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mercredi, 26 novembre 2008

La forza revoluzionaria del mito politico

 La forza revoluzionaria del mito politico

 

 

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La possibilità che hanno i popoli di correggere l’andamento della storia attraverso crisi rivoluzionarie riposa tutta nella capacità di conservazione del loro patrimonio di energie irrazionali. Nessuna ribellione a uno status quo avvertito come ingiusto o degradante è mai avvenuta per le vie razionaliste della dialettica. Si ebbe una rivoluzione francese soltanto quando alle teorie borghesi degli illuministi subentrò la capacità di Danton e Saint-Just di gestire emotivamente le masse. E si poté avere una rivoluzione bolscevica soltanto quando alle inerti elucubrazioni marxiane tenne dietro il calore bruciante della parola leniniana e della sollevazione del popolo nel nome di un’utopia mitica. Ancora più chiaramente, tale processo è leggibile nel caso dei fascismi europei, nati dalla catastrofe del mito nazionale, dalla messa in pericolo liberal-comunista della tradizione mitopoietica del popolo, e infine dalla volontà propriamente rivoluzionaria - cioè correttrice verso le origini - di far risorgere, potenziato, il mito accomunante dell’immobile, eterna comunità di popolo.

 

 

Tutto ciò ha fatto parlare dell’apparizione moderna del mito politico come di una insorgenza di religiosità civile nel bel mezzo dell’ateismo e dell’agnosticismo moderni. Religioni politiche: esse hanno riempito il vuoto lasciato dalla crisi del cristianesimo attraverso la gestione di retaggi e atavismi riattivati tra le masse, una volta che queste furono abbandonate da un decrepito sistema di fede trascendente, che lasciava insoddisfatte le domande popolari di nuova identificazione. In questo, giacobinismo e comunismo non furono in nulla diversi dal nazifascismo, se non come casi patologici di contraddizione in termini: per poter passare dalla fase dell’insurrezione a quella della costruzione rivoluzionaria, dovettero far ricorso a uno strumentario mitico e irrazionalistico di stampo para-religioso e in quanto tale estraneo, e anzi opposto, ai presupposti “scientifici” del loro stesso progressismo di partenza. Dalla statue elevate alla Dea Ragione alla mummia di Lenin nella Piazza Rossa, e fino alle mitologie millenaristiche del nazionalismo puritano americano, noi vediamo che il progressismo riesce ad esprimere potenziale mobilitatorio soltanto dando vita alla sua massima contraddizione e smentendo esplicitamente se stesso. Quando dall’amministrazione si passa alla politica, il ricorso all’inconscio e all’irrazionale giacenti nel popolo è l’unica arma a disposizione per attivare un cambiamento che sia sostanza e non apparenza.

 

 

Nel caso del progressismo - giacobino, liberale, comunista - si può parlare di uso strumentale del repertorio mitico. Si tratta del ricorso a patrimoni che la ragione e la “religione” del progresso hanno sempre demonizzato e colpevolizzato, definendoli scorie di un passato oscurantista condannato dalla luce della modernità. Nel caso invece del nazifascismo si ha la piena consapevolezza che l’utilizzo del mito politico atto a riconsacrare il popolo non è strumento occasionale per ricompattare masse altrimenti allo sbando (il richiamo al “mito americano” in occasioni elettorali; il ricorso alla “grande guerra patriottica” da parte dei sovietici), ma elemento strutturale di un sistema di potere che apertamente dice di voler attingere ai bacini memoriali collettivi. Lo sposalizio ideologico fra la tradizione ancestrale e la modernità è il tratto tipico dei fascismi, che hanno sempre abbinato l’identità storica del popolo con il suo moderno risveglio. Nel caso del nazionalsocialismo, il marxista ebreo-tedesco Ernst Bloch parlò non a caso di romanticismo del paganesimo eroico. C’era anzi, in questa sua definizione risalente agli anni Trenta, una punta di “invidia per un movimento che, diversamente dal comunismo, era riuscito a promuovere il solidarismo di massa attraverso il ridestarsi del «residuo arcaico emozionale», sapendo per di più «trasformare gli inizi mitici in inizi reali, i sogni dionisiaci in sogni rivoluzionari». Massimo scorno, quest’ammissione di efficiente realismo proprio nei fanatici dell’irratio, per un marxista “oggettivo” di stretta osservanza sovietica, costretto a verificare che l’arsenale di “scientificità” marxista rimaneva inservibile dinanzi alla richiesta popolare di ritorno all’identità tradizionale, pienamente soddisfatta dalla NSDAP nei modi plebiscitari che la storia conosce.

 

 

Nella struttura del Terzo Reich, infatti, sono ancor meglio visibili che negli altri fascismi europei le compiute categorie del mito politico in azione: attivazione del patrimonio culturale tradizionale; promozione di una religiosità etnica estranea ai confessionalismi dogmatici; mistica dell’offerta eroica di sé per il bene della comunità di stirpe. Conosciamo gli studi di Emilio Gentile sul Fascismo come religione politica capace di saldare a lungo un popolo, storicamente individualista come l’italiano, attorno ai simboli unificanti della gloria nazionale, secondo le vie del mito eroico racchiuso dal culto del Littorio. Nel caso del nazionalsocialismo sia ha una radicalizzazione di tale impostazione, essenzialmente grazie alla natura del germanesimo moderno, ben più dell’italianità in grado di serbare memoria attiva del proprio comunitarismo storico.

 

 

Basti, a testimoniare di questo, il mito del sangue. Divenuto, nel Terzo Reich, l’archetipo di un sistema di solidarismo sociale incentrato sulla rianimazione di antiche testimonianze della mistica religiosa tedesca. La Theologia Deutsch, ad esempio, che nell’epoca pre-protestante veicolò l’ideologia della divinizzazione dell’uomo e di un sotteso sovrumanismo, secondo modi semiereticali di contestazione della trascendenza cristiana, fu alla fine la fonte di riferimento immediata per il mito del sangue nazionalsocialista. È stato anni fa Manuel Garcìa Pelayo, nel suo classico Miti e simboli politici, a rimarcare che nella concezione di Alfred Rosenberg - che nel Mito del XX secolo riconobbe ampiamente il suo debito culturale verso il mistico duecentesco Meister Eckhart - si riconosce con tutta evidenza la linea ideologica che corre dalla religiosità renana medievale sino alla rievocazione del mistero del sangue, quale compare nella pubblicistica filosofica nazionalsocialista. «Ora il sangue, secondo la dottrina nazista - ha scritto Pelayo - non è un fatto puramente fisiologico, ma qualcosa di misterioso che reca in seno proprietà morali, intellettuali…il sangue è anche un fatto di natura spirituale, che si dispiega in creazioni culturali come la filosofia, l’arte, la scienza, le forme sociali». Quest’affermazione, da sola, è tra l’altro sufficiente a liquidare tutte le speculazioni che da anni si vanno facendo intorno allo specioso problema di una supposta alternativa tra “razza del sangue ” e “razza dello spirito”, in cui si sono incartati a suo tempo Julius Evola e alcuni suoi zelanti seguaci ancora oggi. Il mito politico nazionalsocialista legato al valore sublimante del sangue era essenzialmente un’invocazione di purificazione mistica: «Con la difesa del sangue si difende al tempo stesso il divino che c’è nell’uomo», affermava Rosenberg, riecheggiando Meister Eckhart nel suo incitamento alla creazione di una neue Adel, una nuova nobiltà predisposta a «diventare dio». Il sostrato gnostico che si agitava nei fondali della percezione nazionalsocialista permetteva formulazioni di irrazionalismo idealistico di tale portata, che spesso gli storici non hanno esitato a parlare di vera e propria mistica. Il dualismo agitato tra il demoniaco ricatto materialista dell’epoca moderna e l’anelito purificante di ripercorrere le origini diveniva rivoluzione: «Questa rivoluzione tanto misticamente o metafisicamente concepita nelle sue origini ebbe come soggetto storico il partito nazionalsocialista», sintetizza Pelayo. Non diversamente, Eric Voegelin osservò, in La politica: dai simboli alle esperienze, che la teologia politica del nazionalsocialismo ripeteva attitudini etiche di tipo religioso, lavorando i materiali ancestrali con le tecniche messe a disposizione dal mondo moderno: «La creazione del mito e la sua propaganda attraverso la stampa e la radio, i discorsi e le cerimonie comunitarie, le adunate e le marce, il lavoro pianificato ed il morire il battaglia, sono le forme intramondane dell’unio mystica».

 

 

Ma Voegelin si è spinto ancora oltre, concedendo al nazionalsocialismo una sostanza di autenticità come movimento non soltanto politico, ma propriamente religioso, in cui il simbolo è allo stesso modo segno di identità terrena e segnacolo di promessa ultraterrena: «La formulazione del mito…si approssima al simbolismo vero e proprio inteso come dominio di figure dotate di significato all’interno delle quali esperienza pratica intramondana ed esperienza interiore ultraterrena si uniscono in un’unità comprensibile». Riesce a questo punto più agevole dare pieno credito all’interpretazione del “mito ariano” operata da Philippe Lacoue-Labarthe e Jean-Luc Nancy nel loro Il mito nazi, allorquando parlano di un «mito del Mito» all’interno del nazionalsocialismo. Come presso i Greci antichi, vi fu nella Germania di allora un convergere di immagine e parola, Mythos e Logos, sogno e realtà, simbolo metafisico e politica. Il mito rimane irreale se non è vissuto, così come la proclamazione mistica abbisogna della pratica ascetico-eroica per avverarsi, fino al visionarismo e fino all’iniziazione estatica, che le religioni ben conoscono e le religioni politiche più radicali come il nazionalsocialismo ugualmente ebbero a fondamento. Quando si parla di delirio mistico, si può egualmente parlare di comunità religiose in rapimento, del visionarismo di una Teresa d’Avila, come di masse percosse da entusiasmo emotivo. Si ha in questi casi, come ribadiscono Lacue-Labarthe e Nancy, il verificarsi dell’Anschauen, da cui quella Weltanschauung, quel vedere-oltre il reale e penetrare nel mito cosmico, che fece del nazionalsocialismo un singolarissimo fenomeno storico titolato a «svolgere la funzione stessa di una religione». Rosenberg parlava del mito politico come di un sogno atavico che si rianima, Goebbels indicava nell’impossibile la realizzazione politica del nazionalsocialismo, Hitler evocava le potenze della Provvidenza e del Destino: tutti andavano sondando l’anima occulta e misteriosa del popolo. Talmente marcata fu la sostanza di questo profetismo neo-gnostico, che i due storici francesi vedono nel mito politico nazionalsocialista nulla di meno che una sorta di epifania del sacro: «…questo “vedere” proprio di un “sogno” attivo, pratico, operativo, costituisce il cuore del processo “mitico-tipico”, che diviene così il sogno reale del “Reich millenario”».

 

 

Luca Leonello Rimbotti

 

samedi, 30 août 2008

Du symbolisme de la hache

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Du symbolisme de la hache

Le terme "hache" ("ascia" en italien) existe dans nos langues de manière quasi inchangée au cours des millénaires. Il cor­respond effectivement au terme latin "ascia", qui dérive de la forme indo-européenne *aksi/*agwesi, que les linguistes ont reconstituée sur base de comparaisons entre le terme latin et le terme gothique "aqizi", le terme de vieil haut al­lemand "ackus" (en allemand moderne "Axt", en anglais "ax", "adze") et le grec "axi(on)". Il me semble nécessaire de préciser cependant que cette forme est une forme indo-eu­ropéenne occidentale; les linguistes ont également recon­sti­tué la forme orientale, soit "*peleku", cette fois sur base d'une comparaison entre certaines formes linguistiques grec­ques et sanskrites. C'est ainsi que le pélican, à travers un processus assez intéressant, se voit assimilé à la hache, à cause de son grand bec caractéristique.

La hache revêt une importance énorme, comme en témoi­gne le passé archaïque des Indo-Européens. Adams et Mal­lory ex­pliquent que, durant le néolithique, les haches, en Eu­­rasie, étaient faites de silex ébréchés ou d'autres pierres ca­pables d'être façonnées. En outre, il s'agissait générale­ment de haches plates; cependant, dans certaines cultures néolithiques plus tardives, on trouve rapidement des ha­ches munies d'une perforation permettant d'y placer un man­che. Ces haches sont qualifiées de "haches de bataille"; quand on les trouve dans des sépultures, comme par exem­ple celles de la céramique cordée (notamment dans les régions d'Europe septentrionale, où l'on parle de la "culture des haches de combat"), elles sont de toute évidence des instruments ou des armes considérées comme "viriles". Elles sont donc les emblèmes d'une société patriarcale et guer­rière, car, comme l'a écrit Adriano Romualdi, "la culture nor­dique ne présente aucune trace de matriarcat: les ido­les féminines sont absentes… la structure familiale est so­li­de, les traditions de chasse et de guerre attestent d'une cul­ture éminemment virile". Quant à E. Sprockhoff, il for­mu­le des observations extrêmement intéressantes sur la ha­che de guerre dans l'antique culture mégalithique; il assi­mile la hache primordiale au dieu du Tonnerre, qui, aux temps les plus reculés, était aussi le dieu du Ciel et du So­leil. D'après ce chercheur allemand, "on consacre à cette puis­sante divinité des haches d'ambre et d'argile, comme d'ailleurs des haches en miniature. Ainsi, la femme ger­manique a porté ultérieurement le marteau de Thor comme bijou, suspendu à une chaîne; de même, les populations nor­diques de l'âge de la pierre le plus éloigné ont porté au cou cet ornement, en tant que perles d'ambre en forme de hache bipenne, symbole du dieu du Tonnerre et des jours, un dieu qui n'a plus de nom aujourd'hui pour nous. La hache de combat est tout simplement devenue le symbole de la plus haute divinité" (ex: "Die nordische Megalithkultur").

L'irruption de la hache de combat dans les régions du Sud et de l'Est, attestée par des découvertes archéologiques, mon­tre comment se sont déroulées les différentes phases de pénétration indo-européenne; on les identifie évidem­ment aux pointes les plus avancées des conquêtes cimmé­rien­nes et tokhariennes: «Le témoignage concret de cette migration, écrit Romualdi, est l'arrivée subite en Chine d'une quantité d'armes occidentales, que l'on date en Eu­rope entre 1100 et 1800 avant J. C., et qui n'avaient en A­sie aucun antécédent». La hache est, en somme, le sym­bo­le du dieu céleste suprême et de l'esprit créateur de nos plus lointains ancêtres.

Alberto LOMBARDO.

(Etude parue dans La Padania, 14 octobre 2001 - http://www.lapadania.com ; trad. franç.: Robert Steuckers).

 

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samedi, 23 août 2008

Les avatars chrétiens de Wodan après la conversion des Germains

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Les avatars chrétiens de Wodan après la conversion des Germains

d'après Otto Rudolf Braun

Wodan était l'une des principales figures divines au temps de la christianisation des Germains. Il était le dieu qui donnait la sagesse aux hommes. Il était aussi le dieu des guerriers et des héros tombés au combat. Son importance était grande parmi les Germains comme le prouve la formule d'abjuration que les convertis devaient prononcer avant de recevoir le baptême. En effet, les Germains, comme tous les païens, avaient d'innombrables dieux et la formule n'en reprend que trois: Donar (Thor), Ziu (dieu primordial indo-européen; Zeus et Ziu ont la même racine) et Wodan lui-même.

Précisons que, pour les premiers Chrétiens de Germanie, les dieux ancestraux n'étaient pas perçu comme des superstitions mais comme des forces ennemies, maléfiques, qu'il s'agissait de combattre. Le spécialiste de la question Erich Jung nous l'explique: «Pendant longtemps, l'Eglise germanique primitive n'a pas nié l'existence et l'action des dieux ancestraux, mais a combattu ces derniers comme des esprits maléfiques, des monstres, des démons. Donc, pour eux, Wodan gardait toute son influence sur les âmes non baptisées. Son Armée (Heer), sa horde, était principalement composée d'âmes d'enfants morts».

C'est la raison pour laquelle l'Eglise demandait aux anciens Germains d'abjurer leurs dieux ancestraux. Mais cette injonction ne fut pas immédiatement suivie d'obéissance: le peuple continuait d'honorer ces anciens dieux. L'Eglise fut donc obligée de changer de politique et de les christianiser, d'en faire des saints. Wodan est par conséquent le dieu qui a connu le plus d'avatars chrétiens.

Il a été transformé en archange Michel, que l'on représente tantôt avec l'attribut de Ziu (l'épée), tantôt avec l'attribut de Wodan (le manteau). A son propos, Cäsarius von Heisterbach (1180-124?), chroniqueur médiéval, cite une légende allemande, où Wodan, très manifestement, entre en scène. C'est la légende du Chevalier Gerhard von Holenbach. Un jour, le diable lui apparaît, déguisé en pélerin. Il frappe à la porte du Chevalier et lui demande l'aumône. Comme il faisait froid, le Chevalier le fit entrer et, pour la nuit, lui offrit son manteau en guise de couverture. Au petit matin, le pélerin avait disparu avec le manteau. Peu après, le Chevalier décide d'entreprendre un pélérinage au tombeau de St. Thomas en Inde. Avant de partir, il brise son anneau en deux morceaux et en donne un à sa femme, afin qu'elle conserve un signe de reconnaissance. S'il ne revient pas avant cinq ans, elle sera libre. Mais le Chevalier n'atteint le tombeau de St. Thomas qu'au jour où il aurait dû rentrer chez lui. C'est alors qu'apparaît le diable vêtu de son manteau qui, en un tour, le ramène d'un coup chez lui. Gerhard retrouve sa femme en train de célébrer son repas de fiançailles avant un autre Chevalier et lance son anneau dans une coupe. Sa femme le reconnaît et le Chevalier reprend sa place.

Le Diable joue ici très nettement le rôle de Wodan. Cäsarius von Heisterbach a sans doute transformé une vieille légende wotanique. Plus tard, au 15° siècle, la chronique suisse des Seigneurs von Stretlingen, de la région du Thurnersee, remplace, dans la même légende, le Diable par l'Archange Michel.

La Sainte Lance est, elle aussi, un ancien attribut de Wodan et même l'un des principaux. Avec sa lance, Wodan désignait les guerriers les plus braves, avant que les vierges-pages ne viennent les chercher pour les conduire au Walhall. Cette sainte lance fit partie, plus tard, des insignes de la cérémonie du couronnement des Empereurs du Saint-Empire, sous le nom de Lance de St. Maurice. A la bataille du Lechfeld contre les Hongrois, on apporta à l'Empereur Othon I la lance dite de St. Michel. La Sainte Lance joua encore un rôle décisif lors d'une bataille de la première croisade quand, en 1098, devant Antioche, les guerriers francs et normands, découragés, minés par la fatigue, ne se relancèrent à l'assaut qu'après l'apparition de la Sainte Lance.

Wodan était le protecteur de Siegfried, lorsque ce dernier terrassa le dragon. Dans la Saga de Wolfdietrich, c'est St. Georges qui reprend ce rôle. Plus tard, St. Georges lui-même tue le dragon, de la même façon que St. Michel. St. George (dont l'existence historique n'est pas prouvée) est devenu ultérieurement le protecteur des armuriers et des guerriers. Son amulette protégeait contre les coups de lance malencontreux.

Les anciennes églises dédiées à St. Michel se situent toutes au sommet de montagnes ou de collines, lieux de résidence privilégiés par Wodan. C'est particulièrement patent dans le cas du Michelsberg près de Kleebronn en Allemagne. Avant que l'on ne parle de Wodan, c'est-à-dire avant la germanisation, il y avait déjà là un lieu de culte celtique. Wodan a tout simplement remplacé la divinité celtique et, après la christianisation, St. Michel a pris le relais. Wodan et St. Michel sont tous deux des détenteurs de lances miraculeuses. Tous deux tuent des dragons et servent de guide aux âmes. Les paysans de la région nomment toujours le Michelsberg de son ancien nom: Gudinsberg ou Wudinsberg, selon les variations dialectales.

L'ethnologue Gößler précise: «Cette persistance des cultes païens s'observe partout où il y a des monts ou collines portant le nom de Michel, surtout s'il s'agit de hauteurs occupées depuis la nuit des temps, comme, par exemple, sur le fameux Michelsberg près de Bruchsal, où l'on a découvert des poteries typiques de la préhistoire, poteries qui ont permis de déterminer la civilisation préhistorique indo-européenne du Michelsberg. Idem pour le Michelsberg près de Gundelsheim, le Heiligenberg de Heidelberg et le Michelsberg-en-Zabergäu».

L'histoire du Heiligenberg près de Heidelberg signale effectivement un passage direct de Wodan à St. Michel. Un acte de Konrad I, d'août 912, en parle comme d'une colline sainte, dédiée à un archange "tout-puissant". Or, pour l'église chrétienne, les archanges ne sont jamais "tout-puissants". Cet adjectif trahit la transposition...

St. Martin est aussi un avatar de Wodan. Souvent on le représente flanqué d'une oie, l'oiseau dont le sacrifice plaisait à Wodan. M. Ninck écrit: «La transposition des traits wotaniques a dû être facilitée par l'étymologie même du nom de Martin, signifiant en fait «guerrier de Mars». St. Martin est en effet Chevalier servant et, plus tard, un exorciste qui parcourt les campagnes. Sous sa forme chevaleresque, il porte un manteau, comme tous les chevaliers, mais le caractère particulièrement sacré de son manteau prouve nettement les origines wotaniques de son culte».

Les légendes prouvent, elles aussi, le rapport étroit qui existe entre Wodan et St. Martin. Dans la région de Coblence, l'homme qui blesse une cigogne (dans la symbolique païenne, animal qui équivaut au cygne, oiseau dédié à Wodan), est menacé de la Lance de St. Martin. En Bavière, lors des moissons des dernières semaines de l'été, les paysans laissent une gerbe pour le cheval de St. Martin, comme jadis ils en laissaient une pour le cheval de Wodan. Au Tyrol, la «Chasse Sauvage» s'appelle la Martinsgestämpe et l'on dit aussi que, derrière la Horde Sauvage, trotte une oie difforme, animal lié à St. Martin.

St. Martin est aussi magicien et sa fête, le 11 novembre, est célébrée à une époque de l'année où, jadis, on fêtait Wodan. Cette fête a repris à son compte bon nombre de traits du culte wotanique. Elle se célèbrait de nuit, avec des feux. On tuait des oies et l'on buvait la Minne de Wodan, comme on boit aujourd'hui la Minne de St. Martin.

Lors de la bénédiction des chiens à Vienne, célébration qui remonte au 10° siècle et est également une transposition d'un vieux rite wotanique, on évoque St. Martin comme patron protecteur des chiens (car Wodan, jadis, était accompagné de loups ou de chiens). A Bierdorf dans le Westerwald, se trouvent des tumuli germaniques, autour d'une colline nommée Martinsberg, jadis vouée à Wodan.

St. Oswald est sans doute aussi un avatar de Wodan, dont l'un des surnoms était précisément Oswald. Le passage du dieu païen au saint chrétien (?) est facilement repérable: une colonne de la nef principale de l'église abbatiale d'Alpirsbach dans le Württemberg nous montre encore Wodan accompagné de ses deux corbeaux Hugin et Munin. Une gravure sur bois datant de 1500 environ, nous présente, elle, St. Oswald avec deux corbeaux...

St. Cuthbert de Durham est représenté avec la tête tranchée d'Oswald: autour de lui, des cygnes, animaux wotaniques. Rappelons-nous que Wodan, dans l'Edda, enmenait toujours avec lui la tête tranchée de Mimir. Les cygnes sont, eux, inséparables des Walkyries, les vierges-pages de Wodan.

Mais l'avatar le plus aimé de Wodan est sans conteste St. Nicolas, qui offre des cadeaux aux enfants. Sa fête, le 6 décembre, n'a pratiquement rien à voir avec le saint historique, un évêque d'Asie Mineure. St. Nicolas est un saint qui a même réussi à résister au protestantisme dans le Nord des pays germaniques. Dans certains régions, il est assimilé à la vieille figure de Knecht Rupprecht (le «Gaillard Robert»), dans lequel on reconnaît sans difficulté Wodan. St. Nicolas porte souvent, comme lui, un bonnet de fourrure, une longue barbe soyeuse et il voyage dans un traîneau tiré par des rennes. Dans les régions catholiques, il est encore habillé comme un évêque, avec une mitre et une crosse et il accompagne Krampus, avatar du Diable.

L'Eglise chrétienne a donc pratiqué deux politiques à l'égard de Wodan: d'une part, elle a conservé son souvenir sous les oripeaux d'une quantité de saints; d'autre part, elle en a fait un diable et un méchant démon. Son surnom glorieux des temps païens, der Rabenase (L'Ase aux corbeaux), est devenu une injure, Rabenaas (carogne). Wodan est devenu le meneur de la terrible chasse sauvage, le seigneurs des démons. Dans quelques régions d'Allemagne, on brûle des effigies de Wode, Gode ou Gute lors du solstice d'été, devenu, sous l'impulsion de l'Eglise, les feux de la St. Jean. Mais Wodan, dans l'âme du peuple, a résisté à toutes les tentatives de christianisation.

Otto Rudolf BRAUN.

(Source: Germanische Götter - Christliche Heilige. Über den Kampf der Christen gegen das germanische Heidentum, Verlag Hohe Warte, Pähl/Obb., 1979; adaptation française: Robert Steuckers).

 

Dionysische wijsheid

Dionysische wijsheid

vendredi, 30 mai 2008

Ernst L. Krause et le mythe de la "Fille-Soleil"

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Synergies Européennes – Bruxelles / Commission “Traditions” - Mars 2004

Ernst L. Krause : l’archéologue qui s’est penché sur les labyrinthes et le mythe de la “Fille-Soleil”

Le 22 novembre 1839, naissait à Zielenzig en Allemagne Ernst Ludwig Krause, qui sera le premier éditeur de la revue Kosmos, consacrée aux sciences naturelles et écologiques avant la lettre. Ernst L. Krause exprime sa pensée organiciste et écologiste dans un ouvrage en deux volumes, paru en 1876, réédité en 1906 : Werden und Vergehen (= Devenir et passer). Il se considérait comme un disciple du philosophe “tellurique” Carl Gustav Carus, qui avait développé au 19ième siècle, dans le sillage du romantisme, une “philosophie de la terre” et de la Vie, dont l’objectif était de faire table rase de toutes les abstractions philosophiques, désincarnées, déracinées, qui avait conduit la pensée européenne au nihilisme.

Mais, en dépit de son importance pour le développement de la pensée organique et pré-écologique, et pour les idées exprimées dans la revue Kosmos, Ernst L. Krause acquerra surtout la célébrité pour ses thèses audacieuses sur la préhistoire nord-européenne. Un Nord lointain, le “Tuisko-Land” était la patrie originelle des peuples européens, avançait-il, et, par voie de conséquence, le domaine initial des dieux tutélaires, lesquels ne sont rien d’autre que les aïeux divinisés de nos peuples. Pour étayer sa thèse, Krause s’est basé sur les Védas, l’Edda, l’Iliade et l’Odyssée, dont il était un fervent et attentif lecteur.

Sa thèse principale concerne cependant les labyrinthes, dont on a retrouvé un grand nombre en Europe du Nord, en Scandinavie. La construction de ces labyrinthes de pierres dressées repose sur un mythe très ancien, propre à ces régions : l’enlèvement et l’emprisonnement de la “Fille-Soleil” (Syrith, Brunhilde, Ariane, Hélène). Autour de ce mythe très ancien des peuples européens se sont développés toutes sortes de rites, rituels, danses (notamment des danses de l’épée), pour fêter, chaque année au printemps, la libération de la “Fille-Soleil”. Blanche-Neige n’est jamais qu’un conte enfantin qui reprend la même thématique. Blanche-Neige est effectivement une “Fille-Soleil”, qui sera libérée par le bon chasseur, pour rayonner et houspiller, par sa blanche beauté, la méchante reine, symbole de la lune hivernale, qui brille de ses plus beaux feux en janvier et en février, mais dont l’indéniable splendeur devra céder face à la Lumière, plus resplendissante encore, du Soleil, de la “Fille-Soleil”, qui revient, triomphante, libérée, chaque printemps. Ernst L. Krause meurt en 1903, en nous laissant une œuvre que redécouvrent aujourd’hui les spécialistes de la préhistoire et de la proto-histoire.
 

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