Ok

En poursuivant votre navigation sur ce site, vous acceptez l'utilisation de cookies. Ces derniers assurent le bon fonctionnement de nos services. En savoir plus.

samedi, 25 mai 2019

Il Kairós

Kairos_bassorilievo.jpg

Il Kairós

Massimo Selis

Ex: http://www.ilpensieroforte.it

«There is a crack, a crack in everything / That's how the light gets in (Vi è una crepa, una crepa in ogni cosa / È così che la luce entra)» cantava Leonard Cohen in Anthem.

L’arco di questo ultimo scorcio di modernità, nella fattispecie, la sua esternazione tecnologica, ha finito la sua corsa. La curva che si distendeva ampia fino a qualche decennio fa, ora si stringe chiudendo verso i bracci. Rigettato tutto ciò che avesse anche solo un’ombra sbiadita della millenaria Tradizione che ci precede, essa ha regalato agli uomini un nuovo credo costruito su facili slogan: libertà, progresso, democrazia, e altri simili. Dalle macerie della guerra essa si è innalzata esibendosi maestosa fino alla fine dello scorso secolo. Ma gli acciacchi della vecchiaia si facevano intravedere; ora però sono divenute metastasi di un corpo decadente.

Il tempo della Storia, infatti, non si sviluppa in modo differente da quello di ogni uomo, che nasce, cresce, si sviluppa e solidifica durante l’età adulta, fino a scivolare nella vecchiaia che conduce alla morte. Così i cicli, così le ere e i regni. Lo svolgersi lineare e indefinito del tempo lungo gli eoni è abbaglio per gli sciocchi e gli insipienti.

Le crepe si stanno aprendo sempre più ampie e prepotenti: crisi economica, scontri sociali e ideologici, conflitti, eventi catastrofici. La sofferenza e la tragicità esprimono il volto esteriore, ma il male, suo malgrado, lavora sempre anche per un risveglio del bene: queste sciagure possono essere anche, in fondo, una benedizione per chi ha occhi per vedere. La facciata posticcia e illusoria della modernità sta cadendo a pezzi, lasciando intravedere fra le sue crepe, una nuova strada, l’ingresso nella Nuova Umanità redenta.

«È giunto il momento di riconoscere i segni dei tempi, di coglierne le opportunità e guardare lontano». Se rettamente intese, queste parole di Giovanni XXIII a pochi giorni dal suo beato transito, sono un monito e un indirizzamento. Eppure proprio qui sorgono tutti i limiti e le paure dell’uomo moderno, anche di quei pochi che oggi non si arrendono alla dittatura del pensiero unico.

caption.jpgIl primo di questi è per l’appunto, il non saper leggere i segni, perché in fondo ad essi non crediamo affatto. Invero, ogni cosa nell’Universo Creato è segno, o per meglio dire, simbolo, di qualcos’altro. Questa è certezza di ogni Sapienza Tradizionale, anche e soprattutto di quella cristiana. La Storia, d’altro canto non è semplice successione di eventi, bensì Storia Sacra che si svolge dall’alfa all’omega secondo un superiore disegno di Provvidenza. Pertanto all’uomo il cui intelletto non è ancora stato sigillato non possono sfuggire i segni che continuamente essa ci presenta. Solo un’opera di cultura può colmare tale ignoranza e portare ad un primo risveglio dei sensi interiori.

Tuttavia, pur avendo compreso in quale tragico punto della navigazione cosmica ci troviamo, occorre passare all’azione per il tempo che ci verrà concesso, poco o tanto che sia. Per fare ciò dobbiamo passare dalla cecità dell’Io alla lucidità del Noi. L’individualismo liberista sembra aver vinto per il momento, bisogna ammetterlo. Dobbiamo allora comprendere che nulla è possibile senza la comunione di liberi spiriti, comunione che è molto più che semplice comunità. Il singolo non può nulla nella bolgia modernista. Solo all’interno di una civiltà si è potuto creare in passato cultura e bellezza. Solo nella comunione ci si può prendere cura della vocazione di ognuno.

Creare, per l’appunto. Oggi si assiste a timidi e spesso solo moralistici tentativi di opposizione, gesti difensivi e nulla più. Ma l’uomo ha la dignità che gli spetta solo quando crea. Le gemme dell’intelletto come i capolavori dell’arte nascono dalla forza misteriosa che spinge verso quell’ordine celeste dal quale tutti fummo generati: uomini e cosmo. La bellezza non può nascere dalla paura, ma solo dalla sapiente speranza!

Secondo una tradizione, la capacità mantica dell’oracolo delfico derivava dalle esalazioni provenienti da una spaccatura nel terreno. Questo è il tempo in cui fumi di luce promanano dal cadavere della modernità: occorre leggerne il significato profetico. Questo è il tempo in cui bisogna vincere la schiavitù delle consuetudini e divenire umili servitori della Verità. Questo è il tempo in cui un manipolo di uomini liberi è chiamato a creare con fedele spirito cavalleresco quel poco di Giustizia e Bellezza che renderà meno dura la caduta di “questo mondo” e preparerà quello a venire. Questa è l’ora, il kairós, e non può essere disattesa.

jeudi, 16 mai 2019

Spirito classico - cristianesimo: le tesi di Walter Friedrich Otto

panneggio-statueclassiche.jpg

Spirito classico - cristianesimo: le tesi di Walter Friedrich Otto

Giovanni Sessa

Ex: https://www.ereticamente.net

auWO.jpgNel corpo della cultura europea scorre sangue «pagano». A muovere dal Settecento, filosofi, storici delle religioni e artisti, si sono prodigati nel tentativo di far riemergere le sorgenti più arcaiche della nostra cultura, richiamando l’attenzione sul suo effettivo ubi consistam. Anzi, questo sforzo è ancora in corso: si pensi, tra i tanti esempi che si possono fare in tema, alla valorizzazione del mondo pre-cristiano, presentata, nella propria opera, da Evola o, più recentemente, da autori quali Marc Augé e Alain de Benoist. Un ruolo rilevante, in tal senso, nel secondo decennio del «secolo breve», lo ha svolto il filologo svevo e storico delle religioni, Walter Friedrich Otto. Il suo lavoro più noto, Gli Dei della Grecia, fu in qualche modo preparato da un libro che egli pubblicò nel 1923, Spirito classico e mondo cristiano, di cui è recentemente apparsa la seconda edizione italiana, per i tipi de L’arco e la Corte (per ordini: arcoelacorte@libero.it, pp. 174, euro 15,00). Si tratta, come ricorda Giovanni Monastra, nell’informata e stimolante Prefazione, di un testo nel quale l’autore mostrò, in tutta la sua forza e con invidiabile spessore erudito, l’attrazione empatica per il mondo classico e, in particolare, per la religiosità ellenica.

La potenza teorica del volume, la si spiega tenendo in debito conto alcuni dati biografici dell’autore, riferiti opportunamente dal prefatore. Otto si formò a Tubinga, nel medesimo Stift teologico nel quale avevano studiato Hegel, Schelling ed Hölderlin. Dopo aver seguito brillanti studi filologici, a Monaco incontrò il filosofo Klages e frequentò gli ambienti del Kreis di Stefan George. Fu, inoltre, attratto dagli studi di Leo Frobenius, dai quali trasse l’idea del Weltbild (immagine del mondo), che gli permise di decodificare l’essenza della civiltà ellenica. Fu vicino agli ambienti aristocratico-conservatori e, perciò, antinazisti, della Germania segreta: ciò lo costrinse ad insegnare in un’Università «periferica», quella di Könisberg, dove rimase fino all’arrivo dell’Armata rossa nel 1944. Fu sottoposto, dopo la guerra, ad una serie di controlli preventivi, ma evitò l’epurazione e continuò ad insegnare fino al momento del decesso avvenuto nel 1958. Frequentò, tra gli altri, Heidegger, Kerény e Pettazzoni.

9788894296655_0_306_0_75.jpgIn Spirito classico e mondo cristiano, sono presenti: «lampeggianti intuizioni e utili indicazioni che consentono di vedere con occhi nuovi il mondo religioso ellenico» (p. 13). Otto cerca, in ogni modo, di far parlare i Greci e i loro dei, con la voce che gli fu propria. Fino ad allora, infatti, il clamore millenario prodotto dalla cultura dei vincitori, nella contesa storica sviluppatasi nel IV secolo d.c., quella cristiana, aveva impedito di cogliere il senso ultimo della visione del mondo ellenica. La critica al cristianesimo di Otto è radicale, i toni polemici decisamente aspri, in alcuni passaggi rasentano l’invettiva. Per questo, successivamente, il filologo non si riconobbe del tutto in tali affermazioni e non volle che questo studio fosse nuovamente pubblicato (la precedente edizione italiana uscì nel 1973, ad insaputa della figlia dello studioso). Il libro è scritto sotto il segno di Nietzsche. Come il filosofo dell’eterno ritorno, anche Otto distinse l’originario insegnamento del Cristo, insieme a Socrate considerato ultimo esempio di vita persuasa, dalla successiva dottrina cristiana, esito del travisamento teologico operato dalla tradizione paolino-agostiniana. In ogni caso, quale idea ha Otto della religio greca?

Egli era convinto che i poemi omerici: «contenessero il paradigma più alto della concezione olimpica del divino» (p. 14). Quella omerica era religio virile, fiera, senza uguali nella storia delle religioni. Punto apicale mai più raggiunto, in quanto in essa gli dei venivano invocati in piedi, il greco guardava negli occhi, senza alcun timore reverenziale i propri numi. Non conosceva le genuflessioni cristiane ed asiatiche, di fronte al divino. Questo era inteso quale manifestazione improvvisa, suscitante, al medesimo tempo, meraviglia e sconcerto. La coscienza del singolo era conciliata con i ritmi e le misure che si manifestavano nel cosmo, nessun greco conobbe mai la “cattiva coscienza”, triste novità introdotta dal cristianesimo. Con la sua irruzione si iniziò ad avvertire: «una opposizione tra il mondo sconvolto e disperato dell’anima, agitata sempre da tormenti e turbamenti […], e il mondo olimpico della forma» (p. 16). La natura, avvertita in precedenza quale epifania del divino, venne progressivamente esperita in termini desacralizzati e ridotta alla mera dimensione della quantità.

9788845977350_0_0_626_75LLLLL.jpgI Greci, al contrario, non conobbero mai la fides, la loro religio della forma era, in realtà, un susseguirsi di esperienze, di realizzazioni del sacro, da parte dell’uomo. Il tratto politeista consentiva loro di apprezzare i diversi volti dell’Uno e di viverli, di farne esperienza. A ciò contribuivano il mito e il culto. Nel secondo: «è l’uomo che si innalza al Divino, vive e agisce in comunione con gli dei; nel mito è il divino che scende e si fa umano» (p. 21). Il rapporto uomo-dio si manifestava, come rilevato da Rudolf Otto, nell’endiadi Io-Esso. Si trattava, pertanto, di una relazione centrata sull’ethos, sul modo d’essere (Evola avrebbe detto “razza dello spirito”) e non sul pathos, sulla dimensione emotiva e sentimentale. Il trionfo del cristianesimo rese esplicito che il mondo antico aveva perso la propria anima, vale a dire quest’atteggiamento paritetico degli uomini nei confronti degli dei. Ecco perché alla «buona novella» aderirono gli ultimi, i diseredati e le donne, che divennero strumenti mortiferi per lo spirito classico. In quel frangente, pochi tentarono una resistenza. Si ersero in pochi, ricorda Otto, sulle rovine di un mondo al tramonto per proclamarne la grandezza, tra essi Giuliano Imperatore. Monastra ipotizza, e la cosa va segnalata, che Evola, avrebbe potuto trarre il titolo del suo, Gli uomini e le rovine, proprio da un passo del libro del filologo tedesco, che certamente lesse.

Condividiamo l’esegesi della relazione paganesimo-cristianesimo che questo volume presenta. Forse, come rileva il prefatore, è eccessivo sostenere, come fece Otto, l’unicità religiosa della Grecia. Resta il fatto, però, che la loro fu una religione della realtà: «alla quale risulta del tutto estranea la “fede” in qualcosa di “totalmente altro”» (p. 33). In conclusione, vogliamo qui ricordare quanto, a proposito dell’originario cristianesimo, ebbe a sostenere il filosofo Andre Amo: questa religione avrebbe rappresentato un ritorno dei culti agrari, cosmici, che nel mondo antico si era mostrati a latere del dionisismo, di contro al rigido monoteismo ebraico, imparentato con la religione apollinea. Un considerazione non dissimile da quella fatta propria dal tedesco, alcuni anni dopo la pubblicazione dello Spirito classico e il mondo cristiano.

Giovanni Sessa

lundi, 08 avril 2019

Yggdrasil - l'arbre mondes

weltesche.jpg

Yggdrasil - l'arbre mondes

Yggdrasil est au cœur de la mythologie nordique dont il relie les neuf mondes.
Mais quelle est son histoire ?
Plus d'info sur le site ici: http://mythesetlegendes.wix.com/mythe...
Vidéo d'introduction: Yann Texte/montage/voix: illifire
Musiques: DC Love Go Go - Silent Partner Donors - Letter Box
Ending template: RAVEN DESIGN
 
Bibliographie:
BOYER Régis, L'Edda poétique, éd. Fayard, Daumont, 2010
BOYER Régis, Snorri Sturluson, le plus grand écrivain islandais du Moyen Âge, éd. Orep, coll. Héritages Vikings, Bayeux, 2012
Dillmann F.-X., L'Edda, récits de mythologie nordique par Snorri Sturluson, éd. Gallimard, coll. L'aube des peuples, 2014
DUMEZIL Georges, Mythes et dieux des Indo-Européens, Loki, Heur et malheur du guerrier, éd. Flammarion, Lonrai, 2011.
GUELPA Patrick, Dieux et mythes nordiques, éd. Presses Universitaires du Septentrion, Paris, 1998
KERSHAW Kris, The One-eyed God, Odin and the (Indo-)Germanic Männerbünd, Journal of Indo-European Studies Monograph Number Thirty-Six, Washington D.C., 2000.
MIRZA Sandrine, La mythologie, éd. Gallimard Jeunesse, coll. Tothème, Paris, 2010.
STURLUSON Snorri, Edda, récits de mythologie nordique, éd. Gallimard, France, 2014
THIBAUD Robert-Jacques, Dictionnaire de mythologie et de symbolique nordique et germanique, éd. Dervy, Clamecy, 2009.
 

samedi, 15 décembre 2018

Myth, Satire, and Lucian’s “True History”

NoWE3q7_sYZQ8dyAC4un5s6x3v0.jpg

Myth, Satire, and Lucian’s “True History”

Ex: http://www.theimaginativeconservative.org

For the ancient myth-maker, there is something at the heart of all of human events that is worth preserving, something marvelous and worthy of renown, even if the account is not entirely true to life…

The second-century satirist, Lucian of Samosata, makes the following inflammatory statement in his True History:

[Historical accounts] are intended to have an attraction independent of any originality of subject, any happiness of general design, any verisimilitude in the piling up of fictions.…I fall back on falsehood — but falsehood of a more consistent variety; for I now make the only true statement you are to expect — that I am a liar. This confession is, I consider, a full defence against all imputations. My subject is, then, what I have neither seen, experienced, nor been told, what neither exists nor could conceivably do so.

For Lucian, the end of his own peculiar history is to “loosen the mind so that it is in better form for hard study.” While he mentions several “lying” authors by name, and spends a majority of his time in A True History lampooning their accounts; his main argument against these ancient poets, historians, and philosophers is that they “have written many monstrous myths,”[1] following in the tradition of Odysseus, and meant to deceive and overawe the uneducated. Meanwhile, he presents his own narrative as a “new subject, in pleasing style,” with clever references to these same ancient poets, philosophers and historians, “in order that I would not alone lack in the of share myth-making”[2].

Lucianus.jpgLucian, in response to the poet’s fancy, intends to compose an account in which there is no pretense at truth, and which will surpass the work of the poets because he, at least, has openly declared himself a liar. His goal is to provide a pleasant literary spectacle for the entertainment of his highly educated audience, not unlike the various gladiatorial matches that took place in his own day. But, by describing “myth-making” (mythologeo) in this way, he has misunderstood and therefore, unjustly butchered the goal of the poet, the historian, and the philosopher. For the goal of the ancient myth-maker is not to create an entertaining story or a perfectly accurate description, but to explore and explain aspects of the human experience.

Myth in the Ancient World

 

However, before we condemn Lucian too harshly, let us try to understand what he means by “myth.” The troublesome word mythos within its various classical contexts includes definitions ranging from simply “word” (close to the meaning of logos), to the more modern connotation of myth as purely false. Monica Gale, in her work on Myth and Poetry in Lucretius, describes this progression throughout Greek literature: “[Mythos] is frequently employed as a blanket term for anything about which the author is skeptical. Thus Herodotus criticizes the [muthoi] of Homer and the poets only to be reprimanded by Thucydides and Aristotle for his acceptance of [to mythodes] (‘that which resembles mythos’).” Lucian himself follows in this critical tradition, equating the historians’ mythical accounts with those of the ancient rhetoricians, who are concerned with the persuasive power of their accounts, rather than their veracity (puxagogiai). This distinct dilemma, as presented by Lucian and other critics regarding the complete truth or falsity of an account is, according to Gale, misleading at best.

While the term “myth” itself falls into the category of mere falsehood (pseudees) in Lucian’s case, a classical understanding of mythos as its own distinct genre remains. There are two main criticisms that follow the genre as such: that myth is either impious or irrational. These are the basis of Plato’s objection to myth his Republic, saying that it causes confusion within the soul because of its misrepresentation of reality and that it ought not to be recited to any “listeners who do not possess, as an antidote, a knowledge of its real nature,” (Plato X.605c, 595b). However, while Plato and Lucian condemn the myths of Homer, these same myths nevertheless continued to function as the basic source of truth in the education of the Greek world, and even serve to inspire Socrates himself in his allegorical creation of the City in his Republic dialogue.

The Philosopher’s Art of Myth-making

If the purpose of myth-making lies outside of its accuracy, then it must serve some other purpose. We have already seen how Plato condemns the poets in his Republic; however, in excluding the poets from the ideal City, he “put[s] himself to shame and condemn[s] himself when he condemns by word, those who are indeed his fellow-workers and models,” as Carleton L. Brownson argues. Indeed, Strabo, a Roman historian who wrote concerning the study of geography about one hundred years before Lucian, describes the poets themselves as “creative philosopher[s]” (philosophian teen poieetikeen). Strabo goes on to make the distinction between the “fable-making old wife” who invents “whatever she deems suitable for the purposes of entertainment,” and the poet who “’invests’ the hearer with special knowledge.” To illustrate this, he describes Odysseus as a man whose wiliness came not from his skillful rhetoric but from the substance of past experience. In Strabo’s mind, the substance of a poet is not his rhetorical abilities, but the combination of both wisdom and rhetoric; to quote Homer, “’But when he uttered his great voice from his chest, and words like unto snowflakes in winter, then could no mortal man contend with Odysseus.’” Odysseus is so persuasive because he understands a deeper truth that exists in reality and cannot be adequately expressed except in fables.

On the other hand, Lucian views Odysseus as a charlatan,[3] who merely uses his rhetoric to enchant the Phaeacians and gain their favor. His argument is that Odysseus could not have had any experience that would support or add substance to his story and that he was intentionally trying to deceive his audience. Lucian takes this more secular view of myth throughout his works, often referring to it as a pleasing kind of rhetoric, rather than a mode of conveying abstract or abstruse realities. In Lucian’s Lover of Lies, he says that the common people “prefer a lie to the truth simply for its own merits… now what good can they get out of it?” Lucian, again, berates the historians and poets as he did in his introduction to his True History, blaming them for not only deceiving their listeners but using the power of rhetoric to perpetuate ignorance in the people. He offers some defense of the poets, saying that these myths capture the attention of the audience and add luster to the mundane; however, this is the only defense that he gives, and he does not admit any additional substance outside of this rhetorical appeal.

Historians Following in the Poetic Tradition

Herodotus, the historian that Lucian mocks the most in his narrative, begins his own accounts by stating two basic goals: first, “that neither the deeds of men may be forgotten by lapse of time”; and second, that “the works great and marvelous, which have been produced some by Hellenes and some by Barbarians, may [not] lose their renown.” As Lucian and other later historians are so eager to point out, if Herodotus, as a historian, meant to preserve the accuracy of the stories, then he has sadly failed in this respect, because his accounts are either completely fantastic or sadly misinformed. However, that is not what he has told us in the proem. Marc Bloch, in his book on the historical method, describes the element of humanity that is necessary in any historical narrative: “There must be a permanent foundation in human nature and in human society or the very names of man or society become meaningless.” While a perfectly scientific account of any historical event is often considered impossible—even Herodotus admits this in his investigations, quoting the accounts of a variety of sources—he, Herodotus, seems to believe that there is something at the heart of all these human events that is worth preserving, something marvelous and worthy of renown, even if the account is not entirely true to life. Herodotus’ idea of the central meaning of the human existence or the human essence is something that cannot be explained through facts; it is explained in the “great deeds of men.” David Grene elaborates on this point in his introduction to his translation of The Histories: “Herodotus certainly believed in the universal characteristics of the human imagination… He is interested in the eccentricities of men’s beliefs and practices, [for] he is sure of a common core where men think and feel alike.” As Marc Bloch says: “The historian’s job is to make sense of the nearly infinite expanse of historical evidence, just as the poet’s is to make sense of the equally infinite expanse of human experience.”

In that sense, Herodotus, follows the same literary tradition as Homer and Hesiod. The chief difference lies in who controls the actions of history: While Homer and Hesiod focus on the actions of gods, and invoke their aid as they begin their works, Herodotus seeks to understand mankind and his deeds, as we saw in his proem. He, therefore, does not invoke the gods for inspiration but rather calls on his sources for aid in narrating his account, jumping straight from his proem to the varied accounts given by the Persians as to the cause of the Persian war with the Assyrians. Truesdell S. Brown, in his work on The Greek Historians, describes Herodotus’ approach, to history in much the same terms: “Herodotus’ methods cannot be easily reduced to a stylistic formula…[and] he lived well ahead of the formulation of specific rules for prose composition.” The reason why his style is so notoriously hard to track, as many classical critics of Herodotus have observed, is that he is not concerned with the accuracy of his account; indeed, he often casts doubts on his own narrative. His goal is to meditate on and make sense of the “works great and marvelous, which have been produced some by Hellenes and some by Barbarians, [so that they] may [not] lose their renown.” He never makes the pretense at a truly aleethee account, rather, he intends to “publish his findings.”

Modern Defenses of Myth

Within any iteration of truth, the limitations of language, time, and space act as rigorous editors. However, to merely convey accurate factual information is not the same as understanding what it means. The responsibility of the poet, the philosopher, or the historian is to understand and convey a meaning that draws from and explains the significance of the facts. Lucian’s True History serves neither of these ends, for he neither presents anything constructive “[having] nothing true to tell,” nor does he have any experience, “not having any adventures of significance.” In his narrative, he is only critiquing that which is already obvious to his readers, and fostering a kind intellectual pride and chronological snobbery by rejecting the accounts of the ancients. Alexander Pope, a Neo-Classical poet, describes this type of critic in his Essay on Literary Criticism:

The bookful blockhead, ignorantly read,
With loads of learnéd lumber in his head,
With his own tongue still edifies his ears,
and always list’ning to himself appears.

In Pope’s mind, the critic must possess “a knowledge both of books and human kind,” as well as “a soul exempt from pride.” This is in keeping with the classical understanding of education as “encompass[ing] upbringing and cultural training in the widest sense,” with poetry and the poets at the center. The poets in the ancient world not only served as a style guide for other authors but as the foundation for the entire culture, providing an understanding of how to find the answers from the variety of human experience.

C.S. Lewis, another illustrious student in the classical vein, offers a defense of myth along much the same line in his essay “On Stories.” Here Lewis describes the goal of “story” as similar to that of art, by which “we are trying to catch in our net of successive moments something that is not successive…. I think it is sometimes done—or very nearly done—in stories.” Additionally, J.R.R. Tolkien offers his own defense of myth in his essay, “The Monsters and the Critics”“The significance of a myth is not easily to be pinned on paper by analytical reasoning. It is at its best when it is presented by a poet who feels rather than makes explicit what his theme portends; who presents it incarnate in the world of history and geography, as our poet as done.” This idea is in no way limited to the religious sphere, for both Friedrich Nietzsche in his Birth of Tragedy and Albert Camus in his essay “On Sisyphus” have attested to the inimitable power of myth to express that which is inexplicable about the nature of the universe: “Whatever is profound loves masks,” Nietzsche writes. “Every profound spirit needs a mask.”

Conclusion

By reducing these storytellers to this false dichotomy of pure truth and pure falsehood, Lucian has eviscerated philosophy and history, and left mankind with a meaningless string of facts, dates, abstractions, and reflections. In daring to suppose himself above the gods, he has, intentionally or unintentionally, pitched himself from the height of learning into the void of meaningless abstraction. He does not foster an attitude of learning, but rather a callous existentialism that will cauterize the natural affections of the human heart, rotting the core from the center of a society, and leave the human race, in the end, utterly blind, deaf, and dumb.

Lucian has a full understanding of what he was doing when he uses the terms muthos and mythologeomai to describe the efforts of philosophers, poets, and historians. His concern is for those who have taken the mythos for aleethees (accurate truth), and is speaking up on their behalf. However, this does not justify his dismissal of myth as a genre, nor does his satire constructively contribute to the discussion of meaning in poetry, philosophy, or history. Not only that, but Lucian’s criticism is a sign of a deeper and more troubling problem: that is, the great divorce of the intellectuals from a simple understanding of the world and human nature. Lucian thinks that he has seen through the poets to something greater when, in reality, he has destroyed any hope of finding meaning in the culture that surrounds him.

The Imaginative Conservative applies the principle of appreciation to the discussion of culture and politics—we approach dialogue with magnanimity rather than with mere civility. Will you help us remain a refreshing oasis in the increasingly contentious arena of modern discourse? Please consider donating now

Notes:

[1 ] “πολλὰ τεράστια καὶ μυθώδη συγγεγραφότωv” (“putting these many lies and myths to paper”)

[2] “ἵνα μὴ μόνος ἄμοιρος ὦ τῆς ἐν τῷ μυθολογεῖν ἐλευθερίας” (“in order that I myself am not left out of this

myth-making”)

[3] “διδάσκαλος τῆς τοιαύτης βωμολοχίας” (“the teacher of these mendicants”)

Works Cited:

Bloch, Marc. The Historian’s Craft. Vintage Book, 1953.

Brown, Truesdell S. Greek Historians. D.C. Heath and Co, 1973.

Gale, Monica. Myth and Poetry in Lucretius. Cambridge University Press, 2007.

Grene, David. “Introduction,” History of Herodotus. University of Chicago Press, 1987.

Herodotus. The History of Herodotus, trans. G. C. Macaulay. 1890 edition.

Lewis, C.S. On Stories and other Essays on Literature. ed. Walter Hooper. Harcourt Brace Jovanovich, Publishers, 1983.

Lucian. A True History. Trans. A.M. Harmon. Loeb Classical Library: Harvard University Press, 1913.

Lucian. “A True History”. The Complete Works of Lucian. Vol III. trans. H.W. Fowler and F.G. Fowler. Oxford University Press, 1949.

Lucian. “The Liar (ΦΙΛΟΨΕΥΔΗΣ Η ΑΠΙΣΤΩΝ)”. The Complete Works of Lucian. Vol III. trans. H.W. Fowler and F.G. Fowler. Oxford University Press, 1949.

The Oxford Classical Dictionary. Eds. Hornblower, Simon, and Antony Spawforth.

Nietzsche, Fredrich. Beyond Good and Evil. trans. Walter Kaufmann. Vintage Books. 1989.

Plato. Republic. Plato, Complete Works. ed. Cooper. Hackett, 1997.

Strabo. The Geography of Strabo. trans. Horace Leonard Jones. Loeb Classical Library: Havard University Press, 1913.

Tolkien, J.R.R. “Beowulf: On the Monsters and The Critics.” On The Monsters and The Critics and Other Essays. ed. Christopher Tolkien. Harper Collins, 2007. pp 103-120.

Twain, Mark. The Adventures of Huckleberry Finn. Penguin Classics, 2005.

Renehan, Robert, and Henry George Liddell. Greek Lexicographical Notes: A Critical Supplement to the Greek-English Lexicon of Liddell-Scott-Jones. Göttingen: Vandenhoeck und Ruprecht. 1975.

Editor’s Note: The featured image is “Sapho embrassant sa lyre” by Jules Elie Delaunay (1828-1891), courtesy of Wikimedia Commons. The image of Lucian is a speculative portrayal taken from a seventeenth-century engraving by William Faithorneis, courtesy of Wikipedia.

vendredi, 30 novembre 2018

Krampus Night

59766060b5fd6bac186917d98023781d1.jpg

Krampus Night

Ex: https://phosphorussite.wordpress.com 

The Feast of Saint Nicholas, the Saint of Children, is celebrated in many European countries on the 6th December. The day before is known in Austria as Krampusnacht or Krampus Night, a time when Krampus walks the streets and visits people’s homes to punish naughty children. Krampus is described as half demon, half goat, and has black or brown fur and the cloven hooves and horns of a goat, similar to the Christian Devil. He also has a long pointed tongue which lolls out. He is often depicted carrying chains which he thrashes for dramatic effect. The chains are sometimes accompanied with bells. He also carries bundles of birch branches called ruten, which is significant in many Pagan cultures. In contrast to Saint Nicholas rewarding good children with nice presents, Krampus visits the homes of naughty children and beats them with birch bundles, before leaving them the gift of coal.

‘There seems to be little doubt as to his true identity for, in no other form is the full regalia of the Horned God of the Witches so well preserved. The birch – apart from its phallic significance – may have a connection with the initiation rites of certain witch-covens; rites which entailed binding and scourging as a form of mock-death. The chains could have been introduced in a Christian attempt to ”bind the Devil”, but again they could be a remnant of Pagan initiation rites.’ – The Krampus in Styria, Maurice Bruce, 1958

In traditional parades, known as the Krampuslauf, meaning Krampus run, young men dress as Krampus and parade through the streets. Writing in 1975 about his time in Irdning, a small town in Styria, Austria, anthropologist John J. Honigmann wrote:

‘The Saint Nicholas festival we are describing incorporates cultural elements widely distributed in Europe; in some cases going back to pre-Christian times. Nicholas himself became popular in Germany around the eleventh century. The feast dedicated to this patron of children is only one winter occasion in which children are the objects of special attention; others being Martinmas, the Feast of the Holy Innocents, and New Year’s Day. Masked devils acting boisterously and making nuisances of themselves are known in Germany since at least the sixteenth century while animal masked devils combining dreadful-comic antics appeared in Medieval church plays. A large literature, much of it by European folklorists, bears on these subjects. Austrians in the community we studied are quite aware of “heathen” elements being blended with Christian elements in the Saint Nicholas customs and in other traditional winter ceremonies. They believe Krampus derives from a Pagan supernatural who was assimilated to the Christian devil. The Krampus figures persisted, and by the 17th Century, Krampus had been incorporated into Christian winter celebrations by pairing Krampus with St Nicholas.’

Extract from The Supernatural World of the Anglo-Saxons:
Gods, Folklore and the Pagan Roots of Christmas and Halloween

dimanche, 05 août 2018

Invoquons Mars, père des Européens !

marsgod.jpg

Invoquons Mars, père des Européens !

Mars, père des Européens

par Thomas Ferrier

Ex: http://thomasferrier.hautetfort.com

Il est le dieu latin de la guerre, et si son nom de Mars est connu de tous, il était également appelé Mamers et surtout Mavors, directement issu de son nom indo-européen originel *Maworts (génitif *Mawertos), désignant le dieu de l’orage et de la guerre, correspondant au dieu letton Martins et aux divinités indiennes de l’orage, les Maruts, qui font partie du cortège d’Indra. Sous d’autres noms indo-européens, Mars correspond au Thor scandinave ou au Perun slave, et bien sûr à l’Arès grec.

C’est le dieu du « printemps sacré » (uer sacrum), lorsque toute la jeunesse d’une tribu est envoyée fonder une nouvelle cité guidée par un animal sacré associée au dieu. Les Mamertins furent guidés par le dieu en personne sous sa forme physique, comme leur nom l’indique. Les Eques furent guidés par un cheval envoyé par Mars, tandis que les Taurins avaient été guidés par un taureau, les Hirpins pas un loup, les Picéniens par un pivert, et toute la nation italique, le nom originel étant Vitalia, le pays des (troupeaux de) veaux, est en réalité associée au dieu Mars.

Parmi tous les peuples et au sein des peuples latins, la cité de Rome est des plus éminentes. La tradition attribue sa fondation à deux jumeaux, Romulus et Rémus, fils de Mars et de la vestale Rhea Silvia, elle-même fille de Numitor, le roi d’Albe, et que son oncle Amulius avait fait enfermer. Les jumeaux furent protégés par un pivert et une louve envoyés par leur père. Et un couple de bergers les adopta, ignorant leur origine divine et royale. C’est ainsi que Mars fut qualifié de « père des Romains ».

Lorsque Romulus et ses hommes enlevèrent les filles sabines, les mariages furent bénis par Venus Cloacina, épouse de Mars. C’est ainsi que Rutilius Namatianus, douze siècles plus tard, dira des Romains qu’ils associent les qualités réunies de Mars et de Venus, mère d’Enée par ailleurs. C’est sous la forme d’un nuage d’orage que Mars enlèvera par la suite son fils Romulus, devenu alors le dieu Quirinus, et l’emmènera sur l’Olympe.

Père des Romains, il s’assura toujours d’intervenir aux côtés des légions face au danger et plusieurs soldats à plusieurs époques témoigneront de la présence à leur côté d’une figure puissante galvanisant leur élan guerrier. Il est vrai que les Grecs aussi chantaient le péan afin qu’Arès soit parmi eux. Protecteur de César, qui dédaigna malgré tout ses avertissements, comme lorsque le dieu fit tinter ses lances dans la Regia la veille de son assassinat, il veilla auprès d’Octavien et d’Antoine afin que le dictateur soit vengé. C’est Mars Vengeur (Ultor) qui porta la colère des légions contre Brutus et Cassius. C’était aussi Mars Vengeur qui avait incité Brutus l’ancien à chasser les rois étrusques, Brutus qui avait dédié le poignard de Lucrèce au dieu puis offert un champ à celui-ci, le Champ de Mars (Campus Martius).

A la tête des armées de la république, il était Mars Gradivus, qui parcourt le champ de bataille afin d’occire les ennemis de la cité. Et en temps de paix, il devenait Mars Quirinus, « rassembleur du peuple », et à l’occasion protecteur du blé contre la rouille, agissant en guerrier même sur le champ du paysan latin.

Par la guerre, il amenait la paix. On l’honorait comme Mars Pacifer, lorsqu’il apportait la paix, et comme Mars Pacator, quand il revenait vainqueur de la bataille. Bien avant le dieu du soleil (Sol Invictus), Mars était dit Invictus, c’est-à-dire invaincu et invincible. Il était souvent simplement vainqueur, Mars Victor, aux côtés d’une Venus Victrix l’accompagnant tout comme Nerio, Bellone et Minerve au combat.

Au sein de la légion, Mars était devant et harcelait l’ennemi, il était Propugnator. Les cris de colère des Gaulois invoquant leur dieu champion, Camulos, lui répondaient. Et lorsque la légion était triomphante, et que l’empire s’étendait, il était honoré comme dieu Propagator. C’est ainsi que les valeurs de la Rome italique s’étendaient jusque dans les provinces orientales, sans grand succès ceci dit dans ce dernier cas.
L’empereur Maxence, face à Constantin qui se tournait vers un dieu étranger, honora à son tour Mars Propagator et donna même à son propre fils le prénom de Romulus. Il reconstruit quatre-vingt temples à Rome comme l’empereur Auguste en son temps s’en était vanté dans ses Res Gestae. Et Julien lui-même voulut sacrifier à Mars avant sa guerre contre les Perses. Mais le dieu ayant envoyé des signes contraires, tout comme César avant lui, Julien négligea son message et trouva la mort au combat, transpercé d’une lance revendiquée par le parti chrétien.

Mais Mars était là en témoin silencieux lorsque l’armée européenne d’Arbogast fut écrasée par l’armée chrétienne de l’empereur Théodose. Il ne sauva pas Rome car il avait promis douze siècles, et pas un de plus, à Romulus, comme les douze vautours que ce dernier avait vus dans le ciel.

Et aujourd’hui, alors que l’Europe est menacée comme jamais elle ne l’a été de toute son histoire, et que son existence même est en question, il est temps d’invoquer la puissance de celui qui ne fut pas seulement le père des Romains mais qui est aussi celui de tous les Européens, amis de la bravoure comme les qualifiait Hippocrate il y a 2.500 ans, de tous ces *Āryōs ancestraux dont Arès porte le nom.

Mars, uigila !

mardi, 17 juillet 2018

Tolkien & the Kalevala

Finland+folklore+painting+battle+scene+viking.png

Tolkien & the Kalevala

Among the vast array of sources that influenced Tolkien in the creation of his legendarium was the Kalevala, a collection of Finnish folk poetry compiled and edited by the Finnish physician and philologist Elias Lönnrot. Much scholarship exists on Tolkien’s Norse, Germanic, and Anglo-Saxon influences, but his interest in the Kalevala is not as often discussed. 

kalevala.jpgThe Kalevala was first published in 1835, but the tales therein date back to antiquity and were handed down orally. The poems were originally songs, all sung in trochaic tetrameter (now known as the “Kalevala meter”). This oral tradition began to decline after the Reformation and the suppression of paganism by the Lutheran Church. It is largely due to the efforts of collectors like Lönnrot that Finnish folklore has survived.

Lönnrot’s task in creating the Kalevala was to arrange the raw material of the poems he collected into a single literary work with a coherent arc. He made minor modifications to about half of the oral poetry used in the Kalevala and also penned some verses himself. Lönnrot gathered more material in subsequent years, and a second edition of the Kalevala was published in 1849. The second edition consists of nearly 23,000 verses, which are divided into 50 poems (or runos), further divided into ten song cycles. This is the version most commonly read today.

The main character in the Kalevala is Väinämöinen, an ancient hero and sage, or tietäjä, a man whose vast knowledge of lore and song endows him with supernatural abilities. Other characters include the smithing god Ilmarinen, who forges the Sampo; the reckless warrior Lemminkäinen; the wicked queen Louhi, ruler of the northern realm of Pohjola; and the vengeful orphan Kullervo.

Much of the plot concerns the Sampo, a mysterious magical object that can produce grain, salt, and gold out of thin air. The exact nature of the Sampo is ambiguous, though it is akin to the concept of the world pillar or axis mundi. Ilmarinen forges the Sampo for Louhi in return for the hand of her daughter. Louhi locks the Sampo in a mountain, but the three heroes (Väinämöinen, Ilmarinen, and Lemminkäinen) sail to Pohjola and steal it back. During their journey homeward, Louhi summons the sea monster Iku-Turso to destroy them and commands Ukko, the god of the sky and thunder, to incite a storm. Väinämöinen wards off Iku-Turso but loses his kantele (a traditional Finnish stringed instrument that Väinämöinen is said to have created). A climax is reached when Louhi morphs into an eagle and attacks the heroes. She seizes the Sampo, but Väinämöinen attacks her, and it falls into the sea and is destroyed. Väinämöinen collects the fragments of the Sampo afterward and creates a new kantele. In nineteenth-century Finland, Väinämöinen’s fight against Louhi was seen as the embodiment of Finland’s struggle for nationhood.

It is likely that Finland would not exist as an independent nation were it not for the Kalevala. The poem was central to the Finnish national awakening, which began in the 1840s and eventually resulted in Finland’s declaration of independence from Russia in December 1917. It also played a role in the movement to elevate the Finnish language to official status.

The publication of the Kalevala brought about a flowering of artistic and literary achievement in Finland. The art of Finland’s greatest painter, Akseli Gallen-Kallela, is heavily influenced by Finnish mythology and folk art, and many of his works (The Defence of the Sampo, The Forging of the Sampo, Lemminkäinen’s Mother, Kullervo Rides to War, Kullervo’s Curse, Joukahainen’s Revenge) depict scenes from the Kalevala. The Kalevala has also influenced a number of composers, most notably Sibelius, whose Kalevala-inspired compositions include his Kullervo, Tapiola, Lemminkäinen Suite, Luonnotar, and Pohjola’s Daughter.

Tolkien first read the Kalevala at the age of 19. The poem had a great impact on him and remained one of his lifelong influences. While still at Oxford, he wrote a prose retelling of the Kullervo cycle. This was his first short story and “the germ of [his] attempt to write legends of [his] own.”[1] His fascination with the Kalevala during this time also inspired him to learn Finnish, which he likened to an “amazing wine” that intoxicated him.[2] Finnish was an important influence on the Elvish language Quenya.

In the Kalevala, Kullervo is an orphan whose tribe was massacred by his uncle Untamo. After attempting in vain to kill the young Kullervo, Untamo sells him as a slave to Ilmarinen and his wife. Kullervo later escapes and learns that some of his family are still alive, though his sister is still considered missing. He then seduces a girl who turns out to be his sister; she kills herself upon this realization. Kullervo vows to gain revenge on Untamo and massacres Untamo’s tribe, killing each member. He returns home to find the rest of his family dead and finally kills himself in the spot where he seduced his sister. The character of Kullervo was the main inspiration for Túrin Turambar in The Silmarillion.

kaleva8.jpg

There are a handful of other parallels. The hero Väinämöinen likely provided inspiration for the characters of Gandalf and Tom Bombadil, particularly the latter.[3] Tom Bombadil is as old as creation itself, and his gift of song gives him magical powers. The magical properties of singing also feature in The Silmarillion when Finrod and Sauron duel through song and when Lúthien sings Morgoth to sleep (as when Väinämöinen sings the people of Pohjola to sleep). Ilmarinen likely inspired the character of Fëanor, creator of the Silmarils.[4] The Silmarils are much like the Sampo in nature, and the quest to retrieve them parallels the heroes’ quest to capture the Sampo.

The animism that pervades Tolkien’s mythology (as when Caradhras “the Cruel” attempts to sabotage the Fellowship’s journey or when the stones of Eregion speak of the Elves who once lived there) also hearkens back to the Kalevala, in which trees, hills, swords, and even beer possess consciousness.

For Tolkien, the appeal of the Kalevala lay in its “weird tales” and “sorceries,” which to him evinced a “very primitive undergrowth that the literature of Europe has on the whole been steadily cutting away and reducing for many centuries . . . .” He continues: “I would that we had more of it left — something of the same sort that belonged to the English . . . .”[5]

The desire to create a national mythology for England in the vein of Lönnrot’s Kalevala was the impetus behind Tolkien’s own legendarium. Not unlike Lönnrot, he envisioned himself as a collector of ancient stories whose role it was to craft an epic that would capture the spirit of the nation. He writes in a letter:

. . . I was from early days grieved by the poverty of my own beloved country: it had no stories of its own (bound up with its tongue and soil), not of the quality that I sought, and found (as an ingredient) in legends of other lands. There was Greek, and Celtic, and Romance, Germanic, Scandinavian, and Finnish (which greatly affected me); but nothing in English . . . . I had a mind to make a body of more or less connected legend, ranging from the large and the cosmogonic, to the level of romantic fairy-story — the larger founded on the lesser in contact with the earth, the lesser drawing splendour from the vast backcloths — which I could dedicate simply to England; to my country . . . . The cycles should be linked to a majestic whole, and yet leave scope for other minds and hands, wielding paint and music and drama.[6]

Tolkien had England in mind, but his mythology is one that all whites can unite around, in the same manner that the races of the Fellowship united to save Middle-earth. The heroic and racialist themes in Tolkien’s mythology are readily apparent, and the fight against the forces of evil parallels the current struggle.

kalevala__kantele.jpg

The role of the Kalevala in Finland’s fight for independence attests to the revolutionary potential of literature and art. Tolkien’s mythology offers rich material from which to draw and indeed has already inspired many works of art, music, literature, etc., as Tolkien himself hoped.[7] Perhaps the revolution will be led by Tolkien fans.

Notes

1. J. R. R. Tolkien, The Story of Kullervo, ed. Verlyn Flieger (New York: Houghton Mifflin Harcourt, 2017), 52.

2. Ibid., 136.

3. Gandalf’s departure to Valinor also brings to mind when Väinämöinen sails away to a realm located in “the upper reaches of the world, the lower reaches of the heavens” at the end of the Kalevala.

4. Ilmarin, the domed palace of Manwë and Varda, is another possible allusion to Ilmarinen, who created the dome of the sky. The region of the stars and celestial bodies in Tolkien’s cosmology is called Ilmen (“ilma” means “air” in Finnish). Eru Ilúvatar also recalls Ilmatar (an ancient “air spirit” and the mother of Väinämöinen).

5. The Story of Kullervo, 105. This comes from his revised essay, which was written sometime in the late 1910s or early 20s.

6. J. R. R. Tolkien, The Letters of J. R. R. Tolkien, ed. Humphrey Carpenter (London: George Allen & Unwin, 1981), 144.

7. Here could be the place to note that a major exhibit of Tolkien’s papers, illustrations, and maps recently opened in Oxford and will soon be accompanied by a book (Tolkien: Maker of Middle-earth).

 

Article printed from Counter-Currents Publishing: https://www.counter-currents.com

URL to article: https://www.counter-currents.com/2018/07/tolkien-and-the-kalevala/

URLs in this post:

[1] Image: https://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2018/07/jrr-tolkien1.jpeg

[2] Image: https://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2018/07/Museum.png

vendredi, 23 mars 2018

The Black Sun: Dionysus, Nietzsche, and Greek Myth

dionys10.jpg

The Black Sun: Dionysus, Nietzsche, and Greek Myth

Gwendolyn Taunton

Ex: https://manticorepress.net


Affirmation of life even it its strangest and sternest problems, the will to life rejoicing in its own inexhaustibility through the sacrifice of its highest types – that is what I call the Dionysian…Not so as to get rid of pity and terror, not so as to purify oneself of a dangerous emotion through its vehement discharge – it was thus Aristotle understood it – but, beyond pity and terror, to realize in oneself the eternal joy of becoming – that joy which also encompasses joy in destruction…And with that I again return to that place from which I set out –The Birth of Tragedy was my first revaluation of all values: with that I again plant myself in the soil out of which I draw all that I will and can – I, the last disciple of the philosopher Dionysus – I, the teacher of the eternal recurrence(Nietzsche, “What I Owe to the Ancients”)

It is a well known fact that most of the early writings of the German philosopher, Friedrich Nietzsche, revolve around a prognosis of duality concerning the two Hellenic deities, Apollo and Dionysus. This dichotomy, which first appears in The Birth of Tragedy, is subsequently modified by Nietzsche in his later works so that the characteristics of the God Apollo are reflected and absorbed by his polar opposite, Dionysus. Though this topic has been examined frequently by philosophers, it has not been examined sufficiently in terms of its relation to the Greek myths which pertain to the two Gods in question. Certainly, Nietzsche was no stranger to Classical myth, for prior to composing his philosophical works, Nietzsche was a professor of Classical Philology at the University of Basel. This interest in mythology is also illustrated in his exploration of the use of mythology as tool by which to shape culture. The Birth of Tragedy is based upon Greek myth and literature, and also contains much of the groundwork upon which he would develop his later premises. Setting the tone at the very beginning of The Birth of Tragedy, Nietzsche writes:[spacer height=”20px”]

We shall have gained much for the science of aesthetics, once we perceive not merely by logical inference, but with the immediate certainty of vision, that the continuous development of art is bound up with the Apollonian and Dionysian duality – just as procreation depends on the duality of the sexes, involving perpetual strife with only periodically intervening reconciliations. The terms Dionysian and Apollonian we borrow from the Greeks, who disclose to the discerning mind the profound mysteries of their view of art, not, to be sure, in concepts, but in the intensely clear figures of their gods. Through Apollo and Dionysus, the two art deities of the Greeks, we come to recognize that in the Greek world there existed a tremendous opposition…[1]

Initially then, Nietzsche’s theory concerning Apollo and Dionysus was primarily concerned with aesthetic theory, a theory which he would later expand to a position of predominance at the heart of his philosophy. Since Nietzsche chose the science of aesthetics as the starting point for his ideas, it is also the point at which we shall begin the comparison of his philosophy with the Hellenic Tradition.

God-Bacchus-2.jpg

The opposition between Apollo and Dionysus is one of the core themes within The Birth of Tragedy, but in Nietzsche’s later works, Apollo is mentioned only sporadically, if at all, and his figure appears to have been totally superseded by his rival Dionysus. In The Birth of Tragedy, Apollo and Dionysus are clearly defined by Nietzsche, and the spheres of their influence are carefully demarcated. In Nietzsche’s later writings, Apollo is conspicuous by the virtue of his absence – Dionysus remains and has ascended to a position of prominence in Nietzsche’s philosophy, but Apollo, who was an integral part of the dichotomy featured in The Birth of Tragedy, has disappeared, almost without a trace. There is in fact, a simple reason for the disappearance of Apollo – he is in fact still present, within the figure of Dionysus. What begins in The Birth of Tragedy as a dichotomy shifts to synthesis in Nietzsche’s later works, with the name Dionysus being used to refer to the unified aspect of both Apollo and Dionysus, in what Nietzsche believes to the ultimate manifestation of both deities. In early works the synthesis between Apollo & Dionysus is incomplete – they are still two opposing principles – “Thus in The Birth of Tragedy, Apollo, the god of light, beauty and harmony is in opposition to Dionysian drunkenness and chaos”.[2] The fraternal union of Apollo & Dionysus that forms the basis of Nietzsche’s view is, according to him, symbolized in art, and specifically in Greek tragedy.[3] Greek tragedy, by its fusion of dialogue and chorus; image and music, exhibits for Nietzsche the union of the Apollonian and Dionysian, a union in which Dionysian passion and dithyrambic madness merge with Apollonian measure and lucidity, and original chaos and pessimism are overcome in a tragic attitude that is affirmative and heroic.[4]

The moment of Dionysian “terror” arrives when […] a cognitive failure or wandering occurs, when the principle of individuation, which is Apollo’s “collapses” […] and gives way to another perception, to a contradiction of appearances and perhaps even to their defeasibility as such (their “exception”). It occurs “when [one] suddenly loses faith in […] the cognitive form of phenomena. Just as dreams […] satisfy profoundly our innermost being, our common [deepest] ground [der gemeinsame Untergrund], so too, symmetrically, do “terror” and “blissful” ecstasy…well up from the innermost depths [Grunde] of man once the strict controls of the Apollonian principle relax. Then “we steal a glimpse into the nature of the Dionysian”.[5]

apollonooooooo.jpgThe Apollonian and the Dionysian are two cognitive states in which art appears as the power of nature in man.[6] Art for Nietzsche is fundamentally not an expression of culture, but is what Heidegger calls “eine Gestaltung des Willens zur Macht” a manifestation of the will to power. And since the will to power is the essence of being itself, art becomes “die Gestaltung des Seienden in Ganzen,” a manifestation of being as a whole.[7] This concept of the artist as a creator, and of the aspect of the creative process as the manifestation of the will, is a key component of much of Nietzsche’s thought – it is the artist, the creator who diligently scribes the new value tables. Taking this into accord, we must also allow for the possibility that Thus Spake Zarathustra opens the doors for a new form of artist, who rather than working with paint or clay, instead provides the Uebermensch, the artist that etches their social vision on the canvas of humanity itself.  It is in the character of the Uebermensch that we see the unification of the Dionysian (instinct) and Apollonian (intellect) as the manifestation of the will to power, to which Nietzsche also attributes the following tautological value “The Will to Truth is the Will to Power”.[8] This statement can be interpreted as meaning that by attributing the will to instinct, truth exists as a naturally occurring phenomena – it exists independently of the intellect, which permits many different interpretations of the truth in its primordial state. The truth lies primarily in the will, the subconscious, and the original raw instinctual state that Nietzsche identified with Dionysus. In The Gay Science Nietzsche says:

For the longest time, thinking was considered as only conscious, only now do we discover the truth that the greatest part of our intellectual activity lies in the unconscious […] theories of Schopenhauer and his teaching of the primacy of the will over the intellect. The unconscious becomes a source of wisdom and knowledge that can reach into the fundamental aspects of human existence, while the intellect is held to be an abstracting and falsifying mechanism that is directed, not toward truth but toward “mastery and possession.” [9]

Thus the will to power originates not in the conscious, but in the subconscious. Returning to the proposed dichotomy betwixt Dionysus and Apollo, in his later works the two creative impulses become increasingly merged, eventually reaching a point in his philosophy wherein Dionysus refers not to the singular God, but rather a syncretism of Apollo and Dionysus in equal quantity. “The two art drives must unfold their powers in a strict proportion, according to the law of eternal justice.”[10] For Nietzsche, the highest goal of tragedy is achieved in the harmony between two radically distinct realms of art, between the principles that govern the Apollonian plastic arts and epic poetry and those that govern the Dionysian art of music.[11] To be complete and  to derive ultimate mastery from the creative process, one must harness both the impulses represented by Apollo and Dionysus – the instinctual urge and potent creative power of Dionysus, coupled with the skill and intellectualism of Apollo’s craftsmanship – in sum both natural creative power from the will and the skills learnt within a social grouping. This definition will hold true for all creative ventures and is not restricted to the artistic process; ‘will’ and ‘skill’ need to act in harmony and concord.

apollo-chariot-1.jpg

In Nietzsche’s philosophy, Apollo and Dionysus are so closely entwined as to render them inseparable. Apollo, as the principle of appearance and of individuation, is that which grants appearance to the Dionysian form, without for Apollo, Dionysus remains bereft of physical appearance.

That [Dionysus] appears at all with such epic precision and clarity is the work of the dream interpreter, Apollo […] His appearances are at best instances of “typical ‘ideality,’” epiphanies of the “idea” or “idol”, mere masks and after images (Abbilde[er]). To “appear” Dionysus must take on a form.[12]

In his natural state, Dionysus has no form, it is only by reflux with Apollo, who represents the nature of form that Dionysus, as the nature of the formless, can appear to us at all. Likewise, Apollo without Dionysus becomes lost in a world of form – the complex levels of abstraction derived from the Dionysian impulse are absent. Neither god can function effectively without the workings of the other.  Dionysus appears, after all, only thanks to the Apollonian principle. This is Nietzsche’s rendition of Apollo and Dionysus, his reworking of the Hellenic mythos, forged into a powerful philosophy that has influenced much of the modern era. Yet how close is this new interpretation to the original mythology of the ancient Greeks, and how much of this is Nietzsche’s own creation? It is well known that Nietzsche and his contemporary Wagner both saw the merit in reshaping old myths to create new socio-political values. To fully understand Nietzsche’s retelling of the Dionysus myth and separate the modern ideas from that of the ancients, we need to examine the Hellenic sources on Dionysus.

apolyre.jpgMyths of Dionysus are often used to depict a stranger or an outsider to the community as a repository for the mysterious and prohibited features of another culture. Unsavory characteristics that the Greeks tend to ascribe to foreigners are attributed to him, and various myths depict his initial rejection by the authority of the polis – yet Dionysus’ birth at Thebes, as well as the appearance of his name on Linear B tablets, indicates that this is no stranger, but in fact a native, and that the rejected foreign characteristics ascribed to him are in fact Greek characteristics.[13] Rather than being a representative of foreign culture what we are in fact observing in the character of Dionysus is the archetype of the outsider; someone who sits outside the boundaries of the cultural norm, or who represents the disruptive element in society which either by its nature effects a change or is removed by the culture which its very presence threatens to alter. Dionysus represents as Plutarch observed, “the whole wet element” in nature – blood, semen, sap, wine, and all the life giving juice. He is in fact a synthesis of both chaos and form, of orgiastic impulses and visionary states – at one with the life of nature and its eternal cycle of birth and death, of destruction and creation.[14]  This disruptive element, by being associated with the blood, semen, sap, and wine is an obvious metaphor for the vital force itself, the wet element, being representative of “life in the raw”. This notion of “life” is intricately interwoven into the figure of Dionysus in the esoteric understanding of his cult, and indeed throughout the philosophy of the Greeks themselves, who had two different words for life, both possessing the  same root as Vita (Latin: Life) but present in very different phonetic forms: bios and zoë.[15]

Plotinos called zoë the “time of the soul”, during which the soul, in its course of rebirths, moves on from one bios to another […] the Greeks clung to a not-characterized “life” that underlies every bios and stands in a very different relationship to death than does a “life” that includes death among its characteristics […] This experience differs from the sum of experiences that constitute the bios, the content of each individual man’s written or unwritten biography. The experience of life without characterization – of precisely that life which “resounded” for the Greeks in the word zoë – is, on the other hand, indescribable.[16]

Zoë is Life in its immortal and transcendent aspect, and is thus representative of the pure primordial state. Zoëis the presupposition of the death drive; death exists only in relation to zoë. It is a product of life in accordance with a dialectic that is a process not of thought, but of life itself, of the zoë in each individual bios.[17]

Dyonisus-Figur-6_600x600.jpg

The other primary association of Dionysus is with the chthonic elements, and we frequently find him taking the form of snakes. According to the myth of his dismemberment by the Titans, a myth which is strongly associated with Delphi, he was born of Persephone, after Zeus, taking snake form, had impregnated her. [18] In Euripides Bacchae, Dionysus, being the son of Semele, is a god of dark and frightening subterranean powers; yet being also the son of Zeus, he mediates between the chthonic and civilized worlds, once again playing the role of a liminal outsider that passes in transit from one domain to another.[19] Through his association with natural forces, a description of his temple has been left to us by a physician from Thasos: “A temple in the open air, an open air naos with an altar and a cradle of vine branches; a fine lair, always green; and for the initiates a room in which to sing the evoe.”[20] This stands in direct contrast to Apollo, who was represented by architectural and artificial beauty. Likewise his music was radically different to that of Apollo’s; “A stranger, he should be admitted into the city, for his music is varied, not distant and monotone like the tunes of Apollo’s golden lyre”. (Euripides Bacchae 126-134, 155-156)[21]

Both Gods were concerned with the imagery of life, art, and as we shall see soon, the sun. Moreover, though their forces were essentially opposite, they two Gods were essentially representative of two polarities for the same force, meeting occasionally in perfect balance to reveal an unfolding Hegelian dialectic that was the creative process of life itself and the esoteric nature of the solar path, for just as Dionysus was the chthonic deity (and here we intentionally use the word Chthon instead of the word Gē  – Chthon being literally underworld and Gē being the earth or ground) and Apollo was a Solar deity; but not the physical aspect of the sun as a heavenly body, this was ascribed by to the god Helios instead. Rather Apollo represented the human aspect of the solar path (and in this he is equivalent to the Vedic deity Savitar), and its application to the mortal realm; rather than being the light of the sky, Apollo is the light of the mind: intellect and creation. He is as bright as Dionysus is dark – in Dionysus the instinct, the natural force of zoë is prevalent, associated with the chthonic world below ground because he is immortal, his power normally unseen. He rules during Apollo’s absence in Hyperborea because the sun has passed to another land, the reign of the bright sun has passed and the time of the black sun commences – the black sun being the hidden aspect of the solar path, represented by the departure of Apollo in this myth.

diowein.jpg

Apollo is frequently mentioned in connection to Dionysus in Greek myth. Inscriptions dating from the third century B.C., mention that Dionysos Kadmeios reigned alongside Apollo over the assembly of Theben gods.[22] Likewise on Rhodes a holiday called Sminthia was celebrated there in memory of a time mice attacked the vines there and were destroyed by Apollo and Dionysus, who shared the epithet Sminthios on the island.[23] They are even cited together in the Odyssey (XI 312-25), and also in the story of the death of Koronis, who was shot by Artemis, and this at Apollo’s instigation because she had betrayed the god with a mortal lover.[24] Also, the twin peaks on Parnassos traditionally known as the “peaks of Apollo and Dionysus.”[25] Their association and worship however, was even more closely entwined at Delphi, for as Leicester Holland has perceived:

(1) Dionysus spoke oracles at Delphi before Apollo did; (2) his bones were placed in a basin beside the tripod; (3) the omphalos was his tomb. It is well known, moreover, that Dionysus was second only to Apollo in Delphian and Parnassian worship; Plutarch, in fact, assigns to Dionysus an equal share with Apollo in Delphi[26]

A Pindaric Scholiast says that Python ruled the prophetic tripod on which Dionysus was the first to speak oracles; that then Apollo killed the snake and took over.[27] The association of Apollo and Dionysus in Delphi, moreover, was not limited to their connection to the Delphic Oracle. We also find this relationship echoed in the commemoration of the Great flood which was celebrated each year at a Delphian festival called Aiglē, celebrated two or three days before the full moon of January or February, at the same time as the Athenian Anthesteria festival, the last day of which was devoted to commemorating the victims of the Great Flood; this was the same time of the year when Apollo was believed at Delphi to return from his sojourn among the Hyperboreans. Moreover, Dionysus is said to have perished and returned to life in the flood.[28] Apollo’s Hyperborean absence is his yearly death – Apollonios says that Apollo shed tears when he went to the Hyperborean land; thence flows the Eridanos, on whose banks the Heliades wail without cease; and extremely low spirits came over the Argonauts as they sailed that river of amber tears.[29]

This is the time of Dionysus’ reign at Delphi in which he was the center of Delphic worship for the three winter months, when Apollo was absent. Plutarch, himself a priest of the Pythian Apollo, Amphictyonic official and a frequent visitor to Delphi,  says that for nine months the paean was sung in Apollo’s honour at sacrifices, but at the beginning of winter the paeans suddenly ceased, then for three months men sang dithyrambs and addressed themselves to Dionysus rather than to Apollo.[30] Chthonian Dionysus manifested himself especially at the winter festival when the souls of the dead rose to walk briefly in the upper world again, in the festival that the Athenians called Anthesteria, whose Delphian counterpart was the Theophania. The Theophania marked the end of Dionysus’ reign and Apollo’s return; Dionysus and the ghosts descended once more to Hades realm.[31] In this immortal aspect Dionysus is very far removed from being a god of the dead and winter; representing instead immortal life, the zoë, which was employed in Dionysian cult to release psychosomatic energies summoned from the depths that were discharged in a physical cult of life.[32]

tromaktiko6256.jpg

Dionysus is the depiction of transcendent primordial life, life that persists even during the absence of Apollo (the Sun) – for as much as Apollo is the Golden Sun, Dionysus is the Black or Winter Sun, reigning in the world below ground whilst Apollo’s presence departs for another hemisphere, dead to the people of Delphi, the Winter Sun reigns in Apollo’s absence. Far from being antagonistic opposites, Apollo and Dionysus were so closely related in Greek myth that according to Deinarchos, Dionysus was killed and buried at Delphi beside the golden Apollo.[33] Likewise, in the Lykourgos tetralogy of Aischylos, the cry “Ivy-Apollo, Bakchios, the soothsayer,” is heard when the Thracian bacchantes, the Bassarai, attacks Orpheus, the worshipper of Apollo and the sun. The cry suggests a higher knowledge of the connection between Apollo and Dionysus, the dark god, whom Orpheus denies in favour of the luminous god. In the Lykymnios of Euripides the same connection is attested by the cry, “Lord, laurel-loving Bakchios, Paean Apollo, player of the Lyre.”[34] Similarly, we find anotherpaean by Philodamos addressed to Dionysus from Delphi: “Come hither, Lord Dithyrambos, Backchos…..Bromios now in the spring’s holy period.”[35] The pediments of the temple of Apollo also portray on one side Apollo with Leto, Artemis, and the Muses, and on the other side Dionysus and the thyiads, and a vase painting of c.400 B.C. shows Apollo and Dionysus in Delphi holding their hands to one another.[36]

An analysis of Nietzsche’s philosophy concerning the role of Apollo and Dionysus in Hellenic myth thus reveals more than even a direct parallel. Not only did Nietzsche comprehend the nature of the opposition between Apollo and Dionysus, he understood this aspect of their cult on the esoteric level, that their forces, rather than being antagonistic are instead complementary, with both Gods performing two different aesthetic techniques in the service of the same social function, which reaches its pinnacle of development when both creative processes are elevated in tandem within an individual. Nietzsche understood the symbolism of myths and literature concerning the two gods, and he actually elaborated upon it, adding the works of Schopenhauer to create a complex philosophy concerning not only the interplay of aesthetics in the role of the creative process, but also the nature of the will and the psychological process used to create a certain type, which is exemplified in both his ideals of the Ubermensch and the Free Spirit. Both of these higher types derive their impetus from the synchronicity of the Dionysian and Apollonian drives, hence why in Nietzsche’s later works following The Birth of Tragedy only the Dionysian impulse is referred to, this term not being used to signify just Dionysus, but rather the balanced integration of the two forces. This ideal of eternal life (zoë) is also located in Nietzsche’s theory of Eternal Reoccurrence – it denies the timeless eternity of a supernatural God, but affirms the eternity of the ever-creating and destroying powers in nature and man, for like the solar symbolism of Apollo and Dionysus, it is a notion of cyclical time. To Nietzsche, the figure of Dionysus is the supreme affirmation of life, the instinct and the will to power, with the will to power being an expression of the will to life and to truth at its highest exaltation – “It is a Dionysian Yea-Saying to the world as it is, without deduction, exception and selection…it is the highest attitude that a philosopher can reach; to stand Dionysiacally toward existence: my formula for this is amor fati”’[37]  Dionysus is thus to both Nietzsche and the Greeks, the highest expression of Life in its primordial and transcendent meaning, the hidden power of the Black Sun and the subconscious impulse of the will.

GWT-7914138.jpg

To order at: https://manticorepress.net

Endnotes:

[1]James I. Porter, The Invention of Dionysus: An Essay on the Birth of Tragedy, (California: Stanford University Press, 2002), 40

[2]Rose Pfeffer, Nietzsche: Disciple of Dionysus, (New Jersey: Associated University Presses, Inc. 1977), 31

[3] Ibid.,31

[4] Ibid., 51

[5] James I. Porter, The Invention of Dionysus: An Essay on the Birth of Tragedy, 50-51

[6] Ibid., 221

[7] Ibid., 205-206

[8] Rose Pfeffer, Nietzsche: Disciple of Dionysus, 114

[9] Ibid, 113

[10] James I. Porter, The Invention of Dionysus: An Essay on the Birth of Tragedy, 82

[11] Rose Pfeffer, Nietzsche: Disciple of Dionysus, 32

[12] James I. Porter, The Invention of Dionysus: An Essay on the Birth of Tragedy, 99

[13]Dora C. Pozzi, and John M. Wickerman, Myth & the Polis, (New York: Cornell University 1991), 36

[14]Rose Pfeffer, Nietzsche: Disciple of Dionysus,  126

[15] Carl Kerényi, Dionysos Archetypal Image of Indestructible Life, (New Jersey: Princeton university press,  1996), xxxxi

[16] Ibid., xxxxv

[17] Ibid., 204-205

[18] Joseph Fontenrose, Python: A Study of Delphic Myth and its Origins (Berkeley: University of California Press, 1980), 378

[19]Dora C. Pozzi, and John M. Wickerman, Myth & the Polis,  147

[20]Marcel Detienne, trans. Arthur Goldhammer Dionysos At Large, (London: Harvard Univeristy Press 1989), 46

[21]Dora C. Pozzi, and John M. Wickerman, Myth & the Polis,   144

[22] Marcel Detienne, trans. Arthur Goldhammer Dionysos At Large, 18

[23] Daniel E. Gershenson, Apollo the Wolf-God in Journal of Indo-European Studies, Mongraph number 8 (Virginia: Institute for the Study of Man 1991), 32

[24]Carl Kerényi, Dionysos Archetypal Image of Indestructible Life, (New Jersey: Princeton university press,  1996), 103

[25] Dora C. Pozzi, and John M. Wickerman, Myth & the Polis,  139

[26] Joseph Fontenrose, Python: A Study of Delphic Myth and its Origins (Berkeley: University of California Press, 1980), 375

[27] Ibid., 376

[28]Daniel E. Gershenson, Apollo the Wolf-God in Journal of Indo-European Studies, Monograph number 8, 61

[29] Joseph Fontenrose, Python: A Study of Delphic Myth and its Origins (Berkeley: University of California Press, 1980), 387

[30] Ibid., 379

[31] Ibid., 380-381

[32] Ibid., 219

[33] Ibid., 388

[34] Carl Kerényi, Dionysos Archetypal Image of Indestructible Life, (New Jersey: Princeton university press,  1996), 233

[35] Ibid.,217

[36] Walter F. Otto, Dionysus: Myth and Cult, (Dallas: Spring Publications, 1989) 203

[37] Rose Pfeffer, Nietzsche: Disciple of Dionysus,  261

lundi, 25 décembre 2017

En attendant le retour du Soleil

solinvicrryryryr.jpg

En attendant le retour du Soleil

par Thierry DUROLLE

Ex: http://www.europemaxima.com

En cette période solsticiale de l’an MMXVII, à l’approche de la fête de Jul, il fait bon prendre un grand bain de Soleil, même s’il s’agit seulement d’un grand bain de Soleil spirituel et culturel. La lecture du dernier numéro de la sympathique revue Solaria est ravigorante.

Fondée en 1992 sous le patronage d’Apollon par Jean-Christophe Mathelin, l’association et la revue Solaria qui ont publié plus d’une quarantaine de numéros, éditent également un « calendrier solaire païen » depuis 1999 et organisent parfois des conférences. Dédiée au cultes solaires (indo-)européens, malgré quelques « infidélités » extrême-orientales, Solaria ne fait pas l’économie des sujets tournant autour de Sol Invictus, Mithra, Lug et bien entendu Apollon l’Hyperboréen.

Le numéro 48 de la revue daté du solstice d’hiver vient de paraître. On retrouvera en premier lieu la deuxième partie des épiclèses (1) consacrée au Dieu Apollon. Puis un court article de Jean Mabire consacré à une figure atypique et méconnue en la personne du Dr Paul Carton dont la conception toute solaire de la médecine se trouve aux antipodes de la sinistre ministresse de la Santé du gouvernement Macron-Jupiter. On poursuit avec un article de Bernard Boyer qui traite de mythologie celtique, et plus précisément du Dieu Lug.

solariasssss.jpg

On lit ensuite un bref entretien du patron de la revue, Jean-Christophe Mathelin, à propos de son nouveau livre Le Soleil et la lumière (2) où l’on sent toute la passion qui anime ce fervent défenseur de la solarité européenne. Viennent enfin les deux rubriques habituelles de la revue : la première, « Héliothèque », ensemble de recensions de livres, de musiques, de films et de revues en lien avec la solarité (le livre d’Alain de Benoist sur les runes, le numéro d’Éléments sur le polythéisme, le livre de Varg Vikernes sur la magie en ancienne Scandinavie, etc.). La seconde, « Vents Solaires », recense les expositions, émissions de télévisions, les articles d’astronomie en lien avec la solarité.

Bien que plus proche du « fanzine » que de la revue en papier glacée et paraissant deux fois par an, la revue Solaria excelle dans l’étude des cultes solaires et apparentés. On pourrait naïvement croire qu’elle se serait vite essoufflée du fait des limites d’un sujet, mais il n’en n’est rien. Le travail de Jean-Christophe Mathelin et de ses collaborateurs est à saluer (de façon olympienne – cela va sans dire !). Son numéro 48 fera office de parfait rayon de Soleil dans la grisaille hivernale, nous rappelant que le Divin astre reviendra illuminer les filles et fils d’Apollon !

Thierry Durolle

Notes

1 : Dans l’Antiquité, l’épiclèse est un épithète qui correspond à un surnom, à un des aspects d’un Dieu ou d’une Déesse.

2 : Jean-Christophe Mathelin, Le Soleil et la lumière. Hymnes, prières, poèmes et citations, Camion noir, 2016, 472 p., 32 €.

Solaria, n° 48, solstice d’hiver 2017, « Lug et/ou Trefuilngid », 31 p., 6 €.

Pour les fils et les filles d’Apollon

Apolloggggg.jpg

Pour les fils et les filles d’Apollon

par Thierry DUROLLE

L’avenir d’un peuple se bâtit grâce à ses enfants; celui de notre peuple se fondera sur l’héroïsme de nos enfants. La jeunesse est un bien précieux, elle est le zénith de la vie de nos peuples blancs. Nous voyons, dans les sourires et les jeux de nos fils et de nos filles, la beauté et la radiance de notre sang. Voilà quelque chose d’inestimable, voilà où se cache notre Graal !

Malencontreusement, l’Âge de Fer corrompt également la famille et nos jeunes pousses. La natalité du monde blanc est dramatiquement en chute libre tandis que celui des pays du Sud, non-blancs et qui nous sont souvent hostiles, explose. L’Afrique représente incontestablement un péril. Nous la voyons se déverser inéluctablement dans nos patries avec des conséquences parfois tragiques.

Dans nos sociétés actuelles, la famille dite traditionnelle n’est plus (cela concerne les Albo-Européens bien entendu). À ce titre, nous devons faire remarquer qu’il est hypocrite d’attribuer au seul « mariage pour tous » la cause de la destruction du modèle familial classique : cette parodie de mariage représente juste un énième résultat concret de la guerre occulte.

L’individualisme effréné, fils de la philosophie des Lumières, dynamisé par la société de consommation, représente selon nous la cause majeure de la fin de la famille traditionnelle. Ses émanations sont la pseudo-libération sexuelle (mais réel servage à ses propres instincts et parfois à ceux des autres!), le divorce et, dans un autre registre, ô combien répugnant et mortifère, l’IVG, soit le meurtre industrialisé d’enfants in utero.

skaldilore.jpg

Bref, avoir et élever un ou plusieurs enfants dans ce monde « vétuste et sans joie » à de quoi décourager les meilleurs volontés. Malgré tout, ceux qui ont le sens du devoir savent ce qu’ils ont à faire. L’impératif démographique nous commande, si nous pouvons nous exprimer ainsi, d’avoir de nombreux enfants si nous ne souhaitons pas disparaître de l’Histoire. La quantité, néanmoins, doit se subordonner à la qualité : ainsi nous devons avoir de nombreux enfants sains, de corps et d’esprit.

À cet effet, l’instruction et l’éducation de nos chères têtes blondes doit être notre priorité, le fond et la forme doivent avant tout être « européocentrés » (sans pour autant freiner la curiosité des enfants). Fort d’une civilisation à l’Histoire exceptionnelle, riche de mythes fondateurs et de poètes, l’Européen conscient dispose d’une materia prima unique ! Cette dernière est parfaitement mise en forme dans la collection « Europe Jeunesse Littérature » de la Diffusion du Lore.

Trois tomes composent d’ores et déjà cette superbe collection : Skaldi. Contes de la mythologie nordique, Braghi. Contes de la mythologie nordique et Roland à Roncevaux. Jules Dufresnes, responsable de la Diffusion du Lore, a particulièrement soigné l’esthétique de cette collection qui plaira aux petits comme aux grands ! Tous ces livres sont au format A4, et sont magnifiquement illustrés par Georges Briche. Les textes des deux premiers tomes sont signés Olivier Meyer, écrivain, essayiste et pamphlétaire nietzschéen bien connu. Ce fils d’Heimdall réadapte brillamment l’Edda de Snorri Sturluson pour le premier, et l’Edda poétique pour le second. C’est Vincent Dubois qui s’occupe quant à lui des textes du livre sur Roland. Il retranscrit cet épisode de notre histoire de la plus belle des manières.

bragilore.jpg

Nous saluons l’initiative de la Diffusion du Lore qui vise à mettre à la disposition des enfants européens de si jolis ouvrages au contenu passionnant. Parfait pour les histoires du soir grâce à des textes de qualité et une esthétique adaptée, voilà de quoi donner de l’engouement à nos progénitures pour qu’ils (re)découvrent nôtre culture, nos mythes et nôtre passé. Hormis un excellent livre sorti chez Auda Isarn (1), nous ne pouvons pas dire que nous croulons sous les livres consacré à la jeunesse, ce qui est dommage. La Diffusion du Lore participe grandement à l’effort de former la jeunesse grâce à cette collection. La période de Jul/Noël étant proche, voici trois ouvrages qui feront bien des heureux sous le sapin.

Thierry Durolle

Note

1 : Pierre Gillieth, Jean Combe, Héros et héroïnes de France, Auda Isarn, 2012, 20 €.

• Olivier Meyer et Georges Briche, Skaldi. Contes de la mythologie nordique, Diffusion du Lore, 2016, 60 p., 16 €.

• Olivier Meyer et Georges Briche, Bragi. Contes de la mythologie nordique, Diffusion du Lore, 2016, 52 p., 16 €.

• Vincent Dubois et Georges Briche, Roland à Roncevaux. Contes de la mythologie nordique, Diffusion du Lore, 2016, 60 p., 16 €.

lundi, 06 novembre 2017

Le Feu dans la tradition indo-européenne...

feupologne.jpg

Le Feu dans la tradition indo-européenne...

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Les éditions Archè ont publié en 2016 une étude de Jean Haudry intitulée Le feu dans la tradition indo-européenne. Spécialiste des langues indo-européennes, ancien professeur à l'Université de Lyon III et ancien directeur d’étude à l'École pratique des hautes études, Jean Haudry est l'auteur de nombreuses études sur les indo-européens, parmi lesquels quelques ouvrages de vulgarisation, dont le Que sais-je Les Indo-Européens (1981) ou, dernièrement, Le message de nos ancêtres (éditions de la Forêt, 2016), destiné aux jeunes adolescents.

"L’étude est consacrée au thème central dont Pensée, parole, action dans la tradition indo-européenne, Archè, Milano, 2009, développait quatre annexes, les feux de la pensée, de la parole, de l’action et du corps, après avoir établi l’ancienneté de la triade et de sa variante principale, et dont Le Feu de Naciketas, paru l’année suivante chez le même éditeur, présentait l’une des figures humanisées. D’autres devraient suivre.

JHfeu961765132.jpgLa première partie intitulée « le feu dans le monde indo-européen » étudie successivement les noms du feu, ainsi que le rapport de l’un d’entre eux avec celui du souffle, la place du feu dans le formulaire reconstruit, les motifs, les énigmes, les paradoxes où il figure, dans la triade des couleurs, dans la cosmologie, la cosmogonie, l’eschatologie, les cycles temporels ; ses rapports avec les trois fonctions et les quatre cercles de l’appartenance sociale ; ses divers rôles dans la société et dans le panthéon. Une étude détaillée est consacrée à son emploi dans le culte et aux exemples d’un culte du Feu divin, qui constituent l’objet des deux parties suivantes.

La deuxième partie est consacrée aux divinités féminines du foyer (Hestia, Vesta), aux divinités, en majorité masculines, du feu dont certaines portent le nom (Agni, Ātar), d’autres un ancien qualificatif (Vulcain). Cette partie ne fait que développer dans une perspective diachronique et comparative des conceptions communément admises.

Il n’en va pas de même pour la troisième, consacrée aux « anciens Feux divins ». Elle commence par les Feux artisans comme Héphaistos, et Tvaṣṭar, se poursuit avec le voleur du feu Prométhée. Dionysos y est présenté comme Feu de la fureur, puis du vin, et mis en rapport avec une série de correspondants dont le nom est tiré de la racine qui signifie « croître » comme le Liber pater latin. L’interprétation première de Heimdall et Loki comme anciens Feux divins, solidement étayée, mais abandonnée pour des raisons de mode, est reprise avec de nouveaux arguments. Pour Janus, au contraire, une telle interprétation est propre à l’auteur qui l’a exposée précédemment dans deux articles parus dans la Revue des études latines, « La préhistoire de Janus », REL 83, 2005, 33-51 et « Les feux de Rome », REL 90, 2013, 57-82. Hermès a été reconnu comme un ancien Feu divin par Paul-Louis Van Berg, « Hermes and Agni : a fire-god in Greece ? » Proceedings of the Twelth Annual UCLA Indo-European Conference, 2001, 189-204 ; le chapitre ne fait que confirmer ses conclusions. A ma connaissance, le Dagda irlandais n’a jamais été interprété comme un ancien Feu divin, mais l’un de ses noms, Aed « Feu » plaide en faveur de cette interprétation qui s’accorde avec sa mythologie et avec plusieurs de ses attributs. Le dernier chapitre est consacré à quatre personnages qui représentent le Feu maître ou maîtresse des animaux, rôle qui remonte à la plus ancienne préhistoire. Il s’agit de Rudra « maître des animaux » dans lequel l’Inde brahmanique a vu l’une des formes d’Agni, et de Śiva qui – à tort ou à raison – a été considéré comme son prolongement ; d’Artémis et de son double humain Iphigénie dont le nom, qui signifie « fille de la force », reflète une formule appliquée au feu. Le couple gémellaire que forment Artémis avec Apollon, « loup du vent » selon Daniel E Gershenson, Apollo the Wolf-god, Mc Lean, Virginia, Institute for the Study of Man, 1991 (JIES Monograph Nr.8) et l’équivalence reconnue depuis longtemps entre Apollon et Rudra ramènent à la question essentielle, abordée dès les premières pages, des rapports étroits entre le feu et le souffle.

Ce travail est, de bout en bout, diachronique et comparatif. Il doit s’apprécier dans cette perspective, et non comme une suite de monographies qui, considérées isolément, paraîtraient incomplètes ou paradoxales."

14:51 Publié dans Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : jean haudry, feu, livre, tradition, indo-européens, mythologie | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

jeudi, 01 juin 2017

Les Héros et les Saints - La mythologie grecque selon Paul Diel

psyche_caravaggio.jpg

Les Héros et les Saints

La mythologie grecque selon Paul Diel

par Georges Hupin

Président de la Bannière Terre & Peuple Wallonie

Ceci est un condensé de l'ouvrage 'Le symbolisme dans la mythologie grecque' du philosophe et psychologue français d'origine autrichienne Paul Diel (1893-1972). Il est également l'auteur de 'Psychologie de la motivation', de 'Le symbolisme dans la Bible' et de 'Le symbolisme dans l'évangile de Jean'.

pauldiel.jpg

Notre travail n'a d'autre objet que d'inviter à lire ce livre important (éd. Payot 1960-1980-2002, ISBN 9782228896061).
Dans sa préface, Gaston Bachelard (voir le dictionnaire) remarque, à propos des mythes, que « la fonction de symbolisation est une fonction psychique naturelle » et qu'on retrouve dans les mythes la force évolutive sans cesse active du psychisme humain. Il cite Ortega y Gasset : « L'homme n'a pas une nature, mais une histoire. Sa vie est un gérondif, faciendum (qui doit être fait), et non un participe passé, factum (un fait). »

LES HEROS ET LES SAINTS

Comme les saints, les héros mythologiques sont des modèles édifiants, des images proposées à notre réflexion. A la différence des saints, les héros ne sont pas parfaits. Animés d'une notable vitalité, ils ont un objectif, mais ils ne l'atteignent pas toujours, ou pas parfaitement. Ces images sont mythique en ce qu'elles prennent en compte le mystère de l'illimité : l'immensité de l'univers, incommensurable par rapport à l'observateur humain, et l'insondabilité du temps, passé comme à venir.

Plutôt que considérer que ces réalités illimitées, qui sont hors de sa portée, ne concernent pas l'être humain, puisqu'il nous paraît ne rien pouvoir y changer (ce qui n'est d'ailleurs qu'une apparence à nos sens limités), la mythologie, la grecque, comme les autres, a choisi de les approcher quand même, par des images symboliques intuitives. Ces symboles se révèlent d'une subtilité étonnamment pénétrante. Tant pour ce qui est de l'origine de l'univers et de la vie que pour le sens évolutif de celle-ci et pour l'aspiration de l'être humain vers sa perfection, dans la poursuite d'un accomplissement qui trouve sa confirmation dans la joie. Laquelle parvient même à sublimer l'effroi devant la mort, le mystère de la vie incluant le mystère de la mort.

pauldiel3.jpg

Pour ce qui concerne cette perfectibilité, indéfinie et peut-être infinie, il est apparu aux Grecs (confrontés à cette 'métaphysique de l'illimité', comme l'appelle un de nos maîtres et amis Dominique Venner) comme une évidence pour l'entendement humain que la prépondérance ne doit pas nécessairement aller à la masse des immensités gigantesques, influences indubitablement considérables. Ils se sont sentis encore plus directement impliqués dans l'illimité dans l'infinitésimal, dans le grouillement vibrionnant de l'infiniment minuscule, complexe et différencié, dont l'organicité préfigure la vie. Il leur était évident que c'est le principe qui gouverne cette métaphysique qui est le ferment de l'appétit de connaissance de leur intelligence et qui lui inspire les images intuitives les plus pénétrantes et subtiles.

Paul Diel s'applique à découvrir que, derrière les images de la symbolique mythologique, il y a, même lorsqu'elles apparaissent curieusement fantaisistes et excessives jusqu'au fabuleux (les ailes de cire qui permettent à Icare de s'envoler si haut qu'il approche trop le soleil; les oreilles d'âne du roi Midas, qui cache dans un trou sa honte que des roseaux soufflent à tous les vents...)  une signification d'une rigoureuse cohérence.

L'origine métaphysique d'un univers généré par l'esprit n'est pas figurée par les Grecs à partir d'un point de vue géocentrique, dans l'acte de l'Esprit divin flottant sur les eaux comme dans la figuration biblique, acte accompli alors en six étapes journalières. L'image de cet esprit divin est celle de la loi de la vie. La justice qui lui est inhérente s'exprime dans une théogonie, récit de l'émanation de cette légalité divine qui se dégage progressivement du chaos initial, big bang avant la lettre. Dans cette théogonie, les Grecs transposent sur le plan de la création cosmique, titanique, surhumaine, la même résistance que celle que l'être humain va opposer ensuite à la loi du sens de la vie. Les contraventions aux lois de la vie, qui sur le plan de la psychologie, voire de la psychopathologie humaine, vont se trouver décrites dans les exploits et les échecs des héros de leur mythologie, les Grecs vont les replacer dans leur représentation de la création du monde par l'esprit divin.

Chez les héros grecs, les infractions qu'ils commettent à la légalité de la vie sont sanctionnées par leur banalisation grossière dans la débauche ou par la nervosité lamentable du refoulement de leur remord. Ces mêmes dépravations vont se retrouver dans la confrontation des forces de la nature, souvent désordonnées par rapport à l'ordre naturel. Il y a une parfaite concordance dans l'évolution de la genèse du monde terrestre et dans celle de la vie de l'humanité, consciente, responsable en fonction de sa capacité de choisir.

Le chaos originel n'est toutefois pas le monde préexistant. Il figure la déroute que rencontre l'intelligence humaine lorsqu'elle cherche à sonder le mystère. Le chaos, c'est l'au-delà non seulement de la matière à analyser, mais également de l'esprit analysateur. La mythologie grecque propose comme image du sens évolutif de la vie une confrontation entre le principe matériel (Titan) et le principe spirituel (Divin). Toutefois, Paul Diel souligne : « Qu'on dise Esprit ou Matérialité, ou en s'exprimant mythiquement Ouranos et Zeus, d'une part, et Gaia et Titans, d'autre part, ce ne sont que des idées et des images représentatives. Ce qui importe, ce sont les images grâce auxquelles le mythe parvient à exprimer la relation entre ces idées fondamentales. Les Titans, fils de Gaia, symbolisent la matérialité et Zeus, descendant d'Ouranos, figure la spiritualité. Mais Zeus est lui-même fils d'un Titan: les Titans deviennent divinité, la matière se spiritualise. Dans ces figures symboliques se trouve condensée toute la légalité évolutive du monde apparent.  ». Le Mystère-Chaos demeurant distinct de ses images symboliques, on peut dire que la mythologie grecque est un monothéisme qui s'exprime par une symbolisation polythéiste et que le mythe grec est un précurseur du mythe judéo-chrétien.

De ce mystère-chaos émergent donc la Matière-Mère, personnifiée en Gaia, et l'esprit-Père, personnifié en Ouranos. Ravagée par les flots diluviens que le ciel déverse sur elle, mais fécondée par eux, Gaia ne se soumet pas volontairement aux principes d'Ouranos. Dans cette union-opposition entre le principe élémentaire et le principe formateur, la prévalence de l'esprit finira par générer la matière animée, et finalement la conscience clairvoyante. Cette opposition évolution-involution, sous la forme de spiritualisation-pervertissement, est le thème commun à toutes les mythologies, dans une alternance de régression vers le préconscient ou de progression vers le surconscient.

gaia.gif

Gaia est la Terre-Matière non encore maculée de vie par Ouranos, le Ciel-Père. Leurs enfants sont les forces cosmiques élémentaires et leurs déchaînements : les perturbations atmosphériques (les Cyclones), la séparation des eaux (les Océans), les éruptions et les cataclysmes par lesquels la terre se prépare à devenir propice à la vie. Les Cyclopes et les Titans sont hostiles au principe de régularité de l'esprit ordonnateur. Ouranos se dresse contre eux pour jeter ces enfants ennemis dans le Tartare, mais Gaïa libère ses enfants et les incite à la révolte ouverte. Chronos (le Temps), le plus indomptable des enfants d'Ouranos, détrônera enfin son père et lui tranchera les organes génitaux avec la faucille (emblème et espérance des moissons) et les jettera dans la mer, expression de l'inconstance et du désordre.

Du sang d'Ouranos naissent les Erinyes, divinités qui président aux châtiments. Chronos symbolise le désir insatiable de la vie grâce auquel s'établit le temporel, durée entre l'appétit et sa satisfaction. De l'écume marine qui entoure le sexe de Chronos naît Aphrodite, symbole de l'amour physique recherché pour la seule prime de jouissance physique que la nature y attache. C'est encore de la mer que proviennent les premiers vibrionnements de vie. Rhéa, l'épouse de Chronos, symbolise ce foisonnement dans la joie de vivre. Rhéa est la Terre-Mère de la vie animale, une vie jubilante que célèbrent les Corybantes. Chronos dévore ce grouillement que son épouse génère. Mais parmi ses rejetons va naître Zeus, fils divin qui saura trouver la voie de la spiritualisation, la voie de l'esprit de vie. Pour sauver ce fils préféré, Rhéa inspirée par l'esprit d'Ouranos va présenter à Chronos une pierre, à engloutir en lieu et place de l'enfant Zeus.

Devenu adulte, Zeus saura contraindre son père de rendre la vie à ses frères et soeurs : le règne de la vie soumise à l'esprit peut s'établir au niveau de la vie consciente. Celle-ci demeure toutefois capable, bien que sensible à l'esprit harmonisateur, de discordances coupables. Le règne de Zeus, symbole des qualités sublimes et de la légalité, continuera de subir l'assaut des Titans, les frères de Chronos. A présent, ils ne figurent plus seulement les forces indomptées de la nature, mais également celles de l'âme, qui anime la matière, mais est réfractaire à la spiritualisation.

Transposant la symbolisation cosmique, le mythe donne au feu la valeur symbolique de l'intellect, par opposition à la lumière-esprit. L'intellect s'attache de préférence à la satisfaction des désirs terrestres, par l'épanouissement de techniques utilitaires, notamment de l'agriculture. Les Cyclopes symbolisent l'intellect qui se met au service de l'esprit, par opposition aux Titans, qui symbolisent l'intellect révolté contre la légalité de l'esprit. Le Titan Prométhée, qui va créer l'homme, en le façonnant dans de la boue, animera celle-ci avec le feu de l'intellect qu'il a dérobé dans l'Olympe. A l'opposé, les Cyclopes vont forger dans le feu de l'intellect l'arme victorieuse de Zeus, l'éclair de la lumière spirituelle intuitive. Toutefois, l'éclair de l'intuition ne peut se produire que par le travail de l'intellect.

chronos.jpg

Chronos et les autres Titans vaincus par Zeus seront ensevelis sous les volcans, lesquels expriment leur rage toujours indomptée. Car, malgré la victoire de l'esprit, la révolte est toujours présente dans l'être humain. Sorti de l'animalité, il risque toujours d'y revenir, en sombrant dans la banalisation. Le mythe symbolise cette menace par le monstre Typhon, que Gaia a créé dans une ultime tentative. Son nom signifie 'feu dévorant'. Il est si affreux que, d'horreur, les dieux fuient sa vue. Seul un esprit combattant peut l'affronter et Zeus est le seul à l'oser. Mais Typhon le terrasse et lui coupe les tendons des pieds, lesquels dans la symbolique du mythe représentent le mouvement libre de l'âme. Esprit nullement invulnérable, mais combattant, Zeus guérit de sa blessure et, s'armant de l'éclair lumineux, foudroie Typhon.

Les six enfants de Chronos, vainqueurs de leur père, sont Zeus, Poséidon et Hadès, Hestia, Déméter et Héra. Les trois soeurs symbolisent les étapes de l'évolution du désir humain et les trois frères la légalité qui gouverne l'opposition entre les désirs sublimes et les désirs pervers. On relèvera cette opposition chez les héros, qui sont régulièrement dévoyés de leurs aspirations sublimes vers des banalités grossières ou des refoulements vaniteux et nerveux.

hestia2.jpg

Hestia, l'aînée des filles de Rhéa, figure la joie de vivre. Elle symbolise la pureté du désir végétatif. Elle a juré de rester vierge et elle refuse la main d'Apollon (idéal spirituel trop élevé) et celle de Poséidon (multiplicité et insatiabilité des désirs). Hestia figure l'idéal élémentaire de modération. Elle est la gardienne de la flamme sacrée du foyer familial. Déméter figure, à la différence de Gaia-terre maculée de vie, la terre peuplée d'humains. Elle symbolise les désirs terrestres légitimes, la terre féconde et labourée par l'homme. Elle est la protectrice de la communauté. Héra, épouse de Zeus-Esprit, symbolise la sublimation parfaite du désir, le don de soi, l'amour, le juste choix sexuel, exclusif et durable. Elle est la protectrice de la loyauté, notamment celle de la monnaie.

Zeus symbolise la légalité qui gouverne la spiritualisation. Poséidon, qui règne sur la mer, symbolise la légalité de la banalisation et de la satisfaction désordonnée des désirs. Hadès, divinité souterraine, figure la légalité qui gouverne le subconscient et l'inhibition des désirs pervers refoulés. Mais cette trinité ne constitue toutefois qu'une essence divine unique, qui gouverne une seule matière : la spiritualisation ou, à son défaut, la banalisation ou la perversion des désirs humains.

DIVERSES FIGURES DE HEROS

midas.jpg

Midas
Plutôt qu'un héros, le roi Midas est un anti-héros. Il avait célébré Dionysos, dieu de la jouissance effrénée et insatiable, dans une dévotion si complète que celui-ci, connaissant le point faible de son adulateur, lui a accordé une faveur de son choix. Midas a choisi de pouvoir acquérir des richesses sans limite, en transformant en or tout ce qu'il touche. Menacé de mourir de faim, Midas reconnaît sa stupidité qu'il regrette. Pardonné, Dionysos lui donne à se prononcer entre la musique sublime de la lyre d'Apollon et la musique orgiaque de la flûte de Pan. Midas, peu sensible à la beauté, dédaigne Apollon, lequel se venge en lui faisant pousser des oreilles d'âne, consacrant sa bêtise à vouloir se faire valoir par des choix vaniteux. Midas cache sa honte sous un bonnet phrygien (symbole de la lubricité levantine). Découvert par son barbier, il prétend refouler son secret en l'enfouissant dans la terre (subconscience) : il le chuchote dans un trou qu'il a creusé : « Le roi Midas a des oreilles d'âne. » Mais un roseau qui a poussé à cet endroit s'est mis a publier à tout vent la malédiction du lucre et de la lubricité vainement refoulés.

Eros et Psyché
Eros est le dieu qui exprime la légalité de la sexualité, aussi bien dans sa forme banalisée de liaison passagère que dans sa forme sublime d'union durable. Psyché, qui symbolise l'âme, s'est laissé subjuguer par l'attrait banal d'un Eros déchaîné, qui la tient prisonnière dans un palais où il ne la rejoint que dans l'obscurité de la nuit, afin de ne pas lui découvrir sa hideur. Enfreignant l'interdit de la lumière, Psyché allume une torche qui lui révèle le vrai visage de la perversion. Elle implore Héra, personnification de la pureté de l'amour du foyer. Celle-ci lui impose des travaux de purification, qui lui restituent sa clairvoyance : Eros lui réapparaît alors sous sa forme olympienne. Héra prend soin d'unir Eros et Psyché.

Mis à part Midas, modèle de banalisation inguérissable, la mythologie grecque représente l'état de banalité plate et sans combat par la figure de l'homme-animal, le Centaure. Les Centaures n'ont guère d'importance personnelle (à l'exception de Chiron, le Centaure médecin) et apparaissent en troupeau avec les Ménades dans la Thiase, le cortège orgiaque de Dionysos. Ils symbolisent le déchaînement dans les facilités de la chute. Celle-ci porte en elle-même son châtiment, dans l'écartèlement entre la multiplicité des désirs contradictoires et dans le déchirement nerveux entre la vanité exaltée et la culpabilité refoulée. Car la frénésie dionysiaque n'est accessible qu'aux sujets de grande envergure qui se sont laissé dévoyer de leurs aspirations sublimes.

orphee3.jpg

Orphée
Le mythe attribue à ce héros la réforme des Mystères d'Eleusis, par la superposition du culte de Dionysos au rite ancien. Il exprime l'inconstance de l'artiste devant la splendeur de l'art, hésitant entre la dimension sublime d'Apollon et celle perverse de Dionysos. Son chant, qu'il accompagne sur la lyre que lui a prêtée Apollon, émeut jusqu'aux arbres et aux rochers de l'Olympe, mais flatte parfois des pervers et charme des monstres. Son épisode avec Eurydice n'est pas une aventure sentimentale, mais exprime le déchirement entre des désirs contradictoires : l'inconstance de l'artiste, nourri de la vanité de créer des images sublimes multipliées, à laquelle il sacrifie son désir d'aimer la femme de son âme. Eurydice meurt de la morsure du serpent, sinueux et souterrain symbole de la banalité infernale et du refoulement. Hadès, qui règne sur les enfers, cède à l'imploration de l'artiste : Orphée pourra faire revivre Eurydice à condition que son amour nouveau rompe avec les regrets qu'il a chantés. Orphée, au lieu de concentrer sublimement son amour sur le salut d'Eurydice, à l'exclusion de toute autre préoccupation, renoue avec la vanité typique de l'artiste, qui ne peut renoncer aux promesses de son imagination éparpillée ni aux jouissances qui pourraient lui échapper s'il s'attardait à aimer Eurydice. Une version du mythe représente Orphée déchiré par les Ménades de Dionysos. Zeus n'en placera pas moins la lyre d'Apollon parmi les constellations, consacrant le niveau sublime de l'art apollinien, par distinction avec les penchants dionysiaques de nombreux artistes. Malgré une fin peu héroïque, Orphée représente une dimension surhumaine. L'erreur dionysiaque d'Orphée est nourrie par des forces démoniaques et son échec à le sens d'un combat héroïque suivi d'une défaite. Son chant illustre le conflit qui figure dans tous les mythes entre le divin et le démoniaque. Dans une version complémentaire, Orphée, reconnaissant son aberration, se voue à Apollon et ressuscite ainsi une Eurydice symbole de son aspiration au sublime, ce qui pour Paul Diel préfigure dans le mythe chrétien Jésus vainqueur de Satan.

chuticaL.jpg

Icare
Icare est le fils de Dédale, l'architecte qui sur l'ordre du roi de Crète Minos a construit le Labyrinthe, symbole d'une confusion mentale dont le sujet ne peut plus sortir. Dédale est un virtuose ingénieux de l'intellect, faculté propre à échafauder des solutions utilitaires, mais impropre à discerner le sens profond de la vie. Le sage Minos lui a commandé la construction du Labyrinthe pour y enfermer le Minotaure, un monstre mi-homme mi-taureau, né des amours de la reine Pasiphaé qu'a séduite Poséidon, le dieu qui gouverne la légalité de l'inconstance et de l'insatiabilité. Découvrant que Dédale et Icare ont conspiré contre lui avec Poséidon, Minos les fait enfermer dans le Labyrinthe. L'ingénieux Dédale conçoit alors un artifice, imparfait, mais suffisant pour s'échapper : des ailes de plumes qu'il assemble avec de la cire. Il sait que son stratagème est faillible et recommande la prudence à Icare. Mais celui-ci se laisse exalter par son imagination vaniteuse. Tout au plaisir adolescent de surpasser ses pairs, il s'élève trop près du soleil. La cire fond et, tombant dans la mer, Icare, devient la proie de Poséidon : on n'atteint pas la lucidité sublime par des subterfuges astucieux.

Tantale
Grâce à la profondeur de son repentir dans le processus élévations-chutes, Tantale s'approche de la région sublime de l'esprit et devient 'l'aimé des dieux', symboles des qualités idéalisées de l'homme chez qui leur accomplissement s'accompagne de la joie. Toutefois, l'homme parvenu dans la sphère sublime ne peut abdiquer sa condition terrestre. A la différence du mythe chrétien et de son idéal du saint, le mythe grec contraint le héros sublime à 'redescendre sur terre', dans un idéal de juste harmonie des pulsions tant corporelles que spirituelles. Le mythe de Tantale décrit ce héros admis à la table des dieux. Cédant à l'exaltation, il s'imagine leur égal. Il les invite à sa propre table et leur sacrifie le fils de sa chair terrestre, Pélops, qu'il leur sert à manger. Mais les dieux ne sont pas dupes, à la seule exception de Déméter, la mère des fruits de la terre. Zeus ressuscite Pélops et condamne Tantale pour cette exaltation ascétique qui l'a fait s'imaginer à la portée de l'Olympe : il est enchaîné sous un arbre, dont les fruits se retirent quand il veut en manger, les pied dans une source dont l'eau se retire quand il veut en boire.

phaeton.jpg

Phaéton
Il est le fils d'une mortelle et d'Hélios, l'astre solaire, qui fait mûrir les fruits terrestres, à la différence d'Apollon qui fait mûrir les fruits de l'esprit. Défié par des camarades qui mettent en doute cette filiation, Phaéton part à la recherche de son père. Celui-ci, tout à la joie de voir son fils, lui promet d'exaucer ses souhaits. Préoccupé de confondre ses détracteurs, Phaéton choisit de guider un jour durant les chevaux du char solaire et de jouer le rôle du dieu, au lieu de se contenter d'en être le fils mythique. Pour cette vaniteuse ambition, il sera puni car, s'acharnant, il a mené le char solaire hors de sa carrière régulière et s'est approché trop de la terre. Zeus doit intervenir, en foudroyant le coupable, qui est trop stupide pour reconnaître sa coulpe.

Ixion
Ce héros avait commis d'abominables forfaits, tant contre les dieux que contre les hommes qu'il a dû fuir. Mais il a reconnu ses errements et s'en est repenti. Zeus accueille amicalement le fugitif dans l'Olympe, ce qui incite celui-ci à se croire un modèle. Il s'oublie jusqu'à s'éprendre d'Héra, idéal de l'amour sublimé jusqu'à la bonté. Il veut la posséder et les dieux, ironiquement, lui façonnent un nuage à l'image d'Héra. Au lieu de revenir à la réalité, Ixion exalte son impudicité et abuse de l'image. Zeus reste indulgent tant que l'égaré ne commet pas la faute décisive : il se vante d'avoir séduit Héra et trompé l'esprit, ce qui réveille la colère du dieu, lequel précipite Ixion dans le Tartare, où il sera supplicié : attaché par les serpents de la vanité à une roue de feu qui tourne à la verticale, lui mettant perpétuellement la tête en haut puis en bas, symbolisant la folie de ses élévations et de ses rechutes incessantes.

bellerophon2dstatue0.jpg

Bellérophon
Bellérophon, qu'on ne représente guère que chevauchant Pégase, est le type du héros jeune et innocent, prince charmant, qui surgit à point nommé pour régler son compte au monstre qui désole une contrée. Et pour épouser ensuite sous les vivats la fille du vieux roi fainéant, qui n'a effectivement rien fait pour protéger les siens. Bellérophon est le fils mythique (symbolique) du dieu de la mer, Poséidon. Celui-ci n'est pas, comme son frère Zeus, une divinité de l'Olympe, lieu de la légalité stable et lumineuse. La mer, lieu de la fécondité d'où va naître Aphrodite, est aussi celui d'une légalité mouvante, trouble et souvent perverse.

Débarquant à Argos, Bellérophon qui a éveillé la jalousie du vieux roi local, est envoyé par celui-ci se faire pendre ailleurs : il ira porter un pli fermé au roi de Lycie Jobatès. Le message recommande rien moins que de tuer le messager ! Répugnant à violer ainsi les lois de l'hospitalité, Jobatès, pour que soit quand même accomplie sa mission, obtient du héros qu'il accepte d'affronter le monstre qui dévaste son pays, la Chimère. L'issue ne lui laisse aucun doute. Animal fabuleux composite avec trois têtes, de bouc, de lion et de serpent, la Chimère est à ce titre une triple dévergondeuse d'âmes. Dans le dévoiement sexuel du bouc, consommateur débridé. Dans le dévoiement social du lion, dominateur par la force. Dans le dévoiement, à l'endroit de la lumière de la vérité, du serpent, animal souterrain et tortueux. Face à la Chimère, cancer psychique, le jeune Bellérophon, pur et innocent, ne fait en effet pas le poids.

Choqués par l'inégalité disproportionnée de ce duel, les divinités de l'Olympe décident de fournir au héros le renfort de Pégase, le cheval ailé, source de l'inspiration poétique née du sang de la Méduse décapitée par Persée. Par la vertu de ses ailes, Pégase ne procure pas seulement une position stratégiquement dominante. Il inspire surtout une vision spirituellement élevée, face à quoi la Chimère lubrique, violente et rampante est insignifiante. Bellérophon va la percer de flèches qui figurent les rayons lumineux de la pénétration spirituelle. Mais Bellérophon n'a pas hérité de Poséidon la stabilité et la luminosité nécessaire pour digérer correctement un tel événement. Sa victoire va exalter son imagination vaniteuse et il va se croire maintenant assez fort, avec l'aide de Pégase, pour conquérir l'Olympe, siège de l'esprit. Les dieux ne rient plus : le héros sera précipité dans le Tartare, attaché par les serpents de sa vanité à une roue de feu !

Paul Diel souligne à ce sujet : « L'élévation sublime n'est qu'un état passager de l'âme humaine. L'homme doit redescendre sur terre. Ses désirs corporels exigent qu'il s'en préoccupe. C'est pourquoi il se trouve menacé par le danger chimérique qui l'incite à les exalter. Le vrai héros est celui qui sait résister dans ce combat continuel, qui sait vivre alternativement sur les deux plans : le plan de l'élévation spirituelle et le plan de la vie concrète. C'est l'idéal grec de l'harmonie des désirs. Mais combien grand est le danger que l'homme, ayant atteint la sublimité dans des moments d'élévation, se croie un être sublime à l'abri de toute séduction perverse. C'est par là même qu'il redevient la proie de l'exaltation chimérique. Aussi le mythe grec ne se lasse-t-il pas d'exprimer que la victoire spirituelle -l'élévation, si parfaite semble-t-elle- porte en soi le danger le plus insidieux. L'esprit vainqueur, justement à cause de sa victoire, se trouve menacé de se transformer à nouveau en esprit vaincu, en vanité. Et même en vanité d'autant plus grande que la victoire était éclatante. »

perseus.jpg

Persée
Persée est le fils de Zeus et de la mortelle Danaé, mythiquement fécondée, comme dans le mythe chrétien, par une nuée dont est tombée une pluie dorée, symbole de l'esprit divin. Acrise, le père de Danaé et l'ancêtre terrestre de Persée, que l'oracle avait averti qu'il serait tué par son petit-fils, expose la mère et l'enfant, qui sont sauvés par le Zeus, père mythique de Persée. Zeus patronne la puissance sublimante de ce fils-de-Dieu (dont les penchants au pervertissement sont fils-de-l'homme). Comme Bellérophon, Persée est appelé à monter Pégase afin de délivrer Andromède, une vierge qui, s'étant vantée d'être plus belle que les Néréides (notamment Amphitrite, Thétis et Galatée), a été enchaînée par elles à un rocher où la menace un monstre marin envoyé par Poséidon. Celui-ci la juge vaniteuse, asservie aux désirs terrestres et la destine au pervertissement par sa créature monstrueuse. Persée, à la différence de bien d'autres héros (Thésée, Ulysse), n'a pas besoin de la femme pour se tirer des périls. Il sauve Andromède et l'amène à la sublimité en l'épousant. Mais cette victoire n'est encore que passagère et il doit ensuite affronter Méduse, la reine des Gorgones. Méduse, avec ses soeurs Euryale et Sthéno, symbolise la perversion des trois pulsions essentielles (sociale, sexuelle et spirituelle) par la tyrannie, la lubricité et la banalisation de l'esprit ou le refoulement nerveux du regret des erreurs. D'une hideur effroyable (ou d'une séduction magique), Méduse, qui comme les Erinyes du remord a une chevelure faite de serpents, a le pouvoir de pétrifier (psychiquement) ceux qui se laissent méduser en cédant à son invitation à la regarder. Le moyen de vaincre Méduse réside dans la juste mesure (dont Apollon est le modèle) et dans la reconnaissance exacte de ses errements. Car l'exagération de sa propre culpabilité inhiberait l'effort réparateur. Méduse symbolise le désespoir qui envahit l'âme vaniteuse dans ses éclairs de lucidité. Il s'agit de ne pas céder à l'horreur de sa propre culpabilité, mais de capter sa juste image dans le miroir de la vérité. C'est d'Athéna que Persée recevra l'arme du combat, son 'bouclier luisant' qui reflète la vérité, invite à l'amour combatif pour le vrai et à la connaissance véridique de soi-même. Avec le glaive de la force lucide de l'esprit, Persée décapite Méduse. Du sang du monstre jaillit Pégase, le cheval des Muses qui figure l'élévation sublime et ses trois manifestations : le vrai, le beau, le bon. D'un coup de sabot dont Pégase frappe l'Hélicon, jaillit la source de l'inspiration poétique. Euryale et Sthéno veulent venger leur soeur, mais Pégase met Persée hors de leur portée. Cependant, le combat n'est jamais terminé, car la victoire sur la vanité peut se transformer en vanité de la victoire. C'est la lutte inlassable de toute une vie, aussi Persée emporte-t-il avec lui la tête de Méduse, rappel de vérité. Au géant Atlas, symbole de la résistance terrestre à l'esprit qui lui a refusé l'hospitalité, il montre la Méduse et le pétrifie. Toutefois, cette victoire ne se situe qu'au plan de l'essence et le monde terrestre titanique pervertissant survivra à Persée. Lorsque le héros mourra, il léguera la tête de Méduse à Athéna, qui la placera sur son égide, le bouclier lucide que lui a confié Zeus. Persée, champion vainqueur de la vie, sera immortalisé symboliquement sous la forme d'une étoile brillante, image de l'idéal. L'analogie avec le mythe chrétien est frappante : Persée et Jésus, fils mythiques de l'esprit divin, triomphent du principe de perversion.

oedipe_fabre.jpg

Oedipe
L'oracle avait averti qu'Oedipe, fils du roi de Thèbes Laïos, allait tuer son père et épouser sa mère Jocaste. Aussi Laïos fait-il exposer son fils, après avoir pris la précaution de lui faire couper les tendons des chevilles (d'où son nom qui signifie Pieds enflés), infirmité qui souligne symboliquement les faibles ressources d'une âme qui chancèle entre banalité et nervosité. Contrairement à Zeus, esprit combatif s'il en est, qui se guérit de sa mutilation, Oedipe restera estropié. Il compense cette infériorité par une ambition de pouvoir. Eduqué par un berger qui l'a recueilli et qu'il prend pour son père, Oedipe le quitte adolescent par crainte de réaliser l'oracle. Il se rend à Thèbes, qui est alors terrorisée par un monstre, le Sphinx, situation symbolique désastreuse propre aux villes gérée par un prince dévoyé. Moitié femme et moitié lion, le Sphinx dévore ceux qui, dans l'espoir de libérer la ville, l'affrontent, lorsqu'ils se révèlent incapables de résoudre l'énigme qu'il leur pose. Laïos a promis une récompense à qui vaincrait le monstre. A la différence d'un vrai héros libérateur, Oedipe convoite la récompense et, pour vaincre le mal, il ne compte pas sur sa vaillance spirituelle, mais sur la subtilité de son intellect. Dans un chemin creux qui mène à Thèbes, la voie lui est obstruée par un vieil homme qui mène un char et qui le somme de céder le passage. C'est Laïos qui se déplace sans ses insigne royaux. Injurié par ce qu'il croit être n'importe qui, le héros fort peu héroïque perd tout contrôle et tue ignominieusement le vieillard à coup de béquille. Bien loin du rôle de libérateur qu'il se croit appelé à jouer, c'est un comportement d'une banalité consternante. La fameuse énigme que lui pose le Sphinx est symbolique de la aspiration de l'homme à s'élever au-dessus de son animalité. Elle se formule comme suit : Quel est l'animal qui le matin marche à quatre pattes, le midi à deux et le soir à trois ? Oedipe, dont l'énigme décrit précisément le parcours, peut répondre : l'homme. Et le sphinx s'écroule de son rocher pour s'écraser dans l'abîme. Oedipe est acclamé comme roi et il épouse Jocaste. Désireux de compenser sa déficience physique (et spirituelle) par la domination, il n'est pas moins dévoyé dans la perversion de l'esprit que Laïos et un nouveau fléau accable bientôt Thèbes : la peste. Les prêtres affirmant que la calamité n'est que l'effet d'une culpabilité, Oedipe ordonne qu'on découvre le coupable, démontrant ainsi ses lacunes à se connaître lui-même. Le devin Tirésias, porte-voix de l'esprit, accuse Oedipe, à qui il enjoint de reconnaître ses déviances. Oedipe chasse le révélateur. Jocaste, horrifiée, se tue, mais Oedipe continue de se refuser à tout aveu. Cependant, par regret sublime d'avoir tué en lui l'esprit-père pour épouser la terre-mère, il s'arrache les yeux et se fait conduire par sa fille Antigone au sanctuaire des Euménides, à Colonne. Les Euménides sont des Erinyes bienfaisantes qui dispensent, non pas le tourment du remord, mais le regret libérateur de la coulpe reconnue dans la lucidité à l'égard de soi-même. Entraîné dans la chute par sa faiblesse, il puise dans cette chute les ressources de son élévation.
L'erreur de la psychanalyse dans la définition du complexe d'Oedipe est de réduire le moteur de celui-ci à sa seule pulsion sexuelle, qui l'aurait poussé à ne tuer son père que pour épouser sa mère.

jason-toison.jpg

Jason
Chef de la confrérie des Argonautes, au nombre desquels on compte Héraclès, Thésée et Orphée, Jason embarque ses compagnons dans une entreprise commune de libération sur l'Argo (ce qui signifie 'vaisseau blanc'), à la conquête de leur purification : la Toison d'Or. La couleur dorée de la lumière solaire figure la spiritualisation et l'innocence du bélier la sublimation, à la différence de l'or métal qui représente le pervertissement alourdissant de la matière. Les déficiences des Argonautes ne se situent certes pas dans la banalité, mais dans leur tendance perverse à la domination abusive et dans leur incapacité d'une liaison sexuelle durable. La Toison d'Or est gardée par un dragon. L'objet initial de l'expédition est la domination : Jason n'accédera au trône du roi son père, tué par l'usurpateur Pélias, que s'il conquiert le Trésor sous sa signification sublime. S'il réalise l'exploit de manière purifiante, son règne sera bénéfique, tant pour lui-même que pour tout le pays (symboliquement pour le monde entier). A défaut, il ne sera lui-même qu'un usurpateur. Rescapé du massacre, Jason a été recueilli par le Centaure Chiron (ce qui est un indice de banalité). L'oracle a averti Pélias contre « un homme qui ne porte qu'une sandale », indication de la déficience spirituelle que Jason doit compenser. Pélias est disposé à abdiquer si Jason prouve sa légitimité en réalisant l'exploit de rapporter la Toison d'Or. Fait exceptionnel pour un héros libérateur, Jason ne se sent pas de force à accomplir seul l'exploit. Il convainc des compagnons de qualité, qui l'aident à construire l'Argo et à se rendre à Colchos où se trouve la Toison d'Or. En passant les Symplégades, deux rochers qui se rapprochent pour écraser l'Argo, le gouvernail est avarié, ce qui est une indication néfaste. Aétès, roi de Colchos, n'est toutefois disposé à céder la Toison qu'à la condition préalable que Jason attelle à une charrue des taureaux indomptés, dont le souffle est de feu et les pieds d'airin (indice d'une âme vaillante), pour labourer un champ et y semer les dents d'un dragon qu'a tué un autre héros libérateur. Jason y parvient, mais des dents qu'il a semées naissent des hommes de fer qu'il lui faut vaincre. Plutôt que les vaincre par la pureté de son esprit, Jason use d'un stratagème : il ramasse des pierres et les jette tantôt sur les uns et tantôt sur les autres, de sorte que les uns se croient attaqués par les autres et qu'ils s'entre-tuent. Cette victoire, qui n'est pas celle de la vaillance de l'esprit, est une trahison à la mission essentielle de justice des Argonautes. Et c'est une fois encore avec les armes de la ruse que Jason va affronter le dragon. Il séduit la magicienne Médée, fille du roi de Colchos. Héros défaillant, il ne tue pas le dragon au combat : il l'endort avec un philtre préparé par Médée et subtilise la Toison. Il a esquivé le travail intérieur de purification. Poursuivi par Aétès, il ne lui échappe que parce que Médée tue son propre frère Absyrtos et le découpe en morceaux qu'elle jette à la mer. Elle retarde ainsi Aétès qui s'applique à repêcher les lambeaux de son fils, sacrifié à la coulpe du faux héros. Celui-ci rapporte la Toison à Pélias et accède enfin au trône. Victime d'intrigues, il sera bientôt chassé du pays. Pour se soustraire à l'envoûtement de Médée, il l'abandonne. Devenue une Erynie, Médée tue leurs enfants. Désespéré, Jason se repose à l'ombre de l'Argo où il sera écrasé comme par une massue (poids mort des matérialités inanimées) par une poutre qui s'est détachée du navire, en sanction de sa banalité.

minotaure-thesee.jpg

Thésée
Fils mythique de Poséidon, Thésée est le fils corporel d'Egée, roi d'Athènes qui, en voyage loin de son pays, a séduit Actia, mère de Thésée. Obligé de rentrer à Athènes, Egée cache sous un rocher une épée (arme du combattant de l'esprit) et des sandales (arme du pied, expression de la matière animée par l'âme). Adolescent, Thésée est assez fort pour soulever le rocher. Armé et chaussé, il part à la recherche de son père. Sur le chemin d'Athènes, il tue les cruels brigands Procruste et Sinis. Il vainc le géant Sciron qui, assis au bord d'une falaise, humilie les voyageurs en exigeant qu'ils lui lavent les pieds. Alors qu'ils y sont absorbés, Sciron les pousse dans la mer où une tortue géante les dévore. Thésée fait subir le même sort à Sciron. Il s'empare de la massue du géant Péripéthès (qui est lui aussi fils mythique de Poséidon), péripétie qui marque toutefois le début de son déclin. Parvenu à Athène, il se distingue par une bravade superflue. Raillé par les Athéniens pour sa tenue barbare, sa réaction est disproportionnée : il saisit un char à boeufs et le jette par dessus un temple ! Fêté par Egée, il suscite la jalousie de Médée, répudiée par Jason et qu'Egée a épousée entre temps. Convaincue d'avoir tenté d'empoisonner Thésée, Médée est chassée de la cour d'Egée, lequel est délivré de son emprise. Ayant tué le Taureau de Marathon, Thésée a été jugé digne de partager le trône royal avec Egée. Athènes devait alors au roi de Crète Minos un tribut abominable, que son épouse Pasiphaé lui avait suggéré d'imposer: sept jeunes garçons et sept jeunes filles innocents qui sont sacrifiés en pâture au Minotaure, le monstre mi-homme mi-taureau, né des amours de Pasiphaé avec Poséidon. Minos, réputé pourtant pour sa sagesse, a honte du monstre enfanté par son épouse. Il le cache dans le Labyrinthe (figurant le subconscient), oeuvre de l'intellect de l'ingénieux Dédale. Thésée décide de neutraliser son monstrueux frère mythique. Il s'embarque avec les futures victimes du Minotaure sur un navire aux voiles noires ; il a promis de hisser des voiles blanches en cas de victoire. Fils de Poséidon, il est vulnérable à la tentation de céder à la banalité. Il doit surmonter deux périls : le monstre, qu'il doit éliminer, et le Labyrinthe, dont il doit retrouver l'issue. C'est le camp de l'injustice qui va lui fournir l'aide décisive dans la personne d'Ariane, une des filles de Minos, vierge à conquérir qui s'est éprise de lui. Elle lui apporte la pureté de son amour, afin de l'empêcher de s'égarer dans les détours du mensonge, grâce à la pelote de fil conducteur qu'elle lui prête. Vainquant le monstre par la force d'un amour vrai, il aurait suffi à Thésée, pour que sa mission soit parfaitement accomplie, qu'il remplisse sa promesse d'amour en épousant Ariane. C'est là qu'il échoue. Il tue le Minotaure, mais avec la massue du brigand (et non avec le glaive de son esprit). Exploitant l'amour d'Ariane, sa victoire est le fruit d'une trahison, l'exploit d'un pervers qui séduit ensuite Phèdre, la soeur d'Ariane, une nerveuse hystérique, que le mythe présente sous l'image de l'amazone qui combat l'homme pour en tuer l'âme. Thésée quitte ensuite la Crète comme un brigand : il rapte Phèdre et Ariane et abandonne cette dernière à Naxos, où elle va céder à Dionysos et former avec lui un couple infernal orgiaque. Dans cette trahison du héros se retrouve tant la domination abusive que la perversion sexuelle. A l'approche d'Athènes, Thésée oublie de hisser la voile blanche et Egée, le croyant tué par le Minotaure, se suicide. La défaite du héros libérateur est consommée dans la banalité : s'armant contre Pirithos, un aventurier qui pille la contrée, Thésée se lie d'amitié avec lui. Ensemble, ils vainquent les Centaures, mais à seule fin de s'emparer de leur butin et de prendre leur place au festin. Ils enlèvent Hélène, la soeur de Castor et de Pollux et la jouent aux dés. Thésée l'emporte et, pour dédommager son compagnon, il accepte de l'aider à enlever Perséphone, l'épouse de Hadès. Thésée en est arrivé à chercher le dépassement dans l'ignominie, par crânerie cynique absurde. Ce n'est qu'une fausse libération qui va sceller son sort : la chute dans le Tartare, d'où Héraclès, vainqueur de la banalisation, l'arrachera de la pierre à laquelle il a été rivé, mais n'en ramènera que l'âme morte. Son élan héroïque sera ensuite définitivement anéanti par l'emprise de son épouse, Phèdre, qui s'éprend d'Hippolyte, le fils de Thésée. Ulcérée d'être dédaignée par Hippolyte, Phèdre accuse celui-ci de projeter de tuer son père pour régner à sa place. Thésée chasse son fils qui est dévoré par un monstre marin envoyé par Poséidon. La mesure est alors comble et Thésée regagne le Tartare à jamais.

heracles-hercule-telephe.jpg

Héraclès
Héraclès, dont le nom signifie 'gloire d'Héra', est un descendant de Persée et donc de Zeus, qui a fécondé sa mère Alcmène, en prenant les traits de son époux, Amphitryon. Héra, jalouse d'Alcmène, est hostile à Héraclès. L'image de la fécondation spirituelle évacue toutefois toute allusion à une union charnelle. Héra, qui préside à l'amour sublime, sera sanctionnée pour cette mesquinerie possessive : elle sera suspendue par une chaîne d'or entre ciel et terre, attachée à la sphère spirituelle tout en en étant exclue. Cette opposition entre la force de l'esprit et le don de l'amour va déterminer le destin d'Héraclès. Héritier de la puissance d'élan spirituel de son père mythique, il n'est pas fils d'Héra et il devra lutter dans le voie tracée par Héra contre son penchant à la dispersion sexuelle perverse. Zeus, qui souhaite former pour le monde entier un souverain juste et fort, avait décrété que ce serait l'enfant réunissant la force de l'esprit et l'équilibre de l'âme qui naîtrait à la date qu'il avait choisie (celle prévue pour la délivrance d'Alcmène). Pour déjouer ce dessein, Héra est parvenue à retarder la naissance d'Héraclès et c'est Eurystée, sujet ordinaire, qui naît à la date arrêtée par Zeus. Comme dans le mythe chrétien, le sauveur du monde ne régnera pas sur le monde, mais sur l'esprit. Héraclès devra accepter d'être le serviteur d'un médiocre, ce qui le gardera de laisser pervertir sa pulsion sociale par l'usage abusif de sa position dominante. Apollon lui enseignera à dominer sa propre faiblesse, laquelle est son ennemi essentiel. C'est dans un statut de servitude qu'il accomplira ses travaux de purification. Il ne doit pas exalter vaniteusement son élan spirituel combattif et l'oracle du dieu lui commande de se réconcilier avec Héra. Héros purificateur, ses propres faiblesses, fréquentes, ne sont que des épisodes qui, entre les victoires, lui rappellent sa propre faiblesse qu'il doit parvenir à vaincre. Il va étouffer le Lion de Némée, dompter le Taureau de Crète, capturer vivant le Sanglier d'Erymanthe, symbole de débauche effrénée, vaincre les Amazones-tueuses d'homme (auquel elles veulent se substituer au lieu de le compléter = tueuses d'âme). Dans ce combat contre la banalisation, Héraclès nettoie les Ecuries d'Augias, en y faisant passer le fleuve Alphée et en libérant les Boeufs luisants. Il tue l'Hydre de Lerne, serpent aux têtes multiples qui repoussent aussitôt coupées (il en cautérise les blessures avec son flambeau). Il affronte Géryon, un géant à trois têtes (les trois perversions : banalisation, tyrannie, débauche luxurieuse). Il vainc le géant Antée, anti-dieu qui reprend force chaque fois que son pied touche terre, ce dont l'empêchera Héraclès en le soulevant du sol. Il tue Diomède qui jetait ses victimes en pâture à ses chevaux. Il abat de ses flèches les oiseaux du Lac Stymphale, qui obscurcissaient le ciel. Il poursuit une année durant, pour la capturer vivante, la Biche aux Pieds d'airain, figure de sensibilité sublime et de force d'âme. Il va jusqu'au bout du monde pour en rapporter les Pommes d'or des Hespérides et, enfin, il dompte le chien Cerbère, gardien du Tartare, pour en ramener Thésée. En regard de ces exploits héroïques, il y a ses déficiences : Eros, profitant de son sommeil, lui dérobe ses armes ; séduit par Dionysos, il défie le dieu de résister plus longtemps que lui à la beuverie et, vaincu, il est contraint par lui de suivre sa Thiase. Il outrage ses épouses successives. Adolescent, il a épousé Mégare, mais les liens conjugaux le rendent furieux, au point qu'il saccage leur maison et tue leurs enfants avant d'abandonner sa femme. Toute sa vie sera l'expiation de ce crime. Il devient ensuite l'esclave de son épouse Omphale, acceptant de s'avilir en filant et en se parant de robes orientales. Après maintes aventures futiles, il épouse Déjanire qu'il a dû disputer à Achéloos, qui avait pris d'abord la forme d'un serpent et ensuite d'un taureau. Mais Déjanire n'est qu'une femme banale qui, pour traverser un fleuve (celui de la vie quotidienne), accepte l'aide du centaure Nessus, qui tente de la violer. Héraclès parvient à tuer Nessus par les flèches (de son esprit), mais Nessus mourant offre à Déjanire sa tunique trempée de son sang, lui garantissant l'amour de son mari si elle la lui fait porter. Déjanire accepte le présent. Mais le sang du centaure est un venin de débauche et Héraclès tombe amoureux d'Iole. La tunique lui colle à la peau et le brûle. Comprenant enfin qu'il ne parviendra jamais à se purifier de sa tendance à la débauche luxurieuse pour se réconcilier avec Héra, le héros décide de se sacrifier à elle en holocauste. Il dresse un bûcher sur lequel Zeus accepte de lancer son éclair illuminant. Surmontant son penchant dionysiaque, Héraclès renaît, comme le Phénix, en état d'élévation. Zeus accueille son fils préféré et le héros, devenu une divinité de l'Olympe, épouse Hébé, qui sert aux dieux le nectar et l'ambroisie qui leur conservent leur qualité d'âme et d'esprit.

asclepios.jpg

Asclépios
A l'inverse de l'adage 'mens sana in copore sano', qui affirme que la santé de l'esprit est conditionnée par celle du corps, la médecine à laquelle préside Apollon professe qu'il n'y a pas de vraie santé du corps sans grande santé préalable de l'esprit. Il existe toutefois une technique pour remédier aux défectuosités de la mécanique corporelle et pour permettre de la relancer provisoirement. C'est le centaure Chiron qui en conserve les formules. Cette médecine profane se préoccupe de s'affranchir, par une intellectualisation radicale, des pratiques magiques suggestives de purification. Le mythe veut que Chiron, qui s'obstine à ne soigner que les corps, souffre d'une blessure inguérissable que lui a faite au pied une flèche d'Apollon. Le mythe complète la représentation de la médecine par une troisième divinité, Asclépios, qui considère que tout être vivant est un organisme psycho-somatique. Seul l'intellect de l'homme est assez vaniteux pour concevoir l'idée, pseudo-scientifique, qu'il n'est que soma. Toutefois, la réalité des maladies de l'esprit le contraindra tôt ou tard à la prendre en compte : c'est le rôle d'Asclépios, fils d'Apollon et initiateur de la science médicale. La maladie met le patient dans un état mineur : elle le replace subconsciemment dans le monde magique de l'enfance, vis à vis du médecin dans la position de dépendance qu'il avait vis à vis de son père et, dans bien des cas, l'investit des pouvoirs d'un magicien. Mais Asclépios n'a rien d'une idole. Il figure chaque homme destiné à se purifier, à se 'diviniser' en se guérissant de sa tendance à la banalisation. Est significatif à cet égard le Gorgoneion, qui est porté comme un talisman. Les prêtres d'Asclépios invitaient les malades à venir dormir dans le temple d'Apollon et s'appliquaient ensuite à expliquer leurs rêves. La tentation d'Asclépios est d'ériger en but ultime la nécessité de prendre en compte les contingences. C'est alors la mort de l'âme de la médecine, la banalisation dont le châtiment est la foudre de Zeus. L'effort intellectuel d'Asclépios n'est légitime que tant qu'il est orienté sur les exigences de l'esprit.

prometheus.jpg

Prométhée
Au contraire du mythe d'Asclépios, qui figure l'effort intellectuel salutaire lorsqu'il est orienté sur l'exigence de l'esprit et le sens évolutif de la vie, le mythe de Prométhée figure l'effort de l'intellect pour se passer de l'esprit. Alors que Zeus a conçu l'homme comme être spirituel, animé du désir essentiel de l'élan évolutif vers le surconscient, Prométhée va le créer conscient et individué, capable de faux choix, qui le font régresser vers le préconscient animal, vers la Terre-mère. Pour modeler sa créature, Prométhée utilise le comble de la banalité : la glaise boueuse. Pour animer celle-ci, il ne prétend pas emprunter la lumière de l'Olympe, mais le feu, qui n'est que sa forme utilitaire. Et il en est réduit à le dérober. Facteur de production, l'intellect démultiplie les désirs et distrait les hommes du désir essentiel. Ils en oublient le sens de la vie et l'intellect est dès lors, bien qu'ingénieux, insensé. Prométhée, dont le nom signifie prévoyant, a un frère, Epiméthée, qui ne réfléchit pas avant d'agir, mais au contraire seulement après coup. Ce qui va l'amener à se laisser séduire par Pandore, qu'il va épouser. Elle lui offre un coffret fermé, symbole du subconscient, qui renferme tous les vices. Comme le fera Eve dans le mythe judaïque, elle va initier l'humanité au pervertissement de la banalisation ou de l'exaltation de l'imagination. Prométhée, bien qu'il ait résisté à Pandore, n'est pas sauvé pour autant, car il est toujours en opposition avec le sens de l'esprit. Il subira le châtiment de la banalisation : il sera enchaîné à la matière-rocher. Il ne sera sauvé que par le sacrifice du Centaure Chiron, principe de la guérison banale qui va céder sa place à la guérison essentielle, acquise par l'évolution de l'intellect dans l'orientation de l'esprit. Chiron va faire don à Zeus de son immortalité afin que Prométhée, revenu de sa révolte, la reçoive enfin. On notera que, Noé avant la lettre, c'est le fils de Prométhée, Deucalion, qui se charge de repeupler la terre après le déluge, en jetant derrière lui des pierres dont naissent les hommes. Compris dans toute son ampleur significative, Prométhée est la représentation symbolique de l'humanité.

dimanche, 07 mai 2017

Ce que la cosmologie celte a encore à nous dire, avec Patrice Lajoye

CernunnosHerne.jpg

Ce que la cosmologie celte a encore à nous dire, avec Patrice Lajoye

Les mythes celtes peuvent nous aider à éclairer les racines profondes de notre identité mais aussi et surtout à mieux comprendre le monde dans lequel nous vivons et les forces à l’œuvre en nous-mêmes.

Avec Patrice Lajoye, historien des religions, spécialiste du monde celte, qui a cofondé la revue Nouvelle Mythologie comparée, aux éditions Lingva et est secrétaire de rédaction des revues Gallia et Histoire des sociétés rurales. Il a publié chez CNRS éditions (collection Biblis), un ouvrage très savant intitulé L’arbre du monde : La cosmologie celte.

Intervenant : Patrice Lajoye (Historien des religions)

dimanche, 26 mars 2017

The Power of Myth: Remembering Joseph Campbell

JC-1.jpg

The Power of Myth:
Remembering Joseph Campbell

(March 26, 1904 - October 30, 1987)

Joseph Campbell, the famed teacher of comparative mythology, was born on this day in 1904. For many people, including yours truly, he has served as a “gateway drug” into not only a new way of looking at myths, but into a non-materialistic way of viewing the world. And although as a public figure, Campbell mostly remained apolitical, evidence from his private life indicates that he was at least nominally a “man of the Right.”

Campbell was born into an Irish Catholic family in White Plains, New York. He attended Dartmouth College, and then later, Columbia University, where he studied English and medieval literature. He was not strictly a bookish type, either, being an accomplished athlete, and in fact during his time at Dartmouth he was considered to be among the fastest half-mile runners in the world.

JC-2.jpgIt was during his travels to Europe and Asia during the 1920s and ‘30s, as well as a great deal of wide reading while living in a shack in Woodstock, New York, that Campbell developed his interest in world mythology. He also discovered the ideas of C. G. Jung, which were to profoundly influence all of his work. Indeed, he participated in many of the early and historic Eranos conferences in Switzerland alongside not only Jung himself, but such luminaries as Mircea Eliade, Karl Kerényi, and Henry Corbin, among many others. In 1934 Campbell was hired as a professor at Sarah Lawrence College in New York, a position he was to hold until his retirement in 1972, after which he and his wife moved to Honolulu, Hawaii.

Interestingly, in regards to the Second World War, Campbell was a fervent non-interventionist (like his friend, the poet Robinson Jeffers [2]), even in the wake of the Pearl Harbor attack, and in fact gave a public lecture at Sarah Lawrence three days afterwards in which he urged his students not to get caught up in war hysteria and to pursue their educations instead of joining the military. He felt passionately enough about this matter to send a copy of his lecture to the German novelist Thomas Mann, who at the time was working to convince Americans to join the fight against the Third Reich as an exile in California. (Mann sent him a quite angry reply.) And according to Campbell’s biographer, Stephen Larsen, in his journals he comes across as an early Pearl Harbor conspiracy theorist, pointing out that the Roosevelt administration had been trying to goad the Japanese into war for years and discussing the fact that the US Navy had received indications that the Japanese were about to attack in the days prior, but that these warnings were ignored – perhaps deliberately.

While Campbell gave frequent public lectures and published many books, including The Hero with a Thousand Faces [3] in 1949, which was the most thorough overview of his essential ideas, and his four-volume The Masks of God [4] opus, which appeared between 1959 and 1968, in which he attempted to summarize all of the world’s mythologies, he remained relatively obscure outside academic circles until late in his life. His later fame is largely attributable to the endorsements he received from two of his biggest fans. One is Jerry Garcia of the Grateful Dead, who invited Campbell to observe a concert [5] they gave in Berkeley, California in February 1985. (Campbell reported that he was impressed by the event, comparing it to the ancient Dionysian festivals and Russian Easter celebrations.) In November 1986, Campbell and Garcia shared a stage at a conference [6] at UC Berkeley. The other is George Lucas, who frequently cited [7] Campbell’s conception of myth in interviews as being one of his primary inspirations in his writing of the Star Wars films. Indeed, in the 1980s Lucas invited Campbell to come to his Skywalker Ranch to view the entire trilogy (Campbell gave it somewhat guarded praise), and also helped to arrange the most crucial factor in securing Campbell’s late fame: Bill Moyers’ The Power of Myth [8] series.

JC-3.jpgMoyers, a well-respected figure in broadcasting, filmed a series of interviews with Campbell during the mid-1980s, mostly at Skywalker Ranch, that were edited into six one-hour episodes and broadcast on PBS in 1988, along with an accompanying book of the same name [9]. The series introduces and details Campbell’s ideas in a very accessible and entertaining way. It proved to be very popular, both during its original airing as well as in reruns and on video, and cemented Campbell’s reputation as an influential and respected intellectual in the American popular consciousness. Sales of Campbell’s books began to skyrocket as well. Unfortunately, he himself didn’t live to see any of this, as he had passed away the previous year, but he left behind a large body of work in which he had already presented his fully-articulated worldview.

As is frequently the case with prominent white men who don’t pay the proper lip service to political correctness, it wasn’t until after Campbell’s death that some of his former colleagues and acquaintances began to come forward with accusations of racism and anti-Semitism. This charge first appeared in an article by Brendan Gill in the September 28, 1989 issue of The New York Review of Books entitled “The Faces of Joseph Campbell [10],” in which he cited purely anecdotal evidence to support his claim that Campbell had been an anti-Semite, including Campbell’s stance on the war as well as the fact that he had praised the Germanic Jung while disdaining the Jewish Freud, and the fact that he had evinced a love of German culture as well as a general dislike of the Abrahamic religions in his work – all of which is undeniably true.

In the letters [11] that were printed in response, some came to Campbell’s defense while others pressed the attack, including a Sarah Lawrence colleague who claimed that Campbell had reacted to the racial integration of the school with horror. (Although again, no evidence for this was ever produced.) His sympathetic friends indicated that Campbell never tried to hide his conservative sympathies, and pointed out that the fact that Campbell was sympathetic to German and “pagan” cultures while disdaining Judaism and Christianity was hardly evidence that he had been a racist. Nevertheless, these charges have overshadowed Campbell’s work ever since, even if they have had no noticeable impact on the popularity of his work. (I first became aware of the controversy shortly after discovering Campbell, sitting at a restaurant in Ann Arbor, Michigan in 1995, when a passing waiter noticed that I was reading The Hero with a Thousand Faces and felt compelled to ask me, “Reading Joseph Campbell, the ol’ anti-Semite, huh?” I later learned that the waiter was a grad student at the University of Michigan.)

JC-4.jpgRegardless of whether these accusations are true or not, they follow a pattern that is typical for any artist or scholar who refuses to tow the party line. If Campbell had been engaged in “deconstructing” mythology, and showing that the Mahabharata or the Arthurian legends were nothing more than “narratives” expressing patriarchy and sexual repression for example, his personal failings in the eyes of academia would have been ignored. Surely what really bothers academics about Campbell, as well as about scholars with a similar worldview such as Jung, Mircea Eliade, or René Guénon, is that they dared to assert that there is an essential meaning to things, which of course then implies that there may actually be such a thing as values and traditions that are worth preserving.

I first discovered The Power of Myth series on video at my local library in 1995, during a period when I was looking for a new sense of direction and meaning in my life. I was 22, and like most Americans I had been educated in a strictly materialist way of understanding things. For the previous few years I had regarded myself as a Nietzschean, existentialist atheist (in spite of the fact that I only half-understood either Nietzsche or the existentialists). But I soon found this stance to be insufficient as I grew into adulthood and began to better understand the complexities of the human condition. It was my discovery of Colin Wilson, who I have written about elsewhere [12], and Campbell at this time (and through the latter, his own guru, Jung) which persuaded me that there is more to reality and living than what can be known through the five senses. Although I later moved on to other teachers and interests who in some ways surpass them, I will always owe a debt of gratitude to these two figures for “converting” me to something other than a model of a modern major materialist.

The Power of Myth struck me as a revelation, and it caused me to seek out Campbell’s books as well. Like most of us these days, I had always thought of myths as nothing more than quaint stories with some sort of simple moral lesson to be gleaned. Campbell contended that these myths are in fact reflections of a much deeper reality, one that is both metaphysical and which is reflective of deep psychological processes in our unconscious that transcend the individual and are connected to our racial memory. Even more importantly, Campbell first showed me that meaning was in fact anchored in something outside of ourselves, which was certainly very different from what I was being taught in most of my literature classes at the University. I soon began to see everything from a Campbellesque perspective, and I doubt I could have mustered the enthusiasm to finish my degree were it not for the inspiration I derived from him.

The center of Campbell’s worldview is the idea of what he termed the “monomyth.” It posits that underneath all of the world’s mythologies, there is a single structure which they all more or less follow. This structure is timeless, as it is embedded within our consciousness, and can be found in the best modern art and literature – Campbell himself was particularly fond of James Joyce, and in fact the term monomyth itself is derived from Finnegan’s Wake [13] – as much as in the ancient myths. Campbell believed that this monomyth was the expression of the single metaphysical reality which lies hidden behind the mere appearance of things, and that each culture and era develops its own stories to express this unchanging reality. In this sense, he shares some commonality with the traditionalists such as Guénon and Julius Evola. I don’t know of any place where the traditionalists have commented on Campbell directly, but surely they would criticize him along the same lines for which they criticized Jung: namely, that he understood myths as merely containing psychological symbols and “archetypes,” and as depictions of psychic processes, rather than as expressions of an objective reality (this is a complaint that a “true believer” in any religion could make against the Jungian conception of myth).

JC-5.pngSurely a large part of the success of The Power of Myth, as it certainly was in my case, was due to the fact that Campbell comes across in his recorded interviews and lectures as an extremely likeable man with a gift for communicating complex ideas and stories in simple language. He was the very embodiment of your favorite teacher, who (hopefully) turned you on to the wonders of the world of ideas and filled you with the fiery passion to learn more about a particular subject. Like the very best teachers, what you learned from him only marked the starting point in a long odyssey that ended up leading you to other ideas and other destinations in life.

There are certainly many criticisms one can make of Campbell’s conception of things. In addition to the traditionalist objections already mentioned, some scholars have said that not just Campbell’s, but all efforts in the fields of comparative mythology and comparative religion, are flawed in that they emphasize the commonalities between all of the world’s traditions at the expense of the particularities which distinguish them, thus positing a false universalism. There may be some truth in this, but at the same time it seems to me to be symptomatic of the general postmodern disregard for anything which asserts that there is an essential meaning to things. After all, how can a three-thousand-year-old story from ancient Greece teach a present-day American anything more than a Toni Morrison novel can? In fact, those old stories may actually be detrimental, given that they posit a way of life that reinforces old social orders rather than emphasizing the need for racial equality or the fluidity of gender.

At his post-war trial on the charge of promoting Fascism, Evola said about his beliefs, “My principles are only those that, before the French Revolution, every well-born person considered sane and normal.” I suspect that Campbell believed something similar, even if he never couched it in language that was quite so incendiary. When we look at the ancient stories, whether they are European, Indian, Chinese, Native American, or whatever, there is certainly a common outlook there which directly challenges the norms and values which we have come to accept as normal in the modern world.

And this, perhaps, is Campbell’s ultimate value from our point of view. There are certainly greater scholars of myth and religion to read. But especially for newcomers, he can open up the world of primordial, timeless, pre- and anti-modern wisdom that still lurks deep within our souls and continues to shape our lives, whether we are consciously aware of it are not. We are all part of a story that began long before we were born and which will continue long after we die. Campbell brings this story, and our place in it, to light like few others can. And this, in the end, is what the “true Right” is really about.

Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2017/03/the-power-of-myth/

URLs in this post:

[1] Image: https://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2017/03/3-26-17-1.jpg

[2] Robinson Jeffers: http://www.counter-currents.com/tag/robinson-jeffers/

[3] The Hero with a Thousand Faces: http://amzn.to/2nTNC8K

[4] The Masks of God: http://amzn.to/2n5LIO1

[5] observe a concert: http://www.tekgnostics.com/DEAD2.HTM

[6] shared a stage at a conference: http://www.dead.net/features/blog/documenting-dead-joseph-campbell-and-grateful-dead

[7] frequently cited: https://www.youtube.com/watch?v=bSyyqctan2c

[8] The Power of Myth: http://amzn.to/2mEbDAI

[9] book of the same name: http://amzn.to/2n5u3WM

[10] The Faces of Joseph Campbell: http://archive.is/LzQM1

[11] letters: http://www.nybooks.com/articles/1989/11/09/joseph-campbell-an-exchange/

[12] written about elsewhere: http://www.counter-currents.com/2013/12/a-heroic-vision-for-our-time/

[13] Finnegan’s Wake: http://amzn.to/2nppj1A

 

mardi, 21 février 2017

Le symbolisme du feu

photostock-feu-ouvert-1.png

Alberto Lombardo :

Le symbolisme du feu

Le mot « feu » vient du latin « focus », signifiant « foyer ». Comme l’écrit Giacomo Devoto, ce terme « n’a pas de connexions évidentes avec l’indo-européen (des origines) ». Dans les langues indo-européennes anciennes prévalent en effet, et pour l’essentiel, deux autres formes communes pour désigner le feu : « *egni -» et « *pur(o) ». Ces formes communes ont été reconstituées sur la base de nombreuses indices dans les langues historiques ; le premier se retrouve dans le latin « ignis », dans le nom de personne hittite « Agnis », dans le lituanien « ugnis », dans le slave ancien « ogni » et dans le sanskrit « agnis ». La seconde racine, soit « *pur(o) », se retrouve de manière encore plus diffuse, couvrant notamment l’aire germanique où elle est largement attestée. Cette racine se retrouve en italien dans le concept de « pur », par l’intermédiaire du latin ; il est demeuré quasi inchangé depuis des millénaires. Il me paraît particulièrement intéressant, quand on aborde le sens de ces deux racines, de relever une observation de Robert S. P. Beekes ; la suivante : « les deux principaux termes (soit « *egni- » et « pur(o) ») signifient tous deux « feu » mais on peut penser qu’ils représentaient à l’origine une opposition. Le premier terme, généralement du genre masculin, représentait le concept de « feu » en tant que force active, d’où sa déification dans l’Inde antique, avec le dieu Agni (dieu Feu), lequel est l’une des divinités les plus invoquées dans le Rg-Veda. Par contraste, « *pur(o) » est du genre neutre et s’interprète traditionnellement comme étant une conception inactive du feu, soit comme une substance purement matérielle ».

Le feu a un rôle extrêmement important dans de très nombreux cultes et traditions religieuses. Son symbolisme est si varié et complexe, et la diversité des significations qu’il recouvre sont tellement nombreuses même auprès des gens simples, qu’il est difficile de rendre compte de l’ensemble de ses caractéristiques fondamentales. Pourtant, comme pour tout symbole, ce sont les mêmes caractéristiques qui le définissent dans sa matérialité : le feu renvoie à l’idée de transformation, de purification, de pouvoir vivifiant et destructeur tout à la fois. De fait, peu de symboles dévoilent leur dualité comme le fait celui du feu : la flamme qui chauffe et qui donne vie peut, avec une égale intensité, détruire. Par voie de conséquence, celui qui est le souverain du feu est simultanément le souverain de ses pouvoirs immenses et devient un avec le dieu du feu. Il y a ensuite ceux qui dominent les potentialités technique du feu, comme les dieux Héphaïstos et Vulcain. Ces dieux-là sont boiteux, c’est-à-dire sont des dieux imparfaits car ils ne sont souverains que du seul aspect « pyrique » du feu donc de la seconde dimension, comme nous l’avons noté supra. En alchimie, le feu est un élément fondamental et nécessaire car il unit et stabilise.

Hephaestus.jpg

Le feu a par ailleurs un rôle central chez les peuples indo-européens dans les sacrifices rituels et dans tout véritable culte du feu proprement dit (thématique souvent abordée par Georges Dumézil). Disons, pour l’essentiel, que, dans les très nombreux rites symboliques du feu, avec fonctions cosmiques, on est placé dans une position déterminée à partir de laquelle on peut sans doute lier l’activité des dieux et des démons. En outre, le feu sacré est presque toujours conservé et alimenté par un groupe spécial de préservateurs, connaissant ses mystères et placés sous le patronage de divinités spécifiques (Vesta à Rome, les archanges en Iran, Agni en Inde, etc.)

Alberto Lombardo.

(Ce texte avait été rédigé en 2002, le 6 juin, pour le quotidien milanais La Padania ; il est désormais affiché sur le site http://www.centrostudilaruna.it ).

17:42 Publié dans Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : feu, tradition, mythologie | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

lundi, 26 décembre 2016

«Des héros et des dieux»

her4.jpg

Luc-Olivier d'Algange:

«Des héros et des dieux»

Ex: http://frontdelacontre-subversion.hautetfort.com 

Toute science politique qui s'écarte ostensiblement de l'humanitas suscite en nous une juste aversion. Nous redoutons et nous repoussons les théories dont nous devinons qu'elles peuvent abonder dans le sens de la barbarie. Mais sommes-nous pour autant à même de comprendre ce qu'est au juste cette humanitas dont nous nous réclamons ? Pourrons-nous encore longtemps tirer les conséquences d'une idée dont l'origine s'assombrit dans un oubli de plus en plus profond ? Que savons-nous, par exemple, du dessein de la Grèce archaïque et classique qui fut à l'origine des sciences et des arts que l'on associe habituellement à la notion d'humanitas ?

Il est fort probable que cette notion d'humanitas, telle qu'elle fut comprise autrefois diffère bien davantage encore que nous ne pouvons l'imaginer de l'humanité, de l'humanitarisme voire de l'humanisme tels que nous les envisageons depuis deux siècles. Peut-être même notre « humanité » est-elle devenue plus étrangère à l'humanitas que ne le sont aux modernes occidentaux les chamanismes et les rites archaïques des peuplades étrangères. La médiocrité à laquelle nous consentons, le dédain que nous affichons à l'égard de notre littérature, de notre philosophie et de notre style, ne sont-ils point le signe d'une incompétence croissante à faire nôtre une notion telle que l'humanitas ? Quelques-uns d'entre nous, certes, font encore leurs humanités, d'autres entreprennent de louables actions « humanitaires » mais il n'est pas certain que les uns et les autres fussent encore fidèles, si peu que ce soit à l'humanitas.

Que fut au juste pour les Grecs des périodes archaïques et classiques, être humain ? Quel était le site propre de cette pensée de l'humain ? Était-ce, comme dans nos modernes sciences humaines, la réduction du monde à hauteur d'homme ? Certes non ! Il suffit de quelques vagues remémorations de l'épopée homérique pour convenir qu'il n'est de destinée humaine qu'orientée par l'exemplarité divine. Les dieux sont des modèles, quelquefois faillibles mais non moins impérieux et ils entraînent l'aventure humaine dans un jeu de ressemblance où le visible et l'invisible, le mortel et l'immortel s'entremêlent : et c'est ainsi qu'est formée la trame du monde.

L'humanitas pour les anciens n'excluait donc nullement quelque oubli de soi, en tant que pure existence immanente. S'il était donné à l'humain de côtoyer le monde divin et ses aléas prodigieux et parfois indéchiffrables, ce n'était certes point pour s'imaginer seul au monde ou réduit à quelque déterminisme subalterne. L’Épopée nous renseigne mieux que tout autre témoignage : l'aventure humaine, l'humanitas, obéit à la prédilection pour l'excellence conquise, au dépassement de soi-même, au défi lancé sous le regard des dieux, à la condition humaine. Être humain, dans l’Épopée, se mesure moins  en termes d'acquis que de conquête. La conscience elle-même est pur dépassement. Cette verticalité seule, issue des hautes splendeurs divines, nous laisse une chance de comprendre le monde en sa profondeur, d'en déchiffrer la trame auguste.

Ulysse est l'exemple du héros car son âme songeuse, éprise de grandeur est à l'écoute des conseils et des prédictions de Pallas-Athéna. Âme orientée, l’Âme d'Ulysse est elle-même car elle ne se contente point du déterminisme humain. Elle discerne plus loin et plus haut les orées ardentes de l'invisible d'où les dieux nous font parvenir, si nous savons être attentifs, leurs messages diplomatiques.

Le Bouclier d'Achille, ─ sur lequel Héphaïstos a gravé la terre, la mer, le ciel et le soleil ─, est le miroir du monde exemplaire. Par lui, le héros qu'il défend sait comment orienter son attention. L'interprétation du monde est l'objet même du combat, car il n'est point de connaissance sans vertu héroïque. Toute Gnose est aristéia, récit d'un Exploit où le héros est en proie à des forces qui semblent le dépasser. La vertu héroïque est l’areté, la noblesse essentielle qui confère la maîtrise, celle-là même dont Homère donne l'exemple dans son récit. C'est aussi grâce à cette maîtrise, que, selon l'excellente formule de l'éminent helléniste Werner Jaeger, « Homère tourne le dos à l'histoire proprement dite, il dépouille l'événement de son enveloppe matérielle et factuelle, il le crée à nouveau. »

Cette recréation est l'essence même de l'art d'être. L'histoire n'est faite en beauté que par ceux qui ne se soumettent pas aux lois d'un plat réalisme. Il n'est rien de moins « naturaliste » que l'idéologie grecque. La Nature pour Homère témoigne d'un accord qui la dépasse, et le nom de cet accord n'est autre que l'Art. L'aristéia, l'éthique chevaleresque ne relèvent en aucune façon de cette morale naturelle à laquelle nos siècles modernes s'efforcent en vain de nous faire croire.  « Pour Homère et pour les Grecs en général,poursuit Werner Jeager, les limites ultimes de l'éthique ne représentent pas de simples règles d'obligation morale : ce sont les lois fondamentales de l’Être. C'est à ce sens des réalités dernières, à cette conscience profonde de la signification du monde, ─ à côté de laquelle tout "réalisme" paraît mince et partiel ─ que la poésie homérique doit son extraordinaire pouvoir ».

Échappant au déterminisme de la nature par les profonds accords de l'Art qui dévoilent certains aspects des réalités dernières, le héros grec, figure d'exemplarité, confère aussi à sa propre humanité un sens tout autre que celui que nous lui donnons dans notre modernité positiviste. L'humanité, pour Homère, pas davantage que pour Platon, n'est une catégorie zoologique. L'homme n'est pas un animal amélioré. Il est infiniment plus ou infiniment moins selon la chance qu'il se donne d'entrer ou non dans le Songe de Pallas.

Il n'est pas certain que l'anthropologie moderne fût à même de saisir au vif de son éclat poétique et héroïque cette idée de l'humain dont l'âme est tournée vers un message divin. Cette idée récuse à la fois les théories de l'inné et les théories de l'acquis qui se partagent la sociologie moderne, ─ et ne sont que deux aspects d'un même déterminisme profane ─, pour ouvrir la conscience à de plus glorieux appels. L'homme n'est la mesure que par les hauteurs et les profondeurs qu'il conquiert et qui appartiennent à d'autres préoccupations que celles qui prévalent dans l'esprit bourgeois.

Or, celui qui ne règne que par la force brute de l'argent a fort intérêt à nier toute autre forme de supériorité et d'autorité. Nul ne profite mieux de la disparition des hiérarchies traditionnelles que l'homme qui exerce dans l'ordre du pouvoir de l'état de fait. Il n'en demeure pas moins que, dans la médiocratie, il y a d'une part ceux qui profitent de l'idéologie de la médiocrité et d'autre part ceux qui y consentent et la subissent, faute de mieux. Mais dans un cas comme dans l'autre chacun tient pour fondamentalement juste et moral de dénigrer toute autorité spirituelle, artistique ou poétique, tout en subissant de façon très-obséquieuse le pouvoir dont il dépend immédiatement. Il n'y a là au demeurant rien de surprenant ni de contradictoire, la soumission au pouvoir étant, par définition, inversement proportionnelle à la fidélité à l'autorité.

her1.jpg

Soumis au pouvoir, jusqu'à idolâtrer ses représentations les plus dérisoires, le moderne se fait du même coup une idéologie dominante de son aversion pour l'autorité. Cette aversion n'est autre que l'expression de sa honte et de son ressentiment ; honte à subir sans révolte l'état de fait humiliant, ressentiment contre d'autres formes de liberté, plus hautes et plus dangereuses.

L'autorité légitime, légitimée par la vertu noble, l'areté au sens grec, est en effet l'apanage de celui qui s'avance le plus loin dans les lignes ennemies, le plus loin au-delà des sciences connues et des notions communément admises. Au goût de l'excellence dans le domaine du combat et des arts correspond l'audace inventive dans les sciences et dans la philosophie. Si nous voyons le moderne, ─ peu importe qu'il soit « libéral » ou « socialiste », « démocrate » ou « totalitaire », dévot de l'inné ou de l'acquis ─, si peu inventif, hormis dans le domaine des applications techniques et utilitaires, il faudra admettre que le modèle sur lequel il calque son idée d'humanité le prédispose à une certaine passivité et à une indigence certaine.

Le simple bon sens suffit à s'en convaincre : une idéologie déterministe ne peut que favoriser les comportements de passivité et de soumission chez les individus et entraîner la civilisation à laquelle ils appartiennent vers le déclin. L'individu qui se persuade que la destinée est essentiellement déterminée par le milieu dont il est issu ou par son code génétique se rend sourd aux vocations magnifiques. Il se condamne à la vie médiocre et par cela même se rend inapte à servir le Pays et sa tradition. Seule l'excellence profite à l'ensemble. Le médiocre, lui, ne satisfait que lui-même dans ses plus basses complaisances.

Les principes aristocratiques de la plus ancienne culture grecque nous donnent ainsi à comprendre en quoi nos alternatives, coutumières en sciences politiques, entre l'individualisme et le collectivisme ne valent que dans une science de l'homme qui ignore tout de l’au-delà du déterminisme, si familier aux héros de Homère dans leur exemplarité éducative et politique. Les Exploits, les actions qui témoignent de la grandeur d'âme rompent avec l'enchaînement des raisons médiocres et peuvent seuls assurer en ce monde une persistance du Beau, du Vrai et du Bien.

La Grèce archaïque et la Grèce classique, Homère et Platon, s'accordent sur cette question décisive : le Beau, le Vrai et le Bien sont indissociables. Les circonstances malheureuses qui prédisposaient Ulysse à faillir à l'honneur sont mises en échec par l'intervention de la déesse. Pallas-Athénée est, dans l'âme du héros, la liberté essentielle, héroïque, divine, qui échappe aux déterminismes, et guide sa conscience vers la gloire, vers l'ensoleillement intérieur.

Dans cette logique grecque archaïque l'individu ne s'oppose pas à la collectivité, de même que celle-ci n'est pas une menace pour l'individu (ce qui dans le monde moderne est presque devenu la règle). La valeur accordée à l'amour-propre et au désir de grandeur, la recherche de la gloire et de l'immortalisation du nom propres aux héros de la Grèce ancienne excluent toute possibilité de l'écrasement de l'individu par la collectivité, d'autant plus qu'inspirés par le monde des dieux, l'éclat et la gloire du héros le portent dans l'accomplissement même de ses plus hautes ambitions à être le plus diligent serviteur de la tradition dont il est l'élu.

L'Aède hausse la gloire humaine jusqu'à l'illustrer de clartés divines et lui forger une âme immortelle dont d'autres de ses semblables seront dépourvus, ─ mais dans cette inspiration heureuse, il honorera son Pays avec plus d'éclat et de façon plus durable que s'il se fût contenté d'un rôle subalterne ou indiscernable. L'individu ne sert avec bonheur sa communauté que s'il trouve en lui la connaissance qui lui permettra d'exceller en quelque domaine. Le rapide déclin des sociétés collectivistes modernes montre bien que l'individu conscient de lui-même en son propre dépassement est la source de toutes les richesses de la communauté. Mais le déclin des sociétés individualistes montre, quant à lui, que l'individu qui croit se suffire à lui-même, qui dédaigne le Songe de Pallas et ne conçoit plus même recevoir les biens subtils des anciens avec déférence, amène à un nivellement par le bas, une massification plus redoutable encore que ceux des sociétés dites « totalitaires ».

Ce monde moderne où nous vivons, ─ est-il seulement nécessaire de formuler quelque théorie pour en révéler l'aspect sinistre ? La médiocrité qui prévaut, hideux simulacre de la Juste Mesure, n'est pas seulement l'ennemie des aventures prodigieuses, elle est aussi, et de façon de plus en plus évidente, le principe d'une inhumanité auprès de laquelle les pires désastres de l'histoire antique paraissent anecdotiques et bénins. Si l'humanitas des anciens fut en effet une création de l'idéal aristocratique, tel que l'illustre l'épopée d'Homère, la médiocrité moderne, elle, engendre une inhumanité placée sous le signe de l'homme sans visage, de l'extermination de masse, du pouvoir absolu et de la haine absolue pour laquelle la fin justifie les moyens dans le déni permanent des fondements mêmes de toute morale chevaleresque. Au Dire, au Logos, et à l'areté qui en est l'expression humaine, le monde moderne oppose le Dédire universel.

De nos jours, les philosophes ne cherchent plus la sagesse ; ils « déconstruisent ». Les poètes ne hantent que les ruines d'un édifice d'où l'être a été chassé. Les « artistes » s'acharnent à ce que leurs œuvres ne fussent que « matière » et « travail » : et certes, elles ne sont plus en effet que cela. Et tout cela serait de peu d'importance si l'art de vivre et les sources mêmes de l'existence n'en étaient atteints, avec la grâce d'être.

Les œuvres grecques témoignent de cette grâce qui semble advenir à notre entendement comme dans une ivresse ou dans un rêve. Le royal Dionysos entraîné dans la précise légèreté de son embarcation, dans l'immobilité rayonnante d'un cosmos aux limites exactes, la Korê hautaine et rêveuse, l'intensité victorieuse du visage d'Athéna, nous donnent un  pressentiment de ce que pourrait être une vie dévouée à la grandeur. Mais de même que le concept d'humanité diffère selon que l'envisage un poète homérique ou un sociologue moderne, l'idée de grandeur, lorsqu'elle en vient à prendre possession d'une destinée collective prend des formes radicalement différentes selon qu'elle exprime la démesure technocratique de l'agnostique ou la Sapience du visionnaire.

Les œuvres de la Grèce archaïque nous apprennent ainsi qu'il n'est de grâce que dans la grandeur : celle-ci étant avant tout la conscience des hauteurs, des profondeurs et des latitudes de l'entendement humain et du monde. Les actions et les œuvres des hommes atteignent à la grâce lorsqu'elles témoignent d'un accord qui les dépasse. Alors que le moderne ne croit qu'à la puissance colossale, à la pesanteur, à la masse, à la matière, la Grèce dont il se croit vainement l'héritier, nous donne l'exemple d'une fidélité à l'Autorité qui fonde la légitimité supérieure de la légèreté ouranienne, de la mesure vraie, musicale et mathématique, du Cosmos qui nous accueille dans une méditation sans fin. C'est par la grâce de la grandeur que nous pouvons être légers et aller d'aventure, avec cette désinvolture aristocratique qui prédispose l'âme aux plus belles inspirations de Pallas.

La lourdeur presque invraisemblable de la vie moderne, tant dans ses travaux que dans ses loisirs, la solitude absurde dans laquelle vivent nos contemporains entassés les uns sur les autres et dépourvus de toute initiative personnelle, l'évanouissement du sentiment de la réalité immanente, à laquelle se condamnent les peuples qui ne croient qu'en la matière, l'inertie hypnagogique devant les écrans à laquelle se soumettent les ennemis acharnés de toute déférence attentive, ne doit nous laisser ni amers ni indignés : il suffit que demeure en nous une claire résolution à inventer, d'abord pour quelques-uns, une autre civilisation.

her3.jpgDe quelle nature est cette claire résolution ? Aristocratique, certes, mais de façon originelle, c'est-à-dire n'excluant à priori personne de son aventure. La clarté où se déploie cette résolution ne l'exempte pas pour autant du mystère dont elle est issue, qui se confond avec les tonalités essentielles de la pensée grecque telle que sut la définir Nietzsche : le rêve et l'ivresse. Rien, jamais, en aucune façon ne saurait se faire sans l'intervention de l'Inspiratrice qui surgit des rêves les plus profonds et les plus lumineux et des ivresses les plus ardentes. Cet au-delà de l'humain, qui fonde l'humanitas aristocratique, en nous permettant d'échapper au déterminisme et au nihilisme, fait de nous, au sens propre des créateurs, des poètes ; et chacun voit bien qu'aujourd'hui, il ne saurait plus être de chance pour la France  que de se rendre à nouveau créatrice en suivant une inspiration hautaine !

Grandeur d'âme et claires résolutions

Sur les ailes de l'ivresse et du rêve, Pallas est l'inspiratrice hautaine qui appelle en nous de claires résolutions.

Le Songe d'une nouvelle civilité naît à l'instant où nous cessons d'être emprisonnés dans la fausse alternative de l'individu et de la collectivité. Pallas-Athéna, qui délivre Ulysse de sa faiblesse, nous donne l'audace de concevoir la possibilité d'une existence plus légère, plus grande et plus gracieuse, ─ délivrée de la pesanteur dont le médiocre écrase toute chose belle et bonne.

L'Utilité, qui n'est ni vraie, ni belle, ni bonne, est l'idole à laquelle le médiocre dévoue son existence. L'utilitaire se moque de la recherche du Vrai et de l'Universel et, d'une façon plus générale, de toute métaphysique. Ce faisant, il s'avère aussi radicalement étranger au Beau et au Bien. Conformant son existence au modèle le plus mesquin, le médiocre est le principe du déclin des civilisations. La grandeur d'âme que chante Homère, l'ascendance philosophique vers l'Idée que suscite l'œuvre de Platon, ont pour dessein de délivrer l'homme de la soumission aux apparences et de le lancer à la conquête de l'excellence. L'idéal aristocratique de la Gloire, dont les Grecs étaient si farouchement épris, est devenu si étranger à l'immense majorité de nos contemporains que son sens même et sa vertu créatrice échappent au jugement, toujours dépréciateur, que l'on porte sur sa conquête.

Tel est pourtant, le secret même du génie grec d'avoir su, par la recherche de la gloire exalter la personne, lui donner la plus vaste aire d'accomplissements qui seront la richesse de la civilisation toute entière. Alors que le médiocre, subissant le déterminisme limite son existence à ses proches et n'apporte rien à quiconque d'autre, l'homme à la conquête de la gloire, à l'écoute des plus exigeantes injonctions de la déesse, va s'élever et, de sa pensée et de ses actions, être un dispensateur de bienfaits bien au-delà du cercle étroit auquel l'assignent les circonstances immanentes.

L'idéal aristocratique de la Grèce archaïque, ─ que la philosophie de la Grèce classique va universaliser ─, unit ainsi en un même dessein créateur les exigences de l'individu et celles de la communauté, dépassant ainsi la triste et coutumière alternative « politologique » des modernes. Cet idéal dépasse aussi, du même coup, l'opposition entre les tenants de l'universalisme et ceux de l'enracinement. La hauteur ou le faîte éblouissant de l'Universel qui se balance au vent garde mémoire des racines et de l'humus.

Nous reviendrons, dans la suite de notre ouvrage sur la question des racines et du droit du sol lorsque le moment sera venu d'établir la filiation entre l'idée grecque et la tradition française dans l'immense songe de Pallas qui les suscite avec le pressentiment d'une civilisation ouranienne et solaire. Pour lors, il importe de garder présente à l'esprit cette nécessaire amplitude du regard propre à la poésie homérique et sans laquelle tout dessein poétique et politique demeure incompréhensible. Quelques-uns hasarderont que ces considérations relèvent bien davantage de la poésie que du politique, sans voir qu'il n'est point de politique digne de ce nom, qui ne fût, pour l'ancienne Grèce, ordonnée à la poésie.

Dès lors que la politique prétend se suffire à elle-même et ne cherche plus dans la poésie la source de son dessein, elle se réduit, comme nous y assistons depuis des décennies, à n'être plus qu'une gestion d'un ensemble d'éléments qui relèvent eux-mêmes exclusivement du monde sensible. Gérer est le maître-mot de nos temps mesquins où l'esprit bourgeois est devenu sans rival, alors que le héros homérique, tout au contraire n'existe que par le refus de cette mesquinerie et l'audace fondatrice à se rebeller contre les « réalités », à se hausser et à hausser sa destinée dans la région resplendissante du Mythe et du Symbole. Alors que le moderne croit faire preuve de pertinence politique en se limitant à « gérer » une réalité dont il peut reconnaître le cas échéant, le caractère déplaisant, le héros d'Homère, obéissant à une autorité supérieure à tous les pouvoirs et toutes les réalités, va s'aventurer en d'imprévisibles épreuves et conquêtes. Tout se joue à la fois dans le visible et l'Invisible, celui-là n'étant que la répercussion esthétique de celui-ci. L'amplitude du regard épique ouvre l'angle de l'entendement jusqu'aux deux horizons humains et divins, qu'il embrasse, disposant ainsi l'âme à reconnaître la grandeur.

Nul ne méconnaît l'importance des modèles dans la formation des hommes. Le génie grec fut de proposer un modèle exaltant, toujours mis en péril par l’Éris qui nous incite à nous dépasser nous-même. Le moderne qui se fait de la médiocrité un modèle se condamne à devoir céder sans résistance à l’Éris malfaisante, la Querelle inutile, qui traduit toute puissance en moyen d'anéantissement, alors que l’Éris bienfaisante s'exprime en œuvres d'art, en civilités subtiles et ferventes apologies de la beauté.

Le moderne qui ne tarit pas en déclarations d'intention, pacifistes ou « humanitaires » ne connaît en matière d'expression de puissance que l'argent qui fait les armes et peut-être qu'en dernière analyse, au-delà des confusions nationales et idéologiques, les guerres modernes ne sont-elles rien d'autre que des guerres menées par des hommes armés contre des hommes, des femmes et des enfants désarmés, selon des finalités purement instinctives et commerciales. Telle est la conséquence de la négation de l'idéal chevaleresque, que l'on récusait naguère encore pour avoir partie liée à la violence !  Or, les codes d'honneur de l’Épopée et des Chansons de Geste furent précisément une tentative de subjuguer la brutalité à des fins plus nobles, de changer autant que possible l’Éris néfaste, destructrice, en Eris généreuse, prodigue de dons et de protections à l'égard des plus faibles. Nier cet idéal chevaleresque, sous prétexte qu'il traitât de la violence, revenait à se livrer à l'hybris de la violence pure.

La persistance à méconnaître cette erreur d'interprétation ne fut point sans verser les sciences humaines « démocratiques » dans l'ornière où nous les trouvons. La méditation de la source grecque nous préservera déjà d'interpréter les notions politiques à rebours de leur étymologie. La démocratie, que peut-elle être d'autre sinon très-exactement le pouvoir du Démos ? Le respect de la personne humaine, de ses libertés de penser et d'être, auxquels on associe, fort arbitrairement, le mot de démocratie n'est pas davantage inscrit dans l'étymologie que dans l'histoire de la démocratie. Croire que le pouvoir du plus grand nombre est par nature exempt d'abominations est une superstition ridicule que ne cesse de démentir, hélas, la terrible histoire du vingtième siècle. Mais les hommes en proie aux superstitions ont ceci de particulier que le plus éclatant démenti ne change en rien leur façon de voir, ou, plus exactement, de ne pas voir. La forme moderne de la superstition est l'opinion que l'on possède et que l'on exprime, entre collègues, au café ou le jour des élections un peu partout, et dont il va sans dire qu'elle est, du point de vue qui nous intéresse ici, sans aucune valeur.

her2.jpg

Insignifiante par définition, l'opinion relève de la croyance mais d'une croyance imposée de l'extérieur et d'ordre presque mécanique. L'individu moderne possède l'opinion précise qui le dispensera le mieux d'être livré à l'exercice difficile de la pensée. Nous savons, ou nous devrions savoir, depuis Platon, qu'avoir ses opinions c'est ne pas penser. Ce n'est pas même commettre une erreur, se fourvoyer, succomber à quelque maladresse fatale, ─ c'est tout simplement consentir à ne pas tenter l'aventure de la pensée. On peut à bon droit reprocher à certaines formes de démocratie d'avoir favorisé de façon démesurée cette outrecuidance de l'opinion, cette prétention de la non-pensée à s'ériger en doctrine. Et il n'y a pas lieu de s'étonner outre mesure que la plus ancienne démocratie connue fît condamner Socrate, auteur de tant de subtiles maïeutiques ! Si la formulation, et la mesure quantitative des « opinions » suffisent à créer une légitimité, toute autre forme de pensée ne saurait en effet apparaître que rivale et dangereuse.

Le système parlementaire a ses vertus mais l'idéologie démocratique demeure, elle, singulièrement menaçante à l'endroit de toute pensée qui prétend à trouver sa légitimité non point en quelque fin utile mais dans son propre parcours infini. Le Voyage d'Ulysse accompagne dans l'invisible celui qui tente d'échapper à la tyrannie de l'Opinion. L'interprétation infinie du monde, héroïque et poétique, débute avec cette délivrance. L'idéologie démocratique se propose à travers ses sciences humaines, positivistes ou matérialistes, comme une explication totale du monde et de l'homme, ─ explication totale d'autant plus facile à formuler, et à promouvoir, qu'elle se fonde sur la négation du haut et du profond et réduit le monde à la platitude de quelques schémas. A cette outrecuidance de l'explication, l'épopée oppose le génie de l'interprétation infinie, la science d'Hermès-Thot : l'herméneutique. Il n'est pas vain de redonner à ce terme passablement galvaudé sa consonance mythique, sans quoi il se réduit à ne recouvrir que d'assez fastidieuses gloses universitaires ! Or, on ne saurait concevoir de philosophie politique dans la méconnaissance de la forme d'intelligence qu'elle tend à favoriser.

L'humanitas, en politique, consiste d'abord à tenir pour important ce qu'il advient de la nature humaine, quels types d'hommes tendent à apparaître ou disparaître et dans quelles circonstances. Autant de questions que les gestionnaires modernes refusent en général de se poser. Les modèles n'en demeurent pas moins opératoires, et particulièrement, les pires d'entre eux. Les modèles du moderne sont à la fois dérisoires et inaccessibles ; ils ne mobilisent son énergie que pour l'illusion : la copie d'une réalité sensible qui elle-même n'advient à l'entendement que sous la forme d'une opinion : d'où l'extraordinaire prolifération des écrans, avec leurs imageries publicitaires. A cet assujettissement au degré le plus inférieur du réel, à savoir la copie de l'immanence, l'areté homérique, tout comme l'Idée platonicienne, ─ qui n'est autre que sa formulation philosophique ─, oppose le désir du Haut, de l'Ardent et du Subtil. A ces grandes âmes le monde sensible ne suffit pas. Au-delà des représentations, des ombres, des copies, des simulacres, l'âme héroïque entrevoit une présence magnifique, victorieuse de toute temporalité et de tout déterminisme, et de laquelle elle désire amoureusement s'emparer.

La veulerie, la laideur, la lourdeur, ─ tout ce qui rend impossible la résistance au Mal ─, que sont-elles sinon ces qualités négatives qui indiquent l'absence de la grandeur d'âme ? Celui qui ne désire plus s'élever vers les régions resplendissantes de l'Idée, c'est à la lourdeur qu'il s'adonne. L'individualité vertigineusement égocentrique des modernes, dont témoigne la disparition de l'art de la conversation, ne change rien au fait que, par leur matérialisme, qui n'est rien d'autre qu'un abandon à la lourdeur, et leurs opinions qui ne considèrent que les représentations du monde sensible, ─ qu'ils s'abusent à croire « objectives » ─, les modernes s'éloignent de la possibilité même de l'Art.

Morose, brutal, mécanique et lourd, le moderne ne laisse d'autre choix à celui qui veut être de son temps qu'entre l'hybris technologique ou l'intégrisme religieux ou écologique qui ne sont que l'avers et l'envers d'un même nihilisme. Après avoir perdu toute foi et toute fidélité et, par voie de conséquence, la force créatrice nécessaire au dessein artistique, le moderne ressasse ses dévotions à l'idole morne de l'Utile. Que la personne humaine eût une vertu propre et qu'il fût de son devoir  de l'illustrer en œuvres de beauté, ces notions-là sont devenues à tel point étrangères que toutes les idéologies récentes peuvent se lire comme des tentatives, à l'encontre de la philosophie platonicienne, de maintenir le plus grand éloignement possible entre la morale et l'esthétique. Tout conjure en cette fin de siècle pénombreux où nous nous trouvons à faire de nous de simples objets d'une volonté elle-même sans objet. L'idolâtrie de la prouesse technique, réduite à elle-même dans une souveraineté dérisoire n'est pas sans analogie avec la morale puritaine qui prétend se suffire à elle-même, en dehors de toute référence au Beau et au Vrai.

achilles_hugo_morais.jpg

Le moralisme intégriste, dont l'expression directe est le crime, rejoint le moralisme technocratique qui profane le monde de fond en comble. Le monde moderne qui tant voulut confondre la juste mesure avec la tiédeur, se trouve désormais en proie au pouvoir exclusif des profanateurs. Loin d'être un quelconque retour aux temps anciens, l'intégrisme serait bien plutôt un des accomplissements ultimes de la modernité.

L'éloignement du Songe de Pallas et de l'idéal aristocratique, nous livre à ces irrationalités farouches. Certains s'effarent de l'extension, dans nos univers urbains et bourgeois, des superstitions les plus aberrantes. Le New-Age, les marabouts, les pratiques occultes les plus répugnantes, gagnent un nombre croissant d'adeptes dont les existences bourgeoises, impliquant l'usage quotidien de techniques dites « avancées » paraissent livrées sans défense à de monstrueuses déraisons. Telles sont quelques-unes des conséquences de la « déconstruction » du Logos platonicien. La haine de la métaphysique, quand bien même elle use à ses débuts d'arguments « rationalistes » a pour conséquence fatale la destruction de la Raison, ─ celle-ci n'étant qu'une réfraction de l'Idée et du Logos. La réfutation de toute hiérarchie métaphysique, la volonté acharnée de réduire l'angle de l'entendement humain au seul domaine du sensible, la négation de l'objectivité du monde métaphysique, la réduction des royaumes de l'âme à quelque « inconscient » psychanalytique contribuèrent de façon décisive à saper le fondement même de la Raison qui n'est jamais que l'instrument de la métaphysique en tant que science de l'Universel. Les généticiens nazis, les informaticiens qui font « marabouter » leurs entreprises expriment la déraison d'une modernité scientifique qui est à l'origine des plus abominables possibilités de manipulation de l'être humain. Désormais les Titans règnent sans partage. Mais à quelques-uns d'entre nous les dieux dissimulés dans les profondeurs vertigineuses et éblouissantes de l'Ether font signe.

Nous sommes de ceux qui croient qu'un Grand Songe peut seul nous sauver de cette terrible déraison qui envahit tout. Seule la célébration d'un Mystère nous rendra aux sagesses sereines du Logos, ─ et nous montrerons, dans la suite de cet ouvrage, que ce Mystère ne saurait plus être qu'un Mystère français. Que la philosophie politique, selon la terminologie française, fût d'étymologie grecque suffit à justifier notre déférence pieuse au Songe de Pallas. La « polis » grecque contient ces deux notions de Cité et d’État que la Monarchie saura concilier avec les bonheurs et les malheurs que l'on sait.

Pallas n'en doutons pas veille sur les beaux accomplissements de la Monarchie française. L'alliance du mystère et de la raison, la beauté propre à cette double clarté qui donne aux choses leur relief et leur profondeur me paraît du privilège des cultures grecques et françaises. Les exégètes modernes, qui vantent la clarté française et la raison grecque semblent ignorer avec application les prodigieuses arborescences métaphysiques dont elles sont issues. Ils ne veulent gloser que sur certains effets et dédaignent le rêve immense où ils prennent place.

Redisant l'importance de la beauté du geste et l'éternité irrécusable du plus fugace lorsqu'il illustre la fidélité à une souveraineté qui le dépasse, le Songe de Pallas nous rend la Raison en nous délivrant du rationalisme. La distinction entre la raison et le rationalisme paraîtra spécieuse à certains. Elle n'en tombe pas moins sous le sens. Car la raison digne de ce nom s'interroge sur elle-même : elle est Raison de la raison, quête infinie alors que le rationalisme n'est qu'un système qui soumet la pensée à une opinion. Le rationalisme est le sépulcre de la haute raison apollinienne qui ordonne les bienfaits, établit d'heureuses limites et œuvre en ce monde sensible selon la Norme intelligible. Or, Apollon qui, selon la thèse de Nietzsche est le dieu de la mesure est aussi le dieu de la sculpture et du rêve. La forme de la beauté qui s'inscrit dans le paysage qui définit l'espace par ses figures mythiques et ses orientations symboliques, affermit la raison alors même qu'elle invite au rêve.

Mais de quelle nature est au juste ce rêve qui nous délivre ? A quel règne appartient-il ? Quels sont ses privilèges et ses vertus ? Le consentement à une pensée qui n'exclut point les hiérarchies du visible et de l'Invisible, les imageries poétiques de la hauteur et les mathématiques subtiles des lois célestes nous inclinent à voir dans le sentiment qu'éveille en nous le Songe de Pallas, un assentiment primordial à la légèreté.  Il serait bien vain de se référer aux mythologies anciennes si nous n'étions plus à même d'en éveiller en nous d'intimes résonances. Le seul nom de Pallas-Athéna intronise dans notre âme un règne victorieux de la pesanteur. L'exactitude intellectuelle que requiert la déesse nous ôte la possibilité de l'abandon à la veulerie de l'informe. Tel est sans doute le secret de l'euphorie rêveuse qu'éveille sa présence en nous. Car le Songe que Pallas éveille en nous est tout d'abord un envol, et de cet envol nous tiendrons, jusqu'aux étincelantes armes de la raison, la connaissance de la dimension verticale du monde qui est le principe même de toute connaissance métaphysique.

pallas.jpg

La limite du pouvoir qu'exercent les utilitaires et les puritains est la limite de tout pouvoir. Le pouvoir aussi hypertrophié soit-il n'a de pouvoir que sur le pouvoir : l'autorité lui échappe, qui incombe elle, de la résolution que suscite en nous l'intervention de Pallas. Autant dire, d'ores et déjà, que nous n'aurons de cesse d'avoir redonné à notre résolution les formes que lui mérite son inspiratrice ! Qu'il soit bien entendu qu'il ne sera plus jamais question de céder si peu que ce soit de ce qui nous appartient aux Barbares. Face à la permanente apologie de l'informe nous ne serons pas sans fierté de paraître quelquefois intolérants. Que l'on renonce à nous vouloir bienveillants à l'égard du vulgaire ou du lourd ou disposés à leur trouver quelque excuse ! Nous voyons en l'idéologie de l'équivalence du tout avec n'importe quoi le signe de cette confusion qui, si nous n'y prenons garde, nous asservira aux pires idoles.

C'est au plus bas que les choses bonnes et mauvaises se confondent et c'est au plus haut qu'elles s'unissent après être passées par l'équateur des plus nettes distinctions. Feindre de croire que les distractions de masse et la publicité puisse être équivalentes de quelque façon aux poèmes de Scève ou de Mallarmé revient à donner aux premières une insupportable éminence. L'état de fait qui, dans nos sociétés de masse revient à accorder plus d'importance aux expressions rudimentaires et barbares, est-il encore nécessaire de s'y soumettre au point de leur trouver, par surcroît quelque légitimation « intellectuelle » ? Faut-il toujours ajouter au pouvoir déjà abusif par lui-même l'abus incessant de nos obséquiosités de vaincus ? Telle est pourtant l'attitude d'une grande majorité de nos intellectuels qui assistent de leurs applaudissements l'extinction progressive de toute intellectualité. Nous sommes sans hésiter de ces élitistes affreux qui tiennent en mépris les amusements du plus grand nombre. Nous sommes avec enthousiasme les ennemis des « intellectuels », ─ que Péguy sut traiter comme il convient, ─ dont le parti pris démocratique n'est autre qu'une lâche approbation de la force effective du plus grand nombre.  

Ces gens-là, ayant pris le parti de la force la plus massive s'imaginent à l'abri de tout revers et de toute vindicte, et il est vrai qu'en cet Age Noir où nous sommes, le cours des choses, que les cuistres nomment l'Histoire, semble en effet aller à leur avantage, ─ mais nous ne sommes pas non plus de ceux qui trouvent leur plus grande satisfaction à suivre le chemin le plus avantageux. Notre joie s'accroît à la conscience que nous prenons de la nécessité de résister ; telle est exactement la différence qui existe entre l'idéologie collaboratrice et l'idéologie résistante. L'une se targue du réalisme et du caractère irrécusable de l'état de fait, l'autre augure et s'aventure pour l'honneur, qui est fidélité au Bien et au Beau universels. Si les conditions immanentes sont défavorables au triomphe du Juste, ─ comment saurait-t-il être question, pour un homme d'honneur, de « s'adapter »?

Toute la ruse de la modernité consiste à faire en sorte que nous nous trompions de combat et que les sentiments nobles qui n'ont pu être anéantis fussent employés à mauvais escient, en des combats douteux et de fausses espérances. D'où l'importance de la remémoration religieuse des mythes et de la poésie fondatrice de la Cité. L'exercice du discernement et l'exercice de la poésie ne sont point exclusifs l'un de l'autre. Quiconque sut dévouer son attention à une œuvre de poésie au point d'y fondre ses propres intuitions et états d'âme, sait bien qu'une des vertus les moins rares du poème est d'ajouter à l'entendement des modes opératoires un discernement qui gagne en finesse à mesure que l'on s'abandonne à l'euphorie des rythmes et des rimes. Une politique radicalement séparée de la poésie, ainsi que l'envisagent les « démocrates » modernes, revient à assujettir la Cité à la dictature d'une science utilitaire dont les ressorts irrationnels, les soubassements de volonté de puissance ne peuvent nous entraîner que vers les désastres de l'Hybris.

Or, sinon la mesure musicale, l'attention portée aux nuances et la fervente exactitude de la pensée, que reste-t-il pour résister à l'Hybris ? La poésie seule est le recours. La poésie est la seule chance pour échapper aux parodies, mi-cléricales, mi-technocratiques, qui se substituent désormais  aux défuntes autorités. Bientôt nous n'aurons plus le droit de dire un mot plus haut que l'autre. Et tout se joue dans la hauteur divine des mots, ─ qui certes les accorde en musique mais leur donne aussi une couleur différente selon leur élévation plus ou moins grande dans les secrets d'azur des états multiples de l'être. Selon leur hauteur sur la gamme des nues, les mots chantent et brillent de façon différente. Les divines gradations exaltent en nous le meilleur : le plus délié et le plus intemporel.

L'anamnésis, le seuil éblouissant, la Cité inspiratrice

La véritable anamnésis emporte ainsi le meilleur de nous-même sur les chevaux ailés de la poésie. Notre ressouvenir est l'essor. Il nous élève vers des nues de plus en plus transparentes : au sens exact, nous gagnons les hauteurs. Toute connaissance est élévation et réminiscence. « Ainsi, l’âme, est-il dit dans le Ménon, immortelle et plusieurs fois renaissante, ayant contemplé toutes choses, et sur la terre et dans l'Hadès, ne peut manquer d'avoir tout appris. Il n'est donc pas surprenant qu'elle ait, sur la vertu et le reste, des souvenirs de ce qu'elle en a su précédemment. La nature entière étant homogène et l'âme ayant tout appris, rien n'empêche qu'un seul ressouvenir (c’est ce que les hommes appellent savoir) lui fasse retrouver tous les autres, si l'on est courageux et tenace dans la recherche ; car la recherche et le savoir ne sont au total que réminiscence ». Tout dans le monde moderne conspire à nous livrer à l'oubli morose. Ceux que la réminiscence ne ravit plus sont condamnés à n'être que des écorces mortes. Il faut encore que l'expérience du ressouvenir soit en nous un ravissement intense pour que nous devenions dignes d'œuvrer aux retrouvailles avec les origines poétiques et politiques de notre civilisation.

achille-hector.jpg

Du poétique et du politique, aussi indissociables que l'âme et le corps qu'elle anime, la concordance fonde les hautes civilisations. Mais cette concordance est elle-même la preuve de l'advenue de la réminiscence sans laquelle ce qui unit le plus lointain et le plus proche tombe dans l'oubli. Ceux qui, dans notre triviale modernité, se distinguent par quelque inclinaison à l'héroïsme se caractérisent ainsi par leur vif désir d'aller en amont des idées dont il ne subsiste, en effet, de nos jours, que des formes vides. En amont des définitions scolaires, il y eut l'appel du Large, et les aventures prodigieuses, le voisinage des dieux, les enchantements et les dangers.

Les discussions vétilleuses qui supposent que le Bien, le Beau et le Vrai puissent être considérés séparément tombent à la seule évidence de l'areté grecque qui proclame que le Beau est mon seul Bien et qu'il ne saurait être de Vérité qui nous contraigne à subir la loi de la laideur. Chercher le Vrai au détriment du Beau et du Bien, le Beau au détriment du Vrai et Bien ou encore le Bien au détriment du Beau et Vrai procède d'une aberration semblable à celle qui chercherait à s'approprier la dureté du diamant au détriment de sa transparence. Le Vrai, le Beau et le Bien ne sont pas des réalités distinctes mais des aspects d'une vertu unique que l'on conquiert par un incessant dépassement de soi-même.

Dans le visible, ni dans l'invisible, il n'est rien d'acquis. Tout se joue, toujours, dans la mise en péril donatrice qui, privilégiant l'audace, nous éloigne de nos semblables et nous rapproche du seuil éblouissant que la raison corrobore. L'acte du raisonnement, loin d'y contredire, nous invite au voyage du dieu.

« Il faut en effet, écrit Platon, que l'homme saisisse le langage des Idées lequel part d'une multiplicité de sensations et trouve l'unité dans l'acte du raisonnement. Or, il s'agit là d'une réminiscence des réalités jadis vues par notre âme, quand elle suivait le voyage du dieu et que dédaignant ce que nous appelons à présent des êtres réels, elle levait la tête pour contempler l'être véritable. Aussi bien il est juste que seule la pensée du philosophe ait des ailes car les objets auxquels elle se cesse de s'appliquer par son souvenir, autant que ses forces le lui permettent, sont justement ceux auxquels un dieu, parce qu’il s'y applique doit sa divinité. »

Le plus haut modèle invite ainsi la divinité à se reconnaître elle-même, à trouver le secret de la source de toute divinité. Le plus haut modèle, que Platon nomme l'Idée, est la forme formatrice de toute poésie et de toute politique, et son ressouvenir, par la Source qu'elle désempierre en nous, nous montre la voie de la déification. Pour l'esprit héroïque, la condition humaine n'est point telle que nous devions nous y soumettre. Aux ailes de la pensée de nous porter au-delà de toute condition, au grand scandale des esclaves non-promus qui passeront leur vie à jalouser les esclaves promus. « L'homme, écrit Platon, qui se sert correctement de tels moyens de se souvenir, toujours parfaitement initié aux mystères parfaits, est seul à devenir vraiment parfait. Détaché des objets qui suscitent les passions humaines et occupé de ce qui est divin, il subit les remontrances de la foule, on dit qu'il a perdu la tête mais en fait la divinité l'inspire, et c'est cela qui échappe à la foule. »

« Initié aux mystères parfaits » est celui qui, au-delà des conditions humaines s'aventure dans l'espace de l'Inconditionné. L'areté grecque, à cet égard, ne diffère pas fondamentalement de la noblesse spirituelle telle qu'elle s'illustre dans le Vedanta ou la tradition chevaleresque soufie, au demeurant grandement influencée par les néoplatoniciens.

L'amour de la beauté, le consentement à être subjugué ou bouleversé par la beauté, unissent ces diverses branches d'une même Tradition dont l'origine se perd dans les profondeurs primordiales de l'Age d'Or. Mais de l'extase visionnaire qui accueille l'apparition de l'Idée dans l'entendement humain, encore faut-il pouvoir tirer un enseignement précis, ─ ce qui est précisément la fonction des œuvres. Distinctes, échappant dans une certaine mesure aux ravages du temps, les œuvres font servir le génie de l'illimité à concevoir des limites salutaires. Elles puisent à la source du Sans-limite la transparence intellectuelle par laquelle nous distinguerons les contours à bon escient.

La précision de l'Art reflète l'exactitude de la Loi, de même que l'harmonie des formes, leur élégance avenante présagent du bon cours de la justice. De nos jours où toute inégalité est perçue comme injuste, de telles notions sont devenues incompréhensibles, mais à quiconque s'abreuve à la Source grecque on ne saurait faire accroire la confusion passablement volontaire de l'équité et de l'égalité qui est devenue le véritable lieu commun de toutes les sociologies modernes. Il s'en faut de beaucoup, pourtant, que l'équitable et l'égalitaire se confondent. La juste mesure prescrit-elle de considérer également l'homme de mérite, qui œuvre avec talent pour le bien de la Cité, et l'accapareur abruti ? L'homme qui dédaigne les pouvoirs de l'argent n'a-t-il pas droit à quelque supériorité compensatrice ? Est-il équitable de tenir pour  si peu les manifestations de l'excellence des individus qu'elles demeurent irrémédiablement sans recours devant les pouvoirs effectifs de l'or et du fer ? L'égalité et l'équité non seulement se confondent plus rarement qu'il n'y paraît ; elles ne cessent, dans les requêtes les plus pertinentes de l'intelligence politique, de s'opposer. Au vrai, dans le monde sans principes où nous vivons, l'égalité ne cesse de bafouer l'équité. Aussi bien nous revient-il désormais de prendre le droit d'en appeler à un principe d'équité contre les égalités qui nous oppriment et entravent dans notre Pays, l'advenue du meilleur.

La prétentieuse morale abstraite du moderne qui condamne les traditions de tous les peuples et de tous les temps, ne saurait plus davantage faire illusion face aux conséquences que nous lui voyons et qui nous privent, dans les faits, de cela même que cette morale nous offrit en théorie. La dignité de la personne humaine, la liberté individuelle, le bien partagé, l'éducation, le loisir, ─ on chercherait en vain, sous toutes les latitudes, un siècle qui, plus que le vingtième siècle leur fut cruel.

Lorsque les idéologues modernes inclinent vers la gauche et ne cèdent pas directement à l'odieuse morale darwiniste propre à l'idéologie dite « libérale », leur référence à l'antique se borne à la louange de la « république » sans bien voir que la France monarchique fut, au sens strict, bien davantage une « res publica » que les « républiques » numérotées qui s'ensuivirent de la Révolution. Une autre erreur, commise, elle, plus souvent par les gens de « droite » consiste à confondre la morale abstraite avec la morale transcendante et à récuser celle-ci au nom des vices de celle-là. Mais la morale abstraite se définit par sa prétention à se suffire à elle-même, et c'est précisément en quoi elle est abstraite, alors que la morale transcendante se relie, elle, verticalement, à l'esthétique et à la métaphysique : et c'est en quoi elle est transcendante. Favorable à l'égalité, la morale abstraite s'opposera à la morale transcendante qui, elle, en tient pour l'équité, laquelle, n'étant jamais atteinte dans sa perfection, demeure une quête infinie. Toujours au totalitaire de la morale abstraite s'opposera de façon plus ou moins clandestine, l'herméneutique infinie de la morale transcendante qui ne cesse de relier le visible et l'invisible dans l'embrasement matutinal de l'âme odysséenne.

Constructrice mais non « édifiante » au sens moralisateur, Pallas-Athéna définit par son rêve sculptural les limites imparties au génie de la Cité inspiratrice. Et là devrait être l'enjeu de toute politique digne de ce nom : faire en sorte que la Cité demeurât inspiratrice. Tout le génie des anciens se prodigue à cet aboutissement magnifique où l'individu doit bien reconnaître qu'il reçoit de la Cité infiniment plus qu'il ne peut lui apporter. Dans ces circonstances heureuses, l’Éris bienfaisante pousse l'individu à donner le meilleur de lui-même pour conquérir cette gloire personnelle qui ajoutera à la splendeur de la Cité. Telle est la Cité inspiratrice qu'elle s'enrichit de la force de l'amour-propre magnanime des individus au lieu d'en prendre ombrage. C'est bien que la Cité et sa morale propre ne se confondent point avec les sentiments de la foule, toujours envieuse et nivellatrice, et fort entraînée par ce fait à donner naissance aux tyrannies, étapes habituellement précédentes ou successives des démocraties. Faire de la Cité inspiratrice, née de la légèreté architecturale du Songe de Pallas, le principe poétique de toute philosophie politique,  cette ambition, nous éloigne déjà, pour le moins, des travaux d'érudition. Aussi ces écrits sont-ils écrits de combats qui n'hésitent pas à donner au pessimisme lucide la part qui lui revient.

hec02.jpg

Il est vrai que la dictature du vulgaire triomphe sur tous les fronts, que toute chose est pensée en termes de gestion et de publicité, que le réalisme plat semble en tout domaine s'être substitué aux vocations un peu hardies. Le Pays se décompose en clans et factions qui ne revendiquent plus que des formes vides et il devient fort difficile de trouver encore quelque trace de civilité ancienne dans la sourde brutalité qui nous environne. La « nostalgie des origines » dont parlait Mircea Eliade existe bel et bien mais, par défaut de civilité, et dans le déclin de la Cité inspiratrice, elle prend des formes dérisoires ou monstrueuses. Engoncés dans leurs folklores ou livrés aux élucubrations du « New Age », les nostalgiques de l'Origine contribuent activement à la déroute des ultimes  hiérarchies traditionnelles. L'Art de vivre, avec la politesse et la tempérance, n'est plus qu'un souvenir que l'on cultive pieusement dans quelques milieux universellement décriés ou moqués.

Tout cela porterait à la désespérance si notre caractère y était de quelque façon prédisposé ; ne l'étant pas, il ne peut s'agir là que d'un pessimiste état des lieux. Le pessimisme interdit de se réjouir en vain, il nous porte à ne pas détourner les yeux aux spectacles déplaisants ; il n'implique pas pour autant que nous cédions à quelque état d'âme défavorable au redressement. A la fois pessimistes, fidèles et actifs : tels nous veut la songeuse Pallas dont nous sommes les espoirs humains.

Luc-Olivier d'Algange ─ Extrait de Le Songe de Pallas, éditions Alexipharmaque

dimanche, 04 décembre 2016

The Prehistoric Origins of Apollo

apollon-avec-integrations_483336ffa9b9f5505d8a129187e85070.jpg

The Prehistoric Origins of Apollo

By Prof. Fritz Graf, PhD.
Ex: http://sciencereligionmyth.blogspot.com 

Apollo’s name has no clear parallels in other Indo-European languages, and he is the only Olympian god whose name does not figure on the Linear B tablets (a word fragment on a Cnossus tablet has been read as a form of his name, but the reading is highly conjectural and has convinced few scholars). The absence may well be significant. We possess well over a thousand texts that come from the palaces of Thebes in Boeotia, Mycenae, and Pylus in the Peloponnese, Cnossus and Chania on Crete, that is from practically the entire geographical area of the Mycenaean world, with the exception of the west coast of Asia Minor. Only a fraction contains information on religion, not only the names of gods and their sanctuaries, but also month names that preserve a major festival and personal names that contain a divine name (so-called theophoric names); but the sample is large enough to preserve almost all major Greek divine names. Thus, there is enough material to make an omission seem statistically significant and not just the result of the small size of the sample. But the absence creates a problem: if Apollo did not exist in Bronze Age Greece, where did he come from?

Scholars have attempted several answers. None has remained uncontested. There are four main possibilities: Apollo could be an Indo-European divinity, present although not attested in Bronze Age Greece, or introduced from the margins of the Mycenaean world after its collapse; or he was not Greek but Near Eastern, with again the options of a hidden presence in Bronze Age Greece or a later introduction. Scholars who accepted the absence of Apollo from the Mycenaean pantheon had two options. If he had no place in Mycenaean Greece, he had to come from elsewhere, at some time between the fall of this world and the epoch of Homer and Hesiod, that is during the so-called “Dark Age” and the following Geometric Epoch. During most of this period, Greece had isolated itself from Near Eastern influences but was internally changed by population movements, especially the expansion of the Dorians from the mountains of Northwestern Greece, outside the Mycenaean area, into what had constituted the core of the Mycenaean realm, the Peloponnese, Crete, and the Southern Aegean. Thus, a Dorian origin of Apollo was an almost obvious hypothesis; but since the Dorians were Greeks, albeit with a different dialect, one had to come up with a Greek or at least an Indo-European etymology for his name to make this convincing. If, however, scholars could find no such etymology, they assumed an Anatolian or West Semitic origin: in Western Anatolia, Greeks had already settled during Mycenaean times but arrived again in large numbers during the Dark Age, and contacts with Phoenicia became frequent well before Homer, as the arrival of the alphabet around 800 BCE shows. Finally, if one did not accept Apollo’s absence in the Linear B texts as proof of his historical absence in the Mycenaean world (after all, the argument was based on statistics only), or if one accepted the one fragment from Cnossus, there was even more occasion for Anatolian or Near Eastern origins, in the absence of an Indo-European etymology.

A Bronze Age Apollo of whatever origin could find corroboration in Apollo’s surprising and early presence on the island of Cyprus. Excavations have found several archaic sanctuaries, some being simple open-air spaces with an altar, others as complex as the sanctuary of Apollo Hylatas at Kourion that may have contained a rectangular temple as early as the sixth or even late seventh century BCE. Inscriptions in the local Cypriot writing system attest several cults of Apollo with varying epithets, from Amyklaios to Tamasios, and a month whose name derives from Apollo Agyieus.

apollon2.jpgIn a way, Apollo should not exist on Cyprus, or only in later times, if he was Dorian or entered the Greek world after the collapse of the Bronze Age societies. Cyprus, the large island that bridged the sea between Southern Anatolia and Western Syria, was inhabited by a native population; Greeks arrived at the very end of the Mycenaean period. They must have been Mycenaean Greeks who were displaced by the turmoil at the time when their Greek empire was crumbling. They brought with them their language, a dialect that was akin to the dialect of Arcadia in the Central Peloponnese to where Mycenaeans retreated from the invading Dorians, and they brought with them their writing system, a syllabic system closely connected with Linear A and B that quickly developed its own local variation and survived until Hellenistic times; then it was ousted by the more convenient Greek alphabet. The long survival of this system shows that, after its importation in the eleventh century BCE, Cypriot culture was very stable and only slowly became part of the larger Greek world. There was no later Greek immigration, either large-scale or modest, during the Iron Age: when Phoenicians immigrated in the eighth century, Cypriot culture, if anything, turned to the Near East. It is only plausible to assume that the Mycenaean settlers also brought their cults and gods with them: thus, the gods and festivals attested in the Cypriot texts are likely to reflect not Iron Age Greek religion but the Mycenaean heritage imported at the very end of the Bronze Age.

This leaves room for many theories and ideas that followed the pattern I outlined above. Only two attempts have commanded more than passing attention, a derivation from the Hittite pantheon in Bronze Age Anatolia and a Dorian hypothesis that made Apollo the main divinity of the Dorians who pushed south from their original home in Northwestern Greece, once the fall of the Mycenaean Empire let them do so.

Apollo and the Hittites
 
In 1936, Bedřich Hrozný, the Czech scholar who deciphered the Hittite language, claimed to have read the divine name Apulunas on several late Hittite altars inscribed in Hittite hieroglyphs, together with the name Rutas. He immediately understood them as antecedents of Apollo and Artemis and defined Apulunas’ function as that of a protector of altars, sacred areas, and gates. He thus added, as he thought, proof to the idea that Apollo, his sister, and, implicitly, their mother Leto were Anatolian divinities: after all, had not Homer insisted on their protection of Troy, and did not all three have a close conection with Lycia? The reading has been rejected by other specialists – but Hittite Apollo did not disappear: he surfaced as Appaliunas, a divinity in a (damaged) list of oath divinities invoked by the Hittite king Muwattalis and king Alaksandus of Wilusa; the text immediately preceding Appaliunas is broken. Since scholars identify Wilusa with Ilion, Apollo seems to appear in Troy, and Manfred Korfmann, the German archaeologist who impressively changed the accepted archaeological image of Bronze Age Troy, immediately adopted the idea and helped popularize it: Homer’s Apollo, the protector of the Trojans, seemed well established in Aegean prehistory, in the very city Homer was singing about.

Problems remain, besides Apollo’s absence from Linear B and the thorny question of how the Iliad relates to Bronze Age history, even after the rejection of Hrozný’s reading. Contemporary proponents of an Anatolian Apollo still follow Hrozný and point to Apollo’s Lycian connection that is already present in Homer; they feel encouraged by Wilamowitz, the most influential classicist in Hrozný’s time, who had concurred. But Lycian inscriptions found since then in Xanthus, where Leto had her main shrine, have cast severe doubts on whether Wilamowitz was right. Neither Leto’s nor Apollo’s name is attested in the indigenous texts, among which pride of place belongs to a text dated to 358 BCE, written in Lycian, Greek, and Aramaic. As in a few other indigenous texts, Leto is “The Mother of the Sanctuary” (meaning the one in Xanthus), without a proper name. Only in the Aramaic text has what one would call the Apolline triad, Lato (l’tw’), Artemus (’rtemwš) and a god called Hšatrapati, the Iranian Mitra Varuna as the equivalent of the young powerful god whom Greeks called Apollo. In the Lycian text, the Greek personal name Apollodotus, “given by Apollo” was rendered in Lycian in way that made clear that the Lycian equivalent of Apollo was Natr-, a name of uncertain etymology but one that has no linguistic relation whatsoever with Apollo. No member of the Apolline triad, then, had a Lycian name that sounded like Leto, Apollo, or Artemis: the names were Greek, not indigenous to Lycia. Lycia may have been Apollo’s country in myth (and in Homer), but not in history. The sanctuary of Xanthus does not transform Hittite cults into the Iron Age, and a Bronze Age Anatolian Apollo seems far-fetched, to say the least. This directs our quest back to Greece.

Apollo and the Dorian Assembly 
 
In different Greek dialects, Apollo’s name took several forms. Ionians and Athenians called him Apollōn, Thessalians syncopated this to Aploun; many Dorians used the form Apellōn that resonated with the Cypriot Apeilōn. Several scholars, most authoritatively Walter Burkert, pointed out that there was a Greek dialectal word with which the Dorian form of the god’s name, Apellōn, was already connected in antiquity: whereas most Greeks called their assembly ekklesia, the Spartans used the term apella. In their dialect, then, Apellon would be “the Assembly God.” In the Dorian states, the assembly of all free adult men was the supreme political instrument: at least once a year, these men assembled to decide on all central matters of politics. Apollo as its god would fit his role in the archaic city-states that I worked out in the last chapter. To make this work, we have to assume that apella was already the term for this institution among the early Northwestern Greeks, before the Dorians entered the Peloponnese. This assumption can be backed by the fact that most Dorian cities had a month named Apellaios. Greek month names derive from the names of festivals, not from the names of gods: Apellaios leads to a festival named Apellai. Such a festival is attested in Delphi, outside the Dorian dialectal area but within the West Greek area: it is the main festival of a Delphian brotherhood, a phratry. As we saw in the last chapter, phratries are closely connected with Apollo as their protector and with citizenship: this again connects the god and the festival with the same archaic political and cultic nexus.

Apollon-Piombino.jpgIn this reading, Apollo arrived in Greece with the Dorians who slowly moved into the Peloponnese and from there took over the towns of Crete, after the fall of Mycenaean power. Four centuries later, at the time of Homer and Hesiod, the god had become an established divinity in all of Greece, and a firm part of the narrative tradition of epic poetry. Such an expansion presupposes some degree of religious and cultural interpenetration and exchange throughout Greece during the Dark Ages. This somewhat contradicts the traditional image of this period as a time when the single communities of Greece were mostly turned towards themselves, with little connection with each other. But such a picture is based mainly on the rather scarce archaeological evidence; communication between people, even migration, does not always leave archaeological traces, and cults are based on myths and narratives, not on artifacts. And well before Homer, communications inside Greece opened up again, as shown by the rapid spread of the alphabet or of the so-called Proto-Geometric pottery style that both belong to the ninth or early eighth centuries BCE.

The main obstacle to this hypothesis is Apollo’s well-attested presence on Cyprus, in a form, Apeilon, that is very close to the Dorian Apellon: would not Apollo then be a Cypriot? Burkert removed this obstacle with the assumption of a very early import to Cyprus from Dorian Amyclae; Amyclae, we remember, had an important and old shrine of the god. Another scenario is possible as well: the Mycenaean lords who fled to Cyprus did so only after their society integrated a part of the Dorian intruders and their tutelary god Apollo. After all, the pressure of the Dorians must have been felt for quite a while, and their bands that were organized around the cult of Apollo could have started to trickle south even before the fall of the kingdoms, and blended in with the Mycenaeans.

Overall, then, I am still inclined to follow Burkert’s hypothesis that is grounded in social and political history, rather than to accept somewhat vague Anatolian origins – even if I am aware that the neat coincidence of etymology and function might well be yet another of these circular mirages of which the history of etymologizing divine names is so full. And it needs to be stressed that the picture of a simple diffusion from the invading Dorians to the rest of Greece is somewhat too neat. Things, as often, are messier, for two reasons: there are clear traces of Near Eastern influence in Apollo’s myth and cult, and there are vestiges of a Mycenaean tradition that cannot be overlooked.

Mycenaean Antecedents
 
The most obvious Mycenaean antecedent of Apollo is the god Paiawon who is attested in two Linear B texts from Cnossus on Crete. One text is too fragmentary to teach us much, the other is rather laconic and presents a list of recipients of offerings: “to Atana Potinija, Enyalios, Paiawon, Poseidaon” – that is “Lady Athana” (the Mycenaean form of Athena), Enyalios (a name that Homer uses as a synonym of Ares, whereas local cult distinguishes the two war gods), Paean, and Poseidon. The list cannot inform us on any function besides the fact that Paiawon seems to be a major divinity, on the same level as the other three who from Homer onwards appear among the twelve Olympian gods. In the language of Homer, the Mycenaean Paiawon develops to Paiēōn; in other dialects this double vowel is simplified to Paiān or Paiōn. All three forms are attested in extant Greek texts; and we dealt with the problem that, in Homer, Paeon seems an independent mythological person, the physician of Olympus, whereas in later Greek, Paean is an epithet of Apollo the Healer to whom the paean was sung and danced. It should be pointed out that the refrain of any paean always was “ie Paean,” regardless whether it was sung for Apollo or Asclepius or even, in a rare case, to Dionysus. I feel tempted to see this as a vestige of the god Paean’s former independence and even to imagine that the paean as a ritual form goes back to the Bronze Age as well. Proof, of course, is impossible. But maybe it is no coincidence that Cretan healers and purifiers were famous in later Greece: Bronze Age remnants survived better in Crete, and the paean was connected with healing and purification. This does not mean that Apollo as such was a Mycenanean god; if anything, it rather suggests the contrary, that a non-Mycenaean Apollo absorbed the formerly independent Mycenaean healing god Paiawon, perhaps including one of his rituals, the song-and-dance paean. 

Near Eastern Influences
 
Greece was always at the margins of the ancient Near Eastern world; it has always been tempting to look for Oriental influences in Greek culture and religion. In the case of Apollo, theories went from partial influences to wholesale derivation. Wilamowitz, at one time the leading classical scholar in Germany, derived Apollo from Anatolia, stirring up a controversy whose ideological resonances are unmistakable; after all, from the days of Winckelmann, Apollo seemed the most Greek of all the gods. Others went even further, stressing the god’s absence in Linear B, and made him come from Syria or Phoenicia. This is wildly exaggerated; but there can be no doubt that partial influences exist. They are best visible in two areas: healing and the calendar.

In the past, arguments from the calendar were paramount. In the calendar of the Greeks, a month coincides with one cycle of the moon: the first day thus is the day when the moon will just be visible, the seventh day is the day when the moon is half full and as such clearly visible. Apollo is connected with both days. The seventh day is somewhat more prominent: every month, Apollo receives a sacrifice on the seventh day, all his major festivals are held on a seventh, and his birthday is on the seventh day of a specific month. But already in Homer, he is also connected with new moon, noumēnía: he is Noumenios, and his worshippers can be organized in a group of noumeniastai. Long ago, Martin P. Nilsson, the leading scholar on Greek religion in the first half of the last century, connected this with the Babylonian calendar where the seventh day is very important. He went even further. Every lunar calendar will, rather fast, get out of step with the solar cycle that defines the seasonal year; to remedy this, all systems invented intercalation, the insertion of additional days. Greek calendars introduced an extra month every ninth year, to cover the gap between the solar and the lunar cycle. According to Nilsson, they did so under Babylonian influence that was mediated through Delphi: Delphi’s main festivals were originally held every ninth year, and only Delphi would have enough influence in the Archaic Epoch to impose such a system upon all Greek states. However, this is very speculative; Nilsson certainly was wrong in his additional assumption that Delphi also introduced the system of months: month names are already attested in the Greek Bronze Age. Still, the connection of Apollo’s seventh day with the prominence of the same day in the Mesopotamian calendar is interesting.

As to healing, it seems by now established that itinerant Near Eastern healers visited Greece during the Archaic Age and left their traces. The most tangible trace is the role the dog plays in the cult of Asclepius: the dog is central to the Mesopotamian goddess of healing, Gula, two of whose statuettes were dedicated in seventh-century Samos. In Akkadian, Gula is also called azugullatu, “Great Physician”: the word may be at the root of Asclepius’ name, and it resonates in a singular cult title of Apollo on the island of Anaphe, Asgelatas. Later, Greeks turned the epithet into Aiglatas, from aigle “radiance,” and told the story that Apollo appeared to the Argonauts as a radiant star to save them from shipwreck. This looks like the later rationalization of a word that nobody understood anymore and that may be a trace of an Oriental healer who instituted this specific cult. Another Oriental detail is the plague arrows Apollo shoots in Iliad 1, as we saw, and his role as an armed gatekeeper to keep away pestilence that is attested in several Clarian oracles.

apollon.gif

Yet another area of Oriental influence is Apollo’s role in divine genealogy. To Hesiod and, to a lesser degree, to Homer, Apollo is the oldest son of Zeus: Zeus is the god who controls the present social, moral, and natural order, Apollo is his crown prince and, so to speak, designated successor, if Zeus were ever to step back. This explains, among other things, Apollo’s direct access to Zeus’ plans and knowledge. A similar constellation recurs in West Semitic and Anatolian mythologies. Here, the god most closely resembling Zeus in function and appearance is the Storm God in his different local forms; he is also the god of kings and of the present political and moral world order. In Hittite mythology, his son is Telepinu, a young god whose mythology talks about his disappearance in anger and whose rituals may have been be connected with the New Year’s festival to secure the continuation of the social and natural order. In some respects, the young and tempestuous Telepinu reminds one of Apollo.

In narratives from Ugarit in Northern Syria, the Storm God is accompanied by Reshep, the plague god or “Lord of the Arrow.” In bilingual inscriptions from Cyprus, his Phoenician equivalent, also called Reshep, becomes Greek Apollo. In iconography, Reshep is usually represented as a warrior with a helmet and a very short tunic, walking and brandishing a weapon with his raised right arm; these images are attested in the Eastern Mediterranean from the late Bronze Age to the Greek Archaic Age. In Cyprus, such a god appears in a famous bronze image from the large sanctuary complex at Citium; since he wears a helmet adorned with two horns, some scholars understood him as the Bronze Age version of the later Cypriot Apollo Keraïtas, “Horned Apollo.”

Greek Apollo, most of the time, looks very different. But a very similar statuette has been found in Apollo’s sanctuary at Amyclae in Southern Sparta. Here, it must reflect Apollo’s archaic statue in this sanctuary that we know from Pausanias’ description:

"I know nobody who might have measured its size, but I guess it must be about thirty cubits high. It is not the work of Bathycles [the sculptor who made the base for the image], but old and not worked with artifice. It has no face, and its hands and feet are added from stone, the rest looks like a bronze column. On its head, it has a helmet, in its hands a lance and a bow."
(Description of Greece, 3.10.2)

An image on a coin shows not only that the body could be dressed in a cloak to soften the strangeness of its shape but also that it brandished the lance with its raised right hand: the coincidence with the Reshep iconography seems perfect, and the Oriental influence almost obvious. It has even been suggested that the place name Amyclae is Near Eastern: there is a Phoenician Reshep Mukal, “Mighty Reshep,” whom the Cypriot Greeks translated as Apollo Amyklos. The Greek epithet cannot derive from the place name (it would have to be Amyklaîos), but it shares the same verbal root; its basic phonetic structure is the same as that of mukal. Thus, one wonders whether it was Phoenician or Cypriot sailors who first founded a sanctuary on this lonely promontory on one of the trade routes to the west.

Summary 
 
Apollo’s origins are complex and not fully explained. He is not attested in the Mycenaean Linear B texts (with a very uncertain exception), but well established in Greek religion at the time of Homer and Hesiod, and central in fundamental political and social institutions of the Archaic Epoch. There are obvious Near Eastern influences in his myths and even in some aspects of his cult; but neither a West Semitic origin nor an Anatolian origin of the god are convincing, and his protection of the Trojans needs not to reflect such an origin. The absence of Linear B documents is intriguing and puzzling; but his early presence in Cyprus does not necessarily invalidate the conclusion drawn from this absence, that he was unknown in Mycenaean religion. It is possible that he was not present here, whereas the Northwestern Greeks worshipped him already in the Bronze Age as the protector of their apéllai, the warriors’ assemblies. As protector of warriors, he entered, with them, the former Mycenaean area at the very beginning of the Transitional Period between the Bronze and the Iron Age (the Greek “Dark Age”): this allows for several centuries of transformations and adaptations, and it is not inconceivable that Apolline warriors even sailed to Cyprus among the Mycenaean refugees and settlers.

dimanche, 30 octobre 2016

Zeus et Europe, une hiérogamie cachée et l'annonce d'un destin européen

rapto de Europa escultura de Oscar Alvariño Punta del Este Uruguay.jpg

Zeus et Europe, une hiérogamie cachée et l'annonce d'un destin européen

par Thomas Ferrier

Ex: http://thomasferrier.hautetfort.com

Zeus est qualifié d’Eurôpos, c'est-à-dire « au large regard », chez Homère. En sanscrit, dans le Rig-Veda, le dieu suprême Varuna est décrit comme Urucaksas, forme parallèle de sens exactement identique. De longue date, non sans raison, Varuna et le grec ont été comparés, l’un et l’autre venant alors de la forme originelle indo-européenne *Werunos, au sens de « dieu de l’espace » (c'est-à-dire le dieu vaste). En Inde comme en Grèce, ce surnom du dieu céleste *Dyeus est devenu une divinité en tant que telle.

Les Grecs, sous l’influence probable de la théogonie hourrite ou hatti, influence indirecte due vraisemblablement aux Hittites, ont multiplié les divinités jouant le même rôle. On peut ainsi souligner qu’Hypérion, Hélios et Apollon sont redondants, de même que Phébé, Séléné et Artémis (sans oublier Hécate). C’est aussi le cas du dieu suprême qui est ainsi divisé en trois dieux séparés que sont Ouranos, Cronos et Zeus. En réalité, tout porte à croire que Zeus est le seul et unique dieu du ciel, malgré Hésiode, et qu’Ouranos n’a jamais été à l’origine qu’une simple épiclèse de Zeus. De même, Varuna a sans doute été un des aspects de Dyaus Pitar, avant de se substituer à lui, et de ne plus laisser à son nom d’origine qu’un rôle très effacé dans la mythologie védique.

Ce Zeus Eurôpos, ce « Dyaus Urucaksas », a selon la tradition grecque de nombreuses épouses. Or une déesse est qualifiée d’Eurôpê à Lébadée en Béotie et à Sicyone dans le Péloponnèse. Ce nom d’Eurôpê, dont le rattachement à une racine phénicienne ‘rb est purement idéologique, et ne tient pas une second d’un point de vue étymologie, est nécessairement la forme féminine d’Eurôpos. Or ce n’est pas n’importe quelle déesse qui est ainsi qualifiée, elle et uniquement elle, de ce nom d’Eurôpê, indépendamment de la princesse phénicienne, crétoise ou thrace qu’on appelle ainsi, et qui n’est alors qu’une vulgaire hypostase. C’est Dêmêtêr, mot à mot la « Terre-mère », version en mode olympien de Gaia (ou Gê) et peut-être déesse d’origine illyrienne, même si non nom apparaît vraisemblablement dès l’époque mycénienne.

Il existe en effet en Albanie moderne une déesse de la terre, qui est qualifiée de Dhé Motë, ce qui veut dire la « tante Terre » car le sens de motë, qui désignait bien sûr la mère, a pris ensuite le sens de tante. De même, le nom albanais originel de la tante, nënë, a pris celui de la mère. Cela donne aussi une déesse Votrë Nënë, déesse du foyer analogue à la déesse latine Vesta et à la grecque.

Le nom de Dêmêtêr, qu’il soit purement grec ou illyrien, a le sens explicite de « Terre-mère » et remonte aux temps indo-européens indivis, où elle portait alors le nom de *Đγom (Dhghom) *Mater. Ce n’était pas alors n’importe quelle divinité mais sous le nom de *Diwni [celle de *Dyeus], elle était ni plus ni moins l’épouse officielle du dit *Dyeus (le « Zeus » indo-européen). L’union du ciel et de la terre, de Zeus Patêr et de Dêô (Δηώ) Matêr donc, remonte ainsi à une époque antérieure même aux Grecs mycéniens.

Il est donc logique qu’à un Zeus Eurôpôs soit unie une Dêmêtêr Eurôpê, l’un et l’autre étant des divinités « au large regard », l’un englobant l’ensemble du ciel et la seconde l’ensemble de la terre, à une époque où celle-ci était encore considérée comme large et plate, d’où ses deux noms divins en sanscrit, à savoir Pŗthivi (« la plate »), c'est-à-dire Plataia en grec et Litavis en gaulois, et Urvi (« la large »).

europanew.jpg
L’union de Zeus sous la forme d’un taureau avec Europe est donc une hiérogamie, une union sacrée entre le ciel et la terre, union féconde donnant naissance à trois enfants, Minos, Eaque et Rhadamanthe, chacun incarnant l’une des trois fonctions analysées par Georges Dumézil. La tradition grecque évoque d’autres unions de même nature, ainsi celle de Poséidon en cheval avec Dêmêtêr en jument, cette déesse ayant cherché à lui échapper en prenant la forme de cet animal. Dans le cas d’Europe, on devine qu’elle aura elle-même pris la forme d’une vache.

Le nom d’Europe qui désigne le continent qui porte son nom indique qu’elle est la Terre par excellence, mère nourricière du peuple grec vivant sur un continent béni par Zeus lui-même. Lui donner une origine phénicienne, à part pour des raisons poétiques bien étranges, est donc un contre-sens auquel même certains mythographes antiques se firent prendre.

Et que son premier fils se soit nommé Minôs, là encore, ne doit rien au hasard. Bien loin d’être en vérité un ancien roi de Crète, il était surtout un juge infernal et le plus important. Or Minôs n’est en réalité que le premier homme, celui que les Indiens appellent Manu, d’où les fameuses lois qui lui sont attribuées, et les Germains Manus. L’idée que le premier homme devienne à sa mort le roi des Enfers n’est pas nouvelle. Le dieu infernal Yama et son épouse Yami ayant été par exemple le premier couple mortel. Minôs est le « Manus » des Grecs, bien avant qu’Hésiode invente Deucalion. Et s’il juge les hommes au royaume d’Hadès, la seule raison en est qu’il est celui qui a établi les anciennes lois.

Ainsi l’Europe est-elle non seulement la Terre par excellence, l’épouse de Zeus en personne, dont Héra n’est qu’un aspect, celui de la « belle saison » et de la « nouvelle année » (sens de son nom latin Junon), mais elle est la mère des hommes, la matrice de la lignée des éphémères, ou du moins d’une partie d’entre eux.

Europa est ainsi la mère de Gallia et de Germania, de Britannia et d’Italia, d’Hispania et d’Hellas et désormais mère aussi de nouvelles nations comme la Polonia, la Suecia et la Ruthenia (Russie), depuis les fjords de Thulé jusqu’à Prométhée sur sa montagne, depuis la Lusitania jusqu’aux steppes profondes de Sarmatia.

Thomas FERRIER (Le Parti des Européens)

lundi, 03 octobre 2016

Itinéraire celtique - Avec Jean Markale et Charles Ravier

hirsch.jpg

Itinéraire celtique

Avec Jean Markale et Charles Ravier

Les samedis de France Culture - Itinéraire celtique. Par Philippe Arrii-Blachette - Avec Jean Markale et Charles Ravier (1ère diffusion : 06/11/1976)

samedi, 24 septembre 2016

La Théogonie d'Hésiode

Dionysos-et-Ariane.jpg

La Théogonie d'Hésiode

 
Ex: http://lesocle.hautetfort.com 

Si nous devons remonter aux sources premières de notre mémoire, quel sont nos plus anciens textes sacrés ? Aux côtés de l'Iliade et de l'Odyssée, piliers premiers de notre tradition, on trouvera immanquablement la Théogonie d'Hésiode. Décrivant la naissance des Dieux, la Théogonie nous rappelle notre véritable nature, celle d'enfants des Dieux à qui nous devons nous efforcer de ressembler. Pour y parvenir, Hésiode nous chante l'ordre cosmique incarné par les Dieux et le premier d'entre eux: Zeus. Comprendre cet ordre, c'est ce qui nous permet de méditer notre métaphysique: la métaphysique de l'Absolu, élément indispensable d'une nouvelle Renaissance européenne.  

Structure de l’œuvre: La Théogonie est un hymne aux Dieux. L'appréhension par le lecteur de sa dimension lyrique et religieuse est donc fondamentale pour faire vivre l'hommage d'Hésiode aux Muses et aux souverains de notre monde.

Gwendal Crom, pour le SOCLE

La critique positive de la Théogonie au format .pdf

H-1.jpgLa Théogonie 1 d'Hésiode s'ouvre par l'honneur rendu aux Muses, filles de Zeus, celles qui font les grands rois et les grands poètes en rendant leurs paroles plus douces que le miel. Hésiode tient son pouvoir d'elles, filles de la Mémoire (Mnémosyne), merveilleuses créatures baignant leur corps dans la Fontaine du Cheval (l'Hippocrène), en la montagne Hélicon, « grandiose et inspirée ». Ces rires et ces chants que perçoit le poète, ce sont ceux de la mémoire, dont les échos rebondissent sans fin sur l'onde de la source pérenne.

Ainsi se dessine la volonté des Dieux, tel est le devoir religieux des poètes (les aèdes) : transmettre la mémoire des hommes et de ceux qui ne meurent pas. Citons Diodore de Sicile : « Parmi les Titanides, on attribue à Mnémosyne l'art du raisonnement : elle imposa des noms à tous les êtres, ce qui nous permet de les distinguer et de converser entre nous ; mais ces inventions sont aussi attribuées à Mercure. On doit aussi à Mnémosyne les moyens de rappeler la mémoire des choses passées dont nous voulons nous ressouvenir, ainsi que son nom l'indique déjà » 2. Car nommer, c'est-à-dire, donner une vie, une signification, c'est ce qui permet de donner un sens à la Vie elle-même. Une Vie que l'on met en relation avec la Vie d'hier et la Vie de demain par les flots de la destinée. Une Vie, un Cosmos que les Muses célèbrent et que l'on célèbre à travers elles.

Filles de Zeus, les Muses inspirent poètes et rois. Elles illuminent l'accord passé entre les hommes et les Dieux. Les Rois guident les hommes quand Zeus guide les Dieux mais toujours existe un incessant échange entre ces deux mondes, et ce, par le biais du poète. Parler de deux mondes est d'ailleurs une erreur. Il n'en existe qu'un et c'est au travers de la personne du poète que se fait jour cette vérité. Plus prosaïquement, le fait que les Muses inspirent ces deux types d'homme illustre parfaitement la dualité de la première fonction dans la tripartition indo-européenne : un versant politique et un versant sacré 3,4 ainsi que leur intrication.

I. Une généalogie

Cet hommage rendu, commençons par le commencement. Au commencement se trouve Faille (Chaos) dont naissent Gaïa (la Terre), Nyx (Nuit), Erèbe (Ténèbres) et enfin Eros (Amour), le principe d'union des contraires. Nuit et Ténèbres donnent naissance à Feu d'en haut (Ether) et lumière du jour (Héméra). Puis Gaïa donne naissance à Ouranos (Ciel) et Pontos (Océan infertile, dît le Flot). Enfin, Ciel et Terre donnent naissance à Océan. Ciel engrosse ensuite Terre continuellement. Mais Ouranos est un Dieu jaloux qui refuse de partager avec ses enfants. Il enferme sa progéniture dans les replis de la Terre. Tous ces enfants nés de lui, Ouranos les appelle « Titans ». Le dernier-né parmi eux, c'est Cronos Pensées-Retorses. Malgré la haine farouche que tous les enfants du Ciel éprouvent pour leur père, lui seul a le courage de répondre à l'appel de sa mère outragée (vers 170):

« Mère, moi, je l'ai promis ;

et je saurais l'exécuter, l'acte.

Je n'ai aucun respect pour ce père

indigne de son nom, le nôtre.

Il a, le premier, inventé des méfaits écœurants ».

Une nuit, alors que Ciel vient s'étendre sur Terre pour l'engrosser à nouveau, Cronos suit le plan élaborée par sa mère. Il saisit la longue serpe qu'elle a confectionnée et il émascule ce père tyrannique. Il jette les testicules au loin dans la mer. De l'écume bouillonnante en sort alors Aphrodite, déesse de l'amour, celle qui a Eros pour compagnon et que Désir suit partout. Avant que les testicules n'atteignent la mer, elles laissent échapper quelques gouttes de sang sur le sol dont jailliront après quelques années les Géants, les Erinyes et les Nymphes.

Avant d'aller plus avant vers la naissance de Zeus, Hésiode nous entretient de la descendance de la Nuit et des Ténèbres. Elle compte « le triste Destin et la noire Tueuse, et la Mort » mais aussi le Sommeil et les Rêves. Parmi ses enfants, on trouve les trois Moires qui donnent à leur naissance, leur part à chaque être, homme comme Dieu. Nuit enfanta également Indignation, Tromperie et Bonne Amitié, Vieillesse et Jalousie. Jalousie enfanta à son tour Travail, Oubli et Faim ainsi que Souffrances, Querelles et Combats, Assassinats et Massacres d'Hommes. Jalousie encore enfanta Réclamations, Mépris des lois et Démence (« qui s'accordent ensemble » nous dit Hésiode) et enfin Serment « qui plus que tout autre fait souffrir sur la terre les hommes, lorsque l'un d'eux, sachant ce qu'il fait, se parjure ».

Vient ensuite la progéniture de Pontos et de Gaïa : Nérée, Thaumas, Porkys, Kètô et Eurybiè. Ce sont là des divinités marines primordiales. De nombreuses créatures mythologiques (Sirènes, Harpies, Gorgones...) les ont pour parents. Naissent les Vents, les Fleuves, le Soleil, l'Aurore, la Lune et les Etoiles. On voit ici que chaque élément du Cosmos est sacré, divin. Les concepts eux-mêmes sont divins tels Vouloir-être-premier, Victoire, Pouvoir et Force, qui partout accompagneront Zeus et obéiront à lui seul. Enfin, une place de choix est accordée à la déesse Hécate qui conservera ses prérogatives après la prise de pouvoir du puissant Cronide.

De Zeus enfin il est question. Rhéïa, forcée par Cronos, donne naissance à plusieurs Dieux immédiatement avalés par Cronos. Car lui aussi ne veut pas partager son pouvoir, lui aussi sombre dans l'hubris (soit le fait d'avoir voulu plus que sa juste part, d'avoir sombré dans la démesure). Et ses parents Terre et Ciel lui avaient prédit qu'il serait détrôné par l'un de ses enfants. Rhéïa demande donc conseil à ses parents (Ciel et Terre également) et elle lange une pierre qu'elle donne à Cronos pour qu'il la mange à la place de Zeus. Zeus grandit ensuite sur la montagne Aïgaïôn puis au moyen de la ruse, revient faire vomir ses frères et sœurs à Cronos.

zeussssss.jpg

Figure I: Roi des Dieux et Dieu des Rois, Zeus incarne la première fonction et l'ordre cosmique des Indo-européens.

Alors se déclenche la guerre entre les Dieux Olympiens commandés par Zeus et les Titans fidèles à Cronos. Zeus reçoit le Foudre des trois cyclopes ouraniens, arme et symbole de celui qui commande aux Dieux et aux hommes. Mais pendant dix longues années, les Titans et les Olympiens se combattent sans que ne se dessine un vainqueur. Zeus délivre alors les puissants Hécatonchires prisonniers du Tartare où Cronos les avait enfermés. L'un d'eux (ils sont trois comme les Cyclopes), Kottos le parfait, lui répond en ces termes (vers 655):

        « Ô puissant, ce que tu révèles, nous le savons.

        Mais aussi savons que ton esprit est fort et plus forte ta pensée.

        Tu as sauvé les Immortels du froid des malédictions.

        Grâce à ta sagesse échappant au brouillard obscur,

        Echappant aux entraves cruelles, nous sommes revenus ici,

        Prince fils de Cronos, quand nous n'espérions plus.

        Maintenant l'esprit tendu, avec réflexion, nous nous battrons pour vous

        Dans la dure bataille nous affronterons les Titans en un combat Terrible ».

La guerre qui suit est apocalyptique. Les Hécatonchires (ils ont cent bras) font pleuvoir un déluge de roche sur les Titans pendant que Zeus fait s'abattre sans répit la foudre sur eux (vers 700).

        « Un brûlure monstrueuse atteignit la Faille.

        C'était pour qui voyait avec ses yeux, entendait avec ses oreilles,

        Comme si la terre, comme si le ciel immense par-dessus se heurtaient ».

Les Titans sont vaincus. Ils sont enfermés dans le Tartare, gardés pour l'éternité par les puissants Hécatonchires. Furieuse du sort réservé à ses enfants, Gaïa couche avec le Tartare et enfante alors Typhôeus, la plus puissante entité jamais engendrée par la Terre. De ses épaules jaillissent cent têtes de serpents dont les yeux crachent le feu et sa voix fait trembler les montagnes. Zeus se lève alors et après un combat tout aussi apocalyptique que le précédent, il détruit Typhon, et sa dépouille enflammée fait fondre la Terre. Zeus sera le seul maître, l'Univers jusqu'à Faille elle-même en fut le témoin. La Terre devra donc s'y plier.

II. Un ordre nouveau

Généalogie des Dieux et des concepts, la Théogonie porte en elle est une conception de l'univers et des hommes. L'ordre et les conflits qui règnent chez les Dieux sont un reflet des combats qui animent le monde des hommes ainsi que de l'ordre idéal qui doit y régner. Comme le dit Alain de Benoist 5, il y a toujours un échange, une incessante réciprocité entre le monde des Dieux et celui des hommes mangeurs de pain. Comme l'illustre l'acte du sacrifice (vers 555), les hommes et les Dieux partagent, les hommes et les Dieux communient ensemble. Ils évoluent dans un monde sacré comme nous l'avons vu dans la partie précédente. Le Cieux et la Terre, les Vents et les Flots, le Soleil et la Lune sont tout aussi divins que Zeus et Héra. Ils dessinent un monde où l'enchantement va de pair avec le respect. Qui oserait piller une Terre divine, qui oserait polluer une nature sacrée ?

Mais cela va au-delà des considérations sur la simple nature. L'enseignement principal, c'est que l'homme ne saurait se rendre maître du Cosmos. Comme dans les autres traditions indo-européennes, le mythos grec donne naissance à un homme libre (dont l'aboutissement est le héros) mais contenu dans les limites de la mesure sans quoi il aura à en payer le prix. Et les Moires qui ont donné leur part à chaque homme et chaque Dieu veilleront à punir celui qui se sera montré coupable d'hubris. D'hubris il est question lorsque Cronos engloutit un à un ses enfants ou quand Ouranos enferme les siens dans les replis de leur mère la Terre. Pleins d'hubris, ils refusent de partager, de laisser à chacun sa juste part. Ouranos, Gaïa et leurs descendants Titans sont prompts à sombrer dans l'hubris par nature. Ces Dieux anciens personnifient les forces primitives, chaotiques de la Nature. Ils sont la Terre, le Ciel, forces brutes qui ignorent la notion d'ordre et d'harmonie, ils détruisent immédiatement ce qu'ils ont créé et ne laissent subsister qu'un monde bouillonnant, fertile mais sans forme ni sens. Ce sont des forces du passé (sans doute représentent-elles les divinités pré-indo-européennes) que remplacèrent les forces nouvelles des Dieux indo-européens. On pensera notamment au panthéon nordiques où les Dieux Vanes (liés à la fécondité) après un temps en lutte avec les Dieux Ases (liés à a souveraineté et à la guerre) conclurent une trêve avec ces derniers 6. Les divinités de la nature ne sont pas exclues (pas plus que l'homme en deviendrait le maître) mais elles ne sont plus prépondérantes (les Titans sont exilés dans le Tartare pendant que Perséphone et Aphrodite sont vénérées par les hommes).

D'un point de vue terrestre, il semble inéluctable dans l'histoire des hommes, nécessaire pour ces derniers, de passer d'une société tributaire des aléas de la nature à une société où l'homme se trace un destin et où la société dans son ensemble s'organise autour de cette idée. Telle est l'essence des Dieux Olympiens et des hommes qui les suivent : le pouvoir de rentrer dans l'histoire et de la faire.

Tel est donc le nouvel ordre olympien. Un panthéon où Zeus est le maître incontesté mais où il agit en souverain et non en tyran. Il compose avec les autres Dieux et leur demande leur avis. On pensera aux honneurs que Zeus accorde à Hécate (vers 410), à l'aide qu'il requiert de la part des Hécatonchires (vers 640) et à la reconnaissance qu'il accorde à Styx (vers 400). Préfigurant l'ordre régnant dans les sociétés indo-européennes, Zeus est le souverain des Dieux tout comme le roi est le souverain des hommes libres. Et si c'est en invoquant Zeus que les hommes prêtent serment 7, ce n'est pas par son nom que jure les autres Dieux (comme nous le verrons par la suite). La tyrannie d'un seul sur tous les autres n'existe pas et comme le montre la Théogonie, tout ceux qui s'y essayent (Ouranos, Cronos) finissent immanquablement par chuter.

Oreste-poursuivi-par-les-Furies-par-William-Bouguereau.jpg

Figure II: Les remords d'Oreste par William Bouguereau. Chez les hommes comme chez les Dieux, malheur au parjure, malheur à celui qui attente au sacré !

Tout comme la société humaine, la société divine est régie par les mêmes fondements (respect de l'ordre cosmique, vision tripartite du monde) et les mêmes codes. L'un de ceux-ci, le plus remarquable, est le rituel du serment. Ce Serment que la Théogonie présente comme l'enfant de la Nuit et qui « plus que tout autre fait souffrir sur la terre les hommes, lorsque l'un d'eux, sachant ce qu'il fait, se parjure » (vers 230). Remarquable en effet de constater que selon la Théogonie, la plus grande cause de souffrance pour les hommes est le parjure. Remarquable enfin de trouver naturellement en écho à la souffrance des hommes qui parjurent, un écho dans le rituel du serment chez les Dieux. Nous parlions précédemment de la reconnaissance qu'a accordée Zeus à Styx. Ce qu'il lui a donné en récompense c'est d'être celle par laquelle les Dieux jureront (vers 780). Lorsque la parole d'un Immortel est mise en doute, alors l'on envoie quérir l'eau du Styx et l'Immortel la verse à terre en prêtant serment. Comme chez les hommes, malheur au parjure ! (vers 790)

        « Si l'un de ceux qui ne meurt pas, seigneur des neiges de l'Olympe,

        La verse à terre pour faire un serment qui n'a pas de vérité,

        Il cesse de respirer, reste à terre pendant toute une année.

        Il ne peut pas s'approcher de l'ambroisie ni du nectar qui nourrissent ;

        Il est étendu sur un lit qu'on lui a fait,

        Sans souffle et sans paroles, dans un coma dangereux.

        Quand, après une longue année sa maladie se termine,

        Il subit une épreuve nouvelle, qui vient après l'autre.

        Pendant neuf ans il reste à l'écart des Dieux qui vivent sans fin.

        On ne le laisse se mêler ni aux conseils, ni aux fêtes,

        Pendant neuf années entières.

     A la dixième année il revient se mêler aux Immortels qui ont leur maison sur l'Olympe ».

Telle est la sanction pour l'Immortel qui a failli : la perte de son immortalité. Cela montre à quel point la société des Dieux est le reflet idéal de celle des hommes, à quel point les hommes sont donc capables en retour de divinité s'ils se montrent « pareils aux Dieux ». On ne s'étonnera donc pas de remarquer que le qualificatif le plus accordé aux héros dans l'antiquité hellénique est « divin ». Plus qu'une capacité d'ascension pour les hommes, la divinité est un idéal, une tenue que les meilleurs représentants de la race se doivent d'atteindre. Le poète est entre autres là pour rappeler cette évidence aux hommes et aux rois, que la Théogonie appelle à juste titre les « élèves de Zeus » (vers 80). La frontière est pourtant claire entre les hommes et les Dieux. De démesure, il ne saurait être question. Il faut le rappeler, l'hubris est la pire faute que puisse commettre un homme. Le « Connais-toi toi-même » gravé sur le fronton du temple de Delphes n'est pas un appel à l'introspection. Il enjoint chacun à connaitre sa place dans l'univers. A chacun, homme comme Dieu de remplir son rôle, et de la manière la plus parfaite qui soit. C'est la condition de l'harmonie.

III. Une métaphysique de l’Absolu

L'harmonie : c'est ce qui se dessine au sein de la Théogonie. C'est un « cosmos », soit étymologiquement un « monde ordonné » et non un chaos. La Théogonie c'est l'arrivée de l'ordre dans la création afin de lui donner un sens, une harmonie. L'ordre n'est pas seulement amené par l'accession de Zeus au trône divin et qui n'en est que le parachèvement. L'ordre, ce sont aussi des règles métaphysiques intangibles, comme le peut être la gravitation dans notre monde. Ces règles naissent avec le Cosmos lui-même et se diversifient, se complexifient en même temps que lui.

Nous avions déjà parlé des Muses, filles de la Mémoire et de Zeus. Remontons encore une fois au tout début. De Faille survint Gaïa, Nyx (la Nuit), Erèbe (Ténèbres) et Eros (Amour). De Nuit et de Ténèbres viendront Feu d'en haut (Ether) et Lumière du jour (Héméra). On retiendra de ce Fiat Lux la survenue depuis le quasi-Néant (Nuit et Ténèbres sont un peu plus que l'absence de toute chose), de l'énergie et de la matière. Mais surtout, notre attention est attirée par Eros. L'un des quatre premiers principes/concepts/Dieux est celui de l'Amour. Il est le Dieu de la puissance créatrice, il est l'incarnation de « l'union des contraires » si cher aux Hellènes. Il est important de préciser qu'Eros n'est pas le Désir qui est une entité distincte. C'est précisément ici qu'intervient le génie de l'antique paganisme. Les Anciens n'ignoraient pas la dualité des principes régissant l'existence mais ils en recherchaient le dépassement. Ils ne faisaient pas un choix qui verrait magnifier un principe aux dépens de celui qui lui était associé. Ils ne choisissaient pas non plus une voie qui amènerait les deux principes à se neutraliser, sorte de juste milieu. Non. Pour nos ancêtres, la solution résidait dans l'union des contraires par leur dépassement dialectique. Prenons la figure d'Aphrodite. Née des testicules d'Ouranos tranchées et jetées à la mer par Cronos, il est dit d'elle que partout où elle allait (vers 195) :

        « Eros fut son compagnon,

        Et le beau Désir la suivit,

        Dès le moment de sa naissance,

        Puis quand elle monta chez les Dieux »

Aphrodite est le dépassement dialectique de l'Amour et du Désir. Elle permet le dépassement du concept de perpétuation, d'union que constitue Eros et de celui du simple désir amoureux que constitue Désir. Aphrodite, c'est l'écume (la semence) née du Ciel venue fertiliser la Terre et ses habitants. A la fois violente comme le peut être le désir et douce comme la tendresse, Aphrodite a pour époux Arès, le Dieu des fureurs guerrières. De par ses prérogatives et les relations qu'elle noue avec les autres entités, elle montre l'étendue et les limites de son champ d'action. Elle montre également qu'il ne saurait y avoir de concept agissant seul, isolé, sans conséquences sur le monde extérieur. La plupart d'entre nous préfèrerons la compagnie d'Aphrodite à celle d'Arès mais nous ne devons pas nous faire d'illusion sur le risque toujours existant de le voir faire irruption quand nous frayons avec elle.

On pensera alors à l'Iliade 8. C'est à cause du désir de Pâris pour la belle Hélène que la guerre de Troie eut lieu.

Ce n'est l'un qu'un exemple parmi d'autre, et parmi les plus simples à comprendre. Toute la Théogonie est construite selon cette logique. Elle dessine une totalité dialectique où chaque divinité, chaque concept, chaque homme a son importance dans la perfection, dans l'ordre de l'univers.

athbor2141_small_1.jpgFigure III: Athéna à la borne. Comme pour la déesse, nos méditations doivent porter sur la notion de limite, d'absolu, de perfection.

Poursuivons maintenant avec la progéniture de la Nuit. Tout d'abord, les trois Moires qui accordent leur part de bien et de mal à chaque homme (de bonheur et de malheur) et qui soulignent de par leur naissance, que la destinée n'est que l'enchainement des causes et des conséquences que chaque homme se doit d'assumer. S'accorde à la divinité celui qui (homme comme Dieu) saura rester à la place qui lui est due. Cela ne doit pas laisser penser que la société des Hellènes est fataliste comme pouvait l'être celle des Etrusques. Non, la part qui revient à chacun peut émerger après une longue lutte. Ce que nous dit l'existence des trois Destinées, c'est que la vie ne peut être appréhendée sans sa dimension tragique, que l'on ne peut vouloir toujours plus sans en avoir à en payer le prix un jour ou l'autre et que l'homme sage ne maudira point les Dieux et l'Univers quand il sera frappé par les coups du sort (des conceptions que l'on retrouve bien exprimée dans le stoïcisme 9,10).

Et ces coups du sort sont également enfants de la Nuit. La Mort bien évidemment mais également la Misère qui fait mal, la Tromperie et la Vieillesse effroyable, la Jalousie qui enfanta à son tour bien des maux. Ce sont l'Oubli et les Souffrances, les Querelles et les Combats et, nous dit la Théogonie, le Mépris des lois et la Démence qui « s'accordent ensemble ». C'est enfin, rappelons-le une dernière fois, ce Serment qui fait tant souffrir les hommes quand ils se parjurent. Même les maux participent à l'ordre du monde et sont sacrés, incarnés par des divinités. Un monde sans souffrance ne serait plus le monde tout comme il est insensé de s'étonner de la présence de la Mort, nécessaire au renouvellement perpétuel des générations.

Nous avons évoqué précédemment la figure de la déesse Styx, fille d'Océan et fleuve des Enfers. Elle accouru la première à l'appel de Zeus pour combattre les Titans. Le fait que parmi les enfants de Styx se trouvent Vouloir-être-premier, Victoire aux belles chevilles, Pouvoir et Force ne devra donc étonner personne, surtout lorsque l'on sait que depuis cet appel (vers 385):

        « Ils n'ont pas de maison, où ils seraient loin de Zeus,

        Pas de lieu, pas de route, où ils iraient sans l'ordre du Dieu ;

        Toujours ils occupent un siège près de Zeus Fracas-de-Foudre ».

Nous le voyons encore une fois. Tout est sacré, même les sentiments et les idées, les concepts comme les sensations. Les Dieux sont les forces profondes animant l'univers et que l'homme sage se doit de vénérer. Car le but de l'homme sage est de vivre en harmonie avec l'univers. Donc de connaître les lois qui l'animent. Les stoïciens arrivèrent à la même conclusion par l'usage de la raison. Ceci n'est pas étonnant, car quand bien même un philosophe utilise uniquement la logique pour arriver à ses conclusions, ce sont les mythes qui ont façonné l'âme de son peuple et dont il est l'un des dépositaires qui déterminent ses représentations fondamentales. Les penseurs hellènes n'étaient pas de joyeux athées accessoirement doués pour la philosophie et les sciences. Toute leur âme répondait à une métaphysique bien précise. Cette métaphysique est celle de la borne, de la limite. C'est la métaphysique de l'Absolu. C'est une métaphysique dictée par le rejet d'une faute majeure : l'hubris. Savoir trouver sa place, la mesure en tout, l'intrication du beau et du bien, la sacralité de l'univers, la perfection comme horizon... ce sont là quelques manifestations de cette métaphysique de l'Absolu contenue dans la Théogonie. On est loin de la métaphysique de l'illimité qui gouverne aujourd'hui nos existences. Un monde de la consommation, de la croissance sans fin. Un monde où la nature (aujourd'hui circonscrite à la Terre mais demain extensible à l'Univers entier) est une vaste réserve de matière première. Un monde où l'homme est devenu la démesure de toute chose pour prendre à rebours les propos de Protagoras. Une sécularisation du « Dieu les bénit, et Dieu leur dit: Soyez féconds, multipliez, remplissez la terre, et l'assujettissez; et dominez sur les poissons de la mer, sur les oiseaux du ciel, et sur tout animal qui se meut sur la terre » de la Genèse 11.

Invoquons de nouveau l'Iliade et la description du bouclier d'Achille dont nous parlions dans une précédente critique positive 12 :

« Dans ce texte sacré de notre continent, le plus ancien écrit d'Europe, composé au VIIIe siècle avant notre ère, nous pouvons trouver la figuration de la cité sur le bouclier d'Achille (chant XVIII de l'Iliade). Forgé et décoré par Héphaïstos, le bouclier montre la société antique, représentée par deux cités, l'une en paix, l'autre en guerre mais toutes deux inscrites dans l'ordre cosmique (symbolisé par la voute céleste) défini par la tri-fonctionnalité européenne. La première ville représente le 1er ordre (cérémonies, justice, cercle sacré). La seconde ville représente le 2nd ordre (guerre). En plus des deux villes est représenté le monde agricole (3ème ordre), joyeux et opulent. A l'extrême bord du bouclier est placé l'Océan (notion de limite, de borne). Ici, le monde agricole est richesse et joie, il permet l'émergence des villes et en garantie l'harmonie. La séquence nature-surnature-civilisation est une continuité et non une rupture. Non seulement le divin les englobe mais ces trois composantes participent également au divin ».

Cette métaphysique est notre bien le plus précieux. Malmenée depuis des siècles, oubliée par bien des nôtres, il n'appartient qu'à nous d'y revenir. Comment ? En nous laissant traverser par la perfection des sculptures antiques de Praxitèle et de Phidias dont Rodin fut l'un des plus dignes descendants. En s'imposant une plus grande frugalité sans sombrer dans l'ascétisme, comme le recommandait Dominique Venner, pour se concentrer sur les choses fondamentales. En cultivant l'esprit (l'exigence) d'excellence dans nos travaux. En renouant avec le sentiment de la nature comme nous l'enseignent et nous l'ont enseigné tant de nos maîtres. Toutes ces choses que Dominique Venner nous a enjoint de retrouver, d'entretenir en nous et parmi les nôtres 13. La Théogonie est avec l'Iliade une des sources majeures de ce grand ressourcement. Les autres sources immémoriales de l'Europe partageant les mêmes eaux, chacun pourra y trouver cette métaphysique de l'Absolu. Du cycle arthurien aux Eddas, de la figure de Cúchulainn à celle de Siegfried, de la sagesse des druides à celle des stoïciens, nous avons à portée de main de quoi renouer avec notre véritable relation au cosmos, celle de nos origines.

Pour le SOCLE 

L'enseignement fondamental de la Théogonie est de revenir à une métaphysique de l'Absolu. Ce que nous percevons à travers ce témoignage d'Hésiode pour y parvenir, c'est:

  • La condamnation de l'hubris
  • Le Cosmos est sacré
  • Tout est partie du Cosmos : hommes, Dieux, forces, concepts, idées...
  • Hommes et Dieux doivent être guidés par les mêmes principes
  • L'importance du serment
  • L'ordre est voulu, le chaos est permanent

Bibliographie

  1. Théogonie. Hésiode. Folio Classique
  2. Bibliothèque historique, V, LXVII. Diodore de Sicile
  3. Jupiter, Mars, Quirinus. Georges Dumézil. NRF Gallimard
  4. Vu de droite. Alain de Benoist. Le labyrinthe
  5. Comment peut-on être païen ? Alain de Benoist. Albin Michel
  6. Les religions de l'Europe du nord. Régis Boyer, Evelyne Lot-Falck. Fayard-Delanoël
  7. Dictionnaire de la mythologie gréco-romaine. Annie Collognat. Omnibus
  8. L'Iliade. Homère. Traduit du grec par Frédéric Mugler. Babel
  9. Le Manuel. Epictète. GF-Flammarion
  10. Pensées pour moi-même. Marc-Aurèle. GF-Flammarion
  11. Genèse 1:28
  12. Critique positive de « Comment peut-on être païen». Gwendal Crom. Le SOCLE
  13. Un samouraï d'Occident. Dominique Venner. Editions Pierre-Guillaume de Roux

mardi, 16 février 2016

Le cheval solaire dans les steppes de l’Eurasie

 

dimanche, 14 février 2016

Soleil et lune / mâle et femelle

lunesoleil.jpg

Soleil et lune / mâle et femelle

par Thomas Ferrier

Ex: http://thomasferrier.hautetfort.com

Les mythologies anciennes évoquent deux figures majeures, deux déités parmi les plus importantes, à savoir le Soleil et la Lune. En français, langue héritière du latin, il n’y a aucun doute. Soleil masculin, Lune féminine. Comme le Sol et la Luna romains. Pourtant ces deux astres, selon les peuples, ne sont pas associés au même sexe et c’est ce que je vais m’efforcer d’analyser dans cet article.

lune-mytho-sc3a9lc3a9nc3a9.jpg

Chez les Indo-Européens indivis, la tribu des *Aryōs que j’évoquerai dans un prochain article, les choses sont assez simples. Le Soleil,*Sawel ou *Sawelyos), comme l’indique la forme finale en –os, est masculin, tandis que la lune, sous ses deux noms, *mens et *louksna (« la lumineuse »), est féminine. Le dieu du soleil est le fils du dieu du ciel et forme avec ses deux frères, le feu du ciel intermédiaire (foudre) et le feu terrestre, une triade. Ainsi en Grèce Apollon (substitut d’Hélios), Arès et Héphaïstos sont les trois fils de Zeus.

En Grèce, le soleil est représenté par au moins trois divinités, toutes masculines, à savoir Hélios lui-même, le Soleil personnifié, mais aussi son père, le titan Hypérion (« le très haut ») et Apollon, seul olympien au sens strict, surnommé Phoebos. De la même façon, la lune est associée à plusieurs déesses comme Selênê (*louksna) ou Mênê (*mens), mais aussi l’olympienne Artémis, déesse-ourse de la chasse, et la sombre magicienne Hécate. La lune est un astre mystérieux et inquiétant pour les anciens Grecs, à la différence du soleil souverain, dont la puissance est généralement bienfaitrice, même si parfois les rayons du soleil, qu’Apollon envoie grâce à son arc, sèment aussi la mort. En revanche, à Rome même, Sol et Luna sont des divinités très marginales, rapidement remplacées dans leur rôle céleste par Apollon et Diane.

Chez les Indo-Européens d’orient, et ce sans doute sous l’influence de la religion mésopotamienne, soleil et lune sont deux divinités masculines, ainsi Hvare et Mah en Iran ou encore Surya et Chandra Mas (*louksna *mens, pour la première fois associée). Les Arméniens par contre respectent bien le schéma indo-européen, avec le viril Arev, selon une variante du nom du soleil qu’on retrouve dans le sanscrit Ravi, et la douce Lusin (*louksna). Enfin, en Albanie aussi, on retrouve un soleil masculin (Dielli) et une lune féminine (Hëna).

En revanche, chez les peuples du nord de l’Europe, étrangement, le sexe de l’un et de l’autre s’est inversé, sauf chez les Celtes où ces deux divinités ont une place de toute façon si marginale qu’il est presque impossible de les identifier, remplacés par le dieu Belenos et sans doute la déesse Đirona. Chez les Germains, si Balder est l’Apollon scandinave, le soleil est une déesse (germanique Sunna, nordique Sol) alors que la lune est son frère (nordique Mani). De même, les Baltes possèdent une déesse solaire puissante (lituanienne Saulè) et un dieu lunaire aux accents guerriers (lituanien Menulis, letton Menuo). Cette étrange inversion s’explique peut-être par l’idée que le soleil du nord était davantage doux pour les hommes, mais on verra par la suite que cette hypothèse est douteuse.

Les Slaves quant à eux préfèrent maintenir une certaine ambiguïté. Si le soleil est clairement masculin, sous la forme du Khors (Хорс) d’origine sarmatique ou du Dazbog slave, alors que son nom neutre « solntse » ne désigne que l’astre et aucunement une divinité, la lune n’est pas nécessairement féminine. Messiats (Месяц) est une divinité qui peut apparaître aussi bien comme un dieu guerrier que comme une déesse pacifique.

La mythologie indo-européenne, malgré une inversion localisée dans le Nord-est de l’Europe, et une influence mésopotamienne évidente en Orient, a donc conservé l’idée d’un couple de jumeaux, le dieu du soleil et la déesse de la lune, tous deux nés de l’amour du ciel de jour et de la nuit (la Léto grecque, qui est aussi la Ratri indienne, déesse de la nuit).

En Egypte et à Sumer, pays où la chaleur du soleil pouvait être écrasante, le soleil est clairement une divinité mâle, mais la lune n’est pas davantage envisagée comme son opposé. L’Egypte dispose ainsi de plusieurs dieux solaires de première importance, comme Râ et Horus (Heru), et aussi de leurs multiples avatars, comme Ammon, le soleil caché, et Aton, le soleil visible. Le Soleil a même une épouse et parèdre, Rât. Il est le dieu suprême, alors que le ciel est féminin (Nout) et la terre est masculine (Geb), inversion étrange qu’on ne retrouvera pas ailleurs. La Lune est elle aussi masculine. C’est le dieu Chonsu, au rôle religieux des plus limités. De même les Sumériens disposent de deux divinités masculines, en la personne d’Utu, le Soleil comme astre de justice, et Nannar, la Lune.

lune7f44466b32c9a293a04021e247.jpgLorsque les peuples sémitiques quittèrent leur foyer d’Afrique de l’Est ou de la pointe sud-ouest de l’Arabie, leur mythologie rencontra celle des Mésopotamiens. A l’origine, le Soleil chez les Sémites est une déesse du nom de *Śamšu alors que la Lune est masculine, *Warihu. Chez un peuple qu’on associe à un environnement semi-désertique, c’est assez surprenant. Lorsque les Sémites envahirent Sumer, ils adaptèrent leur panthéon à celui des indigènes. Si la lune resta masculine sous la forme du dieu Sîn, dont l’actuel Sinaï porte le nom, le soleil devint également masculin. A l’Utu sumérien succéda le Shamash babylonien, dans son rôle identique de dieu qui voit tout et juge les hommes. Mais en Canaan et chez les Arabes, « la » Soleil survécut. Shapash était la déesse ouest-sémitique du soleil, présente aussi bien chez les anciens Judéens que dans le reste de Canaan et jusqu’à Ugarit, et Shams la déesse sud-sémitique, présente encore à l’époque de Muhammad dans tout le Yémen.

Un dieu soleil et une déesse lune chez les Indo-Européens, une déesse soleil et un dieu lune chez les Sémites, comme d’ailleurs chez les peuples Turcs et Finno-ougriens, et sans doute chez les peuples nomades en général, un soleil et une lune tous deux masculins en Egypte et à Sumer, voilà une situation bien complexe. Pourquoi attribuer à l’un ou à l’autre un genre en particulier ?

On comprend bien que la lune, liée à des cycles, puisse être associée à la femme, elle-même soumise à un cycle menstruel, terme qui rappelle d’ailleurs justement le nom indo-européen de la lune (*mens). Et de même le soleil, astre ardent qui brûle la peau de celui qui ne s’en protège pas, qui voit tout et qui sait tout, est logiquement masculin. Mais ce raisonnement ne vaut que pour les Indo-Européens. L’idée d’une lune féminine leur est propre, alors qu’elle est masculine partout ailleurs, de l’Egypte jusqu’à l’Inde.

Thomas FERRIER (LBTF/Le Parti des Européens)

lundi, 01 février 2016

Du mot proto-indo-européen *deywos

zeus-statue-mount-olympus.jpg

Du mot proto-indo-européen *deywos

par Thomas Ferrier

Ex: http://thomasferrier.hautetfort.com

Qu’est-ce qu’un *deywos, mot qui a abouti au latin deus et au français « dieu » ? D’autres termes pour désigner les divinités ont été employés par les Indo-Européens indivis, à l’instar de *ansus, « esprit divin » [scandinave Ass, indien Asura) ou de *dhesos, « celui qui est placé (dans le temple) » [grec theos] et bien sûr le terme germanique *gutaz désignait « celui qu’on invoque », mais *deywos aura été le plus courant et le mieux conservé puisqu’on le retrouve à peu près partout (gaulois devos, germano-scandinave tyr, balte dievas, sanskrit devas, latin deus, iranien daeva).

La racine de *deywos est bien connue, et on la retrouve dans le nom de *dyeus, le « ciel diurne », à la fois phénomène physique et divinité souveraine. On peut la traduire par « céleste » aussi bien que par « diurne » mais aussi par « émanation de *dyeus ».

La divinité suprême *Dyeus *Pater est en effet l’époux d’une parèdre du nom de *Diwni (« celle de *dyeus ») qui est le nom marital de la déesse de la terre, son épouse naturelle, formant le couple fusionnel dyavaprithivi dans l’Inde védique. Les *Deywôs sont donc les fils de *Dyeus, tout comme les *Deywiyês (ou *Deywâs) sont ses filles.  C’est leur façon de porter le nom patronymique de leur divin géniteur.

Les *Deywôs sont donc par leur nom même les enfants du ciel, ce qui place leur existence sur un plan astral, l’ « enclos des dieux » (le sens même du mot *gherdhos qu’on retrouve dans Asgard, le royaume divin des Scandinaves) étant situé sur un autre plan que le monde des hommes mais placé systématiquement en hauteur, généralement à la cime de la plus haute montagne ou de l’arbre cosmique, ou au-delà de l’océan, dont la couleur est le reflet du ciel bleu, dans des îles de lumière (Avallon, Îles des Bienheureux…).

Mais ils forment aussi une sainte famille, autour du père céleste et de la mère terrestre, l’un et l’autre régnant dans un royaume de lumière invisible aux yeux des hommes. 

Toutefois, le ciel diurne ne s’oppose au ciel de nuit que dans une certaine mesure. Sous l’épiclèse de *werunos, le dieu « du vaste monde » [grec Ouranos, sanscrit Varuna], *Dyeus est aussi le dieu du ciel en général, les étoiles étant depuis toujours les mânes des héros morts, souvenir que les Grecs lièrent au mythe d’Astrée, déesse des étoiles et de la justice, qui abandonna le monde en raison des pêchés des hommes. Astrée elle-même n’était autre que la déesse *Stirona indo-européenne que les Celtes conservèrent sous le nom de Đirona (prononcer « Tsirona ») et que les Romains associèrent à Diane.

Quant à la parèdre de *Dyeus, on la retrouve sous les noms de Diane et de Dea Dia à Rome, de Dziewona en Pologne pré-chrétienne et de Dionê en Grèce classique, celle-là même qu’on donne pour mère d’Aphrodite. De même la déesse de l’aurore (*Ausos) est dite « fille de *Dyeus » [*dhughater *Diwos], terme qu’on retrouve associé à Athéna mais aussi plus rarement à Aphrodite.

*Diwni, l’épouse du jour, devient *Nokwts, la nuit personnifiée. Le *Dyeus de jour cède alors la place au *Werunos de nuit. Tandis que les autres *Deywôs dorment, *Dyeus reste éveillé. L’idée d’un dieu du jour et de la nuit, donc aux deux visages, est à rapprocher du Janus romain, dieu des commencements, époux alors de la déesse de l’année *Yera (Héra) ou de la nouvelle année (Iuno).

Thomas FERRIER (Le Parti des Européens)

19:45 Publié dans Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : tradition, mythologie, dieux, paganisme, zeus, indo-européens | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

lundi, 18 janvier 2016

Sol Invictus et le monothéisme solaire

Fludd-SublimeSun(744x721)[1].jpg

Sol Invictus et le monothéisme solaire

par Thomas Ferrier

Ex: http://thomasferrier.hautetfort.com

Racines


sol invictus,monothéisme,paganisme,empire romain,mondialisme,christianismeDans la tradition égyptienne ancienne, le dieu le plus important du panthéon était le Soleil, qui était honoré sous différents noms selon les cités, mais qui portait dans toute l’Egypte le nom de Rê. En tant qu’Atoum-Rê, il apparaissait comme le dieu créateur du monde et sous les traits d’Amon-Rê comme un dieu souverain. Rê était également appelé Horus (Heru), sous la forme d’Horus l’ancien comme sous celle du fils d’Osiris et d’Isis. Le dieu Horus, son avatar sur la terre, aurait même guidé le peuple égyptien, à l’époque où ses ancêtres venaient d’Afrique du nord, sur cette nouvelle terre noire (Kemet) qui finit par porter son nom.

C’est la barque de Rê qui garantissait chaque jour l’ordre cosmique contre les forces de destruction et de chaos incarnées par le serpent Apep (« Apophis »). A sa proue, le dieu orageux Set combattait le dit serpent, avant que la tradition populaire tardive ne finisse par le confondre avec lui et n’en fasse plus que le meurtrier d’Osiris.

L’importance du culte solaire fut telle que le roi Amenhotep IV, plus connu sous celui d’Akhenaton, en fit son culte unique et fut le premier à créer un monothéisme solaire lié à sa personne, honorant le disque solaire divinisé (Aton). Les seuls prêtres et intercesseurs d’Aton vis-à-vis des hommes étaient le pharaon lui-même et son épouse Nefertiti. Son culte s’effondra à sa mort et les prêtres d’Amon veillèrent à ce que son nom disparaisse des inscriptions.

Mais en revanche dans la tradition indo-européenne, dont Grecs et Romains (notamment) seront les héritiers, le dieu du soleil est un dieu parmi d’autres et jamais le premier. Aux temps de l’indo-européanité indivise, ce dieu se nommait *Sawelyos et monté sur un char tiré par des chevaux blancs, il tournait autour de l’astre portant son nom. Le dieu suprême était son père *Dyeus, le dieu du ciel et de la lumière. Parmi les fils de *Dyeus qu’on nommait les *Deywôs (les « dieux »), trois étaient liés au feu, en conformité avec le schéma dumézilien des trois fonctions et sa version cosmique analysée par Haudry. Il y avait en effet le feu céleste (Soleil), le feu du ciel intermédiaire (Foudre) et le feu terrestre (Feu). De tous les fils de *Dyeus, le plus important était celui de l’orage et de la guerre (*Maworts), qui parfois devint le dieu suprême chez certains peuples indo-européens (chez les Celtes avec Taranis, chez les Slaves avec Perun, chez les Indiens avec Indra). Le dieu du soleil était davantage lié aux propriétés associées à l’astre, donc apparaissait comme un dieu de la beauté et aussi de la médecine. Ce n’était pas un dieu guerrier.

A Rome même, le dieu Sol surnommé Indiges (« Indigène ») était une divinité mineure du panthéon latin. Il était né le 25 décembre, à proximité du solstice d’hiver. Dans ce rôle solaire, il était concurrencé par le dieu de l’impulsion solaire, Saturne, dont le nom est à rapprocher du dieu indien Savitar, avant d’être abusivement associé au Cronos grec.

En Grèce enfin, selon un processus complexe, les divinités du soleil, de la lune et de l’aurore se sont multipliées. L’Aurore était donc à la fois Eôs, l’Aurore personnifiée, mais aussi Athéna dans son rôle de déesse de l’intelligence guerrière et Aphrodite dans celui de déesse de l’amour. Et en ce qui concerne le Soleil, il était à la fois Hêlios, le fils d’Hypérion (qui n’était autre que lui-même), et Apollon, le dieu de la lumière, des arts et de la médecine. Cette confusion entre ces deux dieux fut constamment maintenue durant toute l’antiquité.

Evolution.

sol invictus,monothéisme,paganisme,empire romain,mondialisme,christianismeIIIème siècle après J.C. L’empire romain est en crise. A l’est, les Sassanides, une Perse en pleine renaissance qui rêve de reconstituer l’empire de Darius. Au nord, les peuples européens « barbares » poussés à l’arrière par des vagues asiatiques et qui rêvent d’une place au soleil italique et/ou balkanique.

Le principat, qui respectait encore les apparences de la république, tout en ayant tous les traits d’un despotisme éclairé, a explosé. Place au dominat. Victoire de la conception orientale du pouvoir sur la vision démocratique indo-européenne des temps anciens. L’empereur n’est plus un héros en devenir (divus) mais un dieu incarné (deus). Il est le médiateur de la puissance céleste et des hommes, à la fois roi de fait et grand pontife. Le polythéisme romain était pleinement compatible avec une conception républicaine du monde, comme l’a montré Louis Ménard. Empereur unique, dieu unique.


Si le christianisme comme religion du pouvoir d’un seul était encore trop marginal pour devenir la religion de l’empereur, un monothéisme universaliste s’imposait naturellement dans les têtes. Quoi de plus logique que de représenter l’Un Incréé de Plotin par le dieu du soleil, un dieu présent dans l’ensemble du bassin méditerranéen et donc apte à unir sous sa bannière des peuples si différents. Mondialisme avant la lettre. Cosmopolitisme d’Alexandre. Revanche des Graeculi sur les vrais Romani, d’Antoine sur Octavien.

C’est ainsi que naquit un monothéisme solaire autour du nom de Sol Invictus, le « Soleil Invaincu » et/ou le « Soleil invincible ». Le dieu syrien El Gabal, les dieux solaires égyptiens et l’iranien Mithra, enfin le pâle Sol Indiges, le froid Belenos et Apollon en un seul. Le monothéisme solaire d’Elagabale, mort pour avoir eu raison trop tôt, de Sévère Alexandre, qui ouvrit même son panthéon à Jésus, puis d’Aurélien, s’imposa. Certes Sol n’était pas l’unique « deus invictus ». Jupiter et Mars furent aussi qualifiés de tels, et il est vrai que de tous les dieux romains, Mars était le seul légitime en tant que déité de la guerre à pouvoir porter ce nom.

DNSISolInvictus-4.jpg



En réalité, « Sol Invictus » fut l’innovation qui facilita considérablement au final la victoire du christianisme. Constantin, qui était un dévot de ce dieu, accepta de considérer Jésus Christ, que des auteurs chrétiens habiles désignèrent comme un « soleil de justice » (sol iustitiae) comme une autre expression de ce même dieu. Le monothéisme « païen » et solaire de Constantin, épuré de tout polythéisme, comme sous Akhenaton, et le monothéisme chrétien fusionnèrent donc naturellement. Le jour du soleil fut dédié à Jésus, tout comme celui-ci désormais fut natif du 25 décembre. Jésus se vit représenté sous les traits d’un nouvel Apollon, aux cheveux blonds, à la fois Dieu incarné et homme sacrifié pour le salut de tous.

Au lieu de s’appuyer sur le polythéisme de leurs ancêtres, les empereurs romains, qui étaient tous des despotes orientaux, à l’instar d’un Dioclétien qui exigeait qu’on s’agenouille devant lui, à l’instar d’un shah iranien, voulurent faire du christianisme contre le christianisme. Dioclétien élabora une théologie complexe autour de Jupiter et d’Hercule. Le héros à la massue devint une sorte de Christ païen, de médiateur, qui s’était sacrifié sur le mont Oeta après avoir vaincu les monstres qui terrifiaient l’humanité et avait ainsi accédé à l’immortalité.

Et l’empereur Julien lui-même se fit un dévot du Soleil Invincible, sans se rendre compte un instant qu’il faisait alors le plus beau compliment au monothéisme oriental qu’il pensait combattre. Il osa dans ses écrits attribuer la naissance de Rome non au dieu Mars mais à Hélios apparu dans un rôle fonctionnel guerrier. Le monothéisme solaire a pourtant permis au christianisme de s’imposer, à partir du moment où l’empereur a compris que l’antique polythéisme était un obstacle moral à l’autocratie. Constantin alla simplement plus loin qu’Aurélien dans sa volonté d’unir religieusement l’empire. Jesus Invictus devint le dieu de l’empire romain.

Le monothéisme autour de Sol Invictus, loin d’être la manifestation d’une résistance païenne, était au contraire la preuve de la victoire des valeurs orientales sur une Rome ayant trop négligé son héritage indo-européen en raison d’un universalisme suicidaire. Cela nous rappelle étrangement la situation de l’Europe contemporaine.

Thomas FERRIER (PSUNE/LBTF)

Note: Mithra à l’origine n’est pas un dieu solaire. C’était la fonction de l’ange « adorable » zoroastrien Hvar (Khorsid en moyen-perse). Il incarnait au contraire le dieu des contrats, de la parole donnée et de la vérité, à l’instar du Mitra indien. Par la suite, il récupéra des fonctions guerrières aux dépens d’Indra désormais satanisé (mais réapparu sous les traits de l’ange de la victoire, Verethragna). Enfin il finit par incarner le Soleil en tant qu’astre de justice. Le Mithras « irano-romain », évolution syncrétique ultérieure, conserva les traits solaires du Mithra iranien tardif. Il fut également associé au tétrascèle solaire (qualifiée de roue de Mithra, Garduneh-e Mehr, ou de roue du Soleil, Garduneh-e Khorsid) qui fut repris dans l’imagerie christique avant d’être utilisé deux millénaires plus tard par un régime totalitaire.

vendredi, 18 décembre 2015

Il sole e gli Dei

 

Arise_by_wintersonnenwende.jpg

 
Il sole e gli Dei
di Ass. Cultural "Uomini Liberi Uomini Dei"
Ex: http://www.insorgente.com 

Nel sincretismo delle religioni del passato, il concetto di Dio unico prese una forma così generalizzata, tale da disconoscere talvolta il suo nome e la sua reale identità. In altre parole oggi crediamo, almeno nella maggioranza dell'umanità, in un unico Dio solamente perché tutti gli altri sono semplicemente scomparsi dalla scena divina, per ragioni di una cruenta realtà storica che vinse sulla ragione e la razionalità dell'uomo.

Amon Ra, il Dio supremo. Semplicemente Ra, divinità creatrice, custode di un pantheon egizio di Dei ognuno dei quali aveva un suo compito preciso, quello di educare ed accompagnare la spiritualità della civiltà egiziana a considerare l'importanza della vita, della natura e degli astri che influenzavano nell'uomo ogni sensazione di contatto divino tra cielo e terra.

Dopo qualche migliaio di anni, Ra e tutti gli altri Dei lentamente scomparvero dalla scena religiosa, ed emerse Aton, la proposta di un Dio che manifestava tutta la sua sacralità nella materia stessa. Aton, l'adorazione del disco solare stesso proposto dal faraone Akenaton quasi ad enfatizzare un concetto di divinità monoteista che verrà assorbita secoli più tardi dalle principali religioni abramitiche che conosciamo, ognuna delle quali con una propria teologia personalizzata.

Quello che non comprendiamo, è la presunzione delle tre principali religioni monoteiste e cioè che il loro Dio esiste, tutti gli altri no. Per il cristianesimo, l'ebraismo e l'islam, tutti gli altri Dei e le loro antiche tradizioni, i loro culti, sono da considerarsi semplicemente idoli di un passato remoto non solo dimenticato, ma sciocco da ricordare. Per la maggioranza del mondo che presume l'esistenza di un solo Dio, tutto è scontato. L'unica verità marcia a favore di un'ottusità a senso unico e chi la pensa al contrario è subdolo e sacrilego. Chi marcia al contrario è il solito “pagano” rozzo, intorpidito dalla realtà e da chissà quali sciocche e superate credenze popolari. Ma quale realtà? Nel medioevo, la maggioranza delle persone credevano che la terra fosse piatta. Si sbagliavano tremendamente di grosso.

Alle soglie del terzo millennio è inutile continuare a nascondere che il cristianesimo nella rappresentazione della propria immagine divina quale Gesù Cristo abbia attinto per molti aspetti da millenarie tradizioni religiose già esistenti, reinventando l'immagine di culti presenti da migliaia di anni sulla scena politica e religiosa di popolazioni antiche. Se un Dio supremo esiste, dategli pure un nome e un'identità, ma ricordatevi che anche gli Dei esistono anche se a un certo punto della storia vennero semplicemente sommersi e rinnegati dal buon senso e dalla ragione. Almeno un centinaio di passaggi senza equivoco o allegoria possibile dimostrano la loro esistenza nella bibbia stessa.. Per esempio eccone tre:

Giosuè 24,2 “Giosuè disse a tutto il popolo: «Dice il Signore, Dio d'Israele: I vostri padri, come Terach padre di Abramo e padre di Nacor, abitarono dai tempi antichi oltre il fiume e servirono altri Dei”.

Giosuè 24,15 “...Se vi dispiace di servire il Signore, scegliete oggi chi volete servire; Se gli Dei che i vostri padri servirono oltre il fiume oppure gli Dei degli Amorrei, nel paese dei quali abitate”.

I lettera ai Corinzi 8,5-6 “In realtà, anche se vi sono cosiddetti Dei sia nel cielo che sulla terra e difatti ci sono molti Dei e molti signori, per noi c’è un solo Dio...”

E' inutile continuare a rinnegare la storia, l'archeologia e una dottrina biblica veicolata che a volte racconta di più di ciò che si vuole far credere. Subdolo sarebbe continuare a nascondere che la data della nascita divina del Cristo è puramente simbolica e mitologica, collegata al concetto di resurrezione del sole di ogni popolazione antica da nord a sud, da est a ovest del mondo che muterà in un definitivo concetto di resurrezione dell'anima, quando in qualche modo il Dio del sole e della luce o la suprema identità comunicativa diventa un tutt'uno con il faraone, (l'uomo) l'incarnazione del Dio disceso sulla terra, il soter (salvatore) di Platone della Grecia antica.

La resurrezione del sole o solstizio invernale fu e dovrebbe esserlo ancora, semplicemente una festa di luce maggiore, che assieme all'equinozio di primavera annunciava ad ogni popolo della nascita per volere divino della natura e della vita e venne in un secondo momento assoggettata alla nascita simbolica di molti Dei dell'antichità. Per comprendere cosa rappresentasse il solstizio invernale per gli antichi,vi rimandiamo all'articolo che trovate nella sezione cultura del nostro sito datato 21-12-2012 : “Ma cosa è il Solstizio?”

Per capire invece meglio quanto la misticità del sole emergesse dai principali culti egiziani, europei, orientali, greco romani, basterebbe soltanto accertarsi come il sole nascente venisse rappresentato sempre alla sommità o dietro il capo di ogni Dio o Dea maggiore che prometteva luce e verità es. Ra, Hathor, Iside (la vergine col bambino), Krishna, Mitra e molti altri. Per rimarcare come il sole venisse associato per ovvie ragioni alla sacralità degli Dei, troviamo uno dei mille esempi di coniugazione nel monolito di Commagene in Turchia (ex provincia romana) dove gli Dei Apollo, Elio e Demetrio sono scolpiti nella pietra e il sole viene evidenziato, raffigurato sovrastante di essi.

La classica immagine dello stesso Gesù, se ci fate caso, è spesso rappresentata con un sole splendente alle spalle. I santi più importanti per il cristianesimo vengono rappresentati sempre con un'aureola solare alla nuca. Come potete constatare nella foto in anteprima, (mitra o mitria papale medioevale museo di Salisburgo) la sacralità del sole nacque associata al cristianesimo stesso e nel medioevo era ancora molto viva la sua rappresentazione attraverso e non solo le vesti papali. Il sole “cristiano” veniva solitamente raffigurato da uno o più soli d'oro sulle facciate del sacro cappello mentre tutta la sua misticità ritornava a tradizioni lontanissime, quando fu tempo che correnti filosofiche religiose e rituali Esseni si fondessero nel nascente cristianesimo. Così in un passo ci ricorda lo storico Giuseppe Flavio di alcuni rituali Esseni precursori del cristianesimo:

Libro II:128

“Verso la divinità sono di una pietà particolare; prima che si levi il sole non dicono una sola parola su argomenti profani, ma soltanto gli rivolgono certe tradizionali preghiere, come supplicandolo di risorgere.”

Il culto del sole racconta il suo massimo splendore fin dalla nascita del mondo. Il sole, sia esso di creazione divina o naturale possibile, si propone omaggio dell'universo alla vita dell'uomo, della terra e del nostro sistema solare. Ogni occasione era buona per un ringraziamento alla natura che collegava una cultura universale alla luce solare, alla sua quotidiana nascita o resurrezione e che, in qualunque modo possibile, ogni civiltà trovò motivo di personale lode.

A questo punto due riflessioni per le conclusioni. Innanzitutto quando si parla di culto solare o solstizio, sarebbe ora di finirla di tacciarlo come evento “pagano”. Ma che vuol dire pagano? Oggi nella società manca l'informazione corretta del “sacrilego” significato. Il termine viene forgiato con l'avvento del cristianesimo e si diffonde come una sorta di suffisso denigratorio nel generalizzare religioni praticate in precedenza al culto di Cristo.

Ma se nel cristianesimo, come abbiamo visto, il culto del sole o meglio dire in questo caso la nascita del sole viene simbolicamente assimilata e associata alla nascita del Cristo, tra l'altro ripreso per ragioni storiche dalla nascita di Mitra il 25 dicembre, è giusto secondo voi considerare il solstizio un evento volgarmente ancora detto e denigrato di natura pagana? Non sarebbe forse meglio dire semmai, di natura divina?

Il centro dell'universo spirituale dell'uomo è inconfutabilmente iniziato per ovvie ragioni dall'adorazione del sole e le religioni lo “adottarono” come naturale, fondamentale simbologia di vita e di rinascita. Non comprendere il significato, l'importanza della nostra unica fonte di salvezza che rimane ancora oggi innegabilmente il sole, è per noi semplicemente una questione di superficialità e stupidità umana.

Buon solstizio a tutti, quest'anno astronomicamente parlando, sarà il 21 dicembre alle ore 23,03.

Ass. Culturale “Uomini Liberi Uomini Dei”