La forza revoluzionaria del mito politico
La possibilità che hanno i popoli di correggere l’andamento della storia attraverso crisi rivoluzionarie riposa tutta nella capacità di conservazione del loro patrimonio di energie irrazionali. Nessuna ribellione a uno status quo avvertito come ingiusto o degradante è mai avvenuta per le vie razionaliste della dialettica. Si ebbe una rivoluzione francese soltanto quando alle teorie borghesi degli illuministi subentrò la capacità di Danton e Saint-Just di gestire emotivamente le masse. E si poté avere una rivoluzione bolscevica soltanto quando alle inerti elucubrazioni marxiane tenne dietro il calore bruciante della parola leniniana e della sollevazione del popolo nel nome di un’utopia mitica. Ancora più chiaramente, tale processo è leggibile nel caso dei fascismi europei, nati dalla catastrofe del mito nazionale, dalla messa in pericolo liberal-comunista della tradizione mitopoietica del popolo, e infine dalla volontà propriamente rivoluzionaria - cioè correttrice verso le origini - di far risorgere, potenziato, il mito accomunante dell’immobile, eterna comunità di popolo.
Tutto ciò ha fatto parlare dell’apparizione moderna del mito politico come di una insorgenza di religiosità civile nel bel mezzo dell’ateismo e dell’agnosticismo moderni. Religioni politiche: esse hanno riempito il vuoto lasciato dalla crisi del cristianesimo attraverso la gestione di retaggi e atavismi riattivati tra le masse, una volta che queste furono abbandonate da un decrepito sistema di fede trascendente, che lasciava insoddisfatte le domande popolari di nuova identificazione. In questo, giacobinismo e comunismo non furono in nulla diversi dal nazifascismo, se non come casi patologici di contraddizione in termini: per poter passare dalla fase dell’insurrezione a quella della costruzione rivoluzionaria, dovettero far ricorso a uno strumentario mitico e irrazionalistico di stampo para-religioso e in quanto tale estraneo, e anzi opposto, ai presupposti “scientifici” del loro stesso progressismo di partenza. Dalla statue elevate alla Dea Ragione alla mummia di Lenin nella Piazza Rossa, e fino alle mitologie millenaristiche del nazionalismo puritano americano, noi vediamo che il progressismo riesce ad esprimere potenziale mobilitatorio soltanto dando vita alla sua massima contraddizione e smentendo esplicitamente se stesso. Quando dall’amministrazione si passa alla politica, il ricorso all’inconscio e all’irrazionale giacenti nel popolo è l’unica arma a disposizione per attivare un cambiamento che sia sostanza e non apparenza.
Nel caso del progressismo - giacobino, liberale, comunista - si può parlare di uso strumentale del repertorio mitico. Si tratta del ricorso a patrimoni che la ragione e la “religione” del progresso hanno sempre demonizzato e colpevolizzato, definendoli scorie di un passato oscurantista condannato dalla luce della modernità. Nel caso invece del nazifascismo si ha la piena consapevolezza che l’utilizzo del mito politico atto a riconsacrare il popolo non è strumento occasionale per ricompattare masse altrimenti allo sbando (il richiamo al “mito americano” in occasioni elettorali; il ricorso alla “grande guerra patriottica” da parte dei sovietici), ma elemento strutturale di un sistema di potere che apertamente dice di voler attingere ai bacini memoriali collettivi. Lo sposalizio ideologico fra la tradizione ancestrale e la modernità è il tratto tipico dei fascismi, che hanno sempre abbinato l’identità storica del popolo con il suo moderno risveglio. Nel caso del nazionalsocialismo, il marxista ebreo-tedesco Ernst Bloch parlò non a caso di romanticismo del paganesimo eroico. C’era anzi, in questa sua definizione risalente agli anni Trenta, una punta di “invidia per un movimento che, diversamente dal comunismo, era riuscito a promuovere il solidarismo di massa attraverso il ridestarsi del «residuo arcaico emozionale», sapendo per di più «trasformare gli inizi mitici in inizi reali, i sogni dionisiaci in sogni rivoluzionari». Massimo scorno, quest’ammissione di efficiente realismo proprio nei fanatici dell’irratio, per un marxista “oggettivo” di stretta osservanza sovietica, costretto a verificare che l’arsenale di “scientificità” marxista rimaneva inservibile dinanzi alla richiesta popolare di ritorno all’identità tradizionale, pienamente soddisfatta dalla NSDAP nei modi plebiscitari che la storia conosce.
Nella struttura del Terzo Reich, infatti, sono ancor meglio visibili che negli altri fascismi europei le compiute categorie del mito politico in azione: attivazione del patrimonio culturale tradizionale; promozione di una religiosità etnica estranea ai confessionalismi dogmatici; mistica dell’offerta eroica di sé per il bene della comunità di stirpe. Conosciamo gli studi di Emilio Gentile sul Fascismo come religione politica capace di saldare a lungo un popolo, storicamente individualista come l’italiano, attorno ai simboli unificanti della gloria nazionale, secondo le vie del mito eroico racchiuso dal culto del Littorio. Nel caso del nazionalsocialismo sia ha una radicalizzazione di tale impostazione, essenzialmente grazie alla natura del germanesimo moderno, ben più dell’italianità in grado di serbare memoria attiva del proprio comunitarismo storico.
Basti, a testimoniare di questo, il mito del sangue. Divenuto, nel Terzo Reich, l’archetipo di un sistema di solidarismo sociale incentrato sulla rianimazione di antiche testimonianze della mistica religiosa tedesca. La Theologia Deutsch, ad esempio, che nell’epoca pre-protestante veicolò l’ideologia della divinizzazione dell’uomo e di un sotteso sovrumanismo, secondo modi semiereticali di contestazione della trascendenza cristiana, fu alla fine la fonte di riferimento immediata per il mito del sangue nazionalsocialista. È stato anni fa Manuel Garcìa Pelayo, nel suo classico Miti e simboli politici, a rimarcare che nella concezione di Alfred Rosenberg - che nel Mito del XX secolo riconobbe ampiamente il suo debito culturale verso il mistico duecentesco Meister Eckhart - si riconosce con tutta evidenza la linea ideologica che corre dalla religiosità renana medievale sino alla rievocazione del mistero del sangue, quale compare nella pubblicistica filosofica nazionalsocialista. «Ora il sangue, secondo la dottrina nazista - ha scritto Pelayo - non è un fatto puramente fisiologico, ma qualcosa di misterioso che reca in seno proprietà morali, intellettuali…il sangue è anche un fatto di natura spirituale, che si dispiega in creazioni culturali come la filosofia, l’arte, la scienza, le forme sociali». Quest’affermazione, da sola, è tra l’altro sufficiente a liquidare tutte le speculazioni che da anni si vanno facendo intorno allo specioso problema di una supposta alternativa tra “razza del sangue ” e “razza dello spirito”, in cui si sono incartati a suo tempo Julius Evola e alcuni suoi zelanti seguaci ancora oggi. Il mito politico nazionalsocialista legato al valore sublimante del sangue era essenzialmente un’invocazione di purificazione mistica: «Con la difesa del sangue si difende al tempo stesso il divino che c’è nell’uomo», affermava Rosenberg, riecheggiando Meister Eckhart nel suo incitamento alla creazione di una neue Adel, una nuova nobiltà predisposta a «diventare dio». Il sostrato gnostico che si agitava nei fondali della percezione nazionalsocialista permetteva formulazioni di irrazionalismo idealistico di tale portata, che spesso gli storici non hanno esitato a parlare di vera e propria mistica. Il dualismo agitato tra il demoniaco ricatto materialista dell’epoca moderna e l’anelito purificante di ripercorrere le origini diveniva rivoluzione: «Questa rivoluzione tanto misticamente o metafisicamente concepita nelle sue origini ebbe come soggetto storico il partito nazionalsocialista», sintetizza Pelayo. Non diversamente, Eric Voegelin osservò, in La politica: dai simboli alle esperienze, che la teologia politica del nazionalsocialismo ripeteva attitudini etiche di tipo religioso, lavorando i materiali ancestrali con le tecniche messe a disposizione dal mondo moderno: «La creazione del mito e la sua propaganda attraverso la stampa e la radio, i discorsi e le cerimonie comunitarie, le adunate e le marce, il lavoro pianificato ed il morire il battaglia, sono le forme intramondane dell’unio mystica».
Ma Voegelin si è spinto ancora oltre, concedendo al nazionalsocialismo una sostanza di autenticità come movimento non soltanto politico, ma propriamente religioso, in cui il simbolo è allo stesso modo segno di identità terrena e segnacolo di promessa ultraterrena: «La formulazione del mito…si approssima al simbolismo vero e proprio inteso come dominio di figure dotate di significato all’interno delle quali esperienza pratica intramondana ed esperienza interiore ultraterrena si uniscono in un’unità comprensibile». Riesce a questo punto più agevole dare pieno credito all’interpretazione del “mito ariano” operata da Philippe Lacoue-Labarthe e Jean-Luc Nancy nel loro Il mito nazi, allorquando parlano di un «mito del Mito» all’interno del nazionalsocialismo. Come presso i Greci antichi, vi fu nella Germania di allora un convergere di immagine e parola, Mythos e Logos, sogno e realtà, simbolo metafisico e politica. Il mito rimane irreale se non è vissuto, così come la proclamazione mistica abbisogna della pratica ascetico-eroica per avverarsi, fino al visionarismo e fino all’iniziazione estatica, che le religioni ben conoscono e le religioni politiche più radicali come il nazionalsocialismo ugualmente ebbero a fondamento. Quando si parla di delirio mistico, si può egualmente parlare di comunità religiose in rapimento, del visionarismo di una Teresa d’Avila, come di masse percosse da entusiasmo emotivo. Si ha in questi casi, come ribadiscono Lacue-Labarthe e Nancy, il verificarsi dell’Anschauen, da cui quella Weltanschauung, quel vedere-oltre il reale e penetrare nel mito cosmico, che fece del nazionalsocialismo un singolarissimo fenomeno storico titolato a «svolgere la funzione stessa di una religione». Rosenberg parlava del mito politico come di un sogno atavico che si rianima, Goebbels indicava nell’impossibile la realizzazione politica del nazionalsocialismo, Hitler evocava le potenze della Provvidenza e del Destino: tutti andavano sondando l’anima occulta e misteriosa del popolo. Talmente marcata fu la sostanza di questo profetismo neo-gnostico, che i due storici francesi vedono nel mito politico nazionalsocialista nulla di meno che una sorta di epifania del sacro: «…questo “vedere” proprio di un “sogno” attivo, pratico, operativo, costituisce il cuore del processo “mitico-tipico”, che diviene così il sogno reale del “Reich millenario”».
Luca Leonello Rimbotti