager votre question dans une perspective plus vaste, plus globale, plus géopolitique. Le gouvernement américain a utilisé les attentats terroristes du 11 septembre 2001 pour pouvoir contrôler le maximum de champs pétrolifères et gaziers dans le monde. Si vous prenez en considération toutes les opérations militaires qui ont été engagées depuis ce 11 septembre 2001, vous constaterez que l’objectif est toujours constitué par les hydrocarbures ou concerne les points d’étranglement stratégiques par où passe leur transport. Il s’agit, ni plus ni moins, de contrôler et de dominer l’économie mondiale du futur. Il ne s’agit donc pas simplement d’une question de profit. Car si les Etats-Unis et quelques-uns de leurs alliés de l’OTAN finissent par contrôler la plupart des champs pétrolifères d’Afrique, du Proche Orient, du Golfe Persique, de l’Asie centrale et de l’Amérique latine, ils pourront dicter leurs conditions au reste du monde. Du moins tant que ce contrôle sera un fait. Le calcul n’est donc pas purement économique.

 

GFj : Mais les motivations qui poussent un Sarközy ou un Berlusconi pourraient bien être plus triviales…

 

FAB : Exact. Mais je parle ici surtout des Etats-Unis d’Amérique. Ils dominent le monde et leurs actions ne doivent être envisagées que sous l’angle stratégique. Cela vaut également pour la tentative d’Obama de se dégager du guêpier libyen et de le refiler aux Européens, Allemagne comprise, pour pouvoir se tourner vers l’Iran.

 

(entretien paru dans DNZ, n°17/2011, 22 avril 2011).

John McCain and Hillary Clinton über Gaddafi (2009)

John McCain und Hillary Clinton 2009: Libyen ist »ein wichtiger Verbündeter im Krieg gegen den Terror«, Gaddafi ist ein »Friedensstifter in Afrika«

Manlio Dinucci

Senator John McCain, der bei den letzten amerikanischen Präsidentschaftswahlen als republikanischer Kandidat angetreten war, hielt sich am vergangenen Freitag (22. April) in Bengasi auf, von wo er Washington dazu aufrief, den Übergangsrat als legitime Regierung Libyens anzuerkennen, um sie beim Sturz Gaddafis zu unterstützen. Er hat ein nur kurzes Gedächtnis. Vor knapp 20 Monaten, am 14. August 2009, war derselbe McCain in Tripolis mit Muammar al-Gaddafi zusammengetroffen und hatte ihn als »Friedensstifter in Afrika« gepriesen.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/drucken.html;jsessionid=6DA934D65DA8B382A9101368A9502A9D?id=3333

samedi, 07 mai 2011

Obama, Sarközy und Cameron: "Regime-Change" in Libyen mit allen Mitteln

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Obama, Sarkozy und Cameron: »Regime-Change« in Libyen mit allen Mitteln

 

Wolfgang Effenberger

 

In den Medien erschien Mitte April 2011 ein gemeinsamer, scharf formulierter Brief der Präsidenten Barack Obama und Nicholas Sarkozy sowie des Premierministers David Cameron. Darin wird die Entschlossenheit erklärt, Gaddafi mit aller Macht zu verjagen. Das UN-Mandat für den Libyen-Einsatz umfasse zwar nicht den Sturz Gaddafis, schrieben die Staats- und Regierungschefs. Es sei jedoch undenkbar, dass »jemand, der versucht hat sein eigenes Volk zu massakrieren, an dessen künftiger Regierung beteiligt ist«.

 

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/wolfgang-effenberger/obama-sarkozy-und-cameron-regime-change-in-libyen-mit-allen-mitteln.html