Ok

En poursuivant votre navigation sur ce site, vous acceptez l'utilisation de cookies. Ces derniers assurent le bon fonctionnement de nos services. En savoir plus.

dimanche, 08 décembre 2013

IL “NIET” DELL’UCRAINA ALL’UE: MITI E REALTÀ

9573.jpg

IL “NIET” DELL’UCRAINA ALL’UE: MITI E REALTÀ

Giuseppe Cappelluti

Ex: http://www.eurasia-rivista.org

Il 21 novembre 2013 il Primo Ministro ucraino Nikolaj (in ucraino Mykola) Azarov ha annunciato che il suo Paese non intende più firmare l’Accordo di Associazione con l’Unione Europea e che intende invece rilanciare le proprie relazioni commerciali con la Russia, l’Unione Doganale Eurasiatica e i Paesi della CSI[i] [1]. Nello stesso giorno, in una seduta parlamentare condita da forti polemiche e scambi di accuse, il voto contrario dei comunisti e del Partito delle Regioni attualmente al governo ha impedito il trasferimento a Berlino per cure mediche dell’ex Primo Ministro Julia Tymošenko, che l’Unione Europea aveva posto come una delle maggiori precondizioni per la stipula dell’accordo che avrebbe portato alla liberalizzazione degli scambi commerciali tra UE e Ucraina, salvo che per i prodotti agricoli[ii] [2].

Si tratta, probabilmente, dell’atto finale di una commedia che perdura ormai da diversi anni, e la cui conclusione ha lasciato sorpresi in molti. Dopo la guerra commerciale tra Ucraina e Russia dello scorso agosto e l’approvazione da parte del governo di alcuni dei provvedimenti in termini di giustizia, sistema elettorale e riforme economiche richiesti dall’Unione, la prospettiva che il Vertice di Vilnius previsto per il prossimo 29 novembre si sarebbe concluso con la sottoscrizione dell’Accordo di Associazione tra Unione Europea e Ucraina non era più così lontana. A metà ottobre, poi, il futuro europeo dell’Ucraina pareva ormai vicino quando il Presidente Viktor Janukovič annunciò la possibilità di concedere alla Tymošenko la possibilità di recarsi all’estero per cure mediche[iii] [3]. Ma così non è stato, e anzi gli ultimi giorni prima della decisione finale hanno visto un raffreddamento dei rapporti euro-ucraini e una parallela intensificazione dei contatti tra Janukovič e Putin. Un epilogo quasi preannunciato, malgrado tutto, e che non ha mancato di suscitare polemiche.

159637473.jpg

Dall’Occidente, come si può facilmente immaginare, sono arrivate forti critiche nei confronti di Janukovič e della Russia. L’Alto Commissario per la Politica Estera Catherine Ashton ha dichiarato che “la decisione è un fallimento non solo per l’UE, ma anche per il popolo ucraino” e il Ministro degli Esteri svedese Carl Bildt, uno dei protagonisti delle trattative tra l’UE e l’Ucraina per l’Accordo di Associazione, ha accusato la Bankova di essersi chinata alle “brutali pressioni” del Cremlino. Più contenuta la reazione del Ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle, il quale ha affermato che “l’Ucraina ha il diritto di scegliere quale percorso seguire”[iv] [4]. Anche la stampa occidentale è schierata in gran parte contro Janukovič e Putin. Deutsche Welle, ad esempio, titola “Le minacce russe bloccano l’accordo commerciale euro-ucraino”[v] [5], e il titolo del New York Times è sulla stessa lunghezza d’onda[vi] [6]. Non pochi, poi, hanno accusato Janukovič di aver sacrificato la prospettiva europea sull’altare dei propri interessi personali mantenendo in carcere una sua pericolosa rivale. Putin, dal canto suo, ha rispedito al mittente le accuse di minacce denunciando un “ricatto” dell’Europa nei confronti dell’Ucraina[vii] [7].

Si tratta, però, di posizioni che non focalizzano il problema, oltre a denotare una palese faziosità antirussa. La Tymošenko, infatti, è solamente la punta dell’iceberg, e se Azarov alla fine ha scelto di gettare la spugna i motivi sono soprattutto di natura economica. L’Ucraina, pur avendo un notevole potenziale agricolo e industriale, è stata notevolmente colpita dalla fine del sistema sovietico e dalla rottura dei legami tra le Repubbliche dell’URSS, ma il Paese, a differenza delle Repubbliche Baltiche, è stato incapace di sostituirli con qualcosa di nuovo. Allo stesso tempo, però, non ha potuto né voluto mantenere forti legami economici con la Russia e i Paesi della CSI come ha fatto la vicina Bielorussia. Questo limbo è dovuto in gran parte alle forti divisioni tra la popolazione ucraina: l’Ovest è culturalmente legato all’Europa, le regioni orientali e meridionali guardano verso la Russia e sono di religione ortodossa, mentre una porzione non marginale degli abitanti del Paese, pur ricordando i Russi sotto molti aspetti e parlando russo più che ucraino, guarda con favore alla prospettiva di entrare nell’Unione Europea e agli apparenti benefici che comporta quest’adesione, mentre vede la Russia in una luce tutt’altro che positiva. Tutto ciò ha limitato in maniera non indifferente lo sviluppo del Paese, condannato a oscillare tra Occidente e Russia ma senza diventare parte integrante dell’uno o dell’altra.

Negli anni Duemila l’Ucraina ha goduto di un buon andamento economico, ma la crisi del 2008 ha colpito il Paese molto duramente. Gli anni successivi hanno visto una leggera ripresa, ma il Paese continua ad essere uno dei più poveri d’Europa. La Naftogaz, la società nazionale degli idrocarburi nonché la maggiore azienda del Paese, è fortemente indebitata con Gazprom, anche a causa di quei contratti sfavorevoli al Paese sottoscritti nel 2009 dalla Tymošenko quando era ancora Primo Ministro[viii] [8]. Nel 2011 la prospettiva di una fusione tra Naftogaz e Gazprom in cambio di sconti sul gas è stata rigettata dal governo ucraino[ix] [9], mentre il passaggio al colosso russo della gestione  della rete di gasdotti, ma non della proprietà, è al momento bloccato in quanto tale passo richiederebbe l’approvazione di una riforma costituzionale[x] [10]. Il problema, però, resta: Kiev paga a Mosca prezzi esosi per il suo gas (400 dollari ogni 1000 metri cubi), e a fine ottobre Gazprom ha richiesto alla controparte ucraina un pagamento di ben 882 milioni di dollari per le forniture di gas di agosto, portando così il debito della compagnia a 1,4 miliardi[xi] [11].

I contratti firmati nel 2009 hanno valenza decennale, e la Russia si è mostrata disposta a una loro revisione solo in cambio dell’adesione dell’Ucraina all’Unione Doganale. Lo sconto proposto da Mosca consentirebbe a Kiev di risparmiare circa 8 miliardi l’anno[xii] [12], ma malgrado tutto il Paese non sembra intenzionato a compiere un passo che implicherebbe dire addio alla prospettiva europea. Il Paese, anzi, ha avviato da circa due anni una strategia per la riduzione della dipendenza dal gas russo, basata soprattutto sulla diversificazione degli approvvigionamenti e sullo sfruttamento delle riserve di gas non convenzionale (il cosiddetto “gas da argille” o shale gas)[xiii] [13]. Si tratta, però, di una mossa tardiva, che probabilmente non darà i risultati sperati, e in ogni caso la strategia di diversificazione degli approvvigionamenti portata avanti da Kiev è di gran lunga in ritardo nei confronti di quella delle vie di trasporto che la Russia porta avanti da più di quindici anni e che, con la futura entrata in funzione del gasdotto South Stream, potrà dirsi a pieno regime. E’alquanto probabile, quindi, che la Russia uscirà vittoriosa da questa “guerra”.

L’intreccio tra gas e politica è un altro grande problema dell’Ucraina odierna. La possibilità di offrire gas a prezzi politici è infatti un importante cavallo di battaglia per i politici ucraini, specie a ridosso degli appuntamenti elettorali, ma i vari governi hanno sempre osteggiato la possibilità di accettare una soluzione affine a quella bielorussa, che recentemente ha venduto alla Gazprom la società che gestisce la rete di metanodotti del Paese. Il risultato è che l’Ucraina, pur acquistando il gas a prezzi piuttosto alti, lo vende ai suoi cittadini a prezzi convenzionati, con conseguenze che si possono facilmente immaginare. Nel 2011 l’Ucraina ha dovuto chiedere un prestito di 15 miliardi di dollari al Fondo Monetario Internazionale, ma l’organizzazione pose come precondizione l’abolizione dei sussidi sul gas, e il rifiuto di Kiev segnò il fallimento dell’accordo[xiv] [14]. Un’analoga richiesta di prestito presentata all’FMI due anni dopo si è anch’essa risolta con un fallimento, e questo solo il giorno prima del gran rifiuto di Azarov[xv] [15]. Il fallimento delle trattative tra l’Ucraina e l’FMI ha avuto senza dubbio un ruolo cruciale nell’allontanare Kiev da Bruxelles e nel riavvicinarla a Mosca. Un riorientamento che ha già iniziato a dare i propri frutti: il 24 novembre, infatti, il Cremlino ha annunciato la propria disponibilità a una revisione dei termini dei contratti sul gas con l’Ucraina[xvi] [16].

Accanto alle questioni del gas e dei debiti, va ricordata quella della bilancia commerciale del Paese. Per la Russia un eventuale ingresso dell’Ucraina nell’Unione Doganale rappresenterebbe senza dubbio un grande successo geopolitico e morale, ma dal punto di vista economico i benefici sono più limitati, sebbene consentirebbe al mercato eurasiatico una maggiore autosufficienza e lo renderebbe più attraente agli occhi di esportatori e investitori stranieri. Ben maggiori sono invece i vantaggi per l’Ucraina: secondo alcune stime, infatti, gli sconti sul gas, l’abolizione delle misure protettive e delle barriere tecniche e la rimozione delle tasse sulle esportazioni garantirebbe al Paese esteuropeo guadagni pari a 11-12 miliardi annui[xvii] [17]. Ben diverso, invece, è il discorso nei riguardi dell’Accordo di Associazione con l’UE. L’industria ucraina, malgrado il suo potenziale, non è competitiva con quella dei Paesi europei, e si prevede che un’eventuale stipula dell’accordo provocherebbe un peggioramento del 5% della bilancia commerciale del Paese[xviii] [18]. L’impatto sarebbe particolarmente pesante nelle regioni orientali, polmone industriale del Paese nonché roccaforte elettorale di Janukovič, e agli inizi di novembre Azarov ha dichiarato che il Paese necessiterebbe di 150-160 miliardi di euro per allineare agli standard europei l’industria ucraina[xix] [19]. Ma l’UE non risulta particolarmente propensa ad aiutare Kiev: alla richiesta di quest’ultima di un prestito di 8 miliardi di dollari, infatti, Bruxelles ha risposto offrendone uno di 1 miliardo di euro (ossia circa 1,3 miliardi di dollari), e peraltro ha posto come condizione l’approvazione di tagli potenzialmente destabilizzanti per il Paese[xx] [20].

Nell’UE l’Ucraina sarebbe una seconda Grecia, mentre il suo habitat naturale sembra essere un’Eurasia dove il suo potere sarebbe secondo solo a quello di Mosca. Un Ucraino occidentale o particolarmente “patriottico” può dire che “l’Ucraina non è la Russia”, e ciò è sostanzialmente vero se si parla, ad esempio, di Leopoli o della Transcarpazia; ma, allo stesso modo, non è la Lettonia, e non ha la stessa propensione ai sacrifici che ha dimostrato Riga nel cammino che l’ha portata all’adozione dell’euro. Nella prima metà di ottobre Azarov ha dichiarato che “nulla vieta all’Ucraina di sottoscrivere l’Accordo di Associazione con l’UE e, nel contempo, creare un’area di libero scambio con l’Unione Doganale”[xxi] [21], ma quest’idea, all’apparenza la migliore soluzione per il Paese, non è fattibile per il tipo di rapporti che si sono venuti a creare tra Russia e Ucraina. I due Paesi, infatti, hanno frontiere sostanzialmente aperte, e l’abolizione dei dazi tra UE ed Ucraina provocherebbe, almeno secondo il Cremlino, un’invasione di prodotti europei a prezzi non gravati dai dazi sui mercati dell’Unione Doganale, rendendo così necessaria l’introduzione di misure protettive nei confronti di Kiev[xxii] [22]. Le perdite dovute alle sanzioni, a detta di Janukovič, si aggirerebbero attorno ai 15 miliardi di dollari, e ciò, per il Paese, sarebbe un’autentica pugnalata[xxiii] [23]. Il fatto che l’accordo di libero scambio con l’UE escluda i prodotti agricoli, che per l’Ucraina sono una delle maggiori merci di esportazione, non è propriamente di secondaria importanza.

La svolta del 21 novembre, che alcuni in Ucraina hanno già ribattezzato “il giovedì nero”, è senza dubbio una sconfitta non solo per l’Unione Europea, ma per l’intero Occidente, che malgrado l’impegno degli Stati Uniti si rivela più debole della Russia nello spazio ex-sovietico. Per la Russia, invece, si sta per chiudere un autunno denso di successi: la mediazione di Putin per prevenire l’intervento americano in Siria, la svolta eurasista dell’Armenia, le elezioni in Georgia e il miglioramento della posizione della Russia in una serie di indicatori economici. Ma la virata di Kiev verso l’Eurasia è tutt’altro che priva di risvolti positivi per l’Europa. La Russia forte e imperialista tanto osteggiata da politici europei e attivisti dei diritti umani, infatti, per l’Europa è di gran lunga meno pericolosa di una Russia debole. La Russia moderna, infatti, non è l’Unione Sovietica, e a differenza di quest’ultima non ha e né può avere ambizioni universaliste. L’assenza del ruolo dell’ideologia comunista obbliga il Paese a promuovere i propri interessi nel mondo non in quanto portabandiera della rivoluzione mondiale, ma in quanto Russia, e ciò riduce di molto il suo raggio d’azione impedendole di intervenire qualora non siano in gioco i propri interessi diretti o quelli di una nutrita schiera di cittadini russi o di Russi etnici. Allo stesso modo l’Unione Doganale, ispirata ai principi del libero mercato, non propone un ritorno al passato. Ma molte delle sfide che oggi la Russia si trova ad affrontare sono comuni all’Occidente: il fondamentalismo islamico, il traffico internazionale di stupefacenti, la stabilità di regioni potenzialmente a rischio come l’Asia Centrale. Per l’Europa, quindi, è di fatto più utile un’Ucraina filorussa che non un’Ucraina nell’UE: la prima contribuirebbe in maniera sostanziale al miglioramento della sicurezza e della situazione economica dell’Eurasia, la seconda si trasformerebbe inevitabilmente in una nuova Grecia. Ma, per vedere l’Ucraina fare domanda di ammissione nell’Unione Doganale (o, in alternativa, intraprendere seriamente il cammino dell’eurointegrazione), dovremo probabilmente attendere il 2015. L’anno delle prossime elezioni presidenziali.


[viii] [38] I contratti del 2009 sono stati la causa della condanna della Tymošenko a 7 anni di carcere per abuso di potere.

[xii] [45] R. Dragneva e K. Wolczuk, Russia, the Eurasian Customs Union and the EU: Cooperation, Stagnation or Rivalry?, Chatham House, Londra, 2012, p. 11.

'Israël en Saudi Arabië ontwikkelen super-Stuxnet virus tegen Iran'

'Israël en Saudi Arabië ontwikkelen super-Stuxnet virus tegen Iran'

Iraanse official: Obama heeft ons tot nieuwe strategische partner gemaakt

Ex: http://xandernieuws.punt.nl


De Iraanse kerncentrale in Bushehr was 3 jaar geleden één van de doelen van het Amerikaans-Israëlische Stuxnet virus.

Volgens het Iraanse persbureau Fars werken de inlichtingendiensten van Israël en Saudi Arabië samen aan een nieuwe, nog schadelijkere variant van het Stuxnet computervirus, dat in 2010 grote delen van het Iraanse nucleaire programma wist te ontregelen. Een Iraanse official wist te melden dat president Obama deze keer niet meedoet met de cyberoorlog, omdat hij van koers is veranderd en besloten heeft om Iran tot zijn nieuwe strategische partner in het Midden Oosten te maken.

Algemeen wordt aangenomen dat het originele Stuxnet-virus ruim 3 jaar geleden werd ontwikkeld door Israël en de VS. Als recente berichten kloppen, zou dit virus nog altijd de ronde doen en zowel een Russische kerncentrale als het Internationale Ruimtestation hebben bereikt.

In drie jaar tijd zijn de machtsverhoudingen op de wereld flink verschoven. Wie had ooit kunnen denken dat de Verenigde Staten, dat net als Israël jarenlang dreigde met militair ingrijpen, een radicale ommezwaai zou maken, en dat de inlichtingendiensten van Israël en Saudi Arabië zouden gaan samenwerken.

Saudi"s zien deal met Iran als 'westers verraad'

Dat is althans wat Fars beweert. Prins Bandar bin Sultan, hoofd van de Saudische inlichtingendienst, en Tamir Pardo, leider van de Israëlische Mossad, zouden op 24 november -kort na het tekenen van de interim overeenkomst met Iran- samen met hun beste cyberoorlogspecialisten in Wenen bij elkaar zijn gekomen om een virus te ontwerpen, dat erger is dan Stuxnet en dat de software van het Iraanse nucleaire programma moet gaan vernietigen.

Het project werd in gang gezet nadat de 5+1 machten hun handtekening onder het voorlopige akkoord met Iran zetten, dat door de Israëliërs een 'historische fout' en door de Saudiërs zelfs 'Westers verraad' werd genoemd.

Publiek geheime ontmoetingen

Dezelfde Iraanse bron 'onthulde' dat prins Bandar en Tamir Pardo elkaar meerdere malen hebben ontmoet in de Jordaanse havenstad Aqaba. Toen dit een publiek geheim werd, zou de Saudische kroonprins Salman bin Abdulaziz prins Bandar hebben gewaarschuwd dat de nauwe samenwerking met de Mossad het koninklijke huis toch zorgen baarde.

De bron wist ook te melden dat prins Bandar in het geheim naar Israël reisde, precies op het moment dat de Franse president Francois Hollande op 17 en 18 november op bezoek was in de Joodse staat. Bandar zou samen met de Israëliërs en Fransen hebben overlegd over hoe het Iraanse nucleaire programma alsnog een halt toe kan worden geroepen.

Diplomatiek schaakspel

Om diplomatiek tegenwicht te bieden, stuurde Iran minister van Buitenlandse Zaken Javad Zarif naar enkele Arabische Golfstaten, maar niet naar Saudi Arabië. Door prins Bandars samenwerking met de Mossad te benadrukken, hoopt men in Teheran de interne machtsstrijd over de troonsopvolging in Riyad verder aan te wakkeren. De Iraanse mullahs maken zich namelijk grote zorgen over de samenwerking van het land met Israël.

De 'onthulling' van deze samenwerking moet tegelijkertijd de interne oppositie in Teheran overtuigen hun verzet tegen de deal met de 5+1 machten op te geven. Iran zou, bijvoorbeeld als het weigert de afspraken met het Westen na te komen, anders alsnog alleen tegenover Israël en Saudi Arabië kan komen te staan.

Israëlische defensiespecialisten merken op dat de onthullingen wel door de Russische media, maar niet door de Westerse werden overgenomen. Dit zou kunnen duiden op een nauwe samenwerking tussen de Iraanse en Russische inlichtingendiensten.

 

Xander

(1) DEBKA

samedi, 07 décembre 2013

The Monroe Doctrine is History, But the Empire is Attacking Everywhere

1-monroe-doctrine-cartoon-granger.jpg

The Monroe Doctrine is History, But the Empire is Attacking Everywhere

Nil NIKANDROV - Ex: http://www.strategic-culture.org
 

U.S. Secretary of State John Kerry has announced the end of «the era of the Monroe Doctrine». On November 18 he gave a keynote speech on partnership with Latin America at the headquarters of the Organization of American States in Washington. For almost 200 years U.S. policy in the Western Hemisphere has been based on the doctrine named after the fifth president of the U.S., James Monroe, which declares that the countries of Latin America should not be seen by European powers as objects of colonization… 

«America for the Americans» - the United States used this slogan to mask the imperialist essence of the doctrine, which was used in the Cold War years to counter «Soviet expansion».  The Monroe Doctrine has been used to justify the suppression of revolutions in Guatemala and Chile, the physical elimination of popular leaders, and military operations against guerillas in Cuba, Nicaragua and other countries… 

The key point of Kerry's speech was the assertion that in today's historical conditions, the U.S. views the states south of the Rio Grande as «equal partners» which must «promote and protect...democracy,» «sharing responsibilities [and] cooperating on security issues». It is difficult to interpret these wordings clearly. On the one hand, Washington seems to be stating that it will not resort to armed intervention in the region to defend its «vital interests». On the other hand, the statements about «sharing responsibilities» and «cooperating on security issues» sound quite equivocal. Cooperating with whom, exactly? Against whom? And on what terms?

However, against whom the «cooperation on security issues» is to be directed follows from the speech itself. Kerry assailed Venezuela and Cuba with criticism. In his opinion, «democratic institutions are weakened» in Venezuela. Most likely Washington is irritated by the fact that the National Assembly voted to give President Nicolas Maduro special powers which he has already begun to use to stop the economic war on Venezuela (speculation, hoarding consumer goods and food, and undermining the purchasing power of the national currency, the bolivar). Venezuelans approve the measures being taken by President Maduro. The authority of the Bolivarian leadership has grown noticeably. In Cuba the head of the State Department is dissatisfied with the pace of the democratic process. Kerry stated that the U.S. hopes these processes will gain speed, that «the Cuban Government embraces a broader political reform agenda that will enable its people to freely determine their own future». And the U.S. would very much like the process of democratization in Cuba to take on a landslide-like character, similar to the process which destroyed the USSR. 

The U.S. has shelved the Monroe Doctrine, but it has not given up pressuring Latin American countries or conducting complex operations to destabilize them. Targeted propaganda attacks are carried out against undesirable leaders. Streams of slander pour down on Bolivian President Evo Morales, first and foremost because of his government’s «insufficient efforts» in fighting against illegal coca plantations and drug trafficking. And this when Bolivian intelligence agencies are battling fiercely with drug cartels financed, as a rule, though banks controlled by U.S. businessmen and the Drug Enforcement Administration (DEA). Morales gives as good as he gets, confident that the best defense is a good offence. He has more than once advocated handing over Barack Obama to a «tribunal of the peoples» to be tried for «crimes against humanity». His accusations were loudest of all in his address at the 68th session of the UN General Assembly. The Bolivian president claims that in order to maintain its dominant position in the world, the U.S. makes use of the most criminal of methods, extensively organizing conspiracies and assassination attempts. Morales has reduced contacts with representatives of the U.S. to a minimum, preferring to conduct business with China, Western European countries, Russia and Belarus. The president of Bolivia has threatened, «If we need to, we will close the U.S. embassy altogether». 

Washington has never ceased its hostile activities against Ecuador. After the CIA's failed attempt to get rid of President Rafael Correa using agents in the Ecuadorian police, the U.S. embassy is sparing no efforts to «reform» him. Adam Namm, the American ambassador in Quito, criticized President Rafael Correa for cultivating closer relations with Iran and Belarus. The response was immediate: «I am not surprised at his [Namm's] pronouncements, because the diplomat is new at these issues. Ecuador will not ask permission from anyone to maintain sovereign relations with whatever countries it wishes. It is enough to note how many countries where absolutely no elections are held at all have privileged relations with the United States. Absolute monarchies! So that's enough! We are not anyone's colony. While I am the president of this country, there will be no neocolonialism!»  Correa's harsh comments on Obama's pronouncements about the «exceptionalism of the American people», who are supposedly concerned with protecting the interests of «all humanity», are also conspicuous. The Ecuadorian president compared these claims with the «Nazi policy» of the Third Reich. 

In October Correa visited Russia, where he discussed, among other things, armaments cooperation issues and shipments of Russian armaments to Ecuador, in particular air defense systems, as well as an additional shipment of Mi-171E transport helicopters. Russia is interested in implementing several large oil and gas projects in Ecuador. The Ecuadorians are discussing prospects of intensifying military cooperation with China; recruiting Chinese specialists for the construction of an oil refinery (Refineria del Pacifico), to be completed in 2017, has also been proposed. Even now there are 60 Chinese companies working in Ecuador in the mining industry and road infrastructure construction. All of this is causing great concern in Washington, which is why the spying activities of American intelligence agencies have intensified in Ecuador. According to the site Contrainjerencia.com, in 2012-2013 the number of CIA personnel at the Ecuadorian station doubled. Agents with experience in subversive operations in Latin America are being sent to Ecuador: U. Mozdierz, M. Haeger, D. Robb, H. Bronke Fulton, D. Hernandez, N. Weber, A. Saunders, D. Sims, C. Buzzard, М. Kendrick and others. 

The problems which Washington is now having with Brazil and Argentina due to the scandalous revelations regarding the wiretapping of these countries' presidents, Dilma Rousseff and Cristina Fernandez de Kirchner, have yet to be resolved satisfactorily. The Americans have still not really apologized for the total espionage in these countries. And the espionage not only has not stopped, it has become more subtle, forcing national intelligence agencies to develop joint measures to combat the operations of the CIA, the NSA and U.S. military intelligence. At the same time, steps are being taken to create a system for fighting electronic espionage within the framework of the Union of South American Nations (UNASUR). In Mexico and the countries of Central America and the Caribbean Basin, American intelligence run things with almost no interference, unless you count Cuba and Nicaragua, whose counterintelligence agencies occasionally strike painful blows against the CIA's agent network.

Today the most important task for U.S. military and intelligence agencies is maintaining control of Honduras, which is often called the «unsinkable aircraft carrier of the U.S.» in Central America. There are already U.S. military bases located on the territory of Honduras, but the Pentagon is planning to build new air and naval bases. Washington's cynical interference in the election campaign which just took place in Honduras is yet another signal from the Obama administration to Latin America: we will protect our interests at any cost; no other outcome is acceptable to us. 

The «U.S.'s man» in the elections in Honduras is Juan Orlando Hernandez, the candidate from the conservative National Party. For over three years he headed the National Congress and contributed greatly to the consolidation of political forces hostile to ex-president Manuel Zelaya and his wife Xiomara Castro. It is she who was his main competitor in the elections as the candidate for the center-left Liberty and Refoundation Party (LIBRE). Hernandez supported the 2009 military coup d’état which led to the overthrow of Zelaya, maintains close ties with the military, and facilitated the expansion of the «security» functions of military personnel, including in fighting drug trafficking. 

For the U.S. embassy, not allowing Xiomara Castro to come to power is a matter of principle. Upcoming events will show how it will be resolved. In a radio interview with Radio Globo, Manuel Zelaya stated, «Xiomara has won the fight for the post of president of the republic. They [the Supreme Electoral Court of Honduras] are stealing the victory from Xiomara Castro. The Court's count does not stand up to statistical analysis. We do not acknowledge this result; we reject it». 

Lisa Kubiske, the U.S. ambassador in Honduras, actively interfered in the election process in order to guarantee victory for Hernandez. In essence, it is she who is Xiomara Castro's main rival. Whether the U.S. embassy will be able to ensure that Hernandez comes to power will be seen in the near future. But there is already information in the international media that in the process of counting the votes, he is leading by a wide margin.

vendredi, 06 décembre 2013

Ukraine : le coup d’état bruxellois

6699571.jpg

Ukraine : le coup d’état bruxellois
 
La démocratie totalitaire en action

Jean Bonnevey
Ex: http://metamag.fr

Il y a eu en Ukraine une révolution orange. On sait que c’était un leurre. Il s’agissait d’une opération préparée par les Usa et leurs alliés pour renverser un régime pro-russe au nom de la démocratie libérale alignée sur les intérêts économiques de l’occident. Le mouvement présenté comme spontané avait été préparé avec une formidable logistique mise en place par des mouvements humanitaires financés par les américains et dans un but de subversion démocratique.


Le résultat immédiat de la Révolution orange fut l'annulation par la Cour suprême du scrutin et l'organisation d'un nouveau vote le 26 décembre 2004 qui voit la victoire de Viktor Iouchtchenko avec 52 % des voix contre 44 % pour son rival Viktor Ianoukovytch. Sa présidence est cependant entachée de crises politiques multiples avec les gouvernements successifs. D'un point de vue géopolitique, la Révolution orange marque un rapprochement de l'Ukraine avec l'OTAN et avec l'Union européenne. Pro-européen convaincu, mais accusé de russophobie dans un pays très divisé entre l'est russophone et l'ouest plus pro-occidental, Iouchtchenko battra très vite des records d'impopularité. Il ne parviendra pas à gérer les problèmes de la crise économique mondiale de 2008-2010 dans un pays qui en est fortement affecté. La révolution orange était considérée comme close par la victoire du pro-russe Viktor Ianoukovitch à l'élection présidentielle ukrainienne de 2010. Quant à Iouchtchenko, il recueillera seulement 5,45 % des voix. Comme quoi !


Ce qui se passe aujourd’hui est peut être une deuxième révolution orange. En tout cas les manifestants contestent une décision d’un gouvernement légalement élu. C’est le refus de la signature d’un accord avec l’Europe de Bruxelles et un nouveau rapprochement avec Moscou qui est à l’ origine de ces manifestations qui veulent renverser le pouvoir, ce qui, n’en déplaise à Washington, est tout de même la définition d’une révolution.


Tout cela bien sûr est préparé pour stopper le retour en force de la Russie sur la scène internationale et rendre en fait à Poutine la monnaie de sa pièce de Damas. Ces manifestations sont devenues « incontrôlables » et leurs instigateurs utilisent des « méthodes illégales » pour renverser le pouvoir, s'est indigné dans la journée le premier ministre ukrainien, Mykola Azarov. « Ce qui se passe présente tous les signes d'un coup d'Etat. C'est une chose très sérieuse. Nous faisons preuve de patience, mais nous voulons que nos partenaires ne pensent pas que tout leur est permis », a-t-il ajouté. 


« Nous ne considérons certainement pas des manifestations pacifiques comme des coups d'Etat », a déclaré le porte-parole du président Barack Obama, Jay Carney. Emboîtant le pas aux diplomates de Bruxelles, le président français François Hollande et le premier ministre polonais Donald Tusk avaient condamné plus tôt « les violences ».


Les médias soutiennent la révolution et ont même trouvé une figure emblématique. Ce n’est plus une blonde ukrainienne mais une brute de boxeur qui serait également- pourquoi pas – un intellectuel  raffiné. Le chef du parti libéral Oudar est donc l'opposant le plus en vue. Cet ancien boxeur – il a été champion du monde dans la catégorie poids lourds – est entré en politique il y a quelques années pour rapidement s'imposer comme l'une des étoiles montantes de l'échiquier politique ukrainien. Malgré un physique impressionnant (2,02 m pour 110 kg) et sa forte médiatisation, son manque de charisme lui est reproché, tandis que sa légitimité politique reste à construire.


Candidat malheureux à la mairie de Kiev en 2006, le seul mandat qu'il a exercé est celui de député, depuis 2012. Ces derniers jours cependant, devant la foule de manifestants, ses discours étaient les plus applaudis et son nom fréquemment scandé. Klitschko, qui a fait de la lutte contre la corruption sa principale bataille, est respecté dans le pays pour avoir bâti honnêtement sa fortune, par ses victoires sportives, et non par des affaires frauduleuses.Voila la boxe devenu subitement  à nouveau pour les journalistes «  un noble art » et un sport éthique….adieu Rocky.


Reste à savoir si le judoka Poutine laissera ses alliés ukrainiens être mis Ko par un boxeur aux gants préparés par Bruxelles et Washington.

La voie ukrainienne

7871726482_cef3d6bf46_z.jpg

La voie ukrainienne

http://www.dedefensa.org

Bien entendu, les “images” abondent, c’est-à-dire les illustrations des habituelles narrative en développement pour ce genre de situation. («A broad desire to change the way their country is run is driving Ukrainians to the streets.», nous disent, la plume mouillée, Jana Kobzova et Balazs Jarabik, dans EUObserver le 3 décembre 2013.) Il y a, dominant le tout, la narrative vertueuse et pleine d’espérance démocratique de la “Révolution Orange-II”, qui a l’avantage, pour nombre de plumitifs de la presse-Système, d’user de la technique du “copié-collé” avec leurs articles de 2003-2004 pour nous présenter d’excellentes analyses-Système de la situation ukrainienne de 2013. Cela, c’est pour le décor de carton-pâte et la facilité de la lecture.

Les protestations de l’opposition ont commencé après le refus du gouvernement ukrainien de signer l’accord de coopération avec l’UE. Le lien entre les deux était évident, dans la narrative de convenance, et il a été aussitôt imposé comme allant de soi. Pourtant, la phase de la protestation n’est peut-être si complètement liée avec la question de l’accord UE refusé. C’est une interprétation qui est assez courante, et par ailleurs assez évidente ; c’est celle de Poutine, comme celle du Polonais Mateusz Piskorski, député et directeur du European Centre of Geopolitical Analysis, qui juge que si l’opposition qui tient la rue venait au pouvoir, elle-même ne signerait pas l’accord avec l’UE («I guess that even the opposition, if it comes to power in the coming months, wouldn’t be ready to sign free trade agreement with Europe...»).

Nous dirions que la phase des protestations de rue doit être détachée de la phase des négociations avec l’UE et de la rupture, pour être considérée en elle-même comme une crise interne ukrainienne, renforcée par les diverses forces extérieures de déstabilisation (celle-là, certes, sur le modèle de la “Révolution Orange”, bien entendu, avec les usual suspects, ou pour faire plus net, les coupables habituels, tout l’appareil “sociétal” de subversion et de déstructuration du bloc BAO). Finalement, la situation interne ukrainienne joue le rôle central, avec une prodigieuse corruption, touchant tous les appareils politiques, celui du gouvernement comme celui de l’opposition, une gestion grossière des situations de crise (les violences de la police), une tension endémique entre les deux parties du pays, s’opposant selon des fractures religieuses, ethniques, culturelles, etc., entre “pro-russes” à l’Est et “anti-russes” à l’Ouest. Tous ces éléments sont archi-connus et admis, d’une façon beaucoup plus évidente qu’en 2003-2004, d’autant que la situation n’a fait qu’empirer à cet égard. Le soi-disant pro-russe et président ukrainien Viktor Ianoukovitch et son gouvernement ne sont guère plus appréciés des commentateurs russes que des commentateurs du bloc BAO, et en général pour des raisons sérieuses, dénuées de l’affectivité sociétale qui marque les écrits des seconds. (Fédor Loukianov, le 29 novembre : «Mais l'esprit de compétition va se dissiper et on ignore toujours quoi faire avec ce pays voisin et aussi proche. Après tout l’Ukraine n'a fait aucun choix en faveur de Moscou, elle l’a une nouvelle fois esquivé en espérant pouvoir continuer à mener par le bout du nez les uns [l’UE] et les autres [la Russie]...») On citera ici plus en détails quelques observations sur la situation en Ukraine.

• Quelques observations sans ambages de Poutine (Russia Today, le 3 décembre 2013) lors d’une visite en Arménie, assorties de l’affirmation officielle que la Russie se tient de toutes les façons complètement en dehors des actuels événements, selon le principe de la souveraineté.

«“As far as the events in Ukraine are concerned, to me they don’t look like a revolution, but rather like 'pogrom'. However strange this might seem, in my view it has little to do with Ukrainian-EU relations,” Putin said. [...] “What is happening now is a little false start due to certain circumstances… This all has been prepared for the presidential election. And that these were preparations, in my opinion, is an apparent fact for all objective observers,” Putin stressed.

»He has said that now the Ukrainian opposition is either not in control of the protests, or it may serve as a cover-up for extremist activities. The footage from Kiev clearly shows “how well-organized and trained militant groups operate,” the Russian President said. Nobody seems to be concerned with the actual details of the Ukrainian-EU agreement, Putin said. “They say that the Ukrainian people are being deprived of their dream. But if you look at the contents of the deal – then you’ll see that the dream may be good, but many may not live to see it,” he argued. Putin then explained that the deal offered to Ukraine by the EU has “very harsh conditions”.»

• L’analyste William Engdahl estime que les événements actuels en Ukraine son essentiellement la réalisation d’un programme du bloc BAO, avec les USA “manipulant“ l’UE, avec les habituels outils de subversion (thèse de la “Révolution Orange-II”). Il met aussi en évidence la responsabilité de la direction ukrainienne. (Russia Today, le 2 décembre 2013.)

«First of all I think it’s quite right about the economic damage with the special association with the European Union. This was a Washington agenda and has been for more than six years. The EU is simply acting as a proxy for Washington to essentially strip Ukraine from Russia and weaken and isolate Russia even more. So the geopolitical stakes are huge in this.

»The Ukrainian police made a colossal blunder, the same as Milosevic made back in Yugoslavia, and the same blunder that Bashar Assad made at the onset of the protests in Syria – and that is to react with state violence, because that is exactly what the opposition was hoping and praying for: that they would lose their cool and give a red flag for the protesters to come out on mass. And that’s precisely what has happened.»

• Enfin, on citera le Polonais Mateusz Piskorski, interviewé le 2 décembre 2013 par Russia Today. Ses réponses, qui reprennent les lignes générales déjà vues, donnent des détails intéressants sur la situation interne de l’Ukraine et sur les événemets.

Russia Today : «Ukraine is a divided country, with the West ardently supporting European integration and the East historically more pro-Russian. Do you think the opposition intends to have some kind of dialogue with the easterners?»

Mateusz Piskorski : «I guess, first and foremost, all the protests that we can now see in the central squares and streets of Kiev are protests that have been raised or supported by some external factors and actors of the Ukrainian political scene. First, we see a huge professionalism of those who have organized the protests, because before the protests we heard about the activities of several embassies and NGOs financed and supported by different foreign countries. So we see this kind of pressure exerted by the external forces for the Ukrainian government to think once again about which geopolitical and geo-economic choice would be right and better for Ukraine. We can, of course, see the protests organized by the other side, by the Ukrainian Communist Party, by some members of the Party of Regions, which are in the eastern and southern towns of Ukraine. Unfortunately, in Europe and the United States we only see what is happening now in Kiev, but we cannot see the reaction of the other parts of Ukraine.» [...]

Russia Today : «Should the opposition succeed in overthrowing the government in Ukraine? Do you think the EU want to associate with such a turbulent nation as Ukraine?»

Mateusz Piskorski : «I think for the moment being any kind of association and signing a deeper and more comprehensive fair trade agreement between the EU and Ukraine would be a kind of economic suicide for Ukrainian side. If we look at the things which have happened during the last few months, I mean during the economic conflict between Russia and Ukraine, it was a clear proof that Ukraine’s economy is very closely connected to Russia. These are the ties that have remained from the Soviet times; we perfectly know that Ukraine is a part of the post-soviet economic area which is now integrating into the Eurasian bloc. We can tell only that the EU is not capable of compensating all the financial losses that Ukraine would encounter in case of closer cooperation with the EU. I guess that even the opposition, if it comes to power in the coming months, wouldn’t be ready to sign free trade agreement with Europe if it studies the possible results of such an agreement, as well as of the association agreement. This pro-European rhetoric aims at causing internal crisis and early elections, perhaps next year.»

D’une façon générale, on trouve dans ces diverses déclarations la confirmation des différents éléments déjà mentionnés : l’aspect catastrophique pour l’Ukraine de l’accord avec l’UE, la situation de corruption générale de la classe politique, l’absence d’habileté des réactions des autorités, l’intervention sans doute très importante d’éléments extérieurs de désordre et de déstabilisation. Certains détails, certaines précisions sont discutables. Il y a, notamment pour notre compte, l’analyse d’Engdahl faisant de l’UE un outil d’un “agenda” US : notre analyse est bien que l’UE agit dans ce cas sans nécessité d’impulsion ou d’“ordre” washingtonien, mais de son propre chef, selon l’impulsion-Système affectant tous les acteurs du bloc BAO dans la course à l’expansion et à la puissance quantitative. Bien entendu, les différents groupes et réseaux de déstabilisation US suivent, comme ils n’ont jamais cessé de faire en soutenant tout ce qui a un ferment de déstabilisation. Le but de déstabiliser les voisins de la Russie sinon la Russie elle-même est également évident, mais comme un comportement quasiment mécanique, se nourrissant de lui-même depuis la chute de l’URSS et surtout depuis 9/11. Il n’y a là-dedans rien de nouveau ni rien d’absolument efficace...

Le plus extrême de cette situation, d’un point de vue institutionnel, serait la chute de Ianoukovitch et l’arrivée au pouvoir de l’opposition. On se trouverait alors devant une nouvelle phase de la même séquence, aboutissant au délitement du nouveau gouvernement dans la corruption et le reste. Le seul facteur qui pourrait interrompre cette espèce d’évolution “en boucle” comme l’on dirait de l’inventeur du mouvement perpétuel serait une rupture opposant les deux parties du pays, la pro-russe et l’antirusse. Dans ce cas, le processus de déstabilisation-déstructuration de l’Ukraine passerait au stade du processus de déstabilisation-dissolution, toujours selon un cheminement classique des événements dans la crise générale qui nous affecte. On se trouverait alors devant des perspectives inconnues, les acteurs extérieurs étant cette fois directement concernés, mais des perspectives inconnues toujours marquées par les contraintes et les pesanteurs autant de l’Ukraine elle-même que de la domination du facteur de la communication.

Le principal enseignement se trouve plutôt dans le constat de la tendance au désordre de la situation considérée objectivement, et le constat de la tendance à accentuer le désordre de la part des acteurs du bloc BAO qui sont les principaux représentants du Système. On dira : rien de nouveau là-dedans, notamment par rapport au temps de la “Révolution Orange-I”, et alors pourquoi ne pas parler effectivement d’une “Révolution Orange-II” en reprenant les logiques et les accusations qui accompagnèrent l’événement ? Simplement parce qu’il s’est écoulée une quasi-décennie entre les deux événements, et si les composants ukrainiens (situation interne et interventionnisme déstabilisant) n’ont pas changé, par contre les situations internes du bloc BAO ont complètement basculé dans la crise ouverte. Dans ce sens, la poursuite des mêmes tactiques de déstabilisation et de déstructuration change complètement de sens et pourrait conduire, au niveau des relations internationales, avec le chaudron ukrainien toujours actif et conduit à une nouvelle phase paroxystique, à des situations de tension renouvelée ou accentuée, induisant alors par conséquence d’enchaînement indirect un désordre encore plus accentué où tous les acteurs seraient concernés.

C’est-à-dire qu’on ne peut revenir à la situation de la “Révolution Orange-I” où il semblait qu’une Russie encore affaiblie était assiégée par les acteurs occidentaux (non encore constitués en bloc BAO), semblant alors encore triomphants malgré les premiers revers (évolution de la situation en Irak). Aujourd’hui, la crise interne du bloc BAO, c’est-à-dire la crise du Système, et même la crise d’effondrement du Système, tout cela est partout présent et produit constamment des effets et des interférences aux conséquences insaisissables et souvent catastrophiques. Par conséquent, et à terme assez court, si le désordre en Ukraine se poursuit et débouche sur une nième déstabilisation du pays, la Russie en sera affectée, mais également le bloc BAO d’une façon ou d’une autre. En langage express des experts-Système, il s’agit d’une situation lose-lose classique, comme on en voit partout, avec la diffusion du désordre nihiliste caractérisant les effets des politiques en cours. A ce point du raisonnement, on irait même jusqu’à observer, malgré la proximité du nouveau foyer de désordre, que la Russie serait la première à réagir d’une façon constructive, si elle s'appuie comme elle a coutume de faire sur sa politique principielle de fermeté, contre le désordre anarchique des “valeurs” du bloc BAO. Et, certes, dans le cas contraire, si la situation en Ukraine s’apaise, ce ne sera que temporaire vu l’état intérieur du pays et surtout de sa direction, et le mécanisme de déstabilisation-déstructuration se manifesterait à une prochaine occasion.

Tout cela témoigne non pas d’affrontements ordonnés assortis d’“agendas” cohérents, notamment de type géopolitique, mais bien du tourbillon de désordre de l’ère psychopolitique. Chercher un vainqueur dans une telle occurrence n’a pas de sens, tout comme la situation elle-même. (Les résultats obtenus finalement, quelques années plus tard, par les diverses “révolutions de couleur” de la période 2003-2005, pourtant parties de bases infiniment mieux maîtrisées, sont éloquents à cet égard : accentuation du désordre partout où ces événements eurent lieu, renforcement de la Russie autour de sa politique principielle, qui en fait l’acteur le plus sûr mais tout de même sans capacité de vaincre ce désordre [voir le 2 décembre 2013].) Bien évidemment, si l’on s’arrête aux événements du jour, aux vociférations de foules plus ou moins malheureuses et plus ou moins manipulées à la fois, aux slogans du bloc BAO et à la narrative de ses commentateurs, on peut toujours s’exclamer devant la puissance du Système et à nouveau proclamer son invincibilité. Pour notre cas, nous verrons dans tout cela, selon notre analyse classique, la manifestation évidente de sa surpuissance se transformant instantanément en effets d’autodestruction.

Svoboda: nieuwe lieveling van de westerse media?

2343010171.jpg

Svoboda: nieuwe lieveling van de westerse media?

Ex: http://www.solidarisme.be

Svoboda is een Oekraïnse nationalistische oppositiepartij die deel uitmaakt van de Europese Alliantie van Nationale Bewegingen, waarvan ook de British National Party, het Franse Front National en het Hongaarse Jobbik deel uitmaken.

Niks bijzonders, ware het niet dat de (West-)Europese partners van Svoboda bij de westerse massamedia als extreem-rechts geboekstaafd staan en dus als politieke paria's behandeld worden. Svoboda, dat dezer dagen prominent aanwezig is op antiregeringsbetogingen in Oekraïne, kan daarentegen op een (schijnbare) voorkeursbehandeling rekenen. Aanleiding voor die onlusten was de weigering van de pro-Russische president Viktor Janoekovitsj om een associatieovereenkomst met de Europese Unie te ondertekenen.

Is dat overigens geen eigenaardig déjà vu? Toen Viktor Joestsjenko, de pro-westerse presidentskandidaat en latere president van Oekraïne, in 2004 door 'neonazi's' en 'skinheads' (zoals dat heet) bleek te worden gesteund en zelfs een beroep op hen deed, namen diezelfde westerse media dat immers ook voor lief:

De Vries, C. (30 december 2004). Neonazi's en skinheads steunen Joestsjenko, De Morgen/De Volkskrant, p. 6

De westerse media en opiniemakers kennen weinig scrupules als het erom gaat nieuwe 'wingewesten', zoals nu Oekraïne, in te lijven bij de EU (en uiteindelijk ook de NAVO). Zo ook hadden twee bekende nationale veiligheidsadviseurs van de Verenigde Staten, Henry Kissinger en later Zbigniew Brzezinski, in de jaren '70 geen scrupules toen ze, om de USSR te verzwakken, de diplomatieke betrekkingen met maoïstisch China herstelden (en Taiwan opofferden). Nochtans was maoïstisch China een regime dat de 'conservatieve' (poststalinistische) USSR in wreedheid en collectivistische waanzin vele malen overtrof:

'KOESTER HET GEWELD'

Al van bij de aanvang laat Dikötter er geen twijfel over bestaan dat Mao geweld en terreur koestert om z’n doel te bereiken. Mao haalt daarvoor de mosterd bij z’n sponsor en leidsman, Sovjet- dictator Jozef Stalin. Dikötter legt minutieus uit hoe Mao het gemeenschapsgevoel in de dorpjes kapot maakt door per se ‘klassen’ in te voeren - zoals ‘landheren’ - die er eigenlijk niet zijn. Daardoor zet hij iedereen tegen iedereen op. Bovendien introduceert hij grootschalig georganiseerd geweld tegen ‘contrarevolutionairen’. Mao werkt net als Stalin met quota: minstens één op de duizend tegenstanders moet worden omgebracht. Op tal van plaatsen wordt dat door ijverige communisten opgedreven tot drie op duizend. In totaal gaat het om miljoenen mensen die vaak zonder enige reden de dood worden ingejaagd. Dat schept een sfeer van angst en terreur in heel China. De oorlog in Korea, waarin China meegezogen wordt doet daar een schep bovenop.

Bron: De tragiek van de bevrijding - Frank Dikötter (cobratv.be)

Diezelfde pro-Chinese politiek leidde er overigens ook toe dat de VS het uitermate wreedaardige regime van de Rode Khmer ('Democratisch Kampuchea') bleven erkennen, ook nadat het allang met Vietnamese (en Russische) steun in het grootste deel van Cambodja was verslagen.

Eenzelfde verdeel-en-heers- of machtsevenwichtpolitiek werd nadien in Centraal Azië voortgezet door Brzezinski, die werkzaam was onder Jimmy Carter, de VS-president die als eerste de 'mensenrechten' tot thema maakte (waaruit zich vanaf de jaren '90 dan weer het 'humanitaire' interventionisme zou ontwikkelen). Hij had onder meer het lumineuze idee om in Afghanistan een internationaal netwerk van moedjahedien (jihadisten) op te richten en te bewapenen, om zo het Rode Leger tot een uitputtingsoorlog te dwingen en de USSR (verder) te verzwakken. Zo is Al Qaeda (alias De Basis) ontstaan vanuit de tactische berekening (misrekening?) van Brzezinski en als covert operation van de CIA:

Sinds het einde van de Tweede Wereldoorlog en sinds dat bewuste akkoord met de Saoedi's [het Quincy-pact, n.v.d.r.] is de Amerikaanse politiek in het Midden-Oosten zeer stabiel geweest : petromeum was de drijfveer. De Amerikanen hadden uit de Tweede Wereldoorlog een zeer belangrijke les getrokken : om een machtspositie te bekleden in de wereld is de bevoorrading in grondstoffen en brandstof van kapitaal belang. En de controle over de grondstoffen in de landen van het Zuiden was met de Koude Oorlog bijzonder complex geworden. Vandaar dat de oorlog in Afghanistan zo'n belangrijk moment is geweest in de Amerikaanse geschiedenis. Het ging hier om een oorlog met het Rode Leger, waarmee de Amerikanen wraak wilden nemen voor hun nederlaag in Vietnam. Vanaf 1979 hebben de VS deze oorlog gevoerd met hulptroepen : de omkadering was Pakistaans, de financiering - met publieke en privé fondsen - was Amerikaans en Saoedisch. Op die manier werden de meest radicale islamistische milities - zoals de groep van Gulbuddin Hekmatyar - gevormd, getraind en gefinancierd. Na de nederlaag en de terugtrekking van het Rode Leger uit Afghanistan is dit apparaat van de Amerikaanse politiek in deze regio niet verdwenen. De islamistische netwerken bleven onverminderd gesteund door de Pakistaanse geheime diensten (de ISI of Inter Service Intelligence), de Amerikaanse CIA en tal van privé agentschappen. Je zou kunnen stellen dat de Amerikanen uit louter bureaucratische overwegingen deze netwerken in stand hebben gehouden.

Bron: "Islamitisch fundamentalisme is vooral islam-business" aldus Richard Labévière (Uitpers)

Berucht om zijn machtsevenwichtpolitiek (en imperalisme) kreeg het Britse Rijk als bijnaam 'het perfide Albion' van de Franse keizer Napoleon. Tot in de recente geschiedenis zijn de voorbeelden van Brits verraad dan ook legio. Laten we even terugkeren naar, alweer, Oost-Europa. De Polen, die altijd al sterke anti-Russische sentimenten gehad hebben (kijk maar naar Brzezinski, zelf van Poolse afkomst), zijn na de Tweede Wereldoorlog behoorlijk bedrogen door hun westerse 'geallieerden'. Churchill en Roosevelt gaven Stalin hun Poolse vaderland op een serveerblaadje cadeau (en al wie Stalin niet zinde erbij). De massamoord op 25 000 Poolse officieren, bevolen door Stalin en bedoeld om van de Polen een volk zonder elite te maken, werd op het Nürnberg-tribunaal ei zo na niét in de schoenen van de 'boze nazi's' geschoven. Stalins beulen mogen al van geluk spreken dat de slachting nooit werd berecht! Maar wacht even: was Polen niet de aanleiding voor heel de Tweede Wereldoorlog? En hebben Polen niet hun leven gegeven, in het bijzonder bij de slag om Monte Cassino, om hun vaderland terug te krijgen zoals het was? Stalin, die drie weken na Hitler zélf Polen was binnengevallen, mocht de door hem veroverde gebieden in Oost-Polen - in strijd met alle beloftes en charters! - behouden. De geallieerden hebben hem ook nooit de oorlog verklaard, zoals ze dat na de Duitse inval met Hitler deden...

Who Started WWII - Lecture by Victor Suvorov

De westerse media en opiniemakers doen niets anders dan dit spel van machtsevenwichten meespelen. Natuurlijk houden ze niet écht van Oekraïnse nationalisten, laat staan van primaire xenofobe boneheads (zoals die die in het oudere artikel hierboven werden opgevoerd). En natuurlijk houden ze ook niet écht van de islamistische 'haatbaarden' van Al Qaeda of Al Nusra in bijvoorbeeld Syrië. Het is dan ook niet slim om bijvoorbeeld over 'linkse' media te spreken en zich daarop blind te staren, zoals een nieuwskanaal dat zich ReAct (van reactionair?) noemt zo vaak doet. De houding van de media is 'dialectisch' net zoals de geopolitiek van het Westen en net zoals het liberalisme zelf: een spel van alles en zijn tegendeel. Van links én rechts dus, voor zover ze het stempel 'politiek-correct' hebben gekregen, d.w.z. de regels van het spel en de (onderliggende) waarden en denkbeelden van het liberalisme aanvaarden of gewoon (tijdelijk) bruikbaar zijn om een bepaald doel te bereiken (bijv. bepaalde jihadisten). De beste (geo)politieke 'strategen' zijn degenen die zich bewust zijn van het 'vloeibare' karakter van deze machtsstructuur en aldus (letterlijk en figuurlijk) een 'bewegingsoorlog' in plaats van een 'stellingenoorlog' kunnen voeren. Zodoende waren figuren als Kissinger of Brzezinski in staat om hun eigen (ideologische) tegenstanders in (tactische) medestanders te veranderen en hen als pionnen op een schaakbord vooruit te schuiven. Daarbij werden ze niet gehinderd door enige scrupules, in de veronderstelling dat ze die hebben natuurlijk...

Zbigniew Brzezinski to Jihadists: Your cause is right!

Hetzelfde perfide, 'anglofiele' en liberale Westen probeert de laatste jaren met alle mogelijke middelen (telegeleide 'burgerbewegingen', denktanks, lobby's, ngo's, massamedia enz.) onrust te stoken in de onderbuik en zelfs in het hart van Rusland. Het doel is daarbij vooral de onrust zélf, ook al hebben de liberale opiniemakers natuurlijk meer sympathie voor Femen (tegenwoordig gepatroneerd door de Oekraïnse 'filantroop' Vadim Rabinovitsj) en voor Pussy Riot dan voor etnische en religieuze separatisten, die evenzeer op tijd en stond vanuit het Westen werden en worden gesteund, en wel om het centrale gezag van Moskou te ondermijnen (bijv. American Committee for Peace in Chechnya). Als Russische nationalisten door Poetin vervolgd worden, krijgt dat echter véél minder weerklank. En toch, ook tijdens de betogingen tegen diens herverkiezing waren de zwart-geel-witte rijksvlaggen van de Russische (Slavische) nationalisten prominent in beeld. Ze hadden en hebben hun plaats in de 'bonte' oppositiecoalitie die zich toen rond voormalig schaakkampioen Gary Kasparov en vandaag vooral Alekseij Navalny geschaard heeft. Als etnische nationalisten hebben zij vooral een afkeer van het feit dat Rusland een Russische Federatie, m.a.w. een meervolkerenstaat is. Dat maakt hen op zijn minst tot een potentiële bondgenoot van de westerse strategen:

“To understand Russian nationalism, even racism, you need to realize that despite their political, cultural, and numerical dominance, many Russians see themselves a nation without a state,” Sean Guillory of the University of Pittsburgh's Center for Russian and Eastern European Studies wrote in The Nation.

Bron: The Kremlin Is Losing Control of the Nationalist Movement It Helped Create (The Atlantic, 8 november 2013)

De westerse geopolitiek bespeelt dus 'links' en 'rechts' om door het stoken van onrust 'pluralisme' (lees: verdeeldheid) ingang te doen vinden in relatief homogene samenlevingen, met relatief gesloten economieën en een relatief sterk centraal gezag. En dat pluralisme is uiteindelijk niets anders dan de voorbode van multiculturalisme en nationale desintegratie naar westers model. Het is een 'spel' van zaaien en oogsten. En de 'oogst' of, beter gezegd buit, die bestaat uit de onmetelijke bodemrijkdommen en staatseigendommen waar westerse bedrijven geen rechtstreekse toegang toe hebben. Op langere termijn hopen strategen als Brzezinski, die Anglo-Amerikaanse geopolitiek bedrijven naar het voorbeeld van Halford Mackinder, dat nergens in Eurazië een tegenmacht kan opstaan voor hun eigen neokoloniale, unipolaire wereldorde.

lundi, 02 décembre 2013

Tajikistan remains of highest strategic value for Russia and India

Tajikistan remains of highest strategic value for Russia and India

 

Relations with Russia are of a dual nature, although it is believed that Tajikistan is one of the main allies in the region. Photo: Tajik President Emomali Rahmon (L) and Vladimir Putin. Source: Olesya Kurlyaeva/RG

Few were surprised that acting head of the state President Emomali Rahmon won the Tajikistan presidential elections with 83.6 percent of the votes. Experts believe that the courses taken by Emomali Rahmon in the last ten years will continue. This means that the coming years will be very difficult for both the president and his country.

A complete economic collapse in Tajikistan and instability in the neighboring Afghanistan, which the U.S. military will partially vacate next year, may lead to internal disturbances in the republic. To keep the situation under control Rahmon is trying to follow a multi-vector foreign policy, relying, in extreme cases, for outside help.

Relations with Russia are of a dual nature, although it is believed that Tajikistan is one of the main allies in the region. The republic accommodates the 201st Russian military base, which will remain there until 2042 according to the agreement. However, the ratification of the relevant treaty was delayed by the parliament, controlled by Rahmon for a whole year. All this time, Tajikistan extracted various concessions out of Russia.

The Ayni conondrum

Rahmon promised to rent out the Ayni military airfield near the Tajik capital to India, Russia and the US. All three countries are interested in obtaining the lease of the site. However, the president’s "multi-vector" policy complicated the situation so much that now the potential tenants are unclear about the status of the base.

India spent a significant amount of money over the last decade developing Ayni, hoping that it would be a major base for the strategically important region. New Delhi is very serious on the Ayni air base project to gain a strategic foothold in Central Asia and improve its C3I (Command, Control, Communications and Intelligence) network to fortify its operations in Afghanistan and keep a close eye on Pakistan. India has however met with Russian resistance as Moscow has been unrelenting in its stand that it doesn’t want foreign powers to deploy fighter aircraft in its backyard and a former territory.

Ayni Air Force Base, also known as Gissar Air Base, is a military air base in Tajikistan, just 10 km west of the capital Dushanbe, which served as a major military base of the Soviet Union in the Cold War era.

The situation with Ayni shows that Tajikistan is not really in position to sign a consistent and binding agreement and that Dushanbe may be left with nothing.  “Rahmon will seek preferences in the supply of arms in lieu of renting out the base,” says Azhdar Kurtov, an expert of the Russian Institute of Strategic Studies.

Dushanbe’s bargaining chips

In exchange for the ratification of the agreement on the 201st Russian military base, Moscow promised to expand a free education program in Russian military academies for citizens of Tajikistan and to provide $200 million worth of arms to the republic. In addition, Moscow has modified work permit laws for citizens of Tajikistan, allowing them to work in Russia for up to 3 years. This is relevant for Dushanbe - according to the Russian Federal Migration Service there are more than 1.2 million citizens of Tajikistan in Russia, who this year alone remitted $3.5 billion to their home country.

However, even such a dangerous dependence on Moscow does not discourage Dushanbe from demonstrating its activity in relation to other countries. For example, until recently it seemed that the US was paying considerable attention to Tajikistan. For a while, the United States and NATO were sizing the option to withdraw troops from Afghanistan via Tajikistan, but Pakistan’s conditions regarding this issue were far more suitable for the West.

Such behaviour periodically makes experts say that Tajikistan is slipping away from Russia’s influence to China, India, Iran, or even the United States. Elena Kuzmina, Manager of the Sector for Economic Development at the Institute of the economy of post-Soviet states recognizes that in the past two years, in fact, it was China that has become a major trading partner and investor in Tajikistan. Russia is only in the second place. Chinese investment accounted for 40 percent of total investments in the Tajik economy. In addition, China provides grants for the construction of infrastructure projects. With the support of the Celestial Empire, Tajikistan was able to implement large-scale projects in the energy and communication sectors.

“It would still be improper to say that Tajikistan is moving away from Russia,” says Kuzmina. There is cooperation between Moscow and Dushanbe in many areas. According to Kuzmina, it would be more accurate to say that Tajikistan has expanded the scope of its economic interests, and will continue to try to expand and diversify its cooperation with various countries.

Azhdar Kurtov also believes that there will be no sharp geopolitical fluctuations, not to mention a change of Dushanbe’s main external partner. “The republic has no oil or gas and because of the high-altitude terrain, production of other resources is more expensive.  Its geographical location does not allow the deployment of a large-scale construction, including, for example, transport communications, which Tajikistan has pinned high hopes on. Attempts to refocus on Iran by creating a union of three Persian-speaking countries (Tajikistan, Iran and Afghanistan), were not successful, “Kurtov said.

dimanche, 01 décembre 2013

Is the Superpower Afraid of Iran?

0419_MALO_iran2_t607.JPG

Is the Superpower Afraid of Iran?

Buchanan-Pat.jpg“Iran’s Nuclear Triumph” roared the headline of the Wall Street Journal editorial. William Kristol is again quoting Churchill on Munich.

Since the news broke Saturday night that Iran had agreed to a six-month freeze on its nuclear program, we are back in the Sudetenland again.

Why? For not only was this modest deal agreed to by the United States, but also by our NATO allies Germany, Britain and France.

Russia and China are fine with it.

Iran’s rivals, Turkey and Egypt, are calling it a good deal. Saudi Arabia says it “could be a first step toward a comprehensive solution for Iran’s nuclear program.”

Qatar calls it “an important step toward safeguarding peace and stability in the region.” Bahrain, Kuwait and the United Arab Emirates have issued similar statements.

Israeli President Shimon Peres calls the deal satisfactory. Former Military Intelligence Chief Amos Yadlin has remarked of the hysteria in some Israeli circles, “From the reactions this morning, I might have thought Iran had gotten permission to build a bomb.”

Predictably, “Bibi” Netanyahu is leading the stampede:

“Today the world has become a much more dangerous place because the most dangerous regime in the world has taken a significant step toward attaining the most dangerous weapon in the world.”

But this is not transparent nonsense?

In return for a modest lifting of sanctions, Tehran has agreed to halt work on the heavy water reactor it is building at Arak, to halt production of 20-percent uranium, to dilute half of its existing stockpile, and to allow more inspections.

Does this really make the world “a much more dangerous place”?

Consider the worst-case scenario we hear from our politicians and pundits — that Iran is cleverly scheming to get the U.S. and U.N. sanctions lifted, and, then, she will make a “mad dash” for the bomb.

But how exactly would Tehran go about this?

If Iran suddenly moved all its low-enriched uranium, to be further enriched in a crash effort to 90 percent, i.e., bomb grade, this would take months to accomplish.

Yet, we would be altered within hours that the uranium was being moved.

Any such Iranian action would expose Barack Obama and John Kerry as dupes. They would be discredited and the howls from Tel Aviv and Capitol Hill for air and missile strikes on Natanz, Fordo and Arak would become irresistible.

Obama and Kerry would be forced to act.

War with Iran, which would mean a shattered Iran, would be a real possibility. At the least, Iran, like North Korea, would be sanctioned anew, isolated and made a pariah state.

Should Iran test a nuclear device, Saudi Arabia would acquire bombs from Pakistan. Turkey and Egypt might start their own nuclear weapons programs. Israel would put its nuclear arsenal or high alert.

If, after a year or two building a bomb, in an act of insanity, Iran found a way to deliver it to Israel or a U.S. facility in the Middle East, Iran would be inviting the fate of Imperial Japan in 1945.

So, let us assume another scenario, that the Iranians are not crazed fanatics but rational actors looking out for what is best for their country.

If Iran has no atom bomb program, as the Ayatollah attests, President Hassan Rouhani says he is willing to demonstrate, and 16 U.S. intelligence agencies concluded six years ago and again two years ago, consider the future that might open to Iran — if the Iranians are simply willing and able to prove this to the world’s satisfaction.

First, a steady lifting of sanctions. Second, an end to Iran’s isolation and a return to the global economy. Third, a wave of Western investment for Iran’s oil and gas industry, producing prosperity and easing political pressure on the regime.

Fourth, eventual emergence of Iran, the most populous nation in the Gulf with 85 million citizens, as the dominant power in the Gulf, just as China, after dispensing with the world Communist revolution, became dominant in Asia

Why would an Iran, with this prospect before it, risk the wrath of the world and a war with the United States to acquire a bomb whose use would assure the country’s annihilation?

America’s goals: We do not want a nuclear Iran, and we do not want war with Iran. And Iran’s actions seem to indicate that building an atom bomb is not the animating goal of the Ayatollah, as some Americans insist.

Though she has the ability to build a bomb, Iran has neither conducted a nuclear test, nor produced bomb-grade uranium. She has kept her supply of 20-percent uranium below what is needed to be further enriched for even a single bomb test. Now, she has agreed to dilute half of that and produce no more.

If Iran were hell-bent on a bomb, why has she not produced a bomb?

Just possibly, because Iran doesn’t want the bomb. And if that is so, why not a deal to end these decades of sterile hostility?

B52 EN ASIE : UNE PENTE DANGEREUSE

 

lee_photo_A2.jpg

B52 EN ASIE : UNE PENTE DANGEREUSE

Les stratèges américains en plein chambardement

Michel Lhomme
Ex: http://metamag.fr

Nous l’avions écrit: le prochain théâtre de guerre sera asiatique et en partie maritime (l’Océan Pacifique). Deux bombardiers américains B-52 ont pénétré dans la très controversée « zone aérienne d'identification » (ZAI) mise en place par la Chine.  Cette zone est récente et même très récente puisque elle date tout simplement de samedi dernier ! On nous dit que les Etats-Unis n’en auraient pas référé à Pékin mais heureusement puisque cette ZAI n’existe pas dans les textes ! Les avions US, qui n'embarquaient aucune arme mais sans doute de bons outils de renseignements, ont décollé de l'île de Guam dans le Pacifique lundi soit à peine deux jours après l’annonce unilatérale chinoise. Le soutien des Américains à leur allié japonais est donc total.

Aucun plan de vol n'avait été déposé au préalable auprès de la Chine et la mission s'est déroulée "sans incident". Les deux avions sont restés "moins d'une heure", - ce qui est assez long - dans la dite "zone aérienne d'identification". Ils attendaient sans doute les avions de chasse chinois que Pékin s’est bien gardé d’envoyer. Cette "zone aérienne d'identification" a suscité l'opposition ferme et justifiée du gouvernement japonais car elle englobe les îles Senkaku, îles fermement revendiquées par Pékin sous le nom de Diaoyu. Mais la ZAI chinoise de samedi va aussi plus loin : elle englobe des eaux revendiquées par Taïwan et la Corée du Sud, ces derniers ayant également manifesté leur mécontentement après la décision de Pékin.

CHINA_-_JAPAN_-_Diaoyu-Senkaku.jpgDans sa déclaration de samedi, la Chine exigeait que tout appareil s'aventurant dans cette ZAI fournisse désormais au préalable son plan de vol précis, affiche sa nationalité et maintienne des communications radio permettant de "répondre de façon rapide et appropriée aux requêtes d'identification" des autorités chinoises, sous peine d'intervention des forces armées. Le ton est monté lundi entre Tokyo et Pékin à la suite de la décision chinoise d'imposer cette zone de contrôle aérien. Le même jour et en solidarité avec son allié japonais, le colonel Warren, porte-parole de la Défense américaine a qualifié la mesure chinoise d'"incendiaire". Des responsables du Pentagone ont alors précisé que les avions de l'armée américaine continueraient de voler dans cette région comme avant, sans soumettre de plans de vol à Pékin au préalable.

Le différend territorial entre les deux puissances asiatiques s'est aggravé depuis septembre 2012, lorsque le Japon a nationalisé trois des cinq îles qui appartenaient à un propriétaire privé nippon. Cette décision avait entraîné une semaine de manifestations anti-japonaises violentes en Chine, et une forte contestation de Pékin. Le Japon fit de son côté patrouiller ses garde-côtes dans les mêmes eaux et ce chassé-croisé avait suscité les craintes d'un éventuel incident armé entre les deux puissances.

B52 dans le Pacifique mais lâchage en Afghanistan

Par ailleurs, poursuivant leur politique de « changement de pivot stratégique », la conseillère de sécurité nationale américaine Susan Rice en visite à Kaboul a prévenu le président afghan Hamid Karzaï qu’il ne serait « pas viable » de retarder la signature de l’accord de sécurité entre leurs deux pays. Elle a haussé le ton en affirmant que sans signature rapide d’un accord réciproque, les Etats-Unis n’auraient d’autre choix que de prévoir un après-2014 où les troupes américaines et de l’Otan ne seraient plus présentes .Le gouvernement de Karzaï se retrouverait seul et sans appui financier. Sans le dire ouvertement, les USA affirment qu’ils sont prêts à lâcher l’Afghanistan, quitte à  entériner un retour taliban dans le secteur. Un peu déroutant tout de même pour nos défunts soldats : pour qui, pourquoi sont-ils morts finalement ?

La relation entre les Etats-Unis et l’Afghanistan est extrêmement tendue. L’enjeu est la signature du traité bilatéral de sécurité (BSA) que Washington et Kaboul négocient actuellement depuis plusieurs mois. Kharzaï ne cesse de faire monter les enchères. La Loya Jirga, grande assemblée traditionnelle afghane, a pourtant approuvé dimanche le Traité, qui doit définir les modalités d’une présence militaire américaine en Afghanistan après le départ des 75 000 soldats de l’Otan. En fait, d’ores et déjà, ce retrait fait craindre une recrudescence des violences dans le pays et même une offensive taliban au printemps prochain entraînant une déstabilisation de la partie indienne ou pakistanaise.

Pour précipiter cette signature, la Maison Blanche tente de jouer des divisions locales et s’est donc vivement félicitée de l’approbation du Traité bilatéral de Sécurité par la Loya Jirga pachtoune. Elle demande des comptes à Kharzaï ! Or, ce dernier aurait énoncé de nouvelles conditions pour signer l’accord et aurait même indiqué qu’il n’était pas prêt à signer rapidement.

Hamid Karzaï est aux abois 

Il souhaite que la promulgation de l’accord ait lieu après l’élection présidentielle d’avril 2014, à laquelle cependant la Constitution lui interdit de se présenter. Les Etats-Unis ont refusé catégoriquement les nouvelles exigences de Karzaï et répondu que « retarder la signature jusqu’aux élections de l’année prochaine n’était pas viable, car cela ne donnerait pas la clarté nécessaire aux Etats-Unis et à l’Otan pour planifier leur présence après 2014. L'absence d’un BSA signé mettrait en danger les promesses d’aides faites par l’Otan et d’autres pays aux conférences de Chicago et Tokyo en 2012 ».

La diplomatie a aussi des perspectives économiques. En Iran, les entreprises automobiles américaines s’apprêtent à revenir dans le pays, satisfaites au passage d’avoir pu, avec l’aval du blocus occidental, éliminé les compagnies françaises concurrentes, Renault et Peugeot ! En fait, on n’est pas vraiment sûr que la diplomatie française ait compris les changements d’alliances en cours, qu’elle ait réellement pris la mesure de la rapidité avec lequel les Etats-Unis, très bien informés sur l’état réel de la défense chinoise sont aujourd’hui déterminés à pivoter à cent quatre vingt degrés. Ils ont accéléré l’accord sur le Sahara occidental et renforcé l’alliance militaire avec le Maroc. Ils sont en train  d’éclaircir leurs positions en Amérique latine tout cela pour se concentrer ensuite sur le Pacifique et l’endiguement de la Chine. Il serait peut-être temps que le Quai d’Orsay se réveille. Mais après tant de décisions irrationnelles, le peut-il encore vraiment sans se désavouer totalement ?

samedi, 30 novembre 2013

Brzezinski sentencia el fin de la hegemonía de EU

por Alfredo Jalife-Rahme

Ex: http://paginatransversal.wordpress.com

En un panel de gran trascendencia, debido a los alcances prospectivos del imperativo ajuste a la política exterior de EEUU, celebrado el 22 de noviembre en la Escuela de Estudios Internacionales Avanzados (SAIS, por sus siglas en inglés) de la Universidad Johns Hopkins –considerada la más influyente en el listado de las universidades estadounidenses–, fue examinado por notables geoestrategas domésticos un libro de Charles Gati (director de Estudios Rusos y Euroasiáticos en el Instituto de Política Foránea): Zbig: estrategia y el arte de gobernar de Zbigniew Brzezinski.

A mi juicio, el contenido del trascendental panel de marras (http://www.youtube.com/watch?v=OHzoXLxXlwY) debe formar parte del acervo de las universidades globales interesadas en el rumbo geoestratégico de los próximos años que se ha empezado a desplegar en el planeta que vive el fin de la era de la hegemonía unipolar de EEUU que solamente duró 13 años, según Brzezinski, quien se explayó generosamente sobre su visión del acomodamiento en curso entre las tres superpotencias –EEUU, Rusia y China–, lo cual es notorio en el arreglo diplomático para salir del embrollo en Siria –sin despreciar el sorprendente ascenso de Irán, que evidentemente no es una superpotencia, pero que puede desempeñar un relevante papel regional, lo cual ha empezado a causar reverberaciones telúricas en la nueva correlación dramática de fuerzas en el golfo Pérsico, en particular, y en el gran Medio Oriente, en general.

Brzezinski –ex asesor de Seguridad Nacional del presidente Carter e íntimo de Obama, y creador conceptual de latrampa islámica de Afganistán, donde se inició la implosión de la URSS–, propone que EEUU debe llegar a un acomodamiento inteligente con Irán. Sin duda.

Brzezinski es muy crítico sobre la ignorancia de la opinión pública de EEUU, que no conoce al mundo y que es presa de la demagogia de los noticiarios que promueven sus agendas interesadas.

Incluso profiere que, a excepción de cuatro o cinco multimedia en EEUU que informan con credibilidad los asuntos mundiales, los restantes medios domésticos peroran sobre temas que ignoran y que confunden a la opinión pública que sobrereacciona, malentiende o ignora, lo cual perjudica la toma de decisiones de la Casa Blanca.

El principal escollo subyace en que los candidatos a sitios de representación popular llegan a sus puestos con una visión muy limitada y hasta primitiva (¡supersic!) del mundo, al unísono de su ignorancia de la historia universal. A mi juicio, tal constituye primordialmente uno de los signos letales de la decadencia de los imperios cuya nesciencia deshumanizada les hace perder tanto universalidad civilizatoria como magnanimidad ética y estética.

Pese a la percepción contraria, Zbig considera que Daddy Bush y Obama conocen profundamente la agenda de la política exterior de EEUU y explaya que medios extranjeros como BBC, TV-24 Horas de Francia y Al-Jazeera, son mejores que los canales de EEUU, obsesionados con noticias medicales, para aportar una mejor visión de los eventos globales.

Claro: en cuanto se refiere al mundo occidental, ya que a Brzezinski se le pasa por alto la obligatoriedad para cualquier hacedor de la política exterior de enterarse dialécticamente de las opiniones relevantes de los multimedia de Rusia y China, las noticias notables son ya también tripolares.

Por cierto, Russia Today (24/10/13) abunda sobre los días contados de la hegemonía de EEUU en la visión de Brzezinski, para quien “la convicción en nuestro excepcionalismo y universalismo, son al menos prematuras desde el punto de vista histórico”. Brzezinski sentencia que la hegemonía global es inalcanzable para quien sea cuando el mundo sufre una transformación dramática después de una lucha por la hegemonía que fue la realidad dominante y que duró 200 años desde la era napoleónica. En el mundo de hoy la hegemonía global no es más posible debido al despertar político global de la era digitálica.

A mi juicio, más que una vulgar traducción onírica, el términodespertar en EEUU es muy profundo, en el sentido teológico del protestantismo. En el asunto de Siria juzga que EEUU, pero al mismo tiempo EEUU hubiera podido fracasar si la situación se hubiera vuelto explosiva, lo que llevó a un cierto acomodamiento entre ambos. Juz­ga que lo mismo sucedió con los chinos, que ya están entrando a jugar en el proceso iraní debido a las limitaciones inherentes de una probable explosión regional: No existe una solución militar sencilla en Siria que puede ser regional en escalada. Pregona la prudencia en un conflicto regional que puede afectar también a la misma Rusia y China, quienes hubieran visto sus intereses vitales afectados. Sugiere que hoy se deben tomar decisiones más cuidadosas en no comprometerse, aunque sean justificables por imperativos morales, debido a que las consecuencias de comprometerse demasiado pudieran ser desastrosas, ya que la estrategia hoy es más compleja porque tiene que tomar en consideración a Rusia y a China, además de que existe un despertar político global que desencadena fuerzas políticas que ninguna superpotencia puede fácilmente controlar, contener o reprimir.

Lo más relevante de lo proferido por Brzezinski es que desde hace mucho EEUU no gana una sola guerra: ni la de Corea, ni Vietnam ni Afganistán ni Irak. Pronostica que China no nos va a atacar hipotéticamente en los próximos 20 años, pero si China desarrolla capacidades sin precedentes, como la ciberguerra, podemos ser derrotados súbitamente en un solo día sin saber que fuimos derrotados.

Después de 13 años como superpotencia desde 1990, hemos retrocedido dramáticamente y lo más probable son conflictos ambiguosque no entiende la opinión pública, por lo que es imperativo que los hacedores de la política exterior tomen cursos de negociación, autocontrol y cooperación con otros con quienes debemos compartir las responsabilidades en el mundo.

El despertar político global causará más conflictos en un mundo más anárquico, por lo que exhorta a la moderación y a la respuesta colectiva (sic) en el contexto de un nuevo mosaico globalNo estamos en la posición dominante de hace 20 años; ya no seremos los únicos omnipotentes que en los pasados 20 años y difícilmente nos recuperaremos en la próxima generación, cuando el mundo se perfila a un multilateralismo ambiguo en medio del desorden y la incertidumbre que serán la realidad prolongada donde EEUU deberá buscar socios más que aliados que compartan nuestros básicos intereses en estabilidad económica (¡supersic!) y social.

Insta a acercarse a la Unión Europea sin excluir a China cuando en un periodo de 20 a 30 años se desplegará lo más complejo de las relaciones internacionales. Pronostica que probablemente EEUU sea prominente pero no más la superpotencia hegemónica.

A mi juicio, Brzezinski propone para EEUU el papel de algo así como el primum inter pares –primero entre iguales– en el nuevo (des)orden tripolar de regionalismos emergentes que deberá compartir con Rusia y China.

Debo agregar que aquellos países que se ajusten convenientemente a la nueva realidad geoestratégica tripolar correrán menos riesgos de fracasar.

27/10/2013

www.alfredojalife.com

Twitter: @AlfredoJalife

Facebook: AlfredoJalife

In Syrië ontluikt een Koerdische Lente

In Syrië ontluikt een Koerdische Lente

door Dirk Rochtus

Ex: http://www.doorbraak.be/

Volgt er op de Arabische Winter een Koerdische Lente? Ook in het noorden van Syrië verstevigen de Koerden hun positie. Een conferentie in de Belgische Senaat boog zich over de toekomstplannen van ‘Rojava’ of Syrisch Koerdistan. 

De hele twintigste eeuw door streden de Koerden, die verspreid leven over Irak, Iran, Turkije en Syrië, voor meer autonomie binnen deze staten. Er vloeide veel bloed; foltering, verbanning en dood vielen vele Koerdische militanten ten deel. Maar hun ‘gastheren’, de staten die hen dulden, geraakten vaak verwikkeld in buitenlandse conflicten en van de daaruit volgende interne verzwakking konden de Koerden ook profiteren. Saddam Hoessein overspeelde zijn hand in conflicten met de buurstaten en met de Verenigde Staten van Amerika (VSA) en daardoor konden de Koerden in het noorden van Irak hun autonomie uitbouwen. Turkije kreeg de PKK, de Koerdische separatistenbeweging in eigen land, niet klein, evenmin als de  BDP, de partij die als belangenvertegenwoordiger van de Turkse Koerden in het nationale parlement in Ankara zetelt. Bovendien beging de Turkse premier Tayyip Erdoğan de strategische fout om de oppositiebeweging tegen de Syrische president Basr al-Assad te ondersteunen. Deze laatste reageerde daarop door de Koerden in het noorden van zijn land meer ruimte te geven. Niet alleen kon hij zich zo in de strijd tegen de opstandelingen concentreren op voor hem meer vitale regio’s, maar bovendien zette hij ook een Koerdische pad in de korf van Erdoğan. Want Turkije is als de dood voor een autonome Koerdische regio in het noorden van Syrië, een gebied dat wordt gecontroleerd door de Democratische Eenheidspartij (PYD), een zusterorganisatie van de gehate PKK.

Rojava

In Syrië leven bijna drie miljoen Koerden, een tiende van de Syrische bevolking. Twee miljoen ervan leven verspreid over drie regio’s in het noorden van Syrië, in Efrîn (een half miljoen), Kobanê (400 000) en Cizîre (1,2 miljoen). De Koerden hebben het hier over West-Koerdistan of Rojava (terwijl ze het zuidoosten van Turkije Noord-Koerdistan, het noorden van Irak Zuid-Koerdistan en het Koerdische deel van Iran Oost-Koerdistan noemen). Alleen cartografen geraken hier het noorden niet kwijt. Assad liet de Syrische Koerden na tientallen jaren onderdrukking los maar dat betekende niet dat ze zich geen zorgen meer moesten maken. Moslimextremisten zaaiden de laatste maanden terreur in Rojava, het Koerdische gebied van Syrië. De Koerden vochten terug tegen deze nieuwe vijand en slaagden erin rust en orde in de regio te doen weerkeren. Samen met vertegenwoordigers van de Arabische en Assyrische bevolkingsgroepen en andere Koerdische partijen heeft de PYD op 12 november een conferentie georganiseerd om te beraadslagen over de toekomst van de regio. Het resultaat ervan is de installatie van een Overgangsregering en van een parlement met 82 afgevaardigden. De Koerden ontkennen dat dit een eerste stap naar afscheuring van Syrië zou zijn. De bedoeling zou erin bestaan om een democratische vredelievende orde in het leven te roepen waaraan een toekomstig pluralistisch Syrië zich zou kunnen spiegelen.

Internationaal

De vraag of dit democratisch project kans op slagen heeft, maakte het voorwerp uit van een conferentie die senator Karl Vanlouwe (N-VA) samen met het Koerdisch Instituut en het Centrum Maurits Coppieters op vrijdag 22 november in zaal M van de Belgische Senaat organiseerde. Verschillende grote namen uit de Koerdische Beweging zoals Salih Muslim, covoorzitter van de PYD, kwamen er het nieuwe project toelichten. Van Vlaamse kant en met het oog op de internationale context namen Ludo De Brabander, stafmedewerker bij Vrede vzw en VRT-journalist Rudi Vranckx het woord. De Brabander wierp zijn licht op de ‘Internationale actoren en hun bondgenoten’. Zonder in complottheorieën te willen vervallen, dichtte hij gas en olie toch een belangrijke rol toe in de conflictsfeer waarin het Midden-Oosten baadt. De ontdekking van olie- en gasvoorraden in de maritieme zone van Cyprus roept Rusland, dat een basis heeft in de Syrische havenstad Tarsus, op het voorplan; de ontsluiting van gasvoorraden in de Perzische Golf versterkt de rivaliteit tussen Iran en Katar, terwijl deze laatste een transportroute over land zoekt als alternatief voor de Straat van Hormuz. Het hoeft dan ook niet te verwonderen dat Iran en Katar in de kwestie Syrië met gekruiste degens tegenover elkaar staan.

Vranckx zocht een antwoord op de vraag waarom de burger in het Westen schoon genoeg heeft van alles wat het Midden-Oosten en inzonderheid Syrië te maken heeft. Er leeft heel wat wantrouwen bij de westerlingen tegenover de ‘Arabisch-islamitische wereld’, zo van ‘het zijn allemaal terroristen’. Op den duur wagen zelfs Westerse journalisten zich niet meer in het land, zo gevaarlijk is het geworden, en zeker sinds het fenomeen targeted killing opgang maakt. In 2013 werden er liefst 53 journalisten vermoord, en dan zijn er nog heel wat die ontvoerd worden of vermist zijn. Westerse nieuwsagentschappen sturen hun journalisten niet graag meer naar Syrië en zo wordt het natuurlijk moeilijk om een juist beeld van de situatie te krijgen. Ludo De Brabander vergeleek de huidige door terroristen verziekte sfeer in Syrië met het Bosnië van de jaren ’90. De fundamentalistische groeperingen die er toen lelijk huis hielden, zijn na het vinden van een politieke oplossing gemarginaliseerd en De Brabander denkt dan ook dat hetzelfde zal gebeuren in Syrië.

Hoop

Misschien kunnen de Koerden van hun kant bijdragen tot zo’n politieke oplossing voor Syrië. In Noord-Irak hebben ze bewezen dat ze voor democratie en voor law and order kunnen zorgen. Als dat ook lukt voor Syrië, groeit er wellicht hoop voor de wijdere regio. De Arabische Lente is volgens vele analisten uitgedraaid op een Arabische Winter maar de Koerdische Lente is nog niet in de knop gebroken. Vraag is natuurlijk wat Turkije gaat doen. Ankara heeft geen goed oog in het succes van de PYD en vreest dat de groeiende autonomie van de Syrische Koerden de eigen (Turkse) Koerden op ‘gedachten’ zou kunnen brengen.

Vindt u dit artikel informatief? Misschien is het dan ook een goed idee om ons te steunen. Klik hier.

- Dirk Rochtus - chef Buitenland (25.11.2013)

Iran nuclear deal could change balance of power in Middle East

At a meeting in Geneva, the five permanent members of the UN Security Council plus Germany (known as the P5+1) have reached a deal with Iran according to which the Islamic Republic will halt enrichment of uranium above 5 percent purity and dispose of its stockpile of 20-percent-enriched uranium by diluting it to less than 5 percent.

In addition, the country’s nuclear facilities in Fordo and Natanz will come under IAEA control, while the construction of a heavy-water reactor at Arak, capable of producing plutonium, will be halted.

In return, the P5+1 group, or – to be more precise – the United States and the EU, have agreed to ease some of the sanctions against Iran. This will allow Iran to resume limited trade relations with the United States in the oil and gas, petrochemical and automotive sectors as well as trading in gold and precious metals. The resulting benefit for Iran will amount to $5-7 billion.

However, this deal is not just about the money.

The P5+1 group tabled their demand that Iran shut down and dismantle its already operating centrifuges. This and other provisions of the deal allowed Iran to claim that its key demand – a recognition of its right to enrich uranium – had been met.

Russian Foreign Minister Sergei Lavrov offered the following clear summary of the essence of the compromise: "This deal means that we agree that it is necessary to recognize Iran's right to peaceful atoms, including the right to enrichment, provided that the questions that remain to the Iranian nuclear program and the program itself come under strict control of the IAEA. This is the final goal, but it has already been set in today's document."

The opponents of the deal insist that Iran has thus retained the potential to create a nuclear weapon. The whole of its uranium enrichment infrastructure remains intact.

A disappointed Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu said: "I emphasize: the deal does not envisage the elimination of a single centrifuge.”

Many experts have already pointed out that such a large nuclear infrastructure as Iran’s, which consists of some 17,000 enrichment centrifuges, is needed if a country has 12-15 operating nuclear plants that have to be supplied with fuel rods. However, so far Iran has only one nuclear power plant, in Bushehr, which receives its fuel from Russia.

The Iranians have a hard time trying to explain why they need so many centrifuges, but they are ready for any form of control, including video cameras, meters and snap inspections.

The willingness of the United States to agree to the deal also requires some explanation. Why has the country’s attitude to the Iranian nuclear program undergone such a sudden change?

Why were American diplomats engaged in secret talks with Iran for nearly a year? After more than 30 years of hostility, why has Washington has decided to relent on some of its demands?

Granted, Mahmoud Ahmadinejad has been replaced by Hassan Rouhani, but the president of Iran is in effect no more than the head of government. All matters of principle are decided by Ayatollah Khamenei, Iran's spiritual and supreme leader – and there, nothing has changed.

The answer may have more to do with American domestic politics than Iran itself.

In the early 1970s, the United States suffered a devastating defeat in Vietnam. Then the Watergate scandal forced President Richard Nixon to resign under threat of impeachment.

It was at that moment, putting all sentiments aside, that the United States resorted to an unprecedented rapprochement in relations with the Communist China.

Today, the U.S. is coping with failures in Iraq and Afghanistan, the challenges of the Arab Spring, and allies that would like to drag the United States into military operations in Libya and Syria – the goals of which would be difficult to communicate to ordinary Americans.

The time may be right for the U.S. to engage with Iran, which is ready to fight for leadership in the Middle East with the oil monarchies of the Gulf.

Such a move could restore the balance of power in the Middle East to the situation that existed prior to the 1979 revolution when Iran served as a counterbalance to Saudi Arabia.

jeudi, 28 novembre 2013

Mais c’est où le «CentreAfrique»?

hibiscusBEAx2.jpg

Mais c’est où le «CentreAfrique»?

Après l’AOF voici le retour de l’AEF

Jean Bonnevey
Ex: http://metamag.fr

Dans les atlas anciens, le rose indiquait les territoires immenses de l’empire de la république française.Il y avait en Afrique noire, l’Aof (Afrique occidentale française) et l’Aef, (Afrique équatoriale française).  Le mali c’était l’Aof, le CentreAfrique sous un autre nom l’Aef. Dans le premier pays, la colonisation  a été motivée par les menaces islamo esclavagistes et dans l’autre par les cruautés tribales. Prétextes peut-être, prétextes sans doute, mais fondés sur des réalités comme les si désintéressées guerres humanitaires de la France socialiste d’aujourd’hui.

Lundi  dernier, la France a soumis à ses partenaires du Conseil de sécurité un projet de résolution visant à renforcer la Misca, avec la perspective éventuelle de la transformer en force de l'ONU de maintien de la paix, impliquant le déploiement de casques bleus en CentreAfrique. Selon l'ambassadeur français Gérard Araud, cette résolution pourrait être adoptée dès la semaine prochaine. M. Araud a affirmé n'avoir constaté « aucune résistance » aux propositions françaises. « Tous les pays partagent la même préoccupation (..), le même constat alarmant ». Le vice-secrétaire général de l'ONU, Jan Eliasson, a déclaré que l’organisation « donnait la priorité à une opération de maintien de la paix » et que les membres du Conseil avaient souligné « de manière assez unie » la nécessité de déployer des casques bleus en RCA.

Devant le Conseil, M. Eliasson a réclamé une « action rapide et décisive » en République centrafricaine « pour éviter que la crise n'échappe à tout contrôle ». Il a agité le spectre d'un « conflit religieux et ethnique », entre chrétiens et musulmans, qui pourraient mener à des « atrocités généralisées ». La RCA risque aussi de « devenir un vivier pour les extrémistes et les groupes armés », selon lui. « Il y a une insécurité généralisée », « de graves crimes de guerre et crimes contre l'humanité sont commis en Centrafrique », a insisté de son coté le premier ministre de la RCA, estimant que « la France a les moyens, militaires, financiers et diplomatiques pour que son action soit efficace ».
 

PHOba4fe2fa-34b8-11e3-95fe-3bac7a191126-805x453.jpg

 
« Une opération coup de poing, limitée dans le temps, pour rétablir l'ordre et permettre une amélioration de la situation humanitaire », indiquait une source au ministère de la défense à Paris. « Il se produit en Centrafrique des actes abominables. Un chaos, des exactions extraordinairement graves. Nous devons agir », a répété, le jeudi 21 novembre, François Hollande qui, depuis septembre, s'est emparé du dossier. La veille de cette déclaration, le chef de l'Etat avait convoqué un conseil restreint de défense. Plusieurs options ont été proposées par le ministre de la défense, Jean-Yves Le Drian. Selon plusieurs sources, l'hypothèse la plus probable est de porter les effectifs militaires français en RCA à environ un millier d'hommes. Depuis le coup d'Etat du 24 mars 2013 par les rebelles de la Seleka contre le président Bozizé, le pays n'en finit pas de s'enfoncer dans une crise humanitaire et sécuritaire. 

Les racines du mal sont bien expliquées par le professeur Lugan : « Ceux qui font régner la terreur à Bangui sont les héritiers des bandes islamistes mahdistes et de celles de Snoussou qui razziaient les peuples de la forêt et du fleuve avant la colonisation. Comme quasiment partout en Afrique, le problème est d’abord ethnique et il est à l’origine de l’instabilité récurrente que connaît cet artificiel pays, quadrilatère de 623 000 km2, non-Etat présentant de grandes différences géographiques, donc humaines, entre des régions sahéliennes, des espaces soudanais, des savanes centrales, une forêt  méridionale et des régions bordières du fleuve.
Le 15 mars 2003 le général François Bozizé, un Gbaya, ethnie originaire de l’ouest du pays, accéda aux affaires au moment où tout le nord de la RCA était touché par la contagion du conflit soudano-tchadien.
A la fin du mois de décembre 2012, quelques centaines de combattants appartenant à de petites tribus nordistes et islamisées, dont les Gula et les Runga, appuyés par des Soudanais et des Tchadiens, avancèrent vers Bangui, la capitale, groupés dans un hétéroclite mouvement créé pour la circonstance et qui prit le nom de Séléka (coalition en langue sango). Le pillage de Bangui débuta alors, suivi par le massacre des Gbaya et des chrétiens. L’anarchie gagna ensuite l’ensemble du pays, les bandes du Séléka se livrant à un pillage en règle des populations cependant que Michel Am Nondroko Djotodia président autoproclamé le 24 mars 2013 était totalement dépassé par les évènements. »

En fait le CentreAfrique c’est l’ancien  Oubangui Chari dont il convient de rappeler l’histoire qui commence en fait avant la colonisation. La colonisation de l'Oubangui-Chari a commencé avec l'établissement de l'avant-poste Bangui en 1889. Le territoire fut appelé Oubangui-Chari .Le territoire était contesté par le Sultan d’Égypte. Ce n'est qu’après la défaite des forces égyptiennes que la France a établi une administration coloniale dans ce territoire en 1903.

Le « Territoire de l’Oubangui-Chari » est créé par le décret du 29 décembre 1903, portant organisation du Congo français et dépendances. Le « Territoire de l'Oubangui-Chari » est administré, par délégation du commissaire général au « Congo français et dépendances », par un administrateur civil portant le titre de « délégué permanent » et résident à Bangui.

Le décret du 11 février 1906, portant réorganisation des possessions du Congo français et dépendances, unit le « Territoire de l'Oubangui-Chari » au « Territoire militaire du Tchad » et les érige en « Colonie de l’Oubangui-Chari-Tchad ». En 1910, il devint l’un des territoires de la fédération de l’Afrique-Équatoriale française (AEF), avec le Tchad, le Moyen-Congo et le Gabon, tout d’abord en tant que territoire unifié sous le nom « Oubangui-Chari-Tchad », puis en tant que colonie autonome en 1915.Une partie importante de l’Ouest est cédée à l’Allemagne et récupérée en 1914. Plus grand que la France, l’Oubangui est, de 1928 à 1931, le théâtre de troubles qui s’étendent jusqu’au sud du Tchad. Rallié à la France Libre dès août 1940, il suit ensuite l’évolution des États d’AEF. Il change de nom pour devenir République centrafricaine au lendemain du référendum sur l’appartenance à la Communauté française, le 28 octobre 1958.
 
Cette République proclame son indépendance en 1960: une nation factice, en proie aux haines religieuses et ethniques, un visage du mal africain post colonial.
 

14970226-old-isolated-over-white-coat-of-arms-of-central-african-republic.jpg

mardi, 26 novembre 2013

Russia and Middle East Policy: Story of Success and Growing Clout

russia-egypt.jpg

Andrei AKULOV

Ex: Strategic-Culture.org

Russia and Middle East Policy: Story of Success and Growing Clout

Resurgent Russia is asserting itself in the Middle East as a big an important international player. The recent diplomacy that averted a U.S. strike on Syria underscored the extent to which Moscow’s steadfast support for its last remaining Arab ally has helped to solidify its role. Russian President Vladimir Putin has emerged as the world leader with the single biggest influence over the outcome of a raging war that is threatening the stability of the broader region. Meanwhile new alliances and old friendships are being revived reaching out to countries long regarded as being within the Western, predominantly US, sphere of influence. Egypt, Jordan and Iraq are exploring closer ties with Moscow at a time when the Obama administration fails to come up with clear-cut regional policy.

Iraq

On October 16 Iraqi Prime Minister Nuri al-Maliki’s top media adviser said that that Baghdad had begun receiving arms from Russia under a historic $4.3-billion deal it signed last year but then scrapped amid corruption allegations. A review conducted, Baghdad had ultimately decided to keep the agreement. It makes Russia the Iraq’s second-largest arms supplier after the United States to herald its return to a lucrative Middle East market.

Iraqi officials announced at the start of the year that Baghdad had canceled the contract due to corruption allegations that were not spelled out. “We really did have suspicions about this contract,” the Iraqi government’s media adviser Ali al-Musawi told Russia’s RT state-run broadcaster. “But in the end the deal was signed. We have currently started the process of implementing one of the stages of this contract.” (1) The shopping list includes 40 MI-35 and Mi-28NE attack helicopters (4 rotary wing aircraft added as a bonus to make the deal really lucrative), as we’ll as 42 Pantsir-S1 surface-to-air missile systems. In case of helicopters, the number 40 justifies the creation of helicopter service center on Iraqi soil.  Further discussions were also held about Iraq’s eventual acquisition of MiG-29 jets and heavy armored vehicles along with other weaponry. Musawi said Iraq was primarily interested in acquiring helicopters that could be used by the military to hunt down suspected rebels staging attacks across the war-torn country. Alexander Mikheyev, deputy general director at Russian state arms exporter Rosoboronexport, said in late June that the helicopter contract also covers pilot and technical personnel training and the delivery of essential weapons systems. This is the first contract with Iraq under the package agreement, he added. (2)

By the end of last month it was reported that the northern Kurdistan regional government ordered 14 light helicopters from US MD Helicopters formally for local security forces and medical emergencies. Allegedly the rotary wing aircraft will join the inventory of Peshmerga armed formations.  Unlike in the case of the US, Baghdad may not worry about Moscow, military cooperation with Iraqi Kurds is not on its agenda.  Washington also looks disapprovingly at Iraq’s contacts with Iran, while Iraq felt small when its peace proposals on peaceful management of Syria’s conflict were ignored by Washington. Iraq’s Prime Minister put forward the detailed plan this August with no response from the US.  Iraqi Prime Minister Nouri al-Maliki has made two trips to Moscow in the past year and none to the United States.

Jordan

 According to RIA-Novosti news agency, on November 15 an official from Russia’s state arms exporter Rosoboronexport said Jordan is interested in locally assembling Russian-designed helicopters and anti-tank missile systems. “Our Jordanian colleagues have shown interest in setting up domestic assembly of portable Kornet anti-tank missile systems and several types of helicopters,” said Mikhail Zavaly, head of the Rosoboronexport delegation at the Dubai Air Show 2013. Russia’s Kornet-E system, produced for export, has a firing range of up to 5,500 meters (18,000 feet) and features semi-automatic laser-beam guidance with a thermal imaging site. The system, armed with missiles using dual warheads with shaped charges, is highly effective against tanks with reactive or explosive armor as well as against fortified buildings and helicopters. In May this year Jordan has already launched licensed production of Russian-designed Nashab RPG-32 portable rocket-propelled grenade launchers, which the Jordan Times (3) reports is superior to the RPGs that are currently used by the Jordanian armed forces. Jordan is manufacturing weapons as part of a joint venture with Russia. The plant, which manufactures RPG-32 Hashim launchers, is located about 20 kilometers northeast of Jordan’s capital, Amman. It has been built and equipped by the Jordanian side, whereas Russia’s Rosoboronexport is supplying components for the assembly of the grenade launchers and is overseeing the production process. (4)

On October 25 Jordan announced that it has selected Russian state-owned firm Rosatom as its preferred vendor to construct two 1,000-megawatt (MW) nuclear power plants at a site near Qusayr Amra, some 60 kilometres northeast of Amman and at the edge of the northern desert by 2022. As part of the decision, the government and the Russian firm have entered negotiations over electricity pricing in order to reach a final agreement and break ground on the reactors by 2015. Energy officials listed the safety track record of the firm’s AES92 VVER1000 reactor technology among the main advantages of the Russian bid, which beat out shortlisted French firm AREVA’s experimental ATMEA1 reactor and Canadian AECL’s CANDU technology.

No doubt financial arrangements played an important role. Under the proposal Rosatom has agreed to take on 49 per cent of the plants’ $10 billion construction and operation costs on a build-own-operate basis with the government shouldering the remaining 51 per cent and retaining a majority share in the plants.

The proposal mirrors a similar agreement struck by Rosatom and Turkey in 2010, under which the firm is set to construct four 1,000MW reactors at a $20 billion price tag.

Officials say the deal aims to help achieve energy independence in Jordan, which imports around 97 per cent of its energy needs at a cost of over one-fifth of the gross domestic product, and bring stability to a sector that has been impacted by ongoing disruptions in Egyptian gas.  

Jordan has become the third Arab state to pursue peaceful nuclear energy, with the UAE set to build four reactors with a combined 5,600MW capacity by 2020 and Egypt reaffirming earlier this month its plans to establish a 1,000MW reactor by the end of the decade. (5)

On November 15 His Majesty King Abdullah and a visiting Russian Agriculture Minister Nikolai Fedorov stressed their commitment to boosting cooperation between the two countries and to maintain coordination and consultation vis-à-vis various regional issues of mutual concern. At a meeting with and the accompanying delegation, the King highlighted cooperation prospects and means to develop them in the various sectors, mainly agriculture, tourism, transport and energy as well as in economic fields. The minister is co-chairing the joint Jordanian-Russian Intergovernmental Commission’s meetings in Amman. Fedorov asserted Russia’s commitment to strengthening its relations with the Kingdom and to maintain coordination on all issues of mutual concern, stressing Russia’s willingness to support the Kingdom in the fields of energy, transport, agriculture, tourism and capacity building.

Commending the Kingdom’s track record, the Russian official expressed appreciation of Jordan’s progress in various areas and lauded the Kingdom’s position on different regional issues as well as His Majesty’s efforts to foster peace and stability.

During Russian President Vladimir Putin’s visit to the Kingdom last year, Jordan and Russia signed an agreement to establish a joint Jordanian-Russian committee to activate cooperation between them. The two countries are also bound by several agreements on economic cooperation.

Jordanian officials held negotiations with the Russian delegation at the Planning and International Cooperation Ministry, and agreed to form a joint business committee to boost commercial and investment cooperation between the two countries.

Saif told reporters following the meeting that Jordan and Russia had signed a memorandum of understanding in the field of nuclear technology, adding that a Jordanian official delegation would visit Moscow early next year

The Russian minister indicated that the two sides also agreed to increase the inflow of Russian tourists seeking religious and medical tourism. 

8 years ago President Putin said he was sorry the bilateral trade turnout was just over modest $50 million. It grew up to $426, 5 million in 2012.

Egypt

Russian Foreign and Defense Minister Sergey Lavrov and Sergei Shoigu paid a visit to Egypt on November 13-15 for a two-day visit to discuss «the full spectrum» of ties between the two countries, including «military-technical cooperation».  President Putin is expected to visit to Egypt pretty soon.  The talks revealed Egypt is seeking to acquire fighter planes, air-defence systems and anti-tank missiles with 24 MiG-29 M2 fighters are at the top of the shopping list added to the Buk M2, Tor M2 and Pantsir- S1 short- to medium-range Russian defence systems. 

Last month the US froze a sizable portion of the yearly $1.5 billion aid package as a sign of discontent with Egypt’s slow progress towards democracy. The step followed after the delivery of four F-16 fighter jets was suspended and biennial US-Egyptian military exercises were cancelled.

In Egypt, where the military-backed government has accused Washington of sympathy toward the Muslim Brotherhood, some protesters have hailed Putin as a potential diplomatic counterbalance to the United States. Pro-military demonstrators have even drawn parallels between the former KGB operative and their own strongman: During a July protest in the city of Alexandria, pro-military demonstrators unveiled a large poster of the Russian President wearing a naval uniform beside that of Army Chief Abdel Fattah al-Sisi, bearing the inscription "Bye bye, America!"

       ***

The Russia-initiated breakthrough on Syria is followed by a host of tangible Middle East policy successes. No doubt it’s a feather in the Russian leadership’s hat, the country is strongly back in the region, its clout growing by leaps and bounds, while the US faces the music having lost its way in the regional maze of overlapping problems and complexities. No calls for revival of Cold War days competition, to the contrary joining together to get down to brass tacks will benefit all. The initiative on Syria proved the possibility and expediency of this approach.        


 Endnotes:

1)    http://rt.com/news/iraq-election-candidates-dead-031/

2)    http://en.ria.ru/military_news/20131017/184210687.html

3)   http://jordantimes.com/king-abdullah-inaugurates-jordanian-russian-rpg-factory

4)  http://en.ria.ru/military_news/20131115/184734272/Jordan-Wants-to-Make-Russian-Helicopters-Anti-Tank-Missiles.html

5)   http://jordantimes.com/russian-firm-set-to-build-jordans-first-nuclear-plants

 

dimanche, 24 novembre 2013

Выпуск XXI 2013. Война

Выпуск XXI 2013. Война

 
http://www.geopolitica.ru/magazine/

Матвиенко Ю. А.
Апология полемоса...........................................................5

Савин Л. В.
Горизонты войны............................................................22

Раджпут Патьял
Принципы войны: необходимость переосмысления....35

Фрэнк Г. Хоффман
Гибридные угрозы: переосмысление изменяющегося характера

современных конфликтов................................................45

Джордж Бергер
Сунь Цзы и Клаузевиц: кто более релевантен 
современной войне..........................................................63

Чэнь Чжихао
Военно-политические отношения между Китаем и Индией:
перспективы и вызовы....................................................72

Мануэл Охзенрайтер
Военная стратегия Германии..........................................87

Николас Гвоздев
Подход Бисмарка к разрешению конфликтов XXI века.92

Ян Алмонд
Британская и израильская помощь для США в стратегии пыток
и контрповстанческих инициатив в Центральной
и Латинской Америке, 1967-96:
аргумент против комплексификации.............................95

Колин С. Грэй
Возрождение стратегии сдерживания:
Пересмотр некоторых основополагающих принципов..115

Дональд Хоровиц
Общественный конфликт: политика и возможности....125

Рецензии............................................................................141

Сведения об авторах.........................................................160

Файл в формате pdf: 

Asia Pivot Declared, US Army Eyes Africa

size0-army.mil-31732-2010-01-21-150121.jpg

Asia Pivot Declared, US Army Eyes Africa

Andrei AKULOV

Ex: http://www.strategic-culture.org

 
U.S. President Barack Obama's visit to Africa in June-July was widely seen as evidence of the White House's broader foreign policy objectives which have included an expansion of U.S. military operations across Africa. With the forces leaving Afghanistan, the Army is looking for new missions around the world. «As we reduce the rotational requirement to combat areas, we can use these forces to great effect in Africa», Gen. David M. Rodriguez, the head of the Africa Command, told Congress this year… Washington has publicly proclaimed a «pivot to Asia,» a «rebalancing» of its military resources eastward, however, the Pentagon is increasingly engaged in shadowy operations elsewhere, for instance, in Africa. Officials call it «light footprint» or «small footprint» saying the military is engaged in small-scale operations there. But picking up odds and ends and piecing them together gives ground to conjecture that the continent is seen as the battlefield of tomorrow. 

The «pivot» toward Asia-Pacific substantiated by the putative threat posed by a rising China will justify the need and expenditure to have strong Navy and Air Force. Large-scale Army commitment is hard to imagine in the Asia –Pacific region but expanding the «global war on terrorism» into the heart of Africa allows this service to have a pivot of its own. With combat boots on the ground, the formally declared purpose is to provide training. At that, the strike capabilities are on the rise and upgrading African militaries will no doubt foster opportunities to sell US-manufactured weapons, a benefit for U.S. defense industry.

Expanding presence

The Pentagon has begun expanding its main base on the continent and investing in air facilities, flight services and telecommunications as the U.S. military deepens its footprint in the region. Base construction, security cooperation engagements, training exercises, advisory deployments, special operations missions and a growing logistics network - all signs are there to provide undeniable evidence of expansion. The troops strength is estimated to be around 5 thousand. The forces are scattered across the continent in the places like Djibouti, the Central African Republic and now – Niger. There formal reason is countering extremists, the informal is obvious - boosting US clout as China's presence is on the rise.

According to the Washington Post, over the past two years, the Pentagon has become embroiled in conflicts in Libya, Somalia, Mali and the Central African Republic. Meantime, the Air Force is setting up a fourth African drone base, while Navy warships are increasing their missions along the coastlines of East and West Africa.

In a written statement provided to the Senate Armed Services Committee, Army Gen. David M. Rodriguez, the commander of Africa Command, estimated that the U.S. military needs to increase its intelligence-gathering and spying missions in Africa by nearly 15-fold. «I believe additional intelligence, surveillance and reconnaissance capabilities are necessary to protect American interests and assist our close allies and partners», he wrote in the statement, which was released during his confirmation hearing in February. «The recent crises in North Africa demonstrate the volatility of the African security environment». Rodriguez said the Africa Command needs additional drones, other surveillance aircraft and more satellite imagery adding that it currently receives only half of its «stated need» for North Africa and only 7 percent of its total «requirements» for the entire continent.

United States Army, Africa (USARAF) is part of United States Africa Command (AFRICOM), a unified combatant command with headquarters in Caserna Elderle, Vicenza, Italy. It had been called SETAF – South European Task Force - till December 2008. The change of name marked the end of the airborne chapter of the unit’s history and the beginning of its new role as the Army component of AFRICOM. The Army is supported by U.S. warships combating piracy off both East and West Africa, which have become increasingly frequent visitors to local ports. The Navy maintains a forward operating location—manned mostly by Seabees, Civil Affairs personnel, and force-protection troops - known as Camp Gilbert in Dire Dawa, Ethiopia. Since 2004, US troops have been stationed at a Kenyan naval base known as Camp Simba at Manda Bay. 

Infrastructure

Camp Lemonnier is situated in Djibouti, a tiny country in the Horn of Africa, a sleepy backwater on the coast of the Gulf of Aden sandwiched between northern Somalia, Ethiopia and Eritrea. A former French Foreign Legion base, the facility hosts US Special Forces, strike jets and armed unmanned aerial vehicles. It houses about 4,000 U.S. military personnel (instructors and several hundred SOF) and civilian contractors. The base has provided a staging post for occasional special forces deployments and drone and air attacks. According to the LA. Times, Camp Lemonnier is going through by far the most significant expansion. In September defense officials awarded $200 million in contracts to revamp the base's power plants and build a multistory operations center, aircraft hangar, living quarters, gym and other facilities on a sun-scorched 20-acre site next to the tiny country's only international airport (with which it shares a runway). The projects are part of $1.2 billion plan over the next 25 years to transform Camp Lemonnier from a makeshift installation into an enduring 600-acre base. As the L.A. Times reports, «the base has quietly evolved into what Pentagon planning documents call «the backbone» of covert missions across Africa and the Arabian Peninsula». 

There are surveillance and special operations outposts in Entebbe, Uganda and Ouagadougou, the capital of Burkina Faso. Last year, an airfield was revitalized in South Sudan for Special Operations Command, Africa. This February the US announced the establishment of a new drone facility in Niger. More recently, the New York Times noted that the deployment of one Predator drone to Niger had expanded to encompass daily flights by one of two larger, more advanced Reaper remotely piloted aircraft, supported by 120 Air Force personnel. Additionally, the US has flown drones out of the Seychelles Islands and Ethiopia's Arba Minch Airport. All told, according to Sam Cooks, a liaison officer with the Defense Logistics Agency, the US military now has 29 agreements to use international airports in Africa as refueling centers. The Pentagon has run a regional air campaign using drones and manned aircraft out of airports and bases across the continent including Camp Lemonnier, Arba Minch airport in Ethiopia, Niamey in Niger, and the Seychelles Islands in the Indian Ocean, while private contractor-operated surveillance aircraft have flown missions out of Entebbe, Uganda. Recently, Foreign Policy has reported on the existence of a possible drone base in Lamu, Kenya. ‎The US has built a sophisticated logistics system, officially known as the AFRICOM Surface Distribution Network. It connects posts in Manda Bay, Garissa, and Mombasa in Kenya, Kampala and Entebbe in Uganda, Dire Dawa in Ethiopia, Ghana's Tema and Senegal's Dakar, as well as crucial port facilities used by the Navy's CTF-53 (Commander, Task Force 53) in Djibouti. The US maintains 10 marine gas and oil bunker locations in eight African nations, according to the Defense Logistics Agency.

Moving stand-by forces nearer

This October the U.S. deployed 200 Marines to the Naval Air Station at Sigonella, Sicily, which will eventually have a force of 1,000 Marines with the main focus on Libya only 100 miles away, actually a short hop across the Mediterranean. It proves that the US operations in Africa are growing switching from drone strikes against al-Qaida to pinpoint raids by small Special Forces teams, as seen in Somalia and Libya Oct. 5. These raids reflect a U.S. move away from the kind of risk-averse operations the Americans have been mounting with missile-firing drones to on-the-ground raids against high-value targets.

The Marines moved to Italy from Spain last month are the vanguard of a larger force dubbed Special Purpose Marine Air-Ground Task Force-Crisis Response. It was established after the Sept.11, 2012 attack on the U.S. consulate in Benghazi, Libya, in which U.S. Ambassador Christopher Stevens and three other Americans were killed. According to U.S. security specialist David Vine, the Pentagon has spent around $2 billion - and that's just construction costs - «shifting its European center of gravity south from Germany» and transforming Italy «into a launching pad for future wars in Africa, the Middle East and beyond.» Vine estimates there are now totally 13,000 U.S. troops in Italy at Sigonella and some 50 other facilities like Vicenza, a former Italian air force base near Venice, with the 173rd Infantry Brigade Combat Team (airborne), a rapid response force.

Intensive training programs launched

Thousands of soldiers are now gearing up for missions in Africa at Fort Riley, Kansas. According to the New York Times (11), the Army is implementing a program drawing on troops from a 3,500-member brigade of the First Infantry Division to conduct more than 100 missions in Africa over the next year. The missions range from a two-man sniper team in Burundi to 350 soldiers conducting airborne and humanitarian exercises in South Africa. According to the source, the brigade has also sent a 150-member rapid-response force to Djibouti in the Horn of Africa to protect embassies in emergencies, a direct reply to the attack on the United States Mission in Benghazi, Libya, last year, which killed four Americans. Africa Command is the test case for this new Army program of regionally aligned brigades that will eventually extend to all of the Pentagon’s commands worldwide, including in Europe and Latin America next year. These forces will be told in advance that their deployments will focus on parts of the world that do not have Army troops assigned to them now — creating a system in which officers and enlisted personnel would develop regional expertise, the New York Times reports. 

* * *

Critics in Africa complain Washington's approach to the continent has become increasingly militarized. Counter-terrorism policies live on the edge of international law: SOF raids and drone strikes raise questions about the international legality of such operations and their long-term impact. In some cases U.S. military engagements in Africa have already caused further instability rather than reducing the risks for international peace and security. The divided and poorly controlled Libya is an example. The extremist groups the US is supposed to fight thrive in weak and poorly governed countries, which badly need institution building, good governance and job creation. Building up well-trained and accountable African militaries is only part of the solution. The lessons learned from Somalia, Libya, Mali, the CAR and many others, like the ongoing low-intensity war against Boco Harum in Nigeria, are all important to be learnt. Besides, stiff competition for strategic resources is the specific feature of the situation in Africa. So it’s not only about fighting terrorist groups. The mission of US military is to drive rivals out of the continent or at least to limit their access to the resources and political clout. No matter all the talks going on about the times of budget constraints and sequester, the US military enhances its capability to provide global presence and carry out missions in faraway corners of the globe like Africa. 

00:05 Publié dans Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : afrique, affaires africaines, africom, géopolitique | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Notes sur le désordre “apolaire” du Moyen-Orient

Latuff-Obama_and_Middle_East.gif

Notes sur le désordre “apolaire” du Moyen-Orient

Ex: http://www.dedefensa.org

L’étrange “politique” américaniste au Moyen-Orient, que certains voient comme un spectacle de “folies-bouffe” (ce 7 novembre 2013), d’autres comme une quête dérisoire et sans fin de l’«America’s Top Diplomat [Kerry] Lost in Space» (voir le 3 novembre 2013, sur TomDispatch.com), conduit à un désordre considérable que certains acteurs mieux organisés songeraient à réorganiser.

De là s’explique l’entêtement considérable du site DEBKAFiles à construire, nouvelle exclusive après nouvelle exclusive, l’impression d’une sérieuse entreprise de réorganisation de la région de la part de la Russie, à laquelle Israël, incontestable pays favori du même DEBKAFiles, ne serait pas indifférent. D’où, selon une logique développée par la même source, cette rencontre Poutine-Netanyahou du 20 novembre à Moscou, annoncée le 5 novembre un peu avant que John Kerry, le “Top Diplomat Lost in Space” ait posé un pied, le gauche ou le droit, sur le sol israélien. La nouvelle de cette rencontre n’a guère suscité de commentaires ni de supputations dans la presse-Système des pays du bloc BAO, à peine son annonce ici et là, ce qui est peut-être un indice de son importance. Ainsi en est-il également (discrétion) de la visite de Lavrov et du ministre russe de la défense russe au Caire, mardi et mercredi prochain.

Note sur un “fil rouge” à suivre avec des pincettes

Si nous citons DEBKAFiles avec toutes ses casseroles des liens avec la propagande et “les services” israéliens, c’est avec les considérables réserves d’usage, maintes fois mentionnées, avec à boire et à manger, avec fort peu à boire (source claire) et beaucoup à manger (débris troubles et stagnants) ... L’expression «se dit d’un liquide, vin, bouillon, café, etc., trouble et épais» et, au figuré, «se dit d’une question qui présente deux sens, d’une affaire qui peut réussir ou ne pas réussir, d’un ouvrage où il y a du bon et du mauvais».

Il faut donc séparer le bon grain de l’ivraie (autre expression, marquant décidément combien cette sorte de situation est courante) ; c’est notre tâche et une tâche délicate, où l’intuition prend le pas sur la connaissance. Si nous citons DEBKAFiles (bis), un peu comme un fil rouge de cette Notes d’analyse, c’est parce qu’il faut reconnaître au site israélien qu’il a beaucoup insisté et “révélé” sur des événements qui commencent à se concrétiser, et notamment (voir ci-dessous), le cas du rapprochement vers une coopération stratégique et militaire, – ce qui n’est pas rien en fait de bouleversement, – de la Russie et de l’Égypte.

Judo Bandar-Poutine

Il y a plusieurs volets, plusieurs orientations, certains diraient “plusieurs pistes” dans cette supputation que constituent ces Notes d’analyse, mais la logique répond à un grand événement qui est celui d’une nouvelle “grande absence”, qui est la politique en pleine dissolution des USA au Moyen-Orient. Le premier signe déjà lointain, entretemps considérablement brouillé par divers événements où l’habileté bien connue mais un peu trop réduite à la tactique de manigance de Prince Bandar-le-diabolique, remonte à la rencontre extrêmement secrète de ce dernier avec Poutine, à la fin juillet. Rarement rencontre “secrète” n’aura reçu autant d’attention et de célébrité, autant d’interprétations, autant d’appréciations impératives et en divers sens contraires.

Le 24 août 2013, nous donnions notre appréciation de cet événement “secret” en signalant au moins un point d’accord, qui aurait été l’idée que la Russie envisage de vendre des armes à l’Égypte (Bandar parlant alors au nom des Saoudiens qui soutiennent financièrement l’Égypte depuis l’intervention des militaires et la chute de Morsi donnent aux Égyptiens une aide financière puissante, supérieure à $10 milliards). Ces échanges de vue se faisaient sur fond de mésentente grandissante entre les USA et l’Égypte, et un sentiment anti-US grandissant en Égypte, – la chose s’étant confirmée depuis par des mesures de restrictions de l’aide militaire US à l’Égypte. Le reste de l’entretien “secret” est plus incertain, voire franchement antagoniste, avec des menaces voilées de Bandar (qui s’en délectaient) à l’intention des Russes et des réactions furieuses de Poutine.

(Un conseiller de Poutine qui se trouvait, avec quelques autres, dans l’antichambre de cette rencontre en tête-à-tête [plus les interprètes] qui dura quatre heures, a fait quelques confidences à quelques amis. Il vit sortir de l’entretien un Poutine manifestement furieux, presque rouge de colère, et un Bandar avec une expression presque triomphante et certainement sardonique. Dans la perspectives qu’on connaît désormais, on fera de ces précisions d’humeur un témoignage des caractères respectifs plus qu’une mesure des résultats de la rencontre. C’est vrai qu’il y eut des mots de Bandar qui ressemblait à des menaces adressées à la Russie [le passage sur le terrorisme tchétchène et les JO de Sotchi], et Poutine n’aime pas qu’on traite la Russie comme une vulgaire Syrie ; peut-être la colère de Poutine, personnage que les gazettes anglo-saxonnes nous décrivent comme “très physique”, vint-elle de son regret qu’il n’y ait pas eu un complément à l’entretien du type rencontre de judo.)

Lavrov au Caire

Nous restons sur cette question des relations Russie-Égypte et des armes russes ... Après diverses affirmations officieuses à cet égard et dans le sens évoqué plus haut, dès le courant août (voir le 19 août 2013), notamment très péremptoires de la part de DEBKAFiles, l’idée a pris une tournure très officielles depuis hier (Novosti, le 8 novembre 2013), et une allure-turbo avec l’annonce de la visite des ministres russes de la défense et des affaires étrangères la semaine prochaine (les 12-13 novembre) pour la négociation de contrat d’armements russes modernes portant sur $4 milliards.

«“We are ready to negotiate with the Egyptian side the possibility of deliveries of new weaponry as well as repairing equipment supplied in Soviet times,” the Rosoboronexport official told RIA Novosti. He said such new deliveries would depend on Egypt’s ability to pay for them. But he noted, “Moscow is ready to discuss with Cairo a possible loan to that country.” [...]

«Russian Foreign Ministry spokesman Alexander Lukashevich said earlier Friday that Russian Defense Minister Sergei Shoigu and Foreign Minister Sergei Lavrov will meet with their Egyptian counterparts during their visit to Egypt on November 13-14. The Russian delegation will include the first deputy director of the Federal Service on Military-Technical Cooperation, Andrei Boitsov, and Rosoboronexport officials. “The upcoming visit will help us to outline the prospects of our [defense] cooperation,” the Rosoboronexport source said...»

Sur cette question des armements russes pour l’Egypte, DEBKAFiles frappait fort, le 29 octobre 2013, en écrivant que les Egyptiens, qui recevaient ce jour-là au Caire le chef d’état-major adjoint russe et chef du GRU, le général Kondrachov, voudraient effectivement beaucoup d’armes russes, dont des missiles balistiques de théâtre à portée moyenne (2 000 kilomètres), des SS-25. («[The Egyptians] told the Russian general that Moscow’s good faith in seeking to build a new military relationship between the two governments would be tested by its willingness to meet this Egyptian requirement. They are most likely after the brand-new SS-25 road-mobile ICBM which has a range of 2,000 km., which the Russians tested earlier this month.») Le 4 novembre 2013, DEBKAFiles remet cela en annonçant que les Russes demanderaient aux Égyptiens la disposition d’une port de relâche qui serait presque une base en Égypte pour leur flotte en Méditerranée (Alexandrie et Port-SaÏd étant parmi les options envisagées). Le site israélien ne manque pas de répéter ce qu’il martèle régulièrement, savoir que tout cela est soutenu, non plus encore, encouragé et même machiné par les Saoudiens de Riyad, comme vu plus haut dans le chef franc et ouvert de prince Bandar : «As DEBKAfile reported earlier, Saudi Arabia engineered the Russian-Egyptian rapprochement with a view to bringing Russian military advisers back to Egypt for the first time since they were thrown out in 1972. Moscow was designated as major arms supplier to the Egyptian army in lieu of Washington.»

Passons donc, puisqu’on nous y invite, à l’Arabie Saoudite.

Fureurs saoudiennes

Depuis près de deux mois, depuis l’attaque US avortée contre la Syrie, l’Arabie tempête. Il y a d’abord le volet opérationnel et stratégique agressif : prendre en mains les affaires, et suppléer à l’inconsistance et à la dissolution de la politique US, contre la Syrie, mais aussi contre la “machination“ US du rapprochement avec l’Iran. Il y a ensuite et surtout la dénonciation extraordinaire des USA par l’Arabie. La fureur anti-US de l’Arabie s’est étalée publiquement à partir de la mi-octobre. La “crise syrienne” (guillemets nécessaire) est ainsi devenue “la crise autour de la Syrie” avec le considérable appendice iranien. Essayons, non pas d’y voir plus clair, mais simplement de dérouler quelques nouvelles qui, mises à bout à bout, rendent un son charmant de désordre chaotique ou de chaos désordonné, c’est selon. Là-dessus, rien n’empêche de construire de grandes prospectives concernant cette région, ce n’est pas Prince Bandar qui démentira.

La colère, voire le mépris furieux des Saoudiens vis-à-vis de leurs tuteurs et alliés de plus de deux tiers de siècle s’est affichée et s’affiche sans la moindre retenue. Le 24 octobre, le service BBC Monitoring Middle East a diffusé une traduction d’un article du Elaph News Website, site réputé comme influent et bien informé pour l’Arabie Saoudite et les pays du Golfe. Il y a d’abord les remarques extrêmement acerbes, et publiques, de Prince Turki al-Fayçal, membre de la famille royale, ancien chef du renseignement saoudien, ancien ambassadeur du royaume à Londres et à Washington... «Prince Turki al-Faysal made scathing critical remarks of Obama’s policies in Syria and described them as “worthy of lamentation.” [...] Prince Turki described Obama`s policies in Syria as “lamentable” and mocked the US-Russian agreement on getting rid of the chemical weapons of Al-Asad`s government. [...] [Turki] said: “The present drama on the international control of the chemical arsenal of Bashar al-Asad will be comical, if not blatantly ridiculous, and it aims at giving the chance to Mr Obama to back down (on carrying out military strikes) and also help Al-Asad to slaughter his people.”»

Le même texte, après avoir détaillé divers aspects de la situation saoudienne en fonction de sa brouille, ou supposée avec les USA, conclut à partir d’une source saoudienne présentée comme très sûre et de très haut niveau : «The Saudi source said: “All the options are on the table now, and certainly there will be some impact.” He added that no more coordination with the United States will take place concerning the war in Syria where Saudi Arabia provides opposition groups fighting Al-Asad with weapons and money.»

L’idylle Tel Aviv-Ryhad

On sait que cette querelle entre l’Arabie et les USA a été présentée avec le complément d’un rapprochement stratégique remarquable entre les Saoudiens et Israël. Des informations officieuses ont déjà cité des visites de Prince Bandar en Israël et, dans l’autre sens, des déploiement de certains militaires israéliens, notamment en Arabie (voir notre texte du 19 octobre 2013). Le climat de la communication est à mesure ... Un commentaire israélien typique de cette situation est celui de Ariel Kahane, dans Ma’ariv du 25 octobre 2013 : «The rift between the US and its allies in the Middle East on the Iranian issue is widening. For the first time in the region’s history, the Arab countries are forming a united front with Israel against the more lenient position being taken by the Obama administration.» Il y a beaucoup d’écho aux déclarations de la ministre israélienne Tzipi Livni lors d’un récent colloque (voir Gulf News [Reuters], le 25 octobre 2013 : «Israelis, Saudis speaking same language on Iran, says Tzipi Livni. There is a need to cooperate with those who perceive Iran as a threat, says minister...»).

DEBKAFiles s’intéresse évidemment beaucoup à cette querelle entre USA et Arabie, d’autant plus qu’il y a cet élément de proximité de circonstance de l’Arabie avec Israël. Le 25 octobre, le site, dans son domaine payant, affirmait que les Saoudiens avaient décidé de livrer des armes avancées (missiles) antichars et antiaériennes rapprochées, du type que les pays du bloc BAO, et surtout les USA, ont officiellement prohibé de crainte qu’elles ne tombent dans les mains des extrémistes. La décision est aussi bien opérationnelle (en faveur des rebelles syriens) que politique (en défiance des USA). Le rapport de DEBKAFiles annonçait notamment  : «The US media suddenly discovered Tuesday Oct. 22 that Saudi Arabia had a serious bone to pick with US President Barack Obamaover his Middle East policies, a pivotal development which DEBKA has been carefully tracking in the four months since the first major falling-out occurred over Egypt’s military coup. [...] The Saudis had meanwhile gone into action. That same Tuesday, DEBKA's intelligence sources in the Gulf disclose, a small summit met quietly in Riyadh of likeminded Mideast and Gulf heads of state to determine how and from what territory heavy weapons systems would be put in the hands of the Syrian rebel militias backed by Saudi intelligence. They decided that those militias must be given enough anti-aircraft and anti-tank missiles to stand up to Assad’s army – a direct challenge to the Obama administration’s resolve to keep out of rebel hands the heavy hardware capable of contending with Bashar Assad’s tanks and air force.»

L’Amérique qui-n’a-rien-à-craindre

Pour autant, la partie US et le bloc BAO, du côté des commentateurs, ne s’affolent nullement. Ce point de vue du type “pas de panique, la situation est sous contrôle” est appuyé sur les certitudes occidentales et surtout anglo-saxonne, d’une hégémonie continue et de la situation, pour les alliés-vassaux, de ne pouvoir rien faire d’important sans le soutien anglo-saxon. C’est ce que notait Karen Elliott House, dans le Wall Street Journal du 24 octobre 2013 ; elle parlait, pour qualifier la position de l’Arabie, d’une situation où leur propre survivance continue à dépendre de leurs protecteurs de déjà plus d’un demi-siècle : «Sadly for the Saudis, there is no alternative protector, which means the two countries will continue to share an interest, however strained, in combating terrorism and securing stability in the Persian Gulf.» On peut trouver la même analyse, par exemple, chez Shashank Joshi, du Royal United Services Institute (RUSI) britannique, rapporté par Bloomsberg.News le 23 octobre 2013.

Certains vont même jusqu’à rassurer Washington sur l’excellence de sa “politique” en l’assurant que l’Arabie et ses amis du Golfe, avec leur soi-disant politique indépendante, vont rapidement se trouver devant le monstre qu’ils ont contribué à créer : un al Qaïda gonflé aux stéroïdes du Golfe, se retournant contre le Golfe. C’est le cas de David Andrew Weinberg, Senior Fellow à la Foundation for Defense of Democracies (un think tank de tendance néoconservatrice, semble-t-il), sur CNN le 25 novembre 2013...

«Some observers are bullishly optimistic about the foreign policies of America’s Gulf allies, suggesting Saudi Arabia backs “the least Islamist component of the rebellion” and Qatar’s young new emir is displaying a more “mature” foreign policy that seeks to avoid controversy in places like Syria. However, there is worrying news coming from Syria’s Raqqa Province, now controlled by the al Qaeda affiliate Islamic State of Iraq and the Levant (ISIL). Hateful books described by several different sources as the area’s new academic curriculum,reportedly originate from Saudi Arabia.»

Alerte terrorisée

Tous ces avis sont relatifs dans la mesure où ils parlent d’une “politique” des USA au Moyen-Orient. On sait l’état de la chose. Par contre, là où ils n’ont pas nécessairement tort, même si par inadvertance peut-être, dans l’évaluation des situations et la perception des différents acteurs, c’est pour ce qui concerne la “politique extérieure” de l’Arabie/des pays du Golfe. On peut même prendre l’avis de Weinberg et remarquer qu’il rejoint des appréhensions de DEBKAFiles, pourtant dans le camp opposé pour ce cas puisque favorable in fine à la “politique” saoudienne de la saison, à la fois anti-iranienne et anti-US, donc proche d’Israël, – mais tout ce beau monde se trouvant, à cause de leur autre “politique“ syrienne anti-Assad, effectivement en train de fabriquer un monstre.

Donc, le 26 octobre 2013, DEBKAFiles sonne l’alarme, pour Israël, pour le Liban, pour la Jordanie, pour l’Égypte, enfin pour l’Arabie Saoudite, voire pour l’Irak et le Yemen (sans parler de la Syrie), etc. Soudain, l’on fait état d’une monstrueuse extension des effectifs et des capacités d’al Qaïda à partir du “centre” syrien, et cela malgré que les activités des divers pays cités comme étant menacés aient contribué, au moins indirectement, à cette expansion en affrontant le régime syrien d’Assad. (On notera dans cette citation qu’il est même question d’un apport de djihadistes du Caucase, ce qui nous amène à nous interroger à propos des affirmations bombastiques de prince Bandar face à Poutine fin juillet, sur sa capacité à faire faire ce qu’il veut aux terroristes islamistes du même Caucase...)

«The alarm in the Israeli and Jordanian high commands over Al Qaeda’s looming encroachments is shared by Saudi Arabia, whose intelligence services now estimate that Al Qaeda and its multiple branches have massed some 6,000 fighting activists in Syria – 12 percent of them Saudi nationals. Since more are pouring into the country all the time, intelligence experts in Riyadh calculate that the current number will double itself in the next six months. And that will not be the end: the 12,000 jihadists concentrated in Syria by next spring may have multiplied to 15-18,000 by the winter of 2014. Most of them are streaming in from across the Muslim world including the Russian Caucasian.

»Saudi Intelligence chief Prince Bandar bin Sultan, who is in charge of the Saudi effort in Syria, has warned that Riyadh cannot afford to have al Qaeda hanging massively over its front, back and side doors – in Syria, Iraq, Yemen and Egyptian Sinai, and threatening to overrun Lebanon and Jordan. A jihadi victory in Syria would boost al Qaeda in Iraq on its northern border.

»Israel is in the same position...»

Perspectives iranienne et syrienne

... Tout cela nous conduit à minimiser considérablement le tohu-bohu considérable fait autour de la fronde saoudienne, menaçant de partir en guerre au côté d’un Israël qui ne sait plus exactement qui attaquer en premier. Quant à une alliance israélo-saoudienne pour ramener l’Iran “à l’âge de pierre”, selon la délicieuse recette du général LeMay en mal d’attaque aérienne, on peut s’autoriser quelque scepticisme, – entre Israël qui ne contrôle plus ses propres drones destinés à réduire la défense anti-aérienne iranienne (voir le 19 octobre 2013), et l’Arabie qui attaque à coups de $milliards et de djihadistes qui lui reviennent en boomerang “gonflé aux stéroïdes”. Il y a bien les annonces spectaculaires jusqu’au surréalisme d’une Arabie saoudite devenant nucléaire avant l’Iran, grâce à l’achat d’une bombe pakistanaise, resucée d’un vieux canard relancé par la BBC (le 6 novembre 2013) et dont profite DEBKAFiles pour étoffer ses scoops parfois très fantasyland ; le doute est de rigueur, comme chaque fois lorsqu’une narrative veut nous convaincre que l’Arabie a des muscles et aura l’audace de s’en servir. Comme dit la chanson : «Che sera, sera...»

En attendant, les négociations sur l’Iran, comme on le sait, ont avancé. Prêtes d’être bouclées ce 9 novembre, dans tous les cas pour ce qui est d’un accord intermédiaire, bloquées par la France posant en extrémiste de type neocon et défenderesse des intérêts israéliens selon ses étranges et nouvelles habitudes de politique extérieure correspondantes à une situation intérieure en complète dissolution, on espère que leur reprise, le 20 novembre, permettra effectivement un tel accord. (Voir Russia Today le 9 décembre 2013.) A côté de cela, l’autre point chaud qui faillit, lui aussi (puisqu’on a souvent parlé de guerre mondiale à propos de l’Iran), nous précipiter fin août dans une “Troisième Guerre mondiale” terriblement usée à force de n’avoir pas servi, dito la Syrie, se replie dans les violences coutumières et les amertumes des rebelles, entre ceux de ces rebelles qui croient qu’Assad va gagner (Antiwar.com le 9 novembre 2013) et ceux des rebelles qui espèrent qu’Assad l’emportera, plutôt que les extrémistes djihadistes (Buzzfeed, le 8 novembre 2013). Bien entendu, la perspective de Genève-II continue comme d’habitude à s’éloigner au plus l’on s’en rapproche, et DEBKAFiles clame bien fort (le 6 novembre 2013), se référant à de nouvelles perspectives où la rencontre Poutine-Netanyahou tient une place majeure : «Geneva II cancelled: Moscow I is the big coming event...»

... Si nous sommes si courts sur ces deux chapitres, si importants puisqu’ils ont monopolisé l’essentiel de la tension au Moyen-Orient depuis sept et trois ans, et ’attention officielle par conséquent, c’est parce que notre sentiment est que nous serons très vite en voie de découvrir, si leurs tendances actuelles se poursuivent, qu’ils sont moins importants en eux-mêmes que par les tensions centrifuges et indirectes considérables qu’ils ont suscitées. Ces deux énormes crises ont été suscitées par des montages, par des narrative, essentiellement de fabrication garantie bloc BAO comprenant Israël certes (à peu près dans la proportion, pour la paternité des narrative, de 99% contre 1% en faveur du bloc, pour prendre le rapport favori de notre Système triomphant). Ces deux crises sont, pour leur ampleur et leur expansion, l’expression des phantasmes, des paranoïas, de la “fuite en avant” mâtinée d’hybris grossière, enfin de l’auto-terrorisation des directions politiques du Système attentives aux agitations des basse-cours provinciales de leurs capitales respectives. Leurs issues, si issues il y a et si c’est dans le sens qui se dessine, ne constitueraient pas un bouleversement mais un règlement géopolitique dans une époque qui n’évolue que sous la dynamique du système de la communication. Pour prendre la perspective la plus optimiste, on dirait qu’un accord avec l’Iran ne ferait pas de l’Iran le pays hégémonique et conquérant du Moyen-Orient, parce que l’Iran, qui a une diplomatie avisée et principielle, ne mange pas de ce pain-là ; et un tel accord ne créerait pas un axe Washington-Téhéran, parce que les USA ne peuvent faire d’axe avec personne et qu’ils ont l’esprit ailleurs, complètement ailleurs, c’est-à-dire en plein effacement...

Le changement profond de ce bouleversement tourbillonnant et vibrionnaire actuel se trouve, à notre sens, dans deux orientations respectivement d’influence et de désordre, qui, toutes les deux, dépendent dans leur expansion, moins de la géopolitique que de la communication.

Le triomphe méthodologique russe

Certes, on peut parler dans l’évolution générale de la situation du Moyen-Orient d’un “triomphe russe” dans la méthodologie, obtenu avec un sang-froid remarquable et sans agitation excessive malgré des situations qu’on percevait parfois comme très pressantes, et justement ce sang-froid et cette absence d’agitation ayant projeté une perception à la fois de fermeté de comportement, de sûreté de jugement, de solidité de situation, de retenue de l’ambition. A peu près tout le contraire des USA, qui ont congénitalement un comportement erratique, un jugement changeant, une situation totalement incertaine et des ambitions grotesques de réaffirmation constante d’une hégémonie en pleine dissolution, et ainsi les USA qui ne cessent de s’éclipser de plus en plus rapidement, comme on s’efface, des restes de leur position “impériale”. Ainsi les Russes apparaissent-ils comme une “borne de stabilité” (plutôt que l’expression trop structurée de “pôle de stabilité”, – voir plus loin), dont la proximité n’est pas vraiment dangereuse, au contraire de l’instabilité US qui risquerait à chaque moment de vous emporter. (Même des acteurs devenus secondaires à cause de leur propre comportement erratique, reconnaissent cela, comme la Turquie, qui resserre ses liens aussi bien avec l’Iran qu’avec la Russie, selon cette même logique qu’on décrit ici.)

Les cas les plus remarquables concernent les deux pays les plus instables ou les plus extrêmes dans leurs positions vis-à-vis des USA et vis-à-vis des tensions en cours. D’un côté, beaucoup sinon tout semble opposer, dans nombre de circonstances, Israël et l’Arabie Saoudite d’une part, la Russie de l’autre. Il y a des occurrences où l’on pourrait même envisager qu’ils s’opposent directement dans des situations d’affrontement (la Syrie). Pourtant, la tendance inverse semble devoir trouver une possibilité de s’exprimer, voire de gagner du terrain si l’on accepte certaines interprétation, – , savoir que, pour ces deux pays, une proximité avec la Russie présente de nombreux avantages de situation, – sans qu’il soit question d’“alliance”, de “tutorat”, etc., de quelque façon que ce soit. Ainsi, et pour prendre le cas précis vu plus haut, un mouvement se dessine-t-il pour envisager que la Russie puisse constituer, en échange d’avantages stratégiques, une sorte de soutien extérieur à l’Égypte, pour tenter d’éviter à ce pays de sombrer dans une instabilité meurtrière ou suicidaire. C’est favoriser, dans le chef d’une Arabie anti-Assad, deux pays qui sont ouvertement (Russie) ou discrètement (Égypte) pro-Assad.

On peut certes parler d’un “retour triomphal” des Russes, dans la possibilité de telles perspectives, par rapport aux décennies qui viennent de s’écouler. Mais il s’agit plus d’une situation à la fois méthodologique et sanitaire qui s’imposerait devant les dégâts causés à la structuration de la région durant ces dernières années. La Russie, plus qu’une ambition, plus encore que ses intérêts, représente une référence, voire une influence principielle dont tout le monde sent la force stabilisatrice. Bien entendu, le comportement erratique et incontrôlé des pays du bloc BAO a grandement servi à mettre cette vertu en évidence.

... Mais pourtant triomphe le monde apolaire

Pour autant, nous retenons notre plume en évoquant cette perspective, cette hypothèse de développement, du moins dans toutes ses conséquences. Le côté sombre, inéluctable de la situation, c’est le désordre qui s’est installé, qui a proliféré, qui a transgressé les frontières, qui a infesté les psychologies, imprégné les esprits et orienté les pensées, et que plus rien ne semble pouvoir écarter tant il est devenu naturel aux événements. Il n’y a pas de responsabilité directe pour cette évolution, on veut dire pas un seul acteur, pas une seule politique à mettre en accusation principalement mais les divers outils, accélérateurs, fomenteurs que constituent divers acteurs et leurs politiques, d’une tendance générale et irrésistible. Certains sont des exécutants zélés certes, mais ils suivent plus qu’ils ne provoquent même s’ils contribuent à la préparation des événements.

D’une certaine façon, il y a un besoin de stabilisation des crises impliquant les acteurs étatiques (Iran, Syrie) parce que le désordre prend le dessus partout, que ce soit celui de l’expansion du terrorisme semi-idéologique et d’une exaltation nihiliste, et de plus en plus semi-mafieux ; que ce soit le désordre des pays du bloc BAO qui commence à se plonger dans sa crise interne générale (NSA et le reste) après les aventures extérieures couronnées d’échecs et de déstabilisation de ces dernières années, et eux-mêmes, ces pays, outils majeurs de la déstabilisation que l’on décrit ici et acteurs majeurs du processus d’autodestruction ; que ce soit le désordre d’acteurs incertains et passant d’une position extrême à une autre position extrême (Israël, Arabie) ; que ce soit le désordre des situations internes elles-mêmes, qu’on supposerait stabilisées en fonction des développements politiques généraux (voir l’extraordinaire reportage de Andre Vltchek dans CounterPunch, le 14 octobre 2013, sur le désespoir, l’amertume, la haine anarchiste régnant en Égypte). Ainsi, la phase actuelle où l’on perçoit la possibilité du règlement de grandes crises d’axes jusqu’alors déstabilisateurs, où l’acteur principiel prend la place centrale, n'est en rien synonyme d’apaisement, et certainement pas de restructuration ; tout au contraire, la déstructuration subsiste, et la dissolution intervient dans certains cas. Simplement, et somme toute fort logiquement, il y a de moins en moins de cohérence, de logique politique justement dans cette évolution.

D’une certaine façon, il s’agit, expression appropriée tombée miraculeusement par rapport à la politique française totalement invertie de la bouche du ministre Fabius lors d’une récente conférence à Science Po, de la découverte angoissée d’un monde apolaire (ou bien “zéropolaire”, mais nous préférons nettement la précédente, et la conservons) ; après les épisodes unipolaire et multipolaire, un monde “sans pôle”, qui a perdu toute forme et toute cohésion... Un monde de toutes les opportunités de crises et de tensions souvent surgies par surprise... Un monde de tempêtes, sans vent dominant et où tous les vents prétendent dominer dans une surenchère de souffles furieux, où la tempête lève de tous les côtés.

samedi, 23 novembre 2013

Discrédité, Hollande trouve du soutien auprès des ennemis de l'Iran

cabrio-francois-hollande-marrante-img.jpg

Discrédité, Hollande trouve du soutien auprès des ennemis de l'Iran

Ex: http://fr.ria.ru

Avant le nouveau cycle de négociations sur le nucléaire iranien cette semaine, on se demande si la position intransigeante de la France ne va pas faire échouer l’accord des médiateurs internationaux au dernier moment, écrit mardi le quotidien Kommersant.

Paris peut compter sur Israël et l'ennemi irréconciliable de Téhéran, l'Arabie Saoudite, qui cherchent eux aussi à empêcher une entente entre les six médiateurs internationaux et l'Iran. Pourquoi la France multiplie-t-elle ses efforts sur ce dossier?

Pendant sa visite en Israël Hollande a avancé quatre conditions pour qu'un accord "intermédiaire" soit signé entre les six médiateurs : le placement sous contrôle international de l'ensemble des sites nucléaires iraniens ; la limitation de l'enrichissement d'uranium à 20% ; la réduction des réserves déjà accumulées ; et la fermeture de la construction du site nucléaire d’Arak. L'Iran a immédiatement laissé entendre qu'en réponse à ces exigences sa position sera plus ferme pendant les négociations.

L'activation soudaine de la France sur le dossier iranien coïncide avec la chute de la cote de popularité du président Hollande. Premier dirigeant de l'histoire française à être publiquement hué pendant la commémoration de l'armistice de 1918, Hollande traverse la période la plus difficile de son mandat. D'après les derniers sondages, sa popularité est tombée à 20% chez les Français - un record pour les dirigeants de la Ve république. Par ailleurs, les appels à renvoyer le premier ministre Jean-Marc Ayrault se font de plus en plus entendre au sein du PS après que l'agence de notation Standard & Poor's a pour la deuxième fois abaissé la note de la France (de AA+ à AA).

Hollande perd sa popularité et ses leviers d’influence en France: il cherche à renverser la situation par des manœuvres internationales. La position intransigeante de Paris lors du dernier cycle de négociations entre Téhéran et les six médiateurs pour le règlement de la crise nucléaire iranienne contraste avec les prévisions optimistes des ministres des Affaires étrangères de l'Iran, des USA et de la Russie. En revanche, la position de la France est soutenue par Israël, l'Arabie saoudite et d'autres monarchies du Golfe.

Bien que les Etats-Unis demeurent le principal fournisseur d'armes dans les pays du Golfe (Washington a récemment signé un contrat de 60 milliards de dollars avec Riyad), les producteurs français pourraient sérieusement renforcer leurs positions sur le marché du Golfe. D'autant qu'il existe un argument historique à une telle coopération. Paris livrait déjà des armes à Bagdad à l'époque de la guerre entre l'Iran et l'Irak par le biais des régimes arabes sunnites, qui considèrent l'Iran comme leur ennemi juré.

Cette position intransigeante sur le dossier iranien offre au président Hollande de nouvelles opportunités de coopération avec Israël qui cherche à utiliser tous les mécanismes pour empêcher une entente avec Téhéran. La visite de Hollande en Israël dimanche s'achèvera à la veille de la reprise des négociations des Six.

Le premier ministre israélien Benjamin Netanyahou s’entretiendra cette semaine avec le président russe Vladimir Poutine et le secrétaire d'Etat américain John Kerry pour évoquer les paramètres de l'entente nucléaire entre les Six et Téhéran. En prévision de ces rencontres le dirigeant israélien a donc obtenu un soutien psychologique très important de la part du président français. Ce dernier a assuré à Netanyahou que Paris ne cèdera pas sur la prolifération nucléaire en Iran. "Tant que nous n'aurons pas la certitude que l'Iran a renoncé à l'arme nucléaire, nous maintiendrons toutes nos exigences et les sanctions".

Toutefois, en dépit de l'activité internationale tumultueuse de Hollande, les experts ne pensent pas qu’il arrivera à renverser sa chute de popularité en France. "Le président Hollande a été incapable de régler des problèmes bien plus graves concernant la récession, la réforme des retraites, la hausse des dépenses publiques et le chômage. Il n'a tenu qu'une seule promesse de campagne : la légalisation du mariage gay, rappelle Nadejda Arbatova de l'Institut d'économie mondiale et des relations internationales (IMEMO). Dans ces conditions, son hyperactivité sur l'arène extérieure est une tentative d'apporter du poids à sa politique. Mais en l'absence de repères précis cette politique se transforme en passage désespéré d'un extrême à l'autre."

mercredi, 20 novembre 2013

Le « mur de la honte » et la défaite turque en Syrie….

1123.jpg

Le « mur de la honte » et la défaite turque en Syrie….

Global Research

La Turquie, à l’heure présente, édifie un « mur de la honte » sur sa frontière sud pour empêcher que ne débordent sur son propre sol les affrontements faisant rage en territoire syrien entre Kurdes et djihadistes internationalistes en lutte contre les forces régulières de Damas. Une construction donnant lieu à des émeutes de la part des communautés kurdes qui vont se trouver séparées de part et d’autre de la barrière. Colère faisant suite à celle des turcs alévis qui se sont soulevés dans les zones où affluent les réfugiés syriens, rebelles à l’autorité du régime baasiste de Damas… C’était à l’heure où les révoltes du Printemps arabes semblaient ouvrir la voie à l’instauration au sud de la Méditerranée d’une chaine de gouvernements islamistes tous issus de la matrice des Frères musulman. Une perspective qui encouragea la Turquie dans des ambitions néo-ottomanes soutenues par une réussite économique exemplaire. Las, le pouvoir alaouite ne s’est pas effondré, la guerre est devenue sans issue. L’Amérique s’est alors résignée à renoncer, pour l’heure, à toute intervention directe alors qu’elle engageait des négociations quasi bilatérales avec l’Iran, allié stratégique de la Syrie. Un fait totalement inédit au bout de trois décennies de déni. Mais à présent l’économie turque pâtit durement de l’effort de guerre et du fléchissement de sa croissance – 5% en 20113 soit une perte de quatre points en deux ans et demi de guerre – tout comme elle souffre de l’afflux des réfugiés sur son territoire national. Aujourd’hui contestations et émeutes se multiplient. Dernièrement, après les manifestations massive du mois de juin à Istanbul, l’agitation a gagné dans la capitale Ankara, fragilisant un pouvoir islamiste pourtant réputé modéré mais qui peu à peu se démasque en limitant les libertés publiques ou en répudiant la laïcité héritée du kémalisme et en imposant par la loi des normes chariatiques. Malgré son dynamisme économique, la Turquie tend à redevenir « l’homme malade de l’Europe »… Une Europe qui, comme par miracle, vient de reprendre avec Ankara des négociations d’adhésion laissées au point mort depuis plusieurs années. Peut-être une façon de dédommager Ankara de la peine prise à tenter de renverser Assad, une compensation pour les débours liés à la guerre et pour les bénéfices perdus en renonçant à voir s’installer à Damas un gouvernement sunnite islamiste modéré, clone de celui d’Ankara.

Si le président Français, moins habile à l’esquive que les gens de Washington, s’est ridiculisé dans l’affaire syrienne – mais aux yeux de qui ? – la Turquie y a, elle, laissé des plumes… Si Tarik Ramadan, petit fils du fondateur des Frères musulmans dont la chaire d’islamologie à d’Oxford est financée par Doha, pouvait écrire en septembre 2011 que « la visite du Premier Ministre Erdogan Afrique du Nord avait été un immense succès populaire »… « Car depuis trois ans celui-ci est devenu plus populaire et plus respecté pour plusieurs raisons : il a été élu et réélu, et tous, même ses opposants ont reconnu sa compétence et l’efficacité de son gouvernement. La Turquie s’améliore de l’intérieur comme à l’extérieur : moins de corruption, une meilleure gestion, moins de conflit… » [tariqramadan.com20spt11]. Un jugement très laudateur vite cependant démenti par les faits. Si en effet la Turquie a été putativement « du bon côté de l’Histoire » au début des Printemps arabes, il lui a fallu rapidement déchanter son économie ayant subi un sévère coup d’arrêt avec une guerre qui a sonné le glas de ses exportations vers le voisin syrien, et avec la multiplication de camps de réfugiés fort mal tolérés par des populations locales dont certaines s’y sont montrées hostiles.

En 2010, les exportations turques vers la Syrie s’élevaient à 1 845 milliards de dollars. À la fin de l’année 2011 elles étaient descendues à 1 611 milliards… sur un volume total, il est vrai, de 137 mds de $. Mais c’est sans compter les 800 000 Syriens qui – en dépit de la rude dictature assadienne ! – se rendaient chaque année en Turquie pour y faire du tourisme… De plus « depuis que la Syrie est à feu et à sang, les entreprises turques ne peuvent plus y faire transiter leurs marchandises à destination des pays du Golfe et du Machrek” [ceri/fr25oct12]. Alors quoiqu’en disent les experts, même si les échanges avec Damas ne représentaient qu’une une part mineure des échanges commerciaux turcs, les incidences de la guerre sont multiples et toutes ne sont pas encore visibles. En 2012 un net ralentissement de l’économie a commencé à se fait sentir et tend à s’accentuer avec la prolongation de la guerre : la Turquie cumulerait ainsi des pertes économiques se montant à quelque cinq milliards de $ depuis l’éviction en Égypte des Frères musulmans en juillet dernier [Irib2spt13] !

Au chapitre des réfugiés “leur nombre dépasserait les 600.000 personnes, dont plus de 400.000 vivant hors des camps d’accueil installés le long de la frontière” [lesechos.fr21oct13]. Vingt et un camps abritent environ 200.000 réfugiés, or « la Turquie entendant conserver sa politique de « porte ouverte » pour les civils fuyant la guerre en Syrie malgré des fermetures temporaires de la frontière en raison de violences localisées”. À ce sujet le Premier ministre Erdogan avait indiqué en août que son pays avait déjà consacré près de deux milliards de dollars pour abriter les réfugiés [Ibidem]. Un afflux incontrôlable qui a donné lieu en 2012 à de dures émeutes de la part des populations locales… Sur les centaines de milliers de syriens arrivés en Turquie depuis le printemps 2011, seulement deux cent mille – avons-nous dit – on trouvé refuge dans des camps, des dizaines de milliers d’autres s’étant dispersés au milieu des populations urbaines où leur présence est une cause permanente de troubles, principalement ment dans la province de Hatay-Alexandrette, Sandjak arraché à la Syrie en 1938, et dans laquelle cohabitaient jusqu’à présent Alaouites turcisés, Turcs et Kurdes sunnites, Chrétiens et Alévis… “des heurts entre communautés et des manifestations anti-Erdoğan ont déjà eu lieu à Antioche” [lesechos.f16spt13].

Et parce que la Turquie et la Syrie partagent 900 kilomètres de frontières communes le long desquels se déroulent d’intenses combats – particulièrement dans la province d’Idlib où des affrontements opposent tribus kurdes et arabes aux mercenaires du Front al-Nosra – Ankara a décidé de construire un mur de sécurité… en principe pour interdire les entrées clandestines et la contrebande, en réalité pour empêcher les combats opposant Kurdes et insurgés salafistes de s’étendre en territoire turc [Reuters7oct13]. Barrière pour l’heure de quelques kilomètres mais aussitôt qualifiée de « Mur de la honte » par référence au mur de séparation érigé par les autorités israéliennes pour isoler des terres palestiniennes pourtant placées sous le statut de zone d’occupation.

Le gouvernement de l’AKP plombe désormais la Turquie

De ce seul point de vue, il faut insister sur l’épuisement du crédit moral dont bénéficiait jusqu’en 2011 un pouvoir qui, croyant l’heure d’un triomphe islamiste arrivée, s’est fort maladroitement démasqué. Un pouvoir qui s’est montré tel qu’il est, à savoir une démo-théocratie tatillonne et tracassière s’ingérant dans la vie quotidienne d’un peuple dont les pratiques religieuses sont loin d’être homogènes à l’image de la diversité ethnique de la nation turque. Pensons aux dix à vingt pour cent d’Alévis composant la Turquie actuelle, de six à dix millions ! Ces « Têtes rouges » [Qizilbash], turkmènes ou kurdes, insoumises depuis des siècles aux normes d’un sunnisme rarement tolérant voire parfois éradicateur, ne tolérerons pas le durcissement islamiste en cours, le dépérissement de la laïcité qui garantissait peu ou prou leurs libertés religieuses, le retour du foulard, la confessionnalisation des institutions et celle de la vie quotidienne…

Dans le même ordre d’idée, en réponse aux mesures restrictives prises par le gouvernement Erdogan – renforcement de dispositions légales inspirées de la charia, la loi islamique – les étudiants manifestaient hier encore violemment à Ankara faisant écho aux grandes mobilisations de juin, en particulier à Istambul, lesquelles avaient eu des motivations similaires sinon identiques. C’est dire que le gouvernement turc, présenté lors de son élection comme “islamique modéré”, évolue dans le même sens que celui, éphémère des Frères musulmans égyptiens – ou tunisiens – que leur idéologie islamiste ont conduit rapidement à compromettre leurs chances, puis les conduire vers la sortie.

Ainsi donc des choix sociaux, idéologiques et géopolitiques profondément erronés combinés à une inféodation atlantiste sans mesure ni discernement, ont conduit la Turquie prospère a connaître à la fois un affaiblissement économique durable, une notable déstabilisation intérieure, la montée d’une large contestation que la reprise des négociations d’adhésion à l’Union européenne – encalminée ces dernières années avant l’ouverture le 5 novembre du chapitre 22 « Politique régionale et coordination des instruments structurels » – ne sauvera peut-être pas d’un fiasco économique et sociétale qui commence à se profiler à moyen terme. De nombreux facteurs sont réunis qui autorisent en effet un certain pessimisme quant à l’avenir d’un pays qui ne devra peut-être son salut qu’à une entrée tardive dans une Europe en crise mais empressée d’associer à ses propres impuissances les frontières de guerre de la Turquie, sa vocation à l’islamisme rampant et son écrasant poids démographiques. C’est bien entendu faire fi de l’histoire du siècle passée et des leçons qui eussent dû en être tiré depuis la dernière confrontation avec les ambitions turques, lesquelles se sont encore bellement manifestées en juillet et août 1974 et les quelques milliers de morts et de disparus de l’Opération Attila [Cf. note5].

Léon Camus

Comment se reconfigurent les alliances politico-militaires au Moyen-Orient

Comment se reconfigurent les alliances politico-militaires au Moyen-Orient

par Valentin Vasilescu

Ex: http://reseauinternational.net

7g65df56fd5ff56fd546fd56

Sur fond de redéploiement des forces militaires américaines au Moyen-Orient vers le Pacifique occidental pour contrecarrer la Chine, les dirigeants régionaux lâchés par les  américains font et défont des alliances, dont certaines étaient considérées comme contre nature, il y a deux décennies.

Parmi les premiers pays ayant les plus grandes réserves de gaz naturel on trouve en première position la Russie avec 25%, suivie par l’Iran (15,57%). Le Qatar occupe le 3ème  rang (13,39%), l’Arabie saoudite en 5ème place avec 3,92% et les Emirats Arabes Unis en 6ème (3,19%). En 2009, Bachar al-Assad, soutenu par l’Iran et la Russie a refusé d’accepter de construire un gazoduc qui devait partir du Qatar, passer à travers l’Arabie saoudite, la Jordanie et la Syrie pour atteindre la Turquie, où il fournirait le gaz nécessaire au gazoduc Nabucco, éliminant ainsi Gazprom du marché. Par coïncidence, immédiatement après ce refus la guerre civile a éclaté en Syrie.

Les relations américaines avec l’Arabie saoudite ont eu des défaillances visibles avec la décision du président Obama de renoncer à bombarder la Syrie, à la suite d’ingénieuses initiatives prises par la Russie dans le jeu diplomatique. Les récentes victoires obtenues sur tous les fronts par l’armée syrienne ont convaincu le gouvernement américain de rallier la position de la Russie en matière de négociation pour l’avenir de la Syrie. Ce qui a provoqué le grand mécontentement de l’Arabie saoudite et du Qatar qui, de 2010 et jusqu’à présent, ont dépensé plus de 4 milliards de dollars pour le recrutement et l’armement des rebelles islamistes envoyés pour renverser Bachar al-Assad.

Les manifestations de rue en Turquie à l’été-automne de 2013 ont mis fin aux aspirations induites par l’Arabie saoudite et le Premier ministre Recep Tayyip Erdogan, pour restaurer les frontières de l’Islam en Europe comme elles l’étaient dans la période 1860-1878, sous l’Empire ottoman, incluant l’Albanie, le Monténégro, la Macédoine et la Grèce du Nord jusqu’au golfe de Corinthe, le Kosovo et la Bosnie-Herzégovine. Voir la carte:

187860BK

Le 7 Novembre 2013, à l’initiative de la Russie à Genève a commencé un nouveau cycle de négociations dans le format des Six (les cinq membres permanents du Conseil de sécurité de l’ONU et l’Allemagne) avec des représentants de l’Iran. Préalablement préparé pendant plusieurs mois, les Etats-Unis avaient déclaré sans équivoque qu’ils étaient prêts à lever progressivement les sanctions contre l’Iran. Le Washington Post a rapporté que les dix espions d’élite israéliens qui ont agi à l’intérieur du territoire Iranien ont été surpris recevant des instructions de leurs agents de liaison Israéliens en Turquie. Après avoir été découverts, les agents israéliens ont été envoyés aux services de contre-espionnage turc. Cet incident prouve que le bon vieux temps où les services secrets turcs, le MIT, collaboraient à l’infiltration des agents israéliens en Irak et en l’Iran à partir du territoire turc est bien fini. Cet incident est compréhensible si l’on considère que le chef des services de renseignement turc et le vice-ministre iranien des renseignements ont signé un accord de coopération et de soutien mutuel dans lequel l’Iran et la Turquie s’engagent à ne permettre à aucun autre pays d’utiliser le territoire d’une des parties pour lancer une action militaire ou d’espionnage contre l’autre. Cet accord a été signé avec l’approbation tacite des Etats-Unis, au moment où Victoria Nuland, secrétaire d’Etat adjoint pour les affaires européennes et asiatiques était en visite à Ankara.

A la suite de ces développements inattendus, en Octobre 2013, une délégation avec l’Arabie Saoudite, le Qatar, Oman, le Koweït et le Bahreïn s’est rendue en Israël pour trouver une solution à la crise provoquée par l’annulation par les Etats-Unis de tout projet d’attaque contre l’Iran. On peut supposer que les personnes présentes ont convenu de faire autre chose que seulement unir leurs forces pour faire pression contre les nouvelles orientations de la politique étrangère d’Obama, par leur lobby au Congrès comme ils l’ont fait jusqu’alors.

Israël détient actuellement quatre sous-marins allemands de la classe Dolphin (Type 212)  et en a récemment commandé 6 autres. Le Journal allemand Bild a rapporté que les responsables israéliens auraient emmené  avec eux leurs homologues saoudiens dans les chantiers navals ThyssenKrupp dans le nord de l’Allemagne qui produit les sous-marins. Ils ont manifesté leur intention d’acquérir seulement 25 sous-marins allemands de type 212, offrant 2,5 milliards pour les premiers 5. Les demandes d’armes saoudiennes qui ont été rejetées par le passé par l’Allemagne pour des raisons de sécurité liées à l’Etat d’Israël, sont désormais recevables. Notez que l’armée saoudienne qui possède des armes modernes importées des États-Unis, de Grande-Bretagne et de France, est classée 7ème dans le monde, avec un budget annuel de 56,7 milliards de dollars, devant l’Inde, l’Allemagne, l’Italie et la Corée du Sud. L’Arabie saoudite a également appelé à avoir un siège permanent au Conseil de sécurité de l’ONU en faisant valoir que les cinq membres permanents (Etats-Unis, Russie, Chine, France et Grande-Bretagne) ne peuvent pas résoudre les problèmes complexes du Moyen-Orient sans son soutien.

Le Secrétaire d’Etat américain, John Kerry, a effectué une visite imprévue à l’Arabie saoudite, où il a rencontré le Roi Abudullah bin Abdulaziz et son homologue saoudien Saud al-Faisal pour désamorcer les tensions créées par Riyad dans ses relations avec Washington.

Kerry a refusé la participation à la réunion de Bandar al-Sultan, le puissant chef des services de renseignement saoudiens, un homme de grande influence sur les chefs militaires saoudiens. Kerry avait demandé précédemment à Sultan de changer sa stratégie en cessant pendant un certain temps de soutenir des groupes terroristes, notamment Al-Qaïda. Sultan non seulement ne s’y est pas conformé, mais a menacé Kerry qu’il cesserait toute coopération en matière de ligne de sécurité avec Washington.

Que sait Kerry et que Sultan ne veut pas comprendre ?

Dans une récente interview avec des journalistes russes, le ministre russe de la Défense Sergueï Choïgou a dit: « l’ennemi principal de la Russie est le terrorisme international, regardez qui combat en Syrie, l’Afghanistan, le Mali, la Libye". Le précédent établi par le déclenchement du «printemps arabe», qui ne voulait pas la démocratie, mais générer l’instabilité à grande échelle sous prétexte d’islamisation a été suivi par l’armement d’une entité non étatique, comme les mercenaires islamistes de la Syrie, par l’Arabie saoudite et le Qatar, ainsi que des frappes aériennes israéliennes répétées contre les troupes et l’aviation, les stocks d’armes de l’armée nationale syrienne, et ce dans le but d’aider les rebelles.

Tout ceci a conduit à l’ouverture de la boîte de Pandore et la Russie ne peut pas laisser les choses en l’état sans prendre des mesures appropriées. Il est inutile d’expliquer que cette déclaration définit également la mise en place et le rôle de la flotte russe nouvellement créée opérant à l’heure actuelle, en Méditerranée orientale. Dans la première partie de l’année 2014, ira rejoindre la flotte russe en Méditerranée le premier navire de débarquement-porte-hélicoptères russe de classe Mistral, ce qui explique pourquoi l’Arabie saoudite est soudainement saisie d’amour pour les sous-marins allemands. La Base aérienne de Papandreou à Paphos à Chypre est également conçue par la Russie pour accueillir, à partir de 2014, la composante aérienne de la force de lutte contre le terrorisme, qui se compose d’un groupe d’avions de combat, armés principalement de missiles de croisière furtifs Kh-101(3500 km de rayon d’action) et un groupe d’avions de transport lourd (4000 km de rayon d’action) nécessaire pour le parachutage des régiments 108 et 247, appartenant aux forces d’opérations spéciales russes.

Le premier pas dans la déclaration de guerre totale contre le terrorisme par la Russie a été franchi le 7 Novembre 2013, quand la première tranche du matériel de lutte antiterroriste a été livrée en Irak par la Russie, dont quatre hélicoptères d’attaque et des systèmes de défense AA. Etant confronté pendant plus de 8 ans à une vague d’attentats interethniques sans fin, l’Irak veut y mettre fin au plus tôt en demandant le soutien russe. L’Irak qui se trouve à proximité de la Turquie et de l’Iran et dont les réserves pétrolières sont classées 6ème dans le monde, ne peut pas exploiter ce potentiel à l’exportation en raison de la concurrence féroce de l’Arabie Saoudite et de ses satellites du Golfe qui coïncide avec une instabilité intérieure produite et alimentée en permanence.

http://romanian.ruvr.ru/2013_11_09/Irakul-cere-sprijinul-Rusiei-9978/

Après la suspension de l’aide annuelle accordée pour les armes de 1,5 milliard de dollars par les États-Unis (qui comprenait quatre F-16, 10 AH-64 Apache, quatre chars M1A1, des pièces détachées pour ces appareils, et des missiles antinavires Harpoon), l’Egypte a décidé de mettre fin à la coopération avec les Etats-Unis, changeant, comme l’Irak, la direction géopolitique régionale, en demandant le soutien de la Russie pour mettre fin aux attaques terroristes perpétrées par les Frères musulmans. Sergueï Choïgou et Sergueï Lavrov ont discuté avec leurs homologues égyptiens au Caire le 13 Novembre 2013, au sujet d’un contrat d’armement 4 milliards de dollars, financé par un crédit russe. Ils ont également préparé la visite du président Vladimir Poutine en Egypte, qui aura lieu à la fin de ce mois, au cours de laquelle le contrat sera signé. Cela pourrait être, dans un premier temps, des hélicoptères d’attaque Mi-28 (à la place des AH-64 américains),  des MiG-29M et des Su-30MK2 (à la place des F-16 block 52) et des batteries de missiles côtières Bastion-P, armées de missiles supersoniques Yakhont (à la place des missiles Harpoon). Ce moment marque aussi un possible retour de la Russie, après une absence de 40 ans, dans son ancienne base aérienne dans la péninsule de Ras Banas, sur la mer Rouge (située à 200 km de la base navale saoudienne de Yanbu et à 400 km de la base aérienne de Djeddah) d’où ils ont été évacués pour laisser la place aux Américains. Ainsi que l’installation du Quartier Général des forces navales anti-terroristes russes à Port-Saïd, base navale qui contrôle l’accès au canal de Suez.

A partir de maintenant les groupes terroristes du Moyen-Orient ne pourront plus compter du tout sur l’élément  clé que représentent les «frappes préventives» américaines ou sur un possible soutien aérien de la part Israël, l’Arabie Saoudite et ses satellites dans le Golfe. Dans un ancien article, je précisais qu’Almaz-Antei avait finalisé l’organisation de la production des systèmes S-300 PMU-2, PMU-3 (S-400 Triumf) dans ses usines de Nijni-Novgorod et Kirov qui atteindront leur pleine capacité au début de 2014. En 2015, lorsque la production va introduire les nouveaux systèmes S-500 et va ouvrir 3 autres usines de missiles antibalistiques, Almaz-Antei deviendra un leader mondial dans cette catégorie d’armes. La mise à niveau des anciens systèmes de missiles AA russes dans les usines russes et soviétiques à Nijni et Kirov, tout en acquérant de nouveaux systèmes AA à longue portée, semble être l’une des solutions les plus pratiques dans les États et les organisations politico-militaires de la région, ravagée par les actions des groupes terroristes. Parce que les nouveaux systèmes AA russes sont conçus pour annihiler l’avantage qu’ont Israël, l’Arabie Saoudite et ses satellites du Golfe, dotés d’une flotte d’avions modernes, des F-15, F-16, F-18, Eurofighter Typhoon et AH-64 Apache.

http://reseauinternational.net/2013/06/18/enorme-investissement-de-la-russie-dans-la-capacite-de-production-de-missiles-aa-de-longue-portee/

Par Valentin Vasilescu, pilote d’aviation, ancien commandant adjoint des forces militaires à l’Aéroport Otopeni, diplômé en sciences militaires à l’Académie des études militaires à Bucarest 1992.

Traduction Avic

Comment se reconfigurent les alliances politico-militaires au Moyen-Orient

Comment se reconfigurent les alliances politico-militaires au Moyen-Orient

par Valentin Vasilescu

Ex: http://reseauinternational.net

7g65df56fd5ff56fd546fd56

Sur fond de redéploiement des forces militaires américaines au Moyen-Orient vers le Pacifique occidental pour contrecarrer la Chine, les dirigeants régionaux lâchés par les  américains font et défont des alliances, dont certaines étaient considérées comme contre nature, il y a deux décennies.

Parmi les premiers pays ayant les plus grandes réserves de gaz naturel on trouve en première position la Russie avec 25%, suivie par l’Iran (15,57%). Le Qatar occupe le 3ème  rang (13,39%), l’Arabie saoudite en 5ème place avec 3,92% et les Emirats Arabes Unis en 6ème (3,19%). En 2009, Bachar al-Assad, soutenu par l’Iran et la Russie a refusé d’accepter de construire un gazoduc qui devait partir du Qatar, passer à travers l’Arabie saoudite, la Jordanie et la Syrie pour atteindre la Turquie, où il fournirait le gaz nécessaire au gazoduc Nabucco, éliminant ainsi Gazprom du marché. Par coïncidence, immédiatement après ce refus la guerre civile a éclaté en Syrie.

Les relations américaines avec l’Arabie saoudite ont eu des défaillances visibles avec la décision du président Obama de renoncer à bombarder la Syrie, à la suite d’ingénieuses initiatives prises par la Russie dans le jeu diplomatique. Les récentes victoires obtenues sur tous les fronts par l’armée syrienne ont convaincu le gouvernement américain de rallier la position de la Russie en matière de négociation pour l’avenir de la Syrie. Ce qui a provoqué le grand mécontentement de l’Arabie saoudite et du Qatar qui, de 2010 et jusqu’à présent, ont dépensé plus de 4 milliards de dollars pour le recrutement et l’armement des rebelles islamistes envoyés pour renverser Bachar al-Assad.

Les manifestations de rue en Turquie à l’été-automne de 2013 ont mis fin aux aspirations induites par l’Arabie saoudite et le Premier ministre Recep Tayyip Erdogan, pour restaurer les frontières de l’Islam en Europe comme elles l’étaient dans la période 1860-1878, sous l’Empire ottoman, incluant l’Albanie, le Monténégro, la Macédoine et la Grèce du Nord jusqu’au golfe de Corinthe, le Kosovo et la Bosnie-Herzégovine. Voir la carte:

187860BK

Le 7 Novembre 2013, à l’initiative de la Russie à Genève a commencé un nouveau cycle de négociations dans le format des Six (les cinq membres permanents du Conseil de sécurité de l’ONU et l’Allemagne) avec des représentants de l’Iran. Préalablement préparé pendant plusieurs mois, les Etats-Unis avaient déclaré sans équivoque qu’ils étaient prêts à lever progressivement les sanctions contre l’Iran. Le Washington Post a rapporté que les dix espions d’élite israéliens qui ont agi à l’intérieur du territoire Iranien ont été surpris recevant des instructions de leurs agents de liaison Israéliens en Turquie. Après avoir été découverts, les agents israéliens ont été envoyés aux services de contre-espionnage turc. Cet incident prouve que le bon vieux temps où les services secrets turcs, le MIT, collaboraient à l’infiltration des agents israéliens en Irak et en l’Iran à partir du territoire turc est bien fini. Cet incident est compréhensible si l’on considère que le chef des services de renseignement turc et le vice-ministre iranien des renseignements ont signé un accord de coopération et de soutien mutuel dans lequel l’Iran et la Turquie s’engagent à ne permettre à aucun autre pays d’utiliser le territoire d’une des parties pour lancer une action militaire ou d’espionnage contre l’autre. Cet accord a été signé avec l’approbation tacite des Etats-Unis, au moment où Victoria Nuland, secrétaire d’Etat adjoint pour les affaires européennes et asiatiques était en visite à Ankara.

A la suite de ces développements inattendus, en Octobre 2013, une délégation avec l’Arabie Saoudite, le Qatar, Oman, le Koweït et le Bahreïn s’est rendue en Israël pour trouver une solution à la crise provoquée par l’annulation par les Etats-Unis de tout projet d’attaque contre l’Iran. On peut supposer que les personnes présentes ont convenu de faire autre chose que seulement unir leurs forces pour faire pression contre les nouvelles orientations de la politique étrangère d’Obama, par leur lobby au Congrès comme ils l’ont fait jusqu’alors.

Israël détient actuellement quatre sous-marins allemands de la classe Dolphin (Type 212)  et en a récemment commandé 6 autres. Le Journal allemand Bild a rapporté que les responsables israéliens auraient emmené  avec eux leurs homologues saoudiens dans les chantiers navals ThyssenKrupp dans le nord de l’Allemagne qui produit les sous-marins. Ils ont manifesté leur intention d’acquérir seulement 25 sous-marins allemands de type 212, offrant 2,5 milliards pour les premiers 5. Les demandes d’armes saoudiennes qui ont été rejetées par le passé par l’Allemagne pour des raisons de sécurité liées à l’Etat d’Israël, sont désormais recevables. Notez que l’armée saoudienne qui possède des armes modernes importées des États-Unis, de Grande-Bretagne et de France, est classée 7ème dans le monde, avec un budget annuel de 56,7 milliards de dollars, devant l’Inde, l’Allemagne, l’Italie et la Corée du Sud. L’Arabie saoudite a également appelé à avoir un siège permanent au Conseil de sécurité de l’ONU en faisant valoir que les cinq membres permanents (Etats-Unis, Russie, Chine, France et Grande-Bretagne) ne peuvent pas résoudre les problèmes complexes du Moyen-Orient sans son soutien.

Le Secrétaire d’Etat américain, John Kerry, a effectué une visite imprévue à l’Arabie saoudite, où il a rencontré le Roi Abudullah bin Abdulaziz et son homologue saoudien Saud al-Faisal pour désamorcer les tensions créées par Riyad dans ses relations avec Washington.

Kerry a refusé la participation à la réunion de Bandar al-Sultan, le puissant chef des services de renseignement saoudiens, un homme de grande influence sur les chefs militaires saoudiens. Kerry avait demandé précédemment à Sultan de changer sa stratégie en cessant pendant un certain temps de soutenir des groupes terroristes, notamment Al-Qaïda. Sultan non seulement ne s’y est pas conformé, mais a menacé Kerry qu’il cesserait toute coopération en matière de ligne de sécurité avec Washington.

Que sait Kerry et que Sultan ne veut pas comprendre ?

Dans une récente interview avec des journalistes russes, le ministre russe de la Défense Sergueï Choïgou a dit: « l’ennemi principal de la Russie est le terrorisme international, regardez qui combat en Syrie, l’Afghanistan, le Mali, la Libye". Le précédent établi par le déclenchement du «printemps arabe», qui ne voulait pas la démocratie, mais générer l’instabilité à grande échelle sous prétexte d’islamisation a été suivi par l’armement d’une entité non étatique, comme les mercenaires islamistes de la Syrie, par l’Arabie saoudite et le Qatar, ainsi que des frappes aériennes israéliennes répétées contre les troupes et l’aviation, les stocks d’armes de l’armée nationale syrienne, et ce dans le but d’aider les rebelles.

Tout ceci a conduit à l’ouverture de la boîte de Pandore et la Russie ne peut pas laisser les choses en l’état sans prendre des mesures appropriées. Il est inutile d’expliquer que cette déclaration définit également la mise en place et le rôle de la flotte russe nouvellement créée opérant à l’heure actuelle, en Méditerranée orientale. Dans la première partie de l’année 2014, ira rejoindre la flotte russe en Méditerranée le premier navire de débarquement-porte-hélicoptères russe de classe Mistral, ce qui explique pourquoi l’Arabie saoudite est soudainement saisie d’amour pour les sous-marins allemands. La Base aérienne de Papandreou à Paphos à Chypre est également conçue par la Russie pour accueillir, à partir de 2014, la composante aérienne de la force de lutte contre le terrorisme, qui se compose d’un groupe d’avions de combat, armés principalement de missiles de croisière furtifs Kh-101(3500 km de rayon d’action) et un groupe d’avions de transport lourd (4000 km de rayon d’action) nécessaire pour le parachutage des régiments 108 et 247, appartenant aux forces d’opérations spéciales russes.

Le premier pas dans la déclaration de guerre totale contre le terrorisme par la Russie a été franchi le 7 Novembre 2013, quand la première tranche du matériel de lutte antiterroriste a été livrée en Irak par la Russie, dont quatre hélicoptères d’attaque et des systèmes de défense AA. Etant confronté pendant plus de 8 ans à une vague d’attentats interethniques sans fin, l’Irak veut y mettre fin au plus tôt en demandant le soutien russe. L’Irak qui se trouve à proximité de la Turquie et de l’Iran et dont les réserves pétrolières sont classées 6ème dans le monde, ne peut pas exploiter ce potentiel à l’exportation en raison de la concurrence féroce de l’Arabie Saoudite et de ses satellites du Golfe qui coïncide avec une instabilité intérieure produite et alimentée en permanence.

http://romanian.ruvr.ru/2013_11_09/Irakul-cere-sprijinul-Rusiei-9978/

Après la suspension de l’aide annuelle accordée pour les armes de 1,5 milliard de dollars par les États-Unis (qui comprenait quatre F-16, 10 AH-64 Apache, quatre chars M1A1, des pièces détachées pour ces appareils, et des missiles antinavires Harpoon), l’Egypte a décidé de mettre fin à la coopération avec les Etats-Unis, changeant, comme l’Irak, la direction géopolitique régionale, en demandant le soutien de la Russie pour mettre fin aux attaques terroristes perpétrées par les Frères musulmans. Sergueï Choïgou et Sergueï Lavrov ont discuté avec leurs homologues égyptiens au Caire le 13 Novembre 2013, au sujet d’un contrat d’armement 4 milliards de dollars, financé par un crédit russe. Ils ont également préparé la visite du président Vladimir Poutine en Egypte, qui aura lieu à la fin de ce mois, au cours de laquelle le contrat sera signé. Cela pourrait être, dans un premier temps, des hélicoptères d’attaque Mi-28 (à la place des AH-64 américains),  des MiG-29M et des Su-30MK2 (à la place des F-16 block 52) et des batteries de missiles côtières Bastion-P, armées de missiles supersoniques Yakhont (à la place des missiles Harpoon). Ce moment marque aussi un possible retour de la Russie, après une absence de 40 ans, dans son ancienne base aérienne dans la péninsule de Ras Banas, sur la mer Rouge (située à 200 km de la base navale saoudienne de Yanbu et à 400 km de la base aérienne de Djeddah) d’où ils ont été évacués pour laisser la place aux Américains. Ainsi que l’installation du Quartier Général des forces navales anti-terroristes russes à Port-Saïd, base navale qui contrôle l’accès au canal de Suez.

A partir de maintenant les groupes terroristes du Moyen-Orient ne pourront plus compter du tout sur l’élément  clé que représentent les «frappes préventives» américaines ou sur un possible soutien aérien de la part Israël, l’Arabie Saoudite et ses satellites dans le Golfe. Dans un ancien article, je précisais qu’Almaz-Antei avait finalisé l’organisation de la production des systèmes S-300 PMU-2, PMU-3 (S-400 Triumf) dans ses usines de Nijni-Novgorod et Kirov qui atteindront leur pleine capacité au début de 2014. En 2015, lorsque la production va introduire les nouveaux systèmes S-500 et va ouvrir 3 autres usines de missiles antibalistiques, Almaz-Antei deviendra un leader mondial dans cette catégorie d’armes. La mise à niveau des anciens systèmes de missiles AA russes dans les usines russes et soviétiques à Nijni et Kirov, tout en acquérant de nouveaux systèmes AA à longue portée, semble être l’une des solutions les plus pratiques dans les États et les organisations politico-militaires de la région, ravagée par les actions des groupes terroristes. Parce que les nouveaux systèmes AA russes sont conçus pour annihiler l’avantage qu’ont Israël, l’Arabie Saoudite et ses satellites du Golfe, dotés d’une flotte d’avions modernes, des F-15, F-16, F-18, Eurofighter Typhoon et AH-64 Apache.

http://reseauinternational.net/2013/06/18/enorme-investissement-de-la-russie-dans-la-capacite-de-production-de-missiles-aa-de-longue-portee/

Par Valentin Vasilescu, pilote d’aviation, ancien commandant adjoint des forces militaires à l’Aéroport Otopeni, diplômé en sciences militaires à l’Académie des études militaires à Bucarest 1992.

Traduction Avic

Entrevista a Alexander Dugin

Alexander-Dugin.jpg

Entrevista a Alexander Dugin: El Occidente actual debe ser aniquilado y la humanidad debe ser reconstruida en un terreno diferente

Ex: http://paginatransversal.wordpress.com

[Aecio] Excelente entrevista que realiza la revista lituana Radikaliai a Alexander Dugin, donde con un toque más personal se habla del posible colapso del mundo occidental, la Cuarta Teoría Política y sus fundamentos, la situación actual del Eurasianismo de la mano de Rusia y la visión del mundo post-moderno que nos depara.

Mindaugas Peleckis: Estimado profesor ¿podríamos iniciar la conversación con su muy interesante biografía? Antes que nada ¿es cierto lo que está escrito en Wikipedia y otras fuentes oficiales? ¿Qué es verdad y qué no lo es? Padre que trabajaba en la GRU; nazi del círculo dirigido por E. Golovin; muchas perturbaciones políticas; un buen amigo del Sr. Putin…

Alexander Dugin: Todo es pura mentira. Ni Putin, ni nazi, ni padre en el GRU y así sucesivamente. Mi biografía es mi bibliografía (cf. J.Evola). No cambio nada en Wikipedia por dos razones:

1) Hay un grupo de administradores Wiki liberales que restablecerán de inmediato todas las mentiras para conservar la imagen peyorativa de mi persona (la guerra cibernética – es sólo una democracia, no es nada personal, pero la democracia es siempre una mentira).

2) El individuo (Yo mismo) no importa. Para mí, sólo importa la misión.

Hasta ahora no me siento inclinado a hablar de mi persona. Lea mis libros, forme su opinión personal acerca de mis ideas (primero) y la personalidad del autor (segundo – es opcional).

M. P.: De todas maneras lo principal a discutir en esta entrevista son sus ideas, las cuales considero bastante interesantes y de importancia global a medida que el mundo occidental parece estar colapsando. ¿Lo es? El fin de la civilización occidental se predijo bastante tiempo atrás. ¿Cuánto tiempo tenemos que esperar? ¿Hay algo que tiene que suceder? ¿La Tercera Guerra Mundial? ¿Revolución mundial? ¿Nada (significando el colapso como un proceso natural)?

A. D.: Yo más bien creo que no pasará nada, nada en absoluto. Eso es algo que es realmente terrible. La eternidad es el momento perpetuo del aburrimiento. Heidegger estudió en su obra “Die Grundbegriffen der Metaphysik” el fenómeno del aburrimiento profundo. Como la función existencial del Dasein moderno. El gnóstico Basílides describió al mundo después del fin como completamente equilibrado, el mundo sin ningún acontecimiento. Eso no quiere decir que no haya más eventos, significa más bien que no vivimos los acontecimientos como eventos. El colapso duradero es bien analizado por el escritor inglés Alex Kurtagić.

El verdadero problema viene cuando nadie percibe que es un problema. Así que estamos aquí. El Occidente es el centro del aburrimiento. No explota, más bien implosiona cada vez más y más profundo.

Tienen razón en que durará para siempre. El fin del mundo es la imposibilidad del mundo a acabarse. El mundo sin fin ya no es más el mundo, es la suma de los fragmentos sin sentido del todo inexistente. Estamos viviendo en las hipótesis 6-9 de “Parménides” de Platón – hay multitudes (πολλά), pero no hay ninguna unidad (ἓν). Tal mundo no puede existir (según los neoplatónicos). Estoy bastante de acuerdo con ellos, no con los medios de comunicación y la cultura prêt a porter o con los intelectuales hegemónicos.

M. P.: Usted publicó muchos libros – ni siquiera puedo contarlos ¿usted podría?. Recuerdo el primero que leí – era sorprendente- en 1999, sobre conspirología. ¿Usted cree en una conspiración global seria como Bilderberg/Masones/ Illuminati o cualquier otro que esté realmente pasando en este momento? Si es así, por favor explique cómo funciona y qué debemos esperar más adelante.

A. D.: No recuerdo la cantidad de mis libros, recuerdo su calidad. La calidad es muy diferente, ya que los libros fueron escritos para públicos diversos. La conspirología es descrita por mí como una especie de sociología primitiva. Para la sociología, hay un punto muy importante: lo que la sociedad piensa sobre lo que está sucediendo a su alrededor es importante, no menos de lo que sucede realmente o lo que los expertos científicos piensan. Así que estudiando las teorías de conspiración estudiamos la mente de la gente, los mitos, la cultura, los miedos, las estructuras gnoseológicas y cognitivas. La gente cree en conspiraciones. Eso significa que “existen” o ” subsisten ” (de acuerdo a la ontología diferenciada de Alexius Meinong).

M. P.: Se le considera como el padre del Eurasianismo y de la Cuarta Teoría Política. ¿Podría explicar los fundamentos de sus ideas?

A. D.: El Eurasianismo no ve a Rusia como país, sino como una civilización. Por lo tanto, debe compararse no con países europeos o asiáticos, si no con Europa o el islam o las civilizaciones hindúes. Rusia-Eurasia consiste en elementos modernos y pre-modernos, de culturas y etnias europeas y orientales. Esta identidad particular debe ser reconocida y reafirmada en el marco de un nuevo proyecto de integración. El eurasianismo niega la universalidad de la civilización occidental y la unidimensionalidad del proceso histórico (dirigida hacia el liberalismo, la democracia, los derechos humanos, la economía de marcado y así sucesivamente).

Hay diferentes culturas con diferentes antropologías, ontologías, valores, tiempos y espacios. El Occidente no es otra cosa que el mundo hipertrofiado e insolente con megalomanía. Es el caso más abyecto del hybris. La humanidad debe luchar contra Occidente con el fin de poner sus pretensiones en los límites legítimos. El mundo debe convertirse en lo que es -la provincia, el caso aislado histórico, la elección – no el destino universal y normativo o el objetivo común.

La Cuarta Teoría Política es la teoría que afirma:

1) Las tres principales ideologías políticas modernas (liberalismo, comunismo/socialismo, fascismo /nacionalsocialismo) ya no son adecuadas – así que tenemos que descartarlas todas, lo que significa no más liberalismo, socialismo, fascismo (chequee lo del fascismo y compare con lo que dicen de mí);

2) Necesitamos construir la Cuarta Teoría Política más allá, descartando las tres, y esta debe ser no-moderna (puede ser post-moderna, puede ser pre-moderna);

3) El sujeto de la Cuarta Teoría Política es el Dasein que Heidegger ha descrito en sus obras (no el individuo como en el liberalismo, ni la de clase como en el marxismo, ni la raza/estado como en el nacionalsocialismo/fascismo) – El Dasein debe ser liberado del modo inauténtico de la existencia;

4) El Dasein es plural y depende de la cultura, por lo que el mundo debe ser multipolar (cada cultura, etnia o religión tiene su propio Dasein – no son necesariamente contradictorios pero sí son diferentes)

5) Hacemos un llamado a la revolución mundial existencial de los DaseinsDaseins de las sociedades humanas unidas por la lucha contra hegemónica – en contra de la globalización occidental y el universalismo liberal, así como en contra de la dominación de Estados Unidos.

M. P.: La Unión Euroasiática se estableció hace varios años. Ahora parece que está en el limbo, aunque se puede ver que la parte oriental del mundo (China, Irán, etc.) es cada vez más fuerte mientras la occidental se debilita. ¿Sucede así? ¿Cuál es la situación actual con la Unión Euroasiática y cual que es su predicción para el futuro?

A. D.: La Unión Euroasiática es nuestra idea tomada por los burócratas de Putin. Creo que es la única manera de asegurar el futuro de Rusia y una condición indispensable para la multipolaridad. Rusia debe estar en el lado de las potencias no occidentales. Hay muchos problemas con la Unión Euroasiática, objetiva y subjetivamente. La hegemonía de Estados Unidos y la quinta columna en Rusia la sabotean activamente, y la ineficacia de la burocracia rusa empeora la situación. No obstante, se llevará a cabo, porque debe hacerse.

M. P.: Guerras y revoluciones suceden en todas partes actualmente… Malí, Siria, Palestina, Túnez… ¿Qué piensa acerca de la situación en el Magreb/Oriente Medio? ¿Terminará en un baño de sangre y con otros diez años de guerra?

A. D.: No, nunca va a terminar. Es el proyecto caótico patrocinado por el Occidente que está perdiendo su poder para controlar las sociedades no occidentales por otros medios. La sangre será derramada más y más. Sólo cuando todos los musulmanes apunten sus armas contra los occidentales y se unan a la batalla eurasianista final contra la hegemonía esta se detendrá. El Imperio sigue dividiendo, pero ya no puede controlar todo efectivamente. Así que empieza a dividir y eso es todo. No puede gobernar, sólo matar. Así que tenemos que devolver el golpe.

M. P.: ¿Cuál es su opinión sobre el Islam e Irán?

A. D.: Admiro Irán y admiro el Chiísmo y el Sufismo. Es una tradición espiritual que lucha en contra de la modernidad apuntando a su centro. Hay muchos tipos de Islam. Me gustar el Islam tradicional y tengo algunas dudas sobre la versión wahabista. Es una versión modernista y universalista del Islam, además que parece funcionar acorde a los intereses de Estados Unidos como una especie de unidad sub-imperialista. Así que apoyo el tradicionalismo en todas las religiones. Sin embargo, amo con mi corazón a Irán y a la tradición chií.

M. P.: ¿Qué mundo futuro (cercano y lejano) te gustaría ver? ¿Cuál es su visión?

A. D.: En la situación actual estamos desprovistos de futuro. Entiendo el futuro existencialmente como el horizonte de la auténtica existencia del Dasein, como Ereignis (acontecimiento/ser parte de), la llegada del último Dios (letzte Gott). Pero este futuro es incompatible con el Logos en descomposición de la historia occidental. El Occidente actual (Estados Unidos y parte de Europa) debe ser aniquilado y la humanidad debe ser reconstruida en un terreno diferente – en frente de la cara de la Muerte y el Abismo.

Debe haber un nuevo comienzo de la filosofía o… nada de nada. La misma nada como ahora, no se percibe más como tal. Así que el futuro no vendrá por sí mismo. Tenemos que hacerlo. Pero antes hay que destruir lo que es o parece ser.

M. P.: Como veo en Facebook y páginas de Internet, hay un montón de gente dispuesta a algún cambio revolucionario de paradigma en su mente, e incluso quizás a revoluciones físicas. ¿Son cambios reales que vienen a nuestro mundo? ¿Podría predecir cuándo y cómo?

A. D.: El cambio de paradigma es absolutamente necesario. No veo suficientes hombres y mujeres dispuestos a cambiarse a sí mismos y el mundo que los rodea. Pero veo algo. Es demasiado pequeño para la esperanza, pero demasiado grande para la desesperación. Me gustaría ver medidas más decididas y concretas. Es bueno que algunos comiencen a despertar. Obviamente el odio a Occidente, a la globalización, al consumismo, a los medios de comunicación, a las mentiras democráticas, a la basura de los derechos humanos, a la dictadura del capitalismo, a la llamada “sociedad civil” y a la dominación estadounidense es cada vez mayor. Así que debemos ir más allá. La vigilia significa la revolución y la guerra. Es poco probable que comience ahora. Pero deberían comenzar ahora mismo, porque mañana será demasiado tarde.

M. P.: Deseándole todo lo mejor y dándole las gracias por las respuestas, la última pregunta por ahora: ¿cuáles son las principales ideas en las que está trabajando actualmente?

A. D.: Algunos proyectos actuales son:

-El manual de Relaciones Internacionales para las universidades rusas.
-La teoría de mundo multipolar (publicada, pero aún en desarrollo).
-El desarrollo de la Cuarta Teoría Política.
-Estudios de Heidegger en el campo de la filosofía (He escrito dos libros sobre Heidegger ya y seguiré trabajando sobre el mismo tema).
-El tradicionalismo (Henri Corbin, el círculo Eranos – Recientemente he comprado todos los números de la Eranos Jahrbuch en Suiza).
-La sociología de la imaginación (en el estilo de G.Durand – Hice hace dos años el doctorado sobre el tema).
-Nuevos libros de geopolítica (geopolítica histórica de Rusia, las regiones del mundo, y así sucesivamente).
-Platonismo y neoplatonismo, eurasianismo (por supuesto).
-La teología ortodoxa.
-Antropología Social y etnosociología.
-Economía (vías alternativas).
-Estudios conservadores.

También:

-La enseñanza en la Universidad Estatal de Moscú (siendo jefe del departamento de Sociología de Relaciones Internacionales) – Relaciones Internacionales, Geopolítica, Etnosociología, Sociología.
-Conferencias (en todo el mundo)
-Asesorar al Gobierno ruso y el Parlamento (siendo miembro oficial del consejo de asesores del jefe del Estado del Parlamento, S. Narishkin).
-Dirigir el Movimiento Eurasiático Internacional

M. P.: Gracias.

A. D.: De nada

Fuente: The Four Political Theory

lundi, 18 novembre 2013

NATO’s Terror Campaign in Central Asia

 

NATO’s Terror Campaign in Central Asia

 

In this age of manufactured terror, one of the most vital regions on the global chessboard is also an area that few in the West know anything about: Central Asia.

This geostrategic and resource-rich area on the doorstep of China and Russia finds itself in the middle of an all out terror campaign. But, as key national intelligence whistleblowers are pointing out, these terrorists are working hand-in-glove with NATO.

This important GRTV Backgrounder was originally aired on Global Research TV on March 14, 2013.

Ever since the staged false flag attacks of 9/11, the US government and its complicit corporate media have focused their attention on fighting the shadowy, all-pervasive, all-powerful, ill-defined and undefeatable “Al Qaeda” enemy that is supposedly menacing the US and its allies at home and abroad. The term “Al Qaeda” of course is merely a cipher for “excuse to invade.” In the case of Afghanistan, for instance, the US used the threat of Al Qaeda as the excuse for their 12 year long invasion and occupation of the country. In Libya and Syria, the US and its allies are supporting those same self-described Al Qaeda-affiliated fighters. The ruse has long since become obvious.

Less obvious, then, because it has been taking place completely under the radar of media attention, is another front in the so-called war on terror: Central Asia and the Caucasus region. Encompassing the region surrounding the Black Sea and the Caspian Sea, this area has long been identified as perhaps the most geostrategically vital part of the globe. It provides access to the exceptionally rich Caspian oil and gas deposits, hosts the “New Silk Road,” a vital trade route between China and Europe, and sits on the doorstep of China and Russia. And it just so happens to have a terrorist problem.

At first blush, it may seem odd that in this “age of terror” the American population has been told so little about the growing terrorist insurgency in Central Asia and the Caucasus. But when examined in the light of regional geopolitics, this deafening silence makes perfect sense.

Indications of how and why this region is so important come from numerous geostrategists, including Zbigniew Brzezinski, Obama’s acknowledged mentor and a key advisor to his administration. In his 1997 book, The Grand Chessboard, Brzezinski identified the Central Asian / Caucasus region as part of a larger area he called “The Eurasian Balkans.”

The countries in this region, he wrote, are “of importance from the standpoint of security and historical ambitions to at least three of their most immediate and more powerful neighbors, namely, Russia, Turkey, and Iran, with China also signaling an increasing political interest in the region. But,” he continued, “the Eurasian Balkans are infinitely more important as a potential economic prize: an enormous concentration of natural gas and oil reserves is located in the region, in addition to important minerals, including gold.”

Brzezinski knew very well what he was writing about. As National Security Advisor under President Carter, he had overseenOperation Cyclone, the US government’s since-declassified plan to arm, train and fund Islamic radicals in Pakistan and Afghanistan to draw the Soviet Union into a protracted war in the region. This, famously, led to the foundation of what became known as Al Qaeda in the 1980s, a point that Brzezinski has since admitted and even bragged about, claiming that the creation of a “few stirred up Muslims” helped to bring down the Soviet Union.

It is no surprise, then, that Brzezinski went on to predict in his 1997 book that the first major war of the 21st century would take place in this region, which is exactly what happened with the NATO invasion of Afghanistan in 2001. And it is also no surprise that even NATO’s hand-picked Afghan President, Hamid Karzai, is now openly accusing the US of supporting the Taliban in the country to convince the public that they will need US protection after the planned troop withdrawal date in 2014.

Global Research contributor and Stop NATO International Director Rick Rozoff appeared on the Boiling Frogs Post podcast in 2011 to discuss this region and the overlap between NATO’s strategic interests and Islamic extremism.

It has long been understood that the terror operations in Chechnya and other key parts of the Central Asia and Caucasus region have been supported, funded and protected by NATO to help destabilize the region surrounding their main geopolitical rivals, Russia and China, in an operation very similar to Operation Cyclone in the 70s and 80s. This has, until now, remained mostly within the realm of speculation. But in a recent groundbreaking series of interviews on The Corbett Report, FBI whistleblower Sibel Edmonds has confirmed that this is, in fact, exactly what is happening.

If it is true that the people perish for lack of knowledge, perhaps it is nowhere more true than in the phoney, NATO-created war of terror. Without the understanding provided by Edmonds and others in identifying the Central Asia / Caucasus terror campaign as a NATO proxy war, the entire concept of Islamic terrorism becomes inscrutable to geopolitical analysis.

As this information will never be disseminated by the complicit corporate media, it is vitally important that the people take this task into their own hands by sharing this information with others and contributing to the analysis of the terror campaign being waged in the region.

The seeds of the next great world conflict are being sowed in Central Asia, on the doorstep of Russia and China, and regardless of whether or not this conflict, too, is being manipulated and managed behind the scenes, the lives of countless millions hang in the balance of the specter of that all-out war. Only an understanding of NATO’s active complicity in fostering and protecting these Muslim extremists can help break the tool of propaganda by which they will try to convince their population to acquiesce to such a war.

samedi, 16 novembre 2013

Africa: The Forgotten Target of NSA Surveillance

africo11.jpg

Wayne Madsen:

Africa: The Forgotten Target of NSA Surveillance

Ex: http://www.strategic-culture.org

For the Western media, Africa is always a mere footnote, a continent that is generally forgotten in matters of espionage and electronic surveillance. However, as leaders in Europe, Latin America, and Asia bemoan the surveillance activities of the U.S. National Security Agency (NSA), Africa has also been a victim of overarching communications surveillance by the United States… 

Although Africa trailed the rest of the world in adopting enhanced information technology, it has not been ignored by the signals intelligence (SIGINT) agencies of the Five Eyes countries (United States, United Kingdom, Canada, Australia, and New Zealand) or one of the Nine Eyes SIGINT alliance nations, France. Satellite communications, undersea fiber optic cables, cell phones, and Internet are all subjected to the same level of surveillance by NSA, Britain’s Government Communications Headquarters (GCHQ), the Communications Security Establishment Canada (CSEC), and Australia’s Defense Signals Directorate as is directed against targeted countries in Latin America, Asia, the Middle East, and eastern Europe. 

In fact, African nations have long worried about the susceptibility of their Internet communications to eavesdropping by the West. In an article written by this author for the May 1, 1990, edition of the computer magazine Datamation, titled «African Nations Emphasizing Security,» it was pointed out that the African countries taking a lead over twenty years ago to protect their sensitive data from surveillance included South Africa, Ghana, Egypt, Senegal, Tanzania, Botswana, Guinea, Ivory Coast, Benin, and Namibia. 

The classified NSA documents revealed by whistleblower Edward Snowden point out how Africa’s communications are under constant surveillance by NSA’s and its allies SIGINT agencies. One TOP SECRET STRAP 1 document from GCHQ states that all countries’ diplomatic services use smart phone and that these are favored targets for surveillance. Thousands of e-mail addresses and cellular phone numbers or «selectors» of African government officials are stored in massive worldwide phone book and e-mail directories. NSA databases containing «selector» and «content» information are used by eavesdroppers to focus in on certain conversations in Africa and abroad. These metadata capture and storage repositories have cover names such as FAIRVIEW, BLARNEY, STORMBREW, OAKSTAR, and PINWALE.

One NSA global email and phone call interception analysis program called BOUNDLESSINFORMANT tracks the monitoring of digital telephony (dial number recognition or DNR) and email and other digital textual communications (digital network intelligence or DNI). A «heat map» generated by BOUNDLESSINFORMANT indicated that the number one target for «Five Eyes» surveillance in Africa was Egypt, followed by Kenya, Libya, Somalia, Algeria, Uganda, Tanzania, and Sudan. In 2009, NSA’s «selector» databases contained the email addresses, phone numbers, and other personal information for 117 customers of Globalsom, an Internet service provider in Mogadishu. The names included senior Somali government officials, a senior UN officer resident in Mogadishu, and an official of World Vision, a non-governmental organization (NGO) which has often been linked to CIA covert activities. A number of informed observers have speculated that Snowden, who worked for the CIA before switching over to the NSA, may have been prompted by nameless officials in Langley, Virginia to release to the world the nature of NSA’s surveillance. NSA’s omniscient surveillance capabilities may have threatened to expose covert CIA agents abroad to a competitive and more powerful intelligence agency so an effort was made, through Snowden, to clip the wings of an NSA that was increasing its influence at the expense of the CIA.

There has always been a rivalry between U.S. intelligence agencies in Africa. Long the haunt of the CIA, especially during the Cold War, there has been resentment in the corridors of the CIA in Langley over the increasing activities of NSA in Africa. In the 1950s and 60s, NSA’s operations in Africa were largely confined to three signals intelligence support bases: Naval Security Group Activity Kenitra (formerly Port Lyautey); the Army Security Agency’s intercept station at Kagnew station, Asmara, in what was then Ethiopia; and airborne SIGINT support at Wheelus U.S. Air Force base, outside of Tripoli, Libya. NSA made no secret of its presence at the three bases and it was the fear of the new revolutionary government of Zanzibar in 1964 that prompted it to expel the National Aeronautics and Space Administration (NASA) Project Mercury tracking station from the island nation because of the presence of Bendix Corporation technical representatives. Bendix, in addition to supporting NASA, also provided technical support for NSA bases circling the Soviet Union. 

After the closure of the three African bases and the creation of the joint NSA-CIA Special Collection Service (SCS), NSA SIGINT outposts, operating under diplomatic cover, were set up in U.S. embassies, including those in Nairobi, Lagos, Kinshasa, Cairo, Dakar, Addis Ababa, Monrovia, Abidjan, and Lusaka.

For the past twenty years, NSA has increased its mobile intercept operations in Africa. In particular, during the first Rwandan invasion of the Democratic Republic of Congo (then Zaire) in the 1990s, the NSA maintained a communications intercept station in Fort Portal, Uganda, which intercepted military and government communications in Zaire. Some of the intelligence derived from the SIGINT was shared with the armed forces of Rwandan leader Paul Kagame, a client dictator of the United States whose invasion of Zaire led to the ouster of long-time American ally Mobutu Sese Seko. 

During the Cold War, NSA’s ground operations in Africa were largely confined to an intelligence-sharing relationship with apartheid South Africa. NSA received South African SIGINT, mostly intercepts of naval and merchant ships sailing around the Cape of Good Hope. NSA covertly supported South Africa’s Silvermine intelligence center, located inside a mountain under Costanzia Ridge, near Cape Town. NSA kept its relationship with Silvermine under complete wraps, owing to international sanctions against South Africa at the time. Silvermine has fallen into general disrepair with thieves now stealing copper from the base’s antenna field.

However, with the mushrooming of drone bases throughout Africa there has come a renewed NSA SIGINT presence on the continent that provides both technical support to drones fitted with signals intelligence-gathering payloads and on-site analysis of the communications intercepted by the remotely-controlled intelligence platforms. The largest permanent NSA presence in Africa is at Camp Lemonnier in Djibouti, where NSA analysts monitor communications intercepted by drones and manned surveillance aircraft and directly from intercept taps on foreign satellites and undersea cables. Pilatus PC-12 surveillance aircraft, complete with SIGINT packages, are flown out of Entebbe, Uganda as part of Operation TUSKER SAND. NSA military and civilian personnel are also assigned to U.S. surveillance installations at Ouagadougou International Airport in Burkina Faso and Diori Hamani International Airport in Niamey, Niger. The base in Ouagadougou is part of Operation CREEK SAND that includes the use of SIGINT packages installed on Pilatus PC-12 surveillance aircraft.

NSA mobile units, such as the one that was set up in a residential home in Fort Portal, routinely operate out of U.S. forward bases in Obo and Djema, Central African Republic, and Kisangani and Dungu in the Democratic Republic of Congo. SIGINT-enabled drones also fly from U.S. bases at Arba Minch, Ethiopia and Victoria Airport on the island of Malé, Seychelles. NSA personnel have also been assigned to Camp Gilbert, Dire Dawa, Ethiopia; Camp Simba, Manda Bay, Kenya; Mombasa, Kenya; Nzara, South Sudan; Leopold Senghor International Airport, Dakar, Senegal; and Boulé International Airport, Addis Ababa, Ethiopia. Small NSA listening facilities have also been located at the Voice of America transmitter stations on Sao Tomé, one of the two islands that comprise the nation of Sao Tomé and Principe, and Mopeng Hill, Botswana. 

In fact, NSA personnel are found in so many exotic locations in Africa and elsewhere in the world, one NSA briefing slide released by Snowden, titled "Know your cover legend," instructs NSA personnel on covert assignment abroad to "sanitize personal effects" and bars them from sending home any postcards or buying local souvenirs. In reality, the fastest means of communications in Africa remains the «jungle telegraph,» the word of mouth alerts that travel from town to town and village to village warning the local residents that there are Americans in their midst. It is the one means of communications NSA cannot automatically tap unless NSA’s agents overhear conversations and understand obscure African dialects. Somali insurgents have stymied NSA eavesdroppers by using coded smoke signals from networks of burning 55-gallon drums to warn of approaching U.S., Kenyan, Ethiopian, and other foreign troops.

NSA proclaims its prowess at eavesdropping on any communication anywhere in the world. Africa has shown the boastful U.S. intelligence agency that the only thing NSA excels at is the art of exaggeration.




Republishing is welcomed with reference to Strategic Culture Foundation on-line journal www.strategic-culture.org.

Géopolitique de l’Arctique

Géopolitique de l’Arctique (Th. Garcin)

Géopolitique de l’Arctique. Thierry Garcin, éditions Economica, 2013 , 186 pages

Cet ouvrage était nécessaire : en effet, depuis 2007 ou 2008, l’Arctique avait connu une certaine vogue médiatique (année polaire internationale, fantasme sur la route du nord-ouest qui serait dégagée avec le réchauffement climatique – ce qui apparaissait comme la seule bonne nouvelle dudit réchauffement–, drapeau en titane planté par les Russes sous le pôle Nord, …). Depuis, même si l’intérêt s’émoussait, l’Arctique demeurait la source d’un certain intérêt géopolitique mais aussi l’exemple d’une méconnaissance certaine.

Cette lacune est comblée par l’ouvrage très pédagogique de Thierry Garcin, HDR et producteur à France Culture d’une bonne chronique de géopolitique.

Le livre est divisé en trois parties : la première nous explique ce qu’est l’Arctique, sa géographie et son histoire, mais aussi la question du réchauffement climatique et les enjeux scientifiques. La deuxième nous décrit les enjeux contemporains (géopolitiques au sens étroit) qui sont juridiques, économiques et stratégiques. La troisième aborde quelques points particuliers : l’indépendance programmée du Groenland, le rôle des acteurs secondaires, le rôle des organisations régionales.

De la lecture, aisée et pédagogique, agrémentée de quelques encadrés et d’un cahier de cartes couleurs, on retient que l’Arctique est une zone des extrêmes, qui est plus un « enjeu » qu’un acteur, pour reprendre une formule de la conclusion. Il est à l’équilibre entre les actions des puissances riveraines, qui s’entendent pour ne pas s’entendre et surtout exclure les non riverains de leurs conversations. Surtout, cet équilibre est marqué par le déséquilibre des ambitions et des moyens, et de façon sous-jacente par le déséquilibre de puissance entre les acteurs : Russie et Etats-Unis d’un côté, Danemark (et bientôt Groenland peuplé de 58 000 habitants) de l’autre, puissances moyennes comme le Canada ou la Norvège entre les deux.

Ces disparités géographiques, humaines, stratégiques, économiques expliquent les contrastes et les chocs, mais aussi, de façon paradoxale, les accords, rendus nécessaire par la dureté des conditions géographiques. Car voici le grand enseignement du livre : malgré tous les fantasmes (navigation rendue plus facile ou exploitation des ressources devenant plus intense), les conditions sont très adverses et éloignent la perspective d’une vie « normale » en Arctique. De ce point de vue, l’Arctique demeure une région durablement exceptionnelle et non intégrée. Le deuxième enseignement réside dans la négligence avec laquelle beaucoup (Danemark mais aussi Europe) accueillent l’indépendance programmée du Groenland.

Au final, le livre réussit à être à la fois agréable à lire et informatif en proposant un bel appareil documentaire (bibliographie fournie, index). On regrette l’apparence des cartes qui auraient pu être redessinées par un professionnel. Le défaut est mineur comparé à l’ensemble des atouts offerts.

O. Kempf