Il 20 novembre l’M23 ha preso la città di Goma, dopo aver incontrato la debole resistenza delle forze armate della RDC. Davanti a oltre mille persone radunate in uno stadio, il movimento ha annunciato (probabilmente solo a scopo di propaganada) il suo obiettivo: prendere Kinshasa.
Nei giorni precedenti l’M23 aveva posto un ultimatum alla capitale: demilitarizzazione della zona intorno a Goma e riapertura del canale di accesso con l’Uganda. Al rifiuto del governo di accettare tali condizioni, i ribelli sono passati all’azione. Nella confusione generale che ne è seguita, i soldati della RDC hanno aperto il fuoco alla frontiera col Ruanda, uccidendo due persone, secondo fonti ruandesi. Kinshasa ha chiesto scusa.
Nel frattempo, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU e il Segretario Generale Ban Ki-Moon hanno di nuovo ribadito la loro condanna all’aggressione da parte dell’M23. Quest’ultimo ha già detto che le forze d’interposizione delle Nazioni Unite rimarranno a Goma, anche se non è chiaro se, ora che la città è caduta, la loro missione potrà comunque continuare.
Non indifferente è il prezzo, dal punto di vista umanitario, che il Congo orientale sta pagando. Alcune agenzie umanitarie stimano 1,6 milioni di sfollati tra Nord e Sud Kivu.

I problemi del Congo sono un drammatico riflesso di ciò che accade nel vicino Ruanda. I membri dell’M23 sono principalmente (ma non tutti) di etnia Tutsi, sterminata dagli Hutu durante il genocidio del 1994. Conclusa la pulizia etnica, i Tutsi sono gradualmente tornati ad occupare i posti di comando nel Paese, che avevano fin dai tempi del dominio coloniale. Ciò ha spinto molti Hutu, nel timore di subire ritorsioni, ad attraversare il confine e rifugiarsi nel Congo orientale. Il Ruanda mantiene da allora un grande interesse verso quella zona: sono in molti a denunciare (compresi alcuni rapporti ONU) che Kigali armi e addestri i ribelli che provano ad assicurarsene il controllo.
Negli ultimi anni, Kinshasa ha combattuto due guerre contro il vicino Ruanda, l’ultima delle quali (dal 1998 al 2003) è ricordata come il più grande conflitto armato della storia africana, coinvolgendo in un modo o nell’altro metà dei Paesi del continente (in particolare Zimbabwe, Namibia, Angola, Sudan e Ciad).

Lo scenario internazionale, l’importanza di Goma e l’identikit dei gruppi coinvolti sono illustrati in questa analisi di Daniele Arghittu e Michela Perrone su Limes. In sintesi, i potenti d’Africa stanno giocando nella RDC una partita a scacchi con l’Occidente. Gli eredi delle forze coloniali stanno perdendo influenza politica ed economica a favore della Cina, la quale offre ciò che l’Africa necessita: investimenti e denaro per i governi e le imprese. Anche Joseph Kabila, presidente congolese dal 2001, quando ereditò la poltrona dal padre (assassinato nel corso del secondo conflitto col Ruanda), non ha esitato a fare affari con il colosso asiatico. La perdita di interesse dei Paesi occidentali (in particolare quelli anglosassoni) per Kinshasa ha consentito ai movimenti filoruandesi (e anti-Kabila) di crescere e rafforzarsi indisutrbati.
Ora, dal 1° gennaio il Ruanda entrerà nel Consiglio di Sicurezza ONU al posto del Sudafrica, dando luogo ad una situazione diplomatica paradossale per cui a livello internazionale tutti sanno che il Ruanda fiancheggia i ribelli, ma poi si spingono a denunciarlo apertamente:

L’imbarazzo dell’Unione Europea è evidente: nella riunione del Consiglio dei ministri degli Affari Esteri della scorsa settimana è stato condannato il comportamento dell’M23, ma il Ruanda non è mai stato nominato. Philippe Bolopion, direttore per l’Onu dello Human Rights Watch, cioè dell’Osservatorio per i diritti umani, teme che i dubbi e le incertezze delle Nazioni Unite possano avere gravi conseguenze sulla popolazione: «Se il Consiglio di sicurezza vuole realmente proteggere i civili a Goma, deve inviare un messaggio più chiaro a Kigali. Sorprende il silenzio degli Stati Uniti su questo punto, a dispetto della loro influenza sul Ruanda».
Un passo importante tuttavia è stato compiuto: per la prima volta l’Onu ha accusato il Ruanda di appoggiare l’M23, insinuando addirittura che Kagame [il presidente ruandese] possa essere la mente del movimento. Il rapporto, che avrebbe dovuto uscire solo a fine novembre, è stato anticipato qualche giorno fa dall’agenzia di stampa Reuters.

La storia recente ci insegna che ciò che succede a Goma ha sempre avuto ripercussioni a Kinshasa, nonostante i 1.600 km che le dividono:

La presenza sul territorio congolese dei cosiddetti “genocidari” – gruppi armati responsabili dei massacri, uniti a migliaia di hutu moderati, di donne e bambini – ha offerto a Paul Kagame il pretesto per ingerirsi nella situazione politica del Kivu e dell’intera Rdc.
Il governo di Kigali, negli anni, ha cambiato alleanze e strategia. Nel corso della prima guerra del Congo – tra il 1996 e il 1997 – ha appoggiato, insieme all’Uganda, l’Afdl (Alliance de forcés démocratiques pour la libération du Congo, Alleanza delle forze democratiche per la liberazione del Congo), un gruppo ribelle di stanza in Kivu con a capo Laurent-Désiré Kabila, padre dell’attuale presidente. Kabila senior ha guidato forze a maggioranza tutsi contro i gruppi armati hutu, giungendo a controllare Goma e i due Kivu (Nord e Sud). Successivamente, nel 1997, ha rovesciato la dittatura trentennale di Mobutu, assumendo la guida dell’intero paese.
Non sentendosi adeguatamente garantito nei propri interessi da Laurent-Désiré Kabila, il Ruanda ha cominciato a sostenere un altro gruppo ribelle originario di Goma, l’Rcd (Rassemblement congolais pour la démocratie, Raggruppamento congolese per la democrazia), formato principalmente da banyamulenge, i tutsi congolesi in Kivu. L’Rcd ha conquistato Bukavu, la capitale del Kivu del Sud, dando il via alla seconda guerra del Congo – meglio conosciuta come guerra mondiale africana per il numero degli Stati coinvolti – che si è conclusa solo nel 2003. Da quel momento i territori attorno a Goma ospitano un crogiolo di gruppi ribelli in conflitto, appoggiati più o meno direttamente – e con fortune alterne – da Ruanda, Uganda e Burundi. Il 23 marzo 2009 diverse fazioni ribelli hanno firmato un trattato di pace con il governo della Rdc, ottenendo di essere integrate nelle Fardc.

Questo il quadro politico. Al quale se ne affianca uno economico, dalle tinte non meno fosche: se la guerra è il più grande dei drammi per chi c’è dentro, allo stesso tempo è anche un ghiotto business per chi sta fuori. Il Congo non fa eccezione. Tralasciando la deforestazione, che vede coinvolte anche aziende italiane, la ricchezza (e la sventura) del Kivu vengono dalle sue immense risorse minerarie. E la cosa ci riguarda molto da vicino.
Con il nome Coltan si indica una combinazione di due minerali, columbite e tantalite, essenziale nell’industria elettronica perché in grado di ottimizzare il consumo della corrente elettrica nei chip di nuovissima generazione, ad esempio nei telefonini, nelle videocamere e nei computer portatili. I condensatori al tantalio permettono un notevole risparmio energetico e quindi una maggiore efficienza dell’apparecchio.
In Congo, il coltan veniva già sfruttato prima della Seconda Guerra Mondiale, ma è diventato di importanza strategica solo da qualche anno, con il boom dell’industria high-tech. Con l’aumento della richiesta mondiale di tantalio si è fatta particolarmente accesa la lotta fra gruppi para-militari e guerriglieri per il controllo dei territori congolesi di estrazione, in particolare nella regione congolese del Kivu.
Nota da anni (si veda questa lunga ed esauriente analisi su Peacelink del 2005), la corsa al minerale ha avuto una drammatica impennata nell’ultimo biennio, dando origine ad un duplice saccheggio: il primo tra le multinazionali con l’appoggio del governo di Kinshasa, il secondo di frodo, ad opera di migliaia di persone, minatori e contrabbandieri. E dei gruppi ribelli che sfruttano le miniere clandestine per finanziare la lotta armata. Un lungo rapporto della situazione sul campo, corredato da un elenco di aziende accusate di trafficare questi minerali, si trova sul sito Pace per il Congo.
MetalliRari riporta che secondo l’associazione Enough Project’s Raise Hope for Congo Campaign: “i gruppi armati guadagnano centinaia di milioni di dollari l’anno, vendendo quattro principali minerali: stagno,tantalio, tungsteno e oro. Questo denaro consente alle milizie di acquistare un gran numero di armi e di continuare la loro campagna di violenza brutale contro i civili”. In ottobre l’associazione ha pubblicato un rapporto che classifica le maggiori aziende del settore high-tech in base ai progressi compiuti sui minerali insaguinati:

“Credo che Nintendo sia l’unica azienda che in pratica si rifiuti di riconoscere il problema o cerchi di intraprendere una qualche iniziativa a riguardo,” ha riferito alla CNN Sasha Lezhnev, co-autore del rapporto e analista politico per Enough Project. “E questo nonostante sia da due anni che tenti di mettermi in contatto con loro.”
Anche Canon, Nikon, Sharp e HTC occupano posizioni basse in classifica. Intel, HP, Motorola Solutions, AMD, RIM, Phillips, Apple, e Microsoft invece hanno un buon punteggio.
“HP e Intel sono andate oltre al loro dovere per quanto riguarda i ‘minerali insanguinati’,” ha riferito Sasha Lezhnev in conferenza stampa.

Il sangue del Congo scorre nei nostri cellulari. E quello dei congolesi, nei luoghi dove esso viene estratto.
Già nell’aprile 2011 l’International Crisis Group denunciava in una lunga analisi il fallimento dei tentativi di tracciare la provenienza dei minerali. Poiché l’adozione del Dodd-Frank Act da parte del Congresso USA nel 2010 (entrato in vigore lo scorso agosto) richiede alle grandi imprese americane di rivelare l’origine dei minerali che utilizzano, l’istituto aveva inviato una missione nel Nord Kivu per valutare le diverse strategie impiegate per combattere il contrabbando delle risorse provenienti da quella zona. Con risultati finora non proprio confortanti.