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jeudi, 19 novembre 2009

La geopolitica nascosta dietro la guerra bidone degli Stati Uniti in Afghanistan

US_troops_afghanistan_1009_A_getty_1221022303.jpgLa geopolitica nascosta dietro la guerra bidone degli Stati Uniti in Afghanistan

di F.William Engdahl


da mondialisation.ca / http://www.italiasociale.org/


Traduzione a cura di Stella Bianchi - italiasociale.org

Uno degli aspetti più rilevanti e diffusi del programma presidenziale di Obama negli Stati Uniti è che poche persone nei media o altrove mettono in discussione la ragione dell’impegno del Pentagono nell’occupazione dell’Afghanistan.
Esistono due ragioni fondamentali e nessuna delle due può essere apertamente svelata al grande pubblico.

Dietro ogni ingannevole dibattito ufficiale sul numero delle truppe necessarie per “vincere” la guerra in Afghanistan, se 30.000 soldati siano più che sufficienti o se ce ne vorrebbero almeno 200.000, viene celato lo scopo reale della presenza militare statunitense nel paese perno dell’Asia centrale

Durante la sua campagna presidenziale del 2008, il candidato Obama ha anche affermato che era l’Afghanistan, e non l’Irak, il luogo in cui gli Stati Uniti dovevano fare la guerra.
Qual’era la ragione?Secondo lui era l’organizzazione Al Qaeda da eliminare ed era quella la vera minaccia per la sicurezza nazionale.Le ragioni del coinvolgimento statunitense in Afghanistan comunque sono completamente differenti.

L’esercito Usa occupa l’Afghanistan per due ragioni: prima di tutto lo fa per ristabilire il controllo della più grande fornitura mondiale di oppio nei mercati internazionali dell’eroina e in secondo luogo lo fa per utilizzare la droga come arma contro i suoi avversari sul piano geopolitico, in particolare contro la Russia.
Il controllo del mercato della droga afghana è fondamentale per la liquidità della mafia finanziaria insolvente e depravata di Wall Street.

La geopolitica dell’oppio afghano.

Secondo un rapporto ufficiale dell’Onu, la produzione dell’oppio afghano è aumentata in maniera spettacolare dalla caduta del regime talebano nel 2001.
I dati dell’Ufficio delle droghe e dei crimini presso le Nazioni Unite dimostrano che c’è stato un aumento di coltivazioni di papavero durante ognuna delle ultime quattro stagioni di crescita(2004-2007) rispetto ad un intero anno passato sotto il regime talebano.
Attualmente molti più terreni sono adibiti alla coltura dell’oppio in Afghanistan rispetto a quelli dedicati alla coltura della coca in America Latina.
Nel 2007 il 93% degli oppiacei del mercato mondiale provenivano dall’Afghanistan.E questo dato non è casuale.

E’ stato dimostrato che Washington ha accuratamente scelto il controverso Hamid Garzai che era un comandante guerriero pashtun della tribù Popalzai il quale è stato per molto tempo al servizio della Cia e che, una volta rientrato dal suo esilio dagli Stati Uniti è stato costruito come una mitologia holliwoodiana, autore della sua”coraggiosa autorità sul suo popolo”.
Secondo fonti afghane,Hamid Garzai è attualmente il “padrino” dell’oppio afghano.
Non è affatto un caso che è stato ed è ancora a tutt’oggi l’uomo preferito da Washington per restare a Kabul.
Tuttavia , anche con l’acquisto massiccio dei voti,la frode e l’intimidazione, i giorni di Garzai come presidente potrebbero finire.

A lungo , dopo che il mondo ha dimenticato chi fosse il misterioso Osama Bin Laden e ciò che Al Quaeda, rappresentasse-ci si chiede ancora se questi esistano veramente- e il secondo motivo dello stanziamento dell’esercito Usa in Afghanistan appare come un pretesto per creare una forza d’urto militare statunitense permanente con una serie di basi aeree fissate in Afghanistan.
L’obiettivo di queste basi non è quello di far sparire le cellule di Al Qaeda che potrebbero esser sopravvissute nelle grotte di Tora Bora o di estirpare un “talebano”mitico, che, secondo relazioni di testimoni oculari è attualmente composto per la maggior parte da normali abitanti afgHani in lotta ancora una volta per liberare le loro terre dagli eserciti occupanti, come hanno già fatto negli anni
80 contro i Sovietici.

Per gli Stati Uniti, il motivo di avere delle basi afghane è quello di tener sotto tiro e di essere capaci di colpire le due nazioni al mondo che messe insieme, costituiscono ancora oggi l’unica minaccia al loro potere supremo internazionale e all’America’s Full Spectrum Dominance (Dominio Usa sotto tutti i punti di vista) così come lo definisce il Pentagono.

La perdita del “Mandato Celeste”.

Il problema per le élites al potere (Élite è un eufemismo sempre più usato per designare individui privi di scupoli pronti a qualsiasi cosa pur di realizzare le proprie ambizioni..quasi un sinonimo di psicopatologia) a Wall Street e a Washington,è il fatto che questi siano sempre più impantanati nella più profonda crisi finanziaria della loro storia.
Questa crisi è fuor di dubbio per tutti e il mondo agisce a favore della propria sopravvivenza.
L’élite statunitense ha perso ciò che nella storia imperiale cinese è conosciuto come Mandato Celeste.
Questo mandato è conferito ad un sovrano o ad una ristretta cerchia regnante a condizione che questa diriga il suo popolo con giustizia ed equità.
Quando però questa cerchia regna esercitando la tirannia e il dispotismo, opprimendo il proprio popolo abusandone,a questo punto essa perde il Mandato Celeste.

Se le potenti élites, ricche del privato che hanno controllato le politiche fondamentali (finanziaria e straniera) almeno per la maggior parte del secolo scorso ,hanno ricevuto il mandato celeste, è evidente che allo stato attuale lo hanno perso.
L’evoluzione interna verso la creazione di uno stato poliziesco ingiusto, con cittadini privati dei loro diritti costituzionali, l’esercizio arbitrario del potere da parte di cittadini non eletti, come il ministro delle Finanze Henry Paulson e attualmente Tim Geithner , che rubano milioni di dollari del contribuente senza il suo consenso per far regredire la bancarotta delle più grandi banche di Wall Street, banche ritenute”troppo grosse per colare a picco” tutto ciò dimostra al mondo che esse hanno perduto il mandato.

In questa situazione, le élite al potere sono sempre più disperate nel mantenere il proprio controllo sotto un impero mondiale parassitario, falsamente denominato”mondializzazione” dalla loro macchina mediatica.
Per mantenere la loro influenza è essenziale che gli Stati Uniti siano capaci di interrompere ogni collaborazione nascente nel settore economico , energetico o militare tra le due grandi potenze dell’Eurasia le quali, teoricamente potrebbero rappresentare una futura minaccia nel controllo dell’unica super potenza :la Cina associata alla Russia.

Ogni potenza eurasiatica completa il quadro dei contributi essenziali.
La Cina è l’economia più solida al mondo, costituita da una immensa manodopera giovane e dinamica e da una classe media ben educata.
La Russia, la cui economia non si è ripresa dalla fine distruttrice dell’era sovietica e dagli ingenti saccheggi avvenuti nell’era di Eltsin, possiede sempre i vantaggi essenziali per l’associazione.
La forza d’urto nucleare della Russia e il suo esercito rappresentano l’unica minaccia nel mondo attuale per il dominio militare degli Stati Uniti anche se sono in gran parte dei residui della Guerra Fredda.Le élite dell’esercito russo non hanno mai rinunciato a questo potenziale.

La Russia possiede anche il più grande tesoro al mondo che è il gas naturale e le sue immense riserve di petrolio di cui la Cina ha imperiosamente bisogno.
Queste due potenze convergono sempre più tramite una nuova organizzazione creata da loro nel 2001, conosciuta sotto il nome di Organizzazione di Cooperazione di Shanghai (Ocs).
Oltre alla Cina e alla Russia ,l’Ocs comprende anche i più grandi paesi dell’Asia Centrale, il Kazakistan, il Kirghizistan,il Tagikistan e l’Uzbekistan.

Il motivo addotto dagli Stati Uniti nella guerra contro i Talebani e allo stesso tempo contro Al Qaeda consiste in realtà nell’insediare la loro forza d’urto militare direttamente nell’Asia Centrale,in mezzo allo spazio geografico della crescente Ocs.
L’Iran rappresenta una diversione,una distrazione.Il bersaglio principale sono la Russia e la Cina.

Ufficialmente Washington afferma con certezza di aver stabilito la sua presenza militare in Afghanistan dal 2002 per proteggere la”fragile”democrazia afghana.
Questo è un bizzarro argomento, quando si và a considerare la sua presenza militare laggiù.

Nel dicembre 2004, durante una visita a Kabul, il ministro della Guerra Donald Rumsfeld ha finalizzato i suoi progetti di costruzione di nove nuove basi in Afghanistan, nelle province di Helmand,Herat,Nimrouz,Balkh,Khost e Paktia.
Le nove si aggiungeranno alle tre principali basi militari già installate in seguito all’occupazione dell’Afghanistan durante l’inverno 2001-2002 pretestualmente per isolare e delimitare la minaccia terroristica di Osama Bin Laden.

Il Pentagono ha costruito le sue tre prime basi su gli aerodromi di Bagram, a nord di Kabul, il suo principale centro logistico militare; a Kandar nel sud dell’Afghanistan; e a Shindand nella provincia occidentale di Herat.
Shindand è la sua più grande base afghana ed è costruita a soli 100 kilometri dalla frontiera iraniana a portata di tiro dalla Russia e dalla Cina.

L’Afghanistan è storicamente in seno al grande gioco anglo-russo, e rappresenta la lotta per il controllo dell’Asia Centrale a cavallo tra il diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo.
A quel tempo la strategia britannica era quella di impedire ad ogni costo alla Russia di controllare l’Afghanistan,perché ciò avrebbe costituito una minaccia per la perla della corona imperiale britannica, l’India.

L’Afghanistan è considerato come altamente strategico dai pianificatori del Pentagono.
Esso costituisce una piattaforma da cui la potenza militare statunitense potrebbe minacciare direttamente la Russia e la Cina così come l’Iran e gli altri ricchi paesi petroliferi del Medio Oriente.
Poche cose sono cambiate sul piano geopolitico in oltre un secolo di guerre.

L’Afghanistan è situato in una posizione estremamente vitale, tra l’Asia del Sud , l’Asia Centrale ed il Medio Oriente.
L’Afghanistan è anche ubicato lungo l’itinerario esaminato per l’oleodotto che và dalle zone petrolifere del mar Caspio fino all’Oceano Indiano luogo in cui la società petrolifera statunitense Unocal,insieme ad Eron e Halliburton de Cheney avevano avuto trattative per i diritti esclusivi del gasdotto che invia gas naturale dal Turkmenistan attraverso l’Afghanistan e il Pakistan, per convogliarlo nell’immensa centrale elettrica( a gas naturale) della Enron a Dabhol, vicino a Mumbai(Bombay).
Prima di diventare il presidente fantoccio mandato degli Stati Uniti,Garzai era stato un lobbista della Unocal.

Al Qaeda esiste solo come minaccia.

La verità attinente tutto questo imbroglio che gira intorno al vero scopo che ha spinto gli Stati Uniti in Afghanistran ,diventa evidente se si esamina da vicino la pretesa minaccia di “Al Qaeda” laggiù.
Secondo l’autore Eric Margolis, prima degli attentati dell’ 11 settembre 2001 i Servizi Segreti statunitensi accordavano assistenza e sostegno sia ai talebani che ad Al Qaeda.
Margolis afferma che la”Cia progettava di utilizzare Al Qaeda di Osama Bib Laden per incitare alla rivolta gli Ouigours mussulmani (popolo turco dell’Asia Centrale ndt) contro la dominazione cinese di Pekino nel luglio scorso e di sollevare i talebani contro gli alleati della Russia in Asia Centrale”.

Gli Stati Uniti hanno manifestamente trovato altri mezzi per sobillare gli Ouigours usando come intermediario il proprio sostegno al Congresso mondiale Ouigour.
Ma la “minaccia” di Al Qaeda rimane il punto chiave di Obama per giustificare l’intensificazione della sua guerra in Afghanistan.

Ma per il momento ,James Jones, consigliere per la sicurezza nazionale del Presidente Obama, ex generale della Marina, ha rilasciato una dichiarazione opportunamente insabbiata dagli amabili media statunitensi , sulla valutazione dell’importanza del pericolo rappresentato attualmente da Al Qaeda in Afghanistan.
Jones ha dichiarato al Congresso che”La presenza di Al Qaeda si è molto ridotta.La valutazione massimale è inferiore a 100 addetti nel paese, nessuna base, nessuna capacità nel lanciare attacchi contro di noi o contro gli alleati”.

Ad ogni buon conto, tutto ciò significa che Al Qaeda non esiste in Afghanistan…accidenti…


Anche nel Pakistan vicino, i resti di Al Qaeda non sono stati quasi più riscontrati.
Il Wall Street Journal segnala :”Cacciati dai droni statunitensi, angosciati da problemi di denaro e in preda a gravi difficoltà nel reclutare giovani arabi tra le cupe montagne del Pakistan,Al Qaeda vede rimpicciolire di molto il suo ruolo laggiù in Afghanistan, “ questo secondo informazioni dei Servizi Segreti e dei responsabili pakistani e statunitensi.
Per i giovani arabi che sono i principali reclutati da Al Qaeda, “ non esiste un’utopica esaltazione nell’ aver freddo e fame e nel nascondersi” –ha dichiarato un alto responsabile statunitense nell’Asia del Sud.”.


Se capiamo le conseguenze logiche di questa dichiarazione, dobbiamo dunque concludere che il fatto per cui giovani soldati tedeschi e altri della Nato muoiono nelle montagne afghane, non ha nulla a che vedere con lo scopo di “vincere una guerra contro il terrorismo”.
Opportunamente, la maggior parte dei media scieglie di dimenticare il fatto che Al Qaeda, nella misura in cui questa organizzazione è esistita, era una creazione della Cia negli anni 80.
Questa reclutava e addestrava alla guerra mussulmani radicali pescati dalla totalità del mondo islamico contro le truppe russe in Afghanistan. nel quadro di una strategia elaborata da Bill Casey, capo della Cia sotto Reagan , per creare un “nuovo Viet-nam” per l’’Unione Sovietica che sarebbe poi sfociato nell’umiliante disfatta dell’Armata Rossa e nel fallimento finale dell’Unione Sovietica.

James Jones, gestore del National Security Council riconosce attualmente che non esiste praticamente più nessun membro di Al Qaeda in Afghanistan.
Forse sarebbe ora e tempo di chiedere una spiegazione più onesta ai nostri dirigenti politici sulla vera ragione dell’invio di altri giovani in Afghanistan,solo per mandarli a morire per proteggere le coltivazioni di oppio.


F.William Endhal è l’autore di diverse opere come:

Ogm:Semi di distruzione:l’arma della fame ; e Petrolio, la guerra di un secolo:l’Ordine mondiale anglo-americano

Per contattare l’autore: www.engdhal.oilgeopolitics.net


07/11/2009

vendredi, 13 novembre 2009

Cambia el eje geopolitico de Medio Oriente

Turkey_to_israel_pipes.gifCambia el eje geopolítico de Medio Oriente

Las cinco derrotas consecutivas de Estados Unidos e Israel fueron directamente de Estados Unidos en Irak y Afganistán, e indirectamente a través de su aliado Israel contra las guerrillas chiíta de Hezbolá en Líbano sur y sunnita-palestina en Gaza, así como su apuntalamiento al aventurerismo de Georgia en Osetia del Sur, donde Rusia le propinó una severa paliza, lo cual desembocó, a nuestro juicio, en el cambio dramático de la geoestrategia mundial. Asistimos a la eclosión de una nueva pentapolaridad en la región medio-oriental. A la añeja triada de Israel, sumada de dos países sunnitas árabes (Egipto y Arabia Saudita), se ha agregado ahora el renacimiento de dos añejas potencias hoy islámicas no-árabes: la sunnita-mongol Turquía y la chiíta-aria Irán.

Hechos

No son los mejores momentos de Israel ni en el Medio Oriente ni a escala global. Su fracaso en aplastar a la guerrilla palestina sunnita Hamas en Gaza (apuntalada por Irán y Siria) le ha traído graves cefaleas al fundamentalista partido hebreo Likud. La opinión pública mundial (que incluye increíblemente el pleito del primer ministro “Bibi” Netanyahu con el gobierno sueco) conoce, a través del Reporte Goldstone sobre Gaza, de la Organización de las Naciones Unidas (ONU), los “crímenes de guerra” y las exacciones y agravios de Israel en contra de la humillada población civil palestina. La Comisión de Derechos Humanos en Ginebra ha amonestado a Israel.


Cabe un paréntesis: el “México neoliberal”, en su fase aciaga calderonista, optó por la política del avestruz al no haber seguido la corriente histórica, tanto global como del restante de los países suramericanos que condenaron severamente con su voto la criminalidad israelí.

Es muy probable que la postura antihistórica de Calderón, tanto a nivel local como global, a favor de Israel (aunque haya sido mediante un voto “neutral”), probablemente se deba a su estrecha amistad con el seudohistoriador Enrique Krauze Kleinbort, el ideólogo de la extrema derecha superbélica (no hay que olvidar que ha sido expuesto como miembro del siniestro Comité del Peligro Presente: Committee on the Present Danger). Cabe destacar que la progenitora de Krauze Kleinbort, la muy respetable señora Helen Krauze, funge como publirrelacionista oficiosa de la embajada de Israel en México: una de sus tareas consiste en invitar a “comunicadores” mexicanos al Estado hebreo con todos los gastos pagados.

Siempre dijimos que el barómetro del humanismo del siglo XXI lo representa el etnocidio perpetrado en Gaza por Israel, un estigma indeleble y cuyas reverberaciones impactaron, para no decir fracturaron, el otrora sólido eje militar de Turquía e Israel.

Cabe recordar cómo el combativo primer ministro turco Recip Tayyip Erdogan censuró las exacciones y crímenes de guerra de Israel directamente a su presidente Shimon Peres, en el reciente Foro Económico Mundial de Davos.

El primer ministro turco ha sido muy severo, con justa razón, con Israel–tomando en cuenta que hasta hace poco era su principal aliado militar en la región– al increpar al Estado hebreo de haber matado deliberadamente a los niños en Gaza, lo que ha valido un programa especial en la televisora estatal en horario estelar, y que ha indignado todavía más a la población islámica turca que empieza a exigir la ruptura de relaciones con el Estado etnocida e infanticida hebreo.

Entre otras varias razones del reacomodo y el surgimiento de la nueva pentapolaridad de las medianas potencias en el Medio Oriente, Turquía ha usado el estandarte de Gaza como una de sus justificaciones para alejarse espectacularmente de Israel, que pierde así a su principal aliado islámico en el seno de la Organización del Tratado del Atlántico Norte (OTAN). No es poca cosa, ya que se trata, guste o disguste, de dos importantes fuerzas militares regionales.

En fechas recientes, Turquía no solamente se ha alejado de su antiguo aliado israelí, sino que ha emprendido en paralelo un gran acercamiento con los siguientes actores regionales que incluyen al Transcáucaso: Rusia, Irán, Siria y Armenia (además de las guerrillas de Hamas, sunnita-palestina, y Hezbolá, chiíta-libanesa: dos aliadas de Irán y Siria).

Es evidente que Turquía, gobernada por un régimen democrático islámico “moderado” (de acuerdo con la clasificación muy sesgada de los multimedia occidentales para quienes “moderado” es aquel que se somete a sus designios, y “radical”, quien los confronta), entiende perfectamente su gran calidad de “país pivote” –en la encrucijada estratégica del Mar Negro, Mar Caspio, el Trancáucaso, Asia Central y el Medio Oriente–, que le ha valido ser aceptado notablemente como mediador de varios conflictos en su periferia de parte de un buen número de países (con la excepción de Israel).

Desde luego que el alejamiento de Turquía con Israel –y por extensión, con Estados Unidos, Gran Bretaña y la zona del euro– tiene otras motivaciones anteriores a Gaza, cuando prohibió, pese a ser el único miembro islámico de la OTAN, el vuelo de los aviones de la dupla anglosajona por sus cielos para bombardear a Irak, en ese entonces gobernado por Saddam Hussein.

El “factor kurdo” ha acercado notoriamente a Turquía con Irán, Siria e Irak, quienes comparten el mismo contencioso incandescente.

No hay que perder de vista que Israel (apuntalado por Estados Unidos y Gran Bretaña) busca la secesión de la zona kurda en el norte de Irak, tan pletórica en yacimientos petroleros en la región de Kirkuk.

Sin duda, la alianza subrepticia de Israel con el norte kurdo ha jugado un papel determinante en su alejamiento gradual que ha llegado hasta cesar el entrenamiento aeronáutico de las dos potencias militares.

Ahora leamos lo que dicen los israelíes de extrema derecha como Caroline Glick, en The Jerusalem Post (15 de octubre de 2009): “Turquía, la otrora apoteosis de una democracia islámica dependiente y prooccidental, abandonó oficialmente esta semana la alianza occidental y se volcó como pleno miembro del eje iraní”.

Aquí no cuenta la exactitud de los asertos de Glick, sino su exagerada emotividad que alcanza la histeria geopolítica. Se le va a la yugular al partido islámico “AKP”, que obtuvo el control del gobierno turco desde las elecciones de 2002 con su dirigente Recip Tayyip Erdogan.

En su visión hiperbólicamente israelocéntrica, la amazona Glick aduce que Turquía ha optado por “el campo islámico radical (¡super-sic!) poblado (sic) por sus similares (sic) de Irán, Siria, Hezbolla, Al-Qaeda y Hamas”. ¿A poco cree la amazona Glick que Al-Qaeda existe? ¿No sabrá, acaso, que Al-Qaeda es un montaje hollywoodense de “Al-CIA”, como demostró excelsamente un reportaje histórico de la televisora británica BBC?

En forma perturbadora, Glick tilda de “escandalosamente imbéciles (¡super-sic!) y flagelantes” a los medios que le han dado cabida a los ataques de Turquía en contra de Israel.

Para Glick, el alejamiento de Turquía y su vuelco a favor del “eje iraní” vienen desde muy atrás: desde la prohibición del vuelo de los aviones de Estados Unidos para bombardear Irak, pasando por la recepción de los líderes de Hamas por su triunfo electoral en Gaza, hasta el paso de armas iraníes por suelo turco destinadas a Hezbolá.

Para la amazona Glick, lo intolerable llegó “con el apoyo abierto (sic) al programa de armas (sic) nucleares de Irán y su galopante comercio con Teherán y Damasco, así como su hospital a los financieros de Al-Qaeda”.

Con todo nuestro respeto a la desinformadora y deformadora Glick, pero hasta ahora nadie –mucho menos, en el seno de la Agencia Internacional de Energía Atómica de la ONU– ha podido demostrar que Irán posee “armas nucleares”, como tampoco Irak, en la etapa de Saddam Hussein, las tuvo.

El colmo para la amazona Glick llegó con “la desinvitación de la fuerza aérea israelí a los ejercicios aéreos con Turquía y la OTAN” (la operación conjunta Águila de Anatolia).

Lo más interesante radica en que Turquía se aleja de Israel, mientras se acerca, en la misma proporción, a Siria, con quien ha entablado una alianza militar que será sellada con próximos ejercicios militares conjuntos, lo que establece que Ankara ha optado por jugar el papel estratégico de pivote que le corresponde y cesar de ser un aliado indefectible de Israel que no le aporta nada en la dinámica coyuntural del “Gran Medio Oriente”.

Conclusión: en una cosa tiene razón Caroline Glick, quien se cuestiona amargamente: “¿Cómo Israel perdió a Turquía?” Amén.

Alfredo Jalife-Rahme

Extraído de Red Voltaire.

~ por LaBanderaNegra en Noviembre 3, 2009.

vendredi, 30 octobre 2009

Iraq, Afganistan y la doctrina Obama en "el tablero de ajedrez" eurasiatico

Iraq, Afganistán y la doctrina Obama en “el tablero de ajedrez” euroasiático

El teniente coronel Eric Butterbaugh, oficial del Pentágono a cargo de la vocería del Comando Central norteamericano, manifestó que en Iraq, territorio medioriental de 437.072 Km2, permanecen 120 mil soldados estadounidenses, aunque no se enviarán -dijo- los 4 mil previstos que reemplazarían los equivalentes de la Guardia Nacional de EEUU apostados en Bagdad.

Ello significa que en el país medioriental hay, por cada 3,6 kms cuadrados de territorio iraquí, un soldado ocupante de la más agresiva potencia mundial, lo cual es una proporción que pone en duda la legitimidad de cualquier proceso electoral, legislativo o presidencial en un país que aspire a ser reconocido como legal, ocupado por tropas extranjeras.

Sobre esas condiciones muy reales y precisas, el primer ministro iraquí, Nuri al-Maliki se encuentra realizando una visita a Washington para buscar “apoyo político” del gobierno de Barack Obama y así garantizar -ante las diversas fuerzas políticas iraquíes- las mejores condiciones que permitan avalar el reconocimiento legítimo de las próximas elecciones parlamentarias a celebrarse en el 2010, en un país desvastado por la guerra de agresión, desestructurado por los ocupantes norteamericanos y necesitado de apoyo internacional para su reconstrucción.


Se recordará que la tal ‘reconstrucción de Iraq’ nunca pasó de declaraciones altisonantes del dúo Bush-Cheney y que derivó -más que en un hecho positivo para los iraquíes- en el enriquecimiento de empresas privadas del grupo económico estadounidense al cual pertenecen los ex-mandatarios de la Casa Blanca, que se introdujo en Iraq para saquearlo con jugosos contratos firmados “a punta de fusil y de mirillas laser”.

De aquí que ahora el Pentágono haya informado de la cancelación del envío de unos 4 mil soldados estadounidenses y a su vez, haya comunicado que los elementos de su Guardia Nacional estacionados en Bagdad, regresarán a EEUU dentro de cuatro meses, según precisó el alto oficial del Comando Central, en lo que parece ser ‘una lavadita de cara’ de frente a las elecciones parlamentarias iraquíes que proporcionalmente tendrán varios militares norteamericanos por cada urna de votación.

Tales declaraciones, tanto del gobernante iraquí Malikí, como del militar estadounidense Butterbaugh, están inscritas en la actual doctrina estratégica de los EEUU, comenzada a denominarse “Doctrina Obama”, la cual en sus delineamientos iniciales previó “la salida militar” paulatina de Iraq y la ampliación de la ocupación del estratégico territorio de Afganistán con las consiguientes acciones sobre los países fronterizos como Irán, Pakistán, la India, Uzbequistán, Turkmenistán, el occidente de China, Turquía, Armenia y el propio Iraq, y controlar un acceso directo a Rusia a través del Mar Caspio, también fronterizo con Afganistan.

Eric Butterbaugh, al iniciarse la ocupación de Irak, ostentaba el cargo de Mayor de la Fuerza Aérea y Vocero del Comando de Defensa Aeroespacial norteamericano en Colorado Springs. Luego de transcurrir seis años de guerra en Irak donde han muerto más de 4 mil militares estadounidenses, el ahora Teniente Coronel Buterbaugh, como Vocero del Comando Central, parece ser que será quien anuncie otro probable desastre estadounidense, ahora en Afganistán, donde ya la cifra de estadounidenses muertos sobrepasa los 400.

Sin dudas, consolidar esa posición de alta estima geopolítica, por estar en el centro del ”tablero de ajedrez” euroasiático, es lo que parece ser la obsesión de Barack Obama para enfrentar militarmente en un futuro no previsible, a sus más potentes adversarios: China y Rusia.

De manera que Irak, podría a pasar a un segundo plano y entonces pasar al primero, no la guerra en Afganistán, sino el incremento de las contradicciones entre EEUU y todos esos países fronterizos con la nación euroasiática, varios de ellos ya incorporados a la potente Organización de Cooperación de Shanghai OCSh, la cual celebrará en estos días una nueva Cumbre.

Ernesto Wong Maestre

Extraído de ABN.

~ por LaBanderaNegra en Octubre 22, 2009.

samedi, 24 octobre 2009

Afghanistan: une guerre de mensonges

nato-troops-in-afghanistan.jpgAfghanistan : une guerre de mensonges

La guerre en Afghanistan semble être un préoccupation beaucoup plus marquée chez les citoyens des pays de la coalition que pour leurs gouvernements, même si certains d’entre eux réduisent pas à pas les effectifs de leurs troupes en opérations.
En France, mis à part les tristes nouvelles annonçant les décès de nos soldats, cette guerre, menée sous le double commandement de l’OTAN et des Améticains, ne fait l’objet que de peu d’analyses et il faut surfer sur les sites étrangers et plus particulièrement anglo-saxons pour en savoir plus.
Polémia présente à ces lecteurs un article d’Eric Margolis, consacré à cette guerre en Afghanistan, levant le voile sur certains aspects qu’on ne soupconne pas.
Certes, les informations données restent de la responsabilité de leur auteur et les opinions exprimées n’engagent que lui et ne reflètent pas nécéssairement celles de Polémia.

Polémia /
http://www.polemia.com/

Afghanistan : une guerre de mensonges



Le président Barack Obama et le Congrès se débattent avec l’élargissement de la guerre en Afghanistan. Après huit années d'opérations militaires, qui ont coûté 236 milliards de dollars, le commandant des forces américaines en Afghanistan vient de lancer une mise en garde contre la menace d’un  « échec », c’est-à-dire une défaite.

La vérité est la première victime de la guerre

La vérité est la première victime de la guerre. Le plus gros mensonge de cette guerre en Afghanistan est de dire : « Nous devons combattre les terroristes là-bas, pour ne pas avoir à le faire chez nous » Les politiques  et les généraux ne cessent de se servir de ce bobard pour justifier une guerre qu'ils ne peuvent ni expliquer ni justifier autrement.

Beaucoup d'Américains du Nord continuent à avaler ce mensonge parce qu'ils croient que les attentats du 11-Septembre ont été lancés directement par Al-Qaida et les Talibans basés en Afghanistan.

Ce n’est pas vrai. Les attentats du 11-Septembre ont été planifiés en Allemagne et en Espagne, et dirigés principalement par des Saoudiens vivant aux Etats-Unis afin de  punir l'Amérique du soutien qu’elle apporte à Israël dans sa répression des Palestiniens.

Les Talibans, mouvement militant religieux et anticommuniste, issu de l’ethnie pachtoune, ont été totalement surpris par le 11-Septembre. Osama ben Laden, sur qui on rejette la responsabilité du 11-Septembre, était en Afghanistan en tant qu’invité parce qu'il était considéré comme un héros national qui avait combattu les Soviétiques au cours des années 1980 et qu’ensuite il avait apporté assistance aux Talibans dans leur lutte contre les Afghans communistes de l'Alliance du Nord.

Les Talibans sont-ils vraiment ceux que l’on nous décrit ?

Les Talibans ont bénéficié de l'aide américaine jusqu'en mai 2001. La CIA avait l'intention d'utiliser l’Al-Qaïda d’Osama ben Laden pour monter les Ouïgours musulmans contre l’autorité chinoise, et d'employer des Talibans contre les alliés de la Russie en Asie centrale. La plupart des prétendus « camps d'entraînement terroristes » en Afghanistan étaient entre les mains des services secrets pakistanais et destinés à préparer les combattants moudjahidin au combat dans le Cachemire occupé par les Indiens.

 En 2001, Al-Qaïda ne comptait que 300 membres. La plupart ont été tués depuis. Une poignée d’entre eux se sont échappés vers le Pakistan. Seuls quelques-uns demeurent en Afghanistan. Pourtant, le président Obama veut à tout prix que 68.000 soldats américains, ou plus, restent en Afghanistan afin de combattre Al-Qaida et d’empêcher les extrémistes de récupérer les « camps d'entraînement de terroristes ».

Cet argument, comme celui des armes de destruction massive inexistantes de Saddam, est un slogan commode pour vendre la guerre au public. Aujourd'hui, la moitié de l'Afghanistan est sous contrôle Taliban. Les militants anti-américains pourraient plus facilement se servir de la Somalie, de l'Indonésie, du Bangladesh, de l’Afrique du Nord et de l’Ouest, ou du Soudan. Ils n'ont pas besoin d’aller chercher jusqu’en Afghanistan. Les attentats du 11-Septembre ont été conçus en chambre, pas dans des camps.

Aussi arriérés et lourdauds soient-ils, ses Pashtounes n’ont nullement envie ni intérêt à attaquer l’Amérique Les Talibans sont les fils des moudjahidins qu’avaient soutenus les Américains et qui ont vaincu les Soviétiques dans les années 1980. Les Talibans n'ont jamais été les ennemis de l'Amérique. Au lieu d'envahir l'Afghanistan en 2001, les Etats-Unis auraient dû payer les Talibans pour déraciner al-Qaïda – comme je l'ai écrit dans le Los Angeles Times en 2001.

Les Etats-Unis s’enfoncent encore plus profondément dans le bourbier sud-asiatique.

Les tribus pachtounes veulent mettre fin à l'occupation étrangère et chasser les communistes afghans et les barons de la drogue, qui dominent aujourd’hui le régime de Kaboul installé par les Etats-Unis. Mais les Etats-Unis se sont engagés par erreur dans une guerre de grande envergure, non seulement contre les Talibans, mais aussi contre la plupart des féroces tribus pachtounes de l'Afghanistan, qui représentent plus de la moitié de la population.

Ce conflit se propage maintenant dans les régions pachtounes du Pakistan. La semaine dernière, l'ambassadeur américain à Islamabad a effectivement réclamé que les Etats-Unis envoient des avions et des missiles contre la ville pakistanaise de Quetta, où des personnalités Talibans de haut rang sont censées avoir été repérées.

Les Etats-Unis s’enfoncent encore plus profondément dans le bourbier sud-asiatique. Washington tente de forcer la main au Pakistan pour qu’il se montre plus obéissant et étendent la guerre contre ses propres  tribus pachtounes à l’esprit indépendant - appelées à tort « Talibans ».

Les tentatives incroyablement maladroites de Washington pour distribuer 7,5 milliards de dollars pour soudoyer le gouvernement et l’armée pakistanais faibles et corrompus, pour maîtriser les promotions militaires et obtenir quelque contrôle sur l'arsenal nucléaire du Pakistan, ont déclenché une colère incendiaire. Les soldats pakistanais sont sur le point de se révolter.

Il en est de même des projets américains de construction d’une ambassade-forteresse pour 1.000 personnes à Islamabad et un consulat à Peshawar qui manifestement servira de base aux services de renseignement, ainsi que du déploiement d'un nombre croissant de mercenaires américains au Pakistan.

Tout cela est bien réglé. Washington affirme qu'il faudra plus de personnel et une plus grande ambassade pour superviser la distribution du supplément d’aide au Pakistan, et davantage de mercenaires (c’est-à-dire de « contractuels ») pour les protéger.

Le président Obama a fait l'objet d'intenses pressions pour étendre la guerre, de la part de républicains cocardiers, d’une bonne partie des médias et les va-t-en guerre responsables de la sûreté de l’Etat. Les partisans d'Israël, y compris de nombreux démocrates du Congrès, veulent voir les Etats-Unis s’emparer des armes nucléaires du Pakistan et étendre la guerre d'Afghanistan à l’Iran. Le ministre israélien des Affaires étrangères, le belliciste Avigdor Lieberman, a récemment désigné l'Afghanistan, le Pakistan et l'Irak comme principales menaces pour Israël.

Talibans ne sont pas et n'ont jamais été une menace pour l'Occident

Le président Obama devrait admettre que les Talibans ne sont pas et n'ont jamais été une menace pour l'Occident ; que Al-Qaïda, dont on a larmement exagéré l’importance, a été en majorité éradiquée ; et que la guerre menée par les Etats-Unis en Afghanistan cause davantage de dommages aux intérêts américains dans le monde musulman – qui représente maintenant 25% de la population mondiale – que Ben Laden et les quelques voyous qu’il a pour alliés. Les attentats à la bombe de Madrid et de Londres et la conspiration de Toronto ont tous été des manifestations particulièrement aberrantes de la part de jeunes musulmans contre la guerre en Afghanistan.

On ne va pas changer la façon dont les Afghans traitent leurs femmes en menant une guerre contre eux ni apporter la démocratie au moyen d’élections truquées. On ne va pas gagner les cœurs et les esprits en imposant à de pieux musulmans un régime dominé par les communistes à Kaboul, en  bombardant leurs villages et en envoyant des Marines enfoncer leurs portes à coups de pied et violer leurs foyers.

Le commandant en chef américain en Afghanistan, le général Stanley McChrystal, exige 40.000 à 80.000 soldats supplémentaires. Même avec ce nombre, il ne gagnera pas la guerre dont Washington ne peut même pas déterminer les conditions de la victoire. Le seul moyen de sortir de ce bourbier passe par un règlement négocié incluant les Pachtounes et leurs bras armé, les Talibans, à qui sera donné le droit de vote.

Si jamais la résistance afghane reçoit des missiles antiaériens et antichars modernes, les forces d'occupation occidentales seront isolées et condamnées. Aujourd'hui, elles tiennent à peine le coup contre les Talibans équipés d’armes légères.

Si seulement le président Obama déclarait simplement la victoire en Afghanistan ! S’il en retirait les forces occidentales pour remettre la sécurité entre les mains d’une force multinationale de stabilisation constituée de nations musulmanes ! Les bons présidents, comme les bons généraux, savent quand il faut se retirer.

Eric Margolis
13 octobre 2009
http://buchanan.org/blog/afghanistan-a-war-of-lies-2548

Titre original : Afghanistan: A War of Lies
Traduction pour Polémia : R. S.


Eric Margolis contribue au Toronto Sun, New York Times, The American Conservative et à de nombreux journaux du Golfe. Il se produit régulièrement sur les chaînes de télévision comme CNN, Fox, SRC, British Sky Broadcasting News, NPR, et CTV. Correspondant de guerre de longue date, il est reconnu comme spécialiste des questions relevant de l’Afghanistan et plus généralement de l’Asie.

Correspondance Polémia
18/10/2009
Les intertitres sont de la rédaction.

Image : flag-draped coffins

 

Eric Margolis

jeudi, 22 octobre 2009

Serie televisiva turca provoca fuerte tension entre Turquia e Israel

Serie televisiva turca provoca fuerte tensión entre Turquía e Israel

Una serie de televisión turca que muestra matanzas de niños palestinos por el ejército israelí generó una fuerte tensión entre Israel y Turquía, a pesar de que ambos países mantienen una alianza estratégica en la región.

La primera cadena de la televisión pública turca TRT 1 difundió el martes, a una hora de gran audiencia, un episodio de una serie que desató la ira del ministro de Relaciones Exteriores israelí, Avigdor Lieberman, y malestar en el primer ministro Benjamin Netanyahu. Lieberman decidió al día siguiente convocar al encargado de negocios turco en Tel Aviv, en ausencia del nuevo embajador, que aún no ha asumido sus funciones.

“Israel no puede aceptar incitaciones al odio contra su Estado y sus soldados. Incitaciones que pueden desembocar en atentados contra los numerosos turistas judíos e israelíes que viajan a Turquía”, declaró el jueves, tras esta audiencia, un responsable del ministerio de Relaciones Exteriores israelí, Naor Gilaon.


Por su parte, Netanyahu declaró a los periodistas: “Nos sentimos también molestos, es lo menos que se puede decir, por lo que hemos visto estos últimos tiempos de parte de Turquía”. “Esto plantea la pregunta: ¿qué dirección toma la política de Turquía, esperamos que sea hacia la consolidación de la paz, no de los extremismos”, añadió.

En el episodio de la serie se ve a niños palestinos que tiran piedras contra soldados israelíes, que responden con tiros, matando a varios de ellos, entre ellos cuales una niñita que sonríe antes de su último suspiro. También muestra a soldados israelíes cuando matan a un recién nacido en los brazos de su padre, poco después de su nacimiento en un edificio en ruinas, debido a que la pareja no pudo trasladarse a un hospital.

La audiencia de la serie es por el momento marginal: ocupa el puesto 97º en el ránking de programas.

El periodista islamista Hakan Albayrak, consejero de los productores de la serie, defendió su contenido. “¿Por qué las escenas de matanzas serían exageradas? ¿No se puede hablar de un Estado que cometió matanzas?”, preguntó Albayrak.

Este incidente diplomático se suma a otro ocurrido la semana pasada en el ámbito militar. De forma inesperada, Turquía anuló las maniobras aéreas que debía llevar a cabo con la aviación israelí, a pesar del acuerdo de cooperación militar firmado con Israel en 1996. Una decisión que fue condenada por Israel y Estados Unidos.

Las relaciones entre los dos países comenzaron a degradarse en el invierno pasado, cuando el primer ministro turco, Recep Tayyip Erdogan, criticó a Israel por su comportamiento durante la ofensiva militar contra la Franja de Gaza.

Turquía “no recibe instrucciones” de Israel, declaró el jueves Erdogan, que dirige desde 2002 un gobierno islamista conservador.

El miércoles, Erdogan, había declarado a una televisión árabe que las maniobras con Israel habían sido anuladas para respetar la voluntad del pueblo turco, “que no quiere más cosas de ese estilo”.

La diplomacia de ambos países se esfuerza por calmar los ánimos. “Hay un efecto bola de nieve, en las declaraciones de unos y otros. Pero los dirigentes de ambos países saben que la estructura de las relaciones bilaterales es fuerte”, señaló a la AFP un diplomático turco de alto rango. “Incluso entre amigos muy cercanos pueden aparecer diferencias”, dijo por su parte Gaby Levy, embajador de Israel en Ankara.

Burak Akinci

Extraído de AFP.

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mercredi, 21 octobre 2009

Israël deviendra-t-il un Etat normal?

carte_israelGD.jpgIsraël deviendra-t-il un Etat “normal”?

 

Intéressante contribution de Roger Cohen dans les colonnes de l’International Herald Tribune du vendredi 16 octobre 2009. Question initiale de Cohen: “Israël est-il un Etat parmi les autres Etats?”. Dans un sens, oui, car il en possède la plupart des attributions. Dans un autre, non, car soixante ans après sa création, Israël n’a toujours pas de frontières stables, de constitution bien établie, de paix durable. Israël, écrit Cohen, vit dans un état d’exception permanente et fait de cette exception son fétiche. Pour Cohen, Israël devrait pouvoir affronter le monde tel qu’il est, même s’il est décevant, et ne pas s’appesantir sur le monde d’hier. Roger Cohen: “L’holocauste représentait la quintessence du mal. Mais  il s’est déroulé il y a soixante-cinq ans. Ceux qui l’ont perpétré sont morts ou vont très bientôt mourir. Le prisme holocaustique  pourrait être bien déformant... L’histoire éclaire mais elle aveugle aussi”.

 

Roger Cohen émet ces réflexions un peu amères après le discours tenu par Benjamin Netanyahou à la tribune des Nations Unies en septembre dernier. Ce discours était truffé de références déclamatoires portant sur l’Allemagne nazie, l’Iran actuel et Al Qaïda (sans qu’il n’ait fait la distinction qui s’impose pourtant à tout observateur sérieux: Al Qaïda représente un extrémisme sunnite, ennemi mortel, en bon nombre de circonstances, de l’Iran chiite, tout amalgame relevant de la propagande à bon marché sinon de la farce pure et simple). Devant tous ces croquemitaines, passés et présents, Israël était posé comme un courageux petit résistant solitaire qui, selon les propos mêmes de Netanyahou, représentait “la civilisation contre la  barbarie, le 21ème siècle contre le 9ème siècle, ceux qui sanctifient la  vie contre ceux qui glorifient la mort”. Du pur lyrisme, effectivement, avec un condiment d’apocalypse.

 

Pour Roger Cohen, ce type de discours est “facile, tonitruant et inutile”: “Il y a diverses civilisations présentes au Moyen Orient, dont les attitudes face à la religion et à la modernité varient mais toutes sont à la recherche d’un accord entre elles”. Face à cette volonté générale, bien qu’assez diffuse, Israël se cramponne à son statut d’exception. La stratégie d’Obama, pourtant, vise à masquer le sentiment américain qui veut que les Etats-Unis, eux aussi, sont “exceptionnels” dans le monde car cette idée d’une “grande mission civilisatrice” des Etats-Unis ne fait plus du tout l’unanimité et provoque de plus en plus souvent une levée de boucliers ailleurs dans le monde. Cohen: “Obama tente d’infléchir Israël pour qu’il se donne une image de soi plus prosaïque et plus réaliste”.

 

Reste la question nucléaire: Obama cherche à faire adhérer Israël au traité de non-prolifération. Car, en effet, comment concilier l’intransigeance américaine face au programme nucléaire iranien et l’indifférence face à l’arsenal nucléaire israélien, non déclaré? Le monde risque d’accuser les Etats-Unis de pratiquer un double langage, d’opter pour une politique de deux poids deux mesures. Obama aurait ce type d’ambiguïté en horreur. Le secrétaire américain à la défense, Robert Gates, quant à lui, dit que la meilleure façon d’avoir à terme un Iran sans armes nucléaires est de lui montrer qu’il n’est plus menacé par personne dans la région. Israël doit dès lors abandonner partiellement les mythes qui lui ont conféré cette d’idée d’exception, exprimée  encore récemment par Netanyahu à la tribune des Nations Unies. Bref, Israël doit se débarrasser de sa mentalité obsidionale. Cohen: “Le Moyen Orient a changé. Israël doit changer aussi. Dire ‘plus jamais’ est certes une nécessité mais le dire est simultanément une manière inadéquate de faire face au monde moderne”.

 

Si Israël doit se débarrasser de sa mentalité obsidionale, et partant, des mythes qui la fondent et la consolident, l’Europe, elle aussi, ne devrait-elle pas se débarrasser de mythes incapacitants, remontant à l’époque de l’holocauste et qui paralysent encore et toujours son processus d’unification? Roger Cohen demande cet effort à Israël, dans le cadre réduit de l’Etat hébreu, mais sa requête pourrait aisément déborder ce cadre réduit et s’adresser à tout le sous-continent européen.

 

(source: Roger COHEN, “An ordinary Israel”, in : “International Herald Tribune”, Oct. 16., 2009).

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Le nouveau rôle de la Turquie

610x.jpgLe nouveau rôle de la Turquie

 

Commentant les récentes négociations turco-arméniennes, menées sous l’oeil vigilant d’Hillary Clinton, le journaliste Stephen Kinzer écrit dans les colonnes de l’”International Herald Tribune”: “Depuis près de 86 ans qu’elle existe telle quelle en tant qu’Etat, la Turquie avait gardé un profil bas dans le monde. Ces jours-là sont finis. Maintenant, la Turquie cherche à jouer un rôle régional très ambitieux en tant que puissance conciliatrice, s’efforçant d’établir partout la paix. Lorsque les officiels turcs débarquent dans des pays cruellement divisés comme le Liban, l’Afghanistan ou le Pakistan, chaque faction cherche fébrilement à engager un dialogue avec eux. Il n’y a pas un pays au monde dont les diplomates sont autant les bienvenus, que ce soit à Téhéran ou à Jérusalem, à Moscou ou à Tbilissi, à Damas ou au Caire. En tant que pays musulman intimement lié à la région qui l’entoure , la Turquie peut se présenter partout, amorcer des partenariats et conclure des accords que ne peuvent conclure les Etats-Unis”.

 

Plus sceptique dans la suite de son article, Kinzer rappelle tout de même les défauts à la cuirasse turque: Chypre, le problème kurde, les persécutions larvées de toutes les minorités religieuses, chrétiennes ou non sunnites.

 

Kinzer: “Dans d’autres circonstances, l’Egypte, le Pakistan ou l’Iran auraient pu émerger en tant que leaders du monde islamique. Leurs sociétés, toutefois, sont faibles, fragmentées voire en voie de décomposition. L’Indonésie ferait un candidat hegemon plus plausible mais elle n’a aucune tradition historique en matière de leadership et est très éloignée du centre de la zone de crise du monde musulman. Reste donc la Turquie. Elle essaie de prendre ce rôle d’hegemon”.

 

Kinzer parle très  certainement le langage de Washington, qui a un besoin urgent de “proxy”, de mandataire, dans la région. Les accords turco-arméniens vont dans le sens des intérêts pétroliers américains. La Turquie a donc bien joué son rôle dans le Caucase-Sud. Et pour qu’elle continue à bien pouvoir le jouer, il faut créer artificiellement des diversions, des faux conflits où le “politiquement correct” est apparemment écorné, où l’idéologie officielle de l’Occident est  bafouée. D’où les incidents avec Israël à propos des manoeuvres aériennes et d’une série télévisée turque présentant Tsahal sous un jour fort glauque. Ces artifices servent, avec le néo-islamisme/néo-ottomanisme d’Erdogan et de Davutoglu, de leurres pour appâter les Arabes.

 

‘Source: Stephen KINZER, “A new role for Turkey”, in: “International Herald Tribune”, Oct. 16, 2009).

mardi, 20 octobre 2009

L'Irak demande à la Turquie de cesser ses incursions en pays kurde

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L’Irak demande à la Turquie de cesser ses incursions en pays kurde

 

La Turquie vient, on le sait, de se faire rappeler à l’ordre par Israël pour deux motifs: le ministre israélien des affaires étrangères, Avigor Liebermann, dont on se souvient des propos fort indélicats à l’égard des voisins arabes de l’Etat hébreu, n’a guère apprécié les émissions de la télévision d’Etat turque, où les soldats israéliens sont campés comme de sombres brutes qui assassinent à qui mieux mieux des civils palestiniens; ensuite, Ankara s’est opposé à la participation israélienne à des manoeuvres dans l’espace aérien turc.

 

Mais il n’y a pas qu’Israël qui s’insurge. L’Irak aussi. Les relations turco-irakiennes s’étaient pourtant améliorées depuis 2003, l’année où l’invasion américaine avait mis un terme au pouvoir de Saddam Hussein. Les relations économiques entre les deux pays  n’ont plus cessé de  se renforcer. Mais, malgré cette amélioration des rapports commerciaux, deux problèmes demeurent: d’abord, les fréquentes violations de la frontière irakienne par des unités turques, cherchant à frapper les bases arrière du PKK kurde. Les incursions musclées de l’armée turque ont redoublé d’intensité ces derniers mois. Les Irakiens souhaitent que cela cesse.

 

Deuxième problème: l’eau. On sait que la maîtrise des eaux et des nappes phréatiques deviendra à très court terme le problème numéro un dans les pays semi-désertiques où les zones arables et irriguées sont réduites par rapport à une démographie en pleine croissance. La Turquie continue à pomper l’eau des fleuves mésopotamiens, le Tigre et l’Euphrate, qui prennent tous deux leurs sources sur territoire turc. L’Irak est en permanence menacé de sécheresse et, pire, sans eau et sans paix intérieure dans les régions septentrionales de son territorie, ne peut pas amorcer de reconstruction.

 

La violence continue aussi à frapper la communauté chiite irakienne, notamment à Kerbala. En tout, l’Irak doit déplorer 85.694 morts et quelque 147.000 blessés, dus à des attentats. Moralité générale: les Etats-Unis se sont montrés incapables d’assurer la paix dans le pays qu’ils ont envahi et occupé. Ils ne méritent pas le statut d’hegemon qu’ils prétendent exercer. La Turquie, qui n’a plus l’extension impériale qu’elle possédait du temps des sultans ottomans, tente de jouer un rôle accru de puissance régionale, mais le redécoupage territorial d’après 1918 dans la zone entre Méditerranée et Golfe Persique, partiellement révisé lors du Traité de Lausanne en 1923 (plus d’Arménie indépendante, plus de présence grecque à Smyrne), interdit de rejouer pleinement ce rôle: les entités étatiques nées des accords Sykes-Picot et des Traités de Sèvres et de Lausanne ont acquis un statut autonome, avec une géopolitique particulière, qui n’accepte plus l’ingérence ni la tutelle turques. Personne ne semble avoir relu les écrits des “arabistes” des décennies 1890-1914 qui avaient revendiqué, face à l’éclosion de l’idéologie pantouranienne en Turquie, dans le sillage de la prise de pouvoir des Jeunes Turcs, l’unité des Arabes de la péninsule arabique et des pays arabophones situés au sud de la Turquie (Syrie, Palestine, Liban, Irak).

 

Dans les écrits, rédigés souvent en français, de ces précurseurs du panarabisme de Michel Aflaq, on décèle la volonté de créer un bloc arabe au départ des régions arabophones de la péninsule arabique et du Croissant Fertile, dont le ciment ne serait pas tant l’islam que la langue arabe qui, elle, unit effectivement Arabes chrétiens et musulmans. Cette vision a servi à fomenter la révolte arabe patronné par le fameux Lawrence d’Arabie en 1916 puis à animer la plupart des visions politiques à l’oeuvre dans le futur Etat irakien. A méditer, car c’est, indépendamment de la présence américaine, l’idéologie qui anime tout décideur irakien. Dans cette optique, la Turquie s’occupe des affaires turques et les Arabes des affaires arabes. Chacun sur son territoire, chacun avec sa langue. Un partage des tâches qui ne doit pas empêcher l’entente économique.

 

(sources: “Iraq asks Turkey to stop cross-border raids on Kurds”, in: “International Herald Tribune”, Oct. 16, 2009).

samedi, 17 octobre 2009

Ben Laden a travaillé pour les Etats-Unis jusqu'au 11 septembre 2001

Bombe médiatique :

Ben Laden a travaillé pour les États-Unis jusqu’au 11 Septembre 2001

Ex: http://fr.altermedia.info

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Invitée par l’animateur de l’émission radio Mike Malloy radio show [1], l’ancienne traductrice pour le FBI, Sibel Edmonds, a lancé une véritable bombe médiatique (audio, transcription partielle).

Lors de son interview, Sibel raconte comment les États-Unis ont entretenu des « relations intimes » avec ben Laden et les talibans, « tout du long, jusqu’à ce jour du 11 septembre. » Dans « ces relations intimes », Ben Laden était utilisé pour des “opérations” en Asie Centrale, dont le Xinjiang en Chine. Ces “opérations” impliquaient l’utilisation d’al-Qaida et des talibans tout comme « on l’avait fait durant le conflit afghano-soviétique », c’est à dire combattre “les ennemis” par le biais d’intermédiaires.

Comme l’avait précédemment [2] décrit Sibel, et comme elle l’a confirmé dans son dernier interview, ce procédé impliquait l’utilisation de la Turquie (avec l’assistance d’acteurs provenant du Pakistan, de l’Afghanistan et de l’Arabie Saoudite) en tant qu’intermédiaire, qui à son tour utilisait ben Laden, les talibans et d’autres encore, comme armée terroriste par procuration.

Le contrôle de l’Asie Centrale

Parmi les objectifs des “hommes d’État” américains [3] qui dirigeaient ces activités, il y avait le contrôle des immenses fournitures d’énergie et de nouveaux marchés pour les produits militaires. Pourtant, les Américains avaient un problème. Ils ne devaient pas laisser leur empreinte afin d’éviter une révolte populaire en Asie centrale (Ouzbékistan, Azerbaïdjian, Kazakhstan et Turkménistan), et aussi de sérieuses répercussions du côté de la Chine et de la Russie. Ils trouvèrent une ingénieuse solution : utiliser leur État fantoche, la Turquie, comme mandataire et en appeler à la fois aux sensibilités panturques et panislamiques.

Dans la région, la Turquie, alliée de l’OTAN, a beaucoup plus de crédibilité que les États-Unis ; avec l’histoire de l’Empire ottoman, elle pourrait appeler au rêve d’une plus large sphère d’influence panturque. La majorité de la population d’Asie Centrale partage le même héritage, la même langue, la même religion que les Turcs.

À leur tour, les Turcs ont utilisé les talibans et al-Qaida, en appelant à leur rêve d’un califat panislamique (sans doute. Ou bien les Turcs/Américains ont très bien payé).

Selon Sibel : « Ceci a commencé il y a plus de dix ans, dans le cadre d’une longue opération illégale et à couvert, menée en Asie centrale par un petit groupe aux États-Unis. Ce groupe avait l’intention de promouvoir l’industrie pétrolière et le Complexe Militaro-Industriel en utilisant les employés turcs, les partenaires saoudiens et les alliés pakistanais, cet objectif étant poursuivi au nom de l’Islam. »

Les Ouïghours

On a récemment demandé à Sibel d’écrire sur la récente situation de Ouïghours au Xinjiang, mais elle a refusé, disant simplement : « Notre empreinte y est partout. »

Bien sûr, Sibel n’est pas la première ou la seule personne à reconnaitre tout cela.
Eric Margolis [4], l’un des meilleurs reporters occidentaux concernant l’Asie Centrale, a affirmé que les Ouïghours, dans les camps d’entrainement en Afghanistan depuis 2001, « ont été entrainés par ben Laden pour aller combattre les communistes chinois au Xinjiang. La CIA en avait non seulement connaissance, mais apportait son soutien, car elle pensait les utiliser si la guerre éclatait avec la Chine. »

Margolis a également ajouté que : « L’Afghanistan n’était pas un creuset du terrorisme, il y avait des groupes commando, des groupes de guérilla, entrainés à des buts spécifiques en Asie Centrale. »

Dans une autre interview, Margolis [5] dit: « Ceci illustre le bon mot (en français dans le texte, NDT) de Henry Kissinger affirmant qu’il est plus dangereux d’être un allié de l’Amérique, que son ennemi, car ces musulmans chinois du Xinjiang (la province la plus à l’ouest) étaient payés par la CIA et armée par les États-Unis. La CIA allait les utiliser en cas de guerre contre la Chine, ou pour provoquer le chaos là-bas ; ils étaient entrainés et soutenus hors d’Afghanistan, certains avec la collaboration d’Oussama ben Laden. Les Americains étaient très impliqués dans toutes ces opérations. »

La galerie de voyous

L’an dernier, Sibel a eu la brillante idée de révéler des activités criminelles dont elle n’a pas le droit de parler : elle a publié dix-huit photographies – intitulées la “Galerie ‘Privilège Secrets d’État’ de Sibel Edmonds” – de personnes impliquées dans les opérations qu’elle avait tenté de révéler. L’une de ces personnes est Anwar Yusuf Turani [6], le prétendu “Président en Exil” du Turkistan Est (Xinjiang). Ce prétendu gouvernement en exil a été établi à Capitol Hill (le siège du Congrès US, NdT) en septembre 2004, provoquant des reproches acerbes de la part de la Chine.

“L’ancienne” taupe, Graham Fuller, qui avait joué un rôle dans l’établissement du “gouvernement en exil” de Turani du Turkestan Est, figure également parmi la galerie de voyous de Sibel. Fuller a beaucoup écrit sur le Xinjiang et son “Projet pour le Xinjiang” remis à la Rand Corporation était apparemment le plan pour le “gouvernement en exil” de Turani. Sibel a ouvertement affiché son mépris à l’égard de M. Fuller.

Susurluk

La Turquie a une longue histoire d’affaires d’État mêlant terrorisme, au trafic de drogue et autres activités criminelles, dont la plus parlante est l’incident de Susurluk en 1996 [7] qui a exposé ce qu’on nommait le “Deep State” (l’État Profond : l’élite militarobureaucratique, NDT)

Sibel affirme que « quelques acteurs essentiels ont également fini à Chicago où ils ont centralisé “certains” aspects de leurs opérations (surtout les Ouighurs du Turkestan Est). »

L’un des principaux acteurs du “Deep State”, Mehmet Eymur, ancien chef du contre-terrorisme pour les services secrets de la Turquie, le MIT, figure dans la collection de photos de Sibel. Eymur fut exilé aux USA. Un autre membre de la galerie de Sibel, Marc Grossman [8] était l’ambassadeur de la Turquie au moment où l’incident de Susurluk révélait l’existence de “Deep State”. Il fut rappelé peu après, avant la fin de son affectation tout comme son subordonné, le commandant Douglas Dickerson qui tenta plus tard de recruter Sibel dans le monde de l’espionnage.

Le modus operandi du gang de Suruluk est identique à celui des activités décrites par Sibel en Asie Centrale, la seule différence étant que cette activité eut lieu en Turquie il y a dix ans. De leur côté, les organes d’État aux États-Unis, dont la corporation des médias, avaient dissimulé cette histoire avec brio.

La Tchétchénie, l’Albanie et le Kosovo

L’Asie centrale n’est pas le seul endroit où les acteurs de la politique étrangère américaine et ben Laden ont partagé des intérêts similaires. Prenons la guerre en Tchétchénie. Comme je l’ai écrit ici [9], Richard Perle et Stephan Solarz (tous deux dans la galerie de Sibel) ont rejoint d’autres néo-conservateurs phares tels que : Elliott Abrams, Kenneth Adelman, Frank Gaffney, Michael Ledeen, James Woolsey, et Morton Abramowitz dans un groupe nommé Le Comité Américain pour la Paix en Tchétchénie (ACPC) [10]. Pour sa part, ben Laden a donné 25 millions de dollars pour la cause, fourni des combattants en nombre, apporté des compétences techniques, et établi de camps d’entraînement.

Les intérêts des États-Unis convergeaient [9] aussi avec ceux d’al-Qaida au Kosovo et en Albanie. Bien sûr, il n’est pas rare que surviennent des circonstances où “l’ennemi de mon ennemi est mon ami.” D’un autre côté, dans une démocratie transparente, on attend un compte-rendu complet des circonstances menant à un événement aussi tragique que le 11/9. C’était exactement ce que la Commission du 11/9 était censée produire.

Secrets d’État

Sibel a été surnommée “la femme la plus bâillonnée d’Amérique”, s’étant vue imposer par deux fois l’obligation au secret d’État. Son témoignage de 3 heures et demie devant la Commission du 11/9 a été totalement supprimé, réduit à une simple note de bas de page qui renvoie les lecteurs à son témoignage classé. (donc non accessible, NdT)

Dans l’interview, elle révèle que l’information, classée top secret dans son cas, indique spécifiquement que les USA se sont servis de ben Laden et des taliban en Asie Centrale, dont le Xinjiang. Sibel confirme que lorsque le gouvernement US la contraint juridiquement au silence, c’est dans le but de « protéger “des relations diplomatiques sensibles”, en l’occurrence la Turquie, Israël, le Pakistan, l’Arabie saoudite… » C’est sans doute en partie vrai, mais il est vrai aussi qu’ils se protègent eux-mêmes : aux États-Unis, c’est un crime que d’utiliser la classification (confidentielle, NdT) et le secret pour couvrir des crimes.

Comme le dit Sibel dans l’interview : « Je dispose d’informations concernant des choses sur lesquelles le gouvernement nous a menti… on peut très facilement prouver que ces choses sont des mensonges, sur la base des informations qu’ils ont classées me concernant, car nous avons entretenu de très proches relations avec ces gens ; cela concerne l’Asie Centrale, tout du long, jusqu’au 11 Septembre. »

Résumé

L’information explosive ici est évidemment qu’aux États-Unis, certaines personnes se sont servies de ben Laden jusqu’au 11 septembre 2001.

Il est important de comprendre pourquoi : depuis de nombreuses années, les États-Unis ont sous-traité leurs opérations terroristes à al-Qaïda et aux talibans, encourageant l’islamisation de l’Asie centrale en vue de tirer profit des ventes d’armes tout comme des concessions pétrolières et gazières.

Le silence du gouvernement US sur ces affaires est aussi assourdissant que les conséquences (les attentats du 11/9, NDT) furent stupéfiantes.

Source: ReOpen911 [11]


Article printed from AMI France: http://fr.altermedia.info

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URLs in this post:

[1] Mike Malloy radio show: http://www.mikemalloy.com/

[2] précédemment: http://lukery.blogspot.com/2008/07/court-documents-shed-light-on-cia.html

[3] “hommes d’État” américains: http://letsibeledmondsspeak.blogspot.com/2008/01/sibel-names-names-in-pictures.html

[4] Eric Margolis: http://www.ericmargolis.com/biography.aspx

[5] Margolis: http://lukery.blogspot.com/2009/07/us-trained-uighur-terrorists.html

[6] Anwar Yusuf Turani: http://www.eastturkistangovernmentinexile.us/anwar_biography.html

[7] Susurluk en 1996: http://en.wikipedia.org/wiki/Susurluk_scandal

[8] Marc Grossman: http://en.wikipedia.org/wiki/Marc_Grossman

[9] ici: http://lukery.blogspot.com/2008/07/sibel-edmonds-case-central-asia.html

[10] Comité Américain pour la Paix en Tchétchénie (ACPC): http://www.rightweb.irc-online.org/profile/American_Committee_for_Peace_in_Chechnya

[11] ReOpen911: http://www.reopen911.info/News/2009/08/13/une-bombe-ben-laden-a-travaille-pour-les-etats-unis-jusquau-11-septembre/

vendredi, 16 octobre 2009

La base d'Incirlik, atoutstratégique pour les Etats-Unis

turkey_incirlik.jpgLa base d’Incirlik (Turquie), atout stratégique pour les Etats-Unis

Ex: http://qc.novopress.info/

Avec la réorientation de l’action militaire des Etats-Unis vers l’Afghanistan, la base turque d’Incirlik, dans le sud du pays, érigée en 1951 pour ses atouts en faveur des actions de bombardiers à long rayon d’action, devrait connaître une montée en puissance au profit des forces américaines. Il s’agit en effet d’une véritable plate-forme tout à fait opportune sur le plan stratégique en matière de projection de forces, mais aussi sur le plan logistique. Elle fut largement sollicitée lors des opérations en Irak au début des années 1990 et des bombardements réguliers tout au long de cette même décennie. En fait, cette base est utilisée depuis près d’un demi-siècle par les forces américaines qui sont liées à la Turquie en vertu d’un accord de coopération et de défense datant de 1969 ; accord doublé d’un volet économique à partir de 1980. Plus récemment, Incirlik  était un pilier stratégique des interventions massives en Irak, au point que la base en 2007, voyait transiter par ses pistes plus de 70% des avions gros-porteurs à destination du territoire irakien. Le site conserverait aussi, selon diverses ONG, des ogives nucléaires B-61.

Le retour au premier plan des opérations similaires américaines de la base coïnciderait avec les voyages officiels effectués tant par la secrétaire d’Etat Hillary Clinton, en mars 2009, que par le président Barack Obama lui-même, en avril 2009, qui, depuis, de cesse de réitérer son soutien à  l’idée que la Turquie puisse intégrer l’Union européenne.

La situation est en tout cas favorable à l’affirmation de la Turquie sur l’échiquier international, laquelle est un partenaire obligé pour la question du Kurdistan irakien, mais aussi un interlocuteur privilégié comme intermédiaires dans les relations syro-israéliennes et russo-géorgiennes, et même auprès des Etats afghan et pakistanais.

Actuellement, la base d’Incirlik compte quelque 4500 Américains. En cas de dégradation de la situation en Irak, après août 2010, elle sera un pôle stratégique particulièrement précieux pour intervenir.

Source : RAIDS magazine #280, p.14


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samedi, 10 octobre 2009

Francia y Espana al rescate del imperialismo yanqui

soldados_espanoles_afganistan.jpgFrancia y España al rescate del imperialismo yanqui

Volverán a la base aérea en Kirguistán

Kirguistán dio pasos el lunes para permitir que soldados franceses y españoles vuelvan a su base área de Manas, un puesto de paso para las operaciones militares encabezadas por Estados Unidos en Afganistán.

Kirguistán canceló los acuerdos con Francia y España en marzo, cuando rechazó un pacto similar con Estados Unidos para el uso de la base. El personal de Francia y España tenía que salir del país para el 13 de octubre.

“Se ha decidido aprobar los acuerdos (con Francia y España) y enviarlos al Ministerio de Exteriores”, dijo Erik Arsaliyev, responsable del comité parlamentario para asuntos internacionales, a los periodistas.


La base, que sirve como punto de repostaje para aviones usados en Afganistán, es importante para Washington y sus aliados de la OTAN porque sustituye a rutas que atraviesan Pakistán y que han sido atacadas por los integristas.

El viceministro de Exteriores, Ruslan Kazakbayev, dijo que el Parlamento revisaría los acuerdos tras la aprobación gubernamental.

El Parlamento está dominado por los leales al presidente Kurmanbek Bakiyev, lo que deja poca duda de que los acuerdos se aprobarán.

Bakiyev anunció la cancelación del acuerdo con el Ejército de EEUU en una visita a Moscú, donde Rusia dijo que ofrecería 2.000 millones de dólares en ayuda para el empobrecido país, en lo que los analistas consideraron una batalla entre Moscú y Washington para ganar influencia en el Asia Central.

Washington renegoció después una renta mayor y continuará usando la base para sus operaciones en Afganistán.

Según los borradores a los que tuvo acceso Reuters, Francia podrá tener 40 efectivos y un avión de repostaje en Manas. El acuerdo no da detalles sobre el número de personas o equipamiento que se permitirán a España.

Extraído de SwissInfo.

dimanche, 04 octobre 2009

La guerre en Irak est-elle finie?

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La guerre en Irak est-elle finie ?

Exclusivité: http://unitepopulaire.org/

Depuis que le nouveau président américain, Barak Obama, a promis que les forces américaines allaient quitter l’Irak, la couverture médiatique sur ce pays a beaucoup diminué. Tout va-t-il donc pour le mieux dans chez les Irakiens ? En 2009, les efforts américains paraissent se focaliser sur la pacification de l’Afghanistan, et bien que cette tâche semble perdue, c’est sur cette affaire que les médias se concentrent pour le moment. Pour celles et ceux qui suivent l’information hors des médias traditionnels – notamment sur les divers sites d’information dont l’excellent Antiwar – il apparaît que la violence en Irak, un peu à la baisse en 2007, s’est de nouveau élevée à un niveau terrifiant. Attentats, voitures piégées, kamikazes, tirs de mortiers, faisant des centaines de morts par semaine… Si les soldats américains, retranchés dans leurs immenses bases et ambassades, semblent ne pas trop subir de pertes, et que le nombre de morts et blessés mercenaires reste aussi flou que jamais, ce sont les civils irakiens de toutes confessions, âge et sexe, qui sont le plus touchés.

Il est légitime de se demander si la guerre en Irak est finie, si les forces américaines vont quitter (officiellement, sinon officieusement) le pays, et quels sont les enjeux politiques et géostratégiques locaux et régionaux qui pourraient aider à répondre à ces questions. C’est afin de répondre à ces questions que l’historien français Denis Gorteau a écrit un livre, La Guerre en Irak Est-elle Finie ?, édité aux éditions Yvelines en juin 2009, qui résume fort bien les tenants et les aboutissants de cette guerre déclenchée par George W. Bush en 2003.

Je recommande ce livre a toute personne ne connaissant que peu de choses sur cette région-là du monde, car en 273 pages, c’est toute l’histoire du Moyen-Orient (et des Etats-Unis) qui est résumée de manière concise et intelligente. Même l’historien amateur ou passionné de géostratégie dont je suis peut trouver dans ce livre, au-delà de l’exposé des faits, un bon nombre d’idées judicieuses sur la manière dont pétrole, Israël, l’Iran, la Russie, la Chine, les Etats-Unis, le nationalisme arabe et l’Islam s’emboîtent en alliances, parfois contre-nature, conflits – larvés ou ouverts – pour façonner, souvent de manière tragique, une région stratégiquement vitale pour le monde moderne. Même le lecteur d’excellents livres sur le sujet, comme Cobra II de Michael R. Gordon, Fiasco de Thomas E. Ricks, Hubris de Michael Isikoff, ou la trilogie de Bob Woodward (Plan of Attack, Bush at War, State of Denial) pourra trouver dans La Guerre en Irak Est-elle Finie ? des idées pertinentes et novatrices, malgré – ou justement parce que – l’approche très factuelle, mais dans laquelle on sent un vrai attachement de l’auteur pour les peuples de la région qui subissent depuis fort longtemps un cycle d’injustices et de violences inouïes.

Denis Gorteau, qui sera d’ailleurs en conférence prochainement à Genève sur ce thème (date à préciser), explique notamment très bien les différentes facettes historiques de cette guerre et touche très rapidement aux sujets qui ont rendu la situation si cruelle pour les Irakiens et si inextricable pour l’ensemble des acteurs du conflit.

 

pour Unité Populaire, Piero Falotti

mercredi, 30 septembre 2009

L'expédition de Werner Otto von Hentig en Afghanistan (1915-1916)

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Walter RIX:

L’Expédition de Werner von Hentig en Afghanistan (1915-1916)

 

En mars 1915, le Sous-Lieutenant Werner von Hentig, qui combat sur le front russe, reçoit l’ordre de se rendre le plus rapidement possible à Berlin pour se présenter auprès du Département 3b de l’état-major général. Ce Département est un département politico-militaire. Comme il l’écrira plus tard dans ses souvenirs (“Mein Leben – eine Dienstreise” / “Ma vie – un voyage en service commandé”), il s’était distingué, au sein de son unité, en peu de temps, comme un “spécialiste des patrouilles stratégiques, pour la plupart derrière les lignes ennemies”. Cette audace le prédisposait, aux yeux de ses supérieurs hiérarchiques, à l’aventure qu’ils allaient lui suggérer.

 

Werner Otto von Hentig était le fils d’un juriste bien connu à l’époque de Bismarck, qui avait occupé le poste de ministre d’Etat dans l’entité de Saxe-Cobourg-Gotha. En fait, Werner Otto von Hentig était diplomate de formation. Sa promotion était toutefois récente et il n’était encore qu’aux échelons inférieurs de la carrière. Mais, malgré cette position subalterne, il incarnait déjà, avant 1914, une sorte de rupture et surtout il personnifiait une attitude différente face au monde, celle de sa jeune génération. Celle-ci ne considérait plus que le service diplomatique était une sinécure agréable pour l’aristocratie. Déjà lors de sa période de probation, comme attaché à la légation d’Allemagne à Pékin, il avait pu sauver beaucoup de vies lors des troubles de la guerre civile chinoise, grâce à ses interventions, répondant à une logique du coeur. Dans les postes qu’il occupa après la Chine, notamment à Constantinople et à Téhéran, il se distingua par ses compétences. Ce n’est pas sans raison que l’ambassadeur d’Espagne à Paris, Léon y Castillo, Marquis de Muni, porte-paroles de tous les diplomates accrédités dans la capitale française, avait évoqué, dès le 3 janvier 1910, dans les salons de l’Elysée, une “ère nouvelle de la diplomatie”.

 

En 1915, on avait donc choisi Hentig pour une mission tout-à-fait spéciale. Comme tous les experts ès-questions orientales, y compris le futur célèbre indologue Helmuth von Glasenapp, avaient déjà reçu une mission, c’était lui que l’on avait sélectionné pour mener une expédition politique en Afghanistan. Les sources disponibles ne nous rendent pas la tâche facile: sur base de celles qui sont encore disponibles, nous ne pouvons guère décrire avec précision le but exact de cette mission ni définir quelle fut la part dévolue aux Turcs. Hentig écrit dans ses mémoires: “Après que le front occidental se fût figé, on songea à nouveau à frapper l’Angleterre par une opération politique au coeur de son Empire, l’Inde. Ce fut la visite du Kumar d’Hatras et de Mursan Mahendra Pratap au ministère allemand des affaires étrangères, puis au quartier général impérial, qui constitua le déclic initial”. De plus, l’idée avait reçu l’appui d’un docte juriste musulman, Molwi Barakatullah.

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Au départ de Kaboul, les Allemands voulaient soulever contre l’Angleterre toute la région instable (et qui reste instable aujourd’hui) entre l’Afghanistan et l’Inde de l’époque. De Kaboul également, ils voulaient introduire l’idée d’indépendance nationale dans le sous-continent indien. Les alliés indiens dans l’affaire étaient deux personnalités vraiment inhabituelles, décrites de manières fort différenciées selon les rapports que l’on a à leur sujet. Mursan Mahendra Pratap, quoi qu’on ait pu dire de lui, était un patriote cultivé; il appartenait à l’aristocratie indienne et avait consacré toute sa fortune à soulager les pauvres. Il voulait créer une Inde indépendante qui aurait dépassé l’esprit de caste. Barakatullah s’était rendu à Berlin en passant par New York, Tokyo et la Suisse. Au départ de la capitale prussienne, il voulait amorcer le combat contre la domination impérialiste anglaise.

 

Hentig posa une condition pour accepter la mission: il voulait que celle-ci soit menée comme une opération purement diplomatique et non pas comme une action militaire. Pour attirer le moins possible l’attention, le groupe devait rester petit. Outre les deux amis indiens, Hentig choisit encore deux “hodjas”, des dignitaires islamiques, et, parmi les 100.000 prisonniers de guerre musulmans de l’Allemagne, dont la plupart avaient d’ailleurs déserté, il sélectionna cinq combattants afridis très motivés, originaires de la région frontalière entre l’Afghanistan et le Pakistan actuel. Ces hommes se portèrent volontaires et ne posèrent qu’une seule condition: être équipés d’un fusil allemand des plus précis. A l’expédition s’ajoutèrent le médecin militaire Karl Becker, que Hentig avait connu à Téhéran, et un négociant, Walter Röhr, qui connaissait bien la Perse. L’officier de liaison de l’armée ottomane était Kasim Bey, qui avait le grade de capitaine. Le groupe partit avec quatorze hommes et quarante bêtes de somme. A Bagdad, ils rencontrèrent un autre groupe d’Allemands, dirigé, lui, par un officier d’artillerie bavarois, Oskar von Niedermayer. Ces hommes-là, aussi, devaient atteindre Kaboul, mais leur mission était militaire (cf. “Junge Freiheit”, n°15, 2003).

 

En théorie, l’Iran était neutre mais sa partie septentrionale était sous contrôle russe tandis que le Sud, lui, se trouvait sous domination anglaise. Hentig, pour autant que cela s’avérait possible, devait progresser en direction de l’Afghanistan en évitant les zones contrôlées par les Alliés de l’Entente. Cette mesure de prudence l’obligea à traverser les déserts salés d’Iran, que l’on considérait généralement comme infranchissables. Les souffrances endurées par la petite colonne dépassèrent les prévisions les plus pessimistes. Elle a dû se frayer un chemin dans des régions que Sven Hedin, en tant que premier Européen, avait explorées dix ans auparavant. Il faudra encore attendre quelques décennies pour que d’autres Européens osent s’y aventurer. Même si les Russes et les Britanniques mirent tout en oeuvre pour empêcher la colonne allemande d’accomplir sa mission, celle-ci parvint malgré tout à franchir la frontière afghane le 21 août 1915. Dès ce moment, les autorités afghanes agirent à leur tour pour empêcher tout contact entre Hentig et ses hommes, d’une part, et la population des zones montagneuses du Nord du pays, d’autre part. Hentig constata bien vite l’absence de toute structure de type étatique en Afghanistan et remarqua, avec étonnement, que les tribus du Nord, qui ne pensaient rien de bon du pouvoir de Kaboul, voyaient en lui le représentant de leurs aspirations. En tout, le pays comptait à l’époque au moins trente-deux ethnies différentes et quatre grands groupes linguistiques.

 

Hentig ne disposait que d’une faible marge de manoeuvre sur le plan diplomatique. Les Anglais, pourtant, en dépit de pertes considérables, ne s’étaient jamais rendu maîtres du pays, ni en 1839 ni en 1879 mais ils avaient appliqués en Afghanistan le principe du “indirect rule”, de la “domination indirecte”, et avaient transformé le roi en vassal de la couronne britannique en lui accordant des subsides: l’Emir Habibullah recevait chaque année des sommes impressionnantes de la part des Anglais. En même temps, le vice-roi et gouverneur général des Indes, Lord Hardinge of Penthurst, veillait à ce que le roi afghan n’abandonne pas la ligne de conduite pro-anglaise qu’on lui avait suggérée. Enfin, les services secrets britanniques, que Rudyard Kipling a si bien décrits dans son roman “Kim”, étaient omniprésents. Dans un tel contexte, le roi ne songeait évidemment pas à pratiquer une politique d’équilibre entre les puissances, a fortiori parce que l’Italie avait quitté la Triplice, parce que la Russie avait lancé une offensive dans le Caucase et parce que les succès de l’armée ottomane se faisaient attendre.

 

Hentig décida alors d’appliquer le principe qu’utilisaient les Britanniques pour asseoir leur domination: obtenir l’influence politique en conquérant les esprits de la classe sociale qui donne le ton. L’Allemagne n’était pas entièrement dépourvue d’influence en Afghanistan à l’époque. A Kaboul, dans le parc des pièces d’artillerie de l’armée afghane, Hentig découvre de nombreux canons de montagne fabriqués par Krupp, avec, en prime, un contre-maître de cette grande firme allemande, un certain Gottlieb Fleischer. Celui-ci aurait été tué par des agents britanniques tandis qu’il quittait le pays, selon la légende. 

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Systématique et habile, Hentig parvint à obtenir l’oreille des décideurs afghans, en jouant le rôle du conseiller bienveillant. Il fut aider dans sa tâche par un groupe d’hommes de l’entourage d’une sorte de chancelier , Nasrullah Khan, un frère de l’Emir. Ce groupe entendait promouvoir l’idée d’une indépendance nationale. En très peu de temps, Hentig a donc réussi à exercer une influence considérable sur ce groupe nationaliste ainsi que sur le jeune prince Habibullah. Finalement, l’Emir lui accorda à son tour toute son attention. Celui-ci, selon une perspective qualifiable de “féodale”, considérait que le pays était sa propriété privée. Hentig tenta de lui faire comprendre les principes d’un Etat moderne. Sans s’en rendre compte, il jeta les bases du combat afghan pour l’indépendance nationale. L’Emir s’intéressa essentiellement au principe d’un budget d’Etat bien ordonné car cela lui rapporterait davantage en impôts que tous les subsides que lui donnaient les Anglais.

 

Le roi trouvait particulièrement intéressante la recommandation de dissimuler tous ses comptes au regard des Anglais, de soustraire sa fortune à la sphère d’influence britannique. Rétrospectivement, Hentig notait dans ses mémoires: “Nous ne subissions plus aucune entrave de la part de l’Emir, bien au contraire, il nous favorisait et, dès lors, notre influence s’accroissait dans tous les domaines sociaux, politiques et économiques de la vie afghane”. En esquissant les grandes lignes d’un système fiscal, en insistant sur la nécessité d’un service de renseignement et en procurant aux Afghans une formation militaire, Hentig parvint à induire une volonté de réforme dans le pays. Les connaissances qu’il a glanées restent pertinentes encore aujourd’hui. Ainsi, sur le plan militaire, il notait: “Nous considérions également qu’une réforme de l’armée s’avérait nécessaire. Dans un pays comme l’Afghanistan (...), on ne peut pas adopter une structure à l’européenne, avec des corps d’armée et des divisions, mais il faut, si possible, constituer de petites unités autonomes en puisant dans toutes les armes; de telles unités sont les seules à pouvoir être utilisées dans ces zones montagneuses sans voies praticables. L’Afghanistan doit également envisager des mesures préventives contre les bombardements aériens, qui ont déjà obtenu quelques succès dans les régions frontalières”.

 

La pression croissante de l’Angleterre obligea Hentig à se retirer le 21 mai 1916. Une nouvelle marche à travers la Perse lui semblait trop dangereuse. Il choisit la route qui passait à travers l’Hindou Kouch, le Pamir, la Mongolie et la Chine. Sur cet itinéraire, il fut une fois de plus soumis à de très rudes épreuves, où il faillit mourir d’épuisement. A la première station télégraphique, il reçut des directives insensées de la légation allemande de Pékin, qui n’avaient même pas été codées! Hentig s’insurgea ce qui le précipita dans une querelle de longue durée avec le ministère des affaires étrangères.

 

En février 1919, l’Emir Habibullah fut tué de nuit dans son sommeil, dans sa résidence d’hiver de Djalalabad. Son frère, Nasrullah Khan, fut problablement l’instigateur de cet assassinat. Le Prince Amanullah, qui avait été très lié à Hentig, pris la direction des affaires. En mai 1919 éclate la troisième guerre d’Afghanistan qui se termina en novembre 1920 par la Paix de Rawalpindi, qui sanctionna l’indépendance du pays. Dès 1921, Allemands et Afghans signent un traité commercial et un traité d’amitié germano-afghan.

 

En février 1928, Amanullah, devenu roi, est en visite officielle à Berlin. Le ministère des affaires étrangères en veut toujours à Hentig et tente par tous les moyens d’empêcher une rencontre entre le souverain afghan et le diplomate allemand. Pour contourner cette caballe, la firme AEG suggère à Hentig de  participer à une visite par le roi des usines berlinoises du consortium. Pendant sa visite, le roi découvre tout à coup son ancien hôte et conseiller, quitte le cortège officiel, se précipite vers lui et le serre dans ses bras devant tout le monde. Le roi insiste pour que Hentig reçoive une place d’honneur dans le protocole. Le Président du Reich, Paul von Hindenburg, exige du ministère des affaires étrangères qu’il explique son comportement étrange. 

 

En 1969, lorsque Hentig avait quatre-vingt-trois ans, il fut invité d’honneur du roi Zaher Shah à l’occasion des fêtes de l’indépendance. Hentig profita de l’occasion pour compulser les archives des services secrets de l’ancienne administration coloniale britannique, qui étaient restées au Pakistan. Ce fut pour lui un plaisir évident car les Américains s’étaient emparé de ses propres archives après la défaite allemande de 1945 et ne les ont d’ailleurs toujours pas rendues. Dans les dossiers secrets de l’ancienne puissance coloniale britannique, Hentig découvrit bon nombre de mentions de sa mission; toutes confirment ce qui suit: l’expédition allemande a créé les prémisses du mouvement indépendantiste afghan et donné une impulsion non négligeable aux aspirations indiennes à l’indépendance.

 

Walter RIX.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°39/2009; trad. française: Robert Steuckers). 

samedi, 26 septembre 2009

Iran, de dollar en de euro

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Iran, de dollar en de euro

Geplaatst door yvespernet

http://presstv.com/detail.aspx?id=106669&sectionid=351020102

Iran’s President Mahmoud Ahmadinejad has ordered the replacement of the US dollar by the euro in the country’s foreign exchange accounts.
The September 12 edict was issued following a decision by the trustees of the country’s foreign reserves, Mehr News Agency reported.
Earlier, the Islamic Republic of Iran had announced that the euro would replace the greenback in the country’s oil transactions. Iran has called on other OPEC members to ditch the sinking dollar in favor of the more credible euro.
Following the switch, the interest rate for the facilities provided from the Foreign Exchange Reserves will be reduced from12 to 5 percent.
Since being introduced by the European Union, the euro has gained popularity internationally and there are now more euros in circulation than the dollar.
The move will also help decouple Iran from the US banking system.

Iran’s President Mahmoud Ahmadinejad has ordered the replacement of the US dollar by the euro in the country’s foreign exchange accounts. The September 12 edict was issued following a decision by the trustees of the country’s foreign reserves, Mehr News Agency reported. Earlier, the Islamic Republic of Iran had announced that the euro would replace the greenback in the country’s oil transactions. Iran has called on other OPEC members to ditch the sinking dollar in favor of the more credible euro.

Following the switch, the interest rate for the facilities provided from the Foreign Exchange Reserves will be reduced from12 to 5 percent. Since being introduced by the European Union, the euro has gained popularity internationally and there are now more euros in circulation than the dollar. The move will also help decouple Iran from the US banking system.

Als u zich afvraagt waarom de V.S.A het op Iran gemunt hebben, dit is één van de hoofdredenen. Heel de retoriek over het gevaar van raketten heeft te maken met het scheppen van een anti-Iransfeer. Want als je nadenkt over die Iraanse “rakettendreiging” is dat niet meer dan onzin. Iran overleeft voor een zeer groot deel van de olie-export naar het Westen. Zodra er ook maar één Iraanse raket richting Europa vliegt, stort heel hun economie in.

En natuurlijk is Iran nu bezig met het versterken van hun leger. Ze hebben genoeg lessen getrokken uit Irak, dat ironisch genoeg kort voor de Amerikaanse inval bezig was met het overschakelen naar de Euro voor de olie-industrie. Komt daar nog eens bij, als Iran een kernwapen ontwikkelt, dan is het omdat ze lessen hebben getrokken uit Noord-Korea die met rust gelaten worden vanwege die kernwapens.

Un livre sur l'Iran

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES – 1990

 

Un livre sur l’Iran

Recension: Shireen T. HUNTER, Iran and the World. Continuity in a Revolutionary Decade, Indiana University Press, Bloomington (Indiana 47.405), 1990, 256 p., $35.00 (cloth) ou $14,95 (paperback), ISBN 0-253-32877-2 (cl.) ou 0-253-20590-5 (pbk).

 

En février 1979, le triomphe des forces révolutionnaires islamiques, hostiles au pouvoir du Shah Mohammad Reza Pahlevi, met un terme à une tradition monarchique vieille de 2500 ans en Iran. La chute de la monarchie n'a pas installé d'emblée un régime islamique, bien que l'Ayatollah Rouhollah Khomeiny apparaissait très nettement comme le leader incontesté de la révolution. En théorie, pendant près d'un an, le pouvoir est demeuré entre les mains d'un gou­vernement provisoire dirigé par le Premier Ministre Mehdi Bazargan, flanqué de ses collègues nationalistes et séculiers.

 

En fait, ce gouvernement provisoire ne contrôlait nullement la situation et le pays entra rapidement dans une phase d'incertitude chaotique. Les extrémistes islamiques ainsi qu'une flopée de mouvements hybrides, gauchistes/islamistes, défiaient le gouvernement de façon ininterrompue, tandis que le «Conseil de la Révolution» minait ses possibilités d'agir. Rapidement, le front de bataille s'est dessiné en toute limpidité: les trois groupements idéologiques majeurs (séculier-nationaliste, islamiste et gauchiste) avaient chacun une vision radicalement différente du futur de l'Iran.

 

Le livre de Shireen T. Hunter entend dégager plusieurs lignes de faîte:

 

1) démontrer qu'une variété de facteurs  —et pas seulement l'Islam—  a marqué le comportement de l'Iran sur la scène internationale et déterminé sa politique extérieure;

 

2) montrer que la vision du monde iranienne n'est ni purement islamique ni un phénomène réellement nouveau dans la pensée politique du tiers-monde;

 

3) expliquer que le comportement de l'Iran n'a pas été une rupture totale par rapport au comportement politique normal escompté dans le concert des Etats du globe; ce comportement est celui d'un Etat du tiers-monde à un stade révolutionnaire de son existence;

 

4) montrer qu'il y a continuité entre le comportement actuel et passé de l'Iran, y compris dans les stratégies diplomatiques;

 

5) fournir un panorama des relations extérieures de l'Iran au cours de la dernière décennie, en le replaçant dans son propre contexte historique;

 

6) enfin, tirer des conclusions des événements de la dernière décennie pour prévoir l'avenir de l'Iran, quel que soit le régime qui émergera après la mort de l'Ayatollah Khomeiny.

 

Les outils méthodologiques utilisés dans cet ouvrage, afin de mettre en lumière les lignes de faîte énoncées ci-dessus, sont ceux qui président généralement aux analyses classiques dans les domaines de la diplomatie, de l'histoire et de la politique étrangère. Le livre aborde de front les questions majeures de la géopolitique régionale, de l'histoire mouvementée de l'Iran, des ressources économiques du pays, des circonstances intérieures (les processus de décision), pour examiner dans la foulée leurs interactions multiples et leur résultat final, celui qui détermine en dernière instance le comportement (géo)politique de l'Iran. Un ouvrage capital pour comprendre les dynamiques à l'œuvre dans une région bouleversée, où se décide sans doute le sort de toute la masse continentale eurasienne.  

 

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lundi, 21 septembre 2009

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Sortis de leurs déserts au lendemain de la mort du fondateur de l’islam (632) et rapidement maîtres d’immenses territoires s’étendant de l’Espagne à l’Asie centrale, les Arabes n’avaient pas de grandes traditions artistiques et n’amenaient avec ... Lire l'article
Ispahan et l’art des Séfévides
Le fondateur de la dynastie des Séfévides, Chah Ismaïl (1501-1524), brute sanguinaire, était aussi un homme de culture et de goût. Il aimait les beaux objets, métaux, verres, céramiques, les beaux tissus et s’éprit de peinture. Sous son règne, ... Lire l'article
Le Taj Mahal d’Agra
Qui n’a pas écrit sur le Taj Mahal ? Il faudrait le voir au clair de lune ou aux heures si brèves des embrasements indiens de l’aube et du crépuscule, puis s’en aller, se taire, emporter son image dans son cœur. Cela suffirait. Parler de ... Lire l'article
Les Ottomans en Europe centrale
En ce début du XVe siècle, les Balkans étaient entièrement aux mains des Turcs ottomans. Ceux-ci en avaient même dépassé les limites septentrionales, le Danube et la Save, en vassalisant la Valachie (1395). Ils n’entendaient pas ... Lire l'article
Sinan, un ingénieur-artiste au XVIe siècle
Si la vie de Sinan nous est mal connue, son œuvre magistrale, en revanche, témoigne à sa place. Jean-Paul Roux nous invite à découvrir les nombreuses mosquées que conçut et bâtit cet ingénieur, chrétien d’origine grecque, qui vécut au XVIe ... Lire l'article
Quand les Bulgares ne sont ni slaves ni balkaniques
Les Huns, dont on discute encore l’appartenance ethnique et linguistique, venus de la Haute Asie lointaine, font leur apparition dans la basse Volga, si l’on en croit Ptolémée, au IIe siècle de notre ère, entraînant à leur suite maints peuples ... Lire l'article
L’Afrique du Nord ottomane
L’arrivée en Tunisie d’Aruj Barabaros, pirate grec de mer Ionienne, plus connu sous le nom de Barberousse, marque au début du XVIe siècle l’émergence de la course ottomane. Dès lors, une lutte acharnée oppose les corsaires ... Lire l'article
Les Ottomans en mer Rouge et en Arabie
Malgré leur puissance, peut-être plus apparente que réelle, les Mamelouks, maîtres de l’Égypte et de l’Arabie, n’avaient pu empêcher les Portugais d’assurer leur domination dans l’océan Indien et d’interdire pratiquement l’accès de la mer Rouge ... Lire l'article
Les Omeyyades de Cordoue
Peu de civilisations ont laissé un tel souvenir dans la mémoire des hommes et d’aussi maigres témoins de leur existence, que celle des Omeyyades d’Espagne. Nés à l’issue d’un drame, ils ont régné pendant deux cent soixante-quinze ans, dont cent ... Lire l'article
Quand Chypre était la perle de l’Empire ottoman
La position stratégique de l’île de Chypre en Méditerranée lui a valu de tout temps d’être l’objet des convoitises des puissances du moment. Jean-Paul Roux nous explique le choc ressenti par la chrétienté face à la conquête ottomane de 1571 ... Lire l'article
L’Empire mamelouk d’Égypte
Les mamelouks, esclaves blancs venus des steppes turques, prirent la tête des armées des califes égyptiens avant de devenir, dès le XIIIe siècle, des souverains pour qui le sabre tint lieu de droit. Ils firent du Caire la première cité ... Lire l'article
Les Balkans ottomans
Les Turcs avaient été appelés en Europe par les Byzantins pour qu’ils les aidassent dans leurs conflits internes et contre les Serbes. En 1346, ils y étaient passés une première fois. Ils y étaient revenus en 1354, avaient établi une solide ... Lire l'article
Le Proche-Orient arabe sous domination ottomane
Au début du XVIe siècle, la capitale et le meilleur des terres des Sultans turcs ottomans se trouvent en Europe ; ils font alors davantage figure de princes européens qu’asiatiques. Si leur existence n’était en jeu, ils se passeraient ... Lire l'article
Les Séfévides, fondateurs de l’Iran moderne (1501-1736)
À l’aube du XVIe siècle, Ismaïl, chaïkh de l’ordre mystique des Séfévides se proclame chah avec le soutien des tribus turques. C’est avec une main de fer, des moyens souvent sanguinaires et en s’appuyant le clergé, qu’il réalise l’unité ... Lire l'article
La miniature iranienne, un art figuratif en terre d’islam
Comment et quand est née la miniature iranienne ? Quelle a été son évolution et quel est son devenir ? C’est toute l’histoire de cet art délicat et merveilleux que scrute ici Jean-Paul Roux en analysant les premiers dessins jusqu’au XIVe siècle ... Lire l'article
La miniature moghole, éclectique et raffinée
La peinture moghole, contrairement à la peinture ottomane de manuscrits, connut très tôt une large audience et conquit la faveur des historiens de l’art et du grand public. L’intervention des Portugais aux Indes, puis l’occupation française et ... Lire l'article
La Horde d’or et la Russie
En ce début du XIIIe siècle, rien ni personne ne semblait pouvoir résister à la déferlante des cavaliers mongols et les villes russes tombèrent les unes après les autres. Pendant près de deux cent cinquante ans, la Russie fit le dos rond ... Lire l'article
Les Grands Seldjoukides
Les pères luttent pour la conquête, leurs fils règnent, parfois avec sagesse, leurs petits-fils essaient, sans toujours y parvenir, de défendre des territoires convoités par d’autres conquérants : si toutes les dynasties sont mortelles, ... Lire l'article
Quand l'Afghanistan était l'un des centres du monde
Vers 1950, l’Afghanistan, figé sur ses traditions, sur un islam pur et dur, sur une farouche xénophobie, demeurait, malgré quelques tentatives d’ouverture sur le monde, un des pays les plus inaccessibles et les plus retardataires. Il n’y avait ... Lire l'article
L'épopée du monde turc
La langue turque est connue depuis le VIIIe siècle par des inscriptions écrites en Mongolie septentrionale, mais elle présente déjà, alors, des phénomènes d’usure qui prouvent son antiquité : elle nous a livré son premier mot dans un ... Lire l'article
Secte ou religion : les Druzes du Proche-Orient
De toutes les formations religieuses hétérodoxes qui émaillent le monde de l’islam, l’une des plus célèbres, pour ne pas dire la plus célèbre, est celle des Druzes. Cela provient peut-être de ce qu’elle a des liens anciens avec l’Europe ; ... Lire l'article
L’islam des partisans d’Ali : le chiisme
Une étude du chiisme doit tenir compte de plusieurs faits : il n’est pas spécifiquement iranien ; il a une longue histoire ; loin d’être unifié, il se subdivise en maints rameaux ; tous les mouvements religieux ou toutes les ... Lire l'article
L’Empire mongol, de l’art de la conquête
En 1164 peut-être – les dates ne sont pas sûres – au nord du pays qui deviendra la Mongolie, un homme et un garçon de neuf ans, Temüdjin, séjournent chez un chef de tribu des Qonggirat. Ils sont bien accueillis, et, comme on se plaît, on décide ... Lire l'article
La miniature ottomane
Des trois écoles classiques de la miniature islamique – celles d’Iran, de l’Inde moghole et des Ottomans – la dernière est la moins connue. Cela découle de trois faits : ses œuvres, moins dispersées que les autres, sont mal représentées ... Lire l'article
Les sept villes de Delhi
Ce n’est pas à Delhi que l’on peut voir les plus beaux monuments de l’islam en Inde. Il ne s’y trouve ni le Taj Mahal ni les délicats écrans de marbre ciselé. On peut préférer la Grande Mosquée de Fatehpur Sikri ou d’Agra à celle de la ville ... Lire l'article
L'empire éblouissant des Grands Moghols
Si, officiellement, la dynastie des Moghols régna de 1526 à 1857, seuls six, parmi eux les premiers, furent véritablement « grands » et apportèrent à l’Inde puissance, prospérité et unité, tolérance et raffinement esthétique. ... Lire l'article
Akbar et Fatehpur Sikri
Fatehpur Sikri, où tant d’influences artistiques se font sentir, est l’expression architecturale de l’idéal d’Akbar : la fusion en un ensemble unique, aussi harmonieux que possible, de toutes les tendances religieuses et culturelles de son ... Lire l'article
Le Caire islamique
Qui visite Le Caire islamique ? On ne va pas en Égypte pour l’art de l’islam, mais pour l’Antiquité pharaonique, et c’est dommage. Peu de cités au monde possèdent autant de monuments anciens, aussi beaux, aussi variés, et ... Lire l'article
Le harem de Topkapi : mythe et réalité
Dans l’imaginaire occidental, le harem des sultans a longtemps entretenu la vision d’un Orient de luxe et de volupté. Mais quand et pourquoi fut-il édifié ? Quelle en était l’organisation et comment vivaient, au quotidien, les femmes que ... Lire l'article
Les palais des caravanes : Les caravansérails seldjoukides
Au XIIIe siècle les routes de Cappadoce se jalonnèrent de caravansérails qui accueillaient gratuitement bêtes et gens. On y parlait toutes les langues, on priait, on négociait, on se soignait, et l’on repartait vers la halte suivante. Ils ... Lire l'article
La civilisation omeyyade et les châteaux du désert
Quelques années seulement après l’émergence de l’Empire arabe en 632, les Omeyyades imposèrent leur autorité et, de Syrie où ils s’installèrent, tout en perpétuant les traditions léguées tant par l’Antiquité que le christianisme, ils surent imposer ... Lire l'article
Istanbul, métamorphoses et séduction
D’où vient cette fascination qu’exerce l’antique capitale des basilei byzantins et des padichah ottomans ? Pourquoi, dans son incessante métamorphose, Istanbul nous donne-t-elle ce gage de fidélité ? Telles sont les questions ... Lire l'article
La Grande Mosquée d'Ispahan : Histoire et civilisation de l'Iran islamique
Auteur de nombreux ouvrages, Jean-Paul Roux est spécialiste du monde musulman. Ses études et observations concernant la Grande Mosquée d’Ispahan nous révèlent aujourd’hui à quel point ce monument est le plus important et le plus significatif ... Lire l'article
Le mazdéisme, la religion des mages
Dans l’Iran ancien était vénéré le dieu Ahura Mazda, le Seigneur sage, omniscient ; d’où le nom mazdéisme donné à cette religion traditionnelle, la plus ancienne à s’être pérennisée – parfois sous la dénomination de zoroastrisme, ... Lire l'article
Le christianisme en Asie centrale
L’Asie centrale, de tout temps terre de passage, d’invasion, de rencontre des civilisations venues des quatre points cardinaux, est le lieu de la diversité anthropologique, linguistique et culturelle par excellence. Comment, et sous quelle forme ... Lire l'article

vendredi, 18 septembre 2009

Les espions de l'or noir

Les espions de l’or noir

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Le pétrole, « maître du monde » ? Oui, mais comment en est-on arrivé là ? Des rivalités pour contrôler la route des Indes à l’émergence des Etats-Unis comme puissance mondiale, les pays anglo-saxons ont su étendre leur influence en Asie centrale, dans le Caucase et au Proche-Orient, avec, au final, leur mainmise sur les principales ressources pétrolières mondiales.

Gilles Munier remonte aux origines du Grand jeu et de la fièvre du pétrole pour raconter la saga des espions de l’or noir et la malédiction qui s’est abattue sur les peuples détenteurs de ces richesses. Il brosse les portraits des agents secrets de Napoléon 1er et de l’Intelligence Service, du Kaiser Guillaume II et d’Adolphe Hitler, des irréguliers du groupe Stern et du Shay – ancêtres du Mossad – ou de la CIA, dont les activités ont précédé ou accompagné les grands bains de sang du 19ème et du début du 20ème siècle.

Parmi d’autres, on croise les incontournables T.E Lawrence dit d’Arabie, Gertrude Bell, St John Philby et Kermit Roosevelt, mais aussi des personnages moins connus comme Sidney Reilly, William Shakespear, Wilhelm Wassmuss, Marguerite d’Andurain, John Eppler, Conrad Kilian. Puis, descendant dans le temps, Lady Stanhope, le Chevalier de Lascaris, William Palgrave, Arthur Conolly et David Urquhart.

« On dit que l’argent n’a pas d’odeur, le pétrole est là pour le démentir » a écrit Pierre Mac Orlan. « Au Proche-Orient et dans le Caucase », ajoute Gilles Munier, « il a une odeur de sang ». Lui qui a observé, sur le terrain, plusieurs conflits au Proche-Orient, montre que ces drames n’ont pas grand chose à voir avec l’instauration de la démocratie et le respect des droits de l’homme. Ils sont, comme la guerre d’Afghanistan et celles qui se profilent en Iran ou au Darfour, l’épilogue d’opérations clandestines organisées pour contrôler les puits et les routes du pétrole.

Contact : gilmunier@gmail.com [1]

* Editions Koutoubia – Groupe Alphée-Editplus, 11 rue Jean de Beauvais – 75005 PARIS

Source : http://espions-or.noir.over-blog.com/ [2]


Article printed from :: Novopress Québec: http://qc.novopress.info

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mardi, 15 septembre 2009

Karzai, la CIA et le trafic de la drogue

Karzai, la CIA et le trafic de la drogue

Article rédigé le 19 août 2009, par Frédéric Courvoisier

Ex: http://rodionraskolnikov.hautetfort.com/

Tous en chœur, les médias américains accusent le défunt régime islamique, sans même mentionner que les Talibans – en collaboration avec les Nations unies – avaient imposé avec succès l’interdiction de la culture du pavot en 2000. La production d’opium avait ensuite décliné de 90 % en 2001. En fait, l’augmentation de la culture d’opium a coïncidé avec le déclenchement des opérations militaires sous commandement américain et la chute du régime taliban. Entre les mois d’octobre et décembre 2001, les fermiers ont recommencé à planter du pavot à grande échelle. Le succès du programme d’éradication de la drogue en Afghanistan en l’an 2000 sous les Talibans avait été souligné à la session d’octobre 2001 de l’Assemblée générale des Nations unies. Aucun autre pays membre de l’ONU n’avait pu mettre en oeuvre un programme semblable.

opium

Sous les Talibans, la prohibition avait en effet causé « le début d’une pénurie d’héroïne en Europe vers la fin de 2001 », comme l’admet l’ONU.

L’héroïne est un commerce de plusieurs milliards de dollars supporté par des intérêts puissants, qui requiert un flux régulier et sécuritaire de la marchandise. Un des objectifs « cachés » de la guerre était justement de restaurer le trafic de la drogue, parrainé par la CIA, à ses niveaux historiques et d’exercer un contrôle direct sur les routes de la drogue.

En 2001, sous les Talibans, la production d’opiacés s’élevait à 185 tonnes, pour ensuite grimper à 3400 tonnes en 2002 sous le régime du président Hamid Karzai, marionnette des États-Unis.

Les Talibans avaient éliminé la culture du pavot

Tout en soulignant la lutte patriotique de Karzai contre les Talibans, les médias omettent de mentionner qu’il a déjà collaboré avec ces derniers. Il a aussi déjà été à l’emploi d’une pétrolière des États-Unis, UNOCAL. En fait, depuis le milieu des années 1990, Hamid Karzai agissait comme consultant et lobbyiste pour UNOCAL dans ses négociations avec les Talibans.

Selon le journal saoudien Al-Watan, « Karzai était un agent en sous-main de la Central Intelligence Agency à partir des années 1980. Il collaborait avec la CIA en acheminant de l’aide américaine aux Talibans à partir de 1994, quand les Américains, secrètement et à travers les Pakistanais, supportaient les visées de pouvoir des Talibans. »

Il est pertinent de rappeler l’histoire du trafic de drogue dans le Croissant d’or, qui est intimement lié aux opérations clandestines de la CIA dans la région.

L’histoire du trafic de la drogue dans le Croissant d’or

Avant la guerre soviético-afghane (1979-1989), la production d’opium en Afghanistan et au Pakistan était pratiquement inexistante. Selon Alfred McCoy, il n’y avait aucune production locale d’héroïne.

L’économie afghane de la drogue fut un projet minutieusement conçu par la CIA, avec l’assistance de la politique étrangère américaine.

Comme il a été révélé par les scandales Iran-Contras et de la Banque de Commerce et de Crédit international (BCCI), les opérations clandestines de la CIA en support aux moujahidins avaient été financées à travers le blanchiment de l’argent de la drogue.

L’hebdomadaire Time révélait en 1991 que « parce que les États-Unis voulaient fournir aux rebelles moujaheddins en Afghanistan des missiles Stinger et d’autres équipements militaires, ils avaient besoin de l’entière coopération du Pakistan. » À partir du milieu des années 1980, la présence de la CIA à Islamabad était une des plus importantes dans le monde. Un officier du renseignement américain avait confié au Time que les États-Unis fermaient alors volontairement les yeux sur le trafic de l’héroïne en Afghanistan.

L’étude d’Alfred McCoy confirme qu’en l’espace de deux ans après le déclenchement des opérations clandestines de la CIA en Afghanistan, en 1979, « les régions frontalières entre le Pakistan et l’Afghanistan devinrent la première source mondiale d’héroïne, fournissant 60 % de la demande américaine. »

Selon McCoy, ce trafic de drogue était contrôlé en sous-main par la CIA. Au fur et à mesure que les moujahidins gagnaient du terrain en Afghanistan, ils ordonnaient aux paysans de planter de l’opium comme une taxe révolutionnaire.

À cette époque, les autorités américaines refusèrent d’enquêter sur plusieurs cas de trafic de drogue par leurs alliés afghans. En 1995, l’ancien directeur des opérations de la CIA en Afghanistan, Charles Cogan, a admis que la CIA avait en effet sacrifié la guerre à la drogue à la Guerre froide.

En troisième position après le pétrole et la vente d’armes

Le recyclage de l’argent de la drogue par la CIA était utilisé pour financer les insurrections post-Guerre froide en Asie centrale et dans les Balkans, y compris Al Qaeda.

Les revenus générés par le trafic de la drogue afghane commandité par la CIA sont considérables. Le commerce afghan des opiacés constitue une grande part des revenus annuels à l’échelle mondiale des narcotiques, estimés par les Nations unies à un montant de l’ordre de 400 ou 500 milliards.

Au moment où ces chiffres de l’ONU furent rendus publics (1994), le commerce mondial estimé de la drogue était dans le même ordre de grosseur que celui du pétrole.

Selon des chiffres de 2003 publiés par The Independent, le trafic de la drogue constitue le troisième commerce le plus important en argent après le pétrole et la vente d’armes.

Il existe de puissants intérêts commerciaux et financiers derrière la drogue. De ce point de vue, le contrôle géopolitique et militaire des routes de la drogue est aussi stratégique que celui du pétrole et des oléoducs.

Cependant, ce qui distingue la drogue des commerces légaux est que les narcotiques constituent une source majeure de richesse non seulement pour le crime organisé, mais aussi pour l’appareil de renseignement américain, qui constitue de plus en plus un acteur puissant dans les sphères bancaires et de la finance.

En d’autres mots, les agences de renseignements et de puissants groupes d’affaires alliés au crime organisé se livrent une concurrence pour le contrôle stratégique des routes de l’héroïne. Les revenus de plusieurs dizaines de milliards de dollars provenant du commerce de la drogue sont déposés dans le système bancaire occidental.

Le commerce de la drogue fait partie des plans de guerre

Ce commerce peut seulement prospérer si les principaux acteurs impliqués dans la drogue ont des « amis politiques aux plus hauts niveaux ». Les entreprises légales et illégales sont de plus en plus imbriquées, la ligne de démarcation entre « gens d’affaires » et criminels est de plus en plus floue. En retour, les relations entre les criminels, les politiciens et des acteurs du milieu du renseignement ont teinté les structures de l’État et le rôle de ses institutions.

L’économie de la drogue en Afghanistan est « protégée ». Le commerce de l’héroïne faisait partie des plans de guerre. Ce que cette guerre aura accompli, c’est le rétablissement d’un narco-régime dirigé par un gouvernement fantoche soutenu par des États-Unis.

Source : Forums Mecanopolis

http://www.mecanopolis.org/?p=9257&type=1

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Al-Qaeda: una util herramienta de guerra para el Imperio

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Al-Qaeda: una útil herramienta de guerra para el Imperio

Ex: http://antimperialista.blogia.com/

(Extracto del artículo "Ex secretario de seguridad de Bush revela dato clave del uso imperial del terrorismo" publicado en IAR noticias)

En el libro "La prueba de nuestro tiempo: Estados Unidos asediado... y cómo podemos estar nuevamente seguros" Ridge (Ex secretario de seguridad de Bush ) cuenta que pese a los pedidos del ex secretario de Defensa, Rumsfeld, y del entonces secretario de Justicia John Ashcroft, él se opuso a elevar el nivel de alerta y, finalmente, no fue elevado, aunque le costó el cargo.

Semanas antes de las elecciones de 2004 habían sido difundidas dos grabacioness de Al-Qaeda: una con Osama Bin Laden y la otra con un hombre llamado "Azzam el estadounidense’’. La CIA -como lo hace siempre- reconoció la "autenticidad" de las amenazas. "El aumento de la alarma terrorista en EEUU poco antes de las presidenciales de 2004 pretendía  influir en los resultados y favorecer a George W. Bush", afirma Ridge en su libro.

"Bush y el candidato contrincante demócrata John Kerry -señala- estaban muy igualados en las encuestas y los funcionarios claves de Bush  afirmaban que el video de Bin Laden, incluso sin elevar el nivel de alarma, contribuiría a una victoria final de Bush por un resultado abrumante."

Pese a todo se tomaron grandes prevenciones de seguridad en edificios públicos y en lugares claves de Nueva York, lo que ayudó a recrear el "clima terrorista" que lo llevó a Bush a ganar las elecciones y ser reelecto en el cargo presidencial.   

En pleno despliegue del aparato de seguridad para prevenir el "ataque terrorista", Ridge renunció el 30 de noviembre del 2004.

Desde el punto de vista geopolítico y estratégico, el   "terrorismo" no es un objeto diabólico del fundamentalismo islámico, sino una herramienta de la Guerra de Cuarta Generación que la inteligencia estadounidense y europea vienen utilizando (en Asia y Europa) para mantener y consolidar  la alianza USA-UE en el campo de las operaciones, para derrotar a los talibanes en Afganistán, justificar acciones militares contra Irán, antes de que se convierta en potencia nuclear, y generar un posible 11-S para distraer la atención de la crisis recesiva mundial.

A nivel geoeconómico se registra otra lectura:  Si se detuviera la industria y el negocio armamentista centralizado alrededor del combate contra el "terrorismo" (hoy alimentado por un presupuesto bélico mundial de US$ 1,460 billones) terminaría de colapsar la economía norteamericana que hoy se encuentra en una crisis financiera-recesiva de características inéditas.

Esta es la mejor explicación de porqué Obama, hoy sentado en el sillón de la Casa Blanca, ya se convirtió en el "heredero forzoso" de la "guerra contraterrorista" de Bush a escala global.

La "guerra contraterrorista" no es una política coyuntural de Bush y los halcones neocon, sino una estrategia global del Estado imperial norteamericano diseñada y aplicada tras el 11-S en EEUU, que ya tiene una clara  línea de continuidad con el gobierno demócrata de Obama.

La "simbiosis" funcional e interactiva entre Bush y Al Qaeda tiñó 8 años claves de la política imperial de EEUU. A punto tal, que a los expertos les resulta imposible pensar al uno sin el otro. Durante 8 años de gestión, Bin Laden y Al Qaeda se convirtieron casi en una "herramienta de Estado" para Bush y los halcones neocon que convirtieron al "terrorismo" ( y a la "guerra contraterrorista") en su principal estrategia de supervivencia en el poder.

Hay suficientes pruebas históricas en la materia: El 11-S sirvió de justificación para las invasiones de Irak y Afganistán, el 11-M en España preparó la campaña de reelección de Bush y fue la principal excusa para que EEUU impusiera en la ONU la tesis de "democratización" de Irak legitimando la ocupación militar, el 7-J en Londres  y las sucesivas oleadas de "amenazas" y "alertas rojas" le sirvieron a Washington para instaurar el "terrorismo" como primera hipótesis de conflicto mundial,  e imponer a Europa  los "planes contraterroristas" hoy institucionalizados a escala global.

Decenas de informes y de especialistas -silenciados por la prensa oficial del sistema- han construido un cuerpo de pruebas irrefutables de que Bin Laden y Al Qaeda son instrumentos genuinos de la CIA estadounidense que los ha utilizado para justificar las invasiones a Irak y Afganistán y para instalar la "guerra contraterrorista" a escala global.

La "versión oficial" del 11-S fue cuestionada y denunciada como "falsa y manipulada" por un conjunto de ex funcionarios políticos y de inteligencia, así como de investigadores tanto de EEUU como de Europa, que constan en documentos y pruebas presentados a la justicia de EEUU que nunca los investigó aduciendo el carácter "conspirativo" de los mismos (Ver: Documentos e informes del 11-S. / Al Qaeda y el terrorismo "tercerizado" de la CIA / La CIA ocultó datos y protegió a los autores del 11-S / Ex ministro alemán confirma que la CIA estuvo implicada en los atentados del 11-S / Informe del Inspector General del FBI: Más evidencias de complicidad del gobierno con el 11-S / Atentados del 11-S: 100 personalidades impugnan la versión oficial )

El establishment del poder demócrata (que ejerce la alternancia presidencial con los republicanos en la Casa Blanca) jamás mencionó la existencia de estas investigaciones y denuncias en una complicidad tácita de ocultamiento con el gobierno de Bush.

Simultáneamente, y durante los ocho años de gestión de Bush, los demócratas no solamente avalaron las invasiones de Irak y de Afganistán y votaron todos los presupuestos de la "guerra contraterrorista", sino que también adoptaron como propia la "versión oficial" del 11-S.

Este pacto de silencio y de encubrimiento entre la prensa y el poder imperial norteamericano preservó las verdaderas causas del  accionar terrorista de Bin laden y Al Qaeda, cuyas "amenazas" periódicas son publicadas sin ningún análisis y tal cual la difunden el gobierno y  sus organismos oficiales como la CIA y el FBI.

mercredi, 02 septembre 2009

Partout l'état d'urgence! Les nouveaux visages de la guerre au 21ème siècle

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Michael WIESBERG:

Partout l’état d’urgence: les nouveaux visages de la guerre au 21ème siècle

 

Il n’y a pas de guerre ! Voilà le message que le ministre allemand de la défense Franz Josef Jung (CDU) veut faire passer ces jours-ci, lorsqu’on évoque l’engagement de l’armée allemande en Afghanistan. Depuis la mort de trois soldats de la Bundeswehr dans un combat à l’arme à feu et depuis la participation de la Bundeswehr à une offensive militaire qui vient de s’achever, où l’on a utilisé des blindés et des armes lourdes, Jung est désormais bien le seul à défendre son point de vue. Partout où des soldats sont amenés à ouvrir le feu ou à essuyer des tirs, il y a la guerre, du moins pour ceux qui conservent le sens commun. Et même si de tels combats sont baptisés “mission de paix” dans le nouveau langage euphémisant de la communication. Jung ne parle pas de guerre pour des raisons qui touchent au droit des gens: en effet, s’il s’agissait d’une “guerre”, on devrait accorder aux talibans le “statut de combattant”. Leurs activités deviendraient ipso facto des actes belliqueux légitimes.

 

Wolfgang Schneiderhan, le plus haut gradé des forces armées allemandes, parle, lui, un langage plus clair: il nous explique que nous trouvons impliqués dans un “conflit asymétrique” et qu’il entend dès lors parier pour un “effet de dissuasion”. Cependant Schneiderhan doit tout de même savoir qu’un “conflit asymétrique” possède toutes les caractéristiques d’une guerre, mais s’il s’agit d’une forme de guerre qui a peu de chose à voir avec ce que l’on entendait par “guerre” en Europe jusqu’à la fin du conflit Est/Ouest.

 

Notamment par l’impact des travaux du politologue berlinois Herfried Münkler, on commence de plus en plus souvent à définir ces guerres comme de “nouvelles guerres”; et Münkler entend par “nouvelles guerres” celles qui ont pour objet la maîtrise des ressources, celles qui cherchent à imposer une pacification ainsi que les guerres de destruction à motivation terroriste. Les deux premiers types de guerre ont pour exemples la guerre contre l’Irak de 2003 et la guerre du Kosovo de 1999. On pourrait aussi les nommer “guerres pour le Nouvel Ordre Mondial”: elles serviraient alors à consolider les “grands espaces” émergeants. Vu le coût exorbitant de ces guerres, elles ne pourraient plus être menées que par les Etats-Unis seuls ou uniquement dans des cas exceptionnels (par exemple une frappe militaire contre le programme atomique iranien?). La même règle vaudrait aussi pour les puissances régionales ou les autres puissances mondiales comme l’Inde, la Chine ou la Russie.

 

Si l’on compare ces guerres actuelles aux guerres d’antan, une chose saute aux yeux: à la place d’armées régulières, nous voyons désormais se manifester sur le terrain des acteurs très différents les uns des autres: cela va des forces d’intervention dûment dotées d’un mandat délivré par une organisation internationale aux terroristes, en passant par les firmes militaires privées comme la “Blackwater Security Consulting” ou par les “Warlords” (les seigneurs de la guerre), équipant et dirigeant leurs armées personnelles. Les meilleurs exemples que nous pourrions citer se trouvent aujourd’hui en Afrique: les guerres y sont menées généralement par des “guerriers” recrutés au hasard, dont bon nombre sont des “enfants-soldats”. Tous les experts sont d’accord pour dire que les guerres de ce type réduisent considérablement les difficultés pour accéder à l’état de parti belligérant, ce qui entraîne des conséquences de grande ampleur pour les Etats concernés: les armées privées échappent non seulement au contrôle de l’Etat, seule instance autorisée à user de violence, mais accélèrent le déclin de l’Etat et favorisent l’éclosion de la corruption et de la criminalité organisée. Conséquence: sur la carte du monde, on voit apparaître de plus en plus de zones “incontrôlées”.

 

Le mode même des “conflits asymétriques”, tels que les pratiquent les seigneurs de la guerre et les terroristes, frappent directement la population civile qui est consciemment impliquée dans les combats, en étant soit la cible d’attentats soit acteur dans les opérations logistiques. Dans une telle situation, un acquis du droit des gens en cas de guerre vient à disparaître: la distinction entre combattants et non combattants.

 

Mais il n’y a pas qu’à ce niveau-là que s’estompent les distinctions. L’envoi de forces internationales, qui ont pour mission de pacifier une région donnée, conduit à estomper la distinction entre “guerre” et “action de police”, entre le rôle d’une police et celui d’une armée, dans les régions en crise; d’un côté, la police est contrainte de garantir la sécurité intérieure avec  des moyens de plus en plus militarisés et, de l’autre, les forces armées mènent des guerres que les médias internationaux définissent par euphémisme comme des “missions de police”. Les Etats-Unis surtout font appel à des armées privées, composées de mercenaires, pour soutenir leur armée officielle; ces mercenaires, selon les critères du droit des gens, sont certes considérés comme des “combattants illégaux”, mais ils s’avèrent indispensables pour toute superpuissance interventionniste comme les Etats-Unis, vu la rapidité avec laquelle ils peuvent être envoyés sur le terrain.

 

La volonté d’intervention globale des Etats-Unis laisse augurer que les conflits contre les terroristes resteront longtemps encore à l’ordre du jour de la politique occidentale. Dans l’avenir, pour parler comme Carl Schmitt, la lutte anti-terroristes deviendra un “état d’exception permanent” à l’échelle du globe tout entier. En d’autres mots: nulle part dans le monde nous n’aurons ni véritable paix ni véritable guerre.

 

La situation se révèle encore plus grave parce que quasiment personne ne comprend les objectifs pour lesquels luttent les terroristes; dans le cas des talibans, c’est pour réétablir un Etat théocratique islamique. Ces objectifs apparaissent aux yeux de l’Occident irréalisables et c’est pourquoi le courage face à la mort de ces “criminels” (dixit Jung) irrite. D’après Münkler, c’est là qu’il faut percevoir une lacune dans “l’auto-affirmation politique de l’Occident”: les Etat de facture moderne, qui, de plus, présentent des taux de natalité insuffisants, sont des “sociétés post-héroïques” auquel se heurte le “potentiel d’héroïsme” de sociétés jeunes, héroïsme qui se justifie par des religiosités sotériologiques ou par le nationalisme. C’est la raison qui explique pourquoi, dans de tels conflits, les terroristes ou les insurgés gagnent la bataille, malgré l’utilisation par leurs adversaires des technologies militaires les plus avancées.

 

L’historien militaire israélien Martin van Creveld ne voit que deux pistes pour s’en sortir avec succès: le “massacre” délibéré, perpétré sans le moindre état d’âme, comme le perpétra le régime d’Assad à Hama contre les frères musulmans ou le renoncement aux armes lourdes, tout en acceptant la longue durée, comme l’avaient pratiqué les Britanniques en Irlande du Nord. Aucune de ces pistes n’est plus empruntable en Afghanistan aujourd’hui, si bien qu’il pourrait bien arriver ce que van Creveld  annonce depuis longtemps: une guerre d’usure, qui broie le moral des soldats, même les plus endurants. Ce serait là un avertissement bien fatidique pour tous les conflits à venir.

 

Michael WIESBERG.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°34/2009; trad. franç.: Robert Steuckers).

 

 

samedi, 08 août 2009

1979: Guerres secrètes au Moyent Orient

1979: Guerres secrètes au Moyen Orient

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L’incroyable année 1979 a vu se succéder des événements qui ont changé le cours de notre histoire : révolution iranienne, accords de Camp David, prise d’otages de La Mecque et de l’ambassade américaine à Téhéran, et enfin, invasion soviétique de l’Afghanistan… Voici comment, pendant cette période, la France a cru pouvoir manipuler l’ayatollah Khomeiny et prendre en Iran la place des Américains, comment le Mossad a organisé, en pleine révolution islamique, l’exode clandestin de dizaines de milliers de Juifs iraniens, et comment le royaume saoudien a fait appel au GIGN français pour libérer les lieux saints de l’islam occupés par des terroristes avec, à la clé, une récompense inattendue. On lève ici le voile sur les complicités occidentales qui ont permis au Pakistan, bien avant l’Iran, de mettre sur pied le premier programme nucléaire islamique et l’on découvre de quelle manière les services de renseignement saoudiens et pakistanais ont organisé les réseaux de financement et d’armement d’intégristes prêts à se retourner contre l’Occident. Les services secrets de tous bords – CIA, Sdece, Mossad… – et les présidents Carter et Giscard d’Estaing ont joué dans cette époque agitée un rôle crucial et parfois trouble, entraînant une série de réactions en chaîne. En quelques mois, le Moyen-Orient a basculé, et le monde entier avec lui, favorisant l’avènement d’un islamisme radical aujourd’hui florissant.

Yvonnick Denoël est éditeur et historien. Il a notamment publié Le livre noir de la CIA (Nouveau Monde éditions, 2007).

Disponible sur Amazon

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lundi, 27 juillet 2009

Le dilemme turc

Le dilemme turc

Ex: http://www.insolent.fr

mercredi, 08 juillet 2009

Renaissance ottomane

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Renaissance ottomane

 

Par Günther DESCHNER

 

Les ambitions d’Ankara d’adhérer à l’UE semblent déçues

 

La Turquie opte pour une politique étrangère “multidimensionnelle”

 

Le premier Ministre turc Recep Tayyip Erdogan a décidé de remodeler complètement son cabinet. C’était parfaitement prévisible après les pertes subies lors des élections régionales d’avril 2009. Mais il y a eu une surprise de taille: la nomination d’Ahmet Davutoglu au poste de ministre des affaires étrangères. En procédant à cette nomination, Erdogan a lancé un signal dont alliés, voisins et partenaires régionaux prendront dûment acte. Le professeur Davutoglu, qui n’a jamais auparavant exercé de mandat gouvernemental ni jamais fait partie du Parlement, était un conseiller du Premier Ministre en politique étrangère. Seuls les initiés pourront émettre des spéculations pour savoir s’il est bien l’homme qui a suggéré à Erdogan et à son parti, l’AKP islamo-conservateur, qui gouverne depuis 2002, les lignes directrices de la nouvelle politique étrangère turque.

 

Dans les décennies qui ont précédé Erdogan, la politique étrangère de la Turquie, membre de l’OTAN, s’était sagement alignée sur celle de Washington au Proche et au Moyen Orient. Dès le départ, l’AKP s’était efforcé d’améliorer les relations de la Turquie avec les pays arabes et musulmans de la région. La politique proche-orientale d’Ankara est ainsi devenue plus active, plus indépendante et surtout plus consciente de la place de la Turquie dans la région et son histoire. Signe patent de cette évolution, où la Turquie risque bel et bien, un jour, de se détacher complètement de l’Occident: le refus du parlement turc en 2003 de mettre son territoire à la disposition des troupes terrestres américaines à la veille de leur entrée en Irak.

 

Avec Davutoglu, que l’on considère comme l’architecte de cette “politique étrangère  multidimensionnelle” d’Erdogan, la Turquie possède désormais un ministre des affaires étrangères qui a réellement conçu, au cours de ces dernières années, une nouvelle ligne et l’a imposée, en tant que conseiller d’Erdogan. Après la neutralité de type “classique”, qui fut l’option turque pendant les premières décennies de la république kémaliste et moderniste, les Turcs ont eu une politique étrangère après 1945, qui fut entièrement tournée vers l’Ouest; aujourd’hui, nous assistons à l’émergence de la “politique étrangère multidimensionnelle” de Davutoglu. Celui-ci, âgé de 50 ans et géopolitologue averti, est l’auteur d’un ouvrage de géopolitique, intitulé “Profondeur stratégique”; d’après ce livre, la Turquie doit regagner la grande influence qu’elle a exercée au cours de son histoire dans sa propre région. En ultime instance, Davutoglu veut renouer avec la politique de l’Empire ottoman et faire de la Turquie actuelle, dans toutes les régions jadis soumises à l’emprise de la “Sublime Porte”, “un facteur ottoman avec d’autres moyens”. Les spécialistes de la Turquie estiment que la montée de Davutoglu au pouvoir est une conséquence directe de la détérioration des relations entre la Turquie et l’UE.

 

La Turquie va-t-elle se détacher de l’Occident?

 

Tant que l’actuel président turc Abdullah Gül était ministre des affaires étrangères, la Turquie avait misé entièrement sur un rapprochement avec l’UE. Mais au fur et à mesure que les hommes politiques les plus en vue de l’Europe ont dit, de manière tantôt implicite tantôt explicite, que la Turquie n’était pas la bienvenue dans l’UE, Davutoglu est devenu de plus en plus populaire et sa notion d’une politique étrangère indépendante au Proche Orient, dans le Caucase, dans la région de la Mer Caspienne et face à la Russie a séduit de nombreux esprits. Erdogan avait déjà envoyé Davutoglu comme émissaire lors de missions fort délicates en Syrie, en Iran et en Irak.

 

On se rappellera que Davutoglu avait servi d’intermédiaire et de modérateur lors de négociations entre Syriens et Israéliens. Cette mission fut couronnée de succès et saluée par l’Occident tout entier, du moins avec quelques réserves, mais celles-ci étaient minimes. Mais depuis le “clash” entre Erdogan et le Président israélien Shimon Peres à Davos, de plus en plus d’observateurs posent la question: la Turquie ne va-t-elle pas très bientôt se détacher de l’Occident?

 

Le monde s’était habitué à percevoir la Turquie, l’un des cinquante Etats majoritairement musulmans de la planète, comme un cas particulier: elle était le seul pays musulman membre de l’OTAN, elle menait des négociations avec l’UE en vue d’une adhésion, elle était une démocratie et entretenait des relations normales avec Israël. De même, on a toujours considéré que la Turquie constituait un “pont” entre l’Orient et l’Occident. Personne n’a modifié fondamentalement cette perception lorsqu’Erdogan et son AKP islamisant est arrivé au pouvoir en 2002, pour ne plus le quitter jusqu’à ce jour. Erdogan voyait son pays comme une puissance régionale, appelée à jouer un rôle plus prépondérant sur l’échiquier international. Il a forgé des liens plus étroits avec les pays arabes voisins, renforcé les rapports existants avec tous les Etats de la région, intensifié les relations avec l’Iran. Simultanément, Erdogan a réussi à maintenir de bonnes relations avec Israël. Cette politique d’équidistance, tout en recherchant un rôle plus prépondérant dans la région, a connu un succès rapide et remarquable.

 

Il me paraît intéressant de prendre acte des observations formulées par les experts ès-questions turques de la “Jamestown Foundation” de Washington. Ceux-ci constatent effectivement que des modifications profondes ont eu lieu en Turquie sur le plan des réflexes politiques. Ces modifications conduisent à un intérêt croissant pour les affaires régionales et un désintérêt, également croissant, pour tout ce qui concerne l’Occident. Le journal “Zaman”, proche de l’AKP, se félicite de ce changement général en matière de politique étrangère et le considère comme le principal acquis du gouvernement Erdogan.

 

La Turquie sent les pulsations de deux mondes

 

Ce sont surtout des évolutions sociales en Turquie même qui ont provoqué cette mutation en politique étrangère. Elles sont observables depuis longtemps déjà: les tensions en politique intérieure sont le résultat du défi lancé aux élites urbaines pro-occidentales regroupées autour des forces armées par une nouvelle bourgeoisie, une classe moyenne religieuse, qui aspire au pouvoir et a ses racines géographiques en Anatolie. C’est cette nouvelle classe moyenne que représente au Parlement turc l’AKP d’Erdogan. Cette tension conduit la Turquie à vivre une véritable crise d’identité. On a pu voir les effets de cette crise lors de la rude controverse qui a accompagné l’élection de l’islamiste Gül à la fonction de Président de la République ou lors des querelles à propos du voile islamique.

 

Lors d’un colloque en Allemagne, Davutoglu a déclaré, l’an passé, que la Turquie sentait les pulsations de deux mondes, le monde occidental et le monde islamique. Mais, pour lui, ajoutait-il, la Turquie est bien davantage qu’un pont entre l’Occident et le monde arabe. Il voit son pays dans le rôle d’une puissance régionale. En tant qu’Etat à la fois musulman et séculier, qui unit les valeurs de l’Islam et celles de la démocratie, la Turquie, affirme Davutoglu, est prédestinée à jouer le rôle d’une nation intermédiaire au Proche et au Moyen Orient. 

 

Günther DESCHNER.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°21/2009; trad. franç.: Robert Steuckers).

mardi, 07 juillet 2009

Brzezinski derrière les émeutes en Iran?

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Brzezinski derrière les émeutes en Iran?

 

 

Par Andrea FAIS

 

Le récent voyage d’Obama au Proche Orient eut, comme on le sait, un point culminant: son discours tenu en Egypte. Il a été bien mis en évidence par tous les médias du monde: la planète entière a été invitée à y voir un geste d’ouverture au monde musulman, sanctionnant du même coup l’idée d’une discontinuité par rapport au gouvernement Bush. Le temps est plutôt venu de créer indirectement des oppositions dans les pays non alignés sur la politique globale atlantiste, en soutenant les oppositions minoritaires ou historiques. Le pays le premier visé est bien entendu l’Iran des ayatollahs. Le processus a commencé: le Liban est déstabilisé, après les secousses provoquées par l’énorme coalition pro-occidentale qui a réussi à défaire les forces du Hizbollah. Les événements du Liban sont le prélude au projet de déstabiliser l’Iran, après la condamnation “morale” et verbale des résultats des élections récentes. Condamnation et premières effervescences qui suivent un bien étrange attentat, survenu il y a quelques jours dans le Nord de l’Iran et pour lequel trois séditieux ont déjà été condamnés à mort; ils appartenaient à une cellule fondamentaliste sunnite. 

 

Une opération médiatique habile et manipulatrice a bien implanté dans l’opinion publique, dans quasi toutes les têtes, partout sur notre planète, qu’Ahmadinedjad, président iranien selon la légitimité des urnes, était en recul, que la participation d’innombrables jeunes au scrutin avait certainement garanti la victoire du réformiste Moussavi. Rapidement, cette interprétation s’est révélée fausse: ni le haut taux de participation des Iraniens aux élections ni aucun sondage préalable ni aucune projection au début du dépouillement n’étaient là pour confirmer les proclamations délirantes des dissidents pro-occidentaux qui avaient annoncé leur victoire deux heures déjà avant la fermeture des bureaux de vote.

 

En 2007, Zbigniew Brzezinski, historien et stratège au service de la géopolitique américaine, avait tonné du haut de sa chaire lors d’un colloque de la Commission de la Défense du Sénat américain, en affirmant “qu’à l’évidence les promesses de satisfaire les requêtes (du gouvernement américain) n’avaient pas été tenues, ce qui permettrait de faire endosser à l’Iran la responsabilité de cet échec et, moyennant quelques provocations en Irak ou un attentat terroriste commis aux Etats-Unis mêmes, que l’on attribuerait à l’Iran, on pourrait atteindre un ‘point culminant’ autorisant une action militaire ‘défensive’ des Etats-Unis contre l’Iran”. Ces propos ont abasourdi bon nombre de participants à ce colloque.

 

De fait, ces propos légitimisent l’idée, pour le gouvernement américain, d’orchestrer un attentat, dont les effets seraient à son avantage. Il pourrait alors manipuler à l’envi les effets de cet attentat dans l’opinion publique, créant ainsi ex nihilo la “licéité” pour toute attaque éventuelle. Ce type de démarche n’est pas nouveau. En observant les agissements de Brzezinski au cours de ces dernières décennies, on se rappellera l’usage qu’il fit du faux dossier anglais visant à démontrer l’existence d’armes non conventionnelles dans l’Irak de Saddam Hussein. Les révélations quant à la fausseté de ce document avait déclenché un scandale et fragilisé le duo Blair/Bush. Il avait affirmé que “le Président était préoccupé du fait que s’il n’y avait pas en Irak d’armes de destruction massive, il aurait fallu inventer d’autres raisons pour justifier l’action guerrière”. Ces propos révèlent implicitement une pratique: celle de construire des “théorèmes ad hoc”. Et que ce genre de pratique n’est pas nouveau.

 

Brzezinski, Soros et Roathyn, agents premiers de la géo-économie et de la finance mondiale, sont aussi les principaux “sponsors” des campagnes qui ont porté Obama à la présidence, à la suite de scores “historiques”. Ces hommes bougent les pièces de l’échiquier international depuis des décennies. Après avoir créé Al Qaeda de toutes pièces pour nuire à l’Union Soviétique, après avoir financé le terrorisme des indépendantistes tchétchènes pour nuire à Poutine, après avoir organisé avec ses associés, dont quatre fils bien installés dans les arcanes de l’OTAN et des services de renseignements américains, les révolutions démocratiques, dites “orange”, en Ukraine et en Géorgie, le Polonais Brzezinski travaille à l’objectif final: la destruction de la République Islamique d’Iran.

 

Son livre de 1996, “Le grand échiquier”, avait paru, de prime abord, à la plupart des observateurs, comme un essai délirant sur la politique internationale, relevant de la pure fantaisie bien qu’il  ait été considéré comme cynique et impitoyable, dans la mesure où il esquissait un globe de plus en plus américano-centré. Dans son livre, Brzezinski indiquait sur la zone du “cordon eurasien” les points essentiels sur les plans stratégique et énergétique qui garantiraient, s’ils étaient maîtrisés, l’avenir du capitalisme et de ses pays-phares. Ce n’était nullement de la fantaisie: petit à petit, en peu d’années, l’esquisse initiale s’est révélée réalité. Le passage de la ficiton à la réalité épouvante les esprits par sa perfection géométrique. Aujourd’hui en Iran, il faut suivre avec toute la prudence nécessaire les manifestations d’une opposition clairement vaincue par les urnes et la situation “putschiste” qui pourrait en découle: Ahmadinedjad vient de lancer des accusations lourdes, mais légitimes, à l’endroit de la désinformation qui émane des services occidentaux, qui prétendent qu’il y a eu fraude électorale, ce qui est faux, parce qu’ils avaient déjà annoncé, deux mois à l’avance, la victoire de l’opposition sur base de sondages que les faits n’ont pas confirmés.

 

Les délégations de journalistes néerlandais et espagnols ont été expulsées d’Iran. Les manifestations ont été interdites. Malgré les résultats nettement en faveur du président sortant (plus de 60%), et confirmés comme tels, l’opinion publique mondiale émet encore critiques et doutes, alors qu’elle ne s’est jamais prononcée sur des élections dans des pays qui n’ont aucune institution démocratique, comme l’Arabie Saoudite ou l’Egypte. Ces pays-là n’en ont pas besoin, on ne leur tiendra jamais rigueur de ne pas en avoir: ils ont le privilège d’être des alliés des Etats-Unis. Pour mesurer l’hypocrisie médiatique, il suffit de constater qu’en Italie les critiques n’ont cessé de s’accumuler pour dénoncer le gouvernement de Téhéran et le “trucage” des élections qu’il aurait commis, alors qu’à Rome Khadafi se pavanait sur la scène en entendant les louanges de tous; il n’est pas un modèle de démocrate et sa gestion du pouvoir ne correspond certainement pas à la bonne gouvernance que veulent imposer les Etats-Unis au reste du monde, du moins en théorie. Mais, voilà, Khadafi s’est rapproché de l’Occident, au cours de ces dernières années, et adhère désormais aux principes de la “libre économie”.

 

On le voit: deux poids, deux mesures. Tandis qu’Ahmadinedjad se plaint devant les médias que des “forces extérieures” sont en train de créer un climat irréel de tensions, le “guide suprême” de la révolution islamique, l’ayatollah Ali Khamenei promet qu’une enquête approfondie aura lieu pour vérifier ce qu’il en est vraiment de la fraude électorale. Le candidat “libéral” évincé parle de manière de plus en plus incrédible de cette “fraude électorale”, alors qu’il n’a obtenu que 32% des voix. Jamais aucun  organe de presse, jamais aucune institution médiatique n’a évoqué une quelconque impartialité pendant le dépouillement, sauf lui-même, qui s’auto-proclamait vainqueur deux heures avant la fermeture des bureaux de vote, en plein déroulement du scrutin. 

 

Cette arrogance et cette prétention nous apparaissent bien suspectes: qui se cache derrière l’opposition pro-occidentale de Moussavi? Réponse facile: il suffit de tourner le regard vers l’Atlantique.

 

Andrea FAIS.

(aeticle paru dans le quotidien romain “Rinascita”, 17 juin 2009).

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lundi, 06 juillet 2009

Géopolitique du Moyen Orient: avec ou sans l'Iran?

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Entretien-éclair  avec Robert Steuckers

Quel avenir géopolitique pour le “Grand Moyen Orient”? Avec ou sans l’Iran?

 

Q.: Lors de vos récentes conférences à Lille, Genève et Metz, sur le fondamentalisme islamique et sur l’eurasisme (*), vous avez évoqué l’éventualité d’un changement d’alliance au sein du Grand Moyen Orient, avec un rapprochement entre l’Iran et les Etats-Unis? Rien ne semble pourtant confirmer cette hypothèse. Pourquoi dès lors en avoir parlé?

 

RS: Votre question va un peu vite en besogne. J’ai simplement cité deux ouvrages récents qui évoquent cette éventualité d’un rapprochement irano-américain. Il s’agit des livres de Trita Parsi (**) et de Robert Baer (***).

 

Pour Trita Parsi, les Etats-Unis n’ont cessé de parier sur Israël comme gendarme au Proche et au Moyen Orient. Les Israéliens entendent, dit-il, conserver cette position et ne veulent pas voir l’Iran les relayer ni même les seconder. Mais la position de l’Iran dans la région qui s’étend de l’Egypte au Pakistan et de l’ancienne Transoxiane à l’Arabie Saoudite est stratégiquement parlant bien plus intéressante que celle, marginale et réduite, d’Israël. L’Iran est le centre de la  région et, de surcroît, “les Etats-Unis pourraient bénéficier d’un Iran puissant qui servirait d’Etat-tampon contre toute percée chinoise en direction de l’Océan Indien et du bassin de la Caspienne, riche en ressources énergétiques” (p. 261). Parsi ajoute un argument de poids à sa démonstration: “le Moyen Orient est dépourvu d’une base géopolitique pour l’ordre fragile qui y règne” (p. 262) et “Washington a cherché  à établir un ordre qui entre en contradiction avec l’équilibre naturel en cherchant à contenir et à isoler l’Iran, l’un des pays les plus puissants de la région” (p. 262). Retour aux arguments de Nixon. 

 

Pour Robert Baer, l’Iran aurait “changé”. Il rejette la notion habituelle d’”Etat voyou” qu’on colle sur le râble du pouvoir iranien. Il souligne la stabilité de l’Iran et sa grande influence (ce qui reste tout de même relatif à mes yeux) sur son environnement géographique immédiat, surtout dans le Golfe, au Liban et aux confins de la Jordanie et de l’Egypte. Il reconnaît, en quelque sorte, les avantages naturels de la position géographique de l’Iran et l’incapacité subséquente des armées américaines à l’envahir et  à l’occuper durablement. Les Etats-Unis doivent donc changer de stratégie à son égard et pratiquer à nouveau la politique pro-iranienne du temps d’Eisenhower ou celle préconisée par Nixon. Dans sa conclusion, il écrit: “Les Iraniens ont montré une meilleure aptitude à créer de l’ordre à partir du chaos que qui que ce soit  d’autre  au Moyen Orient. Ils possèdent les troupes suffisantes pour occuper l’Irak. Alors pourquoi ne pas les laisser assumer avec nous le coût de l’occupation? Céder une partie de l’Irak à l’Iran  serait un cauchemar pour les Arabes du Golfe. Mais laisser le chaos et les dissensions religieuses irakiennes traverser les frontières serait bien plus dommageable” (p.  357).

 

Je pense qu’il faut effectivement replacer ces deux argumentaires, qui prennent apparemment le contre-pied diamétral du discours médiatique dominant, dans le contexte actuel, en pleine effervescence, du Grand Moyen Orient. Il faut d’abord se rappeler en permanence qu’Obama, lors de son voyage en Turquie, a repris la politique turque que Clinton avait in illud tempore suggérée à un Özal enthousiaste mais que les néo-conservateurs républicains avaient plus ou moins abandonnée, en focalisant toute leur politique étrangère sur l’Afghanistan, pour le futur tracé des oléoducs et gazoducs vers l’Océan Indien, et sur l’Irak, pour le pétrole brut. Derrière la nouvelle équipe d’Obama, on assiste aussi au retour discret, dans les coulisses, de Zbigniew Brzezinski, le théoricien des interventions stratégiques en Asie centrale, sur la “Terre du Milieu”, et l’artisan de l’alliance entre les Etats-Unis et les fondamentalistes wahhabites dès l’entrée des troupes soviétiques en Afghanistan en décembre 1979. Brzezinski a ainsi été le fossoyeur de la défunte Union Soviétique. Dans ses spéculations stratégiques et réflexions historiques, Brzezinski avait tour à tour réfléchi aux potentialités d’un panislamisme ou d’un pantouranisme (ou la Turquie avait un rôle à jouer). Mais la Turquie a le sens de l’Etat, hérité du kémalisme, de la tradition ottomane et, via les Phanariotes chrétiens qui s’étaient mis au service de la “Sublime Porte”, de Byzance. Si elle intervient en Asie centrale, même comme simple “proxy” des Etats-Unis, la Turquie risque d’y introduire une logique impériale qui, à terme, y serait tout aussi dangereuse pour Washington que l’impérialité russe. Brzezinski a alors spéculé sur la “logique nomade mongole”, celle de Tamerlan (ou Timour Leng), qui détruisit les empires périphériques sans construire des structures impériales durables. Washington a rêvé d’un nouveau “tamerlanisme”, ni russe ni turc ni iranien, en Asie centrale afin qu’une dynamique toujours effervescente et éphémère s’y installe, permettant, grâce au désordre permanent qu’elle génèrerait, toutes les manoeuvres américaines.

 

Le retour de la carte turque dans le jeu américain, qui n’est toutefois pas assuré, n’implique plus aucun pantouranisme, me semble-t-il, car l’espoir d’utiliser la Turquie comme Cheval de Troie en direction des zones turcophones de l’Asie anciennement soviétique, s’est évanoui face aux faits. L’Asie centrale demeure plus liée à Moscou qu’au reste du monde et participe au groupe de Shanghai, Turkmenistan excepté. Bush II n’avait d’ailleurs pas joué la carte pantouranienne, selon les premiers écrits de Brzezinski. L’équipe néo-conservatrice préférait parler du “Grand Moyen Orient” et ne réservait dans ce jeu aucune procuration particulière et intéressante à la Turquie, qui, du coup, s’est rébiffée, a cultivé un néo-nationalisme anti-américain et glissé vers une forme particulière d’islamisme avec Erdogan. C’est sans nul doute ces “glissements”, peu conformes aux principes de l’alliance turco-américaine, qu’Obama cherche à enrayer en renouant avec l’ancienne politique de Clinton dans la région et en donnant aux Turcs, par la même occasion, un rôle important à jouer dans la stratégie globale des Etats-Unis, surtout en mer Noire et dans le Caucase. Mais, mise à part une promesse d’adhésion à l’UE, permettant de déverser le trop-plein démographique turc dans une Europe minée par le déficit des naissances, on ne voit pas très bien quel rôle plus offensif et plus constructif du point de vue géopolitique turc Obama peut offrir à Ankara: pas question, semble-t-il, de donner un feu vert à la Turquie dans le Kurdistan irakien, qui est aussi la région pétrolifère de Mossoul et Kirkouk. Les pétroliers texans n’admettraient pas de partager le pactole d’hydrocarbures de cette région, déjà arrachée à la Turquie au lendemain de la première guerre mondiale. De plus, une Turquie riche du pétrole de Mossoul, serait plus indépendante de l’Occident et de l’UE et pourrait forger des alliances à sa guise, qui n’iraient pas toujours dans le sens voulu par Washington. 

 

L’espoir de générer un “mongolisme volatile”, violent et guerrier mais éphémère, en Asie centrale, n’a pas eu de traduction dans la réalité. Cette Asie centrale, cette “Terre du Milieu”, est stable dans le cadre du Groupe de Shanghai, élargi aux observateurs indiens, pakistanais et iraniens depuis 2005, sans que les Etats-Unis y aient été conviés. Le groupe de Shanghaï constitue un bloc eurasien qui suit la grande leçon de Carl Schmitt, elle-même dérivée de la fameuse Doctrine de Monroe: pas d’ingérence d’une puissance étrangère à l’espace eurasien dans ce même espace eurasien. Mais les acquis du Groupe de Shanghaï ne doivent pas nous aveugler ni générer en nos esprits un optimisme trop délirant: la “Terre du Milieu” a certes retrouvé une cohérence, représente une masse démographique de 2,8 milliards d’hommes, mais, en lisière, le chaos règne sur les “rimlands”, seuls territoires capables de donner à la “Terre du Milieu” un poumon extérieur et des fenêtres parfaitement exploitables donnant sur les grands océans de la planète. La Chine demeure en voie d’encerclement et tente d’y échapper, notamment en tablant sur le Myanmar (Birmanie) qui lui offre un accès au Golfe du Bengale. L’Inde garde un contentieux avec la Chine et refusera toujours de déchoir au rang de “périphérie” de l’Empire du Milieu, sentiment que Washington tente d’exploiter pour disloquer les anciennes solidarités de l’Inde avec la Russie, désormais alliée à la Chine au sein du Groupe de Shanghaï.

 

En attendant, le chaos total règne en Irak, en Afghanistan et au Pakistan. D’après les responsables du Parti Baath irakien, tous les maux qui frappent l’Irak, les dissensus inter-confessionnels, la présence d’Al-Qaïda, sont des importations, des fruits de l’occupation américaine. Aucun de ces phénomènes n’existaient avant l’entrée de la coalition rameutée par Bush II en 2003. A croire que ce chaos est entretenu à dessein! Quant au Pakistan, il a soutenu, formé et fourni en matériels et bases arrières les mudjahiddins puis les talibans, en espérant annexer l’Afghanistan et se donner ainsi une profondeur territoriale face à l’Inde, son ennemie héréditaire. Il sombre désormais dans le chaos et les “zones tribales”, le long de sa frontière avec l’Afghanistan, échappent à sa souveraineté, ce qui réduit cette fois la profondeur territoriale initiale du Pakistan lui-même. Les tâches entre la Mésopotamie et l’Indus s’accumulent pour l’hegemon américain au risque, semble-t-il, d’absorber toutes ses énergies, à moins qu’une analyse moins superficielle et plus subtile ne finisse par admettre que l’organisation du chaos total fait partie d’une stratégie diabolique: mettre pour longtemps à feu et à sang le rimland, y créer des conflictualités durables pour éviter sur le très long terme leur absorption naturelle et sereine par les puissances impériales détentrices de la “Terre du Milieu”. Dans un tel scénario, les Etats-Unis garderaient la mainmise sur l’Océan Indien, “Océan du Milieu”, en arbitrant habilement la rivalité Inde/Chine qui y pointe.

 

En dépit des démonstrations de Parsi et Baer, l’Iran, lui, demeure, dans l’optique imposée par l’hegemon américain, un “Etat voyou”, avec lequel personne n’a le droit d’entretenir des relations simples ou privilégiées, sous peine de mesures de rétorsion. C’est bien sûr l’option stratégique que contestent, chacun à leur manière, Parsi et Baer, en suggérant une autre politique vis-à-vis de Téhéran. Mais nous n’en sommes pas encore là. Un simple coup d’oeil sur la carte permet de constater que l’Iran est la pièce géographique centrale de cet espace stratégique que les Américains nomment le “Grand Moyen Orient” et qui correspond à l’USCENTCOM. Le “Grand Moyen Orient” constitue donc l’aire centrale du “Vieux Monde”: il a tout à la fois une dimension continentale et une dimension maritime; il relie les ressources de l’Asie centrale tellurique   —qui fut d’abord la périphérie septentrionale et régénératrice des empires iraniens de l’antiquité puis le glacis avancé de l’Empire russe et de l’URSS—  à la côte de l’Océan Indien. En ce sens, il est bien le “milieu du monde” et non plus simplement la “Terre du Milieu”, telle que l’avait théorisée Halford John Mackinder à partir de 1904. En paraphrasant ce dernier, on pourrait dire que “la puissance qui contrôle, directement ou indirectement, ce ‘milieu du monde’, contrôle le monde entier”.

 

Pour les Etats-Unis, c’est une question vitale: s’ils ne contrôlent pas ce ‘milieu du monde’ et les hydrocarbures (et accessoirement le “Cotton Belt” ouzbek) qu’il recèle, ils seront relégués dans leur “Nouveau Monde”, avec, en sus, une Amérique latine qui branle dans le manche. Cette “relégation” constituerait un recul définitif et une implosion à terme. Le chaos sur la moitié sud du “Grand Moyen Orient” fait office de verrou et attire l’attention de toutes les puissances eurasiennes qui, du coup, cherchent à l’effacer en priorité sans tenter outre mesure de “prendre la mer” ou d’entretenir des rapports plus privilégiés avec une Europe (endormie), une Afrique, dont la façade atlantique est convoitée par les Etats-Unis, ou une Amérique latine qui cherche la diversification. Le chaos sur le rimland, de la Palestine à l’Indus, sur le territoire même de l’Empire d’Alexandre, freine justement cette volonté générale de diversification des échanges qui est le volet concret d’une volonté de “multipolarité”, exprimée surtout par la Chine. Il est dès lors patent que la puissance qui cherche à être l’hegemon unipolaire tente tout ce qui est en son pouvoir pour retarder au maximum l’avènement d’une telle multipolarité; une fois de plus, nous voilà ramenés à l’oeuvre immortelle de Carl Schmitt: les puissances anglo-saxonnes, disait-il, sont des puissances “retardatrices” de l’histoire et, parfois, dans leur travail incessant de “retardement”, elles en deviennent les “accélératrices contre leur volonté” (“Beschleuniger wider Willen”). Car elles génèrent aux multiples niveaux globaux ou continentaux des réactions collectives, des antagonismes nouveaux qui, pour triompher, surmontent nécessairement des antagonismes anciens, de dimensions locales ou infra-continentales (“petites-nationalistes” disait Jean Thiriart).

 

“Etat voyou” à éliminer pour asseoir définitivement l’hégémonie américaine sur le “milieu du monde” ou nouvel allié potentiel pour arriver au même but, l’Iran reste important parce qu’il constitue l’aire géographique centrale de la région couverte par l’USCENTCOM. Mais si d’aventure les suggestions de Parsi et de Baer trouvaient quelques oreilles attentives chez les stratégistes du Pentagone, alors quelle latitude les Etats-Unis laisseraient-ils à un Iran qui serait subitement réhabilité? Le contentieux irano-américain depuis les crocs-en-jambe infligés au Shah dès la présidence de Kennedy jusqu’aux querelles de prestige avec Ahmadinedjad repose essentiellement sur deux faisceaux de motifs: 1) le nucléaire; 2) la puissance militaire. Les services américains ont fabriqué la révolution iranienne, à dominante fondamentaliste, parce qu’ils voyaient d’un mauvais oeil le Shah acheter des parts substantielles d’EURODIF, l’agence européenne du nucléaire. Un Iran fort de ses rentes pétrolières et indépendant sur le plan énergétique grâce au nucléaire aurait retrouvé la puissance perse d’antan. Inacceptable car alors le “milieu du monde” n’aurait jamais plus été digérable par l’hegemon américain. Quant à la puissance militaire iranienne potentielle, reposant certes sur de gros bataillons d’infanterie mais aussi sur une aviation performante et sur une marine dotée de capacités d’intervention dans le Golfe, elle aurait géné les Américains et leurs alliés de la rive arabe du Golfe. En effet, par sa masse même, elle aurait fait peser la balance de son côté. La politique réelle des Américains est d’empêcher le constitution et la consolidation d’armées puissantes dans la zone du “milieu du monde”, car elles créeraient, le cas échéant, un hégémonisme régional ou, pire pour les Américains, pourraient s’allier à une puissance impériale eurasienne et lui offrir une façade sur l’Océan Indien. Depuis 1978, l’objectif a donc été de neutraliser l’armée du Shah, d’affaiblir ensuite l’armée de la République Islamique en utilisant pour l’étriller celle de Saddam Hussein pendant huit longues années et, enfin, de détruire lors de la première Guerre du Golfe de 1991, l’armée irakienne victorieuse des Iraniens mais rudement malmenée. Briser les armées de ces pays équivaut à créer le chaos sur la portion du “rimland” qu’ils occupent. Réhabiliter l’Iran, comme le voudraient Parsi et Baer, reviendrait à remettre en selle la doctrine Nixon d’un Iran allié aux Etats-Unis et hissé au rang de gendarme de la région. Mais ce retour à la doctrine Nixon serait simultanément la négation de toutes les autres politiques suivies depuis Kennedy et Carter, dans un but précis: affaiblir le pays pour qu’il ne retrouve plus jamais sa vocation impériale antique, sous quelque signe que ce soit.

 

La création et l’entretien de ce chaos relèvent forcément d’une stratégie globale, dont l’un des leviers est le fondamentalisme musulman. En effet, ni le Shah ni Saddam Hussein ne toléraient, sur les territoires où s’exerçait leur souveraineté, l’éclosion de réseaux de cette obédience: c’est là un fait historique patent qui nous permet d’affirmer que tous ceux qui, dans les milieux politiques non conformistes, chantent les louanges de l’un ou l’autre de ces fondamentalismes générateurs de chaos, ou leur apportent un soutien quelconque, font le jeu de Washington, car Washington a créé ce fondamentalisme pour installer un chaos permanent qui va uniquement dans le sens des intérêts américains.

 

Cette volonté d’assurer une hégémonie par le truchement d’un chaos permanent démontre bien clairement que les Etats-Unis agissent là comme une puissance foncièrement étrangère à l’espace eurasien ou grand-moyen-oriental. Ce chaos, et les cortèges d’horreurs qu’il entraîne, n’émeuvent pas l’Amérique outre mesure: la barrière des océans la sépare de ces aires de convulsions qu’elle a contribué à créer. Tous les débordements territoriaux éventuels de ces effroyables dissensus n’affecterait que des puissances tierces et limitrophes du “Vieux Monde”. De ce fait, seules des puissances effectivement étrangères à l’espace artificiellement “chaotisé” peuvent appliquer une telle stratégie. Mais celle-ci trahit une absence totale d’empathie que n’aurait pas un voisin, fût-il l’ennemi héréditaire le plus ancien et le plus tenace. Car tout voisin peut subir à terme les retombées d’un chaos indéfini qui sévit à ses portes. La puissance étrangère à l’espace délibérément “chaotisé”, elle, n’a pas ce souci. Les effets du chaos ne se ressentent pas sur son territoire.

 

Pour revenir aux événements d’Iran, postérieurs à mes conférences de Lille, Genève et Metz, les  agences médiatiques internationales, téléguidées depuis Washington, ont tenté de déstabiliser Ahmadinedjad à la suite des récentes élections iraniennes. Elles évoquent une “fraude électorale” au détriment du candidat de l’opposition, Moussavi. La tentative de générer à Téhéran une “révolution orange”, sur le modèle ukrainien de fin 2004, avait sans doute pour but de créer un Iran “acceptable” et d’appliquer à cet “Etat rénové”, ayant derechef perdu son statut de “voyou”, la politique préconisée par Parsi et Baer. Cette nouvelle politique pro-iranienne de Washington ne peut aller dans le sens des voisins de l’Iran: ni l’Arabie Saoudite, sunnite et wahhabite et ennemie jurée du chiisme duodécimain iranien, ni la Russie qui y verrait une menace sur l’emprise qu’elle conserve sur les ex-républiques musulmanes et turcophones d’Asie centrale, ni la Chine qui y verrait effectivement un verrou pour ses désirs de projection pacifique vers l’Océan Indien. La logique eurasienne du Groupe de Changhai, consubstantiel à l’espace circum-iranien, se heurte ici, avec beaucoup de chances de triompher, à la logique interventionniste américaine, totalement étrangère à l’espace des rimlands et du coeur de l’Eurasie.

 

Et l’Europe dans tout ça, me demanderez-vous? Eh bien, l’Europe doit se projeter selon l’axe diagonal de Rotterdam à l’Inde et à l’Indonésie, axe de projection que nous avons préconisé dès le milieu des années 80, comme l’attestent plusieurs articles des revues “Vouloir” et “Orientations”, ainsi qu’une carte, dessinée par nos soins, imprimée dans le numéro 7 d’ “Orientations” (1986). Cette fois, non plus dans un rapport incertain avec une Russie communiste ou dans une attitude sceptique à l’égard de la logique binaire des blocs, mais dans un souci d’harmonie eurasienne, en accord avec la Russie, l’Inde, la Chine et le Japon. Cette projection diagonale a pour centre l’Iran. Nous revenons donc à l’essentiel de notre démonstration géopolitique, explicitée dans cet entretien.

 

 

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