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mercredi, 03 mars 2010

La OTAN le dicta a la Union Europea su relacion con Turquia

La OTAN le dicta a la Unión Europea su relación con Turquía

La UE debe suscribir un acuerdo bilateral en materia de seguridad, entre otros asuntos.- Catherine Ashton no asiste a la reunión

otan-turquie-copie.jpgEn materia de defensa, la OTAN -es decir, EE UU- sigue siendo quien manda. Así ha quedado de manifiesto en la reunión informal que los ministros de Defensa de la UE celebran en Palma de Mallorca. En ausencia de la Alta Representante para la Política Exterior y de Seguridad, Catherine Ashton, que ha preferido asistir a la toma de posesión del nuevo presidente ucranio, la estrella de la reunión ha sido el secretario general de la OTAN, Anders Fogh Rasmussen.

Su primera intervención en un encuentro de este tipo no se ha limitado, como se esperaba, a abordar las relaciones entre las dos organizaciones. Rasmussen se ha presentado ante los ministros europeos como el embajador de los intereses de Turquía y les ha dicho cómo deben tratar a este país islámico, miembro de la OTAN y eterno aspirante a entrar en la UE. A saber: la UE debe suscribir un acuerdo bilateral en materia de seguridad con Turquía; debe establecer mecanismos de cooperación entre Turquía y la Agencia Europea de Defensa (AED); y debe permitir que los países que participan en operaciones militares de la UE sin pertenecer a la misma intervengan en la toma de decisiones. Por si hubiera duda, ha aclarado que Turquía es el segundo contribuyente de la misión de la UE en Bosnia. Tras admitir que “se trata de un tema sensible”, ha agregado que ello “no debe servir como excusa”.


Rasmussen ha asegurado que la discusión con los ministros europeos ha sido “muy fructífera”, pero ha evitado responder si Chipre está dispuesta a dar un papel mayor en la Unión al país que ocupa el norte de su territorio desde 1974. Respecto a la ausencia de Asthon, ha asegurado que ya ha abordado este asunto con ella y que “está muy a favor de reforzar la cooperación con la OTAN”.

Preguntado por las declaraciones del jefe del Pentágono, Robert Gates, quien ha lamentado la “desmilitarización” de Europa, Rasmussen ha recordado que los europeos aportarán 10.000 soldados a Afganistán a petición de Obama, pero ha admitido que “hay un problema por la falta de capacidad [militar] en Europa”. Ha calificado de “éxito” la ofensiva en la provincia afgana de Helmand y ha dicho que “servirá como ejemplo para operaciones futuras”.

La reunión de Palma ha concluido sin que los siete países socios del avión de transporte europeo A400M (Alemania, Francia, Reino Unido, España, Turquía, Bélgica y Luxemburgo) certificaran el “principio de acuerdo” anunciado por la ministra española, Carme Chacón . El comunicado oficial es más cauto y sólo constata que se ha producido “un avance significativo en las conversaciones”. Lo cierto es que la empresa fabricante, EADS, ha aceptado la última oferta de los gobierno para compensarla por el sobrecoste del proyecto: 2.000 millones a fondo perdido y 1.500 en créditos. Aún quedan, sin embargo, notables flecos; como saber qué países participarán en el préstamo y en qué condiciones. Chacón subrayó la “voluntad inequívoca” y unánime de ir adelante con el A400M y su impresión de que “pronto” se cerrará el acuerdo.

Miguel González

Extraído de El País.

~ por LaBanderaNegra en Febrero 26, 2010.

A chi giova la bancarotta della Grecia?

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A chi giova la bancarotta della Grecia?

Di fronte al disastro monetario greco, Bruxelles confida nella Germania

Ugo Gaudenzi

La crisi del debito pubblico della Grecia sta provocando lo sconquasso dell’eurocrazia. Su Bruxelles in panne fioccano infatti le analisi soddisfatte d’Oltremanica e i continui rimbrotti su e contro i “PIGS”. (Abbiamo già accennato al significato di “pigs”. Come si sa gli anglosassoni e i loro cortigiani hanno il debole per gli acronimi: così il termine non certo “neutrale “pigs” (porci nella lingua d’Albione) accomuna le nazioni Ue “deboli” o inadempienti ai parametri di Maastricht sul rapporto debito-pil e sulla “stabilità forzata” decretata dalle elites burocratiche nell’articolo 125 del trattato di Lisbona: p come Portogallo, i come Italia, g come Grecia, s come Spagna, oltre al corollario di una possibile doppia i per includere anche l’Irlanda).
Vediamo di chiarire quanto accade. In tre mesi, da qui al 15 maggio, l’Ue dei “Sedici” dovrà mettere in esecuzione un piano di sostegno alla Grecia perché possa evitare la bancarotta. In questo trimestre Atene è chiamata a operare un prelievo forzoso dalle tasche dei suoi cittadini e a programmare una consistente riduzione dell’indebitamento. Bruxelles, come deciso dai ministri ecofin ed esplicitato dal commissario Olli Rehn, cercherà per parte sua di delineare un piano di aiuti finanziari per sostenere la Grecia. In quanto a cifre i dati sono più che conosciuti: nel 2010 il rapporto pil-indebitamento sarà per la Grecia pari al 121 per cento, con un deficit ulteriore di oltre 300 miliardi di euro.
Di fronte al disastro monetario greco, a Bruxelles si sta premendo sulla “locomotiva tedesca” perché guidi la “squadra di soccorso”. Ma per Berlino non è affatto un onore, questo, ma un onere difficilmente accettabile.
Sia perché è escluso dagli stessi elementi fondativi dell’unione monetaria europea (e dai dettati dei due trattati fondanti, Maastricht e Lisbona) che un Paese membro si faccia carico della stabilità dell’eurozona con accordi di sostegno a chi è in crisi. E sia perché la lenta ripresa tedesca difficilmente potrebbe sopportare nuovi carichi e zavorre esterne. D’altra parte, proprio per evitare tali ripercussioni, i padri fondatori di quel mostro che è l’Unione europea – un’eurocrazia non eletta, priva di sovranità, priva di unità politica - avevano delegato ad un ente terzo – la Bce - la politica monetaria dell’Europa dell’euro, per lavarsi le mani da ogni obbligo di direttiva economica.
E non è certo tutto. La possibilità di una reazione a catena che destabilizzi totalmente l’eurozona è appena dietro l’angolo.
Il Fondo monetario internazionale – che di usura monetaria se ne intende – di recente ha stilato la sua consueta pagella sui “Paesi cattivi del mondo” in quanto a stabilità monetaria ed ha indicato le varie necessità di “inasprimento fiscale”, nazione per nazione, al solo fine di mantenere lo status quo governando l’indebitamento. E’ interessante notare che in cima alle classifiche si ergano Gran Bretagna e Giappone, per i quali il Fmi propone inasprimenti fiscali, nel 2010, pari al 13% del pil. Seguono a ruota Irlanda, Spagna e Grecia (9%) e quindi gli Usa (8,8%). Per l’Italia si parla della “necessità di alzare le tasse” di un altro 8 per cento…
Già. Gli Usa. Gli “spendaccioni del mondo”, quelli che hanno riempito di carta-straccia (banconote), le casseforti cinesi e che veleggiano impavidi sull’onda di un deficit di 1500 miliardi di dollari che, con la cura Obama, accumula ulteriori 300 miliardi di interessi annuali da pagare. Con un surplus di emissioni statali in scadenza per un trilione di dollari all’anno (mille miliardi di dollari), difficilmente assestabili con un risparmio dei cittadini caduto dal 2008 a livelli infimi.
Gli Usa, quelli che da tempo immemore – la Grande Depressione – usano a loro piacimento i cambi del dollaro per abbassare i costi delle importazioni di materie prime o, al contrario, per far crescere la redditività delle proprie esportazioni di brevetti, royalties, beni e servizi…
Quelli che stanno lucrando in queste settimane appunto, sulla crisi dell’eurozona, attirando investitori e risparmi oltreoceano, grazie alla totale mancanza di sovranità nazionale ed economica europea. Il tallone di Achille, voluto, costruito a tavolino a Maastricht e quindi a Lisbona, per assoggettare “l’area di libero scambio” che qualcuno si affanna a definire “Europa” ai desiderata del momento degli Stati Uniti d’America,
Una bancarotta greca val bene la sopravvivenza dei Padri Fondatori.
 


19 Febbraio 2010 12:00:00 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=783

mardi, 02 mars 2010

Six milliards d'euros pour la Turquie!

6 milliards d’euros pour la Turquie

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Subventions à la Turquie dans le cadre de sa “préadhésion” à l’Union européenne. Un coût de 6 milliards pour les contribuables européens.

Le logo ci-contre est celui du Secrétariat général pour les Affaires européennes (organisme du gouvernement turc chargé des négociations d’adhésion). La couronne d’étoiles européenne s’y transforme en croissant sous l’influence de la Turquie : tout un programme.

Le 13 janvier 2009, la Cour des comptes européenne (ECA) a rendu public un rapport, intitulé “La gestion, par la communauté européenne, de l’aide de préadhésion en faveur de la Turquie”.

Dans ce rapport, un chiffre explosif : la Commission européenne a versé 6 milliards d’euros à la Turquie dans le cadre de sa “préadhésion”.

La première période d’aide à la préadhésion (2002-2007) a vu l’Europe verser à la Turquie 1,249 milliard d’euros ; la seconde (2008 – 2013) prévoit le versement de 4,873 milliards d’euros.

Si la Commission  européenne est responsable de la gestion des fonds , l’argent est confié à l’IAP,”Instrument d’aide de préadhésion” en grande partie géré par les autorités turques. Depuis 2002, l’aide de préadhésion en faveur de la Turquie permet de financer la mise en oeuvre de projets destinés à soutenir les efforts déployés par ce pays afin de remplir les conditions requises pour adhérer à l’Union européenne.

Les « documents stratégiques » fournis à la Cour par les autorités responsables démontrent que les aides de l’UE n’ont pas été affectées de manière cohérente « en fonction d’un ensemble d’objectifs réalisables ». La Cour déplore l’opacité – pour ne pas dire le gaspillage, voire la corruption pure et simple, selon Minute– des projets financés.

D’après le rapport de la Cour, « des projets bénéficient de subventions alors que la partenariat pour l’adhésion n’en mentionnait nullement l’utilité et, dans le même temps, plus de 100 autres priorités n’étaient au centre d’aucun des projets sélectionnés. Les objectifs et la portée de 4 autres projets audités ne concernaient pas directement les priorités figurant dans le partenariat pour l’adhésion”.

Observatoire des subventions

lundi, 01 mars 2010

On relance la candidature turque en pleine crise institutionnelle!

On relance la candidature de la Turquie
en pleine crise institutionnelle

par Jean-Gilles MALLIARAKIS / http://www.insolent.fr/

islatroie.jpgChef du gouvernement de Madrid, M. José-Luis Zapatero se croit autorisé à parler au nom de l'Espagne, et même de l'Europe. Les naïfs croyaient la présidence tournante de l'Union abolie par le traité de Lisbonne. Pour lui être agréable, on a accepté de maintenir cette fiction en sa faveur. De la sorte, il a proclamé, recevant son homologue turc, Recep Tayyip Erdogan le 22 février (1), une nouvelle avancée des négociations d'adhésion de la Turquie, ouvrant le "plus grand nombre de chapitres" thématiques de discussions en vue de son intégration.

"L'Espagne est fermement partisane de l'entrée de la Turquie dans l'Union européenne. Nous avons toujours maintenu fermement cette position. C'est le cas aujourd'hui et ce le sera demain".
Voilà donc relancée, de manière fort inquiétante et de mauvaise foi, un dossier essentiel pour notre identité, et auquel votre serviteur vient de consacrer un petit livre documenté. Dans cette présentation, l'auteur s'efforce d'expliquer au public francophone un certain nombre de contradictions de ce pays, candidat extra-communautaire malheureux depuis 1987.

Il se trouve aussi que celles-ci s'accroissent, se gonflent, de semaine en semaine, au point de paraître désormais explosives, à l'intérieur.

Ainsi ce 23 février, au lendemain même des embrassades de Séville, malencontreusement perturbées par un très méchant Kurde, très mal élevé (2) on procédait à Ankara, à Istanbul, à Bursa et à Izmir, à l'arrestation d’une cinquantaine d’officiers, dont 11 importants généraux à la retraite. Ceux-ci ont été gardés à vue et interrogés dans le cadre d'un nouveau dossier d'accusation de complot. Intitulé "Bayloz", les enquêteurs l'ont rattaché à l'interminable feuilleton judiciaire "Ergenekon". Le chef d'État major Illker Basbug, désormais sur la sellette, et dont certains demandent publiquement la destitution, doit annuler un déplacement officiel à l'étranger.

On ne peut pas tout de même pas tenir de tels développements pour d'anodines péripéties !

Parallèlement et paradoxalement l'environnement international accorde de plus en plus de créance au gouvernement des fameux "islamistes modérés" de l'AKP actuellement au pouvoir.

Les médiats de notre Hexagone pointent certes, de loin en loin, un certain nombre de problèmes. Ceux-ci nous sont même devenus presque familiers.

Ainsi la lancinante question des communautés d'origine et de langue kurdes a produit des milliers de morts dans l'affrontement du dernier quart de siècle. Assagie en partie seulement, depuis l'arrestation de son chef terroriste Ocalan en 1999, la révolte sanglante du PKK s'était transposée sur le plan légal. D'inspiration et de discours marxiste-léniniste, elle a généré un parti de gauche, le DTP, représenté à la Grande Assemblée nationale d'Ankara en dépit des filtres constitutionnels. Récemment dissous, il s'est aussitôt reconstitué, sous un autre nom.

Dans un autre ordre d'idées, la tension non résolue avec l'Arménie, comprenant la terrible question de la négation du génocide de 1915, se complique de l'imbroglio des relations avec l'Azerbaïdjan. On a donc communiqué à l'automne 2009, et Mme Clinton a cru triompher, sur un accord "réconciliateur" qui ne permettait même pas d'ouvrir les frontières entre les deux États.

D'autres exemples pourraient être donnés, que la presse parisienne laisse courageusement de côté. Ceux-là semblent suffire à édifier le lecteur quant aux difficultés générales que rencontre la ligne diplomatique annoncée par le ministre des Affaires étrangères apparu récemment M. Ahmet Davutoglou.

Sa formule a été énoncée en anglais de cuisine : "no problem with our neighbours". Or, cela peut se traduire en bon français par plusieurs formulations. Et, selon que l'on entendra "il n'existe aucun litige", ou au contraire "nous refusons de prendre en considération le moindre contentieux", ou enfin "qu'on cesse de nous enquiquiner avec les jérémiades de nos voisins", il ne s'agit plus de simples nuances dans l'interprétation.

Globalement une telle politique extérieure illustre l'adage "qui trop embrasse mal étreint".

Dans le sud-est européen, par exemple, Ankara prétend à la fois marquer en souplesse sa présence, affirmée comme traditionnelle, et souffler sur les braises des revendications de minorités islamiques, généralement slaves ou pomaques. Une idée nouvelle vient de germer – combien de temps durera-t-elle ? – celle de prendre appui sur la Serbie, vecteur improbable de la pénétration d'Ankara. Mais, quelques semaines auparavant, et plus naturellement, la Bosnie-Herzégovyne faisait l'objet de toutes les attentions, puis l'Albanie. Avec la Bulgarie et avec la Grèce on agite les droits des petites minorités musulmanes, etc. tout en prétendant, simultanément, aplanir la rugueuse relation turco-hellénique, "résoudre" le problème de Chypre, etc. Par ailleurs on laisse la presse gouvernementale comme elle le fait depuis plusieurs mois, révéler les manœuvres occultes de l'État-Major kémaliste. Et on les retrouve derrière toutes les provocations anti-grecques depuis 1955 jusqu'à celles des dernières années en Mer Égée, en passant par diverses affaires d'assassinats, comme celui du journaliste arménien Hrant Dink en janvier 2007, et d'attentats inexpliqués.

Car un aspect décisif de cette situation politique oppose deux tendances apparemment irréconciliables, au sein de la république post-kémaliste. Il ne s'agit pas seulement de deux secteurs de l'opinion, la gauche laïque et la droite islamisante, ou plus exactement confrérique. On doit constater aussi le conflit de plus en plus ouvert entre centres de pouvoirs institutionnels. Ils se combattent au nom de légitimités juridiques concurrentes. La constitution en vigueur depuis le référendum de 1982 a validé un rapport de force correspondant au coup d'État militaire dirigé par le général Evren en 1980. Plusieurs fois réformée depuis, elle a prévu en faveur de l'armée un certain nombre de prérogatives et de verrous. Au sein du pouvoir judiciaire, également, les forces laïques disposent de situations stratégiques, destinées à bloquer le retour en force de l'élément religieux. Chaque jour, de nouveaux épisodes, parfois tragiques, parfois savoureux, attisent les oppositions.

Or en même temps, la politique extérieure d'Ankara avance de plus en plus. Elle paraît prendre en main les revendications du Proche orient arabe. Elle tend à évincer progressivement l'influence du pays rival, l'Égypte.

Cela conduit cette diplomatie à s'exposer à des risques peut-être inconsidérés.

Lors de la dernière réunion, ce 29 janvier à Istanbul, des sociétés de pensées des 56 pays membres de l'Organisation de la Conférence islamique, s'est ainsi produit un événement bien significatif. L'assistance s'est levée, lors de l'intervention de Rachid Benaïssa (3), pour ovationner debout l’action pro-palestinienne du "nouvel empire ottoman" (4).

Cette popularité régionale de l'actuel gouvernement d'Ankara a pris son essor avec l'incident spectaculaire du 9 janvier 2009 à Davos entre le premier ministre turc Erdogan et Shimon Peres. Elle s'est vue confirmée par les nombreux déplacements des 3 principaux dirigeants dans divers pays arabes ces 12 derniers mois.

Inutile de dire qu'en contrepartie, la relation traditionnelle avec l'État d'Israël s'est dégradée d'autant. Avec les États-Unis, le refroidissement est devenu manifeste. Les choses vont beaucoup moins bien avec les alliés.

On peut certes se poser beaucoup de questions à propos de ce concept "néo-ottoman" dont les contours souffrent d'une absence de définition.

Il fait cependant son chemin. S'il s'agissait de reprendre la voie des réformes libérales de l'époque dite "Tanzimat", interrompues sous le règne d'Abdül Hamid, et plus encore par la seconde révolution jeune turque de 1909 (5), on pourrait se réjouïr.

En revanche il existe une différence de taille entre l'Histoire de cet Empire séculaire et le gouvernement de M. Erdogan apparu en 2003.

Historiquement, en effet, ni l'expansion de l'islam aux VIIe et VIIIe siècles, ni la pénétration seldjoucide en Asie mineure au XIe siècle, ni encore moins l'avènement de la maison d'Osman à partir du XIVe siècle ne se sont opérés contre l'élément militaire. Au contraire.

Tous les dirigeants politiques de ces différentes époques se sont affirmés comme chefs d'armées. Ils s'appuyaient, tous, sur une élite de cavaliers, dont ils ont fait des seigneurs territoriaux (6).

Imaginer un gouvernement islamique modéré, susceptible de changer de paradigme pour complaire à l'Europe des petits cochons roses, pour satisfaire au président universel Obama, et pour répondre aux rêves d'un monde sans conflit (7), peuplé de gentils bizounours et de schtroumpfs bleus, paraît donc un tant soit peu prématuré.
JG Malliarakis


Apostilles

 

  1. cf. Le Monde en ligne et AFP 22 février 2010 à 18h08
  2. Sur notre petite photo, on peut voir la remise du prix Nodo au premier ministre turc. Mais "Le passage du Premier ministre turc à Séville a été plus mouvementé que prévu. Recep Tayyip Erdogan était venu recevoir le prix Nodo, remis par la Fondation Séville aux personnalités qui œuvrent pour le dialogue entre les civilisations et les cultures. Une cérémonie feutrée dont le quotidien ABC raconte le déroulement... Mais, à la sortie de la mairie andalouse où se tenait cette soirée, il a été pris à partie par un manifestant qui lui a lancé une chaussure. Son geste s'est accompagné d'un slogan: "Vive les Kurdes, vive le Kurdistan!", lancé en espagnol, comme le montrent ces images de CNN." cf.le site de la Vigilance arménienne
  3. sur ce personnage franco-algérien qui fut fonctionnaire de l'UNESCO, on peut lire, avec les réserves d'usage la fiche wikipedia qu'il a peut-être rédigé lui-même
  4. cf. Think Tanks Of The Islamic Countries Come Together In Istanbul
  5. celle qui porte la responsabilité du génocide de 1915
  6. recourir au concept occidental de féodalité relève du contresens.
  7. annoncé par un faux prophète dans une conférence célèbre à Moscou en 1991.

samedi, 27 février 2010

Maniobras militares conjuntas entre Turquia e Israel

Maniobras militares conjuntas entre Turquía e Israel

Finalmente el ministro turco de defensa, Vecdi Gonül mencionó que después de la crisis del octubre de 2009 en las relaciones de este país y el régimen sionista, el ejército de este régimen ha participado dos veces en maniobras celebradas en el territorio de Turquía. El gobierno turco el mes de octubre de 2009 anuló el programa de la celebración de entrenamientos militares conjuntos con el régimen sionista en protesta a los crímenes de este régimen en la franja de Gaza.

Pero Vecdi Gonül finalmente frente las preguntas de los diputados de diferentes partidos en el parlamento, confesó que una de estas maniobras fue celebrada de forma trilateral entre Turquía, el régimen sionista y Jordania el mes de noviembre de 2009 en Ankara y la segunda en mes de diciembre en la misma ciudad.

Esta confesión de Gonül tuvo amplios ecos en los medios noticieros turcos, de forma que el diario Vakit publicado en Turquía escribió que el ejército de este país sigue actuando de forma obstinado y no acata plenamente al gobierno de este país.


Esto significa que el ejército de Turquía al contrario que los políticos de este país, persigue sus intereses en relaciones con el régimen sionista.

Al mismo tiempo algunos analistas no rechazan la posibilidad de que teniendo en cuanta las relaciones estratégicas de Turquía y el régimen sionista, haya un acuerdo entre el ejercito y el gobierno de Turquía de forma que los mandatarios de este país tomen postura contra el régimen sionista con el fin de responder las reclamaciones de la opinión publica del país ante los crímenes de este régimen en Gaza, y por otro lado, el ejercito mantenga sus relaciones militares con el régimen sionista.

De forma que algunos medios noticieros de Turquía anunciaron la ejecución del acuerdo de varios millones de dólares de este país y el régimen sionista para la compra de aviones no tripulados Heron el mes de marzo.
Otro punto de vista es que el ejército del régimen sionista, con el fin de destruir la posición y lugar del primer ministro de Turquía, Recep Tayyip Erdogan y separar este país del mundo islámico, insiste en mantener relaciones militares con Turquía.

Después de la fuerte disputa verbal el año pasado entre Erdogan y Simon Pérez, presidente del régimen sionista al margen del foro de Davos, los políticos israelíes incluso calificaron a Erdogan de anti judío.
Mientras tanto dirigente del partido Kadima del régimen sionista, Tzipi Livni, dijo de forma explicita que Turquía debe elegir entre el mundo islámico e Israel.

Parece que el Partido Republicano del Pueblo de Turquía como mas grande partido de oposición en el parlamento, teniendo en cuenta la sensibilidad de la opinión publica de la población musulmana de Turquía a la forma de la relación de su país con este régimen, intenta llevar bajo la tela de juicio la actuación del gobierno dirigido por Erdogan y aprovechar de ello a su favor en las próximas elecciones generales.

Extraído de IRIB.

~ por LaBanderaNegra en Febrero 20, 2010.

jeudi, 25 février 2010

Implicacion directa norteamericana en la crisis de Grecia

Implicación directa norteamericana en la crisis de Grecia

Revelan nuevas complicidades de EE.UU contra economía griega

griechenland.jpgGrecia reveló hoy a través de su Centro Nacional de Inteligencia nuevas complicidades contra su economía de inversores internacionales, especialmente de empresas financieras de Estados Unidos.

El periódico To Vima divulgó que las compañías Moore Capital, Fidelity Internacional, Paulson & Co y Brevan Howard, que operaran en Europa vendieron bonos estatales y los revendieron a precios reducidos en una misma jornada.

Atenas descubrió las operaciones especulativas de esas inversoras estadounidenses en coordinación con los servicios secretos de España, Francia y Reino Unido.

El primer ministro griego, Giorgos Papandreu, había denunciado que los ataques especulativos contra su país también estaban dirigidos a afectar al euro como moneda única de la región.


Grecia acumuló un elevado déficit público que provocó la rápida decisión de la Unión Europea de someterla a una fuerte supervisión, con el fin de asegurarse del cumplimiento de su severo plan de austeridad y ajuste fiscal.

Un programa aprobado por Bruselas pretende que Atenas reduzca su déficit público del 12,7 por ciento del Producto Interior Bruto al 8,7 a fines de 2010, hasta llegar a un 2,8 por ciento hacia 2012.

El domingo pasado revelaciones del diario The New York Times, indicaron que Wall Street y el grupo de inversiones Goldman Sachs realizaron acciones que al final perjudicaron a las finanzas de la nación mediterránea.

La principal bolsa de valores estadounidense extendió préstamos a Grecia presentados como intercambio de divisas, los cuales incluyeron a otras naciones del viejo continente desde 2001.

La información significó que cuando Grecia presentaba una severa crisis fiscal, bancos de Wall Street y Goldman Sachs buscaron mecanismos para evitar preguntas incómodas por parte de Bruselas y de los países de la zona euro.

Tales acciones sirvieron para que durante 10 años se enmascararán miles de millones de euros de la deuda griega y así pudiera cumplir los niveles de déficit establecidos por el Pacto de Estabilidad de la Unión Europea, mientras gastaba por encima de sus ingresos.

Extraído de Prensa Latina.

~ por LaBanderaNegra en Febrero 21, 2010.

Réflexions sur le voyage de Guillaume II en Palestine

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Alois PRESSLER :

 

 

Réflexions sur le voyage de Guillaume II en Palestine

 

Lorsque l’on prononce les mots « Palestine » et « Proche Orient », on songe immédiatement à l’Intifada, à une guerre perpétuelle, surtout pour l’enjeu pétrolier. Le pétrole, en effet, fut l’un des motifs principaux du voyage en Palestine de l’Empereur d’Allemagne Guillaume II du 11 octobre au 26 novembre 1898.

 

Inauguration de la Basilique Saint Sauveur

 

Au cours de ce voyage, l’Empereur visita également Constantinople, Haïfa, Jérusalem, Jaffa et Beyrouth. La visite visait plusieurs objectifs : elle entendait consolider la position du Sultan turc Abdoul Hamid II et renforcer le poids de l’église protestante, évangélique et luthérienne au Proche Orient (car, à cette époque, quasi la moitié des chrétiens vivant en Palestine venaient d’Allemagne). Enfin, l’Empereur voulait inaugurer la Basilique Saint Sauveur à Jérusalem.

 

Scepticisme des Français

 

Dans l’opinion publique française, ce fut un tollé : on s’est très vite imaginé que Guillaume II voulait, par son voyage, miner la protection traditionnelle qu’offrait la France aux catholiques de Palestine. Ce reproche était dénué de tout fondement, de même que l’allusion à une éventuelle volonté allemande de s’approprier la Palestine.

 

Un sermon plein de reproches aux églises…

 

Le 25 octobre 1898, Guillaume II arrive en Palestine, premier Empereur du Reich allemand à y remettre les pieds depuis 670 ans (quand Frédéric II avait débarqué à Saint Jean d’Acre). Après avoir reproché amèrement aux représentants du clergé dans un sermon plein de reproche à Bethléem, où l’Empereur morigénait la désunion entre chrétiens (à maintes reprises, des soldats turcs avaient dû intervenir pour apaiser les querelles entre les diverses confessions chrétiennes).

 

Le rejet de l’idée d’un Etat juif

 

Le 31 octobre, enfin, eut lieu l’événement majeur du voyage de Guillaume II : l’inauguration de la Basilique Saint Sauveur à Jérusalem. Le 2 novembre, une délégation sioniste rend visite à l’Empereur dans le camp militaire, composés de tentes, qu’il occupe : elle est présidée par Theodor Herzl. L’Empereur spécifie clairement à la délégation qu’il est prêt à soutenir toute initiative visant à augmenter le niveau de vie en Palestine et à y consolider les infrastructures mais que la souveraineté du Sultan dans la région est à ses yeux intangible. L’Empereur, en toute clarté, n’a donc pas soutenu le rêve de Theodor Herzl, de créer un Etat juif en Palestine, rêve qui ne deviendra réalité qu’en 1948.

 

En grande pompe…

 

Le 4 novembre, Guillaume II embarque à Jaffa pour revenir finalement le 26 novembre à Berlin et s’y faire fêter triomphalement, ce qui ne se fit pas sans certaines contestations (sa propre sœur n’approuva pas l’ampleur des festivités).

 

Sur le plan politique, cette visite ne fut pas un succès

 

Le voyage de Guillaume II  en Palestine ne fut pas un grand succès politique. Certes, les rapports avec le Sultan furent améliorés, condition essentielle pour la réalisation du chemin de fer vers Bagdad et pour la future alliance avec l’Empire ottoman lors de la première guerre mondiale. Cependant, l’Empereur n’a pas pu assurer à l’Allemagne l’octroi de bases ou de zones d’influence. De même, les Allemands et les Juifs allemands installés en Palestine ont certes reçu un appui indirect par la construction de routes et de ponts, de façon à avantager les initiatives des sociétés touristiques mais tout cela ne constituait pas un appui politique direct, que l’Empereur n’accorda pas. En Europe, ce voyagea se heurta à bon nombre de contestations. En Allemagne même, ce voyage, sans résultats à la clef, n’a pas bénéficié de soutiens inconditionnels.

 

Sur le voyage : rapports positifs

 

L’Empereur d’Allemagne a toutefois réussi à présenter son voyage de manière attrayante et populaire, en diffusant au sein de la population des rapports positifs et flatteurs sur son voyage  au Proche Orient. Il y a 120 ans, toute politique proche orientale faisait déjà l’objet d’un travail médiatique et n’était pas assurée de succès durables.

 

Alois PRESSLER.

(article paru dans « Der Eckhart », Vienne, octobre 2007 ; trad.. franc. : Robert Steuckers, février 2010).

 

 

 

jeudi, 18 février 2010

Die Türkei und die angelsächsischen Mächte

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Robert Steuckers:

 

 

Die Türkei und die angelsächsischen Mächte

 

Geschichte der britischen und amerikanischen Einmischungen im Raum Mittel-Osten

 

Beziehungen mit der Türkei

 

Auszug aus einer Rede - Gehalten in Bayreuth für die Gesellschaft für Freie Publizistik (April 2006)

 

Wenn England 1759 Weltreich wird, nachdem Indien und Kanada völlig unter dessen Kontrolle kommen, galt von damals ab die Regel, die schwächste Macht Europas als Bundgenosse zu haben, um die Stärkste auszuschalten. Auch werden zu dieser Zeit die Landmassen zwischen den europäischen Hoheitsgebieten und Indien strategisch wichtig. Keine Macht sollte die beherrschen und somit Indien bedrohen. Nichts scheint zwischen 1759 und 1783 die Alleinherrschaft Englands in der Welt zu verhindern. Im Schicksalsjahr 1783 ändern sich die strategischen Gegebenheiten: Ludwig XVI. von Frankreich rächt sich für den Verlust Indiens und Kanadas, indem er als Ehemann der Kaiserschwester Marie-Antoinette und Bundgenosse des deutschen Kaisers, die britische Flotte in Yorktown während der amerikanischen Unabhängigkeitskrieg zerstört; zur gleichen Zeit eroberten die Armeen der russischen Kaiserin Katharina die Krim, die ein Stützpunkt im Schwarzen Meer wird, bloss sieben Jahre nachdem die russische Flotte im Mittelmeer 1779 erfolgreich die ottomanische bekämpft hatte. Zwei kontinentale Mächte behaupten sich so auf dem Meer. Die Antwort der Britten wurde 1791 dargestellt in einem anonymen Memorandum, das „Russian Armament“ als Titel trug. In diesem Dokument befanden sich schon alle Elemente und Kriterien des „containments“ Russlands. Dabei wurde das ottomanische Reich als ein Riegelterritorium gegen jede russische Ausdehnung in der Richtung des Mittelmeeres, Ägyptens, des persischen Golfes und des Indischen Ozeans betrachtet. Zehn Jahre später, im Jahre 1801, wenn der Zar Paul I. zusammen mit Napoleon eine Eroberung Indiens plant, bevor er mysteriös Opfer eines Mordes wurde, entwickelten die Londonschen Gremien die Strategie, alle mögliche Völker und Stämme des „rimlands“ als potentielle Verriegelungselemente zu benutzen, damit die Armeen des Zaren nie die Ufer des Indischen Ozeans erreichten. In 1828, wenn unter russischem Druck Griechenland unabhängig wurde, wird England systematisch die türkische Rechte auf den Seestrassen verteidigen und dabei für sich selbst das Recht, diese Seestrassen zu befahren, eisen. Wenn im gleichen Jahr Persien auch durch die russischen Armeen besiegt wurde, wurde die russische Gefahr noch grösser in den Augen Englands. Russland besetzte von jetzt ab Nord- und Südkaukasien und bedrohte damit sehr ernst die Integrität des ottomanischen Hoheitsgebietes, indem Russland sich als Aufgabe gab, die rechtsgläubige Christenheit vom türkischen Joch zu befreien. Der Krimkrieg war die Rache Englands und beim Pariser Vertrag von 1856 wurde Russland dazu behindert, seine Schiffe über die Meerstrassen fahren zu lassen. Im 1877-78, erreicht Russland einen militärischen Sieg nach einigen Feldzügen im Balkan aber eine diplomatische Niederlage in Berlin in 1878.

 

Die zweite Politik der Türkei gegenüber

 

Nachdem das ottomanische Reich ab ungefähr 1890 zusammen mit den II. Reich eine gemeinsame Politik rund der Bagdad-Bahn zu entwickeln begann, fingen die Londonschen Gremien an, eine neue türkische Politik zu entwickeln, nämlich eine, die die Zerstückelung des ottomanischen Reichsgebietes vorsah. Das Hauptinstrument, das in diesem Sinn geschmiedet wurde, war die Schaffung eines anti-türkischen arabischen Nationalismus. Die englische Unterstützung des arabischen Nationalismus entfaltete sich in zwei Stufen :  In der ersten dieser Stufen unterstützten protestantische angelsächsische Institute oder Stiftungen einen liberal-verwestlichen Arabismus, den die Türken schnell grausam niederhalten werden, mit öffentlichen Hinrichtungen von liberalen Intellektuellen in Beirut und Damas. Nach dem Scheitern dieses Versuches, wobei festgestellt musste, dass der Liberalismus überhaupt keine Anziehungskraft im arabischen Raum hatte, brauchte dringend eine neue Strategie geschmiedet zu werden. Die Stämme Arabiens sollten dann „bearbeitet“ werden und dabei ihre beduinische Identität bewahren, damit sie als „nützliche“ Barbaren der Peripherie gegen das Zentrum oder zumindest gegen Zentren des ottomanischen Reiches am rechten Zeitpunkt gebraucht werden könnten. Aber die Stämme waren gegeneinander tief befeindet seit den blutigen Ereignissen des 19. Jahrhunderts : im Norden herrschte Hussein über die Hedschas-Stämme und etwa südlicher, herrschte Saud im Neschd. Die strategischen Schwierigkeiten, die die Briten zu lösen hatten, waren hauptsächlich dazu orientiert, es zu vermeiden, dass die südlichsten Stämme als Rückenbundgenossen der Türken eventuell funktionieren könnten. Aber die wahhabitischen Neschd-Stämme waren seit der grausamen Repression von Mehmet Ali und Ibrahim Pascha von einem zu tiefen Hass den Ottomanen und Ägyptern gegenüber belebt, um sich instrumentalisieren zu können.  Hussein im Hedschas war am Anfang eher dazu geneigt, die Türken zu Hilfe zu können; Die diplomatische Fähigkeiten des Lawrences und seine guten Kenntnisse des arabischen Stammessystems erlaubten es, Hussein für die Sache der Briten zu gewinnen. So entstand was man heute wieder die „Insurgency-Strategie“ nennt; die wurde nochmals kürzlich im Afghanistan angewendet. Türken und Deutschen werden trotzdem aber erfolglos Rückenbundgenossen haben : die Schiiten des Jemens und die Senussisten entlang der ägyptisch-libyschen Grenze. Die Jemeniten werden eigentlich nicht viele britische Truppen festhalten. Die Senussisten werden „raids“ bis tief in der südalgerischen Wüste veranstalten, die dann eine Revolte im marokkanischen berbersprechenden Mittelatlas-Gebirge entzündet haben. Dort werden wohl viele französische Regimenter festgehalten.

 

Echtes Ziel der britischen Tätigkeiten in der arabischen Halbinsel war selbstverständlich, die Ölfelder zu kontrollieren und, nach der Ausschaltung der mit dem Reich befreundeten Türkei und des jungtürkischen Regimes, eine Türkei ohne Öl zu schaffen. Kennzeichnet für diesen Prozess ist die Mossul-Frage; Das an Ölfelder reiche Mossul-Gebiet im nördlichen kurdischsprechenden Teil des heutigen Iraks gehörte dem Ottomanischen Reich, wurde Frankreich im Text der 1916 Sykes-Picot-Agreements versprochen und, nach späteren Nachkriegsdiskussionen rasch dem englischen Protektorat Irak angeschlossen, weil dort umfangreiche Ölreserven von britischen Geologen entdeckt wurden. So wurden zwei Fliegen in einer Klappe erledigt: sowohl Frankreich als die neue Türkei blieben manipulierbare ölarme Mächte, die keine eventuelle Herausforderungen stellen konnten.

 

In der Zwischenkriegszeit, schlug die Stunde des Ibn Sauds. Nach langen Kämpfen und mit Hilfe der Ichwan-Bewegung, befestigte er seine Macht über das heutige Saudi-Arabien, nur mit der Ausnahme des Südens unter britischer Obhut.

 

Die Politik der Türkei gegenüber nach 1945

 

Nach der deutschen Niederlage in Europa 1945, erhielt die Türkei wieder ihre Rolle als Riegelterritorium wie zur Zeit Napoleons. In 1942 hatten die pantürkischen Nationalisten auf einem deutschen Sieg gesetzt, in der Hoffnung im Kaukasus unter den dort lebenden Türkenvölker erneut Einfluss zu gewinnen. In einem Schauprozess, unmittelbar bevor die Türkei rein formell Deutschland den Krieg 1945 erklärte, wurden die Pantürkisten zu langen Haftstrafen verurteilt aber nach ein Paar Wochen oder Monate wieder freigelassen. 1949 trat die Türkei die NATO bei, wobei die Armee die Hüterin des Laizismus und des Verwestlichungsprozesses wurde. Der Blutzoll als Eintrittspreis zahlte diese Armee während des Koreakrieges. Aber wenn der Ministerpräsident Menderes 1960 für eine lockere Haltung der Religion gegenüber plädierte, wurde er rasch durch einen Armeeputsch gestürzt, und nach einem kurzen Verfahren öffentlich gehenkt (Bild hierunten). So wurde der Türkei die am meist geliebte verbündete Macht bis Bush Junior.

 

menderes.jpgInteressant ist es, die Clintonsche Politik der Türkei gegenüber zu analysieren: der amerikanische Präsident versprach, unter anderem während eines offiziellen Besuchs in Istanbul und Ankara, die Türkei wieder eine Rolle im Balkan nach der Unabhängigkeit Bosniens spielen zu lassen, die EG-Kandidatur der Türkei zu unterstützen, eine Schlüsselrolle in der Ausschaltung des Iraks mitspielen zu lassen, und ihr eine getarnte und faktische Anwesenheit im ölreichen nordirakischen ethnisch-kurdischen Mossul-Gebiet zu garantieren.  So hätte die Türkei als Preis einer Intervention an der Seite der US-Amerikaner eine Teilnahme in der Ölförderung in diesem kurdischen Gebiet gewonnen.

 

Die Verwaltung des Bush Juniors hat diese Lösung abgelehnt, was die Beziehungen zwischen Washington und Ankara stark gekühlt hat. Zeichen dieser Verschlechterung sind die Bücher von jungen türkischen Autoren wie Burak Turna und Orkun Ucar. In einem Roman, der einen Riesenerfolg in der heutigen Türkei gekannt hat und dessen Titel „Metal Firtina“ (d. h. „Metallsturm“) ist, erwähnen einen künftigen Krieg gegen die Türkei, die am Ende durch eine deutsch-französisch-russische Allianz gerettet wird. Ein anderer Roman fantasiert über einen Bündnis zwischen Russland und der Türkei, der Europa erobert und es von der amerikanischen Einflusssphäre befreit. Die Enttäuschung in der Türkei ist sehr gross, seitdem die US-Amerikaner der Clintonschen Politik nicht gefolgt haben. Die Türkei bleibt ein ölarmes Land und gewinnt keine Ausdehnungsmöglichkeit mehr. Die Lage ist heute interessant zu beobachten. Die grösste strategische Dummheit der neokonservativen Bush-Gremien ist eben, den Verlust der türkischen Bundgenossenschaft ausgelockt zu haben.

 

(weitere Auszüge dieser Rede folgen).

 

 

dimanche, 07 février 2010

The Grand Turk

The Grand Turk

Sultan Mehmet II - Conqueror of Constantinople, Master of an Empire and Lord of Two Seas

AUTHOR:  John Freely 

TKY198.jpgSultan Mehmet II, the Grand Turk, known to his countrymen as Fatih, 'the Conqueror', and to much of Europe as 'the present Terror of the World', was once the most feared and powerful ruler in the world. The seventh of his line to rule the Ottoman Turks, Mehmet was barely 21 when he conquered Byzantine Constantinople, which became Istanbul and the capital of his mighty empire. Mehmet reigned for 30 years, during which time his armies extended the borders of his empire halfway across Asia Minor and as far into Europe as Hungary and Italy. Three popes called for crusades against him as Christian Europe came face to face with a new Muslim empire.Mehmet himself was an enigmatic figure. Revered by the Turks and seen as a cruel and brutal tyrant by the west, he was a brilliant military leader but also a renaissance prince who had in his court Persian and Turkish poets, Arab and Greek astronomers and Italian scholars and artists. In this, the first biography of Mehmet for 30 years, John Freely vividly brings to life the world in which Mehmet lived and illuminates the man behind the myths, a figure who dominated both East and West from his palace above the Golden Horn and the Bosphorus, where an inscription still hails him as, 'Sultan of the two seas, shadow of God in the two worlds, God's servant between the two horizons, hero of the water and the land, conqueror of the stronghold of Constantinople."

AUTHOR BIOGRAPHY:
John Freely was born in New York and joined the US Navy at the age of seventeen, serving with a commando unit in Burma and China during the last years of World War II. He has lived in New York, Boston, London, Athens and Istanbul and has written over forty travel books and guides, most of them about Greece and Turkey. He is author of 'The Cyclades', 'The Ionian Islands', 'Crete', 'The Western Shores of Turkey', 'Strolling Through Athens', 'Strolling Through Venice' as well as 'Inside the Seraglio', 'Jem Sultan' and the bestselling 'Strolling Through Istanbul'.

PRICE:
£18.99

COVER:
Hardback  

PAGES:
288  

PAGE SIZE:
234 x 156 mm  

ISBN:
9781845117047

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mercredi, 27 janvier 2010

La Turquie inonde l'Europe d'immigrés clandestins

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La Turquie inonde l’Europe d’immigrés clandestins

 

ANKARA (NOVOpress) – Eric Besson, ministre de l’immigration, était hier à Tolède (Espagne) dans le cadre d’une réunion avec ses homologues de l’Union européenne (UE). Pour le ministre français, l’immigration clandestine en provenance notamment de Turquie devient incontrôlable. « Un sujet prioritaire dans les relations entre l’Union européenne et la Turquie. La situation dans la mer Egée est devenue intenable. Les Grecs sont soumis à une pression intolérable. La Turquie est de toute évidence devenue un pays de transit et nous avons besoin qu’elle joue le jeu ».

Cette question est tellement brûlante qu’Eric Besson évoque une « exigence ». Mais pas question de froisser les Turcs. Les enjeux économiques planent sur les relations franco-turques à trois heures de vol de Paris, la France étant le deuxième investisseur étranger du pays… Ainsi, Jacques Barrot, commissaire européen en charge de la Justice et de la Sécurité, ne veut surtout pas « stigmatiser » la Turquie qui « doit être considérée comme un grand partenaire. Elle a un rôle à jouer dans la région et il faut la laisser décider de sa relation avec l’UE. En tout état de cause, il faut lui ouvrir le choix vers un partenariat très fort ».

Déjà une voie royale pour l’afflux de migrants afghans en Europe, avec des pays limitrophes aussi instables que l’Iran et l’Irak : outre ses propres ressortissants, la Turquie expédierait cette fois sur le continent européen des centaines de milliers d’immigrés extra-européens chaque année si elle devait intégrer l’Union européenne, véritable passoire en matière de lutte contre l’immigration massive.


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mercredi, 13 janvier 2010

L'insegnamento della Costituzione di Fiume

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L'insegnamento della Costituzione di Fiume

 

Giorgio Emili - Articoli

Scritto da Giorgio Emili   

Ex: http://www.area-online.it/ 

La politica si spezza il cuore a forza di predicozzi e buoni sentimenti, nell’era del conflitto sociale.
La Costituzione dovrebbe fare da collante e i valori in essa contenuti dovrebbero essere totalmente condivisi. La realtà, come bene abbiano visto, è un’altra: addirittura opposta. Lo scontro è aperto, i valori non sono condivisi, aleggia da decenni l’idea non dichiarata di una parte giusta che ha vinto e che reca in sé tutto il bene possibile.

La Costituzione italiana – serve parlar chiaro -  in molte parti nasconde questa realtà.
Per molti aspetti continua a essere la Costituzione del dissenso, prodotta da una frattura della storia italiana.
Le istituzione cercano, giustamente, di evidenziare le note concilianti, il sapore pieno di salvaguardia della democrazia e dei valori innati. L’evidenza dei fatti e la scarsa considerazione, da parte dei comuni cittadini, del tessuto della nostra Costituzione (certo, quanti la conoscono realmente?, quanti hanno approfondito le sue norme?) testimoniano che il passo decisivo verso la reale distensione degli animi non è ancora compiuto. Del resto perché tanti tentativi di riforma, perché tante dichiarazioni sulla necessità di un suo adeguamento?
La fiducia nella Costituzione ha, da sempre, sopito il conflitto, rasserenato gli animi, colmato i buchi di ogni possibile deriva. Questo però, a quanto pare, non basta. Fiducia cieca nella Costituzione, ci mancherebbe, ma è bello ricordare che esiste (è esistito) un modello costituzionale diverso (e per certi versi controverso) che ha un filo conduttore invidiabile.
Da uno scritto di Achille Chiappetti abbiamo scoperto una felice ricostruzione della Carta del Carnaro, la Costituzione di Fiume.
«Lo Statuto della Reggenza italiana del Carnaro, promulgato l’8 settembre del 1920, costituisce da sempre – scrive Chiappetti - un angolo oscuro quasi perduto della coscienza costituzionale del nostro Paese. Il suo testo predisposto dal socialista rivoluzionario Alceste De Ambris rappresenta infatti un insieme di estrema modernità e di inventiva anticipatoria di quelli che sarebbero stati i successivi sviluppi dell’organizzazione economica dello Stato fascista e delle democrazie moderne. Il suo impianto – spiega - fondato sul sistema corporativo e sul valore del lavoro produttivo, come fondamento dell’eguaglianza e della libertà, nonché sul non riconoscimento della proprietà se non come funzione sociale, costituisce un modello che e stato troppo spesso dimenticato». Ma la parte più affascinante di quelle considerazioni sullo statuto fiumano riguarda l’analisi di singole norme, soprattutto se confrontate con le attuali della nostra Costituzione.
«La Reggenza riconosce e conferma la sovranità di tutti i cittadini  - dice lo Statuto -, senza distinzione di sesso, di stirpe, di lingue, di classe, di religione». «Amplia ed innalza e sostiene sopra ogni altro diritto i diritti dei produttori». Ancora: «La Reggenza si studia di ricondurre i giorni e le opere verso quel senso di virtuosa gioia che deve rinnovare dal profondo il popolo finalmente affrancato da un regime uniforme di soggezione e di menzogne». Si respira  - chiosa Achille Chiappetti - «un aria di positività e di concordia quasi da costituzione statunitense e non il clima di tensione e scontro che risuona nelle prime parole della nostra Carta repubblicana».
Le conclusioni hanno forte sapore dannunziano e meritano di essere segnalate. Si innalza, infatti, su tutti l’articolo XIV della Carta del Carnaro: «La vita è bella e degna che veramente e magnificamente la viva l’uomo rifatto intiero dalla libertà».
«È nello Statuto fiumano, dunque, che e possibile trovare l’ispirazione per un concetto di socialità posto in maniera differente e del tutto a-conflittuale che meriterebbe di essere ripreso per dare forza ad un nuovo risorgimento italiano».
Ecco. La felicita nella nostra Costituzione non c’è – dice Chiappetti - . E non solo lui.

mercredi, 30 décembre 2009

Turquia-Israel: una "alianza estrategica"

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Turquía-Israel: una “alianza estratégica”

Turquía fue el primer país musulmán que reconoció al Estado de Israel y el primero también en establecer relaciones diplomáticas con él. Sin embargo, más acusadamente tras el bombardeo de Gaza, dichas relaciones se encuentran deterioradas por una escalada de gestos ofensivos que las han tensado. ¿Significa esto el fin de una de las relaciones diplomáticas más estables, con altibajos, de Oriente Próximo?

La “alianza periférica”

El régimen republicano turco reconoció al Estado de Israel en 1949 y estableció relaciones diplomáticas con él en 1952. De ese modo, Turquía escenificaba su opción prioritaria por Occidente, al tiempo que daba la espalda a la antigua porción árabe del Imperio otomano, corroborando la ruptura con el pasado imperial que había comenzado con el triunfo de Atatürk. Por otra parte, las relaciones entre el sionismo y el Imperio en la época en que Palestina formaba parte de éste nunca habían sido malas, y de algún modo los otomanos habían mantenido como mínimo una neutralidad benévola durante las dos primeras aliyot [olas de inmigración judía a Israel].


Para Israel, estas relaciones tenían un interés fundamental, pues suponían una ruptura del cerco árabe. Ben Gurion, el fundador del Estado, ya había desarrollado la teoría de la “periferia estratégica”, que suponía anudar relaciones con entidades no árabes de Oriente Próximo (Turquía, Irán, maronitas libaneses, kurdos de Irak…) Uno de sus frutos fue un pacto secreto (“pacto periférico”) de 1958 entre ambos Estados. Sus términos no se conocen exactamente (incluso los signatarios niegan su existencia), pero se supone que su núcleo era el intercambio de información de seguridad y militar, así como el compromiso por parte turca de actuar de portavoz de Israel ante Estados Unidos y la OTAN.

Este pacto tuvo escasa duración, pues en torno a 1960 Ankara inició un acercamiento a la Unión Soviética y los países árabes de Oriente Próximo, hacia los que Turquía mantuvo una posición de apoyo, no muy enérgico, en su conflicto con Israel, tanto con ocasión de la nacionalización del canal de Suez y la guerra de los Seis Días como recibiendo a Yasir Arafat y autorizando la apertura de una oficina de la OLP en Ankara (1979). De hecho, desde la proclamación de la capitalidad de Jerusalén, Turquía disminuyó la actividad de su representación diplomática con Israel (1980-1985).
Con todo, no cesó la cooperación militar, sobre todo desde el golpe de Estado de 1980. Es preciso tener en cuenta que los militares turcos, que se consideran depositarios del legado de Atatürk, son los principales valedores de las relaciones con Israel, sea por razones ideológicas –Israel está firmemente anclado en Occidente– como prácticas: el israelí es el primer Ejército de la región en los planos armamentístico, de cualificación profesional y de servicios de inteligencia.

La “alianza estratégica”

Esta relación se profundizó y adquirió nuevas dimensiones a partir del colapso de la Unión Soviética (1990). Para Turquía supuso un cambio de paradigma, pues si por una parte su posición estratégica como defensora del flanco sur de la OTAN había perdido buena parte de su valor, la disolución de la URSS abría nuevos terrenos a su actuación política y económica en dirección a las repúblicas ex soviéticas de los Balcanes y, sobre todo, las turcófonas de Asia Central. Ello significaba asimismo mejorar su capacidad militar para cubrir sus propios flancos: con Grecia, con la que mantenía un antiguo contencioso aún latente a pesar de los acuerdos de buena vecindad; con Chipre, con la presencia militar en la República Turca del Norte; y con Siria, que mantenía una política de apoyo al PKK kurdo.

Parcialmente liberada de las servidumbres de la guerra fría, Turquía estaba en condiciones de ejercer de potencia regional. Israel, por su parte, tenía mucho que ganar en su alianza con Turquía: la profundidad estratégica que le daba contar con el espacio aéreo turco para entrenamiento de su aviación y como corredor hacia Siria, Irán e Irak, un excelente mercado, especialmente para su industria militar, y un proveedor de materias primas.
El instrumento de esta nueva situación fue la elevación al rango de embajadas de las representaciones diplomáticas en 1991. De ese modo, a partir de 1992 se prodigaron las visitas bilaterales de alto nivel: las de los presidentes israelíes Herzog (1992) y Weizmann (1994, 1996) y las del turco Demirel (1996, 1999), así como las de los primeros ministros Tansu Çiller (1994) y Barak (1999).
Estas visitas hablan de unas relaciones de particular densidad, que quedaron plasmadas en una catarata de acuerdos, iniciados en 1992 con un protocolo de cooperación de defensa, precedente del Acuerdo Secreto de Seguridad de 1994, y de los más amplios y decisivos Acuerdos de Cooperación y Capacitación Militares de febrero de 1996 y Acuerdo de Cooperación de Industria Militar de agosto, así como un acuerdo de libre comercio a finales del mismo año, ratificado en los primeros meses de 1997. El seguimiento de estos instrumentos se realiza a través de encuentros bimestrales.

Estos acuerdos, que contaron con el beneplácito de Estados Unidos y con la crítica de los países árabes de la región e Irán, dieron lugar a una relación de interdependencia asimétrica que colocaba a Israel en mejores condiciones, como proveedor de tecnología militar para la modernización de las fuerzas armadas turcas (1) y de seguridad avanzada para la lucha contra el PKK (es sabido que agentes del Mossad actúan en el Kurdistán), con capacidad de entrenar en el uso de ambas y con la fuerza que le da su íntima alianza con Estados Unidos, que a través de Israel ha hecho llegar armamento moderno a Turquía, superando de ese modo las limitaciones parlamentarias debidas a la mala situación de los derechos humanos en el país euroasiático.
En este sentido, son ilustrativas las declaraciones de un portavoz del Departamento de Estado de EE UU en mayo de 1997, de que era un “objetivo estratégico” de Estados Unidos que Turquía e Israel ampliaran sus relaciones políticas y su cooperación militar.
Aun siendo las más relevantes, la cooperación militar no es la única: a ella debe unirse la política, que implica un apoyo mutuo. En ese sentido, Israel y el lobby judío de Estados Unidos, por ejemplo, impidieron en todos los foros posibles una condena de Turquía por el genocidio armenio, y Turquía ha actuado de interlocutor para Israel en distintas instancias internacionales, comenzando por la OTAN y haciendo un hueco al Estado sionista en la política regional a través de la Iniciativa de Cooperación de Estambul, promovida por la OTAN para mejorar el diálogo mediterráneo, especialmente en materia de seguridad.
En el aspecto económico ha habido logros significativos: las transacciones comerciales entre ambos países han pasado de 2.000 millones de dólares en 2000 a 3.300 en 2008, el volumen más elevado de la región. Por otra parte, el capital israelí ha encontrado en Turquía una nueva tierra de promisión y, asociado al capital local, se ha embarcado en un ambicioso programa de conquista de los mercados centroasiáticos, con especial hincapié en el campo de la energía. Turquía es asimismo el destino predilecto del turismo israelí, con 700.000 visitas anuales.

Dos aspectos de esta colaboración destacan nítidamente: la busca por Israel de nuevas fuentes de energía exteriores. El petróleo y el gas encontrarían un vehículo idóneo en los dos oleoductos, procedentes del Caspio y de Asia Central, que se dirigen al puerto turco de Cehyan y que podrían tener un ramal que llegara hasta Ashkelon (sur de Israel). La otra es el agua, bien escaso y controvertido en Israel (buena parte de los acuíferos se encuentran en los territorios ocupados). En 2004 se firmó un acuerdo por el que Turquía aportaría 50 millones de metros cúbicos de agua anuales durante veinte años.

Síntomas de desapego

A partir de fines de 2000, coincidiendo con la segunda Intifada, esta luna de miel en cierto modo contra natura empezó a mostrar síntomas de agotamiento: incluso los mismos militares comenzaron a mostrar su preocupación por el hecho de que el alto nivel de intercambio pudiera debilitar a Turquía en una situación de cambio de alianzas, por ejemplo, un acuerdo entre Israel y Siria. Este cambio, que ya detectó Arabic News, órgano de la Liga Árabe, en marzo de 2001, se plasma en la suspensión del acuerdo de modernización de los carros de combate turcos por parte de Israel, en visitas y maniobras conjuntas, así como en el aumento del tono de la prensa turca respecto a la violación por parte de Israel de los derechos humanos en Gaza y Cisjordania. Para los militares turcos, no se trataba tanto de una ruptura como de una “congelación” de las relaciones estratégicas entre ambos países. Lo cierto es que, según los politólogos Kessler y Kochlender, «el sector industrial militar israelí reconoce que las exportaciones a Turquía disminuyen… reemplazadas por otras de Estados Unidos y de Europa, especialmente italianas».

Las contradicciones se agudizaron a partir de la subida al poder del AKP postislamista. El AKP mantenía desde hacía tiempo buenas relaciones con Hamas, organización a la que defendió en instancias internacionales con el argumento nada complicado –para alguien que no sea un político occidental– de que Hamas era indispensable para avanzar en la paz en Oriente Próximo. Con todo, la política de Tayyip Erdogan no está pensada tanto “contra” Israel como a favor de estrechar los lazos con los árabes, lo que, no cabe duda, conlleva un alejamiento, siquiera retórico, de un Israel excesivamente prepotente. Este juego se manifestó en 2004: mientras se firmaba el acuerdo sobre el agua citado anteriormente, el Gobierno turco protestaba airadamente por el asesinato “selectivo” del dirigente de Hamas Ahmed Yasin en Gaza.

Con todo, no debe dejar de señalarse que durante estos años se produjo un acercamiento entre Turquía y diversos países árabes, como Siria, una vez resuelta la discrepancia sobre el PKK y encarrilado el asunto de los recursos hídricos; Egipto, con el que se ha firmado un acuerdo de libre cambio, y Arabia Saudí. Actualmente los hombres de negocios turcos están presentes en todas las áreas de las economías de la región, incluida Palestina: en 2005 se constituyó el llamado Foro de Ankara, que reúne a hombres de negocios turcos, israelíes y palestinos con el propósito de canalizar inversiones hacia zonas industriales instaladas en Gaza y Cisjordania.
Esta proyección regional permitió a Turquía proponerse como mediadora entre Israel y Siria, una iniciativa que el Estado sionista aceptó de mala gana a pesar de su plausibilidad.

El invierno de Gaza: ¿un punto de inflexión?

El 17 de noviembre de 2008 se celebró la séptima reunión del Foro de Ankara en la capital turca. La ocasión estuvo revestida de particular solemnidad, pues el presidente israelí, Shimon Peretz, se dirigió al Parlamento turco; era el primer mandatario de ese país que lo hacía. En diciembre, el primer ministro israelí, Ehud Olmert, era recibido calurosamemnte en Ankara.
Pocos días más tarde de esta última visita, Israel lanzó sobre Gaza la operación Plomo Fundido, una invasión de la franja precedida de una meticulosa destrucción, no ya de la estructura militar, sino de todo el país. La brutalidad y el desprecio a las leyes de la guerra e incluso a la más elemental humanidad levantó un clamor universal de repulsa. Estas manifestaciones fueron particularmente masivas en Turquía, donde a la presencia en las calles se unieron tomas públicas de posición, ciberataques e incluso suspensiones de partidos de baloncesto.

La diplomacia turca se mostró muy activa en la búsqueda del fin de la agresión: se destacó a un alto funcionario en Israel mientras se multiplicaban los contactos con Egipto, Damasco e incluso la Conferencia Islámica, así como las presiones en las Naciones Unidas. Como primera medida, Ankara canceló su mediación con Damasco.
El 29 de enero de 2009 se reunía el Foro de Davos. Durante él se produjo un violento choque dialéctico entre Shimon Peretz y Tayyip Erdogan, que abandonó la reunión.
En la reacción de Erdogan se reflejan distintas circunstancias: el sincero horror ante lo que él mismo había calificado de «crimen contra la humanidad» y «salvajada», más cuando afectaba a una organización de algún modo «hermana»; el rechazo a una actitud discriminatoria hacia él por parte del moderador del encuentro, David Ignatius; la sensibilidad hacia la opinión pública de su país, y sobre todo la sensación de que los israelíes –hacía poco que se había celebrado la séptima sesión del Foro de Ankara y que Olmert había sido recibido con solemnidad en la capital turca– habían actuado sin prevenirlos de sus proyectos, menospreciando a los turcos y dando al traste con sus esfuerzos mediadores.

A partir de entonces se han producido una escalada de declaraciones y gestos que no han hecho sino enrarecer el ambiente, cuyo mejor exponente ha sido la suspensión por parte de Turquía de las maniobras Águila Anatolia, por la presencia, junto a Italia y Estados Unidos, de la aviación israelí, que debían celebrarse en septiembre de 2008.
Por parte israelí se multiplicaron las declaraciones hostiles: cancelación de viajes turísticos a Turquía con ocasión de las vacaciones del Pésaj (segunda pascua), protestas oficiales por la proyección en Turquía de un filme en el que se veía a soldados israelíes matando a un niño palestino («se pretende dar la impresión de que los soldados israelíes asesinan a niños», afirmó hipócritamente el portavoz israelí). La situación llegó al extremo de que el Ministerio de Exteriores turco se vio obligado a pedir a los funcionarios israelíes que «actuaran con sentido común en sus declaraciones y actitudes».

Lampedusa en el Levante

Esta escalada, aún fundamentalmente verbal, ¿significa el preludio de un cambio en las relaciones entre Ankara y Tel Aviv? Sí y no: sí en cuanto que ha roto la unidad de acción entre ambas capitales de forma definitiva («Turquía [no] se privará de hablar duramente de los errores cuando se cometan», en palabras de Abdullah Gül, presidente de Turquía), hasta el punto de que el ministro turco de Exteriores, Ahmet Davutoglu, afirmó que las relaciones entre ambos países dependían del «cese de la tragedia humanitaria» en Gaza. Las recientes visitas de Erdogan a Irak, y sobre todo a Irán –donde llegó a acusar a Israel de querer «devastar» el país y afirmó que Ahmadineyah era un «pacifista»–, así como la normalización de las relaciones con Armenia, parecen sugerir una mayor autonomía en las opciones diplomáticas.

Por parte israelí, la nueva actitud de Turquía, más que producir una autocrítica por los errores propios, ha servido para definir una nueva actitud de Ankara. Así, el Jerusalem Post afirmaba el 14 de agosto: «Como Rusia con Putin, Turquía… ha escondido su rápida transformación desde una democracia imperfecta pero prooccidental bajo los anteriores Gobiernos hacia un régimen antioccidental y, en el caso de Turquía, islamista».
Esta idea de un cambio en la política exterior turca aparece también en un reciente artículo del prestigioso ex director de Le Monde Jean-Marie Colombani, en el que habla de «deriva» para definirla. El diplomático Shlomo Ben-Ami sugiere en un artículo en El País (septiembre de 2008) que los «serios dilemas de identidad» de Turquía suponen para Israel que «su futuro en Oriente Medio no reside en alianzas estratégicas con las potencias no árabes de la región, sino en la reconciliación con el mundo árabe».
Sin embargo, a pesar de ello y de la torpeza diplomática israelí (2), no han faltado por ambas partes las declaraciones apaciguadoras, que, en última instancia, reflejan los límites del enfrentamiento: Israel sabe que no puede ir más lejos («Turquía es muy importante para el entrenamiento de nuestra aviación en espacios abiertos», según el ex comandante de la fuera aérea israelí Ben Eliyahu); en ese sentido, Ehud Barak, ministro de Defensa del anterior Gobierno de Tel Aviv, afirmó: «A pesar de los altibajos, Turquía sigue siendo un elemento central en nuestra región. No podemos dejarnos llevar por declaraciones encendidas». Y el influyente ministro de Industria, Ben Eliécer, aseguró: «Tenemos un conjunto de intereses estratégicos comunes de gran importancia. Debemos actuar con gran sensibilidad para que no se materialicen los pronósticos más sombríos».

Ankara, en cambio, ha optado por un tono más firme, lo que pone de manifiesto un mayor equilibrio en la relación de fuerzas entre ambos: «Turquía es el único país amigo de Israel en la región… Por ello se debe dar mucha importancia a que el Estado judío busque el apoyo de Ankara para sus políticas regionales» (el politólogo Erçan Citioglu en declaraciones a al-Yazira). Según el ministro de Exteriores, Davotuglu, «tenemos la esperanza de que mejore la situación en Gaza y que eso cree un nuevo ambiente para las relaciones turco-israelíes» (Hurriyet, 13 de octubre de 2008).

Conclusión: entre el republicanismo y el neootomanismo

Muchos observadores de la política exterior turca han hablado de una supuesta tensión en las relaciones exteriores turcas entre el republicanismo –anclaje firme en Occidente, desdén por la política regional– y el neootomanismo, o tendencia a convertirse en protagonista de la política próximo oriental, como había sucedido en el pasado. Los garantes de la primera opción serían los militares y el aparato del Estado; los de la segunda, los islamistas –tanto en la etapa de Erbakan, bruscamente interrumpida por los militares, como en la del AKP– y los proislamistas de Gobiernos anteriores.

Desde mi punto de vista, se trata de un falso debate: ni los militares han dejado de apoyar una menor interdependencia con Israel, por ejemplo, ni los islamistas han abandonado el eje fundamental de su política exterior: el ingreso en la Unión Europea y la OTAN; de algún modo, la nueva política exterior en relación con Oriente Próximo es una forma de hacer valer su nuevo papel estratégico ante sus aliados occidentales; los islamistas, por otra parte, son lo suficientemente conscientes de la profundidad de las relaciones turco-israelíes como para causarles un daño irreparable. Además, una excesiva dureza con Israel pondría en cuestión su papel mediador, por mucho que le mereciera simpatías entre la opinión árabe.
El nuevo Gobierno israelí ¿puede ahondar las actuales diferencias? No es fácil saberlo, teniendo en cuenta la escasa sutileza de su diplomacia. Sin embargo, es de suponer que terminará imponiéndose la cordura: en estos momentos, Israel es importante para Turquía. Pero sin duda Turquía lo es mucho más para Israel.

Alfonso Bolado

Notas:
(1) Turquía gastará 150.000 millones de dólares hasta 2020 en la modernización de su Ejército. Una parte importante de este dinero está destinada a Israel: modernización de los aviones F-4, F-5 y F-16, así como de los carros M-60; producción conjunta de misiles de medio alcance (Arrow y Delilah) y compra de otros (Popeye I), adquisición de 150 helicópteros estadounidenses (que se llevaría a cabo por intermediación israelí).
(2) La rudeza de la diplomacia israelí, consecuencia en parte de su carácter militante, en parte del complejo de superioridad moral característico del sionismo, es proverbial. El episodio turco no es único: los desplantes a políticos extranjeros que no son de su agrado –como sucedió con el enviado de la Unión Europea, Miguel Ángel Moratinos–; la sistemática denuncia de cualquier actitud, real o supuesta, de antisemitismo; la altanería con la que se dirige a las autoridades de los países huéspedes en estos casos (el Gobierno español y el catalán la han padecido con ocasión de los bombardeos de Gaza); la agresividad de las comunicaciones con la prensa internacional… la hacen antipática. Sorprende por ello la debilidad de las respuestas, que no hace sino retroalimentar esos comportamientos.

Extraído de CSCA.

~ por LaBanderaNegra en Diciembre 22, 2009.

samedi, 26 décembre 2009

Réflexions sur l'interdiction du parti kurde DTP

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Andreas Mölzer :

Réflexions sur l’interdiction du parti kurde DTP

 

Une fois de plus, les provinces kurdes de l’Est de l’Anatolie sont entrées en ébullition. Le motif de cette agitation est l’interdiction du parti kurde DTP, qui était pourtant représenté au parlement d’Ankara. Ainsi en a décidé la Cour constitutionnelle turque. Le verdict des juges de cette Cour constitutionnelle nous montre, encore une fois, que la Turquie, pays d’Asie Mineure, est bien éloignée de l’Europe. D’abord, il faut rappeler que le parti kurde a été interdit uniquement parce qu’il était un parti qui défendait une minorité, opprimée depuis des siècles, et qu’une telle démarche est impensable en Europe. Ensuite, force est de constater que la lutte pour le pouvoir entre islamistes et kémalistes revient tout à l’avant-plan de la politique intérieure turque. La Cour constitutionnelle est, avec l’armée, le dernier bastion kémaliste : elle a donc tenté d’indiquer au gouvernement d’Erdogan quelles limites il ne pouvait pas franchir, en interdisant le DTP.

 

Tous ces événements récents sont symptomatiques de l’état actuel de la Turquie. On y fait de temps en temps un tout petit pas en avant, qui est bien vite suivi d’un grand pas en arrière. Dans un premier temps, le Premier Ministre Erdogan avait annoncé, en grande pompe, en faisant sonner trompettes et buccins, son plan en quinze points pour résoudre la question kurde et voilà que maintenant la plus grande minorité ethnique du pays se voit confisquer toute représentation politique ! D’abord, ce jeu du chat et de la souris au détriment des Kurdes est indigne, ensuite, cette interdiction du DTP démontre que la Turquie n’est pas un Etat européen.

 

Dans ce jeu, la « communauté des valeurs » qu’entend être l’Union Européenne, joue un bien triste rôle. Parce que des forces politiques importantes et dominantes veulent absolument faire adhérer la Turquie à l’UE, Euro-Bruxelles se dissimule lâchement derrière les belles paroles diplomatiques habituelles et exprime son « souci »… Le comportement inacceptable de la Turquie n’amène pas les responsables de l’UE à tirer les conclusions qui s’imposent : l’interdiction du DTP aurait dû conduire à une rupture immédiate de toutes les négociations en vue de l’adhésion turque. Mais pour oser cela, il manque à l’UE, qui rêve pourtant de devenir un « acteur global », une solide dose de courage.

 

Mais il n’y a pas que l’interdiction du DTP kurde : il y aurait encore beaucoup d’autres raisons pour mettre un terme rapidement à cette folie de vouloir élargir l’Europe en direction de l’Orient : ne mentionnons, à titre d’exemple, que les discriminations auxquelles les chrétiens de Turquie sont soumis, ou encore le refus d’Ankara de reconnaître Chypre, Etat membre de l’UE, ou, enfin, les nombreuses entorses à la liberté d’opinion que commet l’Etat turc.

 

Andres MÖLZER.

(article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°51/2009)

vendredi, 25 décembre 2009

La nouvelle feinte d'Erdogan

moelzer_fabry.jpgAndreas Mölzer:

 

La nouvelle feinte d’Erdogan

 

Début novembre 2009, le Premier Ministre turc Erdogan a présenté son plan en quinze points pour résoudre la question kurde. Parmi ces quinze points, nous découvrons qu’il serait dorénavant permis d’enseigner la langue kurde dans les écoles, à titre de branche en option. Les villages recevraient à nouveau leurs anciens noms kurdes. Toutes choses qui devraient pourtant être évidentes. Le plan d’Erdogan prouve une chose: que la Turquie, jusqu’ici, a foulé aux pieds les droits les plus élémentaires de la principale de ses minorités ethniques.

 

Mais ce plan ne s’adresse pas en premier lieu aux Kurdes, mais à l’Union Européenne. En donnant le plus grand impact médiatique à son plan, Erdogan cherche à gruger les eurocrates bruxellois, à leur jeter de la poudre aux yeux, pour qu’ils ne voient plus les vices de fonctionnement de l’Etat turc, qui s’étalent pourtant au grand jour. La petite minorité chrétienne qui subsiste dans le pays subit toujours autant de discriminations et rien, dans le plan du premier ministre islamiste, ne laisse entrevoir que leur sort sera amélioré. En outre sur le plan des droits de l’homme, surtout au niveau de la liberté d’opinion et de la liberté de la presse, la situation demeure déplorable; ensuite, Ankara refuse toujours, avec un entêtement consommé, de reconnaître un Etat membre de l’UE: Chypre.

 

En gros, on peut se poser la question: les discriminations subies par la minorité kurde en Turquie prendront-elles véritablement fin? A l’évidence, on peut annoncer beaucoup de choses mais ce qui importe, en ultime instance, c’est la traduction des promesses dans les faits. Le meilleur exemple que l’on puisse citer est le rapprochement avec l’Arménie, qu’avait promis, il y a peu, le gouvernement turc actuel. Rappelons-nous: il y a quelques semaines, l’annonce de ce rapprochement avait fait la une des quotidiens et des agences de presse dans le monde entier. Aujourd’hui, au bout de quelques semaines seulement, nous constatons que la reprise des relations diplomatiques entre Ankara et Erivan sont loin d’être devenues une réalité. La Turquie tente, par tous les moyens, de dicter ses conditions à l’Arménie, et, au Parlement d’Ankara, une résistance virulente se constitue contre la signature de tout traité avec l’Arménie voisine.

 

Il y a tout lieu de croire que le nouveau plan d’Erdogan s’enlisera de la même façon, car le chef du gouvernement turc sait trop bien quelles oppositions il suscitera en politique intérieure. Car, d’une part, les partis d’opposition en Turquie entrent en ébullition chaque fois qu’il est question d’élargir la palette des droits pour les Kurdes et, d’autre part, le gouvernement d’Erdogan n’a plus le vent en poupe, au contraire, il bat de l’aile. Les sondages lui attribuent 32%, ce qui constitue 15% de moins que lors de la victoire électorale qui l’a porté au pouvoir, il y a deux ans. Si cette tendance persistait et si l’opposition en venait encore à gagner du terrain, alors Erdogan n’aura aucun scrupule à lâcher les Kurdes.

 

Andreas MÖLZER.

(article paru dans “zur Zeit”, n°47-48/2009).

 

mercredi, 23 décembre 2009

Erdogans neue Finte

erdogan_1203110466.jpgErdogans neue Finte

Der Premier will von den Mißständen in der Türkei ablenken

Von Andreas Mölzer

Ex: http://www.zurzeit.at

Vergangene Woche hat der türkische Ministerpräsident Erdogan seinen 15-Punkte-Plan zur Lösung der Kurdenfrage vorgestellt. Unter anderem soll es künftig erlaubt sein, daß in Schulen Kurdisch als Wahlfach angeboten wird, und Dörfer sollen ihre alten kurdischen Namen zurückbekommen – also Dinge, die eigentlich selbstverständlich sein sollten. Daher ist Erdogans Plan vor allem das Eingeständnis, daß die Türkei die Rechte ihrer größten ethnischen Minderheit bislang mit Füßen getreten hat.

Eigentlicher Adressat sind aber nicht die Kurden, sondern ist die Europäische Union. Denn mit seiner medial inszenierten Ankündigung beabsichtigt Erdogan, Brüssel von all den Mißständen abzulenken, welche in der Türkei den Alltag prägen. Die kleine christliche Minderheit etwa wird weiterhin diskriminiert, und es ist nicht davon auszugehen, daß der islamistische Premier medienwirksam einen Plan zur Verbesserung ihrer Lage vorstellen wird. Außerdem liegen im Bereich der Menschenrechte, vor allem bei der Meinungs- und Pressefreiheit, die Dinge nach wie vor im Argen, und Ankara weigert sich stur, das EU-Mitglied Zypern endlich anzuerkennen.

Insgeamt ist es mehr als fraglich, ob es tatsächlich zu einem Ende der Diskriminierung der kurdischen Minderheit durch Ankara kommen wird. Bekanntlich kann man ja vieles ankündigen, aber nur auf die Umsetzung kommt es an. Bestes Beispiel dafür ist die angebliche Annäherung der Türkei an Armenien, die vor wenigen Wochen die internationalen Schlagzeilen beherrscht hatte. Heute aber steht fest, daß die Aufnahme diplomatischer Beziehungen zwischen Ankara und Eriwan alles andere als sicher ist. Denn die Türkei versucht mit allen Mitteln, Armenien die Bedingungen zu diktieren, und im Parlament in Ankara regt sich heftiger Widerstand gegen den angekündigten Vertrag mit dem Nachbarland.

Ähnlich verhält es sich mit Erdogans Plan, von dem der Regierungschef nur allzu gut wußte, welche unüberwindbaren innenpolitischen Hürden warten. Denn einerseits laufen die türkischen Oppositionsparteien gegen eine Ausweitung der Rechte für die Kurden Sturm und andererseits befindet sich Erdogans Regierungspartei im Sinkflug. Meinungsumfragen bescheinigen ihr 32 Prozent, das sind um 15 Prozent weniger als beim Wahlsieg vor zwei Jahren. Und sollte sich diese Entwicklung fortsetzen und die Opposition weiter an Boden gutmachen, dann wird es Erdogan nicht schwerfallen, die Kurden zu opfern.

Andreas Mölzer ist fraktionsloser Abgeordneter des Europäischen Parlaments. Die hier zum Ausdruck gebrachte Meinung liegt in der alleinigen Verantwortung des Verfassers und gibt nicht unbedingt den offiziellen Standpunkt des Europäischen Parlaments wieder.

mardi, 01 décembre 2009

Fascismo, Nazionalsocialismo, gli Arabi e l'Islam

Fascismo, Nazionalsocialismo,

gli Arabi e l’Islam

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Ex: http://www.rinascita.info/

  
 

 

 

Giovanna Canzano ha incontrato per Rinascita lo scrittore e storico Stefano Fabei

…“L’Italia fu il primo Stato europeo ad appoggiare la resistenza palestinese contro la potenza mandataria, cioè la Gran Bretagna, e contro i sionisti e il loro progetto di insediamento in Terrasanta. Tra il settembre del 1936 e il giugno del 1938 l’Italia versò al Gran Mufti, che guidava la rivolta contro le forze militari inglesi e contro l’immigrazione ebraica, circa 138.000 sterline, circa 10.000.000 di euro attuali.
Tale contributo fu voluto dal Duce in ragione della posizione assunta dall’Italia nei confronti del nazionalismo arabo…” Stefano Fabei

La politica filo-araba del fascismo aveva un fine prettamente idealistico o politico-ideologico o sottintendeva anche a un discorso territoriale?
 

Nei primi otto anni di potere Mussolini non portò avanti un’autonoma politica araba per diverse ragioni: la politica estera italiana aveva come punto di riferimento quella inglese e dall’andamento dei rapporti con la Gran Bretagna dipendeva l’atteggiamento di Roma verso gli arabi; inoltre gli impulsi a una politica estera rivoluzionaria, verso questa parte del mondo, sostenuta dai fascisti più dinamici, erano soffocati dall’influenza esercitata sul regime da nazionalisti e cattolici conservatori.
Nella seconda metà degli anni Venti il Duce, per quanto riguarda il vicino Oriente, tentò di creare un contrappeso alla posizione storica di predominio dell’Inghilterra e della Francia e assumere in qualche modo la loro eredità mediante l’influenza culturale, economica e politica italiana in Siria, in Palestina, in Egitto e sul Mar Rosso. Per questo obiettivo si schierò al fianco degli arabi, che però scarsamente ricambiavano le simpatie di Roma, dato che era in corso la riconquista della Libia, colonia che, secondo gli italiani, doveva essere allargata a ovest con la Tunisia, ritenuta importante dal punto di vista strategico.
reichafgh.jpgL’area su cui l’Italia mirava a esercitare il controllo comprendeva la penisola araba, l’Iraq, la Siria, la Palestina, l’Egitto, il Maghreb e la costa orientale africana fino al Tanganica, tutti Paesi alla ricerca dell’indipendenza. I movimenti anticolonialisti in lotta contro la Francia e l’Inghilterra non arrivavano, allora, ad azioni unitarie di vaste proporzioni: la rivoluzione del Partito Wafd in Egitto (1919-1920), il movimento Destour in Tunisia (1922-1929), o anche i fermenti antisionistici in Palestina (1922-1929), permettono di concludere che le intenzioni italiane potevano realizzarsi solo contro la resistenza araba e franco-britannica. 
Fu dall’inizio degli anni Trenta che la politica araba del regime cominciò a caratterizzarsi in senso più autonomo. L’Italia tendeva adesso a presentarsi come “ponte” tra Oriente e Occidente e a diventare un punto di riferimento per le nazioni islamiche. Tra il 1930 e il 1936 Roma cercò di accentuare l’azione culturale ed economica in Medio Oriente e nell’area arabo-islamica in generale. Senza dubbio un’iniziativa tendente ad accentuare tale programma fu l’inizio a Bari della Fiera del Levante. Nel 1933 e nel 1934 furono organizzati a Roma, sotto il patrocinio dei Gruppi universitari fascisti, i Guf, due convegni degli studenti asiatici, e Radio Bari iniziò le sue trasmissioni in lingua araba nel maggio del 1934. Le linee direttive della politica araba italiana emersero il 18 marzo di quell’anno dal discorso che il Duce pronunciò all’assemblea quinquennale del regime in cui disse che di tutte le potenze occidentali la più vicina all’Africa e all’Asia era l’Italia, chiarendo di non pensare a conquiste territoriali, ma a una politica di collaborazione con le nazioni arabe. Il Mediterraneo doveva riprendere la sua funzione storica di collegamento fra l’Est e l’Ovest. In tale contesto sono da inserirsi la creazione, nel giugno 1935, dell’Agenzia d’Egitto e d’Oriente con sede al Cairo, come di altre istituzioni come l’Istituto per l’Oriente e l’Istituto orientale di Napoli, centri di attività culturale, ma anche politica.
 
Quali sono state le principali differenze tra la politica araba del fascismo e del nazionalsocialismo?
Al contrario dell’Italia, il Terzo Reich aveva, nei Paesi arabi, obiettivi solo economici. Dopo la sconfitta del 1918, la Germania aveva perso le sue poche colonie e con esse gran parte dei mercati interessanti il commercio tedesco. A quest’ultimo, almeno per quanto riguarda i rapporti coi Paesi dell’Oriente, aveva poi assestato un altro duro colpo la crisi del 1929. La Repubblica di Weimar non rinunciò a recuperare le colonie strappatele a Versailles, ma la Società delle Nazioni si rifiutò di procedere alla loro restituzione come “mandati”. 
La propaganda contro “la menzogna della colpa coloniale” e la richiesta di terre per l’emigrazione e di mercati, fu condotta da vari gruppi e organi di stampa, ma questo problema, nella politica estera weimariana, ebbe una parte poco rilevante. Fino al Terzo Reich le discussioni rimasero sul terreno accademico. Hitler, nel Mein Kampf, aveva fatto da tempo i conti con la politica estera guglielmina e messo da parte qualsiasi possibilità di espansione extraeuropea per orientarsi verso l’Est europeo, in cui, secondo lui, stava il Lebensraum, lo spazio vitale necessario al popolo tedesco. A parte le non sempre chiare prese di ?posizione ideologiche contro il colonialismo esposte nella sua opera, Hitler, negli anni del potere, si disinteressò quasi sempre alle colonie. Qualche volta furono usate come strumento di pressione sull’Inghilterra e le altre potenze occidentali, ma la sfida tedesca rimase più che altro un intermezzo diplomatico e non si trasformò in un vero pericolo per il predominio coloniale europeo. L’atteggiamento tedesco non fu neppure propriamente anticolonialista.
Dal 1935 in poi il Reich iniziò a importare dai Paesi orientali, in quantità sempre maggiori, rame, nichel, tungsteno, cromo, prodotti agricoli e a esportare in essi prodotti farmaceutici, chimici, articoli elettrotecnici, generi di chincaglieria, mezzi di trasporto e impianti ferroviari, nonché attrezzature industriali e, in misura crescente, materiali bellici. Ciò contribuì ad aumentare la stima per la Germania e il disprezzo per Francia e Gran Bretagna. Fin dal 1934 poi la Germania svolse in Siria, in Palestina, in Iraq e in Libano, un’intensa opera di propaganda attraverso l’Ufficio di politica estera, diretto da Alfred Rosemberg. I nazionalsocialisti miravano a eccitare l’elemento arabo contro gli ebrei e contro la Francia e l’Inghilterra, e a preparare la rivolta del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale nell’eventualità di una guerra europea. 
Nel 1937, Baldur von Schirach, il capo della Gioventù hitleriana, con altri rappresentanti del suo governo, visitò Iran, Iraq, Siria e Turchia, suscitando ovunque consensi. La recente riapertura di legazioni, consolati, scuole e istituti del Reich nel Vicino Oriente era ben vista perché la Germania aveva lasciato un buon ricordo della sua collaborazione con la Turchia durante la Prima guerra mondiale. La condotta dei suoi ufficiali e soldati nei Paesi arabi era stata ottima; non avevano mai commesso spoliazioni e usurpazioni, pagando tutto quello che occorreva loro. Insomma erano stati modelli d’onore militare, e anche dopo i loro tentativi di penetrazione si erano limitati alla cultura e al commercio. Nessuna mira espansionistica in Africa settentrionale o nel Vicino Oriente…

Gli obiettivi dell’Asse Roma-Berlino

Nei suoi studi sulla politica mediorientale del fascismo, si è mai chiesto quale situazione si sarebbe venuta a creare qualora l’Asse avesse vinto la guerra e tanto le mire italiane quanto quelle tedesche si fossero concentrate in una ridefinizione di quella parte del mondo rispondente ai propri interessi?
 La diversità di obiettivi tra Italia e Germania nell’area mediterranea aveva portato Hitler, il 24 ottobre 1936, giorno  precedente la costituzione dell’Asse, a dichiarare a Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri italiano, che il Mediterra-neo era un mare italiano e che qualsiasi modifica futura nell’equilibrio di quell’area doveva andare a favore dell’Italia, così come la Germania doveva avere libertà di azione verso l’Est e verso il Baltico. Orientando i dinamismi italiano e tedesco in queste direzioni esattamente opposte, non si sarebbe mai avuto un urto di interessi tra le potenze fasciste. In altri termini, secondo Hitler, i Paesi arabi sotto controllo francese e inglese facevano parte, quasi nella loro totalità, della sfera di influenza dell’Italia. Se l’Asse avesse vinto la guerra, e i patti tra Hitler e Mussolini fossero stati osservati, l’Italia avrebbe esercitato sul Mare Nostrum la propria egemonia, dal Marocco all’Iraq. I tedeschi, da parte loro avrebbero probabilmente rivendicato quale propria sfera di influenza i Paesi a oriente dell’Iran all’Afgha-nistan, all’India, dove però anche il Giappone aspirava a esercitare la propria leadership. Era comunque l’Italia ad avere i maggiori interessi nell’area nordafricana e mediorientale. Con l’assunzione, il 18 marzo 1937, del titolo di Spada dell’Islam da parte del Duce si aprì, non a caso, un altro capitolo della politica araba del fascismo che diventò argomento della stampa di regime: aumentarono gli articoli e gli studi di autori arabi e musulmani, alcuni dei quali riguardanti i legami ideologici tra fascismo e islamismo e la maggior corrispondenza del fascismo, rispetto al comunismo, ai valori religiosi, morali e ideologici degli arabi. Per quanto riguarda l’aspetto culturale e storico-politico della questione si assistette a una serie di iniziative curate da studiosi e da istituzioni quali il Centro studi per il vicino Oriente e l’Istituto di studi di politica internazionale.

Si trattò quindi di una vera svolta nella politica del fascismo…
Sì, ma non più di tanto perché la politica araba dell’Italia restava ancora, tra il 1936 e il 1939, condizionata dall’andamento delle relazioni con Londra. Temendo che l’Inghilterra, grazie alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina, rafforzasse le sue posizioni nel Mediterraneo orientale, l’Italia, grazie ai programmi trasmessi da Radio Bari, iniziò ad aizzare le popolazioni arabe contro gli inglesi. La carta araba, negli interventi di Mussolini e di Ciano, continuò a essere considerata moneta di scambio nel caso che si fosse aperto un varco per un’effettiva trattativa per un accordo generale mediterraneo tra Roma e Londra; tanto è vero che, sull’onda delle speranze suscitate dagli “accordi di Pasqua”, Roma bloccò subito gli aiuti ai movimenti antibritannici mediorientali – molto consistenti ai palestinesi – e moderò il tono delle trasmissioni di Radio Bari.
 
I tedeschi, in quegli anni, che atteggiamento assunsero verso i nazionalisti ara-bi? E questi ultimi cosa si aspettavano dalla Germa-nia?
Berlino sviluppò allora una politica non molto diversa da quella di Roma. Il ministro degli Esteri di Hitler, l’1  giugno 1937, inviò un telegramma alle sue rappresentanze di Londra, Bagdad e Gerusalemme da cui emergeva la contrarietà del Reich alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina che se non era ritenuto capace di assorbire gli ebrei di tutto il mondo, avrebbe comunque creato per il giudaismo una base di potere sancita dal diritto internazionale.
Per gli arabi questo era già qualcosa, ma si aspettavano dal Hitler un po’ di più di una semplice, per quanto gradita, manifestazione di simpatia, peraltro priva di impegni. Il 15 luglio 1937, Hajj Amin al-Husayni, il Gran Mufti di Gerusalemme e della Palestina, in un colloquio con il console generale tedesco, cercò di ottenere una chiara risposta alla domanda circa la disponibilità della Germania a contrastare, pubblicamente, l’eventuale costituzione di uno Stato ebraico. Due giorni dopo il primo ministro iracheno, Hikmet Suleiman, fece capire all’ambasciatore tedesco a Bag-dad che il suo governo contava sull’appoggio tedesco, oltre che turco e italiano, nel momento in cui alla Lega delle Nazioni l’Iraq si fosse opposto al piano di divisione della Palestina in tre zone. Se Ribbentrop era disposto ad appoggiare il rappresentante iracheno alla Lega delle Nazioni, Hitler tuttavia non si impegnò, nella questione palestinese, al fianco degli arabi, almeno in un primo momento.

Per quale ragione?
Perché, come nella politica araba dell’Italia, così in quella della Germania si tendeva a non pregiudicare i rapporti con l’Inghilterra. Pertanto Berlino in principio si astenne dal fornire armi ai nazionalisti arabi e dal rafforzare la loro resistenza alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina.
Comunque nella capitale del Reich non tutti condividevano questa posizione, cui, per forza di cose, dovevano adeguarsi perché era al Führer che spettava, in ogni caso, l’ultima parola. Si tentarono, con cautela, altre strade per sviluppare rapporti col mondo arabo. Dal 1937, per esempio, la Germania iniziò a intrattenere relazioni diplomatiche con l’Arabia Saudita che mirava a mantenere la propria “indipendenza” dall’Inghilterra, la cui influenza si estendeva a tutti gli Stati circostanti. Ibn Sa’ùd chiese a Berlino appoggio politico e forniture militari, sottolineando le affinità tra Germania e il mondo arabo, soprattutto circa la posizione difensiva di fronte alla Gran Bretagna. Sebbene l’Ufficio di politica estera del NSDAP, il partito nazionalsocialista, fosse da tempo favorevole alle forniture belliche ai sauditi, queste ultime non ebbero luogo poiché la sezione politica del ministero degli Esteri era contraria. Solo nel 1939, in seguito al rafforzamento delle posizioni britanniche in Medio Oriente, Hitler e Ribbentrop assicurarono a Ibn Sa’ùd un concreto aiuto alla formazione di un suo esercito. Il 17 giugno il Führer promise all’incaricato del re saudita un aiuto attivo e due mesi dopo un credito di 6.000.000 di marchi fu accordato ai sauditi che volevano acquistare fucili, carri armati leggeri e pezzi antiaerei. La Germania offrì tali forniture col nullaosta di Roma, che aveva rapporti buoni, ma non certamente ottimi, col regno dei Sa’ùd dopo l’accordo anglo-italiano del 16 aprile 1938, con cui le due potenze europee “garantivano” l’indipendenza dell’Ara-bia. L’1 settembre 1939 scoppiò la guerra e Berlino non poté procedere alle forniture, anche perché, dietro forti pressioni inglesi, l’Arabia Saudita fu costretta, l’11 settembre, a rompere le relazioni diplomatiche con il Terzo Reich.

I movimenti filofascisti arabi

Tornando alla questione palestinese, potrebbe chiarirci meglio l’atteggiamento tedesco inizialmente favorevole all’emigrazione ebraica verso la Terra-santa?
Nei primi anni di regime Hitler, volendo liberarsi degli ebrei presenti in Germania, vide nella Palestina sottoposta a mandato britannico la meta verso cui indirizzarli: se questo poi serviva a creare difficoltà agli inglesi tanto meglio, per quanto Hitler temesse allora la Gran Bretagna, ritenendola assai più forte del Terzo Reich. Già dal 1933, desiderosa di favorire l’emigrazione ebraica dalla Germania e di indirizzarla verso la Palestina, l’Agenzia ebraica era pervenuta coi tedeschi a un patto, denominato Haavara (trasferimento), che prevedeva la partenza verso la Terra Santa degli ebrei tedeschi. L’accordo sembrò ai nazionalsocialisti un’ottima occasione per “purificare il Reich” e sbarazzarsi degli ebrei; i diplomatici della Wilhelmstrasse, tradizionalmente filoarabi, pur non condividendo la scelta, dovettero adeguarsi.
Contrari erano anche i quadri dell’Auslandsorganisation e cioè della sezione del NSDAP da cui dipendevano le cellule in seno alle comunità residenti all’estero, riflettendo il punto di vista dei 2.000 cittadini tedeschi presenti in Palestina, che vedevano con orrore la prospettiva che gli ebrei cacciati dal Reich potessero insediarsi in Palestina e far loro concorrenza in varie attività. Tale politica non piaceva, ovviamente, nemmeno ai palestinesi e il Gran Mufti chiese a Hitler di interrompere il flusso migratorio e mettere fine all’insediamento sionista in Palestina. I nazisti, inizialmente convinti dell’incapacità degli ebrei di creare uno stato ebraico, nella seconda metà degli anni Trenta furono costretti a ricredersi e a constatare che l’insediamento sionista in Palestina era cresciuto sia di numero che di risorse. Dovettero prendere atto che la Commissione reale britannica guidata da Lord Peel, dopo una lunga indagine sul problema palestinese, aveva pubblicato nel luglio del 1937 un rapporto in cui raccomandava di dare parziale soddisfazione a entrambi i nazionalismi, sionista e palestinese, mediante una spartizione della Palestina mandataria e la conseguente creazione di due Stati, uno arabo e l’altro ebraico. Questo non era più soltanto il parto della fantasia sionista ma diventava una proposta concreta e l’oggetto di una raccomandazione contenuta in un rapporto del governo inglese. A siffatta mutata realtà i nazisti fecero seguire un diverso atteggiamento e se fino allora scopo preminente della politica della Germania era stato favorire il più possibile l’emigrazione degli ebrei, adesso dovettero rendersi conto che la formazione di uno Stato ebraico sotto tutela britannica non era nell’interesse della Germania, dato che non avrebbe assorbito l’ebraismo mondiale, ma creato, sotto leggi internazionali, un’ulteriore posizione di potere all’ebraismo internazionale, qualcosa come lo Stato del Vaticano per il cattolicesimo politico o Mosca per il Comintern. Pertanto l’opposizione alla creazione dello Stato sionista in Palestina comportò l’appoggio a chi tra gli arabi vi si opponeva. Vennero impartite da Berlino istruzioni alle sedi diplomatiche tedesche, esortandole ad assumere un atteggiamento favorevole verso gli arabi e le loro aspirazioni, senza tuttavia prendere impegni condizionanti. Tale cautela era ancora determinata dalla speranza di evitare una rottura definitiva con Londra e gli aiuti finanziari ai ribelli arabi, già elargiti con fondi dei servizi segreti tedeschi, continuarono a essere esigui e irregolari. Nel 1938 il patto di Monaco e la crisi cecoslovacca chiarirono inequivocabilmente che Londra e Berlino erano ormai su posizioni antitetiche, tali da comportare opposti schieramenti di campo nel caso dello scoppio di un conflitto. Da questo momento la propaganda tedesca s’intensificò esercitando una crescente influenza sull’opinione pubblica del mondo arabo, che vedeva nel Reich il nemico dei suoi nemici. Si rafforzarono i rapporti con il movimento nazionalista e con chi, come il Gran Mufti di Gerusalemme, dimostrava di essere un nemico irriducibile degli ebrei. Lo stesso Führer in più occasioni espresse ammirazione per gli arabi, la loro civiltà e la loro storia. Nel corso della conversazione a tavola con Keitel, ad esempio, la sera dell’1 agosto 1942, Hitler, oltre a dichiarare la sua convinzione circa la superiorità della religione islamica rispetto alla cristiana, parlando della Spagna affermò che quella araba era stata “l’epoca d’oro della Spagna, la più civile”. A questo apprezzamento del Führer corrispose l’ammirazione per il nazionalsocialismo da parte degli arabi. In un’opera autobiografica, il siriano Sami al-Jundi, uno dei primi capi del partito al-Ba’th, descrivendo lo stato d’animo che caratterizzava gli arabi negli anni Trenta afferma: “Eravamo razzisti, ammiratori del nazismo, leggevamo i suoi testi e le fonti della sua dottrina, specialmente Nietzsche…, Fichte e I fondamenti del secolo XIX di H. S. Chamberlain, tutto incentrato sulla razza. Fummo i primi a pensare di tradurre il Mein Kampf…”.

Quale fu l’atteggiamento degli egiziani di fronte al conflitto?
Allo scoppio della guerra l’Egitto era formalmente uno “Stato sovrano”, con un proprio re, un proprio governo e un proprio esercito, ma il Paese faceva parte dell’Impero britannico: gli inglesi infatti controllavano direttamente il canale di Suez, stazionavano in Egitto con le proprie truppe e con il diritto di utilizzarne basi e risorse in caso di guerra. I seguaci e i simpatizzanti dell’Asse sfruttarono a fondo la crisi alimentare e l’irritazione sempre più viva provata dall’uomo della strada contro lo stato d’assedio e la trasformazione del Paese in base militare per il Middle-East Commando.
Il governo egiziano, dietro la spinta dell’opinione pubblica, si rifiutò di entrare in guerra contro le potenze dell’Asse e tale atteggiamento continuò anche allorché le truppe italiane entrarono per la prima volta in Egitto. Si giunse addirittura all’assurdo che, mentre britannici, australiani, neozelandesi, sud africani e indiani difendevano l’Egitto dagli invasori italotedeschi, i 40.000 uomini dell’esercito egiziano si mantenevano neutrali, agli ordini di ufficiali che spesso non nascondevano le loro simpatie per l’Asse. La tensione aumentò all’inizio del 1942, quando, guidati da Rommel, gli italo-tedeschi penetrarono in territorio egiziano avanzando fino a el-Alamein, a ottanta chilometri a ovest di Alessandria. Questo fu visto dagli egiziani come il preludio a una “liberazione” dell’Egitto. Le manifestazioni contro la mancanza di viveri degenerarono in un’esplosione di sentimenti antibritannici al grido di “Vieni avanti Rommel!”. Anche in questa occasione quindi gli egiziani non presero parte a quella che, in teoria, era la difesa del proprio territorio nazionale. Era evidente che se gli eserciti fascisti avessero raggiunto Alessandria il popolo e l’esercito egiziani sarebbero insorti come avevano fatto gli iracheni l’anno prima.
Ufficiali, tra cui i giovani Nasser e Sadat, tentarono di mettersi in contatto col comando di Rommel per coordinare l’attività degli egiziani filofascisti con l’offensiva italo-tedesca. Gli alleati allora decisero di correre ai ripari e il mattino del 4 febbraio 1942 i tank inglesi circondarono il palazzo di Abidin imponendo a re? Faruq un ministero presieduto da Mustafà al-Nahas. Vennero istituiti tribunali speciali e migliaia di “nazisti”, nazionalisti egiziani e fratelli musulmani furono incarcerati come “agenti dell’Asse” o “elementi eversivi”.
Il 4 luglio i governi italiano e tedesco pubblicarono una dichiarazione per il rispetto dell’indipendenza dell’Egitto, dichiarandosi intenzionati a rispettarne e garantirne l’indipendenza e la sovranità. Le forze dell’Asse non entravano in Egitto come in un Paese nemico, ma con lo scopo di espellerne gli inglesi e di liberare il Vicino Oriente dal dominio britannico. La politica delle Potenze fasciste era ispirata al concetto che l’Egitto era degli egiziani: liberato dai vincoli che lo legavano alla Gran Bretagna il più importante Paese arabo era destinato a prendere il suo posto tra le Nazioni indipendenti e sovrane. Per l'intera durata della guerra in Egitto si registrarono attività filofasciste e antialleate: le Camicie verdi organizzarono il boicottaggio dei negozi stranieri, una radio clandestina operò al Cairo, membri dei comitati degli ufficiali liberi fecero filtrare agenti nazisti attraverso le file alleate; altri egiziani, studenti in Europa e fuoriusciti, svolsero attività propagandistica al servizio del ministero degli Esteri italiano e del ministero della Cultura popolare, intervenendo spesso nella stampa italiana e tedesca con articoli e analisi. Più ancora che a mezzo stampa la loro attività propagandistica si attivò via etere, da Radio Bari e da tre emittenti minori: la Nazione araba, Radio Egitto indipendente e Radio Giovane Tunisia, ispirate rispettivamente dal Gran Muftì di Gerusalemme, dal principe Mansur Daud e da el-Tayeb Nasser, presidente della società Misr (Egitto) in Europa, e dal leader desturiano Habib Thammer. La fiducia degli egiziani andava comunque maggiormente ai tedeschi perché la Germania non aveva mai colonizzato aree abitate da musulmani ed era stata l'alleata dell'Impero ottomano. L'Egitto rientrava nella zona di interesse italiano indubbiamente, anche se sul suo futuro ordinamento le opinioni tra Mussolini, il ministero degli Esteri ed altri ambienti politici militari erano diverse...

mercredi, 25 novembre 2009

Avraham Burg: du sionisme au post-sionisme

avraham-burg-lenfant-terrible-judaisme-L-2.pngAvraham Burg : du sionisme au post-sionisme

 

Le père d’Avraham Burg, Josef Burg (1909-1999), a participé à la plupart des gouvernements israéliens depuis l’émergence de l’Etat hébreu sur la scène politique internationale jusqu’à sa retraite en 1986. Il appartenait à un courant religieux du sionisme, l’idéologie fondatrice d’Israël. Son fils, Avraham Burg, a, lui aussi, toujours été un pilier de l’Etat hébreu. En 1995, il est devenu président de la « Jewish Agency », qui réglait les questions d’immigration en Israël, puis de la « World Zionist Organization ». Jusqu’en 2003, il a été le porte-paroles de la Knesseth. Aujourd’hui, cet homme, trempé depuis sa plus tendre enfance dans l’ambiance sioniste militante, est devenu l’enfant terrible d’Israël, le symbole d’une intelligentsia juive critique à l’endroit de ce sionisme fondateur. Ses critiques sont parues récemment en Allemagne, dans un ouvrage au titre volontairement provocateur : Hitler besiegen – Warum Israel sich endlich vom Holocaust lösen muss (= « Vaincre Hitler – Pourquoi Israël doit enfin se détacher de l’Holocauste ») et dans un entretien accordé à la revue juive indépendante d’Allemagne, Semit – Unabhängiges jüdische Zeitschrift, publiée par Abraham Melzer. John Mearsheimer, qui avait co-publié naguère un ouvrage qui analysait en profondeur les arcanes du lobby pro-Israël, écrit : « Tous ceux qui se soucient de l’avenir d’Israël, doivent lire ce livre ». Qu’en est-il ? Le DNZ de Munich nous en parle. En voici une version française :

 

Le livre d’Avraham Burg, ancien porte-paroles de la Knesseth, vient de paraître et s’intitule Hitler besiegen. Fils de Josef Burg, qui fut longtemps ministre de l’intérieur en Israël, Avraham Burg prend désormais ses distances par rapport au sionisme et remet ses thèses fondamentales en question.

 

Comme son père, qui avait quitté Dresde en 1939 pour émigrer vers la Palestine, Avraham Burg, né à Jérusalem en 1955, est un homme qui a joué un rôle important dans la représentation de l’Etat hébreu et dans la défense des intérêts israéliens. De 1999 à 2003, Avraham Burg a été le porte-paroles du parlement d’Israël. En coopération avec Israel Singer, à l’époque directeur du « World Jewish Congress », et avec Edgar Bronfman, alors président de ce même WJC, c’est lui qui a dirigé les négociations, assez tendues, avec les banques suisses, pour récupérer les sommes qui auraient été, dit-on, retenues par ces dernières, au détriment de clients juifs. En évoquant cette affaire, Avraham Burg écrit aujourd’hui : « Cette campagne a eu plus de succès qu’on ne l’avait escompté et a une fois de plus justifié l’existence du WJC, qui en est sorti renforcé ». Rappelons également qu’Avraham Burg a servi son pays comme officier dans une brigade parachutiste, mais après son service militaire s’est engagé dans le mouvement pacifiste « Peace Now ».

Regarder l’avenir et non se retourner vers le passé

 

hitlerbeseigen.jpgSon nouveau livre (280 pages, 22,90 euro, Campus Verlag, Frankfurt a. M.) révèle toutefois une certaine déchirure. D’une part, Avraham Burg est très fier de nous dire « qu’Israël est devenu la construction étatique juive la plus puissante de tous les temps » mais, d’autre part, il craint que le fait d’avoir systématiquement dépossédé les Arabes de leurs droits menace la paix et pourrait avoir des conséquences effroyables. Il pense que les exagérations du pouvoir israélien et la démesure des agressions qu’il perpète finiront tôt ou tard par avoir des effets menaçant pour l’existence même d’Israël. Pour Burg, Israël est désormais un Etat solidement établi et puissant mais semble nier cette réalité ; Burg écrit, à ce propos : « [Israël] dissimule cette gloire derrière de perpétuelles lamentations, parce que jadis nous avons subi un holocauste. Sans cesse, à cause de la Shoah, nous voulons une armée de plus en plus performante ; nous voulons davantage de moyens, que les contribuables d’autres pays doivent nous fournir et, de plus, nous exigeons le pardon automatique pour tous nos excès. Nous voulons être hissés au-dessus de toute critique et tout cela parce qu’un Hitler a régné jadis pendant douze ans ». Burg réclame pour ses concitoyens israéliens une voie vers l’avenir plutôt qu’un regard en permanence tourné vers le passé : il veut qu’ils se décident pour un monde meilleur.  Dans certains segments du judaïsme orthodoxe, pour autant qu’ils soient liés au nationalisme israélien, notre auteur voit une menace pour la paix mondiale.

 

En Israël, une véritable « industrie de la Shoah » s’est développée et la « shoahisation » serait, d’après Burg, devenue la seconde nature des Israéliens. Là, l’ancien porte-paroles de la Knesseth reconnaît : « Je rêve de la paix et je suis prêt à payer un prix élevé pour qu’elle advienne, et j’espère ardemment que mon pays cessera un jour de fouler aux pieds toutes les valeurs pour lesquelles nous nous étions engagés lorsque nous étions une minorité persécutée ».

 

Avraham Burg plaide pour que justice soit faite au peuple allemand. L’Allemagne, nous dit-il, a vécu un véritable traumatisme national : « … à cause de l’humiliation que les puissances victorieuses de la première guerre mondiale ont infligée à l’Allemagne, un pays qui n’avait pas réussi à sortir avec succès de la compétition entre les grandes puissances impérialistes d’Europe. L’Allemagne est ainsi devenue la nation la plus blessée et le plus humiliée d’Europe ». 

Le rituel de Yad Vashem

 

Dans ce livre, qui fourmille d’informations inédites et intéressantes, nous percevons le doute angoissant de l’auteur quand il analyse la situation politique actuelle. La politique de l’Etat israélien aujourd’hui n’est certes pas responsable de l’antisémitisme mais a contribué à faire augmenter partout la haine des juifs. Burg tient pour acquis que la Shoah revêt une importance capitale dans la mémoire de la nation, mais il nie l’hégémonie qu’elle exerce sur tous les aspects de la vie quotidienne juive, et si cette hégémonie n’existait pas, les Juifs eux aussi transformeraient ce souvenir sacré, et qui devrait en tous les cas de figure demeurer sacré, en objet de moqueries sacrilèges. Plus Israël reste ancré dans le passé marqué par Auschwitz, plus il éprouvera des difficultés à s’en libérer.

 

Avraham Burg décrit ensuite l’obligation qu’ont tous à aller visiter le sanctuaire de Yad Vashem : « Nous avons là un lieu du souvenir pour toutes les victimes, pour nous tous, et tous les visiteurs doivent y venir et prendre le deuil avec nous. C’est un rituel de la nouvelle religion israélienne. Les hôtes de l’Etat atterrissent à l’aéroport Ben Gourion, se rendent rapidement à leur hôtel, pour s’y rafraîchir, pour mettre un costume noir, se nouer une cravate ou se coiffer d’une kippa de velours comme un rabbin ou un cardinal, avant qu’on les amène illico à Yad Vashem à Jérusalem. Ils prennent des mines compassées, ils sont là un bouquet à la main et ils baissent la tête. Un chantre entonne la prière pour les morts, ‘Dieu plein de miséricorde’. Ils font trois pas en arrière puis s’engouffrent à nouveau dans leurs limousines et reviennent à la réalité, l’objet de leur visite, à la politique et à la diplomatie ».

 

Plus de soixante ans après sa mort, Hitler exerce toujours une influence sur les juifs américains : « Israël joue le rôle d’un cowboy et les juifs américains lui offrent une aide stratégique, dans le mesure où ils forcent chaque gouvernement américain à soutenir Israël. Et pour cette raison, Israël soutient le gouvernement américain, s’il est à son tour soutenu par les organisations juives, qui, elles, soutiennent Israël et reçoivent en retour un soutien de l’Etat hébreu ».

Des racines allemandes et libérales

 

A l’évidence, l’auteur est issu d’une famille juive allemande et libérale. On l’aperçoit clairement à la lecture de phrases comme celle-ci : « Otto von Bismarck a été le père fondateur du IIème Reich allemand. Au début des années 70 du 19ème siècle, il a pu réaliser un rêve qu’il caressait depuis plus de vingt ans. En quelques mois, il a vaincu l’armée de Napoléon III et a fondé l’Empire allemand à Versailles en France. Par cet acte, il a hissé l’Allemagne au même rang que les autres puissances européennes. La plupart des Allemands, y compris ceux qui étaient de confession juive, ont perçu l’unification des pays allemands comme un acte de libération historique, à valeur quasi messianique ».

 

Lorsqu’Avraham Burg présenta sa future femme à son père, alors ministre de l’intérieur de l’Etat d’Israël, celui-ci se fâcha : « Comment ça ! Tu m’as dit qu’elle était française ! Mais ce n’est pas vrai, elle est des nôtres ! Elle est d’Alsace ! Bismarck nous a rendu l’Alsace et la Lorraine en 1871 ! Strasbourg nous appartient ! ».

 

La critique générale de Burg porte en fait sur la « double morale » : « Au lieu de nous conduire comme une grande puissance, lorsque nous attaquons, et comme un petit pays fragile, lorsque nous sommes attaqués ou critiqués, nous nous présentons toujours comme une superpuissance. Konrad Adenauer, le premier chancelier de l’Allemagne d’après-guerre, a dit un jour, que le judaïsme mondial était une grande puissance… Nous, les Israéliens juifs, nous sommes le noyau de la puissance juive dans le monde ».  

Les exagérations nuisent à la cause d’Israël

 

vaincrehitler.jpgAvraham Burg craint surtout les nuisances que les exagérations peuvent entrainer : « Nous avons fait de la Shoah un moyen au service du peuple juif. Nous en avons même fait une arme, qui est plus puissante que les forces armées israéliennes ».  Et, plus loin : « L’holocauste nous appartient, et tous les autres crimes du monde sont des maux normaux, ne relèvent pas d’un holocauste. Et comme ils ne relèvent pas de l’holocauste, dit le juif, ils ne me concernent pas ».

 

Ce type de parti-pris unilatéral met notre auteur en colère : « Israël et le peuple juif nient tous les autres assassinats de masse, car nous nous sommes emparé de la Shoah et nous l’avons monopolisée. Ce refus d’empathie participe du moyen que nous sommes donné : tous les autres assassinats de masse en viennent à être minimisés, nous les posons comme dépourvus de signification et nous les ignorons ». Israël, conclut Burg, doit abandonner Auschwitz. Et, pour finir : si Israël se libère de son obsession de la Shoah et de son exclusivisme, alors le monde tout entier sera plus libre.

 

(article paru dans DNZ, Munich, n°44/2009). 

vendredi, 13 novembre 2009

Cambia el eje geopolitico de Medio Oriente

Turkey_to_israel_pipes.gifCambia el eje geopolítico de Medio Oriente

Las cinco derrotas consecutivas de Estados Unidos e Israel fueron directamente de Estados Unidos en Irak y Afganistán, e indirectamente a través de su aliado Israel contra las guerrillas chiíta de Hezbolá en Líbano sur y sunnita-palestina en Gaza, así como su apuntalamiento al aventurerismo de Georgia en Osetia del Sur, donde Rusia le propinó una severa paliza, lo cual desembocó, a nuestro juicio, en el cambio dramático de la geoestrategia mundial. Asistimos a la eclosión de una nueva pentapolaridad en la región medio-oriental. A la añeja triada de Israel, sumada de dos países sunnitas árabes (Egipto y Arabia Saudita), se ha agregado ahora el renacimiento de dos añejas potencias hoy islámicas no-árabes: la sunnita-mongol Turquía y la chiíta-aria Irán.

Hechos

No son los mejores momentos de Israel ni en el Medio Oriente ni a escala global. Su fracaso en aplastar a la guerrilla palestina sunnita Hamas en Gaza (apuntalada por Irán y Siria) le ha traído graves cefaleas al fundamentalista partido hebreo Likud. La opinión pública mundial (que incluye increíblemente el pleito del primer ministro “Bibi” Netanyahu con el gobierno sueco) conoce, a través del Reporte Goldstone sobre Gaza, de la Organización de las Naciones Unidas (ONU), los “crímenes de guerra” y las exacciones y agravios de Israel en contra de la humillada población civil palestina. La Comisión de Derechos Humanos en Ginebra ha amonestado a Israel.


Cabe un paréntesis: el “México neoliberal”, en su fase aciaga calderonista, optó por la política del avestruz al no haber seguido la corriente histórica, tanto global como del restante de los países suramericanos que condenaron severamente con su voto la criminalidad israelí.

Es muy probable que la postura antihistórica de Calderón, tanto a nivel local como global, a favor de Israel (aunque haya sido mediante un voto “neutral”), probablemente se deba a su estrecha amistad con el seudohistoriador Enrique Krauze Kleinbort, el ideólogo de la extrema derecha superbélica (no hay que olvidar que ha sido expuesto como miembro del siniestro Comité del Peligro Presente: Committee on the Present Danger). Cabe destacar que la progenitora de Krauze Kleinbort, la muy respetable señora Helen Krauze, funge como publirrelacionista oficiosa de la embajada de Israel en México: una de sus tareas consiste en invitar a “comunicadores” mexicanos al Estado hebreo con todos los gastos pagados.

Siempre dijimos que el barómetro del humanismo del siglo XXI lo representa el etnocidio perpetrado en Gaza por Israel, un estigma indeleble y cuyas reverberaciones impactaron, para no decir fracturaron, el otrora sólido eje militar de Turquía e Israel.

Cabe recordar cómo el combativo primer ministro turco Recip Tayyip Erdogan censuró las exacciones y crímenes de guerra de Israel directamente a su presidente Shimon Peres, en el reciente Foro Económico Mundial de Davos.

El primer ministro turco ha sido muy severo, con justa razón, con Israel–tomando en cuenta que hasta hace poco era su principal aliado militar en la región– al increpar al Estado hebreo de haber matado deliberadamente a los niños en Gaza, lo que ha valido un programa especial en la televisora estatal en horario estelar, y que ha indignado todavía más a la población islámica turca que empieza a exigir la ruptura de relaciones con el Estado etnocida e infanticida hebreo.

Entre otras varias razones del reacomodo y el surgimiento de la nueva pentapolaridad de las medianas potencias en el Medio Oriente, Turquía ha usado el estandarte de Gaza como una de sus justificaciones para alejarse espectacularmente de Israel, que pierde así a su principal aliado islámico en el seno de la Organización del Tratado del Atlántico Norte (OTAN). No es poca cosa, ya que se trata, guste o disguste, de dos importantes fuerzas militares regionales.

En fechas recientes, Turquía no solamente se ha alejado de su antiguo aliado israelí, sino que ha emprendido en paralelo un gran acercamiento con los siguientes actores regionales que incluyen al Transcáucaso: Rusia, Irán, Siria y Armenia (además de las guerrillas de Hamas, sunnita-palestina, y Hezbolá, chiíta-libanesa: dos aliadas de Irán y Siria).

Es evidente que Turquía, gobernada por un régimen democrático islámico “moderado” (de acuerdo con la clasificación muy sesgada de los multimedia occidentales para quienes “moderado” es aquel que se somete a sus designios, y “radical”, quien los confronta), entiende perfectamente su gran calidad de “país pivote” –en la encrucijada estratégica del Mar Negro, Mar Caspio, el Trancáucaso, Asia Central y el Medio Oriente–, que le ha valido ser aceptado notablemente como mediador de varios conflictos en su periferia de parte de un buen número de países (con la excepción de Israel).

Desde luego que el alejamiento de Turquía con Israel –y por extensión, con Estados Unidos, Gran Bretaña y la zona del euro– tiene otras motivaciones anteriores a Gaza, cuando prohibió, pese a ser el único miembro islámico de la OTAN, el vuelo de los aviones de la dupla anglosajona por sus cielos para bombardear a Irak, en ese entonces gobernado por Saddam Hussein.

El “factor kurdo” ha acercado notoriamente a Turquía con Irán, Siria e Irak, quienes comparten el mismo contencioso incandescente.

No hay que perder de vista que Israel (apuntalado por Estados Unidos y Gran Bretaña) busca la secesión de la zona kurda en el norte de Irak, tan pletórica en yacimientos petroleros en la región de Kirkuk.

Sin duda, la alianza subrepticia de Israel con el norte kurdo ha jugado un papel determinante en su alejamiento gradual que ha llegado hasta cesar el entrenamiento aeronáutico de las dos potencias militares.

Ahora leamos lo que dicen los israelíes de extrema derecha como Caroline Glick, en The Jerusalem Post (15 de octubre de 2009): “Turquía, la otrora apoteosis de una democracia islámica dependiente y prooccidental, abandonó oficialmente esta semana la alianza occidental y se volcó como pleno miembro del eje iraní”.

Aquí no cuenta la exactitud de los asertos de Glick, sino su exagerada emotividad que alcanza la histeria geopolítica. Se le va a la yugular al partido islámico “AKP”, que obtuvo el control del gobierno turco desde las elecciones de 2002 con su dirigente Recip Tayyip Erdogan.

En su visión hiperbólicamente israelocéntrica, la amazona Glick aduce que Turquía ha optado por “el campo islámico radical (¡super-sic!) poblado (sic) por sus similares (sic) de Irán, Siria, Hezbolla, Al-Qaeda y Hamas”. ¿A poco cree la amazona Glick que Al-Qaeda existe? ¿No sabrá, acaso, que Al-Qaeda es un montaje hollywoodense de “Al-CIA”, como demostró excelsamente un reportaje histórico de la televisora británica BBC?

En forma perturbadora, Glick tilda de “escandalosamente imbéciles (¡super-sic!) y flagelantes” a los medios que le han dado cabida a los ataques de Turquía en contra de Israel.

Para Glick, el alejamiento de Turquía y su vuelco a favor del “eje iraní” vienen desde muy atrás: desde la prohibición del vuelo de los aviones de Estados Unidos para bombardear Irak, pasando por la recepción de los líderes de Hamas por su triunfo electoral en Gaza, hasta el paso de armas iraníes por suelo turco destinadas a Hezbolá.

Para la amazona Glick, lo intolerable llegó “con el apoyo abierto (sic) al programa de armas (sic) nucleares de Irán y su galopante comercio con Teherán y Damasco, así como su hospital a los financieros de Al-Qaeda”.

Con todo nuestro respeto a la desinformadora y deformadora Glick, pero hasta ahora nadie –mucho menos, en el seno de la Agencia Internacional de Energía Atómica de la ONU– ha podido demostrar que Irán posee “armas nucleares”, como tampoco Irak, en la etapa de Saddam Hussein, las tuvo.

El colmo para la amazona Glick llegó con “la desinvitación de la fuerza aérea israelí a los ejercicios aéreos con Turquía y la OTAN” (la operación conjunta Águila de Anatolia).

Lo más interesante radica en que Turquía se aleja de Israel, mientras se acerca, en la misma proporción, a Siria, con quien ha entablado una alianza militar que será sellada con próximos ejercicios militares conjuntos, lo que establece que Ankara ha optado por jugar el papel estratégico de pivote que le corresponde y cesar de ser un aliado indefectible de Israel que no le aporta nada en la dinámica coyuntural del “Gran Medio Oriente”.

Conclusión: en una cosa tiene razón Caroline Glick, quien se cuestiona amargamente: “¿Cómo Israel perdió a Turquía?” Amén.

Alfredo Jalife-Rahme

Extraído de Red Voltaire.

~ por LaBanderaNegra en Noviembre 3, 2009.

mardi, 03 novembre 2009

Les refus récurrents et rédhibitoires de la Turquie

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Andreas MÖLZER:

 

Les refus récurrents et rédhibitoires de la Turquie

 

C’est par des louanges exagérées que l’on a célébré récemment la signature de deux protocoles, où la Turquie déclare vouloir améliorer, en toute apparence mais en apparence seulement, ses relations avec l’Arménie. Très peu de temps après la signature de ces protocoles, le Premier Ministre turc Erdogan a émis une restriction: Ankara ne fera aucun pas en direction de sa voisine mal aimée, tant que l’Arménie ne  retire pas ses troupes du Haut-Karabakh, région montagneuse qui appartient de jure à l’Azerbaïdjan. Il appert donc que, pour la Turquie, la protection qu’elle entend offrir au peuple frère azéri est plus importante que l’entretien permanent de bonnes relations de voisinage avec l’Arménie, comme en entretiennent entre eux les peuples d’Europe. En émettant cette restriction par la voix de son Premier Ministre, la Turquie, faut-il l’ajouter, exprime une conception fondamentale: elle se profile, par la définition qu’elle se donne d’elle-même, comme un Etat non européen et comme la puissance d’avant-garde des peuples turcophones, dont l’aire de peuplement s’étend très profondément en Asie centrale.

 

Mais il y a un autre comportement de l’Etat turc qui prouve son immaturité à adhérer à l’UE; il a été soumis à débat vers la mi-octobre 2009 dans la Commission des affaires étrangères du parlement européen. La Turquie refuse toujours obstinément d’appliquer le protocole dit d’Ankara, qui prévoyait l’ouverture des ports et aéroports turcs aux navires et avions grecs-cypriotes, ce qui impliquait aussi de reconnaître  indirectement Chypre, Etat membre de l’UE. Cette situation a provoqué de nombreuses critiques au sein de la Commission des affaires étrangères du parlement européen. On sait que la question cypriote, depuis la fin de l’année 2006, a entraîné le gel de huit chapitres relatifs aux négociations quant à l’adhésion turque: les Turcs ont été invités à attendre et à reconsidérer leur attitude. Depuis lors, effectivement, Ankara n’a pas avancé d’un millimètre, attitude de refus pour laquelle il convient désormais de tirer les conséquences. Finalement, c’est la Turquie qui est demanderesse pour entrer dans l’UE et non le contraire. Par ailleurs, il n’est pas question d’accepter que la Turquie, comme elle le croit en apparence, dicte à Bruxelles ses conditions.

 

Fin octobre 2009, lors du Sommet de l’UE, nous aurons enfin la chance de rompre les négociations en vue de l’adhésion turque. C’est le chef des socialistes autrichiens et président de la république autrichienne, Faymann, qui devra agir. Avec ses amis rouges du parti socialiste, il a toujours promis aux Autrichiens qu’ils pourront décider par référendum s’ils acceptent ou non la candidature turque, une fois les négociations achevées. Une question demeure toutefois ouverte: pourquoi Faymann attendrait-il encore de  nombreuses années, alors que l’écrasante majorité de nos concitoyens autrichiens rejettent absolument l’adhésion turque?

 

Andreas MÖLZER.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°43-44/2009).

vendredi, 30 octobre 2009

The Ankara candidacy

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The Ankara candidacy

A translation by Fred Scrooby / http://majorityrights.com/  

The following article, which appeared at the end of September at Robert Steuckers’ Euro-synergies, was written by Jean-Gilles Malliarakis, a well-known commentator in radical-right circles in France.

THERE’S NO LACK OF RATIONAL ARGUMENTS FOR DRAWING CONCLUSIONS ABOUT ANKARA’S CANDIDACY

Today I close the dossier on the Turkish question, my small book, a little heavier than anticipated.

As I write this, intending to get it finished, seemingly unbeknown to the Europeans important changes are shaking up debate in Turkey itself.  Involved are probably real developments, in part.  The current majority party, AKP, and the alliance of forces which it represents, are making their moves for essentially national reasons.  But the program for reform was developed at the end of June with the candidacy for membership in the European Union explicitly in mind, with a view to making it presentable.  This was repeated by Prime Minister Erdogan and Abdullah Gül, President of Turkey. 

Thus did we see a diplomatic offensive aimed at the Armenians, promising them the future reopening of a border whose shutting has completely closed off their country.  There’s been vague talk of normalizing the status of religious minorities (the latter are so small in number, one wonders how they could possibly be a threat to touchy Turkish Jacobinism) — thus are their representatives taken hostage to use as agents of Turkish diplomacy, in the tradition of totalitarian countries.

The most important advance is said to have been proposed to the Kurds.  After the head of government had received certain Kurdish leaders, from August 25 to September 22 there is said to have been considerable antagonism between the political leaders and the Chief of Staff of the Turkish Army, General Basbug.  In August Gen. Basbug had stated that the Army could not accept, and would therefore oppose, any plan that was in violation of Article 3 of the Constitution which declared that Turkey was a single and indivisible state and its language was Turkish.  The Kemalist and nationalist opposition joined in chorus to decry government betrayal.  There could be no clearer threat of a coup d’état as has been a recurrent event in this country’s political life since the 1946 adoption of democratic pluralism.

In less than a month, and despite Ramadan, the head of government and of the AKP Party went on television to deny all rumors of genuinely radical reform, and finally on September 22 at Mardin, Gen Basbug declared he had obtained what he wanted and there was no longer cause for concern.  The officers should no longer even watch the false, depressing news being broadcast by their beautiful country’s television networks.  There would be no real linguistic or institutional concessions made to the Kurds.  The Army hadn’t even needed to take the steps it took in the winter of 1996-7 when it forced the government to resign.  The Army considered it had won, and contented itself at summer’s end with giving stern looks.

This whole affair had been part of an effort to put on a good face for the encounters in Brussels with very representative individuals like Emma Bonino, Michel Rocard and other spiritual guides who relay the propaganda of our dear friends.  The promised reforms will remain cosmetic or they won’t even materialize.  But that will be enough to make some European negotiators proclaim new “hopes,” hypothetical “expected agreements,” supposed “progress made in negotiations,” as false as in the past.

And frankly, when over a period of years one obliges oneself to follow the progress of Ankara’s candidacy for E.U. membership, one experiences real difficulty understanding the logic of those who persist.  These fishermen can call that fish all the tender names they want, they won’t succeed in getting the poor thing to swim close by them, and they’ve been trying for 20 years.  With all their lying, however, they’ll finally appear convincing, and victory will seem a good bet.

Turgut Özal submitted his dossier in 1987, almost a quarter-century after the first trade agreement in 1963.  At that time, as designated prime minister of a dictatorship, he reassured business interests and set in motion the transition to a civilian régime that would be in conformity with the conditions stipulated by the military coup d’état of September, 1980.  General Evren ran the country in his capacity as president appointed by the Army General Staff.  The aim was to normalize the appearance of political life but also the country’s international image.  At that time almost no one in Europe could really believe in this Turkish candidacy to join Europe.  In Brussels they were asking themselves, “How do we get out of this without creating ill feeling?”

Özal initiated this request at a time when the Delors Commission was preparing to take the first steps toward E.U. political construction, prolonging the economic community of the first treaties.  This evolution would bring about the European Union that was agreed on in Maastricht in 1991.  Now, Turkey was then finagling to become the thirteenth member of a community still only 12 members strong.  Today the number of countries has reached 27.  Other new applications for membership (Croatia, Iceland for example) are viewed as more likely and more prepared than that of the pillar of NATO.

To tell the truth, considering all the problems, the State Department in Washington would seem to be the only bureaucracy that has always believed — or pretended to — in this country joining Europe.  And because they’ve never paid a price for doing so, U.S. presidents have regularly repeated, when meeting with their Turkish counterparts, conventional expressions of support, to the great satisfaction of Istanbul’s media. 

But overestimating the importance of such diplomatic statements tends to mask the culpability of the idiotic European Union, because at the same time, in the halls of Brussels, the project continues quietly to advance.  It proceeds at a snail’s pace, to be sure.  It disregards all questions of likelihood, to be sure.  It wends its way in the most complete opaqueness, to be sure.  In 2007 a candidate for the French presidency got elected in part by promising to oppose Turkey’s request for membership, to be sure.  Nevertheless in 2008 a wide-ranging constitutional reform, passed at Versailles, allowed the suppression, without informing the citizens, of the stipulations introduced by the short-lived Article 88-5.  That article had been touted as the supreme guarantee against unpopular expansion of the E.U.  According to the old 1958 amendment to the Constitution, any treaty of this kind must be submitted for ratification to the French people in the form of a referendum.  But alas, nothing guaranteed the guarantee!  It was deep-sixed a year after the election victory. 

In addition, “topics for negotiation” keep opening one by one, like a chocolate bar nibbled bit by bit before disappearing:  35 topics, then ratification.  Has anyone ever seen a thing so extraordinary as a last piece of chocolate, the 36th, remaining stoically, chastely uneaten, abandoned in its foil wrapper, after 35 of its mates have vanished? 

What they’re going to try to do, then, is use force to overcome the natural resistance of systems of law, of politicians, and of citizens, for imaginary geo-strategic motives dreamed up in sterilized bureaus totally cut off from every flesh-and-blood European reality.  Then they’re going to hand down their orders of the day through all their footsoldiers of the politically correct world.

Every one of us has encountered one of these fine thinkers.  Though docile, they believe in their unproven but peremptory astrology as firmly as a steel trap, as if it’s been handed down since Antiquity thanks to the Wise Men of Chaldea or Ancient Persia.  They press us to bypass a stage they themselves have doubtless never even reached, that of possessing a national, ethno-racial, or European consciousness; to hear them talk, “we must look higher and further into the future of humanity than that.” The weight of Geography means nothing to them.  The Tragedy of History escapes them.  All that matters is their desire to seem intelligent, and if that illusion proves impossible they want at least to be in step with the latest fashion. 

Now, the idea of considering Turks Europeans would rather merit standing out for its ineptitude, its contradiction, and even, when you get down to it, its ridiculousness. 

We can cite the rational arguments one by one.  There’s no lack of them. […]

Let’s summarize them, to serve as sort of a spark:

1) Geographic argument: This country is simply not situated in Europe.  It therefore has no more reason for participating in the confederation of our continent than France’s possession of French Guiana has to make France part of South America.

2) Memorial argument: Rationally one will doubtless admit that, even if the leaders in Ankara agreed to recognize the Armenian Genocide, that still wouldn’t move the seat of their government from Asia to Europe.  But that this state obstinately denies the crimes committed by its 1915 predecessor because they involved the Young Turk government and the Ottoman Empire speaks volumes about the difference in mentality between the present-day government of this country and those of the nations of Europe.

3) Linguistic argument: Turkish isn’t a European language.  The culture it represents comes from Central Asia, mixed over the course of history with influences from other Oriental cultures, Persian and Arabic.

4) Social violence argument: Turkish society is based on the permanent acceptance of a violence from which Europe has been free for several centuries.

5) Justice system argument: Several times since the XIXth Century, first the Ottoman Empire then the Kemalist Republic have sought to import “on paper” the West’s judicial principles and practice.  But the legal system there is very far from having transformed itself.  A number of laws considerably hinder freedom of expression, private property rights, etc.  The importation of 85,000 pages of E.U. rules and regulations will prove inapplicable and illusory.

6) Economy argument: The overlapping of national economies is something we often hear invoked.  In reality the decisive step, taken in 1993 under pressure from the president of France with influence coming from Messrs. Balladur and Juppé, compelling the European Parliament to ratify the Customs Union, created a paradoxical situation.  Serving as an industrial sub-contractor for Europe is helping develop Turkey’s economy based on the fact that Turkey is not a member of the Eurozone or subject to regulation by Brussels.  It’s the same with some other developing countries:  China is in a comparable situation.  This form of economic cooperation rules out any judicial, monetary, social, or political integration. 

7) Cost argument: The agricultural politics and all the subsidies and varieties of redistribution which Europe practices couldn’t be adapted to this immense country, Turkey, with its considerable needs, in less than decades given present community budgets, without drastic modification of the financing capabilities of Brussels.  It will be noted, for example, that Turkey’s gross fixed capital formation is barely greater than that of Greece which has one-seventh the population.  Europe still must make great changes before it will be able to completely integrate countries of the East.  Who is going to pay?

8) Historic argument: Certainly most European nations have been in conflict with or alliances against one another.  The only common enemy of Europeans since the XVth Century has been Turkey.  Never has a Turkish princess married a single European king.

9) Argument of criminal realities: Though it never in the past sent Europe its princesses, this country sends Europe its mafiosi, its drug traffickers, its illegal immigration networks, its huge counterfeiting of our product brands, etc.  That’s called being “a great, friendly nation.”

10) Argument of European homogeneity: Clearly, this intrusion would rupture all perspective on creating a European society, all natural evolution of the European Union toward confederation first, then federation.  One understands better why advocates of “A Europe of States,” called “intergovernmental,” who are passionate opponents of any federalism because they are opponents of Europe, push this candidacy.  [Scroob note:  I don’t see how this is true:  plenty of opponents of European integration whether “federal” or “confederal” oppose Turkey’s addmission to the E.U.  He’s got this wrong.]

11) Argument of the size and power of institutions: Inserted in democratic Europe, Turkey would become, thanks to its population alone, the principal state, it would have the most European Parliament members, etc. 

12) Democratic argument: The people don’t want it.  That should suffice for our rulers.

Finally, an argument that must be considered separately is that of Europe’s Christian roots.  The faithful of the various Churches are legitimately concerned, and this has been mentioned by John Paul II and Benedict XVI.  This can’t just be ignored.  One can also state that there are European roots of Christianity:  Plato influenced the Church Fathers; Aristotle can be found in St. Thomas Aquinas; etc., manifesting as a mutual impregnation of the two realities.  But one also sees this invoked especially a contrario by those who claim they “don’t want to offend Moslems,” who want to “keep Europe from being a Christian club.” But strictly no one has ever proposed such a thing.  One wonders finally whether their argument consists in considering the real reason, the best justification for this exotic country’s entering the European Family, to be the fact that it’s never been part if it.  One wonders if it’s a question of wanting more than anything this country’s entry, of supporting contrary to all reason this burdensome candidacy, precisely because it is Moslem.

Biographical Note

Jean-Gilles Malliarakis was born in Paris in 1944, son of a well-known French artist of Greek and French extraction.  At one time a member of the movement “Occident,” which he left in 1967, he founded his own movement, ”l’Action nationaliste”, when he was a student at l’Institut d’Études Politiques in Paris.  In 1976 Malliarakis bought a Paris publisher and bookstore, La Librairie française, which became a meeting place in Paris for activists of what today’s controlled media refer to as the political “far-right” (but which is, of course, merely the political center seeking to re-establish sanity, and opposed by an entrenched extreme-left-radical fringe which has usurped hegemony and now masquerades as the “center”).  Very interested in economic questions, Malliarakis was at the time a critic of liberalism and planned to found an organization devoted to the analysis of economic theory and economic reality (S.P.A.R.T.E), but this project was not realized.  He was director of several organisations:  the ”Mouvement nationaliste révolutionnaire” (MNR), then ”Troisième Voie”, a movement opposed to both capitalism and communism.  Following 1991’s eruption of the Third Way onto the scene, he collaborated with Christian Poucet, president of ”CDCA Européen” (European Federation for the Protection of Small Businessmen, Tradesmen, and Artisans), until Poucet’s still unsolved 2001 murder.  Long considering himself a “neofascist” and admirer of Mussolini, Malliarakis evolved over the years toward classical liberalism.  Closing his bookstore, he became the director of a small publishing house, ”les Éditions du Trident,” and concerned himself with political and economic commentary.  Every other week he was host of the program ”Libre Journal” on Radio Courtoisie in Paris, until he left this position in 2007 as a result of disagreements with the station’s new directors.  He began doing internet audio commentary, called Lumière 101, that same year.

Jean-Gilles Malliarakis is the author of several books.

jeudi, 22 octobre 2009

Serie televisiva turca provoca fuerte tension entre Turquia e Israel

Serie televisiva turca provoca fuerte tensión entre Turquía e Israel

Una serie de televisión turca que muestra matanzas de niños palestinos por el ejército israelí generó una fuerte tensión entre Israel y Turquía, a pesar de que ambos países mantienen una alianza estratégica en la región.

La primera cadena de la televisión pública turca TRT 1 difundió el martes, a una hora de gran audiencia, un episodio de una serie que desató la ira del ministro de Relaciones Exteriores israelí, Avigdor Lieberman, y malestar en el primer ministro Benjamin Netanyahu. Lieberman decidió al día siguiente convocar al encargado de negocios turco en Tel Aviv, en ausencia del nuevo embajador, que aún no ha asumido sus funciones.

“Israel no puede aceptar incitaciones al odio contra su Estado y sus soldados. Incitaciones que pueden desembocar en atentados contra los numerosos turistas judíos e israelíes que viajan a Turquía”, declaró el jueves, tras esta audiencia, un responsable del ministerio de Relaciones Exteriores israelí, Naor Gilaon.


Por su parte, Netanyahu declaró a los periodistas: “Nos sentimos también molestos, es lo menos que se puede decir, por lo que hemos visto estos últimos tiempos de parte de Turquía”. “Esto plantea la pregunta: ¿qué dirección toma la política de Turquía, esperamos que sea hacia la consolidación de la paz, no de los extremismos”, añadió.

En el episodio de la serie se ve a niños palestinos que tiran piedras contra soldados israelíes, que responden con tiros, matando a varios de ellos, entre ellos cuales una niñita que sonríe antes de su último suspiro. También muestra a soldados israelíes cuando matan a un recién nacido en los brazos de su padre, poco después de su nacimiento en un edificio en ruinas, debido a que la pareja no pudo trasladarse a un hospital.

La audiencia de la serie es por el momento marginal: ocupa el puesto 97º en el ránking de programas.

El periodista islamista Hakan Albayrak, consejero de los productores de la serie, defendió su contenido. “¿Por qué las escenas de matanzas serían exageradas? ¿No se puede hablar de un Estado que cometió matanzas?”, preguntó Albayrak.

Este incidente diplomático se suma a otro ocurrido la semana pasada en el ámbito militar. De forma inesperada, Turquía anuló las maniobras aéreas que debía llevar a cabo con la aviación israelí, a pesar del acuerdo de cooperación militar firmado con Israel en 1996. Una decisión que fue condenada por Israel y Estados Unidos.

Las relaciones entre los dos países comenzaron a degradarse en el invierno pasado, cuando el primer ministro turco, Recep Tayyip Erdogan, criticó a Israel por su comportamiento durante la ofensiva militar contra la Franja de Gaza.

Turquía “no recibe instrucciones” de Israel, declaró el jueves Erdogan, que dirige desde 2002 un gobierno islamista conservador.

El miércoles, Erdogan, había declarado a una televisión árabe que las maniobras con Israel habían sido anuladas para respetar la voluntad del pueblo turco, “que no quiere más cosas de ese estilo”.

La diplomacia de ambos países se esfuerza por calmar los ánimos. “Hay un efecto bola de nieve, en las declaraciones de unos y otros. Pero los dirigentes de ambos países saben que la estructura de las relaciones bilaterales es fuerte”, señaló a la AFP un diplomático turco de alto rango. “Incluso entre amigos muy cercanos pueden aparecer diferencias”, dijo por su parte Gaby Levy, embajador de Israel en Ankara.

Burak Akinci

Extraído de AFP.

00:24 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : turquie, israël, proche orient, moyen orient, méditerranée | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

mercredi, 21 octobre 2009

Le nouveau rôle de la Turquie

610x.jpgLe nouveau rôle de la Turquie

 

Commentant les récentes négociations turco-arméniennes, menées sous l’oeil vigilant d’Hillary Clinton, le journaliste Stephen Kinzer écrit dans les colonnes de l’”International Herald Tribune”: “Depuis près de 86 ans qu’elle existe telle quelle en tant qu’Etat, la Turquie avait gardé un profil bas dans le monde. Ces jours-là sont finis. Maintenant, la Turquie cherche à jouer un rôle régional très ambitieux en tant que puissance conciliatrice, s’efforçant d’établir partout la paix. Lorsque les officiels turcs débarquent dans des pays cruellement divisés comme le Liban, l’Afghanistan ou le Pakistan, chaque faction cherche fébrilement à engager un dialogue avec eux. Il n’y a pas un pays au monde dont les diplomates sont autant les bienvenus, que ce soit à Téhéran ou à Jérusalem, à Moscou ou à Tbilissi, à Damas ou au Caire. En tant que pays musulman intimement lié à la région qui l’entoure , la Turquie peut se présenter partout, amorcer des partenariats et conclure des accords que ne peuvent conclure les Etats-Unis”.

 

Plus sceptique dans la suite de son article, Kinzer rappelle tout de même les défauts à la cuirasse turque: Chypre, le problème kurde, les persécutions larvées de toutes les minorités religieuses, chrétiennes ou non sunnites.

 

Kinzer: “Dans d’autres circonstances, l’Egypte, le Pakistan ou l’Iran auraient pu émerger en tant que leaders du monde islamique. Leurs sociétés, toutefois, sont faibles, fragmentées voire en voie de décomposition. L’Indonésie ferait un candidat hegemon plus plausible mais elle n’a aucune tradition historique en matière de leadership et est très éloignée du centre de la zone de crise du monde musulman. Reste donc la Turquie. Elle essaie de prendre ce rôle d’hegemon”.

 

Kinzer parle très  certainement le langage de Washington, qui a un besoin urgent de “proxy”, de mandataire, dans la région. Les accords turco-arméniens vont dans le sens des intérêts pétroliers américains. La Turquie a donc bien joué son rôle dans le Caucase-Sud. Et pour qu’elle continue à bien pouvoir le jouer, il faut créer artificiellement des diversions, des faux conflits où le “politiquement correct” est apparemment écorné, où l’idéologie officielle de l’Occident est  bafouée. D’où les incidents avec Israël à propos des manoeuvres aériennes et d’une série télévisée turque présentant Tsahal sous un jour fort glauque. Ces artifices servent, avec le néo-islamisme/néo-ottomanisme d’Erdogan et de Davutoglu, de leurres pour appâter les Arabes.

 

‘Source: Stephen KINZER, “A new role for Turkey”, in: “International Herald Tribune”, Oct. 16, 2009).

jeudi, 15 octobre 2009

Tres millones de italianos en la pobreza

733662.jpgTres millones de italianos en la pobreza

El 4,4% de las familias pasa hambre

El 4,4% de las familias residentes Italia, lo que equivale a unos tres millones de personas, viven por debajo del límite de pobreza alimentaria, según una investigación llevado a cabo por la Fondazione per la Sussidarieta, la Universidad Católica de Milán y la Universidad de Milán-Bicocca.

El parámetro utilizado para fijar el límite de la pobreza alimentaria ha sido fijado en 222,29 euros de gasto mensual en comida y bebida por familia, teniendo en cuenta las variaciones regionales en el costo de la vida: 233-252 euros en el Norte, 207-233 en el Centro y 196-207 en el Sur del país.

En base a este estudio, fue trazado un retrato-promedio de las familias italianas que tienen dificultades en comprar productos alimentarios básicos, como el pan, la pasta o la carne.


Los más pobres en Italia, afirma la investigación son familias numerosas que viven en el Sur del país, cuyos miembros no tienen trabajo y disponen de un nivel bajo de instrucción.

La causa principal del descenso por debajo del límite de la pobreza alimentaria es el desempleo (60% de los casos), dato confirmado por la diferencia en la incidencia de la tasa de pobreza entre quien tiene un trabajo (3,4%) y quien no (12,4%).

El segundo factor crucial es la extensión del núcleo familiar: la pobreza alimentaria afecta sólo el 1,7% de los solteros que viven solos, y el 10,3% de las familias que tienen por lo menos tres hijos. Los ancianos que viven solos se sitúan en el promedio nacional (4,5%).

El estudio confirma asimismo la fuerte diferencia entre las regiones más ricas y más pobres de Italia: en Sicilia y Cerdeña más del 10% de la población se encuentra debajo del límite de la pobreza alimentaria, mientras en regiones como Toscana, Liguria, Veneto y Alto Adigio la tasa desciende por debajo del 3%.

Extraído de Argenpress.

mercredi, 30 septembre 2009

Les arguments rationnels ne manquent pas - Pour conclure à propos de la candidature d'Ankara

Les arguments rationnels ne manquent pas

Pour conclure à propos de la candidature d'Ankara

090925

Ex: http://www.insolent.fr/
Je boucle aujourd'hui le dossier consacré à la question turque, mon petit livre paraissant la semaine prochaine, un peu plus lourd que prévu (1).

Au moment où j'écris, en vue de conclure, d'importantes transformations agitent le débat politique en Turquie même, sans que les Européens semblent en recevoir l'information. Il s'agira probablement d'évolutions en partie réelles. Le parti actuellement majoritaire AKP, et les forces confrériques qu'il représente, poussent leurs pions pour des raisons essentiellement nationales. Mais le courant de réforme a explicitement été développé fin juin en fonction de la candidature à l'Union européenne, en vue de la rendre présentable. Cela a été répété par le premier ministre Erdogan et par le président de la république Abdullah Gül.

On a ainsi assisté à une offensive diplomatique en direction des Arméniens, en leur promettant à terme la réouverture d'une frontière dont le blocage enclave complètement leur pays. On a vaguement ouvert la porte à une normalisation du statut de minorités religieuses. Or ces dernières se trouvent numériquement si affaiblies qu'on se demande désormais quelle menace elles pourraient bien représenter encore pour l'ombrageux jacobinisme turc. On prend ainsi en otage leurs représentants afin d'en faire des agents de la diplomatie turque, dans la tradition des pays totalitaires.

La plus importante avancée serait proposée aux Kurdes. Or, après que le chef du gouvernement ait reçu certains dirigeants de leur contestation, une passe d'armes considérable aura opposé entre le 25 août et le 22 septembre, les dirigeants politiques et le chef d'État-Major des forces armées turques, le général Basbug. Celui-ci avait déclaré en août que l'armée ne pourrait accepter et que par conséquent elle s'opposerait à tout plan violant l'article 3 de la constitution lequel dispose 1° que la Turquie est un État unitaire et indivisible, et 2° que sa langue est le turc. Les opposants kémalistes et nationalistes faisaient chorus et criaient à la trahison gouvernementale. On ne pouvait menacer plus nettement d'une hypothèse de putsch récurrente dans la vie politique de ce pays depuis qu'en 1946 il a adopté le pluralisme démocratique.

En moins d'un mois, et malgré le ramadan, le chef du gouvernement et du parti AKP est intervenu à la télévision pour démentir toute rumeur de réforme vraiment radicale, et enfin le 22 septembre à Mardin le général Basbug pouvait déclarer désormais qu'il avait obtenu satisfaction, et qu'il ne fallait plus s'inquiéter. Il ne fallait même plus que les officiers regardent les fausses nouvelles déprimantes annoncées par les chaînes de télévision de leur beau pays. Aucune vraie concession linguistique ou institutionnelle ne sera faite aux Kurdes. L'armée n'a même pas eu besoin de faire la démarche de l'hiver 1996-1997, où elle avait forcé le gouvernement à la démission. Elle pense avoir obtenu gain de cause en se contentant de froncer les sourcils à la fin de l'été.

Toute cette affaire était donc destinée à ménager les apparences auprès des interlocuteurs de Bruxelles, aux gens si représentatifs comme Emma Bonino, Michel Rocard et autres directeurs de conscience qui relayent la propagande de nos chers amis. Les réformes promises demeureront cosmétiques ou elles ne verront même pas le jour. Mais cela suffira à quelques médiats européens de saluer de nouveaux "espoirs", d'hypothétiques "accords en vue", de prétendus "progrès dans la négociation" aussi fallacieux que par le passé.

Et, à vrai dire, quand on s'efforce, depuis des années, de suivre l'avancée de la candidature d'Ankara auprès de l'Europe institutionnelle, on éprouve une véritable difficulté s'agissant de comprendre la logique de ceux qui s'y acharnent. Ils peuvent appeler cette carpe lapin, ils ne parviennent pas à faire courir devant nos yeux ce malheureux poisson, et cela dure depuis 20 ans. À force de mentir cependant ils finissent petit à petit par persuader à la partie bienveillante de l'opinion qu'il courra. Bientôt on pariera sur sa victoire.

Turgut Özal a déposé son dossier en 1987 près d'un quart de siècle après le premier accord d'association commerciale de 1963. À cette époque, premier ministre désigné par une dictature il rassurait les milieux d'affaires, et il mettait en place la transition vers un régime civil conforme aux desiderata du coup d'État militaire de septembre 1980. Le général Evren dirigeait le pays en qualité de président de la république désigné par l'Etat-Major de l'armée. Il s'agissait de normaliser l'apparence de la vie politique mais également l'image internationale du pays. À cette candidature pratiquement personne, en Europe, ne pouvait croire vraiment. On s'interrogeait alors à Bruxelles : « comment éluder sans vexer ». Il initiait cette demande alors que la commission Delors s'employait à franchir une première étape en direction de la construction politique, prolongeant la communauté économique des premiers traités. Cette évolution allait donner naissance à l'Union européenne scellée en 1991 à Maastricht. Or à l'époque la Turquie briguait le 13e siège d'une communauté ne comptant encore que 12 membres. Aujourd'hui nous avons atteint le nombre de 27 nations. D'autres nouvelles adhésions se profilent (Croatie, Islande par exemple) plus vraisemblables, plus mûres que celle de ce pilier de l'OTAN.

À vrai dire, survolant les problèmes, le Département d'État de Washington semble la seule bureaucratie qui ait toujours cru, ou fait semblant de croire, à l'appartenance européenne de ce pays. Et comme cela n'a jamais rien coûté aux présidents américains, ils réitèrent régulièrement, quand ils rencontrent leurs homologues turcs, l'expression conventionnelle de leur opinion favorable, à la grande satisfaction des médiats d'Istanbul. Surestimer cependant le poids de telles déclarations diplomatiques tendrait à masquer les responsabilités de la sottise européenne.

Car, en même temps, subrepticement, dans les coulisses bruxelloises, le dossier technique continue d'avancer. Certes il suit un rythme de tortue. Certes il fait bon marché de toute vraisemblance. Certes il chemine dans la plus totale opacité. Certes en 2007 un candidat à la présidence de la république française a pu se faire élire en promettant de s'opposer à cette avancée turque. Pourtant en 2008, une réforme constitutionnelle fourre-tout, votée à Versailles, a permis de supprimer sans que les citoyens n'y prennent garde les dispositions introduites par l'éphémère article 88-5. Celui-ci avait été présenté comme la garantie suprême contre toute hypothèse d'un élargissement non voulu. Selon cet ancien additif à la constitution de 1958, tout traité de cette nature devait être soumis à un référendum de ratification par les Français. Mais hélas rien ne garantissait cette garantie. On la fit passer à la trappe un an après la victoire électorale.

Parallèlement encore, l'un après l'autre s'ouvrent des "chapitres" de négociations comme une tablette de chocolat, grignotée carré par carré, avant de disparaître : 35 chapitres, puis la ratification. Quand donc a-t-on vu une chose aussi extraordinaire qu'un dernier morceau de chocolat, le 36e, demeurer stoïquement et chastement, immangé, esseulé, dans son écrin de papier argenté, après que ses 35 confrères aient disparu ?

On va donc chercher à forcer la résistance naturelle des systèmes de droit, des hommes politiques et des citoyens pour des motifs géostratégiques chimériques inventés dans des bureaux aseptisés, entièrement coupés de toute réalité européenne charnelle. On va faire propager ces mots d'ordre par tous les serre-files habituels du politiquement correct.

Chacun d'entre nous a pu rencontrer tel ou tel de ces bons esprits. Dociles, ils croient dur comme fer à leur astrologie indémontrée mais péremptoire, car transmise depuis l'Antiquité grâce aux mages de la Chaldée ou de la Perse. Ils nous invitent à dépasser le stade, qu'eux-mêmes n'ont sans doute jamais atteint, celui la conscience nationale, identitaire ou européenne ; à les entendre, il faudrait voir plus haut et plus loin dans le devenir de l'humanité. La lourdeur de la géographie leur indiffère. La tragédie de l'Histoire leur échappe. Seul compte leur désir de paraître intelligents, et si cette illusion se révèle impossible, ils se voudront au moins dans le vent.

Or l'idée de prétendre les Turcs européens mériterait plutôt de se voir noter pour son ineptie, pour sa contradiction, et même, au fond, pour sa cocasserie.

On peut égrener des arguments rationnels. Ils ne manquent pas.

On les retrouvera tout au long du petit volume qui sort de presse ces jours-ci.

Essayons de les résumer pour constituer une sorte de fil conducteur.

1° Argument géographique. Ce pays ne se situe tout simplement pas en Europe. Il n'a donc pas plus vocation à participer à la confédération de notre continent que la possession du département français de la Guyane ne situe l'Hexagone en Amérique.

2° Argument mémoriel. Rationnellement, on professera sans doute que, si même les dirigeants d'Ankara consentaient de reconnaître le génocide arménien, cela ne déplacerait pas d'Asie en Europe le siège de leur gouvernement. Mais le seul fait que cet État s'obstine à nier les crimes commis par son prédécesseur de 1915, puisqu'il s'agissait du gouvernement jeune-turc et de l'empire ottoman, en dit long sur la différence de mentalité des gouvernants actuels de ce pays et ceux des nations d'Europe.

3° Argument linguistique. La langue turque n'est pas européenne. La culture à laquelle elle renvoie vient d'Asie centrale, mêlée au cours de l'Histoire aux apports d'autres cultures de l'orient, persanes et arabes.

4° Argument de la violence sociale. La société turque est fondée sur l'acceptation permanente d'une violence dont l'Europe s'est affranchie depuis plusieurs siècles.

5° Argument du système juridique. À plusieurs reprises, depuis le XIXe siècle, l'Empire ottoman d'abord, puis la république kémaliste ont cherché à importer sur le papier les pratiques et les principes juridiques de l'occident. Mais l'état de droit est fort loin de s'être vraiment acclimaté. Un certain nombre d'interdictions pèsent de manière redoutable sur la liberté d'expression, sur le droit de propriété, etc. L'importation des 85 000 pages de la réglementation européenne se révélerait inapplicable et illusoire.

6° Argument de l'économie. On invoque bien souvent l'imbrication des économies. En réalité, le pas décisif, franchi sous l'impulsion de la présidence français en 1993, et sous l'influence de MM. Balladur et Juppé, forçant le parlement européen à ratifier l'Union douanière, a créé une situation paradoxale. La sous-traitance industrielle développe l'économie turque sur la base du fait qu'elle n'est tributaire ni de la zone euro ni de la réglementation bruxelloise. Il en va de même avec d'autres pays émergents, on peut comparer cette situation avec celle de la Chine : cette forme de coopération économique exclut toute intégration juridique, monétaire, sociale et politique.

7° Argument du coût. La politique agricole et toutes les subventions et redistributions que l'Europe pratique ne sauraient mettre aux normes avant des décennies, à partir des budgets communautaires actuels, sans une modification radicale du pouvoir de financement de Bruxelles, cet immense pays aux besoins considérables. On notera par exemple que la formation brute de capital fixe y est à peine supérieure à celle de la Grèce, sept fois moins peuplée. L'Europe a encore de gros efforts à accomplir pour intégrer complètement les pays de l'est. Qui payera ?

8° Argument historique. Certes la plupart des nations européennes ont été en conflit, et alliées, les unes contre les autres, alternativement. Le seul ennemi commun des Européens depuis le XVe siècle a été la Turquie. On ne connaît pas les princesses turques ayant épousé un seul de nos rois.

9° Argument des réalités criminelles. À défaut de nous avoir donné ses princesses par le passé, ce pays nous expédie ses mafieux, ses trafics de drogue, ses réseaux d'immigration clandestine, ses énormes contrefaçons de nos marques, etc. On appelle cela un "grand pays ami".

10° Argument de l'homogénéité européenne. Bien évidemment cette irruption romprait toute perspective de constitution d'une société européenne, toute l'évolution naturelle de l'union vers la confédération, puis de celle-ci vers la fédération. On comprend mieux pourquoi les partisans de l'Europe des États, dite "intergouvernementale", adversaires forcenés de tout fédéralisme parce qu'adversaires de l'Europe, poussent cette candidature.

11° Argument de la taille et du poids dans les institutions. Insérée dans une Europe démocratique, la Turquie deviendrait, du seul fait de sa population, le principal État, elle compterait le plus grand nombre d'eurodéputés, etc.

12° Argument démocratique : les peuples n'en veulent pas. Cela devrait suffire à nos gouvernants.

Enfin, on doit mettre à part le contre argument des racines chrétiennes de l'Europe. Il préoccupe légitimement les croyants des diverses Églises et qui a été mentionné par Jean-Paul II et Benoît XVI ne peut pas être passé à la trappe. On peut constater qu'il existe aussi des racines européennes dans le christianisme, que Platon se retrouve chez les Pères de l'Église, qu'Aristote se retrouve dans saint Thomas d'Aquin, etc. manifestant une imprégnation réciproque des deux réalités. Mais on constate aussi qu'il est surtout invoqué "a contrario" par ceux qui prétendent "ne pas vouloir blesser les musulmans", qui veulent "empêcher que l'Europe soit un club chrétien". Mais précisément personne n'a jamais proposé rien de tel. On finit par se demander si l'argument ne consiste pas à considérer que la vraie raison, le meilleur titre de ce pays exotique à entrer dans la famille européenne viendrait de ce qu'il n'en a jamais fait partie. Il s'agirait de vouloir à tout prix le faire entrer, de soutenir, contre toute raison, cette encombrante candidature, parce qu'il est musulman.

Apostilles
  1. Notre "Cahier de l'Insolent" consacré à "La Question Turque" paraîtra avec quelques jours de retard, début octobre pour tenir compte débats importants ces jours-ci en Turquie. Il formera un petit livre finalement plus épais, de 164 pages, et coûtera en librairie 15 euros à l'unité après parution. Conçu comme un outil argumentaire, contenant une documentation, des informations et des réflexions largement inédites en France, vous pouvez le commander à l'avance, au prix franco de port de 8 euros pour un exemplaire, 35 euros pour la diffusion de 5 exemplaires (maintenu jusqu'au 1er octobre). Règlement par chèque à l'ordre de "l'Insolent" correspondance : 39 rue du Cherche Midi 75006 Paris.
JG Malliarakis

samedi, 29 août 2009

Turquie: l'affrontement entre islamistes et laïcistes

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Andreas MÖLZER:

 

 

Turquie: l’affrontement entre islamistes et laïcistes

 

Fin juillet 2009, deux anciens généraux, très haut placés dans la hiérarchie militaire, quelques journalistes et quelques hommes d’affaires comparaissent devant le tribunal en Turquie. Le procureur général de la République leur reproche d’être membres d’une société secrète de droite, l’Ergenekon, et d’avoir, à ce titre, comploté contre le premier ministre islamiste Erdogan. Outre ce procès, qui vient de  commencer, d’autres procédures judiciaires sont en cours contre de présumés membres de l’Ergenekon, qui ont tous, à un moment ou un autre de leur existence, occupé des positions influentes au sein de l’Etat turc.

 

Ces procédures judiciaires n’ont pas pour objectif de vérifier si oui ou non les accusés ont réellement comploté contre Erdogan. Il s’agit plutôt d’un épisode supplémentaire dans la lutte qui oppose en Turquie les islamistes aux laïcistes. Cela démontre que la Turquie est profondément divisée entre ces deux camps. Dans les cercles laïcistes turcs, on entend apparemment résister à outrance aux mesures d’islamisation préconisées par le gouvernement d’Erdogan. Une petite étincelle suffirait pour faire exploser le baril de poudre. Les procès contre l’Ergenekon recouvrent la Turquie d’un nuage sombre, alors que les fanatiques de l’élargissement, qui pontifient à Bruxelles, veulent faire adhérer ce pays d’Asie Mineure à l’UE sans délais ni débats. Erdogan n’a pas pu balayer le soupçon qui pèse sur lui: ces procès n’ont pas tant pour objectif de poursuivre des comploteurs présumés mais bien plutôt, comme le pensent bon nombre d’observateurs turcs, de faire taire des voix critiques dérangeantes. En effet, c’est un secret de polichinelle à Ankara que le chef du gouvernement entretient des relations plutôt conflictuelles avec l’opposition laïque.

 

Par ailleurs, la position extraordinairement forte qu’occupent les forces armées dans l’appareil de l’Etat en Turquie démontre clairement que ce pays ne fait pas partie de l’Europe, n’en possède pas la culture politique. Si le soupçon des juges se confirmait, si, de fait, des militaires de haut rang et des personnalités importantes issues des sphères politique et économique considéraient que le putsch était un moyen comme un autre de modifier la donne politique, alors les choses seraient claires: on verrait enfin que la Turquie demeure ancrée dans les traditions et les modes de pensée de l’Orient. Ensuite, le silence de l’UE face aux événements d’Ankara est totalement incompréhensible. La Turquie, tout simplement, n’est pas un pays européen et ne le deviendra pas. Voilà pourquoi il faut abandonner toutes les négociations visant son adhésion à l’UE, dès aujourd’hui, sans attendre demain.

 

Andreas MÖLZER.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°31-32/2009; trad. franç.: Robert Steuckers).