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jeudi, 12 septembre 2013

L’Occidente allo sbando, l’Occidente ha paura

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L’Occidente allo sbando, l’Occidente ha paura

Mr. Obama se ne faccia una ragione: il declino dell’ “Impero” è cominciato

Fabrizio Fiorini

Ex: http://www.rinascita.eu

Il diritto, interno o internazionale, scritto o consuetudinario, derivante che sia da leggi o trattati, ha nella sua stessa natura la possibilità di essere mutato, abrogato, riformulato, dimenticato, addirittura violato. Se non si fossero cancellate norme, soppresse costituzioni, denunciati trattati, se non vi fossero mai stati questi sovrani atti squisitamente politici, la società umana sarebbe rimasta innaturalmente ferma, immobile, prima di quel dinamismo sociale che la sua essenza storica ha materializzato sotto forma di stravolgimenti sociali, passaggi epocali, rivoluzioni.


Oggi, nell’Occidente dell’ipocrisia e del “dirittumanismo” non è più così. Il diritto resta, immutabile, cristallizzato, divinizzato. Protetto da vecchie cariatidi degli ordinamenti tardo-novecenteschi, da un insopportabile moralismo gauchiste, dalla supponenza indotta di aver finalmente conseguito il migliore dei mondi realizzabili, l’eden della politica e delle relazioni internazionali.


Ma il mondo non aspetta il diritto: in meglio o in peggio che sia, cambia. Non solo: la forza del diritto, nei tempi correnti, si indebolisce, contestualmente al tracollo dell’autorità e della forza delle fucine in cui questo era forgiato, gli Stati,  a vantaggio di poteri più forti ma sovranazionali, a-statali, apolidi. E allora il diritto, legato a schemi oramai preesistenti, viene semplicemente ignorato, relegato all’oblio.


Gli Stati Uniti, lo stato sionista, la Nato, l’Occidente in genere, in ispecie nel campo dei rapporti internazionali, dettano la linea di questa nuova a-giuridica. Sintetizzare in queste poche righe le violazioni del diritto internazionale da loro commesse nel corso degli ultimi decenni è non solo tecnicamente impossibile ma – considerando la “naturalezza” del loro spregio di norme che ad altri impongono con la forza – sarebbe quantomeno grottesco.
Serva, quale unico esempio, quello della guerra alla Jugoslavia del 1999 in cui la Nato trascurò di rispettare non solo una mezza dozzina di principi sanciti dal diritto internazionale ma addirittura ignorò il suo stesso statuto che all’articolo 5 prevede l’utilizzo della forza militare in caso di attacco a una delle nazioni componenti l’Alleanza; eventualità che, chiaramente, era estranea agli eventi balcanici del 1999.


Appurato che per l’Occidente, e segnatamente per gli Usa, per i sionisti, per la Nato, per la Gran Bretagna (e per la rediviva Francia) non rientra nei bisogni primari il rispetto delle disposizioni di legge (figurarsi della volontà popolare) per la messa in atto di imprese belliche e di operazioni armate in qualunque modo camuffate, risulta altamente indicativa l’inversione di rotta di questi mesi, contestualmente alla crisi siriana.


La Gran Bretagna ha abbandonato l’opzione militare in conseguenza di un voto parlamentare ostile. Negli Stati Uniti, per settimane e fino a l’altro ieri, si è parlato di “decisione del Congresso”. Stessa cosa, pur in tono minore, a Parigi. In tutti gli altri Stati satellite del libero Occidente, dall’Italia a Saint Kitts e Nevis, il coro era unanime: aspettiamo l’Onu, sentiamo cosa dice l’Onu, mai senza l’Onu. Proprio quello stesso Onu che era considerato un inutile carrozzone, era vilipeso e deriso ogniqualvolta avesse preso, fino alla guerra all’Iraq del 2003, una pur timida posizione avversa alla fregola bellica USraeliana.
Cosa si cela dietro questo inaspettato “ritorno al diritto”? Un repentino rinsavimento? Una “primavera americana”? No: la paura. Quella paura tipica di che all’improvviso esce dal suo autoreferenziale stordimento e si rende conto di essere stato messo all’angolo. Barack Obama, solo poche settimane or sono, era ancora spavaldo affermando con convinzione: “in Siria faremo come in Kosovo”. Non pensava, il tapino (forse i suoi consiglieri dell’Aipac lo tenevano all’oscuro),  che dal 1999 il mondo è cambiato, e non poco.


La “forza della ragione”, rivelatasi nel corso dei decenni poco efficace per fronteggiare la pervasiva aggressività americana, ha finalmente lasciato il posto alle “ragioni della forza”. Alla sana forza, alla rinascita e al potenziamento di Stati (pensiamo all’Iran, alla Russia, alla stessa Siria ma non solo) capaci di mettere un argine alla nuova “dottrina Monroe” applicata su scala planetaria; che hanno dimostrato che non è la “dottrina della pace” a essere vincente, ma la decisa e forte contrapposizione, l’unica “musica” che entra nelle orecchie di Washington.

 
Per la prima volta nella storia recente, gli Usa si fermano.  Non riescono a celare la loro frustrazione e il loro ridimensionamento neanche alla stampa più allineata, anche gli amici di vecchia data si fanno da parte. Addirittura il ministro Bonino tentenna, il che è tutto dire.
Mr. Obama se ne faccia una ragione: il declino dell’ “Impero” è cominciato. I popoli della terra potranno tirare un sospiro di sollievo, ma non si facciano troppe illusioni: la bestia ferita è capace di tutto.  E Tel Aviv, vedendo i suoi protettori indebolirsi, potrebbe fare di peggio.
 

11 Settembre 2013 12:00:00 - http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=22363

mercredi, 11 septembre 2013

Ten Reasons Why America Does Not Need to Go to War Over Syria

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Ten Reasons Why America Does Not Need to Go to War Over Syria

 

By John Whitehead

Ex: http://www.attackthesystem.com

Every gun that is made, every warship launched, every rocket signifies, in the final sense, a theft from those who hunger and are not fed, from those who are cold and are not clothed. The world in arms is not spending money alone. It is spending the sweat of its laborers, the genius of its scientists, the hopes of its children. ~ Dwight D. Eisenhower

For once, I would love to hear a government official reject a call to war because it is immoral; because we have greater needs here at home that require our attention and our funds; because we’re already $1 trillion poorer due to these endless, mindless wars; because America should not be policing the world; because we refuse to enrich the military industrial complex while impoverishing our nation; because endless wars will never result in peace; because we have meddled enough in foreign policy in the Middle East and cannot risk any further blowback; because we’re sick and tired of fomenting civil wars in far-flung places; because we’re not going to assist rebel fighters in overthrowing a foreign government, only to later unseat those same forces when they can’t be controlled; because using the overused fear tactic about “weapons of mass destruction” doesn’t carry much weight anymore; because the only “compelling national security interest” right now is taking back control of our run-away government; because in the words of Jean-Paul Sartre, “When the rich wage war, it’s the poor who die”; because while there may be causes worth dying for, there are none worth killing for; because Gandhi was right when he asked “What difference does it make to the dead, the orphans and the homeless, whether the mad destruction is wrought under the name of totalitarianism or in the holy name of liberty or democracy?”; because all war is a crime; and because there are never any winners in war, only losers.

Instead, we hear the same sorry lines about “national security interests,” “the costs of doing nothing” and “show[ing] the world that America keeps our commitments” trotted out by those who have either been bought out by the defense industry or are so far removed from war’s terrible consequences—the deaths of innocent civilians, the orphans who must struggle to survive, the soldiers who return home crippled and broken, bearing the physical and mental scars of the battle zone—that the decision to go to war is reduced to little more than policy debates and those directly impacted are little more than pawns on a chess board.

It’s particularly telling that Sen. John McCain, whose meeting with President Obama allegedly persuaded him that blocking the Syria strike would be catastrophic, was caught on camera playing poker on his iPhone during a U.S. Senate Committee on Foreign Relations hearing concerning the use of force in Syria and then laughed it off as an understandable reaction to a three-hour hearing. Or that President Obama, despite the urgency of the Syria “crisis,” departed for the golf course with Vice President Biden 30 minutes after delivering his Syria speech. In other words, it’s business as usual in the Beltway, with all the perks that go along with being part of the political elite that gets to declare war and then sit back and watch while others pay the price.

So, now that we’re fully distracted and have forgotten about Edward Snowden’s damning revelations about the NSA and the fact that the government has been paying AT&T to have its employees monitor Americans’ phone calls as part of a DEA drug monitoring program, not to mention the fact that the IRS has been secretly using the DEA surveillance and then instructing its agents to cover their tracks, what about Syria?

First, make no mistake, whether you’re talking about limited military strikes with no “boots on the ground” as President Obama and Congress are suggesting, or a full-on tactical invasion and occupation, it still constitutes an act of war. For my part, the debate is not over whether President Obama can unilaterally declare war under the Constitution (he can’t), or whether it is Congress’ place to do so, but whether this should be our priority at all.

Second, just as it seemed as if we might be able to bring our troops home and put an end to the $1 trillion hemorrhaging caused by the wars in Afghanistan and Iraq, Obama starts banging the war drums against Syria. No matter what the politicians say about the need for military action to set an example, send a message to terrorists, and show support for our “friends” in Israel and elsewhere, Americans are tired of these endless wars.

Third, we need to get out of the toppling dictators and empowering rebels game. Either we’re not very good at it, or we’re attempting to ensure that there’s always a demand for the weapons we’re so eager to produce and supply to the rest of the world. For example, consider that 40 years ago, we were arming some of the very Afghan rebel troops we’ve been fighting for the past decade with sophisticated weapons. These religious rebels constituted a convenient and useful part of our Cold War strategy against the Soviet Union. In fact, in 1979 Osama bin Laden, a guerrilla warrior for the mujahedeen, fought alongside the CIA to defend Afghanistan against the invading Soviets. Then he moved to the top of our enemies list. Same with Saddam Hussein. Doubtless it will be the same in Syria, where we would be acting in support of al Qaeda-affiliated rebels. Mother Jones magazine reported in a 1999 article that the U.S.—an equal opportunity agent—“has a nasty habit of arming both sides in a conflict, as well as countries with blighted democracy or human rights-records, like Indonesia, Colombia, and Saudi Arabia.”

Fourth, we need to stop letting armament manufacturers dictate our foreign policy. It’s been going on too long, and all we have to show for it is war and more war. Recognizing this, President Dwight D. Eisenhower’s final advice to the incoming President in January 1961 was to beware of the military-industrial complex. The complex had, in effect, encouraged the Cold War arms race and reckless military adventures, which eventually led to the Vietnam debacle. It’s no coincidence that this call for military intervention in Syria, aimed at fattening the defense budget, comes in the midst of automatic spending cuts to the Pentagon—cuts opposed by Obama, the defense industry, and McCain, among others. As The Hill reports: “U.S. military action in Syria could give the White House an advantage in the looming fiscal showdown with congressional Republicans…if strikes against Syria are launched, it will be ‘very, very difficult to insist’ on the defense sequester.”

Fifth, enough with the outrage over the use of weapons of mass destruction, already. Remember, that was the Bush administration’s rationale for attacking Iraq, and it turned out there were no weapons of mass destruction. Moreover, as Foreign Policy reports, when Iraq and Iran were waging war against each other in the late 1980’s, “U.S. intelligence officials conveyed the location of the Iranian troops to Iraq, fully aware that Hussein’s military would attack with chemical weapons, including sarin, a lethal nerve agent.” Even if Syria does possess chemical weapons and used them against rebel fighters, the larger question is who or what supplied them? And why would we circumvent the United Nations in order to set ourselves up as judge, jury and jailer? As a Middle Eastern history professor rightly asked: “Can a government that supported the use of chemical weapons in one conflict claim any moral, political or legal authority militarily to attack another country for using the same weapons, particularly when the attack is not authorised by the UN Security Council?”

Sixth, banging the war drums and continuing to act the bully does little to advance peace or preserve national security. It will definitely result in blowback, however. As Tariq Ali noted in his excellent treatise on the Islamic mind, The Clash of Fundamentalism: Crusades, Jihad, and Modernity (Verso, 2002):

To fight tyranny and oppression by using tyrannical and oppressive means, to combat a single-minded and ruthless fanaticism by becoming equally fanatical and ruthless, will not further the cause of justice or bring about a meaningful democracy. It can only prolong the cycle of violence.

Seventh, we need to stop spending money we don’t have on wars we can’t win which leave us in hock to foreign debt-holders such as China. At roughly $729 billion this past year (which does not include an additional $100 billion in benefits for veterans), the U.S. military budget has skyrocketed out of all proportion. In fact, the U.S. spent more on its military in 2011 than the 13 highest-ranking nations with big defense budgets combined. The Pentagon, whose budget consumes 80% of individual tax revenue, spends more on war than all 50 states combined spend on health, education, welfare, and safety. Consider that the cost of stationing the U.S. military in Afghanistan for one day costs more than it did to build the entire Pentagon.

Eighth, Bob Dylan was right—we are masters of war. Fifty years after 21-year-old Bob Dylan penned his diatribe against war profiteering, “Masters of War,” it continues to ring true in a world armed to the teeth with U.S. government-financed weapons. The United States is the leading international supplier of armaments, some of which inevitably end up in our enemies’ hands, as well as those of terrorists. As William D. Hartung, director of the Arms Trade Resource Center, pointed out in his report, “Welfare for Weapons Dealers: The Hidden Costs of the Arms Trade,” “Domestic economic considerations have emerged as a predominant factor in arms transfer decision making.” In other words, how much money private U.S. companies can make is often the determination in deciding which international agents the U.S. government approves to buy our weapons.

Ninth, our claim to the moral high ground in this Syria discussion is nothing short of hypocritical given our historic use of weapons widely condemned by the global community. As journalist Andrea Germanos reports:

From cluster bombs to depleted uranium to napalm, recent history of U.S. warfare shows a trail of weapons leaving long-lasting civilian harm… According to the Cluster Munition Coalition, from the 1960s to 2006, the U.S. dropped cluster bombs on Laos, Vietnam, Cambodia, Kuwait, Saudi Arabia, Bosnia & Herzegovina, Albania, Yugoslavia, Afghanistan and Iraq.

Napalm was not only widely used by the U.S. during the years of the Vietnam War but also in 2003 during the invasion of Iraq, though it only admitted to having used it in Iraq after irrefutable evidence was out.

The U.S. also used white phosphorus on Iraq and Afghanistan. White phosphorus was used in 2004 during the assault on Fallujah, and the New York Times reported its use as recently as in 2011 in Afghanistan.

And finally, as Albert Einstein recognized, “Nothing will end war unless the people themselves refuse to go to war.” This is not about what Obama wants, or what Congress agrees to—the decision to go to war ultimately rests with the American people. We need to say no to war.

dimanche, 08 septembre 2013

D’UNE EVENTUELLE RIPOSTE RUSSE AU SILENCE DES DEUX PAPES

 

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D’UNE EVENTUELLE RIPOSTE RUSSE AU SILENCE DES DEUX PAPES
 
Par delà des transactions secrètes, quels intérêts pour l'Europe ?


Michel Lhomme
Ex: http://metamag.fr

Un mémorandum "d’action urgente" publié par le bureau du président Poutine aux Forces armées de la Fédération de Russie ordonnerait une "frappe militaire massive" contre l'Arabie saoudite au cas où l'Ouest attaquerait la Syrie . Selon le Kremlin, Poutine serait devenu "furieux" après une réunion début août avec le prince saoudien Bandar ben Sultan, chef des services de renseignement saoudien qui l’aurait averti que si la Russie n'acceptait pas la défaite de la Syrie, l'Arabie saoudite serait acculée à déchaîner les terroristes tchétchènes durant les Jeux Olympiques d'hiver des 7-23 février 2014 à Sotchi, en Russie.
 
Le journal libanais As-Safir a précisé le contexte de cette étonnante menace saoudienne contre la Russie. En fait, le prince Bandar se serait engagé à protéger la base navale russe syrienne (seul débouché méditerranéen pour la marine russe auquel la Russie tient absolument) si le régime Assad était renversé et aurait alors ajouté pour peser un peu plus dans la discussion : "Je peux vous donner une garantie pour protéger les Jeux Olympiques d'hiver prochain car les groupes tchétchènes qui menacent la sécurité des jeux sont contrôlés par nous". Le prince saoudien est même allé plus loin en précisant que les Tchétchènes qui opèreraient en Syrie ne sont qu’un outil de pression temporaire qui pourrait du jour au lendemain sur simple ordre de Riyad être mis à l’arrêt ! "Ces groupes ne doivent pas vous effrayer, aurait déclaré Bandar à Poutine, nous les utilisons dans le cadre du régime syrien mais ils ne joueront aucun rôle dans l'avenir politique de la Syrie.

Le London's Telegraph nous apprend que l'Arabie saoudite a secrètement offert à la Russie, sa participation à un vaste contrat pour contrôler le marché mondial du pétrole et du gaz dans toute la région, mais à l’unique condition que le Kremlin accepte de renverser le régime Assad et donc l’intervention militaire alliée qui se prépare. Quelle a été la réponse de la Russie ? Poutine aurait répondu : "Notre position sur Assad ne changera jamais. Nous pensons que le régime syrien est le meilleur orateur, s'exprimant au nom du peuple syrien, et non pas ceux des mangeurs de foie", faisant ici référence aux séquences de l’été montrant un rebelle djihadiste dévorant le cœur et le foie d'un loyaliste syrien !
 
Il va de soi qu’une riposte russe contre l’Arabie saoudite changerait la donne. Elle clarifierait en tout cas le double jeu américano-saoudien dans la région et mettrait les Etats-Unis au pied du mur de l’instrumentalisation faite depuis des années d’Al Qaïda (« la Base » en arabe). Briser l’Arabie saoudite, déjà actuellement en conflit interne, comme riposte à une attaque syrienne, franchement, très secrètement, on en rêve ! L’Irak  n’a toujours pas retrouvé un équilibre, la Turquie est divisée. Une telle riposte aurait le mérite de clarifier le jeu tordu des Saoud depuis des décennies mais il mettrait aussi très vite face à face Israël et l’Iran. On comprendrait alors que mourir pour Damas n’est qu’un petit préliminaire avant de se retrouver dans quelques années tous à Téhéran ou à devoir assurer la sécurité des boîtes branchées de Tel Aviv ! Poutine mettra-t-il son plan à exécution ? Quels marchandages de gros sous (les avoirs russes sont placés dans des banques américaines) pourraient-ils le faire plier ou sera-t-il après tout, lui l’orthodoxe, le sauveur des Chrétiens d’Orient, le nouveau « roi du monde » ?
 
Il est peut-être temps de clarifier notre position: pourquoi avons-nous toujours été sceptiques et interrogatifs sur le problème syrien ? C’est que contrairement justement à nos dirigeants et à toute la classe politique française, nous parlons en Européens et que pour nous, même si cette identité n’est pas exclusive, loin de là,  notre identité européenne demeure en partie chrétienne. Or, le reniement mercantile des Occidentaux en Orient est d’abord le sacrifice des Chrétiens, des Chrétiens du Liban et de Syrie, des Chrétiens d’Irak, des Chrétiens d’Egypte et de Tunisie. Nous sommes peut-être bénis des Dieux : nous avons deux papes mais pourtant, aucun des deux n’a levé le ton sur la Syrie, aucun des deux papes n’a souligné et posé le sort des Chrétiens de Syrie sur la balance, aucun des deux papes n’a défendu leurs intérêts. François 1er,  si avide de voyages ne devrait-il pas de suite s’envoler vers Damas et se poser là-bas en bouclier humanitaire?

Les Chrétiens de Syrie sont condamnés comme le furent les Chrétiens d’Irak. L’Arabie saoudite, ami des Etats-Unis et de la France s’en réjouit. Il est de bon ton dans les revues chrétiennes et même dans les sermons de justifier l’ingérence alliée au nom de la guerre juste. Pauvre St-Thomas ! C’est cela la moraline, oublier la force du réalisme, ne pas comprendre que comme dans toutes les crises du Moyen-Orient, les Chrétiens seront les boucs émissaires de toutes les rancunes religieuses et ethniques, des cibles faciles, isolées et minoritaires. Déjà, le régime d’Assad ne vient plus à leur aide. Si elle a lieu, l’intervention militaire alliée ne réussira pas à renforcer ou à unifier l’opposition syrienne parce que ce n’est tout simplement pas son but. Son but est de « renverser Assad sans le renverser » c’est-à-dire maintenir en Syrie une sorte de chaos généralisé comme en Irak, en Lybie et dans une moindre mesure au Liban, demain en Egypte. 

Pour les Saoudiens et les Qataris, le prochain gouvernement syrien sera sunnite et les Chrétiens seront immédiatement associés aux « croisés» occidentaux c’est-à-dire aux pires infidèles. Ils ne seront plus alors d’aucune utilité et donc massacrés ou contraints à l’exil forcé comme en Irak. Déjà totalement isolés, les Chrétiens syriens font aujourd’hui face à une rébellion divisée. Au sein de cette rébellion, les Islamistes sont chaque jour plus nombreux. Les Chrétiens ont été depuis le début par une habile propagande saoudienne assimilés au régime, ils sont donc l’une des cibles privilégiées de la rébellion. Largués par les Occidentaux, oubliés par la diplomatie vaticane, les Chrétiens de Syrie n’ont pas su ou n’ont pas pu prendre à temps leur distance avec le régime. Ils disparaîtront.
 
Ainsi, pour le point de vue européen qui devrait principalement nous occuper, une intervention militaire en Syrie ne vaut pas mieux qu’une non-intervention, guerre juste ou pas. Le sort des chrétiens de Syrie est scellé : ils sont condamnés. La France ne les aura pas aidés. Toutes les Eglises de Syrie ont d’ailleurs affirmé leur opposition à l’intervention militaire. Mais il faut aller plus loin et comprendre pourquoi les deux papes ne bougent pas : ils sont kantiens. La bévue des internationalistes et des mondialistes, lecteurs avides du traité de paix kantien, sur l’idée nationale et le concept de nation qu’ils sacrifient pour celui de cosmopolitisme, induit aujourd’hui ces apories d’une mondialisation tiraillée entre des principes républicains auxquels on ne cesse d’objecter le respect des différences communautaires, culturelles ou nationales et l’abandon de ces mêmes principes au nom d’une pseudo-démocratie mondiale et d’une ingérence humanitariste guerrière. Les deux papes sont en fait des papes totalitaires.

mercredi, 04 septembre 2013

La destruction du monde arabe

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La destruction du monde arabe et notre élite hostile

 
Ex: http://www.les4verites.com

A quoi sert la destruction du monde arabe ?

Le vrai visage du printemps arabe – expression que l’on devait à Benoist-Méchin – m’est apparu ici assez vite : des foules marginales, manipulées et bien filmées par les télévisions du Qatar ont été parées de toutes les vertus ; le départ décrété nécessaire sur Facebook de leurs tyrans, auxquels on substituait les mandataires des oligarchies pro-anglo-saxonnes (on n’a pas beaucoup évolué depuis Lawrence d’Arabie, et peut-être qu’après tout les bédouins de Ryad, La Mecque et Doha sont des MI5 et CIA maquillés et grimés), nommés Frères musulmans ou autres. Ces illusionnistes, bien qu’ayant promis la privatisation du canal de Suez (quel grand clin d’œil !), n’ont pas été capables, par exemple, en Egypte, de faire que le citoyen chahuteur de la rue s’en sorte mieux qu’avant avec ses soixante dollars par mois : pourquoi la Fed n’imprime-t-elle pas plus de billets ? Le chahut a chassé le touriste et les comptes de la nation ont plongé un peu plus – sauf ceux de l’armée, toujours payée et équipée par l’étranger et donc toujours soucieuse de bien faire. Un peu auparavant, un pauvre ambassadeur américain avait d’ailleurs aussi mal terminé que l’ancien dictateur local. Cet ambassadeur, on l’aura compris, ne faisait pas partie des réseaux, des agences et des élites hostiles qui dirigent notre monde : il pouvait donc être étranglé après avoir été sodomisé au nom d’Allah par les hommes de main de qui de droit. Et la presse a pu s’en prendre aux chrétiens intégristes qui aux Etats-Unis auraient suscité l’ire des frères musulmans en mettant sur le réseau de damnables images islamophobes. Quand on accepte d’être informé comme cela, on peut montrer tout de suite sa gorge au bourreau.

Tout est allé bien sûr en empirant, et je crois comme prévu. On a détruit des pays en finançant et en armant des commandos de tueurs itinérants ; on a en fait surtout chassé des dictatures laïques et stables pour les remplacer par des dictatures anarcho-islamistes susceptibles d’exterminer les minorités chrétiennes, notamment les coptes d’Egypte, notamment les maronites, orthodoxes et catholiques syriens. Nos médias goguenards révélèrent après coup que les chrétiens favorisaient les dictateurs et que par conséquent ils devaient s’attendre à être massacrés par des rebelles entretemps devenus les coqueluches de Park Avenue et des salons germanopratins. La Tunisie que j’ai connue laïque et tolérante est devenue un bastion de l’islamisme, c’est-à-dire du bras armé de l’intégrisme démocratique occidental, pour reprendre l’expression de Baudrillard ; car l’islamisme est le bras armé de l’occident et de personne d’autre : voyez le colonel Lawrence.

Le chaos et la misère qui accompagnent la social-démocratie bien appliquée (dette, plans sociaux, baisse du niveau de vie…) et l’islamisme aux commandes vont susciter une vague de plus en plus énorme d’immigration en Europe. Nous l’avons déjà vu en action après le départ de Ben Ali, à Marseille, sur la côte d’Azur et ailleurs. Comme on ne veut surtout pas s’entendre sur la notion de réfugié, ni sur celle d’immigré, on peut s’attendre – je le dis sans hésiter – à quelques dizaines de millions de nouveaux venus à court terme, qu’il va falloir épouiller, nourrir, soigner, loger, équiper, conseiller, protéger juridiquement et défendre médiatiquement (ce ne sera pas difficile, les candidats abondent) contre une opinion populaire trop résistante et intolérante, pas encore assez flexible, pour rendre l’abominable vocable économique. Il est temps de remplacer ce qui reste de notre peuple inflexible par les robots de la banque HSBC, digne héritière hongkongaise des échoppes opiomanes.

Et c’est ici que cela devient intéressant : prenons l’exemple de l’Allemagne, devenue trop pacifiste à cause de son toujours présent passé prussien ou bien nazi. Eh bien, certains allemands, peut-être bien sur ordre, se sont opposés à ce lâcher de réfugiés venus de Syrie : ils se sont aussitôt fait traiter de néo-nazis. Et la presse allemande a naturellement plaint les malheureux réfugiés pris entre le feu des troupes d’Assad et des chrétiens d’orient (là-bas) et les méchants racistes d’ici, néo-nazis y compris.

Il faut bien comprendre que lorsque l’on est informé et dirigé par des politiciens et des journalistes comme cela, on a du souci à se faire.

Détruire le monde arabe tel qu’il nous été légué par l’indépendance, l’islam de village, le pétrole, les dattiers, le socialisme local, pour le remplacer par le chaos ambiant des monarchies golfeuses est une chose ; mais imposer ce chaos ambiant chez nous au motif qu’il faut être tolérant, amant de l’humanité, généreux et humanitaire en est une autre. Ici on est vraiment face à une des frasques folles de notre élite hostile occidentale en grande méforme. Le  temps n’est pas loin où il faudra quitter ce continent prétendu blanc et cette communauté prétendument chrétienne pour gagner des cieux plus cléments ; ceux de l’Amérique encore latine et de la Bolivie par exemple, pays chrétien et social, indigène et nationaliste (notre rêve en somme !), dont le président a été traité comme un voyou dans un aéroport par nos gouvernements d’opérette sur ordre des agences qui dirigent maintenant l’Amérique en rêvant de la guerre antirusse qui justifiera leur mirobolant budget. Le planton du socialisme français aurait aimé personnellement crucifier le rebelle américain des sévices secrets au nom bien sûr de la démocratie et de la liberté.

La destruction du monde arabe ira donc se prolonger en Europe. C’était écrit.

Car je crois que nos élites hostiles utilisent le monde musulman pour liquider ce qui peut rester de chrétienté dans ce monde et créer le souk social universel et transhumain dont elles rêvent. Dans l’état où nous sommes, nous en rendrons-nous compte ? Vous en rendrez-vous compte, ô vous qui méritez la mort sans le savoir parce que vous êtes des intégristes chrétiens sans le savoir et des molosses du racisme sans le savoir ?

mardi, 03 septembre 2013

'Brits NEE tegen ingrijpen Syrië luidt doodsklok voor NAVO'

'Brits NEE tegen ingrijpen Syrië luidt doodsklok voor NAVO'

Obama's halfslachtige en tegenstrijdige beleid brengt massale vernietigingsoorlog tegen Israël dichterbij


'De wereld zal zich in de ogen wrijven van verbazing dat één persoon, president Obama van de VS, het gepresteerd heeft in slechts enkele jaren tijd de Amerikaanse invloed in het Midden Oosten en Europa te verpletteren.' (DEBKAfile)

Het onverwachte NEE van het Britse parlement tegen de deelname aan de geplande Westerse aanval op Syrië is volgens Israëlische inlichtingenexperts grotendeels te wijten aan het tegenstrijdige beleid van president Obama, waardoor de bondgenoten van Amerika en het publiek nauwelijks nog vertrouwen hebben in de VS. Dit leidt er niet alleen toe dat Amerika's invloed in het Midden Oosten snel tanende is, maar ook dat 'de doodsklok voor de NAVO' wordt geluid (1). Tevens zullen de vijanden van Israël zich gesterkt voelen, waardoor een massale vernietigingsoorlog tegen de Joodse staat steeds waarschijnlijker wordt.

Nadat de Syrische president Assad valselijk de schuld kreeg van de chemische aanval in Damascus en Obama van een 'afschuwelijke misdaad' sprak, zette de president deze week plotseling in op een zeer beperkte aanval op Syrische doelen. Hierdoor zouden zowel Assad als zijn bondgenoten in Rusland en Iran als morele overwinnaars uit de strijd naar voren komen. De Iraanse opperleider Ayatollah Khamenei kan dan zeggen gelijk te hebben gekregen met zijn jarenlange uitspraken dat de VS niets anders dan een papieren tijger is.

Coalitie tegen Syrië uiteen gescheurd

De Britse afwijzing van een aanval op Syrië scheurt Obama's multinationale coalitie uit elkaar en betekent een dolksteek in het hart van de NAVO, de historische Westerse alliantie die na de Tweede Wereldoorlog tientallen jaren lang de vrede in Europa wist te bewaren, maar zich sinds de Balkanoorlog in de jaren '90 steeds vaker ontpopt heeft als een agressief werktuig in de handen van de Amerikaanse globalisten.

In 2009 kondigde Obama aan dat de VS voortaan voornamelijk naar het Oosten zou kijken, en minder naar het Westen. Dit leidde tot de militaire exit uit Irak en Afghanistan, landen waar dankzij de Amerikaanse invasie een bloedige sektarische oorlog was losgebarsten, wat honderdduizenden slachtoffers heeft geëist en beide naties in puin heeft achtergelaten.

Forse terugslag door afzetten Morsi

Tegelijkertijd verlegde Obama zijn aandacht naar Noord Afrika, waar hij actief het omverwerpen van de Libische leider Muammar Gadaffi en de Egyptische president Hosni Mubarak steunde. De islamistische Moslim Broederschap werd door het Witte Huis uitverkoren tot nieuwe belangrijkste bondgenoot, maar toen de eerste Broederschap-president Mohamed Morsi al na één jaar werd verdreven, kreeg Obama's Midden-Oostenbeleid een geweldige klap te verwerken.

Wapens en geld voor Al-Qaeda

In Libië kwamen na de door de NAVO mogelijk gemaakte moord op Gadaffi aan Al-Qaeda verbonden islamitische extremisten aan de macht. Obama's beleid in Syrië ging nog verder: daar begon hij actief Al-Nusra (Al Qaeda) met financiën en wapens te steunen, ondanks het talloze malen bewezen feit dat het vooral de Syrische rebellen zijn die de meest afschuwelijke misdaden plegen tegen de burgers in het land, inclusief het door de VN bevestigde gebruik van chemische wapens.

Israël gedwongen grond en veiligheid op te geven

Bizar genoeg hamert Obama er voor de Tv-camera's op dat de VS en het Westen zich zo min mogelijk met de zaken in het Midden Oosten moeten bemoeien. Zijn acties getuigen echter van het absolute tegendeel. Van bondgenoot Israël eist hij zelfs absolute gehoorzaamheid. Tevens is Obama bezig om de Joodse staat een 'vredes'verdrag met de Palestijnen op te leggen, waarin Israël gedwongen zal worden om een groot deel van zijn grondgebied en zijn veiligheid op te geven.

'Doodsklok voor de NAVO'

Door dit tegenstrijdige beleid en de halfslachtige houding ten opzichte van Syrië blijkt nu zelfs Amerika's traditioneel grootste en trouwste bondgenoot, Groot Brittannië, hardop te twijfelen aan Obama's plannen en doelstellingen. 'Dit heeft geresulteerd in het luiden van de doodsklok voor de NAVO', constateren Israëlische inlichtingenexperts. De komende beperkte militaire aanval op Syrië kan, gekoppeld aan de ondoorzichtige doelstellingen, zelfs de genadeklap betekenen voor de Amerikaanse invloed in het Midden Oosten.

'Invloed VS in Europa en Midden Oosten verpletterd'

'De wereld zal zich in de ogen wrijven van verbazing dat één persoon, president Obama van de VS, het gepresteerd heeft in slechts enkele jaren tijd de Amerikaanse invloed in deze gevoelige regio en in Europa te verpletteren,' is de conclusie van de strategische analisten van DEBKAfile.

Terwijl het Witte Huis zegt bereid te zijn om desnoods alleen tegen Syrië op te treden, zou de Britse premier Cameron wel eens het politieke slachtoffer kunnen worden van Obama's wispelturige beleid. Nu 30 leden van zijn eigen Conservatieve partij en 9 van zijn coalitiegenoot de Liberalen met de oppositie hebben meegestemd, lijkt zijn positie te wankelen.

'Netanyahu wacht af en doet niets'

De situatie voor Israël wordt er door deze ontwikkelingen bepaald niet beter op. Premier Benyamin Netanyahu karakteriseert zijn politieke koers doorgaans als 'verantwoordelijk en gebalanceerd'. In de praktijk betekent dit echter hoofdzakelijk afwachten, uitstellen en niets doen. Ondertussen heeft de islamitische terreurbeweging Hezbollah in Libanon een arsenaal van vele tienduizenden raketten opgebouwd, en herhalen hun bazen in Teheran, die op topsnelheid doorwerken aan kernwapens, wekelijks dat Israël moet worden vernietigd.

Massale oorlog tegen Israël dichterbij

Het verdwijnen van Moslim-Broederschap president Morsi en het verlies van de Britse steun voor de aanval op Syrië is een enorme opsteker voor Iran en Hezbollah, die de invloed van de VS in heel het Midden Oosten, inclusief in Israël, snel zien afnemen. Bovendien wordt de bewering van de regering in Jeruzalem dat ze niet betrokken is bij de Syrische burgeroorlog door niemand geloofd. Dit zou er op niet al te lange termijn toe kunnen leiden dat Israëls vele vijanden zich aaneensluiten en hun dreigementen de Joodse staat voor eens en altijd te vernietigen zullen proberen waar te maken.

 

Xander

(1) DEBKA

lundi, 02 septembre 2013

Marche pour la Syrie

dimanche, 01 septembre 2013

Entretien avec Tracy Chamoun

Tracy Chamoun: “L'extrémisme islamiste existe aussi chez vous, dans les pays occidentaux"

Entretien recueilli par

Frédéric Pons


Ex: http://www.valeursactuelles.com

cham.jpegInterview. Héritière d’une grande famille politique maronite brisée par la guerre civile, Tracy Chamoun déplore l’aveuglement euro-américain. Rencontre sur fond de crise syrienne. Son grand-père, Camille Chamoun, fut président de la République libanaise de 1952 à 1958.


Lire aussi:
> Syrie : des experts de l’ONU attaqués
> Quand la chimie fait la guerre
> La vérité sur les armes chimiques en Syrie

> Syrie: les options du Pentagone


Son père, Dany, fut assassiné, en octobre 1990, avec sa femme et deux de ses jeunes enfants, par d’autres chrétiens. Alors âgée de 30 ans, résidant à l’étranger, Tracy échappa au massacre. Elle en tira un premier livre passionné et déchirant, Au nom du père (JCLattès, 1992). Son nouvel ouvrage, le Sang de la paix, se veut plus serein, porteur de valeurs pour l’avenir du Liban, tout en rappelant les responsabilités libanaises ou étrangères dans le sort de son pays. Elle est particulièrement sévère pour le chrétien Samir Geagea, le chef des Forces libanaises, et pour le clan sunnite Hariri. On peut ne pas partager toutes ses colères, on peut réfuter telle ou telle de ses analyses, mais ses épreuves, son courage et sa force de conviction font de Tracy Chamoun, 53 ans, une voix qui porte. Il faut savoir l’écouter.

Que représente votre engagement ?

J’ai un héritage politique à assumer, pour sauvegarder la démocratie et la liberté au Liban. Mes valeurs sont celles de la tradition libérale de ma famille : le non-confessionnalisme, l’égalité, la diversité, la défense de cette passerelle unique que représente le Liban entre l’Orient et l’Occident.

Que signifie être libéral-démocrate au Liban ?

Aujourd’hui, pas grand-chose. On nous vole nos droits démocratiques en nous privant d’élections législatives sous de faux prétextes. On nous prive d’une loi électorale qui favoriserait la représentation des différentes communautés. Ils amendent la Constitution comme bon leur semble pour proroger les mandats de nos hauts fonctionnaires d’une façon inconstitutionnelle.

Pourquoi le camp chrétien est-il encore si divisé ?

Il a été délibérément divisé. Faire sortir Samir Geagea de prison, en 2005, fut un choix politique. Il avait été arrêté en 1994, condamné à mort puis à la prison à vie pour avoir commis des crimes contre sa propre communauté, ce qui divisa et affaiblit les chrétiens, en vue de contrer le général Aoun.

Pouvez-vous pardonner aux chrétiens qui vous ont fait tant de mal ?

Les chrétiens ne m’ont fait aucun mal. Certains chefs chrétiens, oui, en particulier Samir Geagea, lorsqu’il commandita l’assassinat de ma famille.

Comprenez-vous l’alliance entre le général Aoun et le Hezbollah chiite ?

L’alliance entre chrétiens et chiites date de l’époque de mon grand-père. Il en fut même l’instigateur. Elle devait préserver ces communautés. L’étiquette terroriste est une qualification occidentale qui sert des intérêts politiques régionaux, mais le Hezbollah est un parti politique qui représente un très grand nombre de chiites.

Le Liban peut-il s’apaiser avec ce parti qui conserve sa milice armée ?

La résistance est une composante essentielle de la défense du pays contre les agressions successives d’Israël. Tant que nous n’avons pas une armée forte, on ne pourra pas se passer de la résistance armée du Hezbollah. Son désarmement devra se faire dans un contexte plus large de dialogue national, sous l’autorité de l’État libanais.

Comment évaluez-vous la crise en Syrie ?

Les intérêts de la communauté chrétienne du Liban sont intimement liés à la survie du régime de Bachar al-Assad. Il représente la seule option laïque face à la poussée de l’extrémisme islamiste et djihadiste. Nous avons combattu les Syriens lorsqu’ils occupaient notre pays, mais ils sont partis. Nous savons que la survie de notre communauté dépend de nos alliances avec toutes les minorités dans la région.

Pourquoi dites-vous que l’avenir de l’Occident se joue au Liban ?

Parce que la formule de coexistence au Liban est aussi une référence de base pour la survie des communautés occidentales. L’extrémisme islamiste qui émerge du conflit syrien existe aussi chez vous, dans les pays occidentaux, dont la France, qui alimentent ce conflit en hommes. Le risque est de voir cet extrémisme revenir chez vous, dans vos pays.

Que dire aux amis du Liban qui désespèrent du pays du Cèdre ?

Réveillez-vous !

Le Sang de la paix, de Tracy Chamoun, JCLattès, 200 pages, 19 €.

Robert Stark Interviews Manuel Ochsenreiter About Syrian Civil War

Robert Stark Interviews Manuel Ochsenreiter About Syrian Civil War

samedi, 31 août 2013

Die Stunde der Verrückten

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Die Stunde der Verrückten

Erst Assad in die Enge  treiben, dann, aus Ratlosigkeit, ein Denkzettel, der sich als Bumerang herausstellen könnte. Werden diese Verrückten tatsächlich losschlagen? Wie das bei solchen Leuten eben so ist, sind deren Reaktionen nicht vorhersehbar. Wer aber sollte, wer könnte ihnen da noch in die Arme fallen? Die viel zitierte Weltgemeinschaft, die nicht minder oft gepriesene internationale Solidarität?  Wenn es darauf ankommt, bisher nur Lachnummern.

Mit seiner Syrien-Politik darf der  auf seine Werte angeblich bedachte Westen ein weiteres Beispiel für unverschämte Einmischung vorführen.. Aber auch für Heuchelei zum Quadrat. Egal von welcher Seite der Parteien auf dem Schlachtfelde man es betrachtet. Und es wird nicht ohne Folgen bleiben – für den Westen, besonders für  von US-Lakaien geführte europäische Staaten, die zu feige sind, die für ihre Völker einzig richtigen Konsequenzen zu ziehen.

Dieselben Westler die von den Giftgasangriffen Saddams vorzeitig gewußt  und nichts dagegen unternommen hatten, was unzähligen Iranern und Kurden das Leben gekostet hat, möchten in Syrien am liebsten gleich losschlagen, noch ehe der Schuldige des aktuellen Kriegsverbrechens von der UN-Expertengruppe eindeutig identifiziert werden konnte.

Die USA moralisch und finanziell anscheinend bankrott, aber noch stark genug, um nicht vor ein Weltgericht gezerrt werden zu können, möchten vielleicht noch einmal zeigen, was sie waffentechnisch noch immer zu leisten imstande sind. Der militärisch-industrielle Komplex wird es der Politik schon lohnen. Und die Ölmultis auch.

London und Paris aber ergreifen freudig die Gelegenheit, um als Trittbrettfahrer von ihren innenpolitischen Schwierigkeiten abzulenken und um sich bei der Israel-Lobby beliebt zu machen. Wer wird übrigens den ganzen Irrsinn bezahlen? Der Steuerzahler, richtig. Wenn auch nicht die saudischen oder katarischen, deren Machthaber  auch in hohem Maße für die Lage in Syrien verantwortlich sind.

Natürlich haben die geplanten Schläge, wenn man von israelischen Wünschen einmal absieht,  noch einen anderen Zweck. Mangels Alternative und angesichts der islamistischen Gefahr will man den militärisch  noch immer starken Assad sicher noch eine Weile im Amt behalten, ihn aber so schwächen, daß zumindest militärisch eine Pattsituation entsteht, die dann  – Wunschdenken – vielleicht doch noch eine politische Lösung ermöglicht.

Wie im Lotto scheint jetzt alles möglich, Gewinn letzten Endes aber nur für wenige. Israel und das saudische Königshaus könnten – so sich daraus nicht eine Kettenreaktion ergibt – mittelfristig zu einer Verschnaufpause kommen. Aber welche Auswirkungen würde ein begrenztes militärisches Vorgehen gegen Damaskus unmittelbar auf den Iran  oder den Irak und den Islam insgesamt haben? Mit welchen Folgen für Europa? Da bleiben die Antworten im Dunkeln.

Einer jedenfalls, und nicht nur er,  wird sich das Weitere sehr genau ansehen müssen: Ägyptens neuer Machthaber.  Generaloberst Abd al-Fattah as-Sisi, sehr gläubiger Moslem und gleichzeitig großer Bewunderer von Gamal Abdel Nasser, schwebt ein souveränes Ägypten vor. Das aber müßte sowohl Israelis als auch US-Amerikaner hellhörig machen. Eine politische Führungsfigur à la Nasser (und dazu „Islamist“) wäre das letzte, was in ihr tolles (toll im Sinne von irr) Konzept für den Nahen und Mittleren Osten hineinpassen würde.

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50.000 Freiwillige nach Syrien: Ruft Putin zu den Waffen?

50.000 Freiwillige nach Syrien: Ruft Putin zu den Waffen?

Gerhard Wisnewski

 

Nun lassen Sie uns hier mal Klartext reden: In Syrien geht es nicht um Demokratie, Diktatur, Menschenrechte, das Volk und ähnliche Seifenblasen. Es geht auch nicht um Chemiewaffen. Es geht um eine uralte Geschichte, nämlich um Fressen und Gefressenwerden. Es geht um die Machtfrage auf dem Globus. Und wie hier bereits berichtet, kann und darf Russland diesmal nicht nachgeben, oder der gesamte Erdball ist verloren, einschließlich Russland und China selbst.

Mehr:
http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/deutschland/gerhard-wisnewski/5-freiwillige-nach-syrien-ruft-putin-zu-den-waffen-.html;jsessionid=550B97075FC62E228E78E9A297981CD6
 
 

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Les attaques chimiques sont un coup monté

Syrie :

"Les attaques chimiques

sont un coup monté"

Ex:
http://www.levif.be/info/actualite/international/syrie-les-attaques-chimiques-sont-un-coup-monte/article-4000384171801.htm?nb-handled=true&utm_medium=Email&utm_source=Newsletter-27/08/2013

En exil depuis 35 ans, l’opposant Haytham Manna, responsable à l’étranger du Comité de Coordination nationale pour le changement démocratique (opposition syrienne non armée), s’oppose avec force à toute intervention étrangère contre son pays. 


haytham-manna-2012-3-8-8-20-28.jpgL’utilisation d’armes chimiques en Syrie pourrait amener les Occidentaux à "punir" le régime. Qu’en pensez-vous ?

HAYTHAM MANNA : Je suis totalement contre, tout comme la coordination que je dirige. Cela ne fera que renforcer le régime. Ensuite, une intervention risque d'attiser encore plus la violence, d'ajouter de la destruction à la destruction et de démanteler un peu plus la capacité de dialogue politique. Le régime est le premier responsable car il a choisi l’option militaro-sécuritaire. Mais comment peut-on parler de guerre contre le terrorisme et donner un coup de main à des extrémistes affiliés à Al Qaeda ? 

Les Occidentaux choisissent la mauvaise option, selon vous ? 

Depuis le début, c’est une succession d’erreurs politiques. Les Etats-Unis, la France et le Royaume-Uni ont poussé les parties à se radicaliser. Ils n’ont pas empêché le départ de djihadistes vers la Syrie et ont attendu très longtemps avant d’évoquer ce phénomène. Où est la démocratie dans tout ce projet qui vise la destruction de la Syrie ? Et pensez-vous que ce soit la morale qui les guide ? Lors du massacre d’Halabja [commis par les forces de Saddam Hussein en 1988], ils ont fermé les yeux. Je m’étonne aussi de voir que les victimes d’armes chimiques sont bien davantage prises en considération que les 100 000 morts qu’on a déjà dénombrés depuis le début du conflit.

Qui est responsable du dernier massacre à l’arme chimique ? 

Je n’ai pas encore de certitude mais nos informations ne concordent pas avec celles du président Hollande. On parle de milliers de victimes, alors que nous disposons d’une liste de moins de 500 noms. On est donc dans la propagande, la guerre psychologique, et certainement pas dans la vérité. Ensuite, les armes chimiques utilisées étaient artisanales. Vous pensez vraiment que l’armée loyaliste, surmilitarisée, a besoin de cela ? Enfin, des vidéos et des photos ont été mises sur Internet avant le début des attaques. Or ce matériel sert de preuve pour les Américains ! 

Pensez-vous qu’une partie au conflit a voulu provoquer les Occidentaux à intervenir ? 

C’est un coup monté. On sait que les armes chimiques ont déjà été utilisées par Al Qaeda. Or l’Armée syrienne libre et les groupes liés à Al Qaeda mènent en commun 80% de leurs opérations au nord. Il y a un mois, Ahmad Jarba [qui coordonne l’opposition armée] prétendait qu’il allait changer le rapport de forces sur le terrain. Or c’est l’inverse qui s’est produit, l’armée loyaliste a repris du terrain. Seule une intervention directe pourrait donc aider les rebelles à s’en sortir… Alors, attendons. Si c’est Al Qaeda le responsable, il faudra le dire haut et fort. Si c’est le régime, il faudra obtenir une résolution à l’ONU. Et ne pas laisser deux ou trois payer fédérer leurs amis, pas tous recommandables d’ailleurs. 

Entre Occidentaux et Russes, quelle position vous semble la plus cohérente ? 

Les Russes sont les plus cohérents car ils travaillent sérieusement pour les négociations de Genève 2 [sensées mettre autour d’une même table le régime et les opposants]. Les Américains ont triché. Deux ou trois fois, ils se sont retirés, au moment où s’opérait un rapprochement.

Une solution politique est-elle encore possible ?

Tout est possible mais cela dépendra surtout des Américains. Les Français se contentent de suivre. Une solution politique est la seule qui permettra de sauver la Syrie. Mais l’opposition armée ne parvient pas à se mettre d’accord sur une délégation. 

Que deviendra Bachar al Assad? 

Il ne va pas rester. Si les négociations aboutissent, elles mèneront de facto à un régime parlementaire. Si du moins on accepte de respecter le texte de base de Genève 2 qui est le meilleur texte, avec par-dessus un compromis international. Mais laissez-moi dire ceci : quand on parle de massacrer des minorités, et que le président fait partie d’une minorité, comment peut-on lui demander de se retirer ou ne pas se retirer ? Aujourd’hui, la politique occidentale a renforcé sa position de défenseur de l’unité syrienne et des minorités. Cela dit, personne ne pourra revendiquer de victoire : la violence est devenue tellement aveugle qu’il faudrait vraiment un front élargi de l’opposition et du régime pour en venir à bout.

François Janne d’Othée

vendredi, 30 août 2013

Syrien, Eurasien und die neue multipolare Weltordnung

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Syrien, Eurasien und die neue multipolare Weltordnung

In Syrien findet ein Weltordnungskrieg statt. Während Medien und Politiker eher verharmlosend vom „Bürger-Krieg“ reden, ist der Konflikt zwischen Regierung und Opposition längst eskaliert. Es ist richtiger Krieg. In ihm geht es um viel mehr als um Syrien. Der Weltordnungskrieg, der in dem Land zwischen Damaskus und Aleppo tobt ist weit komplexer als Revolutionen oder „klassische“, lokale Bürgerkriege, und hat Implikationen auf kontinentaler und sogar globaler Ebene. Eine Studie zum Kampf um die künftige Weltordnung.

Von Roland Christian Hoffmann-Plesch
 
Ex: http://www.eurasischesmagazin.de
   

Die Besonderheiten des Syrienkrieges, die einseitigen Presseberichte, die Peinlichkeit und die unverantwortliche Unparteilichkeit der westlichen Politiker, die Massenhinrichtungen und die Brutalität der Kämpfe, die politreligiöse Motivation und vor allem das Leid der Zivilbevölkerung haben mich dazu gebracht, die vorliegende Mini-Studie zu verfassen. Aleppo 2013 erinnert in seiner Ungeheuerlichkeit und Unmenschlichkeit an Stalingrad 1943. Das ganze Syrien ist eigentlich ein Stalingrad. Die Kriegshetze und die Waffenlieferungen gehen aber weiter. Ich glaube, der Syrienkrieg könnte dennoch paradoxerweise den Beginn einer neuen Ordnung in Eurasien einleiten, einer großräumig organisierten multipolaren Ordnung, die genug stabil sein wird, Aggressionen raumfremder, nichteurasischer Mächte abzuwehren und innereurasische Konflikte friedlich zu lösen.

Außerdem bestätigt dieser Krieg meine These, dass das säkular-rationalistische Projekt der Aufklärung eindeutig gescheitert ist, und dass wir heute eine Rückkehr der Religionen bzw. eine Renaissance der politischen Theologien/politischen Religionen erleben. Kurz: wir befinden uns heute (im positiven und im negativen Sinne) in einem neuen Mittelalter. Wenn unsere säkularisierte, entpolitisierte Gesellschaft die religiösen, politreligiösen oder weltanschaulichen Komponenten nichtwestlicher Gesellschaften weiter ignoriert oder falsch deutet, verkennt sie nicht nur die Natur des Menschen, sondern auch die intimsten Mechanismen einer Gemeinschaft bzw. Gesellschaft.


Zur Person: Christian Hoffmann-Plesch

Dipl. Jur., Dipl. sc. pol. Univ. Roland Christian Hoffmann-Plesch, (LL.M.), wurde 1972 geboren. Er absolvierte Studium der Rechtswissenschaften und Politikwissenschaften (Juristische bzw. Sozialwissenschaftliche Fakultät der Ludwig-Maximilians-Universität und Hochschule für Politik München). Außerdem ein Studium der Religionswissenschaft, Ethnologie, Philosophie und Theologie (als Gaststudent in Bukarest, Jassy, München). Seine rechtswissenschaftlichen Fachgebiete und Schwerpunkte sind Strafrecht, Rechtsphilosophie, Kriminologie/Kriminalpsychologie, Rechtsmedizin, Forensische Psychiatrie, Kriminalistik. Die politikwissenschaftlichen Fachgebiete und Schwerpunktesind Politische Theorie, Staats-, Europa- und Völkerrecht, Internationale Politik.

Hoffmann-Plesch ist Magister der Rechte am Institut für die gesamten Strafrechtswissenschaften, Rechtsphilosophie und Rechtsinformatik (LMU München), Doktorand der Rechtswissenschaften (Thema der Dissertation: „Freiheitsrechte, Minimalstaat, polyzentrisches Recht. Eine Abhandlung zur Rechts- und Staatsphilosophie des Libertarismus“). Er war bis 2005 Anwalt für Strafrecht.

Aktuelle Forschungsgebiete sind: Libertaristische Rechts-, Staats- und Straftheorie, Europäische Sicherheits- und Verteidigungspolitik, Politische Theologie, Mittelalterliche Rechts- und Reichsordnung, Multipolare Weltordnung.

 
 


„Das Freund-Feind-Denken ist eine anthropologische Konstante der Menschheit“

Der Westen wird in solchen Angelegenheiten wie dem Syrienkrieg, der wahhabitisch-sunnitischen Feindschaft, der Balkanisierung des Nahen Osten usw. auch in der Zukunft falsche Entscheidungen treffen, unnatürliche Allianzen schließen und somit seinen eigenen Untergang bereiten. Das Freund-Feind-Denken ist zwar eine anthropologische Konstante, man sollte es jedoch nicht künstlich ernähren und ebenso nicht mit Gewalt auslöschen wollen. Auch die tiefste Feindschaft ist nicht ewig und mit weisen, politisch-klugen und gerechten Entscheidungen kann man sie beenden.

Die Idee für die vorliegende Studie, die im Juli 2013 ergänzt und aktualisiert wurde, ist entstanden während der Arbeit am Projekt „Freund und Feind in der multipolaren Weltordnung. Eine Abhandlung zur Renaissance der Politischen Theologie“ (Hochschule für Politik/Sozialwissenschaftliche Fakultät München, 2012). Die Hauptthese dieser Untersuchung lautet: „Das Freund-Feind-Denken ist eine anthropologische Konstante der Menschheit und der politisch-theologische Komplex ein fester Bestandteil der Rechts- und Staatsgeschichte. Aus diesem Grund kann die Staatenwelt keine entpolitisierte, abstrakt-universale Einheit sein, sondern sie ist und bleibt, was sie immer war: ein konkretes politisches Pluriversum. Folglich wird jeder Versuch, eine unipolare Weltordnung mittels politischen, wirtschaftlichen oder militärischen Druckes zu errichten, früher oder später scheitern. Nur eine multipolare Weltordnung wird weltweit als realistisch und zugleich effizient empfunden, denn nur eine solche Organisationsform wird den Freiheits-, Gerechtigkeits- und Ordnungsvorstellungen der Mehrheit der Völkerrechtssubjekte entsprechen und somit globale Anerkennung finden.“

Geostrategie und Geopolitik für ein neues amerikanisches Jahrhundert

Die USA hingegen versuchen im 21. Jahrhundert die Rolle einer globalen Ordnungsmacht zu übernehmen und mit allen verfügbaren Mitteln eine imperiale Pax Americana zu schaffen. Dieses Projekt der USA für ein unipolares, amerikanisches Jahrhundert unterscheidet sich dabei unter militärischem Aspekt von der US-Strategie im Kalten Krieg. Einerseits versucht Washington durch Missbrauch des Völkerrechts (etwa durch unilaterale Gewaltanwendung unter dem liberal-demokratischen Mantel des humanitaristischen Interventionismus) Länder, die für sie vom großen Interesse sind, zu sichern (zu „demokratisieren“). Andererseits versucht es die Entstehung neuer Großmachtkonkurrenten in geostrategisch wichtigen Regionen zu verhindern. Die USA sind somit die konsequentesten Verfechter einer neuen Weltordnung mittels Empire-Politik ihres militärisch-industriellen Komplexes. Außer ihnen gibt es heute keine andere Großmacht, die explizit ihre imperiale Mission betont und mit allen verfügbaren Mitteln nach der Weltherrschaft greift.

Schachbrett Eurasien

Viele Kritiker des US-Establishments sehen hinter der amerikanischen Außenpolitik der letzten 20 Jahren oft nur wirtschaftliche Interessen, und betrachten die Aggressionen gegen öl- und gasreiche islamische Länder als Wirtschafts- bzw. Ressourcenkriege oder kurz Raubkriege. Das ist jedoch nur ein Teil der Wahrheit: erstens sind die von den USA erlittenen Kriegsschäden größer als ihr Kriegsgewinn, zweitens ist die wirtschaftliche Suprematie kein Endziel, sondern ähnlich wie die militärische, technologische oder kulturelle Überlegenheit nur Mittel zur Erreichung eines höheren Ziels.

Das wichtigste Ziel der USA ist die Sicherung ihrer globalen Macht. Die Macht ist in diesem Kontext unter zwei Aspekten zu verstehen, nämlich unter geopolitischem und ? was in der Literatur wenig beachtet wird ? unter theopolitischem Aspekt. Einerseits wird sie in einem räumlichen, geografischen Sinne als (militärisch-industrielle) Übermacht gegenüber möglichen Konkurrenten verstanden, nach dem Motto: „Die Grenzen des Planeten sind zugleich die Grenzen des US-Empires“. Das Denken über hegemoniale oder imperiale Vormachtstellung in sicherheitspolitisch-militärischen Kategorien (z.B. als globaler Antiterror-Krieg) hat zwangsläufig zur  Renaissance der klassischen Geopolitik bzw. des Geoimperialismus geführt wie die weltweiten amerikanischen Regionalkommandos bezeugen (http://www.defense.gov/ucc/). Andererseits wird die Macht polittheologisch, im Sinne der amerikanischen chiliastisch-messianisch-eschatologischen Vorstellung gedeutet, und zwar als Recht eines von Gott auserwählten Volkes, über die ganze Welt zu herrschen. Nach der Amerikanischen Revolution und der translatio imperii Britannici hat sich bei den Bewohnern der „Neuen Welt“ ein starkes alttestamentarisches und zugleich neoprotestantisches Sendungsbewusstsein entwickelt, das heute in Form von Evangelikalismus und „christlichem Zionismus“ die US-Politik maßgeblich beeinflusst und der ungebrochenen israelisch-amerikanischen Allianz zugrunde liegt.

Die größte Gefahr für die USA kommt heute, laut herrschender Meinung unter Geostrategen und Entscheidungsträgern des US-Establishments, genau wie im 20. Jahrhundert aus Eurasien, das das „Schachbrett“ ist, auf dem der Kampf um globale Vorherrschaft auch in Zukunft ausgetragen wird (Z. Brzezinski, Die einzige Weltmacht, 1997: 57). Das oberste Gebot der US-Geopolitik lautet demnach, so George Friedman, Gründer und Leiter von Stratfor, jede Macht zu bekämpfen, die eine Vorherrschaft über Eurasien erlangen könnte. Das ist der Hauptgrund, weshalb die USA Krieg in dieser Region führen, so dass trotz aller menschenrechtlich-demokratischen Rhetorik, wenig Interesse an Frieden in Eurasien bestehe (G. Friedman, Die nächsten hundert Jahre, 2009: 59ff., 165, 180).

Die USA haben jedoch primär nicht die 1945 besiegten europäischen Zentralmächte oder die EU im Visier, zumindest solange die EU oder ihr deutscher Kern sich nicht zu einer von Amerika unabhängigen Supermacht entwickeln, was sich angesichts der gut geplanten und geführten Operationen der US-Geheimdienste in Europa und vor allem in Deutschland leicht nachweisen lassen würde (siehe den jetzigen NSA-Skandal). Amerika hat ein Interesse an neuen oder wiedererstarkten regionalen Einzelakteuren  und Allianzen, die mächtig genug werden können, um die USA militärisch anzugreifen oder ihre politisch-wirtschaftliche Kraft zu schwächen und so ihren Supermachtstatus zu unterminieren. Bekämpfen bedeutet in diesem Kontext nicht, diese Mächte militärisch zu besiegen, sondern ihren Aufstieg zu verhindern, sie zu destabilisieren.

Das erklärt einigermaßen die brutalen, scheinbar irrationalen militärischen Aktionen der USA seit 1990. Es geht nicht um Herstellung von Ordnung, um Stabilisierung der Region ? solche Aufgaben würden die USA ohnehin überfordern ?, auch nicht um militärische Siege, die angesichts der Bedingungen der neuen, asymmetrischen Kriege und der religiösen, jenseitsorientierten Motivation der Gegner nicht mehr möglich sind, sondern um Chaos zu schaffen und die potentielle Gegenmacht zu destabilisieren (G. Friedman, Die nächsten hundert Jahre, 2009: 60f.). In dieser Strategie passt wie gegossen der zivilreligiöse Mythos des weltweiten Terrorismus, den die USA erschaffen haben, um einen permanenten Kriegszustand auf dem gesamten Globus und vor allem in Eurasien zu institutionalisieren. Der sogenannte „Krieg gegen den Terror“ wurde so zu einem säkularisierten Kreuzzug gegen den Islam hochstilisiert, und ist allmählich zum Blankoscheck geworden, auf globaler Ebene militärisch direkt oder indirekt (mittels Verbündeten und Vasallen) zu intervenieren.

Scheinmultilateralismus

Die Entstehung mehrerer regionaler oder globaler Machtpole (Russland, Indien, Iran, China u.a.) ist bereits Wirklichkeit und zugleich eine enorme Herausforderung für die USA, die sich dieser neuen globalen Machtkonstellation mit allen verfügbaren Kräften widersetzen und so den friedlichen Übergang von einer uni- zu einer multipolaren Weltordnung erschweren. Wir erleben heute den wahrscheinlich letzten Versuch des amerikanischen militärisch-industriellen Komplexes, konkurrierende Mächte weltweit auszuschalten, um die Sicherung der globalen Vormachtstellung der USA zu erreichen. Die Interventionen Amerikas (mit oder ohne Hilfe der NATO), sind Teile der amerikanischen Eurasien-Strategie. Sie finden statt in Ländern wie Irak, Jugoslawien, Somalia und Afghanistan. Dazu gehören die ständigen Provokationen gegenüber Russland, Nordkorea oder Pakistan, der Versuch, Europa in „old Europe“ und Neueuropa zu spalten, die osteuropäischen „Orange-Revolutionen“ und der „Arabische Frühling“, sowie nicht zuletzt der (noch) „kalte Krieg“ gegen den Iran, oder die Stellvertreterkriege in Libyen, Syrien, Mali, Sudan usw. Ein wichtiges Element dieser Strategie ist die Multilateralität, die von den USA oft in Anspruch genommen wird, und auch Bestandteil der neuen Doktrin der US Armee ist (http://www.dtic.mil/doctrine/new_pubs/jp1.pdf)

Diese Multilateralität ist eher eine Scheinmultilateralität, denn die Unterstützung der staatlichen und nichtstaatlichen Verbündeten ist kein Selbstzweck, sondern Mittel zum Zweck; kurz: „multilateral, wenn möglich, unilateral, wenn nötig“ (R. Kagan, Macht und Ohnmacht, 2004: 161). Es gibt aber Fälle, wo die USA trotz ihrer Überlegenheit und ihrer Präferenz für unilaterale Lösungen auch andere Mächte und Kräfte auf ihre Seite zu ziehen versuchen, wie die von ihnen geführten Kriege in Eurasien zeigen. Durch Allianzen wie „Anti-Irak-Koalition“ (1991), „Anti-Terror-Koalition“ (2001) oder „Koalition der Willigen“ (2003) haben die USA vor allem versucht, erstens eine imperiale Überdehnung zu vermeiden, zweitens den Gegnern zu zeigen, dass sie für ihre Aktionen eine breite oder gar globale Unterstützung haben und, wo es möglich war, von der UNO legitimiert sind. Drittens dadurch noch mehr Feindschaft und Verwirrung zu stiften, mit schwerwiegenden Konsequenzen, wie die Attentate in Madrid, London, auf Djerba, Bali und anderswo beweisen.

Es gibt auch Fälle, in denen die USA ihre geopolitischen Ziele nicht nur mit Hilfe westlicher Verbündeter, sondern auch durch die Unterstützung bestimmter Kräfte erreichen, die als Feinde Amerikas gelten. Im Libyen-Krieg haben die westlichen Länder trotz ihrer obsessiven Anti-Terror- und Anti-Al-Qaida-Rhetorik entschieden, Al Qaida-Militante in ihrem Kampf gegen den libyschen Machthaber Muammar al-Gaddafi zu unterstützen. Da der neue globale Akteur China, der seine friedliche wirtschaftsimperiale Macht über Afrika ausdehnt, bis zum Ausbruch des Krieges auch in Libyen sehr präsent war, stand Amerika in Verdacht, durch eine scheinbar unvernünftige Libyen-Politik mehrere Ziele auf einmal erreichen zu wollen: Erstens die Vertreibung der chinesischen Firmen aus Libyen und das Stoppen der chinesischen Investitionen in diesem Land, was nach dem Beginn der Krieges auch passiert ist; zweitens die Ausschaltung eines amerika- und israelfeindlichen Staates, (der bis 2006 auf der Liste der Schurkenstaaten gestanden hatte) und somit die Verwirklichung der imperialen geopolitischen und geostrategischen Agenda; drittens die Sicherung des Zugangs zu den libyschen Ölfeldern für US-Konzerne ähnlich wie im Irak.

Aus realistischer Sicht hat Amerika im Fall Libyen doch rational gehandelt, d.h. im eigenen Interesse, und das ist angesichts seiner ungewissen Zukunft als Supermacht nachvollziehbar. China wird seit einigen Jahren als künftige Großmacht und als großer Gegenspieler Amerikas gehandelt. Ebenso wie China können auch Russland, Indien, womöglich die EU, aber auch Regionalmächte wie der Iran (oder eine schiitische Allianz unter Irans Führung), Pakistan, Nordkorea oder gar die Türkei als Störer der geopolitischen Pläne der USA auftreten (einige gelten bereits als solche). Amerika könnte deswegen weiter versuchen, im eigenen Interesse Drittkräfte anzuwerben ? in Mali und Syrien ist das bereits der Fall ?, um unbequeme Länder zu destabilisieren.

Greater Middle East und Syrien

In dieser Divide-et-impera-Logik passt auch das 2003 von Bush-Regierung ins Leben gerufene Projekt eines Greater Middle East (ab 2004 Middle East Partnership Initiative), einem Programm zur Bekämpfung des Terrors und zur Durchsetzung der Freiheit und Demokratie im geopolitischen Großraum von Marokko bis Kasachstan (http://www.jewishvirtuallibrary.org/jsource/History/greaterMEmap.html).

In Wirklichkeit ist Greater Middle East kein neokonservatives Projekt, sondern „imperiale Kontinuität“ (W. Ruf, Der Greater Middle East, in: R. Tuschl, Die Neue Weltordnung in der Krise, 2008: 13ff.). Dadurch versuchen die USA nicht nur sich Zugang zu wichtigen Rohstoffstätten zu verschaffen, sondern auch das „Islamismusproblem“ zu lösen und vor allem die Entstehung einer Ordnungsmacht in diesem Großraum zu verhindern. Mit ihrer Strategie der „kreativen Zerstörung“, der Neutralisierung des Islams durch „Balkanisierung des Mittleren Ostens“ (J. Wagner, Geburtswehen des Mittleren Ostens, 2007: 2f., http://www.imi-online.de/download/IMI-Analyse07-018.pdf) hofft der amerikanische militärisch-industrielle Komplex die strukturelle Machtverteilung so zu ändern, dass die Entstehung einer hegemonialen Großmacht und die Errichtung einer islamischen Großraumordnung (z.B. in Form eines Kalifats oder einer Allianz islamischer Kernstaaten) unmöglich wird; außerdem wird die Stationierung der US-Armee in der Region, so die Rechnung der Geostrategen, alle potenziellen regionalen Mächte abschrecken. Zu diesen Zwecken haben die USA ein Regionalkommando aufgestellt (USCENTCOM), das für den Nahen Osten, Ost-Afrika und Zentral-Asien zuständig ist (http://www.centcom.mil/about-u-s-central-command-centcom).

Wie wichtig diese Region für die US-Pläne ist, zeigt das für Operationen und Management des USCENTCOM erstellte Budget der letzten 3 Jahren (ohne die Finanzierung der Afghanistan-Mission): 2011: 106.631.000 $; 2012: 137.167.000 $ und 2013: 179.266.000 $ (A. Feickert, The Unified Command Plan and Combatant Commands, 2013: 12, http://www.fas.org/sgp/crs/natsec/R42077.pdf).

Die offizielle Mission des USCENTCOM lautet: Zusammen mit nationalen und internationalen Partnern Kooperation zwischen Nationen zu fördern, auf Krisen zu antworten, staatliche und nichtstaatliche Aggressionen zu verhindern oder zu bekämpfen und Entwicklung und Rekonstruktion zu unterstützen, um die Bedingungen für regionale Sicherheit, Stabilität und Wohlstand zu etablieren.

Ein Brennpunkt des Greater Middle East ist Syrien. Das offiziell verkündete Ziel des USCENTCOM ist hier die Verbesserung der regionalen Stabilität und Sicherheit durch die Wiedereingliederung Syriens in den Mainstream der arabischen Welt. Gleichzeitig ist USCENTCOM besorgt wegen der Kontakte, die Syrien mit Iran und proiranischen extremistischen Organisationen (z.B. Hisbollah) unterhält. (http://www.centcom.mil/syria/). Wie der amerikanische Militärspezialist Andrew Feickert in einem Bericht für den US-Kongress schreibt, entwickelt sich der Syrienkrieg zu einem langfristigen, regelrechten Bürgerkrieg, der eine Bedrohung für die regionale Sicherheit und Stabilität sein könnte. Eine militärische Intervention der USCENTCOM, um nationale Interessen der USA in der Region zu schützen, wird nicht mehr ausgeschlossen. (A. Feickert, The Unified Command Plan and Combatant Commands, 2013: 36, http://www.fas.org/sgp/crs/natsec/R42077.pdf).

Dass die USA ein Interesse an Stabilität und Sicherheit in dieser Region hat, ist zu bezweifeln, vor allem wenn man ihr Verhalten gegenüber Syrien beobachtet. Dieses Land ist nach Brzezinskis Definition zwar kein „geostrategischer Akteur“, also ein Staat, der die Kapazität und den nationalen Willen besitzt, über seine Grenzen hinaus (regional oder global) Macht oder Einfluss auszuüben, um den von den USA fixierten geopolitischen status quo zu verändern. Syrien ist jedoch ein „geopolitischer Dreh- und Angelpunkt“, ein Staat, dessen Bedeutung nicht aus seiner Macht und Motivation resultiert, sondern sich eher aus seiner prekären geographischen Lage und aus den Folgen ergibt, die sein Verhalten aufgrund seiner potentiellen Verwundbarkeit bestimmen (Z. Brzezinski, Die einzige Weltmacht, 1997: 66f.). Bereits 2004 wurde in einer von Rand Corporation in Auftrag der US Air Force verfassten Studie gezeigt, dass Syrien eine asymmetrische Bedrohung für Israel darstellt, und militärisch im Stande ist, den jüdischen Staat mit Chemiewaffen und den von Nordkorea, China, Iran und Russland gelieferten Raketen anzugreifen (N. Bensahel/D. Byman, The Future Security Environment in the Middle East, 2004: 183).

Außerdem unterhält Syrien gute Beziehungen zu Russland, China und Iran ? von Amerika als geostrategische Akteure betrachtet ?, aber auch zu schiitischen Organisationen wie Hisbollah (die einzige Armee der Welt, die 2006 der israelischen Armee eine empfindliche Niederlage verpasste). In Syrien leben 500.000 palästinensische Flüchtlinge und auch viele Funktionäre der antiisraelischen PLO, die, wenn das Assad-Regime fiele, ihre sichere Heimstätte und den Schutz der Gastgeber verlieren würden. Auch Syriens Grenze zur Türkei spielt eine sehr wichtige Rolle in der US-Geopolitik: der Fall Syriens würde die Türkei, anders als die türkischen Politiker glauben, destabilisieren (siehe das kurdische Problem oder den Vormarsch der salafistischen Dschihadisten in dieser Region), und so die Entstehung einer neoosmanischen Regionalmacht verhindern. Es gibt auch andere Punkte, die, wie später gezeigt wird, Syrien für bestimmte Groß- oder Regionalmächte so interessant macht.

Ende der unipolaren Weltordnung

Trotz des Optimismus der Geostrategen und Politiker, die in millenaristischer Manier über eine goldene amerikanische Ära sprechen, welche nach dem dritten Weltkrieg (sic!) eintreten wird (G. Friedman, Die nächsten hundert Jahre, 2009: 247-257.), scheint die US-Strategie des unipolaren Moments gescheitert zu sein. Nach dem Zerfall der UdSSR haben die USA ihre Chancen verspielt. Die durch ihre militärischen Abenteuer bzw. Wirtschafts-, Finanz- und Ressourcenpolitik angerichteten Schäden sind so groß, dass es unwahrscheinlich ist, dass die Welt ? mit Ausnahme einiger enger staatlicher und privater, transnationaler Verbündeter ? Amerika als einen freiheitlich-demokratischen, wohlwollenden Welthegemon ansehen wird. Angesichts der neuen globalen Herausforderungen ist ebenso fraglich, ob die USA ? trotz ihrer militärischen Überlegenheit ? in der internationalen Staatenwelt als Weltordnungsmacht gelten kann.

USA - von wohlwollender Welthegemonie zum imperialen Weltordnungskampf

Unter politikwissenschaftlichem Aspekt ist ein Welthegemon ein übermächtiger Staat, der als funktionales Äquivalent zu einer supranationalen Weltautorität verstanden wird. Die hegemoniale Steuerung beruht auf der Annahme, dass globale Befolgung von Normen bzw. Regeln nur durch eine hierarchische Organisationsstruktur mit zentraler Sanktionsinstanz gewährleistet werden kann, die aber keine formelle, mit rechtlicher Autorität ausgestattete Instanz ist, sondern eine informelle, primär machtbasierte Quasi-Hierarchie, die die zwischenstaatliche Anarchie unangetastet lässt. Die hegemoniale Weltordnung ist eine faktische, keine normativ verankerte Ordnung (V. Rittberger/A. Kruck/A. Romund, Grundzüge der Weltpolitik, 2010: 306ff.).

Durch folgende Eigenschaften erlangt der Welthegemon Supermacht-Status, d.h. Überlegenheit im Bereich der militärischen, ökonomischen und kulturell-ideellen Ressourcen, ebenso wie Überlegenheit beim Kapitel Einfluss tatsächlicher Politikergebnisse: Erstens ist er in der Lage, internationale Regeln zu generieren und deren Beachtung durch Androhung von Sanktionen, Gewährung oder Entzug von Wohltaten zu erreichen; zweitens hat er die Fähigkeit zu politischer Steuerung und Problembearbeitung in Übereinstimmung mit den eigenen Präferenzen (unter anderen die eigennützige Schaffung bzw. Förderung von Normen, Regeln und Institutionen, die seine Weltsicht reflektieren; drittens stellt ein sogenannter wohlwollender Hegemon öffentliche Güter nicht nur zum eigenen Nutzen, sondern auch zum Nutzen anderer Staaten bereit, wie z.B. die Gewährleistung eines hohen Maßes an internationaler Finanzstabilität und Finanzliquidität, die Gewährleistung von Sicherheit, humanitäre Hilfe usw. (V. Rittberger/A. Kruck/A. Romund, 2010: 307f.).

Die USA waren ein real existierender Welthegemon, der im Kalten Krieg auch als benevolent hegemon gehandelt hat und nach dem Ende der bipolaren Weltordnung noch einen Supermacht-Status hatte. Allerdings ist ihre globale Vorherrschaft heute relativ, unter anderem, weil immer mehr Akteure unabhängiger von US-amerikanischen  hegemonialen Machtstrukturen werden. Außerdem gibt es auch internationale Institutionen, die ohne den Einfluss des US-Welthegemons entstanden oder geplant sind, wie etwa die Eurasische Wirtschaftsgemeinschaft, China-ASEAN-Freihandelszone oder die für 2015 geplante Eurasische Union.

Beim Kapitel Lösung von transsouveränen Problemen stehen die USA nicht gut da ? es besteht die Gefahr der Selbstüberforderung und, wie bereits erwähnt, der imperialen Überdehnung durch Krieg und weltpolizeiliche Aufgaben. Auch wenn sie ein tatsächliches Interesse an globalem Frieden und nicht an alleiniger Weltherrschaft hätten, wären die USA nicht mehr in der Lage, im Alleingang Kriege zu gewinnen, Terrorismus zu verhindern, Bürgerkriegsparteien zu befrieden, transnationale Kriminalität zu bändigen. Für diese Aufgaben brauchen sie immer öfter eine Koalition, private Sicherheitsfirmen, Söldner oder die Hilfe anderer internationaler Akteure. Man beobachtet vor allem nach 2001 auch einen verstärkten chauvinistisch-militaristischen Exzeptionalismus und einen imperialen Egoismus (Stichwort: „nationales Interesse“), die den Status der USA als benevolent hegemon in Frage stellen.

Erwähnenswert sind auch negative Entwicklungen, die bezeugen, dass die USA kein wohlwollender Welthegemon sind: das Ablehnen des Kyoto-Protokolls, die Kampagne gegen die Errichtung des Internationalen Strafgerichtshofs, Aggressionen und Sanktionen gegen arme Länder, Wirtschafts- und Ressourcenkriege, Folter und gezielte Tötungen von (reellen oder potentiellen) Gegnern, Ausspionierung von Partnern, Alliierten und Vasallen. Außerdem hat Amerika einen Postdemokratisierungs- und Oligarchisierungsprozess durchgemacht. Die Legitimation der US-Herrschaft ist problematisch geworden, vor allem weil die Interessen der USA bzw. der gesellschaftlichen Gruppen, die Machtkontrolle ausüben, und die Interessen anderer, wichtiger Welt- oder Regionalakteure selten kongruent sind. Ferner ist insbesondere nach dem 11. September 2001 ein Auseinanderfallen zwischen hegemonialen Entscheidern und den Entscheidungsbetroffenen zu beobachten. Auch werden schwächere Staaten und private Akteure willkürlich ausgegrenzt, was unter dem Aspekt der demokratischen Herrschaftslegitimation eine partizipatorische Lücke verursacht.

Die USA kennzeichnen sich heute durch suboptimale Effektivität, außenpolitische Aggressivität und völkerrechtswidrigen Interventionismus. Sie sind militärisch und wirtschaftlich überfordert, ihre Herrschaftsform kann man nicht mehr als eine klassische freiheitliche Demokratie, sondern als postdemokratische Oligarchie bezeichnen. Somit sind sie heute zu einem Global Empire geworden, zu einer quasiautoritären Macht, die ein imperiales, manichäisches Weltbild verfolgen. Guantanamo, Falludscha und Abu-Ghraib sind nur drei Symbole der gescheiterten US-Politik. (R. Chr. Hoffmann-Plesch, Freund und Feind in der multipolaren Weltordnung, 2012, unveröffentlicht).

Das Projekt für ein neues amerikanisches Jahrhundert hat sich als eine gefährliche Utopie erwiesen. Die USA müssen sich von der Vision einer Pax Americana verabschieden, ihre Außenpolitik ändern und sich zunehmend als Regionalmacht verstehen, andernfalls werden die Folgen ihrer menschenrechts- und völkerrechtswidrigen Handlungen auch in den nächsten Jahrzehnten zum Widerstand gegen und zum Hass auf die USA führen. Stattdessen jedoch halten die USA an ihrem imperialen Projekt fest, sie haben sich von der Vorstellung einer wohlwollenden Welthegemonie verabschiedet und sind in einen nach der klassischen imperialen Strategie geführten Weltordnungskampf gezogen. Dazu gehört es, Absprachen zwischen den Vasallen zu verhindern und ihre Abhängigkeit in Sicherheitsfragen zu bewahren; die tributpflichtigen Staaten fügsam zu halten und zu schützen; dafür zu sorgen, dass Schurkenstaaten sich nicht zusammenschließen (Z. Brzezinski, Die einzige Weltmacht,1997: 66f.). Die heutige Staatenwelt ist aber im Vergleich zur unipolaren Weltordnung komplexer geworden. Wir befinden uns am Anfang einer multipolaren Weltordnung, deren Hauptakteure ? darunter Atommächte ? nicht gerade als Freunde der USA gelten (mit Ausnahme der EU, die sich aber allmählich der Vormundschaft Amerikas zu entziehen versucht), und auch keine wirklichen Demokratien sind.

Multipolarität und Großraumordnung

Die USA, die am Beginn des 21. Jahrhunderts noch als Sieger des Kalten Krieges und als einzig gebliebene Supermacht galten, werden jetzt mit allen Wahrscheinlichkeit den Status als alleinige Weltmacht verlieren und die Macht mit anderen global agierenden Kräften teilen müssen. Die sukzessiven geopolitischen Paradigmenwechsel ? von der Multipolarität der ersten Hälfte des 20. Jahrhundert zur Bipolarität des Kalten Kriegs und weiter zur welthegemonialen Unipolarität nach 1990 ?, haben die Staatenwelt radikal verändert und die Koexistenz von verschiedenen Akteuren, wie Staaten, Großräume, Imperien (das noch handlungsfähige US-Empire oder das sich noch in statu nascendi befindliche chinesische Imperium) wieder ermöglicht. Anders als in einem unipolaren System, das sich durch eine hegemoniale oder imperiale Vormachtstellung eines Staates oder Staatenverbundes kennzeichnet, existieren in einem globalen multipolaren System mehrere politisch gleichgewichtige bzw. gleichberechtigte Zentren. Die heutige Weltordnung ist wieder multipolar ? sie besteht aus mehreren Machtpolen, die zwar militärisch und wirtschaftlich nicht gleich stark oder dem amerikanischen militärisch-industriellen Komplex überlegen sind, aber aus der Sicht der USA die unipolare Ordnung fragmentieren und das „amerikanische Jahrhundert“ destabilisieren. Weil geopolitische Machtverlagerungen in der Geschichte immer von Konflikten begleitet waren und ständig zur Entstehung neuer Freund-Feind-Konstellationen geführt haben, erscheinen die heutigen Stellvertreterkriege oder der „Krieg gegen den Terror“ als „militärisch unterfütterte Geopolitik“ (W. Ruf, Der Greater Middle East, in: R. Tuschl, Die Neue Weltordnung in der Krise, 2008: 23).

Die jetzige Ordnung ist nicht nur eine multipolare, sondern auch eine großräumig organisierte Weltordnung, die allmählich die Gestalt eines globalen Systems von Großraumordnungen annimmt. Trotz der Transnationalisierung bzw. Globalisierung des Völkerrechts, der Säkularisierung und Modernisierung, der Verwirtschaftlichung, Entnationalisierung und Entpolitisierung eines erheblichen Teils der Welt, und entgegen den Anstrengungen der USA scheint dieser Trend jedoch unumkehrbar zu sein. Es scheint, dass die Großraumrevolution, die in Eurasien zu beobachten ist, nicht von universalistischen, westlich-säkularen Werten vorangetrieben wird, sondern von partikularen Sozialethiken bzw. Geostrategien und neo-orthodoxen Glaubensbekenntnissen, die in verschiedenen politisch-religiösen/-theologischen Komplexen wurzeln. Das bedeutet für die säkulare euro-atlantische Elite nicht nur harte Konkurrenz, sondern auch das Ende ihres Traums von der Demokratisierung der Welt nach ihrem Ebenbild.

Angesichts dieser Realitäten scheint das neue Jahrhundert keine Epoche universeller Werte, kein Konzert der Demokratien, sondern eine Ära voller Spannungen und Konfrontationen zu sein. Neben China und dem südostasiatischen Großraum, Indien und dem südasiatischen Großraum, Russland und dem nordeurasischen Großraum und dem europäischen Großraum (EU) gibt es auch einen eher kulturell-religiös, als geographisch oder wirtschaftlich-politisch definierten Großraum. In diesem Raum konkurrieren mehrere innerislamische Kräfte, die sich offen bekriegen und so der einzigen außereurasischen Großmacht Amerika indirekt helfen, ihre imperiale Agenda zu erfüllen.

Zwischen puritanisch-dschihadistischer Weltrevolution und panarabisch-nationalistischer Großraumordnung

Die gegenwärtige weltweite Rückkehr der Religionen und die Wiedergeburt des politreligiösen Denkens sind nicht nur Reaktionen auf Säkularisierung, Modernisierung, Globalisierung und den damit verbundenen Identitätsverlust, sondern auch eine übergeschichtliche Kontinuität. Wie das Beispiel der islamischen Welt zeigt, haben die verschiedenen konfessionellen Strömungen die sukzessiven Wellen von säkularen Ideologien westlicher Prägung überdauert. Diese weltimmanenten universalistischen Kräfte konnten sich (in reiner Form) gegen den geschichtstranszendierenden islamischen „Volksgeist“ nicht durchsetzen und wurden einem schnellen Entartungsprozess ausgesetzt. Ursprüngliche Kräfte, die zur intimsten Struktur der Geschichte gehören, wie gemeindliche, religiöse oder regionale Formen der gesellschaftlichen Organisation gelten als Anzeichen für eine übergeschichtliche Kontinuität (A. Al-Azmeh, Die Islamisierung des Islam, 1996: 35).

Heute betrachten immer mehr arabische und nichtarabische Moslems den Islam als das einzige Antidot gegen den Verfall der umma und als Waffe gegen deren interne, nichtfundamentalistische, meist staatliche bzw. externe, antiislamischen Feinde betrachten. Mittelalterlich anmutende Begriffe wie dschihad, mudchahid, chilaafa, schahid, murtad, kuffar, scharia usw. sind aus der heutigen Alltagssprache der jungen Muslime nicht mehr weg zu denken. Wir erleben jetzt eine islamische Weltrevolution, die sich unter dem Druck und zugleich mit Hilfe des westlichen, vorwiegend amerikanischen militärisch-industriellen Komplexes zu einem globalen Dschihad entwickelt hat. Wie das Beispiel des heutigen Syriens zeigt, ist die muslimische Welt polarisiert. Sie bewegt sich zwischen verschiedenen, teilweise gegensätzlichen Ordnungsvorstellungen, die von einem puritanisch-wahhabitischen Kalifat bis zum klassischen national-arabischen Staat und weiter zum westlich orientierten säkularen Staat und zu einer christlich-islamischen, im „sakralen eurasischen Imperium“ (A. Höllwerth, Das sakrale eurasische Imperium des Aleksander Dugin, 2007) eingegliederten Großraumordnung reicht. Eine entscheidende Rolle bei der von Innen- und Außenfaktoren vorangetriebenen Neu- oder je nachdem Unordnung der islamischen Welt spielt die Scharia, das einzige Rechtsystem im Islam, das von puritanisch-konservativen Kräften anerkannt wird.

Islamische Rechtstheologie

Die seit den 1970er Jahren verstärkten „Re-Islamisierung“ der islamischen Länder war nicht nur ein politreligiösen, sondern auch ein rechtspolitisches bzw. rechtstheologisches Problem. Der Versuch, westliche politische Systeme zu übernehmen, wurde im Islam vom Versuch, westliche Rechtsauffassungen und Rechtssysteme zu übernehmen, begleitet. Beide Versuche sind gescheitert, weil die pro-westlichen Kräfte keine Rücksicht auf die eigene islamische Tradition und Mentalität genommen haben. Die westlichen Ideologien wurden nach dem Ende des Kolonialismus von der Mehrheit der Moslems als unislamisch bezeichnet. Die Vorstellungen von Demokratie und Menschenrechten stellen auch heute nach Ansicht der führenden Islamisten eine „bösartige Ideologie“ dar, eine „neue säkulare Religion“, die nun vom Neo-Kolonialismus unter der US-Führung propagiert wird (A. Al-Azmeh, Die Islamisierung des Islam, 1996: 171).

Ein wichtiger innerislamischer Streitpunkt ist die Scharia. Die primären Quellen dieses Rechtssystems sind der dem Propheten Mohammed offenbarte Koran und die Sunna, die Summe der gesetzlich verbindlichen Äußerungen, Handlungen und Bestätigungen Mohammeds. Das Recht der urislamischen Gemeinschaft war allerdings unsystematisch und heterogen. Es gab keine Scharia im späteren Sinne und deshalb keine kohärente islamische Rechtsordnung. Neben allgemeinen koranischen Richtlinien und zum Teil konkreten ad-hoc-Regelungen gab es auch vorislamische Regeln des Zusammenlebens. Allmählich hat sich die Auffassung etabliert, dass ein Rechtssystem sich nicht auf Rechtsnormen und -entscheidungen stützen sollte, die aus vorislamischen Traditionen und pragmatischen Überlegungen hergeleitet werden, sondern dass sie ausschließlich auf der Religion des Islams zu fußen habe.

So wurden der Koran und die Sunna zu Kriterien der Rechtsschöpfung. Kurze Zeit später wurden auch der Analogieschluss und der consensus prudentium als sekundäre Rechtsquellen akzeptiert, diese kommen aber nur in bestimmten Fällen zum Einsatz, die im Koran und in der Sunna nicht behandelt werden, und sie sind nur im Geiste des Korans und der Sunna anzuwenden) (A. Noth, Die Scharia, das religiöse Gesetz des Islam, in: W. Fikentscher/H. Franke/O. Köhler, Entstehung und Wandel rechtlicher Traditionen, 1980: 416ff.).

Die verschiedenen islamischen Rechtsschulen entstanden später aus mindestens zwei Gründen. Erstens wurde der Islam während seiner Ausbreitung über andere Völker und Länder mit fremden Lebensformen konfrontiert. Da ein wahrer Muslim erstens nicht nur verbal bezeugen muss, dass es keinen Gott außer Allah gibt und Mohammed sein Gesandter ist, sondern auch im Einklang mit dem Koran und der Sunna leben sollte, hat der Islam versucht, eine Antwort auf die verschiedenen Traditionen, Gesellschaftsformen und Rechtssysteme der neu islamisierten Völker zu finden. Zweitens war die Scharia keine Schöpfung einer gesetzgeberischen islamischen Herrscherschicht; Grundlegung, Ausgestaltung und Bewahrung der Scharia lagen in den Händen von Privatleuten, die in Abwesenheit einer hohen weisungsgebenden Autorität trotz prinzipieller Übereinstimmung verschiedene juristische Auffassungen vertraten. Aus einer praktischen Notwendigkeit und wegen Meinungsverschiedenheiten entstanden verschiedene islamische Rechtsschulen, die anders als im säkularen Westen keine abstrakte Rechtssysteme, sondern auf konkreten, gesellschaftlich verankerten Praktiken beruhende Lebensformen waren. Somit wurde der Islam wie eine „Gesetzesreligion“ strukturiert. Aus diesem Grunde entstand eine andere, nicht-juristische Strömung, nämlich die islamische Mystik. Die Mystiker haben sich zwar nie völlig außerhalb der Scharia bewegt, aber sie haben die Auffassung vertreten, dass die äußere juristische Form der Religion und des gesellschaftlichen Lebens nicht genügt, den Menschen Gott nahe zu bringen. Man brauche auch eine innerliche und innige Annäherung, die zusammen mit der Besinnung auf koranische Frömmigkeit und der islamischen Rechtstheologie die Grundlagen der islamischen Mystik stellen. (A. Falaturi, Die Scharia ? das islamische Rechtssystem, in: Bayerische Landeszentrale für politische Bildungsarbeit, Weltmacht Islam, 1988: 97f.)

Sunniten vs. Schiiten

Die Unstimmigkeiten zwischen „Mystikern“ bzw. gemäßigten Moslems und „Legalisten“ und die Unterschiede zwischen verschiedenen Rechtsschulen sind bis heute spürbar. Vor allem zwei islamische Rechtschulen sind für die heutigen Umwälzungen im Islam und ganz besonders in Syrien wichtig. Die erste, die nach Ahmad ibn Hanbal (780-855) genannte Schule der Hanbaliten, war eine sunnitische, konservativ-dogmatische Reaktion auf rationalistische Tendenzen in der islamischen Gesellschaft. Für Hanbaliten gelten nur die Traditionen des Propheten und der ersten Prophetengefährten und keine anderen Rechtsmittel (später wurde jedoch auch der „richtige Analogieschluss“ angewandt). Die Zustimmung zur Vergangenheit und die Idealisierung der urislamischen Gemeinschaft spielen eine große Rolle, moralisches, privates Urteilen hat viel mehr Gewicht als theologische und juristische Kontroversen und Problemlösungen. Die Hanbaliten streben die Fortführung des Anstrengung (idschtihad), alle Gesetze aus dem Koran, der Sunna und dem Konsens der ersten Generationen ? der ehrwürdigen, rechtschaffenen Vorfahren (salaf as salih) ? abzuleiten und, wenn nötig, neu zu interpretieren (selbstverständlich nur im Geiste des Koran und der Sunna).

Aus dieser dogmatisch-konservativen Rechtsschule entstanden später pietistische Strömungen wie die Muslimbrüder oder die islamischen Revolutionäre. Eine radikale Richtung ist der Wahhabismus, der auf der Lehre von Muhammad ibn Abd al-Wahhab (1703-1792) gründet und die Rückkehr zum reinen Islam der Urgemeinschaft des 7 Jahrhundert fordert, in der Allahs Alleinherrschaft entscheidend war. Nach der wahhabitischen Lehre dürfen die Muslime den Propheten nicht anbeten oder vor dem Schrein der Heiligen beten, sie dürfen auch den Kult der heiligen Gräber nicht pflegen. Es gilt die strikte Einhaltung der Scharia und alle nichtsunnitischen (etwa Schiiten, Sufis, Alawiten) und gemäßigte sunnitische Muslime sind als Häretiker und Apostaten zu behandeln. Die Lehre dieser Sekte ist in Saudi-Arabien Staatsdoktrin und zugleich Wegweiser für Millionen Muslime weltweit, die unter dem Namen „Salafisten“ eine umstrittene, aber wichtige Rolle in den heutigen Auseinandersetzungen im Islam und vor allem in Great Middle East spielen.

Die zweite, für den heutigen Islam wichtige Rechtsschule ist die der Schia, die Schule der Muslime, die den Imamen folgen, die aus der Familie des Propheten stammen. Anders als die Sunniten glauben die Anhänger des Vetters und Schwiegersohns Mohammeds, Ali ibn Abi Talib, dass dieser der rechtmäßige Nachfolger des Propheten war. In der schiitischen Imamatstheorie werden der Koran und die Sunna als Rechtsquellen anerkannt, den Konsensus der Gelehrten wird aber durch den Entscheid des „unfehlbaren Imams“ ersetzt. Nach seinem Verschwinden lebt der 12. Imam Muhammad ibn Hasan al-Mahdi in der Verborgenheit und wird vor dem Ende der Welt erscheinen. Anstelle der sekundären Rechtsquellen hat diese Schule die Vernunft als Rechtsmittel aufgestellt. Außerdem sind in die schiitische Strömung mehrere fremde Vorstellungen, darunter altpersische und gnostische Elemente, eingeflossen. Das hat die Feindschaft der Sunniten, insbesondere der Wahhabiten zugezogen; die sunnitischen Theologen bezeichnen die Schiiten (ebenso die Alawiten, die im Syrien an der Macht sind) als unislamisch, ungläubig oder heidnisch. Die Schule spielt jedoch eine wichtige Rolle in Iran, wo sie die Grundlagen der Theokratie stellt, in Irak, Libanon, Syrien usw.

Politreligion, Sektarismus, die Wirkung der Scharia: Der Fall Syrien

Zwischen diesen zwei großen, sich im Konflikt befindlichen Strömungen des Islams haben Millionen Alawiten, Drusen, Kurden, Sufis, Christen, moderate Sunniten und Angehörige anderer Glaubensrichtungen versucht, ein friedliches Miteinander zu schaffen. In Syrien etwa war das aufgrund einer von Staat und Partei vertretenen quasisäkularen, auf christlich-islamische und multiethnische Koexistenz fixierte Politreligion möglich, allerdings unter dem Druck einer autokratischen, nationalen und sozialistischen Staatsordnung, die jede rein religiöse und ethnische Partei verbot. Hafiz al-Assad ? Baschars Vater und Präsident bis 2000 ?, hat Syrien fast 30 Jahre mit eiserner Hand regiert und aus einem chronisch instabilen Land ein „Bollwerk der Stabilität“ (N. Bensahel/D. Byman, The Future Security Environment in the Middle East, 2004: 177) gemacht. Der Preis dafür war jedoch groß: Repression, Vetternwirtschaft, die Macht in der Hand der autoritären Baath-Partei und der mit ihr verbündeten Kleinparteien, die Vorherrschaft der alawitischen Minderheit über die sunnitische Mehrheit usw. Im Zuge des sogenannten „Arabischen Frühlings“ kam es ab März 2011 zu Protesten gegen die Assad- Regierung, die sich im Laufe der Monate zu einem regelrechten Krieg entwickelten, der aber mehr nach Stellvertreter- als nach Bürgerkrieg aussah und später gar zur einer leisen, von außen gesteuerten Invasion raumfremder Kräfte geworden ist. Die Kritiker der Assad-Regierung, die einen friedlichen Übergang zu einer freiheitlich-demokratischen Ordnung anstrebten, wurden relativ schnell von bewaffneten inländischen Oppositionellen und ausländischen, meist salafistischen Dschihadisten verdrängt. Obwohl die Anti-Assad-Opposition ein breites Spektrum aufweist ? darunter der Syrische Nationalrat (SNC), das Nationale Koordinierungskomitee für Demokratischen Wandel (NCC), die Freie Syrische Armee (FSA), die Lokalen Koordinierungskomitees (LCC), der Rat für die Syrische Revolution, die Syrische Beobachtungsstelle für Menschenrechte, Al Kaida/Al-Nusra-Front und „freischaffende Kämpfer“, Syrische Muslimbruderschaft usw. ? kann man leicht feststellen, dass die (sichtbaren) Hauptakteure der Opposition die Kämpfer der FSA und die Dschihadisten sind.

Die post-koloniale Gruppierung der Nationalstaaten in der Region des Nahen Osten wurde als ein „regionales Subsystem innerhalb der Weltordnung“ gedeutet (B. Tibi, Krieg der Zivilisationen, 1995: 89). Man kann weiter gehen, und dieses Subsystem, ob in panarabischer oder in lokalnationaler bzw. sozial-nationaler Gestalt, als eine rudimentäre, aber für kurze Zeit vielversprechende regionale Ordnung bezeichnen, die auf dem guten Weg zu einer stabilen, unabhängigen oder im Sinne Carl Schmitts „völkerrechtlichen Großraumordnung mit Interventionsverbot für raumfremde Mächte" war. Der Traum aller panarabischen, lokalnationalen und sozialistischen Militanten von einer starken überkonfessionellen arabischen Einheit im Großraum Naher Osten ist durch die chaotischen Ereignisse in Libanon, Irak, Ägypten, Palästina und heute Syrien ferner gerückt. Die Bevölkerung dieser Region befindet sich heute, wenn man das aktuelle Beispiel Syriens betrachtet, zwischen einem politreligiösem Abwehrkampf, der von überwiegend nichtfundamentalistischen nationalen, teilweise auch sozialistischen bzw. moderat-islamischen Kräften organisiert wird und einem großräumig ausgedehnten gesetzesreligiösen Dschihad, der von verschiedenen radikalen Gruppierungen militärisch geführt wird.

Auf der Seite der Anhänger der quasisäkularen, national-etatistisch orientierten Politreligion kämpfen direkt oder indirekt einige eurasische Verbündete Syriens, wie Russland, Iran, Hisbollah/Libanon, China und Kräfte aus dem Irak; auf der Seite der Anti-Assad-Opposition kämpfen neben syrischen Oppositionellen schariagläubige Dschihadisten, „Gotteskrieger“ aus afrikanischen, arabischen, kaukasischen, westeuropäischen Ländern und neuerlich aus Pakistan und Afghanistan. Sie werden hauptsächlich von salafistisch-wahhabitischen Kräften finanziert und in den Kampf gehetzt. All das mit großzügiger moralischer, politischer und logistischer Unterstützung euro-atlantischer Akteure, die ohne Rücksicht auf Verluste die Balkanisierung des islamischen Großraums zu beschleunigen versuchen. Die oppositionelle bzw. sektiererische Gewalt und die staatliche Antwort auf diese haben bis jetzt mehr als 100.000 Menschenleben gefordert und Syrien in eine Trümmerlandschaft verwandelt.

Abgesehen von Interessen fremder, nichtislamischer Mächte in Syrien und in Great Middle East muss man an dieser Stelle erwähnen, dass der innerislamische Konflikt ohne den Scharia-Streit zwischen den gemäßigten und den radikalen Moslems die jetzige Intensität nicht erreichen hätte können. Aber die Wirkung der Scharia in der islamischen Geschichte ist weit über die konkrete Anwendung hinausgegangen. Erstens ist sie genau wie seine Vertreter (Privatakteure, keine Herrscher) unabhängig geblieben und den historischen Ereignissen nicht angepasst; sie wurde immer als der „Codex der islamischen Idealforderungen“ verstanden. Zweitens war die Scharia auch unter „quantitativem“ Aspekt wirkungsvoll, wie die Ausdehnung ihrer Kompetenz auf alle Bereiche menschlichen Handelns beweist. Drittens kann man die „(Re-)Aktivierbarkeit“ der Scharia als Wirkungsmöglichkeit nennen, die aufgrund des idealen Charakters dieses Gesetzes zeit- und ortsunabhängig gefordert werden kann. (A. Noth, Die Scharia, das religiöse Gesetz des Islam, in: W. Fikentscher/H. Franke/O. Köhler, Entstehung und Wandel rechtlicher Traditionen, 1980: 432ff.) Man kann folglich die buchstabengetreue Umsetzung der Scharia und somit auch die gesetzesreligiöse Forderung des Dschihad zum Programm von konservativ-dogmatischen Bewegungen machen, was spätestens seit dem Afghanistankrieg (2001) bzw. dem Irakkrieg (2003) und verstärkt heute in Syrien zu beobachten ist.

Was Syrien betrifft, kann man sagen, dass mit der endgültigen Machtergreifung der alawitischen Minderheit (1970) der Konflikt mit den Sunniten, und vor allem mit den Wahhabiten vorprogrammiert war. Diese konnten sich nach 1970 auf eine mittelalterliche fatwa des sunnitischen Rechtsgelehrten Ibn Taymiyya ? Begründer der „politischen Theologie des muslimischen Bürgerkrieges“ (D. Diner, Politische Theorie des Bürgerkrieges, in: J. Taubes, Religionstheorie und Politische Theologie 3, 1987: 238) ? berufen. Dieser gemäß verdienen die syrischen Alawiten als Abtrünnige exkommuniziert,  gemäß der Scharia die Todesstrafe. Für Ibn Taymiyya waren sie aufgrund ihrer esoterischen, schiitisch-sufischen Religion und der allegorischen Auslegung der Scharia „schlimmer als Juden, Christen und Heiden“. Außerdem wurden sie aufgrund ihrer Kollaboration mit den Kreuzrittern und der Ablehnung der ersten drei Kalifen als Verräter angesehen.

Nationalstaat oder supranationales Kalifat?

In einer Ramadan-Botschaft des zentralen Medienbüros von Hizb-ut-Tahrir (die international agierende schariagläubige „Partei der Befreiung“) wird am 09.07.2013 verlautbart: „Möge Allah in diesem Monat der Monate die Unrechtherrschaft Assads und seinesgleichen zu Grunde richten und an ihrer statt das Kalifat errichten, auf dass das Licht des Islam erneut die Welt erstrahlen lässt. Amin!“ (http://www.kalifat.com/). Das ist keine bloße Rhetorik, sondern ein Beispiel für die gegenwärtige Renaissance der mittelalterlichen Kalifat-Vorstellung, die vor allem von puritanischen Sunniten wieder aktiviert wird. Die heutigen Konflikte im Islam haben nicht nur mit Glauben, politreligiösen Überzeugungen oder Sektarismus zu tun, sondern auch mit konkret-politischen Ordnungsvorstellungen. Die islamische Geschichte zeigt, dass die „Wir-Gruppen“ im Islam ihre Identität nicht an die Existenz eines über ihnen stehenden Nationalstaats, sondern an ethnischen (z.B. die Kurden in Syrien, der Türkei, im Iran und Irak) oder sektiererischen (z.B. die Schiiten im Iran, Irak, Libanon) Partikularitäten binden.

Die islamistische Erhebung richtet sich nicht nur gegen Feinde und Abtrünnige des Islams, sondern auch gegen den arabischen Nationalstaat als eine Institution, die nicht auf dem islamischen Boden gewachsen, sondern unter der Parole „Vom Gottesreich zum Nationalstaat“ aus dem Ausland importiert wurde. (B. Tibi, Krieg der Zivilisationen 1995: 72ff., 83). Die heutigen islamischen Fundamentalisten wollen diesen Prozess umkehren, die Parole lautet jetzt: „Vom Nationalstaat zum Kalifat“. Was in Syrien passiert hat also auch mit der Ablehnung säkularer, gemäßigt islamischer oder als unislamisch bezeichneter Ideologien sowie Staats- bzw. Lebensformen zu tun. Der Aufstieg der Alawiten im Militärapparat und in der Politik stellte für sunnitischen Pietisten „die höchstmögliche negative Steigerung des sakral verworfenen Zusammenhangs der Barbarei“ dar, ein „Amalgam von arabischem Nationalismus, Militärherrschaft und Säkularismus“, all dies eingebunden in einer „apostatischen ethnischen Minderheitenherrschaft“ (D. Diner, Politische Theorie des Bürgerkrieges, in: J. Taubes, Religionstheorie und Politische Theologie 3, 1987: 241). Der Idee des Nationalstaates bzw. der panarabischen Großraumordnung wird heute die Vorstellung eines supranationalen Kalifats und einer fundamentalistischen Großraumordnung mit Interventionsverbot für schariafeindliche bzw. -ignorante Mächte entgegengesetzt.

Der Islamismus ist zwar auch ohne liberale, nationalistische und sozialistische Komponenten staatskonstitutiv, wie der Iran beweist, die frommen Schariagläubigen jedoch lehnen die Idee des Staates als eine westliche Institution ab und verstehen die Gründung eines panislamischen Kalifats als heilige Pflicht. Anhand des Falls Syrien, der mittlerweile als Schulbeispiel gelten könnte, kann man die drei Merkmale des sunnitisch-fundamentalistischen Dschihadismus erkennen, die an die Merkmale der Globalisierung ? Multikulturalität, Transnationalisierung, Entterritorialisierung ? erinnern, und die dschihadistische Strömung als eine für das 21. Jahrhundert taugliche Weltanschauung erscheinen lassen: seine „multikulturelle Verfasstheit“, seine „transnationale Organisierung“ und seine „entterritoriale Gemeinschaftsvorstellung“ (S. Huhnholz, Dschihadistische Raumpraxis, 2010: 113).

Der Syrienkrieg als Weltordnungskrieg

Teil 2 der Analyse "Syrien, Eurasien und die neue multipolare Weltordnung"

Von Roland Christian Hoffmann-Plesch
   

Zurück zu Syrien: Warum ist gerade dieses Land so umkämpft? Warum ist Syrien sowohl für nichtislamische als auch für radikalislamische Kräfte so wichtig?

Syrienkrieg als Weltordnungskrieg

Mairead Maguire, nordirische Friedensnobelpreisträgerin (1976), hat als Leiterin einer Friedensdelegation Libanon und Syrien (1.-11. Mai 2013) auf Einladung der „Musalaha Versöhnungs-Bewegung“ besucht. Gestützt auf viele autorisierte Berichte und eigene Untersuchungen stellte sie fest, dass in Syrien kein herkömmlicher Bürgerkrieg, sondern ein Stellvertreterkrieg mit schwerwiegenden Verletzungen des internationalen Rechts und des humanitären Völkerrechts stattfindet. Dieser Krieg wird im Auftrag fremder Mächte geführt, die zur Erreichung eigener Ziele ungefähr 50.000 ausländische dschihadistische Kämpfer trainieren und finanzieren: „Diese Todesschwadronen zerstören systematisch die staatliche Infrastruktur Syriens (Elektrizitäts-, Öl-, Gas- und Wasserwerke, Hochspannungsmasten, Krankenhäuser, Schulen, öffentliche Gebäude, historische Kulturstätten und sogar religiöse Gebäude). Darüber hinaus ist das Land überschwemmt mit Heckenschützen, Bombenlegern, Agitatoren, Banditen. Sie operieren mit Aggressionen und Geboten der Scharia und berauben so die syrische Bevölkerung ihrer Freiheit und Würde. Sie foltern und töten diejenigen, die sich weigern, sich ihnen anzuschließen. Sie haben eigenartige religiöse Überzeugungen, die ihnen ein gutes Gewissen selbst beim Begehen grausamster Taten, wie dem Töten und Foltern ihrer Gegner belassen. Es ist gut dokumentiert, dass viele dieser Terroristen ständig unter einem Aufputschmittel wie Captagon stehen. Das allgemeine Fehlen von Sicherheit zeitigt das schreckliche Phänomen der Entführungen für ein Lösegeld oder zum Erzeugen politischen Drucks.“ (M. Maguire, In Syrien findet ein Stellvertreterkrieg im Auftrag fremder Mächte statt, 2013, http://www.ag-friedensforschung.de/regionen/Syrien/maguire.html)

Der Syrienkrieg ist wahrlich kein klassischer Bürgerkrieg, sondern vielleicht ein für die Zukunft Eurasiens entscheidender Weltordnungskrieg, in dem Mächte und Kräfte kämpfen, die unterschiedliche geopolitische bzw. geostrategische und wirtschaftliche Interesse und zum Teil völlig entgegengesetzte religiöse und weltanschauliche Überzeugungen haben.

Geostrategischer Krieg

Der Krieg wird so radikal geführt, dass er bereits als totaler Krieg gelten kann. Die ausländischen Dschihadisten werden durch einige mächtige Staaten geschützt, was ihnen einen hohen Grad an Verantwortungslosigkeit gewährt, die sie ungestraft zu abscheulichen Grausamkeiten gegen unschuldige Zivilisten ermutigt. Wie Mairead Maguire zeigt, wird selbst das Kriegsrecht nicht respektiert, sodass viele Kriegsverbrechen und Verbrechen gegen die Menschlichkeit begangen werden (M. Maguire, In Syrien findet ein Stellvertreterkrieg im Auftrag fremder Mächte statt, 2013, http://www.ag-friedensforschung.de/regionen/Syrien/maguire.html).

Warum sind euro-atlantische Akteure so sehr an Syrien interessiert? Wie oben erwähnt ist Syrien kein geostrategischer Akteur, der den von den USA fixierten geopolitischen Status quo verändern kann, sondern ein geopolitischer Dreh- und Angelpunkt, ein Staat, dessen Bedeutung sich aus seiner geographischen Lage ergibt. Laut US-General Wesley Clark gab es bereits im November 2001 einen Plan für eine Fünf-Jahres-Kampagne gegen sieben islamische Länder: Irak, Libanon, Libyen, Iran, Somalia, Sudan und Syrien (M. Chossudovsky, Ein „humanitärer“ Krieg gegen Syrien?, 2011, http://www.globalresearch.ca/ein-humanit-rer-krieg-gegen-syrien/26944). Auch der französische Ex-Außenminister Roland Duma bestätigt die Information, dass der Syrienkrieg lange geplant war (http://www.globalresearch.ca/former-french-foreign-minister-roland-dumas-west-was-preparing-attack-on-syria-before-crisis-started/5341296). Es gibt mindestens vier Gründe, die für den Syrienkrieg als geostrategischem Krieg sprechen:

Erstens die geographische Lage: Syrien liegt in der „heißen“ Mitte des Greater Middle East und hat Grenzen mit Libanon, Jordanien, Israel, Türkei, Irak und auch Zugang zum Mittelmeer. Es ist somit der ideale Platz für geopolitische „Schachbewegungen“ und geostrategischen Konfrontationen. Wer Syrien kontrolliert hat eine direkte Grenze zu Israel. Wenn die Kontrolle von einer israelfeindlichen Macht ausgeübt wird, ist die Sicherheit Israels in Gefahr. Wenn im Gegenteil eine israelfreundliche Macht die Kontrolle über Syrien übernimmt, dann ist ein Teil der israelischen Grenze geschützt, Libanon wird isoliert und die Verbindung zwischen Hisbollah und Iran unterbrochen. Wenn diese Macht auch ein euro-atlantisches Nato-Mitglied ist, dann wird Syrien zusammen mit dem Nato-Land Türkei und dem Nicht-Nato-Verbündeten Jordanien einen Sicherheitsgürtel um Israel (das einzige im westlichen Sinne demokratische Land in der Region) bilden und zugleich die russisch-chinesisch-iranische Präsenz in der Region minimieren. Nur die Grenze zu Ägypten würde weiter eine Gefahr darstellen, zumindest solange in Kairo keine israelfreundliche Macht herrscht.

Zweitens die israelfeindliche Einstellung und das asymmetrische militärische Potential: Als Folge seiner geographischen Lage und der klaren antiisraelischen Orientierung seiner jetzigen Regierung gilt Syrien als gefährlich. In der Resolution des US-Repräsentantenhauses zur Verantwortung Syriens für die Wiederherstellung der Souveränität des Libanons aus dem Jahr 2003 (http://www.govtrack.us/congress/bills/108/hr1828/text) wird behauptet, dass Syrien passiv oder aktiv in Verübung von Terrorakten involviert ist, sicheren Hafen für mehrere terroristische Gruppen bietet und mit Hilfe Irans Unterstützung für Terrororganisationen leistet (Hisbollah, Hamas, Islamischer Dschihad in Palästina, Volksfront zur Befreiung Palästinas samt Hauptquartier) (Sektion 2: 1-5). Außerdem werden hier auch die ständigen Raketenangriffe erwähnt, die Hisbollah mit Hilfe Syriens und Irans auf Israel verübt (Sektion 2: 12, 14, 15), und die chemischen, biologischen und ballistischen Waffen, die einem asymmetrischen Krieg gegen Israel dienen könnten, sowie die russisch-syrische Zusammenarbeit auf dem Gebiet der zivilen und vermutlich militärischen Nukleartechnik (Sektion 2: 16-24). Nicht zuletzt wird auch die syrische Unterstützung der antiamerikanischen Rebellen, die im Irak Wiederstand leisten, betont. (Sektion 2: 30-34). Syrien soll unter anderem aufhören, sein Militärarsenal zu erweitern und antiisraelische Terrororganisationen und Rebellen, die im Irak US-Soldaten töten, zu unterstützen (Sektion 5: (d) 1, 3, 4).

Drittens die Bildung gefährlicher Allianzen: Syrien hat sehr gute Beziehungen mit drei mächtigen eurasischen Akteuren ? Russland, China, Iran ? die besondere geopolitische und geostrategische bzw. wirtschaftliche Interessen in der Region haben und somit an der Erhaltung des jetzigen status quo in Syrien interessiert sind. Russland hat im Nordwesten von Syrien, in Tartus, einen Stützpunkt, der zu einer dauerhaften russischen Marinebasis für nuklear bewaffnete Kriegsschiffe umgebaut wurde (aufgrund der Kämpfe vorübergehend geräumt). Die militärisch-technologische Kooperation mit dem Assad-Regime macht aus Syrien Russlands Brückenkopf und Bollwerk im Nahen Osten, wo Russland und seine eurasischen Geostrategen/-politiker mit Hilfe Chinas und in Absprache mit dem Iran als Ordnungsmacht aufzutreten versucht. Russland schützt Syrien, und man kann sagen, der Kreml bestimmt in diesem Moment das diplomatische Geschehen und zusammen mit der Hisbollah und dem Iran auch den militärischen Kampf um Syrien. Syrien scheint für diese eurasischen Mächte die eigentliche rote Linie zu sein. China unterstützt den syrischen Abwehrkampf nicht nur aus weltanschaulichen, wirtschaftlichen oder geostrategischen, sondern auch aus pragmatisch-innenpolitischen Gründen: China wirft den muslimischen Uiguren terroristische Verbindungen nach Syrien vor, wo sie als Mitglieder der Ostturkestanischen Muslimischen Bewegung auf der Seite der sunnitischen Fundamentalisten kämpfen. Diese Kämpfer, so die offizielle Begründung, seien eine große Gefahr für die Integrität und Sicherheit des chinesischen Staates. Über die geostrategische Bedeutung der syrisch-iranischen Allianz genügt hier nur einen Satz: Der Weg der US-Armee, der Nato und der israelischen Zva haHagana nach Iran führt durch Syrien.

Viertens die Eurasien-Strategie der USA: Wie oben erwähnt, versuchen die USA starke eurasische Regionalmächte (Einzelakteure oder Bündnisse) direkt oder indirekt zu destabilisieren, damit sie nicht genug stark werden können, um ihren Supermachtstatus zu unterminieren.

Weltanschauungskrieg

Der Syrienkrieg ist auch ein Weltanschauungskrieg, auch wenn in der westlichen Presse und den außenpolitischen Statements der euro-atlantischen Regierungen darüber nichts zu hören ist. Auch die Strategen der USCENTCOM glauben, dass die Gründe für Syriens innen- und außenpolitische Aktionen anders als im Falle Irans eher aus kurzsichtigen Berechnungen als aus einer tief verankerten Ideologie stammen (http://www.centcom.mil/syria/).

Das entspricht nicht der Realität, sondern ist ein Versuch, die Ursprünge des Konflikts zu verschleiern, Assad als machtgierigen Diktator und die pro-syrischen Kräfte als fanatische Unterstützer des Staatsterrorismus darzustellen. Dass Assad kein Demokrat ist, ist klar. Die Wirklichkeit sieht aber ein bisschen anders aus. Nach dem Untergang des Osmanischen Reiches intensivieren sich in Syrien wie auch in anderen Provinzen des besiegten Reiches panarabisch-nationalistische Bestrebungen zu Unabhängigkeit und Selbstbestimmung. Panarabismus, der unter anderem eine Reaktion auf den jungtürkischen Panturanismus war, gewinnt immer mehr Anhänger. Die Herausbildung politischer Identitäten in dieser Epoche erfolgte im Spannungsfeld panarabischer und territorial orientierter, syrischer bzw. libanesischer Loyalitäten sowie arabisch-islamischer Strömungen, die sich entgegen der Meinung der heutigen Salafisten einander im Einzelfall nicht unbedingt ausschließen. Zum Beispiel sah der Großmufti von Jerusalem große Ähnlichkeiten zwischen den Grundsätzen des Islams und denen des Nationalsozialismus: Bejahung des Kampfes und der Gemeinschaft, das Führerprinzip und der Ordnungsgedanke, die hohe Wertung der Arbeit. A. El-Husseini, Rede an die 13. Freiwilligen Gebirgsdivision der Waffen SS „Handschar“, Junges Forum 3, 2004: 46).

1920 beschlossen die alliierten Siegermächte des Ersten Weltkrieges mit Billigung des Völkerbundes die Neuaufteilung des besiegten Osmanischen Reichs. Frankreich erhielt bis 1943 das Mandat für Libanon und Syrien. Nach der osmanischen Erfahrung und unter dem Druck der Franzosen haben sich die syrischen Nationalisten radikalisiert und neben dem Panarabismus auch faschistische und nationalsozialistische Elemente adoptiert. Vor allem der Nationalsozialismus bot bei der Suche nach einer neuen, rein syrischen gesellschaftlichen Ordnung einen möglichen Anknüpfungspunkt (G. Nordbruch, Nazism in Syria and Lebanon, 2009). Bereits 1932 wurde die Syrische Sozial-Nationalistische Partei (SSNP) unter der Sonnenrad-Swastika-Flagge gegründet. Ihr Gründer und Führer, der christlich-orthodoxe Journalist Antun Sa’ada, war germanophil und Anhänger des Dritten Reiches. Er verstand die syrische Nation als eine fruchtbare Mischung von Kulturvölkern wie Sumerer, Kanaaniter, Phönizier, christliche und islamische Araber. Seiner nationalistisch-pansyrischen Auffassung nach gehörten das heutige Syrien, der Libanon, die türkische Provinz Hatay, die Gebiete des ehemaligen Palästina einschließlich Israel, Jordanien, Irak und Kuwait in einem Großsyrien (Bilad al-Sham) vereinigt.

Die Prinzipien der SSNP lauten: Erstens: Syrien gehört den Syrern; zweitens: Die syrische Frage ist eine eigenständige nationale Frage, die unabhängig von anderen nationalen Fragen zu lösen ist; drittens: Die syrische Frage ist die Frage der syrischen Nation und des syrischen Vaterlandes.; viertens: Die syrische Nation ist die Einheit des syrischen Volkes, die sich seit der Vorgeschichte herausgebildet hat; fünftens: Das syrische Vaterland ist das physische Milieu, in dem die syrische Nation sich entfaltet hat; sechstens: Die syrische Nation umfasst eine einheitliche Gesellschaft; siebtens: Die national-soziale Renaissance Syriens schöpft ihre Energien aus den Fähigkeiten der syrischen Nation und ihrer politischen und kulturellen Geschichte; achtens: Das Allgemeininteresse Syriens steht über jedem anderen Interesse.

Dazu kommen noch einige Reformprinzipien des syrischen Sozial-Nationalismus wie Trennung von Staat und Religion; allen Klerikern ist es untersagt, sich in die nationale Politik und nationale Rechtsprechung einzumischen; alle Schranken zwischen den verschiedenen Religionen und ihren Sekten sind aufzuheben; die Aufhebung des Feudalismus und eine nationale Organisation der Wirtschaft werden vorgegeben; dazu gehört auch der Aufbau einer starken Armee, die sich wirksam an der Schicksalsbestimmung der Nation und des Vaterlandes beteiligen kann. (B. Tibi, Vom Gottesreich zum Nationalstaat, 1991: 184f.)

1947 wird Michel Aflaq, ein römisch-katholischer Lehrer, der ebenfalls germanophile und dazu ein glühender Hitler-Anhänger war, eine zweite panarabische Partei gründen, die revolutionär-säkulare, nationalistische, sozialistische und anti-israelische Baath-Partei. Diese Partei wurde von begeisterten Anhängern in vielen islamischen Ländern gegründet: 1949: Palästina, 1951: Libanon, 1952: Irak, 1954: Jordanien, 1956: Bahrain, 1958: Südjemen, 1964: Sudan, 2011: Tunesien.

Im Geiste dieser zwei verwandten Strömungen wurden Generationen von Syrern und anderen Arabern erzogen. Im Geiste der pansyrischen, sozial-nationalistischen, baathistischen Weltanschauung wurde auch die jetzige syrische politische Elite erzogen, die den Traum vom Großsyrien auch im 21. Jahrhundert nicht aufgegeben hat (http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Syrisch-baathistisches_Hegemonialstreben.png).

Die Allianzen mit anderen arabischen, europäischen oder asiatischen Kräften und Mächten erscheinen in diesem Sinne als natürlich. Die Mischung zwischen Nationalismus und Sozialismus ist eine typisch eurasische Strömung, die auch heute als Staatsdoktrin in Ländern wie Russland, China und eben Syrien gilt. Die Gegner dieser Weltanschauung sind einerseits die wahhabitisch-salafistischen Akteure wie Saudi-Arabien oder Katar, die eher religiös, als ideologisch denken, andererseits die USA (und einige Verbündete und Vasallen) und Israel, die nach den Erfahrungen mit dem Dritten Reich genau wissen, wie leicht nationalsozialistische Lösungen ganze Völker begeistern und zu wie viel politischer und militärischer Machtakkumulation diese führen können.

Auch Syriens Verbündete deuten diesen Krieg als Weltanschauungskrieg. Aus einer russisch-eurasischen Perspektive bildet der Islam keine geopolitische Einheit. Die Position Russlands gegenüber dem Islam ist sowohl religiös als auch geopolitisch begründet und erklärt seine Parteiname für Syrien. Aleksander Dugin, der russische politische Philosoph des Neo-Eurasismus, erklärt die pro-syrische, pro-schiitische und -alawitische Position Russlands, wie folgt. Einerseits gibt es den „eurasischen Islam“ im Iran, im Libanon usw., d.i. der schiitische und sozialistische Islam, der Sufismus, der syrische Alawismus, im Allgemeinen der mystisch-traditionalistische, kontemplative, vielfältige und tiefe Islam. Dieser Islam ist der Freund Russlands und der christlichen Orthodoxie. Andererseits gibt es den wahhabitisch-salafistischen Islam in Saudi-Arabien, den radikal-sunnitischen Islam in Pakistan usw., die ähnlich wie im puritanischen Calvinismus auf einer reinen Lehre beruhen. Der puritanische Islam lehne die Beschaulichkeit und die Multipolarität ab, so Dugin, und zwinge allen eine monotone, rein ritualistische, primitive Praktik auf. Er sei „atlantistisch“ und pro-amerikanisch und somit ein Feind Russlands (A. Höllwerth, Das sakrale eurasische Imperium des Aleksander Dugin, 2007: 491f.).

Religionskrieg

Die Religion spielt im Syrienkrieg eine wichtige Rolle. Er ist unter anderem ein Religionskrieg. Die Ursachen der Feindschaft zwischen den puritanischen Sunniten und den anderen Islamgläubigen liegt, wie bereits gezeigt, weit zurück und ist eine Konstante der islamischen Geschichte. Im Fall Syrien wurde diese Feindschaft vom autokratischen baathistischen Regime jahrzehntelang im Zaun gehalten. Was heute passiert ist eine relativ neue Entwicklung. Das dschihadistische Netzwerk in Syrien hat den militanten Islamismus als seine Ideologie in zwei Hauptphasen adoptiert und etabliert:

Eine vor-revolutionäre Phase, die 2003 mit dem Irakkrieg begann und stark von der Al-Qaida-Ideologie und -Rhetorik beeinflusst wurde. Syrien war ein wichtiger Durchgang für viele ausländische Kämpfer, die in Irak infiltriert wurden. Später haben libanesische Dschihadisten mit Hilfe von Abu Musab Al-Zarqawi und der Unterstützung einiger Nachbarländer die Verantwortung für die Logistik und die militärische Arbeit in Syrien übernommen. Der Dschihadist Zarqawi war der Al-Qaida-Statthalter im Irak und sunnitischer Eiferer, der seine militärischen Operationen und Enthauptungen theologisch begründete (V. Trimondi/V. Trimondi, Krieg der Religionen, 2006: 442).

Die revolutionäre Phase nach Beginn der Unruhen 2011, in der das Netzwerk der salafistischen Dschihadisten vorwiegend aus radikalen Sunniten besteht, die verschiedenen Gruppen beigetreten sind, welche nach dem Beginn der „Revolution“ gegründet wurden. Diese blutige Phase ist durch Stadtguerilla-Taktik und Terror-Techniken gekennzeichnet. (N. Benotman, The Jihadist Network in the Syrian Revolution, 2012: 1f., http://www.quilliamfoundation.org/wp/wp-content/uploads/publications/free/the-jihadist-network-in-the-syrian-revolution.pdf).

Das Ziel der religiösen Eiferer ist die Gründung eines Kalifats, am besten ohne Hilfe nichtislamischer Mächte. Aufgrund der offenen westlichen Unterstützung der Gotteskrieger in Libyen oder Syrien versuchen die Kalifat-Anhänger sich vom Westen zu distanzieren. In einer Verlautbarung von Hizb-ut-Tahrir zum Beschluss der Arabischen Liga (09.11.2011) warnen sie die Gotteskrieger: „Die vom Westen und seiner Gefolgschaft ausgestreute Behauptung, dass eine Veränderung nur mit westlicher Hilfe möglich sei, darf euch nicht hinters Licht führen. Es ist eine von ihm erfundene Lüge, die der Wahrheit keinesfalls entspricht. Durch eure Aufrichtigkeit gegenüber Allah, euren friedlichen Aufstand und die Unterstützung der freien Soldaten seid ihr in der Lage den Tyrannen zu beseitigen, das Gesetz Allahs einzuführen und das Rechtgeleitete Kalifat zu gründen. Denn ihr seid das Zentrum der Stätte des Islam, wie es der Prophet sagte: ‚Wahrlich, das Zentrum der Stätte des Islam ist Al-Sham.‘ Welch großartiges Zentrum ist es!“ (http://www.kalifat.com/).

Bilad Al-Sham ist Groß-Syrien, Levante, das Ziel der Nationalisten und zugleich der Kalifat-Anhänger. Auch die wichtigste salafistische Kraft in Syrien, der Al-Qaida-Ableger Al-Nusra-Front, erklärt unmissverständlich die Ziele der Gotteskrieger: die Gründung eines islamischen Staats in Syrien und die Errichtung eine Kalifats in Bilad Al-Sham (N. Benotman/R. Blake, 2013: 3f., http://www.quilliamfoundation.org/wp/wp-content/uploads/publications/free/jabhat-al-nusra-a-strategic-briefing.pdf).

Es geht in diesem Religionskrieg jedoch nicht nur um Syrien, sondern auch um die schiitische Landbrücke, die den Iran mit dem überwiegend schiitischen Irak und dem von schiitennahen Alawiten geführten, säkularen Syrien und mit der schiitischen Hisbollah im Libanon verbindet. Die Zerstörung dieser Achse ist für das wahhabitische Saudi-Arabien heilige Pflicht.

Wirtschaftskrieg

Der Syrienkrieg ist schließlich auch ein Wirtschaftskrieg. Syrien ist zum Dreh- und Angelpunkt zweier Pipeline-Projekte geworden, die für den energiepolitischen Einfluss auf Europa entscheidend sind. Das erste Projekt ist der Versuch des erdgasreichen Katars, Zugang zum europäischen Markt via Saudi-Arabien und durch die zwischen der Türkei und Österreich geplante Nabucco-Pipeline zu bekommen. Das Projekt, das 2008 wegen des saudischen Vetos scheiterte, brauchte auch die Zustimmung Syriens. Eine Alternative war eine Pipeline-Route durch den Persischen Golf und den Irak, dafür brauchte man aber wieder die Zustimmung Syriens, Nachbar der Türkei. Stattdessen hat Syrien 2011 Verträge mit dem Iran geschlossen, die den Transport von iranischem Erdgas durch den Irak nach Syrien und weiter nach Europa ermöglichen. Laut iranischen Medien hat Iran im Herbst 2012 mit dem Bau von 225 km der 1500 km langen Pipeline im Wert von drei Milliarden Dollar begonnen (http://german.irib.ir/nachrichten/wirtschaft/item/217411-pipeline-f%C3%BCr-iranisches-gas-von-irak-und-syrien-nach-europa).

Das zweite Projekt ist das bisher gescheiterte Projekt Nabucco, das von der EU mit Billigung der USA geplant wurde, um die starke Stellung des Hauptlieferanten Gazprom zu verringern. Aus Mangel an Lieferanten ? Russland hat für sein Konkurrenzprojekt South-Stream mehrere große Gaslieferanten gewonnen ? wurde Nabucco nicht, wie geplant, gebaut. Außerdem wollte Iran kein Gas an Nabucco liefern, sondern, wie erwähnt, eine eigene Pipeline über den Irak nach Syrien und weiter nach Europa bauen, was zusammen mit der russischen South-Stream zum Scheitern der euro-atlantischen Pläne geführt hat. Syrien ist also ein Erdgas-Knotenpunkt, eine Niederlage des Assad-Regimes hätte demnach positive Folgen für diejenigen Länder, denen die Entscheidungsträger in Damaskus wichtige Öl- und Gasgeschäfte versaut haben. (H. Müller, Schlüssel zum Energiemarkt Europas, 2012 http://www.preussische-allgemeine.de/nachrichten/artikel/schluessel-zum-energiemarkt-europas.html).

Das ist einer der Gründe, warum auch Katar fundamentalistische Islamisten in Syrien großzügig unterstützt und warum die ökonomischen Sanktionen gegen Syrien nicht nur von der EU und den USA, sondern auch von Mitgliedern der Arabischen Liga durchgeführt werden.

Die Sanktionen der UNO und der EU wie auch das strikte Embargo drängen Syrien an den Rand des gesellschaftlichen Zusammenbruchs. Wie Mairead Maguire schreibt, „ignoriert das Netzwerk der internationalen Medien diese Realitäten und ist versessen darauf, zu dämonisieren, zu lügen, das Land zu destabilisieren und noch mehr Gewalt und Widerspruch anzuheizen“ (M. Maguire, In Syrien findet ein Stellvertreterkrieg im Auftrag fremder Mächte statt, 2013, http://www.ag-friedensforschung.de/regionen/Syrien/maguire.html). Laut Syriens Vizewirtschaftsminister Kadri Jamil unterstützen China, Russland und Iran massiv die syrische Wirtschaft und die von Sanktionen schwer betroffenen Währung (http://www.spiegel.de/wirtschaft/soziales/china-iran-russland-helfen-syriens-wirtschaft-und-waehrung-a-908330.html).
Wenn Assad den Krieg gewinnen wird, werden seine Alliierten aller Wahrscheinlichkeit nach beim Wiederaufbau des Landes helfen. Im Falle einer Niederlage und eines Regimewechsels ist jedoch nicht ausgeschlossen, dass die USA einen „Marshall-Plan“ für Syrien vorschlagen werden, der die Übernahme der totalen Kontrolle über die syrische Industrie und Wirtschaft ermöglichen würde.

Syrien und die Zukunft Eurasiens. Zwei Modellszenarien

Was in Syrien passieren wird steht in den Sternen. Man kann mit Sicherheit sagen, dass sowohl die „Architekten“ als auch die in Kampfhandlungen involvierten Kräfte ebenso unwissend sind, wie wir die Beobachter. Sie wissen nur das, was passieren sollte, nicht aber was tatsächlich passieren wird. Exakte Prognosen gibt es in solchen Fällen nicht. Mögliche Szenarien können nur dazu dienen, Gedankenexperimente zu konstruieren, um theoretische Erkenntnisse zu gewinnen. Mehr nicht.

Permanente Weltrevolution und eurasischer Bürgerkrieg

Ein Szenario könnte so aussehen: „In Syrien, der Türkei, dem Irak und dem Iran kommt es zu einem Aufstand der Kurden; der Irak, der Libanon, Syrien, die Türkei und der Jemen zerfleischen sich in religiös motivierten Kriegen; Algerien, Ägypten, Libyen, Pakistan und der Sudan werden durch Instabilität und Kämpfe zermürbt; Berber und Araber bekämpfen sich gegenseitig in ganz Nordafrika; Zentralasien wird von Unsicherheit und politischer Instabilität heimgesucht; ein Krieg im Südkaukasus verzehrt Georgien, Armenien und die Republik Aserbaidschan; unter den Kaukasusvölkern kommt es im Nordkaukasus zu Aufständen gegen die Russen; der Persische Golf wird zu einer Zone der Instabilität, und die Beziehungen Russlands zur Europäischen Union und der Türkei befinden sich auf einem Tiefpunkt. (M. Nazemroaya, Israelisch-amerikanisches Drehbuch, 2012, http://www.globalresearch.ca/israelisch-amerikanisches-drehbuch-erst-die-zerschlagung-syriens-dann-die-zerschlagung-des-rests/5312994).

Dieses düstere Szenario erinnert an Trotzkis „permanente Weltrevolution“ und wäre natürlich im Sinne der Feinde des Islams und zugleich der Feinde Eurasiens der Beginn eines (vielleicht permanenten) eurasischen oder gar globalen Ausnahmezustands oder Bürgerkriegs. Aber wir wollen nicht so weit gehen, wir bleiben in Syrien. Was passiert, wenn die nationalen syrischen Kräfte den Krieg verlieren?

Dann werden die Salafisten, falls sie die stärkste Kraft unter den Siegern sind und die Westmächte ihren Segen geben, einen islamischen „Kernstaat“ (S. P. Huntington, Kampf der Kulturen, 1998: 331-334. gründen, der die Funktion von C. Schmitts „Reich“ (C. Schmitt, Völkerrechtliche Großraumordnung mit Interventionsverbot für raumfremde Mächte, 1991: 49-73) erfüllen wird, das die Idee der Großraumordnung ausstrahlt und den Plan des idealen, gottgewollten supranationalen Kalifats und einer fundamentalistischen staatstranszendierenden Großraumordnung mit Interventionsverbot für schariafeindliche und -ignorante Mächte im Levante verkündet und materialisiert. Die anderen oppositionellen Kräfte werden wahrscheinlich wenig Widerstand leisten und entweder den Raum verlassen oder sich dem Kalifat anschließen.

Und wenn die gemäßigten Kräfte obsiegen?. Dann würde ein neuer Konflikt, womöglich ein Bürgerkrieg zwischen ihnen und den Fundamentalisten, die ihren Dschihad weiter führen werden, vorprogrammiert sein. Bereits jetzt wurden Kämpfe zwischen FSA und Al-Nusra-Front gemeldet, die zu einem Krieg im Krieg führen könnten.

Im ersten Fall, der der interessanteste ist, werden Syriens Verbündete, vor allem die drei großen eurasischen Akteure Russland, China und Iran, nicht tatenlos zusehen, schließlich wird die rote Linie eindeutig überschritten. Es könnte zu einem offenen Krieg zwischen Kalifat-Anhängern und „Eurasiern“, zu einem neuen Weltordnungskrieg kommen, in dem die USA nicht wagen werden, sich einzumischen und Israel nur für einen Verteidigungskrieg bereit wäre.

Es besteht auch die Möglichkeit, dass die Fundamentalisten ihre Angriffe trotz westlicher Unterstützung auch gegen die USA und Israel richten, was kein neues Szenario wäre ? die von USA unterstützen anti-sowjetischen islamischen Freiheitskämpfer in Afghanistan haben das gewagt. Was die US-Geostrategen von damals nicht richtig begriffen haben, war die religiöse Dimension des Kampfes. Für die Guerilla-Kämpfer war der Krieg in Afghanistan nicht nur ein nationaler Befreiungskrieg – unter ihnen befanden sich außer Afghanen auch Moslems verschiedener Rassen und Ethnien ?, sondern ein religiöser Krieg, den sie als heilig bezeichneten und mit dem islamischen Dschihad identifizierten.

Anders als die nutzenmaximierenden Amerikaner, die in diesem Krieg nur die Chance sahen, der konkurrierenden Sowjetmacht eine empfindliche Niederlage beizubringen, empfanden die Dschihadisten ihren Kampf gegen die kommunistischen Invasoren ähnlich wie den Kampf gegen jede andere islamfeindliche Macht nicht als bloße ideologische Auseinandersetzung, sondern als eine heilige Mission. Die Geschichte könnte sich trotz westlicher Unterstützung und CIA-Steuerung auch heute wiederholen, und zwar nicht nur bezüglich der USA, sondern auch Israel. Man darf nicht vergessen, dass die Demütigung und die hohen Verluste an Menschen und Material, welche die US-Armee in Irak und Afghanistan erlitten, zum größten Teil das Werk der radikal-sunnitischen oder einfach islamistischen Gotteskrieger sind. Im Geiste der Mudschahidin, die früher das sowjetische „Reich des Bösen“ besiegt haben, wollten diese Dschihadisten auch den Kampf gegen den „großen Satan“ USA gewinnen.

Eurasische Großraumordnungen mit Interventionsverbot für raumfremde Mächte

Assad gewinnt in diesem Moment die Oberhand, dank der logistischen Unterstützung verbündeter Mächte und der Kampffähigkeiten der Hisbollah und der iranischen und russischen Freiwilligen, die auf seiner Seite kämpfen. Wenn die Lage sich stabilisiert und die syrische Armee immer mehr Terrain gewinnt, werden die Dschihadisten immer weniger Freiraum haben. Dann werden die USA aller Wahrscheinlichkeit nach einen militärischen Einsatz erwägen, um den „Rebellen“ mehr Handlungsraum zu verschaffen. Was passiert aber, wenn Assad und die pro-syrischen Kräfte das Land schneller in den Griff bekommen und sogar den Krieg gewinnen?

Erstens wird Assad als Verteidiger des syrischen Volkes mit all seinen Ethnien und Konfessionen gefeiert und seine Position an Legitimation gewinnen, denn Souverän ist der, der über Ausnahmezustand entscheidet (C. Schmitt, Politische Theologie, 1996: 14). Er wird also nach diesem Krieg stärker sein als je zuvor. Die schiitische, sozial-nationalistische Landesbrücke würde mehr Kontur gewinnen, vielleicht als eine klassische Allianz, als Bündnis oder mit russischer und chinesischer Unterstützung gar als Großraumordnung mit Interventionsverbot für bestimmte raumfremde Mächte.

Nicht ausgeschlossen ist auch eine auf Freiwilligkeit und völkerrechtlicher, ethnischer und religiöser Gleichheit beruhende „großsyrische“ oder levantinische Alternative, eine über den Staat hinausgehende Großraumordnung (wie die EU), die zusammen mit Israel und ohne die „Mediation“ raumfremder Mächte eine friedliche, möglichst gerechte Lösung für das Palästina-Problem zu suchen versucht. Das wäre ein Beweis dafür, dass die erfolgreiche Verteidigung eines Raumes gegen als unschlagbar erscheinende raumfremde Mächte möglich ist. Das könnte der Anfang vom Ende des von den USA initiierten Balkanisierungsprozesses im Nahen Osten sein. Das könnte auch das Ende der subtilen, geheimdienstlichen Steuerung des Dschihadismus, den einige euro-atlantische Akteure zur Kriegshetze missbrauchen und so unschuldige Nichtfundamentalisten sowie auch gut gemeinte, rechtgläubige Gotteskämpfer in den sicheren Tod schicken.

Man vergisst aber, dass die syrische Tragödie Teil des Schicksals Eurasiens als „Schauplatz des global play“ (Z. Brzezinski, Die einzige Weltmacht, 1997: 54) ist, d.h. auch des Schicksals der Gegner Syriens. Man nimmt auch nicht wahr, dass die Welt auf Dauer keine politische, geschweige denn eine religiöse Einheit oder Zweiheit sein kann. Sie wird immer, d.h. auch in scheinbar unipolar-imperialen Zeiten, eine in Großräumen organisierte politische und religiöse Vielheit. bleiben. Nach dem amerikanischen unipolaren Moment ist die „Pluralität von Großräumen“ (C. Schmitt, Staat, Großraum, Nomos, 1995: 499) bereits Realität.

Großmächte, die ihre Träume von Welthegemonie zu verwirklichen versuchen und daran scheitern sind ein Beweis dafür, dass die Dialektik aller menschlichen Macht nicht grenzenlos ist, sondern unfreiwillig die Kräfte fordert, die ihr eines Tages, die Grenze setzen werden. Vielleicht sind diese Kräfte die Dschihadisten und das scheiternde Empire die USA.

Vielleicht wären diese Kräfte ohne den negativen Einfluss nichtislamischer Kräfte in ihrem Bestreben, ein Kalifat zu errichten, erfolgreicher. Schließlich gibt es auch im Rahmen des islamischen Rechts Toleranz und Flexibilität: zwischen den Kategorien „Pflicht“ und „Verbot“ gibt es in der Scharia auch Kategorien wie „empfehlenswert“, „indifferent“ und „tadelnswert“ (aber nicht strafbar) (A. Noth, Die Scharia, das religiöse Gesetz des Islam, in: W. Fikentscher/H. Franke/O. Köhler, Entstehung und Wandel rechtlicher Traditionen, 1980: 430). Auch den Dschihad darf man nicht nur als einen physischen, militärischen Kampf deuten, ? zumindest solange keine islamfeindliche Macht ein islamisches Land angreift ?, sondern auch als eine geistig-metaphysische Anstrengung, als eine permanente Auseinandersetzung des Gläubigen mit dem Bösen in sich und in der Welt. Rein rechtstheologisch waren die Kriege in Irak und Afghanistan Aggressionen gegen den Islam und ein „dschihadistischer Bündnisfall“. Den Syrienkrieg kann man aber mittlerweile als Verteidigungskrieg gegen fremde Mächte interpretieren.

Eine nichtimperialistische Großraumordnung, die sowohl in ihrem Inneren als auch in ihren Außenbeziehungen auf Prinzipien der Freiwilligkeit und Nichtintervention beruht, könnte die friedliche, goldene Mitte zwischen kriegerischer Staatenanarchie und autoritärem „Global Empire“ sein. In einem aus solchen Großraumordnungen zusammengesetzten Eurasien würde es genug Platz sowohl für säkulare als auch für religiöse Ordnungen geben, d.h. auch für ein Kalifat.

Eine gezwungene überkonfessionelle Einheit, eine künstliche synkretistische Ersatzreligion oder die Vorherrschaft einer einzigen Religion in Eurasien, wo alle großen Religionen der Geschichte ihre Anfänge haben, sind jedoch nicht nur utopische, sondern auch gefährliche Vorstellungen. Ein eurasisches Imperium wird eine multireligiöse, plurikulturelle und multirassische Einheit sein oder überhaupt nicht sein (F. Liepe, Jenseits des Nationalismus, in: Junges Forum 8, 2008: 22). Wäre diese eurasische Einheit in Vielfalt real, wäre das hegemoniale Projekt eines amerikanischen Jahrhunderts, das die Ideologen des US-Empires in ihren Think Tanks am Reißbrett entworfen haben, nur ein chiliastisch-säkularer Traum von der Einheit der Welt unter amerikanischer Führung geblieben.

Syrien, Eurasien und die neue multipolare Weltordnung - eine Studie zum Kampf um die künftige Weltordnung
1. Geostrategie und Geopolitik für ein neues amerikanisches Jahrhundert
1.1. Schachbrett Eurasien
1.2. Scheinmultilateralismus
1.3. Greater Middle East und Syrien
2. Ende der unipolaren Weltordnung
2.1. USA – von wollwollender Welthegemonie zur imperialen Weltordnugskampf
2.2. Multipolarität und Großraumordnung
3. Zwischen puritanisch-dschihadistischer Weltrevolution und panarabisch-nationalistischer Großraumordnung
3.1. Islamische Rechtstheologie
3.2. Sunniten vs. Schiiten
3.3. Politreligion, Sektarismus und die Wirkung der Scharia. Der Fall Syrien
3.4. Nationalstaat oder supranationales Kalifat?
4. Syrienkrieg als Weltordnungskrieg
4.1. Geostrategischer Krieg
4.2. Weltanschauungskrieg
4.3. Religionskrieg
4.4. Wirtschaftskrieg
5. Syrien und die Zukunft Eurasiens. Zwei Modellszenarien
5.1. Permanente Weltrevolution und eurasischer Bürgerkrieg
5.2. Eurasische Großraumordnungen mit Interventionsverbot für raumfremde Mächte

jeudi, 29 août 2013

50.000 Russische vrijwilligers naar Syrië om Assad te helpen

50.000 Russische vrijwilligers naar Syrië om Assad te helpen

Meer bewijs dat Assad niet achter chemische aanval zit - 'Amerika geeft met aanval zijn luchtmacht aan Al-Qaeda' - Slechts 9% Amerikanen achter Obama's oorlogsplannen


Het begint er steeds meer op te lijken dat Rusland de aanstaande Westerse aanval op Syrië niet onbeantwoord zal laten. Volgens de radiozender Voice of Russia zijn er vergevorderde plannen om een vrijwilligerskorps ter grootte van 50.000 man naar Syrië te sturen om Assad te helpen en te beschermen. Ondertussen komt er steeds meer bewijs dat de Syrische president inderdaad niet achter de chemische aanval van 21 augustus zit. Obama lijkt echter vast van plan om de meest impopulaire oorlog ooit te ontketenen, met een groot risico dat deze uitmondt in de Derde Wereldoorlog.

 

De uit Oekraïne afkomstige inlichtingenveteraan Sergey Razumovsky is de initiatiefnemer van de vorming van het vrijwilligerskorps. Naast Rusland tonen vooral mannen uit Wit-Rusland en ook Moldavië zich bereid te vechten voor Assad. De eerste 72 officieren zouden reeds in Syrië actief zijn. (1)

Telefoongesprekken bewijzen onschuld Assad

De door de Mossad onderschepte en vervolgens door de CIA bevestigde telefoongesprekken, die door de regering Obama worden gebruikt om de komende oorlog te rechtvaardigen, lijken juist te bewijzen dat Assad niet achter de chemische aanval zit. In de gesprekken is te horen hoe officials van het Syrische ministerie van Defensie in paniek met een officier van een chemische wapeneenheid bellen, en een antwoord eisen over wie er verantwoordelijk is voor de chemische aanval in Damascus, waar meer dan 1000 mensen bij omkwamen.

Waarom zou het ministerie dergelijke paniektelefoontjes plegen als het zelf het bevel tot deze aanval zou hebben gegeven? Uit de onderschepte gesprekken blijkt in ieder geval dat de Syrische regering niet op de hoogte was van de aanval. Volgens Noach Shachtman van Foreign Policy zou het daarom in het slechtste geval om een officier die op eigen houtje handelde kunnen gaan. 'We weten niet precies wat er is gebeurd,' gaf Shachtman toe. 'Wel dat het behoorlijk stom was.'

Bewijs tegen rebellen weggemoffeld

Ondanks het feit dat er dus geen enkele zekerheid over de werkelijke daders is en de VN een onafhankelijk onderzoek naar de aanval blokkeert, staan Amerika en zijn bondgenoten op het punt kruisraketten op Syrische doelen af te schieten. De in mei getrokken conclusie van de VN dat niet het regeringsleger, maar de rebellen in diverse plaatsen chemische wapens hebben gebruikt, wordt daarbij doelbewust weggemoffeld.

Hetzelfde geldt voor een eerder dit jaar onderschept telefoongesprek tussen rebellenleiders, die een plan bespraken om chemische wapens in te zetten. Ook zijn er talloze video's waarop is te zien hoe de door Amerika gesteunde rebellen chemische wapens klaarmaken voor gebruik en deze inzetten. (2)

'Amerika geeft Al-Qaeda zijn luchtmacht'

Het voormalige Democratische Congreslid Dennis Kucinich, die tegen de Irakoorlog was en in 2004 en 2008 een vergeefse gooi deed naar de presidentsnominatie voor zijn partij, zei vandaag sarcastisch dat de VS met een aanval op Syrië 'zal veranderen in de luchtmacht van Al-Qaeda'. Volgens hem zal ook een 'minimale interventie' door Amerika niets anders dan een regelrechte oorlogshandeling zijn. (3)

Richting WO-3

President Obama lijkt niettemin vastbesloten in te grijpen, met een enorm risico op een oorlog die het hele Midden Oosten in vlam kan zetten, waar mogelijk ook Rusland, Iran en China bij betrokken dreigen te raken. Dan zal uitkomen wat de bekende Bush-criticus Webster Tarpley al in 2008 voorspelde, namelijk 'dat Obama door de elite gebruikt zal worden om een oorlog met Rusland en China te ontketenen.' Met andere woorden: de Derde Wereldoorlog.

Putin vergeleken met Hitler

Dat de president daarbij zijn pijlen rechtstreeks op de Russische president Vladimir Putin richt, bleek begin augustus tijdens zijn bezoek aan Amerika's populairste talkshow presentator Jay Leno. Beide heren vergeleken Putin met Adolf Hitler en beschuldigden hem ervan homoseksuelen te vervolgen zoals Hitler dat met de Joden deed (4).

Congres en Grondwet opnieuw genegeerd

De Amerikaanse president lijkt met het starten van de oorlog opnieuw als een ware dictator het Amerikaanse Congres te passeren. NBC News Witte Huis Correspondent Chuck Todd legde uit dat het vanwege 'isolationisten' in het Congres bijna onmogelijk is om toestemming voor de aanval op Syrië te krijgen, en dat Obama het dan maar zonder zal moeten doen. Op dezelfde wijze schond de president al eerder de Amerikaanse grondwet, door zonder instemming van het Congres Libië te bombarderen. (5)

Slechts 9% voor militair ingrijpen

Volgens een peiling van het internationale persbureau Reuters zal de oorlog tegen Syrië de meest impopulaire ooit worden. Slechts 9% van de Amerikaanse bevolking staat achter Obama's plannen om militair in te grijpen. Zelfs als zou er wél overtuigend bewijs worden geleverd dat Assad chemische wapens heeft gebruikt, dan nog zou maar 25% voorstander zijn. (6)

Xander

(1) Voice of Russia / YouTube
(2) Infowars
(3) National Review
(4) Infowars
(5) Infowars
(6) Infowars

The Neocon March on Damascas

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The Neocon March on Damascas 1

Ex: http://www.attackthesystem.com

By Jacob Heilbrunn

 

Here we go again. As Americans prepare to march on Washington, Washington is preparing to march on Damascus. As part of the buildup to war, a chorus of liberal hawks and neoconservatives has issued a new manifesto in—where else?—the Weekly Standard calling upon President Obama to engage in regime change in Syria. Just as they demanded military action to topple Saddam Hussein, so they now are insisting upon the removal of Bashar al-Assad.

Yet if anything might be calculated to give Obama pause before he embarks upon a bombing campaign, it should be this truculent letter, whose signatories include Fouad Ajami, Elliott Abrams, Paul Berman, Eliot A. Cohen, Robert Kagan, William Kristol, Bernard-Henri Levy, Tim Palwenty, James Traub, Eric Edelman, Karl Rove, Dan Senor, Martin Peretz and Leon Wieseltier. (At Politico, Dylan Byers astutely notes that the presence of Wieseltier and Peretz should come as no surprise because, “Wieseltier et al. aren’t emissaries from the ‘new’ New Republic, they’re stalwarts of the Old Republic. Wieseltier served on the Committee for the Liberation of Iraq and Peretz led the magazine’s call for military intervention there (he still thinks it was a good idea).” So there you go. The very same crew, by and large, that declared that Iraq could be transformed into a blossoming democracy in 2003. Now it wants to duplicate its roaring success.

 

Well, not exactly. For one thing, the letter never mentions the term “democracy.” So it isn’t fair to say that the signatories have remained totally immune to the cataclysmic events they triggered in 2003. Instead, their missive suggests that the “world—including Iran, North Korea, and other potential aggressors who seek or possess weapons of mass destruction—is now watching to see how you respond.” It further suggests “direct military strikes against the pillars of the Assad regime.” And it minutes that America should “train, and arm moderate elements of Syria’s armed opposition, with the goal of empowering them to prevail against both the Assad regime and the growing presence of Al Qaeda-affiliated and other extremist rebel factions in the country.”

 

These are lofty goals. Obama, for a variety of reasons, including his notorious “red line” statement, is in something of a pickle of his own making, and probably has little choice but respond to Assad’s defiance. But given the tangled nature of the ethnic and religious conflicts in Syria, the confidence of what the Weekly Standard deems “experts”—the same kind of experts who got America into Vietnam, incidentally, and whom Daniel Patrick Moynihan more colorfully and accurately dubbed “warrior intellectuals”—exude in this letter may perhaps stir some lingering doubts about the efficacy of their prescriptions, particularly when considering that the last ministrations they offered essentially left their most recent patient—Iraq—in a state of prostration and life support for almost a decade. But the anfractuosities of Islam and nationalism have never particularly seemed to worry these experts whose faith in their expertise, you could say, remains pretty unruffled, at least if this letter is anything to go by.

 

If democracy is no longer their lodestar—or if they are too cautious to proclaim it openly—then what is left? The remnants of their doctrine reside in the raw exercise of American power. Both the Wall Street Journal editorial page and the paper’s columnist Bret Stephens make it crystal clear that the chemical weapons attacks perpetrated by Assad and his goons simply form a convenient casus belli for a wider engagement. The Journal says, “The real problem isn’t the chemical weapons. It is the leader who has used them, Bashar Assad.” Scarcely to be outdone, Stephens writes, “What’s at stake now is the future of civilization, and whether the word still has any meaning.” The Assads, he says, should be polished off, the consequences for their behavior “inescapably fatal.” Condign punishment, in other words, is in order.

 

Well. It is certainly true that the Middle East would be a better place without the Assads. Or would it? The old order represented by the wily Hafez al-Assad, who would have been mortified by the bungling of his children, is crumbling. But the vexed problem in Syria is that no one—not the Obama administration, not the neocon and liberal-hawk “experts”—really knows what would ensue were America successfully to overthrow the regime. The bellicose rantings of Stephens are redolent of Orwell’s remark that intellectuals like to fancy themselves with the “whip-hand” on history, meting out punishment to the guilty and setting wrong aright. The road to Damascus could indeed prove a revelation to America’s foreign-policy intellectuals, but not necessarily one that would prove a very pleasant experience.

mercredi, 28 août 2013

Selective Jihad

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Selective Jihad

 
Ex: http://www.geopolitica.ru
 
The sudden intensification of the conflict between members of two Islamic sects – Sunni and Shi’ite – in several Middle Eastern countries at once suggests that it is not a question of a spontaneous outbreak of hostility, but rather the targeted fomentation of artificially-created antagonisms. 

Al-Qaeda is intentionally blowing up Shi’ite shrines in Iraq and buses full of pilgrims from Iran, provoking acts of aggression towards Sunnis (so far largely unsuccessfully). The latest large-scale acts of terrorism took place on 20 and 27 May in Baghdad and its suburbs, populated by Shi’ite Muslims, in which more than 200 people were killed and 624 injured. (1) In response, Shi’ites have started to take drastic action. This could lead to an escalation of the conflict (which is what the organisers of the provocation are hoping for) if the government of al-Maliki does not suppress the wave of violence. Nevertheless, the American Institute for the Study of War is already predicting that hostilities between the two branches of Islam may plunge the whole region into bloody chaos (2).

 In Lebanon, skirmishes are taking place between various armed groups who are carrying out attacks on government buildings. Here, Shi’ite Hezbollah has declared that Al-Qaeda is the main target of its attacks. In a recent interview, the head of the Christian Lebanese party «Levant», Rodrigue Khoury, reported that «at the call of Salafi cleric Ahmed al-Assir, who is in hiding, large numbers of Salafis are going out onto the streets of Lebanon and threatening Christians..., and according to Islamic beliefs, there is only one possible punishment for an «unbeliever» – his death». (3) According to Khoury, Salafis also want to take revenge for 2007, when Lebanese Armed Forces suppressed an uprising by Wahhabi terrorists at the Nahr El-Bared refugee camp. Lately, however, Salafi activity has been observed in Saida, where there are a large number of extremists in Palestinian refugee camps.

In Syria, the Alawite minority are being subjected to systematic attacks along with the government (the Alawites are regarded as an offshoot of Shi’ite Islam). 

It is perhaps only in Iran that an atmosphere of tolerance between Muslims belonging to different Islamic sects is being maintained; there, the Sunni are able to pray quietly in Shi’ite mosques and, generally speaking, good will towards members of other religions is also being maintained. 

86-year old Islamic theologian Yusuf al-Qaradawi from Qatar, who spent a long time living in the US and was a trustee of the Islamic Society of Boston, is playing a major role in fuelling the conflict between Sunni and Shi’ite. Al-Qaradawi is a spiritual leader of the Muslim Brotherhood. According to the German news magazine Der Spiegel, al-Qaradawi’s TV programme «Sharia and life», which is broadcast by the TV channel «Al-Jazeera», has an audience of 60 million people. (4) 

Al-Qaradawi instils the idea that Russia is an enemy of the Arabs and of all Muslims, while at the same time calling for a war against the current regime in Syria and Hezbollah in Lebanon. On 31 May 2013, speaking in Doha, al-Qaradawi declared: «Everyone who has the ability and has training to kill ... is required to go. I am calling for Muslims to go and support their brothers in Syria» (5).

Hamas, which has announced its support of Syrian rebels, regarded al-Qaradawi’s visit to the Gaza Strip in May 2013 as «a hugely important and significant event», and Hamas leader Ismail Haniyeh called al-Qaradawi «the grand imam of modern Islam and the grand imam of the Arab Spring». Fatah’s reaction to the imam’s visit to the Gaza Strip, on the other hand, was distinctly negative, observing that he is causing a schism in the Palestinian people. Sure enough, the completely opposing reaction of the two wings of the Palestinian movement to al-Qaradawi’s propaganda is one of the signs that there is such a schism.

Al-Qaradawi’s intolerance when it comes to Jews is well-known: he believes that the State of Israel does not have the right to exist and refused to take part in the Inter-Religious Conference in Doha in April 2013 because Jewish delegates were also in attendance.

A characteristic detail: in 2009, al-Qaradawi published a book entitled Fiqh of Jihad in which he refused to recognise the duty of Muslims to wage jihad in Palestine, which is being occupied by Israel, as well as in Iraq and Afghanistan, which are being subjected to American occupation. At the same time, however, he is calling for a «holy war» in Syria against Bashar al-Assad’s government! 

In recent days, the development of events in the Sunni-Shi’ite conflict has begun to resemble a chain reaction. Shortly after al-Qaradawi’s speech in the Gaza Strip, Saudi Arabia’s Chief Mufti, Sheikh Abdul-Aziz, publicly supported the Qatar Sheikh’s argument that «Hezbollah is the party of Satan». A week later, a group of Muslim clerics in Yemen issued a fatwa calling for «protection of the oppressed» in Syria, and then in the Grand Mosque in Mecca, Saud al-Shuraim declared that it was the duty of every believer to support Syrian rebels «by any means possible».

According to the American magazine Foreign Affairs, since the beginning of the conflict, 5,000 Sunni militants from more than 60 countries have taken part in military actions in Syria. If this figure is true, it means that Syria has become the second Muslim country after Afghanistan where such a large amount of foreign mercenaries have fought against the existing government alongside Muslims. 

Returning to the activities of the Qatar cleric during his time in the US when he was a trustee of the Islamic Society of Boston, it is worth remembering that back in 1995, while speaking before a group of Arab Muslim youths in the state of Ohio, this herald of jihad declared: «We will conquer Europe, we will conquer America!»... (6)

One inevitably starts to think about the words of the famous Muslim scholar Imran Nazar Hosein (7), who visited Moscow last week and considers the outburst of violence between Muslim Sunni and Muslim Shi’ite currently being witnessed as the implementation of some master plan being put into operation by what the scholar referred to as «evil forces».

 

Notes:

(1) http://www.alliraqnews.com/en/index.php?option=com_content&view=category&layout=blog&id=36&Itemid=37&limitstart=130
(2) Jessica Lewis, Ahmed Ali, and Kimberly Kagan. Iraq’s sectarian crisis reignites as Shi’a militias execute civilians and remobilize.//Institute for the Study of War, May 31, 2013
(3) Orthodox Christians in the Middle East - Russia’s allies.// Russkiy obozrevatel, 07.07.2013 http://www.rus-obr.ru/blog/25290
(4) Alexander Smoltczyk. Islam’s Spiritual ‘Dear Abby’: The Voice of Egypt’s Muslim Brotherhood. http://www.spiegel.de/international/world/islam-s-spiritual-dear-abby-the-voice-of-egypt-s-muslim-brotherhood-a-745526.html
(5) http://www.jihadwatch.org/2013/06/qaradawi-calls-on-sunnis-to-go-to-syria-to-fight-assad-everyone-who-has-the-ability-and-has-training.html
(6) http://www.jihadwatch.org/2004/03/islamic-radical-tied-to-new-boston-mosque.html
(7) http://www.imranhosein.org/

 

 

jeudi, 22 août 2013

U.S., Britain and New Big Game in Near East

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U.S., Britain and New Big Game in Near East

Interview with Jeffrey Steinberg

Ex: http://www.geopolitca.ru

1. Please give us a brief review of the contemporary situation in Egypt with respect to the recent government change and the recent riots, in Syria with respect to the ongoing civil war and insurgency, and in Turkey with respect to the recent socio-political crisis encountered by the Erdogan government.

The three situations must be treated as distinct but clearly all part of the same mosaic of change in the region.  Regarding Egypt, more and more evidence is coming out publicly, indicating that the Morsi government was more interested in consolidating absolute Muslim Brotherhood control over the state apparatus than in governing on behalf of the entire Egyptian people.  When somewhere between 10 and 22 million Egyptians turned out on the street on June 30 in a peaceful protest, demanding Morsi’s resignation, the Egyptian generals acted on that popular mandate.  This is an old story in Egypt.  The Army comes out of the Nasser tradition and sees itself as the guardians of the nation.  They had evidence that the Muslim Brotherhood was planning a purge of the top generals, arrests of opposition leaders and a move to consolidate the “Ikhwanization” of the country.  The interaction between the top leaders of the Muslim Brotherhood and the Army was intense prior to, during and after the ouster of Morsi.  This is an ongoing process.  Unless the Muslim Brotherhood decides to launch an all-out military campaign to take back power, they will be incorporated into the political process, including the upcoming elections.  Morsi and Khayrat al-Shatar, the power behind the scenes within the Muslim Brotherhood, made the mistake of presuming that the Obama Administration would assure that they remained in power by pressuring the Army to stay in the barracks, regardless of what happened on June 30.  Ultimately, the Muslim Brotherhood failed to live up to the mandate that they were given by the Egyptian people.  General Martin Dempsey, the wise Chairman of the U.S. Joint Chiefs of Staff recently observed that modern history has seen very few successful revolutions.  He noted that in almost every instance, except for the American Revolution, the first generation got it wrong, the next generation in power overcompensated and also got it wrong, and the third generation managed to get it mostly right.  We are at the very early stages of the Egyptian revolution.  Economic well-being for the vast majority of Egyptians is the ultimate test.  Egypt has water, which is the most precious commodity in the region, and has the capacity to grow vast amounts of food.  Development projects have been on the drawing board for a long time.  This will be the measure of success of the future governments.

The Syria crisis is a tragedy in almost every respect.  No one involved in the Syria events of the past two-and-a-half years is immune from some responsibility for the bloodshed and the near-total destruction of a nation.  A country that was once a model of communal integration (Sunni, Shiite, Alawite, Kurd, Druze, Christian) and was a birthplace of Christianity has been thoroughly Balkanized into warring factions.  Outside powers played the Syrian situation to their own interests and advantages.  President Obama, declared that President Bashar al-Assad had to go almost two years ago, before receiving any intelligence or military assessments of the situation there.  Saudi Arabia, Qatar and Turkey all jumped into the situation early on, promoting an armed Syrian opposition that was expected to oust President Assad in short order.  Now, Syria is the epicenter of a regional sectarian conflict between Sunni and Shiites/Alawites that has spread to Turkey, Iraq, Lebanon, Jordan.  The British have been promoting just such a sectarian “Hundred Years War” within the Muslim world as part of a classic Malthusian population reduction campaign.  Saudi hatred for the Syrian Alawites has been exploited by London, assuring that arms and cash have been flowing into the hands of a global Sunni jihadist apparatus.  Now, the Obama Administration is weighing in with covert support for a more “moderate” anti-Assad Free Syrian Army, centered in Jordan.  Weapons that were confiscated after the execution of Muammar Qaddafi in Libya in late 2011 have been smuggled into the hands of Syrian rebels, including the Al Qaeda-linked Al Nusra Front since April 2012.  The program has been coordinated out of the Obama White House and managed by the CIA.  President Obama has his own “Iran-Contra” scandal brewing and is attempting to cover up for crimes that have been ongoing for over a year and which could lead to his impeachment.  At one point, the danger of the Syrian crisis triggering a global war prompted US Secretary of State John Kerry and Russian Foreign Minister Sergei Lavrov to attempt to convene a Geneva II peace conference, as a way to avoid the situation slipping totally out of anyone’s control.  That Geneva II option remains the last best hope that further destruction of the entire region, and a possible trigger for general war can be prevented. 

There are some significant parallels between the Erdogan government in Turkey and the recently deposed Morsi Muslim Brotherhood government in Egypt.  Since coming into power, Prime Minister Erdogan had pursued a policy of economic and political cooperation with all of Turkey’s neighbors.  That policy served Turkey well for several years, building trade with Russia and Iran, settling Kurdish conflicts involving both Turkey and Syria, and building a strong economic bridge with the Kurdish Regional Government in Iraq, without damaging Ankara-Baghdad relations.  When the Syrian protests erupted in early 2011, President Obama urged Prime Minister Erdogan (one of the few foreign heads of state to have any kind of personal relationship with the US President) to “take the lead” in pressing for Assad’s rapid removal from power.  Erdogan presumed that Washington would make good on its demand for Assad’s removal from power.  Given the US role in the overthrow and execution of Qaddafi in Libya, and given the Obama Administration’s strong promotion of humanitarian interventionism and “R2P” (“Responsibility to Protect”), post-Westphalian dogmas permitting a full range of intervention into the internal affairs of formerly sovereign states, Erdogan was not totally foolish in his expectation that Washington would run a replay of Libya in the Eastern Mediterranean and Assad’s days were numbered.  That prospect never materialized, and as the result, the Turkish people are becoming disillusioned with the Erdogan AKP approach.  The Turkish Army, having been a target of Erdogan purges, is becoming restless.  The Turkey situation has become an important piece of the regional disintegration.  Economic and political agreements with Iran, Russia, Syria and even Iraq are now in doubt.  Turkey is facing a period of potential turmoil.  The European economic crisis, far from being solved, will add further fuel to the fire in Turkey.

2. What is nature of the Arab Spring, and how do you see the Arab Spring developing in the future?

There are two dimensions to the Arab Spring that are generally ignored.  First, a combination of economic depravations and political persecution created a “perfect storm” for popular dissatisfaction to spill over into mass action.  In Tunisia, as well as Egypt, a well-educated segment of youth revolted over the fact that they had no prospect for a future in their own country.  The initial impulse was that of a classic “mass strike” when a large percentage of the population concluded that they had nothing left to lose, and they seized upon a symbolic event and launched a public demand for change.  Second, once events on the ground reached a critical mass, external political forces intervened for self-serving reasons.  London wants a permanent war of “each against all” to reduce the population levels in the developing world.  Saudi Arabia and Qatar, two rival Wahhabi monarchies, began pouring money into contending factions of the Islamist opposition and the militaries.  The Obama Administration concluded that the Muslim Brotherhood were the safest representatives of “political Islam” and began backing them in both Egypt and Syria.  The fact that the United States has turned Qatar into a forward-based hub of Washington power projection in the region has, up until the recent change of power in Qatar, meant a combined Doha-Washington backing for the Muslim Brotherhood as the “pragmatic” Islamists.  There is a serious reassessment now underway in Washington.  The outside factors made it impossible for the internal dynamics of Egypt and Syria to come to an understanding about a way forward.  At no time was there adequate outside economic assistance to provide breathing room for a raw political process to evolve.  The standard IMF recipes for economic starvation and “shock therapy” privatization and de-subsidization made matters worse. 

3. What is the role of the Muslim Brotherhood in Syria and in Egypt?

Historically, the Muslim Brotherhood was a creation of the Sykes-Picot colonial process and of British intelligence.  The organization evolved, spread, spawned a far more virulent network of more radical jihadists including Al Qaeda.  A long exile in Saudi Arabia, following the Nasser crackdown against the Brotherhood beginning in the 1950s, spawned a new neo-Salafist phenomenon.  When Hafez Assad launched his own harsh crackdown against the Syrian Muslim Brothers in the early 1980s, that led to a second wave migration and exile in Saudi Arabia.  Under the influence of Dr. Bernard Lewis, a British intelligence “Arabist” who is also a leading Zionist, successive American administrations adopted the “Islamic Card” as a tool to bring down the Soviet Union.  The Afghan War of the 1980s saw British and American intelligence deepen the alliance with the Muslim Brothers.  This spawned Al Qaeda and a large number of groups that were foreign fighters brought to Afghanistan as “muhahideen” trained and armed to fight the “Godless” Soviet Red Army.  The Libyan Islamic Fighting Group (LIFG), an arm of Al Qaeda created by Afghanzi fighters who returned to Libya after that Soviet withdrawal from Afghanistan, is exemplary of the spreading neo-Salafist problem that emerged out of the “Bernard Lewis Plan” to play Islam against Communism.  When Communism collapsed in the early 1990s, the West in general and the United States in particular became the “New Satan” to be targeted.  The Obama Administration’s belief that the Muslim Brotherhood was potential allies led to a string of policy blunders and mishaps that are still playing out.  In recent weeks, Washington’s love affair with the Muslim Brotherhood has fractured.  The ouster of the Emir and prime minister of Qatar has weakened the financial support for the Muslim Brotherhood.  It is too early to say what the next phase of the process will look like, but the naïve presumptions about the Muslim Brotherhood are being severely challenged right now.

4. Is there a difference between the policy supported by General Dempsey and Defence Secretary Hagel on the one hand and the State Department and White House forces on the other? If yes, please explain these differences.

There are significant differences.  General Dempsey is a leading figure in a war-avoidance faction inside the governing institutions of the United States.  He has taken a courageous stand, opposing direct US military engagement in Syria.  He wants to bring home the American troops who have been engaged for over a decade in Afghanistan, and he wants to assure that there is never again a long war that drains the armed forces and the nation’s resources of the US.  He has the backing of Defense Secretary Hagel in this quest.  General Dempsey believes that it is a priority to deepen cooperation with Russia and China, the other two leading world military powers.  He judges all military options from a global overview.  The contrasting views inside the Obama Administration are centered at the White House with people like Dr. Susan Rice and the former Special Assistant to the President Samantha Power, now the President’s nominee to replace Rice at the UN.  They are extreme proponents of humanitarian interventionism.  In that respect the “liberal” humanitarian interventionists are soul mates of the neoconservatives of the Bush-Cheney era.  It is ironic but also not surprising that the leading war-avoidance forces in the United States are active duty and retired flag officers of the armed forces, who have lived through the hell of the post-911 long wars and want no more of it.  They are painfully aware that a conflict that pits the United States against Russia and/or China could lead to thermonuclear war and extinction of mankind.  They understand war as Dr. Rice and Samantha Power (and President Obama) do not.

5. What is the role of Israel and of the U.S. Israeli lobby in the contemporary upheaval in the Middle East and the Eastern Mediterranean in general? 

The Revisionist Zionist Movement, founded by Jabotinsky and now ruling Israel under Netanyahu, is a British colonial creation—part of the divide and conquer strategy that the British and French imposed on the Middle East from the end of World War I.  Israel and the Israeli Lobby, as such, are expendable pawns in the larger British game.  To the extent that Israel has any pretence of being a sovereign state, they have been pursuing a series of tragic self-destructive policies ever since the assassination of Prime Minister Yitzhak Rabin in 1995 after his historic Oslo Agreement with Yasser Arafat and the PLO.  Without a drastic change in policy, Israel is likely doomed.  The Israeli Lobby is a powerful force in Washington politics but is not all-powerful.  Right now, their focus is on Iran.  Their primary objective is to keep up pressure on President Obama to where he will eventually take military action for regime change in Iran.  That could be a trigger for all-out war, which is exactly what General Dempsey and the rest of the JCS want to avoid at all costs.  Israel was, ironically, sidelined as a minor player in the unfolding events in Egypt and Syria.  There is no good outcome of the Syrian mess from Israel’s standpoint.  They had a truce with the Assad governments in Syria and came close on several occasions to formalizing it in a Camp David-style treaty with Damascus.  Israel may appreciate the benefits of the Syrian Army being gutted, but they do not welcome a Jihadist state on their northern border.  The British will sell out Israel in a heart-beat to pursue their new game of permanent brutal sectarian war within Islam.

6. Which is the strategy of Netanyahu and the Zionist political forces in general in the fields of geopolitics and geoeconomics?

The Netanyahu Zionists want to maintain the status quo of gradual absorbtion of the entirety of the West Bank into a Jewish state.  They will exploit so-called peace negotiations with the Palestinians to stall, as new settlement expansion accelerates by the day.  As pawns of larger forces, including the British, they do not really have a strategic vision.  They have integrated their high-tech aerospace and electronics sector into the United States economy to such an extent that they are defacto the 51st state.  Most Israeli high-tech companies have their stock traded on the NASDAQ exchange in New York. A majority of Israeli Jews are so fed up with the madness dominating Israeli politics that they would prefer to live in the United States.

Interviewed by  Dr Nicolas Laos (member of the faculty of International Relations at the University of Indianapolis, Athens Campus (Greece) and a columnist of the Greek political daily newspaper "Ellada").

 

mercredi, 21 août 2013

La CIA le confirme: la chute d’Assad nuirait aux intérêts américains!

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La CIA le confirme: la chute d’Assad nuirait aux intérêts américains!

On le sait, à force d’avoir eu les oreilles bassinées par le flot de tirades médiatiques: Washington travaille depuis des années à la chute du Président syrien Bechar El-Assad. Pourtant la disparition de celui-ci n’irait pas dans le sens des intérêts américains, vient de déclarer Michael Morell (photo), un des directeurs de la CIA, dans un entretien accordé au “Wall Street Journal”. Morell: “Dans ce cas, la Syrie deviendrait un refuge pour terroristes de toutes sortes... Le risque est le suivant: le gouvernement syrien possède des armes chimiques et d’autres équipements de pointe et, s’il tombe, le pays deviendrait automatiquement un bouillon de culture pour le terrorisme (ndt: avec les armes chimiques et autres)”. Morell craint surtout un renforcement du réseau Al-Qaeda.

(note parue dans “zur Zeit”, Vienne, n°33-34/2013; http://www.zurzeit.at ).

mardi, 20 août 2013

La Syrie, nouveau champ de bataille de la lutte entre Talibans afghano-pakistanais et Chiites

La Syrie, nouveau champ de bataille de la lutte entre Talibans afghano-pakistanais et Chiites

par Gilles-Emmanuel Jacquet

Ex: http://www.realpolitik.tv

Le Printemps Arabe et les guerres en Libye puis Syrie ont banalisé au sein de l’opinion publique occidentale l’autre grand conflit de cette décennie, celui d’Afghanistan, or ce dernier est loin d’être pacifié. Bien que le conflit et le contexte afghans ne peuvent être directement comparés avec ce qui se passe dans le monde arabe et plus particulièrement en Syrie, on a pu assister récemment à une interaction croissante entre ces deux théâtres d’opérations et les groupes djihadistes qui y combattent.

Les Talibans afghans et pakistanais à l’assaut de la Syrie

L’Afghanistan a servi de terrain d’entraînement à de nombreux groupes radicaux combattant désormais en Syrie et de nombreux mouvements djihadistes continuent de combattre en Afghanistan (Tchétchènes, Tadjiks, Ouzbeks du Mouvement Islamique d’Ouzbékistan, Hizb ul-Tahrir, combattants arabes d’Al Qaïda, Talibans pakistanais du TTP) [1]. Les contacts qui ont été établis depuis le Djihad contre l’Armée Rouge et qui ont été renforcés sous l’Émirat Islamique des Talibans ou au sein de l’insurrection depuis 2001 ont pu faciliter l’acheminement de combattants afghans et de ressources financières en Syrie notamment – mais pas uniquement – par le biais du système de paiement informel connu sous le nom de « Hawala » [2] ou par le biais de la « Zakât », l’aumône. Les ressources tirées d’activités criminelles ont aussi joué un rôle et comme l’a expliqué Viktor Ivanov, le directeur du service fédéral russe de lutte contre les stupéfiants, de nombreux groupes rebelles opérant en Syrie ont été financés grâce à l’argent tiré du trafic de drogue en provenance d’Afghanistan [3].

Au printemps 2012 des affiches ont fleuri dans différents quartiers de Kaboul et certaines étaient visibles dans les environs de Bagh-e Bala et de l’hôtel Intercontinental. Ces affiches invitaient les Afghans à soutenir la lutte des rebelles syriens et ne provenaient pas d’une association démocrate ou d’une ONG défendant les Droits de l’Homme. Celles-ci comportaient une forte connotation religieuse et arboraient, à côté du drapeau afghan, ceux des insurgés syriens, de la Turquie, du Qatar et de l’Arabie Saoudite. La présence de djihadistes afghans en Syrie n’est pas surprenante dans la mesure où de nombreux salafistes étrangers y sont également actifs et ce phénomène exprime la logique de solidarité globale de l’Oumma combattante, basée sur des réseaux terroristes transnationaux ayant montré leur capacité à opérer dans de nombreux pays et à mobiliser des partisans de différentes nationalités. Cette présence de combattants afghans a été évoquée à maintes reprises par certains médias ou journalistes (tels que Anastasia Popova de la chaîne Russia 24) ainsi que des hommes politiques afghans ou même turcs mais elle reste difficile à chiffrer.

Le dirigeant du Parti Démocratique Turc Namik Kemal Zeybek a ainsi affirmé que 10 000 Talibans et membres d’Al Qaeda étaient soutenus par le gouvernement turc, tout en ajoutant que 3000 terroristes avaient reçu un entraînement dans des camps en Afghanistan et au Pakistan avant d’être envoyés en Syrie [4]. Selon Zeybek, cette politique menée par le gouvernement AKP comporte également le risque d’assister à la pénétration de ces groupes fondamentalistes au sein de la société turque et de subir à terme des attaques terroristes menés par ces derniers [5]. Le président du PDT a précisé que les Talibans afghans occupaient un camp de réfugiés localisé dans la province du Hatay à partir duquel ils mèneraient des attaques ponctuelles en territoire syrien (le militant anti-impérialiste Bahar Kimyongür a également témoigné de la présence de combattants étrangers dans le Hatay et à l’aéroport d’Antioche) [6].

Au cours du mois de juillet 2013 un commandant opérationnel taliban du nom de Mohammad Amine à confié à la BBC qu’il était responsable d’une base talibane en Syrie et que la cellule chargée de mener le Djihad dans le pays y avait été établie en janvier 2013 [7]. Lors de sa création cette structure talibane a reçu la bénédiction du TTP (Tehrik-e-Taliban Pakistan) et bénéficié de l’aide de vétérans du Djihad en Afghanistan, originaires de pays du Moyen Orient et installés en Syrie au cours des dernières années [8]. Les Talibans pakistanais auraient envoyé en Syrie au cours des deux derniers mois au moins 12 spécialistes du combat et des technologies de l’information afin de développer les opérations conjointes menées avec leurs camarades syriens et évaluer les besoins existants [9]. Cette cellule envoie également des informations sur la situation militaire à l’organisation mère basée au Pakistan et d’après Mohammad Amine, « Il y a des douzaines de Pakistanais enthousiastes à l’idée de rejoindre le combat contre l’Armée Syrienne mais le conseil que nous avons reçu pour le moment est qu’il y a suffisamment d’hommes en Syrie » [10].

Au cours du même mois deux autres commandants talibans basés au Pakistan ont confirmé anonymement ces déclarations en ajoutant que des centaines de leurs combattants avaient été envoyé en Syrie à la requête de leurs camarades arabes : « Étant donné que nos frères arabes sont venus ici [Pakistan / Afghanistan] pour nous soutenir, nous sommes obligés de les aider dans leurs pays respectifs et c’est ce que nous avons fait en Syrie » [11]. Les combattants talibans opérant en Syrie font partie d’un réseau international structuré ou du moins organisé et leur engagement se veut durable comme l’explique un de ces commandants talibans pakistanais : « Nous avons établi des camps en Syrie. Certains de nos hommes y partent et reviennent après y avoir passé un certain temps à combattre » [12]. Comme l’a expliqué l’expert pakistanais Ahmed Rashid, l’envoi de Talibans en Syrie est un moyen pour le mouvement de prouver sa loyauté ou montrer son allégeance aux groupes armés radicaux se réclamant d’Al Qaïda mais aussi d’affirmer sa capacité à combattre hors de ses théâtres d’opérations habituels que sont le Pakistan et l’Afghanistan : « Ils agissent comme des djihadistes globaux, précisément avec l’agenda d’Al Qaïda. C’est un moyen (…) de cimenter leurs relations avec les groupes armés syriens…et d’élargir leur sphère d’influence » [13]. Certains membres du gouvernement pakistanais comme le Ministre de l’Intérieur Omar Hamid Khan ont en revanche démenti toutes ces déclarations, affirmant que les Talibans ne pouvaient aider leurs camarades syriens dans la mesure où ils auraient subi de nombreuses pertes infligées par les forces de sécurité pakistanaises et auraient « abandonné leurs fiefs dans les zones tribales » [14].

 

La Syrie, nouveau champ de bataille de la lutte entre Talibans afghano-pakistanais et Chiites

La Syrie, nouveau champ de bataille de la lutte entre Talibans afghano-pakistanais et Chiites. Credit : The World Factbook (cc)

 

Bien que les insurgés islamistes du Pakistan soient sous forte pression de la part de l’armée pakistanaise ou de l’armée américaine, ceux-ci ont pu envoyer un certain nombre des leurs combattre en Syrie : comme l’ont rapporté trois responsables de l’ISI basés dans les zones tribales, les djihadistes partis combattre contre le gouvernement de Damas appartiennent principalement à Al-Qaïda, au Tehrik-e-Taliban Pakistan et au Lashkar-e-Jhangvi [15]. La présence croissante de ces mouvements et des autres organisations djihadistes parmi les rangs de la rébellion indique une radicalisation idéologique ou religieuse du conflit mais aussi une intensification des luttes internes entre l’ASL et ses frères ennemis djihadistes (dont la composante Talibane pakistanaise ou afghane pourrait jouer le rôle de bourreau selon Didier Chaudet) tout en compliquant également la tâche de Washington dans son soutien apporté aux insurgés syriens [16]. Didier Chaudet ajoute que cette présence talibane « a fait son apparition alors que les forces de Bachar el-Assad ont repris du terrain face à la rébellion grâce à l’aide de forces chiites pro-iraniennes, notamment le Hezbollah » et ce serait également « une réponse à un recrutement antérieur de 200 Pakistanais chiites par l’Iran » : « Ces derniers auraient combattu à Alep ou à Homs. (…) L’engagement des Taliban pakistanais serait donc une réponse à une poussée chiite qui s’appuie elle aussi sur des forces étrangères » [17].

Pour les Talibans pakistanais la lutte contre le régime de Bachar Al-Assad est tout autant idéologique que confessionnelle : le Parti Ba’as et son dirigeant alaouite sont perçus comme les oppresseurs chiites d’une majorité sunnite [18]. Avant de se rendre en Syrie durant la première semaine de juillet 2013, un militant taliban se faisant appeler Suleman a ainsi expliqué que « Notre but et objectif est de lutter contre les Chiites et de les éliminer (…) C’est bien plus gratifiant si vous luttez en premier contre le mal ici et que vous voyagez pour ce noble but. Plus vous voyagez, plus grande sera la récompense d’Allah » [19]. Avant d’aller combattre contre les Chiites et les Alaouites de Syrie Suleman a déjà acquis une longue expérience dans ce domaine en participant aux persécutions et attentats menés contre les Chiites du Pakistan [20].

La communauté chiite du Pakistan (15-20% de la population) a souvent été visée par les groupes radicaux sunnites tels que le Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), le Lashkar-e-Jhangvi (LeJ) ou le Sipah-e-Sahaba (SSP) et depuis 2012, année au cours de laquelle 320 chiites furent tués (dont 100 principalement Hazaras au Baloutchistan), ces attaques sont en forte recrudescence [21]. En décembre 2012 des pèlerins se rendant en Iran furent attaqués dans le sud-ouest du pays [22] et en 2013 ces attentats confessionnels ont continué à croître [23]: en février 2013 90 personnes furent tuées par une bombe dans un marché d’un quartier hazara de Quetta [24], en mars 2013 un attentat tua 48 Chiites à Karachi et fit au moins 150 blessés [25], enfin le 21 juin 2013 l’attentat contre la mosquée chiite de Peshawar fit au moins 15 morts et deux douzaines de blessés [26].

Des Chiites pachtounes vivent dans les zones tribales, dans la région de Kurram, et ils sont également victimes d’attentats menés par leurs compatriotes sunnites (les Soufis sont aussi visés) depuis de nombreuses années: les processions de l’Achoura ont été régulièrement la cible d’attaques, des écoliers chiites ont été attaqué en février 2009 à Hangu [27] ; 10 Chiites ont été assassiné à Hangu en 2011 par des insurgés du TTP [28] ; 2 autres ont été torturés à mort en juin 2012 par des militants du SSP et le 1er février 2013 une mosquée chiite de Hangu fut détruite par une moto piégée causant 27 morts ainsi que des douzaines de blessés [29]. Afin de se protéger les Chiites pakistanais se sont organisés en formant le mouvement Tehrik-e-Jafaria Pakistan en 1979 puis au début des années 1990 un groupe d’autodéfense appelé Sipah-e-Muhammad Pakistan mais qui fut interdit par Pervez Musharraf en août 2001 [30]. Les populations chiites pachtounes disposent d’armes et peuvent former des milices villageoises servant à protéger leur communauté mais aussi, comme me l’a rapporté une source locale, à traquer les Talibans : de grandes battues sont ainsi organisées et peuvent rassembler plus d’une centaine d’hommes [31]. Ces derniers sont parfois précédés de joueurs de « dhol », « dholak », « daira » ou « daf » (tambours locaux) et il est arrivé que des prisonniers Talibans soient dépecés ou mutilés puis renvoyés vers leurs camarades en guise d’avertissement [32].

La branche pakistanaise du Hizb-ut Tahrir (Parti de la Libération) a déclaré à la mi-juillet 2013, en invoquant un extrait du verset 72 de la sourate 8 « Al-Anfal » du Coran [33], que les Musulmans du Pakistan ne pouvaient pas se satisfaire d’envoyer seulement un soutien matériel ou financier aux Djihadistes combattant en Syrie mais qu’ils devaient aussi se montrer solidaires en les rejoignant sur le terrain [34]. Pour le HuT la lutte armée doit être menée tout autant contre le régime syrien que le « régime de Kayani et Shareef » au Pakistan : le gouvernement pakistanais a nié à de nombreuses reprises la présence de djihadistes pakistanais en Syrie et son alliance avec les États-Unis l’ont transformé en régime impie aux yeux des fondamentalistes locaux [35]. Dans son communiqué du 17 juillet 2013, le Hizb-ut Tahrir a ainsi expliqué que le gouvernement pakistanais était l’allié du régime de Damas, que tous deux étaient inféodés aux États-Unis et faisait figurer en guise de preuve accablante une photo d’Asif Ali Zardari serrant la main de Bashar Al-Assad [36]. La branche pakistanaise du HuT a également appelé les djihadistes en Syrie à résister à toute infiltration occidentale de leur mouvement puis invité les forces armées pakistanaises à prendre les armes contre les gouvernements de Damas et d’Islamabad [37].

Les zones tribales pachtounes abritent des camps d’entraînement où ont été formés de nombreux djihadistes afghans, pakistanais, arabes, caucasiens (tchétchènes, daghestanais), ouzbeks ou tadjiks combattant en Syrie. Deux groupes distincts de djihadistes opérant en Syrie proviennent de ces camps pakistanais et une bonne partie de leurs membres dispose d’une expérience du combat acquise en Afghanistan contre les troupes de l’ANA et de l’ISAF. Selon des responsables de l’ISI ayant souhaité garder l’anonymat, le premier groupe est composé d’Arabes du Moyen Orient, de Turkmènes ou d’Ouzbeks ayant combattu en Afghanistan et ayant décidé de partir en Syrie car le conflit qui s’y déroule leur est apparu comme prioritaire [38]. Des sources anonymes au sein des Talibans pakistanais ont confié que des membres d’Al Qaïda ayant participé à la formation de leurs hommes (entraînement au combat, fabrication d’explosifs et IED, etc.) appartenaient à ce premier groupe et étaient désormais en Syrie [39]. Ni les autorités pakistanaises ni les Talibans n’ont pu donner de chiffres précis quant à ces effectifs ou aux itinéraires suivis par ces djihadistes étrangers afin de se rendre en Syrie depuis le Pakistan [40].

Mohammed Kanaan, un activiste rebelle d’Idlib, a confirmé à des journalistes d’Associated Press la présence de combattants pakistanais dans sa région mais précisé que ceux-ci n’étaient pas nombreux: « La plupart des étrangers [le terme plus exact employé est « muhajireen »] sont des combattants arabes de Tunisie, Algérie, Irak et Arabie Saoudite (…) Mais nous avons également vu des Pakistanais et des Afghans récemment » [41]. Ces derniers appartiennent au second groupe en provenance du Pakistan ou d’Afghanistan et il s’agit principalement de militants locaux du TTP et du Lashkar-e-Jhangvi [42]. Tout en se montrant prudent sur les effectifs ou la composition de cette présence talibane en Syrie, Didier Chaudet confirme qu’ « il y a bien eu des combattants quittant l’Afghanistan et le Pakistan pour aller mener le “djihad” en Syrie, et cela depuis début juin, si l’on en croit certaines sources pakistanaises. Certes, il s’agirait en majorité d’auxiliaires étrangers du TTP, des combattants arabes et centrasiatiques. Mais des Taliban pakistanais feraient également le voyage pour participer à la guerre contre Assad. Et cela sans forcément avoir l’aval des djihadistes sunnites locaux » [43].

Le Printemps Arabe et les guerres en Libye puis Syrie ont banalisé au sein de l’opinion publique occidentale l’autre grand conflit de cette décennie, celui d’Afghanistan, or ce dernier est loin d’être pacifié. Bien que le conflit et le contexte afghans ne peuvent être directement comparés avec ce qui se passe dans le monde arabe et plus particulièrement en Syrie, on a pu assister récemment à une interaction croissante entre ces deux théâtres d’opérations et les groupes djihadistes qui y combattent. Suite.

Mohammed Kanaan, un activiste rebelle d’Idlib, a confirmé à des journalistes d’Associated Press la présence de combattants pakistanais dans sa région mais précisé que ceux-ci n’étaient pas nombreux: « La plupart des étrangers [le terme plus exact employé est « muhajireen »] sont des combattants arabes de Tunisie, Algérie, Irak et Arabie Saoudite (…) Mais nous avons également vu des Pakistanais et des Afghans récemment » [41]. Ces derniers appartiennent au second groupe en provenance du Pakistan ou d’Afghanistan et il s’agit principalement de militants locaux du TTP et du Lashkar-e-Jhangvi [42]. Tout en se montrant prudent sur les effectifs ou la composition de cette présence talibane en Syrie, Didier Chaudet confirme qu’ « il y a bien eu des combattants quittant l’Afghanistan et le Pakistan pour aller mener le “djihad” en Syrie, et cela depuis début juin, si l’on en croit certaines sources pakistanaises. Certes, il s’agirait en majorité d’auxiliaires étrangers du TTP, des combattants arabes et centrasiatiques. Mais des Taliban pakistanais feraient également le voyage pour participer à la guerre contre Assad. Et cela sans forcément avoir l’aval des djihadistes sunnites locaux » [43].

Miliciens Chiites afghans appartenant aux forces syriennes pro-gouvernementales. Environs de Joubar (Damas). Source: page Facebook du Hayaa el-Akila

Miliciens Chiites afghans appartenant aux forces syriennes pro-gouvernementales. Environs de Joubar (Damas). Source : page Facebook du Hayaa el-Akila

Les grands médias occidentaux n’ont presque pas relaté ce problème et rares sont les photos ou vidéos attestant de cette de cette présence talibane en Syrie. Une vidéo diffusée sur internet durant la seconde moitié d’avril 2013 a été présentée comme une preuve concluante : on y voit un combattant arabe n’étant apparemment pas d’origine syrienne, entouré de 11 hommes armés dont 3 cavaliers, faire un discours en Arabe classique dans une région rurale de Syrie [44]. La plupart de ces hommes sont équipés de différents modèles de Kalachnikov mais au moins trois d’entre eux disposent de M16 ou M4 à lunettes et tous portent le « shalwar-kamiz » (la tenue portée en Inde, au Pakistan et en Afghanistan) voire des cheveux longs en plus de longues barbes (ce qui est parfois un signe distinctif des Talibans) mais ce dernier élément ne fait pas pour autant de tous ces hommes des Talibans afghans ou pakistanais [45]. L’affiliation de ces hommes est en revanche très claire dans la mesure où l’un d’eux tient le drapeau de l’État Islamique d’Irak et du Levant (drapeau noir comportant la première moitié de la Shahada rédigée en blanc dans la partie supérieure et le sceau du Prophète Mahomet dans la partie inférieure) [46]. Une autre vidéo tournée à Idlib lors de la décapitation de 3 Syriens par des combattants appartenant vraisemblablement au Jabhat al-Nusra et diffusée aux environs du 26 juin 2013 sur internet apporte la preuve irréfutable de la présence de djihadistes étrangers dans la région mais il est difficile de savoir si des Afghans ou des Pakistanais se trouvaient parmi eux. La décapitation de ces trois Syriens – parmi lesquels peut-être le Père François Mourad selon certaines sources [47] – a été commise par un djihadiste barbu, aux cheveux longs et à la physionomie laissant penser qu’il pourrait être tchétchène ou du moins caucasien alors que celui qui a lu la sentence s’exprime, selon Steven Miller, dans un Arabe médiocre [48]. Parmi les autres djihadistes présents on entend de forts accents, parfois ce qui pourrait être du tchétchène ou une langue caucasienne et on aperçoit des visages de type asiatique ou européen mais aussi un individu barbu portant un « pakol » (le chapeau porté au Pakistan et en Afghanistan, popularisé par le Commandant Ahmad Shah Massoud) [49]. En dépit de ce dernier élément il reste difficile de savoir si ce combattant est d’origine pakistanaise ou afghane dans la mesure où il a pu ramener ce « pakol » suite à un « séjour » en Afghanistan ou au Pakistan, ou l’acquérir auprès d’un Afghan, d’un Pakistanais ou de toute autre personne et surtout qu’il le porte d’une manière montrant clairement qu’il n’est ni Afghan ni Pakistanais.

Bien que les preuves de cette présence soient rares les témoignages de djihadistes, experts, reporters de guerre, personnels humanitaires ou tout simplement de citoyens syriens existent à ce sujet. Dans la province d’Alep aucun combattant afghan ou pakistanais n’aurait été hospitalisé dans les hôpitaux de l’arrière ou ceux situés à proximité des camps de réfugiés comme celui de Bab al Salam mais il est possible que ces djihadistes aient été hospitalisés dans des hôpitaux de campagne plus proches de la ligne de front ou qu’ils soient engagés dans d’autres régions [50]. Durant les combats pour l’aéroport de Ming il semble qu’aucun Taliban afghan ou pakistanais n’ait été présent [51]. Dans les hôpitaux de l’arrière on a pu noter la présence croissante de combattants parmi les blessés et particulièrement celle de nombreux étrangers tels que des Daghestanais, Tchétchènes et Tadjiks ou même un Français et un Autrichien [52]. Certains membres du personnel hospitalier s’occupant de ces combattants ou des membres du personnel local de certaines ONG œuvrant dans la province d’Alep ont confirmé la présence de Talibans pakistanais ou afghans en Syrie mais aucun élément précis n’a pu être donné à ce sujet et dans la plupart des cas il s’agit de témoignages rapportés indirectement [53]. Les djihadistes étrangers opérant sur le front syrien tentent de rester discrets : ceux-ci s’efforcent de ne s’exprimer qu’en Arabe classique afin de ne pas être reconnus et leurs séjours dans les hôpitaux de l’arrière sont d’une durée très limitée, généralement suivie d’un transfert dans des maisons de convalescence ou de repos séparées et tenues par les groupes armés auxquels ils appartiennent [54].

Au cours de conversations tenues en mai 2013 à Kaboul avec des fonctionnaires du Ministère de la Justice afghane, un assistant du Procureur Général de la République Islamique d’Afghanistan ou des officiers de l’Armée Nationale Afghane il est apparu que très peu d’informations précises ou d’éléments concrets avaient pu être réunis au sujet de la présence de Talibans afghans en Syrie [55]. Une discussion que j’ai eu au cours de ce séjour avec un vénérable universitaire afghan ayant enseigné à l’Université de Pune en Inde ainsi qu’à Oxford et menant des recherches sur un tout autre sujet (la période troublée du court règne autocratique d’Habibullah Kalakâni dit « Batcha-e-Saqâo ») dévia sur la question du conflit syrien et put en revanche amener certaines pistes intéressantes [56]. Cet universitaire me confirma la présence de djihadistes afghans ou pakistanais en Syrie puis affirma qu’environ 700 Afghans y avaient perdu la vie au combat (aucune source précise n’a pu être fournie) et que leurs corps seraient ramenés en Afghanistan [57]. S’interrogeant sur ce phénomène et ses causes politiques ou historiques, il me fit part de ce qu’il voyait sincèrement comme un paradoxe: « Comment se fait-il que ceux qui sont des oppresseurs ici en Afghanistan (les Talibans) soient des combattants de la liberté [sic, le terme « freedom fighters » a bien été employé] en Syrie ? » [58]. Pour cet universitaire afghan qui n’est aucunement un fondamentaliste, la cause première du problème en Syrie ou en Afghanistan est liée aux systèmes politiques de ces deux pays ou plus clairement à leur régime formellement républicain : citant en exemple la Grande Bretagne ou l’âge d’or révolu du règne de Zaher Shah, il m’expliqua que la monarchie est un gage de stabilité ou de modération politique alors que la république ferait invariablement le lit des régimes autoritaires, dictatoriaux ou totalitaires [59]. Pour cet intellectuel afghan Bashar al-Assad et le Parti Ba’as ne seraient que des avatars syriens de Mohammed Najibullah et de l’ancien PDPA partageant de nombreux traits communs tels qu’un régime républicain autoritaire et se voulant plus ou moins laïc ou encore l’alliance stratégique et politique avec Moscou [60].

Membres de la communauté Chiite afghane de Sayeda Zaynab (Damas) devant le sanctuaire du même nom. Source: page Facebook du Hayaa el-Akila

Membres de la communauté Chiite afghane de Sayeda Zaynab (Damas) devant le sanctuaire du même nom. Source : page Facebook du Hayaa el-Akila

D’après un militant Taliban se faisant appeler Hamza la raison de la présence de ses camarades en Syrie n’est pas uniquement religieuse mais aussi la conséquence des opérations menées par les forces de sécurité pakistanaises dans les zones tribales pachtounes [61]. L’armée pakistanaise a accentué sa pression et sa surveillance sur les Talibans, en capturant un certain nombre comme Suleman en 2009 (suite à une attaque ayant tué 35 personnes à Lahore) et poussant ainsi les autres à s’exiler pour le front syrien [62]. Selon Hamza, Suleman a fait partie d’un groupe de 70 djihadistes envoyés en Syrie au cours des deux derniers mois et ce réseau est géré conjointement par le le TTP et le Lashkar-e-Jhangvi [63]. Ce second groupe de djihadistes provenant du Pakistan est composé de ressortissants de ce pays, originaires du Baloutchistan, du Penjab, de Karachi et bien évidemment de la Khyber Pakhtunkhwa (les fameuses zones tribales pachtounes) [64]. Hamza de son côté fait partie d’un autre peloton d’une quarantaine d’hommes qui devrait avoir rejoint le front syrien à l’heure actuelle [65]. Hamza a confié que son groupe n’incorporerait pas le Front Al-Nusra et qu’il ignorait dans quel milice seraient intégrés ses hommes mais il a pu en revanche livrer quelques informations intéressantes sur son réseau basé au Pakistan [66]. Ce réseau serait dirigé par un ancien cadre du Lashkar-e-Jhangvi répondant au nom d’Usman Ghani et l’ « autre membre clé est un combattant taliban pakistanais nommé Alimullah Umry, qui envoie des combattants à Ghani depuis Khyber Pakhtunkhwa » [67]. Les Talibans se rendraient en Syrie par divers itinéraires et certains seraient même partis avec leur famille [68]. Les Talibans les plus surveillés parviendraient à quitter secrètement le Pakistan en vedette rapide depuis les côtes du Baloutchistan puis à rejoindre le Sultanat d’Oman et sa capitale Mascate avant de se rendre en Syrie [69]. Les autres djihadistes pakistanais quittent leur pays par des vols commerciaux à destination du Sri Lanka, du Bangladesh, des Emirats Arabes Unis ou du Soudan puis empruntent différents itinéraires en direction de la Syrie [70].

Hamza a révélé que le financement de ces voyages proviendrait de sources basées aux Emirats Arabes Unis et à Bahreïn [71]. Son camarade Suleman se serait rendu au Soudan avec son épouse et leurs deux enfants en utilisant des faux passeports puis il aurait rejoint seul le front syrien [72]. Suleman a confirmé que des familles de djihadistes pakistanais partis en Syrie résident au Soudan où elles ne sont pas laissées à elles-mêmes dans la mesure où leur séjour est pris en charge par des sources qui n’ont pas été mentionnées [73]. Un membre du parti islamiste pakistanais Jamaat-e-Islami a de son côté confié anonymement à des journalistes d’Associated Press que des militants de cette organisation étaient également partis en Syrie mais sans passer par le biais d’un réseau organisé [74].

La journaliste ukrainienne Ahnar Kochneva a rapporté qu’au cours de sa capture par des rebelles syriens dans la localité de Zabadani elle a pu noter la présence de combattants tchétchènes, libyens, français et afghans [75]. Ahnar Kochneva a pu interroger ces Afghans quant à la raison de leur présence en Syrie et ceux-ci ont répondu : « On nous a dit que nous étions venus en Israël et la nuit nous tirons sur des bus israéliens. Nous luttons contre l’ennemi pour libérer la Palestine » [76]. Réalisant leur méprise ces derniers répondirent, surpris : « Nous sommes en Syrie ? Nous pensions que nous étions en Israël » [77]. Au début du mois d’août 2012 certaines sources gouvernementales syriennes rapportaient que 500 terroristes provenant d’Afghanistan avaient été éliminés au cours des combats à Alep : la plupart de ces djihadistes était composée de vétérans ayant combattu contre l’ISAF en Afghanistan [78]. Les forces armées syriennes ont rapporté que des dépouilles de combattants turcs avaient été également retrouvées à Alep [79]. Les opérations menées par les troupes gouvernementales durant la seconde moitié du mois de septembre à Alep auraient notamment permis l’élimination d’une centaine de djihadistes afghans déployés près de l’école Al-Fidaa al-Arabi dans le district de Bustan al-Qasr [80] mais les forces rebelles ont affirmé de leur côté que ce quartier n’avait fait l’objet d’aucune attaque [81].

Des Chiites afghans aux côtés des forces gouvernementales syriennes

Martyrs Chiites afghans tombés lors des combats à Joubar (Damas) contre les groupes armés radicaux sunnites. Source : page Facebook du Hayaa el-Akila

Martyrs Chiites afghans tombés lors des combats à Joubar (Damas) contre les groupes armés radicaux sunnites. Source : page Facebook du Hayaa el-Akila

L’implication de citoyens afghans dans le conflit syrien et le décès de 3 d’entre eux au printemps 2013 a poussé les autorités afghanes à diligenter une enquête mais le but de celle-ci n’est pas de faire la lumière sur les réseaux radicaux sunnites [82]. Cette enquête menée par le biais de l’ambassade d’Afghanistan en Jordanie vise plutôt à éclaircir un autre aspect du conflit portant sur l’implication de l’Iran et la présence supposée d’Afghans dans les rangs des combattants iraniens opérant en Syrie [83]. Radio Free Europe disposerait de preuves et plus particulièrement d’une vidéo montrant une carte d’identité afghane près d’un cadavre portant un uniforme de l’Armée Syrienne [84]. La victime répondrait au nom de Safar Mohammed, fils d’Ali Khan, et serait originaire de la province de Balkh [85]. Pour certains analystes, il ne fait aucun doute que l’Iran a envoyé des Afghans se battre aux côtés des forces syriennes pro-gouvernementales [84] mais très peu d’articles (surtout dans les langues occidentales) évoquent cet aspect encore plus méconnu du conflit. La page Facebook du « Hayaa el-Akila » (Comité de la Dame ou Noble Dame, en référence à Zaynab), un groupe de défense du sanctuaire chiite de Sayeda Zaynab, a pu apporter la preuve de la présence de Chiites afghans aux côtés des milices iraniennes, libanaises ou des forces gouvernementales [87]. Dans une photo postée sur la page Facebook de ce groupe on peut voir deux combattants aux traits afghans, sans barbes, armés d’une mitrailleuse PKM et d’un fusil de précision SVD Dragounov, équipés à la manière des forces gouvernementales syriennes et présentés comme étant des martyrs tués lors des combats à Joubar (quartier de Damas) contre les forces rebelles [88]. Dans une autre photo on voit ces deux martyrs en compagnie de deux de leurs camarades qui pourraient très probablement être des Afghans et qui sont également sans barbes, équipés comme les forces de sécurité syriennes, armés d’un RPG 7 et de ce qui semble être une AK 47 [89].

Le conflit frappant la Syrie et plus particulièrement sa dimension confessionnelle font craindre à juste titre un embrasement de certains pays où les relations entre Chiites et Sunnites sont déjà tendues, que ce soit au Moyen Orient, en Asie Centrale ou en Asie du Sud. L’attaque à la roquette du sanctuaire chiite renfermant le tombeau de Sayeda Zaynab (petite fille du Prophète Mahomet et fille de l’Imam Ali) à Damas le 19 juillet 2013 (le sanctuaire avait déjà été attaqué par un véhicule piégé le 14 juin 2012) par des radicaux sunnites a exacerbé ces tensions et suscité l’indignation des Chiites dans le monde musulman, notamment au Liban, en Irak, en Iran et au Pakistan [90]. La mosquée de Sayeda Zaynab (parfois appelé Bibi Zaynab) était protégée depuis 2012 par des combattants du Hezbollah libanais ainsi que des Chiites irakiens ou étrangers [91] appartenant au au Liwa’a Abu Fadl al-Abbas, une sorte de Brigade Internationale Chiite dirigée par Abou Ajib et Abou Hajar [92]. En avril 2013 le dirigeant du Parti d’Allah, Hassan Nasrallah, avait fermement menacé tout groupe qui tenterait de s’en prendre à ce mausolée : le 22 juillet 2013 le mausolée de Khalid bin Walid (un compagnon du Prophète), un sanctuaire sunnite, a été sérieusement endommagé lors de l’offensive de l’Armée Arabe Syrienne dans Homs et pour de nombreux sunnites ou membres de la rébellion, ceci a été perçu comme un acte de représailles en réponse à l’attaque du sanctuaire chiite de Damas [93].

A l’image de l’Irak ou du Liban (Sidon, Tripoli et Beyrouth Sud), certains pays d’Asie tels que l’Inde, le Pakistan ou l’Afghanistan connaissent de violentes tensions inter-communautaires entre Chiites et Sunnites et celles-ci pourraient encore plus se dégrader suite à ces attaques et à l’écart croissant de perception du conflit syrien au sein de ces deux communautés. Avant la guerre les Musulmans chiites d’Asie se rendaient souvent en pèlerinage au sanctuaire de Sayeda Zaynab et ceux-ci sont désormais convaincus que les radicaux sunnites ont délibérément attaqué le mausolée de la fille de l’Imam Ali et petite fille du Prophète [94]: le conflit syrien a servi de catalyseur à la rivalité entre Sunnites et Chiites mais loin de rester localisée ou cantonnée à certains pays musulmans, celle-ci revêt de plus en plus une dimension globale.

A Karachi, Islamabad et Quetta les Chiites pakistanais ont réagi par des manifestations et leurs coreligionnaires d’Inde et d’Afghanistan ont indiqué qu’ils feraient de même sous peu afin d’exprimer leur condamnation de cette attaque [95]. Les dirigeants de ces communautés chiites ont souhaité donner un caractère pacifique à leur mouvement de protestation mais le risque de dérapages ou de violences n’est pas à exclure si les forces de police locales tentent de disperser les manifestants par la force [96]. Les chiites pakistanais ne craignent pas seulement une possible et brutale répression policière de ces manifestations mais aussi des attentats visant leurs cortèges ou processions à Karachi, Lahore, Islamabad et Quetta [97]. La communauté chiite du Pakistan a été fréquemment la cible des fondamentalistes sunnites locaux dans le passé, notamment à l’occasion des grandes fêtes comme celle de l’Achoura et elle craint à nouveau d’être la victime d’engins explosifs improvisés (IED) ou d’attentats kamikazes organisés par le Lashkar-e-Jhangvi [98]. De tels actes ne manqueraient pas d’aggraver la situation et de déclencher de violentes émeutes à Lahore, Karachi ou Quetta [99]. En Inde, le mouvement de protestation découlant de l’attaque du sanctuaire de Sayeda Zaynab est enraciné dans les régions où vivent des communautés chiites, comme à Mumbai, Hyderabad, Bhopal, Lucknow et certaines parties de l’Uttar Pradesh [100]. Ce mouvement de protestation similaire à celui qui avait fait suite à l’attaque du mausolée de l’Imam Hussein à Kerbala (Irak) en 2005 devrait durer quelques semaines et s’étendre à l’Afghanistan où vivent les Hazaras : ces Chiites d’origine turco-mongole sont principalement localisés dans le Hazaradjat (Bamiyan et sa province), dans les districts de Taimani et Dashti Barchi à Kaboul [101] mais aussi au Pakistan et en Iran.

Le calvaire des réfugiés afghans en Syrie

Le conflit qui déchire la Syrie a coûté la vie à un très grand nombre de civils : 65 000 selon le Centre de Documentation des Violations en Syrie [102], 92 901 selon la Commission des Droits de l’Homme de l’ONU [103] ou encore 100 191 d’après l’Observatoire Syrien des Droits de l’Homme [104]. En plus de ces pertes humaines, 1 443 284 Syriens ont fui leur pays et de 2,5 à 4,25 millions de leurs compatriotes sont désormais des déplacés internes [105]. Le sort dramatique de la population civile syrienne ainsi que celui des minorités nationales est également partagé par un certain nombre d’étrangers, réfugiés ou requérants d’asile qui se sont retrouvés piégés dans le pays par le déclenchement des hostilités. On compterait dans le pays 2400 réfugiés et 180 requérants d’asile originaires de Somalie, 480 000 réfugiés irakiens ainsi que 1750 réfugiés et 190 requérants d’asile en provenance d’Afghanistan [106].

Ces derniers, qui sont pour la plupart Hazaras, se sont installés en Syrie pour raisons humanitaires et religieuses afin de fuir les persécutions dont ils faisaient l’objet en Afghanistan [105]. D’autres Hazaras ou Afghans de confession chiite se sont aussi établis en Syrie suite à des pèlerinages effectués dans les divers lieux saints du pays [108]. Les Afghans de Syrie et les réfugiés afghans qui résident essentiellement à Damas et dans ses environs ont vu leur situation se détériorer gravement à partir de juillet 2012 lorsque les combats touchèrent Sayeda Zaynab (quartier de Damas où est localisé le sanctuaire chiite du même nom) [109]: ils furent forcés de fuir et de s’installer dans des abris où ils vivent désormais de manière précaire [110]. Les Afghans chiites sont perçus par les rebelles syriens comme étant proches des Alaouites et sont donc vus comme des alliés du régime de Bashar Al-Assad mais dans les faits, leur neutralité affichée a au contraire suscité une certaine suspicion de la part des autorités ou de la communauté alaouite [111]. Les réfugiés afghans, facilement reconnaissables à leurs traits asiatiques ou à leur accent, ont été la cible de nombreuses violences, attaques ou actes de torture prenant la forme de persécutions à caractère religieux [112].

Dans une lettre adressée aux Nations Unies les réfugiés afghans ont expliqué qu’ « ils avaient été victimes de tortures et qu’ils avaient été menacés juste parce qu’ils sont différents et qu’ils croyaient dans une religion dite « Chiite » : une Afghane hospitalisée dans un état grave fut malmenée en raison de sa foi chiite et « plusieurs réfugiés afghans ont été capturés seulement parce qu’ils étaient « chiites » [113]. La nature sectaire de ces actes indique qu’ils sont bien souvent l’œuvre de groupes armés fondamentalistes sunnites (locaux ou étrangers) ou, comme ce fut le cas notamment en Irak, de groupes criminels ayant trouvé dans le Djihad un moyen de justifier et sanctifier leur business. Le 5 janvier 2013 une attaque au mortier tua deux jeunes Afghans de 17 et 18 ans, et en blessa grièvement 7 autres [114].

Après avoir été forcés de quitter Sayeda Zaynab, ces réfugiés se sont retrouvés dans une situation extrêmement précaire : les logements, hôtels ou abris pour réfugiés qu’ils occupaient ont été fréquemment pillés, détruits ou brûlés [115]. Les Afghans qui ont tenté de récupérer leurs biens laissés dans leurs anciens logements ont reçu des menaces et certains ont été enlevés [116]. Cette situation a poussé de nombreux Afghans à fuir la Syrie mais leur avenir semble être tout aussi incertain : pour la plupart ils n’ont plus de documents prouvant leur statut et beaucoup sont entrés à l’origine de manière illégale en Syrie [117]. Ne pouvant être pleinement assistés par le HCR, de nombreux Afghans en situation irrégulière ont été arrêtés par les forces de l’ordre syriennes avant d’être expulsés alors que d’autres ont pu rejoindre la Turquie pour y mener une existence précaire qui les jettera parfois dans les griffes des passeurs et des autres prédateurs du business de l’immigration clandestine. Les plus chanceux ont pu bénéficier de l’aide du Grand Ayatollah Sadiq al-Husaini al-Shirazi qui, en partenariat avec les autorités irakiennes, a permis l’installation de 500 familles afghanes à Kerbala [118]. D’après un réfugié afghan nommé Bakir Jafar, les bus transportant ses compatriotes ont été attaqué par des rebelles sunnites à la frontière avec l’Irak, forçant l’Armée Arabe Syrienne à intervenir : « Quand nous sommes arrivés à la frontière irakienne ils ont tenté de nous empêché de la franchir (…) Nous ne transportions pas d’armes et nous n’avons pas voulu prendre partie mais ils ont quand même fait feu avec leurs armes. L’Armée Syrienne les a empêché de faire feu davantage. S’ils ne l’avaient pas fait, nous aurions tous été tués » [119]. Les régions chiites de l’Irak méridional offrent aux réfugiés afghans un asile et une vie plus sûrs que ce qu’ils ont connu en Syrie mais la situation sécuritaire irakienne reste très préoccupante dans la mesure où le pays reste affecté par un conflit de basse voire moyenne intensité ainsi qu’une violence inter-communautaire forte entre Chiites et Sunnites (enlèvements, meurtres, attentats contre les mosquées du camp adverse, etc.). Kerbala étant une ville attirant de très nombreux pèlerins, les réfugiés afghans se sont plaints du coût de la vie qui y est beaucoup plus élevé qu’à Damas [120] mais ils ne peuvent pas pour autant s’installer dans d’autres régions d’Irak dans la mesure où leur sécurité n’y serait pas garantie et où leur vies y seraient autant menacées qu’en Syrie ou en Afghanistan.

Gilles-Emmanuel Jacquet

 

 

À propos de l'auteur

Titulaire d’un Master en Science Politique de l’Université de Genève et d’un Master en Études Européennes de l’Institut Européen de l’Université de Genève, Gilles-Emmanuel Jacquet s’intéresse à l’Histoire et aux Relations Internationales. Ses champs d’intérêt et de spécialisation sont liés aux conflits armés et aux processus de résolution de ces derniers, aux minorités religieuses ou ethnolinguistiques, aux questions de sécurité, de terrorisme et d’extrémisme religieux ou politique. Les zones géographiques concernées par ses recherches sont l’Europe Centrale et Orientale, l’espace post-soviétique ainsi que l’Asie Centrale et le Moyen Orient.

Notes

 

[1] Ghaith Abdul-Ahad, « Syria: the foreign fighters joining the war against Bashar al-Assad », The Guardian, 23/09/2012 et Hala Jaber, « Jihadists pour into Syrian slaughter », The Sunday Times, 17/06/2012
[2] Sur cette problématique voir Sebastian R. Müller, Hawala : An informal payment system and its use to finance terrorism, VDM Verlag Dr Müller, 2007 ; Committee on Banking, Housing, and Urban Affairs of the United States Senate, « Hawala and underground terrorist financing mechanisms », 14/11/2001 ; Charles B. Bowers, « Hawala, money laundering, and Terrorism finance: micro-lending as an end to illicit remittence », Denver Journal of International Law and Policy, 07/02/2009 ; David C. Faith, « The Hawala System », Global Security Studies, Winter 2011, Volume 2, Issue 1 et « Terror financing reliant on Hawala, NPOs », Money Jihad, 04/02/2013
[3] « Syrian rebels funded by Afghan drug sales », RIA Novosti, 11/04/2013
[4] « 3000 Turkish terrorists trained in Afghanistan for Syria war », Afghan Voice Agency, 18/12/2012
[5] Ibid.
[6] « Taliban militants use Turkey to infiltrate into Syria: Turkish lawmaker », Press TV, 19/12/2012
[7] Ahmed Wali Mujeeb, « Pakistan Taliban sets up a base in Syria », BBC News, 12/07/2013 et Didier Chaudet, « Des Talibans en Syrie ? », Huffington Post, 28/07/2013
[8] [Ibid.].
[9] [Ibid.].
[10] [Ibid.].
[11] Maria Golovnina et Jibran Ahamd, « Pakistan Taliban set up camps in Syria, join anti-Assad war », Reuters, 14/07/2013
[12] Ibid.
[13] Ibid.
[14] Mushtaq Yusufzai, « Pakistani Taliban: « We sent hundreds of fighters to Syria », NBC News, 15/07/2013 et Zarar Khan et Sebastian Abbot, « Islamic militants leave Pakistan to fight in Syria », Associated Press, 14/07/2013
[15] Zarar Khan et Sebastian Abbot, « Islamic militants leave Pakistan to fight in Syria », Associated Press, 14/07/2013 ou Indian Times et Bill Roggio, « Hundreds of Pakistani jihadists reported in Syria, Threat Matrix / Long War Journal, 14/07/2013
[16] Ibid. et Didier Chaudet, « Des Talibans en Syrie ? », Huffington Post, 28/07/2013
[17] Didier Chaudet, « Des Talibans en Syrie ? », Huffington Post, 28/07/2013
[18] Zarar Khan et Sebastian Abbot, « Islamic militants leave Pakistan to fight in Syria », Associated Press, 14/07/2013 ou Indian Times et Bill Roggio, « Hundreds of Pakistani jihadists reported in Syria, Threat Matrix / Long War Journal, 14/07/2013
[19] Ibid.
[20] Ibid.
[21] « Pakistan: Shia killings escalate », Human Rights Watch, 05/09/2012
[22] « Pakistan bombing kills Shia pilgrims », CBC News, 30/12/2012
[23] « Anti-Shiite attacks up in Pakistan ; analysts say officials give militants room to operate », Fox News, 09/03/2013
[24] « Death toll in Pakistan’s anti-Shia attack rises to 90 », Press TV, 19/02/2013
[25] « Anti-Shiite attacks up in Pakistan ; analysts say officials give militants room to operate », Fox News, 09/03/2013
[26] « Bomb attack targeting Shia mosque in Pakistan kills 15 », Press TV, 21/06/2013
[27] « Taliban kill Shia school children in ambush in Hangu », LUBP, 27/02/2009
[28] « 10 Shia martyred in an attack near Hangu, by terrorist of Tehrik-e-Taliban », Jafria News, 13/03/2011
[29] « Death toll in Pakistan’s anti-Shia attack rises to 90 », Press TV, 19/02/2013 ; « Pakistan bomb: 21 die in Hangu Shia suicide attack », BBC News, 01/02/2013 ; « Hangu: blast outside Shiite Mosque leaves 22 dead », Shia Killing / PakShia, 01/02/2013 et « Suicide blast outisde Hangu mosque claims 27 lives », Dawn, 01/02/2013
[30] « Sipah-e-Mohammed, Terrorist group of Pakistan », South Asia Terrorism Portal
[31] Source locale confidentielle

[32] Source locale confidentielle
[33] « Mais s’ils implorent votre appui à cause de la foi, vous le leur accorderez, à moins que ce ne soit contre ceux qui sont vos alliés en vertu des pactes que vous avez noués avec eux. Allah le Très-Haut voit toutes vos actions », sourate 8 verset 72 « Al-Anfal », Coran.
[34] Hizb-ut-Tahrir, « Supporting Syria is a duty on the Pakistani military not just the Taliban », Khilafah, 15/07/2013
[35] Ibid.
[36] Ibid.
[37] Ibid.
[38] Zarar Khan et Sebastian Abbot, « Islamic militants leave Pakistan to fight in Syria », Associated Press, 14/07/2013 ou Indian Times et Bill Roggio, « Hundreds of Pakistani jihadists reported in Syria, Threat Matrix / Long War Journal, 14/07/2013
[39] Ibid.
[40] Ibid.
[41] Ibid.
[42] Ibid.
[43] Didier Chaudet, « Des Talibans en Syrie ? », Huffington Post, 28/07/2013

Notes

[41] Zarar Khan et Sebastian Abbot, « Islamic militants leave Pakistan to fight in Syria », Associated Press, 14/07/2013 ou Indian Times et Bill Roggio, « Hundreds of Pakistani jihadists reported in Syria, Threat Matrix / Long War Journal, 14/07/2013
[42] Ibid.
[43] Didier Chaudet, « Des Talibans en Syrie ? », Huffington Post, 28/07/2013
[44] « From the mountains of Afghanistan to Syria: the Taliban are always there », Live Leak, 20/04/2013
[45] Ibid.
[46] Ibid.
[47] « Report: Syria militants behead two Christians », Syria Report, 26/06/2013 et « Youtube video shows graphic scenes of Franciscan monk’s beheading », Religious Freedom Coalition, 27/06/2013
[48] Bill Roggio et Lisa Lundquist, « Syrian jihadists behead Catholic priest, 2 others », The Long War Journal, 01/07/2013
[49] « Syrie / Idlib: décapitation publique de trois Syriens », Youtube, 26/06/2013 ; « Report: Syria militants behead two Christians », Syria Report, 26/06/2013 et Bill Roggio et Lisa Lundquist, « Syrian jihadists behead Catholic priest, 2 others », The Long War Journal, 01/07/2013
[50] Sources locales confidentielles
[51] Sources locales confidentielles
[52] Sources locales confidentielles
[53] Sources locales confidentielles
[54] Sources locales confidentielles
[55] Sources locales confidentielles
[56] Source locale confidentielle
[57] Source locale confidentielle
[58] Source locale confidentielle. De mon côté je ne partage pas cette analyse et me demande plutôt comment on peut penser ou expliquer qu’un bourreau dans un pays devienne un saint dans un autre alors que son idéologie ou ses méthodes ne changent pas et que les deux contextes dans lesquels il opère sont très différents.
[59] Source locale confidentielle
[60] Source locale confidentielle
[61] Zarar Khan et Sebastian Abbot, « Islamic militants leave Pakistan to fight in Syria », Associated Press, 14/07/2013 ou Indian Times et Bill Roggio, « Hundreds of Pakistani jihadists reported in Syria, Threat Matrix / Long War Journal, 14/07/2013
[62] Ibid.
[63] Ibid.
[64] Ibid.
[65] Ibid.
[66] Ibid.
[67] Ibid.
[68] Ibid.
[69] Ibid.
[70] Ibid.
[71] Ibid.
[72] Ibid.
[73] Ibid.
[74] Ibid.
[75] « Syrian rebels tried to kill UK journalists ; Afghans in Syria », AANGIRFAN, 08/06/2012
[76] Nora Lambert, « Eyewitness account: Media lies about Syria », GB Times, 05/06/2012 ; « Eyewitness and Journalist: Western Media lie about Syria », Syria – The Real Deal, 07/06/2012 et « Syrian rebels tried to kill UK journalists ; Afghans in Syria », AANGIRFAN, 08/06/2012
[77] Ibid.
[78] Aaron Klein, « Claim: Afghan mujaheeden now fighting for U.S.-supported Syrian opposition », Klein Online, 02/08/2012
[79] Hadeel al-Shalchi, « Assad’s forces pound rebel stronghold in Aleppo », Reuters, 05/08/2012
[80] Matthew Weaver et Brian Whitaker, « Syria receiving Iranian arms « almost daily » via Iraq », The Guardian, 20/09/2012 ; « Syrian forces kill 100 Afghani « terrorists », SANA, 21/09/2012 ; « Syrian troops kill 100 « Afghani fighters », Xinhua, 20/09/2012 ; « Syrian forces killed 100 Afghan insurgents », CounterPsyOps, 21/09/2012 ; « Syrian forces kill 100 Afghan insurgents in Aleppo », Press TV, 20/09/2012 ; « In Syria: Afghan militants killed, helicopter goes down », Al Manar, 20/09/2012 et R. Raslan, H. Saïd et Ghossoun, « One hundred Afghani terrorists killed in Aleppo, Dshk-equipped cars destroyed in Aleppo and Homs », Syrian Arab News Agency, 20/09/2012
[81] Erika Solomon et Oliver Holmes, « Syrian air strike kills at least 54: activists », Reuters, 20/09/2012
[82] Meena Haseeb, « Afghans involvement in Syria war to be investigated: Mosazai », Khaama Press, 08/04/2013
[83] Ibid. et « Three Afghans killed in Syria », Bakhtar News, 04/02/2013
[84] Meena Haseeb, « Afghans involvement in Syria war to be investigated: Mosazai », Khaama Press, 08/04/2013
[85] Ibid.
[86] Ibid.
[87] Page Facebook du Hayaa el-Akila 1 et 2
[88] Page Facebook du Hayaa el-Akila
[89] Page Facebook du Hayaa el-Akila
[90] « Syria shrine attack likely to trigger wider regional protests », IHS Jane’s Intelligence Weekly, 21/07/2013

[91] Ibid.
[92] Philip Smyth, « Hizballah Cavalcade: What is the Liwa’a Abu Fadl al-Abbas (LAFA)?: Assessing Syria’s Shia “International Brigade” through their social media presence », Jihadology, 15/05/2013 ; Mona Mahmood et Martin Chulov, « Syrian war widens Sunni-Shia schism as foreign jihadis join fight for shrines », The Guardian, 04/06/2013 ; Suadad al-Salhy, « Iraqi Shi’ites flock to Assad’s side as sectarian split widens », Reuters, 19/06/2013 et « Fierce clashes in Damascus district: NGO », AFP, 19/06/2013
[93] « Syria shrine attack likely to trigger wider regional protests », IHS Jane’s Intelligence Weekly, 21/07/2013
[94] Ibid.
[95] Ibid.
[96] Ibid.
[97] Ibid.
[98] Ibid.
[99] Ibid.
[100] Ibid.
[101] Ibid.
[102] Violation Documentation Center on Syria ; pour une description détaillée cliquez ici
[103] Chiffre d’avril 2013, Ian Black, « Syria deaths near 100,000, says UN, – and 6,000 are children », The Guardian, 13/06/2013

[104] Chiffre de juin 2013, page Facebook de l’Observatoire Syrien des Droits de l’Homme
[105] « Syria: A full-scale displacement and humanitarian crisis with no solutions in sight », Internal Displacement Monitoring Centre, 16/08/2012 et « 2013 UNHCR country operations profile – Syrian Arab Republic », UNHCR
[106] « 2013 UNHCR country operations profile – Syrian Arab Republic », UNHCR
[107] Ahmad Shuja, « Syria’s Afghan refugees trapped in a double crisis », UN Dispatch, 28/01/2013 et Mohammed Hamid al-Sawaf, « Religious mission: Damascus’ Afghan refugees end up in Iraq », Niqash, 25/10/2012

[108] Ibid.
[109] Voir la photo de certains membres de la communauté afghane de Sayeda Zaynab entourant un religieux chiite devant le sanctuaire et accompagnée de la mention « Qu’Allah protège toute la communauté afghane de Sayeda Zaynab ainsi que tous les habitants du quartier provenant de tous les pays et de toutes les communautés », page Facebook du Hayaa el-Akila
[110] Ahmad Shuja, « Syria’s Afghan refugees trapped in a double crisis », UN Dispatch, 28/01/2013

[111] Ibid.
[112] Ibid.
[113] Ibid.
[114] Ibid.
[115] Ibid.
[116] Ibid.
[117] Ibid.
[118] Mohammed Hamid al-Sawaf, « Religious mission: Damascus’ Afghan refugees end up in Iraq », Niqash, 25/10/2012
[119] Ibid.
[120] Ibid.

jeudi, 27 juin 2013

Énigme turque et ours russe

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Énigme turque et ours russe

Ex: http:://www.dedefensa.org/

Le site DEBKAFiles annonce que la Turquie a décidé de fermer ses frontières aux rebelles syriens, et plus précisément au passage d’armes US et otaniennes vers la Syrie. On connaît DEBKAFiles, dont les informations sont diffusées à partir de milieux proches des services de sécurité israéliens et sont nécessairement de véracité variable. Pourtant, il est un domaine où DEBKAFiles s’est montré ces derniers temps particulièrement attentif, qui est celui du comportement de la Russie, et du poids grandissant de la Russie sur la crise syrienne et tout ce qui va autour. Il semble d’ailleurs que cette orientation corresponde à une attention grandissante d’Israël vis-à-vis de la Russie, considérant ce pays désormais comme un acteur majeur de la région avec lequel il faudrait éventuellement envisager (dans le chef d’Israël) certains arrangements, à mesure que les USA sont moins actifs et dominateurs qu’auparavant et le sont de moins en moins. Par conséquent, les nouvelles que donne DEBKAFiles concernant la Russie sont particulièrement soignées et, souvent, reflètent certaines vérités de la situation. Or, la nouvelle rapportée ici concernant la Turquie est directement liée à la Russie, et à la crainte d’Erdogan concernant les réactions de la Russie si la Turquie continue à aider les rebelles syriens. Tout cela correspondrait assez justement au rôle grandissant de la Russie.

Le texte dont nous faisons ci-dessous des citations est donc de DEBKAFiles, du 22 juin 2013.

«The US decision to upgrade Syrian rebel weaponry has run into a major setback: DEBKAfile reveals that Turkish Prime Minister Tayyip Erdogan phoned President Barack Obama in Berlin Wednesday, June 19, to report his sudden decision to shut down the Turkish corridor for the transfer of US and NATO arms to the Syrian rebels. [...]

»Erdogan’s decision will leave the Syrian rebels fighting in Aleppo virtually high and dry. The fall of Qusayr cut off their supplies of arms from Lebanon. Deliveries through Jordan reach only as far as southern Syria and are almost impossible to move to the north where the rebels and the Hizballah-backed Syrian army are locked in a decisive battle for Aleppo.

»The Turkish prime minister told Obama he is afraid of Russian retribution if he continues to let US and NATO weapons through to the Syrian rebels. Since the G8 Summit in Northern Ireland last week, Moscow has issued almost daily condemnations of the West for arming “terrorists.”

»Rebel spokesmen in Aleppo claimed Friday that they now had weapons which they believe “will change the course of the battle on the ground.” DEBKAfile’s military sources are strongly skeptical of their ability – even after the new deliveries — to stand up to the onslaught on their positions in the embattled town by the combined strength of the Syrian army, Hizballah troops and armed Iraqi Shiites. The prevailing intelligence assessment is that they will be crushed in Aleppo as they were in Al Qusayr. That battle was lost after 16 days of ferocious combat; Aleppo is expected to fall after 40-60 days of great bloodshed.

»The arms the rebels received from US, NATO and European sources were purchased on international markets – not only because they were relatively cheap but because they were mostly of Russian manufacture. The rebels are thus equipped with Russian weapons for fighting the Russian arms used by the Syria army. This made Moscow angrier than ever.»

Par ailleurs, le même DEBKAFiles annonce des renforts importants venant de Russie pour la Syrie, notamment un contingent de 600 “marines” russes, soldats d’infanterie de marine ou/et forces spéciales (Spetnatz). Ce déploiement est présenté comme une mesure consécutive au sommet du G-8, et à ce qui est présenté par DEBKAFiles comme “un échec” (le sommet) et l’occasion pour les Russes de se forger une conviction concernant les livraisons d’armes du bloc BAO vers les rebelles, non seulement projetées mais d’ores et déjà en cours. Ce point est évidemment à mettre en corrélation avec la nouvelle que le même DFEBKAFiles annonce ci-dessus concernant la décision turque de fermer sa frontière aux rebelles syriens. L’argument de la protection des 20.000 citoyens russes en Syrie est largement présenté comme impératif dans la décision russe d’envoyer ces forces en Syrie, avec l’annonce supplémentaire que des forces aériennes russes seraient déployées en Syrie si une no-fly zone était établie par le bloc BAO. (DEBKAFiles, le 21 juin 2013 .)

«Just one day after the G8 Summit ended in the failure of Western leaders to overcome Russian resistance to a resolution mandating President Bashar Assad’s ouster, Moscow announced Wednesday June 19, the dispatch to Syria of two warships carrying 600 Russian marines. They were coming, said the official statement, “to protect the Russian citizens there.” Russian Deputy Air Force Commander Maj.-Gen. Gradusov added that an air force umbrella would be provided the Russian expeditionary force if needed.

»DEBKAfile's military sources report that the pretext offered by Moscow for sending the force thinly disguised Russian President Vladimir Putin’s intent to flex Russian military muscle in response to the delivery of Western heavy arms to Syrian rebels – which DEBKAfile first revealed Tuesday, June 18.»

Si elle est confirmée, la nouvelle donnée par DEBKAFiles concernant la Turquie est évidemment du plus grand intérêt. Si l’on s’en tient aux seules circonstances décrites et toujours en leur accordant le crédit de la véracité, on dirait, en un terme hérité du temps de la Guerre froide, qu’une telle circonstance se nommerait “finlandisation”, en plus appliquée à un membre de l’OTAN dans le cas turc (ce que n’était pas la Finlande dans les années de Guerre froide). Il s’agit de la paralysie, ou plus simplement de l’absence volontaire d’actes de politique extérieure, et encore plus d’actes militaires contraires aux intérêts de l’URSS, qui caractérisait la politique générale de la Finlande en échange de l’indépendance que respectait cette même URSS.

Dans tous les cas, – véracité ou pas de la nouvelle, – il ne fait aucun doute qu’en cas d’aggravation de la tension en Syrie, avec renforcement russe direct, pour une raison ou l’autre, la Turquie sera soumise de facto à de très fortes pressions russes dans le sens qu’on devine. Cela conduirait effectivement à une situation tout à fait inédite, dans la mesure extrêmement importante pour ce cas où la Turquie est membre de l’OTAN. On rapprochera ce cas d’une autre occurrence évoquée le 4 juin 2013 (Russia Today) par Medvedev, lors de questions qui lui étaient adressées par des journalistes, durant le Euro-Atlantic Forum, en Ukraine, et qui concernent plutôt le flanc Nord des rapports Russie-OTAN. Les réponses de Medvedev sur l’attitude de la Russie concernant de nouveaux membres de l’OTAN pourraient être extrapolées pour d’actuels membres de l’OTAN, notamment la Pologne, particulièrement concernée puisqu’elle déploie des missiles antimissiles US contre lesquels sont déployés des SS-26 Iskander russes dans l’enclave de Kaliningrad. Là aussi, la démarche russe telle qu’elle se dessine, également contre des membres de l’OTAN (la Pologne pouvant bien être la Turquie du Nord à cet égard), prend de plus en plus l’aspect d’une riposte offensive aux pressions exercées contre la Russie depuis vingt ans par l’OTAN, les USA et les divers États-clients (anciens d'Europe de l'Est complètement “rachetés” par les réseaux et l'argent US) et autres ONG téléguidés par les USA (type “révolutions de couleur“ et “agression douce“).

«When a reporter asked Dmitry Medvedev how the balance of forces in Europe will change if Sweden and Finland decide to enter NATO, the Russian Prime Minister answered that his country would have to react to such developments. “This is their own business; they are making decisions in accordance with the national sovereignty doctrine. But we have to consider the fact that for us the NATO bloc is not simply some estranged organisation, but a structure with military potential,” the head of the Russian government said adding that under certain unfavorable scenarios this potential could be used against Russia. “All new members of the North Atlantic alliance that appear in proximity of our state eventually do change the parity of the military force. And we have to react to this,” the top official noted.»

D’autre part, et considérant d’un autre point de vue la nouvelle initiale concernant la Turquie, on admettra qu’un (nouveau) changement d’orientation sinon d’“alliance” de facto de la part d’Erdogan, prenant ses distances du bloc BAO pour s’extraire du guêpier syrien et se replacer dans un axe Moscou-Ankara-Téhéran, pourrait être de bonne politique intérieure pour lui. Cela permettrait de remobiliser puissamment les forces qui l’ont soutenu fermement jusqu’à ce qu’elles perdent un peu de leur allant avec sa politique syrienne anti-Assad, détestée par de nombreux milieux turcs, y compris dans son propre parti, y compris chez les contestataires qui occupent actuellement les rues. Il s’agirait, comme nous l’avons envisagé, d’une voie vers une “relégitimisation” d’Erdogan (voir le 10 juin 2013), qui pourrait contribuer notablement à réduire les dimensions et le dynamisme de la contestation publique.

mardi, 25 juin 2013

P. Scholl-Latour: “L’Occident s’allie avec Al-Qaeda”

“L’Occident s’allie avec Al-Qaeda”

Peter Scholl-Latour, le grand expert allemand sur le Proche et le Moyen Orient s’exprime sur la guerre civile syrienne, sur le rôle de l’Europe et des Etats-Unis, sur le programme nucléaire iranien qui suscite bien des controverses...

Entretien avec Peter Scholl-Latour

PSLatour.jpgQ.: En Syrie, l’armée vient de reprendre un bastion des rebelles, la ville de Qussayr et a enregistré d’autres succès encore. Ces victoires représentent-elles un tournant dans cette guerre civile atroce, cette fois favorable à Bechar El-Assad?

PSL: Jamais la situation n’a vraiment été critique pour le Président El-Assad, contrairement à ce qu’ont toujours affirmé nos médias. Il y a bien sûr des villages qui sont occupés par les rebelles; des frontières intérieures ont certes été formées au cours des événements mais on peut difficilement les tracer sur une carte avec précision. La Syrie ressemble dès lors à une peau de léopard. Aucun chef-lieu de province n’est tombé aux mains des rebelles, bien que bon nombre d’entre eux soient entourés de villages hostiles à El-Assad. Il est tout aussi faux d’affirmer que tous les Sunnites sont des adversaires d’El-Assad, et la chute d’une place forte stratégique aussi importante que Qussayr est bien entendu le fruit d’une coopération avec le Hizbollah libanais.

Q.: Le Liban sera-t-il encore plus impliqué dans la guerre civile syrienne qu’auparavant? 

PSL: Le Liban est profondément impliqué! Quand j’étais à Tripoli dans le Nord du pays, il y a trois ans, des coups de feu s’échangeaient déjà entre les quartiers alaouites et sunnites. La ville de Tripoli a toujours été considérée comme le principal bastion au Liban de l’islam rigoriste et, pour l’instant, on ne sait pas encore comment se positionneront vraiment les chrétiens. On peut cependant prévoir qu’ils en auront bien vite assez de la folie des rebelles syriens, dont le slogan est le suivant: “Les chrétiens à Beyrouth, les alaouites au cimetière!”.

Q.: L’UE vient encore de prolonger l’embargo sur les armes contre la Syrie, vu que l’Europe ne montre aucune unité diplomatique ou stratégique. Peut-on considérer cette posture comme un prise de position inutile de la part de l’UE?

PSL: Les Européens montrent une fois de plus une image lamentable, surtout les Français et les Anglais. Cette image lamentable, à mes yeux, se repère surtout dans la tentative maladroite des Français de prouver que le régime d’El-Assad utilise des gaz de combat, affirmation purement gratuite car il n’y a pas l’ombre d’une preuve. Cependant, les seuls qui auraient un intérêt à utiliser des gaz, même en proportions très limitées, sont les rebelles, car Obama a déclaré naguère que l’utilisation de telles armes chimiques constituerait le franchissement d’une “ligne rouge”, permettant à l’Occident d’intervenir.

Q.: L’Occident pourra-t-il encore intervenir, surtout les Etats-Unis, même sans utiliser de troupes terrestres et en imposant militairement une zone interdite aux avions d’El-Assad?

PSL: Les Américains ne sont pas prêts, pour le moment, à franchir ce pas parce qu’ils ne veulent pas s’impliquer encore davantage dans les conflits du Proche Orient et surtout parce qu’ils en ont assez du gâchis libyen. L’Occident a certes connu une forme de succès en Libye, en provoquant la chute de Khadhafi, mais le pays est plongé depuis lors dans un inextricable chaos dont ne perçoit pas la fin. En Cyrénaïque, plus précisément à Benghazi, où l’on a cru naïvement qu’un soulèvement pour la démocratie avait eu lieu, l’ambassadeur des Etats-Unis a été assassiné. On aurait parfaitement pu prévoir ce chaos car la Cyrénaïque a toujours été, dans l’histoire, la province libyenne la plus travaillée par l’islamisme radical.

On a cru tout aussi naïvement que des élections allaient amener au pouvoir un gouvernement modéré et pro-occidental, mais on n’a toujours rien vu arriver... Les luttes acharnées qui déchirent la Libye sont organisées par les diverses tribus qui ont chacune leurs visions religieuses propres.

Q.: L’Occident soutient les rebelles en Syrie tandis que la Russie se range derrière El-Assad. Peut-on en conclure que, vu les relations considérablement rafraîchies aujourd’hui entre l’Occident et la Russie, la guerre civile syrienne est une sorte de guerre russo-occidentale par partis syriens interposés?

PSL: Bien sûr qu’il s’agit d’une guerre par partis syriens interposés: les Russes se sont rangés derrière El-Assad, comme vous le dites, de même que l’Iran et le premier ministre irakien Nouri Al-Maliki. La frontière entre la Syrie et la Turquie est complètement ouverte, ce qui permet aux armes, aux volontaires anti-Assad et aux combattants d’Al Qaeda de passer en Syrie et de renforcer le camp des rebelles. De plus, en Turquie, on entraîne des combattants tchétchènes, ce qui me permet de dire que l’Occident s’est bel et bien allié à Al-Qaeda.

Q.: Quelles motivations poussent donc les Turcs? Sont-ils animés par un rêve de puissance alimenté par l’idéologie néo-ottomane?

PSL: Selon toute vraisemblance, de telles idées animent l’esprit du premier ministre turc Erdogan. Mais, depuis peu, des troubles secouent toute la Turquie, qu’il ne faut certes pas exagérer dans leur ampleur parce qu’Erdogan est bien installé au pouvoir, difficilement délogeable, ne peut être renversé. Mais les événements récents égratignent considérablement l’image de marque de la Turquie, telle qu’elle avait été concoctée pour le public européen, celle d’un pays à l’islam tolérant, exemple pour tout le monde musulman. Cette vision vient d’éclater comme une baudruche. Mais les véritables inspirateurs des rebelles syriens sont les Saoudiens, dont la doctrine wahhabite est précisément celle des talibans.

Q.: L’Autriche va retirer ses casques bleus du Golan. On peut dès lors se poser la question: la mission de l’ONU dans cette région pourra-t-elle se maintenir? Si la zone-tampon disparaît, ne peut-on pas craindre une guerre entre Israël et la Syrie?

PSL: Pour les Israéliens, ce serait stupide de déclencher une guerre, ce serait une erreur que personne ne comprendrait car depuis la fin de la guerre du Yom Kippour, il y a près de quarante ans, il n’y a pas eu le moindre incident sur la frontière du Golan. J’ai visité là-bas les casques bleus autrichiens et ils ne m’ont pas mentionné le moindre incident. Aujourd’hui toutefois les échanges de tirs ont commencé et les groupes islamistes extrémistes s’infiltrent; il vaut donc mieux que les Autrichiens, qui ont l’ordre de ne jamais tirer, se retirent au plus vite.

Q.: Mais alors une guerre entre Israéliens et Syriens devient possible...

PSL: Israël a une idée fixe: la grande menace viendrait de l’Iran, ce qui est une interprétation totalement erronée. Si les rebelles ont le dessus en Syrie, Israël aura affaire à des islamistes sunnites sur les hauteurs du Golan. Bien sûr, on me rétorquera que le Hizbollah chiite du Liban est, lui aussi, sur la frontière avec Israël, mais il faut savoir que le Hizbollah est une armée disciplinée. Sa doctrine est aussi beaucoup plus tolérante qu’on ne nous l’a dépeinte dans les médias occidentaux: par exemple, dans les régions tenues par le Hizbollah, il n’y a jamais eu de persécutions contre les chrétiens; les églises y sont ouvertes et les statues mariales y demeurent dressées. Toutes choses impensables en Arabie Saoudite, pays qui est un de nos chers alliés, auquel l’Allemagne ne cesse de fournir des chars de combat... Nous vivons à l’heure d’une hypocrisie totale.

Q.: Vous venez d’évoquer l’Iran: un changement de cap après les présidentielles est fort peu probable, surtout si la figure de proue religieuse demeure forte en la personne de Khamenei...

PSL: On a largement surestimé Ahmadinedjad. Il a certes dit quelques bêtises à propos d’Israël mais dans le monde arabe il y a bien d’autres hommes politiques qui ont dit rigoureusement la même chose, sans que les médias occidentaux n’aient jugé bon de lancer des campagnes d’hystérie. Certes, le zèle religieux est bien repérable chez les Chiites d’Iran et, dans les villes surtout, le nationalisme iranien est une force politique considérable. Si un conflit éclate, l’Iran n’est pas un adversaire qu’il s’agira de sous-estimer.

Q.: Le programme nucléaire iranien, si contesté, est aussi et surtout l’expression d’un nationalisme iranien...

PSL: On ne peut prédire si l’Iran se dotera d’un armement nucléaire ou non. Mais on peut émettre l’hypothèse qu’un jour l’Iran deviendra une puissance nucléaire. Cela ne veut pas dire que l’Iran lancera des armes atomiques contre ses voisins car Téhéran considèrera cet armement comme un atout dissuasif, comme tous les autres Etats qui en disposent. L’Iran, tout simplement, est un Etat entouré de voisins plus ou moins hostiles et aimerait disposer d’un armement atomique dissuasif.

Propos recueillis par Bernhard Tomaschitz.

(entretien paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°24/2013).

dimanche, 16 juin 2013

Roland Dumas : les Anglais préparaient la guerre en Syrie deux ans avant les manifestations en 2011

 

Roland Dumas : les Anglais préparaient la guerre en Syrie deux ans avant les manifestations en 2011

samedi, 08 juin 2013

Syria Today, America Tomorrow

Syria Today, America Tomorrow

Image: MSNBC Media

John McCain took a brief respite from his long campaign to dispossess Americans to hang out with his new friends in Syria. McCain and his fellow travelers have transitioned from confident predictions that the reign of Bashar al-Assad is on its last legs to an angry insistence that America must supply the rebels with arms in over to overthrow him. Senator Rand Paul made the obvious point that America is war weary and the Syrian rebels are far more likely to assist al-Qaeda than the supposedly evil Assad. One suspects that McCain’s insistence on allying with terrorists and cannibals comes from his fanatical hatred of Putin than any supposed support for democracy.

Still, the situation in Syria has an importance that goes beyond the usual neoconservative stupidity and treason. It’s a model for the ethnopolitical future that the short sightedness of politicians like McCain is creating for what was once the United States.

The Syrian Civil War is less a battle for control of the state than an ethnic grudge match. Even years after the beginning of the conflict, a map of government and rebel controlled territory lines up almost exactly with the distribution of ethnic groups within the country. Almost a year ago, Tony Badran of The Weekly Standard pointed out that Assad’s strategy for survival is similar to that of the Crusaders—an interesting comparison considering that the Weekly Standard is apparently taking the side of Saladin. As Hezbollah has now declared its intention to openly back Assad (along with Iran), the conflict between Christians, Shiites, and Alawites against Israeli and American backed Sunnis is explicit.

Bashar al-Assad touched on a profound truth when he declared that unless he was victorious, it would be the end of Syria. Syria, as a meaningful entity, only exists because of Assad’s authoritarianism and Baathist ideology, an Arab nationalism deliberately intended to transcend sectarian differences. Absent this power and at least rhetorical ideological support, Syria will likely revert precisely into the divided regions it existed as during French rule.

The United States of America is backed by a similarly artificial foundation, the powerful civic creed of “Americanism” and the promise of eternal national prosperity. Colin Woodward created a model of the “Eleven Nations of North America,” as a guide to the cultural and economic components of the American Imperium and the similarly artificial Canadian entity. If anything, Woodward’s model underestimates the extent of North American divisions, as it neglects the critical importance of racial conflicts within these “nations,” from Blacks and Whites in Dixie to the tensions between Whites and American Indians in the Far West.

Colin Woodard's Nations of North America

Colin Woodard’s Nations of North America

Like tectonic plates, the fault lines of race, ethnicity, geography, and culture lie beneath the political issues of the day. To paraphrase Lord Palmerston, constituencies don’t have friends, they have interests, and rhetoric is simply an after-the-fact justification for those interests. “American exceptionalism” notwithstanding, if the federal system ever fails to deliver the goods, even for a brief moment, the American future could look a lot like the Syrian present.

mercredi, 05 juin 2013

Paris, Manif, 16 juin!

vendredi, 24 mai 2013

Infoavond met Fernand Keuleneer in Leuven

Infoavond

met Fernand Keuleneer

in Leuven

31 mei 2013



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Vrijdag 31 mei 2013 om 20 uur

Infoavond

Syrië, een typisch 21ste-eeuws conflict?

Beschouwingen over internationaal recht, mensenrechten, republiek en religie

Met als gastspreker:

Fernand KEULENEER

Advocaat aan de balie te Brussel

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201008191849-1_parket-misleidt-bevolking-over-operatie-kelk.

Plaats: Stellazaal Café Tempo

Baron August de Becker Remyplein 52

3010 Kessel-Lo.

Aan de achterkant van het station van Leuven.

Vrije toegang mits twee consumpties per persoon.

Organisatie: Mediawerkgroep Syrië – Email: info@MWSyria.com – Blog: http://MWSyria.com – Facebook: http://www.facebook.com/MWSyria – Twitter: @MWSyria

 

dimanche, 19 mai 2013

Les Russes vent arrière

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Les Russes vent arrière

Ex: http://www.dedefensa.org/

Observons d’abord, puisque c’est aujourd’hui que Netanyahou est allé rendre ses devoirs à Poutine, à Sotchi-Canossa, que nous avons connu d’autres temps où des problèmes de cette importance et de ce domaine (livraisons ou pas de S-300 à la Syrie où se déroule une guerre qui concerne “la communauté internationale”) se réglaient avec les USA, et où un Premier ministre israélien, s’il avait quelque chose à dire à Moscou dans ce domaine, consultait d’abord les USA et s’en remettaient aux USA. Mais, aujourd’hui, les USA, c’est, disons, l’“isolationnisme-cool”. Alors, Netanyahou va directement voir Poutine.

...Lequel Poutine dirige une puissance qui prend de plus en plus de place au Moyen-Orient. Certains jugeraient que la Russie est en train de reprendre sa place au Moyen-Orient, du temps de la Guerre froide. Nous aurions tendance, nous, à aller plus loin que cela ; c’est-à-dire, envisager simplement que les Russes sont en train d’y prendre une place prépondérante, pendant que les USA s’effacent... Nous détaillons quelques faits qui semblent aller dans ce sens, directement en faveur des Russes, ou indirectement.

• La flotte russe s’installe en permanence en Méditerranée, retrouvant la place qu’y occupait le 5ème Escadron naval en Méditerranée, actif de 1967 jusqu’à sa dissolution en 1992. La décision de réinstaller une unité autonome russe en Méditerranée a été prise en avril et l’on a aujourd’hui des détails sur cette flotte permanente, qui aura son propre état-major, et qui disposera éventuellement de sous-marins nucléaires lanceurs d’engins. (Voir Novosti, le 12 mai 2013.)

«Russia’s Mediterranean task force will comprise 5-6 warships and may be enlarged to include nuclear submarines, Navy Commander Adm. Viktor Chirkov said on Sunday. “Overall, already from this year, we plan to have 5-6 warships and support vessels [in the Mediterranean Sea], which will be replaced on a rotating basis from each of the fleets – the Black Sea, Baltic, Northern and, in some cases, even the Pacific Fleet. Depending on the scope of assignments and their complexity, the number of warships in the task force may be increased,” Chirkov told RIA Novosti.

»The Russian navy commander also said nuclear submarines could be deployed in the Mediterranean, if necessary. “Possibly. In a perspective. They [submarines] were present there during the existence of the 5th squadron. There were both nuclear and diesel submarines there. Everything will depend on the situation,” he said.»

• Il est clair que l’affaire des attaques israéliennes contre la Syrie, puis la décision russe de livrer des S-300 à la Syrie ont resserré les liens entre la Russie et la Syrie. La même chose pourrait survenir avec l’Iran, si la vieille affaire opposant la Russie et l'Iran, concernant une commande iranienne de S-300 que la Russie a refusée jusqu’ici d’honorer à la demande du bloc BAO, était résolue dans le même sens (livraison de S-300 à l’Iran). De même, les Russes ont l’intention d’accélérer des livraisons d’armes à l’Irak, après le déblocage (voir le 27 avril 2013) de l’énorme contrat d’armes russes commandées par l’Irak. On retrouve bien entendu une ligne d’alliance Téhéran-Bagdad-Damas qui se fait selon une dynamique qui a notamment les allures d’un soutien matériel russe actif.

• ... Ce à quoi il faut ajouter désormais le Hezbollah. Des nouvelles sont répercutées, commentées et enrichies par Jean Aziz, journaliste libanais au quotidien Al-Akhbar et à la station TV OTV, dans Al-Monitor Lebanon Pulse du 12 mai 2013, à propos des contacts récents entre la Russie et le Hezbollah et les perspectives qui s’ouvrent pour ces deux interlocuteurs, selon une dynamique nouvelle de coopération. On observera, souligné par nous en gras, l’appréciation selon laquelle ces deux interlocuteurs parlent en termes d’équilibre général dans lequel la Russie serait désormais appelée à jouer un rôle prépondérant.

«For the second time in nine days, Hezbollah Secretary-General Hassan Nasrallah appeared in a televised speech, knowing that both appearances fall into the same political context — one that was previously discussed in this column to indicate three reasons behind the timing of the two appearances and speeches.

»The previous article detailed the first reason behind the appearance of Nasrallah, which was to confirm the religious tenets and the ideological justification of Hezbollah’s stance on the Syrian situation. The second reason was directly related to the political developments in Lebanon and its neighboring regions, starting with the visit of Russian Deputy Foreign Minister Mikhail Bogdanov to Beirut on April 26 and 28. The Russian minister’s visit to the Lebanese capital after Tehran and Damascus is not without meaning. Clearly, Russia, Iran, Syria and Hezbollah have been coordinating at some level and have tackled all the regional developments and stances taken in this regard by any of the elements of this new axis... [...]

»Meanwhile, sources in the know on the results of Bogdanov’s visit to the Lebanese capital revealed to Al-Monitor that the conversation clearly tackled the role of Russia in protecting the forces that are close to it in the region, as well as the importance of facing Washington and returning the balance to the global system in its Middle Eastern side at least. Moreover, both officials discussed the prospects of imposing the demarcation of the international spheres of influence in this region. In a clear and straightforward conversation, they brought up the different as well as matching ideological, economic, geostrategic and security-related interests of Moscow and local forces in achieving these goals.»

• Le dernier point concerne ce qui pourrait constituer un rapprochement entre l’Arabie Saoudite et l’Iran, manœuvre qui ne déplairait pas à la Russie, qui a de bons liens avec l’Iran et des liens qui ne sont pas si mauvais avec l’Arabie. La nouvelle est présentée par DEBKAFiles (le 13 mai 2013), qui suit désormais avec une hargne particulière l’enchaînement des épisodes marquant la dégradation de la position US au Moyen-Orient.

«Saudi Arabia has decided to explore dialogue with its great regional rival Iran for ending the Syrian conflict and assuring Lebanon’s political future, DEBKAfile’s Gulf sources report. They have given up on US policy for Syria in view of Russian and Iranian unbending support for Bashar Assad; his battlefield gains aided by Hizballah and Iranian Bassij forces; and Turkey’s inaction after Saturday’s terrorist bombings in the town of Reyhanli near the Syrian border which caused 46 deaths. Saudi Foreign Minister Saud al-Faisal took advantage of the Organization of Islamic Conference-OIC, in Jeddah this week on the Mali conflict for getting together Monday, May 13, with Iranian Foreign Minister Ali Akbar Salehi who was in attendance.

»Our sources report that Riyadh’s first priority is to stabilize Lebanon through a Saudi-Iranian entente on political equilibrium in Beirut. The Saudis would next seek an accord with Tehran on the outcome of the Syrian civil conflict.

»The Saudi rulers have come to the conclusion, which the West and Israel have been slow to acknowledge, that since the Iranian-Hizballah-Syrian military alliance is pulling ahead in the Syrian conflict and chalking up victories, they had better look to their interests in Lebanon, which hinge heavily on the Sunni clan headed by Saad Hariri. If they wait till a victorious Hizballah comes marching home and grabs power in Beirut, protecting Lebanon’s Sunni community will be that much harder...»

Le même texte fait état du faible crédit accordé par les Saoudiens au projet de conférence organisée par les USA et la Russie conjointement, notamment à la lumière du peu d’enthousiasme que montrerait Obama pour la chose, – souligné, ce peu d’enthousiasme, par la remarque d’Obama lors de sa conférence de presse du 13 mai avec Cameron, concernant la “suspicion persistante héritée de la Guerre froide, entre la Russie et les USA” («“lingering suspicions between Russia and the US” left over from the Cold War»). Cette remarque est très singulière, dans la mesure où cette suspicion n’est nullement en état de persistance, mais plus évidemment une ré-invention des USA, à coup de lobbies, d’“agression douce”, d’accusations humanitaristes, etc., contre la Russie, alors que la Russie a au contraire depuis longtemps écarté cette sorte de suspicion dont parle Obama. La phrase d’Obama, qui pourrait étonner certains venant d’Obama, évoque plutôt une paranoïa persistante du côté US, cette paranoïa si naturelle qu’elle n’a nul besoin du souvenir de la Guerre froide pour se faire sentir, et qui s’alimente plutôt à une complexité psychologique dont les USA n’ont besoin de personne pour l’entretenir dans leur propre chef... Dans tous les cas, cette phrase et ce qu’elle évoque éclairent d’une lumière moins amicale l’“isolationnisme-cool” dont nous parle Stephen M. Walt, la lumière du désenchantement découragé devant ce qui est effectivement, bien plus qu’un repli tactique des USA, une position de plus en plus forcée devant son propre déclin et l’effondrement de sa propre puissance.

Dans ce cas, il est alors remarquable de voir, devant la perspective du possible échec de la tentative Russie-USA de cette conférence sur la Syrie, un pays comme l’Arabie envisager de se tourner vers l’Iran et, au-delà et par simple enchaînement, en partie vers la Russie, pour trouver une issue de stabilisation à un désordre qui échappe de plus en plus à tout contrôle des acteurs extérieurs. Si elle s’affirmait, cette dynamique ne laisserait ni la Jordanie, ni l’Égypte insensibles, certes... Dans cette interprétation, on note également une considération bien peu amène pour la Turquie dont les manœuvres effrénées de déstabilisation depuis près de deux ans conduisent à l’impasse du désordre sur son propre territoire, chose également reprochée par Obama à Erdogan. (Les USA sont notamment inquiets des grandioses projets turcs de rassemblement d’un Kurdistan, avec ses parties syrienne et irakienne, à cause des menaces que ce projet fait peser non seulement sur l’Irak, mais sur la Turquie elle-même. Mais Erdogan oppose à ces craintes une assurance sans faille de lui-même et de sa politique.)

Le constat est donc que, devant l’évolution de la situation en Syrie, le camp constitué par le bloc BAO commence à céder à des tendances de délitement dans tous les sens tandis que la Russie évolue d’une position centrale d’une possible médiation qui s’avère de moins en moins possible, vers une position d’organisatrice d’un nouveau rassemblement au Moyen-Orient à partir de ses liens avec l’Iran, la Syrie, puis avec l’Irak, le Hezbollah et, éventuellement, d’autres acteurs qui deviendraient des transfuges du camp BAO. Tout se passe comme si le désordre commençait à épuiser ceux qui ont contribué à le créer, avec un éparpillement de ce rassemblement hétéroclite, dont la Russie sortirait nécessairement comme acteur extérieur central au Moyen-Orient. Cela serait une rétribution logique, et juste si l’on veut, du rôle qu’elle a tenu jusqu’ici.

Il ne s’agit pour l’instant de rien d’autre que d’une perspective, et le désordre lui-même est loin d’avoir dit son dernier mot, et sans doute aura-t-il toujours son mot à dire dans le contexte de la séquence actuelle. Mais la tendance générale se dessine de plus en plus clairement, et elle s’affirme à partir du caractère d’insupportabilité du processus d’autodestruction du Système, qui bouscule ou emporte tous ceux qui ont misé dessus (sur le Système), avec certains cherchant d’ores et déjà à sortir leur épingle du jeu. Quoi qu’il en soit, il existe aujourd’hui la possibilité d’un intéressant renversement de situation qui donnerait au “printemps arabe“ une alluré inattendue ; cette possibilité, si elle est nécessairement caractérisée par le désordre évident au Moyen-Orient, le serait surtout, dans ce cas, par la hiérarchie des influences extérieures, avec la Russie revenant en force dans cette région et n’étant pas loin d’être en position de supplanter des USA de plus en plus amers, impuissants de leur incompréhension de la situation, bien plus fatigués que cool finalement. Dans ce cadre, il est possible que l’Israélien Netanyahou parle à Poutine de bien autre chose que de S-300, les Israéliens pouvant estimer eux aussi que leur choix exclusif du “parrain” américaniste devient discutable.

Effectivement, à côté de ces événements qui on leurs significations diverses et parfois surprenantes, on distingue l’apparition d’un phénomène d’épuisement psychologique, se traduisant par une dérive des politiques vers des orientations complètement imprévues. Cet épuisement psychologique est un facteur central de la crise d’effondrement du Système, comme nous ne cessons de le souligner, jusqu’à ses racines historiques fondamentales. Ce n’est qu’un paradoxe apparent si cet épuisement frappe les acteurs périphériques de la crise syrienne, plus que les acteurs directs, parce que ces acteurs périphériques sont directement connectés à la crise d’effondrement du Système. La position de force de la Russie, elle, tient évidemment à sa politique principielle, effectivement appuyée sur le respect et la défense des principes structurants, seul moyen d’échapper à cet épuisement causé par les forces déstructurantes et dissolvantes du Système.