jeudi, 30 janvier 2014
CYBER-SECURITY: NUOVA POLITICA EUROPEA
CYBER-SECURITY: NUOVA POLITICA EUROPEA
Caterina Gallo
Ex: http://www.eurasia-rivista.org
“Lo spazio cibernetico è sempre più il luogo della competizione strategica. La sua accessibilità a basso costo e la pervasività lo rendono il luogo ideale per la proliferazione di minacce vecchie e nuove.
Dalla militarizzazione all’attività di reti criminali, il cybermondo rischia di essere il luogo del caos assoluto, se non adeguatamente governato da regole condivise. Per gli operatori di intelligence la tutela della sicurezza nazionale dalle minacce cibernetiche è una nuova, importante sfida”. (1)
Tale è il quadro di riferimento nell’approccio a una realtà che, nello specifico campo della comunicazione, rappresenta il bing bang della cibernetica (2) volta a mutare i concetti di spazio e di tempo intesi come un dato rapporto tra soggetti, nonché tra soggetto e oggetto (3). E, a seguito dell’estendersi dello scandalo globale per i programmi di intercettazione della National Security Agency (Nsa) svelati dalla talpa Edward Snowden, a danno dei principali leader mondiali; sta prendendo sempre più piede la crescente diffusione di tecnologie e sistemi di comunicazione, sviluppo di attori non-statuali e redistribuzione del potere tra gli attori statuali, che hanno modificato il profilo delle “minacce e dei rischi” (4) con cui gli Stati devono confrontarsi. Nella medesima cornice e in coerenza con quanto sostenuto, si affaccia prepotentemente e con insistenza nello “scacchiere della globalizzazione” l’intelligence, assumendo un ruolo sempre più incisivo e determinante. Segnato da risvolti inquietanti, da tinte cupe e grigie: l’informazione è diventata il “cuore della sicurezza del Paese (5); partendo da questo principio, l’intelligence, tramite la raccolta di dati e conseguente analisi, partecipa attivamente alle risoluzioni complesse nel campo della sicurezza nazionale” (6). Concetto che ha subito nel tempo “alterazioni”, ma in particolare notevoli obiezioni, ampliandosi in direzione di una trasformazione: “da una sicurezza quasi esclusivamente di tipo militare e “Stato-centrica” a una sicurezza multidimensionale e non più connessa a minacce e rischi provenienti solamente da attori statuali” (7).
Di diverso avviso è il premier britannico David Cameron: “Se le cose stanno così, ha accusato il premier davanti al Parlamento di Londra, quanto è accaduto ha danneggiato la sicurezza nazionale. Sotto molti aspetti lo hanno ammesso quelli dello stesso Guardian, ha aggiunto, quando, su garbata richiesta del mio consigliere in materia e segretario di gabinetto (Jeremy Heywood), hanno distrutto la documentazione in loro possesso”. Pertanto, è fondamentale che l’intelligence si doti di rapporti e interagisca con l’esterno, con le risorse della società, anche se apparentemente sembra contrastare con il principio di riservatezza, che nel tempo ha subito una profonda evoluzione. Riservatezza intesa nel senso di garantire uno spazio di autonomia e di apertura verso altri soggetti che, intricati e coinvolti in una fitta rete di comunicazione, questi possano sentirsi liberi grazie alla protezione offerta dalla propria sfera privata. Nella società della comunicazione, il problema attuale non è solo di impedire l’acquisizione illegittima di informazioni personali, ma di impedire intrusioni legalizzate, ossia di controllare il flusso di informazioni sia in entrata che in uscita. Ciò è reso possibile mediante un controllo diretto che garantisca il processo di selezione delle informazioni: “proteggersi dall’invadenza dei messaggi che ci arrivano dall’esterno e che influenzano lo sviluppo della personalità” (8).
L’unico possibile argine per far sì che l’Europa si rafforzi in tal senso “è di poter giocare alla pari con i partner americani e avere più peso di fronte all’amministrazione americana”, questa la proposta di Viviane Reding, commissario Ue alla giustizia. E ha aggiunto: “Vorrei pertanto usare questa occasione per un maggiore servizio segreto di cooperazione tra gli Stati membri dell’Ue, in modo che possiamo parlare una comune voce forte con gli Stati Uniti; la Nsa ha bisogno di un contrappeso”. Nei suoi piani, l’obiettivo è di creare entro il 2020 un “European Intelligence Service” (Eis) tanto potente quanto il “National Security Agency” (agenzia d’intelligence istituita negli USA per potenziare la sicurezza nazionale, rafforzata successivamente a seguito dell’attacco delle torri gemelle, costituisce il più potente strumento di controllo mondiale delle telecomunicazioni), una sorta di CIA europea, che sia in grado di coordinare e sostituire i diversi servizi segreti dei 28 Stati membri.
Sebbene la maggioranza degli esperti russi sostiene che l’idea di Viviane Reding sia destinata a fallire, l’analista dell’Istituto di studi europei presso l’Accademia di scienze russa, Dmitry Danilov, ha affermato che “una serie di motivi mi fanno credere che non si potrà creare un sevizio o un’agenzia centralizzata all’interno dell’Unione Europea. Persino nel campo della cooperazione su questioni della difesa o della politica di sicurezza il progresso è molto lento”. A ragion veduta l’agente dei servizi russi Roman Romatchiov dichiara che “si tratta di una reazione allo spionaggio globale degli USA. L’Europa vuole prendere la rivincita. Per questo deve organizzare campagne sui mass media, lanciare delle idee per far credere ai cittadini europei che anche i loro governi si danno da fare”. A tal fine, un fondamentale campo di sfida per l’intelligence sarà quello della cyber security (9).
Capire la complessità di questa nuova dimensione della sicurezza e comprenderne l’impatto reale sugli interessi nazionali è il primo passo per realizzare una politica efficace di cyber security. Per tale ragione il centro di ricerca di Cyber Intelligence and Information Security (CIS) dell’Università Sapienza di Roma ha elaborato un documento di notevole importanza, il “2013 Italian Report on Cyber Security: Critical Infrastructure and Other Sensitive Sectors Readiness” (10), presentato ufficialmente il 9 dicembre 2013 in collaborazione con il Dipartimento Informazione per la Sicurezza (DIS), alla presenza del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alle Informazioni per la Sicurezza, Sen. Marco Minniti. Il Rapporto, realizzato da studiosi e ricercatori italiani, vuole essere un contributo accademico per accrescere e consolidare la comprensione e il dibattito nazionale su uno dei temi più caldi di rilevanza internazionale e che suscitano polemiche di portata mondiale, qual è lo stato dell’arte nella protezione, da attacchi cibernetici, delle infrastrutture critiche nazionali e dei settori economici sensibili.
La minaccia cibernetica, pur riguardando la dimensione del cyberspazio, risulta in grado di incidere su una pluralità di settori interconnessi quali: la sottrazione di dati a fini predatori, la violazione della proprietà intellettuale, il furto di identità, il proposito di danneggiare la funzionalità delle infrastrutture critiche o di manipolare informazioni al fine di delegittimare le istituzioni o favorire il proselitismo in rete, lo spionaggio vero e proprio con la sottrazione di informazioni privilegiate o segreti industriali, per alterare la concorrenza e favorire la superiorità strategica di un Paese.Per rispondere a tale inconveniente, l’attività informativa è stata orientata alla sicurezza delle reti telematiche e sistemi informatici delle aziende di rilevanza strategica (11), e quindi si è proceduto nel circoscrivere la minaccia proponendo soluzioni volte a garantire la sicurezza dei dati e ridurre i costi di gestione dei sistemi informatici, quali il cloud computing (12). A tal proposito, il 27 settembre 2012 la Commissione europea ha adottato una strategia denominata “Sfruttare il potenziale del cloud computing in Europa” (13). La strategia punta ad incrementare il ricorso alla “nuvola” in tutti i settori economici, il gruppo di esperti rappresenta un elemento chiave di questa strategia e degli sforzi della Commissione di promuovere il mercato unico digitale, già avviati nell’ambito di altre iniziative legislative, come la riforma UE sulla protezione dei dati (14).
Implicazioni
È molto difficile trarre conclusioni per una problematica in rapida evoluzione, tuttavia, alla luce di quanto esposto la cyber security diventa un aspetto importante che richiede di porre maggiore attenzione a livello politico-istituzionale, necessaria anche a livello internazionale. “Nel 2009 il vertice USA – UE ha per la prima volta riconosciuto la cyber security come sfida globale (non bilaterale, né regionale)” (15), segnalando nel contempo l’intento di: “rafforzare il (…) dialogo USA – UE per individuare e rendere prioritari i settori nei quali sia possibile intervenire congiuntamente per costruire un’infrastruttura che sia sicura, resistente e affidabile per il futuro”. (16) Tutto ciò ha reso necessaria una maggiore presa di coscienza dell’affidabilità da riporre nei confronti degli stakeholder (settore pubblico/governativo, settore privato/industria e società civile) preposti alla formulazione di politiche in tutti campi del settore cyber tra cui monitoraggio, investimenti, contromisure, armonizzazione terminologica e normativa.
Il settore privato impegnato nella ricerca e sviluppo delle ICT, un ruolo improntato nella consulenza, preparazione e attuazione delle procedure e protocolli in materia informatica; parte integrante di un’architettura strategica, incentrata nella protezione della sicurezza dello Stato. Quindi, si rende necessario fare un passo avanti al fine di prendere coscienza e capire quanto sta accadendo a livello di sicurezza informatica, “ossia che è proprio l’insieme dei dati e di conoscenza che fa di una nazione, innovativa e competitiva a livello mondiale, un sistema Paese che è diventato oggetto di attenzione malevola da parte di entità di difficile individuazione, ma non per questo meno pericolosi di avversari su un campo di battaglia concreto”. (17)
*Caterina Gallo laureata in Scienze delle Relazioni Internazionali all’Università degli Studi di Salerno
Note
(1) “Minacce alla sicurezza. Cyberspazio e nuove sfide”, G. Ansalone, Rivista italiana di intelligence, 3 – 2012.
(2) Il termine (etimologicamente derivante dal greco kubernetike (arte del governo del timoniere) è stato coniato dal matematico Norberto WIENER (La cibernetica trad. Di O Beghelli, Milano, 1953) la cui definizione quale “scienza del controllo e della comunicazione fra gli animali e le macchine” richiama appunto quell’attività di interazione che viene a stabilirsi tra più agenti in un medesimo contesto operativo.
(3) “Se telefono, radio, televisione, computer determinano un nuovo rapporto tra noi e i nostri simili, tra noi e le cose, tra le cose e noi, allora i mezzi di comunicazione ci plasmano qualsiasi sia lo scopo per cui le impeghiamo ed ancor prima che assegniamo ad essi uno scopo”, “Psiche e tecne. L’uomo nell’età della tecnica, U. Galimberti, Milano, pag. 633.
(4) In ambito intelligence, si intende generalmente per minaccia un fenomeno, una situazione e/o condotta potenzialmente lesivi della sicurezza nazionale. Può essere rappresentata dalle attività di Stati (nel qual caso include anche l’eventualità del ricorso allo strumento militare), di organizzazioni non statuali o di singoli individui. Oltreché per indicare la tassonomia degli agenti (individui e organizzazioni) e degli eventi (fenomeni e condotte) pericolosi per la sicurezza, il termine è impiegato in un’ accezione che si riferisce anche alla probabilità che tali eventi si verifichino. Nell’ambito dell’analisi controterrorismo, tale probabilità viene stimata sulla base di una valutazione tanto dell’intento dell’attore terroristico preso in esame quanto della sua capacità di tradurre tale intento offensivo in una concreta azione dannosa. In questa accezione, la minaccia costituisce una delle variabili in funzione delle quali è valutato il rischio. Con il termine rischio si intende un danno potenziale per la sicurezza nazionale che deriva da un evento (tanto intenzionale che accidentale) riconducibile ad una minaccia, dall’interazione di tale evento con le vulnerabilità del sistema Paese o di suoi settori e articolazioni e dai connessi effetti. Minaccia, vulnerabilità e impatto costituiscono, di conseguenza, le variabili principali in funzione delle quali viene valutata l’esistenza di un rischio e il relativo livello ai fini della sua gestione, ossia dell’adozione delle necessarie contromisure (tanto preventive che reattive). “Relazione sulla Politica dell’informazione per la sicurezza” Presidenza del Consiglio dei Ministri. Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica, 2011.
(5) “Con lo sviluppo dell’Information Technology si è venuto a creare un nuovo spazio, o se si preferisce una nuova dimensione spaziale nell’ambito della quale viene ad esplicarsi l’attività umana in tutte le sue manifestazioni e rispetto al quale il medium informatico costituisce un organo, vale a dire uno strumento di percezione e, al tempo stesso, di creazione dello spazio medesimo; costituito dalle interazioni che vengono a stabilirsi tra le intelligenze artificiali create per effetto dei sistemi informatici (il cui studio forma oggetto specifico della cibernetica) nonché dalle relazioni che vengono a stabilirsi all’interno di esso: ciò che si suole denominare: cyberspazio”. “La formazione di regole giuridiche per il cyberspazio”, V. De Rosa, Il diritto dell’informazione e dell’informatica, 2 – 2003, pp. 361 – 400.
(6) “Intelligence e sicurezza nazionale”, A. Politi, http://www.servizisegreti.eu/sicurezza-nazionale-ed-intelligence/.
(7) “Evoluzioni e prospettive future del diritto alla privacy e della libertà di informazione nel diritto europeo e comunitario” M. Carnevalini, La comunità internazionale, 4/2002, pp. 683 – 697.
(8) “Il Consiglio di sicurezza nazionale: esperienze internazionali e prospettive italiane”, Strategie di sicurezza nazionale, Istituto Italiano di Studi Strategici, C. Neri, dicembre 2012.
(9) “Sotto il profilo della collaborazione internazionale, più che in ogni altro settore la coopera ione con gli Organismi informativi degli altri Paesi sviluppati deve mirare a costruire veri e propri percorsi comuni e condivisi, nella piena consapevolezza che un attacco informatico può avere impatto transnazionale e intercontinentale e che la vulnerabilità di un singolo Paese può riflettersi sulla sicurezza globale”, “Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza”. Presidenza del Consiglio dei Ministri. Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica, 2009.
(10) “2013 Italian Cyber Security Report. Critical Infrastructure and Other Sensitive Sectors Readiness”, http://www.dis.uniroma1.it/~cis/media/CIS%20Resources/2013CIS-Report.pdf
(11) “Per meglio rispondere alle sfide sempre più incalzanti poste dalla minaccia cibernetica alcuni Stati si sono dotati di organismi di coordinamento nazionale costituendo un’entità centrale presso il vertice dell’Esecutivo. Tale è la situazione adottata nel Regno Unito, dove la struttura cui è affidato l’indirizzo strategico delle azioni in ambito governativo, denominata OCSIA (Office Of Cyber Security and Information Assurance), è istituita in seno al Cabinet Office; in Francia, dove l’Agence Nationale de la Sécurité des Systèmes d’Information (ANSSI) opera alle dirette dipendenze del Primo Ministro; negli USA,dove sebbene la responsabilità federale dell’azione di prevenzione e contrasto della minaccia cibernetica sia affidata al Dipartimento della Homeland Security (DHS), l’organismo di coordinamento, rappresentato dal Cybersecurity Coordinator è istituito e opera in seno al National Security Council, struttura di diretto supporto del Presidente in materia di sicurezza nazionale”, (“Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza”, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica, 2011.
(12) “Il cloud computing è un insieme di modelli di servizio che si sta diffondendo con grande rapidità tra imprese, pubbliche amministrazioni e cittadini perché incoraggia un utilizzo flessibile delle proprie risorse (infrastrutture e applicazioni) o di quelle messe a disposizione da un fornitore di servizi specializzato. L’innovazione e il successo delle cloud (le nuvole informatiche ) risiede nel fatto che, grazie alla raggiunta maturità delle tecnologie che ne costituiscono la base, tali risorse sono facilmente configurabili e accessibili via rete, e sono caratterizzate da particolare agilità di fruizione che, da una parte semplifica il dimensionamento iniziale dei sistemi e delle applicazioni mentre, dall’altra, permette di sostenere gradualmente lo sforzo di investimento richiesto per gli opportuni adeguamenti tecnologici e l’erogazione di nuovi servizi”, “Cloud computing: indicazioni per l’utilizzo consapevole dei servizi”, Garante per la protezione dei dati personali.
(13) “Sfruttare il potenziale del cloud computing in Europa – di cosa si tratta e che implicazioni ha per gli utenti?”, http://europa.eu/rapid/press-release_MEMO-12-713_it.htm.
(14) “LIBE Committee vote backs new EU data protection rules”, 22 ottobre 2013, http://europa.eu/rapid/press-release_MEMO-13-923_en.htm.
(15) “Osservatorio di politica internazionale. Cybersecurity: Europa e Italia”, n. 32 maggio 2011, Istituto Affari Internazionali
(16) “3 novembre 2009 EU-US Summit declaration”, http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/docs/pressdata/en/er/110929.pdf
(17) “Soggetti e ambiti della minaccia cibernetica: dal sistema- paese alle proposte di cyber governante?”, G. Tappero Merlo, La Comunità internazionale, 1/2012, pp. 25 – 53
Fonti
http://euobserver.com/justice/121979;
http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/europe/eu/10425418/Brussels-demands-EU-intelligence-service-to-spy-on-US.html;
http://italian.ruvr.ru/2013_12_24/L-Europa-vuole-una-propria-CIA/
http://news.supermoney.eu/politica/2013/11/datagate-cortina-fumogena-o-danneggiamento-ai-sistemi-di-sicurezza-degli-stati-controllati-0039939.html
http://www.servizisegreti.eu/sicurezza-nazionale-ed-intelligence/
00:05 Publié dans Actualité, Affaires européennes | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : cyber-sécurité, cyber-security, europe, affaires européennes, politique internationale, espionnage, nsa | | del.icio.us | | Digg | Facebook
Do “Colour Revolutions” Happen Spontaneously?
Do “Colour Revolutions” Happen Spontaneously?
These questions are posed by columnists following the emergence and development of “colour revolutions” in other world regions, particularly the events in Ukraine, which have seen a resurgence in recent times. Experts are especially perplexed by the actions of EU and U.S. politicians, calling the Ukrainian opposition to greater action against the country’s legally elected government – with whom, incidentally, the EU and the U.S. foster diplomatic relations, as officially attested to by those currently in power in Kiev. The matter is not only limited to calls by U.S. Senator John McCain & Company to change out the current Ukrainian regime, however; it extends also to organized financial support of individual opposition “leaders”, to whom residency is undoubtedly offered in the U.S. or countries of the EU “for revolutionary services”. A prime example of this is the Ukrainian opposition “leader” Klitschko, who has received residency in the U.S. and Germany.
Within this context, conclusions drawn by experts of the highly respected French Centre for Research on Intelligence (CF2R) may prove especially interesting: conclusions on whether “colour revolutions” are spontaneous or could be the result of coordinated operations.
The French experts believe that revolutionary reform activists in countries of Eastern Europe as well as the Arab world – in particular the April 6th Youth Movement which ousted Egyptian president Hosni Mubarak – and even South America were educated through seminars on “nonviolent revolution” strategy, held in Serbia by the famous organization, CANVAS (Centre for Applied Nonviolent Action and Strategies), which was born in 2001 of the Serbian political entity Otpor!, becoming a training centre for “nonviolent action” after the felling of Slobodan Milosevic’s regime.
CF2R experts tracked the activities of CANVAS “advisors” preparing for Georgia’s Rose Revolution and the Orange Revolution in Ukraine, as well as their close ties with the Belorussian organization Zubr (“Bison”), founded in 2001 with the goal of toppling the regime of Alexander Lukashenko. They also discovered CANVAS ties with the Venezuelan opposition.
During the winter of 2011 flags with CANVAS emblems, inherited from Otpor!, were waved by Egyptian students of the April 6th Youth Movement, playing an active role in the demonstrations on the streets of Cairo.
CF2R paid particular attention to CANVAS’s claimed funding sources, as activities of this structure require substantial financial support. In the words of CANVAS director Srda Popovic, the organization operates “exclusively on private donations”. Authors of the study, however, paint quite a different picture. According to informed French sources two American organizations actively finance CANVAS – the International Republican Institute (IRI) and Freedom House.
The International Republican Institute is a political organization associated with the U.S. Republican Party, founded in 1983 following American President Ronald Reagan’s speech before the British Parliament in Westminster, where he offered political parties and organizations abroad aid in creating “infrastructures for democracy”. It is well known that the IRI is financed by the U.S. government (in particular, through the State Department, the Agency for International Development – USAID – and the National Endowment for Democracy). Its activities include “providing broad assistance to political parties and training their activists”.
The French experts, however, clearly indicate that the International Republican Institute is, in fact, nothing more than a screen for the CIA. Under these circumstances it is worth noting that the famous activist of the Euro Maidan in Kiev, U.S. Senator John McCain, is not only a representative of the U.S. Republican Party, but also a champion of the IRI. On the basis of this information questions as to who may be guiding his actions are answered in and of themselves.
As far as Freedom House, its main activity is the “export of American values”. This Non-Government Organization was founded in 1941 and conducts research on the status of political and civil liberties in various countries. Between 60 and 80 percent of its budget is made up of grants from the U.S. government (mainly the State Department and USAID). Until 2005 its director was former CIA head James Woolsey, which, according to the opinion of CF2R experts, clearly indicates U.S. intelligence involvement with Freedom House activities. A highly remarkable fact, established by the French, is Freedom House’s invitation to famous Egyptian blogger Israa Abdel Fattah, co-founder of the April 6th Youth Movement, to attend an event held by the organization. There, she underwent training in a program for “political and social reformers”. All activities were funded by USAID.
The financial participation of the IRI and Freedom House, as well as that of the U.S. Special Forces hidden behind them, can be traced in “revolutionary activities” not only in Egypt, but also in Tunisia, Libya, Syria and other States in the Middle East region.
As noted by the French, it is extremely difficult under these conditions not to notice the U.S. role and American manipulation of events in the Middle East in recent years, even with the lack of direct references to such activities on the part of the Obama administration. Even more surprising is the fact that the Western press has been and continues to be highly discreet on this issue (with rare exceptions) and is silent about the relationship between current events in the Arab world and US “advisors”. “Even individuals who are usually forthcoming with ‘conspiracy theories’ are strangely silent”, remark the French experts.
Given that the activities of the IRI, Freedom House, USAID and other organizations heavily used by Washington in “political reforms” continue to be carried out (and not only in the Middle East), we can hardly expect a quick decline of “revolutionary” movements in the world, including those in the Middle East, Ukraine and elsewhere.
Vladimir Platov, Middle East expert, exclusively for the online magazine “New Eastern Outlook”.
00:05 Publié dans Actualité, Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : révolutions colorées, europe, affaires européennes, politique internationale, géopolitique, ukraine, kirghizistan, serbie, géorgie, caucase | | del.icio.us | | Digg | Facebook
Thaïlande: une révolte contre l’emprise américaine
Bernhard TOMASCHITZ:
Thaïlande: une révolte contre l’emprise américaine
Les désordres qui secouent la Thaïlande sont une révolte contre un gouvernement inféodé aux Etats-Unis qui galvaude le patrimoine national en privatisant les ressources
La capitale thaïlandaise, Bangkok, n’est plus le lieu idyllique que s’imaginent les vacanciers occidentaux. Les batailles de rue se succèdent entre les partisans du gouvernement de la ministre-présidente Yingluck Shinawatra, reconnaissables à leurs chemises rouges, et les opposants à ce gouvernement, généralement vêtus de chemises jaunes. Cinq personnes ont trouvé la mort jusqu’ici. La situation n’est pas prête à se calmer: le chef de l’opposition, Suthep Thaugsuban est fermement décidé à renverser Yingluck Shinawatra, qu’il considère comme une marionette de son frère Thaksin Shinawatra.
Le déclencheur de cette vague de protestations a été une loi d’amnistie fabriquée pour absoudre Thaksin Shinawatra, l’ancien premier ministre thaïlandais, qui vit en exil depuis qu’il a été renversé par les militaires en septembre 2006; en 2008, il a été condamné à la prison pour corruption. L’opposition revendique également de renationaliser le consortium thaïlandais du pétrole PTT. Ce consortium avait été privatisé peu après l’accession au pouvoir de Thaksin Shinawatra en février 2001. Le “Wall Street Journal” écrivait à l’époque: “Le premier ministre thaïlandais Thaksin Shinawatra a fait du processus de privatisation, longtemps bloqué, l’un de ses premiers objectifs économiques. Au cours des trois prochaines années, le gouvernement vendra les actions de 16 entreprises et agences nationales”.
Avant d’entamer sa carrière politique, Shinawatra avait été conseiller du Groupe Carlyle, une des plus grosses entreprises américaines de participation. Il a mis à profit ses expériences professionnelles quand il a commencé sa carrière politique, comme l’écrivait le journaliste Thanong Khantong en 2001 dans le journal thaïlandais en langue anglaise “Nation”: “En avril 1998, lorsque la Thaïlande se trouvait encore dans le marasme économique le plus profond, Thaksin Shinawatra a essayé d’utilser ses liens avec l’Amérique pour peaufiner son image politique, au moment où il fondait son parti le Thai Rak Thai”. Il a notamment invité l’ancien président américain George H. W. Bush et son ministre des affaires étrangères James Baker.
Les Américains ont rapidement reconnu l’importance que pouvait revêtir Shinawatra qui, pour sa part, a su se montrer reconnaissant. En 2003, la Thaïlande a envoyé un contingent de soldats pour perpétrer l’attaque contre l’Irak, contraire au droit des gens. Il a également entamé des pourparlers pour forger un accord de libre-échange entre les Etats-Unis et la Thaïlande. Shinawatra a ensuite tenté d’imposer les conditions de cet accord au pays, en contournant le parlement. Le coup des militaires a empêché la traduction dans la réalité de cet accord.
Celui-ci aurait d’abord profité aux Etats-Unis. Dans un rapport de la Maison Blanche, on peut lire que l’accord de libre-échange “aurait essentiellement profité aux fermiers américains, confrontés aux droits de douane thaïlandais qui, en moyenne, sont de 35% plus élevés que les restrictions extra-tarifaires”. Robert Zoellick, un faucon de l’écurie des néo-conservateurs, qui, à l’époque était le principal des négociateurs américains et est devenu ultérieurement président de la Banque Mondiale, fut l’homme qui força Bangkok à éliminer dans le domaine agricole, “les limitations injustifiables à l’endroit des nouvelles technologies américaines”. Cette formule désigne surtout les organismes génétiquement modifiés. D’après Ernest Bower, le président du “US-ASEAN Business Council”, le traité entre Washington et Bangkok devait constituer “un précédent et un préliminaire” à tous les accords de libre-échange à négocier entre les Etats-Unis et les pays d’Asie du Sud-Est disposant d’un fort secteur agricole. L’“US-ASEAN Business Council” est un lobby qui veut amplifier les relations économiques entre les Etats-Unis et l’association des pays du Sud-Est asiatique. Parmi les 500 entreprises américaines qui sont parties prenantes dans ces négociations, on compte Coca-Cola et Google mais aussi des industries de l’armement comme Lockheed Martin et Northrop Grumman.
L’“US-ASEAN Business Council” est demeuré actif en Thaïlande après la chute de Shinawatra. De concert avec d’autres fondations américaines influentes, comme Freedom House, le Council a soutenu des “mouvements démocratiques” thaïlandais comme l’UDD (“United Front for Democracy Against Dictatorship”). Une “Union for Thai Democracy” remercie le Council pour l’avoir soutenu dans une lettre du 26 avril 2011: “Nous avons eu l’occasion de rencontrer ‘Human Rights Watch’, le ‘National Democratic Institute’ [une officine dépendant des Démocrates américains] et l’‘US-ASEAN Business Council’. Nous avons discuté de nombreuses questions (...). Le monde sait désormais, à l’heure de la globalisation, que seule une véritable démocratie peut garantir la stabilité”.
L’intérêt des Américains était que le statu quo demeurât tel quel en Thaïlande. La re-nationalisation du géant pétrolier PTT, que réclame l’opposition actuelle, bouleverserait la situation économique: en effet, le consortium énergétique américain Chevron est l’actionnaire principal de PTT depuis la privatisation de cette entreprise du Sud-Est asiatique. Il faut aussi se rappeler que PTT dispose d’un bon réseau d’oléoducs et de gazoducs. Vu les réserves énergétiques thaïlandaises, ce réseau revêt une importance stratégique considérable. Selon un dossier établi par la CIA, la Thaïlande disposerait de réserves sûres de pétrole estimées à 442 millions de barils et des réserves de gaz équivalant à 8,8 milliards de m3”.
A tout cela s’ajoute la position géostratégique de la Thaïlande et surtout de la presqu’île de Kra, dont la largeur est d’à peine 44 km. Elle sépare l’Océan Indien du Golfe du Siam. La Chine, depuis longtemps, veut creuser un canal au beau milieu de cette presqu’île pour mettre un terme au fameux “dilemme de Malakka”: le détroit de Malakka, contrôlé par des puissances tierces, limite considérablement la marge de manoeuvre des Chinois dans cette zone maritime cruciale. Zhou Fangye, de l’Académie chinoise des sciences sociales, écrivait, fin novembre 2013, dans un journal appartenant à l’Etat chinois, “Global Times”, que le creusement d’un canal “résoudrait automatiquement le ‘dilemme de Malakka’ et permettrait d’éviter le goulot d’étranglement stratégique qui limite l’accès à l’Océan Indien de la puissance maritime chinoise”. A l’inverse, le politologue néo-conservateur américain Robert Kaplan considère que le projet d’un Canal de Kra, vu son importance géostratégique, est comparable au projet du Canal de Panama et “changerait l’équilibre en Asie au profit de la Chine”.
Bernhard TOMASCHITZ.
(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°50/2013, http://www.zurzeit.at ).
00:05 Publié dans Actualité, Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : politique internationale, actualité, géopolitique, thaïlande, asie, affaires asiatiques | | del.icio.us | | Digg | Facebook
mercredi, 29 janvier 2014
Visita próxima de Putin a Irán causa insomnio a EEUU
Al parecer, Moscú está a punto de terminar los preparativos para la visita del presidente ruso Vladímir Putin a Irán. En cualquier caso, según fuentes bien informadas rusas e iraníes, el viaje se realizará próximamente. Lo más probable es que tenga lugar una vez terminados los JJOO de invierno en Sochi, que se disputarán del 7 al 23 de febrero.
El “vector iraní” de la política rusa inquieta cada vez más a EEUU. Es evidente que Washington no desea que Rusia restablezca plenamente las relaciones económicas con Teherán y entre en competencia con las compañías norteamericanas. Irán comenzó, a partir del 20 de enero, a cumplir los acuerdos sobre la restricción de su programa nuclear. Y la Unión Europea y EEUU atenuaron, parcialmente, el régimen de sanciones contra Teherán.
En la víspera del comienzo de la Conferencia de Ginebra sobre Siria llegó a Moscú el titular de Exteriores de Irán, Javad Zarif, quien se reunió con su colega ruso Serguéi Lavrov y luego con el presidente Vladímir Putin.
Entonces debatieron no solo la solución siria, sino también los preparativos de la visita del dirigente ruso a Teherán. “Confiamos en verlo a Usted próximamente en Irán, expresó Zarif a Putin. En diciembre de 2013, en Teherán estuvo de visita el canciller Serguéi Lavrov.
Ya en el pasado, Rusia se “chamuscó” con las artimañas de Occidente que lo convenció a que apoyara las sanciones, ventajosas para la UE y EEUU, contra algunos países de la región. Así fue, por ejemplo, con Libia. Ahora, a todas luces, Moscú se propone actuar de forma preventiva, e intensificar el comercio con Irán mucho antes de que sean levantadas las sanciones occidentales.
En enero trascendió que Rusia está dispuesta a comenzar a comprar a Irán hasta quinientos mil barriles de petróleo al día. Es muy probable que se planee la firma de tal acuerdo durante la próxima visita. Los diplomáticos rusos, en respuesta a los reproches de parte de EEUU han señalado ya más de una vez que Moscú solo reconoce las sanciones del Consejo de Seguridad de la ONU contra Irán. Mientras que las sanciones unilaterales de EEUU por las compras de petróleo y las transacciones financieras con Irán no las considera vinculantes jurídicamente. Hace cerca de treinta y cuatro años que EEUU no tiene relaciones con Irán, desde el tiempo que fue ocupada su embajada en Teherán, en noviembre de 1979.
Moscú, como vecino y por el aporte hecho en la solución del “problema nuclear iraní”, tiene todas las razones para actuar con respecto a Irán sin fijarse en quien sea y de conformidad plena con sus intereses nacionales, señala Vladímir Nóvikov, analista del Instituto ruso de investigaciones estratégicas:
—En primer lugar, la mayor parte deltrabajo pesado del expediente nuclear iraní lo hizo Rusia. Además, en toda la última década de búsqueda de una solución, Rusia ha desempeñado el papel de mediador y “tranquilizador” principal para una y otra parte, léase Occidente e Irán. Porque nosotros no estamos interesados en el agravamiento de la situación junto a nuestras fronteras meridionales, no lejos del Cáucaso. Entendemos el papel de Irán en la región del Cáucaso y en Asia Central, en la región del Oriente Próximo. Las relaciones de buena vecindad con Irán son para nosotros de suma importancia.
La transacción petrolera prevista entre Moscú y Teherán ha originado una reacción no del todo adecuada de EEUU. El secretario del Tesoro, Jack Lew, sin nombrar a Moscú amenazó con medidas punitivas de su país contra toda compañía que intente obviar el embargo norteamericano contra Irán:
—Para las compañías líderes del mundo sería un error garrafal sobrevalorar el grado de apertura de Irán para los negocios. El plan unificado de medidas (del Sexteto de mediadores e Irán) prevé la atenuación de sanciones bien determinadas y limitadas. Toda la arquitectura de las sanciones petroleras y financieras se mantiene invariable. Toda compañía que sobrepase la raya y emprenda acciones que violen esas sanciones puede ser víctima de medidas punitivas y nosotros nos proponemos velar atentamente por el cumplimiento del régimen de las sanciones.
Pero, en Moscú están seguros de que si Rusia va a esperar, mientras EEUU y la UE levantan las sanciones iraníes, los socios occidentales alcanzarán a repartirse el mercado iraní. Teherán necesita finanzas, bienes y tecnologías. Y Moscú tiene justamente el dinero y las posibilidades de saciar el hambre tecnológica y de bienes de su vecino.
Toda la marcha de la Cumbre Económica de Davos revela que los cálculos de Rusia fueron acertados. Pues en la cita de Davos, que continúa ahora en Suiza, la exposición del presidente iraní Hasán Rouhaní fue seguida en una sala colmada de delegados de los grandes negocios de Europa y de EEUU. El mandatario iraní señaló que, con la atenuación de las sanciones, Teherán estaba dispuesto a entablar relaciones de cooperación con países occidentales. La agencia alemana DPA expresó que los empresarios europeos “habían empezado ya a sobarse las manos”, ilusionados con la apertura del mercado iraní.
Rouhaní se reunió incluso en Suiza no con políticos sino con jefes de corporaciones mundiales líderes del sector energético. Y los invitó a regresar a Irán e invertir capitales en su país. Poco menos que hicieron fila los titulares de la ENI, de Italia, de TOTAL, de Francia, y de la BP y Shell de Gran Bretaña.
El componente económico del levantamiento de las sanciones no es menos importante para Europa que para Irán. Según los cálculos más modestos de la cartera de Hacienda de EEUU, la “reapertura” de Irán abre un mercado para bienes y servicios, como mínimo, de sesenta a setenta mil millones de dólares, lo que significa a su vez decenas de miles de nuevas vacantes.
Alemania solamente, el socio comercial principal de Irán antes de las sanciones, confía en lograr en dos años, con su atenuación, elevar las exportaciones a Irán a los diez mil millones de euros, como el volumen de antes de las sanciones. Alemania exporta ya ahora a Irán mercancías no prohibidas por las sanciones. Pero, debido a que los bancos europeos no realizan operaciones con Teherán, por culpa de las sanciones, todo el comercio se lleva a cabo en dinero contante y sonante. Y con tales cuentas, los volúmenes del comercio no pueden superar un nivel determinado.
Incluso compañías estadounidenses, antes de los acuerdos de Ginebra, habían comenzado ya a enviar emisarios a Irán para sondear dónde era posible desplazar a los competidores europeos. Las compañías de EEUU se aprestan a exportar a Irán automóviles, equipos para la industria extractora de gas y petróleo, maquinarias, equipos para la construcción, artículos químicos y otros.
17:53 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : politique internationale, poutine, iran, russie, moyen orient, géopolitique, états-unis, diplomatie, diplomatie russe | | del.icio.us | | Digg | Facebook
LA DISPERSIONE DEI CENTRI DI POTERE E LA TRANSIZIONE ALL’APOLARITÀ
LA DISPERSIONE DEI CENTRI DI POTERE E LA TRANSIZIONE ALL’APOLARITÀ
Giovanni Caprara
Ex: http://www.eurasia-rivista.org
Gli equilibri globali del XXI secolo sono regolati da tre blocchi fra loro interrelati: Stati Uniti, Cina ed Unione Europea. Dal tramonto del bipolarismo, sancito dalla fine della guerra fredda dove USA ed URSS imperavano sul pianeta, le dinamiche economiche, politiche e militari europee ed asiatiche, hanno traghettato la società verso il multipolarismo. Una condizione più articolata e dai risvolti imprevedibili rispetto al periodo precedente. Gli attuali attori, molto probabilmente, saranno le superpotenze del futuro e questo potrebbe ingenerare la sfida di un mondo parallelo, ossia dei Paesi emergenti.
Il nuovo ordine è una diretta conseguenza della globalizzazione, con l’affermazione di economie un tempo deboli come quelle della Cina e dell’India. Le radicali differenze politiche, sociali e culturali, non sembrano consentire una integrazione coerente fra i Paesi emergenti e quelli dominanti, pertanto l’equilibrio dell’ordine mondiale non pare essere di semplice prevedibilità: al contrario la non facile coesistenza disperderà il potere in centri diversi. Le aree di influenza si allargheranno principalmente: all’Iran, all’Asia Centrale ed al Mar Cinese Meridionale e probabilmente, sarà la nascita del mondo apolare, ovvero l’incapacità dei Grandi a gestire la logica dell’economia e della politica.
Il 2014 è indicato dagli analisti come il momento di crescita dei cosiddetti BRICS, l’acronimo che unisce gli Stati di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, dove si svilupperanno i nuovi equilibri del pianeta in uno stadio di fluidità finanziaria, politica e militare. La crisi ha convinto gli investitori a tentare rendimenti migliori su mercati più difficili ma con cedole più alte, accrescendo le condizioni generali dei Paesi emergenti. Tale atteggiamento ha bilanciato il portafoglio a favore di queste aree sviluppandone le potenzialità. Nel 2014, gli esperti si attendono un consolidamento delle più importanti aziende dell’area BRICS.
Nell’ultimo decennio, l’incremento dell’economia planetaria ha dipeso per il 60% da questi cinque Paesi, modificando la geopolitica della produzione industriale. La controtendenza agli investimenti è l’inflazione e molti decisori dei mercati in via di sviluppo, stanno contrastando il fenomeno tentando di arginare l’uscita dei capitali dal proprio Paese. Il 2014 sarà interessato da una bassa valutazione dei rendimenti sul fronte obbligazionario nell’area BRICS e le valute più deboli si trasmuteranno in una nuova opportunità per gli investitori. In base ad un rapporto della Fitch Ratings, la crescita dei mercati in via di sviluppo sarà inferiore al previsto, ma superiore a quello delle economie avanzate. Il PIL cinese, nel 2014, ha una previsione di crescita pari al 7,5% e dovrebbe attestarsi al 7,0% nel 2015, l’area BRICS salirà dal 4,8% al 5,2% nello stesso biennio, dove gli Stati Uniti si fermeranno al 3,0%.
L’Europa rimarrà indietro con un previsionale fissato all’1,3% per tutto il 2015. Le riserve petrolifere africane sono il motore che sta conducendo l’economia del continente verso una maggiore consapevolezza; la Nigeria si è attestata come attore principale nelle dinamiche dell’Africa e quest’ultima nella globalità è seconda solo all’Asia. L’Economist ha stimato per il 2014 un incremento del prodotto interno lordo panafricano al 5,5%, dato che comprende anche il mancato sviluppo economico di Egitto, Libia e Tunisia.
Sulle economie forti, graverà la disoccupazione del ceto medio e se il settore di maggior crescita è quello elettronico, l’implementazione dell’intelligenza artificiale provocherà una ulteriore flessione occupazionale, almeno secondo un’indagine dell’Università di Oxford. In un prossimo futuro, è possibile un salto generazionale dell’interconnessione: la Intel ha anche previsto una diminuzione consistente del costo dei chip e ciò li renderà utilizzabili in qualsiasi settore ed anche a Nazioni non tecnologicamente avanzate, innalzando la possibilità di attacchi cibernetici. Ciò vuol dire l’intrusione nell’informazione e nei sistemi di comunicazione avversari, allo scopo di piratare o distruggere dati riservati. Il bruco Stuxnet, ha rappresentato una forte implementazione delle armi digitali, in quanto sembra che sia riuscito ad infettare 45.000 sistemi di controllo industriale della Siemens, agevolando gli incursori alla manipolazione dei processi tecnici degli impianti nucleari iraniani, benchè Stati Uniti ed Israele abbiano declinato qualsiasi responsabilità. Il mercato per migliorare le risorse informatiche, vale 10 milioni di dollari e tende allo sviluppo di strumenti adatti alla distruzione, interdizione, degradazione ed usurpazione delle reti di mappature, come precisato in un documento dell’USAF. Dunque la guerra cibernetica è definibile come un nuovo livello di scontro, dove l’arma più semplice può essere una chiavetta USB. Il conflitto asimmetrico dell’informatica è risultato essere una minaccia tecnologica e geopolitica, la quale potrebbe tendere al fallimento del governo globale, laddove la guerra cibernetica possa tramutarsi in un’arma per la disinformazione attraverso internet od anche a disposizione dei terroristi.
Tra gli altri, un conflitto virtuale è stato sofferto dalla Corea del Sud, dove furono presi di mira i bancomat ed i siti web e questo dimostra inequivocabilmente che la guerra cibernetica è estesa anche alle Aziende civili, trasformando di fatto il comparto finanziario e le imprese in un nuovo e più imprevedibile campo di battaglia. L’acquisizione forzosa di dati sensibili, vuole significare il trasferimento dei segreti di una Nazione, privandola di fatto della sua ricchezza tecnologica, a favore di elementi ostili. Pertanto, laddove uno Stato Emergente entrerà in possesso di informazioni utili al proprio sviluppo, automaticamente diverrà un nuovo centro di potere incoraggiando il processo di apolarità. Uno dei Paesi BRICS, la Cina, è stata accusata dagli Stati Uniti di aver perpetrato episodi inerenti alla pirateria informatica: tale addebito è stato mosso dall’azienda di sicurezza informatica Mandiant, che ha indicato come responsabile l’unità 61398 dell’Esercito popolare di liberazione, la quale è incaricata della Sigint del Paese, ossia della raccolta di informazioni attraverso l’intercettazione e l’analisi dei segnali trasmessi da potenze straniere. Per violare i computer si utilizzano IP di altri sistemi a loro volta piratati, detti hop points, e per identificare gli intrusi è necessario percorrere a ritroso i passaggi effettuati da quest’ultimi, sino ad individuare gli indirizzi cibernetici di origine. In questo caso, la provenienza venne accertata a Shanghai, proprio nella strada in cui ha base l’unità 61398.
A seguito di questi addebiti, la Cina ha formalmente accusato a sua volta gli Stati Uniti, i quali si sarebbero resi rei di aver violato 16 mila pagine web cinesi, di cui 2.000 governative. Dei 73 mila indirizzi IP rintracciati a ritroso dall’unità 61398, la maggior parte sono risultati essere statunitensi. Nel 2013, l’affermazione delle economie emergenti ha consacrato le obbligazioni in valuta locale, le quali sono state in linea con la crescita interna e le dinamiche dell’inflazione, i cui indicatori sono prevalentemente al ribasso. Nel 2014 questo ciclo si dovrebbe stabilizzare, con la probabile conseguenza di una competizione fra le banche centrali, al fine di creare liquidità per scongiurare la pressione della rivalutazione monetaria. L’OCSE prevede un futuro che vedrà la Cina assoluta protagonista sui mercati, con una proiezione tale da diventare la prima economia entro il 2016. Il tasso medio di crescita è stimato all’8%, con un piano di investimenti che dovrebbe interessare i settori immobiliari, agricoli, energia ed infrastrutture. La previsione su quest’ultime appare piuttosto scontata, in quanto sono carenti in tutte le Aree in via di sviluppo, pertanto possono facilmente essere identificate come incentivo ad investimenti remunerativi.
L’Europa è il maggior importatore dei prodotti cinesi che incide del 20% sul PIL regionale, ma la crisi economica ha ridotto il livello di acquisizione, pesando sulla proiezione del Governo Centrale, il quale, come detto, si è prefissato l’obiettivo di crescita al 7,5%, dunque in leggera controtendenza al previsionale dell’OCSE. Il punto debole dell’espansione finanziaria cinese è nell’allargamento della classe media urbana, dove alla consapevolezza del suo peso sociale, si contrappone l’ineguaglianza delle aree rurali, ancora poco sviluppate. L’incremento della domanda sul mercato interno è la possibile svolta per compensare queste differenze marcate, ma soprattutto per tenere costante il livello di crescita. Pertanto, sarebbe auspicabile una trasposizione ad un modello economico avanzato, dove l’esportazione non sia l’unica base per il benessere dei ceti sociali cinesi. L’apolarità sembra però fondare il suo inizio proprio in Europa, dove la storia e gli interessi contraddittori e divergenti rischiano di frammentarla: i Paesi nordici, rispettano le regole comunitarie al contrario di quelli del sud, bisognosi di aiuti economici. Potrebbe essere un momento di mancata solidarietà fra Nazioni appartenenti ad una stessa unione, forse incentivata dalla debolezza franco-tedesca, con il Presidente francese ed il Cancelliere tedesco divisi dalla fede politica. La diversità delle posizioni assunte sulla risoluzione della crisi siriana è una possibile indicazione della frammentazione europea, con la Francia allineata agli Stati Uniti, il non interventismo della Germania, la tattica di attesa britannica e l’auspicio italiano sulla risoluzione politica. Un segno di distensione, approvato anche dal Governo italiano, è nella proposta transalpina di una ritrovata integrazione europea basata sull’occupazione, sulla convergenza fiscale ed uno sforzo comune per accelerare la crescita, condizioni che se non dovessero avere un riscontro sul breve termine, potrebbero tornare ad ingenerare gli attriti.
Per alcuni analisti, l’apolarità è definibile come una paralisi del sistema, da addebitare ad una diminuzione generalizzata del potere in tutte le aree, dove nessun Paese sarà in grado di regolare le dinamiche politiche, economiche e militari a livello globale. Di fatto si genereranno tanti piccoli centri di valore strategico. Il numero dei Governi assunti a ruoli importanti sta aumentando ed a questi si aggiungono l’FMI, il WTO, organizzazioni private, istituzioni finanziarie e le multinazionali, tanti soggetti che pesano sul dinamismo internazionale. L’instabilità nel Pacifico e nel Mar Cinese con l’attrito fra Cina, Giappone, Corea del Nord ed USA, sono i nuovi focolai di destabilizzazione, responsabili anche del processo di apolarità, dunque alla incapacità delle superpotenze a tenere saldo il controllo sull’evoluzione della situazione. L’alternativa a questa futuribile condizione rimane la multipolarità, con gli Stati Uniti come attore protagonista, coadiuvati dalle Nazioni continentali con la geopolitica a substrato delle Relazioni internazionali. E’ auspicabile che siano i Paesi del BRICS, piuttosto che dell’Area degli Emergenti, ad indicare quali siano gli attori del sistema globale ed il ruolo che essi stessi intenderanno assumere negli equilibri internazionali.
Article printed from eurasia-rivista.org: http://www.eurasia-rivista.org
URL to article: http://www.eurasia-rivista.org/la-dispersione-dei-centri-di-potere-e-la-transizione-allapolarita/20737/
00:05 Publié dans Actualité, Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : politique internationale, apolarité, géopolitique | | del.icio.us | | Digg | Facebook
Crise ukrainienne : entretien avec Xavier Moreau
Crise ukrainienne : entretien avec Xavier Moreau
Les diplomaties américaine et allemande sont passées maîtresses dans l’art d’utiliser ces groupuscules (…)
00:05 Publié dans Actualité, Affaires européennes, Entretiens, Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : ukraine, europe, affaires européennes, entretien, politique internationale, russie, union européenne | | del.icio.us | | Digg | Facebook
mardi, 28 janvier 2014
CHI MANOVRA I “MODERNISTI ISLAMICI”?
CHI MANOVRA I “MODERNISTI ISLAMICI”?
Enrico Galoppini
Ex: http://www.eurasia-rivista.org
Per gentile concessione della rivista di studi afro-asiatici “Africana”, mettiamo a disposizione l’articolo di Enrico Galoppini Chi manovra i “modernisti islamici”? (XVII, 2012, pp. 141-148: http://www.giovanniarmillotta.it/africana/africana12.html [1]).
“Timbuctu è in mano agli integralisti islamici”: così titolavano giornali ed agenzie ai primi di luglio 2012, che riferivano di distruzioni di moschee e santuari da parte dei militanti di Ansâr ed-Dîn, i quali avevano preso il controllo della città santa del Mali.[1]
Qui non c’interessa entrare nel merito dello scontro tra questi e il governo, e tra i medesimi e i tuareg “laici”, fino a pochissimo tempo prima loro alleati. Ma una cosa va detta: senza l’eliminazione di Gheddafi, che non era affatto un “ateo”, questo pandemonio in Mali – che segue quello in atto in Libia, con protagonisti vittoriosi dalle analoghe ristrette vedute – non sarebbe stato possibile. Quindi se lo segnino bene tutti quelli che adesso piangono lacrime di coccodrillo, perché chi più chi meno hanno tutti lavorato per produrre questo capolavoro. E lasciamo pure perdere il fatto che Timbuctu è considerata “patrimonio mondiale dell’umanità” dall’Unesco, poiché l’importanza, il valore di una città, di un sito, e tanto meno di un luogo sacro, non viene certo data, come si vorrebbe far credere, dalla “certificazione” da parte di un’agenzia delle Nazioni Unite, che sappiamo per quali motivi sono state istituite: preparare il “governo unico mondiale” senza Dio, con tutte le conseguenze che ne derivano.
Detto questo, passiamo ad esaminare perché questi “fondamentalisti” infieriscono con particolare veemenza e furore su quei luoghi di culto islamici, e sottolineiamo islamici, che ospitano le spoglie di personaggi considerati “santi”, modelli di pietà e virtù dalla locale popolazione (e non solo), la quale – dopo averli seguiti finché erano in questo mondo – vi si reca in “visita” [2] per beneficiare della baraka che ne promana, delle sue “influenze spirituali” ed ottenere così una “intercessione” presso il Signore, e non certo per adorarli quali “dei”. [3]
Per prima cosa, al riguardo del “culto dei santi”, degli awliyâ’ [4] in Islam, vi è da dire che esso è completamente “islamico”, mentre tutti questi “modernisti”, “salafiti”, “wahhabiti” e chi più ne ha più ne metta lo ritengono “blasfemo”, da “idolatri”. La loro argomentazione principale è che per salvaguardare il principio del tawhîd (Unità ed Unicità divine: il Principio non può che essere uno e unico) bisogna evitare assolutamente tutto ciò che fa incorrere il musulmano nell’errore di “associazionismo” (shirk), ovvero quello di attribuire a Dio dei “pari”.
Ora, fin qui (la concezione “non duale”) siamo tutti d’accordo, tuttavia per ‘eccesso di zelo’ accade che questi calvinisti d’Arabia, a furia di togliere legittimità a tutto quel che può risultare un supporto, un sostegno intermedio, una ‘rampa di lancio’ per facilitare l’elevazione del credente sino al grado più alto, quello della Realizzazione spirituale appannaggio solo degli “eletti”, finiscono per fare completamente “terra bruciata” lasciando le persone, ancorché animate da buone intenzioni, alla mercé della cosa più pericolosa che esista: il proprio metro di giudizio [5].
I “modernisti”, infatti, da cui derivano i “salafiti”, i “takfiri” eccetera, ritengono che ciascuno, nel proprio cammino di “conoscenza” (realizzare intimamente, con “certezza assoluta”, che tutto è Dio e che Dio è ovunque) debba fare affidamento solo sul proprio sforzo; che ogni essere umano in fondo sia “il maestro di se stesso”. Tutt’al più riconoscono l’autorità di “sapienti” usciti da determinate scuole, tutti invariabilmente della loro ideologia. Ma guai a parlare di “santi”, di “realizzati”, di “maestri”: per loro non ne esistono, salvo poi prendersene di virtuali, “di carta”, televisivi, o peggio ancora su internet, e qui cade a pennello la selva di canali satellitari che rincitrulliscono chi crede che basti spaparanzarsi in poltrona a casa e sorbirsi il predicozzo di qualcheduno che “buca lo schermo” da uno studio televisivo per ritenere di avere una guida autorevole e, soprattutto, in contatto con le “entità” benefiche che abitano il “mondo dell’invisibile” (‘âlam al-ghayb).
Ora chiunque può comprendere che se si nega che vi possano essere uomini in grado di stabilire in vita, da quaggiù, una “connessione” di questo tipo, si nega implicitamente l’esistenza del “mondo dell’invisibile”, menzionato a chiare lettere dal Corano [6].
Per questi Savonarola dell’Islam, da dottrina completa e quindi vera nella misura in cui traduce in linguaggio intelligibile per gli uomini di un’epoca (quella del Kali Yuga) [7] i dati della metafisica (che per sua essenza è una), l’Islam si trasforma in “Islamismo”, in una “ideologia religiosa”. Un po’ come il Sionismo, che lungi dal rappresentare l’Ebraismo è nient’altro che una sua interpretazione ideologica che grazie all’azione concomitante di vari fattori ha preso completamente la scena al punto che sia i suoi fautori sia i suoi
detrattori lo identificano tout court con la tradizione ebraica. Con il moderno “fondamentalismo islamico” il discorso è analogo: si tratta né più né meno che di un’interpretazione ideologica dell’Islam, che ipso facto produce un’esiziale incomprensione di cosa sia davvero l’Islam, il quale diventa, agli occhi di chi non ne sa nulla (gli “occidentali”), comprensibilmente odioso e “barbaro” [8].
Siamo dunque di fronte ad una manifestazione di “riduzionismo”, ad una semplificazione risultante da una fondamentale incomprensione che, com’è tipico di chi ha compreso ben poco, si vuole imporre a tutti quanti. In pratica si riconosce che esiste la vetta della montagna e che bisogna arrivarci, ma sul percorso e, soprattutto, sul fatto che esistano delle “guide esperte”, si glissa allegramente. Si pensi un po’ a che fine farebbe uno sprovveduto ed improvvisato alpinista qualora decidesse di salire sulla vetta dell’Everest armato solo di cartine, diari di famosi scalatori e tutto il meglio dell’attrezzatura disponibile! Certo, alla fine ciascuno fa le ‘sue’ esperienze, ed in questo il suo viaggio è ‘unico’, diverso da quello degli altri, mentre lo sforzo profuso non è invano (non è la stessa cosa farsi portare lassù con un elicottero!), ma la meta è la stessa per tutti e da lassù si vede lo stesso panorama: si domina il mondo e si comprende che cosa è il “reale”. Questi “modernisti”, invece, convintisi che non è possibile raggiungere la vetta della montagna preferiscono divorare biblioteche intere di saggi ed enciclopedie sull’alpinismo e l’arrampicata, gareggiando a chi ne sa di più, ma guardiamoci bene dal prenderli come “guide” perché al primo crepaccio, senza alcuna esperienza, vi finirebbero dentro trascinandovi gli incauti compagni di cordata.
La ‘montagna’, poi, bisogna amarla, e non farne un argomento da “record”, come ha spiegato un’infinità di volte Reinhold Messner. L’analogia funziona anche qui: non si può sperare di ottenere “virtude e conoscenza” solo con la “testa”… Cosa resta dunque a chi fa della “conoscenza” solo una questione d’erudizione? Per di più brandendola come una scure all’indirizzo di “apostati” (kuffâr) di cui si ha bisogno come l’aria per fortificarsi nella convinzione d’avere sempre ragione? L’affidamento alle facoltà razionali.
Ne abbiamo una plastica rappresentazione nella questione della distruzione di una porta di un celebre mausoleo a Timbuctu, tenuta chiusa per decenni, o forse ancor di più. La tradizione locale riporta che l’apertura di quella porta sarebbe avvenuta solo “alla fine dei tempi”… Allora, gli aderenti a Ansâr ed-Dîn, in segno di sfida alla “creduloneria” locale, hanno abbattuto quella porta, e naturalmente non è successo “niente”… Al che avranno certamente gongolato pavoneggiandosi per questa vittoria sulla “superstizione”!
Essi, poveretti, non si rendono conto che il punto importante non che “non è successo nulla”. L’importante è invece che hanno sfondato quella porta, che hanno superato “il limite”. Così hanno, senza rendersene conto, “inverato la profezia”. Ma facendo affidamento sulle mere facoltà razionali dell’uomo – il che li rende indifesi di fronte allo psichismo inferiore – essi agiscono credendo di operare in un senso quando in realtà lavorano per forze intente a realizzare l’esatto contrario di ciò in cui credono. In pratica, essi ritengono di agire per “sfatare la profezia”, mentre sono proprio loro che la “realizzano”! Tutto ciò è terribilmente
perfetto ed inesorabile.
Fra l’altro la distruzione della porta di Timbuctu e di vari altri santuari in tutto il mondo islamico, significativi anche perché radicano l’Islam in un tessuto locale, esattamente come i santuari cattolici (e guarda caso i protestanti non ne hanno), è analoga alla demolizione dei “buddha di Bamyan” in Afghanistan ad opera dei Talebani. Come in quell’occasione, si parla di “scempio verso la cultura”, di intolleranza religiosa” e via discorrendo, senza cogliere il punto essenziale, ancor più semplice da individuare quando a cadere sotto la furia dei “puritani islamici” sono santuari e luoghi di culto dell’Islam stesso.
Si tratta forse di ‘sigilli’, di opere di ‘protezione’ che finché sussistono impediscono la penetrazione (o la fuoriuscita) d’influenze dissolutrici? Lo sviluppo degli eventi, in tutto il mondo islamico, non tarderà a mostrarci se ci siamo sbagliati o meno…
Ma non è finita qui. Perché l’altra grande domanda che a questo punto dobbiamo porci è: chi manovra i “modernisti islamici”?
Segnaliamo subito un fatto curioso: da quando è cominciata la cosiddetta “Primavera araba” [9], i “militanti islamici” sono ridiventati improvvisamente “simpatici” [10], da che erano dipinti – fino ad un paio d’anni fa, quando Obama, novello Kennedy, “tese la mano all’Islam” col suo discorso del Cairo – come degli autentici mostri che minacciavano i cosiddetti “Paesi arabi moderati”.
Abbiamo spiegato nella prima parte di quest’articolo qual è la mentalità di questi “modernisti” e da che ‘pulpito’ – forse sarebbe meglio dire da che ‘abisso’ – giunge la loro ‘predica’. Abbiamo anche indicato in ogni forma di “modernismo” un fenomeno di riduzionismo, quindi di fondamentale incomprensione di che cosa siano le realtà spirituali, che sono per l’appunto “realtà”, di una concretezza diversa da quella delle cose ordinarie, ma non bei discorsi e né la sopravvalutata “erudizione” di cui si vantano troppi musulmani
odierni.
D’altra parte, se il buongiorno si vede dal mattino, sono da attendersi queste ed altre ‘imprese’, ben poco…‘edificanti’: quando i wahhabiti (che non sono sunniti!) [11] conquistarono per la prima volta Medina, nel XVIII secolo, non esitarono a distruggere persino la tomba del Profeta dell’Islam, e ancora oggi di fatto impediscono il regolare svolgimento degli atti di devozione, al suo cospetto, che milioni di fedeli anelano a compiere quando si recano in Arabia per il Pellegrinaggio (o la “visita”, la ‘umra) presso “la Casa di Allâh”.
La furia ‘iconoclasta’ di questi “puritani dell’Islam” (motivo per cui van d’accordo alla perfezione con l’Angloamerica) non accenna a placarsi, dall’Egitto alla Tunisia: nel primo, addirittura, in un delirio che non teme di sfociare nella buffoneria, vi è chi propone di demolire le piramidi, simboli del “paganesimo” [12]! E non poteva mancare la Libia, vittima predestinata dopo la destabilizzazione dei due Stati vicini, sempre in nome della “lotta alla superstizione” e di un “Islam autentico” dai tratti razionalistici che si sta diffondendo
purtroppo a macchia d’olio anche in Europa grazie all’azione di organizzazioni che, commettendo un pasticcio inescusabile, cercano, un po’ perché ci credono e un po’ perché sono dei furbacchioni, di presentarsi presso “istituzioni” compiacenti come i portabandiera di un assurdo ed improponibile connubio tra “Islam e democrazia”, peraltro sostenuto a livello accademico da una sfilza di “sociologi dell’Islam” uno più incompetente e in malafede dell’altro. E tutti uniti appassionatamente – gli uni protagonisti della “primavera”, gli altri incanalando il sapere universitario in un alveo rassicurante – al servizio della loro vera ‘madrepatria’: il “mondo moderno”, nel quale si trovano entrambi a loro agio e di cui la “democrazia” è il totem indiscutibile, tanto che – senza spiegare bene da dove ciò trarrebbe legittimità dottrinale – appena una “rivolta” va a buon segno i Freedom Fighters sotterrano l’ascia di guerra ed inaugurano la stagione dei ludi elettorali, mostrando felici ai media delle stesse cricche usurocratiche che hanno finanziato le “ribellioni” il pollice intriso d’inchiostro di chi finalmente s’è messo al collo il giogo della partitocrazia e del relativo governo dei peggiori.
In Libia, quelli che ‘qualcuno’ ha denominato “drogati” e “ratti della Nato”, dopo aver servito da truppe cammellate dei “liberatori”, si sono dunque dati alla loro attività preferita [13], che è quella di profanare ciò che è completamente fuori dalla loro portata intellettuale [14]. Essi si dedicano a maledire e distruggere ciò che non capiscono, perché come tutti gli ignoranti, adusi a semplificare, vanno fuori di testa al pensiero che esista qualche cosa in grado di sfuggirgli, che gli è completamente precluso. E, colmo del ridicolo, si pavoneggiano delle loro nefande azioni, facendo a gara a chi grida più a perdifiato Allâhu akbar (“Iddio è più grande”), come per dimostrare che siccome l’ira del santo di turno, dell’intimo di Dio (il walî), non s’è scaricata sugli autori del gesto, ciò significherebbe che tutta la devozione nei suoi confronti era decisamente mal riposta poiché il Signore non ha fatto nulla per difenderne il mausoleo, né ha ‘folgorato’ gli autori della distruzione. Sembra di vedere all’opera dei positivisti ottocenteschi, tanto queste ‘dimostrazioni’ sono puerili e demenziali [15]. Questo punto non verrà mai sottolineato abbastanza per comprendere la “decadenza islamica” rappresentata da queste tendenze “moderne”, che solo qualcuno a digiuno di che cosa sia la Tradizione può scambiare per “rinascita”.
Una delle ultime bravate di questo tipo nella “Libia liberata” (quella per intendersi, ripiombata sotto il tallone dell’usura e dei suoi “prestiti”, quella del nuovo sottosviluppo camuffato da “tradizione”, quella della svendita di tutti i settori strategici che configurano la sovranità di una nazione, quella di un tribalismo inconcludente) è stata la distruzione, da parte di una massa di pecoroni aizzati dal peggior tipo di ‘pretaglia’ che esista [16], della moschea-mausoleo di ‘abd as-Salâm al-Asmar [17], di cui esiste anche una sconcertante testimonianza filmata [18].
Questo luogo di culto e di devozione, che conteneva circa 5.000 volumi finiti in cenere (avranno controllato che non ci fossero opere di Ibn Taymiyya, il loro preferito!), non è l’unico finito sotto le grinfie di questa ciurmaglia fanatizzata. A Tripoli, come scimmie ammaestrate, hanno demolito a colpi di bulldozer [19] un altro importante luogo di devozione (islamico, sottolineiamolo ancora per chi avesse cominciato a pensare che questi “musulmani” ce l’hanno con dei non musulmani) [20]. Ma al santuario di Sîdî Ahmed az-Zarrûq [21], gli stessi invasati hanno superato se stessi, svignandosela con la salma del sant’uomo lì sepolto [22].
Le “autorità” sedicenti tali, giunte a Tripoli sul ‘tappeto volante’ della British Airways, prendono le distanze, ma è un film già visto, poiché anche in Italia nei primissimi anni post-“Liberazione” erano all’opera, con licenza di uccidere e devastare, bande di “puri dell’Idea resistenziale”, evidentemente lasciate fare su ordine del vero padrone, che non era certo il governicchio degli ex di “Radio Londra” e dei ‘villeggianti’ al “confino”, ma quello che aveva stabilito la subitanea eliminazione del capo del Fascismo e la sparizione della sua famosa cartella con documenti “compromettenti”.
A proposito di bulldozer, è interessante notare che quando Israele distrugge le proprietà palestinesi coi medesimi sbrigativi mezzi, si scatena giustamente un’unanime esecrazione da parte islamica, ma in questo caso, specialmente da parte dei ‘primaverandi’, felici delle loro ‘moschee dell’Ikea’ [23], non si erge la benché minima critica.
I leader religiosi di questi ultimi, inoltre, sono perennemente imbufaliti, lanciano anatemi a destra e a manca, puntano il dito sempre contro qualcuno, ma poi, quando arrivano le palanche di qualche “emiro”, come per incanto diventano mansueti come agnellini e disposti a tollerarne ogni marachella: pecunia non olet, specialmente se sa di petrolio.
Mi chiedo come ci si possa prendere a “guida spirituale” individui che non promanano alcun senso di pace, di fratellanza, di amore [24] nel vero senso della parola, pur nelle necessarie intransigenza ed adesione allo spirito vivificatore della lettera del Messaggio (Risâla), pena lo scadimento nello “spiritualismo” e nell’irrazionale, l’altro polo dello sfaldamento dell’autentica spiritualità (e con essa dell’uomo al quale è destinata), assieme al letteralismo razionalista di cui questi “duri e puri” sono la più recente manifestazione.
Mi chiedo anche dove vogliono arrivare quando avranno consegnato tutte le sponde meridionale ed orientale del Mediterraneo a costoro. Ci metteranno il terrore mediatico addosso per imbarcarci così in una nuova stagione dello “scontro di civiltà” a beneficio del divide et impera nel Mediterraneo? La Nato li aiuterà ad attaccarci e a colonizzarci qualora tentassimo di sbarazzarci dei nostri pluridecennali occupanti?
Eh sì, perché questi signori – a parte il pulcherrimo attentato dell’11/9 attribuito ad Osama bin Mossad – non sembrano affatto interessati a nuocere all’America e all’Inghilterra, che anzi ammirano in cuor loro e poi odiano perché l’ammirazione non è ricambiata, ma sono costantemente disposti a seminare morte e distruzione in tutti quei paesi che periodicamente l’Occidente individua come “il nemico” da distruggere: prima l’Afghanistan con la scusa del “comunismo ateo” (perché, l’Occidente non è “ateo”?), poi la Jugoslavia con la scusa della “pulizia etnica” (a senso unico), poi l’Algeria con la scusa del “pericolo fondamentalista” (da essi stessi alimentato per rovesciare un governo inviso!), poi la Cecenia con la scusa che comunque i russi sono sempre “comunisti” ed “ubriachi”, poi la “primavera araba” con la scusa delle “tirannie” (a geometria variabile)… E il prossimo obiettivo su commissione chi sarà? L’India perché
“adorano le vacche”? La Cina perché mangiano maiale con funghi e bambù? La Chiesa cattolica perché la Trinità è “pagana”? L’Iran e gli sciiti perché sono “eretici”? Insomma, la lista dei “cattivi” consegnata da qualche James Bond assieme alla valigetta coi dobloni è ancora lunga, e nemmeno alla fine si scorge il nome dell’Angloamerica. No, per loro, alla prova dei fatti, e non di qualche fanfaronata plateale che non costa nulla, il problema non sussiste.
Qualcuno piuttosto famoso tra i musulmani, l’Imam Khomeyni, certamente consapevole che l’Avversario è ben altro che un accidente del mondo, ebbe a definire l’America “il Grande Satana” e una certa concezione della sua medesima religione “l’Islam americano”. Si dice anche che l’astuzia più abile del Demonio sia quella di far credere che non esiste. Ecco, questi “modernisti islamici” non saranno arrivati a tanto, ma di sicuro lo scambiano di continuo con qualcun altro.
http://www.cese-m.eu/cesem/2014/01/chi-manovra-i-modernisti-islamici/[2]
NOTE
1. ROSSELLA BENEVENIA, Mali: integralisti distruggono entrata moschea a Timbuctu, “Ansa.it” 3 luglio 2012.
2. Il termine arabo per “visita” è ziyâra, dal verbo zâra/yazûru, che significa appunto “visitare”, utilizzato anche in senso più generale e meno “tecnico”.
3. Su tale importantissima pratica, riscontrabile in moltissime tradizioni, cfr. NELLY AMRI, Le corps du saint dans
l’hagiographie du Magherb médiéval, pubblicato il 5 settembre 2012 sul sito “al-Simsimah” (http://alsimsimah.blogspot.be/2012/09/le-corps-du-saint-dans-lhagiographie-du.html).
4. Sing. walî, da una radice che veicola il significato di “vicinanza”, “amicizia”, quindi di “governo per conto di” (in questo specifico caso, “per conto del Signore”).
5.Sulla questione della “liceità”, dal punto di vista islamico, della pratica della “visita” alle tombe dei santi e di tutto quel che vi attiene, un testo di riferimento è Rudûd wa munâqashât ‘alà mâ warada fî kutayyibât “ash-shirk wa
wasâ’iluhu ‘inda fuqahâ’ al-madhâhib al-arba‘a” [Repliche e discussioni riguardo ai libelli (della serie) su “L’associazionismo e i suoi strumenti presso i giurisperiti delle quattro scuole di diritto”], quello pubblicato dalla Idârat al-iftâ’ wa al-buhûth – Qism al-buhûth [Direzione delle fatwa e delle ricerche – Dipartimento per le ricerche] (senza riferimenti di luogo e data). Qui, per “associazionismo” s’intende quel che talvolta è tradotto malamente con
“politeismo”: tecnicamente, lo shirk consiste nell’associare, nella pratica e nel pensiero, altri “dei” all’Unico Dio; si tratta, in altre parole, della sanzione dell’errore in cui cade chi professa in qualsiasi modo una concezione dualista.
6. A partire dalla sûra II, v. 3.
7. Sulla dottrina dei “cicli cosmici”, una delle migliori opere disponibili è quella di GASTON GEORGEL, Le quattro età
dell’umanità, (trad. it.) Il Cerchio, Rimini 1982 (ed. orig. In francese Archè, Milano, 1975).
8. Qui per “occidentali” non s’intende coloro che abitano una determinata area del pianeta, bensì tutti quelli che
condividono, adeguandovi il loro modo di vita, la visione del mondo “moderna”, caratterizzata essenzialmente all’ateismo (che può camuffarsi in vari modi, tra i quali vi è il cosiddetto “laicismo”). “Occidentale”, pertanto, è
sinonimo di “moderno”.
9. Rimandiamo al nostro “Primavera araba” o “fine dei tempi”?, pubblicato su “Europeanphoenix.it” il 6 aprile 2011.
10. Lo sono stati già molte volte, all’epoca della guerra contro l’Urss in Afghanistan, durante lo smembramento della ex Jugoslavia, di nuovo in funzione anti-russa in teatri come la Cecenia, l’Ossezia, il Daghestan ecc.
11. MOHAMED OMAR, I sunniti sono oppressi in Arabia saudita, non in Siria, “Eurasia-rivista.org”, 13 agosto 2012.
12. Cfr. I salafiti: “Le piramidi vanno distrutte. Sono simboli pagani”, “Il Messaggero”, 13 luglio 2012 (http://www.ilmessaggero.it/primopiano/esteri/i_salafiti_le_piramidi_vanno_distrutte_sono_simboli_pagani/notizie/208009.shtml).
13. Cfr. Libia: attacchi ai mausolei, dal sito di “Euronews”, 26 agosto 2012.
14. Qui adottiamo la definizione di “intelletto” secondo la quale si tratta della conoscenza intuitiva, del cuore, non della mente.
15. Si potrebbe proporre un ardito accostamento. Quelli che si radunano sotto la croce e chiedono al Cristo, per tentarlo, perché, se è “veramente il Figlio di Dio”, non chiama una legione di angeli a salvarlo, è come se insinuassero: “Siccome non è stato mandato nessuno a salvarti, sei un ciarlatano! Non sei quello che affermi di essere!”.
16. Quella di casa a Londra che – tanto per citare un esempio della sua mostruosità – incita all’omicidio di altri musulmani (“deviati”, of course) per il solo fatto che non belano all’unisono secondo i dettami dell’“ideologia islamica” che intendono gabellare per Islam. Si veda quel che afferma lo “shaykh” libanese Omar Bakri, di stanza per lungo tempo proprio a Londra: http://www.youtube.com/watch?v=GIgnUuOC4RE&feature=youtu.be.
17. http://en.wikipedia.org/wiki/Abd_As-Salam_Al-Asmar.
18. http://www.youtube.com/watch?v=wnlRVKVuo7M&feature=youtu.be.
19. http://www.youtube.com/watch?v=wnlRVKVuo7M&feature=youtu.be.
20. Cfr. GINETTE HESS SKANDRANI, La nouvelle Libye démocratique, tribaliste, takfiriste, otanesque, oscurantiste…, “La voix de la Libye”, 26 agosto 2012 (http://lavoixdelalibye.com/?p=5574).
21. Qui una biografia: http://alsimsimah.blogspot.it/search/label/Biographie%20de%20Sidi%20Ahmed%20Zarrouqq.
22. Shaykh Ahmad Zarroq’s grave has been desecrated in Libya, articolo del 26 agosto 2012, che segnala anche un filmato in cui un’autorità islamica residente in Canada denuncia in maniera molto chiara l’azione dei salafiti: http://www.youtube.com/user/ShaykhFaisalVideoBlo?feature=watch). Per giudicare il livello “intellettuale” di questi ‘picconatori islamici’, si veda quest’intervista, nella quale il custode della moschea-mausoleo di ‘Uthmân Bâshâ, in Libia, racconta alcuni aneddoti relativi al raid distruttivo di cui è stata oggetto: http://www.youtube.com/watch?v=xzwskvKyWqY.
23. Il riferimento è a luoghi di culto standardizzati, costruiti secondo uno stile inconfondibile, alieno rispetto alla storia e alle tradizioni del luogo, dai quali naturalmente sono banditi tutti gli elementi cosiddetti “superstiziosi”. I Balcani si sono riempiti, da una decina d’anni a questa parte, di moschee di questo tipo.
24 Cfr. ENRICO GALOPPINI, Solo un santo ci può salvare dalla “crisi”, “Europeanphoenix.it”, 22 dicembre 2011, http://europeanphoenix.it/component/content/article/3-societa/206-solo-un-santo-ci-puo-salvare-dalla-crisi.
00:05 Publié dans Actualité, Islam | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : actualité, islam, islamisme moderniste, politique internationale, monde arabe, monde arabo-musulman, manipulation | | del.icio.us | | Digg | Facebook
France – Arabie saoudite: liaison dangereuse
|
||||
|
Au moment où les États-Unis et la Russie démontrent qu’une sortie de crise pacifique est possible à propos de l’Iran, Paris choisit de s’aligner sur les positions bellicistes de l’Arabie saoudite face à la Syrie et l’Iran.
Comment expliquer que la France qui, du général de Gaulle jusqu’à Jacques Chirac, avait maintenu séculairement notre tradition d’équilibre en politique étrangère, puisse aujourd’hui autant s’en écarter ?
L’Arabie saoudite est certes le premier producteur et exportateur de pétrole mais elle est, avant tout, le cœur « nucléaire » d’un islam rigoriste, conquérant et même terroriste. Longtemps allié des États-Unis aux côtés d’Israël pour détruire les régimes arabes modernisateurs, le royaume wahhabite est, partout dans le monde, la source première de la radicalisation de l’islam. Tant que l’État profond saoudien et ses services secrets séviront, aucun islam apaisé ne pourra l’emporter dans le monde musulman, aucune tradition locale ne pourra tempérer le Coran et aucune paix véritable ne sera possible entre le monde islamique et les autres civilisations. L’État saoudien est responsable de l’implosion syrienne et des 130 000 morts qui en résultent, des décapitations de chrétiens par les hordes salafistes, comme il est sans doute derrière l’attentat de Volgograd en Russie.
Est-ce donc avec ce pays qui coupe des mains d’enfants, réprime physiquement les homosexuels et réduit les femmes et les travailleurs immigrés à l’esclavage, que le « pays des droits de l’homme » entend refonder sa politique arabe au Moyen-Orient? J’ai toujours défendu la realpolitik et je ne ne suis pas un partisan de l’idéalisme en politique étrangère, mais il y a des limites au cynisme et au « court-termisme ». Or, avec l’Arabie saoudite, nous, Français, entrons en contradiction avec ce que nous sommes !
Nous avons, au minimum, 6 millions de musulmans qui vivent sur le territoire français, dont l’immense majorité est sunnite. Voulons-nous que l’enchevêtrement économique de la France et de l’Arabie saoudite favorise la radicalisation des Français musulmans ? On ne peut pas faire la guerre contre le fondamentalisme islamique, soutenu par l’Arabie saoudite et le Qatar, au Mali et jusqu’en Centrafrique, et prétendre, en même temps, faire de Riyad notre meilleur allié au Moyen-Orient. Notre politique étrangère ne peut s’asseoir sur ce paradoxe intenable alors que bien d’autres choix sont possibles, à commencer par un retour en Iran, un pays bien plus prometteur sur le plan économique et humain.
L’Iran a autant de pétrole (2e réserve mondiale) et bien plus de gaz (2e réserve mondiale) que l’Arabie saoudite ; c’est surtout un État multimillénaire solide qui se réformera quand l’Arabie saoudite, wahhabite dans ses fondements, ne pourra le faire. Avec la Russie, l’Iran est sans doute l’allié stratégique et énergétique naturel de l’Europe, sur le continent eurasiatique où la Chine de demain pèsera lourd.
Les États-Unis sont en train de se dégager en douceur de l’alliance avec l’Arabie saoudite et ce n’est pas un hasard si, au même moment, des voix (Congrès, justice) s’élèvent à Washington pour réexaminer les liens troubles entre Al-Qaïda et l’Arabie saoudite à propos du 11 septembre. Il n’est pas impossible que les Américains « gardent au chaud » quelques révélations qui pourraient s’avérer bien embarrassantes pour la France lorsque celle-ci se sera enfoncée plus profondément et imprudemment encore dans l’alliance saoudienne…
00:05 Publié dans Actualité, Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : france, arabie saoudite, géopolitique, politique internationale, moyen orient, ayméric chauprade | | del.icio.us | | Digg | Facebook
The Great Nicaraguan Canal
The Great Nicaraguan Canal, or the Chinese puzzle for America
Ex: http://www.strategic-culture.org |
The idea of building an interoceanic canal through Nicaragua, similar to the Panama Canal but deeper and wider, has inspired the Nicaraguans for decades. There have been a number of obstacles to the realisation of this idea, but the main obstacle has been sabotage by the US, for whom the implementation of large-scale projects in a country ruled by Sandinistas is completely unacceptable.
The operation of the Panama Canal, despite the formal transfer of control to Panama in 2000, is firmly tied to the military-strategic and geopolitical interests of the US. In recent years, crisis situations have been created in many regions of the world through the efforts of the Pentagon, and there is no guarantee that such events will not also take place in Latin America. This is exactly why the news regarding the forthcoming construction of the Great Nicaraguan Canal (GNC) was received so enthusiastically by the Latin Americans. The alternative interoceanic route – a call of the times – is an international megaproject costing USD 50 billion that could be a controlling factor on the imperial ambitions of the US. The construction of the canal is expected to begin at the end of 2014-beginning of 2015. Nicaraguan President Daniel Ortega has taken a gamble on China, Russia and Brazil for this project. The United States, meanwhile, has taken a backseat, which is why Washington has rejected every opportunity for US companies to take part in GNC’s construction. In fact Managua did not expect any different from the Americans, and the promotion of the project began without them. In July 2012, the National Assembly of Nicaragua passed a law prepared by the government «On the legal status of the Great Interoceanic Canal and the creation of its management structure». This structure (The Authority of the GNC) is authorised to build the canal, and will also be responsible for its future upkeep. It has become known that the project’s investor is Empresa Desarrolladora de Grandes Infraestructuras S.A. (EDGISA). The Authority of the Great Interoceanic Canal and EDGISA have signed a contract with the Chinese company HK Nicaragua Canal Development Investment, which has been given the authority to develop the project. The agreement also contains a clause on the special functions of the project’s operator, which will be responsible for ensuring the development of the infrastructure and the management of the construction, as well as dealing with shareholders. The operator company HKND Group Holdings Limited, which was registered on the Cayman Islands in November 2012, is managed by experienced Chinese businessman Wang Jing, who enjoys support at the highest state level... There are a number of confidential issues in the GNC’s construction plans, as there are in any large-scale business projects. Making sense of these intricacies is difficult for even the most experienced third-party analysts. An important provider of regional support for the GNC is Venezuela, which is increasing its volume of oil supplies to China. Every now and then, Rafael Ramírez, Venezuela’s energy minister, issues politically correct statements on maintaining the volume of oil exports to China, while at the same time statements that are making Washington uneasy can be heard from the mouths of Venezuelans: «We are selling oil to China because it is the second-largest economy in the world and soon it will be the largest. While the US and Europe are in crisis, the Chinese economy continues to grow». Oil experts are interpreting Ramirez’s words like this: China will eventually become the main importer of Venezuelan oil, both heavy crude oil and light crude oil. Preparation for this is under way, as evidenced by China’s programme for the construction of large-capacity tankers for the Venezuelan oil company PDVSA. The first of four «Carabobo» VLCC-class tankers with a capacity of 320,000 deadweight tons was launched in September 2012. Tankers of this class can carry up to two million barrels of oil in a single voyage. The Panama Canal, which was designed for vessels with a maximum capacity of up to 130,000 deadweight tons, cannot cope with the intensity of modern-day interoceanic traffic. Work is being carried out at an increased rate to widen the canal for the passage of higher-tonnage vessels. This is unlikely to provide a satisfactory solution, however. The reconstruction of the canal currently under way will allow for the passage of vessels with a capacity of up to 170,000 tons, but there are already hundreds of vessels in existence today that would be unable to use it. In the future, the number of large-capacity tankers (up to 250,000 tons and more) will increase tenfold. The Nicaraguan Canal will further promote trade and economic ties between countries in Latin America and the BRICS group of countries (Brazil, Russia, India, China and the Republic of South Africa). The realisation of the Nicaraguan megaproject will be yet further confirmation that Washington’s positions in Latin America are weakening, and that the region is being fiercely infiltrated by other powers, competition from which is neutralising the hegemonic claims of the US. And this is not happening just anywhere, but in those territories that were previously considered to be the Empire’s back yard. The US Administration is trying to break this trend and create new alliances like the Pacific Alliance in order to undermine the processes of Latin American integration. It is also promising soft forms of cooperation with NATO to its closest allies, as happened with Colombia. The various methods of weakening, and in the long term removing, the authority of the Sandinista government have been miscalculated. In order to solve this issue, one of the largest US embassies in the Western Hemisphere has been set up in Nicaragua. It is headed by Phyllis Powers, who has experience of working in Panama. Issues related to the GNC are a priority for the US Embassy in Nicaragua. The objectives set are comprehensive: to gather information on the project’s key organisers and China’s intentions regarding the use of the canal for military purposes, including the creation of naval bases, expose corrupt schemes and so on. An exceptional amount of attention is being paid to the development of recommendations on how to compromise the project, the preparation of ideas for the introduction of propaganda campaigns regarding its lack of potential and its unprofitability, and so forth. On the whole, Daniel Ortega’s government is aware of these plans and intentions. This is possibly why (for preventive purposes) the Nicaraguan Foreign Ministry published a list of all diplomatic missions accredited in the country. As a rule, each mission includes between three and ten employees, whereas the US Embassy in Managua provides work to no less than one hundred Americans. As well as this, there are also the Peace Corps, USAID Agency employees, and a good ten other suspicious «charitable» organisations operating in the country. Ambassador Phyllis Powers’ right-hand man is Charles Barclay, who has 25-years of experience working in the State Department. One of his missions was in Mexico, where Barclay was in charge of a political intelligence agency and became famous for regularly sending encrypted telegrams to CIA headquarters on the alarming penetration of mythical Iranian terrorists into the country of Aztecs. The subject was a fashionable one, and the resident earned his stripes for it. In Cuba, Barclay was responsible for the organisation of a dissident group of journalist bloggers and the financing of their activities. Now in Nicaragua, the authorities are aware of Barclay’s true mission and the critically dangerous concentration of US intelligence agency employees in the country. The Nicaraguan authorities are also aware of the NSA Task Force operating under the roof of the embassy, which is carrying out electronic surveillance of government agencies, military leaders and security agencies. US intelligence agencies in the country are also carrying out the phased implementation of destabilisation scenarios. One of the main objectives is to review the dubious GNC agreements with the Chinese, and then reject the project under the pretext of the exposure of numerous cases of corruption. The names of people from Daniel Ortega’s inner circle who are allegedly using the project for the purposes of personal enrichment are already being bandied about in the press. It is noteworthy that at the end of last year, the US State Department criticised the ruling Sandinista National Liberation Front over the reform of its Constitution. The State Department called the proposals «anti-democratic». If the reform is approved, it will allow Ortega to run for a fourth term in the 2016 elections. The battle for and against the GNC is still going on, and it seems that the US is planning to use its entire arsenal of covert warfare in order to «cleanse» Nicaragua of both the Chinese and the Sandinistas. |
00:05 Publié dans Actualité, Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : politique internationale, géopolitique, amérique latine, amérique centrale, nicaragua, canal du nicaragua, chine | | del.icio.us | | Digg | Facebook
lundi, 27 janvier 2014
La politique énergétique européenne
Michel Gay
Ex: http://metamag.fr
Depuis 10 ans, la politique énergétique de l'Europe est un désastre qui continue à s'amplifier. La première directive européenne de 2003 concernant les énergies renouvelables, dites "vertes" a été à l’origine de toutes les dérives.
Alors que la France avait mené depuis le Général de Gaulle une politique indépendante, responsable, cohérente, la Commission Européenne a décidé en 2001 d’imposer à chaque pays des directives motivées par des a priori idéologiques et ne tenant pas compte des spécificités de chaque pays.
Cette première directive de 2003, fixant un objectif de 21% de la consommation intérieure brute à partir des sources d'énergies renouvelables en 2010, a été une imposture. Sous la pression de l’Allemagne, de lobbies écologistes anti-nucléaires, très influents à Bruxelles, et de la passivité inadmissible des négociateurs français, le nucléaire a été volontairement éliminé des énergies non émettrices de gaz à effet de serre (GES), alors que l’objectif de la directive était principalement la lutte contre le réchauffement climatique.
L’Europe a gravement failli en excluant le nucléaire des énergies non émettrices de GES et elle est responsable de dizaines de milliards d’euros engloutis en pure perte. La directive dite des 3 x 20, qui lui a succédé en 2008, a été appliquée dans notre pays par la loi de programmation du 3 août 2009 issue du Grenelle de l’environnement. Cette loi prévoit en particulier que la part des énergies renouvelables sera portée à 23% en 2020 dans la consommation d'énergie finale. Elle a été votée à la quasi unanimité des députés. Les conséquences économiques, environnementales et sociétales pour notre pays sont désastreuses.
Des dizaines de milliards d’euros ont été engloutis en pure perte dans les éoliennes et les panneaux photovoltaïques. L’investissement devra être renouvelé trois fois par rapport au nucléaire compte tenu de la durée de vie de ces installations qui est au maximum de 20 ans. Ceci entraîne une augmentation du coût de l’électricité à la charge des consommateurs, et notamment des plus pauvres. Et pendant 20 ans, EDF a une obligation d'achat de l’électricité à des prix exorbitants. Cela entraîne aussi un accroissement des émissions de CO2 dues à l’intermittence qu'il faut compenser par des centrales à gaz ou à charbon comme en Allemagne en ce moment.
De plus, la fabrication des modules solaires se fait en Chine et nous achetons nos éoliennes au Danemark, à l'Allemagne et à l'Espagne. L’objectif de 5 GWc d'énergie solaire prévu en 2020 par le Grenelle de l’environnement sera atteint fin 2013, soit 6 ans plus tôt. Il aura coûté en investissement plus de 30 milliards d’euros qu’il faudra renouveler trois fois sur 60 ans alors que l’énergie produite, à peine 1% de la production totale, pouvait être produite par un réacteur nucléaire de 600 MW ( le tiers de la production de Fessenheim qui comprend deux réacteurs de 900 MW) pour un investissement de moins de deux milliards, soit 7 fois moins. Les consommateurs et les contribuables paieront plus de 1,5 milliards par an et ceci pendant 20 ans, soit une augmentation de la facture annuelle d’électricité d’une cinquantaine d’euros!
La directive européenne des 3 x 20 concernant l’efficacité énergétique faisant référence à l’énergie primaire conduit à pénaliser le recours à l’électricité pour le chauffage au profit du gaz, ce qui est une aberration. Un des objectifs de la directive européenne concernant la libéralisation des marchés de l’électricité est de déstabiliser le leader européen et même mondial de l'électricité, EDF. Toute politique énergétique responsable, doit être basée sur les deux objectifs prioritaires suivants :
1) L’indépendance énergétique, c'est-à-dire dire la diminution du recours aux énergies fossiles importées,
2) Le coût le plus bas possible de l’énergie. Le commissaire européen (M. Oettinger) semble enfin découvrir ces objectifs avec 10 ans de retard.
L’Europe doit elle intervenir ? La question est posée du rôle de l’Europe dans la politique énergétique. Il n'est pas indispensable d’avoir recours aux technocrates de Bruxelles pour prendre des décisions de bon sens. Plus de 90 % de notre électricité est produite sans émissions de CO2 grâce au nucléaire et aux barrages. La réduction des gaz à effet de serre n’est donc pas un objectif prioritaire dans la politique énergétique de la France qui est un des pays les plus vertueux au monde dans ce domaine. Il faut rappeler que notre pays représente 65 millions d’habitants de la planète sur plus de 7 milliards d’habitants dont la plupart se désintéressent totalement du réchauffement climatique. Il en découle les principales propositions suivantes :
1) Garantir une part d’au moins 75% de nucléaire pour continuer à bénéficier d'une production massive d'électricité à bon marché.
2) Prolonger la durée de vie du parc actuel jusqu’à 60 ans si possible.
3) Préparer le recours dés 2050 aux réacteurs de la génération 4 en lançant le plus rapidement possible la construction du réacteur ASTRID (600 MWe) prévue à Marcoule et intensifier aussi la recherche sur le cycle Thorium - Uranium 233.
4) Accroître le recours à l’électricité en remplacement des matières fossiles (dans l’industrie, le chauffage, les transports par le développement des voitures électriques, les liaisons ferroute,...
5) Stopper de toute urgence les aides accordées aux énergies éoliennes et surtout au panneaux photovoltaïques dont les coûts pour la nation se chiffrent à plusieurs milliardsd’euros dépensés en pure perte. Ces subventions inutiles ont atteint 3,6 Mds€ en 2011, 4,33 Mds€ en 2012 et la Commission de régulation de l'énergie prévoit 5,1 Md€ en 2013.
6) Supprimer les obligations de rachat par EDF de l’électricité provenant de ces énergies à des prix scandaleusement élevés et dont le coût se répercute pendant 20 ans au niveau du consommateur et notamment des plus pauvres. Cette taxe qui va perdurer doit apparaître comme un impôt.
7) Modifier la norme aberrante RT 20124 qui pénalise le recours à l’électricité pour le chauffage au profit du gaz.
8) Mener une action incitative contre tous les gaspillages (y compris financiers dans certaines énergies renouvelables) par une politique de formation à l’école et d’information par les moyens audio visuels.
9) Poursuivre les actions décidées par la loi du 9 août 2009 concernant les rénovations thermiques des bâtiments et le transport.
10) Développer l‘utilisation de la biomasse pour la production électrique, le chauffage collectif, développer la filière du biogaz.
11) Supprimer ou modifier le principe de précaution, véritable frein à l’innovation et au progrès, que seuls l’Allemagne, la France et le Brésil ont inscrit dans leur constitution.
Dans le contexte actuel de mondialisation et de libéralisation de l’énergie imposé par l’Union européenne, il appartient à l’Etat, comme cela a été le cas pendant 60 ans, d’avoir la maîtrise de la politique énergétique du pays.
La politique européenne menée depuis plus de 10 ans, politique mise en oeuvre dans notre pays en 2012 avec le Grenelle de l’environnement, est une faute grave qui ne peut conduire qu'à un désastre encore plus grand pour la compétitivité de notre industrie, déjà si mal en point, et pour le niveau de vie des français. Il faut être conscient que les dégâts "acquis" par contrat devront être supportés par tous les français pendant prés de 20 ans.
Comme l’a écrit le 2 février 2012 le Président Giscard d'Estaing : "L'abandon de l'indépendance énergétique de la France serait plus qu'une faute, ce serait un crime".
00:06 Publié dans Actualité, Affaires européennes | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : énergie, politique énergétique, europe, affaires européennes, politique internationale | | del.icio.us | | Digg | Facebook
La invasión israelí de Gaza y los campos marinos de gas
La invasión militar de Gaza por parte del ejército israelí en diciembre de 2008 tiene una relación directa con el control y posesión de las estratégicas reservas marinas de gas.
Se trata de una guerra de conquista. En la costa de Gaza hay unas inmensas reservas de gas que se descubrieron en 2000.
En un acuerdo firmado en noviembre 1999 la Autoridad Palestina (AP) concedió los derechos durante 25 años de prospección de gas y de petróleo a British Gas (BG Group) y a su socio ubicado en Atenas Consolidated Contractors International Company (CCC), propiedad de las familias libanesas Sabbagh y Koury.
Estos derechos sobre los campos marinos de gas corresponden en un 60% a British Gas, un 30% a Consolidated Contractors y un 10% al Fondo de Inversión de la Autoridad Palestina (Haaretz, 21 de octubre de 2007).
El acuerdo entre la AP y BG-CCC incluye la explotación de los campos y las construcción de un gaseoducto (Middle East Economic Digest, 5 de enero de 2001).
La licencia de BG cubre toda la zona marítima de Gaza, que es contigua a varias instalaciones marítimas de gas israelíes (véase el mapa abajo). Hay que indicar que el 60% de las reservas de gas a lo largo del litoral de Gaza e Israel pertenece a Palestina.
El grupo BG perforó dos pozos en 2000: Gaza Marina-1 y Gaza Marina-2. British Gas calcula que las reservas son del orden de 1.4 billones de metros cúbicos, valorados en unos 4.000 millones de dólares, según cifras hechas públicas por British Gas. El tamaño de las reservas de gas de Palestina podría ser mucho mayor.
¿Quién es dueño de los campos de gas?
La cuestión de la soberanía sobre los campos de gas de Gaza es fundamental. Desde un punto de vista legal, las reservas corresponden a Palestina.
La muerte de Yasser Arafat, la elección del gobierno de Hamas y la debacle de la Autoridad Palestina han permitido a Israel establecer un control de facto sobre las reservas marítimas de gas de Gaza.
British Gas (Grupo BG) ha estado tratando con el gobierno de Tel Aviv y ha ignorado al gobierno de Hamas en lo que concierne a la explotación y derechos de prospección de los campos de gas.
La elección del primer ministro Ariel Sharon en 2001 supuso un momento crucial. El Tribunal Supremo israelí puso en tela de juicio la soberanía palestina sobre los campos marítimos de gas. Sharon declaró taxativamete que “Israel nunca compraría gas de Palestina”, dando a entender que las reservas marítimas de gas de Gaza pertenecen a Israel.
En 2003 Ariel Sharon vetó un acuerdo inicial que permitiría a British Gas suministrar a Israel gas natural de los pozos marítimos de Gaza (The Independent, 19 de agosto de 2003).
La victoria electoral de Hamas en 2006 provocó la desaparición de la Autoridad Palestina, que quedó confinada a Cisjordania, bajo el régimen mandatario de Mahmoud Abbas.
En 2006 British Gas “estuvo cerca de firmar un acuerdo para bombear gas a Egipto” (The Times, 23 de mayo de 2007). Según se informaba, el primer ministro británico Tony Blair intervino en nombre de Israel con el objetivo de hacer fracasar el acuerdo con Egipto.
Al año siguiente, en mayo de 2007, el gobierno israelí aprobó una propuesta del primer ministro israelí Ehud Olmert “de comprar gas a la Autoridad Palestina”. Se proponía un contrato de 4.000 millones de dólares, con unos beneficios del orden de 2.000 millones, mil de los cuales iba a los palestinos.
Sin embargo, Tel Aviv no tenía intención de compartir los ingresos con los palestinos. El gobierno israelí nombró un equipo de negociadores para discutir un acuerdo con el Grupo BG pasando por encima tanto del gobierno de Hamas como de la Autoridad Palestina: “Las autoridades de defensa israelíes quieren que se pague a los palestinos en bienes y servicios, e insisten en que no irá dinero alguno al gobierno controlado por Hamas” (Ibid).
El objetivo era fundamentalmente anular el contrato firmado en 1999 entre el Grupo BG y la Autoridad Palestina bajo Yasser Arafat.
Según el acuerdo propuesto en 2007 con BG, el gas palestino de la costa de Gaza iba a ser canalizado a través de un gaseoducto submarino al puerto israelí de Ashkelon y, por consiguiente, se iba a transferir a Israel el control sobre la venta del gas natural.
El plan fracasó y se suspendieron las negociaciones:
“El director del Mossad Meir Dagan se opuso a la transacción por motivos de seguridad, [afirmando] que el dinero recaudado serviría para financiar el terrorismo” (Miembro del Knesset Gilad Erdan, comparecencia ante el Knesset sobre “La intención del viceprimer ministro Ehud Olmert de comprar gas a los palestinos cuando el dinero pagado servirá a Hamas”, 1 de marzo de 2006, citado por el teniente genera (retirado) Moshe Yaalon, Does the Prospective Purchase of British Gas from Gaza’s Coastal Waters Threaten Israel’s National Security? , Jerusalem Center for Public Affairs, octubre de 2007).
La intención de Israel era evitar que se pagaran tasas a los palestinos. En diciembre de 2007 el Grupo BG abandonó las negociaciones con Israel y en enero de 2008 cerró su oficina en Israel (Página web de BG).
El plan de invasión sobre la mesa
Según fuentes militares israelíes, el plan de invasión de Gaza bajo la “Operación Plomo Fundido” se puso en marcha en junio de 2008:
“Fuentes de defensa afirmaron que el ministro de Defensa Ehud Barak ordenó al ejército israelí que se preparara para la operación hace unos seis meses [junio o antes de junio], a pesar de que Israel estaba empezando a negociar un acuerdo de alto el fuego con Hamas.”(Barak Ravid, Operation “Cast Lead”: Israeli Air Force strike followed months of planning, Haaretz, 27 de diciembre de 2008).
Ese mismo mes las autoridades israelíes contactaron con British Gas con vistas a reanudar las negociaciones concernientes a la compra de gas natural de Gaza:
“Tanto el director general del ministerio de Finanzas Yarom Ariav como el director general del ministerio de Infraestructuras Hezi Kugler han acordado comunicar a BG la intención de Israel de reanudar las negociaciones. Las fuentes añadieron que BG todavía no ha respondido oficialmente a la petición de Israel, pero es probable que ejecutivos de la compañía acudan a Israel dentro de pocas semanas para entablar negociaciones con los funcionarios del gobierno [israelí] ” (Globes online, Israel’s Business Arena, 23 de junio de 2008).
La decisión de acelerar las negociaciones con British Gas (Grupo BG) coincidió en el tiempo con la planificación de la invasión de Gaza que se inició en junio. Parecía que Israel anhelaba llegar a un acuerdo con el Grupo BG antes de la invasión, cuya planificación ya se encontraba muy avanzada.
Además, el gobierno de Ehud Olmert encabezó estas negociaciones sabiendo que se estaba planificando la invasión. Lo más probable era que gobierno israelí también contemplara un acuerdo político-territorial “post guerra” para Gaza.
De hecho, en octubre de 2008, dos o tres meses antes del comienzo de los bombardeos el 27 de diciembre, estaban en marcha las negociaciones entre British Gas y los altos cargos israelíes.
En noviembre de 2008 el ministro israelí de Finanzas y el de Infraestructuras ordenaron a Israel Electric Corporation (IEC) que entrara en las negociaciones con British Gas sobre la compra de gas natural de la concesión marítima de BG en Gaza (Globes, 13 de noviembre de 2008).
“El director general del ministerio de Finanzas Yarom Ariav como el director general del ministerio de Infraestructuras Hezi Kugler escribieron recientemente al director de IEC Amos Lasker para informarle de la decisión del gobierno de permitir que las negociaciones siguieran adelante, en la línea de la propuesta marco que aprobó a principios de este año.
El consejo de administración de IEC, encabezado por su presidente Moti Friedman, aprobó los principios de la propuesta marco hace unas semanas. Las conversaciones con el Grupo BG empezarán una vez que el consejo de administración apruebe la exención de la oferta” (Globes, 13 de noviembre 2008).
Gaza y la geopolítica de la energía
El objetivo de la ocupación militar de Gaza es transferir a Israel la soberanía de los campos de gas en violación del derecho internacional.
¿Qué se puede esperar tras la invasión?
¿Cuál es la intención de Israel respecto a las reservas naturales de gas de Palestina? ¿Un nuevo acuerdo territorial, con el estacionamiento de tropas israelíes y/o de “tropas de mantenimiento de paz”? ¿La militarización de toda la costa de Gaza, que es estratégica para Israel? ¿Confiscar pura y simplemente los campos de gas palestinos y declarar unilateralmente la soberanía israelí sobre las zonas marítimas de Gaza?
En ese caso, los campos de gas de Gaza entraría a formar parte de las instalaciones marítimas de Israel, que son contiguas a las de la costa de Gaza (véase supra Mapa 1).
Todas estas instalaciones marítimas también están unidas al corredor de transporte de energía de Israel que se extiende desde el puerto de Eilat, que es una vieja terminal de oleoducto, al puerto-terminal de oleoducto del mar Rojo y por el norte a Haifa. La idea es que se acabe uniendo por medio de oleoducto israelo-turco, en fase de estudio, al puerto turco de Ceyhan. Cyhan es la terminal de oleoducto transcaspio Baku-Tblisi-Ceyhan (BTC): “Lo que se está considerando es unir el oleoducto BTC al oleoducto Trans-Israel Eilat-Ashkelon, también conocido como Israel’s Tipline” (véase Michel Chossudovsky, The War on Lebanon and the Battle for Oil, Global Research, 23 de julio de 2006)
Fuente: GlobalResearch
00:05 Publié dans Actualité, Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : politique internationale, géopolitique, méditerranée, hydrocarbures, gaz, gaza, israël, levant, proche orient | | del.icio.us | | Digg | Facebook
Deutsche Russen in Sibirien
Deutsche Russen in Sibirien
Ex: http://www.blauenarzisse.de
BN-Gespräch. Alexander Geier ist Vorsitzender des Deutsch-Russischen Hauses (DRH) im sibirischen Tomsk. Frank Marten sprach mit ihm über Geschichte, Gegenwart und Identität der Russlanddeutschen.
BlaueNarzisse.de: Herr Geier, spielen die deutschen Wurzeln bei den Russlanddeutschen heute überhaupt noch eine Rolle?
Diese Frage kann ich nicht eindeutig beantworten. Es gibt auf jeden Fall starke regionale Abweichungen. So hat sich die deutsche Sprache bei den Russlanddeutschen in Kasachstan wesentlich besser erhalten als bei den Russlanddeutschen in Sibirien. Die Gründe für diese Entwicklung kann ich jedoch selber nicht nennen. Ein positives Beispiel für Sibirien ist die Situation der Russlanddeutschen in Omsk. Denn bereits 1911 sind unter dem damaligen russischen Ministerpräsidenten Pjotr Stolypin (er stammte aus Dresden, Red.) zahlreiche Russlanddeutsche aus dem Wolgagebiet ausgewandert. Aus ökonomischen Gründen kamen sie in die Gegend um das sibirische Omsk.
Als was sehen sie sich? Als Russe, Deutscher oder als Synthese?
Diesbezüglich bin ich hin und hergerissen. Aufgrund meiner Erziehung und meiner Kindheit würde ich mich als Deutscher sehen. Obwohl meine Eltern in Russland lebten, genoss ich eine deutsche Erziehung. So las mir meine Großmutter stets deutsche Gedichte und Märchen vor.
Aber aufgrund meines Lebensschwerpunktes in Russland mit meinen vielen russischen Freunden bin ich auch Russe. Deshalb sind mir viele Deutsche bei meinen Besuchen in Deutschland fremd. Die Russlanddeutschen in Russland jedoch sehe ich als meine Landsmänner. Zusammenfassend kann ich sagen, dass ich mich als Deutscher, der in Russland lebt, fühle.
Was macht für sie eine spezifisch deutschrussische Kultur aus? Was unterscheidet sie von deutscher Kultur?
Die Basis für die Russlanddeutsche wurde vor mehr als 200 Jahren mit dem Erlass Katharina der Großen gelegt. So benutzen wir Russlanddeutsche Ausdrücke und Redewendungen, die heutzutage in Deutschland niemand mehr verwendet. Beispielsweise begrüßen sich einzelne Russlanddeutsche mit der Redewendung „Zeit bieten“. Wenn man in Deutschland sagt, „Das Leben geht vorbei“, sagen die Russlanddeutschen: „Nur der Buchel bleibt hinten“. Aufgrund dieser traditionellen Sprachweise sind auch die Handlungsweisen der Russlanddeutschen von traditionellen Intentionen geprägt.
Gibt es eine besondere „deutschrussische Mentalität”? Wie würden sie diese beschreiben?
Wie bereits erwähnt, sind die Russlanddeutschen traditioneller als die Deutschen in Deutschland. Der Vater wird stets als Patriarch der Familie wahrgenommen. Ich beispielsweise sieze meinen Vater, der nun mit meiner Mutter in Deutschland lebt. Die traditionelle Rollenverteilung innerhalb der Familie genießt bei den Russlanddeutschen immer noch einen hohen Stellenwert.
Ich kenne einen Mann, der russlanddeutsche Wurzeln hat, sich selbst jedoch als Angehöriger der russischen Ethnie sieht. Dieser zeichnet allerdings seit knapp 30 Jahren dreimal am Tag das Wetter auf und konnte den Projektteilnehmern die Wetterlage an einem bestimmten Tag vor sechs Jahren schildern. Dieses Beispiel zeigt, dass die meisten Russlanddeutschen aufgrund ihrer Liebe zur Ordnung und zur Sorgfalt im Herzen immer Deutsche geblieben sind.
Woher stammt Ihre Familie? Wie und wann kam diese nach Russland?
Meine Familie entstammt dem Dialekt nach aus dem Dreiländereck der heutigen Bundesländer Hessen, Rheinland-Pfalz und Baden-Württemberg. In das damalige Zarenreich ist die Familie nach dem Erlass Katharina der Großen ab 1763 übergesiedelt. Jedoch habe ich keine Angaben über den genauen Zeitpunkt.
Wie kamen Sie in das sibirische Tomsk?
Ich wuchs in Kasachstan auf und lebte dort bis zu meinem zwanzigsten Lebensjahr. Nach Sibirien ging ich in erster Linie aufgrund meines Studiums in Novosibirsk. Im Alter von 27 Jahren zog ich 1986 nach Tomsk. Sie war damals eine für Ausländer geschlossene Stadt.
Was machen Sie heute im DRH? Welche Aufgaben hat es?
Das DRH in Tomsk wurde 1993 gegründet und ist eine staatliche Institution. Wie der Name erahnen lässt, stehen bei uns die Russlanddeutschen im Fokus unserer Arbeit. Unser primäres Ziel ist die Erhaltung der russlanddeutschen Kultur und Sprache. In diesem Sinne führen wir viele Projekte durch, organisieren Sprachcamps und Austausche mit deutschen Schulen oder Institutionen. Im Mai 2013 tagte ein Deutsch-Russisches Managertreffen bei uns in Tomsk. Daneben bieten wir selbstverständlich Sprachkurse in Deutsch an und haben sogar eine Tanzgruppe.
Wie werden die Russlanddeutschen von der Mehrheit der Russen wahrgenommen? Gibt es Probleme?
Im modernen Russland gibt es glücklicherweise keine Probleme oder Vorurteile gegenüber uns Russlanddeutschen. Dies war zur Zeit der Sowjetunion anders. Ich durfte beispielsweise niemals in die DDR reisen. Für die Mehrheit der Russlanddeutschen wurden die Hürden für einen Auslandsaufenthalt erheblich erhöht.
Funktioniert heute die Zusammenarbeit mit staatlichen Agenturen und Behörden?
Da das DRH eine staatliche Institution ist, pflegen wir natürlich Kontakte und Beziehungen zu anderen Agenturen und Behörden. Aufgrund dessen ist das DRH dem Kulturdepartement von Novosibirsk unterstellt. Wir finanzieren uns aus dem Regionalfond des Oblast (Einheit für einen größeren Verwaltungsbezirk, Red.) Tomsk.
Gibt es eine Zusammenarbeit mit deutschen Behörden, Organisationen bzw. Verbänden der Russlanddeutschen?
Natürlich existiert eine Zusammenarbeit. Allein aufgrund der Vielzahl von Russlanddeutschen in Deutschland pflegen wir zahlreiche Kontakte zu den verschiedenen Verbänden der Russlanddeutschen. Des weiteren gibt es Kontakte zum Deutschen Akademischen Austauschdienst e. V. (DAAD), dem Goethe-Institut, der Robert-Bosch Stiftung und dem Deutschen Generalkonsulat in Novosibirsk.
Herr Geier, vielen Dank für das Gespräch!
Anm. der Red.: Mit der Geschichte der Russlanddeutschen hat sich Fabian Flecken hier beschäftigt.
00:05 Publié dans Actualité, Affaires européennes, Entretiens | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : allemands de russie, allemagne, russie, politique internationale, europe, affaires européennes, entretien | | del.icio.us | | Digg | Facebook
dimanche, 26 janvier 2014
Hoe een aanslag in Sochi het Midden Oosten in brand kan steken
Ex: http://xandernieuws.punt.nl
'Aanslag' bij het Olympisch Stadion in Sochi. Bedenk dat er tijdens de O.S. in Londen en het WK-Vrouwenvoetbal in Berlijn vergelijkbare plaatjes verschenen. Toen gebeurde er gelukkig niets.
Achter de berichten in de reguliere media over mogelijke aanslagen door islamitische terroristen op de Olympische Winterspelen in het Russische Sochi gaat een veel groter en belangrijker geopolitiek steekspel schuil, waarbij de kans dat dit plotseling uitmondt in een nieuwe, massale oorlog in het Midden Oosten veel groter is dan door de meeste mensen wordt gedacht.
'Echte' of 'false-flag' aanslag
Diverse inlichtingendiensten houden serieus rekening mee met een aanslag op de Olympische Winterspelen in Sochi. Dit zou zowel een 'echte' aanslag als een 'false-flag' aanslag kunnen zijn, waarbij het bewust de andere kant op kijken door de autoriteiten en daardoor terroristen vrij baan geven, ook als 'false-flag' kan worden aangemerkt.
Een aanslag tijdens Sochi hoeft niet eens van het kaliber '9/11' te zijn om te worden opgevat als een aanslag op de hele wereld, en niet enkel op Rusland. De gevolgen van zo'n aanslag zouden daarom minstens zo verstrekkend kunnen zijn als na 9/11, en in het slechtste geval zelfs kunnen uitlopen op een nieuwe Wereldoorlog.
De Russische president Vladimir Putin, die na de recente aanslagen in Volgograd woedend zwoer het islamitische terrorisme in zijn land totaal te vernietigen, zal een aanslag in Sochi kunnen aangrijpen om daar de onverkorte steun van het Russische volk voor te krijgen, en waarschijnlijk ook van veel andere landen.
Saudiërs dreigen impliciet met aanslagen
In de aanloop naar de Winterspelen gebeurde er iets heel belangrijks. Prins Bandar bin Sultan, de minister van Inlichtingen van Saudi Arabië, bezocht in augustus vorig jaar Putin, en gaf hem de boodschap dat zijn land weliswaar geen terreuraanvallen op Sochi zal steunen, maar dat de Saudi's wel in staat zijn om onder bepaalde voorwaarden de plannen van terroristen te stoppen.
Dit was niets anders dan indirecte chantage. De Saudi's zijn namelijk mordicus tegen de Russische steun voor de Syrische president Bashar Assad, en hoopten met het impliciete dreigement eventuele geplande terreuraanslagen op Sochi niet te zullen stoppen, Putin zover te krijgen zijn politieke en militaire steun voor Assad op te geven.
Aan de ene kant zal Putin bepaald niet blij zijn geweest met het Saudische dreigement. Aan de andere kant biedt het hem een uitstekende gelegenheid en een perfect alibi om een eventuele aanslag tijdens Sochi ten volle uit te buiten, om zo de strategische positie van Rusland in het Midden Oosten fors te versterken.
Arabische Lente door Westen gepland
Zoals we al vaak hebben schreven is Syrië van groot strategisch belang voor Rusland. Het Westen probeert onder leiding van president Obama het regime Assad ten val te brengen, zodat er net als destijds in Egypte een Moslim-Broederschapregering kan worden opgezet. De wereld heeft tegelijkertijd kunnen zien hoe de doelbewust door het Witte Huis veroorzaakte Arabische Lente diverse moslimlanden in chaos heeft gestort, iets dat Putin in Syrië ten koste van alles wil voorkomen, omdat hij dan een belangrijke bondgenoot kwijtraakt.
Dat de Arabische Lente geen spontane volksopstand was, maar ruim van tevoren door het Westen was gepland, bleek onder andere uit een gelekte email van 1300 woorden, die op 8 juni 2008 door de voormalige Britse ambassadeur in Libië aan premier Tony Blair werd verzonden. Hierin werd reeds het later uitgevoerde plan besproken om de Libische leider Muammar Gadaffi af te zetten, en te vervangen door een islamistisch marionettenregime.
Na het verwijderen en laten vermoorden van Gadaffi werd het Amerikaanse consulaat in Benghazi gebruikt als CIA-basis voor het doorsluizen van grote hoeveelheden wapens naar de Syrische rebellen. Dat was de reden dat de regering Obama weigerde toe te geven dat de aanval op het consulaat op 9/11/13, waarbij onder andere de Amerikaanse ambassadeur om het leven kwam, een terreuraanslag was, die hoogstwaarschijnlijk door de Russen werd gesteund.
Net geen Derde Wereldoorlog in september 2013
Wat eveneens niet in het nieuws kwam, was dat de wereld in september 2013 slechts op een haartje na aan de Derde Wereldoorlog is ontsnapt. Destijds hebben we uitgebreid bericht over de toen zeker lijkende Amerikaanse aanval op Syrië, en ook over de grote Russische vloot die naar het oosten van de Middellandse Zee werd gestuurd. Later bleek uit betrouwbare bronnen dat Putin zijn vloot tussen de Amerikaanse vloot en Syrië posteerde, en letterlijk dreigde alles wat op Syrië zou afvliegen neer te schieten. Hierop besloot Obama om de Amerikaanse vloot terug te trekken en de aanval af te blazen.
Daarnaast speelt ook de invloedrijke terreurgroep ISIS (Al-Qaeda op het Arabische Schiereiland) een steeds grotere rol. Putin weet dat ISIS door het Westen wordt gesteund, en nieuwe aanvallen op het regime van Assad voorbereidt. De VS laat dit doelbewust gebeuren en heeft bij monde van minister John Kerry aangekondigd niet militair te zullen optreden tegen ISIS.
Russisch ingrijpen in Midden Oosten?
Het Saudische dreigement aan het adres van Moskou kan daarom voor Putin een uitgelezen, misschien zelfs wel onweerstaanbare mogelijkheid zijn om in het geval van een aanslag de Saudiërs, en daardoor ook het Westen en specifiek Obama, de schuld te geven. Obama zal in de ogen van de wereld opnieuw zwak en besluiteloos overkomen, niet bereid om daadwerkelijk op te treden tegen islamitische terroristen.
Putin is een erkende meester in het inspelen op en uitbuiten van geopolitieke veranderingen, en zal bij een aanslag -'echt' of 'false-flag'- dan ook geen enkele moeite hebben zich te presenteren als de enige sterke wereldleider die bereid en in staat is het kwaadaardige islamisme te bestrijden. Het strategische overwicht dat Rusland door ingrijpen in het Midden Oosten zou kunnen bereiken, zou wel eens te aanlokkelijk kunnen zijn voor Putin om aan zich voorbij te laten gaan.
Hoe dat ingrijpen eruit zal zien, is giswerk. Komt er een Russische interventie in Syrië? Een aanval (al dan niet met of via Iran) op Saudi Arabië en/of Israël? Bij een eventuele escalatie in Syrië kan namelijk ook Israël betrokken raken, dat zoals bekend stilzwijgend met Saudi Arabië samenwerkt. Beide landen hebben namelijk het eveneens door Rusland gesteunde Iran, tevens bondgenoot van Assad, als aartsvijand.
Schaakspel Oost - West
Terrorisme is niets anders dan een tactiek die door alle belangrijke wereldspelers wordt aangewend, of dat nu door directe steun met wapens is, of indirect door terreurgroepen ongehinderd hun gang te laten gaan. Achter een eventuele aanslag in Sochi zal dan ook veel meer dan enkel een groepje islamistische fanatici zitten. Zij zullen slechts pionnen zijn in het geopolitieke schaakspel, dat Oost en West ook na de val van de communisme tegen elkaar zijn blijven spelen.
2014 buitengewoon kritiek
Een schaakspel, dat steeds gevaarlijker wordt. Mede gezien de spanningen in en rond Syrië, Iran, Libanon (Hezbollah), Egypte en Israël / de Palestijnen heeft het er namelijk veel van weg dat we in 2014 een buitengewoon kritieke fase ingaan. De kaarten in het Midden Oosten zullen mogelijk al binnenkort opnieuw worden geschud. Daarbij zal er niet veel voor nodig zijn om de huidige, toch al zeer ontvlambare situatie te laten exploderen in een grote regionale oorlog, die misschien wel een op een nieuwe Wereldoorlog kan uitlopen.
Xander
(1) Northeast Intelligence Network
Zie ook o.a.:
19-01: 'Putin dreigt met kernbom op Mekka'
18-01: Atlantische Raad:
Buitengewone crisis nodig om Nieuwe Wereld Orde te redden
12-01: Cauldron (1): Midden Oosten op rand van profetische explosie
2013:
26-11: Zwakke Obama brengt Derde Wereldoorlog dichterbij
14-09: Inlichtingen-insider: Mogelijk alsnog oorlog tegen Syrië door enorme false-flag aanslag
06-09: VS, Rusland en China bereid tot oorlog over Syrië om controle over gas en olie
06-09: Senator Graham waarschuwt voor aanslag met kernbom
31-08: 'Binnenkort mega false-flag om publiek van oorlog te overtuigen'
27-08: Inlichtingen insider: Derde Wereldoorlog begint in Syrië
21-06: DHS-insider (vervolg): Deze herfst chaos in VS en oorlog met Syrië
11-06: DHS-insider: Obama start totalitaire internetcensuur en wereldoorlog
00:05 Publié dans Actualité, Affaires européennes | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : actualité, politique internationale, europe, affaires européennes, russie, jeux olympiques, sochi, terrorisme, moyen orient, arabie saoudite | | del.icio.us | | Digg | Facebook
samedi, 25 janvier 2014
Obama’s Cosmetic Changes for NSA Surveillance Programs
Obama’s Cosmetic Changes for NSA Surveillance Programs
Ex: http://www.strategic-culture.org |
On January 17, 2014 US President Barack Obama gave a 40-minute speech at the Justice Department describing his plans to reshape the intelligence activities of National Security Agency and the whole intelligence community. 8 months have passed since the first revelations by Edward Snowden appeared - this period of time the President needed to prepare and meet the challenge. Hardly willingly, he had to react to the disclosures made public by Edward Snowden. The very fact he had to make the remarks, effectively as a result of the biggest intelligence leak, is remarkable. It shows that Barack Obama had to bow to the pressure exerted by international community opposing the ways the United States intelligence agencies conduct their activities. Though going to the bottom of it, the speech testifies to the fact that no drastic measures are to be taken to reshape the national intelligence system.
The President emphasized two key points. First, the intelligence gathering capabilities are based on technological edge achieved and there is each and every reason to take advantage of it. Second, no way is the process going to be stopped and there is no ground to believe the intelligence activities violate the US citizens’ rights in any way. The scrutiny of the speech makes believe that these are the only things of relevance for the United States administration. The President has signed the 9-page Presidential Policy Directive on Signals Intelligence Activities. Actually there is nothing binding about it. Some provisions could be become parts of legal acts but it’s not a must. The document offers guidelines for intelligence gathering activities instead of a plan for overhauling the National Security Agency’s bulk data collection program to avoid violation of law in future. It requires a real stretch of imagination to say the document addresses the problem. A whole page of the speech was devoted to high-flown statements that the United States «does not collect intelligence to suppress criticism or dissent, nor do we collect intelligence to disadvantage people on the basis of their ethnicity or race or gender or sexual orientation or religious beliefs». It also states that, «We do not collect intelligence to provide a competitive advantage to U.S. companies or U.S. commercial sectors». President Obama announced allegedly substantial overhaul of the Foreign Intelligence Surveillance Court (FISC) functions. What does it mean going into details? The president directed «the director of national intelligence, in consultation with the attorney general, to annually review for the purposes of declassification any future opinions of the court with «broad privacy implications» and to report to me and to Congress on these efforts». There are doubts it will be effectively implemented because the intelligence community interests are the top priority for Director of National Intelligence. As is known John Michael McConnell, the Director of National Intelligence during the days of Bush Jr. administration, was known to be one of the most active lobbyists calling for the overhaul of the Foreign Intelligence Surveillance Act - FISA. A person occupying this position will not apply efforts to bring his initiatives into public view. Even if some of them go to the President or Congress for consideration and approval, it does not mean common people, the citizens, will know about it. Other changes are related to additional protections for activities conducted under Section 702, which allows the government to intercept the communications of foreign targets overseas who have information that’s important for US national security. The issue became especially acute after the Snowden’s disclosures. Specifically, the President asked the Attorney General and Director of National Intelligence to institute reforms that place additional restrictions on government’s ability to retain, search and use in criminal cases communications between Americans and foreign citizens incidentally collected under Section 702. The Presidential Policy Directive itself contains no mention of the Section, it is mentioned only twice in the Foreign Intelligence Surveillance Act amendments. Section 215 of the Patriot Act is to be changed too. It is mainly related to metadata. The President said directly he finds this kind of activities expedient, so they will not be curtailed, although some kind of closer oversight is not excluded. The changes are to take place till the end of March, though, the way the President put it, and there is nothing more than just cosmetical changes that is in store. Barack Obama is to take some steps aimed at enhancing other countries trust in the United States. The President is to direct the Director of National Intelligence and Attorney General to study the possibility of putting foreigners under the same legal protection rules the US citizens enjoy. «People around the world – regardless of their nationality – should know that the United States is not spying on ordinary people who don’t threaten our national security and takes their privacy concerns into account», The President said. This applies to foreign leaders as well. Given the understandable attention this issue has received, the President has made clear to the intelligence community that – unless there is a compelling national security purpose – «we will not monitor the communications of heads of state and government of our close friends and allies». And he immediately added, «While our intelligence agencies will continue to gather information about the intentions of governments – as opposed to ordinary citizens – around the world, in the same way that the intelligence services of every other nation do, we will not apologize because our services may be more effective. But heads of state and government with whom we work closely, on whose cooperation we depend, should feel confident that we are treating them as real partners. The changes the President ordered do just that». To support the work, the President has directed changes to how the government is organized. Senior officials are to be appointed at the White House and State Department to coordinate the activities of government agencies and providing guarantees for American citizens. Summed up, it all up leads to the conclusion that the United States government is not going to curtail its intelligence programs. It believes that the existing technical capability provides a solid ground for their implementation. Nobody in the United States would oversee if the activities were too excessive going beyond the scope of missions the intelligence agencies are tasked with. The very same way the violations of other states legal acts or international law don’t bother the United States a bit – the government believes it has a right to do what it believes to be right according to the rule of the strongest. Hardly is anybody convinced by the words about the US intelligence shying away from surveying foreign leaders, collecting enormous amount of data on the citizens of other countries or that the United States intelligence will face any constrains at all. The Presidential January 17 speech proved the point. The governments of the countries, which cherish hopes to remain active world politics actors, should tackle seriously the problem of information sovereignty. The United States holds a dialogue only when faced by equal force, it ignores anyone it finds to be not strong enough. It strives to establish its supremacy in all commons, this time it is information space its efforts are focused on... |
00:05 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : espionnage, actualité, obama, nsa, services secrets, services secrets américains, politique internationale | | del.icio.us | | Digg | Facebook
vendredi, 24 janvier 2014
La guerre civile froide ?...
La guerre civile froide ?...
par Jacques Sapir
Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com
Nous reproduisons ci-dessous un point de vue de Jacques Sapir, cueilli sur son blog RussEurope et consacré à l'ambiance d'avant-guerre civile qui règne en France en ce début d'année.
La guerre civile froide ?
Les dernières péripéties, pour ne pas dire les galipettes, de François Hollande ont eu tendance à masquer un instant le sérieux de la situation dans le pays en ce début d’année. Il est vrai que notre Président casqué se rendant à la nuit dans le lit de sa blonde rejoue, mais sur le mode dérisoire et un peu ridicule, les grands mythes de l’Antiquité. Le fait que ce lit soit dans un appartement d’une personne liée au gang de la Brise de Mer ajoute ici ce qu’il faut de sordide à la parodie. L’important n’est cependant pas là ; mais l’important existe bien.
On peut se demander si, en France, nous ne vivons pas actuellement les prémices d’une guerre civile. Cette question, en apparence absurde, mérite cependant d’être posée à la vue des événements que l’on a connus ces dernières années. Dans une note datant de l’automne 2012, j’évoquais la possibilité de la crise de légitimité du pouvoir. Nous y sommes désormais. L’année 2014 risque fort d’être marquée par une accumulation de mouvement sociaux dont la convergence mettrait directement en cause le pouvoir. Or, la crise de légitimité a ceci de particulier qu’elle pose directement la question non pas de la politique suivie, que l’on peut en fonction de ces opinions considérer comme bonne ou mauvaise, mais du fait que le pouvoir soit habilité à mener une politique. C’est pourquoi il faut s’attendre à ce que la contestation du pouvoir puisse prendre un tour violent dans le cours de cette année.
En fait, l’exercice du pouvoir, la Potestas, dépend de sa légitimité que lui confère l’Auctoritas. Ces notions, habituelles sous la plume des juristes d’inspiration chrétienne, ne sont pourtant nullement liées obligatoirement à cette sphère. On comprend bien, même intuitivement, la nécessité de séparer la capacité à exercer un pouvoir politique de la légitimité, ou de la justesse, qu’il y a à le faire. Il n’est donc pas nécessaire d’être chrétien, ni même de croire en Dieu, pour remarquer la pertinence de la distinction entre Auctoritas et Potestas.
Cette question est d’habitude passée sous silence, parce que nul ne conteste la légitimité du pouvoir, surtout d’un pouvoir issu d’institutions qui sont en théorie démocratiques. Mais, force et de constater que l’opposition au pouvoir, qu’elle vienne de la droite ou de la gauche, est désormais moins une opposition à ce que fait ce pouvoir qu’un opposition à sa capacité même à faire.
La violence politique, fille de l’illégitimité
La vie politique française est en effet marquée depuis quelques années par une incontestable montée du niveau des affrontements, qu’ils soient verbaux, symboliques, et parfois même physiques. Nous vivons, en réalité, l’équivalent des prémices d’une guerre civile « froide », qui menace à chaque instant de se réchauffer. L’ex-Président, Nicolas Sarkozy, en a fait l’expérience durant son mandat, et en particulier à partir de 2009-2010. Il fut l’objet d’attaques dont le caractère haineux ne fait aucun doute, et qui provenaient – ce fait est à noter – tant de la gauche, ce qui peut être compréhensible, que de la droite. On a mis ces attaques sur le compte du « style » imposé par ce Président, dont les dérapages verbaux et les outrances étaient légions, et qui tendait à ramener toute action, et donc tout mécontentement, à lui seul. Ce n’était pas pour rien que l’on parlait d’un « hyper-président », rejetant – au mépris de la constitution – son Premier ministre dans l’ombre. Cependant, l’élection de son successeur, François Hollande, se présentant comme un Président « normal », n’a rien changé à cette situation. On peut, par ailleurs, s’interroger sur le qualificatif de « normal » accolé à Président. La fonction présidentielle est tout sauf « normale ». Que le style de l’homme puisse se vouloir « modeste » est plausible, surtout après les outrances, et les Fouquet’s et Rolex de son prédécesseur. Mais il faut bien constater que rien n’y fit. L’opinion, jamais charmée par l’homme qui dès son élection n’a pas eu « d’état de grâce » comme les autres Présidents, s’en est rapidement détournée. Le voici au plus bas des sondages, voué aux gémonies sans avoir jamais été encensé. Tout est prétexte, à tort ou à raison, à reproches et critiques. Il se voit désormais contester par certains la possibilité même de gouverner. Comme son prédécesseur, il fait l’objet de critiques dévastatrices parfois même dans son propre camp politique qui vont bien au-delà de sa simple personne. Les mouvements sociaux, qui sont naturels dans un pays et dans une société qui sont naturellement divisés, prennent désormais des dimensions de plus en plus violentes et radicales. Après la « manif pour tous », voici les « bonnets rouges ».
On a dit, et ce n’est point faux, que la présence de la crise, la plus significative que le capitalisme ait connu depuis les années 1930, expliquait cette tension. Mais, même si cette crise est exemplaire, le pays en a connu d’autres depuis les années 1980. Il faudrait, pour retrouver ce même état de tension, revenir à la fin des années 1950 et à la guerre d’Algérie. Mais l’on sait, aussi, que la IVème République était devenue largement illégitime. De même, on explique souvent, et pas à tort, qu’Internet est devenu un lieu ambigu, entre espace privé et espace publique, qui est particulièrement propice à la libération d’une parole autrement et autrefois réprimée. Cette explication, même si elle contient sa part de vérité, ne tient pourtant pas face à la spécificité de la crise française. En effet, les effets d’Internet sont les mêmes dans tous les pays développés. Or, du point de vue de la violence politique, pour l’instant essentiellement symbolique, mais dont on pressent qu’elle pourrait se développer en une violence réelle, il y a bien une différence entre la France et ses voisins. Il faut donc aller chercher plus en amont les sources de cette radicalisation et surtout voir qu’au-delà de l’homme (ou des hommes) – aussi ridicule voire haïssable qu’il puisse être – elle touche à la fonction et au système politique dans son entier. Nous vivons, en réalité, une crise de légitimité.
Cette crise se manifeste dans le fait que l’on conteste non plus la politique menée, ce qui est normal en démocratie, mais l’exercice même de la politique tant par l’UMP que par le PS. Désormais la distinction, largement factice la plupart du temps, entre le pouvoir et le pays réel, devient une réalité. Cette opposition n’est pas sans rappeler celle entre « eux » et « nous » (Oni et Nachi) qui était de mise dans les régimes soviétiques lorsque le système a commencé à se bloquer. Toute personne qui a travaillé sur les dernières années du système soviétique, tant en URSS que dans les pays européens, ne peut qu’être sensible à cette comparaison. La perte de légitimité était, là, liée à la combinaison de problèmes économiques (la « stagnation ») et politiques, dont l’origine vient de l’écrasement du réformisme soviétique à Prague en août 1968.
En France, cette perte de légitimité du système politique et du pouvoir, dont nous voyons les effets se déployer de manière toujours plus désastreuse devant nos yeux, a une cause et un nom : le référendum de 2005 sur le projet de constitution européenne. Les référendums sur l’Europe ont toujours été des moments forts. Contrairement à celui sur le traité de Maastricht, où le « oui » ne l’avait emporté que d’une courte tête, le « non » fut largement majoritaire en 2005 avec 55% des suffrages. Pourtant, ce vote fut immédiatement bafoué lors du Traité de Lisbonne, signé en décembre 2007 et ratifié par le Congrès (l’union de l’Assemblée nationale et du Sénat) en février 2008. De ce déni de démocratie, qui ouvre symboliquement la Présidence de Nicolas Sarkozy, date le début de la dérive politique dont nous constatons maintenant la plénitude des effets. La démocratie dite « apaisée », dont Jacques Chirac et Lionel Jospin se voulaient être les hérauts, est morte. Nous sommes entrés, que nous en ayons conscience ou pas, dans une guerre civile « froide ».
La souveraineté, la légitimité et la légalité
Ce déni a réactivé un débat fondamental : celui qui porte sur les empiètements constants à la souveraineté de la Nation et par là à la réalité de l’État. Ces empiètements ne datent pas de 2005 ou de 2007 ; ils ont commencé dès le traité de Maastricht. Mais, le déni de démocratie qui a suivi le referendum de 2005 a rendu la population française plus réceptive à ces questions. Ceci est aussi dû à l’histoire politique particulière de notre pays. La construction de la France en État-Nation est un processus qui remonte en fait au tout début du XIIIème siècle, voire plus loin. On peut prendre comme événement fondateur la bataille de Bouvines (27 juillet 1214), qui a marqué le triomphe d’un roi « empereur en son royaume » face à ces ennemis, les trois plus puissants princes d’Europe (Othon IV de Brunswick, Jean Sans Terre et Ferrand de Portugal). La culture politique française a intégré ce fait, et identifie le peuple et son État. Plus précisément, le processus historique de construction de la souveraineté de la Nation française n’a été que l’autre face du processus de construction de la communauté politique (et non ethnique ou religieuse) qu’est le peuple français1 . À cet égard, il faut comprendre à la fois la nécessité d’une Histoire Nationale, fondatrice de légitimité pour tous les pays, et le glissement, voire la « trahison » de cette histoire en un roman national. Suivant les cas, et les auteurs, ce « roman », qui toujours trahit peu ou prou l’histoire, peut prendre la forme d’un mensonge (du fait des libertés prises par ignorance ou en connaissance de cause avec la réalité historique). Mais ce mensonge est nécessaire et parfois il est même salvateur en ceci qu’il construit des mythes qui sont eux-mêmes nécessaires au fonctionnement de la communauté politique. Toute communauté politique a besoin de mythes, mais la nature de ces derniers nous renseigne sur celle de cette communauté.
La souveraineté est indispensable à la constitution de la légitimité, et cette dernière nécessaire pour que la légalité ne soit pas le voile du droit sur l’oppression. De ce point de vue il y a un désaccord fondamental entre la vision engendrée par les institutions européennes d’une légalité se définissant par elle-même, sans référence avec la légitimité, et la vision traditionnelle qui fait de la légalité la fille de la légitimité. Cette vision des institutions européennes aboutit à la neutralisation de la question de la souveraineté. On comprend le mécanisme. Si le légal peut se dire juste par lui-même, sans qu’il y ait besoin d’une instance capable de produire le juste avant le légal, alors on peut se débarrasser de la souveraineté2. Mais, sauf à proclamer que le législateur est omniscient et parfaitement informé, comment prétendre que la loi sera toujours « juste » et adaptée ? Ceci est, par ailleurs le strict symétrique de la pensée néoclassique en économie qui a besoin, pour fonctionner et produire le néo-libéralisme, de la double hypothèse de l’omniscience et de la parfaite information3. La tentative de négation si ce n’est de la souveraineté du moins de sa possibilité d’exercice est un point constant des juristes de l’Union Européenne. Mais ceci produit des effets ravageurs dans le cas français.
La question de l’identité
Dès lors, une remise en cause de la souveraineté française prend la dimension d’une crise identitaire profonde mais largement implicite, pour une majorité de français. Dans cette crise, les agissements des groupuscules « identitaires » ne sont que l’écume des flots. Les radicalisations, qu’elles soient religieuses ou racistes, qui peuvent être le fait de certains de ces groupuscules, restent largement minoritaires. Les Français ne sont pas plus racistes (et plutôt moins en fait…) que leurs voisins, et nous restons un peuple très éloigné des dérives sectaires religieuses que l’on connaît, par exemple aux États-Unis.
Mais, le sentiment d’être attaqué dans l’identité politique de ce qui fait de nous des « Français » est un sentiment désormais largement partagé. La perte de légitimité de ceux qui exercent le pouvoir, qu’ils soient de droite ou de gauche, peut se lire comme un effet direct de l’affaiblissement de l’État qui découle de la perte d’une partie de sa souveraineté. On mesure alors très bien ce que la légitimité doit à la souveraineté. Non que l’illégitimité soit toujours liée à la perte de souveraineté. Des pouvoirs souverains peuvent s’avérer illégitimes. Mais parce qu’un pouvoir ayant perdu sa souveraineté est toujours illégitime. Or, la légitimité commande la légalité. On voit ici précisément l’impasse du légalisme comme doctrine. Pour que toute mesure prise, dans le cadre des lois et des décrets, puisse être considérée comme « juste » à priori, il faudrait supposer que les législateurs sont à la fois parfaits (ils ne commettent pas d’erreurs) et omniscients (ils ont une connaissance qui est parfaite du futur). On mesure immédiatement l’impossibilité de ces hypothèses.
Pourtant, considérer que le « juste » fonde le « légal » impose que ce « légal » ne puisse se définir de manière autoréférentielle. Tel a d’ailleurs été le jugement de la cour constitutionnelle allemande, qui a été très clair dans son arrêt du 30 juin 2009. Dans ce dernier, constatant l’inexistence d’un « peuple européen », la cour arrêtait que le droit national primait, en dernière instance, sur le droit communautaire sur les questions budgétaires. Il est important de comprendre que, pour la cour de Karlsruhe, l’UE reste une organisation internationale dont l’ordre est dérivé, car les États demeurent les maîtres des traités4, étant les seuls à avoir un réel fondement démocratique. Or, les États sont aujourd’hui, et pour longtemps encore, des États-Nations. C’est la souveraineté qu’ils ont acquise qui leur donne ce pouvoir de « dire le juste ». Bien sûr, un État souverain peut être « injuste », ou en d’autres termes illégitime. Mais un État qui ne serait plus pleinement souverain ne peut produire le « juste ». De ce point de vue, la souveraineté fonde la légitimité même si cette dernière ne s’y réduit pas.
Ceci permet de comprendre pourquoi il faudra revenir sur ces trois notions, Souveraineté, Légitimité et Légalité, à la fois du point de vue de leurs conséquences sur la société mais aussi de leur hiérarchisation. Ces trois notions permettent de penser un Ordre Démocratique, qui s’oppose à la fois à l’ordre centralisé des sociétés autoritaires et à l’ordre spontané de la société de marché. Il peut d’ailleurs y avoir une hybridation entre des deux ordres, quand l’ordre planifié vient organiser de manière coercitive et non démocratique le cadre dans lequel l’ordre spontané va ensuite jouer. C’est d’ailleurs très souvent le cas dans la construction de l’Union européenne dont la légalité est de plus en plus autoréférentielle. La notion d’Ordre Démocratique assise sur la hiérarchisation des Souveraineté, Légitimité et Légalité aboutit à une critique profonde et radicale des institutions européennes. Mais le problème ne s’arrête pas là. En effet, il nous faut aussi penser ces trois notions hors de toute transcendance et de toute aporie religieuse, car la société française, comme toutes les sociétés modernes, est une société hétérogène du point de vue des croyances religieuses et des valeurs. C’est pourquoi, d’ailleurs, la « chose commune », la Res Publica, est profondément liée à l’idée de laïcité, comprise non comme persécution du fait religieux mais comme cantonnement de ce dernier à la sphère privée. Voici qui permet de remettre à sa juste place le débat sur la laïcité. Cela veut aussi dire que la séparation entre sphère privée et sphère publique doit être perçue comme constitutive de la démocratie, et indique tous les dangers qu’il y a à vouloir faire disparaître cette séparation. Mais, parce qu’il a renié les principes de cette dernière, parce qu’il vit en réalité dans l’idéologie du post-démocratique, notre Président est bien le dernier qui ait le droit de s’en offusquer.
Jacques Sapir (RussEurope, 12 janvier 2014)
Notes :
- On se reportera ici au livre de Claude Gauvart, Histoire Personnelle de la France – Volume 2 Le temps des Capétiens, PUF, Paris, 2013. [↩]
- Maccormick, Neil, Questioning Sovereignty, Oxford, Oxford University Press, 1999 [↩]
- Sapir, Jacques, Les trous noirs de la science économique, Paris, Albin Michel, 2000. [↩]
- M-L Basilien-Gainche, L’Allemagne et l’Europe. Remarques sur la décision de la Cour Constitutionnelle fédérale relative au Traité de Lisbonne, CERI-CNRS, novembre 2009, http://www.sciencespo.fr/ceri/sites/sciencespo.fr.ceri/fi... [↩]
00:05 Publié dans Actualité, Affaires européennes, Politique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : jacques sapir, france, politique, politique internationale, actualité, europe, affaires européennes | | del.icio.us | | Digg | Facebook
La France redécouvre la répression
00:05 Publié dans Actualité, Affaires européennes, Politique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : politique, politique internationale, europe, affaires européennes, france, répression, etat policier, liberté d'expression, liberté d'opinion | | del.icio.us | | Digg | Facebook
Quo vadis Nato?
Quo vadis Nato?
von Hans Christoph von Sponeck
Ex: http://www.zeit-fragen.ch
Menschenrechte, Militäreinsätze, geopolitische Interessen sind drei Schlagworte der Nato, die zu drei gewichtigen Fragen führen:
1. Menschenrechte für wen?
2. Militäreinsätze von wem und in wessen Auftrag?
3. Geht es um geopolitische Interessen oder globalpolitische Entscheidungen?
Nato 1949
Das Washingtoner Abkommen von 1949 (Nato-Vertrag) verlangt die «friedliche» Beilegung von Konflikten und erklärt, dass die geopolitischen Interessen des transatlantischen Bündnisses nicht über die Landesgrenzen der Nato-Mitgliedstaaten hinausgehen! Der Nato-Vertrag weist darauf hin, dass Nato-Staaten das Recht der Vereinten Nationen (die Charta der Vereinten Nationen) als für sie bindend anerkennen und Subsidiarität akzeptieren. Das heisst, Menschenrechte gelten für alle, geopolitische Interessen der Nato-Staaten beschränken sich auf deren Territorium, und Militäreinsätze sind nur dann zulässig, wenn es um die Verteidigung des Nato-Gebiets geht. Einen Vorbehalt der Nato hat es aber trotzdem schon damals gegeben: Die Nato-Staaten sollten entscheiden, ob der Uno-Sicherheitsrat die «richtigen» Schritte unternommen hat. Sollte dies ihrer Meinung nach nicht der Fall sein, würden sie im Sinne des Artikels 5 des Nato-Vertrags handeln – ohne Bezug auf Artikel 51 der Uno-Charta. Hier zeigt sich, dass die Nato-Führung von Anfang an so dachte, wie sie heute handelt! Damit wurde und wird das Monopolrecht des Uno-Sicherheitsrats in Frage gestellt, denn nur er hat das Recht zu entscheiden, ob mit militärischen oder anderen Mitteln einzugreifen ist.
Nato 2013
In den 64 Jahren seit der Gründung der Nato haben sich die internationalen Beziehungen erheblich verändert. Die Nato der 12 Staaten im Jahr 1949 ist 2013 zu einer Nato der 28 Staaten geworden. Die Nato hat sich in diesen Jahren der Hyper-Vernetzung immer mehr als weltweite sicherheitspolitische Einrichtung aufgebaut. «Wir sind bereit, den politischen Dialog und die praktische Zusammenarbeit mit jeder Nation zu führen und weltweit mit Organisationen zusammenzuarbeiten, die ‹unsere› Interessen für friedliche internationalen Beziehungen teilen», heisst es in der Nato-Strategie von 2010.
Weiterhin besteht die Nato darauf, dass es zu ihren Aufgaben gehört, sich mit allen grossen überregionalen Fragen der militärischen und menschlichen (!) Sicherheit zu befassen. Eine erste Priorität in diesem Sinn gehört der Energiesicherheit. US-Senator Lugar ging einen Schritt weiter, als er darauf hinwies, dass die Nato nach Artikel 5 ihrer Satzung militärisch eingreifen kann, wenn der Zugang von Nato-Staaten zu Energiequellen irgendwo in der Welt bedroht ist. Wenn dies geschehen würde, wäre dies ein ernster Bruch internationalen Rechts.
Von einer Nato-Subsidiarität im Rahmen der Vereinten Nationen ist im Jahr 2013 nicht viel übriggeblieben! Entstanden ist ein Netzwerk von 28 Staaten, die durch «Partnerschaften für den Frieden» (Partnerships for Peace/PfP) weltweit verknüpft sind. Eingebunden ist eine Vielzahl von ehemaligen Staaten der UdSSR. Mit Mittelmeer-Staaten gibt es ein Dialog-Abkommen. Durch die sogenannte «Istanbul-Initiative» sind die Staaten Nordafrikas und des Nahen und Mittleren Ostens in die Nato-Agenda eingebunden. Besondere Verbindungen existieren zwischen der Nato und den Golf-Staaten plus Jemen. Eine enge Zusammenarbeit gibt es auch zwischen der israelischen Marine und den Flottenverbänden der Nato. Spezialabkommen hat die Nato mit Singapur, Südkorea, Taiwan, Neuseeland und Australien abgeschlossen. Die zwei grössten Drogen-Produzenten, Kolumbien und Afghanistan, arbeiten mit der Nato zusammen. Grossbritannien hat die noch ihm gehörenden San-Diego-Inseln im indischen Ozean an die USA vermietet. Die dortigen militärischen Anlagen werden von der Nato für Einsätze benutzt.
Die USA versuchen zur Zeit, auch im Namen der Nato, ihre militärischen Beziehungen mit Vietnam, Myanmar und Ost-Timor zu intensivieren. Ähnliches wird im Raum der fünf zentralasiatischen Staaten versucht. In Liberia wurde vor kurzem das von Stuttgart abgezogene «US-Africom» in Monrovia etabliert. Wo es keine Landstützpunkte gibt, ist die Nato meist mit Schiffen der US-Marine vertreten. Strategische Präsenz und eine sichtbare Umklammerung Chinas und Russlands werden immer perfekter. Dass dies ernsthafte Folgen für internationale Beziehungen mit sich bringt, sollte nicht überraschen!
Die Nato-Erweiterung geht einher mit dem nicht erklärten Ziel der Schwächung anderer, besonders von Allianzen wie der Shanghai Organisation für Zusammenarbeit (SCO). «Gladio», die mysteriöse Untergrundorganisation westlicher Staaten, die in den Zeiten des Kalten Kriegs bereits existierte, ist ein Hinweis, mit welchen, auch nichtlegalen, Mitteln vorgegangen wird.
Die Entwicklungen der letzten Jahre zeigen eine sich immer mehr ausweitende, aber auch eine schwächer gewordene Nato. Niederlagen in Afghanistan und dem Irak, ein völkerrechtswidriger Krieg gegen Jugoslawien und eine vom Uno-Sicherheitsrat nicht genehmigte Invasion in den Irak sind zu Meilensteinen der Schwächung der Nato geworden. Der ernste Verstoss gegen die vier Genfer Konventionen und die Haager Landkriegsordnung durch die Misshandlung von Gefangenen in Bagram, Abu Ghraib und Guantánamo sowie die US-Flüge mit Gefangenen zu Geheimgefängnissen, um die Häftlinge in anderen Ländern zu foltern, sind weitere Ursachen für diese Schwächung.
Der Missbrauch der vom Uno-Sicherheitsrat 2011 der Nato überantworteten Schutzverantwortung (R2P) für das Wohlergehen der Zivilbevölkerung in Libyen und die Handlungsweise von einzelnen Nato-Staaten in der Syrien-Krise haben den Widerstand gegen die Nato erheblich gefördert.
Neue Provokationen wie die Aufstellung eines Netzes von Raketenabwehrsystemen in Spanien, Polen, Rumänien, der Türkei und Deutschland sind auf berechtigten Widerstand Russlands gestossen und haben dem Nato-Russland-Rat die Vertrauensbasis entzogen.
Welche Erklärung gibt es für die Entwicklung der Nato 1949–2013?
Die Auflösung der Sowjetunion im Dezember 1991, die entstandene Unabhängigkeit der 12 Sowjet-Republiken und die Auflösung des Warschauer Pakts – zusammen mit der im November 1990 folgenden Unterzeichnung der Charta von Paris für ein neues Europa – waren die grosse Gelegenheit, den Kalten Krieg durch einen warmen Frieden zu ersetzen. Vielerorts wurde von der zu erwartenden «Friedensdividende» gesprochen. Es kam anders. Die Nato entliess sich nicht in die Geschichte, sie suchte vielmehr nach einer neuen Existenzberechtigung.
Die Regierung von George W. Bush und die weiteren neokonservativen Kreise in den USA, beseelt vom Glauben an ein vor ihnen liegendes «amerikanisches Jahrhundert» (Project for a new American Century – PNAC), wollten eine Nato unter Führung der USA beibehalten. Der 11. September 2001 bestärkte die politischen Kreise in Washington darin, den amerikanischen Hegemonialanspruch zu rechfertigen. Diese «PNAC-Psyche», das heisst der Glaube an den Führungsanspruch der USA, existierte parteiübergreifend vor und nach dem Terrorangriff auf das World Trade Center in New York. Die europäischen Nato-Mitgliedstaaten und Kanada waren bereit, als willige Handlanger zu fungieren.
Parallel hierzu hat sich die Nato unter amerikanischer Führung kontinuierlich von einer Verteidigungsallianz zum Schutz derer, die innerhalb der Gemeinschaft leben, zu einer Allianz mit weltweitem Auftrag entwickelt. Die Nato-Strategien von 1991, 1999 und 2010 belegen dies in klarer Sprache, nach dem Motto: Neue Bedrohungen rechtfertigen neue Ansätze. «Die Nato ist weltweit die erfolgreichste politisch-militärische Allianz», hiess es im November 2010, als die neueste Nato-Strategie in Lissabon vorgestellt wurde. Es blieb kein Geheimnis, dass es um die «Sicherheit» und die «Freiheit» der inzwischen auf 28 Mitgliedstaaten angewachsenen Nato ging, und kaum um das Wohl der anderen 165 Uno-Mitgliedstaaten. Wie anders sind die Nato-Satellitenabwehrsysteme in Europa und Asien oder die Nato-Inspektionen von Handelsschiffen in internationalen Gewässern zu erklären? Die Militärübungen der Nato an Krisenschnittstellen wie auf der koreanischen Halbinsel und anderswo sind weitere Beispiele. Es geht um Egoismus und Hybris. Aus diesen Gründen wird die Existenzberechtigung dieser transatlantischen Gemeinschaft von einem Grossteil der restlichen Welt immer wieder in Frage gestellt.
Engste und übermässige Verbindungen («Hyper-Konnektivität») und Vernetzungen auf vielen Ebenen haben zu einer deutlich stärker werdenden Polarisierung in den internationalen Beziehungen geführt, die ihren Ursprung in dem aggressiven Auftreten der Nato hat.
Die weiterhin unipolar denkende Nato sieht sich einer wachsenden multi-polaren Gegenwehr gegenüber. Die Shanghai Organisation für Zusammenarbeit (SCO) und die Organisation des Vertrags über kollektive Sicherheit (OVKS) sind zwei Beispiele von sicherheitspolitischen Allianzen, die auf die Nato-Entwicklung reagieren. «Wir erleben einen fast uneingeschränkten Gebrauch von militärischer Gewalt, der die Welt in den Abgrund des permanenten Konflikts eintaucht!» Dies sind Worte des russischen Präsidenten Vladimir Putin aus dem Jahr 2007.
Seither ist der Konfrontationspegel zwischen der Nato und einer zunehmenden Zahl von Staaten in Asien, Lateinamerika und auch in Afrika sowie dem Nahen und Mittleren Osten weiterhin gestiegen. Die Konflikte mit Libyen (2011) und Syrien (seit 2011), der Krieg gegen die Taliban in Afghanistan und Pakistan (seit 2001) wie auch die US-geführte völkerrechtswidrige Invasion und achtjährige Besetzung des Iraks (2003–2011) haben erheblich zu der Polarisierung der internationalen Beziehungen beigetragen.
Eine gewichtige Rolle haben hierbei die offensichtliche Doppelmoral der Nato, der Egoismus der Allianz, die politische Korruption durch einzelne Nato-Staaten und der wiederholte Verstoss gegen internationales Recht gespielt. Hinzu kommt die bewusste Verbreitung von Falschinformationen durch staatliche Institutionen, um damit die nationale und internationale Öffentlichkeit zu beeinflussen. Hier sei nur eines von vielen politischen Beispielen genannt: der Auftritt von US-Verteidigungsminister Colin Powells am 5. Februar 2003 im Uno-Sicherheitsrat. Im Beisein von Uno-Generalsekretär Kofi Annan, dem Generaldirektor der IAEA Mohamed el-Baradei und dem für Irak-Abrüstung zuständigen Leiter der Unmovic Hans Blix hatte Powell den Auftrag, seiner Regierung die Beweise zu liefern, dass der Irak von Präsident Saddam Hussein im Besitz von Massenvernichtungswaffen war. Dies war eine ernste Irreführung, denn nicht nur Fachkreise wussten, dass der Irak 2003 qualitativ abgerüstet war und keine Gefahr mehr darstellen konnte. Es kam kein Widerspruch aus Nato-Kreisen! Die anwesenden hohen Vertreter der Uno haben durch ihr Schweigen die darauffolgende US-geführte Irak-Invasion indirekt unterstützt und sich somit mitschuldig gemacht.
Grundthesen zu der Frage: Quo vadis Nato?
Nato «Verteidigung»
Das Vorgehen der Nato mit der Vorgabe, die Gemeinschaft müsse sich gegen einen Feind verteidigen, hat häufig mit von der Nato erzeugten Provokationen zu tun. Das heisst, die Ursache für eine Krise ist nicht selten bei der Nato selbst zu suchen. Ein wichtiges Beispiel ist die mit der Nato-Ost-Erweiterung verbundene Anti-Satelliten Initiative der USA. Hier wird die Reaktion, das Symptom, zur Ursache gemacht. Sobald die Nato eine solche Provokation einstellt, wird die «Verteidigung» unnötig!
Globaler Wandel
Die Zeichen mehren sich, dass die Welt sich zügig von einer unipolaren Politik abwendet und ein viel differenzierteres Paradigma für internationale Beziehungen aufnimmt. Dieser Prozess bringt neue Hindernisse für die internationale Zusammenarbeit mit sich, aber auch neue Möglichkeiten. Im Interesse der internationalen Sicherheit, einer friedlichen Entwicklung, der Menschenrechte für alle und besonders der internationalen Vertrauensbildung würde dies bedeuten, dass Allianzen wie die Nato und die SCO ihre engen sicherheitspolitischen Ansätze aufgeben und einer weltumfassenden Zusammenarbeit zustimmen. Eine solche Entwicklung braucht keine Utopie zu bleiben, wenn erkannt wird, dass Gemeinsamkeit der 193 Mitgliedstaaten der Uno die bessere Alternative ist.
Das Kapitel VIII: «Regionale Abmachungen» der Uno-Charta
Die Einbindung der Aufgaben von Allianzen in die Verantwortlichkeit der Vereinten Nationen wird von allen Uno-Mitgliedstaaten akzeptiert. Sie ist daher eine international rechtliche Verpflichtung und sollte nicht einfach als utopisch abgewiesen werden, sondern durch beharrliche Verhandlungen und Uno-Reformdiskussionen weiterhin als Ziel unterstützt werden. Die vorhandenen – und anerkannten – Nato-Kapazitäten könnten als Folge der Einbindung (Subsidiarität) wertvolle Beiträge für Krisenbewältigung und für den Frieden liefern. Den Kampf gegen Kriege im Weltall, Terrorismus, Piraterie, Drogen- und Menschenschmuggel könnte man durch eine Zusammenarbeit im Sinne von Kapitel VIII gewinnen.
Uno-Reform
Die sicherheitspolitische Verantwortung für die globale, regionale und auch lokale Entwicklung liegt beim Sicherheitsrat der Vereinten Nationen, nicht bei der Nato. Strukturschwächen der Uno haben immer häufiger dazu geführt, dass der Sicherheitsrat unfähig geworden ist, diese Funktion auszuführen. Die Syrien-Krise ist ein weiteres gravierendes Beispiel der Unfähigkeit und damit für den Weltfrieden eine gefährliche Realität. An Vorschlägen für grundlegende Reformen fehlt es nicht. Seit über zwanzig Jahren ist Bericht um Bericht zu diesem Thema erstellt worden. Der Völkergemeinschaft hat bisher der politische Wille gefehlt, diese Vorschläge zu überdenken, gezielt zu verabschieden und einzuführen. Dazu gehört in erster Linie die Reform des Uno-Sicherheitsrats. Hier gibt es wertvolle Überlegungen für die angepasste Zusammensetzung des Sicherheitsrats, für den Status der Mitgliedschaft, für das Vetorecht oder das Mehrheitsrecht bei Abstimmungen, Fragen der Subsidiarität von Allianzen wie der Nato usw.
Rechenschaftspflicht
Der Rahmen für internationale Zusammenarbeit wird weitgehend definiert durch die Uno-Charta und durch die zwei Internationalen Pakte für politische, zivile, wirtschaftliche, soziale und kulturelle Rechte. Die Einhaltung dieses aufgezeichneten internationales Rechts ist für alle Staaten, die Mitglieder der Vereinten Nationen sind, und damit auch für die Nato-Staaten, verpflichtend. In der Realität herrscht aber eine Kultur der Straflosigkeit. Entscheidungen im Uno-Sicherheitsrat oder in anderen Gremien, die zu schweren Verletzungen der Menschenrechte geführt haben, bleiben ohne Folgen für die Entscheidungsträger. Die Folgen einer inhumanen, von Nato-Staaten im Uno-Sicherheitsrat durchgesetzten Sanktionspolitik im Falle des Iraks, der Nato-Krieg gegen Jugoslawien, die illegale Intervention im Irak oder der Nato-Einsatz in Libyen sind alle empirisch belegbar. Eine Rechenschaftspflicht ist die Voraussetzung für einen Neuanfang der internationalen Beziehungen.
Der Weg zum Frieden, den die Nato einschlagen sollte, ist bekannt. Sobald die Nato selbst diesen Weg erkennt, wird ein Heilprozess anfangen. •
00:05 Publié dans Actualité, Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : otan, atlantisme, occidentalisme, politique internationale, géopolitique, alliance atlantique | | del.icio.us | | Digg | Facebook
Protest in Kiev, gerechtvaardigd of is er meer aan de hand ?
Protest in Kiev, gerechtvaardigd of is er meer aan de hand ?
Inleiding
Op 21 november 2013 kondigde de Oekraïense president Janoekovitsj aan dat hij het Associatieverdrag met de Europese Unie niet zou ondertekenen. Kort daarna begon de heibel op het Kiëvse Onafhankelijkheidsplein oftewel Maydan. De Westerse media berichtten over tienduizenden boze Oekraïners die de straat opkwamen om te protesteren tegen de president. Deze laatste werd door de manifestanten beschouwd als een 'verrader' die de 'Europese droom' van de Oekraïners had stuk geslagen.
De versie die de Westerse media over de rellen in Kiëv verkondigt, ligt wel eventjes anders.
Foto : zware rellen met pro-EU betogers in Kiev
De inhoud van het Associatieverdrag
In sommige Oekraïense media werd het Associatieverdrag zodanig voorgesteld alsof Oekraïne al dan niet onmiddellijk lid zou worden van de EU. Daar was tot heden helemaal geen sprake van. Zelfs in een verre toekomst zou een volwaardig lidmaatschap onmogelijk blijven. De kansen op effectieve toetreding tot de EU van Turkije liggen veel hoger dan die van Oekraïne. Met de Turken werd wel al over effectieve toetreding gepraat.
Na het ondertekenen van het Associatieverdrag met de EU blijft de vroegere visumregeling tussen beide partijen geldig. Dit wil zeggen dat de Oekraïners, net zoals Russen en andere door de EU ongewensten voor een bezoek of verblijf binnen de EU, moeten blijven voldoen aan de huidige visumverplichtingen. EU-burgers mogen zonder visum dan wel Oekraïne binnen. De massa van Maydan denkt ten onrechte dat ze na het ondertekenen van het Associatieverdrag visumvrij verkeer zullen krijgen binnen de EU.
Het is wel zo dat de Europese markt geopend zou worden voor de Oekraïnse goederen. Maar er is meer wat men niet vertelt. Alle goederen zullen moeten voldoen aan de voorwaarden opgelegd door de EU. Het spreekt vanzelf dat dit de doodsteek wordt voor de kleine Oekraïense boer en Oekraïense tuinders maar ook voor zowat de gehele Oekraïense industrie.
Niet enkel het eindproduct maar ook het hele productieproces van alle geproduceerde goederen – van de komkommer tot de elektronica – moet aangepast worden aan de Europese normen. Zelfs de spoorwegen zullen moeten heraangelegd worden. We spreken hier over toch wel 30.000 kilometer spoorlijnen.
Foto : Oekraïens president Viktor Yanoekovitsj en Russisch president Vladimir Poetin in Moskou.
De totale kost van alle noodzakelijke aanpassingen wordt geschat op 160 miljard dollar. Dit zou moeten gebeuren binnen een termijn die vastgesteld wordt op maximaal 4 jaar. Voor de Oekraïense begroting betekent dit een niet te dragen last. De EU voorziet geen compensaties zoals de Baltische landen en Polen vroeger wel verkregen, en zoals Bulgarije en Roemenië heden wel krijgen.
Het ondertekenen van het Associatieverdrag betekent ondanks het feit dat men niet kan spreken over toetreding tot de EU een totaal verlies van de soevereiniteit van Oekraïne. Het plan voorziet de vorming van een 'Raad van bestuur' met de vertegenwoordigers van de EU en Oekraïne waar de Oekraïners in de minderheid zullen vertoeven en zonder vetorecht. De EU kan aldus alles opleggen wat het wil. De Oekraïners hebben zelfs het recht niet om 'nee' te zeggen.
Rusland en Oekraïne vandaag
Tot op heden geniet Oekraïne van een economisch zeer gunstige voorkeursbehandeling met Rusland. Er zijn nauwelijks invoertaxen en grenscontroles. De ingevoerde goederen ondergaan geen pestcontroles. Tot 40 procent van de Oekraïense productie vindt zijn weg naar Rusland en andere landen van de Douane Unie (een Euraziatische economische Unie bestaande uit Rusland, Wit-Rusland en Kazachtstan waar de soevereiniteit van de landen voor 100% wordt gerespecteerd).
Indien Oekraïne zou toetreden tot het statuut van vazal of nog erger kolonie van de EU, dan is Rusland verplicht de grenzen met Oekraïne te sluiten. Dit zal moeten gebeuren ter bescherming van de Russische interne markt tegen de invoer van goedkope overgesubsidiëerde Europese producten zoals melk. Volgens het associatieverdrag met de EU wordt Oekraïne verplicht de hele markt open te stellen voor alle goederen en producten die zich binnen de EU bevinden.
Een voorbeeld. Overgesubsidiëerde Europese landbouwproducten kosten de helft van dezelfde producten geproduceerd in Rusland. Oekraïne wordt zo een transitland voor goedkope Europese producten richting Rusland omdat Oekraïne in het EU-scenario zowel open grenzen met de EU als met Rusland zal hebben. Dit gaat ten koste van de eigen Russische boeren.
Het verdrag, de NAVO en Rusland
Het ondertekenen van het Associatieverdrag houdt ook in dat Oekraïne verplicht wordt om overal ter wereld aan NAVO-missies deel te nemen. Er bestaat zelfs een clausule om in Oekraïne NAVO-basissen op te richten. Een basis in Kharkov (helemaal ten oosten van Oekraïne, aan de huidige Russische grens) stelt de NAVO-luchtmacht in staat om Moskou binnen de 15 minuten te bereiken. Slechte ervaringen met de NAVO hebben reeds aangetoond dat men niet naïef mag zijn. De NAVO is geen defentiepact. De NAVO valt zonder probleem aan. Dit zagen we o.a. in Servië en in Libië.
Rusland is niet blind, niet doof en niet dom. De Russen beseffen het grote gevaar van een NAVO-basis in de achtertuin. Om geopolitieke en aldus ook om militaire redenen kan zo'n verdrag niet ondertekend worden. Dit verdrag zou op termijn en zware bedreiging vormen voor Rusland met een terechte tegenaanval tot gevolg.
Ieder welgevormd geopolitieker weet dat de EU het Europese verlengstuk is van de NAVO. De meeste EU-landen zijn effectief lid van de NAVO. Het verschil tussen de EU-NAVO en Rusland vindt men terug in een uitspraak van president Poetin : 'Amerikanen hebben geen bondgenoten nodig. Zij willen enkel vazallen. Rusland gaat zo niet te werk'. Wie de Russische buitenlandse politiek kent, weet dat dit klopt.
In deze zaak handelt Rusland als een soeverein land dat uiteraard de belangen van het eigen volk behartigd. Rusland wil ten alle prijze de veiligheid van haar grenzen verzekeren.
Foto : betogers verwelkomen de Russische Zwarte Zeevloot (Sevastopol, Krim)
De Krim maakt heden deel uit van Oekraïne hoewel de Krim historisch steeds Russisch was. De Krim is een cadeautje van Chroetsjov in de jaren '50. Hij schonk de Krim aan een toenmalige Oekraïense leider. Ze dachten toen in termen van het eeuwig bestaan van de Sovjet-Unie. In welke Sovjet-republiek de Krim lag, was toen van geen belang. Na de val van de Sovjet-Unie in 1991 lag de Krim plots in het buitenland. Daar bevond zich toen al een deel van de Russische Vloot. Volgens aangegane verdragen mag de Russische Vloot daar tot in 2017 verblijven op voorwaarde dat er niets maar dan ook niets wordt vernieuwd en gemoderniseerd.
In een Oekraïne als vazal van de NAVO en als kolonie van de EU is in Amerikaanse ogen geen plaats voor de Russische Vloot. Dan wordt deze vervangen door een Amerikaanse vloot. Daarmee krijgen de VS totale controle over de Zwarte Zee. De ultieme Angelsaxische droom van totale omsingeling en opsluiting van Rusland wordt dan werkelijkheid.
Oekraïnekreeg recent een lening van 15 miljard dollar van Rusland. Terug te betalen in stukjes, als het al zover komt. Rusland weet dat de kans groot is dat ze het geld nooit meer terug zien maar dit is ingecalculeerd. Het geld komt in stukjes en brokjes naar Oekraïne want Rusland is niet van gisteren. Bij een pro-westerse machtsovername (putch) stopt de geldkraan.
Oekraïne krijgt nu goedkoop gas uit Rusland. Het contract zit uitgekiend in elkaar. Rusland levert gas aan een normale prijs, de prijs van de wereldmarkt. Maar Rusland heeft voor Oekraïne een clausule met korting toegevoegd waardoor de Oekraïners zeer goedkoop hun huizen kunnen verwarmen. Dit is zeer leuk gedaan door de Russen. Maar er is nog iets. De contracten gelden enkel maar voor drie maanden. Bij een pro-westerse machtsovername (putch) stopt de aanvoer van goedkoop Russisch gas. Het wordt voor de Oekraïners zeer leuk indien ze er aan denken om een spelletje Russen pesten te spelen. Laat ons voor hen hopen dat ze in dat geval goed tegen de kou kunnen.
Foto : betogers tegen NAVO-aanwezigheid in Oekraïne
Leugens rond de protesten
Alle nadelen die het associatieverdrag tussen de EU en Oekraïne met zich meebrengen zoals de kolonisatie van hun land en verlies van zowat alle rechten die een soeverein land bezit, het vernietigen van hun industrie, het vernietigen van het zeker niet slecht sociaal stelsel, worden door de Westerse media en door de betogers verzwegen. Van een leugen meer of minder valt men daar in Kiëv niet meer om.
Het aantal betogers wordt zoals tijdens elke 'revolutie' zwaar overdreven. Er zijn er wel vele maar niet zoveel als de media beweren.
Indien men uitgaat van dagelijks 10.000 betogers en men telt de nodige onkosten die de betogingen met zich meebrengen, zoals voedsel, drank, WC-hokjes, hout voor het vuur, enzovoort, dan worden de onkosten door specialisten berekend op 700.000 dollar per dag. Wie betaalt dit ? Dan spreken we nog niet over de dagvergoedingen die de betogers krijgen. Het kan goed zijn dat niet iedereen geld krijgt om daar in de kou te staan, maar er zijn verschillende bronnen zoals aanwervende websites, waar de betaalde geldsommen staan afgedrukt. Deze websites spreken over het ontvangen een Oekraïens maandloon in ruil voor een week betogen.
Foto : Betogers zwaar betaald om rel te schoppen ?
Rusland blijft opvallend afwezig op het Onafhankelijksheidsplein. Wat doen Victoria Nuland (secretaris assistent voor Europese en Eurazische Zaken (Assistant Secretary of State for European and Eurasian Affairs), John McCain (VS-senator), Michail Saakasjvili (voormalig Georgisch president en opgeleid in de VS), Marko Ivcovic (aanvoerder van de Servische pro-Amerikaanse Bulldozer Revolutie), en liberalen zoals Bart Somers in Kiëv ? Is dat geen rechtstreekse inmenging ? Deze heerschappen maken de Oekraïense 'oppositie' toch wel heel onaantrekkelijk.
Foto : VS-senator John McCain steunt de pro-westerse oppositie. De sponsors worden duidelijk.Rond McCain de verenigde 'oppositie', van liberaal tot uiterst-rechts.
Foto : Marko Ivcovic (aanvoerder van de Servische pro-Amerikaanse Bulldozer Revolutie) in Servië in 2000, nu in Kiev. Dezelfde tactiek : bulldozers.
Niemand spreekt over de 'gevoelens' van de bewoners van Oost-Oekraïne. In het oosten van het land is de haat tegen de betogers zwaar aan het toenemen. Daar is men niet gediend met de schorriemorrie dat Kiev onveilig maakt.
Laatste berichten tonen aan de (betaalde) opstandelingen over zullen gaan tot zeer zwaar geweld om de Berkoet (de elitetroepen van het leger, de Oekraïnse versie van de Spetznas) te dwingen te schieten. En dan is het hek helemaal van de dam.
Foto: betogers provoceren politie met als doel geweld van de ordediensten uit te lokken
Besluit :
Dat een land oppositie heeft die de regering controleert en lastige vragen stelt, is heel normaal voor een democratie. Ware Oekraïense oppositie zou voor niemand een moreel probleem kunnen vormen. Oppositie is een normaal gegeven in een ware democratie.
Elke regering maakt fouten. Ook de Oekraïense regering. Elke regering, elke politieke bestuursvorm heeft te maken met corruptie. Een goede regering tracht de corruptie en andere misbruiken zoveel mogelijk tegen te gaan. Tot daar kan men volgen.
Oekraïne ondergaat wat andere landen ook ondergingen. Amerikaanse sponsors manipuleren de oppositie om zo een vazallenregering in het zadel te krijgen. Dit was zo in Georgië, In Oekraïne voor Janoekovitsj, in Servië vlak na Milojevitsj, in in Irak, Libië, … . In sommige landen hebben de kiezers gemerkt dat de Amerikaanse kwaal erger was dan de situatie ervoor waardoor men opnieuw voor het oude onafhankelijke regime koos (Georgië, Servië, Oekraïne).
De oppositie bestaat uit een vreemd allegaartje van rariteiten. Men vindt er liberalen samen met ultra-nationalisten en zelfs neonazi's. De meeste van de neonazi's zouden ten tijde van het Derde Rijk zelf in een kamp verzeild geraken wegens slecht gedrag. Deze neonazi's zouden in het systeem waar ze voor staan absoluut niet kunnen handelen zoals ze nu in Oekraïne doen.
Het valt op dat deze ultra's zich zo goed kunnen vinden met EU-symbolen en Amerikaanse vlaggen en persoonlijkheden. We weten uit ervaring dat na de revolutie, indien die door hen zou gewonnen worden, de liberalen het zaakje overnemen waarop de ultra's voor de bewezen diensten bedankt zullen worden met een schop onder de kont. Heibel met garantie, noemt zoiets.
Foto: uiterst-rechtse betoger provoceert politie met als doel geweld van de ordediensten uit te lokken
Een Tweede Oranjerevolutie is voor Oekraïne en voor heel Europa geen goede zaak. Geopolitieke aardverschuivingen zullen volgen. Oekraïne lijkt een beetje op België maar dan met een verticale scheidslijn. Oost-Oekraïne is het economisch rendabele deel. Daar ligt ook de Krim. Oost-Oekraïne bezit de meeste grondstoffen van het land. West-Oekraïne, met het russofobe Lvov als centrum, is een deel van het historische Galicië. Galicia is heden een arme streek. Bij een nieuwe pro-Amerikaanse en pro-EU regering zal Oost-Oekraïne zich afscheuren. Er circuleren nu al namen voor dit nieuw land op het net : Novo-Rossiya (Nieuw-Rusland).
De grote winnaar is hoe dan ook Rusland want ofwel blijft heel Oekraïne een vriend van Rusland ofwel Oost-Oekraïne. En dan zou Galicië wel eens aan de EU kunnen hangen. In dat geval heeft de EU er een zeer arme regio bij die opnieuw tonnen geld zal verslinden.
Foto : één van de vele pro-Russische betogingen in Oost-Oekraïne
Oekraïne is het natuurlijke zusterland van Rusland. In de Kiev-Rus begon de geschiedenis van het latere Rusland. Kiev hoort bij Rusland net zoals Kosovo bij Servië hoort en West-Vlaanderen bij Vlaanderen. Het slecht geregelde separatisme van 1991, gebaseerd op grenzen die eigenlijk historisch nooit bestonden, leidt nu naar situaties die onbegrijpelijk zijn. Solzjenitsin sprak over de historische samenhang van Groot-Rusland (Rusland), Klein-Rusland (Oekraïne) en Wit-Rusland. Het is erg om vast te stellen dat broedervolkeren elkaar de das trachten om te doen onder vreemd bevel. Zonder Amerikaanse inmenging was het nooit zo ver gekomen.
Kris Roman, Voorzitter Euro-Rus
Svetlana Astashkina, Medewerker Euro-Rus
Foto : kaart hoe Nieuw-Rusland (onafhankelijk Oost-Oekraïne) er zou kunnen uitzien
00:05 Publié dans Actualité, Affaires européennes, Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : ukraine, politique internationale, géopolitique, russie, europe, affaires européennes | | del.icio.us | | Digg | Facebook
De Carla Bruni à Julie Gayet: les starlettes présidentielles
De Carla Bruni à Julie Gayet: les starlettes présidentielles
par Guillaume Faye
Ex: http://www.gfaye.com
Actrice de catérorie B, mignonne, sympa, et au talent moyen, (rien à voir avec les Adjani, Deneuve, Huppert…), la starlette Julie Gayet, qui n’est d’ailleurs plus toute jeune, a réussi un coup de com magistral pour booster sa carrière : s’afficher comme la maitresse de Flamby, surnom irrévérencieux attribué à M. François Hollande. Devenir la maîtresse d’un homme en vue, surtout s’il est président de la République, voilà qui permet de compenser, par la médiatisation, un talent improbable.
Mais ce qui est intéressant, c’est le parallèle à faire avec M. Sarkozy, l’ennemi juré de M. Hollande. Comme si ce dernier suivait, par une sorte de fatalité tragi-comique, le parcours de son prédécesseur détesté et possible challenger à la prochaine élection présidentielle. Tel un vaudeville qui se répète. Carla Bruni, elle non plus, n’était pas au top niveau de la chansonnette ; mais, mannequin ayant atteint la limite d’âge, elle a réussi à se refaire une santé par l’effet marketing de son mariage avec le président de la République. Calcul réussi : ses prestations ”musicales” et ”artistiques”, qui seraient passées inaperçues si elle avait épousé mon libraire – ou qui n’auraient probablement pas eu lieu – ont recueilli un certain succès. Le marketing est plus fort que le talent et ça ne date pas d’aujourd’hui.
Ces deux charmantes quadras, qui appartiennent à la gamme moyenne/basse du showbiz (comme une Renault Clio par rapport à une Aston Martin Vanquish) ont, avec une certaine intelligence, tenté de grimper dans la gamme supérieure en devenant la favorite du chef de l’État. Bien joué. On verra si ça marche, si Julie Gayet obtient des rôles phare et si Carla Bruni se hisse au niveau de Barbara. Peu probable, mais sait-on jamais ? La médiocrité est parfois compensée par la notoriété.
Celle qui a mal joué son coup, c’est la journaliste moyenne gamme Valérie Massonneau, épouse Trierweiler, qui s’est carbonisée en envoyant son tweet pour soutenir un opposant électoral de Ségolène Royal, par un réflexe de jalousie, gaffe impayable dont elle doit évidemment se mordre les doigts. Valérie, par rapport à Julie et à Carla n’a pas été une bonne courtisane, parce qu’elle a laissé apparaître, par naïveté, son ambition sans les fards nécessaires. Elle n’a sans doute jamais lu Saint Simon et sa chronique du Grand Siècle où le duc explique qu’une courtisane doit cultiver l’impassibilité.
On pourrait comparer, en effet, ces dames aux Pompadour et Du Barry. Mais ça n’a rien à voir. Les maîtresses des rois avaient, comme leur royal amant, du panache. En revanche, les histoires à rebondissement, et parfaitement similaires, des deux PR successifs Sarkozy et Hollande, avec leurs nanas ont un côté petit-bourgeois horriblement banal et vulgaire. Le pire, c’est M. Hollande, avec son casque et son scooter qui va en catimini voir sa chérie. Qui délaisse son épouse pour une première maîtresse et puis largue cette dernière pour une nouvelle courtisane plus jeune et ce, sans savoir gérer la confidentialité de sa vie privée. « Pauvre petit bonhomme ! » comme l’écrit méchamment un grand quotidien américain. L’incapacité totale des services de protection, incapables de repérer un paparazzi et a fortiori un tueur n’a pas tellement d’importance (1).
Ce qui est plus grave, c’est la dévalorisation symbolique du chef de l’État, commencée par M. Sarkozy et aggravée par M. Hollande, dégradant l’un comme l’autre la fonction souveraine. Ce bal des courtisanes, femmes, demi-épouses, maîtresses, étalé sur la place publique est non seulement la risée des médias internationaux mais un très mauvais signal envoyé aux Français.
Bien sûr, il faut respecter l’intimité et la sincérité de chacun, amoureuses, sexuelles et conjugales. Mais quand on est élu chef de l’État français, on n’est plus un citoyen comme les autres. La notion de ”vie privée” n’est plus pertinente. Ou alors, il faut choisir un autre métier. Ni M. Sarkozy ni M. Hollande, dont la ressemblance est au fond assez étonnante, n’ont vraiment compris ce que signifiait être président de la République française. Les courtisanes, elles, l’ont bien compris.
Note:
(1) On ne voit pas très bien qui pourrait vouloir attenter à M. Hollande. Sa vacuité politique est sa meilleure protection. Ce qui explique le relâchement des services de sécurité.
00:05 Publié dans Actualité, Affaires européennes, Nouvelle Droite | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : guillaume faye, nouvelle droite, france, politique, françois hollande, europe, affaires européennes, politique internationale, julie gayet, carla bruni, starlettes | | del.icio.us | | Digg | Facebook
jeudi, 23 janvier 2014
Francotiradores no identificados disparan contra manifestantes en Kiev
Ex: http://www.elespiadigital.com/
Manifestantes han muerto en el centro de Kiev por heridas de bala, según han informado varios medios locales, aunque la policía ucraniana negó que haya empleado armas de fuego en los enfrentamientos que prosiguen desde el domingo pasado. La agencia Liga.Novosti informó -citando a la oposición- que las personas resultaron muertas por disparos de francotiradores ocultos en la calle Grushevski, junto a la sede del Gobierno y escenario de los últimos enfrentamientos. El portavoz del Ministerio del Interior, Serguei Burlakov, ha asegurado que no se puede responsabilizar a la Policía por la muerte de los manifestantes dado que no portan armas de fuego.
La “oposición” de Ucrania amenazó con "atacar" si no se cumplían sus exigencias
Líderes de la oposición ucraniana amenazaron con "pasar a la ofensiva" si el presidente Víktor Yanukóvich no cumple con sus exigencias. "Si el presidente no responde mañana, vamos a pasar a la ofensiva", declaró uno de los líderes opositores, el exboxeador ultra Vitali Klitschko. La violencia la tenían planificada…
Además, el que se ha convertido en una de las cabezas visibles más populares de la oposición instó a los manifestantes a quedarse en el centro de Kiev, defender la plaza de la Independencia (Maidán) y prepararse para una ofensiva policial en su contra.
Otro político opositor ucraniano, Arseni Yatsenyuk, dio a Yanukóvich un ultimátum de 24 horas para responder a sus peticiones.
Una ola de violencia provocada por una nueva “red Gladio” que agrupa a unos dos mil agitadores
Las protestas que sacuden Ucrania desde el pasado noviembre entraron en una fase violenta. El Parlamento endureció las sanciones antidisturbios, mientras que los enfrentamientos entre los manifestantes y la Policía se han cobrado víctimas mortales.
La noche del miércoles un grupo de desconocidos tomó el control de un edifico en la céntrica calle Kreschátik de la capital ucraniana, en el que se encuentra una oficina del canal de televisión municipal Kiev, informó el servicio de prensa del ayuntamiento citando a varios empleados de la cadena.
El número de heridos entre los agentes de seguridad durante los disturbios en Kiev ascendió a 218, según informó la página web del Ministerio del Interior de Ucrania. 99 de ellos tuvieron que ser hospitalizados con lesiones, fracturas, quemaduras, heridas de arma blanca o envenenamiento con sustancias desconocidas.
Los manifestantes construyeron una segunda línea de barricadas en la calle de Grushevski, cerca del hotel Dnepr. Mientras tanto, los neumáticos en llamas bloquean la misma calle en el tramo cercano al estadio del Dinamo de Kiev.
Los dos hombres que habían sido considerados muertos en la calle de Grushevski recibieron heridas de balas: una de calibre 7,62 milímetros de un rifle de francotirador Degtiariov, y otra de calibre 9 milímetros, presumiblemente de una pistola Makárov, informa la cadena Expreso.
Un hombre de 22 años que anteriormente fue declarado muerto por la oposición está vivo, informan los médicos de un hospital de la capital ucraniana. El joven se cayó desde lo alto de la columnata de 13 metros de altura que se encuentra próxima al estadio del Dinamo de Kiev.
La céntrica calle de Grushevski está cubierta de humo negro procedente de la quema de los neumáticos que los manifestantes han traído de todo Kiev. Según la agencia Unian, su objetivo es crear una cortina de humo que dificulte el asalto policial de Maidán, donde se concentran 2.000 personas.
Desalojos, secuestros y agresiones a la población civil por parte de los “manifestantes”
Un vehículo blindado de las fuerzas especiales desmanteló las barricadas de los violentos. Las autoridades de Kiev pidieron a quienes trabajen en el centro urbano que abandonen sus oficinas a las 16:00 (hora local).
Los manifestantes de Maidán se arman con mazas metálicas de fabricación casera. Los agentes de seguridad han encontrado casi 100 mazas en el edificio de la administración capitalina, que los protestantes tomaron durante cierto periodo de tiempo grupos ultras.
"En todos los disturbios en Kiev participan los mismos grupos radicales", afirma un comunicado del Ministerio del Interior ucraniano.
La Fiscalía General de Ucrania denuncia el secuestro de más de 50 personas durante la noche. Según revelan los testigos, los golpearon y llevaron a una dirección desconocida. Según la explicación ofrecida por los fiscales, estos hechos evidencian el crecimiento de la violencia por parte de los integrantes de las agrupaciones extremistas y otras respecto a las fuerzas del orden y la población civil.
La Policía de Kiev empezó a retirar las barricadas en el centro de la capital de Ucrania. A su vez, los manifestantes comenzaron a lanzar piedras y cócteles molotov contra los agentes, obligándoles a retirarse, aunque luego respondieron a los ataques con granadas aturdidoras. Posteriormente, las fuerzas especiales reanudaron el proceso de desmantelamiento.
El primer ministro de Ucrania, Nikolái Azárov, dijo a una cadena de televisión rusa que la información sobre el número de participantes de las protestas antigubernamentales ha sido exagerada por los medios. Por otro lado, la participación en el mitin de los detractores de la integración en la UE está minusvalorada. En el denominado 'Euromaidán', afirmó, "se han reunido tres provincias", mientras que "en el otro Maidán [conocido en la prensa local como 'Antimaidán'] está representada toda Ucrania".
Tres de los hospitalizados en Kiev han perdido un ojo en los enfrentamientos callejeros. A otro se le amputó una mano a consecuencia del traumatismo recibido. Los manifestantes usan palos con punta metálica que repartieron entre ellos los organizadores de la protesta.
"Esas varas son una arma blanca peligrosa que ellos están dispuestos a emplear para herir a los agentes de las fuerzas del orden", afirmó el comunicado difundido por el Departamento de Seguridad Pública de la Policía ucraniana.
Yanukovich llama al diálogo
El mandatario ucraniano pide a la oposición en un comunicado publicado en su página web que se siente a la mesa del diálogo. "Os pido que no respondáis a los llamamientos radicales, todavía no es tarde parar y arreglar el conflicto de forma pacífica", declaró el presidente ucraniano, Víktor Yanukóvich, en un mensaje a los manifestantes antigubernamentales en Kiev.
Injerencia occidental descarada apoyando a los grupos violentos
El Ministerio de Justicia de Ucrania ha expresado su preocupación por los diplomáticos extranjeros que visitan los edificios administrativos tomado por la oposición. "Los manifestantes están preparando cócteles molotov en esos edificios", dijo la ministra de Justicia, Yelena Lukash, llamando a los países europeos a condenar la violencia cometida por la oposición en Kiev.
Las Fuerzas Armadas de Ucrania no participarán en los acontecimientos relacionados con las protestas en Kiev. "Todo el personal militar y todos los equipos se encuentran en sus lugares de emplazamiento permanente", dijo una fuente del Ministerio de Defensa de Ucrania a la agencia Interfax.
José Manuel Durão Barroso, presidente de la Comisión Europea, ha lamentado las víctimas mortales en Ucrania y ha pedido a las autoridades que tomen medidas para controlar la crisis. "Estamos conmocionados por la muerte de dos manifestantes y expresamos nuestras condolencias más profundas a sus familias. Pedimos a todas las partes que se abstengan del uso de la violencia", insistió.
La Embajada de EE.UU. en Ucrania advierte sobre la imposición de Washington de sanciones a quienes hayan usado fuerza contra los participantes de Euromaidán.
"Tenemos información de que todo esto se está estimulando principalmente desde el extranjero", dijo el ministro ruso de Asuntos Exteriores, Serguéi Lavrov, en referencia a las protestas que sacuden Ucrania. "Resulta que estos promotores ni siquiera tienen en cuenta los intereses de la propia oposición ucraniana, ya que intentan incitarla a la violencia".
"Quienes organizan los disturbios están violando todas las normas de comportamiento europeas", dijo el jefe de la diplomacia rusa. "Cuando algo semejante suceda en los países de la Unión Europea, nadie pondrá en duda la necesidad de medidas duras para detener la violencia y los disturbios", agregó Lavrov.
En el mismo sentido se expresó nuestro redactor Gustavo Morales en declaraciones a Rusia Today: http://actualidad.rt.com/video/actualidad/view/117727-ucrania-injerencia-europa-gobierno-militar
El Ministerio de Asuntos Exteriores de Ucrania confirmó la detención en Kiev de un empleado de Radio Liberty que lanzaba "objetos prohibidos" a los agentes policiales. El trabajador de la emisora no se identificó como tal durante la detención ni llevaba distintivos, aseguran fuentes del ministerio.
10:10 Publié dans Actualité, Affaires européennes | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : politique internationale, actualité, europe, affaires européennes, kiev, ukraine, émeutes en ukraine | | del.icio.us | | Digg | Facebook
Hungary asserts its energy independence with South Stream
Hungary asserts its energy independence with South Stream
Ex: http://routemag.com
During recent talks in Budapest, the prime minister of Hungary, Viktor Orbán, and Gazprom’s CEO, Alexey Miller, announced that the construction of South Stream in Hungary will begin in April 2015. “We would like to see a South Stream on the territory of Hungary,” Orbán said. “It’s far better to have it running through the country than bypassing it.” Work completed on a tight schedule is a hopeful sign that both parties are taking their commitment to the project seriously.
Budapest’s decision may be “a final blow” to the delayed Nabucco pipeline, wrote Bloomberg. The Hungarian state secretary for energy affairs, Pál Kovács, was laconic when speaking about Nabucco as a potential alternative: “First of all, the international company <Nabucco> didn’t do everything it could have to ensure the success of this project. I must point out that apparently ten years was not enough time for them to put together a realistic and competitive concept; during that period they just wore everyone out and collected impressive fees and salaries, but after ten years we now have a clearer picture.”
At this point, South Stream is the only viable way for Hungary to solidify its position in the region as a transit power. South Stream Transport Hungary, a 50%-50% joint venture between Gazprom and the state-owned Hungarian Electricity Works (MVM), decided to finish construction in record time. The parties agreed to speed up the design and survey work, as well as the spatial planning and environmental impact assessment for the 229-kilometer-long Hungarian section of the South Stream. The first supplies of Russian natural gas are expected in Hungary as early as 2017. The National Development Ministry of Hungary claimed, “the country’s government will do everything in its power to remove any obstacles either to the realization of the South Stream gas pipeline or to the creation of a solution that is acceptable to all parties.”In other words, the investment environment in Hungary is ripe for development.
Energy cooperation will be definitely high on the agenda during Viktor Orbán’s present visit to Moscow. The two nations are in negotiations to upgrade Hungary’s only nuclear power plant, for which Russia plans to provide a EUR 10 billion loan. However, a significant focus will be on the South Stream project. Development Minister Zsuzsa Németh smoothed the way for the talks. In November at a conference titled “South Stream: The Evolution of a Pipeline,” she declared that all Hungarian energy solutions are developed in accord with the European Union energy policy, in order to ensure strong, long-term partnerships. [1]
Russia enjoys the unique status of being an important strategic partner for Hungary in matters pertaining to energy. In order to speed up coordination and implementation, the Hungarian government has declared South Stream to be a project of special importance to the national economy. In 2008, the then-prime minister, Ferenc Gyurcsány, and Vladimir Putin signed an agreement regarding Hungary’s participation in the Russian pipeline project. And in the summer of 2010, Orbán and his party Fidesz suddenly threw their political weight behind the deal with Russia. The prime minister of Hungary may use harsh rhetoric in his domestic policy, but he seems to understand the importance of taking a multi-pronged approach and diversifying his gas supplies.
Such a deliberate policy is not uncommon in Eastern Europe. South Stream may lack full backing at the EU level, but the most important regional players, such as Austria, see it as a cornerstone of European energy security. For example, Deutsche Welle has noted that Gerhard Mangott, a professor of political science at Innsbruck University and an established policy advisor, views the current critical position of the EU towards South Stream as questionable. According to Prof. Mangott, the South Stream project in fact increases the EU’s energy security. “This isn’t a matter of additional gas and increased dependency on Russia, rather this is an alternative pipeline, which is more modern and robust in type.”
Until very recently the European Commission had no objections to Hungary’s plans for energy independence. In his 2011 speech on South Stream, the EU commissioner for energypromised that “we <the European Commission> will not impose any unreasonable or unjustified level of administrative or regulatory requirements <on South Stream> and will act as fair partners. ”But today the relations between Budapest and Brussels are badly strained. Hungary’s sovereign government has been portrayed in the EU media as the community’s enfant terrible. One can only hope that the European Commission will respect Hungary’s sovereign energy policy, because a competitive approach and a transparent business environment rank high on the EU’s list of free-market values.
In no small measure the EU itself needs Russia’s natural gas to diversify its supplies and obtain clean fuel for its recovering industrial sector. Under such conditions it is counterproductive to burden a project that is in the interest of both parties with unnecessary red tape.Even worse, the bureaucratization (or, rather, eurocratization?) of South Stream seems to correlate with the ups and downs of Brussels’s foreign-policy strategy in Kyiv. As a result, the European Commission changes its bargaining position towards the continent’s largest infrastructure project depending on external political impulses. Is it fair to assume that the “invisible hand” of the European market was offended by failure in Kyiv?
[1] In 2012 Hungary received 5.3 billion cubic meters of natural gas from Russia.
00:05 Publié dans Actualité, Affaires européennes, Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : politique internationale, géopolitique, europe, affaires européennes, hongrie, south stream, gaz, gazoducs, hydrocarbures, europe centrale, mitteleuropa | | del.icio.us | | Digg | Facebook
Naar nieuwe coalities in het Midden-Oosten?
Een nieuwe coalitie, een nieuwe richting, men zou bijna kunnen schrijven: een nieuwe lente! Waarom een ‘Veiligheids-as’? De grote hoeveelheden extremistische en salafistische jihadstrijders in Afghanistan en Irak, maar nu ook in Syrië en andere landen, hebben in elk geval als effect dat een aantal staten, van wie men het niet onmiddellijk zou verwachten, de handen in elkaar slaat om iets aan ‘het probleem’ te doen. Opmerkelijk is de stap wel, omdat het lijkt dat voor de eerste keer sinds decennia de oplossing, de organisatie en de structuur van de aanpak van ‘het probleem’ van binnen de regio zelf zal komen.
Twee vaststellingen tonen aan dat de politieke realiteit een aantal staten tot inzichten brengt. Stilaan komt men er in het Midden-Oosten ten eerste tot het besef dat niemand anders de regio zal komen redden. Ten tweede heeft men kunnen vaststellen dat grote groepen gewapende salafisten zich van geen grenzen wat aantrekken en gewoon overal – van Azië tot in Afrika – desintegrerend op de bestaande staatsstructuren inwerken.
Vier landen willen het militantisme te vuur en te wapen bestrijden, en willen hun staatsgrenzen zo veilig mogelijk houden – de ‘Veiligheids-as’ zou, aldus de waarnemers, kunnen bestaan uit Libanon, Syrië, Irak en Iran. Inderdaad landen met een totaal andere achtergrond, geschiedenis, samenstelling van de bevolking, staten die tot gisteren elkaars vijand waren. Enkele doelstellingen werden intussen geformuleerd: het intact houden van de territoriale integriteit en soevereiniteit, het opzetten van een rigoureuze militaire en veiligheidssamenwerking tegen alle rechtstreekse en onrechtstreekse dreigingen van deze extremisten. En tot slot willen de verschillende leden van de coalitie een gemeenschappelijk politiek wereldbeeld uittekenen dat kan leiden tot samenwerking ook op andere gebieden. Ambitieus? Dat in elk geval.
Nu al lijkt het dat deze coalitie niet anders dan succes kan hebben. De Jordaanse koning Abdoellah heeft vrij sterk bemiddeld in het tot stand komen van de nieuwe eenheid, en ook Egypte zou naar verluidt interesse hebben in de verdere ontplooiing van het project.
Uit de vaststelling dat een nieuwe coalitie in het Midden-Oosten zich aan het vormen is, moet in elk geval ook de conclusie worden getrokken dat de strategie van de VS – eerst Assad doen vallen, en dan pas Al Qaida aanpakken – op een mislukking is uitgedraaid: Assad is niet gevallen, Iran is niet geplooid, Hezbollah blijft zijn ding doen, en Rusland en China stappen ook niet opzij. Syrië zou wel eens het omslagmoment kunnen zijn, omdat een lokaal conflict er uitgroeide tot een regionaal conflict met sterke geopolitieke consequenties. Een conflict ook dat allerlei gewapende groepen Salafistische militanten een unieke opportuniteit bood om met zware wapens in een conflict in te grijpen. De zeer doorlaatbare grenzen in Syrië zorgden voor de rest.
De verliezers van het conflict zouden wel eens de Saoedi’s kunnen zijn. Voor hen ging het erom (aldus toch CIA-directeur Michael Hayden) een Soennitische machtsovername in Syrië te bewerkstelligen, en dit plan dreigt in de vernieling te worden gereden. Voor de Saoedische emirs ging het erom de sharia-rechtspraak in te voeren, en dat zal dus even moeten wachten. En mocht deze nieuwe ‘Veiligheids-as’ succesrijk zijn, en er bijvoorbeeld in slaagt de religieuze extremisten buiten spel te zetten, dat ziet het er helemaal nog minder goed uit voor het politieke gewicht van Saoedi-Arabië.
Om het geopolitieke plaatje van het Midden-Oosten begin 2014 volledig te maken: volgens bepaalde weblogs staat de wereld voor een politieke ommekeer die zijn gelijke nog niet heeft gezien. In een nieuw rapport van het Amerikaanse energieagentschap EIA staat te lezen dat Amerika binnen 3 jaar een recordhoeveelheid olie zal produceren van 9,5 miljoen vaten per jaar. De energieafhankelijkheid van het Midden-Oosten, en met naam van Saoedi-Arabië, die jarenlang het beleid van de VS bepaalde en domineerde, staat op het punt fundamenteel te worden doorbroken. De olie-import naar de VS zou van 40% nu dalen tot 25% in 2016.
Peter Logghe
00:05 Publié dans Actualité, Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : actualité, géopolitique, politique internationale, syrie, moyen orient, levant, proche orient, monde arabe, monde arabo-musulman | | del.icio.us | | Digg | Facebook
mercredi, 22 janvier 2014
Ukraine, Russie, Europe
Ukraine, Russie, Europe
Le Cercle Georges Sorel est le cercle de formation politique et culturelle du réseau M.A.S. Il organise régulièrement des conférences et des débats. Comme le grand philosophe et grand théoricien Georges Sorel, notre cercle entend dépasser les clivages idéologiques pour fonder l'alternative.
|
14:09 Publié dans Actualité, Affaires européennes, Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : actualité, géopolitique, politique internationale, russie, ukraine, europe, affaires européennes | | del.icio.us | | Digg | Facebook
« On ne va pas aller mourir pour du pétrole »
«On ne va pas aller mourir pour du pétrole»
Entretien avec Aymeric Chauprade
Aymeric Chauprade, docteur en sciences politiques, savant de renommée internationale, l’un des spécialistes de pointe de la géopolitique en France, assigne à la Russie un rôle de première importance dans la mise en place du monde moderne. En quoi la croissance de l’influence russe est-elle liée à la renaissance de l’Orthodoxie ? Comment notre pays peut-il aider les chrétiens persécutés du Moyen-Orient ? Comment son rôle particulier est-il lié aux protestations récentes de millions de Français contre le mariage homosexuel ?
C’est là le sujet de notre discussion avec Aymeric Chauprade.
La foi et l’argent
Thomas : qu’est-ce qui attire particulièrement votre attention dans la Russie d’aujourd’hui ?
Aymeric Chauprade : Je comprends pourquoi, pour les Français de ma génération ou même plus jeunes, la Russie est si attirante aujourd’hui, et pourquoi les gens apprennent le russe et déménagent ici pour y fonder leur propre affaire. Ce n’est pas une sorte de phénomène marginal, le flot de ces gens est de plus en plus significatif. Ils ne sont pas, bien sûr, des dizaines de milliers, mais ils sont nombreux. Et ce phénomène est nouveau. Avant, les jeunes gens partaient aux U.S.A., brûlaient du « rêve américain ». Et maintenant, vient le remplacer le « rêve russe ». Et il est lié, à la différence du rêve américain, non aux aspects matériels et financiers, mais ce qui est plus important, à la recherche de soi, en tant qu’homme, à un retour aux sources chrétiennes. Pour la plupart des Européens, qui se réfèrent à leur culture chrétienne, la Russie incarne de plus en plus une sorte de contre modèle de l’Europe, en ce qui concerne les valeurs familiales et spirituelles.
Thomas : C’est étonnant, vous avez, pour un étranger, une idée si flatteuse des Russes…
A.C. : Bien sûr, les Russes participent à la société de consommation comme tous les autres dans le monde entier. Mais tout de même, ici, en Russie, on rencontre chez les gens quelque chose de profond, (peut-être la « mystérieuse âme russe » ?), la conviction que l’argent n’est pas dans la vie la valeur suprême. Et cela est vraiment attirant pour les jeunes Français, ceux du moins qui se trouvent en quête de plus profond que l’élargissement de leurs possibilités matérielles. C’est paradoxal, mais c’est un fait. Je vois d’un côté, en Russie, quelque chose de très proche de la culture américaine : le besoin d’amasser, le désir de déballer son niveau de réussite. Mais d’un autre côté, il y a là quelque chose qu’on ne trouve pas dans la culture américaine : si l’on fait connaissance avec un Russe d’une façon moins superficielle, on s’aperçoit que mise à part la soif de réussite, il y a en lui le désir de se trouver lui-même : « Qui suis-je et pourquoi est-ce que je vis » ? Et à mon avis, cela est directement lié en premier lieu au retour des Russes vers la religion, en partie à l’Orthodoxie. C’est une renaissance religieuse, le besoin de restaurer le lien du présent avec toute l’histoire russe. Je n’idéalise pas, cela plane dans l’air et se sent clairement. C’est seulement une réalité qu’on peut constater.
Thomas : Et que s’est-il donc passé pour que la Russie soit brusquement devenue attirante aux yeux des étrangers sur le plan des affaires ? Qu’est-ce qui a changé ?
A.C. : La façon de considérer la Russie a changé. Quand on disait « la Russie » dans les années 90, on comprenait la mafia. Et cela faisait peur de venir travailler ici et y investir de l’argent, on pouvait tout perdre d’un coup. Mais de telles associations n’existent plus. Les gens ont senti que sur le plan économique, ici, c’était maintenant sans danger. Il existe une différence colossale entre le tableau que tracent de la Russie les médias pro-américains et ce que connaissent de la Russie les analystes économiques. Les premiers considèrent tout ce qui est lié à la Russie d’une façon strictement critique.
Les seconds regardent les choses d’une façon lucide et réaliste et savent qu’en Russie, toutes les conditions sont rassemblées pour y conduire des affaires. J’ai personnellement entendu dire lors d’une conférence au directeur d’une compagnie française très importante : « Avant, nos entrepreneurs allaient en Chine, mais en réalité, personne n’a rien pu y gagner, à part les marques de luxe. Aujourd’hui, les compagnies françaises importantes gagnent beaucoup d’argent en Russie. Celui qui investit ici fait de bonnes affaires ».
La comparaison avec la Chine est vraiment intéressante. Il y eut en effet la période du boum chinois, les Européens ont pris pied dans le marché chinois, et au début, semblait-il, les bénéfices croissaient à des rythmes extraordinaires. Mais la différence entre les cultures est telle que les gens tombaient dans une véritable frustration et sortaient de ce marché : ils ne parvenaient pas à être « chez eux » dans cette civilisation, ils restaient de toute façon « étrangers » en Chine. Alors que les Russes et les Français, malgré toutes les différences sont en fin de compte très proches.
Thomas : En quoi la renaissance économique du pays est-elle liée au retour des Russes vers la religion ?
A.C. : J’ai rencontré des Russes qui sont matérialistes à 100 %. Mais j’ai aussi rencontré personnellement ceux qui gagnent beaucoup d’argent mais se souviennent qu’il y a quelque chose de plus grand que l’argent, par exemple le salut de l’âme. Ces entrepreneurs qui sont loin d’être pauvres décident à un certain moment de dépenser une partie (parfois importante) de l’argent gagné pour financer des projets liés à l’Église, à l’éducation, à l’illumination, afin que les gens viennent à la foi en Dieu. C’est à mes yeux très important. À ce propos, cela existe aux U.S.A., dans les milieux protestants. En France, justement, cela nous manque beaucoup, peu de gens qui, ayant gagné beaucoup d’argent voudraient l’affecter à la cause de la renaissance de la religion et des valeurs spirituelles. De mon point de vue, c’est la maladie gravissime de l’Europe Occidentale contemporaine.
Rattraper et dépasser l’Occident ?
Thomas : Quelles sont vos impressions personnelles de votre participation au club de discussion « Valdaï » en septembre 2013 ?
A.C. : Honnêtement, j’en garde des sentiments mitigés. D’un côté, j’ai été impressionné par le niveau du déroulement de l’évènement lui-même, la diversité des experts très intéressants et l’organisation intelligente des discussions. Mais ce qui me troublait d’un autre côté, c’est que la philosophie générale de « Valdaï » est pénétrée de part en part par la vision du monde occidentale et libérale. J’avais l’impression que toute une classe de politiques russes, rassemblés à Valdaï, pas tous mais la majorité, essaie de dépasser l’Occident sur le plan des valeurs libérales. Et ils essaient de le faire de telle manière que la Russie reçoit ces valeurs comme la norme. D’après moi, c’est étrange. La Russie sur le plan spirituel et culturel a toujours suivi son propre chemin historique, et elle a aujourd’hui la possibilité de créer son propre modèle de civilisation sans copier l’Occident. Cela sonnera peut-être comme une provocation, mais quand à Valdaï j’ai entendu certains politiques, j’ai eu l’impression qu’ils se sentaient comme des représentants d’un pays du tiers-monde, et tentaient de toutes leurs forces de se montrer à leur avantage devant l’Occident « civilisé », comme pour dire : « Nous aussi, nous avons le progrès, regardez comme nous sommes libéraux. » Comme s’ils étaient des élèves, et que de l’Occident étaient venus des professeurs qui leur disaient avec condescendance : « Eh bien que voulez-vous, il vous faut encore, bien sûr, travailler à la lutte contre la corruption, à la défense des droits des minorités. Vous avez bien sûr fait des progrès particuliers, mais ce n’est quand même pas suffisant. » Et les savants russes, s’excusant, répondent : « Oui, oui, oui, nous allons essayer, nous allons grandir. » Je considère que la Russie mérite mieux.
Thomas : Mais il y vraiment en Russie de grands problèmes de corruption, tout le monde le sait…
A.C. : Je ne veux pas dire qu’en Russie tout soit rose. Je dis que dans les questions de civilisation et de culture, la Russie a ses réalités historiques, et il n’y a pas de nécessité à l’évaluer toujours sur le fond des pays occidentaux. Il va sans dire qu’en Russie, comme dans tout autre pays, il y a des problèmes. Il faut lutter impitoyablement contre la corruption, Mais soit-dit en passant, elle existe aussi de la corruption en Occident.
Thomas : Est-ce possible ?
A.C. : Le fait est que les critères pour déterminer le niveau de corruption de tel ou tel pays sont établis et installés par des agences occidentales et que d’après leurs estimations, en France, en Allemagne ou aux U.S.A. la corruption, cela va sans dire, ne peut exister. C’est pourquoi je ne prendrais pour preuves leurs estimations qu’en Russie tout va mal qu’avec prudence. J’affirme qu’en Europe, la corruption existe aussi. Peut-être n’est-elle pas aussi voyante, aussi criante, mais elle existe. Elle est seulement cachée, masquée, exprimée d’une autre manière que « Je te donne l’argent, tu me fais le contrat ». Dans le cas de l’Occident, il est plutôt question d’une corruption de l’esprit, du caractère des gens eux-mêmes. C’est une sorte de profonde corruption morale, exprimée en cela qu’on a complètement exclu Dieu de notre vie. Mais personne n’a parlé à Valdaï de cette corruption fondamentale du monde occidental.
Il faut défendre les chrétiens
Thomas : Pourquoi les persécutions de chrétiens au Moyen-Orient sont-elles devenues si cruelles ces derniers temps ?
A.C. : En fait, les chrétiens du Moyen-Orient se trouvent depuis longtemps dans une situation de continuelle pression. La Turquie en est l’éclatant exemple. Au début du XXe siècle, huit pour cent de la population turque était chrétienne, et il est aujourd’hui question de quelques centièmes d’un pour cent. Il n’y a pourtant pas, en Turquie, de persécution physique des chrétiens. En revanche, on interdit l’enregistrement de nouvelles paroisses, et les gens sont obligés de quitter le pays d’eux-mêmes. En un mot, on essaie doucement et en silence d’étouffer le christianisme. Et c’est la situation générale des pays du Moyen-Orient.
Mais il y a une autre tendance, une relation ouvertement grossière et cruelle aux chrétiens. Cette tendance s’est activée particulièrement après la guerre d’Irak. Il faut malheureusement reconnaître que les guerres des U.S.A. dans cette région ont facilité à leur manière l’émergence du fondamentalisme islamique, en particulier sunnite. Que ce soit il y a quelques années en Irak ou aujourd’hui en Syrie, ce sont les mêmes extrémistes sunnites. Ils détruisent les églises, scient les croix, profanent les icônes et, bien sûr, éliminent physiquement les chrétiens, parmi lesquels apparaissent à nouveau de véritables martyrs. C’est pourquoi si le régime du président de la Syrie Bachar el Assad s’effondre, il est tout à fait évident que les persécutions ne feront que s’intensifier. En un mot, ces jeux politiques, cette union entre les U.S.A., la Grande-Bretagne et, à mon grand regret, la France, font les affaires des islamistes fondamentalistes dans leur lutte contre les chrétiens. Je souligne que je ne parle pas de l’islam dans son ensemble en tant que religion mais bien des fondamentalistes, c’est-à-dire d’un groupe particulier de gens aux dispositions guerrières à l’intérieur du monde musulman.
La Russie, dans la situation de la persécution des chrétiens au Moyen-Orient peut jouer un rôle vraiment historique, tout à fait dans le courant de toute l’histoire russe. Car au cours de nombreux siècles, jusqu’à la révolution de 1917, la Russie a été le défenseur assidu des chrétiens d’Orient. Et il est indispensable aujourd’hui, à mon avis, qu’elle redevienne ce défenseur. Il faut que la Russie qui se retrouve grâce au renouveau de l’Orthodoxie, envoie au monde le signal : « Nous sommes un État chrétien et les défenseurs des chrétiens. En dehors des chrétiens d’Orient, nous soutiendrons tous les chrétiens qui s’opposent à l’imposition des principes d’individualisme, au Diktat des minorités, à la légalisation du mariage homosexuel et ainsi de suite. Nous les soutiendrons pour défendre les valeurs traditionnelles ». De la sorte, ce sont précisément les valeurs traditionnelles qui deviendront la principale ressource russe, son principal outil, et feront de la Russie un acteur important de la politique mondiale. J’y crois et m’efforce de promouvoir cette idée de toutes les manières. Et je sais qu’en Russie, beaucoup considèrent que c’est justement dans cette direction qu’il faut avancer : s’engager dans l’éducation, expliquer le christianisme aux gens, pour devenir un État qu’on puisse appeler chrétien de plein droit.
Thomas : Le thème de la persécution des chrétiens est-il évoqué par les médias occidentaux ?
A.C. : Ça dépend. Dans l’ensemble, on peut dire que la tendance est de le minimiser. Mais la situation s’arrange petit à petit, car Internet apparaît comme une puissante source d’information alternative. Les ressources d’Internet rappellent aux principaux média traditionnels, par exemple, à des journaux français tels que Le Figaro ou Libération, l’état réel des affaires. Et quand de pareils médias ne disent rien d’un événement comme l’exécution de chrétiens à Maaloula, ces choses surgissent sur Internet, et les médias ne peuvent faire autrement que de les mettre en lumière. C’est pourquoi la situation évolue. Et de plus en plus de chrétiens en France se rendent compte que les chrétiens au Moyen Orient, par exemple les coptes en Égypte, sont réellement en danger.
La France se réveille
Thomas : En avril 2013, la loi sur le mariage homosexuel est entrée en vigueur en France, ce qui a suscité de massives actions de protestations de la part des défenseurs des valeurs traditionnelles. Qu’en pensez-vous ?
A.C. : Il s’est produit en France un événement d’une importance colossale. Bien sûr, auparavant, s’est produit un regrettable événement : la loi sur la légalisation du mariage homosexuel a été adoptée. La plupart des ministres, les socialistes et les « Verts », ont soutenu et soutiennent le mouvement en ce sens. Chaque jour que Dieu fait, pas à pas, ils s’efforcent avec persévérance de détruire l’aspect chrétien de la France contemporaine. Un exemple tout récent : ils ont promu la proposition de supprimer du calendrier français les fêtes chrétiennes pour les remplacer par des fêtes juives et musulmanes. Mais la société réagit quand même. Trois millions de personnes étaient dans la rue pour protester contre la légalisation du mariage homosexuel. Des gens d’âges divers, de bonnes familles, étaient prêts à manifester avec le risque d’être arrêtés, pour dire non à cette loi et défendre la seule conception normale de la famille. Sur ce point, il s’est produit quelque chose de très important. Bien qu’aujourd’hui la vague de protestation ait reflué, elle a enclenché tout un processus, ouvert la voie à tout un mouvement de résistance, comme si un ressort sur la porte s’était tendu sous la pression, la serrure avait été arrachée, et la porte s’était ouverte toute grande. Les gens savent maintenant qu’ils ont une plateforme où ils peuvent se rassembler pour défendre les valeurs familiales traditionnelles. En outre, il y a aussi d’autres directions de « combat » : la question de l’immigration, la question de l’islamisation etc. Je suis persuadé que nous assistons à un processus très important : le réveil des Français. Bien que pour parler d’une façon imagée, les forces du mal soient de toute façon très puissantes.
Thomas : Beaucoup sont persuadés que le mouvement pour la défense des valeurs traditionnelles doit prendre une dimension internationale. Que pensez-vous, sur ce point, d’une collaboration entre le France et la Russie ?
A.C. : C’est justement là-dessus que je m’efforce de travailler. C’est le thème qui m’occupe en permanence. Je suis persuadé que personne ne gagnera dans la solitude. C’est comme la lutte avec le nazisme; la menace était si forte qu’on ne pouvait la contrer qu’en s’unissant, et ce n’est pas par hasard que la Russie a trouvé un allié dans la Résistance française. Nous avons aujourd’hui devant nous une nouvelle forme de totalitarisme. Il n’est extérieurement pas aussi évident, il est masqué, il ne porte pas de casque militaire, mais c’est bien un totalitarisme, quoique rampant, on impose aux gens les valeurs libérales, on met en doute les concepts traditionnels de dignité de la personne, on pousse l’homme à se révolter contre Dieu, et en ce sens, le nouveau totalitarisme revêt des traits vraiment sataniques. Il faut opposer à ce totalitarisme une puissante résistance. Et si la Russie se déclare un État chrétien, et le défenseur des valeurs chrétiennes, cela deviendra justement une réponse, et la création d’un contre-modèle à ce que l’on impose aux gens en Occident. On le leur impose précisément. Je ne considère pas, par exemple, que la légalisation du mariage homosexuel réponde à une position sincèrement motivée des gens ordinaires dans les pays d’Europe. Non, c’est celle de la minorité au pouvoir qui cherche à imposer ses critères au peuple : ils ont fabriqué la théorie du genre qui « fonde » la légalisation des mariages homosexuels. Je suis sûr que les Européens de base eux-mêmes, comme d’ailleurs les Américains, n’en veulent pas. Et si on leur propose un contre modèle, ils l’adopteront. La Russie, en collaboration avec d’autres pays et organisations sociales qui soutiennent la famille traditionnelle peut le réaliser.
Thomas : Mais pourtant, comme les informations nous l’ont appris, bien que trois millions de Français soient sortis dans la rue, pas moins de 60 % de la population française, c’est-à-dire la majorité, soutenaient cette légalisation du mariage homosexuel. Et vous nous dites que ce n’est pas l’avis du peuple…
A.C. : Il faut parler ici de la logique de l’histoire de l’humanité en tant que telle. La majorité des gens, dans n’importe quel pays à n’importe quelle époque est malheureusement passive. C’est seulement un fait historique. Cela concerne n’importe quel peuple. Cela signifie que si un gouvernant inculque le mal, le peuple le reçoit et suit le mal. Si le gouvernant fait le bien, le peuple l’accepte et suit le bien. Cela ne signifie pas que la société est stupide, pas du tout. Simplement la plupart des gens vit au quotidien, s’occupe de ses affaires au jour le jour. Ce n’est pas mal, ce sont de bonnes gens qui éveillent en moi personnellement une vive sympathie. Mais on ne peut pas les appeler des citoyens conscients, on ne peut pas dire qu’ils réfléchissent à ce qui se passe dans leur État. C’est toujours une minorité qui est consciente, dans la société, et qui se bat et s’oppose. Elle va se battre, par exemple, pour la liberté de l’homme, ce qui, en fin de compte, veut dire la lutte pour le triomphe d’une vérité chrétienne. Ce schéma est valable pour toutes les sociétés. Rappelez-vous la Résistance française, dont les participants étaient bien sûr en minorité. Et même en U.R.S.S., il y eut de la même manière le mouvement des dissidents qui résistaient au régime soviétique, et pourtant les Soviétiques en majorité n’étaient pas des partisans du régime déterminés, la majorité simplement se taisait, nageait dans le sens du courant. Je le répète, telle est la philosophie de l’histoire. C’est la minorité active qui fait l’histoire, et la question est seulement de savoir quel choix elle va faire, dans le sens du bien ou dans celui du mal.
Thomas : N’êtes-vous pas seul de cet avis parmi vos collègues en France ? Le fait est que beaucoup généralisent, affirmant : « On considère en Occident… » Comme si l’Occident était quelque chose d’homogène, où l’avis des gens est unifié, et où les experts isolés, par exemple vous-même, vous êtes plutôt l’exception à la règle, le vecteur d’un avis marginal sur les choses. En quoi cela correspond-il à la réalité ?
A.C. : Je trouve important de le dire en Russie, dans une interview pour une publication russe. La réalité objective est la suivante : la majorité des gens en Occident ne réfléchit pas aux questions dont nous parlons maintenant. Et la minorité qui vit et travaille tous les jours avec ces questions se partage en deux groupes : le premier, ce sont ceux qui considèrent l’individualisme général comme la norme, et le deuxième, ce sont ceux qui trouvent indispensable de revenir aux racines chrétiennes. C’est là, je le répète, le tableau objectif. Ce sont ces deux minorités qui créent les partis et les organisations politiques. Ensuite, c’est la question du libre choix des citoyens aux élections. Pour parler de la France, il existe aujourd’hui un parti qui, d’après les analystes, dans un proche avenir deviendra le premier de France par sa popularité, c’est le Front national. Un parti qui se dresse contre le système existant. Ses partisans ne sont pas une minorité, c’est une partie notable des Français qui affirment l’importance des valeurs chrétiennes, la dignité de la personne, le danger de l’islamisation de la France, le refus de participer aux guerres des U.S.A., etc. Il ne convient donc pas de me considérer comme un bien grand original. Non, une grande quantité de gens, en France, raisonnent selon la même logique. Parmi les économistes, parmi les militaires. Si vous pratiquez un sondage chez les officiers, vous verrez que 30 ou 40 % d’entre eux sont disposés envers la Russie de façon très, très positive; beaucoup plus positive qu’envers les U.S.A. J’ai enseigné dix ans à des officiers, j’avais presque trois mille étudiants, je sais de quoi ils parlent et ce qu’ils pensent. Sans conteste, il est parmi eux des « atlantistes » des gens qui sont à cent pour cent pour l’O.T.A.N., qui raisonnent jusqu’à maintenant en termes de guerre froide; soi-disant, « les Russes sont d’affreux communistes ». Mais il y a une part significative d’officiers, particulièrement chez les jeunes, qui raisonnent d’une façon radicalement différente.
Thomas : Vous avez évoqué le parti « le Front national ». En Russie, la tendance est de craindre comme le feu les mots « national », « nationalité » etc. On confond le mot « nationalisme » avec le mot « nazisme ». Et tout ce qui est « national » entraîne une association directe avec fascisme, agression, génocide, camps de concentration, extermination physique des immigrés… Existe-t-il, d’après vous, un nationalisme pacifique et à quoi ressemble-t-il en pratique ?
A.C. : Il existe. L’exemple en est justement le Front national qui s’est déclaré dès le début comme un parti patriotique. Ce n’est pas un parti de nationalistes, si l’on comprend le nationalisme comme un synonyme d’agression. Le parti patriotique s’efforce de conserver le visage historique de la France, défend sa civilisation et sa culture contre les changements du système qui se produisent sous l’influence des étrangers. Il n’a jamais été question de chasser immédiatement du pays tous les immigrés. La question, c’est que le multiculturalisme nuit à la France dans un sens purement démographique, les gens qui sont arrivés des pays arabes et leurs enfants occupent de plus en plus la France et de ce fait, provoquent la guerre civile. Ce que nous voulons, c’est que les étrangers s’assimilent, c’est-à-dire deviennent proprement des Français. Cela peut naturellement être lié à l’adoption du christianisme. Mais pas forcément : celui qui trouve important pour lui de rester dans l’islam doit simplement connaître et accepter la culture française, ne pas obliger sa femme à porter le voile intégral, etc. C’est là le programme du Front national. On n’y trouve pas un mot sur le recours à la force contre les immigrés. En outre, parmi les députés élus à l’assemblée nationale il y a des Arabes, ce que peu de gens savent. Nous pensons simplement qu’une immigration trop abondante nuit à la France. Comme elle nuit à ces mêmes étrangers qui viennent en France
Je suis moi-même partisan du dialogue entre les civilisations. J’ai beaucoup travaillé et enseigné, par exemple au Maroc. J’ai pris parole à l’O.N.U. comme expert du Maroc. J’ai des dizaines d’amis et de collègues parmi les musulmans, je crois en une politique arabe de la France. Les pays arabes sont nos voisins par la Méditerranée. Nous avons d’excellentes relations avec eux. La seule chose que nous devions faire, c’est contrôler les flux migratoires. Car aujourd’hui, cela ne peut pas continuer ainsi. Autrement la société française va tout simplement exploser, parce que la prospérité du gouvernement va s’écrouler, beaucoup de jeunes étrangers viennent en France dans l’espoir de vivre des allocations.
Être ou avoir
Thomas : Vous parlez beaucoup de religion. Dans quelle mesure la religion, en tant que domaine fondamentalement non matériel, peut-être un facteur géopolitique ?
A.C. : La géopolitique comprend au minimum trois choses fondamentales : La première c’est la géographie physique, c’est-à-dire où et comment le pays se situe, qui sont ses voisins, son ouverture sur la mer, etc. La deuxième, c’est la géographie des ressources, le pétrole, le gaz naturel, etc. Et la troisième, c’est la géographie identitaire, comment les gens se voient, quelle est leur identité. C’est relié directement aux conflits ethniques et religieux, car l’identité religieuse est l’une des plus importantes pour l’homme. En ce sens, on peut réduire de façon imagée la problématique de la géopolitique à deux verbes principaux, qui, dans la langue française sont également des auxiliaires qui servent à constituer les temps, le verbe avoir et le verbe être. À travers le verbe être, l’homme définit justement son identité, c’est-à-dire qu’il répond à la question : « que suis-je en cette vie ? » Cela concerne les questions de religion : « je suis chrétien », « je suis musulman », « je suis juif ».
L’identité religieuse a une énorme signification, car elle définit le système de valeurs de cette personne concrète, la façon dont il va percevoir le monde alentour. Et au moment où il se définit et commence à voir le monde précisément comme cela et pas autrement, cela devient un facteur de géopolitique. Car l’homme ne vit pas seul au monde mais en relation avec les autres. En un mot, la religion du point de vue géopolitique n’est pas pour les gens une question de connaissance théologique, ni de vie spirituelle intérieure, mais de recherche de sa propre identité, la tentative de décider « qui je suis » et d’agir en conséquence.
Beaucoup considèrent qu’en géopolitique domine tout ce qui est lié au verbe « avoir » : qui a quelles armes, les ressources naturelles, les technologies etc. C’est bien sûr important, mais ce n’est pas le plus important. Car on ne va pas aller mourir pour du pétrole. En ce sens, c’est le verbe « être » qui occupe la première place : les gens sont prêts à faire la guerre s’ils défendent leur identité, leur vision du monde, ce qui leur est cher.
L’identité religieuse, je le répète, est pour l’homme en un sens la principale, parce que la façon dont voit ses relations avec Dieu, avec l’Absolu, avec les valeurs supérieures, détermine celle dont il va construire ses relations avec tout le reste du monde terrestre.
Thomas : Et quel rôle jouent la religion et la foi dans votre vie ?
A.C. : Je m’intéresse beaucoup à tout ce qui est lié au catholicisme dans le monde contemporain. Mais l’Orthodoxie me fascine, je sens en elle quelque chose d’originel, un christianisme pur qui n’a pas été obscurci, le reflet de la foi des premiers chrétiens. En Occident, nous le savons, ces notions se sont en partie perdues.
Je suis marié, j’ai quatre enfants. Et la religion est pour moi une chose centrale et vitale. Ce qui ne change rien au fait que je suis pécheur, que la force et la profondeur de ma foi sont moindres que je le juge nécessaire. La religion, c’est ce qui permet de rendre plus digne notre façon de vivre et de s’opposer aux séductions du monde, comme par exemple, l’argent et les belles filles, qui sont d’ailleurs très nombreuses en Russie. On ne tient que grâce à la foi, la foi en Celui qui est plus grand que tout cela.
• Propos recueillis par Thomas et mis en ligne sur L’Esprit européen, le 15 décembre 2013.
Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com
URL to article: http://www.europemaxima.com/?p=3581
00:05 Publié dans Actualité, Affaires européennes, Entretiens, Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : politique internationale, ayméric chauprade, europe, affaires européennes, géopolitique, entretien, russie, chrétiens d'orient | | del.icio.us | | Digg | Facebook
La crise Snowden/NSA à la lumière du bavardage de BHO
La crise Snowden/NSA à la lumière du bavardage de BHO
Ex: http://www.dedefensa.org
Le discours de BHO sur les “réformes” de la NSA a évidemment rencontré ce qu’on en prévoyait avant l’intervention. Il est manifeste qu’Obama lui-même autorise, voire organise ces évaluations de sources officieuses mais toutes venues de son équipe, qui précèdent ses interventions. La technique de communication d’Obama se confirme comme constituée en générale d’une prudence qui confine à la pusillanimité et au paradoxe : préparer le public et les divers à un acte aussi pusillanime ne fait que renforcer ce caractère et réduire encore l’impact de l’intervention. On peut envisager que cela reflète aussi bien sa politique, qui est une sorte d’immobilisme enrobé d'une rhétorique fleurie même si les fleurs se fanent, que son caractère d’extrême prudence sinon de détestation de tout ce qui pourrait modifier le statu quo.
Les réactions sont donc à mesure. Ceux (surtout les dirigeants officiels) qui suivent la ligne “langue de bois-Système” courante essentiellement dans le bloc BAO réagissent avec prudence, s’en tenant simplement à une approbation polie des intentions théoriques assorties d’une réserve de type “il faudra voir à l’usage ce que donnent les intentions affichées”. Ceux qui sont ouvertement critiques de sa politique sont confirmés dans leur position, comme Glenn Greenwald qui réapparaît pour la première fois depuis le 31 octobre 2013 (voir le 1er novembre 2013) dans les colonnes du Guardian : ce 17 janvier 2014, Greenwald donne le ton de son appréciation dans les deux premiers paragraphes de son commentaire.
«In response to political scandal and public outrage, official Washington repeatedly uses the same well-worn tactic. It is the one that has been hauled out over decades in response to many of America's most significant political scandals. Predictably, it is the same one that shaped President Obama’s much-heralded Friday speech to announce his proposals for “reforming” the National Security Agency in the wake of seven months of intense worldwide controversy.
»The crux of this tactic is that US political leaders pretend to validate and even channel public anger by acknowledging that there are "serious questions that have been raised". They vow changes to fix the system and ensure these problems never happen again. And they then set out, with their actions, to do exactly the opposite: to make the system prettier and more politically palatable with empty, cosmetic “reforms” so as to placate public anger while leaving the system fundamentally unchanged, even more immune than before to serious challenge.»
Dans les nombreuses choses d’un intérêt moyen et d’une ambiguïté constante qu’a dites Obama, on retiendra celle-ci, dans la forme que présentait le Guardian le 17 janvier 2014. L’argument est certainement le plus ridicule qu’on puisse imaginer, – même si, par extraordinaire, l’affirmation était vraie, il faudrait la laisser de côté tant elle sonne comme une grotesque tentative de faire de cette pseudo-“réforme” le seul effet d’une réflexion personnelle du président des États-Unis ; bref, il s’agit d’affirmer que Snowden n’est pour rien dans cette vaste “croisade réformatrice”, puisque Obama y songeait déjà dans le secret de sa vaste pensée, sorte de whistleblower héroïque et bien plus discret que Snowden (le souligné de gras est du texte original) :
«The president presented the actions of Edward Snowden as coinciding with his own long evolution of thinking on government surveillance. A debate employing “crude characterizations” has played out after “sensational” coverage of the Snowden revelations, Obama said...» Avec un peu de chance dont le système de la communication nous offre parfois l’exemple, il se pourrait qu’un tel détail, confronté à ce que le président fera de sa pseudo-“réforme”, apparaisse comme un des aspects les plus indignes d’un caractère qui le cède souvent à la vanité, et d’une tentative constante et dans ce cas dérisoire de l’administration Obama de détruire l’effet de communication de la crise déclenchée par Snowden. Il se pourrait même que l’idée qu’il recouvre, qui est de tenter de marginaliser Snowden et son rôle, contribue décisivement et officiellement à faire de Snowden l’homme qui a le plus influencé la situation politique à Washington, et nombre de relations diplomatiques de pays étrangers avec Washington, pendant le second mandat d’Obama, jusqu’à peut-être conduire à des bouleversements considérables (d’ici la fin de ce mandat).
On ne s’embarrassera pas de citations et de considérations sur les divers détails du discours du président particulièrement long et fourni, – hommage involontaire à Snowden, quoiqu’il en veuille, – car effectivement on n’en appréciera les conséquences concrètes que sur le terme. L’effet de communication d’une telle intervention existe, quoi qu’il en soit, et il faut qu’il s’estompe avant que nous puissions entrer dans l’essentiel de ses conséquences profondes. C’est plutôt du côté de certaines réactions qu’on pourrait trouver, comme on dit, un peu de “grain à moudre”. On s’attachera à un aspect de ces réactions, après un passage en revue d’un texte du Guardian (le 17 janvier 2014) qui développe ce thème, essentiellement pour l'Europe (essentiellement pour l'Allemagne) et pour le Brésil... (On peut aussi consulter un texte de McClatchy.News du 17 janvier 2014 sur le même sujet des réactions en Europe.)
«Europeans were largely underwhelmed by Barack Obama's speech on limited reform of US espionage practices, saying the measures did not go far enough to address concerns over American snooping on its European allies... [...] Jan-Phillip Albrecht, the German MEP who is steering through the European parliament stiffer rules on the transfer of data to the US, dismissed the White House initiative. “It is not sufficient at all,” he said. “The collection of foreigners' data will go on. There is almost nothing here for the Europeans. I see no further limitations in scope. There is nothing here that leads to a change of the situation.” [...]
»[In Germany,] Norbert Röttgen, a former CDU environment minister who now advises the government on foreign policy, told ZDF television that Obama had failed to meet his low expectations for the speech. “The changes offered by President Obama were more of technical nature and sadly failed to tackle the basic problem: we have a transatlantic disagreement over the weighing-up between security and freedom. It is essential that we develop a dialogue about a mutual understanding of these terms,” he said. [...]
»[In Brasil,] Ronaldo Lemos, director of the Institute of Technology and Society of Rio de Janeiro, said the speech would help to reduce public and government anger towards the US. “I think it paves the way for a better Brazil-US relationship for sure,” said Lemos. “It's positive that Obama is basically saying that the rights of foreigners, non-US citizens are going to be taken into account. According to the speech, there will also be a normative text saying what they will do and won't do in respect to foreign countries.”
»Lemos, one of the authors of pending legislation on internet governance in Brazil, said the speech should be seen as a “very impressive” bid by the US to regain the high ground in the global debate about internet governance. In the wake of the Snowden revelations, he said, the US had lost the initiative in the global debate about the future of the internet, as well as a great deal of trust. Brazil, Germany and other nations used this opportunity to push new rules of internet governance at the UN and other forums. “If you read between the lines in Obama's speech, it is clearly an effort to take back US leadership in regards to civil liberties and internet governenance,” Lemos said. “They want to get back the space they have lost since the Snowden case. For Brazil and Germany, that will be a challenge.”
»Brazil is planning to host a global conference on internet governance in March and has moved to enact a new domestic law – the Marco Civil – setting out the civil rights framework for the internet. But the conference agenda remains unclear and the law has yet to be passed...»
Comme on le voit, le Guardian a fort justement orienté son commentaire sur “les réactions”, sur deux pays, l’Allemagne et le Brésil. Manifestement, ces deux pays forment le cœur du camp adverse de la NSA et des USA dans cette crise Snowden/NSA. Les réactions allemandes sont, au mieux très mesurées et d’une neutralité vigilante, au pire plus que jamais critiques de l’administration Obama, sans rien y voir d’autre que la poursuite d’une position antagoniste, d’un affrontement avec l’Allemagne sur cette question. (La réaction du cabinet Merkel est effectivement selon le ton de prudence et de retenue qu’on signale, mais essentiellement articulé sur la réaffirmation de principes de protection de la vie privée, du respect des lois allemandes qui vont dans ce sens pour ce qui est de l’activité, – in fine, de la NSA, – sur ce territoire, etc.)
Plus intéressantes sont, en un sens, certaines réactions au Brésil, pays qu’on sent pourtant moins “dur” vis-à-vis des USA que l’Allemagne. On veut ici parler de la réaction de Ronaldo Lemos, pourtant presque favorable à l’effet de communication politique que produirait le discours d’Obama. C’est l’interprétation de ce discours qui est intéressante, de la part d’une personnalité décrite par ailleurs comme étant officiellement impliquée dans l’effort brésilien pour mettre en place une sorte d’“indépendance et de souveraineté informatiques”, ou, plus largement, “indépendance et souveraineté” dans le domaine informatique du système de la communication, donc a fortiori dans le domaine du système de la communication lui-même ; de ce point de vue théorique, il y a toutes les chances que Lemos exprime un sentiment général dans la direction brésilienne... Le passage qui nous importe est celui-ci :
Le discours d’Obama est donc, selon Lemos, «...a “very impressive” bid by the US to regain the high ground in the global debate about internet governance. In the wake of the Snowden revelations, he said, the US had lost the initiative in the global debate about the future of the internet, as well as a great deal of trust. Brazil, Germany and other nations used this opportunity to push new rules of internet governance at the UN and other forums. “If you read between the lines in Obama's speech, it is clearly an effort to take back US leadership in regards to civil liberties and internet governenance,” Lemos said. “They want to get back the space they have lost since the Snowden case. For Brazil and Germany, that will be a challenge.”»
Cette interprétation introduite en terme d’autorité, de maîtrise politique et de légitimité (en termes de gouvernement pris dans son sens général, si l’on veut), est une question nouvelle, ouverte par la crise Snowden/NSA. Qu’il soit fait mention de “global governance” sacrifie au langage-Système, mais indique aussi la dimension globale d’affrontement désormais perçue comme telle des questions fondamentales soulevées par cette crise. Malgré les considérations tactiques favorables au discours exposées par Lamos, – “Les Américains font, avec ce discours, un effort considérable pour retrouver leur leadership”, – nous voilà informés que les USA détenaient ce leadership jusqu’ici sans qu’il en soit question ni sans que ce leadership soit contesté, et que ces observations ont l’importance qu’on leur accorde parce qu’en plus il est désormais montré et démontré que ce leadership est bien de nature politique. Ainsi est mis à découvert une vérité de situation fondamentale : il y a bien un problème de leadership mondial, qui s’exprime dans le domaine du système de la communication (informatique, internet, etc.), mais ce leadership était jusqu’ici assuré sans aucune concurrence ni contestation possible par les USA parce que tout se passait comme si l’enjeu politique de ce leadership n’était pas réalisé. Là est donc bien l’essentiel : l’apparition d’un problème politique central, un problème qui n’existait pas parce qu’une domination absolue existait et étouffait jusqu’à la perception qu’elle-même (cette domination) aurait pu constituer l’objet d’un débat ouvert, d’un enjeu, d’une contestation, moins encore d’un affrontement certes. Il ne s’agit pas ici de se perdre dans les détails techniques, avec l’habituelle reconnaissance éblouie de la puissance US qui paralyse toute réaction (c’est cela qui a empêché la réalisation de la dimension politique du débat), mais d’admettre que cette question n’est justement plus technique, qu’elle est devenue politique, et qu’il est ainsi acté dans les conceptions même du gouvernement des choses que le système de la communication est un enjeu de gouvernement et un enjeu pour chaque gouvernement.
...Qu’on le veuille ou non, le problème est posé, et les USA ne parviendront jamais, par définition, à rétablir leur position de domination absolue dans la dimension politique qu’on découvre, simplement selon l’évidence que cette domination n’était absolue que parce qu’elle n’était pas perçue politiquement comme elle l’est aujourd’hui, c’est-à-dire perçue structurellement alors qu’il n’y avait jusqu’ici que des jugements conjoncturels ou de circonstance. (Toujours des jugements techniques essentiellement, lesquels continueront d’ailleurs à être favorables aux USA d’une façon qui tendrait à décourager tout effort politique, et même toute prise de position politique, ce qui est bien la caractéristique du genre. Mais l'importance de ces jugements techniques est désormais secondaire car le politique prime dans les règles du système de la communication, comme en toute chose sérieuse.). La dialectique-Système, sous son habillage de communication, rejette cette notion de “domination absolue” une fois qu’elle est exprimée par le système de la communication selon la référence structurelle politique comme c’est désormais le cas ; par conséquent, la contestation de cette pseudo-“domination absolue” et de son rétablissement est une nécessité imposée par le Système lui-même et qui s’inscrit désormais sur les “agendas” des dirigeants-Système dans les entités qu’on s’entête à nommer encore “nations“ ... Peu nous importe que la NSA nous écoute, ce qu’elle fait depuis si longtemps sans se dispenser des échecs qu’elle connaît et des défecteurs type-Snowden ; peu nous importe le vainqueur de cette pseudo-compétition car le terme “victoire” n’a plus aucun sens aujourd’hui ; nous importent l’effet antiSystème du type “discorde chez l’ennemi” et ses effets fratricides, et la joyeuse formule surpuissance-autodestruction toujours en mode-turbo.
C’est un prolongement capital, qui devrait peu à peu établir ses effets considérables dans les mois qui viennent, qui pèsera de plus en plus sur les relations politiques, y compris et surtout à l’intérieur du bloc BAO. (Il n’est pas interdit de penser à l’Allemagne, bien entendu.) C’est une avancée antiSystème considérable, qui est entièrement due, quoiqu’en pense saint-BHO, à Edward Snowden. C’est une confirmation que la crise Snowden/NSA est bien entrée dans cette troisième phase qu’on signalait comme étant en formation, le 19 décembre 2013.
00:05 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : politique internationale, obama, edward snowden, nsa, services secrets, espionnage, services secrets américains | | del.icio.us | | Digg | Facebook