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jeudi, 05 novembre 2009

Eurasia: Continente autarchico!

eurasia_1860.jpgArchives - 2004

Eurasia: Continente autarchico!

Che l’Eurasia possa divenire un continente autarchico non è un’utopia, ma lo confermano i freddi dati economici; per scongiurare tale eventualità, che metterebbe la parola fine alla globalizzazione capitalistica, i moloch del libero mercato stanno correndo ai ripari.

Peraltro, l’Eurasia è l’unico blocco potenziale che negli ultimi 25 anni abbia ridotto i consumi di petrolio a vantaggio di altre fonti energetiche, idrogeno, energia solare … e con il protocollo di Kyoto abbia almeno ipotizzato la possibilità di uno sviluppo economico alternativo.

Analizzando le stime accertate per quanto riguarda le riserve di greggio, gas naturale e carbone, possiamo facilmente comprendere gli scopi delle guerre statunitensi contro Afghanistan e Iraq: un disperato tentativo di accaparrarsi immensi giacimenti di materie prime, evitare un declino ormai irreversibile e mantenere uno stile di vita insostenibile (36,1% di emissioni di anidride carbonica nel mondo, a fronte di una popolazione del 4% circa dell’intero pianeta).

 

Ma lasciamo parlare le cifre. (1)

Il 65,4% delle riserve petrolifere accertate alla fine del 2002 si trovano in Medio Oriente, il 9,4% in Sudamerica e solo il 4,8% in America settentrionale; 8 milioni di barili di greggio vengono estratti ogni giorno in Arabia Saudita, 7,8 in Russia, 5,8 negli USA, 3,5 in Iran, 3,3 in Cina, 3,05 in Messico.

 

* Riserve di greggio (accertate al 2002 in miliardi di barili):

Asia del Pacifico: 38,7

Nord America: 49,9

Africa: 97,5

Eurasia: 97,5

Sud e Centro America: 98,6

Medio Oriente: 685,6

 

* Giacimenti di gas naturale (accertati al 2002, in migliaia di miliardi di m3):

Sud e Centro America: 7,08

Nord America: 7,15

Africa: 11,84

Asia del Pacifico: 12,61

Medio Oriente: 56,06

Eurasia: 61,04

 

* Disponibilità di carbone (accertate al 2002 in miliardi di tonnellate)

Medio Oriente: 1,7

Sud e Centro America: 21,8

Africa: 55,4

Nord America: 257,8

Asia del Pacifico: 292,5

Eurasia: 355,4

 

Ricapitolando, l’Eurasia possiede il doppio delle riserve di greggio degli Stati Uniti (la cui supremazia è ancora schiacciantemente detenuta dal Medio Oriente), è superiore di nove volte per quanto riguarda i giacimenti di gas naturale rispetto a quelli nordamericani e ha disponibilità di carbone per oltre 1/3 maggiore.

Teniamo inoltre presente che -in base agli scenari individuati dai ricercatori della multinazionale Royal Dutch Shell- si assisterà nei prossimi anni a una vera e propria corsa verso il gas naturale -risorsa della quale la Russia è ricchissima-; entro il 2010, esso sostituirà il carbone (che oggi costituisce il 24% della produzione d’energia primaria nel mondo), entro il 2020 il petrolio (ora al 35%).

Se teniamo presente la disponibilità manifestata da vari paesi arabi di vendere il proprio petrolio in euro (Iraq -poi aggredito- Libia, ma anche paesi dell’OPEC e Russia), riusciamo a immaginare facilmente perché oggi gli Stati Uniti stiano giocando allo «scontro di civiltà» e di quale portata sia il tradimento operato da quelle classi dirigenti europee che insistono a mantenerci legati al carro di Washington.

Una sovranità limitata che la nazione italiana paga in modo particolare; nel maggio 1994 viene completamente liberalizzato il prezzo dei prodotti petroliferi, dopo un lungo periodo nel quale esso veniva stabilito dal governo attraverso il CIP (Comitato interministeriale prezzi).

Premesso che il prezzo del petrolio incide in minima parte sul prezzo finale e che il 68% di quello di un litro di carburante è costituito da gravame fiscale che finisce nelle casse dello Stato, bisogna ricordare che rincari o ribassi del restante 32% segue l’andamento di logiche particolari, spesso legate al rapporto domanda-offerta ma che hanno in linea di massima origine negli Stati Uniti (che dominano il mercato mondiale con i loro 19,8 milioni di barili di greggio consumati ogni giorno).

Come rivela Gabriele Dossena sul “Corriere della Sera” «nella formazione delle quotazioni del greggio al New York merchantile exchange intervengono per esempio fattori come il calo delle scorte americane, oppure cambiamenti climatici locali che possono spingere la domanda oltre le previsioni… Un ruolo determinante lo rivestono pure le raffinerie, gli impianti in grado di trasformare il famoso barile di petrolio in una diversità di prodotti finiti…

Ebbene basta un guasto in una di queste raffinerie, oppure un improvviso spostamento della domanda dalla benzina al gasolio o più semplicemente una parziale inattività per manutenzione dell’impianto, ed ecco che i prezzi del prodotto finale come per incanto si impennano per tutto il resto della popolazione mondiale. C’è infatti un indice, sconosciuto ai non addetti ai lavori, che ogni giorno riporta l’andamento delle quotazioni di carburanti e prodotti finiti: è l’indice Platt’s (Platt’s oilgram price service), di origine americana, una sorta di bussola utilizzata dalle compagnie petrolifere per fissare i prezzi che poi vengono applicati in ogni parte del mondo». (2)

Se qualcuno finge ancora di non capire quanto ci costi la dipendenza dal protettorato a stelle e strisce e la logica del mondialismo usurocratico farebbe bene a svegliarsi: la battaglia finale per la “Terra di Mezzo” (l’Heartland) è da tempo iniziata; la coscienza del destino imperiale dell’Eurasia, blocco continentale autarchico e Tradizionale, dev’essere diffusa, pena l’estinzione nel magma indifferenziato del villaggio globale.

 

 

 

Stefano Vernole

 

Note:

(1) Tutti i dati riportati sono tratti dal “Corriere della sera - Documenti”, 20 giugno 2003, p. 5

(2) Gabriele Dossena, “C’è un guasto a una raffineria americana? Da noi benzina più cara”, ibidem

 

 

Ultimo aggiornamento: domenica 15 febbraio 2004

 

mardi, 03 novembre 2009

Triste mondialisation...

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Triste mondialisation...

Ex: http://unitepopulaire.org/

« En vingt ans, les pays de l'Est se sont mondialisés à la vitesse grand V. A peine le mur de Berlin était-il tombé que les enseignes du "monde libre" déboulaient en force pour y planter leur logo. […] Les mêmes chaînes de vêtements low-cost, les mêmes fast-foods, les mêmes centres commerciaux, reproduits à l'identique et à l'infini aux quatre coins de la planète. Les sorties dans les shopping centers sont d'ailleurs devenues un but d'excursion en soi. […]

Grâce à Ikea, les intérieurs du monde ont d'ailleurs de plus en plus tendance à tous se ressembler. Ne dit-on pas que, déjà, un Européen sur dix aurait été conçu sur un lit Ikea ? Pour ensuite vivre sa vie dans des salons et des chambres à coucher copies conformes des pages du catalogue.

Question gastronomie, voyager loin ne permet plus forcément de manger différemment et de découvrir des plats typiques. Tant il devient difficile d'échapper à la dictature des hamburgers et à leurs corollaires : les pizzas, les crêpes et les sandwiches, assortis de quelques nouilles sautées. Ces fleurons de la world food nous poursuivent jusqu'au bout du monde, sur les plages de Tunisie ou de Thaïlande, comme au pied des pyramides d'Egypte ou de la Grande Muraille de Chine.

Est-ce pour éviter tout dépaysement ? L'aéroport de Genève vient en tout cas d'inaugurer "un nouveau concept de restauration" (sic) qui, sous l'appellation Les Jardins de Genève, réunit la quintessence de la bouffe mondialisée – Burger King, Starbucks Coffee, Upper Crust... Mais à l'heure où même le Musée du Louvre à Paris va prochainement accueillir un McDonald's, il n'y a plus qu'à s'incliner. Et à se diriger dare-dare vers le premier M jaune venu, pour y commander tranquillement son McRösti. »

 

Catherine Morand, Le Matin Dimanche, 18 octobre 2009

dimanche, 01 novembre 2009

The USA - A Failed State

dollar20squeezed1tp4.jpgNational Bankruptcy
The USA—A Failed State
by Paul Craig Roberts on October 21, 2009 / http:/www.takimag.com/

The U.S. has every characteristic of a failed state.

The U.S. government’s current operating budget is dependent on foreign financing and money creation.

Too politically weak to be able to advance its interests through diplomacy, the U.S. relies on terrorism and military aggression.

Costs are out of control, and priorities are skewed in the interest of rich organized interest groups at the expense of the vast majority of citizens. For example, war at all cost—which enriches the armaments industry, the officer corps and the financial firms that handle the war’s financing—takes precedence over the needs of American citizens. There is no money to provide the uninsured with health care, but Pentagon officials have told the Defense Appropriations Subcommittee in the House that every gallon of gasoline delivered to U.S. troops in Afghanistan costs American taxpayers $400.

“It is a number that we were not aware of, and it is worrisome,” said Rep. John Murtha, chairman of the subcommittee.

According to reports, the U.S. Marines in Afghanistan use 800,000 gallons of gasoline per day. At $400 per gallon, that comes to a $320,000,000 daily fuel bill for the Marines alone. Only a country totally out of control would squander resources in this way.

While the U.S. government squanders $400 per gallon of gasoline in order to kill women and children in Afghanistan, many millions of Americans have lost their jobs and their homes and are experiencing the kind of misery that is the daily life of poor Third World peoples. Americans are living in their cars and in public parks. America’s cities, towns and states are suffering from the costs of economic dislocations and the reduction in tax revenues from the economy’s decline. Yet, Obama has sent more troops to Afghanistan, a country halfway around the world that is not a threat to America.

It costs $750,000 per year for each soldier we have in Afghanistan. The soldiers, who are at risk of life and limb, are paid a pittance, but all of the privatized services to the military are rolling in excess profits. One of the great frauds perpetuated on the American people was the privatization of services that the U.S. military traditionally performed for itself. “Our” elected leaders could not resist any opportunity to create at taxpayers’ expense private wealth that could be recycled to politicians in campaign contributions.

Republicans and Democrats on the take from the private insurance companies maintain that the U.S. cannot afford to provide Americans with health care and that cuts must be made even in Social Security and Medicare. So how can the U.S. afford bankrupting wars, much less totally pointless wars that serve no American interest?

The enormous scale of foreign borrowing and money creation necessary to finance Washington’s wars are sending the dollar to historic lows. The dollar has even experienced large declines relative to currencies of Third World countries such as Botswana and Brazil. The decline in the dollar’s value reduces the purchasing power of Americans’ already declining incomes.

Despite the lowest level of housing starts in 64 years, the U.S. housing market is flooded with unsold homes, and financial institutions have a huge and rising inventory of foreclosed homes not yet on the market.

Industrial production has collapsed to the level of 1999, wiping out a decade of growth in industrial output.

The enormous bank reserves created by the Federal Reserve are not finding their way into the economy. Instead, the banks are hoarding the reserves as insurance against the fraudulent derivatives that they purchased from the gangster Wall Street investment banks.

The regulatory agencies have been corrupted by private interests. “Frontline” reports that Alan Greenspan, Robert Rubin and Larry Summers blocked Brooksley Born, the head of the Commodity Futures Trading Commission, from regulating derivatives. President Obama rewarded Larry Summers for his idiocy by appointing him director of the National Economic Council. What this means is that profits for Wall Street will continue to be leeched from the diminishing blood supply of the American economy.

An unmistakable sign of Third World despotism is a police force that sees the pubic as the enemy. Thanks to the federal government, our local police forces are now militarized and imbued with hostile attitudes toward the public. SWAT teams have proliferated, and even small towns now have police forces with the firepower of U.S. Special Forces.

Summons are increasingly delivered by SWAT teams that tyrannize citizens with broken down doors, a $400 or $500 repair born by the tyrannized resident. Recently, a mayor and his family were the recipients of incompetence by the town’s local SWAT team, which mistakenly wrecked the mayor’s home, terrorized his family and killed the family’s two friendly Labrador dogs.

If a town’s mayor can be treated in this way, what do you think is the fate of the poor white or black? Or the idealistic student who protests his government’s inhumanity?

In any failed state, the greatest threat to the population comes from the government and the police. That is certainly the situation today in the U.S.A. Americans have no greater enemy than their own government. Washington is controlled by interest groups that enrich themselves at the expense of the American people.

The 1 percent that comprise the superrich are laughing as they say, “Let them eat cake.”

samedi, 31 octobre 2009

Immer mehr Anleger fürchten Pleiten europäischer Staaten

Immer mehr Anleger fürchten Pleiten europäischer Staaten

Michael Grandt / http://www.info.kopp-verlag.de

Bei Investoren geht die Angst geht um. Weil westliche Industrieländer Banken- und Konjunkturprogramme in Milliardenhöhe auflegen, boomt die Absicherung gegen Staatsbankrotte.

image84.pngAnleger setzen stärker auf finanzielle Schwierigkeiten westeuropäischer Staaten und stürzen sich geradezu auf Kreditausfallderivate (Credit Default Swaps, CDS).

CDS-Kontrakte sind eine Art Versicherung für Anleihen: Ein Marktteilnehmer, oft eine Bank, übernimmt dabei den Part des Versicherers. Gegen eine Gebühr verpflichtet er sich zu zahlen, wenn eine Anleihe ausfällt, also ein Unternehmen oder ein Staat pleite ist.

Das Kreditereignis beschränkt sich jedoch nicht allein auf den Ausfall des Kredites durch Insolvenz oder Ähnliches, es kann auch z.B. das Rating einer Anleihe als Kreditereignis bestimmt werden, sodass der Sicherungsgeber (in unserem Beispiel eine Bank) im Falle der Herabsetzung des Ratings (und somit einem Wertverlust) zur Ausgleichszahlung an den CDS-Käufer verpflichtet ist. Einfacher erklärt: Bereits wenn die Bonität eines Staates herabgestuft wird, könnten Banken zu einer Ausgleichszahlung gezwungen sein.

Ganz vorne auf der Hitliste: Italien. Das CDS-Volumen stieg für Italien von 148 auf inzwischen 205 Milliarden Dollar. Aber auch bei Spanien und Deutschland sind die ausstehenden Volumen besonders groß. Bei Spanien beläuft es sich auf 84 Milliarden Dollar, im Jahre 2008 waren es noch 61 Milliarden und für Deutschland kletterte es von 37 Milliarden auf 55 Milliarden Dollar. (1)

Selbst Banken haben Angst

Im Zuge der anhaltenden Finanzkrise ist der Markt für CDS jedoch erheblich geschrumpft: Der Nominalwert der ausstehenden Kontrakte Ende des ersten Halbjahrs 2009 lag bei 31.223 Milliarden Dollar, hingegen waren es vor Jahresfrist noch knapp 55.000 Milliarden. (2)

Selbst Banken schrauben ihr Engagement bei Derivaten zurück, obwohl sie damit in der Vergangenheit viel Geld verdient haben. Jetzt wollen sie das »Kontrahentenrisiko« (Kreditrisiko) verringern, im Klartext: Sie haben Sorge, dass einige Staaten tatsächlich pleite gehen und ihre Anleihen nicht mehr bedienen könnten. Dann wären sie über die CDS in der Pflicht.

Gegen die wachsende Pleitegefahr sichern sich die Investoren ab. Aber das schürt erst recht die Angst vor Zahlungsausfällen. Dass diese nicht ganz unberechtigt ist, zeigt der Beinahe-Bankrott Islands im vergangenen Jahr.

Und auch Antoine Cornut, Europachef für den Bondhandel der Deutschen Bank, warnt: »Westeuropäische Regierungen garantieren Bankverbindlichkeiten und begeben selbst mehr Papiere, wodurch sie mehr Schulden auf ihre Bücher nehmen. Das macht es riskanter, ihre Anlagen zu halten«. (3)

Ursachen dafür sind die rasant wachsenden Defizite der Industrieländer, die insgesamt Billionen in Konjunkturprogramme und Bankenrettungspakete investieren. Die USA und Europa garantieren zwischenzeitlich Bankanleihen von einem Gesamtwert von 1133 Milliarden Dollar – Rekordhöhe!

 

Große Gefahr für das gesamte Finanzsystem

Die Kontrakte werden außerbörslich gehandelt, der Markt für CDS ist unreguliert. Kritiker betrachten dies als großes Risiko für die Stabilität des gesamten Finanzsystems, denn für Spekulanten sind die Tore weit geöffnet.

Eine andere Gefahr besteht darin, dass Institutionen, die CDS ausgeben, nicht zur Rücklage von Kapital zur Deckung von eventuell eintretenden Ausgleichsforderungen verpflichtet sind. Im Extremfall kann also die Summe der versicherten Credit-Events das vorhandene Kapital des Sicherungsgebers bei Weitem übersteigen. (4) Wenn diese »Finanzmassenvernichtungsbombe« hochgeht, die direkt mit der Bonität von Staaten verbunden ist, dürften wohl einige Lichter ausgehen.

 

___________

(1) Quelle: Depository Trust & Clearing Corporation (DTCC)

(2) Quelle: International Swaps and Derivatives Association (ISDA)

(3) http://www.ftd.de/finanzen/derivate/:hohe-staatsverschuldung-absicherung-gegen-pleiten-europaeischer-laender-boomt/50017267.html

(4) http://www.brainguide.de/cds--credit-default-swaps  

 

Montag, 19.10.2009

Kategorie: Geostrategie, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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jeudi, 29 octobre 2009

Blattschuss auf den Dollar

gold-bars-636.jpgBlattschuss auf den Dollar

Niki Vogt / http://info.kopp-verlag.de/

Die »New York Post« titelte am Donnerstag, den 15. Oktober, dass der Dollar seinen Reservestatus an Yen und Euro verliere. Eine trockene, zutreffende Feststellung, die noch vor zwei Jahren für hysterisches Gelächter gesorgt hätte. Ein kleiner Artikel im »Independent«, so gut wie unbemerkt in der deutschen Presse geblieben, führte diese Entwicklung im Zeitraffertempo herbei: »The demise of the Dollar« (»Der Hingang des Dollar«). Seitdem spielt nicht nur der Goldpreis verrückt.

Ein üblicher Blick auf die Goldpreiskurve am 6. Oktober nach Mittag lässt die Augenbrauen in den Haaransatz fliegen. Der Goldpreis steigt unaufhaltsam an. Was ist passiert?

»Eine der grundlegendsten Änderungen der gegenwärtigen Geschichte des Nahen Ostens findet gerade statt: Die arabischen Golfländer planen gerade zusammen mit China, Russland, Japan und Frankreich, Geschäfte mit Erdöl nicht mehr über Dollar abzuwickeln, sondern sich dazu eines Korbes an Währungen zu bedienen, der den japanischen Yen, den chinesischen Yüan, den Euro, Gold und eine neue, für die Golfstaaten geplante Gemeinschaftswährung enthält.

Geheime Treffen der beteiligten Finanzminister wurden bereits dazu abgehalten, die Zentralbankchefs von Russland, China, Japan und Brasilien erarbeiten die Ablaufpläne. Das bedeutet nichts anderes, als dass das Öl nicht mehr in Dollar gehandelt wird.«

Mit diesen dürren Worten eröffnet Robert Fisk seinen Artikel. Er führt lediglich an, er habe diese Informationen von arabischen und chinesischen Quellen in den Banken. Das ist recht knapp.

Aber: Robert Fisk ist nicht irgendwer. Er ist einer der preisgekrönten Sechzehnender des Journalismus. Sein Wort wiegt.

Diese Nachricht ist eine Bombe.

»Diese Pläne werden das Gesicht der internationalen Finanztransaktionen verändern. Amerika und Britannien müssen sich große Sorgen machen. Wie große Sorgen, werden Sie am Donner der Dementi sehen, die auf diese Nachricht folgen«, zitiert Robert Fisk einen chinesischen Banker.

Der Goldpreis zieht weiter nach oben. Der Dollar fällt unaufhaltsam. Sofort wird aus den Golfstaaten dementiert. Russland schweigt, China schweigt. Der Bericht von Fisk wird heftig angegriffen. Er legt im Independent nach. Dann sendet Russia Today ein Video mit einer Stellungnahme von Robert Fisk. Er bekräftigt seine Informationen. Die USA kämpfen mit Golddrückungsaktionen um den Dollar und gegen den Goldpreis an.

Was Fisk da berichtet hat, ist der Wendepunkt, ein geschichtliches Datum für einen Paradigmenwechsel. Etwa so, wie die Thesen Luthers an der Schlosskirche zu Wittenberg. Nicht, dass es keiner hätte kommen sehen. Nicht, dass es keine Vorboten gegeben hätte. Es lag schon länger in der Luft. Aber wie das mit geschichtlichen Ereignissen so ist: Sie kondensieren eines Tages in klaren, unmissverständlichen Worten und definieren etwas, das viele irgendwie schon geahnt haben.

China hat es angekündigt. Nach vielen Warnungen macht das Land jetzt ernst. China hat die USA gewarnt, die Treasury Bonds zu monetisieren – die USA ignorierten das. China wollte den Fed-Chef Bernanke, den Notendrucker, nicht für eine zweite Amtszeit. Obama ernannte ihn nichtsdestotrotz. China kündigte Konsequenzen an, hier sind sie.

Der Tod der Weltleitwährung ist also beschlossene Sache. Darum kaufen die Chinesen quer über die ganze Welt Realgüter, Rohstoffe, Land, Wald und Gold. Sie werden immer weniger US-Staatsanleihen kaufen. Die USA werden keinen Kredit mehr bekommen. Das hat immense Konsequenzen.

Der Dollar ist aus zwei Gründen Weltleitwährung: Banken gründen weltweit auf dem Sockel von Dollarkapital und US-Staatsanleihen in Dollar. Und: Der Handel mit Rohöl wird weltweit in Dollar abgewickelt.

Als Saddam Hussein verkündete, seine irakischen Ölgeschäfte nicht mehr in Dollar abwickeln zu wollen, fackelten die USA nicht lange. Der Verlauf dieses Versuches ist bekannt. Die USA sind die Schutzmacht der Saudis und ihrer Ölgeschäfte. Dafür wollen sie auch das Öl und den Petrodollar – zur Not auch mit militärischem Druck. (Ähnlichkeiten mit Schutzgelderpressern der Mafia sind rein zufällig und nicht beabsichtigt.) Deshalb auch die wilden Dementi der »erwischten« Araber.

Russland hat nicht dementiert, das hat Russland nicht nötig. Man wartet ab. Die Russen denken langfristig. Wenn das ganze Chaos vorbei ist, werden die Russen ganz selbstverständlich die Schutzmacht sein, die die Region um den persischen Golf sichert. Damit wird es gleichzeitig zum wichtigsten Rohstofflieferanten für Europa. Und gemeinsam mit den Chinesen werden sie ein neues Finanzsystem für Eurasien ausgearbeitet haben. Dem wird sich niemand entgegenstellen können.

Die Japaner haben das schon sehr genau verstanden. Der frisch gewählte Hatoyama leistete seinen ersten Antrittsbesuch in Peking. Die neue japanische Regierung, bisher der treueste US-Verbündete, nötigt plötzlich die USA zum Truppenabzug. Die Amerikaner müssen dem zähneknirschend Folge leisten. Die Chinesen sind die neue Supermacht in Asien. Hongkong fordert seine Goldreserven kurz und bündig von den USA zurück und lädt ungestraft die asiatischen Nachbarn ein, dasselbe zu tun und die Goldreserven in Hongkong zu lagern.

Die platzenden Immobilienblasen in den einstmals superreichen Emiraten haben direkt mit ihrer Bindung an den im Sinkflug befindlichen Dollar zu tun. Die Wüstenglitzermetropolen sind ruiniert, viele tragende Banken und wichtige Familien sind ebenso ruiniert. Die Auswirkungen davon reißen insbesondere den Schoßhund der USA, Großbritannien, gerade immer tiefer in den Abgrund. Und die Beziehungen der Saudis zu den Russen verbessern sich rapide.

Was Wunder, dass die wichtigen »Verschwörernationen« gegen den Dollar zwei Staaten unter keinen Umständen mit dabei haben wollen: die USA und Great Britain. Deutschland hält sich noch sehr versteckt in der hinteren Ecke im Verschwörerkreis auf, schickt dezent Berater in der Welt herum, möchte aber noch nicht offiziell im Kreise der Cäsarenmörder gesehen werden.

Die Spannungen zwischen den USA und Russland auf der einen und den USA und China auf der anderen Seite sind in eine neue Phase eingetreten. Genauso geduldig und vorsichtig, wie die Chinesen bisher die Entwicklung gehandhabt und abgewartet haben, bereiten sie jetzt den Tod des verhassten amerikanischen Weltimperiums vor. Sie haben Zeit. Eine schnelle Entwicklung wäre gar nicht in ihrem Interesse, die enormen Berge von Dollar, die China angehäuft hat, will es nicht in Rauch aufgehen sehen. Das muss jetzt klug investiert werden, um die Probleme im eigenen Land damit in der richtigen Weise anzugehen. Welche Fehler man nicht machen darf, beobachtet man im Moment interessiert in den USA.

Daher wird der Goldpreis nicht schnell explodieren und der Dollar nicht abstürzen. Die Chinesen (und Russen) brauchen Zeit. Das US-Finanzimperium muss langsam ausbluten, das Gold möglichst lang zu möglichst niedrigem Dollarpreis in die starken Hände der neuen, mächtigen Nationen gehen. Dort wird es als Deckung für die großen, neuen Weltwährungen dienen.

Die meisten Mitbürger werden das alles vollkommen erstaunt eines Tages feststellen. In den Geschichtsbüchern wird vielleicht der Erscheinungstag des Artikels »The demise of the Dollar« als ein Markierungspunkt der Veränderung der Welt erwähnt werden.

 

__________

Quellen:

Die Artikel von Robert Fisk: http://license.icopyright.net/user/viewFreeUse.act?fuid=NTE5NzM3Ng%3D%3D

http://www.independent.co.uk/opinion/commentators/fisk/robert-fisk-a-financial-revolution-with-profound-political-implications-1798712.html

Video Robert Fisk: http://maxkeiser.com/2009/10/08/video-robert-fisk-responds-to-the-denials-of-dollar-demise-report/

http://www.nypost.com/p/news/business/dollar_loses_reserve_status_to_yen_hFyfwvpBW1YYLykSJwTTEL;jsessionid=65E301CF47ED50D15170F8D6530791C5

http://www.politico.com/news/stories/1009/28091_Page2.html

http://de.rian.ru/world/20070212/60606167.html

http://www.welt.de/print-welt/article173536/Tokio_kuendigt_Teilabzug_von_US_Marines_an.html

http://www.welt.de/print-welt/article662769/Japan_laeuft_Sturm_gegen_die_US_Armee.html

 

Freitag, 16.10.2009

Kategorie: Gastbeiträge, Geostrategie, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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Vers la fin de l'hégémonie du dollar?

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Michael WIESBERG:

 

 

Vers la fin de l’hégémonie du dollar?

 

Début octobre 2009, est paru sur les pages internet du journal libéral de gauche britannique “The Independant” un article de Robert Fisk, leur correspondant au Proche Orient. Cet article a suscité de vives discussions. Selon les propos de Fisk, les Etats arabes du Golfe songeraient à remplacer d’ici les neuf prochaines années le dollar américain par un panier de devises et/ou de valeurs incluant le dollar, le yen japonais, le renminbi (ou yuan) chinois, l’euro et l’or. A ce panier s’ajouterait également la monnaie unique, actuellement en projet, du Conseil de Coopération du Golfe (CCASG) qui comprend l’Arabie Saoudite, Abu Dhabi, le Koweit et le Qatar. Pour concrétiser ce projet, ces Etats pétroliers arabes auraient déjà pris langue avec la France, la Chine, le Japon et la Russie. Les représentants de ces Etats se sont empressés de démentir les affirmations de Fisk en arguant qu’elles proviendraient apparemment de “sources intéressées et peu sûres”.

 

Mais la vitesse stupéfiante à laquelle l’article de Fisk s’est diffusé dans le monde entier démontre que la renommée du dollar a considérablement chuté au cours de ces dernières années et que l’incertitude quant à l’avenir du système monétaire international ne cesse de croître. 

 

On considère donc comme parfaitement imaginable que la facturation du prix du pétrole en dollars connaîtra bientôt sa fin et qu’ainsi le dollar cesserait d’être la monnaie-guide dans le monde. Ce pronostic a pour lui quelques arguments percutants: la crise financière a considérablement fragilisé les assises économiques des Etats-Unis; la confiance s’est évanouie ces dernières années dans les perspectives de croissance de l’économie américaine et dans la capacité qu’a la banque d’émission américaine de rétablir la stabilité des prix.

 

Les pays pétroliers cherchent-ils à se débarrasser de leurs réserves de dollars?

 

Or c’était justement cette confiance des acteurs économiques internationaux (comme les banques centrales, les producteurs de pétrole brut ou les banques d’investissement) qui fondait la suprématie monétaires des Etats-Unis depuis que Nixon, en 1971, avait abandonné la convertibilité du dollar en or. De plus, cette confiance résidait également dans le rôle de grands consomamteurs que l’on attribuait aux Américains (et c’est là sans doute qu’il aller chercher les origines de l’actuelle crise du dollar): les marchés américains, en effet, constituaient, jusqu’il y a  peu, 25% de la demande internationale. Et ce sont justement ces marchés-là qui sont frappés aujourd’hui d’un fort recul de la demande. 

 

La portée de ce recul saute aux yeux, si l’on examine comment fonctionnait le “modèle économique” du commerce entre les Etats-Unis et les Etats asiatiques en forte croissance, principalement la Chine: les Etats-Unis achetaient une bonne part des marchandises produites en Asie et les Etats asiatiques, en échange, investissaient leurs bénéfices d’exportateurs dans des emprunts d’Etat américains (ce qui équivaut à des billets de créance). C’est de cette manière que la colossale consommation américaine a été rendue possible (à laquelle même les plus pauvres avaient accès grâce à leurs cartes de crédit), car, par la demande d’obligations américaines, les taux d’intérêts pouvaient être maintenus très bas aux Etats-Unis.

 

Maintenant, le scénario se modifie: la faiblesse persistante du dollar menace de mettre un terme à “ce donner et à ce prendre”, surtout à cause de la perte de valeur des réserves de devises en dollars, que la plupart des banques centrales ont accumulées dans le monde entier. Rien que la Chine possède 24% des “Treasury Securities” américaines et le Japon, 21%. L’Allemagne, pour sa part, n’en possède que 1,8%. En revanche, elle possède beaucoup plus de “chiffons de  papier” émis par des banques privées américaines.

 

On pourrait croire  que les banques centrales ont grand intérêt à ce que le dollar restent à moitié stable. On peut toutefois réfuter cet argument en démontrant que les vicissitudes actuelles du dollar incitent à se débarrasser des réserves que l’on possède de cette devise, avant qu’elle ne chute encore, ce que la conjoncture américaine actuelle permet d’envisager.

 

Le danger de voir les banques centrales se débarrasser de leurs réserves de dollars est réel: le  processus pourrait d’ailleurs commencer dans les pays producteurs de pétrole (qui possèdent 6% des “Treasury Securities” américaines). C’est ce que constatent par ailleurs Jörn Grisse et Christian Kellermann dans une analyse qu’ils ont publiée auprès de la Fondation Friedrich Ebert en Allemagne. L’intérêt des pays producteurs de pétrole à un dollar stable est nettement moindre que dans les pays asiatiques. Ils peuvent aussi compenser la diminution de la demande américaine en allant au devant de la demande croissante d’hydrocarbures que l’on observe  ailleurs dans le monde.

 

Tous ces facteurs pourraient contribuer à précipiter la fin de l’hégémonie du dollar, ainsi que des “pétro-dollars”, comme on les appelle. Contrairement à ce que pense Fisk, on ne passera sans doute pas à l’artifice d’un “panier de devises” mais à  une autre devise, en l’occurrence, très probablement, l’euro.

 

Dans ce cas, les Etats-Unis perdraient leur droit de seigneuriage (le droit de battre monnaie) et les revenus qui en résultent comme les produits nets engrangés par la banque d’émission qui crée les liquidités et d’autres formes d’argent propres aux banques centrales, que celles-ci  peuvent produire vu la demande élevée de dollars. Par ailleurs, les Etats-Unis ont profité jusqu’ici des importations de capitaux en provenance des Etats exportateurs de pétrole. Vu le manque d’investissements potentiels dans ces pays mêmes, les bénéfices des Etats pétroliers étaient réinvestis pour une bonne part aux Etats-Unis.

 

Toutefois, faut-il le préciser, cette fin éventuelle de l’ère des pétro-dollars ne constituerait qu’une “ultima ratio” pour des Etats comme, par exemple, l’Arabie Saoudite qui est contrainte d’en appeler à la protection militaire des Etats-Unis. C’est là un véritable contrat d’assurance dont on ne se débarrassera que si le dollar subit une véritable et rapide dégringolade. La crainte de voir survenir une telle dégringolade est bien présente: elle s’exprime notamment par un repli vers  l’or, dont le court par once de métal fin, vient de battre un nouveau record (calculé en dollars).

 

La classe moyenne américaine ne sera plus jamais le moteur de la sur-consommation mondiale

 

En arrivera-t-on à cette extrémité du point de vue américain ou non? Cela dépendra essentiellement de la politique budgétaire du Président Obama et de la politique en matière d’intérêts de la Federal Reserve (la banque d’émission américaine). Ce qui apparaît toutefois indubitable, c’est qu’il n’y aura pas de retour possible, pour les Etats-Unis, à la situation dont ils jouissaient avant la crise financière. La classe moyenne américaine est extrêmement endettée, est menacée du chômage ou du moins d’un déclin social assuré: elle ne sera plus le moteur de la sur-consommation mondiale. Ensuite, les fonds de pension américains, nourris de gains privés obtenus par spéculation boursière, ont été entraînés dans les abîmes par la crise financière, alors qu’ils auraient permis aux retraités américains de bénéficier d’une fin de vie dorée; encore un pan de la consommation potentielle qui disparaît.

 

Le déclin de la classe moyenne américaine et l’effondrement des fonds de pension éliminent un incitant important chez les fournisseurs des Etats-Unis que sont la Chine et le Japon: pourquoi garderaient-ils le dollar comme devise de réserve? Ensuite, tous les bons du trésor américain auront un jour une fin, arriveront à échéance. S’ils ne trouvent pas suffisamment d’acquéreurs pour de nouveaux billets de créance américains (car l’offre de produits industriels américains est à présent assez limitée), la Federal Reserve pourra certes racheter ces “Treasury Bonds” et augmenter ainsi la bulle des dollars, mais cela aura des répercussions insoupçonnées en matière d’inflation ou autre. Il faudra donc beaucoup de doigté et d’imagination au Prix Nobel de la Paix Barack Obama s’il entend conserver, pour les Etats-Unis, les avantages que leur a offerts jusqu’ici la suprématie du dollar.

 

Michael WIESBERG.

(article paru dans  “Junge Freiheit”, Berlin, n°43/2009; traduction française: Robert Steuckers).

mardi, 27 octobre 2009

Dans trois ans, la prochaine crise?

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Dans trois ans, la prochaine crise?

 

Brigitte Unger est économiste, spécialisée dans les questions financières globales. Elle enseigne aux Pays-Bas à l’Université d’Utrecht. Dans un entretien accordé au journal autrichien “Standard” (Vienne), elle explique que la crise économique mondiale n’est nullement jugulée. On a colmaté les brèches par des artifices conjoncturels et, ajoute-t-elle, “on n’a même pas  commencé à aborder les problèmes fondamentaux de la crise”. Le problème crucial, c’est que cela ne vaut pas la peine, dans les conditions actuelles, d’investir dans l’économie productive. “Tout l’argent est fourré dans les marchés financiers parce l’économie réelle ne permet pas assez de pouvoir d’achat”, explique Mme Unger. “Les moyens financiers dégagés par le secteur financier sont quatre fois supérieurs à ceux que procure l’économie réelle”. Il y a donc quatre fois plus d’argent en circulation qu’il n’y a de biens et de marchandises: “John Paulson, gestionnaire américain des “Hedge-funds”, a gagné quatre milliards de dollars en un an; avec la  meilleure volonté du monde, il ne peut pas les investir dans l’économie réelle”.

 

Ensuite, la césure qui sépare pays riches et pays pauvres ne cesse de s’approfondir: “Ceux qui pourraient acheter, n’ont pas d’argent. Et ceux qui ont de l’argent, ne peuvent le dépenser, excepté dans l’économie financière. Voilà pourquoi je crois que nous sommes en train de recréer une bulle”. Mme Unger ne peut prévoir quand elle éclatera: “Mais, une chose est certaine, dans deux ou trois ans nous vivrons encore une crise plus aiguë, si nous ne  changeons rien aux fondements de notre économie”.

 

(source: “Junge Freiheit”, Berlin, n°43/2009).

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lundi, 26 octobre 2009

Revolte: met het nationalisme tegen het kapitalisme

Met het nationalisme tegen het kapitalisme

Geplaatst door yvespernet op 22 October 2009

Ondertussen al een paar weken uitgekomen, maar daarom niet minder interessant.

Voorpost en het solidarisme – Johan van Slambrouck
Economische soevereiniteit – Sacha Vliegen
Verankering van de economie – Johan van Slambrouck
Over het Amerikaans bankensysteem – Yannick Goossens
Cultuur en globalisme – Yves Pernet
Het verschil tussen natinonaal en internationaal kapitaal – Yves Pernet
Boekbespreking “The Web of Debt” – Yves Pernet
Vlamingen een volk van meiden en knechten, mag het ietsje meer zijn? – Eddy van Buggenhout
De ondergang van Fortis – Johan van Slambrouck
Boekbespreking “The world is flat” – Yannick Goossens
Omdat economie niet aan de economen mag worden overgelaten – Joost Venema
Huizen van Vlaamse solidariteit: solidarisme in de praktijk – Luc Vermeulen

De inhoudstafel is als volgt:

( 1 ) Voorpost en het solidarisme - Johan van Slambrouck
( 2 ) Economische soevereiniteit – Sacha Vliegen
( 3 ) Verankering van de economie – Johan van Slambrouck
( 4 ) Over het Amerikaans bankensysteem – Yannick Goossens
( 5 ) Cultuur en globalisme – Yves Pernet
( 6 ) Het verschil tussen natinonaal en internationaal kapitaal – Yves Pernet
( 7 ) Boekbespreking “The Web of Debt” – Yves Pernet
( 8 ) Vlamingen een volk van meiden en knechten, mag het ietsje meer zijn? – Eddy van Buggenhout
( 9 ) De ondergang van Fortis – Johan van Slambrouck
( 10 ) Boekbespreking “The world is flat” – Yannick Goossens
( 11 ) Omdat economie niet aan de economen mag worden overgelaten – Joost Venema
( 12 ) Huizen van Vlaamse solidariteit: solidarisme in de praktijk – Luc Vermeulen

Wie denkt in dit Revoltenummer enkel oproepen te vinden om “alles anders te doen” zonder invulling zal nog verschieten. Meerdere analyses van wat er is fout gelopen, wat er anders moet, hoe dat moet en waarom. Dat is wat u kan verwachten.

Mijn bijdragen plaats ik later nog op dit weblog.

jeudi, 15 octobre 2009

The Economic Recovery is an Illusion

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The Economic Recovery is an Illusion
The Bank for International Settlements (BIS) Warns of Future Crises


Global Research, October 3, 2009

War is Peace, Freedom is Slavery, Ignorance is Strength, and Debt is Recovery

 

In light of the ever-present and unyieldingly persistent exclamations of ‘an end’ to the recession, a ‘solution’ to the crisis, and a ‘recovery’ of the economy; we must remember that we are being told this by the very same people and institutions which told us, in years past, that there was ‘nothing to worry about,’ that ‘the fundamentals are fine,’ and that there was ‘no danger’ of an economic crisis.

 

Why do we continue to believe the same people that have, in both statements and choices, been nothing but wrong? Who should we believe and turn to for more accurate information and analysis? Perhaps a useful source would be those at the epicenter of the crisis, in the heart of the shadowy world of central banking, at the global banking regulator, and the “most prestigious financial institution in the world,” which accurately predicted the crisis thus far: The Bank for International Settlements (BIS). This would be a good place to start.

 

The economic crisis is anything but over, the “solutions” have been akin to putting a band-aid on an amputated arm. The Bank for International Settlements (BIS), the central bank to the world’s central banks, has warned and continues to warn against such misplaced hopes.

 

What is the Bank for International Settlements (BIS)?

 

The BIS emerged from the Young Committee set up in 1929, which was created to handle the settlements of German reparations payments outlined in the Versailles Treaty of 1919. The Committee was headed by Owen D. Young, President and CEO of General Electric, co-author of the 1924 Dawes Plan, member of the Board of Trustees of the Rockefeller Foundation and was Deputy Chairman of the Federal Reserve Bank of New York. As the main American delegate to the conference on German reparations, he was also accompanied by J.P. Morgan, Jr.[1] What emerged was the Young Plan for German reparations payments.

 

The Plan went into effect in 1930, following the stock market crash. Part of the Plan entailed the creation of an international settlement organization, which was formed in 1930, and known as the Bank for International Settlements (BIS). It was purportedly designed to facilitate and coordinate the reparations payments of Weimar Germany to the Allied powers. However, its secondary function, which is much more secretive, and much more important, was to act as “a coordinator of the operations of central banks around the world.” Described as “a bank for central banks,” the BIS “is a private institution with shareholders but it does operations for public agencies. Such operations are kept strictly confidential so that the public is usually unaware of most of the BIS operations.”[2]

 

The BIS was founded by “the central banks of Belgium, France, Germany, Italy, the Netherlands, Japan, and the United Kingdom along with three leading commercial banks from the United States, including J.P. Morgan & Company, First National Bank of New York, and First National Bank of Chicago. Each central bank subscribed to 16,000 shares and the three U.S. banks also subscribed to this same number of shares.” However, “Only central banks have voting power.”[3]

 

Central bank members have bi-monthly meetings at the BIS where they discuss a variety of issues. It should be noted that most “of the transactions carried out by the BIS on behalf of central banks require the utmost secrecy,”[4] which is likely why most people have not even heard of it. The BIS can offer central banks “confidentiality and secrecy which is higher than a triple-A rated bank.”[5]

 

The BIS was established “to remedy the decline of London as the world’s financial center by providing a mechanism by which a world with three chief financial centers in London, New York, and Paris could still operate as one.”[6] As Carroll Quigley explained:

 

[T]he powers of financial capitalism had another far-reaching aim, nothing less than to create a world system of financial control in private hands able  to dominate the political system of each country and the economy of the world as a whole. This system was to be controlled in a feudalist fashion by the central banks of the world acting in concert, by secret agreements arrived at in frequent private meetings and conferences. The apex of the system was to be the Bank for International Settlements in Basle, Switzerland, a private bank owned and controlled by the world’s central banks which were themselves private corporations.[7]

 

The BIS, is, without a doubt, the most important, powerful, and secretive financial institution in the world. It’s warnings should not be taken lightly, as it would be the one institution in the world that would be privy to such information more than any other.

 

Derivatives Crisis Ahead

 

In September of 2009, the BIS reported that, “The global market for derivatives rebounded to $426 trillion in the second quarter as risk appetite returned, but the system remains unstable and prone to crises.” The BIS quarterly report said that derivatives rose 16% “mostly due to a surge in futures and options contracts on three-month interest rates.” The Chief Economist of the BIS warned that the derivatives market poses “major systemic risks” in the international financial sector, and that, “The danger is that regulators will again fail to see that big institutions have taken far more exposure than they can handle in shock conditions.” The economist added that, “The use of derivatives by hedge funds and the like can create large, hidden exposures.”[8]

 

The day after the report by the BIS was published, the former Chief Economist of the BIS, William White, warned that, “The world has not tackled the problems at the heart of the economic downturn and is likely to slip back into recession,” and he further “warned that government actions to help the economy in the short run may be sowing the seeds for future crises.” He was quoted as warning of entering a double-dip recession, “Are we going into a W[-shaped recession]? Almost certainly. Are we going into an L? I would not be in the slightest bit surprised.” He added, “The only thing that would really surprise me is a rapid and sustainable recovery from the position we’re in.”

 

An article in the Financial Times explained that White’s comments are not to be taken lightly, as apart from heading the economic department at the BIS from 1995 to 2008, he had, “repeatedly warned of dangerous imbalances in the global financial system as far back as 2003 and – breaking a great taboo in central banking circles at the time – he dared to challenge Alan Greenspan, then chairman of the Federal Reserve, over his policy of persistent cheap money.”

 

The Financial Times continued:

 

Worldwide, central banks have pumped thousands of billions of dollars of new money into the financial system over the past two years in an effort to prevent a depression. Meanwhile, governments have gone to similar extremes, taking on vast sums of debt to prop up industries from banking to car making.

 

White warned that, “These measures may already be inflating a bubble in asset prices, from equities to commodities,” and that, “there was a small risk that inflation would get out of control over the medium term.” In a speech given in Hong Kong, White explained that, “the underlying problems in the global economy, such as unsustainable trade imbalances between the US, Europe and Asia, had not been resolved.”[9]

 

On September 20, 2009, the Financial Times reported that the BIS, “the head of the body that oversees global banking regulation,” while at the G20 meeting, “issued a stern warning that the world cannot afford to slip into a ‘complacent’ assumption that the financial sector has rebounded for good,” and that, “Jaime Caruana, general manager of the Bank for International Settlements and a former governor of Spain’s central bank, said the market rebound should not be misinterpreted.”[10]

 

This follows warnings from the BIS over the summer of 2009, regarding misplaced hope over the stimulus packages organized by various governments around the world. In late June, the BIS warned that, “fiscal stimulus packages may provide no more than a temporary boost to growth, and be followed by an extended period of economic stagnation.”

 

An article in the Australian reported that, “The only international body to correctly predict the financial crisis ... has warned the biggest risk is that governments might be forced by world bond investors to abandon their stimulus packages, and instead slash spending while lifting taxes and interest rates,” as the annual report of the BIS “has for the past three years been warning of the dangers of a repeat of the depression.” Further, “Its latest annual report warned that countries such as Australia faced the possibility of a run on the currency, which would force interest rates to rise.” The BIS warned that, “a temporary respite may make it more difficult for authorities to take the actions that are necessary, if unpopular, to restore the health of the financial system, and may thus ultimately prolong the period of slow growth.”

 

Further, “At the same time, government guarantees and asset insurance have exposed taxpayers to potentially large losses,” and explaining how fiscal packages posed significant risks, it said that, “There is a danger that fiscal policy-makers will exhaust their debt capacity before finishing the costly job of repairing the financial system,” and that, “There is the definite possibility that stimulus programs will drive up real interest rates and inflation expectations.” Inflation “would intensify as the downturn abated,” and the BIS “expressed doubt about the bank rescue package adopted in the US.”[11]

 

The BIS further warned of inflation, saying that, “The big and justifiable worry is that, before it can be reversed, the dramatic easing in monetary policy will translate into growth in the broader monetary and credit aggregates.” That will “lead to inflation that feeds inflation expectations or it may fuel yet another asset-price bubble, sowing the seeds of the next financial boom-bust cycle.”[12] With the latest report on the derivatives bubble being created, it has become painfully clear that this is exactly what has happened: the creation of another asset-price bubble. The problem with bubbles is that they burst.

 

The Financial Times reported that William White, former Chief Economist at the BIS, also “argued that after two years of government support for the financial system, we now have a set of banks that are even bigger - and more dangerous - than ever before,” which also, “has been argued by Simon Johnson, former chief economist at the International Monetary Fund,” who “says that the finance industry has in effect captured the US government,” and pointedly stated: “recovery will fail unless we break the financial oligarchy that is blocking essential reform.”[13] [Emphasis added].

 

At the beginning of September 2009, central bankers met at the BIS, and it was reported that, “they had agreed on a package of measures to strengthen the regulation and supervision of the banking industry in the wake of the financial crisis,” and the chief of the European Central Bank was quoted as saying, “The agreements reached today among 27 major countries of the world are essential as they set the new standards for banking regulation and supervision at the global level.”[14]

 

Among the agreed measures, “lenders should raise the quality of their capital by including more stock,” and “Banks will also have to raise the amount and quality of the assets they keep in reserve and curb leverage.” One of the key decisions made at the Basel conference, which is named after the Basel Committee on Banking Supervision, set up under the BIS, was that, “banks will need to raise the quality of their so-called Tier 1 capital base, which measures a bank’s ability to absorb sudden losses,” meaning that, “The majority of such reserves should be common shares and retained earnings and the holdings will be fully disclosed.”[15]

 

In mid-September, the BIS said that, “Central banks must coordinate global supervision of derivatives clearinghouses and consider offering them access to emergency funds to limit systemic risk.” In other words, “Regulators are pushing for much of the $592 trillion market in over-the-counter derivatives trades to be moved to clearinghouses which act as the buyer to every seller and seller to every buyer, reducing the risk to the financial system from defaults.” The report released by the BIS asked if clearing houses “should have access to central bank credit facilities and, if so, when?”[16]

 

A Coming Crisis

 

The derivatives market represents a massive threat to the stability of the global economy. However, it is one among many threats, all of which are related and intertwined; one will set off another. The big elephant in the room is the major financial bubble created from the bailouts and “stimulus” packages worldwide. This money has been used by major banks to consolidate the economy; buying up smaller banks and absorbing the real economy; productive industry. The money has also gone into speculation, feeding the derivatives bubble and leading to a rise in stock markets, a completely illusory and manufactured occurrence. The bailouts have, in effect, fed the derivatives bubble to dangerous new levels as well as inflating the stock market to an unsustainable position.

 

However, a massive threat looms in the cost of the bailouts and so-called “stimulus” packages. The economic crisis was created as a result of low interest rates and easy money: high-risk loans were being made, money was invested in anything and everything, the housing market inflated, the commercial real estate market inflated, derivatives trade soared to the hundreds of trillions per year, speculation ran rampant and dominated the global financial system. Hedge funds were the willing facilitators of the derivatives trade, and the large banks were the major participants and holders.

 

At the same time, governments spent money loosely, specifically the United States, paying for multi-trillion dollar wars and defense budgets, printing money out of thin air, courtesy of the global central banking system. All the money that was produced, in turn, produced debt. By 2007, the total debt – domestic, commercial and consumer debt – of the United States stood at a shocking $51 trillion.[17]

 

As if this debt burden was not enough, considering it would be impossible to ever pay back, the past two years has seen the most expansive and rapid debt expansion ever seen in world history – in the form of stimulus and bailout packages around the world. In July of 2009, it was reported that, “U.S. taxpayers may be on the hook for as much as $23.7 trillion to bolster the economy and bail out financial companies, said Neil Barofsky, special inspector general for the Treasury’s Troubled Asset Relief Program.”[18]

 

Bilderberg Plan in Action?

 

In May of 2009, I wrote an article covering the Bilderberg meeting of 2009, a highly secretive meeting of major elites from Europe and North America, who meet once a year behind closed doors. Bilderberg acts as an informal international think tank, and they do not release any information, so reports from the meetings are leaked and the sources cannot be verified. However, the information provided by Bilderberg trackers and journalists Daniel Estulin and Jim Tucker have proven surprisingly accurate in the past.

 

In May, the information that leaked from the meetings regarded the main topic of conversation being, unsurprisingly, the economic crisis. The big question was to undertake “Either a prolonged, agonizing depression that dooms the world to decades of stagnation, decline and poverty ... or an intense-but-shorter depression that paves the way for a new sustainable economic world order, with less sovereignty but more efficiency.”

 

Important to note, was that one major point on the agenda was to “continue to deceive millions of savers and investors who believe the hype about the supposed up-turn in the economy. They are about to be set up for massive losses and searing financial pain in the months ahead.”

 

Estulin reported on a leaked report he claimed to have received following the meeting, which reported that there were large disagreements among the participants, as “The hardliners are for dramatic decline and a severe, short-term depression, but there are those who think that things have gone too far and that the fallout from the global economic cataclysm cannot be accurately calculated.” However, the consensus view was that the recession would get worse, and that recovery would be “relatively slow and protracted,” and to look for these terms in the press over the next weeks and months. Sure enough, these terms have appeared ad infinitum in the global media.

 

Estulin further reported, “that some leading European bankers faced with the specter of their own financial mortality are extremely concerned, calling this high wire act ‘unsustainable,’ and saying that US budget and trade deficits could result in the demise of the dollar.” One Bilderberger said that, “the banks themselves don't know the answer to when (the bottom will be hit).” Everyone appeared to agree, “that the level of capital needed for the American banks may be considerably higher than the US government suggested through their recent stress tests.” Further, “someone from the IMF pointed out that its own study on historical recessions suggests that the US is only a third of the way through this current one; therefore economies expecting to recover with resurgence in demand from the US will have a long wait.” One attendee stated that, “Equity losses in 2008 were worse than those of 1929,” and that, “The next phase of the economic decline will also be worse than the '30s, mostly because the US economy carries about $20 trillion of excess debt. Until that debt is eliminated, the idea of a healthy boom is a mirage.”[19]

 

Could the general perception of an economy in recovery be the manifestation of the Bilderberg plan in action? Well, to provide insight into attempting to answer that question, we must review who some of the key participants at the conference were.

 

Central Bankers

 

Many central bankers were present, as per usual. Among them, were the Governor of the National Bank of Greece, Governor of the Bank of Italy, President of the European Investment Bank; James Wolfensohn, former President of the World Bank; Nout Wellink, President of the Central Bank of the Netherlands and is on the board of the Bank for International Settlements (BIS); Jean-Claude Trichet, the President of the European Central Bank was also present; the Vice Governor of the National Bank of Belgium; and a member of the Board of the Executive Directors of the Central Bank of Austria.

 

Finance Ministers and Media

 

Finance Ministers and officials also attended from many different countries. Among the countries with representatives present from the financial department were Finland, France, Great Britain, Italy, Greece, Portugal, and Spain. There were also many representatives present from major media enterprises around the world. These include the publisher and editor of Der Standard in Austria; the Chairman and CEO of the Washington Post Company; the Editor-in-Chief of the Economist; the Deputy Editor of Die Zeit in Germany; the CEO and Editor-in-Chief of Le Nouvel Observateur in France; the Associate Editor and Chief Economics Commentator of the Financial Times; as well as the Business Correspondent and the Business Editor of the Economist. So, these are some of the major financial publications in the world present at this meeting. Naturally, they have a large influence on public perceptions of the economy.

 

Bankers

 

Also of importance to note is the attendance of private bankers at the meeting, for it is the major international banks that own the shares of the world’s central banks, which in turn, control the shares of the Bank for International Settlements (BIS). Among the banks and financial companies represented at the meeting were Deutsche Bank AG, ING, Lazard Freres & Co., Morgan Stanley International, Goldman Sachs, Royal Bank of Scotland, and of importance to note is David Rockefeller,[20] former Chairman and CEO of Chase Manhattan (now J.P. Morgan Chase), who can arguably be referred to as the current reigning ‘King of Capitalism.’

 

The Obama Administration

 

Heavy representation at the Bilderberg meeting also came from members of the Obama administration who are tasked with resolving the economic crisis. Among them were Timothy Geithner, the US Treasury Secretary and former President of the Federal Reserve Bank of New York; Lawrence Summers, Director of the White House's National Economic Council, former Treasury Secretary in the Clinton administration, former President of Harvard University, and former Chief Economist of the World Bank; Paul Volcker, former Governor of the Federal Reserve System and Chair of Obama’s Economic Recovery Advisory Board; Robert Zoellick, former Chairman of Goldman Sachs and current President of the World Bank.[21]

 

Unconfirmed were reports of the Fed Chairman, Ben Bernanke being present. However, if the history and precedent of Bilderberg meetings is anything to go by, both the Chairman of the Federal Reserve and the President of the Federal Reserve Bank of New York are always present, so it would indeed be surprising if they were not present at the 2009 meeting. I contacted the New York Fed to ask if the President attended any organization or group meetings in Greece over the scheduled dates that Bilderberg met, and the response told me to ask the particular organization for a list of attendees. While not confirming his presence, they also did not deny it. However, it is still unverified.

 

Naturally, all of these key players to wield enough influence to alter public opinion and perception of the economic crisis. They also have the most to gain from it. However, whatever image they construct, it remains just that; an image. The illusion will tear apart soon enough, and the world will come to realize that the crisis we have gone through thus far is merely the introductory chapter to the economic crisis as it will be written in history books.

 

Conclusion

 

The warnings from the Bank for International Settlements (BIS) and its former Chief Economist, William White, must not be taken lightly. Both the warnings of the BIS and William White in the past have gone unheralded and have been proven accurate with time. Do not allow the media-driven hope of ‘economic recovery’ sideline the ‘economic reality.’ Though it can be depressing to acknowledge; it is a far greater thing to be aware of the ground on which you tread, even if it is strewn with dangers; than to be ignorant and run recklessly through a minefield. Ignorance is not bliss; ignorance is delayed catastrophe.

 

A doctor must first properly identify and diagnose the problem before he can offer any sort of prescription as a solution. If the diagnosis is inaccurate, the prescription won’t work, and could in fact, make things worse. The global economy has a large cancer in it: it has been properly diagnosed by some, yet the prescription it was given was to cure a cough. The economic tumor has been identified; the question is: do we accept this and try to address it, or do we pretend that the cough prescription will cure it? What do you think gives a stronger chance of survival? Now try accepting the idea that ‘ignorance is bliss.’

 

As Gandhi said, “There is no god higher than truth.” 

 

For an overview of the coming financial crises, see: "Entering the Greatest Depression in History: More Bubbles Waiting to Burst," Global Research, August 7, 2009.


Endnotes

 

[1]        Time, HEROES: Man-of-the-Year. Time Magazine: Jan 6, 1930: http://www.time.com/time/magazine/article/0,9171,738364-1,00.html

 

[2]        James Calvin Baker, The Bank for International Settlements: evolution and evaluation. Greenwood Publishing Group, 2002: page 2

 

[3]        James Calvin Baker, The Bank for International Settlements: evolution and evaluation. Greenwood Publishing Group, 2002: page 6

 

[4]        James Calvin Baker, The Bank for International Settlements: evolution and evaluation. Greenwood Publishing Group, 2002: page 148

 

[5]        James Calvin Baker, The Bank for International Settlements: evolution and evaluation. Greenwood Publishing Group, 2002: page 149

 

[6]        Carroll Quigley, Tragedy and Hope: A History of the World in Our Time (New York: Macmillan Company, 1966), 324-325

 

[7]        Carroll Quigley, Tragedy and Hope: A History of the World in Our Time (New York: Macmillan Company, 1966), 324

 

[8]        Ambrose Evans-Pritchard, Derivatives still pose huge risk, says BIS. The Telegraph: September 13, 2009: http://www.telegraph.co.uk/finance/newsbysector/banksandfinance/6184496/Derivatives-still-pose-huge-risk-says-BIS.html

 

[9]        Robert Cookson and Sundeep Tucker, Economist warns of double-dip recession. The Financial Times: September 14, 2009: http://www.ft.com/cms/s/0/e6dd31f0-a133-11de-a88d-00144feabdc0.html

 

[10]      Patrick Jenkins, BIS head worried by complacency. The Financial Times: September 20, 2009: http://www.ft.com/cms/s/0/a7a04972-a60c-11de-8c92-00144feabdc0.html

 

[11]      David Uren. Bank for International Settlements warning over stimulus benefits. The Australian: June 30, 2009:

http://www.theaustralian.news.com.au/story/0,,25710566-601,00.html

 

[12]      Simone Meier, BIS Sees Risk Central Banks Will Raise Interest Rates Too Late. Bloomberg: June 29, 2009:

http://www.bloomberg.com/apps/news?pid=20601068&sid=aOnSy9jXFKaY

 

[13]      Robert Cookson and Victor Mallet, Societal soul-searching casts shadow over big banks. The Financial Times: September 18, 2009: http://www.ft.com/cms/s/0/7721033c-a3ea-11de-9fed-00144feabdc0.html

 

[14]      AFP, Top central banks agree to tougher bank regulation: BIS. AFP: September 6, 2009: http://www.google.com/hostednews/afp/article/ALeqM5h8G0ShkY-AdH3TNzKJEetGuScPiQ

 

[15]      Simon Kennedy, Basel Group Agrees on Bank Standards to Avoid Repeat of Crisis. Bloomberg: September 7, 2009: http://www.bloomberg.com/apps/news?pid=20601087&sid=aETt8NZiLP38

 

[16]      Abigail Moses, Central Banks Must Agree Global Clearing Supervision, BIS Says. Bloomberg: September 14, 2009: http://www.bloomberg.com/apps/news?pid=20601087&sid=a5C6ARW_tSW0

 

[17]      FIABIC, US home prices the most vital indicator for turnaround. FIABIC Asia Pacific: January 19, 2009: http://www.fiabci-asiapacific.com/index.php?option=com_content&task=view&id=133&Itemid=41

 

Alexander Green, The National Debt: The Biggest Threat to Your Financial Future. Investment U: August 25, 2008: http://www.investmentu.com/IUEL/2008/August/the-national-debt.html

 

John Bellamy Foster and Fred Magdoff, Financial Implosion and Stagnation. Global Research: May 20, 2009: http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=13692

 

[18]      Dawn Kopecki and Catherine Dodge, U.S. Rescue May Reach $23.7 Trillion, Barofsky Says (Update3). Bloomberg: July 20, 2009: http://www.bloomberg.com/apps/news?pid=20601087&sid=aY0tX8UysIaM

 

[19]      Andrew Gavin Marshall, The Bilderberg Plan for 2009: Remaking the Global Political Economy. Global Research: May 26, 2009: http://www.globalresearch.ca/index.php?aid=13738&context=va

 

[20]      Maja Banck-Polderman, Official List of Participants for the 2009 Bilderberg Meeting. Public Intelligence: July 26, 2009: http://www.publicintelligence.net/official-list-of-participants-for-the-2009-bilderberg-meeting/

 

[21]      Andrew Gavin Marshall, The Bilderberg Plan for 2009: Remaking the Global Political Economy. Global Research: May 26, 2009: http://www.globalresearch.ca/index.php?aid=13738&context=va



 

Andrew Gavin Marshall is a Research Associate with the Centre for Research on Globalization (CRG). He is currently studying Political Economy and History at Simon Fraser University.



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Tres millones de italianos en la pobreza

733662.jpgTres millones de italianos en la pobreza

El 4,4% de las familias pasa hambre

El 4,4% de las familias residentes Italia, lo que equivale a unos tres millones de personas, viven por debajo del límite de pobreza alimentaria, según una investigación llevado a cabo por la Fondazione per la Sussidarieta, la Universidad Católica de Milán y la Universidad de Milán-Bicocca.

El parámetro utilizado para fijar el límite de la pobreza alimentaria ha sido fijado en 222,29 euros de gasto mensual en comida y bebida por familia, teniendo en cuenta las variaciones regionales en el costo de la vida: 233-252 euros en el Norte, 207-233 en el Centro y 196-207 en el Sur del país.

En base a este estudio, fue trazado un retrato-promedio de las familias italianas que tienen dificultades en comprar productos alimentarios básicos, como el pan, la pasta o la carne.


Los más pobres en Italia, afirma la investigación son familias numerosas que viven en el Sur del país, cuyos miembros no tienen trabajo y disponen de un nivel bajo de instrucción.

La causa principal del descenso por debajo del límite de la pobreza alimentaria es el desempleo (60% de los casos), dato confirmado por la diferencia en la incidencia de la tasa de pobreza entre quien tiene un trabajo (3,4%) y quien no (12,4%).

El segundo factor crucial es la extensión del núcleo familiar: la pobreza alimentaria afecta sólo el 1,7% de los solteros que viven solos, y el 10,3% de las familias que tienen por lo menos tres hijos. Los ancianos que viven solos se sitúan en el promedio nacional (4,5%).

El estudio confirma asimismo la fuerte diferencia entre las regiones más ricas y más pobres de Italia: en Sicilia y Cerdeña más del 10% de la población se encuentra debajo del límite de la pobreza alimentaria, mientras en regiones como Toscana, Liguria, Veneto y Alto Adigio la tasa desciende por debajo del 3%.

Extraído de Argenpress.

mercredi, 14 octobre 2009

Ce qui se cache derrière les privatisations

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Ce qui se cache derrière les privatisations

Ex: http://unitepopulaire.org

« Le marché, parce que sa dynamique est tellement contraire à celle de la nature, de l’homme et de la vie sociale, ne peut s’imposer à des citoyens rétifs qu’au prix d’incalculables dislocations et souffrances : faute d’être retenue par l’intervention régulière de l’Etat, la "main invisible" inventée par Adam Smith eût partout abouti à la démolition de la société qu’on observa en Russie pendant l’ère Elstine. […]

 

 

Même si ses partisans enflammés le prétendent aussi naturel que la liberté, même si ses adversaires découragés l’imaginent aussi irrésistible que la géométrie euclidienne, le laisser-faire oblige à ne jamais cesser de faire. Pour parachever la construction de la cathédrale libérale, pour consolider l’ordre marchand, il faut toujours un traité de plus, une protection constitutionnelle de moins, une nouvelle étape dans la foulée de la précédente : en Europe, la convergence des politiques monétaristes a facilité la libération des capitaux, qui a préparé le terrain au traité de Maastricht, qui a imposé l’indépendance des banques centrales, qui a garanti le maintien de politiques sacrifiant l’emploi.

 

Cet étouffement programmé du secteur public s’inscrit bien sûr dans cette perspective. Les entreprises nationalisées ont eu pour vocation de suppléer aux insuffisances du marché, d’être le fer de lance d’une politique économique démocratique, d’assurer des missions de service public, de favoriser l’égalité des citoyens, de jouer un rôle d’aiguillon social. Or aucun de ces objectifs ne constitue plus la priorité des gouvernants, une partie de l’opinion s’est mise à douter qu’ils restaient accessibles, et la vente des entreprises nationales a semblé constituer un gisement financier facilement exploitable. Pourtant, privatiser, c’est oublier ce que soixante ans au moins d’histoire économique ont enseigné.

 

Et d’abord les défaillances de l’entrepreneur privé. Des activités à haut risque, à forte exigence de capital et à cycle long (espoir de profit plus éloigné que l’horizon des marchés financiers) réclament l’intervention de la puissance publique, qui en est souvent le seul ou principal client (nucléaire, spatial, armement), faute de quoi devraient se constituer des monopoles industriels tellement puissants qu’ils deviendraient vite, comme le craignait Charles de Gaulle, "en mesure de faire pression sur l’Etat".

 

La volonté collective d’orienter l’économie, ensuite. Tantôt frileux, tantôt aveuglé par le tropisme du dividende, le capitalisme n’accouche naturellement ni d’une politique industrielle, ni d’une stratégie d’aménagement du territoire, ni d’un équilibre de plein emploi. Sans l’intervention de l’Etat, le Japon se fût enfermé dans des activités à faible valeur ajoutée, la désertification et l’enclavement de régions entières seraient devenues inexorables parce que cumulatives, la neutralité de la dépense publique n’eût pas permis de combattre l’insuffisance de la demande globale. […]

 

Toute avancée du marché exige un travail minutieux de préparation idéologique. Cela est d’autant plus facile que les principaux moyens d’information, eux-mêmes propriété de grands groupes privés (Bouygues, Lagardère, LVMH, etc.) opèrent comme autant de relais de presse sur le patronat : dans ce rôle, les éditorialistes économiques de TF1 ou d’Europe 1 sont seulement plus caricaturaux que les autres. Toutefois, la contrainte financière qui pèse sur un Etat de plus en plus privé de recettes fiscales joue également son rôle : reprenant à son compte une idée maîtresse du reaganisme, Alain Minc n’avait-il pas expliqué : "Le système public ne reculera que pris en tenaille entre des déficits devenus insupportables et des ressources en voie de rétraction" ? Créer une contrainte pour ensuite s’y prétendre soumis est la démarche habituelle qui précède tous les reculs sociaux. »

 

Serge Halimi, "Déréguler à tout prix", Manière de Voir n°102, décembre 2008-janvier 2009

mardi, 13 octobre 2009

La colonisation financière

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1997

LA COLONISATION FINANCIERE

 

Une nouvelle ère de colonisation a commencé avec l'éreintement de l'Europe. Aux colonies de peuplement s'ajoute la co­lonisation financière par le dollar, à nouveau sur le devant de la scène à l'approche de la décision européenne en faveur de l'Euro, et après les dernières fluctuations des monnaies asiatiques très liées à cette monnaie. Depuis 1945 la colonisation à la romaine avait repris une grande importance, avec des Américains installant des bases à statut spécial au sein des autres pays; mais avec la vassalité financière “la colonisation reprend des formes oubliées, celle des fiefs vénitiens ou des ma­hones génoises, celle peut-être des Phéniciens et des Carthaginois” (1).

 

Le fondement du pillage financier: créer la crédulité

 

De 1945 à l985 s'est déroulé une guerre de quarante ans, guerre froide, gagnée par ceux qui ont été capables d'en financer les coûts (2). Le système de Bretton-Woods jusqu'en 1971 en fut la première étape. La seconde, qui se termina en l980, fonctionna avec la planche à billet; la titrisation, l'emprunt, se développèrent à la troisième étape. La crise des paiements internationaux de 1973 à l990 se ramène donc à un processus respiratoire tout à fait spécifique aux financiers: le gonflement des croyances (des creances), suivi d'un dégonflement. De 1973 à 1982, les soviets de la finance ont fait naître de nouvelles créances: exporter vers les PVD (Pays en Voie de Développement) en leur accordant prêts et crédits. De 1980 à 1985, la politique monétaire américaine fit naître de nouvelles créances, le déficit budgétaire, dont la contrepartie était les exporta­tions vers les USA. Chaque fois, les stratégies gagnantes sont: détenir et faire naître de nouvelles créances puis racheter les occasions décotées lorsque la valeur de ces créances s effondre.

 

Depuis l990, la nouvelle stratégie des colonisateurs financiers est de transformer les opinions en réalité grâce aux nou­veaux instruments financiers créés sur les marchés à terme. Ces nouveaux instruments ont deux effets :

- Ils font advenir les phénomènes redoutés. Les ventes et achats pour se couvrir contre les fluctuations, les engendrent...

- Ils accroissent le rôle des spéculateurs. Ceux-ci se présentent comme crédibles, et trouvent en face d'eux des crédules.

 

La méthode n'est rien de plus qu'une extension des procédés de fabrication de l'histoire sainte au travers des miracles : le prédicateur se rend crédible pour faire des dupes. En affectant une valeur de vérité à ses inventions, il les transforme en réalités. A l'heure présente, le colonisateur financier observe que des regroupements régionaux sont à l'œuvre, qu'il lui faut empêcher ou “investir”. Les différentes variantes sont: délocalisation, fusion-acquisition, partenariats, transferts de technologie, cessions de brevets, licences. Dans le cas de l'Asie, le mécanisme de création de créances et la tentative de les racheter après dévaluation forcée est enclenché. Un exemple paradigmatique de la méthode du colonisateur est tiré d'un cas brésilien: une créance de 10 millions de $ est vendue 2,5 millions. Une entreprise l'achète et propose au Brésil de l'abandonner en échange de cruzeiros. L'entreprise peut ainsi acheter des entreprises brésiliennes...

 

Dans le cas de l'Europe, comment se présente la situation face au colonisateur?

 

L'Europe et les Etats-Unis, un conflit potentiel

 

Les faux-monnayeurs américains, en soumettant le monde au dollar, installent partout la dépendance matérielle et suppri­ment la liberté de penser. Et celui qui travaille simplement pour exécuter les ordres de maîtres étrangers ou de leurs sei­gneurs “raquedenare” locaux perd sa joie de travailler, ses forces créatrices, son élan, ses plus hautes aptitudes. Les dol­lars mis en circulation dans le monde ne deviendront de la fausse monnaie que lorsqu'un fournisseur soupçonneux la décla­rera fausse et ne reconnaitra pas qu'elle est un pouvoir d'achat. C'est en dénonçant la création ex nihilo  de dollars que cette devise deviendra de la fausse monnaie. Car c'est le degré d'acceptabilité ou de refus d'une monnaie qui permet de la quali­fier de vraie ou de fausse. Mais il existe une solidarité entre faux-monnayeurs et receleurs: on ne dénonce pas la monnaie que l'on détient soi-même sous peine de se ruiner. Que va-t-il se passer avec l'Euro?

 

Les USA, de fait, sont passés aux antipodes des intérêts de l'Europe et, sans le déclarer, sans fanfares, agissent pour em­pêcher son union. Les USA refusent l'équilibre des forces. Tous les équilibres ont été rompus à leur profit. Ils exercent une hégémonie sur l'économie (finance, commerce, services, ressources) et sur la stratégie mondiale. «La monnaie unique, loin d'être une innocente innovation, constituera, dès sa création, un casus belli  justifiant pour les USA, la plus grave des crises» (3). La quête de l'or et le pillage de la planète s'accompagnent d'un continuel besoin de justifier ces atrocités par des arguments tirés de la morale biblique. Pour les Al Capone américains, il est impératif d'associer le pillage du monde à une mission acceptable moralement. Déjà, en 1870, les USA avaient imposé aux Mexicains un régime de paiement financier qui réduisit l'économie de ce pays au statut de colonie... Par le biais de la seconde guerre mondiale, les soviets financiers américains ont conquis l'espace économique allemand et ont éliminé en prime la France et la Grande-Bretagne. Ils ont conquis le marché japonais et son espace économique. La fin de la guerre froide a cédé les zones d'influence soviétique. La guerre du Golfe, en 1990-91, leur a permis de prélever une dime supplémentaire sur l'Europe et, par l'usage infernal des superstitions de l'ancien testament, de faire financer à celle-ci leur mainmise sur le Moyen-Orient. En 1997, les USA sont les seuls maîtres de l'économie mondiale. Or le monde, vu de Washington, est un vaste marché où les frontières nationales sont considérées comme une “inconvenance”. Les congrégations de trafiquants pieux cherchent le monopole et la rente en liant le monde, pays par pays, aux USA, par un enchevêtrement d'accords et l'usage de leur mon­naie.

 

Les USA ne s'attaquent pas de front à l'Europe, mais cherchent à l'étouffer.

- Au plan militaire: l'OTAN vassalise l'Allemagne et la France. Récemment, l'Irak puis la Bosnie ont été deux occasions de mettre les Européens sous commandement US.

- Au plan commercial: les USA ne veulent pas céder l'accès à leur marché, alors que tous les pays doivent laisser ou­verts les leurs. Et la bataille est permanente sur les marchés internationaux. Une fois, les industries étrangères sont ex­clues du marché public US; une fois, il y a des sanctions fiscales sur les importations. Etc.

- Dans la technologie de pointe, le multimédiat, le monopole US a été acquis par une astucieuse utilisation des tech­niques d'inscription des brevets. Le brevet US est accepté partout dans le monde. Le brevet étranger doit être évalué aux USA.

 

Il est impossible de discuter avec les USA. Leurs exigences, leurs intérêts et leurs croyances deviennent des impératifs religieux, au nom de l'humanité et autres billevesées, qui doivent devenir la politique de tout un chacun. La monnaie unique est donc nécessaire et urgente car les mesures internes à l'Europe sont vaines: les eurosceptiques proposent de se rapprocher des USA et de dupliquer leur modèle. Ils sont tombés dans le piège du leadership US. Hier, certains politi­ciens prenaient leurs ordres à Moscou. Aujourd hui, ils obéissent à Washington... La monnaie unique ne sera pas seulement la monnaie de l'Union Européenne, mais aussi une deuxième monnaie internationale. Des producteurs de matières pre­mières pourront demander de signer des contrats en euros. Alors, l'investissement étranger aux USA en dollar, qui est de 500 à 800 milliards par an, cessera en grande partie. De plus, la vente internationale de dollars provoquera un excédent de liquidités.

 

La réaction des USA peut être de détruire l'Euro par une manœuvre politique interne à l'Europe; par exemple en déclen­chant une nouvelle guerre civile ou en faisant appel à la Russie dont la dette pourrait être épongée, si elle œuvrait contre l'Europe et en faveur des USA.

 

Le colonisateur financier brise les économies et détache l'homme de ses frères. Partout, désunion, solitude. Les soviets financiers américains sont des mangeurs d'âmes, froids comme la goule des cimetières. Longtemps en Europe, la plupart des banquiers se sont efforcés de maintenir la vie financière sur des voies conformes à l'esprit social et à l'honnêteté. Mais la guerre de 1914-1918, avec son lot de profiteurs, ses dettes, et les ententes entre soviets du prolétariat et soviets du capital a détruit cette civilisation sans la remplacer. Les Européens vont-ils continuer à se comporter comme une délégation d'Athènes vaincue face aux satrapes perses? Vont-ils se secouer au bord de l'abîme?

 

Frédéric VALENTIN.

 

Notes:

(1) René SEDILLOT, Histoire des colonisations, Fayard, 1958, p.638.

(2) Alain SIMON, Géopolitique et stratégies d'entreprise. Créances et Croyances, Interfaces, 1993.

(3) Emile COURY, L'Europe et les Etats-Unis, un conflit potentiel, Editions de l'aube, 1996, p.10. [115 pages, 95 FF].

 

lundi, 05 octobre 2009

Homo Economicus

Homo Economicus

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“The nearest buildings were almost two miles away, and formed a low belt completely surrounding the Park. Beyond them, rank after rank in ascending height, were the towers and terraces that made up the main bulk of the city. They stretched for mile upon mile, slowly climbing up the sky, becoming ever more complex and monumentally impressive. Diaspar had been planned as an entity; it was a single mighty machine. Yet though its outward appearance was almost overwhelming in its complexity, it merely hinted at the hidden marvels of technology without which all these great buildings would be lifeless sepulchres.” - THE CITY AND THE STARS. Arthur C. Clarke (1956)

Wealth has concentrated in the hands of the very few, but I reckon that Marx's explanation is only a part of the story, and I don't believe in the inevitability of class war; there are other forces at work in addition:

Wealth trajectory westward

“Brooks Adams also noted that centralized capital (the accumulation of wealth in the hands of a few inter-related families) seems to have been moving steadily West throughout recorded history. The first major accumulations are to be found in Sumer; the center of money-power then shifted to Egypt, to Greece, to the Italian peninsula, to various parts of Germany, and then to London. At the time Brooks Adams was writing (c.1900) he saw the balance teetering between London and New York, and he predicted that the decline of the English Empire would shift the balance to New York within the first half of the 20th Century. Brooks Adams had no theory as to why this Westward movement of wealth had been going on for 6000 years. He merely observed the pattern.
“The shift is still continuing, in the opinion of many. For instance, Carl Oglesby in The Cowboy vs. Yankee War, sees American politics since 1950 dominated by a struggle between 'old Yankee wealth' (the New York-Boston axis, which replaced London after 1900) and 'new cowboy wealth' (Texas-California oil-and-aerospace billionaires).” - PROMETHEUS RISING. Robert Anton Wilson (1983).

Since the 80s, Wilson and others have argued that the concentration of wealth has continued it's westward journey, crossing the Pacific to Japan and China but at the same time apparently vanishing into cyberspace.

Corporatism and Distributism

Both these theories emerged in the late Nineteenth Century as the Catholic Church's response to socialism, and I agree that both are superior (fairer and more efficient) than liberal capitalism.

Corporatism can vary from the very mild, e.g. Britain's Labour government in the late 1970s, to the idealistic full-blooded variety espoused by Alexander Raven Thomson.

“No greater mistake can be made than to regard the Corporate State as a mere mechanism of administration.
“On the contrary, it is the organic form through which the nation can find expression. Fascism is no material creed like Communism, which sets up, as its only purpose, the material benefit of the masses. Fascism is essentially idealistic, and refuses any such limitation. Fascism recognises the nation as an organism with a purpose, a life and means of action transcending those of the individuals of which it is composed.
“...it is only through co-operation with others in the organic purpose of the State that the individual can attain his highest potentiality. There is no need for any conflict between the individual and the State as neither can exist without the other. An individual exiled from the civilised communion must inevitably relapse into savagery: a State deprived of loyal co-operation with its citizens must inevitably collapse into barbarism.” - THE COMING CORPORATE STATE. Alexander Raven Thomson (1936)

Raven Thomson is describing a State with a Will. I believe that Will must be directed toward the conquest of space. All other considerations are secondary.

Automation

Growing up as a small boy in the Sixties, I vividly remember the excitement of the space race. I also remember the promise of greater automation, which would free our people from a life of drudgery and instead allow us to pursue our dreams. Like many other ideas from that scintillating decade the vision faded. It's true that less people now are involved in manufacturing – actually producing things – and the greater part of the workforce are employed in “services”, overwhelmingly financial services. We have swapped the workbench for the hot desk and office cubicle.

To my mind this is not an improvement, and I wondered who was to blame. I came to the conclusion that capitalism is essentially a control mechanism of the crudest kind; it pits each of us against all others (“the war of all against all”) in an apparent battle for survival that guarantees the preservation of an unchanging parasitical elite.

I am not an economist, which I reckon is a positive advantage because I don't accept the rules (e.g. supply and demand) upon which modern economics is based. Human behaviour is in the final analysis beyond reason and trying to make a science out of it is futile.

Also, the New Right encompasses a wide variety of economic models, from Norman Lowell's Might is Right Social Darwinism to Troy Southgate's devolved National Anarchism, so my views are not representative although they are close to Mosley's BUF policies in the 1930s. The reason why the New Right is able to hold such contradictory economic policies is because ideologically economics occupies a rather lowly rung. In Georges Dumezil's tri-partite theory of Aryan civilization, economics is “third function” (almost a natural process); whereas real politics is confined to first and second functions only.

My own economic ideas are driven by three major concerns: the necessity to maintain a technological civilization and expand into space, environmental pollution, and the general welfare of all our people in order that they can contribute fully to the Imperium. In all this it differs drastically with Marxism.

In regard to pollution/ climate change etc. I believe the best solution is along the lines of Paolo Soleri's Arcologies, where our industrial/ technological activity is effectively sealed off from the rest of the planet. These Arcologies would be very high density and imply the possibility of communal living; barracks, canteens – a bit like WW2 underground military bases – but not so gloomy. We would make huge economies of scale, and at the same time cut transport costs to virtually nil. For the few that want to try communal, organic communities, there's the land around the Arcologies to use, otherwise it will be allowed to revert to wilderness. All food for the Arcology would be produced in factories in the Arcology, and as a technological civilization (in contrast to that envisaged by Blood & Soil/ back-to-the-land enthusiasts) we would be able to defend ourselves against invasion.

It's bonkers to assume that all this can come about through the free market, let alone space exploration which has always demanded massive state funding, so I concluded that a self-sufficient planned economy is best. This command economy would have to embrace to whole of Europe, Russia and Siberia (at least) above all for racial/cultural reasons, but also because it is of sufficient extent, and with sufficient resources, to guarantee autarky.

“Men had built cities before, but never a city such as this. Some had lasted for centuries, some for millennia, before Time had swept away even their names. Diaspar alone had challenged Eternity, defending itself and all it sheltered against the slow attrition of the ages, the ravages of decay, and the corruption of rust.”

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dimanche, 04 octobre 2009

Le paradoxe del 'Etat libéral

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Le paradoxe de l'Etat libéral

http://unitepopulaire.org/

« De nombreuses guerres et divers massacres de masse ont ensanglanté le XXe siècle. Les libéraux ont beau jeu d’accuser les monarchies finissantes ou les régimes totalitaires d’avoir causé ces horreurs pour imposer le bonheur collectif  d’un empire, d’une race ou de l’humanité. C’est oublier que ces idéologies prétendaient résister au processus de décomposition initié par le libéralisme, dont la logique de l’illimité commençait à produire ses conséquences, sans que ses penseurs, Adam Smith, John Locke ou Montesquieu, personnes fort raisonnables, l’aient vraiment prévu. […]

Comme le libéralisme ignore par principe la notion de bien commun et que la liberté consiste pour lui dans la simple liquidation des tabous et des frontières, les désirs individuels ne trouvent plus aucun frein. Chacun est absolument libre de faire ce qu’il veut du moment qu’il ne nuit pas à autrui. Mais que veut dire "ne pas nuire à autrui" ? Comment définir la "non-nuisance" puisqu’aucune conception du bien ne vaut plus qu’une autre ? Comment les tribunaux dans lesquels les libéraux placent leur confiance trancheront-ils ? Dans le doute, s’alignant sur ce que le lobby le plus puissant du moment aura fait passer pour l’"évolution naturelle des mœurs", ils donneront raison au plus fort, jusqu’à ce que, sous la pression d’un autre lobby plus efficace, les lois aient changé. […]

La loi du plus fort chassée par la porte revient par la fenêtre. Les comportements chicaniers et procéduriers pullulent. Les diverses "communautés" au sens moderne du mot, alliances provisoires d’individus vaguement semblables, se déchirent devant les tribunaux afin de faire valoir leurs droits et d’exhiber leur "fierté" à la face du monde. La nécessité de satisfaire ses désirs et d’établir une concurrence "libre et non faussée" pour assurer la croissance oblige le libéralisme à dissoudre les communautés intermédiaires réputées conservatrices, parce qu’elles empêchent le mouvement perpétuel. L’Etat libéral, par un incroyable paradoxe, se renforce sans cesse au détriment des familles, des communes et du sentiment national. Il s’efforce de rendre les personnes conformes à l’idéologie en les transformant en consommateurs avides ou en producteurs sans cesse aiguillonnés par la concurrence. Les individus n’ont qu’un seul obstacle sur leur route : la liberté d’autrui. Cela signifie que les droits d’un homme quelconque s’étendent dans la mesure où la puissance qu’il amasse lui permet de l’emporter sur autrui. Le déploiement des libertés aboutit à la lutte de tous contre tous. Toute stabilité disparaît ; ce qu’il y a de plus sacré menace sans cesse de s’effondrer sous les coups de tel ou tel groupe de pression. »

 

 

Jacques Perrin, La Nation, 11 septembre 2009

jeudi, 01 octobre 2009

La conexion de las cuencas hidrograficas de Suramérica

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La conexión de las cuencas hidrográficas de Suramérica

 

 

 

Alberto Buela (*)

 

La navegación fluvial del Plata al Guaria es el eje más genuino de la integración suramericana el resto sono parole.

 

Sostiene muy bien el geopolitólogo belga Robert Steuckers que “ningún poder serio puede sobrevivir sin una dominación y una sujeción de la tierra y del espacio”.[1]  Todos los imperios antiguos organizaron la tierra mediante la construcción de carreteras como en el caso de Roma o mediante el control de los grandes ríos navegables como Egipto o China.

 

Si nosotros en Suramérica pretendemos constituir un gran espacio autocentrado con características de soberano y libre, debemos llevarnos de este consejo que nos viene dado por la historia.

 

Este subcontinente americano tiene una extensión de casi 18 millones de kilómetros cuadrados, el doble de los Estados Unidos así como el doble de Europa, posee, aparte de otras menores, tres grandes cuencas fluviales: la del río Amazonas (6.430.000 km.2), la del río de la Plata (4.000.000 km.2) y la del río Orinoco (1 millón km.2), que cubren dos tercios de su territorio y que forman una nutrida red de 50.000 km de vías navegables de grandes y pequeños cursos de agua que se extienden por toda América del Sur.

 

Así pues el tema de la vinculación por vía fluvial desde el Plata en Argentina-Uruguay al Guaria en Venezuela es un asunto de crucial valoración geopolítica y estratégica. Hablando con propiedad es un tema de metapolítica, por ser esta la interdisciplina que estudia las grandes categorías que condicionan la acción política.

 

Antecedentes históricos

 

El estudio del tema se viene arrastrando desde hace varios siglos y hasta ahora no ha pasado de buenas intenciones.

 

El primer antecedente que encontramos es en 1773 cuando el gobernador del Matto Grosso, Luiz de Cáceres, pensó construir un canal entre los ríos Alegre, afluente del Guaporé de la cuenca amazónica y el Aguapey, afluente del Paraguay de la cuenca del Plata. En esa estela sigue el Barón de Melgaço en 1851.

 

El primer estudio experimental lo encontramos en el geógrafo inglés  William Chandless: Resumo do intinerario da descida do Topajoz en octubre de 1854, (Notas, Río de Janeiro 1868) donde va a mostrar que en el descenso del río Topajoz viajando desde su desembocadura en el Amazonas se puede navegar hasta el Juruena que termina vinculado en las nacientes del Guaporé. Se busca el acceso al Amazonas por el este pero sin resolver el tema de la vinculación de las dos cuencas. Este trabajo es profundizado en Brasil por los ingenieros José de Moraes en 1869 con su “Plan Moraes” de navegación del Plata al Orinoco y luego por el ingeniero Andre Rebousas en 1874. Es de destacar que los estudios brasileños sobre la interconexión de las tres cuencas son de una precisión y detalle exquisitos y además son muchos trabajos, pero ninguno, absolutamente ninguno provocó ni un solo movimiento de tierra. Esta es la queja del gran estudioso brasileño del tema en el siglo XX don Paulo Mendes da Rocha.

 

El otro antecedente ilustre es el de presidente Sarmiento que hizo estudiar a un grupo de científicos franceses la posibilidad navegar sin interrupción desde la desembocadura del Río de la Plata hasta la del Orinoco. Algo que había ya expuesto en 1850 en su libro Argirópolis o la capital de los Estados Confederados del Río de la Plata, cuyo emplazamiento estaría en la Isla Martín García en el estuario del río de la Plata.

 

 

Cincuenta años después, en 1909, el geógrafo uruguayo Luis Cincineto Bollo en su libro Suramérica, pasado y presente afirma que “la futura gran ruta comercial de Sud América es el canal”  y propone seguir la tesis de Chandless de unir la cuenca del Plata con la del Amazonas por el Topajoz y no por el Guaporé-Madeira.

 

En 1916 aparece la Carta potomografica especial de America do Sul  Francisco Jaguaribe de Matos, padre del gran sociólogo brasileño Helio Jaguaribe, quien indica las claras posibilidades de conexión entre los ríos Guaporé y Paraguay.

 

Años después, en 1941, La Conferencia regional de los países del Plata reunida en Montevideo recomendó, a propuesta de Argentina, a los Estados miembros continuar los estudios existentes sobre conexión de los tres grandes sistemas hidrográficos de América del Sur.

 

Un año más tarde el ingeniero Ernesto Baldasarri dicta una conferencia titulada La vinculación de las cuencas del Amazonas y del Plata [2] donde expone que la vinculación entre las dos cuencas se puede realizar por dos caminos: por el este siguiendo los ríos Amazonas, Tapajoz, Juruena, Diamantino, Paraguay, Paraná, el Plata con un recorrido de 7.000 kms Y el otro por los ríos Amazonas, Madeira, Mamoré, Guaporé, Alegre, Aguapey, Jaurú, Paraguay, Paraná, el Plata con 8.500 kms de recorrido.

 

En 1947 aparece un trabajo liminar por su detalle técnico y precisión conceptual el del geógrafo Horacio Gallart Cruzando la América del sur desde el río de la Plata hasta el Orinoco, por vía fluvial [3] y el mapa de la ruta fluvial suramericana propone es por los ríos Paraná, Paraguay, Jaurú, Aguapey (cuenca del Plata), Alegre, Guaporé, Mamoré, Madeira, Amazonas, Negro (cuenca del Amazonas), Casiquiare y Orinoco.

 

Y en 1962 se publica el trabajo del ingeniero Gabriel del Mazo, historiador del radicalismo, legislador y publicista; ministro de defensa 58/59 titulado: Proyecto de un canal sudamericano [4]  en donde  se ocupa de analizar la vinculación entre las tres cuencas estableciendo que con la construcción de un canal intermedio de 30 km (entre las nacientes de los ríos Casiquiare y Negro) se salva la dificultad para vincular el Orinoco con el Amazonas y quedarían así vinculados y para conectar el Guaporé con el Paraguay, se deberá construir un canal de 8 km. con una diferencia de altitud de 30 metros, insignificante desnivel que divide las aguas de las dos más grandes cuencas hidrográficas de América del Sur: la del Amazonas y del Plata.

 

Entre diciembre de 1979 y mayo de 1980  hermanos Georgescu, venezolanos de origen rumano, navegaron los ríos Orinoco, Casiquiare, Negro, Amazonas, Madeira, Mamoré, Guaporé, Paraguay, Paraná y de la Plata, hasta la ciudad de Buenos Aires, cumpliendo una travesía de más de 8.000 km. Con ello demostraron prácticamente la existencia del eje fluvial norte - sur que permite la comunicación de las principales cuencas y las posibilidades que tienen los países de América del Sur de conectarse. El regreso por la misma vía se inició el 18 de enero de 1981.

 

Dificultades geográficas

 

Sabemos luego de los trabajos del ingeniero Ernesto Baldasarri que existen dos rutas para vincular el Amazonas y el Plata.

 

La vía más frecuentada hasta el presente es aquella que recorrieron Roger Courteville [5] en los años 30 y los hermanos Georgescu a principio de los 80. La misma que recomendó el geógrafo Horacio Gallart y el ingeniero Gabriel del Mazo, la que va del Plata al Amazonas volcada al oeste por el Guaporé-Madeira.

 

Existen acá dos dificultades muy simples de salvar. Navegando de sur a norte nos encontramos, en primer lugar, con la necesidad de la construcción de un canal de 8 km que una los ríos Aguapey y Alegre que corren largo trecho en paralelo. El primero afluente del Jaurú que lo es a su vez del Paraguay y el segundo del Guaporé.

La segunda dificultad la plantean las cachoeiras, cachuelas o pequeños saltos de agua sobre el río Madeira que surgen entre Guajará-Mirim y Porto Velho que en su conjunto significan un descenso de 66 metros de las aguas del río, lo que exige la construcción de un sistema de represas, hoy con la tecnología existente de fácil y rápida realización.[6]

 

Finalmente la vinculación entre el Amazonas y el Orinoco no ofrece mayores dificultades salvo los rápidos o raudales Atures y Maypures del Casiquiare cuya navegación se hace en base a baqueanos o prácticos conocedores de toda la red de ríos adyacentes como lo atestiguan los hermanos Georgescu que lo navegaron de ida y de vuelta sin inconvenientes.[7]

 

La segunda vía es la propuesta por Cincineto Bollo que navegando de sur a norte va del Paraguay, al Diamantino, Juruena, Tapajoz para desembocar en el Amazonas. Parte de este largo viaje fue relatado magníficamente por el fotógrafo francés naturalizado brasileño Hécules Florence (1804-1879) en su libro Vingem fluvial: Do Tieté do Amazonas.

 

Afirma Gabriel del Mazo que: A solo dos kilómetros al este de las fuentes del Paraguay nace el río Negro (Preto) afluente occidental del Arinos (Tapajoz). En esta zona donde laten y brotan las fuentes del Amazonas y del Plata existe el relato del dueño de una fazenda del Estivado (río afluente del Arinos) quien afirma que eventualmente unió el Amazonas y el Plata pues “se propuso regar su jardín” y cavó un canal entre dos de sus afluentes originarios”. [8]

Vemos como esta vía no ofrece mayores dificultades geográficas por superar.

 

Dificultades políticas

 

La demora inconcebible luego de tres siglos de propuesta de un canal suramericano no encuentra otra explicación que las dificultades políticas que se han opuesto a su realización. Es  sabido luego de una larga historia de desencuentros que las estrategias de Argentina y Venezuela chocan con la del Brasil en este punto.

 

Brasil desalienta la navegación del Plata al Amazonas porque ello supone abrirle el acceso de la Amazonia a la Argentina.  Además de las dos vías se encuentra descartada la propuesta por el geógrafo uruguayo Bollo, aquella que va a través del Tapajoz pues ello implica penetrar en el corazón mismo del Brasil. Esta es una dificultad política insalvable y entendible. Una potencia emergente como Brasil no puede permitir que barcos de Venezuela y Argentina transiten libremente por el centro estratégico de su territorio.

 

Descartada esta posibilidad solo queda la vía del oeste que navega por ríos limítrofes del Brasil con Paraguay y con Bolivia, pero la resistencia también se siente. Pues la estrategia de Brasil como la de los Estados Unidos es salir al oeste y no extenderse de norte a sur, y el canal suramericano se inscribe en esta última estrategia. Brasil no tiene necesidad de navegar el Casiquiare para llegar al Guaira ni tiene necesidad de navegar el Guaporé para llegar al Plata. La Superintendencia de Navegación interior del Brasil muestra oficialmente que la estrategia del país lusitano es buscar la integración del Brasil por separado  con Perú y Bolivia por un lado, con Argentina, Paraguay y Uruguay por otro, con Ecuador, Colombia y Venezuela por otro. Esto hay que tenerlo en cuenta porque sino corremos el riesgo de caer en un utopismo voluntarista que solo nos lleva a producir ensayos sobre el tema. Hay que decirlo con todas las letras, la necesidad es de Argentina, Venezuela, Colombia, Ecuador, Perú y Bolivia que podrían sacar sus productos en grandes cantidades, en forma económica y no contaminante.

 

La realización de este canal suramericano supone, antes que nada, persuadir y convencer a la intelligensia  brasileña de Itamaraty de las ventajas que su realización puede acarrearle al Brasil [9], de lo contrario seguiremos escribiendo ensayos sobre la conexión de las tres cuencas de América del Sur y leyendo amables diarios de viajes de los impenitentes viajeros europeos.[10]

 

(*) CeeS- Centro de estudios estratégicos suramericanos- UTN- Federación del Papel

 

alberto.buela@gmail.com



[1] Entrevista de Metamedia publicada en Geosur Nº 352-352, Montevideo, sep-oct 2009, p.16

[2] Publicada en la revista Ingeniería, publicación del Centro Argentino de Ingenieros, Buenos Aires, mayo de 1942 pp.285 a 293

[3] En Revista de Geografía Americana, año XV, Buenos Aires, octubre de 1947

[4] Publicado, entre otros, en revista Estrategia Nº 61/62, Buenos Aires, enero-feb. 1980 pp. 30 a 39

5 De Buenos Aires a l`Amazona par le centre de l´Amerique du Sud, revista “L´Ilustration”, Paris Nº 20, sep. 1930

6 Sobre este tramo de la navegación es irremplazable el trabajo de Monseñor Federico Lunardi:  De Guajará-Mirim a Porto Velho en Revista de Geografía Americana N° 64, enero 1939

[7] Los ríos de la integración suramericana, Universidad Simón Bolivar, Caracas, 1984

[8] Del Mazo, Gabriel: op.cit. p.34

[9] Por ejemplo, se podría argumentar que si la Hidrovía Paraguay-Paraná conectara efectivamente Puerto Cáceres en Mato Grosso, con el de Nueva Palmira en Uruguay, la soja brasileña y paraguaya podría desembarcar en el exterior U$S 25 más barata, por tonelada, que la soja de EE.UU.. De igual forma, si la Hidrovía careciera de los obstáculos de dragado y balizamiento que hoy tiene, lo que actualmente se transporta en treinta días podría llegar a transportarse en un máximo de diez días.

[10] Existe en italiano un viejo trabajo Giuseppe Puglisi: Dal Plata al Orinoco per via fluviale, publicado en la revista "Le Vie d'Italia e del Mondo" (año I, Nos. 11 y 12), noviembre y diciembre de 1933.

 

Réédition: "Le péril socialiste" de Vilfredo Pareto

pareto-vign.jpgLE PÉRIL SOCIALISTE

par Vilfredo PARETO

http://www.editions-du-trident.fr/

préface de Georges Lane.
Vilfredo
Pareto ne fut pas seulement le père de la sociologie moderne.
Ingénieur  brillant, puis directeur des chemins de fers italiens, ses écrits remarqués lui vaudront d'enseigner l'économie à Florence, puis de succéder à Walras dans sa  prestigieuse chaire de l'université de Lausanne.
Dans ces écrits, il souligne, après la période romantique de l'unification de l'Italie, combien les réseaux de pouvoirs interviennent de plus en plus dans la banque, dans la "protection" démagogique de l'industrie nationale, ayant pour effet de la détruire, et de provoquer le marasme du pays. Et le socialisme d'État alimente le “péril socialiste”. Sa formation technique et scientifique permet à l’auteur de donner des preuves
tangibles des faits qu'il analyse ainsi.

Or, les lois qu'ils dégage, et de son observation, et de sa connaissance de la théorie  économique, s'appliquent singulièrement à l'Europe contemporaine et aux fausses  solutions que les politiques imaginent d'apporter aujourd'hui à la crise.           

Lire aussi sur Pareto : "Pareto successeur pessimiste de Molinari" par Murray Rothbard [ou dans nos archives]
"Pourquoi il faut lutter contre le protectionnisme"
sur le site de l'Insolent

••• 426 pages 29 euros ••• Pour commander ce livre • par correspondance : ••• imprimer notre catalogue en pdf et un bon de commande
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samedi, 26 septembre 2009

Iran, de dollar en de euro

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Iran, de dollar en de euro

Geplaatst door yvespernet

http://presstv.com/detail.aspx?id=106669&sectionid=351020102

Iran’s President Mahmoud Ahmadinejad has ordered the replacement of the US dollar by the euro in the country’s foreign exchange accounts.
The September 12 edict was issued following a decision by the trustees of the country’s foreign reserves, Mehr News Agency reported.
Earlier, the Islamic Republic of Iran had announced that the euro would replace the greenback in the country’s oil transactions. Iran has called on other OPEC members to ditch the sinking dollar in favor of the more credible euro.
Following the switch, the interest rate for the facilities provided from the Foreign Exchange Reserves will be reduced from12 to 5 percent.
Since being introduced by the European Union, the euro has gained popularity internationally and there are now more euros in circulation than the dollar.
The move will also help decouple Iran from the US banking system.

Iran’s President Mahmoud Ahmadinejad has ordered the replacement of the US dollar by the euro in the country’s foreign exchange accounts. The September 12 edict was issued following a decision by the trustees of the country’s foreign reserves, Mehr News Agency reported. Earlier, the Islamic Republic of Iran had announced that the euro would replace the greenback in the country’s oil transactions. Iran has called on other OPEC members to ditch the sinking dollar in favor of the more credible euro.

Following the switch, the interest rate for the facilities provided from the Foreign Exchange Reserves will be reduced from12 to 5 percent. Since being introduced by the European Union, the euro has gained popularity internationally and there are now more euros in circulation than the dollar. The move will also help decouple Iran from the US banking system.

Als u zich afvraagt waarom de V.S.A het op Iran gemunt hebben, dit is één van de hoofdredenen. Heel de retoriek over het gevaar van raketten heeft te maken met het scheppen van een anti-Iransfeer. Want als je nadenkt over die Iraanse “rakettendreiging” is dat niet meer dan onzin. Iran overleeft voor een zeer groot deel van de olie-export naar het Westen. Zodra er ook maar één Iraanse raket richting Europa vliegt, stort heel hun economie in.

En natuurlijk is Iran nu bezig met het versterken van hun leger. Ze hebben genoeg lessen getrokken uit Irak, dat ironisch genoeg kort voor de Amerikaanse inval bezig was met het overschakelen naar de Euro voor de olie-industrie. Komt daar nog eens bij, als Iran een kernwapen ontwikkelt, dan is het omdat ze lessen hebben getrokken uit Noord-Korea die met rust gelaten worden vanwege die kernwapens.

jeudi, 24 septembre 2009

Capitalistas y Caballeros

CAPITALISTAS Y CABALLEROS

Ex: http://digart3.wordpress.com/

Todas las semanas llega algún caballero cruzado del capital cantando las virtudes de la flexibilización del mercado de trabajo, o lo que es lo mismo, el despido libre. El último, el ex presidente del gobierno. Alumno aventajado de Bush y su virtuosismo, se suma a la plétora de salvadores de la humanidad. Lo cual, no es de extrañar, por otro lado, en este tipo de personajes.

La “rigidez” del mercado de trabajo no parece ser la causa de la actual crisis económica. Y la flexibilización laboral no será la solución. Basta con darse un par de vueltas por la red para encontrar los motivos de la actual crisis. Por otro lado, ¿No es acaso EE.UU – o cualquier otro país flexible- el paradigma de la libertad del mercado de trabajo y donde, precisamente, la crisis se inició y dista de resolverse?.

 

En general, los argumentos que sostienen los defensores del despido libre se resumen en:

La economía del siglo XXI demanda trabajadores dispuestos a la superación profesional. Trabajadores competitivos y arduos defensores de la formación y evolución continua en sus capacidades productivas.

El despido libre no es una merma de los derechos laborales del trabajador. Al contrario, es el acicate que necesita para esforzarse en ser el mejor recurso humano del mercado: el más productivo. Lo cual, también repercutirá en su vida social.

La flexibilidad del mercado de trabajo facilitará la capacidad de adaptación de las empresas. Permitirá recompensar a los mejores y arrinconar a los peores.

Además, mejorará la competitividad de las empresas, las cuales podrán enfrentarse al mercado internacional en igualdad de condiciones -dado qué, en otros países, las condiciones laborales son nulas o muy escasas, abaratando costes de producción-.

En pocas palabras: la racionalización de la productividad humana – el ideal de siempre-. El Ser Humano pierde su condición natural para sumirse al proceso que él mismo ha creado. El Ser Humano se confirma como un recurso humano. Una máquina, un objeto.

Y todo ello lo adornan y justifican con la típica candela del “como es políticamente incorrecto, suena mal… pero oiga, esto del despido libre es la leche, eh?!”.

Se podría debatir largo y tendido sobre el alcance y razón de tales argumentos liberales sin llegar a un acuerdo. Lo que está fuera de toda duda es que tales argumentos son fruto de exhaustivos análisis dentro de un modelo socio económico: el capitalista.

La economía científica, como todo método analítico, observa modelos para su estudio y desarrollo, para la emisión de conclusiones de largo alcance y por su puesto, como cualquier otra ciencia, es experimental. Sin embargo, a diferencia de las Ciencias Naturales, los experimentos económicos no suelen dar los resultados esperados en el mundo real. Aunque la Economía se sirva de instrumentos matemáticos, no nos confundamos, su objeto de estudio es una actividad convencional y humana. Mientras en física, sabemos que si lanzamos un euro al aire, se acelerará con la gravedad al caer, en economía, ese euro, dentro de un tiempo, tendrá un valor incierto. Las “leyes” económicas son una creación humana y además, están sujetas a infinidad de condiciones, muy difíciles de cuantificar y controlar – como la gran mayoría de los fenómenos naturales, por cierto-.

Todas las previsiones y conclusiones económicas se basan en un modelo ideal. Un modelo, el económico-capitalista, que poco a poco, penetra a lo largo del mundo, a fin de dar vigor a sus propias leyes -convencionales-. Y como cualquier otro modelo, el capitalista no es una excepción. Pretende solaparse a la realidad.

Existen dos formas para que un modelo se adecue a la realidad, para que sea fiable en sus predicciones. Adaptando el modelo a la realidad, es el caso de las ciencias naturales o doblegando la realidad a los principios del modelo; Es el caso de los modelos ideales económicos y en general, sociales.

La historia está repleta de modelos sociales ideales. Unos han desaparecido por su incapacidad de ligarse a la realidad, otros han tenido que adecuarse a esta. En el primero de los casos podemos hablar del modelo social feudal o soviético-comunista, por ejemplo. En el segundo, el capitalismo o el cristianismo. El feudalismo y el comunismo soviético no pudieron hacer frente a los cambios sociales de sus respectivos momentos. De hecho, un simple giro hacia la adaptación, como fue la Perestroika, bastó para su desmoronamiento total, al poner en evidencia una realidad que distaba del modelo socio económico oficial.

Un modelo puede ser viable, perdurar, aun con adaptaciones a la realidad, siempre y cuando posea coherencia interna.

El capitalismo entró cual elefante en una cacharrería a finales del XVIII y todo el XIX. Hubo de adaptarse y moderarse a fin de no desaparecer. A lo largo de todo el siglo XX se vio obligado a “corregir” algunos de sus mandamientos. Aunque cedió, usó la tregua para modelar, poco a poco, la realidad a su antojo, mediante mecanismos indirectos y sutiles: medios de masas. Hasta tal punto el capitalismo ha ido calando en la sociedad qué, a día de hoy, cualquier otro modelo económico es considerado utópico por la masa. Tan bien abonado ha quedado el camino mediante métodos más o menos legítimos que a mediados de los 80 el capitalismo pudo expresarse de nuevo, en todo su esplendor, aunque lo llamaron “neoliberalismo”.

Ahora bien, ningún analista puede negar que la realidad dista de cualquier modelo, más aun si el objeto de su estudio es el Ser Humano y sus interrelaciones. Tan impredecibles y a veces, sorprendentes, como las interacciones cuánticas.

¿Alguien duda que el cristianismo de hoy día no es el mismo del Antiguo Régimen?.  Sin embargo,  si la realidad de hoy día sufre una readaptación acorde con principios y valores de la Edad Media, una involución, a nivel social, el cristianismo tendría el terreno adecuado – y legítimo- para volver a quemar paganos. La realidad está viva, los modelos no, a lo sumo, se adaptan por supervivencia y jamás dejan de aspirar y conspirar, para que la realidad se adapte a su ideal.

Un sesudo analista siempre dejará algún resquicio para la duda, consciente de la complejidad inabarcable de la realidad. Es una falacia afirmar que no existen sociedades perfectas. Lo que no existen son sociedades que se adecuen a un modelo ideal, perfectamente.

En conclusión, ¿Podemos afirmar que la flexibilización será el remedio para el fin de la crisis?. Más aun, ¿podemos afirmar que el despido libre solucionará algo?.

Si observamos algunos argumentos fundamentales en pro del despido libre, se desprende que estos no son coyunturales. En otras palabras, el despido libre es una máxima del modelo capitalista, haya o no crisis. Es una necesidad para que el modelo capitalista pueda realizarse en toda su extensión y la crisis la excusa perfecta para adecuar la realidad un poco más al modelo capitalista.

Con permiso de Jon Ariza para NR.

mercredi, 23 septembre 2009

Aspects économiques de la révolution française

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Aspects économiques

de la Révolution Française

par Bernard NOTIN

 

«La Révolution fut provoquée par les abus d'une classe revenue de tout, même de ses privilèges, auxquels elle s'agrippait par automatisme, sans passion ni acharnement, car elle avait un faible ostensible pour les idées de ceux qui allaient l'anéantir. La complaisance pour l'adversaire est le signe distinctif de la débilité, c'est à dire de la tolérance, laquelle n'est en dernier ressort qu'une coquetterie d'agonisants».

Cioran, Ecartèlement, Gallimard, 1979, p. 30.

Tout découpage dans le déroulement continu du temps global peut paraître arbitraire, et plus arbi­traire encore celui qui se désintéresse des dates "historiques". Le mouvement de la pensée nous offre l'ensemble du XVIIIième siècle pour com­prendre la formation économique des révolu­tionnaires. La périodisation des faits ne peut s'appuyer sur le commencement de la Révo­lu­tion, mais plutôt sur 1778, date à laquelle in­ter­viennent d'une part la guerre d'Amérique et les dépenses qu'elle occasionne, d'autre part la fer­me­ture de certains marchés (surtout pour les vins), l'ouverture de la plupart des ports es­pa­gnols au commerce d'Amérique, ce qui vivifie l'activité économique de la péninsule ibérique. Tout cela contribue à expliquer la gêne écono­mique française à la veille de 1789. De plus, les figures de proue disparaissent dans ce laps de temps: Rousseau (1712-1778), Voltaire (1694-1778), Diderot (1884). Après que la pièce eut été écrite, le spectacle pouvait commencer. On est aussi tenté de se référer à une trinité solide. Avant la Révolution, l'agriculture périclite: c'est une période de stagnation et de baisse des prix qui dure jusqu'en 1787. Le marasme unit les difficultés des rentiers et des entrepreneurs, des bourgeois et des petits propriétaires, aux mi­sères de la masse (1). Ensuite, la Révolution qui perturbe les conditions générales de l'activité économique. Enfin, les lendemains qui chan­tent ou déchantent: ruine du grand commerce, stagnation du secteur agricole et... première pha­se de la révolution industrielle. La Révo­lu­tion crée aussi un lien entre ceux qui ont tra­ver­sé la même tourmente et rapproche la pen­sée d'hom­mes assez différents. La distance semble très gran­de entre les scolastiques, les mer­canti­listes, la "secte" physiocra­ti­que. Or, ce triple sceau marquera les consensus et dissen­sus éco­nomiques des révolution­naires.

Le modèle newtonien

La Révolution, au sens le plus large, est d'abord dans l'esprit: elle est dans l'intelligibilité du monde à partir du mo­dèle Newtonien et dans la méthode d'analyse des faits socio-économiques. Elle est aussi l'irruption et l'éruption de forces souterraines obscurément en travail, rassem­blées dans la formule du "double corps" de l'E­tat. Enfin, de près comme de loin, car c'est la même chose, le bilan matériel s'inscrira tout en nuance. Comme Fabrice del Dongo, nous n'y ver­rons ni victoire, ni défaite, mais, contraire­ment à lui, des laissés pour compte et des profi­teurs.

I. Les principes de la pensée économique

Au milieu du XVIIIième siècle a été atteint un seuil critique: des idées qui flottaient dans l'espace mental atterrissent et s'imposent. La pensée théorique s'incarne de plus en plus dans la réalité concrète des hommes. L'originalité du siècle tient à cette tentative de faire déboucher la réflexion dans l'action, sous la direction de mo­narques "éclairés" par la lumière philoso­phi­que. Louis XVI en était lorsqu'il confia le pou­voir à Turgot, imbibé d'encyclopédie et de phy­siocratie. Les essais de réforme se heurtent aux privilégiés qui évoluent cependant au sein du même univers mental, le paradigme newto­nien: les divergences ne s'étaleront qu'au mo­ment d'ar­ticuler contenu politique et fonction­nement économique.

L'Europe des Lumières rassemble sans distinc­tion de frontières un grand nombre d'esprits au­tour d'idées communes: l'invocation de Newton. G. Gusdorf insiste sur l'absence de Des­cartes qui ne compte que "quelques défen­seurs au XVIIIiè­me siècle, le plus souvent en dehors de monde scien­tifique" (2). Le développement du savoir privilégie la physique et la biologie car les mathématiques sont en retrait pour deux rai­sons: elles ne paraissent pas ouvrir la voie à la connaissance expérimentale et détournent des recherches sur l'origine de nos idées, traitées comme des évidences intrinsèques. Sur ce socle physico-biologique germera une nouvelle ap­proche de la société, accordant à l'économie un grand rôle. Les intérêts sont rehaussés au ni­veau des passions et, ensemble, préoccupent le siècle, puis partagent les révolutionnaires selon une ligne inspirée de Quesnay d'un côté et de Rousseau et Necker d'autre part.

Consensus newtonien

La science newtonienne a été diffusée en France par Voltaire. L'Anglais John Locke, dont l'œu­vre a si fortement influencé les révolution­nai­res, était un ami de Newton. L'Ecossais David Hume, en 1739, dans son Traité de la na­ture hu­maine, affirmait que la science de l'homme se­rait une science au sens newtonien du terme. Or, Hume a eu un ascendant sur Condillac, Adam Smith, les "Idéologues" (ceux-ci traduiront l'œu­vre d'Adam Smith excellem­ment résumée par Condorcet) (3). James Bentham (1748-1832) se proposait de devenir le Newton du monde moral. Tout ce petit monde, essentiel pour com­prendre la formation intellec­tuelle des révolu­tion­naires, est donc newtonien. Il semble que ce dernier ait ouvert la voie au pro­grès de la con­naissance en dégageant la phy­sique de la simple imagination. Surtout, il a af­firmé l'existence d'un monde composé de ma­tière et de mouve­ment. Par l'attraction, une in­telligibilité unique embrasse l'ensemble de réel. L'autorité de cette synthèse lui vaudra d'être uti­lisée à tout propos. Bon nombre d'auteurs en re­tiennent la distinc­tion entre causes et lois, et la possibilité d'une expression mathématique sans fondements mé­ta­physico-théologiques. Newton rend possible la recherche de formes d'intelligibilité hors de la transcendance et permet de fonder les sciences de l'homme sur le modèle de la science des cho­ses. De manière très générale, la compré­hen­sion doit passer par les stades successifs de l'ob­servation, de l'expérimentation, et de la théorie mathéma­tique. La science expérimentale trouve ici droit de cité, jusqu'à devenir un véritable phénomène d'époque et à servir d'amusement à la veille de la Révolution. Le désir d'enseigner la physique expérimentale une fois les jésuites expulsés (1762), sera décisif dans la création des écoles techniques, où se formera une élite de la compé­tence, qui trouvera dans la Révolution un moyen d'exprimer ses capacités. Saint-Simon, prophète de l'aristocratie scientifique, fut un grand ad­mirateur de Newton. En cette seconde partie du XVIIIième siècle, la cause est enten­due: les règles de la vraie méthode ont été for­mu­lées une fois pour toutes. La question est alors de savoir s'il faut interpréter cette certitude au seul niveau de la connaissance du monde ou si elle s'étend à la réalité elle-même. Y-a-t-il dualité ou unité des causes physiques et des causes mo­rales? Si Turgot admet la dualité, c'est parce que le do­maine humain est soumis au progrès. Mais les physiocrates cherchent à déduire toute l'or­ga­nisation économique et sociale d'un prin­cipe unique et A. Smith étudie et enseigne la "phi­lo­sophie morale", véritable science des mœurs con­çue sur le modèle de celle de la na­ture. Il n'est pas jusqu'à la franc-maçonnerie qui, pour se donner l'illusion de penser, publie sous la plume de son réformateur le plus illustre, Dé­sa­guliers (1683-1742), un dithyrambe newto­nien en 1728. La philosophie de la nature (qui dé­signe alors la science) s'infiltrera aussi dans le rêve d'une "philosophie" de l'histoire, connais­sance susceptible de permettre aux hommes la maîtrise de leur destinée. Les têtes pensantes de la Ré­vo­lution en étaient imbibées.

Priorité des faits sur les idées

La conversion générale à la science incite, en tous domaines, à donner priorité aux faits sur les idées. La conséquence en est un découragement spéculatif et une priorité reconnue à l'analyse sur la synthèse. La notion de système doit donc subir une reformulation pour ne pas se discrédi­ter. Turgot fournira les moyens lors de l'éloge de V. de Gournay, précurseur des physiocrates. Il existe un mauvais sens du mot système, "sup­po­sitions arbitraires par lesquelles on s'efforce d'expliquer tous les phénomènes, et qui, effecti­ve­ment, les explique tous également, parce qu'ils n'en expliquent aucun" (4). Il y op­pose un sens plus favorable, où "un système si­gnifie une opinion adoptée mûrement, appuyée sur des preu­ves et suivie de ses conséquences". De contem­pla­tive, la science se fait opérative et technique: elle doit servir les utilités de l'homme et re­grou­per, pour être effective, les énergies. Peu à peu, la civilisation tradition­nelle incarnée par la pen­sée scolastique et l'autorité royale tournée vers la puissance et la gloire se disloque, le para­dig­me newtonien œu­vrant pour transformer le mi­lieu. Pendant des siècles, l'univers mental a­vait reposé sur la su­bordination de l'Eglise à Dieu, du fidèle à l'Eglise, du citoyen au service de l'Etat. A la fin du XVIIIième siècle, cette pers­pective se trouve inversée. Les ré­vo­lu­tion­nai­res légitimeront en droit un ordre social qui s'ins­talle au cours du siècle, et dont la dimension éco­nomique ne prend de relief que dans le contexte global d'une nouvelle morale, d'une autre spi­ri­tualité, d'une anthropologie différente.

La triade pré-révolutionnaire

L'attitude caractéristique des philoso­phes du XVIIIième siècle est de traiter tous les docteurs scolastiques de "casuistes" avec le plus profond mépris. R. de Roover (5) précise que la doctrine de l'usure, en particulier, est fortement attaquée par Turgot, Condillac, les physiocrates. En Fran­ce, la loi qui légalisera les clauses contrac­tuelles autorisant le versement d'intérêts ne ver­ra le jour que le 12 octobre 1789: la Révolution mar­quait la fin d'un monde.

Les scolastiques ne diabolisaient pas le com­merce, mais lui préféraient l'agriculture car la tentation de succomber à l'usure y était moindre. Les mercantilistes avaient adopté le point de vue inverse: le commerce est la plus noble des pro­fessions. Alors que l'éco­nomie scolastique s'af­fir­mait universel­le en ce qu'elle cherchait les lois assurant la justice, les mercantilistes ne disposèrent jamais d'une doctrine ou d'une mé­thode unifiées. En France, le terme de colber­tisme résume correctement la politique écono­mique inspirée par l'idée d'une plus grande res­ponsabilité du pouvoir dans la gestion du pays. Pourtant, cette action fut fermement critiquée par Vauban (1646-1714) et surtout son cousin Boisguillebert (1646-1714) dont la réflexion fis­cale et la conception de l'économie comme sys­tème annoncent les physiocrates et la nouvelle perception de l'Etat. Boisguillebert écrit du point de vue souverain tout en critiquant les idées mercantilistes. Il existe donc, en ce début du XVIIIième, une possibilité de réflexion écono­mique sans référence ni à l'univers scolastique ni au libre-échange et qui s'infiltrera dans les mentalités jusqu'à la fin du siècle.

L'idée d'ordre naturel relie la pensée scolas­tique aux hommes de la Révolution. "De concept éthico-juridique, la loi naturelle devient pro­gres­sivement concept analytique" (6).

L'essor de la science expérimentale et de l'intel­li­gibilité analytique autorise les physio­crates à proposer un schéma conforme à la na­ture. En même temps, l'économie acquiert une auto­no­mie que lui déniait les docteurs scolas­tiques: elle cesse d'être partie d'un ensemble plus vaste pour devenir, avec les mercantilistes, une col­lection de règles pratiques d'enrichissement. Les fondements de l'intervention sur les prix, les critiques fiscales, s'inspirent tout autant de l'héritage intellectuel scolastique que d'une vo­lonté de servir l'Etat. Incarné par son souverain depuis que la pensée politique s'est émancipée du religieux, promou­vant dans le mouvement un nouveau concept de pouvoir. Selon Louis Dumont (7), il en est résulté l'idée d'une consistance des activités produc­tives et commerciales, de sorte que la formation des équilibres et des désé­qui­libres de quantités ne devait plus s'expliquer par la volonté d'en haut, divine ou étatique, ni par le hasard, mais par des mécanismes qu'il fallait observer et analyser. Il a fallu la réunion de deux condi­tions: la dissociation du politique et de l'économique et la transition d'une attitude normative à une attitude positive. Au XVIIIième siècle, l'in­di­vidu a suffisamment droit de cité pour rendre possible la théorie économique, mais à condition de rester subsumé dans un en­sem­ble. On décèle dans la pensée économique l'é­man­cipation de l'individu "tandis que réap­pa­raît, sous une forme souvent anodine et dégui­sée, le point de vue de la totalité sociale" (8).

Cosmopolitisme contre

tradition scolastique

Ce tout réapparaît dans le débat sur la citoyen­neté au cours duquel s'affrontent la version cosmopolite (des idées communes suffisent) et la tradition scolastique qui, à travers Tho­mas d'A­quin, perpétue l'univers latin: la re­ligion est un patriotisme car elle n'appartient pas à la vertu théologale de la foi, mais à la vertu morale de la justice qui consiste à rendre à l'autre ce qui lui est dû. La religion est la justice si la dette ne peut être rendue, ce qui concerne les ancêtres et Dieu. Ainsi Thomas d'Aquin ensei­gnait que le patrio­tisme est le culte des morts, c'est-à-dire une for­me de la religion.

La présence simultanée d'indi­vi­dua­lisme et de holisme est frappante chez Quesnay, inspirateur de réformes fiscales, mais surtout figure exem­plaire des futurs débats sur les fondements de l'in­tervention étatique en économie. Vincent de Gournay avait proposé de "laissez faire, laissez passer" affirmant l'autonomie économique. Ques­nay, négligeant les sommes de réflexion sur la valeur développées dans deux directions, le travail ou l'utilité, s'en remet à la terre pour engendrer toute richesse. Un tel privilège ne s'ex­plique, selon Dumont, que par la forme spé­ciale de propriété qui s'attache à la terre. La pro­priété immobilière subordonne l'économie à d'au­tres instances (politique, morale, reli­gieu­se) et ne sépare pas la relation aux choses de re­lations entre hommes. Quesnay appartient en­core à l'idéologie holiste lorsqu'il confie le pou­voir politique aux propriétaires immobiliers qui payeront seuls les impôts, mais il récuse l'in­tervention de l'Etat dans l'activité écono­mique, s'affirme anti-mercantiliste en défen­dant la liberté des échanges et la propriété pri­vée. Sou­lignons aussi, en reprenant le commen­taire de G. Haarscher (9), que Quesnay met l'accent sur la production, la création des va­leurs, alors que les mercantilistes s'intéressaient à la circu­la­tion, au commerce. La préoccupation productive est en effet un trait général de l'époque: Con­dillac (1714-1780) ac­cordait une attention par­ti­culière au travail, principale source de valeur car l'idéal d'une as­cèse contemplative a cédé la place au désir d'affronter le monde pour le met­tre en valeur. Le travail créateur à la façon de R. Crusoé est mis en honneur, même s'il en résulte des incompati­bilités avec d'autres vertus.

La Fable des Abeilles de Mandeville

Le succès de la Fable des Abeilles (1705) de Ber­nard de Mandeville (1670-1733) fut lié au scan­dale et aux protestations qu'elle suscita. L'hu­ma­nité est comparée à une ruche dans la­quelle chaque homme a le droit et le devoir de pour­suivre son intérêt car il contribuera le plus ef­ficacement au bien commun, les "vices pri­vés" devenant des "bienfaits publics". La pensée de Mandeville développe une psychologie qui sera celle des morales fondées sur l'intérêt, mais in­siste surtout sur l'activité tout en oppo­sant la sim­ple diligence à l'esprit d'industrie défini par la soif de gagner et le désir infati­gable d'amé­liorer notre condition. L'accent mis sur l'acti­vi­té, de Mandeville à Quesnay, puis A. Smith ins­tillera le discours révolutionnaire sur la pau­vreté.

Dernière caractéristique des principes fonda­teurs de la pensée économiques pour l'époque ré­volutionnaire: le traitement de la composition des intérêts privés. Lorsque l'individu devient le sujet élémentaire, l'atome de la réflexion, la pensée économique doit réfléchir sur l'harmo­ni­sa­tion des actes. La conscience d'une désa­gré­gation se traduit chez Quesnay par un recours à l'ordre naturel qui soumet l'homme à la nature. Mais la notion d'individu ou d'agent (terme ul­térieur) se spécifie au moyen d'attributs: les in­térêts et les passions. La Révolution française, en effaçant les statuts d'une société d'ordres, dé­finit la Nation comme l'ensemble des individus identiques sous l'angle du dénombrable et du lé­gislatif et résoud le problème d'agrégation par la volonté géné­rale. G. Haarscher affirme que Nec­ker et Rousseau sont les deux figures de l'op­position à Quesnay en ce qu'ils brident l'écono­mie, à la­quelle Quesnay aurait conféré une trop grande liberté pour la soumettre aux règles du pacte so­cial, à la "volonté générale". Les deux instances (politique et économique), libérées de l'ordre re­ligieux peuvent entrer en conflit viru­lent: l'économie autonomisée proteste contre l'in­terventionnisme étatique, tandis que le poli­tique du contrat social récuse le mouvement au­tonome de l'économie.

Ainsi, le débat se situe-t-il tout entier à la char­nière de deux mondes sur la ligne de partage du holisme et de l'individualisme. Les tenants de la théorie du contrat social plaident en faveur de l'individualisme politique et critiquent tout ce qu'il entrave: l'ordre naturel de Quesnay, élé­ment traditionnel, mais aussi l'économie é­man­cipée susceptible de déstabiliser l'univers contractuel. La position de Locke, dans la pers­pective de Dumont, est essentielle pour com­prendre la suite. Locke affirme que la relation entretenue par l'individu avec les choses passe simplement par la propriété à condition d'être lé­gitimée par le travail. En conséquence, le point de vue holiste pourra déclarer illégitime cer­tai­nes formes de propriété: les révolution­naires use­­ront de l'argument. Dire que le tra­vail doit cons­tituer le critère de la propriété, c'est aussi af­firmer que sa qualité mesure la valeur des biens et poursuivre avec Grotius, Hobbes, Pufendorf, une réflexion sur la valeur "objective". L'oubli des débouchés est révéla­teur: la marchandise doit trouver acheteur, ré­pondre à une demande, quelle que soit la nature de cette dernière. Il appartiendra à Galiani (1728-1787), Condillac (1715-1780), Turgot, de dé­velopper la théorie "sub­jec­tive" de la valeur em­pruntée aux sco­lastiques de l'école de Salamanque.

A l'aube de la Révolution, un creuset culturel avait façonné les acteurs, leur suggérant des in­terprétations et des solutions aux questions éco­nomiques. Ils disposaient de trois repères: la dé­marche de la physique et la méthode analy­tique, la nécessité d'agréger et de réguler les in­térêts privés, la dévalorisation du passé, inutile lors­que tout repose sur le travail ou l'ordre natu­rel. Il faut donc soit en revenir à l'antique, soit créer des schémas abstraits dans lesquels la lo­gique des origines se substitue à l'histoire des origi­nes. Munis de ce bagage, ils s'efforceront de trai­ter deux questions fondamentales: le prix des subsistances et son corollaire, la pauvreté; le budget de la république qui suppose de choisir les dépenses et de justifier les ressources.

II. Le double corps

de l'Etat

 

Empruntée à P. Rosanvallon qui désigne ainsi l'œu­vre de Boisguillebert, l'ap­pelation décrit par­fai­tement le dilemme dans lequel nagera la Ré­vo­lution: le tout et la partie. L'Etat, assimilé au Sou­verain, n'est qu'une partie du corps social et politique, ayant une fonction spécifique: défense et sûreté. En contre-partie, il perçoit l'impôt dont les caractéristiques sont à débattre. En même temps, l'Etat est l'ensemble du corps social; le sou­verain se confond avec ses peuples: il est le tout. L'Etat doit donc remplir un double rôle. En tant que simple partie, il offre la sécurité "ex­té­rieu­re". En tant que tout, il a deux devoirs: main­tenir le corps social en bonne santé (la cir­culation des biens ou consommation), assurer la concorde intérieure ou paix sociale (maintenir le "corps uni"). En particulier "les pauvres, dans le corps de l'Etat sont les yeux et le crâne, et par con­sé­quent les parties délicates et faibles"(9). La ques­tion des subsistances et de la pauvreté était donc à traiter en priorité.

La menace de l'indigence

La question sociale en 1789 renvoyait au problème de la pauvreté. La mauvaise récolte de 1788 avait fait bondir le prix du grain dans des proportions oubliées depuis 1709. Les premières enquêtes de la Révolution constatent que onze millions de Fran­çais sont dans l'indigence, souvent con­traints d'er­rer à la recherche d'un moyen d'existence (12). De mai à juillet 1789, les émeutes de chô­meurs se conjuguent aux pillages des con­vois de grains. Comment analyser la cherté du blé et que faire? La question est ancienne: depuis 1764, les économistes polémiquent sur le sujet. Convient-il de laisser agir vendeurs et acheteurs? Faut-il in­ter­venir pour améliorer le ravitaille­ment? Le dé­bat n'est pas futile car les milieux po­pulaires con­sacrent en moyenne la moitié de leurs revenus à l'achat de pain, base de l'alimentation. F. Afta­lion (13) cite les travaux de G. Rudé qui fixe à huit livres quotidiennes (de pain), la quantité néces­saire (en moyenne) à une famille de quatre per­sonnes. Pour des rémunéra­tions journalières de 20 à 50 sous, selon les activi­tés, il ne fallait pas que le prix du pain de quatre livres montât au dessus de huit ou neuf sous. Necker avait publié en 1775 un ouvrage (Essai sur la législation et le commerce des grains)  dans lequel il montrait une claire compréhension du phénomène, sans qu'il nous soit possible de préci­ser s'il connais­sait l'étude de Gregory King (1648-1714), premier auteur à avoir relié les fluc­tuations du prix du blé au volume des récoltes. Turgot aussi préconisait la libre circulation des grains comme moyen d'as­surer la compensation régionale des surplus et déficits. Condorcet, en­fin, dans ses Réflexions sur le commerce des blés (1776) prend parti pour Turgot. Il existait donc de bonnes analyses des mou­vements de prix, suscep­tibles de fonder une po­litique d'approvisionnement. 

La politique de l'Ancien Régime reposait sur une réglementation des marchés, le stockage, et un système d'approvisionne­ment pour Paris. Une mau­vaise récolte, en poussant les prix à la haus­se, enrichit les producteurs qui peuvent at­tendre et spéculer: mais le résultat est le même en cas de stockage préventif. Les révolution­naires n'ont pas su trancher: Robes­pier­re utilise l'édit du ma­ximum et adhère à la thèse des saboteurs et des accapa­reurs... Mais le débat économique était sou­mis aux pressions des sans-culottes, ensemble de salariés et de propriétaires dont les maîtres et compagnons for­maient l'ossature: ils ont joué un grand rôle de l'été 1791 à l'été 1794. Leurs préoc­cupations, en matière d'économie, n'al­laient pas au-delà d'une revendication en faveur d'un ni­veau de vie décent. Il existe plusieurs méthodes pour en arriver là. Or, les sans-culottes préfé­raient le contrôle des salaires, car ils raison­naient dans le cadre d'une nature, en bute aux mé­chants riches: "Les pauvres étaient naturel­le­ment patriotes et vertueux, tandis que les riches, qui avaient été trop longtemps habitués à ne con­sidérer que leurs propres intérêts, étaient inca­pables de générosité républicaine" (14). La nature fournit des aliments dont les prix ne montent qu'après spéculation. Cette perversion de la na­ture justifie un châtiment que les circonstances ren­dront exemplaire.

Que faire, alors, vis-à-vis des indigents? L'As­sem­blée Constituante a formulé des prin­cipes éla­borés en projets de décrets par le comité de men­dicité, qui sera transformé en Comité des Secours publics, par la Législative et la Con­vention. Ce co­mité de mendicité rassemble de nobles âmes: le Duc de La Rochefoucauld-Liancourt, le Comte de Virieu, Boncerf (auteur d'une brochure sur les in­convénients des droits féodaux), Barère, Guillo­tin. Il affirme le droit de chacun à sa subsistance et propose de substituer le secours public à l'au­mô­ne par des versements for­faitaires des départe­ments.

«Les secours publics

sont une dette sacrée»

Dans le préambule de la Constitution de 1793, Ro­bes­pierre réaffirme: «Les secours publics sont une dette sacrée. La société doit la subsistance aux citoyens malheureux, soit en leur procurant du tra­vail, soit en assurant les moyens d'exister à ceux qui sont hors d'état de travailler» (15). Les lois qui se succèdent de mars 1793 à Floréal An II traitent des pauvres hors d'état de travailler et des pauvres sans travail, chômeurs ou "fainéants". Pour ces derniers, la Révolution se coulera dans l'esprit de l'Ancien Régime, ne changeant que les modalités. Adieu fouets, galères et vieux dé­pôts, place à l'incarcération dans une maison d'ar­rêt pour toute personne demandant de l'ar­gent ou du pain sur la voie publique. Dans ce "lieu de vie", le travail est obligatoire, le salaire retenu aux 2/3 pour les frais de séjour. Ce n'est rien de plus que le traditionnel "renfer­me­ment". Une in­novation cependant: les récidivistes «de ni­veau trois» partent peupler, huit années au moins, une colonie. Dans le même temps, la lé­gislation ne peut ignorer les anciens ateliers de charité. Elle les transforme en travaux publics ou grands travaux, payés les trois quarts du prix moyen de la journée de travail. La quintessence de la pen­sée révolutionnaire charitable s'exprime dans un texte de Barère, au moment de présenter la nou­vel­le loi sur proposition du Comité de salut public (22 floréal an II): «La mendicité est... une dénon­cia­tion vivante contre le gouvernement... Le ta­bleau de la mendicité n'a été jusqu'à présent sur la terre que l'histoire de la conspiration des pro­priétaires contre les non-propriétaires... Si l'a­gri­culture est la première et la véritable ri­chesse d'un Etat, nous devons prouver au­jourd'hui que l'intérêt du législateur est de favo­riser les cul­ti­vateurs avant toutes les classes de la Société...». Res­ponsabilité du gouvernement, di­chotomie pro­priét­ai­res/non-pro­prié­tai­res, priorité à la pau­vre­té campagnarde: tous les ingrédients ré­vo­lu­tion­naires sont rassemblés sans qu'une analyse nou­velle rompe avec les pratiques de l'Ancien Ré­gi­me.

Recettes et dépenses

L'historiogaphie des finances à la fin du XVIIIiè­me siècle met l'accent sur deux dimen­sions com­plémentaires: le point de vue budgétaire strict qui évalue les revenus et les dépenses, le rapport entre l'Etat et les milieux financiers. De façon géné­rale, l'Etat doit satisfaire les besoins et désirs pu­blics par opposition aux besoins person­nels. Dans un article publié en 1918 (La crise de l'Etat fiscal), Joseph Schumpeter indiquait que «les finances pu­bliques constituent l'un des meil­leurs points de départ pour une étude approfondie de la société» (16). L'Etat fiscal apparut au XVIième siècle pour payer les dépenses de guerre. Le sociologue N. E­lias affirme que la période axiale se situe au cours de la Guerre de Cent Ans, lorsque des prélè­vements occasionnels destinés à des usages pré­cis et bien déterminés se sont trans­formés en une institution permanente, puisque le Roi a toujours besoin d'argent pour mener à bien les conflits (17). En toutes hypothèses, il apparait que les dé­penses passèrent avant les recettes puis, après que l'Etat eut acquis une solide structure, on leva des im­pôts pour des raisons qui étaient autres que la raison initiale. Jusqu'en 1788, où un édit crée le Trésor royal (naissance du principe d'un trésor public), les finances du Roi ne sont pas vraiment des finances publiques. Alain Guéry rappelle: «Les financiers qui sont chargés de leur gestion sont des officiers. Leurs revenus sont des gages et non des salaires. Ils ne gèrent pas des caisses pu­bliques, mais leurs caisses privées, dans les­quel­les les fonds qui appartiennent au Roi sont en comp­te, avec d'autres fonds d'origines diverses» (18). Les dépenses sont d'abord militaires quoi­qu'il soit impossible de mener de longs conflits par insuffisance de res­sources. L'endettement con­si­dérable limite l'effort qui, nécessairement, retombe. Les dé­penses consacrées directement au commerce et à l'économie ne dépassent pas 1% du total des dé­penses. Le dernier budget pour 1788 est assez bien connu et n'est pas considéré comme a­ty­pique: la dette absorbe plus de la moitié (50,5%), la guerre et la diplomatie 26,3% (guerre: 16,8%; marine et co­lonies: 7,2%; affaires étrangères: 2,3%), les dé­penses civiles 23,2% (la cour: 5,7%; ad­ministra­tion générale: 3%; secours: 2,8%; éco­nomie: 3,7%; ins­truc­tion et assistance: 1,9%). La po­li­tique budgétaire est tournée exclusivement vers la recherche de l'argent nécessaire pour cou­vrir les dépenses engagées et "l'idée que les dé­penses et les revenus de la cour puissent être uti­lisés dans le sens d'une action sur la vie éco­no­mique et so­ciale du pays, échappe aux habi­tu­des, aux attitudes et aux mentalités, non seu­le­ment des respon­sables de l'administration royale des fi­nances, mais aussi des publicistes et écono­mi­stes du temps" (19). Les révolutionnaires se pré­oc­cupè­rent aussi de trouver des recettes, mais après qu'ils eurent mis à bas le système fiscal sans étu­dier sérieusement les effets du financement sur l'économie. Après les décisions et les débats théo­riques, le personnel et ses réseaux.

La structure du financement

Le système fiscal jusqu'à la Révolution s'or­ga­ni­sait autour de quatre prélève­ments (20). Les droits d'ori­gine féodale, qui n'étaient pas les plus in­sup­portables: Alfred Cobban (21) a montré que l'at­taque contre les droits seigneuriaux de­vaient s'interpréter comme une contestation de leur com­mercialisation croissante et que la ré­volte pay­sanne était tournée contre la bourgeoisie pro­prié­taire de ces droits. La dîme d'Eglise, se­cond prélèvement, était bien vivante: 10%. Les impôts in­directs, perçus par la ferme générale, regrou­paient la gabelle, les aides (frappant sur­tout les boissons), les traites (droits de douane). Enfin, les impôts directs: taille, capitation.

Ce système fiscal souffrait d'au moins deux ta­res: il était anti-économique et son recouvre­ment coûtait cher. Les états généraux, convoqués pour résoudre le problème financier, le contestè­rent rapidement (13 juin), car il n'était point fondé sur le consentement national. Lorsque s'ouvre le grand débat, en mars 1790, les positions de l'as­sem­blée oscillent, d'après R. Schnerb (22), entre la condamnation sans réserve des droits de con­sommation (chef de file: Roederer), et le com­pro­mis nécessaire à l'alimentation des caisses pu­bli­ques. Dupont de Nemours, rapporteur du co­mité des impositions, s'inscrit dans le second courant. Le 11 mars 1790, il propose de supprimer la gabelle et les droits de marque sur les cuirs, les fers, les ami­dons, et suggère de relever les droits de doua­ne, de maintenir le produit du tabac, ainsi que les droits sur les boissons. Il justifie ses pro­positions par la pensée physiocratique et affirme vouloir créer en faveur des propriétaires les con­ditions d'u­ne meilleure rentabilité. Ultérieurement, pen­se-t-il, il sera possible de sup­primer tous les im­pôts indirects.

Les adversaires sont "infatigables à rappeler que l'impôt indirect, volontaire, convient à l'homme libre" (23). En vain. Les impôts indirects suc­com­bèrent... temporairement. La Révolution n'est en fait qu'un accident au milieu d'une ten­dance à l'aménagement des impôts indirects. Ca­lonne et Necker s'en étaient déjà préoccupés: les droits indirects com­blaient 43 % des res­sources budgétaires en 1788. En les supprimant, on posait le problème du fonctionnement normal de l'Etat. La béance budgétaire paniqua le groupe de la Mon­tagne dont l'obsession devint la quête de res­sources: les assignats y pourvoieront. La ten­ta­tion pour les constituants était d'autant plus gran­de qu'ils raisonnaient selon la causalité an­gé­lique: un bon régime lève de bons impôts (i.e.: équi­tables) dont s'acquitteront avec allé­gresse tous les citoyens. "C'est pourquoi le sys­tème fis­cal de la constituante est caractérisé par l'absence à peu près totale de moyens de con­trainte (24). Les constituants ont créé trois contri­butions directes: la "foncière" sur le revenu de la terre; la "mo­bi­lière" sur les revenus industriels et les rentes; la "patente" pour le commerce. La contribution fon­cière, impôt de répartition, fut votée le 17 mars 1791 pour être perçue la même année. Pas de ca­dastre, des responsables dépar­tementaux sans for­mation, le résultat ne fut pas à la hauteur des besoins, alors que tout paraissait réglé depuis qu'une Trésorerie Nationale complé­tait le dispo­si­tif. Bilan de 1791, 100 millions de dé­ficit. Aug­menter les impôts? La pression fiscale épousait la norme pré-révolutionnaire. L'innovation finan­ciè­re s'imposait. Assignats... vous voilà...

Le personnel des finances

De l'Ancien Régime à l'Empire, le même per­son­nel gère les finances (25). L'assemblée consti­tuante avait innové sur trois points: réduire au ma­ximum les fonctionnaires des finances et con­fier aux contribuables la collecte des impôts; ce­pendant, il fallait du personnel pour centraliser les sommes, payer les dépenses, répartir les fonds. Trois catégories de fonctionnaires en na­quirent: receveurs (par districts), payeurs géné­raux (un par département), commissaires du Tré­sor. Au nombre de six (recette, liste civile, dette publique, guerre, marine, comptabilité), ils exa­mi­naient les demandes des ministères et ren­daient compte à un bureau de comptabilité com­po­sé de quinze membres nommés par le roi. Cette belle architecture va fonctionner selon une double logique: montée en puissance du pouvoir admi­nis­tratif d'un côté, affairisme de l'autre. L'insta­bilité ministérielle et l'obsession des ré­formes fa­cilitent l'exercice du pouvoir par les hommes des bureaux. Citons pour l'exemple la situation de la trésorerie. Dans ces cadres, elle ressemble com­me une sœur à l'ancien trésor royal. La diversité des attributions et la partition en six secteurs jus­ti­fiaient une coordination mi­nimale assurée par un secrétaire. Ce poste essen­tiel conserva le mê­me titulaire de fin 1792 à... 1822. Les intitulés du poste changèrent, les ré­gimes passèrent, le sieur Lefèvre demeura, trente années durant, inamo­vible.

La dimension affairiste décourage les tentatives de compréhension globale. Pour M. Bruguière, l'ex­­trême compli­cation de ces opérations variées rend illusoire un tel projet. Pourtant, "les activi­tés financières conduites sous la convention a­vant et après le 9 thermidor représentent une ex­périence fort exceptionnelle de contrôle universel par l'Etat. Elles contiennent en outre la clé de nombreux destins individuels... C'est là, si l'on o­se s'exprimer en termes peu élégants, que gît le "pla­card aux cada­vres" de notre histoire contem­po­rai­ne (26). La trésorerie, dès sa création en 1791, récupère une partie du personnel de l'An­cien Régime, puis une partie des commis­saires nommés par Louis XVI resteront en place après sa disparition. En 1795, à la chute de Robespierre, quatre d'entre eux sont toujours en fonction. La Convention laissa carte blanche aux com­mis­sai­res de la Trésorerie pour réaliser deux objectifs: approvisionner les armées; nourrir les po­pu­la­tions civiles. La fonction remplie mettait à l'abri des vicissitudes politiques le personnel admi­nistra­tif. Le Directoire n'eut qu'un respon­sable fi­nancier: Ramel, qui, en conflit avec la tré­so­re­rie pour l'extinction des mandats territo­riaux, sor­tit vainqueur à l'occasion du coup d'Etat du 4 septembre 1797 (18 fructidor). La Trésorerie na­tio­nale rentra alors dans le rang en obéissant mieux au responsable politique.

Par delà ce phénomène bureaucratique, la vraie Révolution, pour Sédillot (27), est dans le domaine financier: le passage de la primauté du sang à la primauté de l'argent. Aux nobles succèdent les no­tables et «les droits de la naissance ne pourront rien contre ceux de la finance» (28). Cette explo­sion du capitalisme se traduit par une promotion du banquier et du spéculateur. Les grands finan­ciers de l'Ancien Régime n'étaient pas très popu­laires et certains payèrent même leur gloire pas­sée de leur vie. Ils furent remplacés par de nou­veaux spéculateurs, entretenant des liens étroits avec des nobles cupides et des responsables révo­lutionnaires. Pour Cobban, "les financiers cons­tituaient le secteur de la société le moins engagé politiquement. Toutes les politiques et tous les gou­vernements apportaient du grain à leur mou­lin" (29). Cela vaut certainement pour une classe de spéculateurs "modestes" car les circonstances sont propices à toutes sortes de trafics: "On mon­naye l'élargissement d'un détenu, la délivrance de certificats de civisme, la mise aux enchères privilégiée des biens nationaux, le vote de cer­tains décrets" (30). Mais l'appartenance à un ré­seau caractérise les plus grands corrupteurs et des corrompus: l'occultisme et la franc-maçonnerie émergent pour la première fois à côté d'autres ré­seaux plus traditionnels d'ordre géopolitique.

Robert Darnton a retracé l'ambiance intellec­tuel­le de la fin du XVIIIième. Dans La fin des lu­miè­res  (31), il expose le rôle du mesmérisme, fron­tiè­re entre science et pseudo-science ou occul­tisme. Avant la Révolution, Marat se consacre à l'étude de la lumière, de la chaleur et rédige des traités complètement farfelus. La première appa­rition de Robespierre sur la scène nationale date de ses é­crits sur la science et le paratonnerre en par­ti­cu­lier. Mesmer recrute ses parti­sans chez les futurs chefs révolution­nai­res: La Fayette, Brissot, Ber­gas­se, Ro­land... Par l'intermédiaire de la "so­cié­té de l'harmonie universelle", les esprits é­clai­rés rencontrent les âmes sensibles et les hom­mes d'affaires. Bergasse est membre d'une riche famille de commerçants lyonnais. Kornmann vient des milieux bancaires stras­bourgeois. Cette société, insiste Darnton, n'est pas une cellule ré­vo­lutionnaire, mais un cercle pour gens riches et distingués où se côtoient bourgeoi­sie et aristo­cra­tie. Cet occultisme est compatible avec le thème du "pur amour", diffusé par le pié­tisme et les sociétés franc-maçonnes dont le déve­loppement fut très rapide à partir de 1773.

Le pouvoir financier, après le déclenchement de la Révolution, a été exercé pendant trente mois par des praticiens issus de l'administration pré­cédente (ex.: Lambert). Les vingt-sept mois sui­vants sont dominés par les figures des banquiers protestants: Necker et Clavière. Pendant cinq ans et quatre mois, le groupe principal est lié au commerce, au bois, aux étoffes. C'est l'époque de Cla­vière, Ramel. Le Directoire remet en selle des spécialistes: Gaudin, Mollien, en vérifiant qu'ils entretiennent des accointances utiles (Mollien est lié à des agents de change). Durant onze années, un point commun transcende ces personnes: leur appartenance à la maçonnerie, seule association à s'étendre sur toute la France. Solidarités per­sonnelles et géographiques renforcées par cette appartenance, voire carte de visite facilitant des contacts en Angleterre, en Belgique, on ne peut parler de complot "explicite". Mais nous suivrons l'appréciation de Bruguière qui conclut au triple rôle de ce mouvement: cadre commode et discret de filet protecteur ou d'échelle de corde. Le tout dans une atmosphère d'exaspération de l'occul­tis­­­me qui déboucha, à la Révolution, sur "la trans­­mu­tation du papier en or, ou de l'argent en domaines nationaux, bien plus sûrement que ne l'eût permis le Grand Œuvre" (32).

III. Décollage du

capitalisme en France

Au sortir de l'épopée napoléonienne se répand le sentiment de l'existence d'un retard français par rapport à l'Angleterre. F. Caron ouvre son his­toire économique de la France (33) en rappe­lant que la traversée de la Manche était néces­sai­re pour s'initier aux techniques nouvelles, pour y embaucher des ouvriers. Le retard a donc un sens précis: l'écart technologique qui s'est creusé pendant la Révolution et l'Empire, "catastrophe na­tionale" d'après M. Lévy-Leboyer. Mais l'é­co­nomie française a finale­ment progressé au XIXiè­me siècle avant les Etats-Unis et l'Alle­ma­gne. Ne faut-il pas alors nuancer le qualificatif et en réévaluer d'autres aspects? D'abord parce que les démarrages sont inimitables; l'obsession du retard oublie que le comparatisme est un art délicat. Nous en mon­trerons les embûches. En­sui­te, les transforma­tions importan­tes ne sont pas souvent le résultat d'une action précise, mais ré­sultent d'effets per­vers. Nous relèverons ceux dont le rôle est incon­testable.

Des démarrages inimitables

Le capitalisme n'est pas universel et n'émerge pas automatiquement par simple accumulation de capital. A. Caillé (34) insiste sur l'aplanisse­ment nécessaire de trois disjonctions pour for­mer le capitalisme indissociable du marché. La disjonction spatiale: le prix d'une denrée doit être identique sur les marchés villa­geois; dis­jonc­tion temporelle: refus du crédit gé­néralisé (avec le crédit apparait la dépendance des com­mu­nautés par rapport à l'échange); dis­jonction entre grand commerce (réservé à l'Etat et aux grou­pes dominants) et commerce local. Le grand commerce (d'aventure, à longue distance) existe de tous temps un peu partout. Il procure des profits élevés, mais incertains. Par contraste, le capita­lis­me suppose un commerce de marchés, portant sur des biens courants reproductibles en grande quantité. Les prix se fixent alors sur ces marchés qui intéressent les classes moyennes, regrou­pe­ment hétéroclite d'artisans, mar­chands, fonc­tion­naires, laboureurs à l'aise.

Dans l'histoire du développement, l'Angleterre a ouvert la voie par la réunion d'un ensemble de conditions non programmables a priori (35). Au début du XVIIième siècle, elle se tailla un empire dans le nouveau monde. La Révolution anglaise donna le pouvoir au parlement après 1688 et le Roi n'eut plus l'initiative fiscale. Les victoires contre les Hollandais lui ouvrirent le marché mondial. Enfin, les enclosures  dégonflè­rent peu à peu les actifs du secteur primaire qui, affluant dans les villes, engendrèrent des relations nou­velles entre producteurs ruraux et centres ur­bains. Tout cela n'était pas original et ne garan­tissait aucune supériorité définitive. Le bascu­le­ment se produisit après 1780: l'innovation tech­ni­que matérialisée par la machine à vapeur ap­pliquée à l'industrie textile et à la métallurgie. L'ac­croissement de puis­san­ce fut tel que Man­chester fabriqua des cotonnades à meilleur prix que les ar­tisans de l'Inde (Madras, Calcutta). Les Français, comme les autres, ont été surpris par ce changement qui mettait le monde à la por­tée des Anglais, aptes à ruiner, à pastoraliser quel­que pays que ce soit... Il fallait que ces mar­chés fus­sent libres d'accès, ce que la Révolution française, involontairement, a favo­risé. Les au­teurs français, frappés par l'in­dustrilisation, né­gligent les éléments complé­mentaires. Pourtant, la technique est insuffi­sante à assurer un dé­ve­lop­pement cumulatif. Il faut tout d'abord une structure de la population active, liée à l'orga­ni­sation sociale et aux ren­dements agricoles, or il n'y a pas de "Révolution alimentaire" en France jusqu'en 1840, moment où les rendements des cé­réales s'accroissent sans retour (36). La Révo­lu­tion de 1789 a provo­qué une dégradation du ni­veau alimentaire, comme toutes crises de subsis­tance depuis des siècles. Rien d'original donc, si ce n'est, d'après Morineau, que les mauvaises ré­coltes ne don­nent plus lieu à des envolées de prix aussi specta­culaires qu'au siècle précédent car l'approvisionnement s'est fluidifié. Deu­xiè­me ingrédient: les marchés extérieurs, dans plu­sieurs branches du commerce international.

La France avait su conquérir ou garder une ex­cellente position. Domination des marchés d'Ita­lie et du Levant; premier fournisseur de l'Espa­gne en articles manufacturés, extension du com­mer­ce d'entrepôt des denrées coloniales par Saint-Domingue (où la productivité des cul­tures de la canne et du café en autorisait la vente à vil prix). La France ne concurrençait pas réel­le­ment la Grande-Bretagne, car la part de l'indus­trie y était faible (2/5). L'essentiel portait sur le café, le sucre, le vin et, point faible que la Révo­lu­tion balaiera, il dépendait étroitement de Saint-Domingue. Enfin, l'industrie; elle a montré beau­­coup de vitalité au XVIIIième siècle, en par­ti­culier: la laine, les toiles, le coton, la soie. L'in­dustrie minière a démarré (charbon) et, avec elle, la production de fonte.

Résumons encore, si cela est possible sans cari­caturer. La Grande-Bretagne a moins de main-d'œuvre agricole, domine des marchés et a, la première, utilisé la technique pour produire des biens destinés à des classes moyennes. Elle n'est pas organisée selon le modèle royal français. La comparaison selon le seul critère industriel est in­suffisante. L'appréciation doit porter sur une configuration de structures (sociales et écono­miques) dans un environnement où la guerre im­pose ses contraintes matérielles, ce que nous montrerons ci-dessous, après que les éléments peu liés au conflit eurent été envisagés.

Une main-d'œuvre surabondante qu'il faut o­rien­ter vers l'industrie et qui, vivant en ville, doit acquérir peu à peu de nouvelles normes de consommation. Ce premier passage obligé (dans le contexte socio-historique du XVIIIième siècle) dans la longue marche du développe­ment s'était ouvert au milieu du siècle dans le grand mou­ve­ment en faveur de l'éducation. Le despotisme é­clairé avait reçu l'assentiment de tous les pen­seurs fran­çais, à l'exception de Rousseau, pour mettre en œuvre une politique de réformes inspi­rées par la raison, en vue de bien commun. Il y eut donc des tentatives pour créer des établisse­ments pilotes: école des Ponts et Chaussées (1744), école royale militaire (1751). De plus, certaines régions disposaient d'une population alphabéti­sée. Alors qu'en 1790, le taux moyen n'atteignait pas 50%, le Nord-Est de la France était alphabé­tisé à 68%. Enfin, il existait une tradition corpo­ratiste qui formait des artisans dans les écoles techniques. La Révolution a accéléré l'in­tro­duc­tion des sciences dans les études, œuvre couron­née par l'université napoléo­nienne. Mais l'idée d'instruction publique ou d'éducation nationale n'est pas "révolutionnaire" et la Révolution ne se dote pas des moyens nécessaires à la réa­li­sa­tion concrète de son slogan: l'instruction gra­tui­te pour tous. Le développement économique de la France, fondé en partie sur une main-d'œuvre re­lativement qualifiée, ne sera pas affecté par la Révolution.

La montée des classes moyennes, deuxième ver­rou à débloquer pour permettre le capitalisme, est à l'évidence une conséquence du nouvel ordre des valeurs quoique la temporalité du processus soit très étalée. Tous les économistes s'accordent à reconnaître les nocivités d'une fiscalité trop lourde. La redistribution de la charge fiscale et les transferts de richesse engendrés par l'infla­tion des assignats ont modifié le jeu et fa­vorisé ces classes moyennes. L'organisation d'Ancien Régime recelait aussi deux moyens ef­ficaces pour étouffer l'esprit d'entreprise: la vente de char­ges, la hiérarchie de corps. Rappelons que "la monarchie absolue des XVIIième et XVIIIiè­me siècles ne se différencie pas tellement de l'em­pire romain, dont l'essentiel des dépenses était militaire. L'Etat est incapable de mener une guerre longue sans s'endetter outre-mesure. Cet­te situatiion est celle de tous les pays européens (38). Ces difficultés fi­nancières incitent à ven­dre des charges pour éviter les remboursements ultérieurs massifs. Les "riches" les achètent et sous­crivent aux em­prunts d'Etat. Une fois la char­ge acquise, ils ne demandaient plus qu'à en jouir en toute tranqui­lité: les entreprises capita­listes étaient étouffées par cette pratique. Plus gé­néralement, la montée en puissance de l'éco­no­mie de marché a été pos­sible en incitant les hom­mes de profit à investir ailleurs que dans les char­ges. Perception certes à nuancer car la mise en vente de multiples patri­moi­nes (biens com­mu­naux, d'Eglises et de cer­tains émigrés) a mo­bilisé des capi­taux détournés ainsi de l'in­dus­trie; donc la Révolution, au lieu de régler le pro­blè­me agraire, accéléra la ten­dance de l'his­toire française à la conquête bour­geoi­se de la terre.

La disparition de la hiérarchie des corps eut d'au­tres conséquences plus fondamentales à mo­yen terme. La Révolution a affirmé que la sou­ve­raineté résidait dans les citoyens dont le travail sur la nature justifiait la propriété. Or, à cette époque, on désignait par le mot "industrie" la di­ligence ou l'assiduité (i.e.: le travail sur la na­tu­re). Avec la Révolution française, "le tra­vail ou l'industrie n'était plus que cette vile acti­vité re­léguée exclusivement à ces groupes de la popu­lation jugés indignes de plus hautes fonc­tions; il représentait au contraire la substance même de l'existence humaine et se trouvait à l'origine de tout ordre social" (39). Une telle réé­valuation de l'activité humaine signifiait que produire ou dis­tri­buer des richesses devenait un acte exemplaire pour la Nation. La nouvelle vertu attachée à la production couvrait aussi les formes d'organi­sa­tion. Il n'était pas convenable, avant la Révo­lu­tion, d'en­frein­dre à grande échelle les régle­men­­ta­tions qui fixaient l'organisation du tra­vail. Par exemple: la pro­ductivité de biens stan­dar­disés et de médiocre qua­lité, ou d'emploi d'ou­vriers non qualifiés dans le métier, voire recourir à des sous-trai­tants, était interdit, ce qui en limitait la portée pratique. La fin des corpora­tions et la redéfini­tion des droits de pro­priété ont autorisé ce qui avait été pro­hibé. Donc, au début du XIXième siècle, "l'organisation de la pro­duc­tion artisa­na­le fut autant la conséquence des chan­­gements de statuts juridique que connut l'in­dustrie au cours de la révolution que d'un dé­veloppement du marché" (40).

En définitive, aucun progrès spectacu­laire n'a été accompli dans la formation de la main-d'œu­vre ou dans l'émergence d'une classe moyenne. Inversément, rien n'a été entrepris qui put dis­sua­der les nouveaux entrepreneurs. Les fac­teurs décisifs, industrie et commerce, ne prennent leur dimension que dans le con­texte des conflits qui, vingt années du­rant, marquant l'histoire des pays européens.

Guerre et blocus

"Les guerres de la Révolution et de l'Empire (...) sont la plus longue période d'hostilités que l'Eu­ro­pe ait connue depuis le début du XVIIIième sièc­le; comme elles coïncidèrent avec une étape im­por­tante de son développement écono­mique, alors que la Révolution indus­triel­le venait de com­men­cer en Angle­ter­re et que ses premiers symp­tômes se manifestaient dans plusieurs ré­gions du continent, leur facteurs principaux ont pertur­bé les économistes: le blocus ma­ri­time des Bri­tan­niques, l'autoblocus im­posé au continent par Napoléon, le bou­le­ver­sement de la carte poli­tique de l'Eu­rope.

Le traité de commerce franco-anglais de 1786, à vocation libre-échangiste, est ren­du caduc fin 1792, par la prise d'An­vers. Une fois la guerre com­mencée, les navi­res marchands et le com­merce maritime français ne sont plus protégés. La ma­rine de guerre avait été inférieure à la Royal Navy au cours du siècle et la Ré­volution désorganise totalement l'insti­tu­tion. Des offi­ciers émigrent et la disci­pli­ne se relache. Com­me après une pre­miè­re décision dracon­nienne, prescri­vant de capturer les navires neutres en re­lations avec les colonies françaises, la Grande-Bre­tagne, sous l'influence améri­caine, se con­ten­te d'interdire le commerce des neutres en li­gne directe France-Colo­nies, jusqu'en novembre 1807; le com­mer­ce colonial s'effondre en moins de quin­ze ans. On ne sait pas très bien ce que sou­haitaient les révolution­naires dans le domaine du commerce interna­tio­nal. A. Cobban soutient que les fac­tions propo­saient des politiques diffé­ren­­tes. La première vague, dite giron­dine (Bris­sot, Clavière) souhai­tait une législa­tion très ou­ver­te, "libérale". La seconde va­gue, montagnar­de, fit voter en octobre 1793, une loi sur la navi­ga­tion. Le fac­teur décisif est donc la guerre qui pro­dui­sit un effondrement irréversible et trans­for­ma durablement la géo­graphie écono­mi­que de la France. Les zones in­dus­triel­les portuaires décli­nè­rent aus­si et l'ac­­tivité industrielle démarra sur le con­tinent. Le type de produit qui enri­chis­­­­sait les ports atlan­tiques corres­pon­dait à la tra­di­tion du grand commerce, sans probabilité élevée de se trans­former en commerce de biens de pro­duc­tion ou de consommation pour un vaste mar­ché. Ce déclin a été certai­ne­ment bénéfique au développement de l'économie de mar­ché en Fran­ce.

L'effet sur l'industrie n'est pas dissociable de l'au­toblocus imposé par l'Empereur. Les révolu­tionnaires étaient plutôt tournés vers la terre, ap­te à engendrer de bons citoyens, ou vers l'austé­ri­té du modèle spartiate, mais peu versés dans la technique ; et les hommes éclairés prati­quaient la physique amu­san­te. La relève de l'élite tra­di­tionnelle par la nouvelle élite des promoteurs de la civilisation industrielle (que Saint-Simon ap­pelle de ses vœux) sensibilise surtout Sieyès qui distingue nettement deux caté­gories de citoyens: les passifs, les actifs, car il assimile la nation à un grou­pe­ment de produc­teurs. Mais les révolu­tionnaires, peu motivés, n'ont pas mis en place de politique spécifique. Les con­séquences in­dus­trielles de la Révolution se ramènent à un effet de tenaille décrit dans un texte présenté et com­men­té par François Crouzet (42). La première piè­ce soude une forte rentabilité agricole (bais­se du prix des terres) et une hausse des matières pre­mières et des salaires à prix de vente bloqué. Ce "manche" joue le rôle d'une pompe à finances au détriment de l'industrie. La seconde pièce écrase les profits ou pousse les prix à la hausse réduisant la demande. Mais l'histoire ne s'arrête pas là et H. Bonn affirme, par exemple, que l'esprit d'en­tre­prise n'en fut qu'anesthésié car les fourni­tu­res aux armées donneront une impulsion à ceux qui avaient compris la nouvelle règle du jeu: être classé dans le groupe des tra­vailleurs pour éviter les exac­tions. Si, en 1800, le niveau d'activité res­te en deça de celui atteint en 1789, la poussée indus­triel­le démarrera peu après avec l'auto-blo­cus du continent face aux Anglais, mesure pro­tection­niste visant à rempla­cer les importations par des produits con­tinentaux. Le résultat est probant dans le textile, principale filière indus­tria­li­sante, où la filature mécanique connaît un es­sor spectaculaire. Ce dyna­misme, suggère Fran­­çois Crouzet, s'ap­précie par rapport aux deux données de base de l'Europe: la guerre et ses mul­tiples contraintes (prix élevés des ma­tiè­res pre­mières, taux d'intérêt élevés, pénurie de capital); la su­prématie abso­lue de l'Angleterre qui pasto­ra­li­sait les pays situés dans son orbite. Si l'Em­pi­re est une conséquence directe de la Révolution, l'industrialisation de la France en recevra une aide imprévue.

Les révolutions sont interminables. Quand s'ar­rê­te la Révolution française ? En 1791, comme le croyait Barnave? A la chute de Robespierre, selon les lamen­ta­tions du léniniste moyen? Au Di­rec­toi­re, installation de la clique bourgeoise et des penseurs «troisième répu­blique»? Ne se­rait-ce pas plutôt Bonaparte qui y mit un terme, puisqu'il le dit? Ou la restau­ra­tion au bourgeoisisme toni­truant? L'éco­no­mie fran­çaise en a finalement res­senti des effets tout au long du XIXième siècle, car la Révolution a rendu honorable le commerce et les affaires, a encouragé l'acquisition des ri­ches­ses et enclen­ché, en liaison étroite avec les contraintes mili­taires, l'industrialisaton du con­ti­­nent.

 

Bernard NOTIN.

 

(1) Schéma d'Ernest Labrousse, résumé par Pier­re Vilar, Or et monnaies dans l'histoire, Flam­ma­rion, champs, 1974, P.375.

(2) Georges Gusdorf, Les principes de la pensée au siècle des lumières,  Payot, 1971, p.152.

(3) François Hincker, «Les révolutionnaires et l'économie», Les cahiers de Decta III, N° 4, 1989, pp. 43-61.

(4) Georges Gusdorf, op. cit. p. 266.

(5) Raymond de Roover, «Scolastic Economics: Survival and lasting influence from the six­teenth Century to Adam Smith», Quarterly Jour­nal of Economics,  mai 1955, 161-190.

(6) Gérard Cazenave-Gabriel, «Population, Mer­can­tilisme et libre-échange: note sur un pa­ra­do­xe apparent», Revue d'économie politique, N° 5, 1979, 606-622.

(7) Louis Dumont, Homo aequalis, Gallimard, 1977.

(8) Vincent Descombes, «Pour elle un Français doit mourir», Revue européenne des sciences so­ciales, XXII, 1984, N° 68, 67-94.

(9) Guy Haarscher, «Louis Dumont et la genèse de l'iudéologie moderne», Revue européenne des sciences sociales,  XXI, 1984, N° 68, 127-148.

(10) Pierre Rosanvallon, «Boisguillebert et la ge­nèse de l'Etat moderne», Esprit,  janvier 1982, 32-52.

(11) Cité par Pierre Rosanvallon, op. cit., p.51, no­te 40.

(12) Cité par Pierre Vilar, Or et monnaies dans l'histoire,  p. 375.

(13) Florin Aftalion, L'économie de la Révo­lu­tion française,  Hachette pluriel, 1987.

(14) William H. Sewell, Gens de métier et Révo­lu­tions,  Aubier, 1983, p. 151.

(15) Cité par Ernest Labrousse, «Garantisme de la Révolution française et garantisme de Sis­mon­di», dans Croissance, échange et mon­naie en économie internationale. Mélanges en l'hon­neur de Jean Weiller,  Economica, 1985, pp. 69-80.

(16) Cité par Daniel Bell, Les contradictions cul­turelles du capitalisme, Presses Universitaires de Rrance, 1979, p. 237.

(17) Norbert Elias, La dynamique de l'Occident, Calmann-Lévy, 1975 p. 160.

(18) Alain Guéry, «Les finances de la monarchie française sous l'ancien régime», in Les An­na­les, 1977, pp. 216-239.

(19) Alain Guéry, op.cit, 231.

(20) René Sédillot, Le coût de la Révolution fran­çaise,  Perrin, 1987.

(21) Alfred Cobban, Le sens de la Révolution française,  Julliard, 1984.

(22) Robert Schnerb, «Les vicissitudes de l'impôt direct de la constituante à Napoléon», dans Jean Bouvier, Jacques Wolff (éd.), Deux siècles de fis­calité française, 19e-20e, histoire, économie, poli­tique,  Mouton, 1973, PP. 57-70.

(23) Robert Schnerb, op.cit, 63.

(24) Jacques Godechot, Les institutions de la France sous la Révolution et l'Empire, Presses Universitaires de France, 1985, p.163.

(25) Michel Bruguière, Gestionnaires et profi­teurs de la Révolution,  Olivier Orban, 1986.

(26) Michel Bruguière, op.cit, 74.

(27) René Sédillot, op.cit, 242.

(28) René Sédillot, op.cit, 243.

(29) Alfred Cobban, op.cit, 93.

(30) René Sédillot, op.cit, pp. 248-249.

(31) Robert Darnton, La fin des lumières: le mes­mérisme et la Révolution,  Perrin, 1984.

(32) Michel Bruguière, op.cit, 170.

(33) François Caron, Histoire économique de la France: XIXe-XXe siècles,  Armand Colin, 1981.

(34) Alain Caillé, Splendeurs et misères des scien­ces sociales, Droz, 1986, chapitre 4, 2eme partie, pp. 172-200.

(35) Michel Morineau, «Des origines de l'iné­ga­li­té de développement», dans Pour une histoire éco­nomique vraie, Presses Universitaires de Lil­le, 1985, pp.391-411.

(36) Michel Morineau, «Révolution agricole, ré­vo­­lution alimentaire, révolution démogra­phi­que», dans Pour une histoire économique vraie, Presses Universitaires de Lille, 1985, pp.241-276.

(37) François Crouzet, De la supériorité de l'An­glet­erre sur la France, Perrin, 1985 chapitre 2, pp. 22-49.

(38) Jean Meyer, Le poids de l'Etat, Presses Uni­ver­sitaires de France, 1983, p.50.

(39) William H. Sewell, op.cit, 201.

(40) William H Sewell, op.cit, 219.

(41) François Crouzet, op. cit, 280.

(42) François Crouzet, op. cit, chapitre 10, «Les conséquences économiques de la Révolution française, vues de Londres».

 


 

 

 

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jeudi, 17 septembre 2009

Acuerdo bilateral Kosovo-EEUU sobre ayuda economica

Acuerdo bilateral Kosovo-EEUU sobre ayuda económica

Kosovo y Estados Unidos firmaron este lunes su primer acuerdo bilateral de ayuda económica, centrado en las infraestructuras, aunque el monto no fue precisado, anunciaron fuentes oficiales en Pristina.

“La ayuda se destinará al desarrollo (de Kosovo) y en particular a las diferentes infraestructuras, y en consecuencia a la economía, los transportes y la educación”, declaró el presidente kosovar, Fatmir Sejdiu.

El canciller kosovar indicó en un comunicado que otro acuerdo de 13 millones de dólares fue firmado con Estados Unidos para reforzar el Estado de derecho en Kosovo.

El ministro de Relaciones Exteriores, Skender Hyseni, indicó que la ayuda sería empleada en crear “una estructura legal estable” en Kosovo.


Estados Unidos fue uno de los primeros países en reconocer la independencia de Kosovo, proclamada de manera unilateral en febrero de 2008.

Belgrado no reconoce la independencia y considera que Kosovo es una provincia serbia.

Extraído de Univisión.

~ por LaBanderaNegra en Septiembre 14, 2009.

jeudi, 13 août 2009

Thierry Maulnier: pour une philosophie économique

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POUR UNE PHILOSOPHIE ÉCONOMIQUE

 

 

(Thierry Maulnier, Mythes socialistes, Paris : Gallimard, 1936, pp. 237-246.)

 

Il ne faut pas se lasser de le dire, le problème économique, n’est pas un problème séparé. On ne le résoudra pas, si l’on ne résout préalablement le problème politique dont il dépend. Toute réorganisation d’une société humaine suppose d’abord réglée la question du réorganisateur, c’est-à-dire la question du gouvernement. Et, de même qu’il est impossible d’éliminer du problème économique ses composantes politiques, de même il est impossible d’en éliminer les composantes sociales, intellectuelles, humaines. Le libéralisme du dix-neuvième siècle d’abord, le marxisme ensuite, sont nés d’une philosophie qui considérait la science économique comme la science des sciences, l’activité économique comme l’activité-mère de toutes les autres, comme un domaine intangible et sacré. Tout cela nous a coûté assez cher pour que nous ayons cessé de croire à la panacée de l’économie pure. Mais là n’est pas la question.

 

Les solutions économiques comportent des conditions politiques ; elles doivent se soumettre aux exigences de la justice, de l’ordre, de l’homme. Mais si l’on ne peut résoudre seul le problème économique, on peut affirmer, du seul point de vue de l’économie’ que certains régimes tendent naturellement à l’anarchie, à la misère et à la ruine ; que d’autres régimes peuvent créer l’harmonie et la prospérité. Ceux qui ont soumis la vie sociale tout entière aux exigences de l’économie pure nous ont fait beaucoup de mal. Mais ceux qui ont fait de l’économie avec les préjugés de partis ou de classes, le sentiment, la morale, nous en ont fait tout autant. N’en voit-on pas, aujourd’hui, engager jusqu’à leur religion dans les contestations sur la propriété et le travail, comme ils l’engagent dans les contestations sur la forme du gouvernement? Gardons-nous de donner à l’économie trop d’indépendance : gardons-nous aussi de lui ôter son autonomie. L’économie pas plus que la politique, n’a droit au gouvernement exclusif des hommes. Mais l’économie, comme la politique, est un domaine propre de l’activité humaine, et soumis à des lois qui ne se commandent point. Qu’on le veuille ou non, ces lois, comme celles de la biologie ou de la physique, ces lois sont pures, elles font l’objet d’une science pure, et toutes les confusions métaphysiques du monde n’y pourront rien changer.

 

Ceci posé, nous n’en sommes que plus à l’aise pour affirmer que le politique et l’économique, s’ils peuvent être séparés dans la méthode, ne peuvent l’être dans l’action. De même que la biologie et la psychologie, qui sont des sciences séparées, ne peuvent être pensées intégralement et dans toutes leurs composantes de façon séparée, puisqu’elles sont deux parties d’une même vie, de même en est-il de la politique et de l’économique. Vouloir restaurer l’ordre politique sans se soucier de l’ordre économique ou l’ordre économique sans l’ordre politique, est absurdité pure. L’ordre politique dans l’anarchie économique est tyrannie, puisqu’il met la force de l’État, la police, l’armée, au service d’un désordre où les faibles sont écrasés, où les abus et les spoliations restent possibles. L’ordre économique sans ordre politique est impossible, puisque lui manque la force impérative qui seule peut plier à l’intérêt commun les intérêts particuliers. La première de ces deux vérités a été trop oubliée par des conservateurs libéraux qui ont vu dans l’autorité politique le moyen de résister par la force aux revendications souvent légitimes des classes les moins favorisées ; la seconde, par les socialistes marxistes qui ont considéré l’État politique comme un instrument de lutte des classes au service de la classe dominante alors qu’il est la condition même de l’équilibre des forces sociales, et que l’harmonie sociale, loin de permettre sa disparition, exige au contraire son autorité. Le problème politique et le problème économique ne doivent pas être confondus à la légère (des erreurs comme l’économie dirigée ou le syndicalisme politique en sont la preuve), ils ne doivent pas être arbitrairement séparés.

 

Parlant de l’ordre économique, M. E. Bélime, dans une remarquable étude récemment parue, définit en termes clairs et ses limites et sa nécessité : « Posant tout entier sur le plan matériel, écrit-il, il ne promet pas à l’homme ce bien spirituel qu’est le bonheur. Les besoins et les désirs auxquels répond la production caractérisent son matérialisme, un matérialisme dont il connaît ainsi la relativité et les limites. Il sait que l’homme a d’autres besoins et d’autres désirs, mais il sait aussi son impuissance à les manifester librement, lorsque ses aspirations inférieures l’obsèdent. Dans l’espace étroit qu’il s’est tracé, il s’en tient aux humbles besognes qu’il s’est assignées et dont l’exact achèvement est la condition souvent nécessaire, sinon toujours suffisante, de l’accession de l’homme aux bien spirituels. »

 

Nous voilà prémunis en même temps contre les deux grandes causes du malaise social actuel : l’idéalisme libéral et le matérialisme collectiviste qui en a été la conséquence, méritée et fatale comme les punitions antiques. Le libéralisme du dernier siècle a consacré le divorce monstrueux, la séparation par consentement mutuel de l’esprit et du monde. Les intellectuels ont peu à peu accepté d’oublier l’étroite dépendance où l’esprit est tenu par les réalités physiques qui s’affolent, s’insurgent et l’écrasent dès qu’il cesse de les régir ; ils les ont considérées comme indignes de leur regard. Un des plus grands paradoxes de notre histoire, aux yeux de l’avenir, sera ce dédain des intellectuels pour le monde en une de ses phases de plus grave transformation, cette prétention de l’intellectuel à ne s’occuper que de soi. Qu’on le remarque bien : il ne s’agit pas ici de métaphysique. Il ne s’agit pas de faire le procès de l’idéalisme métaphysique, critique de la connaissance, doute à l’égard du monde extérieur ; mais il faut condamner sans pitié l’idéalisme pratique, la tour d’ivoire, la renonciation de l’esprit au monde des faits. Libre à chacun d’admettre que le monde physique ne soit qu’apparence : mais c’est dans cette apparence que se meut toute vie. Celui qui dédaigne les apparences, bon gré mal gré, se met au service de la mort. Marx a criblé de ses attaques cette position insensée de l’idéalisme moderne, ce superbe dédain de l’esprit, dépouillé de la direction du monde social, à l’égard de la guerre, de la misère et de l’anarchie. On ne se lassera pas de répéter que Marx et ses sarcasmes avaient raison.

 

Mais l’intellectuel, enfermant l’esprit en lui-même, abandonnait la direction de la société humaine au théoricien du monde matériel, à l’économiste. Pendant que l’intellectuel érigeait en principe le dédain de l’esprit à l’égard du monde social, l’économiste affirmait le dédain du monde social à l’égard de l’esprit. L’économie libérale, née au dix-huitième siècle, concevait la vie des sociétés comme celle des forces de production et des courants d’échange, attribuait aux marchands la puissance motrice de l’évolution humaine, et confondait l’histoire de l’homme et l’histoire des prix. La vie économique apparaissait peu à peu comme un monde sacré, intangible, soumis à des lois naturelles auxquelles l’homme ne pouvait prétendre imposer son autorité sans désastre. La politique, dans son ordre, gardait le droit de faire appel à l’organisation, à la prévision, à la raison ; dans le heurt des forces politiques, l’harmonie, on le reconnaissait, ne naissait pas d’elle-même. Mais, dans l’activité économique, — humaine elle aussi, pourtant, — toute intervention constructrice et régulatrice de la raison et de la volonté était sacrilège. L’ordre naissait du libre déchaînement des forces, des intérêts, des instincts. Dans l’économie, dans l’économie seule, le libre jeu de la nature n’avait nul besoin d’être corrigé par la civilisation et l’intelligence. Au progrès, à la prospérité, à l’harmonie des plus complexes sociétés humaines, l’économiste, seul souverain dans son domaine, a exigé qu’on appliquât les principes de la lutte pour la vie, de l’élimination des faibles, du laisser-faire ; les principes mêmes qu’en tous domaines la société des hommes a mission de combattre par le gouvernement, l’arbitrage et le droit ; les principes mêmes de la barbarie.

 

On sait les résultats présents de cette liberté forcenée donnée au producteur et au marchand par le libéralisme. Avant la réaction des faits, la réaction des hommes s’est produite, le socialisme marxiste a protesté violemment contre une pensée idéaliste, systématiquement impuissante en face des réalités humaines ; il a déclaré inadmissibles l’oppression et l’exploitation des faibles par les forts dans l’ordre de l’économie. La tentative philosophique de Marx est celle d’un nouveau réalisme, où l’esprit, détourné de la terre par l’abstraction idéaliste, se réconcilierait avec le monde physique pour reprendre son rôle puissance efficace et d’acteur dans le développement de l’histoire. Mais si, dans le principe, l’effort tenté par Marx pour atteindre, dans un monde dissocié, une nouvelle synthèse de la pensée humaine et de la réalité était parfaitement justifiable, les moyens qu’il a employés pour réaliser cette synthèse apparaissent infiniment incomplets et superficiels.

 

Le sociologue allemand n’a pas su se libérer du culte libéral de l’économie. Au moment où il parvient à ses conclusions principales, l’étrange cancer de l’économie libérale, abandonné à lui-même, alimenté par l’équipement technique et par la concurrence, s’accroît déjà de jour en jour sur le corps de la société humaine. Marx fonde toute sa philosophie sur cette déviation de l’histoire, au lieu de chercher et de retrouver la ligne directrice de l’histoire. II construit sur l’accident libéral comme sur un fait humain essentiel et permanent. Bien mieux, il analyse l’histoire tout entière en fonction, et à la lumière de la période libérale — ce qui le conduit, entre autres erreurs, à considérer la lutte des classes, fait propre à l’économie libérale, comme un phénomène constant, et à la retrouver dans les époques mêmes où, de toute évidence, elle n’existait pas. Ainsi, dès son principe, le réalisme marxiste entre dans le jeu des économistes libéraux dont il combat les formules ; il accepte d’eux la notion d’une Économie autonome, fait humain fondamental et n’obéissant qu’aux lois internes de son propre développement. Marx proclame que les principes du laisser-faire et de la concurrence, érigés en lois suprêmes par l’économie naturaliste, conduisent d’eux-mêmes à une autre forme de société, qui est collectiviste et donne le pouvoir au prolétariat ; mais, pas une seconde, il ne nie le principe même de l’économie naturaliste. Au contraire. Il ne fait qu’accroître l’importance et l’empire de l’économie dans la société.

 

Pour la pensée libérale, la vie économique se suffisait à elle-même, elle obéissait à ses propres lois, elle se comportait dans le monde humain comme un univers autonome. Mais elle n’envahissait pas les autres domaines, ceux de la politique, de la culture, des mœurs, des croyances. Marx sait que la pensée même d’une telle autonomie de l’économique, qu’une telle séparation de l’homme et de l’une de ses activités essentielles est inadmissible. Les actions et les réactions de l’économie, commerce, moyens d’échange, travail, niveau d’existence, habitat, sur toutes les formes de la vie et de la pensée sont évidentes, plus évidentes que jamais en un temps où l’essor économique semble modifier de fond en comble toutes les formes de la vie. Contre les économistes, Marx affirme donc le lien essentiel qui unit l’économie à toutes les formes de la vie sociale et individuelle. Mais, contre les idéalistes, il affirme en même temps la subordination des « superstructures » individuelles, intellectuelles, morales, de la politique, de la culture, des croyances, de la raison, de la personnalité, aux conditions collectives de la vie matérielle, c’est-à-dire à l’état économique de la société. Ainsi, par un paradoxe extraordinaire, Marx ne parvient à rendre à l’esprit sa puissance active et sa valeur créatrice qu’en le soumettant à ce qu’il y a de plus matériel dans le monde physique : il ne parvient à rétablir les rapports essentiels, niés par le libéralisme, entre la vie économique et les formes les plus complexes de la vie sociale et personnelle qu’en étendant au monde humain tout entier la royauté de l’économie jusque là bornée par les libéraux au monde proprement économique. C’est à l’économie elle-même que le marxisme demande d’affranchir l’homme des oppressions économiques. L’ordre économique était, pour les libéraux, autonome, dépendant de lui-même : il devient, pour les marxistes, souverain de toute la société humaine. Le marxisme consomme ce que le libéralisme avait commencé.

 

Pour rendre la pensée humaine et la réalité, la personnalité et la vie matérielle collective à leurs rapports naturels, c’est l’effort inverse qu’il convient de faire. L’indépendance monstrueuse acquise par les faits économiques dans la société moderne doit être non transformée en souveraineté absolue, mais réduite et maîtrisée. L’économie doit être considérée comme ce qu’elle est : c’est-à-dire une des formes de la vie sociale, une de ses formes les plus importantes, non son fondement et son principe. Nous devons non pas lui soumettre la vie sociale tout entière, mais au contraire la faire rentrer dans sa subordination naturelle à l’ensemble de la vie sociale. Les rapports économiques ne créent pas les rapports sociaux, ils en dérivent, l’échange des produits, la division des travaux supposant déjà par eux-mêmes l’instinct social existant et la vie sociale constituée. Toute critique valable du marxisme doit partir de ce fait essentiel que les faits économiques ne sont pas déterminants mais déterminés. Ils supposent l’existence de la personnalité humaine et de la solidarité humaine, de la vie sociale humaine dans toute sa complexité. Loin d’absorber en eux toute la vie sociale des êtres humains, ils doivent donc se soumettre aux lois naturelles de cette vie sociale, aux exigences, aux limitations, aux règlements, au gouvernement que suppose la vie des hommes en société. S’il y a un déterminisme historique, il est social au sens le plus complexe et le plus complet du terme, et non purement économique. Dans l’ordre de la pensée comme dans l’ordre pratique, le véritable recours contre le naturalisme libéral consiste à proclamer non la souveraineté mais la subordination de l’économie. La réconciliation demandée par Marx de l’homme et de la réalité, de la pensée et du monde n’est possible que si les lois du développement humain, ramenées illégitimement par l’auteur du Capital à une activité partielle de l’homme, sont découvertes et respectées dans leur complexité véritable : il est dans l’existence personnelle et dans l’existence sociale de l’homme des lois plus primitives, plus déterminantes encore que celles du régime du travail ou des échanges : celles de la vie humaine elle-même, — qui est plus que la vie économique — dans sa totalité : c’est sur le respect de celles-là que s’appuie l’ordre économique véritable, comme tout l’ordre civilisé.

vendredi, 07 août 2009

Bientôt la révolution aux Etats-Unis?

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Bientôt la révolution aux Etats-Unis?

 

Gérald Celente, l’homme qui a prédit le krach boursier de 1987 de même que la chute de l’Union Soviétique prévoit maintenant que surviendra une révolution aux États-Unis de même que des émeutes de la faim et des rébellions contre les impôts. Le tout, d’ici 4 ans et il souligne que d’ici 2012, avoir de la nourriture sur la table sera une préoccupation beaucoup plus important que l’achat de cadeaux de Noël. Un texte datant de 2008 mais qui est toujours d’actualité (NLDR).

 

Gérald Celente, le PDG du « Trends Research Institute », est renommé pour l’exactitude de ses prévisions concernant l’avenir du monde et des événements économiques. Des prévisions à vous glacer le sang si l’on en croit ce qu’il a dit cette semaine sur le réseau de télévision étasunienne « Fox News ».
Gérald Celente a déclaré que les États-Unis deviendront d’ici 2012 une nation sous-développée, qu’il y aura une révolution qui se traduira par des émeutes de la faim, des rébellions de squatters, des révoltes contre les impôts et des manifestations pour l’emploi, en ajoutant aussi que la période des fêtes consistera dorénavant à se pourvoir de nourriture plutôt que de cadeaux.
« Nous allons voir la fin de la fête commerciale de Noël …. nous allons voir se produire un changement fondamental …. avoir de la nourriture sur la table sera plus important que d’avoir des cadeaux sous l’arbre de Noël, » a déclaré Celente , en ajoutant que la situation serait « pire que la Grande Dépression ».
« Les États-Unis passeront par une période de transition, une période à travers laquelle personne n’est préparée », a déclaré Celente, en soulignant que les gens qui refusent de croire que les États-Unis sont présentement en récession, donne l’étendue de la mesure qui permet de voir jusqu’à quel point ils ne sont pas prêts à affronter l’ampleur véritable de la crise.
 
Gérald Celente, qui avait prédit la crise monétaire asiatique de 1997 de même que l’effondrement des prêts hypothécaires de catégorie « subprime » ainsi que l’importante dévaluation du dollar US, a déclaré en novembre 2007 à United Press International que l’année 2008 passerait à la postérité sous le nom de « La Panique de 2008 », en ajoutant que des « géants tomberaient raid mort », ce qui est exactement ce à quoi nous avons assisté avec l’effondrement de Lehman Brothers, Bear Stearns et d’autres. Il avait alors également déclaré que le dollar se dévaluerait à près de 90 pour cent.
 
Ce qui s’est produit cette année engendrera une diminution du niveau de vie, prédisait l’an dernier Gérald Celente, une réalité également corroborée par la chute des ventes au détail.
La perspective de la révolution est un concept qui était repris dans un rapport publié l’an dernier par le ministère britannique de la Défense et dans lequel ont prédisait que d’ici 30 ans, l’écart croissant entre les très riches et la classe moyenne, jumelé à une sous-classe urbaine menaçant l’ordre social, pourrait signifier que « Les classes moyennes du monde pourraient s’unir en utilisant l’accès aux connaissances aux ressources et les compétences nécessaires pour façonner les processus transnationaux dans l’intérêt de leur propre classe », et que, « Les classes moyennes pourraient devenir une classe révolutionnaire ».
 
Dans une autre entrevue qu’il a récemment donnée, Gérald Celente en a dit un peu plus à propos de la révolution aux États-Unis.
« Il y aura une révolution dans ce pays. Cela ne se produira pas demain matin, mais ça arrivera et nous allons voir un troisième parti [politique se former] et [les événement qui vont se produire] en auront été le catalyseur [en parlant ici de] la ‘‘main mise’’ par Wall Sttreet sur Washington, au su et au vu et en plein jour, sans coup d’État et sans effusion de sang. Et cela se produira alors que les conditions continueront de s’aggraver », a-t-il dit.
« La première chose à faire est de s’organiser autour des révoltes contre les impôts. Ce sera le catalyseur car les gens ne peuvent plus payer pour les taxes scolaires, les taxes foncières et toutes les autres formes d’impôt. Vous allez voir ce genre de protestations commencer à se développer ».
« Ce sera terrible, déplorable. Et il y aura beaucoup de sans-abri, des gens tels que nous et plus que nous n’en aurons jamais vu auparavant. Il y en a déjà beaucoup dans une trentaine de villes dans le pays et nous allons en voir beaucoup plus ».
« Nous allons commencer à voir de grandes régions où les maisons à vendre seront occupées par des squatters. Ce sera une situation que les états-uniens n’avaient jamais vue et il y aura un comme un grand choc et, suite à ce choc, il y aura beaucoup de criminalité. Et la criminalité sera bien pire qu’elle ne le fut au cours de la Dépression de 1929, car la population n’était pas contaminée par les médicaments modernes, par ces drogues, ou par le crystal meth et autre chose. Par conséquent, vous vous retrouvez avec une grande proportion de la population désespérée ayant l’esprit chimiquement survolté au-delà de toute compréhension humaine ».
 
Traduction libre de Dany Quirion; célèbre pour l’exactitude de ses prévisions, le prévisionniste Gérald Celente dit que les États-Unis cesseront d’être une nation développée d’ici 4 ans et que la crise sera « pire que la Grande Dépression ».
 

jeudi, 23 juillet 2009

Beijing G8: diversifier le système financier international!

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Beijing, G8: diversifier le système financier international!

 

 

La diversification du système financier international est bien à l’ordre du jour du sommet qui se déroulera prochainement en Italie, car la Chine le souhaite. C’est ce qu’a déclaré le 2 juillet dernier le ministre chinois des affaires étrangères, He Yafei. On ne peut exclure que lors du G8 le président chinois Ju Jintao proposera la création d’une monnaie de réserve supranationale. En  mars, le gouverneur de la Banque Populaire de Chine, Zhou Xiaochuan, avait déclaré que “le système financier international avait besoin d’une monnaie de réserve supranationale, garante de la stabilité sur le long terme”. Ce gouverneur avait déjà auparavant soutenu les mesures analogues que proposait Moscou au Fonds Monétaire International.

 

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 3 juillet 2009).

00:08 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : g8, finances, économie, chine, système financier | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

samedi, 11 juillet 2009

Les ancrages économiques et géopolitiques de l'Australie

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Les ancrages économiques et géopolitiques de l’Australie

 

Nous sommes prêts à parier de fortes sommes d’argent: demandez à une centaine de citoyens flamands pris au hasard et demandez-leur à quoi ils associent l’Australie. Vous recevrez immanquablement un paquet de clichés comme réponse: des soaps plagistes, des kangourous, ou peut-être encore une série télévisée comme “Flying Doctors” ou un personnage de film comme Crocodile Dundee. En revanche, la plupart des économistes se font un idée plus exacte du pays: ils savent qu’il y a là-bas du charbon et du nickel, mais aussi de l’or et de l’uranium. Voilà ce que vous répondront ceux qui connaissent les réalités économiques de ce continent insulaire. Bon nombre de matières premières importantes se trouvent dans le riche sous-sol australien. Il y a déjà bien des décennies que tel est le cas et c’est bien évidemment cette richesse qui fait la prospérité de cette ancienne colonie pénitentiaire britannique. L’Australie a véritablement été la Sibérie du “British Empire”. Mais, innovation, depuis quelques années, un nouveau facteur a émergé: le facteur chinois. L’Empire du Milieu est devenu, en très peu de temps, le principal client de l’Australie. Cette coopération sino-australienne suscite certes bien des contrats lucratifs mais à ces échanges fructueux, il y a un revers de médaille...

 

Partenaire commercial

 

Les années qui viennent de s’écouler ont été fort douces pour ceux de “down under”, comme on dit dans le monde anglo-saxon. Les nombreuses matières premières du sol australien se vendent cher au prix du marché, ce qui a stimulé l’économie du pays-continent. L’influx de capitaux a fait grimper le prix de l’immobilier, la bourse a connu des “pics” et, au cours des trente dernières années, le taux de chômage n’a jamais été aussi bas. Un tel contexte économique, on s’en doute, a généré de la satisfaction, cependant, dans son sillage, une certaine angoisse est née en Australie. Pour ce qui concerne les investissements étrangers, ce sont toujours les Etats-Unis et la Grande-Bretagne qui demeurent les principaux partenaires de l’Australie mais les Chinois sont en train de les rattraper à une vitesse vertigineuse. Ces mêmes Chinois sont aussi les acheteurs principaux des richesses naturelles du pays. A peu près la moitié du fer et de la laine produits en Australie part en direction des ports chinois. En même temps, quelque 120.000 Chinois étudient en Australie. Les chiffres sont éclairants: l’imbrication économique des deux pays est devenue un fait. Un fait en pleine croissance. Ce qui suscite des questions. Y compris dans les autres pays de la région Insulinde/Océanie.

 

L’an dernier, le Japon a été détrôné: il n’est plus le principal partenaire commercial de l’Australie, ce qui constitue un symbole important. Un diplomate remarquait naguère: “C’est le cas de toute l’Asie, mais ce sont surtout l’Inde et le Japon qui s’inquiètent du tandem sino-australien”. “Sous l’ancien Premier Ministre John Howard, les liens entre la Chine et l’Australie sont devenus très forts mais sous son successeur Kevin Rudd, ces liens se renforcent encore davantage. En outre, Kevin Rudd est sans doute le seul leader occidental à parler couramment le mandarin. Cette situation éveille des soucis. En Australie et ailleurs”. En soi, ce ne sont pas les importations chinoises à grande échelle qui inquiètent mais certaines tentatives d’acheter des entreprises australiennes. Lorsque trois entreprises d’Etat chinoises ont fait savoir qu’elles entendaient acheter certaines parts de l’industrie minière australienne, une sonnette d’alarme a retenti chez plus d’un observateur.

 

Au total, les Chinois auraient investi 22 milliards de dollars, ce qui équivaut, à peu près, au total de tous les investissements chinois de ces trois dernières années. “La république communiste de Chine, donc propriété à 100% communiste, achète des parts importantes de ce pays”, a-t-on clamé sur les bancs de l’opposition australienne. Cette remarque peut sans doute faire mousser quelques âmes sensibles dans le débat idéologique et politicien, dans la pratique de telles paroles n’ont que peu de poids. La Chine aligne d’ores et déjà plus de 115.000 entreprises d’Etats, avec pour fleuron, 150 groupes importants qui opèrent au niveau international. En pratique, ces entreprises et ces groupes cherchent à faire du profit, comme n’importe quelle entreprise privée.

 

Le noyau de l’affaire est une question d’ancrage. Pour l’opposition australienne, le pays se trouve face à une puissance étrangère qui ne cesse d’acheter des parts substantielles de l’économie nationale. Démarches jugées inquiétantes. Le cas australien, à ce niveau, n’est pas isolé. Dans la région, du Vietnam aux Philippines, tous s’inquiètent du poids toujours croissant de la Chine. Un chercheur du “Centre de relations Internationales” de l’Université de Sidney résume la situation en ces termes: “La situation s’est modifiée. Au début, on voyait ces investissements d’un bon oeil, puis le doute s’est installé. Pour l’essentiel, il ne s’agit pas tant des relations spécifiques entre la Chine et l’Australie mais bien du regard assez hostile que jette le monde sur la Chine et son futur rôle de grande puissance”.

 

Le contexte politique explique l’évolution des relations économiques sino-australiennes. Ce qui est logique car le noyau de toute problématique est in fine toujours politique. Depuis l’entrée en fonction du gouvernement Rudd, celui-ci a résolument tiré la carte chinoise. Il a entrepris plusieurs voyages en Europe, aux Etats-Unis et, bien entendu, en Chine. Mais aucun autre pays asiatique ne figurait au programme, ce qui a offusqué bien des chancelleries en Asie. Un analyste constate: “En Inde, au Japon, en Corée du Sud, on a l’impression que le gouvernement Rudd est entièrement tourné vers la Chine”. La réaction d’un commentateur indien sur le voyage de Rudd le confirme. Son jugement bref est simple et lapidaire: “La Chine, la Chine et encore la Chine”.

 

Pourtant, il n’est pas neuf le débat quant à savoir si l’Australie est un avant-poste de l’Occident ou un pays asiatique. Mais la convergence des réalités économiques et des choix politiques du gouvernement Rudd indique qu’un nouveau chapitre de l’histoire des relations économiques entre l’Extrême Orient chinois et son environnement océanien vient de s’ouvrir. Est-ce une étape nouvelle vers un “happy end”? Cela reste à voir.

 

“M.”/” ’t Pallieterke”.

(article paru dans ’t Pallieterke, Anvers, 10 juin 2009; trad. franç.: Robert Steuckers).

lundi, 29 juin 2009

Economie: l'immigration n'est pas un "à-côté" de la logique du capital

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Économie - L’immigration n’est pas un « à-coté » de la logique du capital

Ex: http://www.europemaxima.com/


Il suffit de passer un peu de temps dans le métro parisien pour constater une chose : de plus en plus de gens, qu’ils soient officiellement étrangers ou non – cela ne veut plus rien dire avec les naturalisations automatiques du droit du sol - ne parlent que leur langue d’origine. Leur communauté d’origine est tellement nombreuse, qu’elle soit chinoise, sri-lankaise, indienne, africaine, etc., que nombre de ces gens se lèvent en parlant leur langue d’origine, travaillent avec des compatriotes, vivent avec des compatriotes, se marient avec eux, font rapatrier leur corps au pays par des associations communautaires, et ne parlent français que le strict minimum, avec les administrations ou les « associations », et encore, car la France paie chèrement des traducteurs pour toutes les langues du monde. Comment l’assimilation fonctionnerait-elle alors que dans bien des quartiers de Paris et de banlieue les Français d’origine, « de souche » si l’on préfère, sont minoritaires ? Quand la langue parlée quotidiennement, même dans le travail (quand il y a travail) n’est pas le français ? (Que ceux qui en doutent aillent sur un chantier de bâtiment en région parisienne et ils comprendront). Il est loin le temps du vieil ouvrier maghrébin, francophone bien sûr, qui finissait par ouvrir un bistrot, Mohammed que l’on appelait affectueusement Momo, et qui faisait partie du paysage français. Ou du Russe blanc de Billancourt, qui restait « très russe » mais devenait en même temps si français, au contact de ses compatriotes d’usine encore très majoritairement français de souche.

J’entends dire parfois : « S’il n’y avait plus un seul immigré en France, il y aurait toujours les mêmes problèmes, la sous-culture mondialisée, l’hyper-consommation, l’alignement sur les U.S.A., etc. » Tout n’est pas faux dans ce point de vue. Mais il est bien spécieux. S’il n’y avait plus d’immigration, le capitalisme ne serait plus le capitalisme, l’immigration n’est pas un « à-coté » de la logique du capital, elle lui est consubstantielle, c’est pourquoi il y a de plus en plus de vrais hommes de gauche qui sont contre l’immigration, légale ou clandestine, parce qu’ils sont contre la Forme-Capital, parce qu’ils ont vu les dégâts qu’elle produit, et, assumons le subjectivisme, parce qu’ils sont trop français pour ne pas en souffrir (comme par hasard ce sont souvent des ouvriers ou des fils d’ouvriers). N’oublions pas que Le Capital de Marx était sous-titré Critique de l’économie politique. C’est en cessant de subordonner le monde à l’économie que l’on trouvera l’énergie de mettre fin au processus de disparition de nos peuples par les flux migratoires.

Pierre Le Vigan

00:34 Publié dans Economie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : économie, capital, capitalisme, immigration | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook