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samedi, 17 janvier 2015

Hispanoamérica en el conflicto geopolítico actual

Conferencia en Barcelona: “Hispanoamérica en el conflicto geopolítico actual”

 

U202559

Presentación de la revista Nihil Obstat por José Alsina (director) y conferencia del filósofo Alberto Buela sobre el papel de Hispanoamérica en la geopolítica mundial.

Hotel Atenea, Barcelona, España.
C/ Joan Güell, 207-211, 08028 Barcelona

Martes, 20 de enero a las 19,00h.

Il Nuovo Grande Gioco

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Il Nuovo Grande Gioco n°82

Christoph Germann

Ex: http://aurorasito.wordpress.com

English version here:

http://christophgermann.blogspot.com

Dalla fine del 2013, la Turchia è travolta dall’implacabile lotta di potere tra Recep Tayyip Erdogan, che ha lasciato la carica di primo ministro turco lo scorso anno per diventare il 12° presidente del Paese, e l’influente movimento appoggiato dalla CIA dell’auto-descritto “imam, predicatore e attivista della società civile” Fethullah Guelen, che vive negli Stati Uniti da quando fu costretto a fuggire in Turchia nel 1999. Il conflitto tra gli ex-alleati ha ormai raggiunto un punto in cui il presidente Erdogan si prepara ad aggiungere il movimento di Guelen nel ‘libro nero’ della Turchia, dato che l’organizzazione sarà classificata minaccia alla sicurezza nazionale della Turchia. Anche se la lotta per il potere in gran parte ha luogo in Turchia, altri Paesi, come l’Azerbaigian, ne sono colpiti ed Erdogan non è l’unico che cerca di contenere le attività dell’oscuro movimento. I regimi in Asia Centrale sono sempre più sospettosi verso le scuole di Guelen e con buona ragione. Dopo Russia e Uzbekistan, che avevano già chiuso le scuole oltre un decennio fa, il Turkmenistan ha seguito l’esempio, negli ultimi anni, e le scuole di Guelen in Tagikistan sono ora sotto esame, come il quotidiano filo-Erdogan Sabah ha trionfalmente annunciato questa settimana:


Il Tajikistan chiude le scuole di Guelen, definendole ‘missione ombra’


Sajdov Nuriddin Sajdovich, ministro dell’educazione e della scienza del Tagikistan, ha annunciato che non estenderà l’accordo con il Movimento Guelen sul permesso di aprire scuole nel Paese, in quanto considera la missione delle scuole del gruppo come “oscura”. Secondo la stampa locale, un funzionario del ministero, Rohimjon Sajdov, ha anche detto che sarà dissolto l’accordo tra il movimento Guelen e il governo tagiko sulle sue scuole nella regione. Sajdov ha aggiunto che l’accordo con gli istituti d’istruzione in questione scade nel 2015 e che il Paese non lo prorogherà. Attualmente vi sono 10 scuole in Tagikistan gestite dal movimento. La prima scuola del gruppo fu aperte nel 1992. Negli ultimi dieci anni, le finalità delle scuole sono al centro di un acceso dibattito nel governo turco. Vi sono state numerose richieste di chiusura da parte di Ankara”.

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Il Tagikistan controlla le scuole di Guelen, preparandosi al caos afgano


È interessante notare che, secondo i media tagiki, Sajdov non ha menzionato la parola “ombra”. Invece ha detto che il governo tagiko sta per rivedere le licenze per le scuole Guelen perché la loro missione è “poco chiara”. Il quotidiano Sabah è noto caricare il caso quando si tratta del movimento Guelen, ma dato che le scuole di Guelen svolgono un ruolo decisivo nell’islamizzazione di Asia centrale e Caucaso e furono utilizzate per varie operazioni segrete della CIA, le autorità tagike dovrebbero considerare la missione delle scuole come “oscura”. Dushanbe ha a lungo lamentato che i giovani tagiki, che studiano illegalmente nelle scuole religiose islamiche all’estero, “possono facilmente radicalizzarsi ed essere reclutati nei gruppi estremisti o militanti”, mentre si fa poco per fermare indottrinamento e reclutamento dei terroristi interi. Tuttavia, le ultime azioni indicano che ciò potrebbe cambiare nel prossimo futuro:


Un presunto capo islamista e suoi subordinati detenuti in Tagikistan


Il presunto capo di una cellula del Movimento islamico dell’Uzbekistan (IMU) e 10 presunti collaboratori sono stati arrestati in Tagikistan. Il ministero dell’Interno tagiko ha detto in una dichiarazione televisiva, il 7 gennaio, che Ikrom Halilov, ex-imam di una moschea locale e altri erano stati arrestati nel distretto di Shakhrinav, a 50 chilometri ad ovest della capitale Dushanbe. Secondo il ministero, il gruppo è sospettato di pianificare l’attacco a una stazione di polizia, al fine di rubarne le armi”.


Negli ultimi mesi, il Movimento islamico dell’Uzbekistan (IMU) fa notizia nel nord dell’Afghanistan, dove i combattenti dell’Asia centrale appartenenti al gruppo IMU o a schegge, come Jamat Ansarullah, e le alleate forze taliban si ammassano ai confini di Tagikistan e Turkmenistan. Alla fine dello scorso anno, Zamir Kabulov, rappresentante speciale del presidente russo Vladimir Putin per l’Afghanistan, ha rilasciato una lunga intervista ad Interfax avvertendo della minaccia all’Asia centrale e alla Russia, ma stranamente ha detto che i jihadisti nel nord dell’Afghanistan provengono dallo Stato islamico (SIIL). Kabulov ha descritto in dettaglio come molti combattenti si concentrino sulle teste di ponte in Tagikistan e Turkmenistan e sottolineato che “i nostri alleati Tagikistan e Uzbekistan lo sanno, confermando le stesse informazioni e prendendo misure“. Perché per Kabulov gli insorti siano combattenti del SIIL non è chiaro. Alcuni jihadisti tagiki del SIIL hanno recentemente proclamato l’intenzione di “combattere gli infedeli” in Tagikistan, ma non hanno ancora ottenuto il permesso:


I militanti del SIIL chiedono a Baghdadi il permesso di combattere gli ‘infedeli’ in Tagikistan


I militanti dello Stato Islamico (IS) in Iraq hanno pubblicato un video dicendo di aver chiesto il permesso al gruppo dirigente per la jihad in Tagikistan, ha riferito RFE/RL tagiko. Abu Umarijon dice che lui e i suoi camerati tagiki hanno chiesto a Baghadi, capo dello Stato islamico, il permesso di tornare in Tagikistan e combattere con il gruppo estremista Jamat Ansarullah. Tuttavia, Baghdadi non gliel’ha concesso. “Agli emiri (capi) militanti che hanno trasmesso il messaggio ad Baghdadi è stato detto che in questo momento devono attendere”, spiega il militante tagiko”.


Il video ha causato scalpore in Tagikistan e il Centro Islamico del Tagikistan ha condannato i jihadisti chiedendo come sia possibile “la jihad in uno Stato la cui popolazione è al 99 per cento musulmana“. Ma anche senza il ritorno dei combattenti tagiki del SIIL, le autorità tagike hanno tutte le ragioni di preoccuparsi della situazione nel nord dell’Afghanistan. I sequestri sul confine tagiko-afgano evidenziano recentemente la gravità della minaccia. Questa settimana, i funzionari tagiki hanno reso pubblica l’identità delle quattro guardie di frontiera tagiki rapite il mese scorso, e hanno respinto le affermazioni secondo cui i taliban avevano fatto richieste per il loro rilascio. A causa del deterioramento della situazione della sicurezza, i servizi speciali del Tagikistan avrebbero preso “una serie di misure per rafforzare i tratti più vulnerabili” del confine tagiko-afghano e ora sorvegliano molto da vicino le attività degli insorti nel nord dell’Afghanistan. Oltre a questo, il Tagikistan ha anche creato una nuova base militare vicino al confine:


Per sorvegliare i taliban, il Tagikistan crea una nuova base militare al confine afghano


Le forze armate del Tagikistan creano una nuova base vicino al confine con l’Afghanistan in risposta all’apparente aumento dei combattenti sul lato afghano del confine. La base, chiamata “Khomijon”, sarà nella regione di Kuljab. “Carri armati, veicoli corazzati e altri armamenti” saranno impiegati nella base che “unità di tutte le strutture di sicurezza del Paese utilizzeranno per le manovre operative”, ha riferito RFE/RL citando una fonte del Ministero della Difesa del Tagikistan. Mentre non vi è alcuna “minaccia immediata” del concentramento di combattenti taliban al confine con il Tagikistan, Dushanbe ha scelto di adottare “misure preventive”, ha detto il funzionario. Una fonte anonima nel Comitato di Stato sulla Sicurezza Nazionale (GKNB) del Tagikistan ha detto all’agenzia russa TASS che “gruppi non controllati da Kabul” si sono ammassati sul lato afgano del confine”.

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I taliban smentiscono le affermazioni del governo, mentre Ghani chiede agli USA di rimanere per sempre


Lo stesso giorno, un anonimo funzionario del servizio di sicurezza nazionale dell’Uzbekistan con linguaggio simile avvertiva dell'”aumento della presenza di formazioni armate non controllate dal governo dell’Afghanistan“. L’Uzbekistan prende alcune misure per affrontare il problema, ma le autorità uzbeke non costruiscono nuove basi militari, perché sono meglio preparate ad affrontare la minaccia dei vicini Tagikistan o Turkmenistan. Dopo che i taliban si sono avvicinati al Turkmenistan un mese fa, riprendendosi Khamjab nel distretto afgano di Jowzjan, il governo afgano ora cerca di calmare i nervi di Ashgabat. Il capo della polizia di Jowzjan, generale Fakir Muhammad Jaujani ha annunciato, la scorsa settimana, che le forze armate afgane preparano operazioni su vasta scala nelle province di Jowzjan e Faryab, dove gli insorti hanno ripetutamente provocato problemi negli ultimi mesi. Anche se l’International Security Assistance Force (ISAF) della NATO ha concluso la guerra in Afghanistan solo di nome, il presidente afgano Ashraf Ghani non ha perso tempo nel rimpiangere le truppe della coalizione:


Il presidente afgano dice agli USA di ‘riesaminare’ la data del ritiro


Il presidente afghano Ashraf Ghani ha detto in un’intervista che gli Stati Uniti dovrebbero “rivedere” il calendario della ritirata delle restanti truppe della coalizione nel Paese entro la fine del 2016. Le “scadenze sono dettate dalla mente ma non dovrebbero essere dei dogmi”, ha detto Ghani al programma della CBS “60 Minutes” sulla questione. Alla domanda cosa avesse detto al presidente USA Barack Obama, Ghani ha detto: “Il presidente Obama mi conosce, non abbiamo bisogno di spiegarci”.
Dato che Ghani è l’uomo di Washington, le sue parole sono una vera sorpresa e questa intervista probabilmente gli guadagnerà altri tributi sulla stampa statunitense. Ma mentre i funzionari e i media degli Stati Uniti non perdono occasione per elogiare il nuovo leader dell’Afghanistan, il popolo afgano è meno impressionato dalle prestazioni di Ghani, finora. Secondo l’ultimo sondaggio del notiziario afgano TOLOnews e dell’istituto di ricerca ART, Ghani ha perso popolarità tra la popolazione afgana, quasi il 50 per cento, dal suo insediamento a fine settembre. Uno dei motivi probabili è che Ghani non ha formato un governo con il direttore generale del suo governo di unità nazionale, Abdullah Abdullah. Anche se i due uomini hanno raggiunto un accordo per la condivisione del potere a settembre, c’è lo stallo sulle cariche governative. Ghani ha anche sperato di portare tre capi taliban nel suo governo, ma il gruppo ha respinto l’offerta:


I taliban rifiutano l’offerta di posti nel governo afghano


Ai taliban sono stati offerti posti nel nuovo governo afghano, ma hanno rifiutato, afferma la BBC. L’offerta proviene dal nuovo presidente Ashraf Ghani, nel tentativo di porre fine alla ribellione che minaccia il Paese. I tre uomini che il presidente Ghani aveva sperato di attirare nel suo governo erano Mullah Zaif, ex-ambasciatore talib in Pakistan, che ha vissuto relativamente apertamente a Kabul per alcuni anni, Wakil Muttawakil, ex-ministro degli Esteri talib, e Ghairat Bahir, un parente di Gulbuddin Hekmatyar, le cui forze sono alleate ai taliban”.


Se Ghani non riesce a raggiungere un accordo con i taliban, la situazione in Afghanistan può solo peggiorare e il presidente afghano avrà difficoltà a restare al potere. Così l’appello di Ghani agli Stati Uniti di “riesaminare” la scadenza del ritiro ha perfettamente senso. Tuttavia, come già detto, le preoccupazioni di Ghani sul cosiddetto ritiro della NATO sono completamente infondate. L’esercito statunitense ha risposto all’intervista di “60 minutes” dicendo che gli Stati Uniti “prevedono di restare in forze e non ci sono stati cambiamenti sul ritiro”, ma anche se gli Stati Uniti proseguono con il piano per avere una “normale” ambasciata a Kabul alla fine del 2016, ciò significa tenere migliaia di contractor nel Paese devastato dalla guerra. Tuttavia, al momento non sembra come gli Stati Uniti prendano sul serio il piano della ritirata:


A Camp Lejeune i marines si preparano a schierarsi in Afghanistan


Pochi mesi dopo la presunta fine delle operazioni di combattimento del Corpo in Afghanistan, ufficiali rivelano che i marines sono diretti di nuovo nel Paese dilaniato dalla guerra, ma i dettagli dell’operazione sono pochi. La notizia arriva con un comunicato stampa del Corpo dei Marines che delinea i preparativi compiuti dalla 2.nda Compagnia di collegamento d’artiglieria aero-navale di Camp Lejeune, North Carolina. La compagnia ha testato ls disponibilità della squadra di collegamento inter-arma Alpha a uno schieramento imminente in Afghanistan per la soluzione di vari scenari “reali” tra l’8 e l’11 dicembre, secondo il comunicato. Oltre al comunicato stampa, ufficiali del Corpo dei Marines si sono rifiutati di discutere dell’imminente schieramento del 2° ANGLICO. Citando la sicurezza operativa, un portavoce della Marine Expeditionary Force ha rifiutato di specificare quando, e per quanto, verrà schierata l’unità, dove opererà in Afghanistan e se altre unità dei marines l’accompagneranno”.

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La lotta agli agenti del ‘regime change’ di Washington nel Caucaso meridionale


Oltre alle truppe statunitensi, l’operazione Resolute Support, la missione di prosieguo dell’ISAF, conta su numerose truppe di altri Paesi della NATO e alleati, come Georgia e Azerbaigian. Un gruppo di soldati azeri è appena partito per l’Afghanistan a sostegno della missione della NATO, nonostante le tensioni tra il regime del leader dell’Azerbaigian Ilham Aliev e l’occidente. Negli ultimi mesi, l’Azerbaigian ha ripetutamente fatto notizia per la repressione di ONG, attivisti per i diritti umani e giornalisti, molti supportati da Stati Uniti e Unione europea. Dopo che le autorità azere avevano già arrestato Khadija Ismailova, giornalista investigativa che collabora per il servizio azero del portavoce della CIA, Radio Free Europe/Radio Liberty (RFE/RL), all’inizio del mese scorso, le relazioni tra Baku e Washington peggioravano quando il regime di Aliev ha chiuso l’ufficio di RFE/RL di Baku, un paio di settimane dopo:


USA ‘allarmati’ dall’Azerbaijan che chiude gli uffici a Baku di RFE/RL


Il dipartimento di Stato degli Stati Uniti è preoccupato per la situazione dei diritti umani in Azerbaigian, aggravatosi dopo che le autorità hanno fatto irruzione e chiuso l’ufficio di RFE/RL a Baku ed interrogato dipendenti e collaboratori. Il portavoce del dipartimento di Stato Jeff Rathke ha riferito alla conferenza del 29 dicembre a Washington: “Queste azioni, insieme alla negazione dell’assistenza legale in tali interrogatori, sono ulteriore motivo di preoccupazione. Gli uffici azeri di RFE/RL, conosciuta come Radio Azadliq, sono stati perquisiti il 26 dicembre dagli investigatori del pubblico ministero confiscando documenti, file e attrezzature, prima di sigillare i locali”.


Com’era prevedibile, la guerra verbale tra Stati Uniti e Azerbaigian s’è intensificata dopo il giro di vite su RFE/RL. L’ex-presidente di RFE/RL Jeffrey Gedmin ha condannato l’azione di Aliev contro “una delle poche agenzie di stampa indipendenti rimaste in Azerbaigian” nei termini più forti possibili e ha avvertito l’amministrazione Obama che la visione di Washington di un’Europa “libera e unita” è a rischio. “Tutta l’Europa libera” è un codice spesso usato ma raramente spiegato, perché in pratica significa il consolidamento di un’Europa unita controllata da Bruxelles per conto degli Stati Uniti. L’Azerbaigian supportava la visione di Washington, ma al momento cruciale il regime Aliev è più interessato alla sua sopravvivenza che a un'”Europa unita e libera”. Anche se le tensioni sono forti al momento, resta da vedere se l’Azerbaigian davvero “snobberà l’occidente”, come alcuni suggeriscono:


L’Azerbaijan snobba l’occidente


Questi eventi sono stati segnalati all’estero soprattutto come ulteriore restrizione del già piccolo spazio in Azerbaigian per le opinioni alternative. Ed è così, suggerendo anche un drastico cambio geopolitico nell’instabile regione del Mar Caspio: crescente ostilità del governo azero verso Washington, con l’attacco a RFE/RL dopo mesi di retorica estrema anti-occidentale. Alti funzionari governativi azeri hanno accusato l’ambasciatore degli Stati Uniti a Baku di “gravi interferenze” e l’ex-ministro degli Esteri della Svezia Carl Bildt di essere una spia statunitense. Ai primi di dicembre, il capo dello staff presidenziale, Ramiz Mehdiev, ha pubblicato un articolo di 13000 parole sostenendo che la CIA escogita cambi di regime nello spazio post-sovietico (le cosiddette rivoluzioni colorate) definendo gli attivisti per i diritti umani in Azerbaigian “quinta colonna” degli Stati Uniti”.


Vale la pena sottolineare che la stampa israeliana suona l’allarme sul presunto cambio della politica estera dell’Azerbaigian, ma l’ambasciatore d’Israele a Baku Rafael Harpaz ha affrontato tali articoli dopo pochi giorni placando i timori e sottolineando che nulla cambia nei rapporti azerbaigiano-israeliani. Pertanto, i rapporti allarmistici nei media occidentali sul cambio geopolitico di Baku devono essere presi con cautela. Gli Stati Uniti non accetteranno di perdere l’Azerbaigian, considerando che la vicina Armenia è ufficialmente membro dell’Unione economica eurasiatica (UEE) cementando i legami con Mosca. Dopo i falliti tentativi d’impedire l’adesione dell’Armenia al blocco commerciale guidato dalla Russia, Washington apparentemente non è più interessata a “far progredire valori, pratiche e istituzioni democratici” in Armenia e decidendo di chiudere l’ufficio locale del National Democratic Institute (NDI), per “problemi finanziari”, ovviamente una scusa:


NDI sospende le attività in Armenia


L’ufficio armeno del National Democratic Institute (NDI) degli Stati Uniti, che opera in Armenia dal 1995, sospende le operazioni per problemi finanziari, ha detto Gegam Sargsjan, capo dell’ufficio, il 7 gennaio. Il NDI non riceve finanziamenti dal suo sponsor principale, l’USAID (Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale), quindi da marzo 2015 l’ufficio blocca le attività “per un tempo indefinito, fino a quando i fondi saranno disponibili” ha detto Sargsjan. “L’USAID sospese il finanziamento del NDI un anno fa e poi ricevemmo fondi dal National Endowment for Democracy degli USA” ha detto Gegam Sargsjan aggiungendo che oggi USAID preferisce sostenere organizzazioni locali piuttosto che internazionali, mentre “per la NDI non sono una priorità attuale“.

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Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora

Les dangereux paradoxes du deux-poids-deux-mesures

LIBERTÉ D’EXPRESSION: DU DISCOURS AUX RÉALITÉS
 
Les dangereux paradoxes du deux-poids-deux-mesures
 
Jean Ansar
Ex: http://metamag.fr
 
mouton.jpegLa mobilisation «  je suis Charlie » en faveur de la liberté d’expression pose certains problèmes à l’esprit critique. En effet si certaines opinions sont considérées, au pays où l’on se vante de pouvoir tout dire et tout dessiner, comme des délits, voire des crimes, il y a  là un deux-poids-deux-mesures dont les obscurantistes du djihadisme se servent.

La nouvelle affaire Dieudonné en est une illustration. On se sert de l'émotion "Charlie" dans le durcissement de tout ce qui peut être considéré comme alimentant l’anti-sémitisme. Dieudonné est une cible facile mais il sera compliqué d'assimiler son tweet à une apologie du terrorisme.

On revient avec force sur l’interdiction de la contestation des camps d’extermination de la deuxième guerre mondiale. Mais ce négationnisme est un  discours marginal car interdit, sauf dans certains quartiers et chez certains jeunes qui considèrent ce thème comme un moyen de domination de la communauté juive et donc indirectement du sionisme. Il y a un vrai problème qui ne le voit pas.

De la même manière, ils se demandent pourquoi donc ne pas interdire les caricatures du prophète puisque certaines choses peuvent ne pas être tolérées. Pourquoi une mémoire sacrée au dessus du blasphème. S’il y a une limitation à la liberté d’expression,  il peut y en avoir d’autres.

Dans le contexte actuel pourquoi avoir mis à la une le prophète et pas un djihadiste fou…. On peut critiquer l’islamisme radical sans passer par la case prophète. Mais c’est bien sûr de l’auto censure.

Le cas Dieudonné mérite une fois de plus réflexion

"Je me sens Charlie Coulibaly", "Bal tragique à Colombey"... Certains usages de la liberté d'expression choquent. Si pour Me Emmanuel Pierrat, avocat au Barreau de Paris, la «liberté d'expression est un principe quasi absolu», il peut y avoir des «abus». Et ces abus sont déterminés par la loi.
 
C'est le cas pour Dieudonné, qui a récemment mêlé "Charlie" au nom de l'auteur de la prise d'otages Porte de Vincennes vendredi dernier. Il est poursuivi pour "apologie du terrorisme", selon la Loi anti-terroriste voulue par le ministre de l'Intérieur Bernard Cazeneuve. C'est jusqu'à cinq à sept ans de prison si ces propos sont tenus sur Internet. Pour l’avocat de l'humoriste, c’est inapproprié et disproportionné.

Le droit français fixe en fait deux grandes "familles" d'abus : il y a la diffamation ou l'injure, et puis il y a les paroles ou écrits qui appellent à la haine. Parmi eux : l'apologie de crimes contre l'humanité, de crimes de guerre, les propos racistes et antisémites ou les propos homophobes.

A charge pour les juges de «faire le tri entre le bon grain et l'ivraie. De savoir si, oui ou non, celui qui se présentait comme humoriste hier n'a pas tenu des propos qui relèvent de l'abus et non plus du droit à l'humour», explique Me Emmanuel Pierrat. Ce que l’on traque donc reconnaït-il : c’est l intention…. Pas de haine chez Charlie ; de la haine chez Dieudonné- il s’agit donc d’une approche subjective ou l'on sonde les cœurs… c’est bien sûr la porte ouverte sur la politisation de la justice. Dieudonné diabolisé est  par ailleurs l'arbre qui cache la forêt.

La "une" du numéro tiré à 5 millions d’exemplaires, le premier depuis l'attaque islamiste qui a fait douze morts, montre le prophète Mahomet la larme à l'œil, avec une pancarte "Je suis Charlie", sous le titre "Tout est pardonné". Assez ambigu. De tels dessins "alimentent les sentiments de haine et de ressentiment dans le peuple" et marquent un "mépris" des convictions des musulmans, a estimé le grand mufti de Jérusalem, Mohammed Hussein, dans un communiqué.

Sous le titre "Nous sommes tous Mahomet", le quotidien indépendant algérien en langue arabe Echorouk affiche en "une" le dessin d'un homme avec une pancarte "Je suis Charlie", à côté d'un char de combat qui écrase d'autres pancartes portant les noms de "Palestine", "Mali", "Gaza", "Irak" et "Syrie".

En Turquie, le journal de l'opposition laïque, Cumhuriyet, publie sur quatre pages des extraits du dernier numéro de Charlie Hebdo. Dans l'un de ses éditoriaux, il place une petite vignette en noir et blanc reprenant la "une" de l'hebdomadaire français. Il est le seul à l’avoir fait dans le monde musulman.

La police turque a bouclé les rues voisines du siège du journal à Istanbul par mesure de sécurité. Près du bureau de Cumhuriyet à Ankara, des manifestants ont déployé des banderoles: "la provocation de Charlie continue".

libexpr108235367.jpgEn Egypte, la mosquée et l'université Al Azhar, qui fait autorité pour l'enseignement de l'islam, a demandé aux musulmans d'ignorer les nouveaux dessins de Charlie Hebdo, "une odieuse futilité".
Pour de nombreuses personnes interrogées au Proche-Orient, il est temps de tourner la page.
«Ces dessins ne veulent rien dire, ils ne devraient pas nous toucher. Nous, musulmans, nous sommes plus forts qu'un dessin... On ne devrait pas y prêter attention mais si on veut réagir, il faut réagir mot contre mot, dessin contre dessin», déclare Samir Mahmoud, un ingénieur à la retraité rencontré au Caire.

Emad Awad, un chrétien qui vit dans la capitale égyptienne, dit comprendre la colère de certains de ses voisins musulmans et espère qu'il n'y aura pas de nouvelles violences. Charlie Hebdo, a-t-il regretté, "a perdu une occasion d'aller de l'avant".

Mardi, le grand mufti d'Egypte, Chaouki Allam, avait dénoncé de la part de l'hebdomadaire français «une provocation injustifiée à l'encontre des sentiments des musulmans du monde entier».

Le Saoudien Iyad Ameen Madani, secrétaire général de l'Organisation de la coopération islamique (OCI), voit dans les nouveaux dessins de Charlie Hebdo "insolence, ignorance et bêtise". «La liberté d'expression ne doit pas justifier un discours de haine qui insulte les croyances de l'autre. Aucune personne sensée, quelles que soient ses convictions, sa religion ou sa foi, n'accepte qu'on ridiculise ses croyances», a-t-il dit lors d'une visite en Irak. 

Le monde n’est pas Charlie surtout le monde musulman… la liberté doit cheminer avec la responsabilité et l’équité. Limiter la liberté d'expressions d’un coté et prétendre la défendre de tous les autres, ce n’est certes pas une position facile et certainement pas une position sans danger pour les Français qu’on prétend protéger en priorité absolue.

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Le Qatar: "Club Med des terroristes" ou "valet des Américains"?

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Le Qatar: "Club Med des terroristes" ou "valet des Américains"?

INTERVIEW

Le Qatar finance-t-il les djihadistes? Après les attentats de Paris, la question revient fréquemment. Fabrice Balanche, spécialiste du Moyen-Orient, y répond.

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"Le Club Med des terroristes". Cette périphrase, employée par le journal Courrier International pour désigner le Qatar, en dit long sur les doutes qui pèsent sur ce pays au sujet du financement du terrorisme.

Ce sentiment de défiance envers Doha s'est d'ailleurs accentué depuis la divulgation de rapports du département d'Etat américain, qui s'interroge sur le financement de l'Etat islamique (EI) et d'Al-Qaïda par des fortunes du Qatar. Et les récents attentats qui ont frappé de plein fouet Charlie Hebdo et plus généralement la France, ne font qu'enflammer le débat. Le Qatar serait-il le bailleur de fonds des organisations djihadistes ? 

Dans le même temps, le Qatar est en plein essor économique et plusieurs partenaires commerciaux (les Etats-Unis et la France au premier chef) cherchent à profiter de ce marché florissant. Alors qu'Airbus a d'ores et déjà réalisé sa première livraison de l'A350 à la compagnie aérienne Qatar Airways, la France cherche à vendre son Rafale et se veut la plus attractive possible afin d'attirer les investissements qataris, au risque d'enfreindre la loi à travers l'octroi aux Qataris d'avantages fiscaux trop juteux

Les puissances occidentales fermeraient-elles les yeux sur certains agissements du Qatar, afin de ne pas se mettre à dos un partenaire économique primordial ?

Fabrice Balanche, maître de conférences à l’Université Lyon 2 et directeur du Groupe de Recherches et d’Etudes sur la Méditerranée et le Moyen-Orient  à la Maison de l’Orient, revient sur la question des financements et analyse la situation géopolitique du Qatar au Moyen-Orient.

1) Selon vous, le Qatar finance-t-il l'Etat Islamique ?

Avant toute chose, il faut remettre la question du financement de ces organisations terroristes dans un contexte de rivalité entre l'Arabie Saoudite et le Qatar. En effet, depuis longtemps, l'Arabie Saoudite veut mettre le Qatar et le Koweït sous sa domination. Mais le Qatar ne se laisse pas faire. La compétition entre les deux chaînes télévisées Al-Jazeera (qatarienne) et Al-Arabiya (saoudienne) symbolise cette confrontation âpre entre les deux pays du Golfe.

Au-delà de la sphère médiatique, le Qatar prend très fréquemment le contre-pied de la politique saoudienne. Alors que l'Arabie Saoudite se méfie des Frères musulmans, le Qatar se montre très accueillant à leur égard. Et depuis que l'Arabie Saoudite soutient les groupes salafistes de l'opposition syrienne, le Qatar cherche à faire de même pour limiter l'influence saoudienne dans la région. On a affaire à une véritable lutte d'influence entre le Qatar et l'Arabie Saoudite pour dominer l'opposition syrienne.

Ainsi, le Qatar a financé le Front Al-Nosra (ou Nosra) jusqu'à la scission intervenue en avril 2013. L'organisation, rattachée à Al-Qaïda, est pourtant inscrite sur la liste terroriste des Etats-Unis depuis le 20 novembre 2012 et la déclaration d'Hillary Clinton.

Après la scission en avril 2013 – autrement dit la séparation entre Nosra dirigé par le syrien Al-Joulani et l'Etat islamique (EI) conduit par l'irakien al-Baghdadi – le Qatar a choisi de soutenir l'EI contrairement à l'Arabie Saoudite qui continue de financer Nosra.

Néanmoins, la réalité est bien plus complexe encore. Si l'EI est une organisation soudée et structurée, les groupes de Nosra, bien qu'ils prêtent tous allégeance, semblent bien plus autonomes. Ainsi, le Qatar peut être également amené à financer un groupe de combattants se revendiquant de Nosra pour un intérêt particulier. De même, il existe différents clans en Arabie Saoudite, qui est loin d'être un royaume monolithique. Ces familles soutiennent aussi bien Nosra que l'EI.

Plus largement encore, ce qu'il faut comprendre, c'est que les véritables rivaux de l'Arabie Saoudite et du Qatar, ce sont toutes les entités qui constituent le "croissant chiite" (l'Iran, la Syrie des Alaouites, l'Irak chiite pro-irannienne et le Hezbollah). Dans cette optique, l'EI et Nosra sont en fait des alliés stratégiques, dans le sens où ces organisations peuvent briser cet axe pro-iranien !

Il n'y aura jamais de preuve papier sur ce financement qatari et saoudien des organisations terroristes, mais celui-ci est tout de même probable.

2) Pourtant, le Qatar est également considéré comme un "sous-fifre" des Etats-Unis. Pour preuve, la plus grande base militaire américaine se situe au Qatar, et le Qatar sous-traite la gestion de sa défense nationale aux Etats-Unis. Comment se fait-il que les Etats-Unis cautionne ce genre de financements ?

Les Etats-Unis ont probablement dû taper sur les doigts du Qatar à ce sujet. Mais ils ne contrôlent pas tout ce qui se passe dans la région. Ils ferment parfois les yeux (ou participent même) aux financements de groupes terroristes.

Il est utile de rappeler qu'il y a deux axes principaux dans la politique des Etats-Unis au Moyen-Orient :

  • Tout d'abord, il faut savoir que les Etats-Unis sont les principaux bénéficiaires de l'essor économique du Qatar. Ils se taillent la part du lion sur le marché qatari et leur objectif principal consiste donc à préserver leur position.  
  • La deuxième priorité des Américains concerne la sécurité d'Israël. Le lobbying israélien aux Etats-Unis est puissant, et cet enjeu sécuritaire est souvent à l'ordre du jour en période électorale.

Afin de remplir ces obligations, les Etats-Unis se doivent de trouver des points d'ancrage dans la région. A cet égard, leur  influence sur l'Arabie Saoudite et le Qatar est considérable. Les Américains jouent d'ailleurs sur la rivalité entre les deux pays en misant sur une stratégie bien connue : "Diviser pour mieux régner".

Néanmoins, les Etats-Unis ne contrôlent pas tout, et ils se sont même laissés entrainer par le Qatar lors du Printemps arabe. A ce moment-là, le Qatar défendait les mouvements révolutionnaires, et soutenait plus particulièrement la prise de pouvoir des Frères musulmans. Le Qatar se servait du modèle de la Turquie islamo-démocrate d'Erdogan (dont le Parti de la justice et du développement est très proche des Frères musulmans)  pour défendre les Frères musulmans et gagner la confiance de l'administration d'Obama.

 La carte des révoltes du Printemps arabe - Crédit : Le Monde

Les Etats-Unis ont donc laissé faire, en pensant que tout cela allait aboutir à une démocratisation du monde arabe. Il ne fallait, selon eux, pas s'opposer au sens de l'histoire. Ainsi, le Qatar a pu acheter les élections, notamment en Tunisie et en Egypte, qui ont abouti respectivement à la prise de pouvoir du parti Ennahdha et de Mohamed Morsi.

Cependant, les masques sont rapidement tombés : Morsi, surnommé très tôt "le pharaon", s'accordait les pleins pouvoirs en novembre 2012 après cinq mois à la tête de l'Egypte. Et la Turquie d'Erdogan, première prison au monde pour les journalistes, n'est pas exempt de tout reproche non plus.

Les Etats-Unis se sont faits berner en laissant les Frères musulmans prendre le pouvoir. Présentés comme l'alternative idéale, ceux-ci font preuve d'autoritarisme, et c'est le moins que l'on puisse dire!  En 1981, Sadate est assassiné par d'ex-membres de la confrérie des Frères musulmans passés à l'extrémisme. Al-Zawahiri lui-même, le chef du réseau terroriste Al-Qaida, était un frère musulman.  

Les Frères musulmans sont-ils des terroristes ? La question se pose. Ils sont en tout cas considérés comme tels par le gouvernement égyptien, la Russie et l'Arabie saoudite. Si on part de cette hypothèse, les Etats-Unis auraient donc comme le Qatar financé des terroristes.

Par ailleurs, les Etats-Unis financent parfois involontairement des djihadistes. Lorsque Al-Nosra a été considéré par les Etats-Unis comme une organisation terroriste, le front a crée de nouveaux groupuscules avec des fausses dénominations afin de capter les financements américains. Le groupe Jaysh al-Islam (Armée de l'Islam) a par exemple été financé par les Etats-Unis avant que son affiliation avec Al-Qaïda ne soit démontrée.

Enfin, lors de la libération d'otages, les pays occidentaux demandent souvent au Qatar de faire la médiation et de payer une rançon aux organisations terroristes.  Cela peut être également considéré comme du financement aux djihadistes.

3) Au-délà de ses investissements dans le sport et les médias, quelle est la stratégie diplomatique du Qatar depuis l'échec des Frères musulmans ?

Les échecs d'Ennahdha en Tunisie et des Frères musulmans en Syrie (le nouveau chef à la tête de la CNS est pro-saoudien), ainsi que le coup d'Etat en Egypte ont considérablement affaibli le Qatar.

Le Qatar utilise dorénavant la cause palestinienne afin de défendre ces intérêts dans la région et de revenir dans le jeu diplomatique international. Doha s'est servi de la guerre de Gaza à l'été 2014  pour s'affirmer comme le médiateur incontournable dans la péninsule arabique. Le pays met en avant son influence considérable sur le Hamas (qu'il finance) et prétend pouvoir négocier un cessez-le-feu ou même résoudre le conflit israélo-palestinien.

4) Al-Qaïda affirme avoir financé l'opération de Charlie Hebdo et recruté les frères Kouachi qui ont assassiné douze personnes. Amedy Coulibaly prétend, lui, avoir été envoyé par l'EI. Comment ces organisations djihadistes manipulent-ils ces jeunes terroristes ?

En France, la situation s'est dégradée de façon continue dans les banlieues, comme à Roubaix ou au nord de Marseille. Les imams radicaux ont prospéré dans ces zones et manipulent des jeunes faibles psychologiquement et complètement perdus socialement.

La mystique djihadiste est simple : le but final est de ré-islamiser la société dans le monde arabe. Selon le Hamas, Dieu les a punis avec la création d'Israël, parce qu'ils n'étaient pas de bons musulmans. Il faut donc s'unir afin de reprendre Jérusalem.

Grâce au développement d'Internet et des chaînes satellitaires, les idéologues montrent à ces populations musulmanes les bombardements incessants d'Israël, soutenu par l'Occident, sur les Palestiniens. Ils les manipulent et les dressent contre l'Occident.  La prise d'otages dans l'hyper casher n'est que la résultante de cet endoctrinement.

La situation en Syrie est également exploitée par les idéologues islamistes. Ils accusent l'Occident de laisser les musulmans rebelles en Syrie se faire tuer. Ils veulent convaincre les jeunes djihadistes que Bachar el-Assad soutient en fait Israël et l'Occident, et que ceux-ci cherchent à affaiblir les musulmans à travers la guerre civile syrienne.

Les récents bombardements de la coalition internationale sur l'EI font d'ailleurs  le jeu des prédicateurs islamistes, qui crient au complot : les Etats-Unis et Bachar el-Assad se seraient alliés pour défendre Israël.

Mohamed Merah, les frères Kouachi, Amedy Coulibaly … ils sont tous manipulés par ces théories djihadistes. 

Arnaud Caldichoury

L’affaire des attentats de Charlie Hebdo vue différemment



L’affaire des attentats de Charlie Hebdo vue différemment avec Jean-Yves Le Gallou dans le dernier I-Média !

Réinformation totale sur l'affaire des attentats islamistes et zoom sur le mouvement de contestation contre l'islamisation de l'Allemagne PEDIGA avec Jean-Yves Le Gallou dans le dernier I-Média ! Face à la pensée unique des grands médias, partagez massivement l'information libre et alternative !

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The Fall of Singapore - The Great Betrayal

The Fall of Singapore

The Great Betrayal

(Rare BBC Documentary)

This landmark documentary film by Paul Elston tells the incredible story of how it was the British who gave the Japanese the knowhow to take out Pearl Harbor and capture Singapore in the World War 2. For 19 years before the fall of Singapore in 1942 to the Japanese, British officers were spying for Japan. Worse still, the Japanese had infiltrated the very heart of the British establishment - through a mole who was a peer of the realm known to Churchill himself.

This is a very rare documentary on the fall of Singapore in WW2 by BBC Two broadcasted in Northern Ireland only.

2015, een Chinees-Japans conflictjaar?

2015, een Chinees-Japans conflictjaar?

Ex: http://vrijetribune.nl/

thediplomat_2013-12-17_20-32-59-386x386.jpgVorige maand spraken we al over een mogelijk Koreaans conflict als gevolg van oplopende spanningen tussen Japan en China. We mogen een direct maritiem conflict tussen China en Japan echter niet uitsluiten. We dienen hierbij ook te kijken naar de relatief onbekende historie van de Japanse marine.

Japan slaagde er aan het einde van de 19de eeuw in om de economische en technologische achterstand met Europa en Amerika in relatief korte tijd in te halen. Dit in tegenstelling tot China, dat als gevolg hiervan militair eigenlijk tot omstreeks 1950 nauwelijks wat voorstelde. De Japanse marine was een belangrijk instrument in deze modernisering. Japan was een eiland en was als gevolg hiervan afhankelijk van buitenlandse handel. De marine was daarom de hoeksteen van de Japanse defensie. In 1902 slaagde Japan er in om het diplomatieke isolement te doorbreken door een verdrag met de grootste vlootmacht ter wereld – Groot-Brittannië.

Tijdens de Eerste Wereldoorlog was dit verdrag van belang voor Groot-Brittannië, aangezien de Japanners bij machte waren om de strategische Duitse vlootbasis in Tsingtao (China) te veroveren. Naarmate de Britse vloot meer en meer te duchten had van Europese concurrenten nam het belang van de Brits-Japanse alliantie toe. Dit hield niet op na de Eerste Wereldoorlog als Frankrijk de belangrijkste tegenstander wordt van de Britse hegemonie. Zo gingen de Fransen in 1927 over tot het bouwen van een gigantische duikboot met zware kanonnen om de Britse hegemonie op zee aan te vechten.

Ook in de Stille Oceaan werd de Britse hegemonie op zee aangevochten en wel door de Amerikanen. De Amerikanen werkten in de jaren 1920 aan concrete plannen om Canada binnen te vallen in het geval van een conflict met Groot-Brittannië. Het was er de Britten alles aan gelegen om de groeiende Amerikaanse invloed in de Stille Oceaan te counteren en wel door middel van Japan. Japan had echter geen vliegdekschepen en men kon natuurlijk ook weer niet te openlijk Japan steunen en dus ontspon er zich een spionage-intrige, waarbij de Britten oogluikend toelieten dat maritieme technologie heimelijk in Japanse handen kwam:

De tragedie van de Britse politiek was dat de Japanners en de Amerikanen weliswaar met elkaar in conflict kwamen in 1941, maar dat de Japanners en passant ook de Britten aanvielen, omdat ze de grondstoffen uit de Britse kolonies nodig hadden voor hun oorlog met Amerika: olie uit Birma (Myanmar), rubber van Malakka, etc. De Amerikanen vanuit hun oogpunt steunden voor 1941 juist de Chinese nationalisten tegen Japan om de Japanners vooral bezig te houden op het Chinese vasteland, een politiek die ook faalde want de Amerikaanse olieboycot leidde tot Japanse aanval op Pearl Harbor, en niet tot de gehoopte onderhandelingen.

Sinds de Tweede Wereldoorlog is Japan de Amerikaanse bondgenoot. Evenals de Britse hegemon een eeuw tevoren begonnen de Amerikanen begin deze eeuw Japan steeds meer te gebruiken om hun belangen te verdedigen in de Stille Oceaan, aangezien Amerika zelf verwikkeld was in de Golfregio. Net als een eeuw geleden begint de Japanse marine steeds meer maritieme technologie te ontwikkelen. In 2013 werd de Izumo gelanceerd, officieel een helikopterschip maar in werkelijkheid een vliegdekschip. De Izumo wordt verwacht in maart 2015 operationeel te zijn.

In China werkt men ook koortsachtig aan een eigen vliegdekschip, de Liaoning. Het is een Sovjet-vliegdekschip dat nooit werd afgebouwd en door China is gekocht van de Oekraïne. Het is onduidelijk in hoeverre China op basis van de aankoop van dit schip in staat is om zelf vliegdekschepen te bouwen. De Liaoning is officieel operationeel sinds 2012, maar wordt sindsdien geplaagd door technische mankementen en het is niet zeker in hoeverre de vliegtuigen daadwerkelijk operationeel zijn. De Chinezen hebben zelf een vliegtuig ontwikkeld voor dit schip, maar in september 2014 kwamen nog 2 piloten om bij de vliegdekschiptraining.

Een conflict om de Senkaku/Diaoyudao eilanden boven Taiwan is niet ondenkbaar. China is een enorme economische macht geworden en haar zelfvertrouwen als geopolitieke macht is daarmee ook enorm toegenomen. China is in de positie van Duitsland vlak voor de Eerste Wereldoorlog – een continentale industriemacht zonder overzees netwerk maar met maritieme aspiraties en een sterke maritieme macht als buurland. Op dit ogenblik is de Japanse marine wellicht talsmatig niet, maar kwalitatief absoluut superieur aan de Chinese marine.

Als Amerika China wil treffen, dan is een Japans-Chinees maritiem conflict zeer geschikt. Het voorkomt grootschalige economische schade van bombardementen en kan relatief snel worden beslist. Amerika kan bovendien zelf buiten schot blijven door de historische animositeit tussen China en Japan op te spelen. Een Chinese maritieme nederlaag om de Senkaku/Diaoyudao eilanden zal de Chinezen op een maritieme achterstand van minstens 10 jaar zetten en de druk op bondgenoten rond de Zuid-Chinese Zee verminderen. Wat zeker is, is dat de Amerikanen (en de Japanners) zeker op termijn de capaciteiten van de Chinese marine zullen testen.

Laten we hopen dat de Amerikanen of de Japanners in 2015 China niet zullen uitdagen. Er is immers al voldoende oorlog in de wereld.