dimanche, 27 mai 2012
TOMISLAV NIKOLIC PRESIDENTE. SERBIA EN EL BUEN CAMINO.
TOMISLAV NIKOLIC PRESIDENTE. SERBIA EN EL BUEN CAMINO.
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lundi, 14 mai 2012
LA ALTERNATIVA NACIONALISTA GANA LAS LEGISLATIVAS EN SERBIA.
LA ALTERNATIVA NACIONALISTA GANA LAS LEGISLATIVAS EN SERBIA.
Ex: http://enricravello.blogspot.com/
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mardi, 27 mars 2012
Per non dimenticare il 24 Marzo 1999
di Andrea Salomoni
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]
Il 24 Marzo del 1999, iniziarono i bombardamenti "democratici" sulla Jugoslavia e la criminale aggressione contro il suo popolo; mentre il 10 giugno venivano stipulati gli accordi di pace a Kumanovo, e dopo 13 anni ecco che la verità faticosamente si fa largo anche a livello ufficiale:...Altro che “genocidi e fosse comuni mai trovate”, “diritti umani negati” e “pulizie etniche” mai avvenute, se non dopo l’occupazione della NATO, e compiuta dalle bande criminali dell’UCK nei confronti dei serbi e di tutte le minoranze non albanesi, oltre che contro gli albanesi jugoslavisti. A dodici anni dalla fine dell’aggressione la verità lentamente emerge, altro che “ingerenza umanitaria”, ecco a cosa miravano i criminali bombardamenti “terapeutici” sulla Jugoslavia. Erano semplicemente mire imperialiste, soltanto che ora non lo diciamo più noi "complottisti" come facciamo dal 1999, adesso ci sono le prove e le dimostrazioni. Sotto trovate una cartina della Serbia Montenegro, con indicati gli obiettivi e gli interessi che la NATO ha richiesto al nuovo governo, docile vassallo dell’occidente, come condizione per entrare nella lista d’attesa per la Partnership per l’organizzazione atlantica e per poter aspirare ad entrare un giorno, nell'Europa dei padroni. La cartina vale forse più che tutte le analisi, ipotesi, disquisizioni teoriche fin qui fatte, nella sua fredda sinteticità è come l’esibizione dell’arma del delitto, tutte le menzogne, le falsità, gli alibi degli aggressori, crollano come un castello di carte. La cartina è su ciò che si discusse tra i vertici NATO e il nuovo governo serbo montenegrino; rappresenta gli obiettivi e gli interessi ritenuti “necessari” dall’Alleanza atlantica e dagli USA: porti, aeroporti, caserme, siti logistici per installazioni radar, zone considerate strategiche per basi, ecc. ecc. Nella regione balcanica, ora che sono state portate la libertà e la democrazia…occidentali, ovviamente, la situazione di agibilità e sovranità, per i popoli e stati è sinteticamente questa:
in Ungheria l’ex base sovietica di Tasar è ora la principale base militare americana fino alla Russia;
in Albania sono state posizionate le basi navali più grandi, oltre all’aeroporto vicino a Tirana;
in Macedonia sono state occupate dalle truppe Nato le due più grandi caserme del paese a Tetovo e a Kumanovo, oltre all’aeroporto di Petrovac, Skoplije e al poligono militare di Krivolak;
la Bosnia Erzegovina è stata adibita per l’aviazione: l’aeroporto di Dubrovac, Tuzla è diventato base aerea Nato, così come a Brcko e Bratulac, sono state messe due basi terrestri;
i maggiori porti della Croazia sono stati adibiti per le unità navali, mentre all’aeroporto vicino Pula c’è ora una base dell’Alleanza oltre al poligono di Slunj vicino Djakova.
Dalla Romania è stata presa la base navale di Costanza, l’aeroporto militare vicino a Bucarest, le basi terrestri vicino Timisoara, a Costanza, Kluza e Vlaskoj, ma ne sono richieste altre tre per ultimare il dislocamento delle truppe nella regione.
In Bulgaria è stata collocata una base navale a Varna e una terrestre a Sarafovo Infine in Kosovo vi è Camp Bondstel a Urosevac e un'altra base a Gnjlane. Da questo scenario geo-militare dei Balcani una cosa salta immediatamente all’occhio, in quest’elenco manca solamente un paese, che ancora non risulta “occupato” da basi straniere, ed è la Serbia Montenegro, ex Repubblica Federale Jugoslava; ecco svelato l’arcano dei mille contorcimenti mass mediatici, inventati per giustificare l’aggressione e lo smantellamento di quell’ultmo pezzo di Jugoslavia, che aveva una gravissima colpa per questi tempi: quella di pretendere e difendere la propria indipendenza e sovranità e quella di non volere truppe straniere a casa propria. E questo nel ventunesimo secolo è una colpa gravissima, perché si diventa un ostacolo “de facto” ai piano geo-strategici dell’imperialismo americano, e non può essere ammesso. O si accetta o si viene spazzati via, certo le motivazioni pro forma vengono trovate e pianificate attraverso la disinformazione strategica, c’è sempre un buono e sacro motivo democratico per aggredire un popolo o un paese “ non asservibile” con pressioni o dollari. Qui come in Iraq, come in Palestina, Libia, Libano, Siria, Iran, Cuba, Corea del Nord, Venezuela, Bielorussia ecc. ecc perché la lista è continuamente suscettibile di cambiamenti o aggiornamenti, a seconda degli eventi che accadono. E così si può tranquillamente capire come, nelle trattative tra un nuovo governo serbo montenegrino, creato, sponsorizzato e finanziato per arrivare al potere, scalzando un governo di unità nazionale che impediva questi scenari in terra serba, la discussione è come fosse una riunione amministrativa di riscossione di quanto dovuto. Ai “Quisling” locali il governo amministrativo, alla NATO ed agli USA il potere di decidere e comandare, a casa di altri. Il ministro della difesa, nei colloqui di Londra per poter entrare nella Partnership Nato ha ricevuto le seguenti richieste, ritenute necessarie per “armonizzare” le relazioni tra la nuova Serbia e l’occidente:
la stazione radar di Kopaonik, la più avanzata tecnologicamente dell’esercito serbo ed anche strategica per qualsiasi minima concezione difensiva del paese e quella di Pesterska;
basi aeree a Batajnica vicino Belgrado, Zlatibor, Kraljevo, Nis e Visoravan:basi terrestri a Novi Sad, Pancevo, e Nis;
le basi navali di Herceg Novi e Bar sulla costa montenegrina.
Oltre alla richiesta di una consistente riduzione degli effettivi dell’esercito federale, a cui l’ossequiente nuovo governo “libero” ha risposto con una proposta di passare da 70.000 militari a circa 35.000. Quindi trasformare quello che era l’esercito più forte e organizzato di tutti i Balcani, in una poco più di milizia territoriale, debole e quindi sottomessa e ubbidiente. Già, perché una delle clausole presupponeva anche la presenza di “esperti militari” statunitensi nei vertici degli Stati Maggiori serbo montenegrini.
E qualcuno osa chiamare tutto questo…libertà?
Queste trattative e richieste sono la dimostrazione che le aggressioni ai popoli e paesi “renitenti o resistenti”, non cessano con il rumore dei bombardamenti “intelligenti”, ma proseguono con la distruzione degli stati sociali, delle condizioni di vita dei lavoratori e della popolazione, con le politiche di privatizzazioni e svendite delle ricchezze nazionali, nell’immiserimento che investe la stragrande maggioranza della società, ed infine con l’asservimento militare, ultimo passaggio per annientare completamente qualsiasi inversione di tendenza politica, essendo coscienti che il malessere e il disagio sociali, prima o poi si trasformeranno in lotte e conflittualità.
Così saranno garanti della pace sociale e degli interessi di coloro, che nel frattempo parallelamente, si sono formati ed arricchiti : le borghesie “compradore” locali, veri e propri pirati e banditi in doppiopetto, ma legati a doppio filo con gli interessi del capitale straniero; che sono altro da quella borghesia nazionale che perlomeno, aveva trovato un alleanza con le forze patriottiche e popolari, per resistere all’invasione e asservimento economico, politico e sociale del paese, in un ottica di interesse nazionale.
Questi gli obiettivi e le richieste fatte dalla NATO, al governo della Serbia Montenegro, per diventare uno Stato “democratico, libero ed europeo”.
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it
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mercredi, 25 janvier 2012
Les Serbes sont déçus par l’UE!
Les Serbes sont déçus par l’UE!
Entretien avec l’ambassadeur de Serbie à Vienne, Milovan Bozinovic
Propos recueillis par Bernhard Tomaschitz
Q.: Excellence, le statut de candidat membre de l’UE a été remis à une date ultérieure. Qu’en pensez-vous?
MB: La déception des Serbes est très grande, bien entendu. Toutefois, il convient de compléter la décision prise: nous avons rempli tous les critères que l’on nous a demandés de satisfaire, tout comme aux autres pays qui veulent adhérer à l’UE. Or c’est un motif non spécifique aux critères d’élargissement qui justifié le report de la candidature serbe. Il s’agit du rapport que nous entretenons avec la province autonome du Kosovo —c’est ce statut qu’elle détient à nos yeux. Mais pour la plupart des pays de l’UE, cette province constitue entretemps un Etat indépendant.
Q.: Pourrait-on aboutir, à moyen ou long terme, à la tractation suivante: la Serbie adhère à l’UE mais, en contrepartie, elle doit reconnaître le Kosovo comme Etat indépendant?
MB: C’est là un débat qui a été ouvert par quelques Etats qui veulent durcir les critères de l’adhésion serbe. Je rappelle qu’en octobre 2010, nous étions convenu d’un accord avec l’UE qui stipulait que le rapprochement de la Serbie ne serait en aucun cas lié au développement des relations serbo-kosovars. Et voilà que tout d’un coup —les réalistes le savaient déjà depuis longtemps— ces motifs prennent de plus en plus d’importance, ce qui constitue une dégénérescence des principes et critères préalablement convenus. Tel est le sentiment que partagent les Serbes aujourd’hui.
Q.: C’est surtout l’Allemagne qui pense que la Serbie ferait valoir son influence auprès des Serbes du Kosovo. Mais quelle influence exerce réellement Belgrade?
MB: Le Kosovo n’est pas un territoire où la Serbie exerce sa propre souveraineté. C’est donc un paradoxe de partir du principe que la Serbie exerce encore une quelconque influence sur les événements là-bas, uniquement parce que les Serbes de la région de Mitrovica se sentent citoyens de la Serbie.
(entretien paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°1/2012; http://www.zurzeit.at ).
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mardi, 24 janvier 2012
La Russie envoie des convois d’aide aux Serbes du Kosovo
Bernhard TOMASCHITZ:
La Russie envoie des convois d’aide aux Serbes du Kosovo
La Russie refuse de se laisser expulser des Balkans par les Etats-Unis et l’UE. Elle se tient encore et toujours aux côtés des Serbes, et, plus particulièrement, du côté des Serbes du Kosovo. Vers la mi-décembre 2011, un convoi russe chargé de vivres et d’autres nécessités est arrivé à Mitrovica, une ville peuplée de Serbes au Nord du Kosovo. Avant d’avoir atteint la localité, le Kremlin et l’administration d’EULEX de Pristina s’étaient querellé ferme au niveau diplomatique pendant plusieurs jours. Derrière cette avanie se profile bien sûr l’UE qui détient de facto les droit de souveraineté dans cette province rebelle du Sud de la Serbie.
Mais ce n’est pas tant le convoi en lui-même qui a suscité la mauvaise humeur des eurocrates bruxellois, c’est surtout le refus des Russes de se voir flanqués d’une escorte de militaires d’EULEX. Les Russes, par la voix d’Aleksandr Konuzine, ambassadeur de la fédération de Russie à Belgrade, ont déclaré qu’ils ne se sentaient “nullement menacés” dans les zones serbes du Kosovo. De plus, Konuzine a reproché à la mission de l’UE d’ “avoir outrepassé son mandat qui implique la neutralité”. Car, aux yeux des Russes, l’eurocratie bruxelloise s’engage beaucoup trop aux côtés des Albanais du Kosovo tandis qu’elle ne tient aucun compte des intérêts serbes.
Le convoi russe n’est pas un simple exemple de solidarité entre peuples-frères slaves. C’est bien davantage: Moscou entend empêcher toute politique du fait accompli dans les Balkans. En effet, le Sud-est de l’Europe est, pour les Etats-Unis, la dernière “plage blanche” sur la carte du monde, que Washington veut faire disparaître: les Etats qui ont pris la succession de l’ex-Yougoslavie doivent impérativement être imbriqués dans les “structures euro-atlantistes”, c’est-à-dire dans l’UE et dans l’OTAN. Et cette volonté américaine vise aussi la Serbie, alliée traditionnelle de la Russie.
Bernard TOMASCHITZ.
(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°1/2012; http://www.zurzeit.at ).
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jeudi, 24 novembre 2011
Le piège kosovar
Bernhard TOMASCHITZ:
Le piège kosovar
L’Europe des eurocrates soutient la politique pro-kosovar des Etats-Unis et nuit aux intérêts de notre Europe!
Le Kosovo ne parvient pas à se stabiliser. Les Serbes du Nord de ce nouveau pays bloquent les routes pour obliger les douaniers kosovars-albanais à se retirer et à ouvrir ainsi les postes frontières avec la Serbie. Les Serbes du Kosovo veulent que la situation dans la zone frontière redevienne comme avant le 25 juillet, c’est-à-dire sans la présence de douaniers kosovars-albanais. Les Serbes entendent ainsi empêcher toutes les mesures visant à consolider l’indépendance du Kosovo albanais, proclamé unilatéralement en février 2008.
La communauté internationale veut aider à construire un “Etat multi-ethnique” viable dans cette ancienne province du Sud de la Serbie: elle tente de l’imposer par une armée internationale, la KFOR, et par la mission EULEX, mandatée par l’UE pour établir un “Etat de droit”. En agissant de la sorte, la communauté internationale se place résolument du côté des Albanais. Ce ne devrait pas être un motif d’étonnement: les Etats-Unis, qui donnent toujours et partout le ton, ne viennent-ils pas de déclarer sans ambages en juin dernier, qu’une éventuelle partition du Kosovo n’était pas envisageable. “Une partition du Kosovo pourrait entraîner des effets à l’échelle locale qui pourrait s’avérer négatifs pour toute la région”, a déclaré Philip Gordon, vice-ministre des affaires étrangères, responsable pour les affaires européennes. Et il concluait: “Cette position est claire pour les Etats-Unis et elle le restera”. La Russie, on peut s’y attendre, ne comprend guère la position adoptée par les Etats-Unis et l’UE. La Russie est une alliée traditionnelle de la Serbie. Alexandre Lukachevitch, porte-paroles du ministère russe des affaires étrangères, voit là “des conséquences négatives considérables pour tout règlement futur de la question kosovar”, vu “le soutien accordé aux ambitions démesurées des Albanais du Kosovo”.
Malgré l’absence totale de succès de l’Etat kosovar, Américains et eurocrates s’accrochent au statu quo présent et oublient que le Kosovo dépend financièrement de la communauté internationale et est entièrement aux mains de la criminalité organisée. Mais les Etats-Unis tirent profit de cette situation à plus d’un titre: d’abord, les Albanais du Kosovo constituent un gage pour pouvoir, le cas échéant, punir Belgrade si les Serbes adoptent un comportement jugé déviant, comme par exemple un alignement trop prononcé sur Moscou. Washington a depuis longtemps décidé que la Serbie devait être inféodée aux “structures euro-atlantiques”, ce qui ôterait à la Russie son allié le plus sûr en Europe. Ensuite, la question kosovar offre à Washington la possibilité de saboter tout rapprochement entre l’UE et la Russie.
Par ailleurs, il s’agit d’attiser les conflits ethniques et religieux dans les Balkans et de les faire durer car, de cette façon, les Etats-Unis pourront arguer de la nécessité de leur présence dans la région. Manifestement, les Américains poursuivent le plan d’installer au beau milieu du Kosovo le fameux “Camp Bondsteel”, une base militaire capable d’abriter 5000 soldats sur une surface de 386 hectares, et d’en faire un élément permanent de leurs dispositifs en Europe. Pour les Américains, il sera plus facile de parachever leur politique balkanique si cette région comporte des constructions étatiques fragiles et instables comme la Bosnie-Herzégovine et le Kosovo, dont ils pourront faire des vassaux obéissants, qui exécuteront sans trop tergiverser les ordres de Washington. En juin dernier, Gordon, vice-ministre des affaires étrangères aux Etats-Unis, a déclaré, à propos de la Bosnie, qui devrait adhérer à long terme à l’OTAN comme tous les autres Etats des Balkans: “Des Balkans où il y aurait des frontières tracées autour de chaque groupe ethnique nous conduiraient à la catastrophe. En tous les cas de figure, ce n’est pas là un projet que nous soutiendrons”.
Finalement, les Etats-Unis tentent d’établir en Europe des Etats dits “multi-ethniques”, comme la Bosnie ou le Kosovo qui sont majoritairement musulmans, afin que deux corps étrangers soient implantés au sein de la communauté des Etats européens avec la circonstance supplémentaire qu’ils attireront à eux les “sociétés parallèles” (soit les “diasporas mafieuses”) de confession musulmane qui étendent leurs réseaux dans toute l’Europe (avec l’appui d’Erdogan, Gül et Davutoglu, ndt) et disposeront ainsi de deux sanctuaires.
Au vu de tous ces faits, il apparaît incompréhensible que l’eurocratie bruxelloise soutienne sans sourciller la politique kosovar des Etats-Unis. James Bissett, ancien ambassadeur dans l’ex-Yougoslavie, s’est exprimé à ce sujet: “Depuis qu’il prétend s’être libéré de la Serbie, le Kosovo est devenu un Etat failli avec un taux très élevé de chômage, où dominent la corruption et la criminalité, avec des dirigeants qui sont profondément impliqués dans l’importation d’héroïne et d’armes ainsi que dans le trafic de chair humaine”. A cette forte parole de Bissett s’ajoute encore une flopée de reproches à l’adresse de Hashim Thaçi, chef du gouvernement du Kosovo, qui s’est livré au trafic d’organes et à d’autres activités illégales.
Malgré ces accusations graves, Thaçi et d’autres dirigeants kosovars sont carressés dans le sens du poil par les eurocrates et les Américains, car les anciens combattants de l’UÇK, l’armée de l’ombre avant l’indépendance du Kosovo, sont considérés comme des “héros” de la démocratie. Il est intéressant d’observer que l’UÇK est bien vite passé du statut de paria à celui d’allié bénéficiant d’une haute considération. En 1998 encore, un rapport du ministère américain des affaires étrangères considérait que cette armée clandestine kosovar était “terroriste” et constituait un élément-clef dans le commerce illicite de drogues en échange d’armes, trafic qui avait contribué chaque année “à transporter des drogues pour une valeur totale de deux milliards de dollars américains en Europe occidentale”.
Il n’a pourtant pas fallu attendre un an pour que l’UÇK bénéficie de l’aide américaine dans la guerre de l’OTAN contre la Serbie, guerre contraire au droit des gens. D’après le “London Sunday Times”, des agents des services secrets américains ont avoué avoir aidé l’armée de libération du Kosovo, c’est-à-dire l’UÇK, à s’entraîner. A cette époque déjà, on soupçonnait les Etats-Unis de vouloir établir une base militaire fort importante au Kosovo.
Bernhard TOMASCHITZ.
(Article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°45/2011, http://www.zurzeit.at/ ).
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jeudi, 17 novembre 2011
Serbes du Kosovo: un passeport russe pour se protéger
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vendredi, 22 juillet 2011
Dragan Cavic (Republika Srpska): "Sezession ist derzeit keine Option"!
„Sezession ist derzeit keine Option“
Dragan Cavic, Ex-Präsident der Republika Srpska, über die Bedeutung des Daytoner Abkommens
Herr Cavic, die internationale Gemeinschaft drängt auf eine Verfassungsreform in Bosnien, um den Staat zu zentralisieren. Wie stehen Sie dazu?
Dragan Cavic: Bosnien kann als Staat nur überleben, wenn es dezentralisiert bleibt. Wir haben kein Problem damit, daß es gesamtstaatliche Institutionen gibt, die die Funktion haben, anderen Staaten bilateral oder multinational gegenüberzutreten. Solche Institutionen sind notwendig und müssen bestehen, aber man muß die Sachen, die in Dayton unterschrieben wurden, beibehalten. Das heißt, daß die Interessen und die Identitäten der Völker, die in Bosnien und Herzegowina leben, gesichert werden müssen, und das betrifft natürlich auch die Republika Srpska.
Insbesondere EU und USA werfen Bosnien vor, der derzeitige Staatsaufbau sei ineffizient. Wie sehen Sie das?
Cavic: Vielleicht, aber man muß dazu auch sagen, daß man von Bosnien viel zu viel verlangt. Soll man von Bosnien verlangen, daß es in drei Jahren die Schweiz sein wird? Das wird aber nicht der Fall sein, weil Wunsch und Realität zwei Paar Schuhe sind. Vor 16 Jahren, also vor nicht allzu langer Zeit, ist ein grausamer und blutiger Krieg zu Ende gegangen ist, und dieser Krieg wird noch für Jahrzehnte Nachwirkungen haben. Wenn man bedenkt, daß wir den Krieg hatten, sind wir trotzdem einen großen Schritt vorwärts gekommen, wenn man Bosnien-Herzegowina mit Zypern vergleicht: Wie sind die Verhältnisse in Zypern 35 Jahre nach dem Krieg und wie sind sie in Bosnien 16 Jahre nach dem Krieg? – Da ist doch schon ein großer Unterschied!
Würden im Falle einer Zentralisierung die bosnischen Serben von der moslemischen Mehrheit an die Wand gedrängt werden?
Cavic: Wenn das der Fall wäre, würden die bosnischen Moslems mit all ihren Entscheidungen – weil sie auch von der Bevölkerung her mehr sind – die Serben überstimmen und damit würde die Mehrheit bestimmen, was die Minderheit zu machen hat. Aber gerade das wird durch den Daytoner Vertrag verhindert, der den Frieden in Bosnien-Herzegowina ermöglicht hat. Und betrachten Sie die bosniakisch-kroatische Föderation: Dort sind die bosnischen Kroaten gerade deswegen unzufrieden, weil sie immer wieder erleben müssen, daß sie von den bosnischen Moslems überstimmt werden und eigentlich kein Mitspracherecht haben.
Wenn das Daytoner Abkommen geändert werden sollte, wäre dann für die bosnischen Serben die Sezession eine Option?
Cavic: So, wie es jetzt mit dem Daytoner Abkommen und den zwei Entitäten ist, müssen die bosnischen Serben keine Sezession machen, weil es in Ordnung ist. Sobald es sich ändert, ist es aber eine andere Frage. Wenn die internationale Gemeinschaft oder ein anderer Druck auf die bosnischen Serben oder auf Bosnien ausübt, damit es zur Zentralisierung kommt und daß die Republika Srpska von der Bildfläche verschwindet, dann müssen die Serben den Weg der Sezession gehen. Aber zurzeit haben sie kein Bedürfnis, Bosnien zu verlassen, weil die Republika Srpska die Souveränität des serbischen Volkes gewährleistet. Denn die Republika Srpska umfaßt die Hälfte der Fläche des Gesamtstaates und ein Drittel der Macht in Bosnien-Herzegowina kommt aus der Republika Srpska.
In Österreich heißt es immer wieder, der bosnische Islam sei liberal. Wie sehen Sie das, zumal Sie aufgrund ihrer verschiedenen Funktionen das Land besonders gut kennen?
Cavic: Die traditionellen Bosnier haben den Islam immer liberal gelebt. Erst mit dem Krieg sind mit Unterstützung von Saudi-Arabien und dem Iran Mudschaheddin nach Bosnien gekommen und damit die Radikalen wie Wahhabiten und Salafisten, was in Bosnien eine Neuheit war. Aber dennoch sind die Islamisten in Bosnien nicht besonders stark vertreten, und die Mehrheit der Bosniaken ist dem liberalen Islam treugeblieben. Das sind jene Menschen, die die Tradition des liberalen Islam weiterleben, und die ihre serbischen und kroatischen Nachbarn respektieren.
Das Gespräch führte Bernhard Tomaschitz.
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lundi, 11 juillet 2011
E-boeken over de zaak-Srebenica
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mercredi, 04 mai 2011
Kroatien: Proteste gegen die Verurteilung Ante Gotovinas
Kroatien: Proteste gegen die Verurteilung Ante Gotovinas
Auch die kroatische Führung zeigte sich schockiert. Premierministerin Jadranka Kosor (HDZ) erklärte, das Urteil sei für die Regierung nicht hinnehmbar. Man werde alle rechtstaatlichen Möglichkeiten ausschöpfen, um eine Revision des Urteils zu erreichen. Kroatiens sozialdemokratischer Staatspräsident, der Rechtsprofessor Ivo Josipović, wies vor allem die These der kriminellen Vereinigung zurück.
24 Jahre Haft für den kroatischen Volkshelden
Gotovina stand zusammen mit den Generalen Mladen Markač und Ivan Čermak vor dem UN-Tribunal. Während er und Markač zu 24 Jahren beziehungsweise 18 Jahren Haft verurteilt wurden, erhielt Čermak einen Freispruch. Die Richter warfen Gotovina vor, er habe sich beim Vorgehen gegen die serbische Bevölkerung im Jahr 1995 Kriegsverbrechen schuldig gemacht und sei verantwortlich für den Tod von 324 Zivilisten beziehungsweise gefangenen serbischen Soldaten. Zudem wurden ihm Plünderungen, Mißhandlungen sowie die Verfolgung und Vertreibung von 200.000 Serben aus der Region angelastet.
Anfang August 1995 war Gotovina in der Militäroperation Oluja (Sturm) die Rückeroberung der noch serbisch besetzten Gebiete Kroatiens mit Ausnahme Ostslawoniens gelungen. Damit endete die Existenz der sogenannten „Republik Serbische Krajina“, die 1991 von serbischen Separatisten errichtet wurde und in den folgenden Jahren immer wieder den Ausgangspunkt für Raketenangriffe auf kroatische Städte wie Zagreb, Sisak oder Karlovac bildete.
Akt der Ungerechtigkeit gegen das kroatische Volk
Die Operation Oluja hatte jedoch noch eine wichtige Bedeutung, die über die Wiederherstellung der territorialen Integrität Kroatiens hinausging: Unter Ausnutzung des Angriffsschwunges wurde die von serbischen Truppen umstellte, kurz vor dem Fall stehende bosnisch-muslimische Enklave Bihać befreit und damit nur wenige Wochen nach dem Massaker von Srebrenica eine erneute Tragödie verhindert.
Der Vorsitzende des Kroatischen Weltkongresses in Deutschland (KWKD), Mijo Marić, kritisierte das Gerichtsurteil als einen „Akt der Ungerechtigkeit gegen das gesamte kroatische Volk“. Mit dem Urteil werde der entscheidenden Säule der kroatischen Eigenstaatlichkeit die Legitimität entzogen. Die Deklarierung der Operation Oluja als Kriegsverbrechen, die Bewertung der Verteidigung des eigenen Landes als verbrecherische Aktion dürfe nicht hingenommen werden, so Marić.
Für Mittwoch sind Protestveranstaltungen kroatischer Organisationen in Berlin und New York angekündigt.
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Clio et les dessous de la justice internationale
Clio et les dessous de la justice internationale
par Jure G. VUJIC
Jure Vujic, contributeur de Polémia et auteur de nombreux articles dans des revues philosophiques et de politique internationale telles que Krisis, nous propose, à l'occasion de la récente condamnation du général croate Ante Gotovina, une tribune sur les mécanismes du Tribunal pénal international pour l'ex-Yougoslavie et ses véritables motivations à l'égard des intérêts géostratégiques anglo-américains.
Polémia
La condamnation par le Tribunal pénal international pour l'ex-Yougoslavie ( TPY) à 24 ans de prison de l'ancien général croate Ante Gotovina pour «crimes de guerre» lors de l'offensive en 1995 dans l'enclave serbe de la Krajina, confirme une fois de plus que la justice internationale n'existe pas et qu'elle n'a jamais existé. Comme l'affirmait Hobbes: «Auctoritas non veritas facit legem» (C’est l’autorité et non la vérité qui fait la loi/la norme). Nous pourrions, au seuil de ce XXIe siècle, qui s’annonce comme un siècle de catastrophes, tout comme le XXe, étendre cette réflexion de Hobbes et dire : «Auctoritas non lex facit imperium», soit «C’est l’autorité et non la loi/la norme qui fait l’empire». En effet la justice internationale et le TPY de surcroit constituent les instruments de légitimisation de l'autorité globale anglo-américaine dans le monde ce qui explique bien que la loi et la justice sont absentes des considérations purement politiques de juges hollandais ou scandinaves qui ne savent même pas situer sur une carte géographique les pays des bélligerants qu' ils entendent pacifier ou purifier de prétendus crimes barbares. Dans le cas de la guerre ex-yougoslave et plus particulièrement dans le cas croate, il s'agit non seulement d'un déni de justice flagrant ( le TPY a volontairement dénié de juger l'agression de la Croatie en 1991 par l'armée yougoslave grande-serbe ainsi que les crimes contre l'humanité commis á Vukovar), mais aussi d'une parodie de justice qui enterrine bien les intérêts géopolitiques anglo-amércains dans la région du sud-est européen.
Le Tribunal de La Haye, porte-parole des intérêts géostratégiques anglo-américains
En effet, le Tribunal de La Haye s'est fait le porte parole de ces mêmes intérêts lorsque «il a, contre et envers toutes les dispositions en vigueur du droit international classique, motivé sa condamnation du général Gotovina par une incrimination montée ad hoc et de toute pièce » á savoir : avoir contribué á une entreprise criminelle dont le but était de nettoyer la Krajina de sa population serbe. En outrepassant ses compétences juridiques, le TPY s'est constitué ainsi en véritable tribunal de l'Inquisition et démonisant l'ensemble de l'élite politique, étatique et militaire croate de l'époque du premier président croate Franjo Tudjman en 1991. En un mot, le TPY s'arroge unilatéralement le droit de criminaliser la Croatie, un Etat souverain reconnue internationalement. Ne prenant pas en compte qu'il s'agissait en l'occurence et indiscutablement d'une guerre internationale classique et que la Croatie en 1991 a tout bonnement été agressée par l'armée yougoslave communiste et ses auxiliaires paramilitaires grands-serbes, le Tribunal a décidé de mettre sur un même pied d'égalité les parties bélligerantes : Serbes, Croates et Bosniaques. Le procédé est rôdé et classique, car il permet de diviser pour régner, faire table rase da la volonté des peuples et de la souveraineté étatique qu'elle soit croate, serbe ou bosniaque afin de consolider les intérêts géopolitiques anglo-américains dans ce que Buxelles appelle «les Balkans occidentaux».
En Croatie la guerre avec la Serbie d'il y a plus de dix ans laisse encore des cicatrices et l'opinion publique désapprouve á l'unanimité la condamnation d'Ante Gotovina, considéré comme un héros de guerre. Les 24 ans de prison pour Ante Gotovina ont suscité une levée de boucliers et des manifestations dans la capitale croate, Zagreb, où des milliers de personnes sont rassemblées, ainsi que dans beaucoup de villes de Croatie. Beaucoup de Croates espéraient, en effet, un acquittement du général Gotovina - ou une condamnation à une peine légère qui aurait permis sa remise en liberté. Le fossée se creuse entre une opinion publique de plus en plus eurosceptique et les élites politiques croates qui s'acharnent de rejoindre le plus vite possible l'UE et sans égard aux aspirations souverainistes de son peuple. En effet cette condamnation est vécu par le peuple comme un véritable coup de poignard dans le dos, et comme une trahison de la politique croate aux ordres de Londres et de Bruxelles. Le cas croate illustre très bien l'histoire des victoires militaires trahis par les politiciens, ou mieux encore la criminalisation des guerres justes de libération nationale. Le verdict injuste et inéquitable du TPY démontre une fois de plus que l’ordre international actuel sert les intérêts des «Plus forts» et en particulier les intérêts géostratégiques anglo-américains dans le monde. Loin d'en finir avec l’anarchie des traités de Westphalie (1648) qui reconnaissaient aux États souverains le droit de se faire la guerre, tout en l'«humanisant», la justice internationalle, en passant par la Société des Nations et l’Organisation des Nations Unies qui soit disant mettaient la la guerre hors la loi, reste aujourd'hui un moyen privilégié pour les États ploutocrates et les oligarchies financières apatrides de dominer le monde et un moyen insidieux d’arriver à leurs fins, au mieux, a une justification a posteriori de leurs actes d'agression et d'occupation.
Les aberrations juridiques
Au palmarés des aberrations juridiques de la justice internationale, il faut rappeler que le droit international ne reconnaît traditionnellement que les États comme sujets, et que pourtant il a justifié l’arrestation, la condamnation et l’exécution de Saddam Hussein et, avant lui, de tous ceux qui ont été jugés et condamnés par les tribunaux de Nuremberg et de Tokyo. Ainsi La guerre, crime contre la paix, est ainsi alignée sur le même plan que le crime contre l’humanité. Dans le cas croate, on renvoie dos á dos l'agresseur et l'agressé, la guerre défensive légitime et la guerre d'agression illégale, tout en inculpant les bélligerants d'organisation criminelle, comme si les Etats souverains constituaient des mafias du crime organisé. D'autre part il convient de rappeler une autre aberration juridique constitutive et fondatrice, c'est celle de la primauté du droit anglo-saxon dans la justice internationale, qui est inapplicable et non conforme á la tradition juridique continentale européenne et qui fait une confusion manifeste entre la souveraineté des États, reconnue et la subjectivité internationale attribuée aux individus, entre l’universalisme et le particularisme, deux notions juridiques antagoniques mais réunies ici au sein du même système anglo-saxon.
Cela explique le fait que l’agression ne soit pas jugée selon la même norme que les autres crimes. Le tribunal ad hoc, financé par les États-Unis, a refusé de mettre en cause les agissements de l'armee yougoslave populaire à Vukovar en 1991 et l'appui logistique et politique de Belgrade á la guerre d'agression contre la Serbie. D'autre par le TPY a refusé de prendre en compte les agissements out of area et illégaux de l’O.T.A.N., comme s’il y avait une hiérarchie entre les victimes dues aux violations des droits de l’homme et les victimes dues à la guerre d’agression. Pour éviter la menace que constitue la possibilité de tels jugements, les États-Unis n’ont toujours pas ratifié les statuts de la Cour pénale internationale, en exercice depuis 2003. La guerre humanitaire, qui résulte du droit d'ingérence, concept juridique et hybride flou créé ad hoc en dehors du droit international classique, en contradiction avec le principe même de notre droit international, a permis les pires bavures de ce droit international. Parce que les droits de l’homme sont placés au-dessus de la paix, leur violation peut légitimer une guerre d’agression, y compris sans l’autorisation des institutions internationales, comme nous l’avons vu au Kosovo en 1999, et aujourd'hui en Lybie. Force est de constater que le plan moral, éthique est distingué ici du plan juridique. Le travail du TPY dans l'épisode ex-yougoslave s'inscrit tout droit dans le cadre d'un conflit néo-colonialiste opposant l’Occident anglo-américain aux pays qui résistent à son ambition d’hégémonie planétaire. Les peuples européens aujourd'hui déshonorés et humiliés tout comme le sont les peuples croates, serbes et bosniaques vivent dans cet état de menace permanente, qui rend possible une «industrie de la mort collective», illustrée par des condamnations judiciaires infâmantes et des bombardements lâches et ignobles de population civiles. Cette réalité conflictuelle permet de réintroduire un antagonisme ami/ennemi inspiré de Carl Schmitt, dans un monde officiellement gouverné par une visée pacifiste universelle, dont Clio, la muse de l'histoire universelle, se moque et n'a que faire.
Jure Georges Vujic
19/04/2011
L'auteur : Jure Vuji, est avocat, diplomé de droit à la Faculté de droit d'Assas Paris II. Géopoliticien et écrivain franco-croate, il est diplomé de la Haute Ecole de Guerre Ban Josip Jela_i_ des Forces Armées Croates et de l'Académie diplomatique croate où il donne des conférences regulières en géopolitique et géostratégie.
Les intertitres sont de la rédaction
Voir les articles de Polémia :
« Bloody Sunday »ou le modèle global de la contre-insurrection
Krisis, « La Guerre ? »
L'Occident : une Yougoslavie planétaire
Correspondance Polémia 19/04/2011
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vendredi, 29 avril 2011
Croatie: la révolution d'avril 1941
Croatie : la révolution d’avril 1941
par Christophe DOLBEAU
Cette année 2011 marque le 70e anniversaire de la naissance de l’État Indépendant Croate, un épisode majeur de l’histoire de la Croatie au XXe siècle mais aussi un événement qui soulève encore d’âpres controverses. Le 10 avril 1941 fut-il un accident de l’histoire, fut-il au contraire une étape logique et inéluctable de la vie nationale croate ou encore une simple péripétie orchestrée par Hitler et Mussolini pour servir leurs intérêts ? Extrêmement délicat eu égard aux méchantes polémiques que suscitent encore les faits et gestes des Croates durant la IIe Guerre mondiale, le débat n’est toujours pas clos et il n’est peut-être pas inutile de faire le point.
Le 10 avril 1941
Le jeudi 10 avril 1941, soit quatre jours après le début de l’offensive allemande contre la Yougoslavie, il est aux alentours de 16h 10 (1) lorsque l’ancien colonel Slavko Kvaternik s’exprime sur les ondes de Radio Zagreb et proclame, au nom d’Ante Pavelić, le rétablissement de l’indépendance croate. Quelques minutes plus tard, la station diffuse un bref message de Vladko Maček, demandant au peuple croate de reconnaître l’autorité du nouveau pouvoir et de loyalement coopérer avec lui. La ville est d’ores et déjà sous le contrôle des miliciens du Parti Paysan, des militants de l’Oustacha et des volontaires issus de diverses associations patriotiques comme Uzdanica. Témoin « neutre » des événements, le consul américain John James Meily raconte : « Le mercredi 9 avril, le bruit court que toute la Garde Civique du Parti Paysan est passée du côté frankiste ; les officiels serbes présents à Zagreb et notamment le Vice-Ban s’apprêtent à quitter la ville. Le jour suivant, le 10 avril, la Garde Civique et une partie au moins de la Garde Rurale se déclarent ouvertement favorables aux Frankistes (2) ; vers 10 heures du matin, le Vice-Ban reçoit l’un de nos fonctionnaires en s’écriant ‘C’est la débacle ! La débacle totale !’. À midi, le chef de cabinet du Ban nous informe que la Yougoslavie, c’est fini ; que dans quelques heures, les troupes allemandes vont entrer en ville ; que la Croatie va se déclarer indépendante et que le Parti Paysan s’arrangera avec les Frankistes. C’est quelques minutes avant l’entrée des premiers soldats allemands dans Zagreb que le général Kvaternik, un chef frankiste ou oustachi, proclame à la radio, au nom du Poglavnik Dr Ante Pavelić, l’État Indépendant Croate (…) Vers 16 heures, des milliers de citoyens enthousiastes acclament les premières unités mécanisées allemandes. Dans le même temps, un petit groupe organisé de Frankistes, ou d’oustachis comme ils se nomment eux-mêmes, avec à leur tête le major oustachi Ćudina, des étudiants frankistes et la Garde Civique s’emparent des bâtiments publics, de la gare et de la radio, sans rencontrer de résistance. C’est ainsi que la Croatie se sépare, sans effusion de sang (seul un policier a été tué), de l’État yougoslave » (3).
La proclamation de l’indépendance n’apparaît donc aucunement comme une initiative ou une manœuvre allemande. Les protagonistes de cette journée du 10 avril sont bien tous des Croates, la Wehrmacht n’est pas encore arrivée et seul le Dr Edmund Veesenmayer (1904-1977) représente sur place les autorités du Reich. La révolution qui commence ne pourrait avoir lieu sans un vaste consensus : à cette date, l’Oustacha ne peut, en effet, mobiliser, au mieux, que 4000 à 5000 militants assermentés et armés, ce qui serait tout à fait insuffisant en cas de résistance yougoslave. En réalité, le colonel Kvaternik sait pouvoir compter sur la Garde Civique et la Garde Rurale dont les chefs – Zvonko Kovačević, Đuka Kemfelja, Milan Pribanić – disposent de 142 000 hommes bien entraînés. À cette force d’essence politique s’ajoutent encore les effectifs de la police et de la gendarmerie dont les commandants, Josip Vragović et le général Tartalja acceptent eux aussi de cautionner le coup de force. Ces gens n’ont quand même pas tous été soudoyés par la Wilhelmstrasse ! Cette conjonction de forces disparates n’est possible que parce que les chefs du Parti Paysan – V. Maček et A. Košutić – approuvent (4) ou laissent faire et que l’objectif, à savoir l’indépendance nationale, fait clairement l’unanimité. D’ailleurs, si l’on en croit le récit du consul Meily, mais également les témoignages du consul allemand Alfred Freundt et du général Kühn, la population de Zagreb ne cache pas sa joie.
Un soulèvement général
L’assise populaire et le caractère spontané du soulèvement croate trouvent leur confirmation dans une multitude de rébellions locales (5) qui précèdent ou suivent les événements de Zagreb. Ainsi, dès le 3 avril, le capitaine d’aviation Vladimir Kren déserte-t-il et s’envole-t-il pour Graz afin de convaincre les Allemands de ne pas bombarder les villes croates. Trois jours plus tard, le colonel Zdenko Gorjup et d’autres pilotes croates se mutinent sur un aérodrome de Macédoine. Le 7 avril, des patriotes s’emparent de Čakovec où le pharmacien Teodor Košak proclame l’indépendance de la Croatie. Le même jour, des soldats se mutinent à Đakovac puis à Veliki Grđevac et à Bjelovar où les nationalistes (le Dr Julije Makanec, le député Franjo Hegeduš et le sergent Ivan Čvek) prennent le pouvoir (6). Des accrochages opposent soldats croates et serbes à Đakovo mais aussi à Vaganj où l’officier croate Milan Luetić est tué lors d’un affrontement. Le 10 avril même, le capitaine Želimir Milić et l’équipage d’un torpilleur se révoltent à Šibenik, tandis que la ville est prise en main par le Dr Ante Nikšić. À Crikvenica, le major Petar Milutin Kvaternik s’insurge contre le commandement serbe de la garnison (ce qui lui coûtera la vie), tandis qu’à Split, le capitaine Righi et le lieutenant-colonel Josip Bojić chassent les dernières autorités yougoslaves. En Bosnie et en Herzégovine, le soulèvement s’étend également. À Doboj, des patriotes se battent contre une vingtaine de blindés yougoslaves ; à Mostar, la population se soulève derrière Stjepan Barbarić et Ahmed Hadžić tandis qu’à Livno, le Frère Srećko Perić prend la tête de l’insurrection. Affirmer, comme on l’a longtemps fait, que tous ces mouvements avaient pour seule origine de sombres complots ourdis par l’étranger est pour le moins simpliste, voire carrément malhonnête. Comme l’écrira plus tard le Dr Georges Desbons : « Il était naturel qu’en 1941, les Croates refusent de se battre sous l’influence de la Yougoslavie, devenue une formation serbe à l’exclusif profit des Serbes (…) Il était logique, la force militaire yougoslave s’effondrant, que les Croates se saisissent de cette occasion unique de proclamer leur indépendance. La logique cadrait avec l’impératif national » (7).
Beaucoup d’adversaires de l’émancipation nationale croate persistent envers et contre tout à tenir l’État Indépendant Croate pour une simple création artificielle de l’Axe et le 10 avril pour un vulgaire putsch dépourvu de racines populaires. Nous venons de voir que la proclamation de l’indépendance semble pourtant avoir recueilli l’assentiment d’une majorité de la population et bénéficié du soutien actif de très nombreux citoyens qui ne pouvaient tous appartenir aux services secrets allemands et italiens… Il n’est peut-être pas inutile de rappeler en outre que la création d’un État croate n’entrait pas vraiment dans les plans de l’Axe. Dans une concluante étude, publiée il y a un quart de siècle (8), le professeur K. Katalinić a bien montré que le IIIe Reich s’était toujours déclaré favorable au maintien de la Yougoslavie : tant l’envoyé spécial allemand Viktor von Heeren (décoré de l’Ordre de Saint-Sava en 1937) que le secrétaire général aux affaires étrangères Ernst von Weizsäcker ne cachaient pas leur volonté de préserver le Royaume Yougoslave. Au moment de la guerre (qui n’éclate qu’en raison des manigances britanniques à Belgrade et dont l’objectif principal est le contrôle de la Grèce), le Führer lui-même commence par envisager de placer la Croatie sous tutelle hongroise (6 avril 1941), puis il prévoit de confier la Dalmatie, la Bosnie et l’Herzégovine aux Italiens, avant de préciser (dans ses Instructions provisoires du 12 avril 1941) que l’Allemagne ne s’immiscera pas dans les affaires intérieures de la Croatie. Du côté italien, le régime fasciste ne cachait pas son appétence pour la Dalmatie et quant à la cause croate, elle avait définitivement cessé de plaire après la signature (1937), avec Milan Stojadinović, d’un avantageux traité. Dans ces conditions, affirmer que l’État Indépendant Croate fut une « création » de l’Axe est abusif : la révolution d’avril a éclaté parce que la patience du peuple croate était à bout et que l’opportunité de s’affranchir se présentait. Le mouvement était spontané et les occupants, placés devant le fait accompli, n’ont fait que le tolérer.
Une monarchie très critiquée
Les détracteurs de l’État Indépendant Croate font généralement mine d’ignorer ce que pouvait être l’exaspération des Croates en 1941. À les en croire, rien ne laissait présager que les Croates souhaitaient se séparer de la Yougoslavie, ce qui prouverait bien, selon eux, que le 10 avril ne fut qu’un grossier subterfuge des Allemands et l’État de Pavelić une imposture. Il y a là, bien sûr, une immense hypocrisie car les problèmes de la Yougoslavie étaient depuis longtemps connus de tous, ainsi d’ailleurs que les revendications des Croates. En France, par exemple, l’encre du Traité de Saint-Germain est à peine sèche que certains journalistes commencent à dénoncer, à l’instar de Charles Rivet du Temps, le panserbisme agressif des dirigeants du Royaume des Serbes, Croates et Slovènes. À l’époque, toutefois, ce genre de critique ne rencontre que peu d’écho. Bien que le roi Alexandre s’affranchisse allègrement de son serment de servir la démocratie, les gouvernants occidentaux persistent à témoigner à son égard d’une grande mansuétude (9). La haute administration est très serbophile : en l920, raconte Paul Garde, l’ambassadeur Jacques de Fontenay s’inquiète de la prochaine sortie de prison de Stjepan Radić, et quant à son confrère Émile-Laurent Dard, il souhaite carrément « que la dictature subsiste » (10)… Petit à petit, cependant, sous l’influence des memoranda de l’émigration croate et des campagnes d’information du Parti Paysan, l’image du royaume se ternit sensiblement. En 1928 survient l’assassinat, en plein Parlement, de Stjepan Radić, Pavao Radić et Đuro Basariček, et cette fois, le masque tombe. L’attentat de la Skupština révèle au monde entier la violence de l’antagonisme opposant Serbes et Croates. « Le tragique décès de Stjepan Radić », commente The Economist (18 août 1928), « place dorénavant les Croates et les Serbes dans deux camps hostiles et irréconciliables ».
Loin de ramener le régime à la raison, cette tragédie conduit, quelques mois plus tard, le souverain à instaurer officiellement la dictature, ce qui attise encore un peu plus les passions. Désormais, nombreux sont ceux qui s’alarment publiquement de la dérive franchement totalitaire du Royaume Yougoslave. Les principaux dirigeants politiques croates – Vladko Maček, Ante Trumbić, Juraj Krnjević, Ljudevit Kežman, August Košutić et Ante Pavelić – multiplient les démarches auprès des capitales européennes où leurs doléances trouvent maintenant des oreilles plus attentives. Profondément choquée par le carcan de fer que le roi Alexandre impose à son pays (11), la presse internationale ne cache plus ses réserves. Les blâmes émanent des plus grandes plumes et même de vieux amis comme R.W. Seton-Watson et Wickham Steed. « Si la Yougoslavie opte définitivement pour l’autocratie militaire et royale », écrit le premier, « elle se privera de l’aide des puissances occidentales car celles-ci estiment qu’il est contraire à l’intérêt général de maintenir en Europe de l’Est un gouvernement despotique ». « Les méthodes de torture auxquelles recourt la police yougoslave », proteste le second, « rappellent les pires moments de la tyrannie turque » (12). Le 16 janvier 1931, c’est au tour de John Gunther, le correspondant en Europe du Chicago Daily News, de dénoncer le pillage économique auquel le régime yougoslave soumet la Croatie mais également les discriminations dont souffrent les Croates dans l’armée et la fonction publique, sans oublier les méthodes très cruelles de la police royale (13). 1931, c’est aussi l’année où le savant croate Milan Šufflay tombe sous les coups d’une équipe de nervis mandatés par le pouvoir. Trois ans à peine après l’assassinat de Radić, le scandale est énorme. Il suscite aussitôt la réaction indignée d’Albert Einstein et de Heinrich Mann qui en appellent à la Ligue Internationale des Droits de l’Homme. Leur lettre, qui met directement en cause les autorités yougoslaves, paraît le 6 mai 1931 à la une du New York Times.
L’opprobre international
Dans les années 30, les gouvernements occidentaux, français et britannique en particulier, ont beau s’accrocher bec et ongles au vieux mythe de la Yougoslavie dynamique, forte et unie, celui-ci ne trompe plus grand monde. Au Royaume-Uni, dix-sept députés signent, en 1932, un manifeste dénonçant les discriminations qui frappent les populations non-serbes de Yougoslavie (14), tandis que le célèbre chroniqueur Herbert Vivian s’indigne, dans les pages de l’English Review, de la répression sauvage qui sévit dans ce pays (15). De cette violence, l’ancien parlementaire Ante Pavelić dresse pour sa part un tableau sans concession dans une petite brochure (16) qu’il édite en quatre langues (croate, allemand, français, espagnol) et diffuse dans toute l’Europe. Les abus et les exactions que couvre ou ordonne le pouvoir yougoslave lui aliène de plus en plus de monde. Aux Etats-Unis, le président du Comité International pour la Défense des Détenus Politiques, Roger Nash Baldwin, proteste solennellement auprès de l’ambassade yougoslave (24 novembre 1933) contre les tortures infligées aux prisonniers croates et macédoniens ; sa lettre est contresignée par les écrivains Theodore Dreiser, John Dos Passos, Upton Sinclair et Erskine Caldwell. En France, le député démocrate-chrétien Ernest Pezet, qui fut un chaud partisan de l’unité yougoslave, publie La Yougoslavie en péril (Paris, Bloud et Gay, 1933) où il dresse un bilan sévère du régime d’Alexandre : « La Yougoslavie », reconnaît-il, déçu, « n’est qu’une appellation trompeuse destinée à masquer, aux yeux de l’étranger, une pan-Serbie impérieuse et dominatrice » (p.256). Dans La dictature du roi Alexandre (Paris, Bossuet, 1933), l’ancien ministre (serbe) Svetozar Pribičević fait le même constat. De retour d’une mission d’information en Yougoslavie (juin 1933), les sénateurs Frédéric Eccard, Guy de Wendel et Marcel Koch se déclarent eux aussi très inquiets de l’évolution négative du royaume (17), un sentiment que partage entièrement Robert Schuman qui visite Zagreb en août 1934. Le député catholique et futur ‘Père de l’Europe’ est scandalisé par le sort particulièrement injuste réservé aux Croates. « Il est impossible », écrit-il à Louis Barthou, « d’ignorer plus longtemps cette situation malsaine (…) il faut le retour à un régime constitutionnel de liberté et de fédéralisme, respectant l’individualité de toutes les nations composant cet État » (18). Un peu avant le voyage de R. Schuman, le journaliste Henri Pozzi a lui aussi publié un portrait sans fard de la Yougoslavie. Dans ce pamphlet qui s’intitule La guerre revient (Paris, Paul Berger, 1933), il énumère les crimes de la dictature yougoslave et rapporte au passage ce propos prémonitoire d’Ante Trumbić : « …en aucun cas, même en cas de guerre étrangère, l’opposition croate ne consentira à donner son appui politique, son appui moral, au gouvernement actuel de la Yougoslavie, à lui accorder son blanc-seing » (p.40)…
En 1934, le conflit intra-yougoslave atteint un sommet avec l’exécution, le 9 octobre, à Marseille, du roi Alexandre Ier. Perpétré par un Macédonien et organisé par des Croates, cet attentat a un retentissement mondial mais à l’intérieur du royaume, il ne change pas grand- chose. Comme en attestent les affaires de Sibinj et Brod (19), la répression ne faiblit pas et la presse internationale, un instant émue par le régicide, renoue vite avec la critique virulente du régime. « La pire terreur règne en Yougoslavie », affirme ainsi le quotidien parisien L’Œuvre (16 juin 1935), avant d’ajouter que « ces persécutions des populations non-serbes, catholiques pour la plupart, méritent non seulement d’être dénoncées, mais nécessitent l’intervention des peuples civilisés » (20). En 1936, les méthodes moyenâgeuses de la police yougoslave et l’insalubrité légendaire de ses cachots suscitent l’indignation du romancier et futur Prix Nobel français André Gide. Publié (le 7 février) dans les pages de Vendredi, l’ « hebdomadaire du Front Populaire », son article précède de quelques semaines à peine la mort à Srijemska Mitrovica du nationaliste Stjepan Javor ! Les années qui suivent et qui précèdent immédiatement la Deuxième Guerre mondiale demeurent elles aussi marquées d’une vive tension : ici, les gendarmes abattent sans raison sept jeunes gens (le 9 mai 1937 à Senj) et là, on manipule le résultat des élections ou l’on suspend arbitrairement un journal d’opposition. Le contentieux croato-serbe paraît vraiment insurmontable et le 15 janvier 1939, les députés croates menacent même d’appeler le peuple à prendre les armes au cas où l’on persisterait à lui dénier son droit à l’autodétermination.
Une révolution démocratique
On aura compris, à la lecture de ce bref rappel, qu’il est tout à fait malhonnête, comme nous l’avons dit plus haut, d’affirmer que la sédition croate de 1941 ne fut que le fruit d’une machination hitléro-fasciste. En fait, après 23 ans d’absolutisme, l’exaspération du peuple croate était à son comble et tout le monde le savait. Le soulèvement des Croates était inéluctable et l’attaque allemande n’en fut que le détonateur. Le gardien de « la prison des peuples » étant en difficulté, l’occasion était propice et les patriotes l’ont opportunément saisie. Dans son prologue, la Déclaration d’Indépendance des États-Unis du 4 juillet 1776 énonce que les hommes sont dotés de certains droits inaliénables dont la vie, la liberté et la recherche du bonheur. « Les gouvernements », ajoute le texte, « sont établis par les hommes pour garantir ces droits et leur juste pouvoir émane du consentement des gouvernés. Toutes les fois qu’une forme de gouvernement devient destructive de ces buts, le peuple a le droit de la changer ou de l’abolir ». En France, la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen du 24 juin 1793 précise dans son article XXXV que « quand le gouvernement viole les droits du peuple, l’insurrection est pour le peuple, et pour chaque portion du peuple, le plus sacré des droits et le plus indispensable des devoirs ». En 1941, les Croates n’ont fait qu’appliquer ces vieux principes et en ce sens, la révolution d’avril fut tout ce qu’il y a de plus démocratique.
Christophe Dolbeau
C. Dolbeau est écrivain et collaborateur d’Ecrits de Paris et de Rivarol. Il est auteur de plusieurs ouvrages sur la Croatie. Son dernier livre est La guerre d’Espagne (L'atelier Fol'Fer, 2010).
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Notes
(1) Curieusement, dans son rapport à Berlin, le Dr Veesenmayer situe l’intervention du colonel Kvaternik à 17h 45 – cf. J. Tomasevich, War and Revolution in Yugoslavia, 1941-1945, Stanford, Stanford University Press, 2001, p.54.
(2) Surnom donné aux membres du Parti du Droit Croate, héritiers de la pensée de Josip Frank (1844-1911).
(3) Voir I. Omrčanin, The Pro Allied Putsch in Croatia in 1944 and the Massacre of Croatians by Tito Communists in 1945, Philadelphie, Dorrance and Co, 1975, pp.103-107.
(4) Au sein du Parti Paysan, les députés Janko Tortić et Marko Lamešić ont mis en place une structure clandestine baptisée Organizacija za oslobođenje i borbu (OZOIB).
(5) Cf. I. J. de Mihalovich-Korvin, Istina o Nezavisnoj Državi Hrvatskoj, Buenos Aires, Croacia y los Croatas, 1991, p.12-13.
(6) Voir Z. Dizdar, « Bjelovarski ustanak od 7. do 10. Travnja 1941 », Časopis za suvremenu povijest, N°3 (2007), 581-609.
(7) G. Desbons, « Rapport France-Croatie », Balkania, vol. I, N°1 (janvier 1967), p.24.
(8) K. Katalinić, « Proclamación de la independencia croata a la luz de los documentos internacionales », Studia Croatica, vol. 2, N°105 (avril-juin 1987), 102-130.
(9) Voir F. Grumel-Jacquignon, La Yougoslavie dans la stratégie française de l’entre-deux-guerres, aux origines du mythe serbe en France, Berne, Peter Lang, 1999.
(10) Cf. P. Garde, « La France et les Balkans au XXe siècle », Contrepoints du 16.11.2000.
(11) Voir Christian Axboe Nielsen, « Policing Yugoslavism : Surveillance, Denunciations, and Ideology during King Alexandar’s Dictatorship, 1929-1934 », East European Politics and Societies, vol. 23, N°1 (February 2009).
(12) Cf. S. Hefer, Croatian Struggle for Freedom and Statehood, Buenos Aires, Croatian Liberation Movement, 1979, p. 77.
(13) Ibid, pp. 78-80.
(14) Cf. M. Gjidara, « Cadres juridiques et règles applicables aux problèmes européens de minorités », Annuaire Français de Droit International, 1991, vol. 37, p. 356.
(15) Cf. S. Hefer, op. cité, p. 60-61.
(16) Voir Ekonomska obnova podunavskih zemalja. Razoružanje Beograd i Hrvatska, Vienne, Grič, 1932 (réédition par Domovina, Madrid 1999).
(17) Cf. Gergely Fejérdy, « Les visites de Robert Schuman dans le bassin du Danube », in Robert Schuman et les pères de l’Europe (sous la direction de S. Schirmann), Bruxelles, Peter Lang, 2008, p. 77.
(18) Ibid, p. 80. Voir également M. Grmek, M. Gjidara, N. Šimac, Le nettoyage ethnique, Paris, Fayard, 1993, pp. 146-149.
(19) Le 19 février 1935, la gendarmerie yougoslave tue 8 paysans croates à Sibinj et le lendemain, 20 février 1935, six autres à Brod.
(20) Cf. M. Gjidara, op. cité, p. 356.
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jeudi, 14 avril 2011
Die Mafia im Kosovo
Die Mafia im Kosovo: Warum die USA und ihre Verbündeten das Organisierte Verbrechen ignorierten
Matt McAllester / Jovo Martinovic
Im Herbst des Jahres 2000, etwas mehr als ein Jahr nach dem Ende des Kosovo-Krieges, legten zwei Mitarbeiter des Militärgeheimdienstes der NATO den ersten bekannt gewordenen Bericht über die dortige organisierte Kriminalität (OK) vor. Darin erklärten sie, der frühere politische Führer der Befreiungsarmee des Kosovo (UÇK) Hashim Thaci verfüge »über Einfluss auf die lokalen Strukturen der organisierten Kriminalität, die [einen] Großteil des Kosovo kontrollieren«.
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lundi, 04 avril 2011
Dal Kosovo alla Libia: il lato oscuro dell'interventismo "umanitario"
di Stefano Vernole
Fonte: eurasia [scheda fonte]
Giunto simbolicamente a Belgrado il 23 marzo (giorno antecedente all’anniversario dell’inizio dei bombardamenti sulla Federazione Jugoslava nel 1999), il capo del governo di Mosca, Vladimir Putin, avrebbe dichiarato che tra l’attuale crisi libica e quella kosovara di 12 anni fa esisterebbero diverse differenze.
Sicuramente, però, vi sono anche parecchie analogie.
Preparazione mediatica all’aggressione militare: come allora, l’intervento degli aerei della coalizione occidentale è stato preceduto da una lunga campagna dell’opinione pubblica, volta a demonizzare l’avversario. Nel 1999 fu il falso massacro di Racak a fornire il pretesto per l’umiliante ultimatum di Rambouillet, oggi sono state le false fosse comuni di Tripoli (1) e gli inesistenti raid aerei (2) sui manifestanti a permettere di scaldare i motori degli aerei dell’aviazione atlantica. Anche le parole d’ordine della propaganda occidentale sono sempre le stesse: “un dittatore che uccide il suo popolo” (allora Milosevic che vinse tutte le elezioni, oggi Gheddafi che sostituì nel 1969 un regime autocratico introducendo la democrazia diretta), gli “scudi umani” a protezione dei siti da bombardare (in realtà migliaia di volontari pronti a sacrificarsi, a Belgrado a difesa dei ponti sul Danubio, a Tripoli delle città libiche), “gli insorti lottano per la libertà e la democrazia” (in realtà l’UCK era un gruppo ideologicamente marxista-leninista e le tribù ribelli della Cirenaica sventolano le bandiere monarchiche), qualche accenno alla “pulizia etnica” e ai “mercenari” (che nemmeno vale la pena commentare), “Milosevic disposto ad arrendersi dopo 3 giorni di bombardamenti” (furono alla fine 78) e “Gheddafi scappato in Venezuela o in Bielorussia” (forse sarebbe piaciuto a Washington per attaccare Chavez e Lukashenko …), preparazione “culturale” alle rivolte (apertura di un centro statunitense finanziato da Soros a Pristina e discorso di Obama al Cairo).
Sostegno esterno agli insorti e andamento del conflitto: in Kosovo l’UCK venne addestrato, armato e finanziato da BND, SAS, CIA e servizi segreti albanesi, in Libia gli insorti di Bengasi da SAS, CIA, servizi segreti francesi, egiziani e sauditi. In un primo momento l’esercito di liberazione albanese del Kosovo conquistò oltre metà della provincia serba e assunse il controllo di tutte le strade principali, per essere travolto alla prima azione seria intrapresa dalla polizia militare di Belgrado. Lo stesso può dirsi per le tribù della Cirenaica che, dopo un fantomatico successo iniziale, stavano per scappare in Egitto e perdere anche la loro roccaforte. In entrambi i casi, questi gruppi ribelli sono stati utilizzati per creare un clima bellico idoneo per l’intervento esterno, vengono fatti massacrare perché non assumano troppa influenza e verranno poi scaricati quando le potenze occidentali avranno raggiunto i loro obiettivi (nel 1999 la NATO addirittura bombardò la caserma di Koshare, unico successo militare dell’UCK).
Divisione del paese: impossibilitata a vincere davvero il conflitto vista la scarsa attitudine delle sue truppe a condurre un intervento di terra, la NATO si accontentò nel 1999 di occupare soltanto il Kosovo (ricco di minerali e in posizione strategica per la sorveglianza dei corridoi energetici), per poi destabilizzare la Serbia e far cadere Milosevic in un secondo tempo. L’obiettivo principale in Libia è impiantare i soldati dell’Alleanza Atlantica in Cirenaica e nel Fezzan (ricchi di petrolio e in ottima posizione per il controllo dell’Egitto), quali basi iniziali di una futura eliminazione di Gheddafi in Tripolitania (3). La balcanizzazione del mondo continua.
Demonizzazione dell’avversario: agli Stati Uniti, si sa, piace l’impostazione leaderistica della politica e identificano sempre un paese con la sua guida: ieri Milosevic (in realtà un grigio burocrate socialista), oggi Gheddafi (abbastanza attempato, se non altro perché si trova a capo della Libia dal 1969). Questa identificazione totale del potere con un solo uomo, oltre a voler ricordare i paralleli con i grandi avversari storici degli anglosassoni (Mussolini, Hitler, Stalin), permette agli USA di recitare la parte dei “liberatori dall’oppressione” o “dalla dittatura” (sarebbe sufficiente confrontare i parametri economici e sociali della Serbia di Milosevic con l’attuale o della Libia di Gheddafi con il resto del continente africano per capire i “vantaggi” della “liberazione”). In ogni caso le pressioni e l’armamentario ideologico-propagandistico sono identici: sequestro di fantomatici conti all’estero o di improbabili “tesori”, incriminazione al Tribunale dell’Aja (quello che ha ammesso di aver distrutto le prove dei crimini compiuti contro i serbi in Kosovo), pressioni per l’esilio dei “dittatori”. Anche il tranello per attirarli nella trappola è stato pressoché lo stesso: nel 1995 Milosevic fu acclamato a Dayton quale “uomo della pace” (e infatti oggi le clausole approvate per mettere fine alla guerra di Bosnia vengono messe in discussione dalle pressioni atlantiste), Gheddafi dopo le minacce subite da Bush jr. e le riparazioni economiche pagate per l’attentato di Lockerbie (il presunto colpevole è stato rilasciato dagli inglesi per “una grave malattia” nonostante di salute stia benissimo, pur di evitare un processo di appello che avrebbe inchiodato i suoi accusatori britannici a mostrare prove in realtà inesistenti) venne riciclato come alleato nella “guerra al terrorismo”. L’apertura all’Occidente, evidentemente, non paga.
Interessi in gioco: sono abbastanza simili e riguardano il percorso degli oleodotti nel caso kosovaro, i diritti di sfruttamento del petrolio in quello libico (e questi, almeno oggi, sono stati ammessi perfino dalla nostra classe dirigente). Nel caso kosovaro ci furono anche quelli della droga e del traffico di migranti/prostituzione, probabile che anche in Libia avvenga qualcosa del genere. Posizionamento strategico della NATO: base militare USA di Camp Bondsteel in Kosovo (quale porta d’ingresso alle aree strategiche del pianeta, Vicino e Medio Oriente, Caucaso), destabilizzazione dell’influenza russa e turca nel Mediterraneo per la Libia (4), rilancio mediatico del ruolo dell’Alleanza Atlantica quale gendarme globale.
Danni all’Italia e mediazione russa: evidenti all’epoca dell’aggressione alla Serbia (affare Telekom Srbja, investimenti commerciali, inquinamento ambientale del Mar Adriatico, conseguenze dell’utilizzo dell’uranio impoverito sui propri militari, violazione della Costituzione, invasione della droga e della mafia kosovara), addirittura clamorosi con la partecipazione ai bombardamenti sulla Libia (perdita di cospicui contratti petroliferi, accordi energetici, perdita di credibilità internazionale dopo la concessione delle basi militari per un attacco militare e violazione del trattato di amicizia italo-libico, aumento dei migranti e probabilmente del traffico di droga) (5). Nel 1999, la Russia che aveva però posto il veto all’intervento nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, favorì con Chernomyrdin la fine delle ostilità; è probabile che ora molti, Berlusconi per primo, si augurino una mediazione russa per trovare una via d’uscita vantaggiosa per tutti.
Non sappiamo, infatti, quanto durerà ancora questa coalizione improvvisata di governi che ormai non hanno più nemmeno la decenza di vergognarsi delle proprie bugie, ma, soprattutto, dopo quanto esportato in Kosovo (dove i gestori del potere organizzavano i traffici di organi umani (6)), Iraq (con nefandezze come l’embargo sul latte ai bambini e le torture di Abu Ghraib) e Afghanistan (dove si confondono trafficanti di droga e necrofili) (7), attendiamo “fiduciosi” di scorgere i frutti del loro “intervento umanitario” in Libia.
* Stefano Vernole, redattore di “Eurasia”, è autore di “La questione serba e la crisi del Kosovo”, Ed. Noctua, Molfetta, 2008.
Note
- Paolo Pazzini su “Il Giornale”: “Vengo da Tripoli e vi dico che i giornali raccontano un sacco di menzogne”, 26 febbraio 2011, www.ilgiornale.it
- “I militari russi: nessun attacco aereo in Libia”, 2 marzo 2011, http://www.eurasia-rivista.org/8536/i-militari-russi-nessun-attacco-aereo-in-libia
- LIBIA:STRATEGA, NO FLY ZONE COME BOSNIA RISCHIA DI FALLIRE PERICOLO E’ STALLO, PAESE DIVISO PREVALGONO IDENTITA’ REGIONALI (ANSA) – ROMA, 21 MAR ”Stanno tentando di far cadere Gheddafi come avvenne con Milosevic negli Anni Novanta” ma ”questa volta potremmo fallire”. E’ quanto afferma Robert Kaplan, stratega militare del Center for New American Security, intervistato da La Stampa. ”In Libia vogliono imporre una no fly zone come la Nato fece nel 1994 sui cieli della Bosnia e anche nel 1999 sul Kosovo – afferma Kaplan – conducendo una campagna aerea di 99 giorni. Ma quelle due operazioni militari non portarono alla caduta di Milosevic, perche’ una no fly zone non e’ in grado di innescare cambiamenti di regime”. In Libia, secondo l’esperto, si sta tentando di indebolire Gheddafi allo stesso modo, ”fino al punto da portare qualcuno del suo campo a prendere l’iniziativa per eliminarlo o allontanarlo dal potere”. Ma la Libia ”non e’ la Serbia”. ”La Libia, in realta’, come stato non esiste – prosegue – perche’ a prevalere sono piuttosto le identita’ regionali in Tripolitania, Cirenaica e Fezzan”. ”Se una no fly zone riesce a salvare Bengasi – afferma Kaplan – e indebolisce Gheddafi in Cirenaica, non significa che cio’ avverra’ anche in Tripolitania”. Il rischio per la coalizione e’ arrivare ad una situazione di stallo: ”la Cirenaica in mano ai ribelli, la Tripolitania a Gheddafi e il Fezzan senza governo”. (ANSA).
- http://www.eurasia-rivista.org/8828/libia-che-alternative-aveva-litalia
- http://www.eurasia-rivista.org/8778/litalia-ha-gia-perso-la-sua-guerra-di-libia
- http://www.eurasia-rivista.org/7839/kosovo-il-rapporto-marty-e-stato-censurato-da-israele
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jeudi, 03 mars 2011
Trafics d'organes de l'UçK
C’est l’information révélée par la chaîne de télévision France 24 et l’agence de presse italienne TMNews, et reprise par une grande partie de la presse en Serbie.
L’information est basée sur un document confidentiel, en fait une compilation de rapports d enquêtes et un échange de lettres entre les membres importants des Nations unies au Kosovo et du Tribunal pénal international, daté du 30 octobre 2003.
Apparaissent ainsi dans les lettres les noms de Eamonn Smith, à l’époque chef de la mission du TPI en Macédoine et au Kosovo, de Patrick Lopez Terrez, responsable de la mission locale du TPI et de Paul Coffey, directeur du département justice de la Minuk.
Le document mis en ligne, dont une grande partie a été censurée dans le but évident de protéger les témoins, décrit comment des victimes d’enlèvement de la part d’éléments de l’UCK au Kosovo, ont été emprisonnés, parfois torturés, puis transportés en Albanie du nord dans des camps de detention clandestins.
Si certains prisonniers auraient été exécutés et enterrés en Albanie pour masquer les traces d exactions au Kosovo, d’autres prisonniers ont reçu un « traitement de faveur », en l’occurrence une absence de tortures et une nourriture abondante avant d’être transférés dans une clinique improvisée, la fameuse « maison jaune » des environs de Burrell, où leurs organes auraient été extraits par des médecins albanais et étrangers, dans le but d alimenter des filières internationales de trafic d organes. Les restes des victimes auraient été enterrées dans plusieurs sites, toujours en Albanie.
La plupart des victimes auraient été des Serbes du Kosovo, mais le rapport mentionne aussi des jeunes femmes originaires d Europe de l’Est et même d’Albanie, qui auraient subi le même sort.
Les organes auraient été transportes par voitures à l’Aéroport Rinas de Tirana, puis expédiés par avion vers d’autres pays.
Retrouvez notre dossier :
Trafic d’organes de l’UCK : « Au Kosovo, tout le monde est au courant »
Le trafic aurait été supervisé ou organisé avec l’assentiment de hauts responsables de l’UCK. Le rapport cite ainsi les noms de Ramush et de Daut Haradinaj, mais pas celui de l’actuel Premier ministre du Kosovo Hashim Thaçi, pourtant soupçonné de faits similaires dans le rapport du parlementaire suisse Dick Marty.
« Nous avons reçu l’ordre de ne pas frapper les prisonniers, de bien les traiter. J’ai été surpris, car c’est la première fois que j’entendais cela », raconte l’un des témoins cités par le rapport qui décrit aussi la maison de Burrell comme « très propre, avec une forte odeur de médicaments, comme dans un hôpital ». Un autre extrait fait état de l’évolution du trafic. « Seuls les reins ont été extraits des deux premiers Serbes. L’intention était de se lancer sur le marche. Ensuite, l’organisation s’est améliorée et ils recevaient 45000 dollars par personne ».
Les faits décrits dans le rapport ressemblent a ceux évoqués par Carla Del Ponte dans son livre La chasse. Moi et les criminels de guerre, paru en 2008 et qui avait pour la première fois révélé au grand jour les soupçons de trafic d organes. Des accusations très décriées au Kosovo et en Albanie, mais qui ont été renforcées depuis que le rapport d’enquête sur le sujet du parlementaire suisse Dick Marty a été approuvé par l’assemblée du Conseil de l’Europe en janvier.
Le trafic d organe a aussi été l’un des points de discussions principaux au Conseil de Sécurité de l’ONU qui s’est tenu le 16 janvier, mais les diplomates n’ont pas réussi à se mettre d’accord sur l’organisation qui devrait mener une telle enquête. D’un côté, certains pays et le Kosovo réclament une enquête menée par la mission de police et de justice européenne EULEX, d’autres, dont la Serbie, demandent la constitution d’un tribunal spécial mandaté par le Conseil de sécurité.
Quoi qu’il en soit, le rapport en question n’aurait été transmis ni à EULEX ni à Dick Marty au cours de son enquête. Si la Minuk affirme au contraire que le rapport a bien été transmis à EULEX entre fin 2008 et début 2009, le parlementaire suisse a déclaré à France 24 n’avoir jamais eu le document entre le mains, même si les faits décrits dans le rapport lui sont connus.
À l’époque des faits, les missions de l’ONU, de l’organisation pour la sécurité et la coopération en Europe (OSCE) et les militaires de l’Otan, soit plusieurs dizaines de milliers de personnes en charge de l’administration du Kosovo et de la sécurité de ses habitants, étaient déployées sur le territoire. Mais dépassées par le chaos qui y régnait, elles n’ont pas réagi aux nombreuses exactions commises sur le terrain par l’organisation séparatiste kosovar.
Retrouvez le document de l’ONU (en anglais)
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jeudi, 23 décembre 2010
Vers une islamisation et une mainmise turque sur les Balkans?
Friedrich-Wilhelm MOEWE :
Vers une islamisation et une mainmise turque sur les Balkans ?
Que se passe-t-il actuellement dans les Balkans ? Une islamisation rampante sans qu’il n’y ait une véritable immigration. Il existe bel et bien une volonté politique d’installer un noyau dur islamisé dans les Balkans : c’est ce que nous apprennent les récentes révélations de documents secrets américains et de dépêches d’ambassades ; on y trouve bon nombre de notes sur les dirigeants turcs actuels, dont les ambitions ne sont guère modestes et qui visent clairement à avancer les pions de la Turquie non seulement en direction de l’Union Européenne mais aussi et surtout en direction des Balkans. Lorsque le ministre turc des affaires étrangères déclare son opinion et dit urbi et orbi qu’une nouvelle domination ottomane dans les Balkans profiterait à la région et que, simultanément, les minorités musulmanes balkaniques croissent en nombre, on peut dire, sans risque d’exagérer, que l’islam, sous la houlette turque, est en train de gagner du terrain dans les Balkans. D’où, il nous paraît légitime de poser la question : quelles sont les raisons qui font que ce soient justement les Balkans qui posent un problème récurrent en Europe et pour l’Europe ? Les problèmes n’ont pas seulement émergé après la seconde guerre mondiale car les turbulences ethniques et politiques agitaient depuis longtemps déjà la région, qui accumulait les difficultés. Les racines de la situation actuelle, pour laquelle il n’y a pratiquement aucune solution en vue sur la scène politique internationale, datent d’il y a quelques décennies. Il faut en chercher les prémisses dans les événements qui ont immédiatement suivi la fin de la dernière guerre mondiale : les pays des Balkans ont été « libérés » de manière atypique ; ils n’ont pas été libérés par les armées de l’un des grands vainqueurs mais se sont en quelque sorte « auto-libérés », par l’intermédiaire des mouvements de partisans de Josip Broz, dit « Tito », en Yougoslavie, et d’Enver Hoxha, en Albanie. Tito, qui avait du génie politique, qui était un stratège rusé, a réussit à consolider son pouvoir dans les Balkans en maintenant un certain équilibre ethno-religieux et en imposant un socialisme paternaliste, tout en se proclamant l’adepte d’une solidarité internationale avec les pays non alignés.
La Yougoslavie s’est effondrée après la fin du titisme et beaucoup de sang a coulé, alors que le reste de l’Europe centrale et orientale se transformait pacifiquement dans les années 90 du 20ème siècle, tandis que la question allemande trouvait sa solution dans une réunification pacifique.
Il y avait donc, après le communisme, une diversité religieuse et ethnique dans les Balkans, ce qui invitait les nations occidentales, elles-mêmes fort diversifiées dans leurs composantes, à se choisir des partenaires dans le processus d’intégration à l’UE et aux autres instances européennes. Les affinités électives, nées de l’histoire, entre peuples d’Europe centrale et peuples d’Europe orientale, avaient aussi des connotations religieuses : l’Allemagne et l’Autriche se sentaient plus proches de la Croatie ; la France et la Grande-Bretagne semblaient privilégier la Serbie. Les Bosniaques musulmans ont pu et peuvent toujours compter sur le soutien de la Turquie et des pays arabes, même si l’Autriche jouit en Bosnie d’un capital historique positif.
La crise balkanique, qui s’éternise, a montré que l’Europe eurocratique est incapable de faire la paix dans son environnement immédiat, ce qui a pour corollaire gênant de démontrer que les Etats-Unis sont « irremplaçables ».
Le Traité de paix de Dayton est considéré comme une sorte d’armistice ethno-religieux orchestré par les Etats-Unis, qui, à l’époque, s’étaient enthousiasmés pour le livre de Samuel Huntington, « The Clash of Civilizations » (« Le choc des civilisations »). Ce traité donne, d’une part, l’impression illusoire d’être systématique, d’avoir bétonné la séparation entre les ennemis irréductibles de la région, et, d’autre part, d’avoir voulu maintenir l’islam local sous contrôle. Ainsi, on a cru que la Fédération croato-musulmane en Bosnie-Herzégovine était une structure bien conçue et inévitable, où les musulmans allaient être placés sous le contrôle de catholiques croates intransigeants.
L’avenir n’a pas été aussi simple : la diplomatie internationale a commis bon nombre de bourdes depuis 2001. Ainsi, les Croates de Bosnie ont été considérablement affaiblis, au point de ne plus représenter ce qu’ils représentaient auparavant ; ensuite, la création de nouveaux Etats, comme le Monténégro et le Kosovo, qui sont tous deux des Etats à majorité musulmane réelle ou potentielle, constitue un nouvel élément contribuant à l’affaiblissement général des entités politiques non musulmanes de la région. La situation dans les Balkans n’a pas trouvé de solution et c’est là une invitation aux Turcs à restaurer les structures de feu l’Empire ottoman, puisque l’UE n’a ni stratégie ni projet pour la région et ses membres agissent de manière désordonnée et contradictoire. D’où il ne reste que deux facteurs d’ordre possibles dans les Balkans : d’une part, un islam promu par la Turquie et, d’autre part, une orthodoxie slave en phase de réorganisation. Reste à savoir si ces deux facteurs en lice se heurteront ou trouveront entre eux des intérêts convergents.
Force est de constater que seules des structures de domination très expérimentées, comme le furent celles des Ottomans ou des Habsbourg d’Autriche, ont pu gérer le paysage politique très fragmenté de l’Europe du Sud-Est. Tito a réussi, lui aussi, parce son idéologie communiste avait des allures impériales et que sa façon de procéder avait quelque chose de monarchique. L’UE, malgré tous ses efforts, pourra-t-elle obtenir des résultats ? Rien n’est moins sûr.
On peut observer très nettement une forte croissance de la population dans les régions traditionnellement habitées par des Musulmans, ce qui fait qu’aujourd’hui la Bosnie-Herzégovine, pour la première fois depuis plusieurs siècles d’histoire, possède désormais une majorité absolue musulmane. On n’en est pas encore vraiment conscient car le dernier recensement complet date de 1991. Que les Musulmans soient majoritaires maintenant ne fait toutefois aucun doute, vu les données crédibles qui sont avancées pour étayer ce fait. Le Monténégro est un autre Etat sur le point de devenir majoritairement musulman. Au Kosovo, ce sont les clivages religieux qui ont entrainé la guerre interethnique et c’est l’islam qui en est sorti vainqueur sans aucun doute possible. La Macédoine, elle aussi, a une population musulmane qui fait le tiers du total démographique du pays. Autre indicateur qu’il convient de remarquer : ce n’est pas qu’en Albanie que l’on rêve d’une Grande Albanie, mais aussi au Kosovo, où, pour atténuer l’effet négatif que pourrait avoir tout discours grand-albanais sur les Européens eurocratisés, on parle souvent d’ « Albanie naturelle ». Or tout Etat grand-albanais serait à domination musulmane et s’insèrerait parfaitement dans les plans d’hégémonie turque, de facture néo-ottomane.
Friedrich-Wilhelm MOEWE.
(article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°49/2010, http://www.zurzeit.at/ ).
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lundi, 22 novembre 2010
Maschke: "Die Deutschen werden zu Vasallen der USA ohne Lohn"
Archives: 1999 - Ex: http://www.platzdasch.homepage.t-online.de/
"Die Deutschen werden zu Vasallen der USA ohne Lohn"
Herr Maschke, hat Gregor Gysi recht, wenn er davon spricht, daß Deutschland einen Angriffskrieg gegen Serbien führt?
Maschke: Ja – unbedingt. Die Frage eines Angriffskrieges zwischen zwei Staaten ist ja kaum zu klären. Jedoch hat in diesem Fall ein Angriff auf deutsches Territorium nicht stattgefunden, und so müßte der Paragraph 26 des Grundgesetzes greifen, wonach ein Angriffskrieg eben verboten ist. Es gibt aber auch andere juristische Probleme. Es ist durch das Eingreifen eindeutig die Charta der Vereinten Nationen verletzt. Im Artikel 2 Absatz 4 ist allen Mitgliedern die Anwendung von und Drohung mit Gewalt untersagt. Dies bezieht sich auf zwischenstaatliche Gewaltanwendung, nicht auf innerstaatliche Gewalt oder Bürgerkriegslagen. Dann ist auch wichtig, daß hier ein Bruch des Nordatlantikvertrages stattfindet. Er erlaubt nur Verteidigung für den Fall, daß ein Mitglied angegriffen worden ist. Es ist jedoch kein Nato-Mitglied angegriffen worden. Auch hinsichtlich des Gelöbnisses des deutschen Soldaten ist dieser Krieg ein Problem, da er nur dafür einstehen soll, die Bundesrepublik Deutschland zu verteidigen. Einsätze außerhalb des Bundesgebietes dürfen nicht der Kriegsführung dienen. Selbst bei einer Legalisierung des Eingriffs der Nato durch die UNO bestünde das Problem, daß der Nordatlantikpakt eben keine regionale Organisation ist wie zum Beispiel die OSZE. Die Nato darf im Auftrag der UNO eigentlich gar nicht handeln, sondern die OSZE müßte selbst ihre Truppen zusammenstellen.
Nun werden Ihnen Kritiker entgegenhalten, Sie führten eine reine Formeldiskussion. Warum kann man Rechtsfragen nicht so lässig behandeln, wie es hier geschieht?
Maschke: Man kann ja gerne den Sinn des modernen Völkerrechts bezweifeln. Das tue ich übrigens auch.
Warum?
Maschke: Weil das moderne Völkerrecht militärische Interventionen erleichtert. Es geht relativ leger mit der Einmischung um. Der momentane Bruch des Völkerrechtes durch die Nato zerstört dieses Völkerrecht jedoch, basiert aber auf einer Art radikalisierten Fortschreibung dieses Rechtes. Wenn jetzt überhaupt keine Barrieren für eine Intervention bestehen, dann ist eine völlig willkürliche Lage da, die sich einer internationalen Anarchie nähern kann. Dann kann künftig überall beliebig interveniert werden, mit Hinweis auf die äußerst deutbaren Menschenrechte. Die dienen dann als Tarnung für imperialistische Interessen.
Wenn ich die Interpretationsmacht habe und auch die notwendige militärische Interventionskraft, dann kann ich überall auf der Welt meinen politischen Willen durchsetzen. Dies wird zu einem recht merkwürdigen Rechtsnihilismus führen. Zwar ist das Völkerrecht nicht der wichtigste Faktor in einer Theorie der internationalen Beziehungen. Die langfristigen Folgen für die zwischenstaatlichen Beziehungen sind aber nicht absehbar. Man muß Gysi in diesem Punkte uneingeschränkt recht geben.
Warum legen die Politiker überhaupt so viel Wert darauf, den Begriff "Krieg" zu vermeiden, und warum sprechen sie in bestem Orwell-Deutsch von "Friedensmaßnahmen", Interventionen etc.?
Maschke: Weil nach der UN-Charta ein Krieg verboten ist! Wenn ich den Kriegszustand anerkenne, hat das auch alle möglichen wirtschaftsrechtlichen, völkerrechtlichen und auch versicherungsrechtlichen Folgen. Die Tabuisierung hat ihren Sinn, weil das Völkerrecht aufbaut auf dem Gewaltverbot, auf dem Kriegsverbot. Man will nicht wahrhaben, daß man den Krieg wieder verrechtlichen muß und daß Krieg und Frieden korrelative Begriffe sind.
Wir müssen also jetzt vom Kosovo-Krieg sprechen.
Maschke: Natürlich! Krieg ist die bewaffnete Auseinandersetzung zwischen zwei kämpfenden Parteiungen. Es gibt auch Theorien, daß der Wille des einen genügt,um Krieg zu konstituieren. Natürlich ist der Konflikt auf dem Balkan ein Krieg. Wir wissen aus der Kriegsgeschichte, daß der Krieg alle möglichen Formen annehmen kann. "Der Krieg ist ein Chamäleon", sagt Clausewitz. Es ist interessant, daß sich der common sense durchsetzt und die Menschen immer wieder ganz unbefangen von Krieg sprechen.
Sie haben Anfang der 90er Jahre die deutsche Beteiligung am Golfkrieg der Amerikaner schärfstens kritisiert. Worin unterscheidet sich der Krieg gegen Serbien wesentlich vom Krieg gegen den Irak?
Maschke: Zunächst ist es ein europäischer Krieg. Der Golfkrieg diente dazu, eine antiamerikanische, arabische Großraumbildung zu verhindern. Dies natürlich auch im Hinblick auf und im Interesse Israels. Hier geht es im Prinzip darum, daß Europa unfähig ist, amerikanische Interventionen in Europa zu verhindern. Nicht nur das – Europa macht diese Interventionen mit, jedoch eher als Juniorpartner, als Vasall. Die amerikanischen Interessen sind ganz offensichtlich: Aufbau eines Groß-Albaniens und die Produktion von Flüchtlingen. Diese sind für Europa – auch wegen ihres kriminellen Potentials – bedenklich und spielen politisch immer die fünfte Kolonne der USA. Wir, Deutschland, unterstützen diesen Prozeß, was ich für eine ganz fantastische Leistung halte.
Die Idee der Strafaktionen aus der Luft ist so alt wie der Völkerbund.
Maschke:: Die Idee entwickelte sich als sogenannte Luftpolizei im Rahmen des Völkerbundes. Als Beispiel mag da England gelten, dem es gelang, mit einer "Imperial Police" solche Strafaktionen durchzuführen. Eine französische Idee war es, eine internationale Luftpolizei zu gründen. Auch der italienische Luftkriegstheoretiker Douhet glaubte, daß man mit wenigen Schlägen aus der Luft auf die Hauptstadt den Feind in die Knie zwingen könnte. Die Idee des Luftkrieges nach den großen Schlachten des Ersten Weltkrieges war es, Kriege zu begrenzen und kontrollierbar zu machen.
Dies hat auch eine Rolle bei der Gründung der UNO gespielt. Auch hier war die Rede von integrierten Luftstreitkräften, die allerdings nicht zustande kamen. Dies ist im Prinzip die Weiterentwicklung der Idee von großen Blockade-Flotten aus dem 19. Jahrhundert. Es hängt aber auch zusammen mit der Überschätzung der Möglichkeiten der Luftwaffe. Es stellt sich schließlich jedesmal die Frage, welche Ordnung man am Boden herstellt.
In Deutschland spricht man von einer humanitären Katastrophe, die sicherlich nicht wegzudiskutieren ist und die beschämen muß. Das alleine hat aber noch selten internationale Streitkräfte auf den Plan gerufen. Um welche großräumigen Interessen geht es in diesem Konflikt?
Maschke: Ich denke, es geht einfach um die Beherrschung und Kontrolle Europas durch die Vereinigten Staaten von Amerika. Wenn dort jemand hätte intervenieren müssen, dann die Europäer – die sich bekanntlich nicht einig sind. Unter anderem, weil London und Paris der Auffassung zu sein scheinen, daß ihnen ein schwaches Deutschland bekommt. So setzen diese auch auf die amerikanische Karte. Sie glauben, auch innerhalb der Europäischen Union vorwiegend nationale Interessen verfolgen zu können. Wenn wir, die Deutschen, europäische Interessen verfolgen wollen, müßten wir jedoch alles daran setzen, die Amerikaner aus diesem Konflikt herauszuhalten. In Wirklichkeit sind wir eher die weiche Eintrittsstelle für amerikanische Intervention und Penetration aller Art in Europa. Vor diesem Hintergrund kann man auch nur die Nato-Osterweiterung sehen. Deutschland ist hier der amerikanische Lieblingsvasall, der von der Intervention gar nichts hat.
Kehren nun die Konflikte wieder zurück, die zum Ausbruch des Ersten Weltkrieges geführt haben?
Maschke: Der Balkan war stets nur in Ruhe zu halten durch einen Hegemon, und dieser mußte die Füße auch irgendwie auf dem Boden haben. Dies war Rußland, Österreich-Ungarn oder das Deutsche Reich. Auch dieser Konflikt wurzelt jedoch im Prinzip im Diktat von Versailles. Wir können nach Irak schauen und wir können nach Jugoslawien schauen: Wir finden ständig die Folgen des Diktates von Versailles und des Ersten Weltkrieges – nicht die des Zweiten. Damals hat man eben auf einem Völkerrecht aufgebaut, das dem jetzigen gleicht. Dessen jetziger Bruch ist – seine Fortsetzung! Je weiter wir gehen, um so mehr entfernen wir uns vom richtigen Standpunkt.
Gibt es Parallelen zwischen dem Ausbruch des Ersten Weltkrieges und der jetzigen Mächtekonstellation?
Maschke: Es fehlt hier der Gegenpart und die internationale Konfrontation. Es könnte eine gewisse lokale Ausweitung geben, es enthält aber keinen Zündstoff für einen Weltkrieg.
Haben die USA mit dem Nato-Einsatz nicht auch das Ziel, Rußland endgültig aus Europa herauszudrängen?
Maschke: Sicher. Das paßt auch zur Nato- und EU-Osterweiterung. Wir haben uns jetzt selbst eingekreist und können nicht mehr die russische Karte spielen – Rußland wird wieder erstarken ...! Das ist wirklich keine große Meisterleistung.
Wäre eine deutsch-russische Initiative zur Befriedung des Kosovo und Disziplinierung der Serben nicht erfolgversprechend gewesen?
Maschke: Das wirkt etwas science-fiction-haft. Hier muß man die Potenz der Regierung in Deutschland und der deutschen Politiker bedenken.Wir reden zwar davon, wir müßten Verantwortung übernehmen und erwachsen werden. Dies bedeutet jedoch nur, daß wir von der bisherigen Abstinenz Abschied nehmen. Es läuft lediglich darauf hinaus, daß wir zu Mitläufern und Vasallen geworden sind. Dies haben wir schon im Golfkrieg gesehen. Erwachsen werden heißt nun Eingliederung in uns widerstrebende fremde Interessen. Das kann ja wohl nicht Sinn der Übung sein.
Welche Auswirkungen wird dieser erste wirkliche Krieg in Europa seit 1945 auf die Kräfteverhältnisse haben?
Maschke: Dies bedeutet zunächst die ständige Präsenz der Vereinigten Staaten in Europa. Sie werden den Einigungprozeß Europas vorantreiben – und Europa wird so eine riesige, durch Grenzen nicht mehr geteilte Penetrationssphäre der USA. Dies wird bedeuten, daß sich Rußland andere Partner suchen muß, sei es China oder Indien. Man kann Rußland natürlich durch Kreditpolitik kujonieren, aber das wird Grenzen haben.
Europa ist mit der Einführung des Euro kurz davor, wirtschaftlich zum bedrohlichsten Konkurrenten der USA zu werden. Soll es da politisch ausgeschaltet wird?
Maschke: Die EU ist kein Konkurrent für die USA, denn Amerika ist auf allen Ebenen, sei es militärisch, ökonomisch und vor allem massenkulturell, in Europa präsent. Die europäische Einigung hätte Sinn, wenn man die USA ausschlösse oder zurückdrängen würde. So ist es praktisch nur ein riesiges Lateinamerika de luxe für die USA. Es ist die alte Diskussion: Wollen wir eine europäische Einigung Europas oder eine amerikanische Einigung Europas?
Warum beteiligen sich Frankreich und Großbritannien an diesem Vorgehen der USA?
Maschke: Weil beide den deutschen Einfluß auf dem Balkan fürchten.
Sie schädigen sich doch aber selbst.
Maschke: Ja, weil jede Aktion, die Amerika nach Europa hineinbringt, im Prinzip alle Europäer und eine europäische Einigung Europas schädigt.
Der Angriff der Nato mußte die UNO brüskieren. Bedeutet dies jetzt auch das Ende dieser Organisation?
Maschke: Die UNO ist in den letzten Jahren zunehmend von den Vereinigten Staaten instrumentalisiert worden. Als das nicht mehr ging, hat man versucht, sie zu umgehen. Dies kann beliebig wiederholt werden. Die UNO hat heute gar keine Vermittlungsmacht mehr. Man kann sich heute fragen, ob man nicht zum Naturzustand zurückkehrt. Man kann sagen, daß das Ganze eine größere Simplizität und Ehrlichkeit in die internationalen Beziehungen bringt. Diese nähert sich sozialdarwinistischen Vorstellungen – was nicht beruhigend sein kann.
Das Recht des Stärkeren wird also im Prinzip als Recht der Weltpolizei USA verkauft?
Maschke: Wenn ich jetzt hingehe und argumentiere, es gebe etwas jenseits des Völkerrechts, dann habe ich natürlich Probleme, anderen den Bruch des Völkerrechtes vorzuwerfen. Wenn heute eine westliche Macht den Chinesen Vorhaltungen macht wegen Tibet, dann können die nur mit einem Fragezeichen antworten – nach Kosovo.
Gäbe es überhaupt eine andere Lösung für das Problem des Kosovo, Massenvertreibungen und Massaker zu verhindern?
Maschke: Wenn man interessiert ist an einer Ordnung auf dem Balkan, müßte man mit Bodentruppen eingreifen und eine Art Protektorat errichten. Wichtig ist, welche Folgen die jetzige Handlung hat. Das jetzige Handeln verschärft das Flüchtlingsproblem – und ich vermute, daß dies den USA aus den geschilderten Gründen sehr gut zupaß kommt, aber nicht uns. Die Luftschläge werden keine Lösung bringen, und es wird auch weiter Terror geben, selbst wenn die jugoslawische Armee im Kosovo auf Null gebracht ist. Man kann nicht immer so tun, als hätten alle Konflikte eine eindeutige Lösung. Der Konflikt Israels mit seiner Umgebung hat auch keine Lösung – solche Konflikte haben allenfalls eine Geschichte.
Es gab Ideen, die Albaner – ähnlich wie die Kroaten – massiv zu bewaffnen.
Maschke: Das bedeutet natürlich, daß trotz einer massiven Bewaffnung der Albaner das Verhältnis sehr ungleichgewichtig geblieben wäre. Das zweite wäre, man hätte sich aus dem Konflikt gleichsam verabschieden müssen. Das ist etwa bei dem Konflikt in Süd-Vietnam so gewesen. Dann wäre immer noch die Frage, ob sich die Albaner aus ihren Schwierigkeiten hätten befreien können. Sie hätten immer versucht, jemanden mit in diesen Konflikt hineinzuziehen.
Sie kennen Joschka Fischer als Frankfurter Sponti und haben sich oft mit ihm gestritten. Ist die Wandlung des Friedenskämpfers und Pazifisten zum Außenminister und Angriffskrieger konsequent?
Maschke: Ja. Das ist nicht inkonsequent, denn wenn die Feindschaft der Pazifisten zu den Nicht-Pazifisten groß genug ist, müssen sie – frei nach Carl Schmitt – auch zum Krieg schreiten. Das ist hier der Fall, nur nennen sie es anders. Wir kennen auch die Formeln bereits zur Genüge, sie sind bekannt seit Wilson – wir führen keinen Krieg gegen das deutsche Volk, wir führen keinen Krieg gegen das serbische Volk etc. Im Ernstfall spaltet sich der Pazifismus: der eine Teil sagt, Gewalt kann man nur mit Gewalt begegnen, die andern reagieren wie Ströbele – und sagen, wir wollen es generell nicht. Es gab nach dem Ersten Weltkrieg die Formel "Krieg gegen den Krieg". Jetzt heißt es Aktion gegen den Krieg oder friedenserzwingende Maßnahmen gegen den Krieg. Selbst der "Krieg gegen den Krieg" ist den Pazifisten jetzt zu kriegerisch – terminologisch! Das ist nicht überraschend. Aber in der Kriegsgeschichte des Jahrhunderts war immer festzustellen, daß sich die Pazifisten in solch einer Situation spalten – und die größere Fraktion wird "kriegerisch".
Glauben Sie, daß die Grünen an dieser Frage zerbrechen werden?
Maschke: Es kommt vor allem darauf an, wie lange das dauert. Welche Folgen das für Deutschland hat, wenn es bedeutende Verluste für Deutschland gibt. Wenn es nur kurz ist, wird man dies vergessen – und es werden sich nur sehr kleine Gruppen abspalten.
Ist es nicht seltsam, daß während des Golfkrieges Anfang der neunziger Jahre massenhaft Leute gegen die USA und den Krieg auf die Straße gegangen sind und jetzt kaum jemand zu sehen ist?
Maschke: Es ist sicherlich ganz wesentlich, wer an der Regierung ist. Obwohl man versucht hat, zum Beispiel Hussein zu satanisieren, scheint das nicht so erfolgreich gewesen zu sein wie bei den Serben.Gegen die Serben existiert ein parmanenter Groll, zumal sie erklärte Deutschlandfeinde sind. Der serbische Haß auf Deutschland ist unbezweifelbar, und es gibt einen antiserbischen Affekt in den Medien und einen Affekt für Kroatien. Hinzu kommt, daß ein Entsetzen entsteht, daß die Greuel durch die Serben mitten in Europa geschehen. Wenn das bei den Irakis geschieht, ist das nicht so verwunderlich. Der Europäer ist in seinem Selbstverständnis aufgeklärt und pazifiziert. Das gilt auch für die Serben. Die haben Telefone, Autos, sprechen Deutsch oder Englisch und scheinen zivilisiert, tragen Schlipse. Dann ist man ganz erstaunt, wenn die sich irgendwelche Körperteile abschneiden. Das paßt zu einem Gelben, Braunen, Schwarzen, aber nicht zu einem Europäer. Hier ist die Empörung dann plötzlich größer.
Inwieweit ist überhaupt die Bundesregierung Herr der Lage, wer gibt den Takt vor? Von wem und wie wird über den möglichen Bodenkrieg entschieden?
Maschke: Über den Bodenkrieg werden die entscheiden, die ihn auch durchsetzen wollen – auf parlamentarischem Wege. Da sehe ich Schwierigkeiten. Entscheiden wird es der Hegemon des Bündnisses – die USA. Und dieser kann das auch alleine machen. Doch werden wir das wahrscheinlich wieder mitmachen, weil wir unfähig sind, uns gegen die Vereinigten Staaten zu stellen. Die Grundregel scheint da ganz einfach: Wir tun das, was die USA für richtig halten.
Können sich die Deutschen überhaupt noch aus dem Einsatz zurückziehen? Es heißt ja, wer sich einmischt, übernimmt Verantwortung.
Maschke: Interessant ist ja die Erklärung von Johannes Rau. Er hatte den Einsatz gebilligt und gesagt, er hoffe, daß unsere Soldaten in Zukunft nicht öfters bei solchen und ähnlichen Aktionen mitmachen müssen.Wenn man sich die Konfliktlage in der Welt ansieht und die amerikanische Forderung nach Lastenteilung betrachet, kann man sich vorstellen, daß es eine Multiplizierung ähnlicher Konflikte gibt, bei denen wir des öfteren die Gefährten der USA sein werden. Insgesamt ist dies eine Salamitaktik. Wir machen erst auf dem Niveau mit, dann auf dem Niveau u.s.w. Das bedeutet am Schluß: "Germans to the front" – ohne daß wir wirklich Einfluß nehmen können. Wir haben auch keine eigene Taktik, dies mit einer allmählichen Einflußsteigerung zu verbinden. Wir sind Vasallen ohne Lohn. Das ist unsere Form der Fellachisierung bzw. Selbst-Fellachisierung.
"Die Friedensbewegung und die immer noch zu ängstlichen Politiker und Militärs stehen dem [der totalen Erlösung] immer noch im Wege, aber auch sie werden dem geheimen Wunsch aller, den alle leugnen, nicht mehr lange widerstehen können. Letzteres ist in etwa die Quintessenz des jungen Münsteraner Philosophen Ulrich Horstmann, dessen Essay in der moralparfümierten geistigen Landschaft der Bundesrepublik durch seine Radikalität und seine elegante Schnoddrigkeit auffällt. Der gelegentlich dekadent-pathetische Ton [...] mindert das bösartige Lesevergnügen ein wenig. Und ist es nötig, daß Horstmann, ganz braver Sohn der Alma Mater, all die Scharteken der Außenseiterphilosophen mitschleppt? Doch so leistet er immerhin eine Anthologie der Sehnsucht nach dem Ende. [...] Ist denn das Zuendeführen des Werkes in Horstmanns Sinn ohne solche Spekulationen denkbar? Die Ausrottung der Menschheit wird unter humanitären Parolen erfolgen oder sie wird nicht gelingen. Horstmann scheut leider den Gedanken, ob nicht die von ihm geforderte Ausbreitung des anthropofugalen Denkens - aufgrund der dann entstehenden Gleichgültigkeit - das größte aller Hindernisse für die anthropofugale Sehnsucht wäre. [...] Die Pointe ist [...], daß das anthropofugale Denken gerade keine Garantie dafür bietet, daß ‚unsere Spezies bis auf das letzte Exemplar' vertilgt wird. Wer will, daß die Qual aufhört, legt sich eher aufs Sofa, als daß er den Helmriemen festzieht. Horstmanns Programm wird nicht von seinesgleichen verwirklicht werden, sondern von den Täternaturen, die es immer noch gibt."
Günter Maschke: Daß wir besser nicht da wären. In: Frankfurter Allgemeine Zeitung, 16.8.1983
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mardi, 09 novembre 2010
La Serbia nell'UE: implicazioni geopolitiche
La Serbia nell’UE: implicazioni geopolitiche
Ex: http://www.eurasia-rivista.org/
Lo scorso 25 ottobre i ministri degli Esteri dell’Unione europea hanno scongelato la richiesta serba tesa ad integrare Belgrado nel sistema comunitario. La domanda di adesione era stata presentata dal governo Tadic lo scorso anno, quale primo passo di avvicinamento verso il percorso di piena integrazione. Sono dunque partite, a tutti gli effetti, le trattative diplomatiche fra la Commissione, i 27 membri e Belgrado. Due le questioni fondamentali sul tavolo: la prima, palese e dichiarata dall’Unione, è l’incondizionato appoggio serbo al Tribunale internazionale dell’Aja per la cattura e condanna dei generali nazionalisti Radko Mladic e Goran Hadzic. La seconda, posta sottobanco per via del veto spagnolo e greco, è il riconoscimento dell’indipendenza kosovara. Due questioni di enorme peso per un paese già umiliato e dilaniato come la Serbia.
Su entrambe il presidente Boris Tadic, leader della coalizione europeista, rischia di perdere il suo già lieve margine di consenso; infatti se da un lato, in parlamento, non può che tener conto della volontà del Partito Socialista Serbo, lo stesso che fu di Milosevic e che oggi è l’ago della bilancia della coalizione liberale, dall’altro, sul versante del riconoscimento dell’indipendenza kosovara, Tadic rischia una vera e propria sollevazione popolare e la definitiva sconfitta politica. Lo sa bene Tomislav Nikolic, leader del partito nazionalista, uscito perdente dalle presidenziali del 2008 per un pugno di voti, dopo un ballottaggio fra i più discussi nella recente vita ‘democratica’ del paese.
È in questo contesto che si devono inserire gli scontri dello scorso settembre, svoltisi a Belgrado in occasione del gay-pride e in Italia, a Genova, per la partita di qualificazione fra le due nazionali. In entrambi i casi, frange del nazionalismo serbo hanno apertamento manifestato la loro volontà di boicottare qualsiasi apertura ‘liberale’ ed europea fatta dal governo in carica.
Un governo che aveva vinto le elezioni presidenziali e parlamentari del 2008 sulla scia dell’invidia serba per gli storici “vicini”, Ungheria, Bulgaria e Romania, entrati da poco nell’Unione europea. Proprio il timore di subire un clamoroso ritardo economico rispetto all’area dell’Est Europa che si apriva agli aiuti di Bruxelles, aveva permesso a Tadic di raggiungere la Presidenza e imporre un governo di coalizione filo-europeista.
Ma le richieste di Bruxelles ora mettono Belgrado con le spalle al muro; per entrare davvero nel giro comunitario, Tadic deve spaccare il paese, isolare la metà serba che si riconosce nelle istanze conservatrici ed accettare ciò che per un serbo ortodosso risulta secolarmente inaccettabile: l’indipendenza unilaterale del Kosovo. Una scelta culturale, strategica e geopolitica assolutamente radicale, foriera di importanti conseguenze.
Fra Europa e Russia
La Serbia è da sempre una regione di faglia, è un confine fra Europa occidentale ed orientale, fra cristianesimo cattolico ed ortodosso, persino abituata al doppio uso dell’alfabeto cirillico e latino. E tuttavia, dalla dominazione ottomana giunta al termine della storica battaglia della Piana dei Merli (l’epica resistenza della cavalleria serba all’esercito islamico, nel 1389), la sua identità nazionale ha preso forma in termini eurasiatici, andando a rappresentare quel corpo di congiunzione fra mondo latino e mondo ortodosso, fra Europa e Russia, sacrificatosi a nord di Pristina per la libertà dal nemico esterno.
Per questo motivo la questione kosovara non può essere esclusivamente riferita ad uno scontro etnico e religioso, ad un mero retaggio nazionalista: la battaglia della Piana dei Merli, e dunque il Kosovo, è divenuta per i Serbi il simbolo di un’identità storica e perciò, fattualmente, geopolitica. Solo tenendo in considerazione questo elemento di continuità che rende la Serbia limes d’Europa, e non solo cerniera fra est ed ovest, è possibile analizzare le attuali problematiche internazionali legate a Belgrado.
Verso Bruxelles
Sono dunque facilmente comprensibili le relazioni che spingono le istituzioni serbe ad entrare nell’Europa che conta. Queste sono di tipo culturale, di legittimità identitaria, come detto; legate soprattutto alla comune battaglia civilistica che ha visto Vienna vincere laddove Belgrado aveva fallito.
Certo, sono anche storiche, essendo Belgrado legata a doppia mandata alle vicende imperiali austro-ungariche quale naturale area di interesse e controllo germanico; con tutti i sentimenti di rivincita e accettazione che questo elemento comporta.
Ma a tutto ciò si deve aggiungere il fattore fondamentale, quello economico. Come ribadito da molti analisti, l’Unione eruopea continua ad essere un fenomeno prettamente economico. Per nulla politico. Anzi, essa continua a rappresentare la vitalità produttiva tedesca (la vecchia area del Marco allargata), temperata dalle esigenze agricole e sceniche francesi.
È più che naturale che questo ultimo fattore, assommato ai precedenti, spinga la Serbia verso Bruxelles, senza grosse preoccupazioni per il fatto in sé, visto a Belgrado come un’ineluttabile contingenza macroregionale, priva di reali conseguenze geopolitiche ma ricca di opportunità di cassa. Lo testimonia anche l’atteggiamento politico di Nikolic, il leader nazionalista di opposizione, che verso Bruxelles non ha mai usato toni di netta ed irreversibile chiusura.
Verso Mosca
Ma la Serbia è anche la patria dei monasteri ortodossi. La resistenza serba alla dominazione ottomana fu resistenza ortodossa. L’identità serba, se riferita all’area interna dei Balcani è chiaramente slava. L’uso del cirillico, anche se accompagnato dall’alfabeto latino, ricorda quel tratto orientale che da Bisanzio giunge sino a Mosca. La stessa bandiera serba ripropone i medesimi colori della Federazione russa.
Come per altre regioni dell’Europa dell’est, dunque, anche la Serbia è legata culturalmente alla Russia. Ma ciò che più conta è legata ad essa politicamente e strategicamente. È la Russia che a livello internazionale sostiene le esigenze di Belgrado, ed è stata Mosca, nel 2008, in seno al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ad imporre modifiche restrittive alla missione Eulex, sostenuta da Stati uniti ed Unione europea con l’intento di favorire l’indipendenza del Kosovo. Ed è sempre la Russia che, nel progetto originale del gasdotto South Stream, garantirebbe alla Serbia un ruolo economico di vitale importanza.
Da questo punto di vista è del tutto evidente quanto Belgrado non possa fare a meno del sostegno della grande madre dell’ortodossia, oggi potenza macroregionale.
Scenari geopolitici
I paletti della Ue all’ingresso serbo rivelano ancora una volta tutta l’inconsistenza politica del Vecchio continente. Più che tappe di avvicinamento, sono per Belgrado delle ulteriori prove di espiazione. Sia l’appoggio al tribunale dell’Aja, sia l’indipendenza del Kosovo, più che riferibili alle esigenze di pacificazione europee, sono tappe poste in continuità con l’intervento nordamericano ed alleato degli anni ’90.
Essendo questi i fatti, è chiaro che il futuro della Serbia resti strettamente collegato ai giochi internazionali in atto. Mosca non avrà nulla da obiettare all’ingresso di un suo alleato ‘civile e culturale’, come già accaduto per le altre realtà dell’est, sino a quando l’Unione europea manterrà la sua scarsa concretezza politica.
Cioè, fino a quando Bruxelles non sarà altro che un’unione doganale e monetaria incapace di sviluppare una sua identità politica e strategica. Anzi, la Russia di Vladimir Putin ha già dimostrato di saper cercare il dialogo con quelle realtà continentali maggiormente aperte allo scenario multilaterale. Si veda la Germania, per motivi strettamente economici. E l’Italia, attraverso una relazione politico-strategica già più strutturata, incentrata sul progetto South Stream, che potrebbe rivelarsi importante nell’equilibrio balcanico.
Due sono però gli aspetti che preoccupano Mosca. Il primo è appunto lo stretto rapporto fra UE e Nato. Dal 2004 al 2009, lo sviluppo del processo di integrazione europea è coinciso con gli ingressi nell’alleanza atlantica di gran parte degli stati dell’ex patto di Varsavia. Se ciò dovesse verificarsi anche per la Serbia, l’accerchiamento occidentale alla potenza russa diverrebbe non solo strategico-militare, ma quasi simbolico. Per Mosca significherebbe l’addio alle pretese egemoniche sul mondo ortodosso e la recisione, ancora una volta, del legame con il mito della Terza Roma.
L’altro punto si chiama appunto Ankara, o meglio Istanbul. In un’ottica multipolare, la Turchia era divenuta un obiettivo di partnership meridionale molto concreto per Putin. È opportuno ricordare che lo stesso progetto South Stream, opposto a quello euroamericano Nabucco, dal 2009 prevede proprio nella Turchia uno snodo essenziale. Qualora l’Ue, la Nato e le Nazioni Unite dovessero mai integrare a sé la Serbia, uno dei simboli delle difficoltà di relazione fra mondo europeo e musulmano, il preludio ad un riallinamento turco, auspicato da tutti gli ambienti istituzionali europei, sarebbe piuttosto chiaro. Con grande disappunto di Mosca, circondata ad est e a sud.
Da questo punto di vista, la perdita di Belgrado e l’indipendenza del Kosovo, rappresenterebbero per la Russia un precedente significativo teso alla disintegrazione dell’identità europea ortodossa e al definitivo inserimento delle realtà musulmane dell’Asia minore e centrale (Cecenia su tutte) nel quadro geopolitico statunitense. Ancora una volta, Belgrado sarà il centro di interessi globali pronti a scontrarsi.
* Giacomo Petrella è dottore in Scienze internazionali e diplomatiche (Università degli Studi di Genova)
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jeudi, 04 novembre 2010
T. Sunic: "Serbes et Croates face à un danger biologique bien plus grave que leur récent conflit"
Tomislav SUNIC :
« Serbes et Croates face à un danger biologique bien plus grave que leur récent conflit »
RIVAROL : Tomislav Sunic, né en 1953 à Zagreb, vous avez de 1989 à 1993 professé dans différentes universités américaines où vous enseigniez la philosophie politique et la politique des pays communistes avant de rejoindre le ministère des Affaires Étrangères croate sous la présidence de Franjo Tudjman. Polyglotte, vous avez publié de nombreux articles textes (que l’on peut trouver sur les sites internet www.tomsunic.info; doctorsunic.netfirms.com) en croate, anglais, allemand et français, dans notre revue Ecrits de Paris notamment, et vous connaissez assez bien la scène politique française pour citer des auteurs bien connus de nos lecteurs tels Pierre Vial, Hervé Ryssen ou Robert Faurisson. Vous publiez aujourd’hui La Croatie : un pays par défaut ? (1), dont le seul titre doit être une provocation pour les nationalistes croates qui font volontiers remonter leur État au Xème siècle. Voulez-vous nous dire que ce que vous entendez par identité « par défaut » ou « par procuration » et nous dire aussi comment l’ouvrage a-t-il été reçu dans votre pays natal ?
T. Sunic : On a beau, une fois la première extase nationale terminée, faire l’éloge du décisionnisme en politique, il n’en reste pas moins que toute décision politique, a priori valable, sera fatalement modifiée par des circonstances ultérieures. Et peut-être n’aboutit-on pas au pays des merveilles mais à la désillusion ou même à la catastrophe nationale. La Croatie actuelle est un pays par défaut dans la mesure où avant 1990, très peu de Croates croyaient en la possibilité d’un Etat indépendant. D’ailleurs, du point de vue du droit international, l’indépendance n’était nullement envisageable, et ne paraissait pas possible. D’ailleurs, l’Occident fut pendant 45 ans opposé à toute forme de sécessionnisme croate et il rechignait à toute idée de dissolution de la Yougoslavie – pour des raisons géopolitiques qui remontent à Versailles et Potsdam. Même le père fondateur de la nouvelle Croatie, l’ex-président, ex-communiste, ex-titiste, ex-historien révisionniste devenu anticommuniste, Franjo Tudjman n’envisageait pas en1990 la création d’un pays indépendant. Ce furent la Serbie et l’armée yougoslave qui propulsèrent la Croatie sur la mappemonde. Compte tenu de l’éparpillement des Serbes dans les Balkans, de leur peur légitime face à la confédéralisation de la Yougoslavie et à la poussée démographique des Albanais du Kosovo, le nationalisme jacobin des Serbes n’a pas tardé à déclencher une envolée du nationalisme croate – ce qui a entraîné, par suite et par défaut, la naissance de la nouvelle Croatie. À ce sujet, il faut renvoyer vos lecteurs à l’important petit livre du philosophe Alain de Benoist, Nous et les Autres, où il dissèque la nature suicidaire des petits nationalismes européens. Quoique considérée comme une blague, il est une triste vérité qui circule encore à Zagreb : « On devrait ériger un monument à Milosevic parce qu’il a aidé à fonder la nouvelle Croatie. » Peut-on être un « bon » nationaliste croate sans être antiserbe ? Malheureusement, à l’heure actuelle, je crois que non.
R. : Point donnant justement matière à polémique : votre relative compréhension pour les « méchants Serbes » dont vous soulignez la parenté morphologique et linguistique (que récusent beaucoup de vos compatriotes) avec les Croates. Estimez-vous également ces “monstres”, les guillemets sont de vous, victimes des terribles turbulences de la Yougoslavie post-titiste, pire bain de sang qu’ait connu l’Europe depuis la Seconde Guerre mondiale ?
T.S. : Contrairement a ce qu’on nous dit, plus les peuples se ressemblent plus ils se jalousent et détestent. Quoique grand adepte de la sociobiologie, je pense qu’il y a encore du travail à faire en matière d’étiologie des guerres civiles. Nous avons assisté à une boucherie intra-blanche lors de la guerre civile européenne de 1914 à 1945. Certes le monothéisme judéo-chrétien, avec ses retombées séculaires, a été le moteur principal du carnage entre les peuples blancs. Mais en dehors de nos incompatibles mythes nationaux, il nous reste à déchiffrer pourquoi les guerres intra-européennes sont si meurtrières. Chez les Croates et les Serbes, la dispute à propos de leur différence frise le grotesque. Dans l’optique de ces deux peuples, chacun apparaît comme le travesti de l’Un par rapport à l’Autre. Les Serbes et les Croates n’ont certes pas besoin d’interprète pour se comprendre. De surcroît, on aurait du mal à distinguer un phénotype croate qui serait différent de celui des Serbes. Certes, il y a des Croates de grande culture qui vont vous faire des exégèses sur les haplo-types croates ou bien vous parler savamment de la différence entre les vocables croates et serbes. N’empêche que les Serbes et les Croates sont deux vieux peuples européens qui vont bientôt faire face à un danger biologique autrement plus grave que leur récent conflit.
Tito, Bien plus criminel que Mladic et Karadjic
R. : Dans votre livre, vous insistez sur l’ethnocentrisme des différentes composantes ex-yougoslaves qui se sont obnubilées sur les épreuves subies en occultant par exemple le martyre concomitant des « Volksdeutsche » du Banat ou de Voïvodine et vous insistez sur une double responsabilité : celle des communistes et celle des « dictatures thalassocratiques », monde anglo-saxon et Israël, qui ont également falsifié l’histoire pour leur profit personnel. Pouvez-vous préciser ?
T.S. Votre question renvoie à la farce judicaire actuelle du Tribunal Pénal International de La Haye, où les prétendus criminels de guerre serbes et croates sont jugés. Or les récents crimes de guerre ont des antécédents bien plus graves. Les accusés serbes Ratko Mladic et Radovan Karadzic ne sont que de petits disciples du grand criminel communiste Josip Broz Tito dont les crimes en 1945 ne furent jamais ni jugés ni condamnés. On ignore en France qu’un demi-million d’Allemands de souche subirent, de 1945 à 1950, une gigantesque épuration ethnique en Yougoslavie titiste. Karadzic, Mladic et j’en passe, ont tout bonnement appliqué les principes qui furent en vigueur chez les titistes et leurs Alliés occidentaux.
Une démonisation organisée
Je trouve particulièrement grossier que les agences de voyage croates et françaises, ou bien la télévision française, montrent de la Croatie de belles images sous-titrées « un petit pays pour de grandes vacances ». En réalité et bien que la Croatie soit certes un beau coin d’Europe, c’est un pays ou chaque pierre respire la mort ; la Croatie est le plus grand cimetière de toute l’Europe. Le massacre de plusieurs centaines de milliers de soldats et de civils croates – ce que l’on appelle « Bleiburg », [NDLR. Voir l’article de Christopher Dolbeau dans la livraison de mai 2010 d’Ecrits de Paris] d’après le nom d’un petit village d’Autriche du sud – a profondément traumatisé le peuple croate. Pire, le fonds génétique croate a été totalement épuisé – au point qu’on ne peut pas comprendre les événements de 1991 à nos jours, sans se pencher au préalable sur la toponymie des champs de la mort communistes. D’ailleurs, l’ancien chéri occidental, le très libéral Eduard Benes, n’a-t-il pas indiqué le bon chemin aux futurs épurateurs balkaniques en expulsant 3,2 millions d’Allemands des Sudètes en1945, en vertu de décrets qui sont toujours en vigueur en Tchéquie ? Ceux qui portent la responsabilité de la récente guerre des Balkans ne sont ni le peuple serbe ni le peuple croate mais leurs communistes respectifs, secondés par les milieux libéraux occidentaux et par une certaine Gauche divine. Tour à tour, ceux-là ont tous démonisé les Serbes et les Croates - tout en occultant leur propre passé génocidaire durant et après la Deuxième Guerre mondiale.
La cause immédiate de la guerre meurtrière entre les Serbes et les Croates est à chercher dans les livres et les propos de feu Tudjman juste avant l’éclatement de la Yougoslavie. Il avait, en effet, osé toucher aux récits communistes et à la victimologie serbe en faisant chuter le chiffre magique et officiel de Serbes tués pendant la Deuxième Guerre mondiale par les Oustachis croates de 600.000 à 60.000, voire 6.000 ! Ces propos révisionnistes ont par suite causé une panique chez les paysans serbes de Croatie avec les conséquences que l’on connait.
Le multiracialisme, facteur de haine interraciale
R. : Vous insistez également sur l’homogénéité raciale, exceptionnelle en Europe et à laquelle vous êtes très attaché, des anciens pays de l’Est et notamment de la Croatie. Pensez-vous que cette homogénéité soit menacée par la volonté d’adhésion de votre pays à tous les rouages de la « communauté internationale », dans la mesure où l’identité historique de la Croatie est fragile ?
T.S. Aujourd’hui, le terme de race est mal vu en Occident – sauf quand on parle d’émeutes raciales bien réelles, comme celles qui ont récemment eu lieu à Grenoble ou à Los Angeles. Certes j’utilise le terme race dans un sens évolien, en me référant à « la race d’esprit », tout en sachant parfaitement bien à quelle race appartenaient les femmes sculptées par Phidias ou celles que peignait Courbet. Grace à la poigne communiste, la Croatie, comme d’ailleurs tous les pays d’Europe de l’Est, est aujourd’hui plus européenne que la France ou l’Allemagne. Le multiracialisme, qui se cache derrière l’hypocrite euphémisme du « multiculturalisme », mène à la guerre civile et à la haine interraciale. Les Serbes et les Croates, toujours immergés dans leurs victimologies conflictuelles, ignorent toujours que l’Europe occidentale a franchi depuis belle lurette le cap du Camp de Saints et que nous, les Européens, nous sommes tous menacés par une mort raciale et culturelle.
L’UE, calque hyperréelle de l’URSS
R. : Pour l’ancien dissident soviétique Boukovski, l’Union Européenne est de nature aussi totalitaire que l’était la défunte URSS et aussi funeste par son acharnement à ligoter les peuples dans le même carcan administratif, économique et surtout idéologique afin de leur ôter toute spécificité et d’en faire un troupeau soumis. Partagez-vous cette analyse ?
T.S. L’Union Européenne, c’est le calque hyperréel de l’ancien réel soviétique – si je peux emprunter quelques mots à Jean Baudrillard. Tous ces jeux de mots exotiques tels que « multiculturalisme », « communautarisme », « diversité », qui ont abouti à une sanglante débâcle en ex-Yougoslavie sont à nouveau à la mode à Bruxelles. Charles Quint ou le Savoyard Prince Eugène avaient de l’Europe unie une vision plus réelle que tous les bureaucrates incultes de Bruxelles. En observant de près la laideur des visages de cette caste infra-européenne, ses tics langagiers, sa langue de bois exprimée en mauvais français ou en « broken English », je pense à l’ancien homo sovieticus et à son Double postmoderne.
R. : Est-ce pour cela que vous êtes si sévère pour l’Establishment politique croate actuel que vous décrivez comme un ramassis d’ex-apparatchiks communistes opportunistes et corrompus ?
T.S. Bien entendu. Ce sont, sans aucune exception, d’anciens apparatchiks yougo-communistes et leur progéniture qui se sont recyclés en en clin d’œil en braves apôtres de l’occidentalisme et du capitalisme. À l’époque titiste, ils faisaient le pèlerinage obligatoire de Belgrade en passant par Moscou et La Havane. Aujourd’hui, à l’instar des anciens soixante-huitards français, ils se rendent pieusement à Washington, à Bruxelles - et bien entendu à Tel Aviv, ne serait-ce que pour obtenir un certificat de « politiquement correct ».
R. : Pendant le match pour la troisième place de la Coupe du monde 1998, j’avais été surprise d’entendre des consommateurs serbes injurier les Croates (qui avaient finalement gagné), parce qu’ils… ne marquaient pas assez de buts contre les Pays-Bas ! Et en juillet dernier, la correspondante de Libération à Belgrade évoquait le resserrement des liens culturels et surtout économiques entre la Serbie, la Croatie et la Slovénie. Ce resserrement est-il avéré ? Et, si oui, traduit-il un certain désenchantement envers l’Oncle Sam et la Grande Sœur Europe dont les pays de l’Est attendaient tant ?
T.S. Au vu du recrutement des footballeurs français dans le djebel maghrébin ou dans le Sahel sénégalais, il ne faut pas s’étonner que les sportifs serbes et croates représentent mieux une vraie européanité. Qu’on le veuille ou non, force est de constater que c’est le sport aujourd’hui qui reste le seul domaine où on peut librement exprimer son identité raciale et sa conscience nationale. Quant à l’américanolâtrie et l’américanosphère, qui véhiculent un certain complexe d’infériorité chez tous les Européens de l’Est y compris les Croates – ce mimétisme va rester fort tant que la France et l’Allemagne ne se réveilleront pas pour constituer un bloc commun et faire bouger l’Europe.
R. : Quel avenir espérez-vous raisonnablement pour la Croatie et ses voisines ?
T.S. Le même que pour la France, la Serbie, l’Allemagne et n’importe quel autre peuple européen : rejet total du capitalisme, rejet total du multiculturalisme, et prise de conscience de nos racines culturelles et biologiques européennes !
(1) La Croatie : un pays par défaut ? 256 pages avec préface de Jure Vujic, 26,00€. Collection Heartland, éd. Avatar, BP 43, F-91151 Étampes cedex ou < www.avataredtions.com >.
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vendredi, 29 octobre 2010
Serbia Surrenders Kosovo to the EU
Ex: http://www.slobodanjovanocvic.org/
Probably, the Tadic government had expected something better, and had planned to follow up a favorable ICJ opinion with an appeal to the General Assembly to endorse renewed negotiations over the status of Kosovo, perhaps enabling Serbia to recover at least the northern part of Kosovo whose population is solidly Serb.
(September 20, Paris, Sri Lanka Guardian) On September 10, at the UN General Assembly, Serbia abruptly surrendered its claim to the breakaway province of Kosovo to the European Union. Serbian leaders described this surrender as a “compromise”. But for Serbia, it was all give and no take.
In its dealings with the Western powers, recent Serbian diplomacy has displayed all the perspicacity of a rabbit cornered by a rattlesnake. After some helpless spasms of movement, the poor creature lets itself be eaten.
The surrender has been implicit all along in President Boris Tadic’s two proclaimed foreign policy goals: deny Kosovo’s independence and join the European Union. These two were always mutually incompatible. Recognition of Kosovo’s independence is clearly one of the many conditions – and the most crucial – set by the Euroclub for Serbia to be considered for membership. Sacrificing Kosovo for “Europe” has always been the obvious outcome of this contradictory policy.
However, his government, and notably his foreign minister Vuk Jeremic, have tried to conceal this reality from the Serbian public by gestures meant to make it seem that they were doing everything possible to retain Kosovo.
Thus in October 2008, six months after U.S.-backed Kosovo leaders unilaterally declared that the province was an independent State, Serbia persuaded the UN General Assembly to submit the following question to the International Court of Justice for an (unbinding) advisory opinion: “Is the unilateral declaration of independence by the Provisional Institutions of Self-Government of Kosovo in accordance with international law?’”
The surrender has been implicit all along in President Boris Tadic’s two proclaimed foreign policy goals: deny Kosovo’s independence and join the European Union.
This was risky at best, because Serbia had more to lose by an unfavorable opinion than it had to gain by a favorable one. After all, most of the UN member states were already refusing to recognize Kosovo’s independence, for perfectly solid reasons of legality and self-interest. At best, a favorable ICJ opinion would merely confirm this, but would not in itself lead to any positive action. Serbia could only hope to use such a favorable opinion to ask to open genuine negotiations on the status of the province, but the Kosovo Albanian separatists and their United States backers could not be forced to do so.
One must stop here to point out that there are two major issues involved in all this: one is the status and future of Kosovo, and the other is the larger issue of national sovereignty and self-determination within the context of international law. If so many UN member states supported Serbia, it was certainly not because of Kosovo itself but because of the larger implications. Nobody objected to the splitting of Czechoslovakia, because the Czechs and the Slovaks negotiated the terms of separation. The issue is the method. There are literally hundreds, perhaps thousands, of potential ethnic secessionist movements within existing countries around the world. Kosovo sets an ominous precedent. An armed separatist movement, with heavy support from the United States, where an ethnic Albanian lobby had secured important political backing, notably from former Senator and Republican Presidential candidate Bob Dole, carried out a campaign of assassinations in 1998 in order to trigger a repression which it could then describe as “ethnic cleansing” and “genocide” as a pretext for NATO intervention.
This worked, because US leaders saw “saving the Kosovars” as the easy way to save NATO from obsolescence by transforming it into a “humanitarian” global intervention force.
Bombing Serbia for two and a half months to “stop genocide” was a spectacle for public opinion.
The only people killed were Yugoslav citizens out of sight on the ground.
It was the lovely little war designed to rehabilitate military aggression as the proper way to settle conflicts.
This worked, because US leaders saw “saving the Kosovars” as the easy way to save NATO from obsolescence by transforming it into a “humanitarian” global intervention force. Bombing Serbia for two and a half months to “stop genocide” was a spectacle for public opinion. The only people killed were Yugoslav citizens out of sight on the ground. It was the lovely little war designed to rehabilitate military aggression as the proper way to settle conflicts.
The reality of this cynical manipulation has been assiduously hidden from Americans and most Europeans, but elsewhere, and in certain European countries such as Spain, Greece, Cyprus and Slovakia, the point has not been missed. Separatist movements are dangerous, and whenever the United States wants to subvert an unfriendly government, it has only to incite mass media to portray the internal problems of the targeted government as potential “genocide” and all hell may break loose.
So Serbia did not really have to work very hard to convince other countries to support its position on Kosovo. They had their own motivations – which were perhaps stronger than those of the Serbian government itself.
What did Serb leaders want?
The question put to the ICJ did not spell out what Serb leaders wanted. But it had implications. If the Kosovo declaration of independence was illegal, what was challenged was not so much independence itself as the procedure, the unilateral declaration. And indeed, there is no reason to suppose that Serb leaders thought they could reintegrate the whole of Kosovo into Serbia. It is even unlikely that they wanted to do so.
What did Serb leaders want?
The question put to the ICJ did not spell out what Serb leaders wanted. But it had implications. If the Kosovo declaration of independence was illegal, what was challenged was not so much independence itself as the procedure, the unilateral declaration. And indeed, there is no reason to suppose that Serb leaders thought they could reintegrate the whole of Kosovo into Serbia. It is even unlikely that they wanted to do so.
There are very mixed feelings about Kosovo within the Serb population. It is hard to know how widespread is the sense of concern, or guilt, regarding the beleaguered Serb population still living there, vulnerable to attacks from racist Albanians eager to drive them out. The sentimental attachment to “the cradle of the Serb nation” is very strong, but few Serbs would choose to go live there, even if the province were returned to them. In former Yugoslavia, the province was a black hole that absorbed huge sums of development aid, and would certainly be a heavy economic burden to impoverished Serbia today. Economically, Serbia is probably better off without Kosovo. Nearly twenty years ago, the leading Serb author and patriot Dobrica Cosic was arguing in favor of dividing Kosovo along ethnic and historic lines with Albania. Otherwise, he foresaw that the attempt to live with a hostile Albanian population would destroy Serbia itself.
Few would admit this, but the proposals of Cosic, echoed by some others, at least suggest that in a world with benevolent mediators, a compromise might have been worked out acceptable to most of the people directly involved. But what made such a compromise impossible was precisely the US and NATO intervention on behalf of armed Albanian rebels. Once the Albanian nationalists knew they had such support, they had no reason to agree to any compromise. And for the Serbs, the brutal method by which Kosovo was stolen by NATO was adding insult to injury – a humiliation that could not be accepted.
By taking the question to the UN General Assembly and the ICJ, Serbia sought endorsement of a reopening of negotiations that could lead to the sort of compromise that might have settled the issue had it been taken up in a world with benevolent mediators.
International Court of No Justice
On July 22, the ICJ issued its advisory opinion, concluding that Kosovo’s “declaration of independence was not illegal”. In some 21,600 words it evaded the main issues, refusing to state that the declaration meant that Kosovo was in fact properly independent. The gist was simply that, well, anybody can declare anything, can’t they?
On July 22, the ICJ issued its advisory opinion, concluding that Kosovo’s “declaration of independence was not illegal”. In some 21,600 words it evaded the main issues, refusing to state that the declaration meant that Kosovo was in fact properly independent. The gist was simply that, well, anybody can declare anything, can’t they?
Of course, this was widely interpreted by Western governments and media, and most of all by the Kosovo Albanians, as endorsement of Kosovo’s independence, which it was not.
Nevertheless, it was a shameful cop-out on the part of the ICJ, which marked further deterioration of the post-World War II efforts to establish some sort of international legal order. Perhaps the most flagrant bit of sophistry in the lengthy opinion was the argument (in paragraphs 80 and 81) that the declaration was not a violation of the “territorial integrity” of Serbia, because “the illegality attached to [certain past] declarations of independence … stemmed not from the unilateral character of these declarations as such, but from the fact that they were, or would have been, connected with the unlawful use of force or other egregious violations of norms of general international law…”
In short, the ICJ pretended to believe that there has been no illegal international military force used to detach Kosovo from Serbia, although this is precisely what happened as a result of the totally illegal NATO bombing campaign against Serbia. Since then, the province has been occupied by foreign military forces, under NATO command, which both violated the international agreement under which they entered Kosovo and looked the other way as Albanian fanatics terrorized and drove out Serbs and Roma, occasionally murdering rival Albanians.
The ICJ judges who endorsed this scandalous opinion came from Japan, Jordan, the United States, Germany, France, New Zealand, Mexico, Brazil, Somalia and the United Kingdom. The dissenters came from Slovakia, Sierra Leone, Morocco and Russia. The lineup shows that the cards were stacked against Serbia from the start, unless one actually believes that the judges leave behind their national mind-set when they join the international court.
Digging Itself Deeper Into a Hole
Probably, the Tadic government had expected something better, and had planned to follow up a favorable ICJ opinion with an appeal to the General Assembly to endorse renewed negotiations over the status of Kosovo, perhaps enabling Serbia to recover at least the northern part of Kosovo whose population is solidly Serb.
Oddly, despite the bad omen of the ICJ opinion, the Tadic government went right ahead with plans to introduce a resolution before the UN General Assembly. The draft resolution asked the General Assembly to state the following:
Aware that an agreement has not been reached between the sides on the consequences of the unilaterally proclaimed independence of Kosovo from Serbia,
Taking into account the fact that one-sided secession cannot be an accepted way for resolving territorial issues,
1. Acknowledges the Advisory opinion of the ICJ passed on 22 July 2010 on whether the unilaterally proclaimed independence of Kosovo is in line with international law,
2. Calls on the sides to find a mutually acceptable solution for all disputed issues through peaceful dialogue, with the aim of achieving peace, security and cooperation in the region.
3. Decides to include in the interim agenda of the 66th session an item namely: “Further activities following the passing of the advisory opinion of the ICJ on whether the unilaterally proclaimed independence of Kosovo is in line with international law.”
The resolution dictated by the EU made no mention of Kosovo other than to “take note” of the ICJ advisory opinion, and concluded by welcoming “the readiness of the EU to facilitate the process of dialogue between the parties.”
According to this text of the resolution, which UN General Assembly adopted by consensus; “The process of dialogue by itself would be a factor of peace, security and stability in the region. This dialogue would be aimed to promote cooperation, make progress on the path towards the EU and improve people’s lives.”
By accepting this text, the Serbian government abandoned all effort to gain international support from the many nations hostile to unilateral secession, and threw itself on the mercy of the European Union.
The key statement here was “the fact that one-sided secession cannot be an accepted way for resolving territorial issues”. This was the point on which the greatest agreement could be attained. The United States made it known that it was totally unacceptable for the General Assembly to hold a debate on such a resolution. The main Belgrade daily Politika published an interview with Ted Carpenter of the Cato Institute in Washington saying that the Serbian draft resolution on Kosovo was “irritating America and the EU’s leading countries”. American diplomats were “working overtime” to thwart the resolution, he said. Carpenter said that the Serbian resolution was seen in Washington as an unfriendly act that would lead to a further deterioration in relations, and that as a result of its Kosovo policy, Serbia’s EU ambition could suffer setbacks that would have negative consequences for the Serbian government “and the Serb people”.
Carpenter conceded that this time around, the country would not be threatened militarily, but noted that the United States was influential enough to “make life very difficult” for any country that stood up against its policies. He concluded that Serbia would “have to accept the reality of an independent Kosovo”, and that Washington would thereupon leave it to Brussels to deal with the remaining problems.
The American stick was accompanied by a dangling EU carrot. Carpenter expressed his hope that the EU would consider various measures, “including adjustment of borders, regarding Kosovo, and the rest of Serbia”, but also, he noted, Bosnia-Herzegovina, suggesting that Serbs could be satisfied if a loss of Kosovo were compensated by a unification with Bosnia’s Serb entity, the Republika Srpska. Giving his own opinion, Carpenter said such a solution would at least be much better than the current U.S. and EU policy, “which seems to be that everyone in the region of the former Yugoslavia, except Serbs, has a right to secede”.
Carpenter, who was a sharp critic of the 1999 NATO bombing of Serbia, and who warned that secessionist movements around the world could use the Kosovo precedent for their own purposes, said that such a solution was possible “in the coming decades”… a fairly distant prospect.
The decisive arm twisting was perhaps administered by German foreign minister Guido Westerwelle on a visit to Belgrade. Whatever threats or promises he made were not disclosed, but on the eve of the scheduled UN General Assembly debate, the Tadic government caved in entirely and allowed the EU to rewrite the resolution.
The resolution dictated by the EU made no mention of Kosovo other than to “take note” of the ICJ advisory opinion, and concluded by welcoming “the readiness of the EU to facilitate the process of dialogue between the parties.”
According to this text of the resolution, which UN General Assembly adopted by consensus; “The process of dialogue by itself would be a factor of peace, security and stability in the region. This dialogue would be aimed to promote cooperation, make progress on the path towards the EU and improve people’s lives.”
By accepting this text, the Serbian government abandoned all effort to gain international support from the many nations hostile to unilateral secession, and threw itself on the mercy of the European Union.
Still More to Lose
In a TV interview, I was asked by Russia Today, “What does Serbia stand to gain?” My immediate answer was, “nothing”. Serbia implicitly abandoned its claim to Kosovo in return for nothing but vague suggestions of “dialogue”.
In a TV interview, I was asked by Russia Today, “What does Serbia stand to gain?” My immediate answer was, “nothing”. Serbia implicitly abandoned its claim to Kosovo in return for nothing but vague suggestions of “dialogue”.
A usual aim of all policy is to keep options open, but Serbia has now put all its eggs in the EU basket, in effect rebuffing all the member states of the UN General Assembly which were ready to support Belgrade as a matter of principle on the issue of unnegotiated unilateral secession.
Rather than gain anything, the Tadic government has apparently chosen to try to avoid losing still more than it has lost already. After the violent breakup of Yugoslavia along ethnic lines, Serbia remains the most multiethnic state in the region, which means that it includes minorities which can be incited to demand further secessions. There is a secession movement in the ethnically very mixed northern province of Voivodina, which could be more or less covertly encouraged by neighboring Hungary, an increasingly nationalist EU member attentive to the Hungarian minority in Voivodina. There is another, more rabid separatist movement in the southwestern region of Raska/Sanjak led by Muslims with links to Bosnian Islamists. Surrounded by NATO members and wide open to NATO agents, Serbia risks being destabilized by the rise of such secession movements, which Western media, firmly attached to the stereotypes established in the 1990s, could easily present as persecuted victims of potential Serb genocide.
Moreover, no matter how the Serbs vote, the US and UK embassies dictate the policies. This has been demonstrated several times. Little Serbia is actually in a position very like the Pétain government in 1940 to 1942, when it governed a part of France not yet occupied but totally surrounded by the conquering Nazis.
Moreover, no matter how the Serbs vote, the US and UK embassies dictate the policies. This has been demonstrated several times. Little Serbia is actually in a position very like the Pétain government in 1940 to 1942, when it governed a part of France not yet occupied but totally surrounded by the conquering Nazis.
It would take political genius to steer little Serbia through this geopolitical swamp, infested with snakes and crocodiles, and political genius is rare these days, in Serbia as elsewhere.
EU to the rescue?
Under these grim circumstances, the Tadic government has in effect abandoned all attempt at independence and entrusted the future of Serbia to the European Union.
Under these grim circumstances, the Tadic government has in effect abandoned all attempt at independence and entrusted the future of Serbia to the European Union. Serb patriots quite naturally decry this as a sell-out. Indeed it is, but Russia and China are far away, and could not be counted on to do anything for Serbia that would seriously annoy Washington. The fact is that much of the younger generation of Serbs is alienated from the past and dreams only of being in the EU, which means being treated as “normal”.
How will the EU reward these expectations?
Up to now, the EU has responded to each new Serb concession by asking for more and giving very little in return. At a time when many in the core EU countries feel that accepting Rumania and Bulgaria has brought more trouble than it was worth, enlargement to include Serbia, with its unfairly bad reputation, looks remote indeed.
In reality, the most Belgrade can hope for from the EU is that it will muster the courage to take its own policy line on the Balkans, separate from that of the United States.
Given the subservience of current EU leaders to Washington, this is a long shot. But it has a certain basis in reality.
United States policy toward the region has been heavily influenced by ethnic lobbies that have pledged allegiance to Washington in return for unconditional support of their nationalist aims. This is particularly the case of the rag-tag Albanian lobby in the United States, an odd mixture of dull-witted politicians and gun-running pizza parlor owners who flattered the Clinton administration into promising them their own statelet carved out of historic Serbia. The result has been “independent” Kosovo, in reality occupied by a major US military base, Camp Bondsteel, NATO-commanded pacifiers and an EU mission theoretically trying to introduce a modicum of legal order into what amounts to a failing state run by clans and living off various criminal activities. Since Camp Bondsteel is untouchable, and the grateful hoodlums have erected a giant statue to their hero, Bill Clinton, in their capital, Pristina, Washington is content with this situation.
But many in Europe are not. It is Europe, not the United States, that has to deal with violent Kosovo gangsters peddling dope and women in its cities. It is Europe, not the United States, that has this mess on its doorstep.
The media continue to peddle the 1999 fairy tale in which heroic NATO rescued the defenseless “Kosovars” from a hypothetical “genocide” (which never took place and never would have taken place), but European governments are in a position to know better.
As evidence of this is a letter written to German Chancellor Angela Merkel on October 26, 2007 by Dietmar Hartwig, who had been head of the EU (then EC) mission in Kosovo just prior to the NATO bombing in March 1999, when the mission was withdrawn. In describing the situation in Kosovo at a time when the NATO aggression was being prepared on the pretext of “saving the Kosovars”, Hartwig wrote:
“Not a single report submitted in the period from late November 1998 up to the evacuation on the eve of the war mentioned that Serbs had committed any major or systematic crimes against Albanians, nor there was a single case referring to genocide or genocide-like incidents or crimes. Quite the opposite, in my reports I have repeatedly informed that, considering the increasingly more frequent KLA attacks against the Serbian executive, their law enforcement demonstrated remarkable restraint and discipline. The clear and often cited goal of the Serbian administration was to observe the Milosevic-Holbrooke Agreement to the letter so not to provide any excuse to the international community to intervene. … There were huge ‘discrepancies in perception’ between what the missions in Kosovo have been reporting to their respective governments and capitals, and what the latter thereafter released to the media and the public. This discrepancy can only be viewed as input to long-term preparation for war against Yugoslavia. Until the time I left Kosovo, there never happened what the media and, with no less intensity the politicians, were relentlessly claiming. Accordingly, until 20 March 1999 there was no reason for military intervention, which renders illegitimate measures undertaken thereafter by the international community. The collective behavior of EU Member States prior to, and after the war broke out, gives rise to serious concerns, because the truth was killed, and the EU lost reliability.”
EU governments lied then, for the sake of NATO solidarity, and have been lying ever since.
Other official European observers said the same at the time, and in 2000, retired German general Heinz Loquai wrote a whole book, based especially on OSCE documents, showing that accusations against Serbia were false propaganda. While the public was fooled, government leaders have access to the truth.
In short, EU governments lied then, for the sake of NATO solidarity, and have been lying ever since.
Now as then, there are insiders who complain that the situation in reality is very different from the official version. Voices are raised pointing out that Republika Srpska is the only part of Bosnia that is succeeding, while the Muslim leadership in Sarajevo continues to count on largesse due to its proclaimed victim status. There seems to be a growing feeling in some leadership circles that in demonizing the Serbs, the EU has bet on the wrong horse. But that does not mean they will have the courage to confront the United States. In Kosovo itself, the most radical Albanian nationalists are ready to oppose the EU presence, by arms if necessary, while feeling confident of eternal support from their U.S. sponsors.
The Betrayal of Serbia
Pro-Western politicians in Belgrade labored under the illusion that throwing Milosevic to the ICTY wolves would be enough to ensure the good graces of the “International Community”. But in reality, the prosecution of Milosevic was used to publicize the trumped up “joint criminal enterprise” theory which blamed every aspect of the breakup of Yugoslavia on an imaginary Serbian conspiracy.
If the latest self-defeat at the UN General Assembly can be denounced as a betrayal, the betrayal began nearly ten years ago. On October 5, 2000, the regular presidential election process in Yugoslavia was boisterously interrupted by what the West described as a “democratic revolution” against the “dictator”, president Slobodan Milosevic. In reality, the “dictator” was about to enter the run-off round of the Yugoslav presidential election in which he seemed likely to lose to the main opposition candidate, Vojislav Kostunica. But the United States trained and incited the athletically inclined youth organization, Otpor (“resistance”), to take to the streets and set fire to the parliament in front of international television, to give the impression of a popular uprising. Probably, the scenarists modeled this show on the equally stage-managed overthrow of the Ceaucescu couple in Rumania at Christmas 1989, which ended in their murder following one of the shortest kangaroo court trials in history. For the generally ignorant world at large, being overthrown would be proof that Milosevic was really a “dictator” like Ceaucescu, whereas being defeated in an election would have tended to prove the opposite.
Proclaimed president, Kostunica intervened to save Milosevic, but not having been allowed to actually win the election, his position was undermined from the start, and all power was given to the Serbian prime minister, Zoran Djindjic, a favorite of the West who was too unpopular to have won an election in Serbia. Shortly thereafter, Djindjic violated the Serbian constitution by turning Milosevic over to the International Criminal Tribunal for Former Yugoslavia (ICTY) in The Hague – for one of the longest kangaroo court trials in history.
Having abandoned all attempt to assert its moral advantage, Serbia is counting solely on the kindness of strangers.
Pro-Western politicians in Belgrade labored under the illusion that throwing Milosevic to the ICTY wolves would be enough to ensure the good graces of the “International Community”. But in reality, the prosecution of Milosevic was used to publicize the trumped up “joint criminal enterprise” theory which blamed every aspect of the breakup of Yugoslavia on an imaginary Serbian conspiracy. The scapegoat turned out to be not just Milosevic, but Serbia itself. Serbia’s guilt for everything that went wrong in the Balkans was the essential propaganda line used to justify the 1999 NATO aggression, and by going along with it, the “democratic” Serbian leaders undermined their own moral claim to Kosovo.
In June 1999, Milosevic gave in and allowed NATO to occupy Kosovo under threat of carpet bombing that would destroy Serbia entirely. His successors fled from a less perilous battle – the battle to inform world public opinion of the complex truth of the Balkans. Having abandoned all attempt to assert its moral advantage, Serbia is counting solely on the kindness of strangers.
Diana Johnstone is author of Fools’ Crusade: Yugoslavia, NATO and Western Delusions (Monthly Review Press). She can be reached at diana.josto@yahoo.fr
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mercredi, 27 octobre 2010
Bosnie: situation figée
Bosnie : situation figée Bernhard TOMASCHITZ
Les Etats-Unis et l’UE s’entêtent à vouloir imposer un Etat unitaire et multiethnique.
Le 5 octobre, la Bosnie-Herzégovine a élu un nouveau parlement et un nouveau « présidium d’Etat » mais les changements espérés par la « communauté internationale » ne se sont pas produits. Tous les partis ethniques représentant, chacun pour sa part, un des trois peuples porteurs de l’Etat bosniaque (les Bosniaques musulmans, les Serbes et les Croates) sont sortis vainqueurs incontestés des urnes. L’élection de Bakir Izetbegovic, fils du fondateur de l’actuel Etat bosniaque, Aliya Izetbegovic, au poste de représentant des Bosniaques musulmans, peut être considérée comme une surprise.
Les résultats de ces élections en Bosnie, pays qui, de facto, est un protectorat de l’UE, feront en sorte que la situation actuelle se maintiendra telle quelle. Aucun Etat « multiethnique », du type que souhaite voir advenir l’eurocratie bruxelloise, ne verra le jour dans l’immédiat et la « République serbe », qui représente une bonne moitié du pays, continuera à se défendre contre toute atteinte à ses compétences dans le cadre de la réforme constitutionnelle exigée par les Etats-Unis et l’UE. « La Bosnie-Herzégovine n’est possible que comme une fédération de républiques », a déclaré Milorad Dodik, ministre-président des Serbes de Bosnie, au quotidien « Danas » de Belgrade. Cet homme politique serbe de Bosnie est sûr de savoir pourquoi l’Etat de Bosnie ne peut pas fonctionner. « La Bosnie-Herzégovine est une aberration née du processus de décomposition de l’ancienne Yougoslavie. Les étrangers veulent la maintenir, alors que chacun voit bien que rien n’en sortira, non pas à cause de Milorad Dodik, mais à cause de l’histoire et des circonstances que celle-ci a fait émerger et qui ont toujours existé ici ».
Mais il n’y a pas que les Serbes qui ruent dans les brancards. Au sein de la Fédération croato-bosniaque aussi, deuxième entité de l’Etat unitaire, on s’est mis à maugréer. Les hommes politiques croates réclament sans cesse la création d’une entité croate propre car ils craignent d’être minorisés par les Musulmans qui détiennent, dans la Fédération, une majorité de quatre cinquièmes. Ces craintes sont justifiées comme le montre l’élection du triumvirat constituant le Présidium d’Etat. Pour la Fédération croato-bosniaque, c’est le social-démocrate modéré Zeljko Komsic qui a été élu. Il doit son élection à une disposition technique: tous les citoyens de la Fédération croato-bosniaque peuvent élire leur membre du présidium, quelle que soit leur appartenance ethnique ; les Croates peuvent voter pour un Bosniaque musulman et vice-versa, les Bosniaques musulmans peuvent voter pour un Croate catholique. Donc Komsic doit sa réélection à des voix « prêtées » par des Musulmans. Il n’est dès lors pas étonnant que le candidat croate évincé, Dragan Covic, qui est d’inspiration nationaliste, ait déclaré qu’il allait « prendre des mesures », sans pour autant préciser quelles seraient ces mesures.
Sur le plan financier, les Croates, qui enregistrent davantage de succès sur le plan économique, subissent toutes sortes de désavantages. Avec l’argent de leurs impôts, ils doivent soutenir les Bosniaques. L’antenne locale de Mostar du parti croate HSP (Parti Croate du Droit) se plaint que les Croates, au cours des années écoulées, ont versé 4,3 milliards de « marks convertibles » (comme on appelle la devise du pays) de plus dans les caisses de la Fédération croato-bosniaque, au détriment de projets croates. « Les Croates sont plumés systématiquement et par des procédés légalement indiscutables, dans la mesure où ils sont minorisés quand il s’agit de voter », déclare l’antenne du HSP. La situation des Croates montre aux Serbes quelles seraient les conséquences d’une centralisation, avec une domination bosniaque-musulmane de l’appareil d’Etat. Au départ, pendant la guerre qui sévissait en Bosnie, l’expédient d’une Fédération avait du sens pour les Croates. « La Fédération est née au moment où les forces croates et bosniaques pouvaient espérer, ensemble, résister au défi que lançait la ‘République serbe’ en temps de guerre. Ensemble, Bosniaques et Croates formaient une masse critique suffisante pour maintenir la Bosnie-Herzégovine et empêcher toute sécession de cette ‘République serbe’ sur les plans financier, politique et même militaire », écrit un rapport récent de l’ « International Crisis Group ».
Cet « International Crisis Group » est un groupe de réflexion, financé notamment par des fondations américaines, qui sert de porte-voix à toutes les forces politiques qui veulent non seulement maintenir un Etat de Bosnie-Herzégovine, mais veulent le centraliser. Washington considère que cet Etat balkanique est un laboratoire expérimental pour un processus idéal de « Nation building », c’est-à-dire un processus qui mènera à la constitution d’un appareil d’Etat qui ne pourra fonctionner que vaille que vaille et constituera dès lors le lieu parfait pour y établir une base militaire importante afin que les Etats-Unis puissent continuer à exercer leur influence en Europe et sur l’Europe. A cela s’ajoute que tout Etat unitaire de Bosnie-Herzégovine serait automatiquement le meilleur garant imaginable dans la politique d’endiguement de la Serbie, allié important de la Russie. L’UE, pour sa part, essaie par tous les moyens d’instaurer en Bosnie son rêve de société multiethnique. La « communauté internationale », dont les seules composantes sont l’UE et les Etats-Unis, dépensent un argent fou pour parvenir à réaliser l’utopie d’une Bosnie unie. Depuis la fin de la guerre en Bosnie en 1995, plus de 14 milliards de dollars américains ont été injectés dans cet Etat balkanique qui ne compte environ que quatre millions d’habitants.
Vu les sommes énormes qui lui ont été consacrées et vu les intérêts qui sont en jeu là-bas, la Bosnie unitaire doit absolument être maintenue en vie. Par conséquent, l’ « International Crisis Group » exige une centralisation de l’Etat multiethnique de Bosnie. Car si la situation continue à empirer et que les combats politiques retardateurs de ceux qui ne veulent pas de cette centralisation se poursuivent, des « dommages irréparables dans les relations interethniques fragiles surviendraient et, ainsi, la viabilité de l’Etat serait remise en question ».
Mais la « communauté internationale », réduite à l’UE et aux Etats-Unis, et leurs caucus de réflexion omettent pourtant de prendre une alternative possible en considération : un démantèlement ordonné de la Bosnie-Herzégovine, en application du droit à l’auto-détermination des peuples, comme Washington et l’eurocratie bruxelloise l’ont accordé aux Albanais du Kosovo.
Bernhard TOMASCHITZ.
(article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°41/2010 ; http://www.zurzeit.at/ ).
Bernhard TOMASCHITZ:00:30 Publié dans Actualité, Affaires européennes | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : bosnie, ex-yougoslavie, balkans, europe, affaires européennes, géopolitique, politique internationale | | del.icio.us | | Digg | Facebook
mardi, 21 septembre 2010
De la Croatie par défaut à l'Occident par excès
De la Croatie par défaut à l’Occident par excès
par Georges FELTIN-TRACOL
Ancien enseignant en sciences politiques aux États-Unis, ex-diplomate croate, maîtrisant parfaitement l’anglais, l’allemand et le français, auteur d’articles remarquables dans Éléments ou Catholica, Tomislav Sunic vient de publier aux Éditions Avatar son premier ouvrage rédigé dans la langue de son cher Céline, La Croatie : un pays par défaut ?. Il faut se réjouir de cette sortie qui, prenant prétexte du cas croate, ausculte avec attention le monde contemporain occidental. Précisons tout de suite que ce livre bénéficie d’une brillante préface de Jure Vujic, responsable par ailleurs d’un exceptionnel article « Vers une nouvelle “ epistémè ” des guerres contemporaines » dans le n° 34 de la revue Krisis sur la guerre.
La Croatie : un pays par défaut ? est un ouvrage essentiel qui ne se limite pas aux seuls événements historiques liés à l’indépendance croate des années 1990. Avec le regard aigu du sociologue, du linguiste, du philosophe et du géopoliticien, Tomislav Sunic examine l’Occident-monde postmoderniste en se référant à son vécu d’ancien dissident qui a grandi dans la Babel rouge de Joseph Tito. L’auteur a ainsi acquis une expérience inestimable que ne peuvent avoir les chercheurs occidentaux sur le communisme.
De ce fait et à travers maints détails, il constate que l’Occident ressemble étonnamment au monde communiste en général et à la Yougoslavie en particulier. Il lui paraît d’ailleurs dès lors évident que « l’échec de la Yougoslavie multiculturelle fut également celui de l’architecture internationale édifiée à Versailles en 1919, à Potsdam en 1945 et à Maastricht en 1992 (p. 188) ». C’est la raison fondamentale pour laquelle les grandes puissances occidentales firent le maximum pour que n’éclate pas l’ensemble yougoslave. À la fin de la décennie 1980, les États occidentaux témoignaient d’une sympathie indéniable envers l’U.R.S.S., la Yougoslavie et la Tchécoslovaquie avec le secret espoir d’empêcher des désintégrations qui risqueraient de perturber durablement les flux marchands mondiaux.
En ces temps d’amnésie historique, Tomislav Sunic revient sur la tragédie méconnue des Volksdeutsche, des Allemands des Balkans, massacrés en 1944 – 1945 par les partisans titistes au point que « le favori de longue date des Occidentaux, l’ex-dirigeant communiste yougoslave et défunt maréchal Josip Broz, avait un passé bien plus chargé d’épurations ethniques et de meurtres de masse (p. 187) ». Il aurait pu aussi rappeler ce qu’on sait peu et que savait certainement Charles de Gaulle qui n’a jamais apprécié l’imposteur. « Natif d’Odessa où son patronyme était Wais, signale Jean-Gilles Malliarakis, il usurpe l’identité de Josip Broz, révolutionnaire communiste croate et son pseudonyme de résistant correspondait au sigle T.I.T.O. de Tajna Internationalna Terroricka Organizatia en serbe (1). » En note, il précisait qu’« après guerre, la mère de Josip Broz ne reconnaîtra pas Tito (2) ». Ces omissions de première importance démontrent que, loin de l’idéal autogestionnaire de la Deuxième Gauche hexagonale, la « Titoslavie » n’était pas le paradis terrestre en édification, mais un banal système communiste soumis à la terreur diffuse et implacable de la police politique secrète.
Si on peut déplorer que Tomislav Sunic donne une interprétation banale et convenue de l’œuvre européenne du cardinal Richelieu (3), il insiste, en revanche, sur l’importance géopolitique des Balkans tant en stratégie que dans la mise en place des futurs réseaux de transports d’énergie (oléoducs et gazoducs). Depuis la fin de la Yougoslavie s’est manifesté le « cheval de Troie des États-Unis » avec le soutien total de Washington envers des entités fantoches comme la Bosnie-Herzégovine et le Kossovo, ou mafieuses tel le Monténégro.
La Yougoslavie, anticipation de l’Occident !
Pour Tomislav Sunic, cet appui occidental n’est pas seulement utilitariste ou à visée géopolitique, il est aussi et surtout idéologique parce que, pour le Système occidental, la fédération de Tito « à bien des égards, représentait une version miniature de leur propre melting pot (p. 81) ». La comparaison n’est pas anodine, ni fortuite.
L’auteur discerne dans les sociétés multiraciales post-industrielles d’Occident des facteurs d’explosion similaires aux premiers ferments destructeurs de la Yougoslavie. En effet, « la société multiculturelle moderne, comme l’ex-Yougoslavie l’a bien montré, est profondément fragile et risque d’éclater à tout instant. Ce qui fut le cas en ex-Yougoslavie peut se produire au niveau interethnique et interracial à tout instant, en Europe comme aux États-Unis (pp. 60 – 61) ». De plus, pensé et voulu comme une amitié forcée et fictive entre les peuples, « le multiculturalisme, quoique étant un idéal-cadre de l’Union européenne, peut facilement aboutir à des conflits intra-européens mais également à des conflits entre Européens de souche et allogènes du Tiers-Monde (p. 210) ». Enfin, « l’ex-Yougoslavie fut un pays du simulacre par excellence : ses peuples n’ont-ils pas simulé pendant cinquante ans l’unité et la fraternité ? (p. 206) ». Le projet européen n’est-il pas une nouvelle illusion ?
L’auteur développe éclaircit ce rapprochement osé : l’Occident serait donc une Yougoslavie planétaire en voie de délitement. Il s’inquiète par exemple de l’incroyable place prise dans les soi-disant « démocraties libérales de marché » des lois liberticides en histoire (conduisant à l’embastillement scandaleux de Vincent Reynouard), du « politiquement correct », de la novlangue cotonneuse et de l’éconolâtrie. Pour lui, ces cas d’entrave patents prouvent que « l’Union se trouve déjà devant un scénario semblable à celui de l’ex-Yougoslavie, où elle est obligée de modifier ses dispositifs juridiques pour donner un semblant de vraisemblance à sa réalité surréaliste (p. 126) ».
La multiplication des actions contre les opinions hérétiques en France, en Allemagne, en Grande-Bretagne, témoignent de la volonté des oligarchies transnationales et de leurs relais politiques à exiger par la coercition plus ou moins douce une mixité mortifère et ultra-marchande. « Le rouleau compresseur du globalisme triomphant entend détruire les identités substantialistes (nationales, locales, généalogiques) et les identités “ par héritage ” qui font du citoyen le membre d’une communauté définie par l’histoire, par la continuité de l’effort de générations sur le même sol – pour leur substituer le nouveau mythe de la citoyenneté postmoderne, une sorte de bric-à-brac constructiviste, à savoir la citoyenneté “ par scrupules ” qui ne reconnaît le citoyen qu’en tant que simple redevable à la communauté dont il est membre et à laquelle il oppose l’humanité sans frontière des droits de l’homme immanents et sa propre individualité (p. 70) ». Une puissante pression psychologique s’impose à tous, sans la contrainte nécessaire, et « à l’instar de la Yougoslavie défunte, les sociétés multiculturelles ne réussissent jamais à accommoder les identités de tous les groupes ethniques (p. 68) ».
Naissance archétypale de l’homme occidental soviétique
En fin observateur, Tomislav Sunic avance aussi que les formules venues d’outre-Atlantique ne conviennent finalement pas aux attentes matérielles (ou matérialistes) des peuples de l’ancien bloc communiste pétris par des années de bolchevisme triomphant. Ces peuples – désemparés de ne pas bénéficier d’un autre culte du Cargo – « vont vite se rendre compte que l’identité de l’homo americanus ne diffère pas beaucoup de celle de son homologue, l’homo jugoslavensis (p. 114) ». Il relève plus loin que « le mimétisme de l’homo sovieticus a trouvé son double dans le mimétisme de l’homo occidentalis (p. 239) » et considère qu’une « identité paléo-communiste subsiste toujours dans les structures mentales de la population post-yougoslave, partout dans les Balkans (p. 34) ». Le communisme comme le libéralisme a a tué les peuples ! Il en découle chez les Européens de l’Est une immense déception à l’égard des « nouvelles élites […] issues, pour la plupart, de l’ancienne nomenklatura communiste, habilement reconvertie au modèle libéral, directement issue du système de structuration soviétique (p. 53) ». Auraient-ils compris que l’ultra-libéralisme mondialiste serait le stade suprême du communisme ?
Comme Guy Debord qui, prenant acte de la fin des blocs, annonçait dans ses Commentaires sur la société du spectacle l’émergence d’un spectaculaire intégré dépassant les spectaculaires diffus et concentré, Tomislav Sunic entrevoit un processus de fusion en cours entre les types occidental et communiste afin de créer un homme occidental soviétique. Celui-ci aurait « une existence combinant le charme et le glamour de l’homo americanus, comme dans les films américains, tout en jouissant de la sécurité sociale et psychologique offerte par l’homo jugoslavensis ! (p. 115) ». Ainsi apparaît la figure rêvée de la social-démocratie, du gauchisme et du libéralisme social… Stade final du bourgeois, l’homme occidental soviétique est le Travailleur postmoderniste de l’ère mondialiste. Il s’épanouit dans la fluidité globalitaire marchande. « La globalisation de l’économie n’est nullement une simple extension des échanges commerciaux et financiers, comme le capitalisme l’a connue depuis deux siècles. À la différence de l’internationalisation qui tend à accroître l’ouverture des économies nationales (chacune conservant en principe son autonomie), la globalisation ou mondialisation tend à accroître l’intégration des économies. Elle affecte les marchés, les opérations financières et les processus de production, réduit le rôle de l’État et la référence à l’économie nationale (p. 42). » Les ravages torrentiels de la mondialisation atteignent tous les pays, y compris les États les plus récents. Ainsi, « le folklorisme de masse qui fut l’unique manifestation de l’identité croate à l’époque yougoslave et communiste, fut après l’éclatement de la Yougoslavie, vite suivie par la coca-colisation des esprits au point que la symbolique nationaliste croate est devenue une marchandise – au grand plaisir des classes régnantes en Occident (p. 58) ». Après une période d’exaltation nationale, voire nationaliste, correspondant à la présidence de Franjo Tudjman, les responsables croates actuels ont tout fait pour l’évacuer, l’oublier et accentuer au contraire une occidentalisation/mondialisation qui flatte leur internationalisme d’antan… Pis, « les élites post-néo-communistes croates […] n’ont jamais aspiré à l’indépendance de la Croatie et n’ont jamais eu, il faut le dire clairement, une quelconque vision d’une identité croate matricielle et fondatrice (p. 238) ». On retrouve ce manque de volonté nationale en Ukraine. Les nouvelles oligarchies, croate ou ukrainienne, salue le produit du Mur de Berlin et de Wall Street : l’homme occidental soviétique.
Victimes, histoire et mémoire
Tomislav Sunic retrace l’historique de la fin du modèle yougoslave. Avant d’être le père de la Croatie indépendante, Franjo Tudjman fut un compagnon de route de Tito et un responsable communiste. Puis, écarté des cénacles dirigeants, il se passionna pour l’histoire, en particulier pour la Seconde Guerre mondiale, au risque de se faire accuser par certains cénacles mi-officieux et demi-mondains de « révisionniste »… Dans sa belle préface, Jure Vujic considère que l’identité nationale croate « qui à bien des égards, se trouve bousculée par les défis du globalisme, les processus intégrationnistes régionaux et supranationaux, à bien du mal à se stabiliser dans un espace-temps exsangue et à mûrir autour d’un projet politique commun, libéré des réminiscences et du trop-plein d’histoire fratricide hérités de la Deuxième Guerre mondiale (p. 12) ». Bien avant le déchaînement titanesque des violences nationales et étatiques, les antagonismes ne se cachaient pas et s’exposaient plutôt par l’intermédiaire d’une « guerre des mots » et de revendications mémorielles perceptibles lors des compétitions de football. En estimant avec raison que « dans le monde vidéosphérique d’aujourd’hui, l’image de guerre incite fatalement au narcissisme et à l’individualisme extrême (p. 207) », Tomislav Sunic ponte le rôle belligène des médias qui se sont substitués à l’intelligentsia. « De même qu’il n’y a pas de guerre sans morts, il ne peut plus aujourd’hui y avoir de guerre sans mots d’ordre, donc sans communication (p. 197) », d’où la montée en puissance dans les coulisses du pouvoir des spin doctors, ces agents d’influence très grands communicants. Pour parvenir à leurs fins, ils pratiquent « tout d’abord, les actions “ pédagogiques ” à long terme, ensuite le conditionnement des esprits et le modelage des mentalités (p. 198) ». Ils portent ainsi jusqu’à l’incandescence les opinions publiques facilement manipulables.
Les médias accaparent la thématique victimaire. Dorénavant, toute mémoire, identité ou communauté soucieuse d’acquérir une légitimité se pose avant tout en victime. Or « toute identité victimaire est par définition portée à la négation ou au moins à la trivialisation de la victimologie de l’Autre (p. 213) ». Pourtant, rappelle Tomislav Sunic, « l’esprit victimaire découle directement de l’idéologie des droits de l’homme. Les droits de l’homme et leur pendant, le multiculturalisme, sont les principaux facteurs qui expliquent la résurgence de l’esprit victimaire (p. 219) ». Loin d’être les ultimes exemples d’antagonismes nationalitaires meurtriers propres aux XIXe et XXe siècles, les conflits yougoslaves ont préfiguré les guerres postmodernistes. La Post-Modernité qui met au cœur de sa logique l’identité. Au risque de se mettre à dos tous les néo-kantiens, l’auteur croît que « toute identité, qu’elle soit étatique, idéologique, nationale ou religieuse, est à la fois la victime et le vecteur d’un engrenage qui aboutit souvent à la violence et à la guerre (p. 37) ». L’identité est donc l’inévitable corollaire du politique.
Il faut néanmoins prendre ici le terme « identité » dans son acception d’identique, de similitude, parce que « souvent, ce sont les ressemblances et non les différences qui provoquent les conflits, surtout lorsque ces conflits prennent la forme d’une rivalité mimétique (p. 70) ». Autrement dit et dans le contexte croate, « peut-on être Croate aujourd’hui sans être antiserbe ? (p. 37) ». La réponse serait affirmative si n’entraient pas en ligne de compte d’autres paramètres. « De l’affirmation d’une identité patriotique fondée sur l’ethnos et le mythos, écrit Jure Vujic, la Croatie d’aujourd’hui est à la recherche d’un “ piémontisme axiologique ” qui n’est autre qu’une identité de valeurs communes (p. 16) ». Et puis, « dans notre postmodernité, poursuit Tomislav Sunic, c’est l’Union européenne et l’Amérique qui décident, dans une large mesure, de l’identité d’État croate et même de l’identité supra-étatique de la Croatie dans un monde futur (p. 74) ». Par ailleurs, « avec et dans l’Union européenne, les valeurs marchandes imposent une hiérarchie des valeurs qui va directement à l’encontre de la survie des petits peuples (p. 57) ». Le postmodernisme multiculturaliste et ultra-individualiste s’apparente à une broyeuse de cultures enracinées. Il détient pourtant en lui ses propres objections.
Les paradoxes explosifs de la postmodernité multiculturelle
Oui, la postmodernité (ou plus exactement selon nous, l’ultra-modernité) creuse sa propre tombe en suscitant des contradictions insurmontables. Pour Tomislav Sunic, « le multiculturalisme est […] une constellation de politiques et de pratiques qui cherche à concilier l’identité et la différence, à déconstruire et à relativiser la métaculture des sociétés post-industrielles (p. 47) ». Puisque « le problème de l’identité en tant qu’altérité est devenu essentiel dans l’Occident postmoderne (p. 211) », la seule réponse « politiquement correcte » apte est l’acceptation du fait multiculturel (l’empilement individualiste et chaotique de communautés de nature ou de choix) et le rejet du corps social homogène. « Le pluralisme classificatoire qu’induisent les droits positifs en faveur de populations stigmatisées ou discriminées en fonction de l’âge et du sexe est interprété, notamment en Europe, comme une déstructuration de l’homogénéité sociale et culturelle de la nation et du concept de citoyenneté (pp. 41 – 42). » Il appert que « le choix d’un style de vie individuel, la tribalisation et l’atomisation de la société moderne ainsi que la multiculturalisation de la société européenne, rendent l’analyse de l’identité nationale croate encore plus compliquée. Même les Croates modernes, qui sont bien en retard en matière d’identité d’État, doivent faire face à une multitude de nouvelles identités. Leur identité nationale varie au gré des circonstances internationales, ces changements se juxtaposent quotidiennement et ils remettent en cause leur ancien concept d’identité nationale. On pourrait facilement qualifier ces nouvelles identités juxtaposées d’identités apprises ou acquises, par rapport aux anciennes identités qui relevaient de la naissance et de l’héritage culturel (pp. 49 – 50) ». Dans ces conditions, doit-on vraiment s’étonner qu’« à défaut d’une diplomatie cohérente, les eurocrates préfèrent tabler sur une identité croate consumériste et culinaire, et miser sur une classe politique locale aussi corrompue que criminogène (p. 232) » ? L’identité subit une pseudomorphose : « peu à peu, l’ancienne identité nationale, voire nationaliste, qui sous-entendait l’appartenance à un terroir historique bien délimité, est supplantée par le phénomène du communautarisme sans terroir – surtout dans les pays occidentaux qui ont subi une profonde mutation raciale (p. 38) ».
Malgré l’affirmation répétitive et incantatoire des valeurs fondatrices de l’actuelle entreprise européenne, à savoir un antifascisme obsessionnel et fantasmatique pitoyable, la multiplication des contentieux mémoriels résultant du fait multiculturaliste renforce une « rivalité des récits victimaires [qui] rend les sociétés multiculturelles extrêmement fragiles. Par essence, tout esprit victimaire est conflictuel et discriminatoire. Le langage victimaire est autrement plus belligène que l’ancienne langue de bois communiste et il mène fatalement à la guerre civile globale (p. 220) ». Extraordinaire paradoxe ou hétérotélie selon les points de vue ! Surtout que « dans une société pluri-ethnique et multiculturelle, l’identité des différents groupes ethniques est incompatible avec l’individualisme du système libéral postmoderne (pp. 37 – 38) ». Tomislav Sunic ajoute que « la schizophrénie du monde postmoderne consiste, d’une part, dans la vénération absolue de l’atomisation individualiste qui met en exergue l’identité individuelle et consumériste, et d’autre part, dans le fait qu’on est tous devenu témoin du repli communautaire et de la solidarité raciale (p. 39) ».
Certes, si Jure Vujic craint que « la Croatie comme toutes les “ démocraties tardives ”, ainsi qu’aime à le dire la communauté internationale, se doit de transposer de manière paradigmatique le sacro-saint modèle libéral, politique et économique, sans prendre en considération les prédispositions psychologiques, historiques et sociales spécifiques du pays (p. 13) », « pour l’instant, lui répond Sunic, les Croates, comme tous les peuples est-européens, ignorent complètement le danger de la fragmentation communautaire. La société croate, au début du IIIe millénaire, du point de vue racial est parfaitement homogène, n’ayant comme obsession identitaire que le “ mauvais ” Serbe. Pourtant, il ne faut pas nourrir l’illusion que la Croatie va rester éternellement un pays homogène. Le repli communautaire dont témoignent chaque jour la France et l’Amérique, avec le surgissement de myriades de groupes ethniques et raciaux et d’une foule de “ styles de vie ” divers, deviendra vite la réalité, une fois la Croatie devenue membre à part entière du monde globalisé (p. 38) ». La Croatie parviendra-t-elle enfin au Paradis occidental ? Rien n’est certain. En observant les pesanteurs de l’idéologie victimaire sur l’opinion et constatant que « souvent, la perception d’un groupe ira jusqu’à se considérer comme la victime principale d’un autre groupe ethnique (p. 68) », Tomislav Sunic y devine l’amorce de futurs conflits.
Des guerres communautaires à venir
« On a beau critiquer le communautarisme et l’identité nationale et en faire des concepts rétrogrades, relève l’auteur, force est de constater que le globalisme apatride n’a fait qu’exacerber la quête d’identité de tous les peuples du monde (p. 61). » Bonne nouvelle ! La vision morbide et totalitaire d’une humanité homogène ne se réalisera jamais. Ses adeptes chercheront quand même à la faire en se servant de cette idéologie moderne par excellence qu’est le nationalisme. « À l’instar des nationalistes classiques, le trait caractéristique des nationalistes croates est la recherche de la légitimité négative, à savoir la justification de soi-même par le rejet de l’autre. Impossible d’être un bon Croate sans être au préalable un bon antiserbe ! Ceux qui en profitent le plus sont les puissances non-européennes : jadis les Turcs, aujourd’hui l’Amérique ploutocratique et ses vassaux européens. Ce genre de nationalisme jacobin, qu’on appelle faussement et par euphémisme, en France, le souverainisme, ne peut mener nulle part, sauf vers davantage de haine et de guerres civiles européennes (p. 53). »
Un regain ou une résurgence du nationalisme étatique moderne n’empêchera pas la « contagion postmoderniste » de la Croatie, ni d’aucun autre État post-communiste. Bien au contraire ! « Les mêmes stigmates de la décomposition identitaire occidentale sont visibles en Croatie, qui subit les assauts conjugués d’une dénationalisation politique et institutionnelle ainsi qu’un raz-de-marée de réseaux “ identitaires ” relevant de la postmodernité. Université, presse, politique, syndicat, on pourrait poursuivre la liste : administration, clubs, formation, travail social, patronat, Églises, etc., le processus néo-tribal a contaminé l’ensemble des institutions sociales. Et c’est en fonction des goûts sexuels, des solidarités d’écoles, des relations amicales, des préférences philosophiques ou religieuses que vont se mettre en place les nouveaux réseaux d’influence, les copinages et autres formes d’entraide qui constituent le tissu social. “ Réseau des réseaux ”, où l’affect, le sentiment, l’émotion sous leurs diverses modulations jouent le rôle essentiel. Hétérogénéisation, polythéisme des valeurs, structure “ hologrammatique ”, logique “ contradictionnelle ”, organisation fractale (p. 50). »
On le voit : Tomislav Sunic « dévoile “ au scalpel ” les dispositifs subversifs, psychologiques et sociopolitiques, qui sont actuellement à l’œuvre dans une matrice identitaire croate qui reste très vulnérable face aux processus pathogènes de l’occidentalisation, assène Jure Vujic (p. 21) ». Les Croates ont obtenu un État-nation et une identité politique au moment où ceux-ci se délitent, dévalorisés et concurrencés par un foisonnement d’ensembles potentiellement porteurs d’identités tant continentales que vernaculaires ou locales (4). Le décalage n’en demeure pas moins patent entre l’Ouest et le reste de l’Europe ! « La petite Estonie, la Croatie et la Slovaquie vont bientôt réaliser que dans l’Europe transparente d’aujourd’hui, on ne peut plus se référer aux nationalismes du XXe siècle. Après avoir refusé le jacobinisme des Grands, ils se voient paradoxalement obligés de pratiquer leur propre forme de petit jacobinisme qui se heurte fatalement aux particularismes de leurs nouveaux pays. Sans nul doute, affirme alors Sunic, la phase de l’État-nation est en train de se terminer dans toute l’Europe et elle sera suivie par un régime supranational. Peu importe que ce régime s’appelle l’Union européenne ou le IVe Reich (p. 57). » Et si c’était plutôt l’Alliance occidentale-atlantique ou le califat universel ?
Dans sa riche préface, Jure Vujic s’élève avec vigueur contre le supposé « retour en Europe » des anciens satellites soviétiques. En appelant à une « réappropriation de l’identité grand-européenne » de la croacité, il appelle à une réflexion majeure sur l’Europe de demain, celle qui surmontera les tempêtes de l’histoire.
Seule une prise de conscience générale de leur européanité intrinsèque permettra aux peuples autochtones du Vieux Continent de contrer le travail corrosif de l’Occident moderne, du multiculturalisme et du postmodernisme. La transition des sociétés pré-migratoires et migratoires (Croatie et Ukraine par exemple) vers des sociétés post-migratoires (Europe occidentale) risque de provoquer une riposte identitaire virulente de la part de peuples européens (ou de certaines couches sociales) les moins séniles. « Une guerre larvée et intercommunautaire entre des bandes turcophones et arabophones vivant en Allemagne ou en France, et des groupes de jeunes Allemands ou Français de souche ne relèvent plus d’un scénario de science-fiction (p. 125) », avertit Tomislav Sunic. Il tient pour vraisemblable que « le nationalisme inter-européen d’antan, accompagné par la diabolisation de son proche voisin, comme ce fut le cas entre les Croates et les Serbes, peut dans un proche avenir devenir périmé et être supplanté par une guerre menée en commun par les Serbes et les Croates contre les “ intrus ” non-européens (pp. 38 – 39) ». La réalisation effective d’une identité politique et géopolitique européenne s’en trouverait grandement renforcée et annulerait le présent dilemme des populations croates par défaut et occidentalisées par excès. C’est dire, comme le remarque Jure Vujic, que « le livre de Tomislav Sunic […] constitue […] un éclairage politologique et philosophique considérable sur l’actuelle transition de l’identité croate dans la postmodernité (pp. 17 – 18) ». Une lecture indispensable en ces temps incertains et désordonnés.
Georges Feltin-Tracol
Notes
1 : Jean-Gilles Malliarakis, Yalta et la naissance des blocs, Albatros, 1982, p. 152.
2 : Idem. Ajoutons en outre qu’on n’a pas de sources exactes quant à la naissance de Tito. Ce dernier parlait d’ailleurs un mauvais serbo-croate avec un accent russe, loin de sa prétendue région natale au nord de la Croatie. Sa syntaxe était également mauvaise.
3 : Tomislav Sunic reprend une erreur courante quand il qualifie « le Conseil de l’Europe […de…] corps législatif (p. 137) ». Il confond le Parlement européen et le Conseil de l’Europe qui tous deux siègent à Strasbourg. Le Conseil de l’Europe ne relève pas de l’Union européenne puisque ses membres sont tous les États du continent – sauf le Bélarus qui est un invité spécial -, la Turquie et l’Azerbaïdjan. Sont membres observateurs les États-Unis, le Canada, Israël, le Mexique et le Japon…
De ce Conseil procède la Convention européenne des droits de l’homme et sa sinistre Cour qui entérine les lois liberticides et encourage la fin des traditions européennes.
Il ne faut pas mélanger ce conseil avec le Conseil européen qui réunit les chefs d’État et de gouvernement, ni avec le Conseil de l’Union européenne rassemblant les ministres des États-membres pour des problèmes de leurs compétences.
4 : Une fois la Croatie membre de l’U.E., il se posera la question de l’adhésion à l’Union européenne des autres États ex-yougoslaves. À la demande expresse de Franjo Tudjman, la Constitution croate, par l’article 141, interdit explicitement toute reconstitution d’une union balkanique. Or l’arrivée de la Serbie, de la Bosnie-Herzégovine, du Monténégro, etc., dans l’U.E. ne sera-t-elle pas perçue comme la reformation d’un ensemble slave du sud dans le giron eurocratique et atlantiste ? Zagreb ne risquera-t-il pas de poser son veto à l’entrée de Belgrade, de Sarajevo ou de Skopje ?
• Tomislav Sunic, La Croatie : un pays par défaut ?, préface de Jure Vujic, Éditions Avatar, coll. « Heartland », 2010, 252 p., 26 €.
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dimanche, 12 septembre 2010
Kosovo: le droit des gens sur la sellette
Kosovo: le droit des gens sur la sellette
Question : quel est le principe du droit des gens qui est le plus important et qui doit recevoir la priorité ? Le droit à l’auto-détermination des peuples ou le principe de l’intégrité territoriale des Etats ? C’est la question à laquelle le Tribunal international devait répondre récemment dans le cas de son rapport d’expertise sur le Kosovo. Abstraction faite du contenu concret de ce rapport d’expertise et de ses effets politiques, le cas du Kosovo montre que le droit des gens n’est plus tellement une question de faire valoir le droit et de justifier celui-ci par des principes, mais n’est plus qu’une question de pouvoir et de force. Pourquoi ? Lors de la déclaration unilatérale d’indépendance du Kosovo, il y a peu d’années d’ici, on s’est réclamé du droit à l’auto-détermination des peuples, qu’il fallait octroyer aux Albanais ethniques du Kosovo ; on a également justifié ce choix du fait que l’ancien régime serbe avait commis, à l’encontre de ceux-ci, des crimes contraires aux droits de l’homme, lors de la guerre ayant précédé l’indépendance kosovare. Pour cette raison, on devait, dit-on, accorder l’indépendance aux Kosovars et leur octroyer le droit à l’auto-détermination. On n’a dès lors tenu aucun compte de l’intégrité du territoire de l’Etat de Serbie, ce qui a eu pour résultat que, jusqu’ici, le Kosovo n’a été reconnu que par un nombre très limité d’autres Etats.
Il est de notoriété publique que cette indépendance du Kosovo a été rendue possible par des pressions extérieures, surtout américaines, et que les Européens, de ce fait, l’ont acceptée bon gré mal gré. Dans toutes ces démarches, on a complètement ignoré un fait : la construction qu’est le Kosovo est totalement dépendante sur le plan économique, n’est pas viable et constitue probablement le premier Etat entièrement musulman sur le sol européen.
La Serbie veut que l’on entame de nouvelles négociations pour fixer un statut définitif au Kosovo mais l’opinion générale estime évidemment qu’elle ne l’obtiendra pas et que sa démarche est absurde car l’indépendance du Kosovo ne pourra plus être rendue nulle et non avenue. En vérité, le vrai problème est celui de la région du Nord du Kosovo, qui possède un peuplement serbe compact, pour lequel il conviendrait bien évidemment d’appliquer les mêmes principes du droit des gens, que nous venons de citer. Les Serbes du Kosovo sont pleinement en droit de faire valoir à leur profit le droit à l’auto-détermination. Et si l’on considère le Kosovo comme un Etat souverain à part entière, son intégrité territoriale ne doit pas être une vache sacrée, pas davantage que celle de la Serbie, puisqu’il est né précisément du rejet de ce principe d’intégrité territoriale. En clair : les Serbes vont être contraints d’accepter un compromis, dans la mesure où ils ne récupèreront que les seules régions peuplées de Serbes et devront entériner la sécession du reste du Kosovo.
Ensuite, la grande question se pose à l’UE : ce territoire nouvellement indépendant, de peuplement albanais sera-t-il vraiment viable sur le long terme ou devra-t-on l’alimenter et le soutenir pour les siècles des siècles, en tant que pur protectorat de l’UE ? Ou bien se décidera-t-on d’élargir et de tester le principe de l’auto-détermination des peuples à tous les Albanais et Albanophones, en se demandant s’il ne serait pas utile de créer un Etat panalbanais, Kosovo compris, dans les Balkans occidentaux, qui serait rapidement lié à l’UE. Et comme les Européens financent déjà le tout, il faudrait tout de même veiller à ce que cet ensemble soit inclus dans une perspective géopolitique allant dans le sens des intérêts de l’Europe, en développant une vision au-delà des simples principes du droit des gens, et non pas dans une perspective allant dans le sens des intérêts, utilitaires et calculés, des Etats-Unis d’Amérique ou abondant dans le sens des visées expansionnistes et ubiquitaires du monde musulman. Si un « ordre nouveau » doit advenir dans les Balkans occidentaux et si cet « ordre nouveau » doit s’aligner sur l’UE et participer à l’intégration du continent européen, les principes du droit des gens devront obéir aux critères de la raison pragmatique. Celle-ci postule qu’il ne faut pas léser les intérêts et la fierté des autres grands peuples de cette région. Dans le cadre de cette évolution, la Serbie devra historiciser le mythe de la Bataille du Champs des Merles. Et les Kosovars musulmans devront accepter qu’ils ne resteront pas une république islamique souveraine par la grâce des Américains et aux frais des Européens.
Andreas MÖLZER.
(article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°30/2010 ; http://www.zurzeit.at/ ).
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mardi, 06 avril 2010
Tomislav Sunic répond aux identitaires
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2004
Tomislav SUNIC répond aux Identitaires
Le 30 Janvier 2004
Rencontre avec le docteur Tomislav SUNIC, enseignant en sciences politiques aux Etats Unis et écrivain croate.
Pamphlétaire et contestataire de la droite antilibérale croate, ancien diplomate, il est l’auteur d’ouvrages traitant entre autre de la géopolitique dans les Balkans, de la démocratie et de l’utopie égalitaire. Tom Sunic dénonce inlassablement le danger de la globalisation mondialiste en train d’éclore sur les décombres du communisme dans les pays de l’Est. Tomislav Sunic est également le correspondant en Croatie de la revue Nouvelle Ecole.
Aujourd'hui, il milite notamment pour un véritable rapprochement entre les deux frères ennemis croates et serbes. Cette guerre larvée servant, selon Tomislav SUNIC, les intérêts des ennemis de l'Europe.
Au début des années 90, les occidentaux voyaient s'engager le provisoire dernier acte d'une guerre civile européenne qui avait commencé presque 80 ans plus tôt. Quels étaient les ingrédients récurrents de ce conflit yougoslave encore mal compris en France ?
Tomislav SUNIC : Les responsables de cet acte de guerre sont à chercher chez les jacobins français, chez Clemenceau, dans le Traité de Versailles, chez Mitterrand, et bien sûr, chez les Américains qui avaient prêché, à partir de 1948 et jusqu’en 1990, “ l’unité et l’intégrité ” d’un pays artificiel, connu sous le nom de “ Yougoslavie ”.
Aujourd'hui, vous souhaitez un rapprochement entre les deux frères ennemis croates et serbes. Celui-ci semble encore bien précaire. Comme l'ont démontré les affrontements sérieux survenus lors de rencontres sportives, notamment au cours du match Croatie-Serbie de water-polo du dernier championnat d'Europe, les cicatrices semblent profondes. Bien sûr, les ennemis de l'Europe s'en réjouissent. Une normalisation réelle des rapports croato-serbes est-elle concevable ou encore illusoire ?
TS : Laissons le sport à part. Lorsque les équipes de différentes villes croates s’affrontent, il y a toujours une pagaille - comme d’ailleurs partout chez les supporters en Europe. Le problème réside dans la mythologie grande-serbe et la martyrologie grande-croate. Au cours des dernières 70 années, à savoir depuis la fondation de la Yougoslavie en 1919, les intellectuels serbes et croates, n’ont jamais jugé nécessaire de se débarrasser de leurs mythes pseudo-historiques. Le vrai délire commença en 1945 lors de la prise du pouvoir par les communistes, et lorsque l’hagiographie serbe imposa dans les écoles, et auprès du grand public occidental, sa victimologie “ anti-fasciste ” s’élevant à 600.000 Serbes prétendument tués par les fascistes croates de 1941 à 1945. Cette surenchère a eu pour cause, chez les Croates, de profondes frustrations, un romantisme politique souvent bête, et une poussée révisionniste qui aboutit en 1990 à l’éclatement du pays. Hélas, le nationalisme croate est également à la base de sa “ légitimité négative ” ; malheureusement on reste un bon Croate en fonction de son anti-serbisme, c’est-à-dire en diabolisant l’Autre. Le résultat fut la deuxième guerre entre les Serbes et les Croates en 1991.
Tant que les intellectuels serbes et croates ne se mettront pas sérieusement au travail pour examiner leurs victimologies respectives, et qui remontent à la deuxième guerre mondiale, la guerre larvée sera là, au grand plaisir des ennemis de l’Europe.
Croatie et Serbie semblent rivaliser d'ardeur pour livrer leurs patriotes respectifs au Tribunal Pénal International de La Haye. Quel est votre avis sur cette Cour et sa légitimité ?
TS : Aucun. La Cour de La Haye fonctionne d’après le principe du “ deux poids deux mesures. ” Ce qui n’est pas permis aux Serbes et aux Croates, est loisible pour les guerriers américains, israéliens, etc… Revenons à la phrase lapidaire de Carl Schmitt : “ Auctoritas non veritas facit legem ” (*). En bon français, c’est la qualité du flingue qui décide qui ira à La Haye, qui aura raison et qui aura tort, et qui va façonner par la suite le droit international. Le Tribunal de La Haye est un alibi pour l’incompétence de la classe politique en Union Européenne, qui fut d’ailleurs totalement incapable de mettre fin au conflit yougoslave dans les années 90.
Bien que les composants soient un peu différents – distinctions ethniques plus franches – les gouvernements des principales capitales européennes continuent leur politique de l'autruche, et semblent nier l'évidence en minimisant la possibilité d'affrontements multiculturels et/ou multiethniques graves dans les années à venir. Est-ce, selon vous, lâcheté ou volonté délibérée de refuser l'évidence ? Qu'est-ce qui pourrait faire échapper l'UE a une crise “ à la yougoslave ” ?
TS : “ L’Euroslavie ” actuelle ressemble étrangement à l’ex-Yougoslavie. Soyons sérieux. Le système bruxellois n’est pas conçu comme vecteur pour réunir les peuples européens dans un destin commun. L’UE est un vaste marché, un bazar dont l’avenir dépend uniquement d’un perpétuel bond économique en avant.
En effet, qui aurait cru que la Yougoslavie multiculturelle allait éclater en décombres ? Je crois que la même “ balkanisation ” attend l’Union européenne demain, avec des conséquences beaucoup plus graves. Tant que l’État-providence fonctionne, bon gré mal gré, tant que les allogènes reçoivent leur morceau de sucre de la part des contribuables européens, le calme est garanti. Une fois que la crise économique deviendra palpable, nous serons témoins d’une guerre civile autrement plus sauvage que dans les Balkans. Victime de ses illusions du progrès, et croyant naïvement en la théologie du marché libre, l’Union Européenne va devenir la proie de ses propres chimères. Le soi-disant bon fonctionnement de l’UE, avec son prétendu élargissement à l’Est, ressort d’un nouveau romantisme politique. Ce projet reste la plus grande imposture après la deuxième guerre mondiale.
Pertes des valeurs traditionnelles, plaisirs petits-bourgeois, dévirilisation, paradis artificiels, le matérialisme libéral triomphe en Europe occidentale. Quelle est votre réponse au chaos du monde moderne ?
TS : Lorsqu’on lit les écrivains des années trente nous nous rendons compte du même scénario en Europe. Nul doute, le libéralisme touche a sa fin. Le roi est nu ; il n’a plus de repoussoir communiste. Donc sa dégénérescence apparaît plus clairement. Tant mieux. Il faut que la situation empire davantage, pour que davantage de gens puissent déchiffrer l’ennemi principal.
On a dit que Rome était tombée car ses Dieux l'avaient abandonnée. Voyez-vous dans la perte totale de sens du sacré en Occident, une des causes profondes de son déclin ?
TS : Bien entendu. Même les grandes religions monothéistes ne sont plus capables d’insuffler le sens du sacré à leurs brebis. Hélas, dans la perspective historique, cinquante, voire une centaine d’années, ne veulent rien dire. Mais pour nous-mêmes, pour qui le temps vole si rapidement, il est peu probable que le grand retour des dieux ait lieu pendant notre parenthèse terrestre… Mais, peut-être dans une vingtaine d’années, verrons-nous la grande renaissance des dieux européens !
Les hommes debout au milieu des ruines - identitaires éveillés- ont coutume de dire que le soleil se lèvera à l'Est. Le salut de l'Occident peut-il venir de l'exemple des jeunes générations d'Europe de l'Est ? Et, selon vous, un rapprochement concret des forces nationales de chacun des pays de l'Ouest et de l'Est pour une renaissance européenne est-il sérieusement envisageable ?
TS: Le grand avantage du communisme fut sa barbarie et sa transparence vulgaire. Son grand avantage fut également qu’il sut préserver, malgré son dogme international, l’homogénéité ethnique des Européens de l’Est. La Russie, la Croatie, la Serbie, l’Estonie, etc. restent des enclaves blanches, de solides “ camps des saints ”. Espérons que la classe dirigeante en Europe orientale ne va pas tomber dans la surenchère du mimétisme pro-occidental et qu’elle ne va pas remplacer sa maladie de “ l’homo sovieticus ” par la nouvelle pathologie de “ l’homo occidentalis ”. Il y a quelques signes encourageants que cette Europe cioranienne commence à s’apercevoir de l’imposture occidentalo-libérale. Mais pour mener le travail de renaissance à son terme, il faut que ses citoyens fassent table rase de leur petit nationalisme et qu’ils abandonnent la haine de l’Autre, c’est-à-dire de leurs voisins. Les individus sages et cultivés de l’Europe occidentale pourraient y aider et cela d’une manière considérable.
Pour finir, un message pour les visiteurs du site “ les-identitaires.com ” ?
TS : Unissons nos forces identitaires et patriotiques, apprenons les langues et la culture de nos voisins européens ! Pratiquons l’identification – non seulement avec notre tribu – mais surtout avec l’Autre, à savoir nos frères voisins européens !
(*) Littéralement : “ C’est l’opinion et non la vérité qui fait la loi ”, à prendre ici au sens de “ C’est l’autorité et non la vérité qui commande à la loi ”.
Propos recueillis par Renaud BOIVIN
Pour en savoir plus : http://doctorsunic.netfirms.com
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samedi, 03 octobre 2009
Les jouissances du capitalisme
Hendrik CARETTE:
Les jouissances du capitalisme
Récemment, j’ai visité ce pays de fables qu’est la Slovénie, un petit pays, où l’on ne parle qu’une seule langue, où ne vit qu’un seul peuple dans des frontières qui sont vraiment anciennes. Le touriste qui veut franchir la frontière en automobile doit s’acquitter d’une vignette qui coûte quinze euro par semaine et qu’il doit coller sur le pare-brise de son véhicule. Après cela, plus d’emmerdements: les montagnes du pays sont boisées, les vallées y sont vertes et la capitale Ljubljana (Laibach en allemand) est une ville charmante aux allures désuètes et provinciales. Les tartes qu’on y sert sont plus que succulentes; elles goûtent la vraie crème fraîche et nous replongent dans une atmosphère où l’on a l’impression à tout moment de croiser l’Impératrice Sissi, tant ce art de vivre et cette atmosphère rappellent la double monarchie impériale et royale austro-hongroise, dont la ville de Trieste, sur l’Adriatique, était le seul port.
La Slovénie faisait partie de ce grand empire kitsch et tragique à la fois, que l’écrivain et journaliste alcoolique Joseph Roth a pu décrire comme nul autre et faire revivre dans ses oeuvres. La Slovénie est aujourd’hui une république à part entière, qui est membre de l’UE; elle a aussi été la première composante de l’ex-Yougoslavie du Maréchal Tito à se détacher définitivement du lien fédéral. Mais la Slovénie est surtout, à mes yeux, la patrie d’un philosophe, sociologue, critique, dissident, néo-marxiste, polémiste et anti-capitaliste notoire, que je qualifierai de flamboyant, et qui répond du nom de Slavoj Zizek, un nom simple, clair et approprié. L’homme est né à Ljubljana en 1949.
Ce que nous déclare, nous écrit, nous formule et défend publiquement ce Zizek barbu, au regard toujours sévère et mélancholique, eh bien, ce n’est pas du pipi de chat! J’avais déjà eu l’occasion de le renconter dans ce Paris agité, qui reste la Mecque des vieux soixante-huitards. Les paroles et les écrits de Zizek réveilleront brutalement un bon nombre de néo-libéraux somnolents, d’agents de la bourgeoisie, de sociaux-démocrates autoproclamés (à la Eric Defoort) ou d’autres démocrates aveuglés et égarés. Ses paroles en effet les arracheront à un sommeil très profond, à un sommeil de bourgeois très injuste et injustifié.
Je le répète, une fois de plus, pour nos lecteurs infatigables: ce que ce penseur pense est de grande fraîcheur, est tout d’originalité et témoigne d’un esprit rebelle et audacieux; cette pensée révèle une puissance de choc telle qu’elle nous force à abandonner définitivement les sentiers battus de la stupidité et de la médiocrité.
Cher lecteur, tu veux bien sûr que je te livre quelques exemples. Sois tranquille, je vais extraire de mes archives une longue citation, due à la plume de mon collègue Carel Peeters qui, le 5 septembre 2009, a recensé dans les colonnes de l’hebdomadaire “Vrij Nederland” le dernier ouvrage de Zizek, “Geweld” (= “Violence”) (publié chez Boom, 2009). Peeters écrit ce qui suit. Tiens-toi bien, lecteur, agrippe-toi aux branches de l’arbre, à tes bretelles à la mode qui t’ont coûté la peau des fesses, ou tout simplement à ta ceinture, celle que tu as dû serrer de quelques crans sous les effets de la crise. Et écoute: “Même si Zizek a des sympathies d’extrême-gauche, ces sympathies déboulent souvent dans le voisinage immédiat des droites. Il aime Karl Marx mais aussi de l’idéologue conservateur Carl Schmitt. Pour Zizek, l’Europe, et l’Occident en général, sont maintenus confits dans le sucre des jouissances du capitalisme. Le déploiement de l’individu en Occident depuis les années soixante, où chacun cultive ses propres désirs, son style de vie personnel et ses idées, n’a été possible qu’avec la globalisation capitaliste à l’arrière-plan, affirme Zizek. Tous ces gens sont aliénés par rapport à la vraie vie originelle. Ce qui les lie entre eux n’est rien d’autre que le capital. Toutes ces différences amusantes masquent uniquement l’injustice profonde qui est à la base de notre société hédoniste, confite dans cet édulcorant; elles masquent la réalité crue: que les hommes sont tous esclaves, qu’ils ne sont plus maîtres de leurs forces de production, comme ils devraient l’être selon la doctrine communiste”.
On le voit: Zizek énonce une dure vérité; et les dures vérités viennent souvent d’un coin d’où on ne les attendait pas, car, selon ce penseur slovène qui n’est pas si simple à comprendre (dans sa pensée se croisent et se mêlent les conceptions de Hegel, de Marx, de Benjmain et de Lacan), le fantôme du libéralisme hante l’Europe d’aujourd’hui. Je serai le dernier à le contrarier sur ce plan et le premier à encourager les lecteurs de “Meervoud” à lire ses livres; en néerlandais, on a déjà traduit “Het subject en zijn onbehagen” (= “Le sujet et son malaise”), “Welkom in de woestijn van de werkelijkheid” (= “Bienvenue dans le désert du réel”), “Schuins gezien” (= “Vu de biais”) et “Geweld” (= “Violence”). De surcroît, ce diable de Zizek aurait même écrit un “Plaidoyer pour l’intolérance” en 1998, que je veux me procurer d’urgence, et que je lirai. Zizek, visionnaire, y aurait dit que nous, en Occident, sommes dominés par une “tolérance humaniste molle”. Cette forte parole de Zizek m’interpelle; elle est une douce musique à mes oreilles. Oui, moi aussi, je pense que cette “tolérance humaniste molle” est l’une des racines des maux qui nous frappent.
Hendrik CARRETTE
(Commissaire politique à la Culture, l’Enseignement et l’Edification du Peuple).
(article paru dans “Meervoud”, Bruxelles, sept. 2009; trad. franç.: Robert Steuckers).
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