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vendredi, 05 novembre 2010

Romain Gary, "camaleonte" e libertario

Romain Gary, "camaleonte" e libertario

di Roberto Alfatti Appetiti

 


Fonte: Roberto Alfatti Appetiti (Blog) [scheda fonte]

 

Romain-Gary_5084.jpgDigiti “Romain Gary” su google e le prime foto che appaiono ritraggono lo scrittore francese d’origine ebreo-russa accanto a una graziosa biondina, visibilmente più giovane di lui. L’impressione è di averla già vista. Ma sì, è Jean Seberg, l’adolescente malinconica di Bonjour tristesse, l’icona che meglio di altri ha incarnato sul grande schermo lo smarrimento della gioventù borghese del secondo dopoguerra. Si erano sposati nel ’62 – 24 anni lei, il doppio lui – per poi separarsi otto anni dopo e infine ritrovarsi in un comune tragico destino: quando entrambi sono stati sconfitti e – per dirla con una battuta di Patricia, la protagonista di À bout de souffle interpretata dalla Seberg nel ’60 – «ormai è troppo tardi per avere paura».

 

Se lei nel settembre del ’79, appena quarantenne ma sempre più instabile psicologicamente, era stata trovata morta in una automobile parcheggiata alla periferia di Parigi, l’anno successivo – il 3 dicembre del ’80, giusto trent’anni fa – fu Gary stesso a scrivere la sceneggiatura del proprio congedo dal mondo. Curandone ogni dettaglio: la pistola con cui bruciarsi il cervello e la vestaglia di seta rossa, comprata e indossata per l’occasione affinché nell’appartamento di rue du Bac il sangue si notasse meno. Un biglietto d’addio lasciato per eliminare sin troppo facili interpretazioni, prendere le distanze dalla ex moglie, la cui militanza nelle Pantere nere s’era fatta via via più imbarazzante, e ristabilire così davanti all’eternità chi fosse l’unico protagonista della scena: «Nessun rapporto con Jean Seberg. I patiti dei cuori infranti sono pregati di rivolgersi altrove».

Il colpo di scena, tuttavia, non arrivò del tutto inaspettato. Malgrado l’invidiabile palmarès – in cui fa bella mostra il sia pur impolverato Goncourt del ’56 per Le radici del cielo, forse il primo romanzo autenticamente ecologista – la critica militante lo considerava un autore a fine carriera, un vecchio “trombone” che ancora parlava di onore e fedeltà, col gusto dannunziano del gran gesto e prigioniero del proprio personaggio fino a morirne. In fondo la sinistra non l’aveva mai amato, nonostante Sartre avesse giudicato il suo Educazione europea – il libro che nel ’45 lo fece conoscere al grande pubblico, in cui racconta la storia di un gruppo di resistenti polacchi attraverso gli occhi di Janek, orfano quattordicenne – il miglior testo sulla resistenza.

romainGaryProm.jpgLo guardavano con diffidenza, ritenendolo un autore reazionario per il suo passato di eroe di guerra e poi di diplomatico gollista. E lui – che pure aveva rischiato la morte per disertare e aderire all’appello lanciato il 18 giugno del ’40 da De Gaulle a Londra di continuare la lotta contro i nazisti – non perdeva occasione per esprimere la delusione in quelle forze con cui durante la guerra si era trovato a «essere così spesso dalla stessa parte che non posso più perdonargli niente». Tradite le speranze del dopoguerra «dalle idee che si comportano in maniera sbagliata», scelse di chiamarsi fuori dalla logica dei blocchi contrapposti: «Non accetto nessuna crociata – spiegò – perché non accetto nessuna fede e rifiuto d’essere convertito. Non conosco certezze e il solo bene che difendo è il diritto al dubbio». Senza mai riuscire a diventare un cinico: «Sono quarant’anni che trascino intatte per il mondo le mie illusioni, nonostante tutti gli sforzi per sbarazzarmene e per riuscire, una volta per sempre, a non sperare più». Se non nella politica, almeno nella letteratura intesa come nascondiglio: «Vorrei che i miei libri fossero rifugi e che aprendoli gli uomini ritrovassero i loro valori e capissero che, se hanno potuto forzarci a vivere come bestie, non hanno potuto costringerci a disperare».

Quando la contestazione giovanile cerca nuovi riferimenti intellettuali, l’immagine di Gary sembra coincidere con la vecchia Francia “coccardiera”, compromessa con quel sistema di potere gollista che si vorrebbe spazzare via. I suoi libri continuano a vendere ma i salotti lo trattano come un appestato e Gary – per aggirare il muro di reticenza che gli avevano costruito attorno o per dedicare loro un vero e proprio sberleffo – s’inventa Emile Ajar. E miracolosamente gli stessi che lo stroncavano immediatamente salutarono lo sconosciuto Ajar come «lo scrittore più promettente degli anni Settanta» senza sapere che si trattava della stessa persona. Qualche indizio c’era: Ajair in russo indica la “brace” e Gari significa “brucia”. Eppure nessuno sospetta nulla, tanto che nel ’75 Ajar si aggiudica il Goncourt per La vita davanti a sé, riconoscimento che non potrebbe essere assegnato allo stesso autore per due volte.
Quel che conquista critica e pubblico, decine di migliaia le copie vendute, è il linguaggio gergale e poetico al tempo stesso con cui viene tratteggiato – vent’anni prima che lo faccia Daniel Pennac – il mondo delle banlieu e la trasformazione che già dagli anni Quaranta stava colorando il volto di interi quartieri parigini. Una narrazione dal basso fatta attraverso la lente della quotidianità, che ha per protagonisti gli ultimi, gli innocenti, i reietti che ancora non sanno di esserlo. Come Momo, la voce narrante, che scoprirà solo crescendo il razzismo, «perché i neri finché sono bambini non dispiacciono a nessuno». Momo, infatti, è algerino e insieme ad altri “nati di traverso” – figli di prostitute – vive nel “pensionato” di Madame Rosa, a sua volta ex prostituta ebrea che sopravvive offrendo loro ospitalità in cambio di una pigione (magistrale l’interpretazione che nel film tratto dal libro nel ’78 fruttò a Rosa/Simone Signoret un César come migliore attrice).

Chi avrebbe potuto immaginare che quel “socialismo dal volto umano” applicato alla letteratura – «un romanzo toccato dalla grazia» lo ha definito Stenio Solinas – potesse essere opera di uno scrittore conservatore ormai prestato alla diplomazia e apparentemente interessato più alle frequentazioni del jet set internazionale e alle sue amanti che non a farsi cantore della società multietnica? Sarà la pubblicazione (postuma) di Vie et mort di Emile Ajar a rivelare la vera identità dell’autore, sino a quel momento attribuita al nipote di Gary.
 
«Per essere qualcuno bisogna essere molti», fa dire a Momo e Ajar non era certo l’unico degli pseudonimi di Romain Gary, il cui vero nome peraltro è Roman Kacew. Non a caso il titolo della biografia dedicatagli da Myriam Anissimov, ancora non disponibile in lingua italiana, è proprio Il camaleonte. Per lunghi anni assente dalle nostre librerie, grazie alle edizioni Neri Pozza le opere di Romain Gary nell’ultimo lustro sono tornate disponibili.
L’ultima in ordine di tempo, fresco di tipografia, è Mio caro Pitone (pp. 238, € 12,50), la prima, nel ’74, a firma di Emile Ajar, vera e propria denuncia dell’incomunicabilità del mondo moderno (come suggerisce il titolo, il protagonista, per lenire la propria solitudine finirà per accompagnarsi a un pitone). Con una rapida visita in libreria e a prezzi contenuti si possono portare a casa, oltre ai titoli già citati, gli altri romanzi recentemente ristampati dalla casa editrice milanese, tra cui Cane bianco (2009, pp. 238, € 12,50) – in cui Gary, convinto che «scopo della democrazia sia far accedere ogni uomo alla nobiltà», mette alla berlina la «democrazia americana» in bilico tra il razzismo della destra e l’ipocrisia delle anime belle democratiche – e Biglietto scaduto (2008, pp. 223, € 12).
In quest’ultimo più che in altri si rivelano i motivi reali della fatica di vivere dello scrittore. La molla che fa scattare il malessere è data dal comparire sulla scena di un amico del protagonista. L’uomo che ha di fronte sembra solo l’ombra del milionario brillante e circondato di donne che dieci anni prima aveva ammirato con un pizzico di invidia. Che delusione rivederlo irrimediabilmente invecchiato e alle prese con l’impotenza, lui che – come Gary, del resto – era un vero playboy. E il declino della virilità – descritto con cruda (auto?)ironia – in questo “romanzo della decadenza” non rappresenta soltanto l’ossessione principale del protagonista ma anche la metafora del declino di un’Europa che non crede più a se stessa. «Pagheremo l’aver perso in creatività – scrive Gary – il non avere più orgoglio, l’aver delegato alle multinazionali, il confondere l’economia con la politica, il pensare che gli sfruttati se ne staranno tranquilli al loro posto».
Guardarsi indietro non dà alcun sollievo: «Cerco di calmarmi chiudendo gli occhi e facendo il conto di tutti i nazisti che ho ucciso durante la guerra – scrive – ma questo non fa che deprimermi ulteriormente perché vorresti ammazzare l’ingiustizia eppure finisci sempre per ammazzare degli uomini». In tempo di pace – diceva Nietzsche – l’uomo guerriero si scaglia contro se stesso e Gary, alla fine dei conti, aveva nostalgia del ragazzo guerriero che era stato tanti anni prima, quello che tra un’impresa estrema e l’altra, tra una missione di guerra in terra d’Africa e un duello per salvare l’onore, aveva finito per cedere il passo al borghese che mai avrebbe pensato di diventare. «I borghesi – fa dire a Pech in Educazione europea (ristampato da Neri Pozza nel 2006) – sono uguali dappertutto e mandano la stessa puzza in tutti i paesi del mondo». C’era forse del rimpianto quando Gary rivolgeva (a se stesso?) il seguente avvertimento: «Bisogna davvero riuscire a conservare in sé qualche traccia inestirpabile di ciò che si è stati prima di quella grande disfatta che si chiama maturità».

 

 


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What did Ezra Pound really say?

WHAT DID EZRA POUND REALLY SAY? 
 

by Michael Collins Piper 

ezra_pound_01.jpgFrom 1945 through 1958 America's iconoclastic poet--the flamboyant Ezra Pound, one of the most influential individuals of his   generation--was held in a Washington, D.C. mental institution, accused of  treason. Pound had merely done what he had always done--spoken his mind. Unfortunately for Pound, however, he had made the error of criticizing the American government in a series of broadcasts from Italy during World War II. For that he was made to pay the price.  Was Pound a traitor--or a prophet? Read his words and judge for yourself.

American students have been taught by scandalized educators that famed American poet and philosopher Ezra Pound delivered "treasonous" English-language radio broadcasts from Italy (directed to both Americans and to the British) during World War II. However, as noted by  Robert H. Walker, an editor for the Greenwood Press: "Thousands of people have heard about them, scores have been affected by them, yet but a handful has ever heard or read them."   This ignorance of Pound's most controversial political rhetoric is ironic, inasmuch as: "No other American--and   only a few individuals throughout the world--has left such a strong mark on so many aspects of the 20th century: from poetry to economics, from theater to philosophy, from politics to pedagogy, from Provencal to Chinese. If Pound was not always totally accepted, at least he was unavoidably there." One critic called Pound's broadcasts a "confused mixture of fascist apologetics, economic theory, anti-Semitism, literary judgment and memory" Another described them as "an unholy mixture of ambiguity, obscurity, inappropriate subject matters [and] vituperation," adding (grudgingly) there were "a few pearls of unexpected wisdom." 

Despite all the furor over Pound's broadcasts--which were heard between January of 1941 through July of 1943--it   was not until 1978 that a full-length 465-page compendium of transcriptions of   the broadcasts was assembled by Prof. Leonard Doob of Yale University in association with aforementioned Greenwood Press. Published under the title "Ezra   Pound Speaking"--Radio Speeches of World War II, the volume provides the reader a comprehensive look at Pound's philosophy as it was presented by the poet him self in what Robert Walker, who wrote the foreword to the compendium, describes as "that flair for dramatic hyperbole." 

What follows is an attempt to synthesize Pound's extensive verbal parries. Most of what is appears here has never been printed anywhere except in the compendium of Pound's wartime broadcasts. Thus, for the first time ever--for a popular audience--here is what Pound really had to say, not what his critics claim he said. When he was broadcasting from Italy during wartime, Pound evidently pondered the possibility of one day compiling   transcriptions of his broadcasts (or at least expected--quite correctly--that one day the transcripts would be compiled by someone else). He hoped the broadcasts would show a consistent thread once they were committed to print. Pound recognized relaying such a massive amount of information about so many seemingly unrelated subjects might be confusing listeners less widely read than he. However, the poet also had very firm ideas about the need of his listeners to be able to synthesize the broad range of material that appeared in his colorful lectures.   

Pound was sure his remarks on radio were   not seditious, but were strictly informational and dedicated to traditional principles of Americanism--including the Constitution, in particular. In response to media claims that he was a fascist propagandist, Pound had this to say: "If anyone takes the trouble to record and examine the series of talks I have made over this radio it will be found I have used three sorts of material: historical facts; convictions of experienced men, based on fact; and the fruits of my own experience. The facts . . . mostly antedate the fascist era and cannot be considered as improvisations trumped up to meet present requirements. Neither can the beliefs of Washington, John Adams, Jefferson, Jackson, Van Buren, and Lincoln be laughed off as mere fascist propaganda. And even my own observations date largely before the opening of the present hostilities.   "I defend the particularly American, North American, United States heritage. If anybody can find anything hostile to the Constitution of the U.S.A. in these speeches, it would greatly interest me to know what. It may be bizarre, eccentric, quaint, old-fashioned of me to refer to that document, but I wish more Americans would at least read it. It is not light and easy reading but it contains several points of interest, whereby some of our present officials could, if they but would, profit greatly."   Pound's immediate concern was the war in Europe--"this war on youth--on a generation" --which he described as the natural   result of the "age of the chief war pimps." He hated the very idea that Americans were being primed for war, and on the very day of Pearl Harbor he denounced the idea that American boys should soon be marching off to war: "I do not want my compatriots from the ages of 20 to 40 to go get slaughtered to keep up the Sassoon and other British Jew rackets in Singapore and in Shanghai. That is not my idea of American patriotism," he added. In Pound's view, the American government alliance with British finance capitalism and Soviet Bolshevism was contrary to America's tradition and heritage: "Why did you take up with those gangs?" he rhetorically asked his listeners. "Two gangs. [The] Jews' gang in London, and [the] Jew murderous gang over in Moscow? Do you like Mr. Litvinov? [Soviet ambassador to Britain Meyer Wallach, alias Litvinov, born 1876.--Ed.]   "Do the people from Delaware and Virginia   and Connecticut and Massachusetts . . . who live in painted, neat, white   houses . . . do these folks really approve [of] Mr. Litvinov and his gang, and all he stands for?" There was no reason for U.S. intervention abroad, he said: "The place to defend the American heritage is on the American   continent. And no man who had any part in helping [Franklin] Delano Roosevelt get the United States into [the war] has enough sense to win anything . . . The men who wintered at Valley Forge   did not suffer those months of intense cold and hunger in the hope that . . . the union of the colonies would one day be able to stir up wars between other countries in order to sell them munitions."   

What was the American tradition? According to Pound: "The determination of our forbears to set up and maintain in the North American continent a government better than any other. The determination to govern ourselves internally, better than any other nation on earth. The idea of Washington, Jefferson, Monroe, to keep out of foreign shindies." Of  FDR's interventionism, he declared:   "To send boys from Omaha to Singapore to die for British monopoly and brutality is not the act of an American patriot." However, Pound said: "Don't shoot the President. I dare say he deserves worse, but . . . [a]ssassination only makes more mess." Pound saw the American national tradition being buried by the aggressive new internationalism. 

According to Pound's harsh   judgment: "The American gangster did not spend his time shooting women and children. He may have been misguided, but in general he spent his time fighting superior forces at considerable risk to himself . . . not in dropping booby traps for unwary infants. I therefore object to the modus in which the American troops obey their high commander. This modus is not in the spirit of Washington or of Stephen Decatur." Pound hated war and detected a particular undercurrent in the previous wars of history. Wars, he said, were destructive to nation-states, but profitable for the special interests. Pound said international bankers--Jewish bankers, in particular--were those who were the primary beneficiaries of the profits of from war. He pulled no punches when he declared:   Sometime the Anglo-Saxon may awaken to the fact that . . . nations are shoved into wars in order to destroy themselves, to break up their structure, to destroy their social order, to destroy their   populations. And no more flaming and flagrant case appears in history than our own American Civil War, said to be an occidental record for size of armies employed and only surpassed by the more recent triumphs of [the Warburg banking   family:] the wars of 1914 and the present one. 

Although World War II itself was much on Pound's mind, the poet's primary concern, referenced repeatedly throughout his broadcasts, was the issue of usury and the control of money and economy by private special interests. "There is no freedom without economic freedom," he said. "Freedom that does not include freedom from debt is plain bunkum. It is fetid and foul logomachy to call such servitude freedom . . .Yes, freedom from all sorts of debt, including debt at usurious interest." Usury, he said, was a cause of war   throughout history. In Pound's view understanding the issue of usury was central   to understanding history: "Until you know who has lent what to whom, you know nothing whatever of politics, you know nothing whatever of history, you know nothing of international wrangles. "The usury system does no nation . . .   any good whatsoever. It is an internal peril to him who hath, and it can make no use of nations in the play of international diplomacy save to breed strife  between them and use the worst as flails against the best. It is the usurer's game to hurl the savage against the civilized opponent. The game is not pretty, it is not a very safe game. It does no one any credit." 

Pound thus traced the history of the current war: "This war did not begin in 1939. It is not a unique result of the infamous Versailles Treaty. It is impossible to understand it without knowing at least a few precedent historic events, which mark the cycle of combat. No man can understand it without knowing at least a few facts and their chronological sequence. This war is part of the age-old struggle   between the usurer and the rest of mankind: between the usurer and peasant, the usurer and producer, and finally between the usurer and the merchant, between usurocracy and the mercantilist system . . . "The present war dates at least from the founding of the Bank of England at the end of the 17th century, 1694-8. Half a century later, the London usurocracy shut down on the issue of paper money by the Pennsylvania colony, A.D. 1750. This is not usually given prominence in the   U.S. school histories. The 13 colonies rebelled, quite successfully, 26 years later, A.D. 1776. According to Pound, it was the money issue (above all) that united the Allies during the second 20th-century war against Germany: "Gold. Nothing else uniting the three governments, England,   Russia, United States of America. That is the interest--gold, usury, debt,   monopoly, class interest, and possibly gross indifference and contempt for   humanity." 

Although "gold" was central to the world's struggle, Pound still felt gold "is a coward. Gold is not the backbone of nations. It is their ruin. A coward, at the first breath of danger gold flows away, gold flows out of the country." Pound perceived Germany under Hitler as a nation that stood against the international money lenders and communist Russia under Stalin as a system that stood against humanity itself. 

He told his listeners: "Now if you know anything whatsoever of  modern Europe and Asia, you know Hitler stands for putting men over machines. If  you don't know that, you know nothing. And beyond that you either know or do not know that Stalin's regime considers humanity as nothing save raw material. Deliver so many carloads of human material at the consumption point. That is the logical result of materialism. If you assert that men are dirty, that humanity is merely material, that is where you come out. And the old Georgian train robber [Josef Stalin--ed.] is perfectly logical. If all things are merely material, man is material--and the system of anti-man treats man as matter." The real enemy, said Pound, was international capitalism. All people everywhere were victims: "They're working   day and night, picking your pockets," he said. "Every day and all day and all night picking your pockets and picking the Russian working man's pockets." Capital, however, he said, was "not international, it is not hyper-national. It is sub-national. A quicksand under the nations, destroying all nations, destroying all law and government, destroying the nations, one at a time, Russian empire and Austria, 20 years past, France yesterday, England today." 

According to Pound, Americans had no idea why they were being expected to fight in Britain's war with Germany: "Even Mr. Churchill hasn't had the grass to tell the American people why he wants them to die, to save what. He is fighting for the gold standard and monopoly. Namely the power to starve the whole of mankind, and make it pay through the nose before it can eat the fruit of its own labor." As far as the English were concerned, in Pound's broadcasts aimed at the British Isles he warned his listeners that although Russian-style communist totalitarianism was a threat to British freedom, it was not the biggest threat Britain faced: You are threatened. You are threatened by the Russian methods of administration. Those methods [are not] your sole danger. It is, in fact, so far from being your sole danger that I have, in over two years of talk over this radio, possibly never referred to it before. 

Usury has gnawed into England since the days of Elizabeth. First it was mortgages, mortgages on earls' estates; usury against the feudal nobility. Then there were attacks on the common land, filchings of village common pasture. Then there developed a usury system, an international usury system, from Cromwell's time, ever increasing." In the end, Pound suggested, it would be the big money interests who would really win the war--not any particular   nation-state--and the foundation for future wars would be set in place: "The nomadic parasites will shift out of London and into Manhattan. And this will be presented under a camouflage of national slogans. It will be represented as an American victory. It will not be an American victory. The moment is serious. The moment is also confusing. It is confusing because there are two sets of concurrent phenomena, namely, those connected with fighting this war, and those   which sow seeds for the next one." Pound believed one of the major problems of the day--which itself had contributed to war fever--was the manipulation of the press, particularly in the United States: "I naturally mistrust newspaper news from America," he declared. "I grope in the mass of lies, knowing most of the sources are wholly untrustworthy." According to Pound: "The United States has been misinformed. The United States has been led down the garden path, and may be down under the daisies. All through shutting out news.

jeudi, 04 novembre 2010

El Manifiesto de Unamuno

EL MANIFIESTO DE UNAMUNO

Sebastian J. Lorenz
 
 
Unamuno_grande.jpg
En su famoso “manual” sobre la Revolución Conservadora alemana (el movimiento, tanto de pensadores como de asociaciones múltiples, que durante los enfebrecidos años veinte puso sobre el tapete toda una concepción radicalmente distinta del mundo y de la vida), Armin Mohler refuta la tesis según la cual la Revolución Conservadora habría sido un fenómeno exclusivamente alemán.
En un breve recorrido por los países europeos apunta varios nombres (Dostoyevski, Sorel, Barrés, Pareto, Lawrence). ¿Y en España? Al filósofo –junto con Ortega, practicamente el único filósofo español del siglo XX, político y escritor Miguel de Unamuno. El vasco-quijotesco Unamuno se movía en un terreno ideológico que fue compartido, por ejemplo, por otros intelectuales de la época como Ganivet, Baroja o Maeztu: el rechazo espiritual (irracionalista) de las corrientes materialistas decimonónicas, esto es, el nacionalismo centralizador e imperialista, el socialismo deshumanizante, la democracia, el liberalismo, el progresismo, el cientifismo, la industrialización. Así que el rebelde Unamuno será un personaje eternamente en confrontación: contra Arana por la cuestión vasca, contra el Rey y Primo de Rivera por la monarquía, contra Ortega y Gasset por el tema del europeísmo, contra Millán Astray por la incivilidad de los rebeldes. Contra él mismo hasta el final de su vida, momento en el que –sí, también él- redacta su Manifiesto como testamento político.
Para empezar con el polemista. Unamuno debatió con el nacionalista vasco Sabino Arana, el cual consideraba al escritor “vasco pero españolista”, porque Unamuno, que ya había escrito algunas obras en vascuence, consideraba que ese idioma estaba próximo a su extinción porque el bilingüismo no era posible, considerando la ineptitud del vascuence (lengua sintética) para convertirse en lengua de cultura: «El vascuence y el castellano son incompatibles, dígase lo que se quiera, y si caben individuos no caben pueblos bilingües». Unamuno, sin embargo, se sentía orgulloso de su “linaje vasco” y decía “no tener nada de latino”, definiendo al pueblo vasco como “de escasa imaginación, de bien repartida inteligencia, de sentimientos viriles y primitivos, pero más que nada, pueblo de acción e independencia”.
Al margen de su discutido “vasquismo”, lo cierto es que sus primeros ensayos giraron en torno al "alma castellana", en los que opuso al tradicionalismo reaccionario la "búsqueda de la tradición eterna del presente" y defendió el concepto de "intrahistoria" latente en el seno del pueblo castellano frente al concepto oficialista de la historia. Propuso entonces que la solución de los males que aquejaban a España era, precisamente, su "europeización” para acto seguido, en flagrante contradicción con la tesis europeísta, sugerir que había que "españolizar Europa".
“¡Que inventen ellos!”es una lapidaria expresión de Unamuno, que muestra cómo la ciencia y la tecnología han sido extrañas a la realidad social y orgánica española, hasta el punto de convertirse en una especie de estereotipo de la idiosincrasia española, unas veces rechazado por humillante y otras veces asumido con orgullo, como era su propósito original. Y es que Unamuno forma parte de una generación para la que la idea de la vida es superior a la razón, y la del sentimiento es mayor que la de la lógica, con lo que se cierra el tránsito de un cientifismo progresista y spenceriano al irracionalismo libreprensador. En realidad, Unamuno comienza a desconfiar del progreso científico cuando percibe que éste no va acompañado de un progreso espiritual. Para él, el triunfo del materialismo y del progresismo sólo sirven para desplazar al hombre de la vida, limitarle y cortar su libertad: «Los felices mortales que viven bajo el encanto de esa enfermedad no conocen la duda ni la desesperación. Son tan bienaventurados…».
No obstante, parece que la dichosa frasecita surgió por la polémica mantenida con Ortega y Gasset sobre el tema de “la europeización de España o la españolización de Europa” y que le valió una contundente acusación (desviación africanista del maestro y morabito salmantino), y una agria definición (Don Miguel de Unamuno, energúmeno español), por su latente ibero-africanista. Ortega anunció su intención de publicar “unas disputas contra la desviación africanista de Unamuno”, que no terminó escribiendo. Años más tarde, sobre la tumba de Joaquín Costa, Unamuno negaría que el maestro regeneracionista aragonés hubiera sido un europeizador, sino un “gran africano, un auténtico celtíbero”.
Con todo, existen en la vida y en la obra de Unamuno dos etapas bien diferenciadas. La primera, hasta 1900, en la que todavía no ha sufrido la transmutación hacia el pensamiento filosófico, ni le angustia todavía el problema vital que le perseguirá siempre (el hombre, la muerte, el alma). Es la época de joven rebelde, antimonárquico y socialista, corriente ideológica que abandona definitivamente hacia finales del siglo, aunque posteriormente es condenado por “injurias al rey” y “desterrado” por su campaña en contra de la dictadura de Primo de Rivera (su destierro a Francia es voluntario). Con la caída del régimen, Unamuno regresa a Salamanca “por aclamación popular”, siendo posteriormente elegido concejal, rector de la universidad y diputado por la coalición republicano-socialista, pero ya en 1933 comienza el desencanto, hasta tal punto que, iniciada la guerra civil, Unamuno presta su apoyo a los rebeldes. Según García de Cortázar, Unamuno dirigió un llamamiento a la intelectualidad europea para que apoyasen a los sublevados por la defensa de la civilización occidental y de la tradición cristiana.
Pero su enemistad con Millán Astray, fundador de la Legión, acaba en confrontación: «Se ha hablado aquí de guerra internacional en defensa de la civilización cristiana; yo mismo lo hice otras veces. Pero no, la nuestra es sólo una guerra incivil. (...) Vencer no es convencer, y hay que convencer, sobre todo, y no puede convencer el odio que no deja lugar para la compasión.» A Unamuno el grito de “¡Viva la muerte!” le parecía igual que el de “Muerte a la vida!”. Así acabará en arresto domiciliario, entre la soledad y la desesperación, sin encontrar el sitio que todavía estaba buscando en el último tramo de su existencia, vilipendiado por unos y otros. Y es que esto de la recuperación de la “memoria histórica” nos está pasando factura: el grupo socialista del Ayuntamiento de Salamanca propuso, a finales de 2006, que Unamuno fuera rehabilitado, de forma simbólica, como concejal de la ciudad, pero el grupo popular lo impidió, alegando “unas oscuras intenciones” como “la agresión a las creencias mayoritarias de los españoles”. Sin comentarios.
Al final de su vida, Unamuno fue entrevistado por el periodista Jean Tharaud (a la sazón, había sido secretario de Barrès), recibiendo del escritor español copia del famoso “manifiesto” (un “petit manifeste”, como lo llamará el francés). El Manifiestoha sido autentificado, aunque su traducción al francés, si bien no alteró su significado esencial, sí que afectó a las formas, algo importantísimo en aquellos momentos. En cualquier caso, estamos ante un documento excepcional:
«Tan pronto como se produjo el movimiento salvador que acaudilla el general Franco, me he unido a él diciendo que lo que hay que salvar en España es la civilización occidental cristiana y con ella la independencia nacional, ya que se está aquí, en territorio nacional, ventilando una guerra internacional. (...) En tanto me iban horrorizando los caracteres que tomaba esta tremenda guerra civil sin cuartel debida a una verdadera enfermedad mental colectiva, a una epidemia de locura con cierto substrato patológico-corporal. Las inauditas salvajadas de las hordas marxistas, rojas, exceden toda descripción y he de ahorrarme retórica barata. Y dan el tono no socialistas, ni comunistas, ni sindicalistas, ni anarquistas, sino bandas de malhechores degenerados, ex criminales natos sin ideología alguna que van a satisfacer feroces pasiones atávicas sin ideología alguna. Y la natural reacción a esto toma también muchas veces, desgraciadamente, caracteres frenopáticos. Es el régimen del terror. España está espantada de sí misma. Y si no se contiene a tiempo, llegará al borde del suicidio moral. (…) Y ello para impedir que los reaccionarios se vayan en su reacción más allá de la justicia y hasta de la humanidad (…) Triste cosa sería que el bárbaro, anticivil e inhumano régimen bolchevístico se quisiera sustituir con un bárbaro, anticivil e inhumano régimen de servidumbre totalitaria. Ni lo uno ni lo otro, que en el fondo son lo mismo.». Yo me quedo con esta última frase.
[Publicado en "ElManifiesto.com"] 

mardi, 02 novembre 2010

Céline e il dramma biologico della storia

Céline e il dramma biologico della storia

di Luca Leonello Rimbotti

Fonte: Italicum [scheda fonte]


celine.jpgInfernale manipolatore della parola oppure sacerdote ideologico della décadence?  Inventore nichilista di quadri solo letterari, oppure geniale interprete politico di una civiltà al tramonto? Insomma: il fin troppo noto anarchisme di Céline è una posa individualista, oppure un vero e proprio manifesto sociale e antropologico? Possiamo ancora oggi leggerlo in tanti modi, Céline. Ma, se vogliamo andare al fondo della sua anima, tra gli squarci e gli urli, le maledizioni e le ingiurie è possibile trovare netta e precisa un’interpretazione della storia europea. Céline è un analista del tracollo dell’Europa, rappresenta un sensore sensibile agli smottamenti e alle derive, denuncia e preavverte, minaccia e sibila oltraggi alla maniera di un apocalittico profeta antico: magari l’“Ezechiele parigino” di cui parlò Pol Vandromme. C’è in Céline la sensiblerie di un osservatore straziato, che ha sottomano la disintegrazione della civiltà europea e ne grida i misfatti, attraverso le sue storie disperate, ma anche attraverso pagine e pagine di lamentazioni millenaristiche. Céline sa di trovarsi di fronte a uno sbocco, nel centro di uno snodo di epoche, dal cui scioglimento dipenderà l’avvenire del suo mondo. E il suo mondo è l’Europa tradizionale. L’Europa nordica franco-germanica. L’Europa dei popoli sani che fanno la civiltà e la storia.

L’Europa delle aristocrazie di stirpe. Céline – è stato osservato – fu allievo del de Gobineau nel soffrire la decadenza come un’ingiuria ineluttabile, forse anche necessaria. Come una fine obbligata, soltanto dalla quale poi ripartire per un nuovo inizio. Già molti anni fa, nel 1974, lo studioso Paolo Carile rilevò la filiazione di Céline dalla inquadratura gaubinista e dall’antropologia di Ėlie Faure, e la rilevò dalla sua lettura degli eventi moderni come dramma biologico della storia, al culmine del quale si attua il precipitare dell’ordine antico in una sequela di accelerati sfaldamenti.


Faure era un critico d’arte socialista che spiegava le aggregazioni estetiche come esito di combinazioni positive di sangue e di influssi ambientali, e in questo modo si confrontò con l’ideologia di Gobineau, di cui però rovesciava gli assunti: gli incroci come esiti positivi, come moltiplicatori delle possibilità creative. Nondimeno, egli attribuiva alla forza dinamica ìnsita nei popoli e negli individui il valore di un condizionamento, attraverso il dispiegarsi di dispositions ethnobiologiques determinanti nel formare l’anima collettiva. Céline, che fu in rapporti col Faure, si abbeverò a questa dimensione di un’energia occulta che sanziona le predisposizioni, e Carile appunto ne scorse la manifestazione nel concetto céliniano di âme, l’anima “ancorata ad un’interpretazione strettamente biologica che non accetta gli slanci mistici fauriani”, quale compare, ad esempio, in Mea culpa del 1936. “Céline si credeva depositario di una profezia la cui rivelazione era fondamentale per la salvezza dell’umanità”, ha scritto molti anni fa Vandromme. Difatti, sembra sempre di sentire rintoccare la campana apocalittica di un ultimo evento, di una imminente catastrofe che attende l’Europa nel fondo del suo declino. E questo, tanto nelle sue storie di trascinamenti nei degradi scuri della psiche metropolitana, quanto nelle filippiche nevrotiche dei suoi luciferini e brutali pamphlet. Con, al centro, ogni volta, l’allucinazione dello sfacelo fisico e mentale, dell’abbrutimento, la febbricitante sofferenza per l’oscenità della lenta, sicura consunzione che attanaglia l’individuo spoglio e isolato, così come le plebi, i popoli, l’Europa intera.
Si è individuato nell’inizio del 1942 – con la brutta piega presa dalla guerra “tedesca” - il momento del distacco di Céline da ogni furore di lotta positiva: ciò che fino a quella data egli ancora riteneva possibile attraverso la violenta liberazione di tutte le energie ancora inespresse dalla Francia e dall’Europa germanizzate, cioè un arresto della nostra civiltà sull’orlo dell’abisso e un raddrizzamento dei fini e dei modi, da allora in poi divenne disperata ricerca di un precipizio in cui gettare l’uomo e la sua incapacità di salvarsi. Il fatalismo céliniano non è tuttavia rassegnato: è esibizione di volontà di rovina. In questo, egli rappresenta al meglio la tragicità di un modo d’essere incapace di interpretare la realtà, altrimenti che nei modi manichei del trionfo o della catastrofe. E allora, se il trionfo non poteva più aversi, si sarebbe dovuto volere la catastrofe. E tanto più grandiosa e definitiva, tanto meglio.

“Cronista tragico”, si definì Céline in un’intervista del 1960. Cronista in grado di intercettare e di rappresentare il tragico dell’epoca, come a pochi era stato concesso. Poiché, così aggiunse, “la maggior parte degli autori cercano la tragedia senza trovarla”. Lui invece la trovò, si agitò al centro del ciclone e sospinse il dramma fino ai suoi limiti radicali. Lo psicodramma di Céline – che non fu certo il solo nella sua epoca a vivere questa dimensione dell’assurdo totale – rappresenta il destino europeo sotto la specie di una tragedia personale elevata a simbolo di un mondo e di una generazione.


L’ossessione per la degenerazione psico-fisica dell’uomo occidentale diventa in Céline una sorta di  manifesto bioetico, depotenziato forse per l’ambiguo estremismo del linguaggio popolaresco, che cerca nell’argot dei bassifondi la parola infame per descrivere le brutture della vita; ma potenziato, d’altra parte, proprio dalla consapevolezza, vissuta forse come bagaglio d’esperienze del “medico dei poveri”, dell’illimitata miseria delle masse umane urbanizzate e rese indegne, ignobili, dalle logiche della società capitalista moderna. La purezza, in questo quadro, è un vero richiamo al mito di un’unità di specie che è andata perduta per la violenza e le ingiustizie del mondo. Una purezza introvabile ormai, il paradiso perduto dell’uomo nel suo eterno inganno moralista. Già nel Viaggio al termine della notte, Céline tratteggia la sua rabbia per l’impossibilità fisica di igienizzare l’umanità povera, per redimerla, per dunque ripulire dal male la razza e restituirla a una qualunque dignità. Le parole con cui rappresenta la mescolanza oscena dei miserabili della banlieue e dei quartieri poveri – da lui ben conosciuta di persona – sono l’attestato del suo dolore per un disfacimento ormai irrefrenabile: “la razza…è un ammasso di malandati, pidocchiosi, miserabili che sono capitati qui per causa di fame, peste, tumori e freddo…da tutte le parti del mondo…”.

Ed ecco qua, pertanto, una prima applicazione di quella consapevolezza per il “dramma biologico della storia” di cui dicevamo, e che Céline vedeva chiaramente all’opera nel cuore parigino della France eternelle. Un cuore marcio, scolpito con tutte le putredini della mescolanza. Questo orrifico affastellamento di destini assemblati dal caso è la risultante del tradimento che l’uomo moderno ha compiuto nei confronti della nobiltà dell’appartenenza di stirpe. Céline il bretone, orgoglioso della sua nordicità, della limpidezza dei suoi trascorsi ereditari di terra e di sangue, vive la lacerazione dolorosa di una realtà, quella della cosmopoli parigina, borghese e progressista, liberale e capitalista, che affoga ogni nobile istinto nella primitiva lotta per il possesso materiale, per il lusso. Sopra sta la borghesia che si rimpinza le budella e, dice Céline, si dimentica sempre di passare alla cassa per pagare. Sotto sta la massa dei disperati disonorati, condannati alla perversione di pagare il benessere altrui con la propria allucinante miseria. Non più un popolo, ma feccia senza nome. Non più nemmeno massa, ma semplice turba depravata, scavata dalla malattia, finita dal degrado.

Questo è il “socialismo nazionalista” di Céline: una rivolta del sentimento estetico, prima ancora che sociale. Una rivolta per la sanità del corpo e della mente liberati, un gridare carico d’odio in nome della vendetta per le masse deturpate dall’alcool, dal lavoro logorante e animalesco, dall’assenza di ogni segno di nobiltà. Poiché – lo scrisse proprio Vandromme – ciò che vuole questo anarchista (più che anarchico), irrazionalmente devoto alle sue radici celtiche di purezza, è per l’appunto la restaurazione di un mito aristocratico di nobiltà.

 
“Céline crede nella sola cosa necessaria, nel ritorno a una vita nobile”, ha commentato infatti Vandromme. Una nobiltà che appartiene alla concezione tradizionale e antimodernista della vita, di cui Céline fu uno dei massimi rappresentanti novecenteschi. “Vedo l’uomo tanto più inquieto quanto più ha perduto il gusto delle favole, del mito, inquieto fino alla disperazione…” scrisse Céline in Les beaux draps. E aggiunse che l’uomo moderno è come preda di una comune pazzia acquisitiva, un tormento superficiale per i beni materiali che gli fa dimenticare ogni dimensione legata all’irrazionale, al bello, al superiore, al gratuito. Ogni dimensione legata insomma alla natura, rappresentando la società progressista essenzialmente l’anti-natura. E questa anti-natura si esprime sinistramente nel dilagare di tutto ciò che è basso e informe, dando vita a una specie di Sodoma universale, in cui l’impuro imbratta ogni retaggio, corrompe ogni antica bellezza. “Il fatalismo biologico lombrosiano che implica il naufragio di ogni capacità autodecisionale non è lontano da certe pessimistiche considerazioni antropologiche di Céline”. Questa osservazione di Carile ci mostra quanto centrale fosse nel dottor Destouches l’apprensione per il destino del corpo dell’uomo europeo, aggredito da tutte le degenerazioni della massificazione e dell’edonismo borghese. Davanti allo spettacolo di corruzione dei corpi e delle menti, Céline reagisce con l’insulto e con l’odio forsennato, oppure con il gesto picaresco dello sberleffo, l’ironia, la rigolade. Ultimo rifugio – come nel “lazzarone” napoletano – di un’umanità di vinti condannata al disonore e all’anonimato sociale.


Della sua epoca fortemente ideologizzata e rivoluzionaria, densa di contraddizioni sociali e di aperture politiche chiliastiche, Céline apprese l’inclinazione radicale verso l’apocalisse. Interpretò il fascismo come un’arma di raddrizzamento del piano inclinato e in favore di un sorgere dell’élite nuova, della giovane aristocrazia che imponesse nuovi codici di etica comunitaria e di onore sociale. Il tutto inquadrando nel contesto di un amore viscerale per la carne, per il corpo fisico dell’uomo, elevato a simbolo sommo dell’ideale di purezza. Le pagine che, ad esempio, Céline dedicò alla bellezza estetica della danza, di cui era ammirata interprete la moglie, gli accenti lirici che spese a proposito del bel gesto armonico, dell’aggraziato flettersi del corpo, della grandezza dell’arte perché in-utile, non monetizzabile, gratuita, sono l’attestato di questo amore celiniano per l’incanto della purezza, priva di prezzo ma grandemente preziosa. Un sovramondo che aveva il suo tenebroso contraltare nel sottomondo dei deformi, degli sfiancati, dei ruderi umani che erano gli avanzi antropologici del capitalismo borghese.

Leggiamo un attimo quanto sempre Carile scrisse circa l’antropologia etica di Céline: “Céline riprende le tesi tipiche della sua generazione al fine di giustificare il proprio elitismo, frutto di un movimento psicologico di difesa dalla pessimistica sensazione della decadenza della civiltà europea. In tal modo lo scrittore, ergendosi contro il mondo moderno, crede di far barriera contro la tecnologia e il consumismo dilaganti che caratterizzano la nostra epoca ‘decadente’. L’elitismo razzista – continuava Carile – lo preserverebbe da quanto ai suoi occhi è simboleggiato negativamente dalla routine democratico-borghese. La sua ribellione lo porta ad esaltare l’irrazionalismo, la gratuità della danza e nel contempo a sublimare il proprio orgoglio aristocratico di ‘autentico celte’; dato che si considerava uno degli ultimi esempi di una razza etnicamente intatta, al di qua della torre di Babele dei popoli e delle culture imbastardite del suo tempo”. In questa analisi c’è tutto quanto il significato epocale della figura e della scrittura di Céline, questo Spengler narratore dei bassifondi del tardo impero europeo, che invoca con fanatismo disperato un’ultima resurrezione del popolo.


Céline sapeva di essere uno dei pochi capaci di andare davvero fino in fondo. Le sue scelte oltranziste – dall’antisemitismo al filogermanesimo, da Sigmaringen alla cocciuta ostinazione postbellica di non rinnegare nulla – gli attirarono un carico d’odio che soltanto oggi viene meno, per via di certi biografi che però fanno anche di peggio, dato che vogliono fare di Céline non il felino ungulato che era, ma un cappone da cortile, solo un po’ bizzarro. Lo sapeva che imboccando la strada di una difesa antropologica ed etnica dell’uomo europeo si sarebbe guadagnato una fama luciferina. Lo sapeva almeno dai tempi di Bagatelles quando, rivolgendosi a se stesso, scrisse: “Ferdinand,…t’auras le monde entier contre toi”. Avere tutto il mondo contro di sé…È il destino dei veri profeti.
                                                                                                                               


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lundi, 01 novembre 2010

Pound, Jefferson, Adams e Mussolini

Pound, Jefferson, Adams e Mussolini

Autore: Giano Accame

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

 

È vero: siamo in tempo di crisi e accadono cose davvero sorprendenti. Anche nel movimento delle idee. Occupa appena una trentina di pagine il saggio di Ezra Pound su Il carteggio Jefferson-Adams come tempio e monumento ed è quindi motivo di un lieve stupore l’ampiezza dell’interesse che ha suscitato. Il 18 febbraio scorso si parte con un’intera pagina del Corriere della Sera per una recensione di Giulio Giorello, filosofo della scienza, ma anche raffinato lettore dei Cantos da un versante laico-progressista, che ha acceso la discussione a cominciare dal titolo: Elogio libertario di Ezra Pound. Scambiò Mussolini per Jefferson. Ma il suo era un Canto contro i tiranni. Di quel titolo il giorno dopo profittava Luciano Lanna per ribadire sul nostro Secolo: “Pound (come Jünger) era libertario”. Due giorni dopo (venerdì 20 febbraio) nelle pagine culturali del Corriere della Sera Dino Messina riapriva il dibattito : “Fa scandalo il “Pound libertario”, mentre il 21 febbraio il tema veniva approfondito da Raffaele Iannuzzi nel paginone centrale ancora del Secolo.

Ricordo ancora le critiche rivolte a Pound e a Giorello il 27 febbraio da Noemi Ghetti su LEFT. Avvenimenti settimanali dell’Altraitalia: era abbastanza facile indicare qualche contraddizione tra la censura fascista e lo spirito libertario, pur essendo altrettanto innegabile il durissimo prezzo pagato da Ezra Pound pacifista alla sua appassionata predicazione contro l’usura, la speculazione finanziaria internazionale e le guerre, con le settimane vissute in gabbia nella prigionia americana di Pisa e i dodici anni di manicomio criminale a Washington. Tuttavia nell’ampio dibattito di cui ho segnalato le tappe è comparso solo marginalmente il nome di Luca Gallesi (Antonio Pannullo lo ha però intervistato il 5 marzo in queste pagine sull’etica delle banche islamiche), geniale studioso di Pound cui si deve la pubblicazione del saggio su Jefferson, ma anche e soprattutto l’apertura di nuovi percorsi in una materia di crescente interesse quale è la storia delle idee.

Occorre rimediare alla disattenzione per l’importanza dei contributi che Gallesi ci sta suggerendo e per i risultati che nel campo degli studi poundiani sta raccogliendo con l’editrice Ares guidata da Cesare Cavalleri insieme alla rivista Studi cattolici, anch’essa molto attenta al pensiero economico di un poeta che sin dai primi anni ’30 aveva previsto lo spaventoso disordine della finanza globale e il dissesto con cui oggi il mondo è alle prese. Le Edizioni Ares avevano già pubblicato gli atti di due convegni internazionali curati da Luca Gallesi, prima Ezra Pound e il turismo colto a Milano, poi Ezra Pound e l’economia, e dello stesso Gallesi lo studio su le origini del fascismo di Pound ove dimostra che il più innovativo poeta di lingua inglese del secolo scorso era stato predisposto a larga parte dei programmi socio-economici mussoliniani degli anni di collaborazione a Londra con la rivista The New Age diretta da Alfred Richard Orage, espressione di una corrente gildista, cioè corporativa del laburismo. Dalla frequentazione della società inglese Pound si portò dietro anche alcuni trattati del tutto sgradevoli d’antisemitismo, che negli anni Venti salvo rare eccezioni erano ancora ignote al fascismo italiano. L’introduzione di Gallesi al breve saggio di Pound sul carteggio Jefferson-Adams punta a estendere agli Usa la ricerca già avviata in Inghilterra sulle origini anglosassoni del fascismo poundiano. Questa volta paragoni diretti tra i fondatori degli stati Uniti e il fascismo non emergono come nel più noto Jefferson e Mussolini ripubblicato nel ’95 a cura di Mary de Rachelwiltz e Luca Gallesi da Terziaria dopo che era andata dispersa la prima edizione per la Repubblica sociale del dicembre ’44. Di Jefferson e Adams da Gallesi viene ricordato l’impegno, da primi presidenti americani, nello sventare i tentativi di Hamilton di togliere al Congresso, cioè al potere politico elettivo, il controllo sull’emissione di moneta per delegarlo ai banchieri e alla speculazione attraverso la creazione di una banca centrale controllata, come nel modello inglese, da gruppi privati. Un’altra traccia innovativa per la storia delle idee è stata suggerita da Gallesi il 4 marzo sul quotidiano Avvenire segnalando il saggio dell’americano Jonah Goldberg, che stufo di sentirsi accusare di fascismo ha scalato i vertici delle classifiche librarie con Liberal Fascism, un saggio ove ha sostenuto la natura rivoluzionaria del fascismo, che durante la stagione roosveltiana del New Deal suscitò “negli Usa stima e ammirazione soprattutto negli ambienti progressisti, mentre all’estrema destra il Ku Klux Klan faceva professione di antifascismo”.

Una storia trasversale di idee al di là della destra e della sinistra che Gallesi si prepara a approfondire lungo l’Ottocento americano attraverso la secolare resistenza che da Jefferson in poi vide opporsi correnti legate allo spirito dei pionieri e delle fattorie alla creazione di una banca centrale, che avvenne solo nei primi del Novecento, alla speculazione monetaria e alla dilagante corruzione. Tutti contributi a una interpretazione di Pound, che senza indebolire le posizioni ideali a cui teniamo, risulterà più autentica, più ricca, più fuori dagli schemi, più prossima alla definizione di ”libertario” che della lettura poundiana di Jefferson ha ricavato Giorello.

E non so trattenermi dal riportare due frasi che avevo sottolineate un quindicina di anni fa leggendo la prima volta l’ancor più scandaloso confronto tra Jefferson e Mussolini. Una tesa a far somigliare i due leader nella lotta alla corruzione: “In quanto all’etica finanziaria, direi che dall’essere un pese dove tutto era in vendita Mussolini in dieci anni ha trasformato l’Italia in un paese dove sarebbe pericoloso tentare di comprare il governo”. E proprio alla fine del libro l’invenzione della settimana corta, per una gestione politica della decrescita economica che solo adesso assume aspetti marcati d’attualità: “Nel febbraio del 1933 il governo fascista precedette gi altri, sia di Europa che delle Americhe, nel sostenere che quanto minor lavoro umano è necessario nelle fabbriche, si deve ridurre la durata della giornata di lavoro piuttosto che ridurre il numero del personale impiegato. E si aumenta il personale invece di far lavorare più ore coloro che sono già impiegati”. Queste erano le soluzioni pratiche che piacevano a Pound, autore di solito complicato, ma reso a volte paradossalmente difficile per eccesso di semplicità.

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Tratto da Il Secolo d’Italia del 28 aprile 2009.

dimanche, 31 octobre 2010

Il mito antartico di Miguel Serrano

Il mito antartico di Miguel Serrano

Autore: Francesco Lamendola

Ex: http://www.centrostudila runa.it/

serrano.jpgQualcosa o qualcuno si agita nelle bianche distese del continente antartico; una presenza non umana, prigioniera di sogni indicibili. Ciò che scrivevano Edgar Allan Poe nel Gordon Pym e Howard Phillips Lovecraft ne Le Montagne della Follia non era semplice creazione letteraria; i Grandi Antichi vissero davvero nell’Antartide. Né sono fantasia i racconti degli indigeni Ona della Terra Fuoco sugli straordinari poteri dei loro stregoni o “kon”, capaci di ibernarsi nei ghiacci, e sfidare – praticamente – l’immortalità.

Ne è convinto lo scrittore ed esoterista cileno Miguel Serrano (nato nel 1917), improbabile figura di fanatico nazista eppure poeta affascinante, convinto che Hitler sia stato l’ultimo avatar o incarnazione del dio Vishnu, e che abbia lasciato il suo corpo fisico per trasfigurarsi in un corpo immateriale, rifugiandosi – appunto – tra i ghiacci del Polo Sud…

Nato nel 1917, diplomatico in pensione, il novantenne Miguel Serrano è senza dubbio una figura tra le più discusse della cultura del suo paese, il Cile, e dell’intera letteratura mondiale. Personaggio politicamente scorretto quant’altri mai (basti dire che è, ed è sempre stato, un fanatico sostenitore di Hitler e del nazismo), ha subìto una sorta di censura da parte dell’editoria europea, tanto che vi è tuttora pochissimo conosciuto, nonostante il suo valore artistico non sia di molto inferiore a quello del celebratissimo Pablo Neruda e senz’altro non da meno di quello di un altro scrittore cileno contemporaneo, molto tradotto all’estero negli ultimi anni, Francisco Coloane. Tuttavia le sue posizioni ideologiche sono difficilmente separabili dalla sua opera puramente letteraria e ciò spiega in parte l’ostracismo di cui è stato vittima. Per la stessa ragione, ossia l’estrema difficoltà di separare la dimensione politico-filosofica da quella artistico-letteraria, non è senza imbarazzo che ci accostiamo alla figura e all’opera controversa e discutibile di questo autore, imbarazzo dovuto al fatto che si potrebbe leggere il nostro interesse per lui, impropriamente, in chiave di riabilitazione ideologica. Al contrario, riteniamo doveroso confrontarci con la sua opera letteraria per il semplice fatto che, tra quanti scrittori si sono occupati dei Poli nella letteratura occidentale, egli occupa un posto in sommo grado eminente; vorremmo anzi dire che occupa, in un certo senso, il posto più notevole, poiché lui solo non ha visto nei Poli (anzi, nel Polo Sud: poiché solo di esso si è occupato) un mero pretesto scenografico per sviluppare una trama narrativa o una creazione poetica, bensì il centro e la ragione stessa della sua arte e della sua concezione poetica.

Miguel Serrano, Il Cordone doratoDa giovane Serrano abbraccia il marxismo; poi, deluso dal comunismo, alla vigilia della seconda guerra mondiale, aderisce al Partito nazionalsocialista cileno di Jorge Gonzalez von Marées, collaborando al giornale Trabajo (Il lavoro) e poi fondando la rivista letteraria La Nueva Edad, dalle cui colonne fiancheggia la politica dell’Asse e passa in seguito a una decisa propaganda antisemita. Egli sostiene, riprendendo l’antica concezione gnostica e catara, che Yahweh incarna il principio del male, è il Demiurgo che ha creato il mondo e che regna sui pianeti caduti, sul mondo delle tenebre; e che esiste un complotto sionista il cui obiettivo ultimo è quello di instaurare il dominio mondiale del giudaismo. Fra il 1941 e il 1942 avviene la svolta più importante nell’itinerario di Serrano: l’ingresso in un circolo esoterico capeggiato da un cileno-tedesco, il quale è convinto che Hitler sia un avatar, una incarnazione del dio Vishnu la cui missione è combattere una lotta eroica – non solo sul piano fisico e materiale, ma anche e soprattutto sul piano mentale – contro le nere forze dissolvitrici del Kali-Yuga, e che è possibile mettersi telepaticamenrte in contatto con centri iniziatici dell’Himalaia e con lo stesso Hitler. A guerra finita, tra parentesi, Serrano sostiene che Hitler ha rinunciato al suo corpo fisico ma si è alchemicamente costruito un corpo di luce con il quale si è trasferito nell’Antartide, donde aspetta il momento di ritornare per riprendere la lotta contro le forze delle tenebre. In quest’ultima parte del suo pensiero, Serrano coniuga miti e leggende degli Araucani e soprattutto degli Ona, il ramo dei Tehulche stabilito nella Terra del Fuoco, circa l’esistenza di un qualcosa, di un grande spirito che ha le fattezze di un gigante (la figura biancovestita del finale di Gordon Pym?), laggiù nelle bianche soltudini del Sud, fra i ghiacci eterni e le nebbie di un mondo intatto e misterioso, con la fede in una missione divina di Hitler – posizione che lo accomuna a quella strana figura di esoterista che fu Savitri Devi.

Nel 1947-48 Serrano prende parte, come giornalista, alle spedizioni antartiche della marina da guerra cilena e ne riporta la convinzione che i nazisti, negli anni precedenti, vi abbiano costruito delle basi segerete (1) e che il corpo di Hitler – trasfigurato, come quello di Cristo dopo la resurrezione – si è portato laggiù dopo la caduta di Berlino in mano ai Sovietici.

Più tardi compie dei viaggi in Europa e stringe amicizia con lo psichiatra Carl Gustav Jung e lo scrittore Hermann Hesse; inoltre fa conoscenza con il poeta Ezra Pound e il filosofo Julius Evola, oltre che con Otto Skorzeny, l’ex paracadutista tedesco che aveva liberato Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso. Nel 1953 entra nel corpo diplomatico e svolge funzioni di ambasciatore in India (fino al 1962), Jugoslavia, Romania, Bulgaria, Austria. Rimosso da ogni incarico dal presidente Salvador Allende nel 1970, si ritira in esilio in Svizzera, a Montagnola nel Canton Ticino, abitando nella stessa casa che era stata di Hermann Hesse. Nel 1973, dopo il colpo di stato del generale Augusto Pinochet, Serrano rientra in Cile, dove si segnala per la clamorosa partecipazione a convegni e commemorazioni di personaggi come Rudolf Hess o come i sessantadue giovani nazisti cileni che furono uccisi, nella loro patria, nel 1938. Ha svolto inoltre un’intensa attività di conferenziere e di scrittore, dando alle stampe un numero considerevole di libri di filosofia, esoterismo, poesia, narrativa, memorie. Tra i titoli più importanti ricordiamo La Antàrtica y otros Mitos (1948), Quien llama en los Hielos (1957), Las visitas de la Reina de Saba, con prefazione di C. G. Jung (1960); El circulo hermético, de Hesse a Jung, tradotto in lingua inglese con il titolo Jung and Hesse: A Record of Two Friendships (1965); El Cordòn Dorado: Hitlerismo Esotérico (1974); Adolf Hitler, el Ultimo Avatara (1984); No Celebraremos la Muerte de los Dioses Blancos (1992), e le Memorias de El y Yo, ossia Hitler e lui stesso, in quattro volumi (1996-1999). Instancabile, il terribile vegliardo continua a scrivere e a far parlare di sé, rilasciando interviste anche su temi di attualità; come quella del gennaio 2004 in cui accusa gli Stati Uniti di volersi impadronire della Patagonia mediante il cavallo di Troia delle organizzazioni ecologiste.

Tutto ciò crediamo che basti per delineare la figura di un personaggio scomodissimo e francamente indifendibile, non solo sul piano politico ma anche su quello strettamente culturale; e tuttavia non privo, come poeta e come cultore di antichissimi miti amerindi, di un suo fascino strano, oltre che di una indubbia tenacia nel remare controcorrente, che si esita se qualificare come franchezza brutale o come sfrontatezza e autentico vaneggiamento. Comunque, in questa sede ci limiteremo ad approfondire l’interesse di Miguel Serrano per la dimensione mitica e poetica dell’Antartide, caratterizzata da potenti squarci visionari che ne fanno un legittimo continuatore, e anzi un originale rielaboratore, del Poe di Gordon Pym e del Lovecraft de Le Montagne della Follia. I due testi più notevoli, in questo senso, dello scrittore cileno sono La Antàrtica y otros Mitos, (L’Antartide e altri miti), pubblicato a Santiago nel 1948, e Quien llama en los Hielos (Chi chiama nei ghiacci), pubblicato a Santiago (e, più tardi, a Barcellona), nel 1957; nessuno dei due è stato finora tradotto in lingua italiana, né in inglese. (2) Nel secondo, Serrano racconta di un sogno nel quale una creatura misteriosa gli rivela che l’immortalità si raggiunge fra i ghiacci e si consegue a patto di ibernarsi, in vista del supremo combattimento con l’Angelo delle Ombre. Tuttavia, noi concentreremo ora la nostra attenzione sul primo di questi due libri, che ci pare più significativo nel senso della tradizione esoterica relativa al continente antartico e più “in linea”, idealmente, con quelli già esaminati di Poe e di Lovecraft.

La Antàrtica y otros Mitos è la trascrizione di una serie di conferenze tenute dall’autore nella sua patria. Fin dalla copertina, il libro tributa un omaggio esplicito al Gordon Pym e alla sua dimensione esoterica: vi campeggia la figura spaventosa di un gigante alato, bicorne, che impugnando un tridente si staglia al di sopra di un candido paesaggio ghiacciato. Del resto, come osserva Erwin Robertson, l’Antartide in se stessa è un mito (3); dunque il “mito antartico” di Serrano non è che una variante di un mito preesistente alla tradizione esoterica occidentale, già presente – secondo lui – nelle credenze del popolo che da migliaia d’anni vive più vicino a quel mistero: gli Ona della Terra del Fuoco.

Ma lasciamo la parola a Sergio Fitz Roa, uno dei più noti studiosi di Serrano nei paesi di lingua spagnola:

“Serrano riporterà numerose leggende intorno al tema che ci interessa: le cronache delle guerre degli Onas (antichi abitanti della Terra del Fuoco), la leggenda della vergine dei Ghiacci, il continente Lemuria, il gigante di Poe e, ancora, la sfacciata idea che Adolf Hitler vive nel freddo antartico. E anche se a prima vista ci sembra non esistere alcuna relazione tra ciascuna di esse, vi è, dato che tutte queste leggende fanno riferimento ai misteriosi dimoratori dell’Antartide. Vi è qui un altro punto nel quale confluisce il pensiero di questi tre autori [cioè Poe, Serrano e Lovecraft]. Serrano conosce il racconto di Poe e riguardo al Gigante Bianco annota: ‘Poe conosceva la leggenda dei Selknam sugli Jon che abitano l’Isola Bianca. O sapeva anche del Prigioniero dell’Antartide, che vive nel suo nero fondo, e che per questo stesso motivo appare bianco?

“Per capire chi sono gli Jon e a che cosa si riferisca Serrano quando parla dell’Isola Bianca, si raccomanda di leggere la pagina 25 de La antàrtica y otros Mitos, dove si spiega che gli antichi Onas (i Selknam erano solo una delle tribù Onas) credevano nell’esistenza degli Jon: uomini di una casta aristocratica dotati di facoltà sovrannaturali e possessori dei Misteri. ‘Furono gli Jon, maghi Selknam della Terra del Fuoco, coloro che conservano i segreti insegnati da Queno e che ancora si immortalizzavano imbalsamandosi entro i ghiacci del sud, per resuscitare rinnovati nel più lontano futuro. Dicono anche i Selknam che è nel Sud, lì, in quell’Isola Bianca che sta nel Cielo dove dimorano gli spiriti dei loro antenati, conducendo una vita libera da preoccupazioni’ (4).

“Saranno questi spiriti ancestrali gli Antichi menzionati da Lovecraft? Sarà l’Antartide quella Isola Bianca della quale parlano le vecchie leggende onas?

“Serrano, che fu uno dei primi cileni a visitare la regione antartica, ci parla della relazione esistente fra questo luogo e la follia e segnaliamo, da parte nostra, che il titolo dell’indimenticabile racconto di Lovecraft Alle Montagne della Follia non è dovuto a un capriccio o a una trovata ingegnosa per richiamare l’attenzione di alcuni lettori febbricitanti.

“Serrano dirà che l’unica via per comprendere questa realtà del Sud o, meglio, per salvarsi dalla follia che lì è in agguato, è il Sogno; ed il mondo dei sogni è un elemento classico nella narrativa di H. P. Lovecraft.

“L’inquietante possibilità che esista una entità non-umana nell’Antartide si registra anche nelle pagine del testo dell’autore cileno. Il sincronismo tra questi due scrittori ci lascia stupefatti, soprattutto per il fatto che Miguel Serrano non conosceva l’opera di Lovecraft, quando scrisse La Antàrtica y otros Mitos. Citiamo, allora, Serrano, che con la sua arte ci ricorda i vecchi alchimisti: ‘Senza dubbio, in quel continente del riposo e della morte vive qualcuno. Un prigioniero si agita, avendo come mezzo di sopravvivenza il fuoco ardente ed eterno. Questa idea di Serrano si plasma anche in un altro testo del medesimo autore: Quien llama en los Hielos.

“In esso vi è un paragrafo di una bellezza terribile: ‘Io ho visto questo essere, questo Angelo nero: lì, nel suo recinto del Polo Sud. È in una immensa cavità oscura che egli risiede… Spazi enormi, senza limiti, lievi e deprimenti allo stesso tempo, che si estendono, sicuramente, nell’interiorità psichica della Terra, al di sotto dei ghiacci eterni. E così si muove il Zinoc… Ascende o discende fino all’estremo di quell’apertura e, da lì, si lancia ad una velocità vertiginosa in cerca del suo altro estremo, della sua fine irraggiungibile… Tutta l’eternità l’ha trascorsa in questo sforzo, cadendo a testa in giù, cercando di raggiungere il luogo antipodico dal quale è stato proscritto dall’inizio stesso della creazione. Il nord è il suo sogno, il suo profondo anelito e la sua maggior sofferenza’. Lovecraft, da parte sua, nel suo racconto scriverà qualcosa di rivelatore: ‘Fondarono nuove città terrestri, le più importanti di esse nell’Antartico, perché quella regione, scenario del loro arrivo, era sacra. A partire da allora, l’Antartico fu come prima il centro della Civiltà degli Antichi, e tutte le città costruite lì dalla prole di Chtulhu furono distrutte’. Più innanzi il narratore del racconto di Lovecraft indicherà che le mappe incontrate nella vecchia città polare mostrano che le città degli Antichi nell’epoca pliocenica si trovavano, nella loro totalità, al di sotto del 50° parallelo di latitudine Sud. Queste referenze di entrambi gli autori sono fondamentali, perché ci indicano l’opposizione simbolica tra il Polo Nord (o la mitica Iperborea) ed il Polo Sud, sede degli Antichi. Qusta opposizione non risponde solamente a una differenza di carattere geografico ma, prima di tutto, a delle differenze spirituali. In effetti, il Polo Nord è il polo positivo – in termini cristiani, il Bene – ed il Polo Sud, secondo la stessa prospettiva, il Male. Senza dubbio, questi opposti, conformi ai princìpi della filosofia manichea, sono complementari. Entrambi i Poli mantengono l’Ordine della Terra, regolano il buon funzionamento energetico del nostro mondo. L’unica possibile differenza ha relazione col tipo di energia che irradiano detti luoghi, dacché in verità sono dei centri energetici. Questa conoscenza che si esprime attraverso la letteratura moderna (Lovecraft e Serrano), che differenzia i centri volitivi terrestri, concorda punto per punto col pensiero antico o tradizionale che insegnarono i maestri indoeuropei, per i quali le parole che danno il nome ai distinti luoghi sacri sono: Cielo, Terra o Mondo, Centro e Inferno. Il Cielo, per essi, è la dimora degli eroi, coloro che vissero la vita come si deve, e corrisponde ad Iperborea o al nostro Polo Nord; la Terra è il luogo abitato o il terreno di spedizioni e viaggi, essi la identificavano con l’Asia e l’Europa. L’Inferno , che era la casa dei dèmoni – gli Antichi e gli shoggots - sembra non essere mai stata descritta e ubicata con maggior dettaglio dagli antichi saggi indoeuropei. Questo Inferno è per noi il Polo Sud” (5).

È appena il caso di notare che, negli ultimi decenni, alcuni autori hanno incominciato a ventilare la possibilità che sia esistita effettivamente un’antica civiltà nel continente antartico, che poi l’avanzata dei ghiacci avrebbe lentamente soffocato e le cui rovine giacerebbero, quindi, a migliaia di metri sotto la calotta glaciale del Polo Sud. Il primo ad avanzare questa ipotesi, a quanto ne sappiamo, è stato proprio uno studioso italiano, Flavio Barbiero, col suo libro Una civiltà sotto il ghiaccio che, negli anni Settanta, è passato praticamente inosservato; anche se, poi, le sue tesi sono state riprese in gran parte da due scrittori canadesi di successo, Rand e Rose Flem-Ath. (6) Il libro di Barbiero recava una presentazione di Silio Zavatti, il quale confermava la sua straordinaria capacità di pensare in maniera indipendente rispetto ai dogmi dell’archeologia e della scienza accademica, mantenendo un’apertura epistemologica di trecentosessanta gradi pur essendo abituato, lui uomo di scienza, a muoversi sul solido terreno dei fatti. Il nucleo delle tesi dell’autore era che esistette un’antichissima civiltà primordiale, erede diretta di quella di Atlantide, che svolse il ruolo di centro di diffusione per le successive culture a noi note dell’antichità.

“Continuando a credere nella teoria diffusionista – scriveva Zavatti nella sua prefazione – […] bisognerebbe ammettere che nonostante millenni di lenta maturazione, popoli profondamente diversi abbiano inventato simultaneamente l’agricoltura, l’architettura, gli usi, gli ordinamenti sociali ecc. che presentano un fondo comune senza che vi fossero stati dei contatti di qualsiasi ordine.

“Sarebbe voler credere nell’impossibile e infatti nessuno più vi presta fede.

“Bisogna allora ritornare a un’origine comune della civiltà e non c’è altra strada che riprendere il creduto mito di Atlantide. Non s’inventa nulla perché in tutte le civiltà antiche se ne parla, dai Maya agli Egizi, dai Sumeri agli Indiani, pur sotto nomi diversi.

“Ecco, dunque, che il quadro si completa; le navi atlantidi superstiti della tragedia approdarono in terre diverse e i loro occupanti, in misura più o meno sensibile, influenzarono le culture delle popolazioni incontrate, quando addirittura non le formarono. Solo così si spiega il fondo comune di tutte le civiltà e la spiegazione non ha bisogno di funambolismi per apparire logica. […]

“La prova per eccellenza che la teoria del Barbiero è esatta si può avere soltanto da uno scavo sistematico da farsi in un determinato punto dell’isola Berkner ma, come si è detto, gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione del progetto sono molteplici e di varia natura.” […]

“Al principio del 1976 l’ing. Barbiero ebbe la possibilità di aggregarsi a una spedizione alpinistica e un po’ scientifica, organizzata alla garibaldina, che per una ventina di giorni operò nell’area della Penisola Antartica, una regione, cioè, molto lontana dal Mare di Weddell e dall’isola Berkner, ma che poteva riservare pur sempre delle sorprese. Infatti fu nell’isola Seymour che il capitano norvegese C. A. Larsen trovò, nel 1893, una cinquantina di palline di sabbia e ‘cemento’ messe su colonnette dello stesso materiale. Larsen scrisse che quegli oggetti sembravano ‘fatti da una mano umana’. Un’espressione generica per dire che erano oggetti fatti molto bene? Forse, e infatti non li fece mai studiare e analizzare ed oggi, putroppo, non li possediamo più perché andarono distrutti nell’incendio della sua casa a Grytviken (Georgia Australe).

“Nel corso della spedizione del 1976 l’ing Barbiero scoprì nell’isola Re Giorgio (una del gruppo delle Shetland Australi), una grande quantità di tronchi semifossilizzati che potrebbero risalire a 10-12.000 anni fa. Purtroppo gli istituti scientifici ai quali erano stati inviati i campioni di questi tronchi per la datazione col metodo del C14 non hanno fatto conoscere ancora la loro risposta. In Antartide sono stati trovati, a più riprese, dei fossili di alberi e altre piante (Robert Falcon Scott stesso ne riportò moltissimi), ma se i tronchi semifossilizzati trovati da Barbiero risalgono veramente a un massimo di 12.000 ani fa, si ha la prova che fino a quell’epoca l’Antartide poteva essere abitata e molti fatto coinciderebbero con le affermazioni contenute nei dialoghi di Platone e, di conseguenza, con l’ipotesi avanzata da Barbiero in questo volume” (7).

Anche studiosi anglosassoni, come il professor Charles Hapgood, erano giunti a conclusioni analoghe, studiando il problema di alcune antiche carte geografiche che rivelano conoscenza “impossibili”, a meno di ammettere l’esistenza di una evoluta civiltà antidiluviana, padrona dei mari all’epoca in cui la morsa dei ghiacci con aveva ancora stretto l’Antartide, e dalla quale sarebbero derivate le conoscenze cartografiche e marittime altrimenti inspiegabili; si veda, per tutte, la celebre carta nautica dell’ammiraglio turco Piri Reis (8). Fantasie? Certo è che Miguel Serrano, così come Lovecraft e, forse, Poe, hanno dato voce poetica a una ipotesi che ora alcuni studiosi di formazione scientifica hanno ripreso con la massima serietà: che quanto oggi sappiamo sul continente antartico è solo una piccola parte della sua storia antichissima, misteriosa e affascinante; che forse vi fiorirono, prima dell’ultima glaciazione, le imponenti città di una razza evoluta; che forse qualcosa o qualcuno ancora vi si trova, in attesa di essere rivelato all’umanità.

Note

1) Cfr. ROBERT, James, La guerra segreta della Gran Bretagna in Antartide, su Nexus, nr. 61 e 62 del 2006; Temolo, Luca, I dischi volanti di Hitler, su Xché, nr. 3 del 2003; TROMBETTI, Pierluigi, Una base nazista in Antartide, su Hera Magazine; BACCARINI, Enrico, Dal nazismo occulto al fascismo esoterico, su Archeomisteri, nr. 20 e 21 del 2004.

2) Ci serviremo, pertanto, della traduzione italiana di alcuni passi dell’opera eseguita dal sito Internet Alchemica (www.alchemica.it/antartidemito.html).

3) ROBERTSON, Erwin, Por el Hombre que Vendrà, in Ciudad de los Césares, nr. 18, 1990.

4) Il missionario-esploratore De Agostini, uno dei massimi conoscitori della Terra del Fuoco, che conobbe diversi sciamani e potè osservarli da vicino nelle loro attività occulte, li chiama non Jon, ma Kon, e afferma che “il potere dei Kon si estendeva fin dopo morti e per questo i Kon venivano seppelliti con la faccia rivolta all’ingiù, affinché non potessero inviare malattie ai vivi”: DE AGOSTINI, A. M., Trent’anni nella Terra del Fuoco, Torino, S. E. I., 1955, p. 302.

5) FRITZ ROA, Sergio, La Antártica y el mito lovecraftiano, originariamente in Ciudad de los Césares, nr. 47, 1997.

6) FLEM-ATH, Rand e Rose, La fine di Atlantide, Casale Monferrato, Piemme ed., 1997.

7) BARBIERO, Flavio, Una civiltà sotto ghiaccio, Milano, Ed. Nord, Milano, 1974, pp. XII-XV.

8) HAPGOOD, Charles P., Maps of Ancient Sea King, Adventure Unilimited Press, 1996; HANCOCK, Graham, Impronte degli Dèi, Milano, Corbaccio, 1996; Id., Civiltà sommerse, Milano, TEA, 2005.

jeudi, 28 octobre 2010

"Porte Louise", par Christopher Gérard

« Porte Louise » par Christopher Gérard

 

portelouise.pngEx: http://www.polemia.com/

L’auteur a publié deux romans, Le songe d’Empédocle (2003) et Maugis (2005), dont Pol Vandromme a dit qu’ils étaient écrits « à contre-mode de la platitude littéraire d’aujourd’hui », un essai, La source pérenne (2007), « défense et illustration du polythéisme » (Marcel Conche), et un récit, Aux armes de Bruxelles (2009), « délicieuse flânerie dans un haut lieu de la civilisation du Saint-Empire » (Bruno de Cessole).

C’est encore dans la capitale belge, où il existe bien une avenue et une Porte Louise, que se situe le nouveau roman de Christopher Gérard. Son personnage principal est une femme de 51 ans, professeur, justement prénommée Louise, qui, après trente-huit ans passés à Dublin, revient à Bruxelles, sa ville natale, pour essayer de comprendre pourquoi son père y a été assassiné de trois coups de feu dans la nuit du 1er novembre 1972. Irlandais installé à Bruxelles, celui-ci, selon la police, frayait avec le grand banditisme et aurait été victime d’un règlement de compte. Mais pour sa fille qui demeure inconsolable, ce meurtre reste mystérieux et c’est pour essayer de découvrir la vérité et de « voir clair dans son passé » qu’elle revient sur les lieux du crime.

Au fil des pages de ce récit joliment et subtilement mené, nous découvrons Charlie, le père de Louise, qui, pendant la Deuxième Guerre mondiale, a vécu à Berlin où il enseignait l’anglais à l’université et animait des émissions de radio en gaélique. Dans la capitale du IIIe Reich, il a fréquenté l’entourage de Von Ribbentrop et rencontré Céline qui lui a offert un exemplaire du Voyage au bout de la nuit avec cette dédicace : « A mon frère Celte, l’énigmatique Charles ». De fait, les énigmes sur sa vie au cours de cette période sont nombreuses : que faisait-il vraiment à Berlin ? Fut-il, de 1942 à 1944, le chef de la section irlandaise de l’Abwehr ? Comment a-t-il pu quitter l’Allemagne après la chute de la capitale du IIIe Reich ? S’est-il plus tard rendu en RDA et a-t-il travaillé pour la Stasi ? Autant d’interrogations qui rendent Louise encore plus perplexe lorsqu’un Français membre de la Commission européenne lui apprend que son père a organisé un trafic d’armes pour l’IRA, via la Tchécoslovaquie. L’hypothèse de son assassinat par le KGB l’effleure un moment, mais son interlocuteur penche plutôt pour les services secrets anglais, ce que dément formellement un ancien responsable de l’Intelligence Service, Lord Pakenham. Celui-ci révèle en revanche à Louise que lui et son père ont envisagé de faire signer un traité de paix entre Allemands et Alliés après la disparition du Führer. Le distingué « Lord of the Spies » lui avoue toutefois que Charlie a été un agent des services secrets de la République d’Irlande chargé de surveiller l’IRA, ses trafics d’armes et ses contacts avec le régime nazi…

Après l’effondrement du régime hitlérien, Charlie réussit à passer en Suisse, puis regagna l’Irlande, avant de se lancer dans les affaires et de s’installer à Bruxelles. Cela ne l’empêcha pas de reprendre ses activités d’agent double au service du gouvernement de Dublin et de l’IRA. Envoyé par cette dernière à Berlin pour obtenir des armes il eut pour « honorable correspondant » un ancien collaborateur de Von Ribbentrop, devenu colonel dans la Stasi et spécialiste des affaires irlandaises…

Outre les deux principaux protagonistes du livre, Charlie et Louise, un troisième personnage occupe une place importante dans le roman. C’est le mari de Louise, l’écrivain Liam O’Reilly, celui qu’elle appelle le « cher vieux druide », fidèle aux « anciens Dieux » et à « l’Ancienne Religion des feux et des purifications, des festins et des poèmes, de l’hydromel ambré dans les coupes, du saumon sacré… » Elle lui adresse régulièrement de longues missives qui sont comme le journal de bord de son enquête.

Si, grâce à ses multiples interlocuteurs, Louise a pu retracer le parcours « ondoyant et divers » de Charlie, elle n’a pas réussi à savoir par qui et pourquoi son père a été assassiné. Une dernière tentative lui permettra-t-elle de lever le mystère ? On laissera au lecteur le soin de découvrir le dénouement de cette « ténébreuse affaire ».

En toile de fond de l’enquête de Louise et de l’existence de Charlie, Bruxelles, cette « ville improbable et attachante », apparaît comme le cœur et l’âme du roman. Tout au long des cinq chapitres qui portent chacun le nom d’une rue ou d’une place bruxelloise, on passe de l’avenue de la Toison d’or à la chaussée de Charleroi, de la porte de Namur au passage du Nord, de la rue de l’Arbre-bénit à la place de Brouckère… La quête du père et de l’identité que poursuit Louise est en effet inséparable de ses déambulations dans la capitale belge. Celle-ci a beaucoup changé, certains de ses quartiers ont disparu, d’autres se sont complètement transformés, ressemblent désormais au Bronx ou sont en voie de « créolisation accélérée » ; la population de souche est parfois minoritaire et, dans le centre-ville, on croise désormais des « mahométanes en foulard ».

Porte Louise est un roman d’espionnage plus proche de ceux de John Le Carré ou de Vladimir Volkoff que de ceux de Gérard de Villiers ou de Ian Fleming. Mais en le lisant c’est surtout au film d’Éric Rohmer, Triple Agent, que nous avons songé, éprouvant le même plaisir à la lecture de l’un qu’au visionnage de l’autre. Comme l’écriture cinématographique de Rohmer, la langue de Christopher Gérard est élégante, concise et précise. Mais il écrit aussi avec gourmandise lorsqu’il évoque une dégustation de charcuterie du Sud-Ouest arrosée de « deux fillettes de Chinon frais, légèrement fumé […] doux comme du lait » ou, dans un restaurant libanais, un plateau de mezzés avec son « hachis vinaigré de persil, d’oignons et de tomates, [son] onctueuse purée de pois chiches et [son] caviar d’aubergine au goût fumé ». Ce fin gourmet lettré n’est pas non plus dénué d’humour : tel Alfred Hitchock dans ses films, l’auteur apparaît au détour d’une page de son livre et n’hésite pas à appeler Parvulesco le commissaire européen qui officie à Bruxelles… Ici encore, jeu de miroir littérature-cinéma et clin d’œil aux happy few puisque ceux-ci n’ignorent pas que le romancier et essayiste Jean Parvulesco apparaît notamment dans le film de Jean-Luc Godard A bout de souffle sous les traits de Jean- Pierre Melville, et en personne dans L'Arbre, le maire et la médiathèque d’Éric Rohmer.

Ce roman à la fois nostalgique et allègre, où des personnages captivants traversent le labyrinthe d’une ville et de l’Histoire, est un régal pour les amoureux de vraie littérature. A la manière du « Bien joué, Callaghan », expression utilisée à plusieurs reprises dans le livre et probablement empruntée à Peter Cheney, disons pour conclure « Bien joué, Gérard » !

Didier Marc
13/10/2010

Correspondance Polémia – 21/10/2010

mardi, 26 octobre 2010

Ernst Jünger: "Sicilian Letter to the Man in the Moon"

Sizilien.jpg

Ernst Jünger’s “Sicilian Letter to the Man in the Moon”

Ernst Jünger

Ex: http://www.counter-currents.com/

Translated by Andreas Faust

1.

Greetings you magician and friend of magicians! Friend of solitaries. Friend of heroes. Friend of lovers. Friend of the good and the bad. Knower of nighttime secrets. Tell me: where there is a knower — is there not already something more than can be known?

I still remember the hour when your face appeared in the window, large and terrible. Your light fell into the room like that ghostly sword which freezes all motion when drawn. Rising over the wide realms of stone, you see us slumbering close together with pale faces, like the countless white pupae which rest in the corners and corridors of ant cities, while the night wind roams through vast fir forests. Do we not appear to you like creatures of the deep — submerged in abysses of the sea?

My small room, too, appeared submerged — the room where I had sat up in bed, immersed in a solitude too deep to be broken by men. Things stood silent and motionless, in a strange light, like the sea creatures one glimpses beneath a curtain of algae on the ocean floor. Did they not appear mysteriously changed — and is change not the mask behind which the secret of life and death conceals itself? We all know these moments of uncertain expectation when one feels the voice of the unknown near, and listens for it to resound, and when the hidden conceals itself only with difficulty in every form. A crackling in the woodwork, the vibration of a glass, over which an invisible hand seems to brush — just as space itself is charged around the exertions of a being who hungers for sense, and who can catch its signals!

Language has taught us to hold Things in contempt. Grand words are like a grid stretched across a map. But isn’t a single fistful of earth greater than an entire cartographic world? Once, the whispering of nameless forms still had an urgency. There are signs scrawled on broken down fences and crossroad posts, which the burghers carelessly ignore as they pass. But the tramp notices — indeed, he knows a great deal about them. To him they are a cipher in which the essence of an entire district is revealed — its dangers and securities.

The child, too, is such a tramp, who only recently wandered through the dark gate which separates us from our timeless homeland. The child still understands the language of the runes of Things, which tell of a profound brotherhood of essences.

2.

I feared you in those days, as a being of malignant, magnetic power, and believed one could never stare directly into your full, gleaming radiance without being robbed of gravity, and sucked irresistibly into empty space. Sometimes I dreamt I let my caution slip, and saw myself in a long, white shirt, devoid of will, like a cork on a sinister flood tide, driven high above a landscape in whose depths lurked nightshade forests, and where the roofs of villages, castles, and churches glimmered like black silver — the sign language of a threatening geometry, directly apprehensible to the soul.

On such dream journeys my body was completely rigid. The toes were curled, fists closed, and the head bent back. I felt no fear — just a feeling of inescapable loneliness in a deserted world, governed mysteriously by silent powers.

3.

How this image later changed under the influence of the northern lights, whose first penetration of the fiery and proud heart was like a raging fever. There comes a time when one feels ashamed of one’s frenzied ecstasies, and another time when one again accepts them. Nor would one wish to have gone without the ecstasy of reason in its utmost excess, because in every triumph of life containing an absolute — in every enlightenment deeper than enlightenment — there too hides a spark of the eternal light and a shadow of the eternal darkness.

Dark assault on the infinite! Should a courageous heart be ashamed to be party to it? Military solitude of the siege tunnels, as seconds and millimetres pass; powerful front lines of the trenches in no man’s land, equipped with the strict mathematics of ramparts and sentry posts, with sparkling machines and fantastic instruments!

The idea willingly remains at that border where number dissolves into symbol, willingly revolves around both symbolic poles of the infinite, atom and star, and loves nothing more than taking booty on the battlefield of endless possibility. Was there any sorcerer’s apprentice who didn’t stand once behind the artificial predatory eye of the telescope, moved by the operation of silent clocks in cosmic trajectories, which never once belonged to the bustling crowd of psychologists?

Here danger looms, and he who loves danger loves to answer for it. He wants to be attacked with greater ferocity, so he can answer more ferociously in return. Light is more obscure by day than by night. He who has tasted doubt is certain to go beyond the frontiers of lucidity in search of the miraculous. He who doubted once must doubt still more, if he wishes to avoid despair. Whether one was capable of seeing a number or sign in the infinite — this question is the last and only measure to which a mind of this type will reply. But for each the position is another that he must win to be capable of deciding. Happy is that simplicity which knows not these forked paths — yet a wild and manly joy blooms on the edges of precipices.

In any case, was it not surprising to learn that behind the man in the moon, a light- and shadow-play was concealed, of plains, mountains, dried-up seas and extinct volcanoes? Here the strange suspicion of Svidrigajlov entered my mind — the suspicion that eternity is only a bare, whitewashed chamber, whose corners are inhabited by black spiders. One may enter . . . and that is all there is to eternity.

Yes, and why not? What is the air to one who breathes it? What does he care for the beyond when it gives him nothing that is not beyond as well?

A new topography is required.

4.

The drill thinks in a different way to the pincers, which grip one point after another. Its thread cuts broadly through several layers in the material, but through all the many points it touches in spiral motion, it is the tip which gives direction and energy to the thrust.* This relationship between chance and necessity, which do not exclude each other, but are mutually dependent, is also inherent in the words and images of a language, which claim to be the sole and final possibilities of understanding. Every word turns on an axis, which itself is incapable of containing words. The language I dream of must be comprehensible, or completely incomprehensible, until its last letters, as the expression of a great isolation which alone makes possible the highest love. There are crystals which are transparent solely in one direction.

But are not you yourself a master who knows how to put his riddle elaborately, that riddle of which only the text, not the solution, is communicable – just as the hunter sets his snares with great care but must then wait for a beast to stumble into them?

The solution itself is not important – only that the riddle is seen.

* “The motion of the screw, crooked and straight, is one and the same.” – Heraclitus

5.

You know how life is at the edges of dark forests: the gardens, lighted islands in the glow of lanterns, encircled by a magical whirling of music. You know the couples who lose each other silently in the darkness; your light meets their faces like pale masks, while lust accelerates their breathing and fear stifles it. You know the intoxicated ones who break out of the thicket.

You rose large over the thatched houses along the river, on that June night when one of your apprentices entered into closer brotherhood with you. The festive table was placed on the trampled threshing floor, and the weapons and red caps gleamed in the tobacco smoke on walls lined with fir twigs. Where now is the youth who so soon afterwards broke the secret seal of death, whose tidings were already prepared for him? He was there once, and is there evermore. How the first ecstasy pulls the heart like sails! Did you not love him as he sank for the first time in the depths, where elemental spirits mightily exalted power? Are there not hours when one is beloved by everything, like a flower who blossoms in wild innocence? Hours when from sheer excess we are shot like a projectile along the paths of habit? Only then do we begin to fly, and only in uncertainty is there a high objective.

I follow him with my eyes as if it had been today, for some experiences have a validity which eludes all laws of time. When wine’s fire melts away the growth rings which have yearly encircled this strange and wondrous heart, we discover in our depths that we have remained the same. O memory, key to the innermost forms contained in people and experiences! I am certain that you yourself are contained in the dark, bitter, intoxicating wine of death as the last and decisive triumph of Being over Existence. I greet you above all, you solitary revellers who keep your own company at table, and time and time again raise a glass to yourselves! What are we, other than mirror images of ourselves? And where we sit with ourselves in pairs, then the third one, God, is never far.

I see your protégé as he appears from a raging cloud of noise, before the low doors, over which the thin white horse’s skull gleams in the night light. The warm air, laden with the pollen of grasses like narcotic gunpowder, creates a wild eruption which drives him crying blindly into the silent landscape. He ran along the crest of the high wall bordering the meadows, and fell, oddly enough without pain, down into the thick grass. Further along the course turns to the feeling of a power, which seems to be nourished by unlimited resources. The large white umbrels gliding by like alien signals, the scent of a hot, fermenting earth, the bitter haze of the wild carrots and spotted hemlocks — all these like the pages of a book which opens of its own accord, in which eternally deep, miraculous relationships are described. No more thoughts whose properties melt darkly into each other. The nameless life will be greeted exultantly.

He penetrates the wide belt of reeds in the stream’s midst. Gases bubble up from the mud. The water embraces the glowing breast as if it had arms, and the face glides away along the dark mirror of the river. In the distance a weir thunders, and the ear, which has come near to the primeval language, feels dangerously enticed. The stars glimmer upwards from bottomless depths, and when the water swirls and eddies they begin to dance.

On the other bank the forest opens up; its thickets trap life, threateningly and in tangled lines. The roots spread their intertwining patterns of threads and tendrils, and the branches weave themselves into a net, in whose seams a swarm of faces move and change. Over the tops of the trees lattices of blind generative power intersect, their forms giving birth to both enmity and destruction, and the foot throws up the soft mist of decay where life dully mingles with death.

Then the clearing breaks open, and your light falls into the darkness like an excommunication of law. The trunks of the beech trees gleam like silver, the oaks like the dark bronze of ancient swords. Their crowns emerge in a powerful structure. The smallest twigs and the last blackberry stalks are touched by your light, unlocked and interpreted, and at the same time surrounded – struck by a great moment which makes everything significant and which chance surprises on its secret paths. They are part of an equation whose unknown symbols are written with glowing ink.

How the simple lines of the homeland are hidden even in the most intricate landscape! Happy allegory, in which a deeper allegory is embedded.

6.

What sustains us, if not the mysterious ray of light which sometimes flashes through the inner wilderness? People wish to speak, however imperfectly, of that which to them is more than human.

The attempts of science to contact distant stars are an important characteristic of this age. Not only the endeavour itself, but also its technical methods provoke a strange mixture of soberness and imagination. Is it not an astonishing proposal to draw with navigational lights the right-handed triangle of Pythagoras and its three quadrats over an expanse of the Sahara Desert? What does it matter to us whether a mathematician exists somewhere in the universe! But here is a living feature that calls to mind the language of the pyramids, an echo of the sacred origin of art, of the solemn knowledge of creation in its hidden meaning — with all conditions of abstract thought brought into harmony, and the devices of modern technology disguised.

Will the radio signals we hurl into the bottomless depths of icy space ever be received, this transformation of languages (whose boundaries lay in earthly mountains and rivers) into an electrical pulse which announces itself all the way to the borders of the infinite? Into which language will this translation be translated?

Wondrous Tibetans, whose monotonous prayers ring out from the cliff-top monasteries of the observatories! Would anyone wish to laugh at prayer wheels who was familiar with our landscapes, with their myriad of revolving wheels — those fierce agitations which move the hour hand of the clock and the furious crankshafts of aeroplanes? Sweet and dangerous opium of velocity!

But is it not true that in the innermost centre of the wheel stillness lies hidden? Stillness is the proto-language of velocity. Through translations one would like to see the velocity increase — all these increases can only be a translation of the proto-language. But how is man supposed to understand his own language?

See, you glance down over our cities. You saw many other kind of cities before them, and will see many others yet. Every individual house is well furnished and built for its own special purpose. There are narrow, winding streets established seemingly by chance in the course of time, just as the the fields of a farming area are divided according to long-forgotten inheritances. Other streets are straight and wide, their alignments determined by princes and master builders. The fossilizations of eras and races fit into each other in many different ways. The geology of the human soul is a special science. Between the churches and government buildings, villas and tenement houses, bazaars and entertainment palaces, train stations and industrial zones, life spreads out its cycles; the circulation is significant, solitude exceptional.

From so great a height, however, this vast store of organic and mechanical powers takes on another picture. Even an eye which observes it through the most powerful telescope could not fail to notice the difference. Indeed, the things do not actually change for that which stands over them, but rather present a different side. It is no longer the case that churches and castles are a thousand years old and warehouses and factories the products of yesterday; for something emerges that one could call their pattern — the common crystalline structure, in which the raw material has condensed. Even the vast diversity of goals and movements which they give rise to, the eye no longer takes as true. Down there are two people, who hurry past each other, two worlds in themselves, and one part of the city can be further from another than the north pole is from the south. But from yourself outwards, you who are a cosmic being and yet still a part of the earth, everything is perceived in its stillness, just like the separation whereby this life has taken form out of volcanic ferment and volatile liquids. O marvellous drama, time after time, as form upon form arises through the difference and hostility of eras and regions! This is what I call the deeper fraternity of life, in which every enmity is included.

For us down here, however, it is rarely permitted to see the aim fused with the meaning. And perhaps our highest endeavour is that stereoscopic glance which comprehends things in their more hidden, more dormant physicality. The necessary is a special dimension. We live in it, and as yet are only capable of beholding its projections in significant beings. There are signs, allegories and keys of many kinds — we are like the blind man who, while he can’t see anything, still feels the light in its vaguer quality — as warmth.

Is it not also the case that the blind man’s every movement takes place in what for a seeing eye is the light, although he himself is shrouded in eternal darkness? We never saw our face in more timeless mirrors. But so, too, do we speak a language whose significance is incomprehensible to us ourselves — a language of which every syllable is both transitory and immortal. Symbols are signs, which nevertheless give us consciousness of our values. They are first of all projections of forms from a hidden dimension, then, too, searchlights through which we hurl our signals into the unknown in a language pleasing to the gods. And these mysterious conversations, this chain of miraculous efforts from which the core of our history exists, which is a history of the battles of men and gods – - – : they are the only things which make learning worthwhile for humanity.

7.

True comparison, that is, the contemplation of things according to their location in necessary space, is the most marvellous method of the protective art. Its base is the mutual expression of the essential, and its peak the essential itself.

This is a kind of higher trigonometry, which deals with the mass of invisible fixed stars.

8.

I climbed on this radiant morning in the ravines of Monte Gallo. The red-brown earth of the gardens was still moist with dew, and under the lemon trees stood the red and yellow blossoms of the Sarazenenfrühlings like the pattern of an oriental rug. There, where the last leaves of the opuntias peered naked and curious over the reddish wall, were mountain pastures, towered over by cliffs and overblazed by yellow perennial spurges. Then the path led through a narrow valley carved from barren rock.

I do not know, and will not attempt to describe, how in the middle of these walls the insight emerged to me that a valley like this grasps the wayfarer more urgently with its stony language, as if a pure landscape were possible, or, put differently, a landscape like this one had deeper powers at its disposal. It probably never had awareness of rank, which would have been unclear to it, and in fact such moments are rare, when one recognises an ensouled life prevailing in nature from a physical expression of this life standing directly opposite. Yes, I believe it has again become possible in recent times. But it was just such a moment that surprised me in this hour — I felt the eyes of this valley resting on me with complete affection. Put differently: it was beyond doubt that this valley had its demon.

Straight away and still in the frenzy of discovery my gaze fell on your already very pale disc, which hovered close over the crest and could probably only be seen looking up from such depths. There rose again, in a strange flashing birth, the image of the man in the moon. Certainly, the lunar landscape with its rocks and valleys is a surface formulated by astronomical topography. But it is just as certain that, at the same time, it is available to that magical trigonometry of which we have spoken — that at the same time it is a region of spirits, and that the fantasy which gave it a face understood the primordial language of runes and the speech of demons with the depths of the childlike gaze.

But the incredible thing for me in this moment was to see both these masks, of one and the same Being, melt inseparably into each other. Because here for the first time an agonising conflict resolved itself, which I, great-grandson of an idealistic, grandson of a romantic, and son of a materialistic race, had hitherto regarded as irreconcilable. It didn’t exactly happen that an Either-Or metamorphosed into an As-Well-As. No, the real is just as fantastical as the fantastical is real.

That was the wonderful thing which delighted us about the doubled images we observed through the stereoscope as children: In the same moment in which they melted together into a single picture, the new dimension of depth burst out from them.

Yes, that is how it is; the age has brought home to us the old magical spells which were always present, if long forgotten. We feel that sense begins to weave itself in, hesitantly still, to the great work which we all create, which holds us in its spell.

lundi, 25 octobre 2010

L'accueil critique de "Bagatelles pour un massacre"

L'accueil critique de Bagatelles pour un massacre

Ex: http://lepetitcelinien.blogspot.com/

 

C’est un passionnant dossier de presse que propose André Derval. Toutes les grandes signatures ayant traité de Bagatelles à l’époque de sa sortie y sont réunies : de Brasillach à Gide en passant par Léon Daudet, Charles Plisnier, Lucien Rebatet ou Marcel Arland. Et d’autres qui ont sombré dans l’oubli aujourd’hui mais qui détenaient une autorité certaine à l’époque, tels André Billy ou Gabriel Brunet.
Ce dossier atteste que l’accueil du livre fut beaucoup moins clivé qu’on ne l’imagine aujourd’hui. Ainsi, les lecteurs, voire les rédacteurs, actuels du Canard enchaîné seraient sans doute étonnés d’apprendre que leur hebdomadaire commenta Bagatelles pour un massacre de manière très favorable : « Un livre libérateur, torrentiel et irrésistible » [sic]. C’est que, dans les années trente, l’antisémitisme était répandu dans tous les milieux, de la droite à la gauche. À ce propos, on peut regretter que, dans l’introduction, Derval s’abstienne de situer le livre dans son contexte politique. Soit, en France, un climat délétère suscité par les agissements en vogue sous la IIIème République. Évoquant les circonstances de la parution du livre, il se borne à rappeler la déception de Céline face au piètre accueil critique de Mort à crédit. Divers autres spécialistes de l’écrivain ont, eux, fourni bien des clefs permettant de comprendre la genèse du pamphlet. Tel célinien évoque « sa haine de la guerre, et par ricochet sans doute son antisémitisme (duplicité, « internationalisme » et avidité des banquiers et marchands de canons, synonymes de juifs) ¹ », tel autre explique son engagement « par le fait que, d’un naturel très personnel et volontaire, Céline n’était ni lâche ni hypocrite et n’était pas homme à rester sur les gradins quand d’autres se font étriper dans l’arène ². » Rien de tel sous la plume d’André Derval qui trace du pamphlétaire un portrait univoque. Ce n’est pas exonérer Céline de ses excès que de rappeler ses motivations réelles : la hantise d’une nouvelle guerre européenne (considérée par lui comme fratricide) et la défense d’une esthétique.
En revanche, l’intérêt du recueil est de donner à voir l’éventail de la réception critique, notamment celle émanant de la presse d’information juive. À ce propos, aucun des articles parus dans l’hebdomadaire belge L’Avenir juif n’a été référencé dans les bibliographies céliniennes. Apportons donc notre contribution à cette étude de l’accueil critique de Bagatelles en signalant l’un des articles publiés par ce journal. L’auteur n’y cache pas sa surprise de constater que l’imprécateur antisémite est « précisément Céline, le même qui, dans son Voyage, nous donna tout de même l’impression que sa révolte contre un ordre social où l’on s’accommode si allègrement de tant d’injustices ne relevait pas du dilettantisme verbal, d’autant plus qu’il sut trouver souvent des accents bouleversants parce que si indiciblement humains. » Et d’ajouter : « Nous nous sommes trompés. M. Céline n’est qu’un sinistre cabotin ³ ».

Marc LAUDELOUT

• André Derval, L’accueil critique de Bagatelles pour un massacre, Écriture, coll. « Céline & Cie », 2010.

1. Jean-Paul Louis in Louis-Ferdinand Céline, Lettres à Marie Canavaggia, 1936-1960, Gallimard, coll. « Les Cahiers de la Nrf » [Cahiers Céline 9], 2007, p. 328.
2. François Gibault in Louis-Ferdinand Céline, Céline et l’actualité, 1933-1961, Gallimard, coll. « Les Cahiers de la Nrf » [Cahiers Céline 7], 2003, p. 8.
3. N. Gutter, « Bagatelles pour un massacre », L’Avenir juif [Anvers – Bruxelles], 3ème année, n° 92, 11 mars 1938, p. 4d.

 

dimanche, 24 octobre 2010

Hergé (1907-1983) et la tradition utopique européenne

Hergé (1907-1983) et la tradition utopique européenne

 
Par Daniel Cologne  
 
 

HergéGeorges Remi (devenu Hergé par inversion des initiales) est né à Etterbeek (Bruxelles) le 22 mai 1907 à 7h30. Il aimait à rappeler cette naissance sous le signe des Gémeaux (1). Peut-être explique-t-elle la récurrence du thème de la gémellité dans ses albums (les DupontDupond, les frères Halambique, etc.).

 

Il est également vrai que son père avait un frère jumeau. L’horoscope serait-il sans importance ? Rien n’est moins sûr. Remarquons-y la culmination exacte de Saturne (conjoint au Milieu du Ciel à 25°38’ des Poissons), statistiquement en relation avec un grand intérêt pour les savants et la science lato sensu (2).

Hergé grandit et évolue dans un milieu catholique, belgicain, fascisant et colonialiste. Tintin au Congo exalte la politique paternaliste de la Belgique en Afrique centrale. Les albums situés « au pays des soviets » et en Amérique renvoient dos à dos le communisme totalitaire et la frénésie capitaliste de l’exploitation industrielle.

Mais dès 1934, Hergé élargit sa perspective tandis que Tintin fait route vers l’Orient.

Dans Les Cigares du Pharaon, le professeur Philémon Siclone inaugure la galerie des portraits d’hommes de connaissance. Ceux-ci sont égyptologue, sigillographe (Halambique dans Le Sceptre d’Ottokar), ethnologue (Ridgewell dans L’Oreille cassée), psychiatre (Fan Se Yeng dans Le Lotus bleu), physicien (Topolino dans L’Affaire Tournesol). Quant à Tournesol lui-même, qui devient un personnage récurrent à partir du Trésor de Rackham le Rouge, il s’intéresse autant à la culture des roses (Les Bijoux de la Castafiore) qu’aux techniques de falsification de l’essence (Tintin au pays de l’or noir).

L’Île Noire envoie Tintin au large des côtes écossaises. Dans un château en ruines sévit une bande de faux-monnayeurs. La succession de symboles est évidente. Cet album de 1937 offre la contrefaçon de l’utopie insulaire, vieux thème de la littérature européenne de l’Atlantide platonicienne à sa version modernisée de Francis Bacon (1561-1626), de « l’île blanche » des Hyperboréens à la Cité du Soleil de Tommaso Campanella (1568-1639).

Au Moyen Âge, dans les récits du cycle du Graal, le château se substitue à l’île comme lieu utopique et objet de la quête.

Les premiers dessins d’Hergé paraissent dans le quotidien bruxellois Vingtième Siècle dirigé par l’abbé Wallez. Mais en 1936, l’hebdomadaire parisien Cœurs Vaillants sollicite Hergé pour la création de nouveaux personnages : Jo, Zette et leur petit singe Jocko.

Dans ces nouvelles aventures se confirment à la fois les influences de la tradition utopique européenne, les préfigurations thématiques des chefs d’œuvre futurs et la volonté d’Hergé d’en finir au préalable avec les contrefaçons.

Jo et Zette sont confrontés à des pirates qui annoncent les flibustiers du Secret de la Licorne et dont le repaire sous-marin renvoie aux motifs de l’utopie et de la contre-utopie souterraines. Le chef des pirates est un savant fou, reflet inversé du scientifique inspirant au saturnien Hergé un indéfectible respect. Les deux enfants et leur singe sont finalement recueillis sur une île par de « bons sauvages », réminiscences de Bernardin de Saint-Pierre (1737-1814). Le jeune Hergé n’est-il pas aussi l’auteur d’un Popol et Virginie chez les Lapinos, bande dessinée animalière dont le titre rappelle l’œuvre maîtresse du célèbre écrivain préromantique ?

La question des sources littéraires d’Hergé demeure controversée. Benoît Peeters estime par exemple excessifs les rapprochements qui ont été faits entre Jules Verne et Hergé.

Il n’en reste pas moins que le savant fou de la contre-utopie du fond des mers mène ses expériences dans sa cité-laboratoire à la manière de Mathias Sandorf dans son île utopique.

Dès 1942, au cœur du « combat de la couleur » (3), Hergé reçoit l’assistance d’Edgar-Pierre Jacobs pour le coloriage de ses albums antérieurs conçus en noir et blanc.

Lorsque Tintin devient un hebdomadaire en 1946, la collaboration de Jacobs s’avère précieuse. Les aventures de Blake et Mortimer reprennent le thème du savant fou (Septimus dans La Marque jaune), parfois récurrent (Miloch dans S.O.S. Météores et Le Piège Diabolique), le tandem Septimus-Miloch s’opposant par ailleurs au savant idéal que constitue le professeur Mortimer.

Parmi les autres collaborateurs du journal Tintin d’après-guerre, Raymond Macherot combine la bande dessinée animalière et l’utopie. Dans Les Croquillards, Chlorophylle et son ami Minimum parviennent à dos de cigogne dans l’île australe de Coquefredouille, où les animaux parlent comme les humains, circulent dans des voitures qui fonctionnent à l’alcool de menthe et sont organisés en une société idéale jusqu’à l’arrivée d’Anthracite, le rat noir perturbateur.

Chlorophylle et Minimum forment un couple inséparable, comme Tintin et le capitaine Haddock à partir du Crabe aux pinces d’or (1941). Chlorophylle rétablit le roi Mitron sur son trône de Coquefredouille de la même façon que Tintin restaure la monarchie syldave dans Le Sceptre d’Ottokar (1938).

La Syldavie est la principale utopie d’Hergé. Avant la guerre, elle n’est encore qu’un petit royaume d’Europe centrale reposant sur des traditions agricoles et menacée par des conspirateurs au service de la Bordurie voisine. L’Allemagne hitlérienne vient d’annexer l’Autriche. Comme pour la guerre entre le Paraguay et la Bolivie (devenus San Theodoros et Nuevo Rico dans L’Oreille cassée), Hergé s’inspire de l’actualité.

Trop perméable à « l’air du temps », Hergé se rend coupable de quelques dérapages dans L’Étoile mystérieuse (1942). Cet album nous interpelle surtout parce qu’il narre une sorte de navigation initiatique (4), à la manière du mythe grec de Jason et des Argonautes, vers une forme d’« île au trésor » (5). L’aérolithe qui s’abîme dans les flots arctiques recèle un métal inconnu sur Terre. Ce métal est la « Toison d’Or » découverte par Tintin, Haddock et leurs amis savants européens au terme d’une course qui les oppose à des Américains sans scrupules.

Onzième album dans une série de vingt-deux, en position centrale dans le corpus hergéen des aventures de Tintin, Le Trésor de Rackham le Rouge synthétise les thèmes utopiques de l’île, du château et du souterrain. Conçu en 1944, cet album met en scène une navigation infructueuse vers une île lointaine et la découverte finale du trésor dans la crypte du château de Moulinsart, et très précisément dans une mappemonde surmontée d’une statue de l’apôtre Jean. L’Apocalypse de Jean comporte vingt-deux chapitres. Cette apparente influence ésotérique sur Hergé est-elle due à la fréquentation de Jacques Van Melkebeke, initié à la Franc-Maçonnerie en 1937 ? Benoît Peeters en paraît convaincu (6).

Une chose est certaine : l’incontestable érudition littéraire de Van Melkebeke autorise à reposer le problème des sources d’Hergé, sur lesquelles le créateur de Tintin a peut-être été trop modeste (7).

Si l’île et le château sont deux thèmes majeurs de la tradition utopique européenne, l’un apparaît en filigrane de l’autre dans Le Grand Meaulnes d’Alain Fournier (1886-1914), dont aucun biographe d’Hergé ne signale l’influence. Le château des Galais est l’objet de la quête de Meaulnes. Le récit est criblé d’images marines. Alain-Fournier rêvait de devenir navigateur et a raté le concours d’admission à l’École Navale de Brest. La casquette à ancre de Frantz de Galais fait penser à celle du capitaine Haddock.

C’est avec des métaphores marines que Charles Péguy (1873-1914) présente sa région de la Beauce à Notre-Dame de Chartres, illustre vaisseau de l’architecture gothique. Péguy est un ami d’Alain-Fournier, originaire de Sologne, de l’autre côté de la Loire. Péguy est le chantre de la « cité harmonieuse » dont « personne ne doit être exclu ». Péguy est l’écrivain de référence des milieux catholiques des années vingt. L’ambiance intellectuelle où baigne le jeune Georges Remi et certains leitmotive de l’œuvre d’Hergé invitent à l’hypothèse d’une influence de Péguy et d’Alain-Fournier (8) sur le créateur de Tintin.

L’utopie souterraine apparaît dans la littérature européenne au XVIIe siècle avec l’Anglaise Margaret Cavendish (9) et dans l’œuvre d’Hergé dans l’immédiat après-guerre avec Le Temple du Soleil.

C’est en réalité la seconde partie d’un diptyque commencé avec Les Sept Boules de cristal, où l’on retrouve, comme dans L’Étoile mystérieuse, une expédition de sept savants, dont l’américaniste Bergamotte, spécialiste ès sciences occultes de l’ancien Pérou.

Cachée dans les contreforts des montagnes andines, la cité des Incas est atteinte après la périlleuse traversée d’une forêt. Le thème de l’épreuve forestière fait écho aux romans du Graal et à certains contes de Perrault (1628-1703), comme La Belle au bois dormant, dont une version est également fournie par Grimm (1786-1859).

Certes, les Incas punissent le sacrilège de mort et leur science n’est pas, sous le crayon d’Hergé, assez évoluée pour prévoir une éclipse solaire. Néanmoins, leur cité souterraine, qui abrite un trésor dérobé aux regards rapaces des conquistadores, est une sorte d’utopie dans la mesure où l’on y cultive les valeurs chevaleresques, le respect de la parole donnée, la réconciliation et la fraternisation avec l’adversaire. Au début de l’aventure, Tintin défend un petit Indien persécuté par d’odieux colons espagnols. Le grand prêtre inca observe en cachette la scène. Il comprend que Tintin n’est pas un ennemi de sa race. Bien qu’il soit chargé de barrer à Tintin la route du repaire montagnard, il lui offre un talisman protecteur.

Selon Raymond Trousson, l’étymologie du mot « utopie » est incertaine. Le terme vient du grec. Mais la racine est-elle ou-topos (le pays de nulle part) ou bien eu-topos (l’endroit où on est bien) ? L’œuvre d’Hergé est utopique dans les deux acceptions du vocable. Le château de Moulinsart est une « eutopie ». L’île au trésor inaccessible est une « outopie », cette terra australis dont ont rêvé de nombreux écrivains d’Europe, de Thomas More (1478-1535) à Nicolas Restif de la Bretonne (1734-1806).

L’utopie souterraine est conçue par Hergé comme une cité de la science (10), cachée dans les montagnes de Syldavie. De là part l’expédition vers le satellite de la Terre dans le célèbre diptyque du début des années cinquante : Objectif Lune et On a marché sur la Lune. Ainsi modernisée, la Syldavie refait irruption dans l’univers hergéen. Un savant-traître ne peut pas être totalement mauvais. Pour permettre aux autres occupants de la fusée d’économiser l’oxygène et de revenir sur Terre vivants, Wolff se sacrifie en se jetant dans le vide. Le suicide de Wolff est une autre forme de l’hommage d’Hergé à la science et aux savants.

La Syldavie apparaît une dernière fois dans L’Affaire Tournesol (1956). Pour Hergé commence l’époque du désenchantement, du brouillage des repères, de la progressive indistinction des valeurs. Les services secrets syldaves et bordures sont renvoyés dos à dos, comme le sont, dans Tintin et les Picaros (1974), les deux généraux de San Theodoros, le vieil ami Alcazar et son rival Tapioca.

Certes, entre-temps, il y a encore Tintin au Tibet (1960), Vol 714 pour Sydney (1968), où Hergé fait une concession à la mode « ufologique » (hypothèse des visiteurs extra-terrestres) et Les Bijoux de la Castafiore (1963), où Tintin se laisse enchanter par des airs de musique tzigane et où le château utopique de Moulinsart offre une étonnante unité de lieu. Les Tziganes sont accueillis dans le domaine, car ils ne sont pas « tous des voleurs », comme l’affirment stupidement les Dupont-Dupond.

L’esprit européen d’Hergé réside dans le mélange de fascination du savoir et de culte des vertus chevaleresques. Il faut y ajouter l’ouverture à l’Autre, malgré les bavures de la période d’occupation nazie. Car une question mérite d’être posée : le malencontreux financier juif de L’Étoile mystérieuse pèse-t-il si lourd au point de contrebalancer à lui seul la défense des Peaux-Rouges chassés de leur territoire pétrolifère, le secours porté au tireur de pousse-pousse chinois, au petit Zorrino et aux Noirs esclaves de Coke en Stock, la nuance admirative qui accompagne le commentaire de Tintin devant le seppuku du « rude coquin » Mitsuhirato, le plaidoyer pour les « gens du voyage » et leurs violons nostalgiques ?

Si nous sommes avec Benoît Peeters d’« éternels fils de Tintin », c’est parce que nous sommes des Européens capables de nous laisser bercer par des chants tziganes montant des clairières proches de Moulinsart et de toutes les forêts abritant nos châteaux de rêve.

Notes

1 : Benoît Peeters, Hergé. fils de Tintin, Paris, Flammarion, collection « Grandes Biographies », 2002, p. 26.

2 : Michel Gauquelin (1920-1991), Le Dossier des influences cosmiques, Éditions J’ai lu, 1973, et Les Personnalités planétaires, Guy Trédaniel Éditeur, 1975.

3 : Benoît Peeters, op. cit., p. 199.

4 : Jacques Fontaine, Hergé chez les initiés, Dervy-Livres, 2001.

5 : Le parallélisme entre Hergé et l’Écossais Robert Louis Stevenson (1850-1894) est remarquablement étudié par Pierre-Louis Augereau dans son Tintin au pays des tarots, Le Coudray-Maconard, Éditions Cheminements, 1999.

6 : Benoît Peeters, op. cit. Van Melkebeke est cité une quarantaine de fois, du début (p. 36) à la fin (p. 439) de l’ouvrage.

7 : Pudeur et modestie sont aussi des traits « saturniens » selon les statistiques astrologiques de Gauquelin.

8 : Sur la spiritualité d’Alain-Fournier, cf. Lettre inédite d’Isabelle Rivière (sœur du romancier) à Mademoiselle Renée Bauwin (étudiante à l’Institut des Sœurs de Notre-Dame de Namur), 22 janvier 1962.

9 : Raymond Trousson, Voyages aux pays de nulle part. Histoire littéraire de la pensée utopique, Éditions de l’Université Libre de Bruxelles, 1999.

10 : On peut la rapprocher de la « Maison de Salomon » de Francis Bacon (Nova Atlantis), qui inspira la Royal Society anglaise.

Texte paru précédemment dans Europe-Maxima

Le 3 mars 2003 correspondait au vingtième anniversaire de la mort d’Hergé. 2007 verra le centenaire de sa naissance. Opportun est le moment de retracer l’itinéraire du créateur de Tintin.

vendredi, 22 octobre 2010

Céline et les châtaignes grillées

Céline et les châtaignes grillées
 
...Que faisait Céline un certain soir d’octobre 1933 ? Il dégustait des châtaignes grillées en compagnie de confrères écrivains tels Pierre Mac Orlan, André Thérive, André Salmon, Léon Frapié ou Lucien Descaves. Une fois encore, c’est grâce aux patientes recherches (parallèles) d’Henri Thyssens et de Gaël Richard ¹ dans la presse française de l’époque que la biographie célinienne s’est enrichie de ce détail pittoresque.
C’est l’hebdomadaire satirique Bec et Ongles qui, le 21 octobre, relate ce fait sans en donner malheureusement la date. Cela se passe à la Brasserie Courbet, porte d’Orléans, à l’initiative du peintre Auguste Clergé (1891-1963) qui, l’année précédente, avait créé avec quelques autres artistes, le premier Salon populiste. Voici ce qu’écrit l’échotier sous le titre « Vernissage au Gaillac » :
« Un vernissage qui dure jusqu’à quatre heures du matin est un vernissage qui compte. Il est vrai que les invités, réunis autour d’un tonneau de vin de Gaillac, n’avaient pas besoin de ce qu’il y avait au mur pour prendre du bon temps. Il y avait à boire, il y avait à manger aussi. On était nourri ; châtaignes grillées à discrétion… La châtaigne donne soif, on buvait du Gaillac, le Gaillac donne faim, on mangeait des châtaignes. Ceci explique pourquoi on était encore là à quatre heures du matin.
Mais tout le monde n’était pas venu uniquement pour boire et manger.
Il s’agissait d’une exposition d’un genre très nouveau, dont l’initiative revenait au peintre Clergé. Des écrivains, et non des moindres, MM. Georges de Boutelier, Céline, Mac Orlan, Thérive, Salmon, Marcel Belger, Lucien Descaves, avaient calligraphié une page d’un de leurs livres sur une grande feuille de papier et des peintres avaient illustré ces textes au gré de leur fantaisie.
Cela s’appelait, on ne sait trop pourquoi, le Salon Populiste ². »
Dans un autre article, « Le Salon Populiste sous le signe des châtaignes », Charles Fegdal confirme la présence de l’écrivain : « J’aperçois, parmi la foule, M. Céline, très entouré, très pressé – il ne restera pas jusqu’au bout de la nuit ». Ce journaliste mentionne également le titre figurant sur le carton d’invitation (« Vernissage aux vieux vins et châtaignes grillées »), mais sans préciser, lui non plus, la date de cette manifestation ³. Tout au plus sait-on qu’elle eut lieu la deuxième ou, plus vraisemblablement, troisième semaine d’octobre 1933.
Commentaire de Henri Thyssens : « Voilà donc une manifestation assez inattendue à laquelle a participé Céline, grand auteur à la mode en 1933, mais qui n’est pas attestée ailleurs. Il serait curieux de retrouver, si elle a existé, cette grande feuille du papier Canson où Céline aurait calligraphié un extrait du Voyage, qu’un peintre inconnu aurait aquarellée… ».
Ce mois d’octobre 1933 est aussi celui où il prononce à Médan son « Hommage à Zola » à l’invitation de Lucien Descaves. Durant cette année 1933, suite à la parution du Voyage, il s’avère que Céline participa un peu à la vie littéraire, ou du moins ne déclina pas certaines invitations 4, comme il le fit généralement par la suite.

Marc LAUDELOUT

1. Tous deux effectuent des recherches à partir des collections numérisées de journaux disponibles sur le site internet de la Bibliothèque Nationale de France. Voir la « Chronologie biographique » sur le site de Henri Thyssens, « Robert Denoël, éditeur » [www.thyssens.com] et Gaël Richard, « Céline dans Bec et ongles (1933) » in L’Année Céline 2008, pp. 124-130.
2. ***, « Vernissage au Gaillac », Bec et ongles, n° 89, 21 octobre 1933.
3. Charles Fegdal, « Le Salon Populiste sous le signe des châtaignes », Une semaine à Paris, n° 596, 20-26 octobre 1933.
4. Notamment celle de Daniel Halévy, le 22 février 1933. Au cours de cette réception, il rencontre Lucien Daudet, Georges Bernanos, Robert Vallery-Radot et Robert de Saint-Jean qui s’en fait l’écho dans son journal.


 

lundi, 18 octobre 2010

Henry de Monfreid

Henry De Monfreid, il fascista che ispirò Hergé e Pratt finalmente pubblicato in Italia 

di Massimo Carletti
 
 
Dal Secolo d'Italia di giovedì 23 settembre 2010
 
 
Monfreid%20Pa.jpgDi Henry De Monfreid in Italia si sa poco o niente e sono scarse le traduzioni, disponibili tra l'altro solo da qualche anno. «L'ultimo vero filibustiere della letteratura europea» lo ha invece definito Stenio Solinas. «Ho avuto una ricca, irrequieta e magnifica» dichiarò lo scrittore alcuni giorni prima di morire all'età di 95 anni nel 1974. Prima che autore fu uomo di mare e d'avventure e iniziò a scrivere passati i cinquant'anni. Una seconda vita la sua, quella da scrittore. Anzi la terza. Perchè quando nasce, a La Franqui-Leucate (Aude), sulla costa mediterranea il 14 novembre 1879, c'è solo il mare a presagire che tipo di vita sceglierà.  
È figlio di George-Daniel de Monfreid e di Amèlie Bertrand. Il padre è un pittore-incisore, amico e rappresentante legale di Paul Gauguin. C'è da dire che se il destino è anche nei nomi, l'Henry è segnato nel suo come pochi altri. Il cognome "De Monfreid" è il nome d'arte scelto dalla nonna, Marguerite Barrière. Sposata, separata e conscia che la carriera di cantante lirica le lasciava poche speranze per il futuro, si fece amante di un ricco gioielliere americano, tale Gideon Reed. Ne rimase incinta e il facoltoso per non correre troppi rischi, le fece avere una nuova identità e poche preoccupazioni, mantenendola a vita.
 
Henry cresce tra le visioni di luoghi esotici nello studio parigino, e il mare di Cap Leucate, dove grazie al padre sarà iniziato alla navigazione a vela. Sono gli anni in cui conosce Victor Segalen, entrato in contatto con il padre in virtù dell'amicizia di quest'ultimo con Paul Gauguin.
Abbandonati gli studi il giovane Henry, dopo esser riuscito a evitare il servizio militare, pensa che è giunto il momento di metter su famiglia, prole compresa. Prende infatti con se Lucie d'Auvergne, ragazza già madre di un bambino al qual deciderà di dare il suo nome. Fa il venditore di caffè porta a porta. Poi torna a Parigi dal padre trovando impiego come lavamacchine e come autista. Nel 1907 e si stabilisce a Fécamp. Nel 1905 aveva avuto intanto il suo primo figlio da Lucien, Marcel. Nel 1908 lascia la ditta Maggi e investe in una fattoria. Poi lascia Lucien e con i due figli si trasferisce dal padre a Saint-Clement, ai piedi dei Pirenei. Vi passa un'intero anno di convalescenza, conoscendo tra l'altro la sua futura seconda moglie Armgart Freudenfeld, figlia dell'amministratore tedesco dell'Alsazia occupata. Riabilitatosi prende consapevolezza che la sua vita ha bisogno di una svolta e la fortuna vuole che un amico gli propone un impiego presso la ditta Guignony in Abissinia. È il 1911, ha 32 anni.
 
Accetta e da Marsiglia s'imbarca sul bastimento Oxus. Subito fraternizzerà con gli arabi. Rompe con la Guignony e assistito dal somalo Abdi che gli sarà sempre fedele ingaggia un equipaggio di dancali e inizia a esplorare il Mar Rosso dedicandosi alla pesca delle perle. Nel 1913 torna in Francia, in agosto sposa la seconda moglie. In ottobre riparte per Gibuti e con un carico d'armi percorre in largo e in lungo il Mar Rosso. Sopravvissuto a una tempesta si converte all'Islam prendendo il nome di Abd el Hai, "schiavo della vita", uno dei 99 nomi di Allah secondo i musulmani. Nel mese di dicembre viene arrestato per traffico d'armi e violazione dei codici doganali. Uscirà di galera tre mesi dopo, nel marzo del 1915. È l'anno in cui soffiano i venti della prima guerra mondiale, e lui si rende utile compiendo alcune missioni di spionaggio contro l'impero ottomano.
 
Nel 1916 chiama la moglie e la figlia a vivere con lui a Obock, dove nasceranno Amélie nel 1921 e Daniel nel 1922. Quello stesso anno trasportando lavoratori ad Aden nello Yemen, forza il blocco inglese, iniziando la sua personale guerra con l'amministrazione britannica. La quale nel 1917 lo dichiara "ospite indesiderato" e nel 1918 lo imprigiona a Berbera. Il suo "status" di collaboratore dei francesi gli vale però la "grazia". Finita la guerra continua i suoi traffici con l'Altair, il nuovo veliero che ha personalmente costruito, e mette a segno un colpo da maestro piazzando 12 tonnellate di hascisc contrabbandate dall'India all'Egitto sotto il naso degli inglesi. Con il ricavato compra una centrale elettrica e un mulino a Dire Dawa, in Etiopia. È il 1923 e a Gibuti arriva la giornalista americana Ida Treat, in viaggio di nozze con il marito Paul Valliant Couturier. Un veliero all'ancora nel porto attrae la loro attenzione: «Un europeo era a poppa. Difficile prenderlo per un somalo, ma non avrei saputo dire se era un arabo. Muscoloso, il suo corpo aveva il colore del tabacco. A testa scoperta, sotto il sole equatoriale, i piedi ben piantati, una fiera al sole. Una barca di somali gli passò vicino e i marinai lo salutarono con un grido ritmato: Addl-el Hai… Abdl-el Hai!». Era De Monfreid e i novelli sposi restano affascinati da quest'uomo che si nutre esclusivamente di thè. La giornalista ne narrerà le gesta, rendendolo una leggenda. Nel frattempo De Monfreid è a sua volta affascinato da quel che succede in Italia. È un estimatore di Mussolini e degli italiani in Etiopia. Nel 1926 incontra il gesuita francese Pierre Teilhard de Chardin, ne diviene amico e lo accompagna durante i suoi scavi archeologici. Due anni dopo accompagna Joseph Kessel in un suo reportage. E anche l'autore di Belle de jour resta affascinato dal personaggio De Monfreid, e parlerà ampiamente del suo caro «vecchio pirata». Ma fa di più, convince De Monfreid che deve raccontare la sua vita. E così De Monfreid passati i cinquant'anni comincia a scrivere e l'anno succesivo, nel '31, pubblica il suo primo libro, I segreti del Mar Rosso. È un successo e la sua fama diviene tale che Hergé lo fa diventare un personaggio delle storie di Tintin.
 
Ne I sigari del faraone appare infatti uno scaltro trafficante d'armi del Mar Rosso che salva Tintin dal mare. Due anni dopo esce Verso le terre ostili d'Etiopia, con critiche feroci a Haile Selassie. Il Negus non gradisce e lo espelle dal paese. Vi rientra però nel '36, con i suoi amici italiani che accompagna in quanto corrispondente di guerra per France Soir. È ora una vera celebrità, in Francia viene invitato alle serate di gala e vi si presenta in smoking e espadrillas, avendo un'odio viscerale per le scarpe. Nella prima metà degli anni Trenta pubblica una quindicina di romanzi e trova anche il tempo, nel '37, d'interpretare stesso nel film tratto dal suo primo libro.
 
Lo scoppio della seconda guerra mondiale lo coglie in Africa. Lui in Etiopia si mette a disposizione degli italiani. Nel '42 gli inglesi lo catturano. Viene rinchiuso con gli italiani in un campo di prigionia in Kenia. Quando nel '45 ne esce si ritira in una capanna alle pendici del Monte Kenia vivendo di caccia, scrivendo e dipingendo. Tornerà in Francia solo nel 1947, stabilindesi a Ingrandes. Lui ama andarsene in giro con un corvo sulla spalla destra. Per hobbies alleva manguste e si esibisce come chansonnier al Vieux Colombier. I suoi libri vengono sempre pubblicati per quella Grasset cui collabora ora anche Hugo Pratt, il futuro papà di Corto Maltese.
 
Pratt disegnerà le copertine dei romanzi di De Monfreid, già conosciuto probabilmente in Africa durante la guerra e ne farà uno dei personaggi nella serie a fumetti Gli Scorpioni del deserto. È plausibile inoltre che la vita e le vicende esotiche di De Monfreid abbiano non poco determinato quelle che saranno le caratteristiche di Corto Maltese. De Monfreid intanto, in quegli stessi anni entra nel dizionario francese e nel 1958, all'età di 79 anni, viene dato per morto quando assieme al figlio Daniel sparisce per dieci giorni nel tentativo di raggiungere le isole Mauritius su di un piccolo cutter. È ormai un arzillo ottantenne, caro amico di Jean Cocteau, il quale assieme ad altri spingerà per farlo eleggere all'Accademia di Francia. Ma non viene accettato per il suo passato "fascista". De Monfreid non ne fa un dramma e ultraottantenne collabora alla realizzazione di una serie di telefilm ispirata ai suoi romanzi. Va ancora in barca e la morte lo coglie solo nel '74 a 95 anni. Ha lasciato oltre 70 scritti e un gran numero di lettere, oltre a quadri e fotografie che raccontano tutta la sua vita. In Francia è una leggenda, mentre qui da noi è misconosciuto nonostante i legami con l'Italia. Solo negli ultimi anni una casa editrice specializzata in opere legate al mare, la Magenes, ha pubblicato i suoi primi due romanzi, I segreti del Mar Rosso (pp. 277, € 14,00) e La crociera dell'hascish (pp. 315, € 14,00).
Esce ora Avventure di mare (pp. 256, € 15,00): sarà un altro piccolo tassello nella conoscenza di un uomo straordinario, che ha attraversato un intero secolo, il più tumultuoso, tutto di corsa e senza mai voltarsi.

dimanche, 17 octobre 2010

Gli incubi solitari di Edgar Allan Poe

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Gli incubi solitari di Edgar Allan Poe

di Silvio Botto

Ex: http://robertoalfattiappetiti.blogspot.com/

Il 7 ottobre del 1849 moriva il maestro del brivido
Articolo di Silvio Botto
 
da Linea Quotidiano del 7 ottobre 2010
 
«Coloro che sognano di giorno sanno molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte», recita un famoso aforisma di Edgar Allan Poe. Un uomo che di sogni, anzi di incubi, se ne intendeva eccome. Morì appena quarantenne il 7 ottobre del 1849, ma nella sua breve carriera di giornalista e scrittore lasciò un segno indelebile nella letteratura non solo anglosassone, ma mondiale. E la sua sconfinata produzione è ancor oggi considerata il punto di partenza per chiunque si sia poi cimentato nei generi narrativi da lui inventati o in qualche modo “anticipati”: il racconto poliziesco, il giallo psicologico e il romanzo gotico e persino la fantascienza.

«Nessuno scrittore del terrore – spiega l'autore e critico Francesco Lamendola - né americano, né europeo, ha potuto evitare di fare i conti con lui, di prendere posizione rispetto alla sua figura gigantesca». Infatti non è un caso che nel corso del Novecento le opere di Edgar Allan Poe siano state letteralmente saccheggiate da altri scrittori, da autori cinematografici (la prima trasposizione sul grande schermo, La caduta della casa Usher, è del 1928, ma ne seguiranno molte altre), da musicisti (Lou Reed, Iron Maiden e Alan Parsons Project), da soggettisti di fumetti e persino dai creatori della serie I Simpson, che hanno dedicato un miniepisodio televisivo al racconto “Il corvo”.
 
Come detto, la morte lo colse a quarant'anni la domenica del 7 ottobre in un ospedale di Baltimora, dove era stato ricoverato quattro giorni prima in preda a uno stato di delirio su cui non è mai stata fatta piena luce. C'è chi dice che sia stato aggredito per strada, ma di sicuro ad accelerarne il decesso contribuirono le pessime condizioni di salute dello scrittore, che già da tempo soffriva di alcolismo. Dopo la scomparsa della giovane moglie Virginia, morta tre anni prima di tubercolosi, la disperazione di Poe era apertamente sfociata nella bottiglia, alla quale si era attaccato come un naufrago alla scialuppa. Del resto fin da ragazzo lo scrittore bostoniano manifestò una salute cagionevole e un sistema nervoso poco equilibrato. «Nella mia infanzia mostrai di avere ereditato questi caratteri di famiglia; discendo da una razza che si è sempre distinta per immaginazione e temperamento facilmente eccitabile…», scrisse di sé.
 
Nell'accrescere questa tendenza alla fantasia e all'emozione ebbe un ruolo fondamentale l'infanzia triste e dolorosa del giovane Edgar, che in tenerissima età perse entrambi i genitori e venne di fatto adottato da John Allan, un ricco mercante di Richmond. Nel 1815 il piccolo orfano si trasferì con gli Allan in Inghilterra dove frequentò le scuole fino al 1820. Anche l'adolescenza non fu particolarmente felice: Edgar prima si invaghì della madre di un compagno di studi, che morì prematuramente, poi compose rime per giovani donne delle quali si era innamorato, a quanto pare, non ricambiato. Conobbe giorni felici solo con una certa Sarah Royster, ma il loro matrimonio fu ostacolato dal padre della fanciulla per vecchi rancori con il signor Allan, padre adottivo di Poe. Edgar litigò con quest'ultimo e venne diseredato, tentò senza successo la carriera militare all'accademia di West Point e infine si dedicò al giornalismo e alla scrittura. Nel 1836 sposò la cugina Virginia Clemm, all'epoca tredicenne.
 
Edgar%20Allan%20Poe.jpgPer Edgar Allan Poe sono gli anni migliori. Ottiene buoni risultati nella sua carriera di giornalista e soprattutto comincia a pubblicare con un certo successo i romanzi e racconti che lo renderanno universalmente famoso. Fra il 1837 e 1838 scrive la “Storia di Arthur Gordon Pym”, un romanzo che secondo il critico Gianfranco De Turris prosegue e riprende un’antica tradizione narrativa (con riferimento ad autori come Coleridge, Swift, Cooper), nella quale sono presenti immagini che si ripetono varie volte: il viaggio per mare, la caduta nell’abisso, le tempeste ed i naufragi che colpiscono i protagonisti, la fame e la pratica del cannibalismo, l’esplorazione di terre sconosciute e il contatto con nuove genti indigene. Tutte queste immagini devono essere considerate anche come elementi di un duro itinerario iniziatico del protagonista che, attraversando l’esperienza del dolore, della morte e della resurrezione, assurge nel finale ad una più sublime e superiore dimensione dell’Essere.
 
Non un semplice romanzo d'avventura, quindi. Così come non sono banali racconti gotici (di horror, si direbbe oggi) quelli che gli daranno fama soprattutto in Europa. «L’inquietudine che caratterizza il mondo di Poe – sostiene ancora Lamendola - esprime il dramma del passaggio dalla società pre-moderna alla piena modernità, caratterizzata dall’eclisse del sacro, dalla mercificazione totale dei rapporti umani, dall’efficientismo e dal produttivismo esasperati, dalla perdita del senso del limite e del mistero». L'uomo ottocentesco di Poe, in questo tipicamente americano, affianca al mondo reale - tecnologico, dinamico e dominato dal progresso capitalista - un universo parallelo popolato di funebri ossessioni: «l’attrazione morbosa per la decadenza e la morte; la sepoltura da vivi e il ritorno dei non-morti; i torturanti sensi di colpa; la vendetta a lungo covata e ferocemente messa in opera; in una parola, il cupio dissolvi, il desiderio di auto-distruzione venato di sado-masochismo e di necrofilia».
 
«Mi hanno chiamato folle – scrive Edgar Allan Poe alludendo a se stesso - ma non è ancora chiaro se la follia sia o meno il grado più elevato dell'intelletto, se la maggior parte di ciò che è glorioso, se tutto ciò che è profondo non nasca da una malattia della mente, da stati di esaltazione della mente a spese dell'intelletto in generale». In uno scenario così segnato dall'inquietudine e dalla disperazione, potrebbe stupire quella che in realtà è l'altra faccia di Poe, cioè la predisposizione alla logica e al ragionamento matematico e persino una certa tendenza alla comicità e alla narrativa satirica. La passione per le sciarade, i rompicapi e l’applicazione pratica di una logica rigorosa di tipo matematico si rivela pienamente nel filone dei racconti polizieschi, particolarmente ne “I delitti della rue Morgue”, “Lo scarabeo d'oro” e “La lettera rubata”. La sua vena satirica, unita a una feroce critica di certa letteratura popolare del suo tempo, si esprime invece in racconti come “L'angelo del bizzarro”, “L'uomo d'affari”, “Come si scrive un articolo alla Blackwood”.
 
Ma la scomparsa prematura della moglie lo getta nello sconforto e cancella per sempre l'aspetto più lieve della sua complessa personalità, accentuandone invece i lati più cupi e lugubri. Come ha scritto il suo biografo Philip Lindsay, «Tormentato nell’anima, cercò non la pace ma l’infelicità, creando a se stesso situazioni disperate, solitudine e desolazione».
 
Silvio Botto

samedi, 16 octobre 2010

Italo Svevo

Italo Svevo, un uomo caduto in piedi, così tanto borghese,così tanto italiano

di Graziella Balestrieri

Fonte: Roberto Alfatti Appetiti (Blog) [scheda fonte]

"Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso". (M.Proust)

 
italosvevo_big.jpgN.S.

In ogni opera di Svevo vidi me stessa.
Non nacqui in una famiglia borghese. Mio padre lavorava tutto il giorno e lo vedevo poco, però aveva l’attenzione giusta e capì subito che i libri mi piacevano e ogni settimana sin da piccolina mi comprava un volume nuovo, che io puntualmente leggevo sottolineavo e poi capivo dopo. A quei tempi, prima del Liceo, in casa c'erano solo libri politici, destra e sinistra, tanto è vero che ebbi una confusione mentale che dura sino ad oggi. Ovvio, mia mamma berlingueriana e mio padre un fascistone. E vabbè, non tutti i mali vengono per nuocere. Leggevo pure quelli, ma non mi entusiasmavano, sì la storia era interessante, ma quel modo di scrivere non mi esaltava. A 17 anni mi accorsi di un libro che stava lì. Una vita, Italo Svevo. 
Non so di preciso cosa mi incuriosì, ma iniziai a leggere e poco tempo dopo in classe capii il perché. Nei temi andavo sempre fuori traccia, è vero, ma perché mi annoiavo e le trovavo stupide, per cui scrivevo quello che mi andava. Dopo aver letto Una Vita, iniziai ancora di più a fare di testa mia, seguivo solo il flusso della mia coscienza, e quando in un tema in classe pensai di aver scritto un qualcosa di magnifico la prof ai colloqui disse a mio padre "Sua figlia scrive in modo strano, mette virgole e punti dove vuole, e cambia le tracce, argomenti interessanti, ma ha qualche problema?". Mio padre disse “bu, legge sempre, se questo è un problema non lo so”. Io sorrisi ed ero pienamente soddisfatta, una prof che io consideravo la quinta essenza della borghesuccia messa lì a insegnare non capiva come scrivevo. Io che la lingua tagliente non l’ho mai riposta, le dissi “si vede che lei non ha mai letto Svevo o Joyce”. Lei non rispose e da allora i miei voti in italiano aumentarono in maniera indescrivibile. Il quinto anno cambiò insegnante, arrivò e quando fu il tempo di “spiegare” Svevo disse testuali parole “Svevo era pazzo, un fissato con la malattia, facciamo poco”. Io andai su tutte le furie e le testuali mie parole non credo di ricordarle, ma la prof diceva di non agitarmi e disse “se ti piace tanto spiegalo tu”. Io mi alzai e spiegai, ma questo episodio lo legai al dito. Agli esami di stato, quando lei voleva farsi bella con me su Svevo dinnanzi alla commissione esterna, mi alzai con la sedia e passai a Filosofia. Un libro non ti cambia la vita, ma te la stravolge. Una vita fu per me, e poi più tardi La coscienza di Zeno, una catastrofe positiva che avrebbe fatto di Svevo un mio “padre letterario”.
Per la prima volta mi trovavo davanti a due vocaboli che mi giravano intorno, ma che non sapevo definire: inetto e borghese. Iniziare a guardare le cose di “sbieco”….la vita, prenderla di sbieco. Così dove tutti guardavano dritto per dritto iniziai ad inclinare la testa, per avere una prospettiva diversa. I personaggi, a me cari, da Alfonso Nitti a Zeno Cosini avevano tutti un filo conduttore: non nasci borghese ma qualcuno ti costringe a diventarlo, ma una soluzione esiste: l’ironia. In Italia non è stato molto amato, capirai il piccolo borghese qui domina e la fa da padrone. Vivere: un impiego statale, una famiglia, i figli, i pranzi con i parenti. L’amante. Tutto regolare. Troppo regolare. Così Svevo che poi è in Una Vita e ancor di più in Zeno Cosini e Senilità si ritrovava ai tempi a vivere in maniera parallela la “malattia” della scrittura e la “salute” dell’impiegato di banca con la famigliola perfetta. La differenza tra salute e malattia. Cosa è sano, cosa è malato?

L’inetto sveviano si trova in un mondo che non ha voluto, costretto a vivere “una vita” che non è la sua ma è quella che gli altri vorrebbero che fosse. Matrimoni per convenienza, bei vestiti, un’amante. Un torpore borghese che uccide ogni apertura mentale. Così in Svevo la malattia è la cosa più “sana”, quella che può sconfiggere la salute borghese. La rinuncia a essere sani nei suoi racconti è l’unico modo di affrontare il buio: “Si trovava, credeva, molto vicino allo stato ideale sognato nelle sue letture stato di rinunzia e quiete. Non aveva più neppure l’agitazione che gli dava lo sforzo di dover rifiutare. Non gli veniva offerto più nulla; con la sua ultima rinunzia egli s’era salvato, per sempre , credeva, da ogni bassezza a cui avrebbe potuto trascinarlo il desiderio di godere”(Una vita).

Ettore Schimtz , il vero nome dell’austro-italiano Italo, nasce a Trieste nel 1861, quando l’Italia diventa Italia. Per quanto mi riguarda, nonostante ai licei la vita degli scrittori si riduce al “nasce, vive muore e queste sono le opere”, la cosa importante che viene tralasciata è: il vissuto, l’ambiente che lo ha portato a scrivere. Ed è fondamentale in Svevo perché per seguire quel flusso di coscienza che Proust ritrova nel passato, Joyce ritroverà e perderà nel raccontare le mille vicissitudini della sua terra, nonostante l’esilio volontario, nel raccontare il proprio vivere si riesce a capire se stessi e a scavare nell’animo della gente che ti circonda. Non venne mai considerato un esteta della scrittura, alcuni addirittura arrivarono a dire "che non sapeva scrivere", un dilettante. Ma Svevo per uscire dai canoni della perfezione dell’ideologia naturalista in un qualche modo ha dovuto cercare la via migliore per raccontare e capire se stesso: la normalità. Scrivere in maniera normale, come farebbe una persona normale. Non fu mai “un esaltato” della vita al pari di D’Annunzio, nemmeno alla ricerca della bellezza, non ha mai voluto trovare altro che il significato stesso della vita. E come si fa a trovare l’essenza della vita se non si ricerca prima il proprio essere?

svevocouv.jpgCosì, nel sembrare un pessimista di natura, cerca nei suoi personaggi la chiave per descrivere l’uomo che cade in piedi. Che non è semplice, perché se cadi il segno di un livido ti rimane, cadendo e rimanendo in piedi il dolore lo senti solo dentro. Non è fisico, è solo mentale. Alfonso Nitti, bancario che lascia la mamma e si ritrova in una città che non sembra appartenergli, a cui non vuole appartenere, il personaggio di Una vita ricalca l’archetipo del debole, di colui che si arrende all’amore perché non è amato dalla donna che vorrebbe, che si arrende alla perfezione e alla cura estetica del collega che lo snerva nel suo essere borghese e arrivista, si arrende alla distanza inevitabile del suo capo, il Maller. Solo la morte per quanto crudele e distante, riuscirà ad avvicinarlo alla perfezione della vita, ma questo nemmeno servirà ad sentire più vicini quelli che lui considerava mal volentieri “colleghi”."La Banca Maller, in puro stile burocratico, annuncia un funerale che avviene con l’intervento dei colleghi e della direzione" (Una vita). Alfonso, che si dà colpe non sue, scriverà alla mamma: “Non credere, mamma, che qui si stia tanto male; sono io che ci sto male”. Non faceva nulla e quel nulla lo portava ad avere un’inerzia totale dinnanzi alle cose. Non era stanco, era solo annoiato. Tutti i giorni lì su quella sedia, tutti i giorni a subire e non capire, tutti i giorni un pezzo di vita che si vedeva portar via, ma la cosa assurda è che mentre gli altri “sembravano” contenti di vivere così, Alfonso era contento di non vivere. Avrà ragione Joyce a dire che nella penna di un uomo c’è un solo romanzo e che quando se ne scrivono diversi si tratta sempre del medesimo più o meno trasformato. Così da Una Vita si passa alla Coscienza di Zeno, che nel 1924 Svevo spedisce al suo ormai amico Joyce, trasferitosi a Trieste e suo professore di inglese che Livia Veneziani Svevo descriverà così: “Fra il maestro, oltremodo irregolare, ma d’altissimo ingegno e lo scolaro d’eccezione le lezioni si svolgevano con un andamento fuori dal comune”. Joyce, entusiasta del suo “allievo”, fa conoscere il manoscritto in Francia dove verrà pubblicato. In Italia sarà per merito di Eugenio Montale, sulle pagine della rivista L’Esame, che Svevo riuscirà ad avere la prima notorietà. Zeno Cosini che cerca di guarire da una malattia non ancora ben definita ed inizia il percorso psicoanalitico presso il Dottor S. Dottore che, per quanto poco si sforzi di capire il problema, non riuscirà a farlo e nel momento dell’abbandono della terapia da parte di Zeno si vendicherà pubblicando le memorie del suo paziente con la speranza che questo gli procuri dolore. Ma Zeno, che è più impegnato ad amare la sua sigaretta non farà altro che ridere e deridere il suo analista.

Come poteva credere di guarirlo se la cura consisteva nel dovergli togliere l’unica cosa che lo faceva stare bene: la scrittura. Zeno sapeva benissimo che ciò che lui imputava al fumo, "il veleno che mi scorre nelle vene, questo mi procura nevrosi", non era la causa principale del suo malessere. Un mondo popolato da borghesi, alla ricerca del vivere bene, della salute, di tutto ciò che deve apparire, di tutto ciò che è importante per gli altri. Mai qualcuno a chiedersi se quello che vedi è quello che senti, mai nessuno a chiedere se quello che vivi ti appartiene. Zeno sposerà Augusta, brutta ma dolcissima, sorella di Ada di cui lui era innamorato ma che preferì il borghese e mondano Guido. Così dopo la delusione si autoconvincerà che Augusta è la donna della sua vita. Non più gli altri che ti convincono. Lo spazio vitale è talmente ristretto che ti autoconvinci. Non starò qui a elencare e descrivere pezzo per pezzo i capitoli della Coscienza di Zeno. Solo il fumo. Si iniziai a fumare per colpa di Zeno. Non riuscivo a capire perché quel modo ossessivo di parlare di un qualcosa che io avevo sempre cercato di evitare a mio padre. Iniziai a fumare Davidoff, marca tedesca, perché Zeno iniziò con quelle di marca tedesca.

svevosenil.jpgStupida come cosa, ma immediatamente riuscii a capire il veleno che ti attraversa le vene, riuscii a capire quanto sia debole un uomo dinnanzi ad un vizio, che non ti serve, che non è utile, che è dannoso, ma diventa vitale. E più di tutto mi impressionò in Zeno il tentativo di voler smettere e la volontà certa di non farlo mai. Il medico della casa di cura dove venne “rinchiuso” per smettere di fumare gli dice:"Non capisco perché lei, invece di cessare di fumare, non si sia piuttosto risolto di diminuire il numero delle sigarette che fuma". Il non averci mai pensato di Zeno risulta l’immagine migliore del romanzo, il dolore che vivi dallo stacco brutale da un qualcosa a cui sei morbosamente legato ti ripaga dell’amore per cui morbosamente sei legato a quella cosa. Così o si rinuncia in maniera totale o non si rinuncia. Così Zeno passerà ogni sera ad annotare una U.S, un’ultima sigaretta mai spenta.

La morte del padre, che avrà la forza di dare un ultimo schiaffo al figlio, agli occhi di Zeno risulta non minaccioso e imperioso, solo un ultimo gesto per rimanere attaccato alla vita. In fondo lo schiaffo sarebbe stato solo la continuazione del loro rapporto. L’incomprensione non avrebbe avuto vita in una carezza. Sposando Augusta, Zeno non aveva scelto, era uno che si lasciava scegliere. Le alternative erano poche. Così un’amante che non dà problemi ricalca perfettamente lo stile borghese. La famiglia perfetta e il marito con l’amante. Capitolo a parte è Senilità, che fu un insuccesso per l’ormai famoso Svevo. Emilio Brentani e Amalia, sua sorella, sono l’immagine della sconfitta e a loro fanno da contraltare Stefano Balli, rude e senza coscienza, e Angiolina, che secondo Svevo vive in un eccesso di illusioni. Emilio perderà letteralmente la testa per Angiolina, convinto dall’inizio che ella sarà solo un giocattolo che poi lui non sarà più in grado di far funzionare. Più aumenta la passione, più svanisce ogni cosa. Senilità è il romanzo della distruzione, dell’uomo che conosce il passaggio del piacere piccolo borghese e si avvicina alle idee proletarie. In tutto questo va detto che il romanzo è molto più fluido e ben scritto rispetto agli altri, ma forse per questo è distruttivo, descrive un piccolo borghese Emilio che ha vissuto in maniera mediocre e riesce a vivere il romanzo che non saprà scrivere mai. Scrivere è una cosa, l’aver vissuto è un’altra. Così lo stesso Svevo scriverà: "Io a quest’ora e definitivamente ho eliminato dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura". L’immagine che ho sempre avuto attraverso gli occhi di Svevo è come dire: provate a immaginare un uomo che cammina lentamente in mezzo al traffico, la gente corre, spintona, cade, si rialza, fa finta di niente, se ti osservano è solo per un motivo, per vedere quello che indossi, se cercano conversazione è solo per sapere i fatti tuoi. Così chi non corre passa in mezzo alle macchine e tutti a suonare con i clacson. "Spostati idiota, qui si corre". Ho sempre pensato che i romanzi di Svevo fossero quel momento in cui tu ti fermi, ma non perché gli altri lo vogliono. Lo decidi tu e se sai fermarti bene, se trovi la chiave, l’ironia, fai si che le macchine degli altri vadano a sbattere una contro l’altra e tu rimani lì: con il sogghigno arguto, con la testa inclinata, a guardare la vita di sbieco. Se cammini correndo, non osservi. Se rimani fermo lo fai. L’inetto sveviano non subisce alla fine, sceglie di subire: è diverso. Non sarà stato uno scrittore eccelso, banale a tratti, ma è stato l’unico a saper descrivere il flusso della vita nell’uomo: esiste qualcosa di più banale e complicato dell’uomo?
Svevo riuscì a descrivere l’epica della grigia casualità della nostra vita di tutti i giorni”(Eugenio Montale)

N.S

 

 


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

vendredi, 08 octobre 2010

Olivier Bardolle - Petit traité des vertus réactionnaires

 

 

Vient de paraître chez L'Editeur, ce Petit traité des vertus réactionnaires d'Olivier Bardolle, que nous vous conseillons.

Présentation de l'éditeur
En Occident, depuis près d'un demi-siècle, les idées progressistes tiennent le haut du pavé. Il semblerait pourtant que l'on redécouvre aujourd'hui certaines vertus à la pensée réactionnaire. Ne serait-ce qu'une capacité de résistance certaine aux ravages de l'hypermodernité et aux bienfaits immodérés de la pensée unique. Sans tomber dans le manichéisme propre à l'époque, ce petit traité, particulièrement tonique, dénonce les fausses valeurs avec jubilation et poussera chacun, qu'il se prétende de droite ou de gauche, à réviser son catéchisme idéologique. C'est ainsi qu'Eric Naulleau, réputé de gauche, n'a pas hésité à préfacer ce texte en toute indépendance d'esprit. A lire sans modération

L'auteur
Olivier Bardolle, né en 1952, est un essayiste reconnu et un interlocuteur recherché (on l'a vu plusieurs fois dans l'émission de Frédéric Taddeï, Ce soir ou jamais). Du Monologue implacable (Ramsay, 2003) à De la prolifération des homoncules sur le devenir de l'espèce (L'Esprit des Péninsules, 2008) ou à ce Petit traité des vertus réactionnaires, Olivier Bardolle tisse, dans la lignée de Philippe Muray (à qui ce dernier ouvrage est dédié), le portrait de l'hypermodernité avec sagacité, ironie, mordant et, ce qui n est pas encore interdit : érudition. Chacun de ses essais épingle la bien-pensance et les idées toutes faites de ses chers contemporains.

Olivier Bardolle, Petit traité des vertus réactionnaires, L'Editeur, 2010.
Commande possible sur Amazon.fr.

 

Ernst Jüngers Lieblingspsalm

Ernst Jüngers Lieblingspsalm

Von Georg Oblinger

Ex: http://www.jungefreiheit.de/

junger2.jpgDer 26. September 1996 war ein bedeutender Tag – auch wenn dies die Öffentlichkeit erst mehr als ein Jahr später erfahren sollte. An diesem Tag wurde Ernst Jünger in die katholische Kirche aufgenommen. Beim Gottesdienst zu diesem Anlaß wurde nach Jüngers Wunsch der Psalm 73 gebetet, in dem er die oft verschlungenen Pfade seines Lebens widergespiegelt sah:

„Lauter Güte ist Gott für Israel, für alle Menschen mit reinem Herzen. Ich aber – fast wären meine Füße gestrauchelt, beinahe wäre ich gefallen. Denn ich habe mich über die Prahler ereifert, als ich sah, daß es diesen Frevlern so gut ging. Sie leiden ja keine Qualen, ihr Leib ist gesund und wohlgenährt. (…) Sie sehen kaum aus den Augen vor Fett, ihr Herz läuft über von bösen Plänen (…) Sie reißen ihr Maul bis zum Himmel auf und lassen auf Erden ihrer Zunge freien Lauf. Darum wendet sich das Volk ihnen zu und schlürft ihre Worte in vollen Zügen. (…) Also hielt ich umsonst mein Herz rein und wusch meine Hände in Unschuld.

Und doch war ich alle Tage geplagt und wurde jeden Morgen gezüchtigt. Mein Herz war verbittert, mir bohrte der Schmerz in den Nieren. (…) Da sann ich nach, um das zu begreifen; es war eine Qual für mich, bis ich dann eintrat ins Heiligtum Gottes und begriff, wie sie enden. (…) Sie werden plötzlich zunichte, werden dahingerafft und nehmen ein schreckliches Ende. (…) Ich aber – Gott nahe zu sein ist mein Glück. Ich setze auf Gott, den Herrn, mein Vertrauen. Ich will all deine Taten verkünden.“

„Sie reißen ihr Maul bis zum Himmel auf“

Jünger konnte diesen Bibeltext auf seine lange religiöse Suche beziehen. Die Nationalsozialisten haben oftmals versucht, ihn für ihre Ideologie zu gewinnen und so wäre Jünger beinahe gestrauchelt. Doch Jünger erkannte ihre „bösen Pläne“ immer deutlicher, was schließlich 1933 zu seinem Ausschluss aus der Dichterakademie führte.

Wer vor dem Hintergrund der Biographie Ernst Jüngers den Psalm 73 liest, sieht vor seinem geistigen Auge Hermann Göring und Joseph Goebbels, wenn die Frevler beschrieben werden „sie sehen kaum aus ihren Augen vor Fett“ und „sie reißen ihr Maul bis zum Himmel auf.“

Wenn im Psalm von der Verbitterung des Herzens die Rede ist, denkt der Jünger-Freund unwillkürlich an die letzten Kriegsjahre in Paris, wo Jünger die „Pariser Tagebücher“ verfaßte, die später in seine „Strahlungen“ aufgenommen wurden.

Das Unsichtbare läßt sich für Jünger nur in Gleichnissen fassen

Doch der Psalm endet mit der Hinwendung zu Gott – ganz so wie das lange Leben Ernst Jüngers selbst. In seinem Alterswerk „Die Schere“ schreibt Jünger von der „Welt, die außerhalb unserer Erfahrung liegt.“ Er unterscheidet „zwischen dem Sichtbaren, dem Unsichtbaren und dem Nicht-Vorhandenen.“ Dieses Unsichtbare läßt sich für Jünger nur in Gleichnissen fassen.

Daher schreibt er „Gott“ immer in Anführungszeichen. Seine Begründung: „Die Wirklichkeit des Göttlichen ist für mich unleugbar, aber sie ist auch schwer zu definieren und zu benennen.“ Wie seine Konversion zeigt, war er allerdings der Meinung, daß der katholische Glaube der unfassbaren göttlichen Wahrheit wohl am nächsten kommt.

jeudi, 07 octobre 2010

Céline et L'Oréal

Céline et L’Oréal

Ex: http://lepetitcelinien.blogspot.com/ 

 

Il a beaucoup été question, cet été, de l’affaire Bettancourt. Elle oppose, comme on sait, Liliane Bettencourt à sa fille, avec en outre des interférences avec le gouvernement français. Quel rapport avec Céline ? Le 17 février 1942, dans une lettre à Lucien Combelle, il eut des mots très vifs à l’égard du père de Liliane, Eugène Schueller (1881-1957) : « Votre Shoeller [sic] avec toutes ses pitreries me semble bien youtre. Il ne parle jamais des juifs dans ses livres. Il paraît que son conseil d’administration recèle de forts puissants youtres, anglais et américains. » C’est que deux jours auparavant, dans son journal Révolution nationale, Combelle avait publié un grand article d’Eugène Schueller sur « Le salaire proportionnel ». Dans une société libérée du capitalisme libéral et des syndicats, qu’il appelait de ses vœux, les ouvriers eussent touché un triple salaire : un salaire d’activité, un salaire familial calculé en fonction de leur nombre d’enfants, et un salaire de productivité. Schueller avait déjà traité ce thème dans son livre, La Révolution de l’économie, paru l’année précédente et que l’auteur des Beaux draps avait certainement lu. Si Céline se méfiait de Schueller, c’est parce qu’il participait à la direction du RNP de Marcel Déat. Lequel était également suspect aux yeux de Céline en raison de ses liens avec la franc-maçonnerie et de son appartenance au monde parlementaire de la IIIe République que l’écrivain n’avait guère en haute estime. Coïncidence : en exil, Céline sympathisera avec le représentant de L’Oréal au Danemark, Georges Sales, et sa jeune épouse. « Ma compatriote, la petite bretonne... » dira d’elle Céline (1).
Qui était Eugène Schueller ? Ce chimiste génial mit au point les premières teintures capillaires de synthèse puis créa en 1909 la Société française de teintures inoffensives pour cheveux, futur L’Oréal. Devenu riche, le père de Liliane Bettencourt finança la fameuse Cagoule dans les années trente. C’est après la victoire du Front populaire que Schueller s’intéressa au mouvement nationaliste et devint l’intime d’Eugène Deloncle, l’un des chefs cagoulards. Avec ce dernier, Jean Fontenoy et Jacques Dursort, il fonda en octobre 1940 le Mouvement Social-Révolutionnaire (MSR) qui fit long feu. Les réunions de la direction du MSR se tenaient au siège de L’Oréal (14, rue Royale à Paris) (2). L’année suivante, il devint le président de la Commission des Affaires Économiques du RNP. Après la guerre, nombreux seront ceux qui, soit épurés, soit ayant appartenu au mouvement cagoulard, se verront embauchés chez L’Oréal. Dont Pierre Monnier qui fit toute sa carrière dans ce groupe à partir des années 50. À propos de Schueller, Céline, qui l’avait rencontré avant guerre chez Denoël, lui dira : « Il était aussi intelligent et intuitif que vous le dites, et bien entendu paranoïaque !... ». À l’Oréal, Monnier eut comme patron François Dalle (1918-2005) auquel l’homme d’affaires Jean Frydman reprocha publiquement – mais en 1995 seulement – d’avoir fait de l’entreprise un refuge d’anciens cagoulards et de collaborateurs.
André Bettencourt (1919-2007) ne fut pas davantage exempt de reproches. On lui fit grief des articles parus dans La Terre française (dont il assurait la direction) qui soutenaient activement la Révolution Nationale. Et qui étaient parfois franchement antisémites. Ensuite, l’histoire de L’Oréal est intimement liée à celle de la IVe et de la Ve République. Si Bettencourt fut plusieurs fois ministre, ce fut aussi le cas de son ami de jeunesse (qui témoigna à la Libération en faveur d’Eugène Schueller) : un certain François Mitterrand, beau-frère d’une nièce de Deloncle. Et l’on sait qu’il dirigea pendant deux ans Votre beauté, mensuel du groupe L’Oréal. On imagine les commentaires sarcastiques que toute cette histoire inspirerait aujourd’hui à Céline !

Marc LAUDELOUT

1. Pierre Monnier, Ferdinand furieux, L’Age d’homme, 1979, p. 14.
2. Schueller faisait partie du Comité exécutif du MSR, présidait et dirigeait « toutes les Commissions techniques et Comités d’études » du mouvement (Révolution Nationale, n° 3, 26 octobre 1941).
Pour plus de détails, voir l’article de Bruno Abescat, « Les secrets de la première fortune de France », L’Express, 30 novembre 2000 (disponible sur http://www.lexpress.fr).

mercredi, 06 octobre 2010

Dichtersoldat und Künder neuen Lebens

Archives - 2003

 

Dichtersoldat und Künder neuen Lebens

Vor 65 Jahren starb der aristokratische Nationalist Gabriele D’Annunzio

 

d'annunzio_3.jpgDas 20. Jahrhundert bot geistigen Abenteurern Entfaltungsmöglichkeiten, von denen wir Heutige angesichts einer »verwalteten Welt« nur träumen können. Eine dieser abenteuerlichen Biographien des letzten Jahrhunderts hatte der italienische Dichter, Krieger und Nationalist Gabriele D’Annunzio (1863–1938). Beeinflußt von der Lebensphilosophie Friedrich Nietzsches, eroberte er nach Ende des Ersten Weltkriegs handstreichartig die Adriastadt Fiume und errichtete eine nationalistische Herrschaft des totalen Lebens.

Seit dem 18. Januar 1919 tagte die Pariser Friedenskonferenz unter dem Vorsitz des französischen Deutschenhassers Clemenceau und beriet über das Schicksal der Mittelmächte. Als die Sieger des Weltkrieges am 28. Juni 1919 unter der Drohung einer vollständigen militärischen Besetzung des Reiches und der Aufrechterhaltung der Hungerblockade die deutsche Unterzeichnung des Versailler Vertrages erzwangen, war die Empörung des gedemütigten deutschen Volkes über alle Parteigrenzen hinweg groß. Mit eiserner Hand zeichneten die Mitglieder des »Rates der Vier« völlig willkürlich eine neue Staatenkarte Nachkriegseuropas, die die Volkstumsgrenzen vielfach mißachtete. So sprach man Italien, das im Mai 1915 Österreich den Krieg erklärt hatte, völkerrechtswidrig den Süden Tirols zu.

Obwohl der italienische Regierungschef Orlando dem Vierer-Gremium der Sieger angehörte und eine reiche Kriegsbeute zulasten Deutsch-Österreichs aushandelte, fühlte man sich in Italien um den gerechten Lohn des Krieges betrogen. Der Tradition des sogenannten Irredentismus folgend, der italienische »Heimaterde« an das Mutterland anzuschließen gedachte, warf man auch begehrliche Blicke auf die gegenüberliegende Adriaküste.

So entbrannte zwischen Italien und dem künstlich geschaffenen Königreich der Serben, Kroaten und Slowenen 1919 ein politischer Streit um die in der Nähe Triests liegende Grenz- und Hafenstadt Fiume, das heutige Rijeka. In den Versailler Verhandlungsrunden beschloß man die Entsendung einer alliierten Truppe in die strittige und gemischt-ethnische Stadt. Nun sollte die geschichtliche Stunde des Gabriele D’Annunzio schlagen.

An der Spitze mehrerer hundert Soldaten der italienischen Sturmtruppen, der Arditi, rückte der weltbekannte Dichter und italienische Kriegsheld widerstandslos in die Adriastadt ein. In seiner ersten Rede verkündete er »die Heimkehr Fiumes, das in der tollen und niedrigen Welt der Verworfenheit die einzige Wahrheit, die einzige Liebe, das strahlende Flammenzeichen des italienischen Widerstandes ist.«

Was sich in den nächsten fünfzehn Monaten in dieser Stadt des nietzscheanischen Lebens abspielte, kann politische Romantiker und revolutionäre Enthusiasten noch heute in Begeisterung versetzen. Es war ein die Sinne betörender Reigen aus nationalistischen Reden und Festen, aus Liebe, Rausch und Gesang, aus klirrenden Waffen, wehenden Fahnen und schwarzen Uniformen. In einem Brief fing D’Annunzio diese wohl einmalige Atmosphäre ein: »Gestern abend habe ich eine große Rede gehalten, mitten im brennenden Delirium. Du kannst dir dieses merkwürdige Leben in Fiume nicht vorstellen, wir verbringen die Nächte mit coup de mains, wie Diebe und Piraten.«

 

Antibürgerliches Traumreich

 

Die gewöhnlichen Gesetze der Politik waren außer Kraft gesetzt; das Leben spielte sich in einem Traumreich ab. Der Historiker Ernst Nolte bemerkte dazu: »All das war sehr viel mehr als das gigantische Theater eines genialen Regisseurs. Es waren nicht zuletzt englische Gäste, die vom Charme des Kommandanten bezaubert und von dem staatlichen Gegenbild zur alltäglichen Nüchternheit der bürgerlichen Gesellschaft hingerissen waren.«

Neben D’Annunzio prägten vor allem die schwarzuniformierten italienischen Elitesoldaten, die Arditi, das Leben der Stadt. Im Weltkrieg für die gefährlichsten Unternehmen eingesetzt, lebten sie die Nietzsche-Forderung: Lebe gefährlich! Stirb stolz! Ihr Lied, die »Giovinezza«, wurde später die Hymne des italienischen Faschismus; ihr weißer Totenkopf auf schwarzem Hemd symbolisierte die Macht über Leben und Tod. Mit kurzen, glühenden Worten schrieb D’Annunzio:

»Bei den Arditi. Gegen Abend. Das wahre Feuer. Die Rede, die gierigen Gesichter – Die Rasse aus Flammen. Die Chöre – die offenen, klangvollen Lippen – Die Blumen, der Lorbeer. Der Ausgang. Die Dolche nackt in der Faust. Eine ,Grandezza‘, die ganz römisch ist. Alle Dolche hoch. Die Rufe. Der begeisterte Lauf der Kohorte. Das Fleisch auf Holzglut gebraten. Die auflodernde Flamme brennt im Gesicht – Das Delirium des Mutes. Rom: das Ziel!«

Der dichtende Volkstribun schmetterte vom Balkon des Gouverneurspalastes seine mitreißenden Reden und versetzte die Menge in Zustände der Ekstase. D’Annunzio feierte sich, die Jugend, das Leben und das Vaterland. Wenn der »Comandante« die Frage »Wem gehört Italien?« in die Menge seiner Landsleute schleuderte, donnerte es ein »Uns!« zurück. Für den alternden Kriegsheld war Fiume mehr als ein Jungbrunnen, es war die glutvolle Revolte gegen eine rationale, materialistische Bürgerwelt: »Hier bin ich, ecce Homo (…). Ich bitte nur um das Recht, Bürger der Stadt des Lebens zu sein. In dieser närrischen und feigen Welt ist heute Fiume ein Zeichen der Freiheit.«

Fiume wurde mit den Monaten aber auch Zeichen der Dekadenz: Vielfältige sexuelle Ausschweifungen prägten das Nachtleben, Drogen machten die Runde und die zahlreichen Fest- lichkeiten und Kulturveranstaltungen zerrütteten die Stadtfinanzen. Um die Anflüge von nationaler Anarchie einzudämmen und dem gemeinschaftlichen Leben wieder eine feste Form zu geben, erließ der Comandante im August 1920 eine neue Verfassung, die Carta del Canaro, die nationalistische, syndikalistische und aristokratische Elemente in sich vereinigte. Dieser Neuordnung sollte aber keine lange Dauer beschieden sein.

Nachdem sich Rom und Belgrad über den zukünftigen Status von Fiume als »Freistaat« geeinigt hatten, wurde der D’Annunzio zum Verlassen der Stadt aufgefordert. Als er dieser Forderung nicht nachkam, eröffnete das italienische Schlachtschiff »Andrea Doria« Ende Dezember 1920 das Feuer auf die Stadt, dem fast 40 Arditi zum Opfer fielen. Auf diese Weise endete das römische »Gesamtkunstwerk« Fiume. In einer letzten Rede verabschiedete sich D’Annunzio von der Adriaperle mit den Worten: »Wir werfen heute nacht den Trauerruf ,Alala‘ über die ermordete Stadt.«

 

Ästhetisierung der Politik

 

Was von dieser Nachkriegsepisode aber blieb, war der dort kreierte »faschistische Stil«, der für die nationalistischen Massenbewegungen bis 1945 bestimmend blieb. Sein Erfolgsgeheimnis war die Ästhetisierung der Politik und nicht die Politisierung der Kunst, wie sie die Kommunisten betrieben.

Das Fiume-Abenteuer mit seinem ungezügelten Leben, den Selbstinszenierungsmöglichkeiten und dem Ausleben eines heroischen Ästhetizismus war dem 1863 als Sohn eines Bürgermeisters geborenen Gabriele auf den Leib geschnitten. Von Eltern und Schwestern umhätschelt und von den Musen geküßt, entwickelte er früh ein außerordentliches Selbstbewußtsein: »Ich bin sechzehn Jahre alt und schon spüre ich in der Seele und im Geist das erste Feuer jener Jugend erglühen, die naht: in meinem Herzen ist tief eingeprägt ein maßloser Wunsch nach Wissen und Ruhm, welcher oft über mich mit einer düsteren und quälenden Melancholie herfällt und mich zum Weinen zwingt: ich dulde kein Joch.«

Schnell machte er sich in Künstlerkreisen einen Namen und lebte seinen heidnischen Schönheits- und Sinnenkult in vollen Zügen aus. Er liebte extravagante Kleidung, Luxus in jeder Form und vor allem die Frauen, denen er in notorischer Untreue verfallen war. Seine großen Bücher »Lust« (1889), »Der Triumph des Todes« (1894) und »Feuer« (1900) drehen sich alle um stürmische Liebschaften und harsche Enttäuschungen großer Ästheten. Im ersten Jahrzehnt des 20. Jahrhunderts erreichte der Dichter bereits den Zenit seines künstlerischen Schaffens. Als der extrovertierte Dandy 1910 wieder einmal in eine finanzielle Krise geriet, siedelte er nach Frankreich über, wo sein politisches Bewußtsein und sein Draufgängertum reifte. Als 1914 der Weltkrieg ausbrach, forderte D’Annunzio den Kriegseintritt Italiens: »Ich hoffe, daß wir in zwei Wochen Österreich den Krieg erklären. Das wäre für mich eine freudige und schöne Gelegenheit, um in die Heimat zurückkehren zu können.«

Als Italien dem deutschen Verbündeten 1915 den Krieg erklärte, wofür auch der damalige Sozialist Benito Mussolini kräftig getrommelt hatte, meldete sich der 52-jährige D’Annunzio freiwillig an die Front. Schnell erwarb er sich legendären Kriegsruhm. Noch nachdem er bei einer Flugzeuglandung ein Auge verloren hatte, steuerte er 1918 ein Flugzeug bis nach Wien, wo er anti-österreichische Flugblätter abwarf und nach der Überlieferung über dem Parlamentsgebäude einen Topf mit Exkrementen entleerte. Zugegebermaßen ein origineller Ausdruck seiner Parlaments- und Habsburgerverachtung.

Das Ende des Krieges und damit der Steigerung aller Lebenskräfte im Waffengang entließ ihn wieder in das fade Leben der westlichen Gesellschaft. »Was soll ich mit dem Frieden anfangen?«, fragte er sich. Doch dann rief ihn Fiume!

D’Annunzios Verhältnis zum seit 1922 regierenden Faschismus war distanzierter als man vielleicht annehmen möchte. Als Mussolini nach dem Tode des Dichtersoldaten vor 65 Jahren dessen Anwesen besuchte und mit ihm Zwiesprache hielt, sagte er: »Nein, Comandante, du bist nicht tot, und du wirst niemals sterben, solange es, eingepflanzt inmitten des Mittelmeeres, eine Halbinsel gibt, die man Italien nennt«

Als Repräsentant eines elitären deutschen Nationalismus wäre Gabriele D’Annunzio mit seinen schweren Anflügen von Dekadenz undenkbar gewesen. Georg L. Mosse stellt deutlich den Unterschied des italienischen »Fascho-Dandys« etwa zum deutschen Dichterkreis um Stefan George und dessen Ideal der Reinheit und Zucht heraus:

»Sie hätten jedwede Bezichtigung der Dekadenz von sich gewiesen, und wirklich hätten die ihnen eigene Harmonie der Form, die Klarheit des Ausdrucks und die Ergebenheit gegenüber dem nationalen Anliegen keinen Platz in der Dekadenzbewegung gefunden. Gabriele D’Annunzios mystische Ekstasen, seine erotische Hemmungslosigkeit waren ihnen fremd. Sein überbordender italienischer Nationalismus steht im Gegensatz zu ihrem ernsthaften und eindringlichen Versuch, das wahre Deutschland zu enthüllen.«

 

Jürgen W. Gansel

 

lundi, 04 octobre 2010

Dos Passos, questo sconosciuto

dospassos.jpg

Dos Passos, questo sconosciuto

di Marco Iacona


Fonte: Linea Quotidiano [scheda fonte]

Lost generation. La “generazione perduta”, per chi non lo sapesse, è un gruppo di scrittori americani giunti in Europa nella prima parte del Novecento e del quale fanno parte Ernest Hemingway, Ezra Pound e Francis Scott Fitzgerald; tre riferimenti essenziali per i contestatori non solo stelle-e-strisce che verranno dopo, compresa l’arcinota Beat generation di Allen Ginsberg e Jack Kerouac. Entrambe le “generazioni” rappresentano quell’America che ci piace, capace di rappresentare con sincerità fatti e personaggi, di autorappresentarsi (contemporaneamente) con afflitta “gagliardia” o affilata confidenza; ma senza trascurare sogni e aspirazioni seppur camuffati da rigide e fredde disillusioni… un atteggiamento pienamente anticonformista, (chi più di loro?), riconoscibile a fatica (con una prosa particolarmente schietta, curata o meno), che affascinerà intellettuali e narratori italiani fino ai nostri giorni. Due nomi su tutti: Italo Calvino e Cesare Pavese. Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

Del gruppo di contestatori d’inizio Novecento, fra i primi peraltro a toccare con mano le degenerazioni della società del nuovo secolo (guerra compresa, ovviamente), è parte integrante anche John Dos Passos del quale vogliamo ricordare in queste pagine i quarant’anni dalla morte (28 settembre 1970). Come definirlo innanzitutto? Come definire quell’intellettuale e scrittore che nei primi anni Sessanta venne in Italia invitato da Giano Accame per partecipare agli “Incontri romani della cultura” grazie anche all’organizzazione del “Centro di vita italiano” di Ernesto De Marzio, e insieme a lui Gabriele Marcel, Michel Déon, Odysseus Elytis (futuro premio Nobel) e James Burnham? Anarchico sicuramente, anarchico nella misura in cui Dos Passos, da un punto di vista politico, fu definitivamente poco etichettabile. Di “destra” nel secondo dopoguerra (anche con posizioni maccartiste), e di “sinistra” filocomunista negli anni precedenti, i Venti e i Trenta (ricordiamo l’impegno civile, il rifiuto dell’evento bellico e la collaborazione alla rivista “New Masses”), anni nei quali si registra – dicono i critici – un apparentamento quasi “perfetto” fra impegno politico, temi e forme sperimentali dell’attività dell’ex studente di Harvard. In anni diciamo così “intermedi” (quasi simbolicamente, fra le due posizioni) il nostro venne anche catturato dalle prospettive del “New Deal” americano. Dos Passos può essere considerato allora un anticipatore ideale e pratico (fece volontariato, fra le altre istituzioni, presso la Croce Rossa), dell’intellettuale mai fermo su posizioni rigide, capace di “riposizionarsi”, e pronto a sfidare le (immancabili) vestali dell’ortodossia politica. Sovente le “peregrinazioni” politiche coincideranno con le fortune o le sfortune del romanziere, abilmente decretate dalla critica internazionale.

Dos Passos, e questo lo rese diverso da buona parte degli scrittori della sua generazione, amava anche “volare basso”, fondendo i grandi ideali (chi mai non ne ebbe?) a pagine di critica ordinaria e di schietto giornalismo; scrisse pagine seducenti sui grandi miti del cinema (miti pop, ma allora quasi nessuno lo sapeva), James Dean e Rodolfo Valentino che vide morire l’uno dopo l’altro, confermandosi in questo settore uno scrittore senza molte “regole”, se non la propria volontà e il proprio gusto. Ma anarchico o difensore degli anarchici il nostro lo fu soprattutto in relazione alle vicende legate ai due anarchici italiani in terra americana, vale a dire Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, sfortunati protagonisti di una storia mai dimenticata. Nel 1926, un anno prima della loro condanna a morte (erano anarchici ma non comunisti), l’uno operaio l’altro pescivendolo, Dos Passos dava alle stampe e per conto di un “Comitato di difesa” per i due italiani detenuti dal 1921 Facing the Chair, un libro nel quale da perfetto libertario biasimava il comportamento dei giudici americani vittime, a suo dire, di pregiudizi politici. In quel periodo, con largo anticipo rispetto alla “caccia alle streghe” del prossimo dopoguerra, in America si viveva infatti un clima repressivo rivolto alla cosiddetta sovversione politica. A farne le spese, fra gli altri, i due anarchici italiani emigrati nel 1908 e accusati di rapina e duplice omicidio benché già scagionati da un testimone. Con Dos Passos altri intellettuali illuminati si schiereranno dalla parte degli italiani “Nick” e “Bart”: da Bertrand Russel a Dorothy Parker, da G. B. Shaw a H. G. Wells. Tutto inutile, naturalmente. Fra le proteste generali i due verranno uccisi tramite sedia elettrica nell’agosto del 1927. Successivamente riabilitati (cinquant’anni dopo!) ma penosamente sacrificati sull’“altare della fermezza” di un’America oppressiva e giustizialista, un’America violenta che a, questo punto, non poteva essere per lo scrittore libertario nato a Chicago nel 1896.

Malgrado la ricca biografia, e malgrado il sentimento di apertura verso un mondo che dal secondo decennio del Novecento offriva più canali di comunicazione (soprattutto: il cinema di Eisenstein, la radio e il teatro sperimentale), Dos Passos è un autore oggi poco conosciuto ad eccezione - forse - di due volumi Manhattan Transfer del 1925 e Il 42° parallelo del 1930. In molti, da tempo, hanno dimenticato gli attestati di stima ricevuti (da J. Paul Sartre nel 1947, per esempio: «considero Dos Passos il più grande degli scrittori del nostro tempo»), ma hanno dimenticato, soprattutto, i suoi libri della fase giovanile e quelli dell’ultimo periodo. I primi sono tout court lo specchio di un’epoca il cui “superamento” condurrà l’autore ad abbracciare quelle posizioni radicali che i più conoscono; le posizioni che negli anni hanno affascinato la critica di sinistra, per intenderci... Come per esempio il “libro di guerra” One Man’s Initiation, interessante in proiezione di una crescita “ideale” di Dos Passos (con timbri espressionisti alla maniera di Ernst Jünger, ma assai diverso per ragioni e architetture), e non del tutto differente dalla copiosa narrativa di guerra che conquisterà i mercati occidentali dagli anni Venti in poi, o come Three Soldiers (1921), che si può considerare un romanzo di “tradizione” decadentista, pessimista, diretto a rivelare i tremendi meccanismi di una società moderna attraverso l’esperienza della guerra.

Ma le capacità di narratore-plurale di Dos Passos (qui sì, anticipatore di quella postmodernità che ama rilegare in capitoli unici le fonti che giungono dagli angoli diversi dello scibile), emergono all’interno del romanzo-denuncia sulla condizione del mondo investito dal progresso tecnologico (Manhattan Transfer). Accanto alla denuncia di un’epoca ove hanno preso il sopravvento le divinità malvagie del macchinismo («le turbine, i motori a scoppio e la dinamite … sono le nostre divinità crudeli e vendicative…»), in questo periodo, in Dos Passos, è possibile reperire una quantità importante di citazioni capaci di posizionare l’autore al crocevia di due percorsi essenziali della letteratura mondiale: fra i più classici come Mark Twain alle avanguardie europee e prim’ancora a Walt Whitman inteso alla maniera radicale. Qui la “sociologia” di Dos Passos ci mostra con linguaggio contemporaneo quel grigio mondo, ancora una volta: a lui contemporaneo, che autori anche molto diversi (si pensi a Chaplin o a Garcia Lorca) ci hanno rivelano nelle pieghe più comiche o sentimentali. Norman Mailer e William Burroughs terranno conto, e tanto, delle sue lezione narrative. 

Dos Passos possiede la “fortuna” di trovarsi a raccontare un periodo storico che rappresenta l’alfa della nostra epoca, credendo inoltre di scorgerne, da “buon radicale” militante, “sperimentatore” e “proletario d’elezione” (ma borghese d’estrazione) anche l’inevitabile omega. È questo che affascina i militanti d’ogni “estrazione”. I suoi lavori degli anni Trenta (la ben nota trilogia U.S.A formata dal 42° parallelo, 1919 e Un mucchio di quattrini), rappresentano il punto di massimo impegno “guerrigliero”, si tratta di affreschi complessi di vita americana (con apoteosi del collettivismo), composti con tecniche sperimentali di “finto” realismo. Ma è in codesti stessi capitoli che si consuma anche politicamente il ribellismo anticapitalistico “a sinistra” di Dos Passos. Resosi finalmente conto dell’incolmabile iato esistente fra idea e prassi comunista, già a metà degli anni Trenta lo scrittore cercherà di indirizzare le sue attitudini libertarie verso sponde liberali di “destra”. Era ora… È questo il periodo (c’era da aspettarselo dopotutto), nel quale tutti parleranno di “crisi”, “declino”, eccetera. È questo il periodo (mancheranno ancora più di trent’anni dalla morte!) nel quale Dos Passos comincia a essere un grande dimenticato (“perduto” di nome e adesso anche di fatto). Eppure l’autore di saggi e testi teatrali e di oltre quaranta romanzi (alcuni dei quali, i più famosi e già citati, tradotti da Pavese), continuerà il proprio lavoro fino alla morte, pubblicando fra gli altri un’altra trilogia di vita americana, District of Columbia, una storia degli avi portoghesi, saggi su Jefferson, diari ed epistolari. A nulla servirà la sua indignazione (a parte la dimensione collettiva e militante, resta il tema del pericolo corso dall’individuo nel mondo contemporaneo). A nulla serviranno (anzi!) gli attestati di stima degli intellettuali anticonformisti di “destra”. A quarant’anni dalla morte cos’altro possiamo aggiungere allora, rispetto alla circostanza che Dos Passos sia ancora un autore quasi tutto da scoprire?

 

"Le Héros" de Baltasar Gracian

« LE HÉROS », de Baltasar GRACIÁN

 

Traduit de l’espagnol, préfacé et annoté par Catherine VASSEUR

Par Pierre Marcowich

Ex: http://www.oswald-spengler-le-retour.net/

 

 

 

   

Baltasar-gracian.gifÉcrit vers 1636 par un jésuite espagnol, Baltasar GRACIÁN, l’ouvrage « LE HÉROS » (1), petit opuscule de 104 pages, nous enseigne comment devenir un personnage hors du commun, non pas en trompant son entourage, contrairement à l’enseignement de MACHIAVEL, mais en combattant ses penchants. 

C’est en acquérant le sens de l’honneur qu l’on parvient à réussir. Telle est la thèse de l’auteur. L’honneur ! C’est donc bien un Espagnol qui a écrit ce livre.  

On peut comprendre son entreprise, si l’on sait que Baltasar GRACIÁN fut, en 1644, l’aumônier militaire des troupes espagnoles qui battirent près de la ville de LÉRIDA les troupes françaises qui tentaient de s’emparer de la CATALOGNE pour le compte du Roi de France, LOUIS XIV, âgé de 6 ans, le Cardinal MAZARIN exerçant la réalité pouvoir. On dit qu’il y fit preuve d’une grande bravoure. 

L’auteur nous propose de pratiquer toutes les vertus de l’honneur dans la vie mondaine pour parvenir au succès. Cependant, Baltasar GRACIÁN ne semble pas trop croire à l’efficacité absolue de sa recette, puisqu’à la fin du livre, le lecteur apprend que le « héros » est finalement banni, ostracisé par la société, parce que, peut-être, les hommes du commun ne peuvent pas le comprendre. 

Mais le bannissement inéluctable du « héros » de Baltasar GRACIÁN, qui, plus tard, va récidiver avec un autre ouvrage (EL CRITICON en 1651), est peut-être aussi le pressentiment de l’incompréhension sévère qu’il allait rencontrer, de la part de ses supérieurs de l’Ordre des Jésuites, soucieux de ne pas donner prise aux critiques des jansénistes qui tenaient alors le haut du pavé « médiatique ». 

Pour exposer les qualités de son Héros, tel qu’il l’envisage, Baltasar GRACIÁN prend pour exemples des héros incontestables que l’Histoire a reconnus et dont il fait ressortir les qualités de chacun que le héros doit adopter. Tout au long de l’ouvrage, Baltasar GRACIÁN fait défiler tout de son ouvrages des héros, tels que  TIBÈRE, LOUIS XI, ISABELLE LA CATHOLIQUE, le Roi SALOMON, ALEXANDRE, CÉSAR, CHARLES VII (« le roi de Bourges »), le GRAND TURC, PHILIPPE II (d’Espagne), et bien d’autres encore. 

Voici, succinctement exposées, les principales règles qu’il nous propose : 

1) ne jamais dévoiler toutes les ressources dont on dispose ;

2) dissimuler sa sensibilité ;

3) faire preuve d’intelligence ;

4) montrer de la grandeur dans ses actes ;

5) disposer d’un goût en conformité avec son rang ;

6) ne jamais se trouver le second dans son art ;

7) être le meilleur avec excellence ;

8) être réaliste dans ses engagements ;

9) rechercher l’emploi où l’on se trouvera le meilleur ;

10) évaluer sa chance (fortune) et celle de ses adversaires ;

et ainsi de suite. Les qualités sont présentées en gradation, chacune par rapport à la précédente, jusqu’à la 17ème qualité, le « bouquet final », par laquelle il est exigé que le héros doit pratiquer une sorte d’émulation avec les héros du passé. 

Ce sont donc 17 qualités que le héros doit cumulativement posséder.  

On est droit de se demander pourquoi de si grands efforts, quasi surhumains, alors que le héros va finir banni, ostracisé par son entourage, tel un moderne ALCIBIADE, dont Baltasar GRACIÁN évoque formellement la figure. (2) 

1697-1707.jpgDans sa préface, Catherine VASSEUR nous donne une clef pour comprendre la problématique de Baltasar GRACIÁN : 

« Car la sagesse, la puissance, le courage, la sainteté, les terres inconnues ont déjà été conquis par ceux qu’il cite en exemple. Le héros de Baltasar GRACIÁN est l’héritier d’un monde qui n’est plus à conquérir. Aussi lui reste-t-il à se conquérir soi-même. » (3) (souligné par P.M.) 

 

 

vendredi, 01 octobre 2010

Le Bulletin célinien n°323 (oct. 2010)

Le Bulletin célinien n°323 - Octobre 2010

 

Au sommaire du Bulletin célinien n°323 d'octobre 2010:

Marc Laudelout : Bloc-notes
M. L. : Les souvenirs de Naud et Tixier
David Alliot : Céline et ses juges
Thierry Bouclier : La défense de Tixier-Vignancour
André Brissaud : Louis-Ferdinand Céline est amnistié (1951)
Éric Mazet et Pierre Pécastaing : Naud le temporisateur
M. L. : L’accueil critique de « Bagatelles pour un massacre »
G. P. : Le paysage urbain crépusculaire dans « Voyage au bout de la nuit » et « Mort à crédit » (II)
M. L. : Céline et les châtaignes grillées

Le numéro 6 euros à :
Le Bulletin célinien
B. P. 70
B 1000 Bruxelles 22

 

 

Le Bulletin célinien n°323 - Bloc-notes

 

Louis-Daniel Hirsch fut le directeur commercial des éditions Gallimard de 1922 à 1974. « Hirsch, ses amis, les cocos, Sartre, etc... » (1). Dixit Céline dans un bel amalgame. En exil, il est plus incisif : « C’est Hirsch qui commande la NRF comme Mayer commande la justice. Le reste est blabla (2). ». Vieilles obsessions… Mais il faut prendre garde à ne pas se laisser abuser par un être plus ambivalent que le laissent supposer ses ultimes invectives.
C’est le piège dans lequel est tombé Mikaël Hirsch, petit-fils du précédent, qui signe un roman dans lequel Céline tient une grande place (3). Le personnage central est Gérard Cohen qui se définit « demi-juif ». Jeune coursier des éditions Gallimard dans les années cinquante, il se rend fréquemment à Meudon pour y apporter le courrier mais se garde bien de révéler son identité. Crédible. Ce qui l’est moins, c’est que, dès la première rencontre, Céline l’appelle « mon p’tit Gérard » (!). Vétille…
Pour le reste, c’est un Céline conforme à sa légende noire qui est imaginé par l’auteur : « J’étais tout ce qu’il haïssait profondément. (…) Eût-il su qui j’étais, son attitude aurait certainement changé du tout au tout. » Voire... Mikaël Hirsch serait sans doute bien étonné d’apprendre qu’à la même époque, Céline sympathisait avec un militant sioniste, ancien agent du groupe terroriste Stern qui avait lutté contre la colonisation britannique en Palestine. Voici son témoignage : « Quand la presse israélienne, à l’époque, eut vent de ma correspondance avec Céline, elle m’a attaqué de façon absolument ignoble. Ce qui ne m’a pas empêché de rencontrer Céline à deux reprises chez lui, à Meudon. Nous avons évoqué bien entendu la question juive. À sa demande pressante, je lui ai décrit l’aventure des premiers colons socialistes qui rêvaient d’une société nouvelle et s’étaient acharnés, dans des conditions impossibles, à défricher des marais, à fertiliser des déserts. “Je dois vous dire que j’admire profondément ces gens-là”, me disait-il, et je savais qu’il était sincère, qu’il avait une très grande considération pour l’État d’Israël (4) ». Singulier contraste avec l’antisémitisme rabique attaché à la figure de Céline jusque dans les dernières années de sa vie. Ainsi récolte-t-on ce que l’on a semé…
L’antisémitisme est chez lui l’arbre qui cache la forêt : un profond attachement à la sauvegarde de la race. À un autre admirateur juif, il écrivait : « Il est temps que l’on mette un terme à l’antisémitisme par principe, par raison d’idiotie fondamentale, l’antisémitisme ne veut plus rien dire — On reviendra sans doute au racisme, mais plus tard et avec les juifs — et sans doute sous la direction des juifs, s’ils ne sont point trop aveulis, avilis, abrutis. » Et dans une lettre ultérieure : « ...Les juifs sont précisément les premiers et les plus tenaces racistes du monde. Il faut créer un nouveau racisme sur des bases biologiques, les éléments existent (5). »
Ceci nous éloigne assurément de la figure convenue de l’ermite de Meudon décrite par Mikaël Hirsch. Dommage car, dans un roman évoquant le Céline des dernières années, il y avait là un thème qu’il eût été intéressant d’esquisser. Cette simplification n’enlève rien au talent de l’auteur. Le constat vaut pour le style et cette manière de transcender ses obsessions et sa fascination mêlée de répulsion pour un écrivain de génie.

Marc LAUDELOUT

1. Lettre à Gaston Gallimard, 8 décembre 1954 in Lettres à la N.R.F., 1931-1961, Gallimard, 1991, p. 264.
2. Lettre à Pierre Monnier, 12 mai 1950 in P. Monnier, Ferdinand furieux, L’Age d’homme, 1979, p. 133.
3. Mikaël Hirsch, Le réprouvé, L’Éditeur, 2010.
4. Éric Mazet, « Quatorze lettres à Jacques Ovadia » in L’Année Céline 1991, Du Lérot / Imec, 1992, pp. 55-66.
5. Lettres à Milton Hindus des 14 juin et 10 août 1947 in M. Hindus, L.-F. Céline tel que je l’ai vu, L’Herne, 1969, pp. 148 et 161.

jeudi, 23 septembre 2010

Louis-Ferdinand Céline - An Anarcho-Nationalist

Louis-Ferdinand Céline

An Anarcho-Nationalist

Ex: http://www.counter-currents.com/

Celine04.jpgIn his imaginary self-portrayal, the French novelist Louis-Ferdinand Céline (1894–1961) would be the first one to reject the assigned label of anarcho-nationalism. For that matter he would reject any outsider’s label whatsoever regarding his prose and his personality. He was an anticommunist, but also an anti-liberal. He was an anti-Semite but also an anti-Christian. He despised the Left and the Right. He rejected all dogmas and all beliefs, and worse, he submitted all academic standards and value systems to brutal derision.  Briefly, Céline defies any scholarly or civic categorization. As a classy trademark of the French literary life, he is still considered the finest French author of modernity—despite the fact that his literary opus rejects any academic classification. Even though his novels are part and parcel of the obligatory literature in the French high school syllabus and even though he has been the subject of dozens of doctoral dissertations, let alone thousands of polemics denouncing him as the most virulent Jew-baiting pamphleteer of the 20th century, he continues to be an oddity eluding any analysis, yet commanding respect across the political and academic spectrum.  Can one offer a suggestion that those who will best grasp L. F. Céline must also be his lookalikes — the replicas of his nihilist character, his Gallic temperament and his unsurpassable command of the language?

Cadaverous Schools for Communist and Liberal Massacres

The trouble with L. F. Céline is that although he is widely acclaimed by literary critics as the most unique French author of the 20th century and despite the fact that a good dozen of his novels are readily available in any book store in France, his two anti-Semitic pamphlets are officially off limits there.

Firstly, the word pamphlet is false. His two books, Bagatelles pour un massacre (1937) and Ecole des cadavres (1938), although legally and academically rebuked as “fascist anti-Semitic pamphlets,” are more in line with the social satire of the 15th century French Rabelaisian tradition, full of fun and love-making than modern political polemics about the Jewry. After so many years of hibernation, the satire Bagatelles finally appeared in an anonymous American translation under the title of Trifles for a Massacre, and can be accessed online.

The anonymous translator must be commended for his awesome knowledge of French linguistic nuances and his skill in transposing French argot into American slang. Unlike the German or the English language, the French language is a highly contextual idiom, forbidding any compound nouns or neologisms. Only Céline had a license to craft new words in French. French is a language of high precision, but also of great ambiguities. Moreover, any rendering of the difficult Céline’s slangish satire into English requires from a translator not just the perfect knowledge of French, but also the perfect knowledge of Céline’s world.

Certainly, H. L. Mencken’s  temperament and his sentence structure sometimes carry a whiff of Céline. Ezra Pound’s toying with English words in his radio broadcasts in fascist Italy also remind  a bit of Céline’s style. The rhythm of Harold Covington’s narrative and the violence of his epithets may remind one a wee of Celine’s prose too.

But in no way can one draw a parallel between Céline and other authors—be it in style or in substance. Céline is both politically and artistically unique. His language and his meta-langue are unparalleled in modern literature.  To be sure Céline is very bad news for Puritan ears or for a do-good conservative who will be instantly repelled by Céline’s vocabulary teeming as it does with the overkill of metaphorical “Jewish dicks and pricks.”

Trifles is not just a satire. It is the most important social treatise for the understanding of the prewar Europe and the coming endtimes of postmodernity. It is not just a passion play of a man who gives free reign to his emotional outbursts against the myths of his time, but also a visionary premonition of coming social and cultural upheavals in the unfolding 21st century. It is an unavoidable literature for any White in search of his heritage.

These weren’t Hymie jewelers, these were vicious lowlifes, they ate rats together . . . They were as flat as flounders. They had just left their ghettos, from the depths of Estonia, Croatia, Wallachia, Rumelia, and the sties of Bessarabia . . . . The Jews, they now frequent the guardhouse, they are no longer outside… When it comes to crookedness, it is they who take first place . . . All of this takes place under the hydrant! with hoses as thick as dicks! beside the yellow waters of the docks… enough to sink all the ships in the world . . . in a décor fit for phantoms . . . with a kiss that’ll cut your ass clean open . . . that’ll turn you inside out.

The satire opens up with imaginary dialogue with the fictional Jew Gutman regarding the role of artistry by the Jews in the French Third Republic, followed by brief chapters describing Céline’s voyage to the Soviet Union.

Between noon and midnight, I was accompanied everywhere by an interpreter (connected with the police). I paid for the whole deal. . . . Her name was Natalie, and she was by the way very well mannered, and by my faith a very pretty blonde, a completely vibrant devotee of Communism, proselytizing you to death, should that be necessary. . . . Completely serious moreover…try not to think of things! …and of being spied upon! nom de Dieu! . . . . The misery that I saw in Russia is scarcely to be imagined, Asiatic, Dostoevskiian, a Gehenna of mildew, pickled herring, cucumbers, and informants. . . . The Judaized Russian is a natural-born jailer, a Chinaman who has missed his calling, a torturer, the perfect master of lackeys. The rejects of Asia, the rejects of Africa. . . . They were just made to marry one another. . . . It’s the most excellent coupling to be sent out to us from the Hells.

When the satire was first published in 1937, rare were European intellectuals who had not already fallen under the spell of communist lullabies. Céline, as an endless heretic and a good observer refused to be taken for a ride by communist commissars. He is a master of discourse in depicting communist phenotypes, and in his capacity of a medical doctor he delves constantly into Jewish self-perception of their physique . . . and their genitalia.

The peculiar feature of Céline narrative is the flood of slang expressions and his extraordinary gift for cracking jokes full of obscene humors, which suddenly veer off in academic passages full of empirical data on Jews, liberals, communists, nationalists, Hitlerites and the whole panoply of famed European characters.

But here we accept this, the boogie-woogie of the doctors, of the worst hallucinogenic negrito Jews, as being worth good money! . . . Incredible! The very least diploma, the very least new magic charm, makes the negroid delirious, and makes all of the negroid Jews flush with pride! This is something that everybody knows. . . . It has been the same way with our own Kikes ever since their Buddha Freud delivered unto them the keys to the soul!

Mortal Voyage to Endtimes

In the modern academic establishment Céline is still widely discussed and his first novels Journey to the End of the Night and Death on the Installment Plan are still used as Bildungsromane for the modern culture of youth rebellion. When these two novels were first published in the early 30s of the twentieth century, the European leftist cultural establishment made a quick move to recuperate Céline as of one of its own. Céline balked. More than any other author his abhorrence of the European high bourgeoisie could not eclipse his profound hatred of leftist mimicry.

Neither does he spare leftists scribes, nor does he show mercy for the spirit of “Parisianism.” Unsurpassable in style and graphics are Céline’s savaging caricatures of aged Parisian bourgeois bimbos posturing with false teeth and fake tits in quest of a rich man’s ride. Had Céline pandered to the leftists, he would have become very rich; he would have been awarded a Nobel Prize long ago.

In the late 50’s the burgeoning hippie movement on the American West Coast also tried to lump him together with its godfather Jack Kerouac, who was himself enthralled with Céline’s work. However, any modest reference to his Bagatelles or Ecole des Cadavres has always carefully been skipped over or never mentioned. Equally hushed up is Céline’s last year of WWII when, unlike hundreds of European nationalist scholars, artists and novelists, he miraculously escaped French communist firing squads or the Allied gallows.

His endless journey to the end of the night envisioned no beams of sunshine on the European horizon. In fact, his endless trip took a nasty turn in the late 1944 and early 1945, when Céline, along with thousands of European nationalist intellectuals, including the remnants of the French pro-German collaborationist government fled to southern Germany, a country still holding firm in face of the oncoming disaster. The whole of Europe had been already set ablaze by death-spitting American B17’s from above and raping Soviet soldiers emerging in the East. These judgment day scenes are depicted in his postwar novels D’un château l’autre (Castle to Castle (French Literature))  and Rigadoon
.

Céline’s sentences are now more elliptic and the action in his novels becomes more dynamic and more revealing of the unfolding European drama. His novels offer us a surreal gallery of characters running and hiding in the ruins of Germany. One encounters former French high politicians and countless artists facing death—people who, just a year ago, dreamt that they would last forever. No single piece of European literature is as vivid in the portrayal of human fickleness on the edge of life and death as are these last of Céline’s novels.

But Céline’s inveterate pessimism is always couched in self-derision and always stung with black humor. Even when sentenced in absentia during his exile in Denmark, he never lapses into self pity or cheap sentimentalism. His code of honor and his political views have not changed a bit from his first novel.

Upon his return to France in 1951, the remaining years of Céline’s life were marred by legal harassment, literary ostracism, and poverty. Along with hundreds of thousands Frenchmen he was subjected to public rebuke that still continues to shape the intellectual scene in France. Today, however, this literary ostracism against free spirits is wrapped up in stringent “anti-hate” laws enforced by the thought police— 70 years after WWII! Stripped of all his belongings, Céline, until his death, continued to use his training as a physician to provide medical help to his equally disfranchised suburban countrymen, always free of charge and always remaining a frugal and modest man.

From The Occidental Observer, March 24, 2010, http://www.theoccidentalobserver.net/authors/Sunic-Celine...

mardi, 21 septembre 2010

Louis-Ferdinand Céline et Roland Cailleux

Louis-Ferdinand Céline et Roland Cailleux

La création d'un site consacré à Roland Cailleux, www.roland-cailleux.weebly.com, écrivain méconnu, est l'occasion de rappeler le lien Céline-Cailleux.

Le volume Avec Roland Cailleux paru au Mercure de France (coll. " Ivoire ") en 1985, hommage à cet excellent auteur méconnu, comportait un important entretien de 1961 avec Céline que Philippe Alméras cite assez largement dans son Dictionnaire Céline. Mais au fur et à mesure de la mise à jour des archives Cailleux, d'autres commentaires apparaissent, dont celui-ci, daté du 19 juin 1957.
L’admiration pour le phénomène de la littérature française est, comme toujours, entière. Cailleux, cependant, place des bémols sur la sincérité de Céline, ses rapports à la chose littéraire, à l’argent, etc. Même plus que des bémols... Il s’exprime avec un excès de violence qui appelle une remarque : Cailleux souffrait de cyclothymie. Il subissait en alternance deux ans de déprime et deux ans de réactivité accrue. Très vraisemblablement se trouvait-il dans la seconde phase en abordant le cas Céline de la sorte. Cette notion précisée, la pièce n’en a que plus de spontanéité et, à ce titre, mérite d’être versée au dossier.
À cette occasion, il ne sera pas inutile non plus de rappeler le rôle que joua Roland Cailleux dans la genèse des Deux Étendards de Lucien Rebatet. Ils s’étaient connus à l’école Bossuet, où l’un était élève quand l’autre était pion. Une amitié de toute une vie s’en était suivie, indéfectible au point que Roland fut le plus fidèle soutien et visiteur de son aîné à Fresnes, extrayant de la clôture, page à page, le manuscrit du condamné. Il est le destinataire des Lettres de prison, de Rebatet, publiées en 1993 au Dilettante. Précisons toutefois que si la fidélité de Cailleux était légendaire, il n'approuvait pas les idées de Rebatet et, à plusieurs reprises par le passé, l'avait mis en garde.
Roland Cailleux (1908-1980) a partagé sa vie entre l’exercice de la médecine thermale à Chatel-Guyon pendant l’été, et une vie littéraire, l’hiver, dans les milieux de la N.R.F. Il fut le très exigeant et rare auteur de cinq livres: Saint-Genès ou la vie brève, Une lecture, Les Esprits animaux, À moi-même inconnu, et (posthume) La Religion du Cœur.

Christian DEDET


Le 19 juin 1957

Après avoir écrit à Nimier que je n'écrirai pas d'article sur Céline, j'ai envie de parler de lui aujourd'hui.
Il y a des mois, quand j'ai été le voir avec Nimier justement (je l'avais vu depuis la guerre une autre fois à Meudon, mais seul), il nous a lu le premier et le dernier chapitre d'Un château l’autre. On ne peut pas juger sur une lecture bien sûr (d'autant plus que Céline bafouille et accroche sans arrêt), mais il m'a semblé que je retrouvais l'auteur de Voyage et de Mort à crédit. Je suis sorti de là en disant à Nimier que c'était incontestablement le plus grand écrivain vivant. Je le pensais en entrant, et si la lecture avait été décevante je n'en aurais pas moins pensé la même chose. Mais j'aurais dit: le plus grand d'écrivain vivant baisse ou déconne, ce que j'ai dit pour pas mal d'ouvrages depuis Mort à crédit: les politiques avant tout, et ceux qui ont paru depuis son retour, excepté Casse-pipe. Mais j'ai beaucoup aimé des tas de morceaux des Entretiens avec le Professeur Y, et j’ai lu tout haut Normance (ça me paraissait mieux lu de cette façon, il est vrai que je ne l'ai pas terminé).
Entre-temps, Nimier l'a relancé, comme je lui écrivais hier, Céline lui doit une fière chandelle. J'avais moi-même écrit, quelques jours après ma visite à Céline, une lettre où je lui disais l'admiration profonde que j'ai pour lui et ma joie que c'était de connaître le plus grand écrivain français vivant, que, d'après cette lecture, on avait l'impression qu'on l'avait retrouvé.
Depuis, j'ai téléphoné à Nimier pour lui demander ce qu'il y avait dans l'intervalle, entre le premier et le dernier chapitre, et il ne m'a pas caché que c'était moins bon, il n'est pas fou, Ferdinand, en ayant l'air de feuilleter au hasard (tout en nous assurant avec un culot insensé, que tout était parfait dans son livre).
Depuis, le travail de Nimier a été effectif; le bouquin n'a pas encore paru et on ne parle que D’un château l’autre. C'est très bon pour Céline, mais c'est tout de même de curieuses mœurs. Ils me font chier avec leurs avant-premières; ça ressemble à de la publicité pour un savon gras qu’on lance. Ils vous détergent, c’est le meilleur, c’est insensé, quelle peau ça vous fait, oh, là, là, et personne ne s’est encore lavé, on n’a pas vu le produit. C’est du délire collectif. Faut-il que les gens soient bêtes et moutonniers ! Il doit bien rigoler Céline. Vous parlez d’un lancement. Tout ça n’est évidemment pas sérieux. Que Céline soit bien content parce que ça va se vendre, d’accord, mais que ça soit bon, j’attends de voir!
Oh, c'est très bien fait. Non seulement la presse de droite donne, dans Rivarol, Poulet qui avait été dur pour Normance et Féerie pour une autre fois, redélire (1). L'a-t-il lu, ce nouveau bouquin? Je n'en sais rien, car il n'en parle pas, ça sera pour un second article.
Dans la Nouvelle Revue Française, Nimier a fait un catéchisme tordant pour présenter Céline, et il y a un long extrait de Céline, c'est le début de son bouquin qu'il nous avait lu, avec: "À suivre" (2). Aujourd'hui, dans Arts, où on avait déjà reproduit la présentation presque intégrale de Nimier auparavant, il y a une interview de Céline, un très bon article de Bernard de Fallois sur le style de Céline (mais pas sur D’un château l’autre), et quatre jeunes romanciers parlent de lui aussi (3).
Enfin, ça c'est le plus beau succès de Nimier, j'imagine, il a trouvé le moyen de lui faire prendre un interview dans L’Express, où Céline met par terre tous les imbéciles du journal en dépit d'un chapeau dégueulasse de Françoise Giroud, d'un second chapeau avant l'interview et de dessins assez infâmes de Jean Eiffel (4). L'interview d'Arts est mauvaise, tandis que celle de L’Express est merveilleux car Céline y est prodigieux.

Céline a le front, dans Arts, aujourd'hui, de reconnaître qu'il est devenu le "faits-divers" à la mode et qu'il en donne aux interviewers pour leur argent. C'est bien mon avis, c'est pourquoi je n'écrirai pas d'article.
Autant il était bon d'en parler quand personne n’en disait rien, autant il est ridicule de prendre la suite du snobisme à la mode. Nous attendrons qu’il soit de nouveau dans la panade pour en reparler. En ce moment, il nous casse les pieds.
Et la panade d'ailleurs!...
Il se les est roulés pendant la guerre, et surtout pendant; il gueulait comme un sourd qu'il crevait de faim, et les gens marchaient. Je les connais, moi, les combines de Voyage et de Mort à crédit, et les éditions de luxe, et Gen Paul, qui bariolait avec un peu d'aquarelle ses gravures sur une édition de luxe pour la revendre un peu plus cher, sous les nazis, j'ai vu ça. Il y en avait d'autres qui crevaient de faim à ce moment-là, c'était pas Céline. Ça a changé quand il a foutu le camp, assez ignoblement, sans prévenir les copains, et puis, quand il a été en prison au Danemark. Mais à Sigmaringen, je connais la musique, moi, et il ne la raconte pas dans D’un château l’autre. Rebatet m'a raconté, j'en aurais, moi aussi, à dire. Seulement, moi je n'étais pas là-bas. Je comptais les tickets d'alimentation. J'avais pas des lingots de côté. Aussi je n'avais pas à les emporter avec les Allemands. Il avait un grand ami, Céline: Le Vigan. Il faut voir comment il l'a laissé tomber (5) . C'est pas croyable. Seulement, si moi, j'y étais pas, il y a des gens qui y étaient et qui sont encore vivants. Pour peu qu'ils parlent, on va voir déballer un joli linge sale. Je suis persuadé que Céline s'en fout, pourvu qu'il se vende. Mais il faut avouer qu'il s'est bien vendu, au sens précis du terme (au pluriel). Il nous fait suer, c'est le plus grand écrivain vivant, d'accord, mais c'est un beau salaud. Il a toute honte bue, le cochon, il a prétendu après guerre, qu'il avait pas été antisémite, qu'on avait mal compris. Aujourd'hui, il nous raconte dans Arts que c'était le plus grand ennemi d'Hitler. Je suis persuadé qu'il aimait pas Hitler, mais quand il écrivait dans les feuilles les plus antisémites et quand il publiait Les Beaux draps (là, il se retenait, il n'a pas pu trouver les vaincus), ça n'était pas joli, joli; ils étaient grassement payés, les articles dans les feuilles antisémites. Ne vous inquiétez pas, il n'avait pas de difficultés avec les tickets d'alimentation. D'ailleurs, il le sait bien, il le reconnaît qu'il est une ordure, aussi. Il n'y avait pas besoin de savoir non plus des détails sur sa vie privée (la façon dont il a traité ses enfants [sic] et ses petits-enfants qu'il ne voulait pas voir, qu'il ne recevait pas quand il crevait d'argent), pour le deviner, il n'y avait qu'à le lire (7). Le Bardamu, c'est aussi une crapule, un dégueulasse, ça n'est pas moi qui le dit: c'est lui. Et Robinson, qui est son double? Comme Monsieur Verdoux est le double du Charlot des Lumières de la ville, il est ignoble, et le fait de l'avouer n'enlève rien à sa saloperie.


Moi, pauvre idiot, quand j'ai appris qu'on fondait le prix des Écrivains médecins et que tous les médecins de un à cent dix ans pouvaient s'y présenter (il y avait Pierre Dominique (8) qui avait de la bouteille et le Doyen de la Faculté de Médecine, ce vieux con de Binet qui avait le front de se présenter aussi, et des tas d'autres, tous des merdes... tout de même Duhamel n'avait pas osé), j'ai été voir Mondor, et je lui ai dit: "Y en a qu’un, un seul, c’est Céline, c’est à lui qu’il faut donner le prix", il a été un peu épaté. J’ai l’impression qu’il ne savait pas très bien ce qu’était Céline à ce moment-là. J’exagère. D’ailleurs, il s’est rattrapé depuis, et il a fait pour Céline tout ce qu’on pouvait faire. Un homme admirable, Mondor (9).
Malheureusement, à ce moment-là, ce n'était pas possible, paraît-il, de lui donner le Prix, il était trop marqué pour le genre de Jury du Prix des Médecins Écrivains. On me l'a donné à l'unanimité quand Mondor m'a dit que je devais me présenter. Ça ne m'a pas rapporté la réédition de mon livre qui était épuisé. Les journalistes, à la sortie du Prix, n'ont pas pu le trouver chez Gallimard. J'avais une publicité formidable huit ans après la publication de Saint Genès, mais ça ne m'a servi rigoureusement à rien. Il n’est toujours pas réédité, Saint Genès. Alors, moi aussi, je l'aime Gallimard, comme Céline, seulement j'ai plus de raisons.
Ça m'a tout de même rapporté deux cent mille francs, ce Prix. Je n'avais pas beaucoup d'argent, j'étais criblé de dettes à ce moment-là, et puis, moi j'avais gardé mes enfants, pas comme Céline. J'ai tout de même téléphoné à Marcel Aymé pour lui demander si Céline n'était pas dans la panade, autant qu'on le disait, et pour savoir si je devais lui envoyer l'argent. Marcel Aymé m'a dit de ne pas faire une pareille sottise et que Céline se démerdait très bien, et c'était vrai qu'il avait touché des millions de ses éditeurs qu'il vilipendait. Moi, quand je touche cinquante ou cent mille francs d'avance, je suis bien épaté, et mon Saint Genès n’a été tiré qu’à six mille. Quant à Une lecture et Les Esprits animaux, il y en a encore plein les réserves. Et on les avait tirés pourtant qu'à trois mille, à 10 % que ça me rapporte, calculez combien je suis riche.

Alors, de la pitié pour Céline, je veux bien, mais c'est pas moi qui l'aie obligé à faire de la politique, il n'avait qu'à rester médecin comme moi. Paie un peu trop sa connerie, c'est vrai, mais pourquoi a-t-il été si con? Il gémit aujourd'hui dans Arts parce qu'il s'est trompé de cas. C'est un comble. Il voudrait la place de Mauriac, il est écœurant.

J'ai entendu aussi Rebatet raconter ça, qu'il s'était trompé de cas et que c'était sur Staline qu'il aurait dû miser. Ah, ils sont propres, nos pamphlétaires !

Mais ils ont des excuses. Le second surtout qui n'a aucun sens pratique, tandis que Céline est beaucoup plus roué. Il crie à la misère et à force de la crier, ça prend. Il peut pas manger, il faut qu'il fasse son marché lui-même, il n'a pas d'auto, il est vieux, sa femme travaille (ça c'est vrai, mais ça ne doit pas rapporter beaucoup, avec ses leçons de danse, à Meudon!), mais enfin il n'en serait pas là (si vraiment il en est là) s'il n'avait pas fait tout ce qu'il a fait. Oui, il a eu une vie difficile (mais pas en Amérique où il a épousé une femme américaine, qui était riche (11), mais pas à la Société des Nations où il avait une planque confortable, mais pas, encore une fois, au temps du succès et surtout au temps des Allemands). Où ils sont passés, ces lingots? Il se plaint qu'on lui ait tout barboté dans son appartement, même les murs. Tel que je le connais, quand il avait foutu le camp, il n'avait pas dû laisser grand-chose. Il n'a rien retrouvé quand il est revenu. Admettons-le. Il est déchu national (12). On s'en fout. Mais enfin, les millions qu'il a eus au retour, qu'est-ce qu'il en a fait? C'est une question que lui pose Parinaud dans Arts ce matin. Il prétend qu'il cherche une combine qui lui permettrait de gagner les vingt mille ou trente mille francs qui, en plus de sa retraite, lui permettraient de vivre. "— Mais votre éditeur vous a déjà avancé des millions et avec ce livre il vous fait une rente"; il ne trouve qu’à répondre, le Céline (c’est pas brillant): "Qui vous a dit ça?" Réponse de Parinaud: "C’est mon métier de savoir." Alors une dérobade insensée de Céline: "Cela ne m’empêche pas de manger des nouilles et de boire de l’eau", à quoi l’autre rétorque excellemment: "Le Docteur Destouches sait mieux que personne pourquoi Céline est au régime." Dernière riposte de Céline qui éclate de rire: "J’ai toujours été masochiste et con."

On ne peut pas mieux dire.
D'autre part, il a été grand mutilé de guerre de 1914, et il a des droits sur nous, mais peut-être pas le droit de s'engraisser sous les Allemands, pas le droit de nous faire prendre des vessies pour des lanternes, et de crier à la misère. Il l'a tout de même achetée, sa maison de Meudon (13) . C'est ce qu'il voulait dans Les Beaux draps, et que tous les Français aient un pavillon en banlieue et cent francs par jours. Maintenant, ça ferait trois mille francs. Je suis tranquille, il les a, et il a même un grand jardin. C'est lui qui nous prend pour des cons. Il a raison d'ailleurs, ça réussit toujours. Je ne donnerai pas cher de la reconnaissance qu’il aura pour Nimier (11) . On verra bien. Mais à la façon dont il a traité Paulhan qui a fait tout pour lui, au moment où c'était le plus difficile, et sur lequel il bave déjà dans le Professeur Y et plus encore dans D’un château l’autre, ça promet du joli. Nimier, d'ailleurs, s'en moque. Encore une fois, on verra bien.

Ceci dit, et les choses mises un peu au point, je me sens tout à fait à l'aise pour parler de mon admiration pour notre plus grand écrivain vivant. vais même faire une conférence à Cambridge sur lui. Tout ça c'est des intentions bien sûr, et je suis cossard. Je suis généreux, mais paresseux. Je suis généreux quand Céline est par terre, mais je suis aussi vaniteux, et quand Céline dans L’Express déclare qu'il n'y a pas un écrivain de la jeune génération qu'il connaisse et qui en vaille la peine, j'ai envie de lui foutre mon pied dans le cul. D'ailleurs, il ne lit pas, il écrit des sottises insensées sur Proust dans Bagatelles pour un massacre. En dépit de la citation que fait aujourd'hui Fallois sur le même Proust, dans les Voyages. Il n'y a que Céline qui compte. Aucune importance, c'est ce qui fait sa force.

Je suis injuste. Je ne crois pas lui avoir envoyé Une lecture, et je ne sais pas s'il a lu Les Esprits animaux. S'il les a lus, il a bien le droit de ne pas les aimer (quoique ça pourrait lui plaire). Mais pour Saint Genès je le lui ai envoyé en lui demandant de me dire ce qu'il en pensait. Et, direct, et sans fioritures, il m'a répondu. Une belle lettre.

Donc, il faudrait parler avant tout de son style. Fallois, qui prétend en parler, ne fait que des citations. Il y a eu un article de Claude Jamet pendant la guerre, que je voudrais me procurer, mais que je n'ai pas lu (14) . Je n'ai rien de sérieux sur son style, la seule chose sérieuse. D'ailleurs, aucun critique ne parle du style, il en serait incapable. Ou bien ils le pignochent au microscope, comme Marcel Berger. Ils n'y comprennent rien. C'est que c'est très difficile. Il n'y a que les auteurs qui pourraient bien en parler. C'est pour ça que j'aime tant quand ça arrive. C'est exceptionnel. Ils n'ont pas le temps. Ils y réfléchissent en écrivant. Pour leur propre compte. Ce ne sont pas des critiques. Mais il y a, heureusement, deux ou trois bouquins de Gide, et, les dépassant infiniment, le Contre Sainte-Beuve de Proust.
Et puis aussi quelques notes de Céline sur son style dans les Entretiens avec le Professeur Y.
C'est de là qu'il faudrait partir, car il sait tout de même de quoi il parle. Ce qui n'empêcherait pas de contrer tout ce qu'il y a de mauvais dans son style, sa facilité... son désossement, son manque de rigueur, tout ou à peu près tout ce qui a paru depuis Voyage et Mort à crédit. Il écrit ou il éjacule. On n'écrit pas un bouquin uniquement avec des cris de jouissance ou de torture. Ça fait poétique à bon compte. Lui aussi, il est responsable de la décadence de la langue française, il l'a désarticulée, liquéfiée, tout est à refaire; tu parles d'un trait de décomposition! Il faudra absolument que j'en parle de ce côté-là, c'est nouveau.

Et puis, il n'est pas unique, ça n'est pas un météore, on oublie que James Joyce avait commencé.
Dutourd, aujourd'hui, cite, ce qui est beaucoup moins profond, Vallès, Rictus, Barbusse et Vadé (!) au dix-huitième. Et Restif de la Bretonne. C'est bien facile.
Mais il n'y a pas que son style qui — j'y reviens, et ce n'est pas contradictoire — est admirable aussi. Dans Voyage, Mort à crédit, et Casse-pipe.
Il y a aussi son merveilleux bon sens, ça n'est pas d'aujourd'hui que les fous, les délirants, font sortir la vérité de leur bouche comme les enfants. C'est affolant, elle est toute nue, c'en est même obscène. Mais c'est ça. C'est criant, c'est scandaleux. J'adore ça. C'est vrai, ça me suffit. Pas: dégueuler, vomir. Chier à la face.
Montaigne, c'est très bien, mais c'est tout de même précieux par rapport à Céline. Au dix-septième siècle, n'en parlons pas. Ils ont tous des perruques dans leur style, et La Bruyère a des côtés petit marquis, Montesquieu est voltairien avant la lettre, il est persan à sa manière. Au dix-huitième, les encyclopédistes ont tout de même des crinolines. Et Rousseau est une chochotte, qui se balance majestueusement sur son escarpolette à la Gide. Ah, les belles tirades! Ah, je m'aime-t-y! Ah, je m'en fous! Au dix-neuvième, c'est le délire ou la comédie. Romantiques ou hérétiques, toujours moqueurs, ou presque tous. Depuis Rabelais, on n'avait plus entendu ça. Et encore Rabelais avait-il une bonne couche moyenâgeuse, des replis hercyniens de culture.
Oui, l'arrivée de Céline a été un grand moment de la littérature française.

Roland CAILLEUX
Source


Notes
1. Allusion au bref article de Robert Poulet paru le 13 juin 1957 dans Rivarol. La critique littéraire proprement dite parut le 4 juillet. À noter que le livre sortira le 20 juin, le lendemain même de la rédaction de ces notes dictées par Roland Cailleux à sa secrétaire.
2. "Céline au catéchisme", article sous forme de questions-réponses, par Roger Nimier, accompagné de bonnes feuilles de D’un château l’autre, La N.N.R.F., juin 1957.
3. Cette interview d'André Parinaud était accompagnée d'une enquête auprès de quatre jeunes romanciers : Jean Dutourd, Pierre Gascar, Jacques Perret et Roger Vailland.
4. Cette interview, faite (à l'instigation de Nimier) par Madeleine Chapsal et titrée "Voyage au bout de la haine ", parut le 14 juin 1957, soit une semaine avant la sortie du livre en librairie.
5. Robert Le Vigan fit pourtant l'éloge de Céline lors de son procès.
6. En réalité, Céline a toujours refusé d'être payé pour les lettres-articles qu'il donnait parfois à la presse.
7. "[Destouches] vint voir son père à Meudon plusieurs fois, et ils se téléphonaient assez souvent, mais il lui interdit de lui amener ses enfants. Quand elle insistait, il répondait toujours qu'il était trop sensible, qu'il s'attachait trop facilement, surtout aux enfants. Il refusait d'aller au-devant de nouvelles affections et préférait les ignorer pour n'avoir pas ensuite à en souffrir" (François Gibault, Céline, III, Mercure de France, 1981, p. 306).
8. Pierre Dominique (1891-1973).
9. Henri Mondor, futur préfacier de Céline dans la Pléiade et témoin à décharge lors du procès devant la Cour de justice de Paris.
10. "Oh que cela est magnifique ! Quelle résurrection ! grâce à vous !...". Lettre de Céline à Roger Nimier (17 juillet 1957) in Lettres à la N.R.F., 1931-1961, Éd. Gallimard, 1991.
11. Allusion à Elizabeth Craig que Roland Cailleux croit donc avoir été l'épouse de Céline.
12. Céline avait été déclaré en état d'indignité nationale.
13. Le pavillon de Meudon fut acquis grâce à un héritage que fit Lucette Destouches.
14. Allusion à un article intitulé "Préliminaires à l'esthétique de L.-F. Céline" paru le 25 mars 1944 dans Révolution nationale. Cet article sera repris en 1948 dans le recueil d'articles de cet auteur, Images mêlées de la littérature et du théâtre (Éditions de l'Élan).

 

 

vendredi, 17 septembre 2010

Bulletin célinien n°322

Le Bulletin célinien n°322

Septembre 2010

Au sommaire du Bulletin célinien n°322 de septembre 2010 :

Marc Laudelout : Bloc-notes
La citation du mois (Michel Marmin)
Frédéric Saenen : Céline et le droit. Entretien avec Maître François Gibault
Marc Laudelout : Céline et L’Oréal
Jean Rougerie : Adapter Céline au théâtre (1979)
Paul Chambrillon : Mon ami Jean Rougerie
G. P. : Le paysage urbain crépusculaire dans Voyage au bout de la nuit et Mort à crédit (I)
Jean-Paul Louis : L’Année Céline 2009

Un numéro de 24 pages, 6 euros franco de port:

Le Bulletin célinien
B. P. 70
B 1000 Bruxelles 22

 
 
À l’instar de leur écrivain de prédilection, certains céliniens, même s’ils ne sont pas nécessairement aussi sobres qu’il l’était, ont « la mémoire atroce des buveurs d’eau (1).» En 2003, Jean-Paul Louis rendit compte du livre d’Émile Brami (2). Critique peu amène, jugez en par sa conclusion : « Force est de remarquer que le tunnel où il nous entraîne n’a ni entrée, ni sortie, ni voies de dégagement. Sans hauteur de vue, sans vision pittoresque, il est d’époque, étroit et répétitif (3).» Sept ans plus tard, Émile Brami n’a pas oublié cette flèche du Parthe : « Au contraire de beaucoup de céliniens, je n’ai pas besoin que Céline soit un saint laïc. Certains de ses admirateurs inconditionnels veulent que ce soit un grand écrivain et un homme parfait. Cela m’est complètement égal. Un célinien bien connu appelle Céline “le vieux”, comme si c’était son père. Un père idéal, puisque c’est un “vieux” de substitution qu’il s’est inventé et choisi. Et l’éreintement le pire que j’ai eu à propos de Céline vient de ce monsieur, parce que justement, je montrais dans la biographie que j’ai écrite certaines facettes de Céline qui étaient peu glorieuses (4). » Je me garderai bien de porter un jugement sur cette querelle. Cela étant, l’éditeur de L’Année Céline a été suffisamment pris à partie par ses pairs ces derniers temps (5) pour que l’envie ne me prenne – non pas de le défendre (il est assez grand garçon pour le faire tout seul) – mais de dire la réalité des choses. Dans son article, Jean-Paul Louis s’attachait surtout à mettre en lumière plusieurs erreurs d’interprétation de l’auteur. À l’époque, j’en avais relevé d’autres (6). Mais présenter (sans le nommer, soit dit en passant) ce célinien comme un admirateur inconditionnel de l’écrivain est excessif. S’il n’a jamais dissimulé son attachement profond pour la figure de l’écrivain (7), il a néanmoins marqué ses distances avec le pamphlétaire sans que cette prise de position ne soit motivée par quelque conformisme convenu. Ainsi, à propos des fameux textes interdits : « Ce n’est pas donné à tout le monde d’exprimer les plus mauvaises idées au plus mauvais moment, dans les termes les moins adéquats. » (8) Quant à considérer que Jean-Paul Louis voit en Céline une figure paternelle parce qu’il l’appelle, avec une ironie teintée d’empathie, « le Vieux », n’est-ce pas verser dans la psychanalyse de bazar ? (9) Pour le reste, nous sommes quelques uns à admirer Céline tout en regrettant pour sa mémoire qu’il se soit commis avec des « crapules d’exhibition qui polluaient dans des cloaques (10). »

Marc LAUDELOUT

1. « Je possède, médecin, buveur d’eau, non fumeur, une mémoire atroce. »(Lettre de Céline à Jean Galtier-Boissière, mars 1953)
2. Émile Brami, Céline. « Je ne suis pas assez méchant pour me donner en exemple... », Écriture, 2003.
3. [Jean-Paul Louis], « Livres reçus. Céline (II) », Histoires littéraires, vol. IV, n° 16, octobre-novembre-décembre 2003, pp. 178-180.
4. Émile Brami, « Pour qui aime la littérature, il y a des écrivains indispensables » [propos recueillis par Joseph Vebret], Le Magazine des Livres, n° 25, juillet-août 2010, pp. 36-38.
5. Le Canard enchaîné, sous la plume d’un célinien patenté, a déploré qu’il défende parfois Céline « bec et ongles jusqu’à l’indéfendable ». La revue Études céliniennes, elle, estime que certains de ses commentaires « laissent une impression de malaise » [sic].
6. Marc Laudelout, « Le Céline d’Émile Brami », Le Bulletin célinien, n° 246, octobre 2003, pp. 3-5.
7. « Le lecteur verra que je ne cherche pas à cacher mon attachement pour Céline, pour son art, du meilleur au pire : curieuse sympathie qui se développe, entre un écrivain et son éditeur, par-delà le temps qui les sépare, sans laquelle nul ne saurait lire, comprendre et faire connaître quelque œuvre que ce soit. » (Lettres à Marie Canavaggia, 1936-1960, Gallimard, 2007, p. 33).
8. Jean-Paul Louis, « Ménage de printemps » in Autour de Céline, 3, Le Lérot rêveur, n° 57, printemps 1994, pp. 23-26.
9. D’autant que l’explication est plus simple : « Je l’appelle : le Vieux, par référence à Flaubert qui, on le sait, désignait Sade ainsi dans les lettres familières. » (Jean-Paul Louis, Histoires du Vieux et autres nouvelles in Le Lérot rêveur, n° 59, printemps 1999, p. 12).
10. Le mot est de Pol Vandromme qui ajoute : « Il faut se rappeler ce qu’était Au Pilori, officine de délation où des stipendiés en proie au délire se flattaient de leurs mouchardages. Que le plus grand écrivain du siècle participe à la carmagnole en compagnie d’individus tarés et de propagandistes tarifés a de quoi scandaliser l’esprit le plus indulgent à l’inconscience des littérateurs. » (Pol Vandromme, Journal de lectures, L’Age d’Homme, 1991, pp.65-66.)

 

William Butler Yeats: A Poet for the West

William Butler Yeats: A Poet for the West

Vic OLVIR

william_butler_yeat_by_george_charles_beresford4.jpgIn saner times our great poets, writers, and philosophers expressed the feelings and ideas which came naturally from the race-soul. In these times those feelings and ideas are too “controversial” to be expressed freely, so where they cannot be suppressed outright, they are reinterpreted, obscured, and selectively anthologized by the alien arbiters of our culture. For no poet of our race has this been more true than for William Butler Yeats.

William Butler Yeats was probably the greatest poet of the modern age; T. S. Eliot acknowledged as much. His roots were deep in Ireland, but, withal, he embodied the questing spirit of the whole of Western culture.

It is impossible without writing a volume (or two) to render even a partial appreciation of his many-faceted life and work. He was born into the Irish Protestant tradition, of that line which included Swift, Burke, Grattan, Parnell. He was poet, playwright, guiding spirit of the famed Abbey Theatre, essayist, philoso­pher, statesman, mystic. But, as he once wrote, “The intellect of man is forced to choosePerfection of the life, or of the work” ["The Choice"], and it is primarily in his poetry that most people seek an understanding of his genius.

Some of his views confounded the mediocre, left-wing poets and intellectuals who sought him out in his later years. Unable, of course, to ignore him, they attempted to appropriate him as their own, much as Walter Kaufmann, a Jew, attempted to do with Friedrich Nietzsche some years later. Thus, many writings about Yeats totally ignore his more “controver­sial” ideas, or at best refer to them only obliquely.

For example, Yeats believed in reincarnation, not only in a poet’s way, as a dramatic symbol. but quite literally: the individual human spirit remained a part of the collective race-soul even after the body died, and as long as the race endured the individual spirit might re-emerge later in another body. In an early poem, written when he was about 24, we have:

“Ah, do not mourn,” he said,
‘That we are tired, for other loves await us;
Hate on and love through unrepining hours.
Before us lies eternity; our souls
Are love, and a continual farewell.

– “Ephemera”

And just a few months before his death in 1939 at age 73, with matured powers of creative expression:

Many times man lives and dies Between his two eternities,
That of race and that of soul,
And ancient Ireland knew it all.
Whether man die in his bed
Or the rifle knock him dead,
A brief parting from those dear
Is the worst man has to fear.
Though grave-diggers’ toil is long,
Sharp their spades, their muscles strong,
They but thrust their buried men
Back in the human mind again.

– “Under Ben Bulben”

Modern liberalism and democracy were anathema to Yeats’s aristocratic spirit. He was a good friend of Ezra Pound. He was associated for a time with the Irish Blueshirts, led by General O’Duffy, and he wrote some marching songs for them. He spoke of “Mussolini’s incomparable Fascisti” (although being the kind of man he was he recoiled somewhat from the demagogic elements of fascist movements).

He read widely and avidly on race, eugenics, Italian Fascism, and German National Socialism. On eugenics, according to his biographer, Yeats “spoke much of the necessity of the unification of the State under a small aristocratic order which would prevent the materially and spiritually uncreative families and individuals from prevailing over the creative.”[1] Eugenics, to Yeats, had both physical and spiritual aspects, It is touched upon in some of the poems. In “Under Ben Bulben” he wrote:

Poet and sculptor, do the work
Nor let the modish painter shirk
What his great forefathers did,
Bring the soul of man to God,
Make him fill the cradles right.

Irish poets, learn your trade,
Sing whatever is well made
Scorn the sort now growing up
All out of shape from toe to top,
Their unremembering hearts and heads
Base-born products of base beds.

A much earlier poem reads:

All things uncomely and broken, all things worn out and old,
The cry of a child by the roadway, the creak of a lumbering cart,
The heavy steps of the ploughman, splashing the wintry mould,
Are wronging your image that blossoms a rose in the deeps of my heart.

The wrong of unshapely things is a wrong too great to be told;
I hunger to build them anew and sit on a green knoll apart,
With the earth and the sky and the water, re-made, like a casket of gold.
For my dreams of your image that blossoms a rose in the deeps of my heart.

– “The Lover Tells of the Rose in His Heart”

Yeats did not write for scholars, but for the people, and schoolchildren throughout the English-speaking world are familiar with at least a few of his works–or, perhaps, just a line or a phrase from them. Many youngsters have recited in school this verse by the young Yeats:

Down by the salley gardens my love and I did meet;
She passed the salley gardens with little snow-white feet.
She bid me take love easy, as the leaves grow on the tree;
But I, being young and foolish, with her would not agree.

– “Down by the Salley Gardens”

Another favorite is ”The Lake Isle of Innisfree.” During his many tours of the United States, every American audience insisted he recite it for them:

I will arise and go now, and go to Innisfree,
And a small cabin build there, of clay and wattle made:
Nine bean-rows will I have there, a hive for the honeybee,
And live alone in the bee-loud glade.

Nearly as familiar is the stark vision of “The Second Coming”:

Turning and turning in the widening gyre
The falcon cannot hear the falconer;
Things fall apart; the centre cannot hold;
Mere anarchy is loosed upon the world,
The blood-dimmed tide is loosed, and everywhere
The ceremony of innocence is drowned;
The best lack all conviction, while the worst
Are full of passionate intensity.

Surely some revelation is at hand;
Surely the Second Coming is at hand.
The Second Coming! Hardly are those words out
When a vast image out of Spiritus Mundi
Troubles my sight: somewhere in the sands of the desert
A shape with lion body and the head of a man,
A gaze blank and pitiless as the sun,
Is moving its slow thighs, while all about it
Reel shadows of the indignant desert birds.
The darkness drops again; but now I know
That twenty centuries of stony sleep
Were vexed to nightmare by a rocking cradle,
And what rough beast, its hour come round at last,
Slouches toward Bethlehem to be born?

People with a liberal mind set have often quoted this last poem, but some do so with a certain amount of unease, and rightly. Accepting historical necessity, Yeats is not, as the American Jewish critic Harold Bloom pointed out, necessarily averse to this “rough beast.”[2]

Thus, liberal critics are never completely comfortable in the company of Yeats. In “Under Ben Bulben,” one of Yeats’s last poems and a general summary of his ideas, he writes:

You that Mitchel’s prayer have heard
“Send war in our time, O Lord!”
Know that when all words are said
And a man is fighting mad,
Something drops from eyes long blind,
He completes his partial mind,
For an instant stands at ease,
Laughs aloud, his heart at peace.
Even the wisest man grows tense
With some sort of violence
Before he can accomplish fate,
Know his work or choose his mate.

Bloom charged that Yeats “abused the Romantic tradition” in these lines. But Yeats would have shown Bloom the contempt he deserves; in one of Yeats’s letters we can read: “I am full of life and not too disturbed by the enemies I must make. This is the proposition on which I write: There is now overwhelming evidence that man stands between eternities, that of his family and that of his soul. I apply those beliefs to literature and politics and show the change they must make. . . . My belief must go into what I write, even if I estrange friends; some when they see my meaning set out in plain print will hate me for poems which they have thought meant nothing.”

Earlier Yeats had written of war, politics, and pleasant but self-defeating illusions. In “Nineteen Hundred and Nineteen” he surveyed both the halcyon pre-World War I years and the grim aftermath of war, civil war, and revolution:

We too had many pretty toys when young:
A law indifferent to blame or praise,
To bribe or threat; habits that made old wrong
Melt down, as it were wax in the sun’s rays;
Public opinion ripening for so long
We thought it would outlive all future days.
O what fine thoughts we had because we thought
That the worst rogues and rascals had died out. . . .

Now days are dragon-ridden, the nightmare
Rides upon sleep: a drunken soldiery
Can leave the mother, murdered at her door,
To crawl in her own blood, and go scot-free;
The night can sweat with terror as before
We pieced our thoughts into philosophy,
And planned to bring the world under a rule,
Who are but weasels fighting in a hole.

Yeats himself did not take an active part in the Irish civil war, and he may have felt a certain uneasiness about the physical side of the struggle:

An affable Irregular,
A heavily-built Falstaffian man,
Comes cracking jokes of civil war
As though to die by gunshot were
The finest play under the sun.

– “Meditations in Time of Civil War”

Yeats, it is true, spent much time contemplating and expressing himself on the great problems of the age and of the individual living in this age, but he never strayed far from whimsy. As typical of his poetry as anything he wrote is the neatly lyrical “To Anne Gregory,” addressed to the granddaughter of his friend and fellow playwright Lady Augusta Gregory:

“Never shall a young man,
Thrown into despair
By those great honey-colored
Ramparts at your ear,
Love you for yourself alone
And not your yellow hair:

“But I can get a hair-dye
And set such color there,
Brown, or black, or carrot,
That young men in despair
May love me for myself alone
And not my yellow hair.’

“I heard an old religious man
But yestemight declare
That he had found a text to prove
That only God, my dear,
Could love you for yourself alone
And not your yellow hair.”

I know of no English or American poet writing today who can approach even remotely Yeats’s lyrical power or his poetic shaping of strong and startling ideas. Most of today’s poets are professors of English or fine arts who grind out pedestrian or pretentious drivel, presumably for prestige within the academic commu­nity. And it is hardly conceivable that there are any campus publications, literary or otherwise, that would publish all of Yeats’s material were he writing today. What, for instance, would they do with these lines from “John Kinsella’s Lament For Mrs. Mary Moore”?:

Though stiff to strike a bargain,
Like an old Jew man,
Her bargain struck we laughed and talked
And emptied many a can . . . .

Perhaps Yeats was the culmination of that great, surging Romantic wave, now in recession.

Though the great song return no more
There’s keen delight in what we have:
The rattle of pebbles on the shore
Under the receding wave.

– “The Nineteenth Century and After”

Perhaps. And perhaps a revitalized and resurgent West can at least produce poets in the great tradition, who refuse to wallow in mud and make a career of destroying our language.

Sing the peasantry, and then
Hard-riding country gentlemen,
The holiness of monks, and after
Porter-drinkers randy laughter;
Sing the lords and ladies gay
That were beaten into the clay
Through seven heroic centuries;
Cast your mind on other days
That we in coming days may be
Still the indomitable Irishry.

– “Under Ben Bulben”

These lines also proved upsetting to Bloom, and understandably. Yeats here issues a clear tribal call for cultural unity by appealing to racial instinct and historical experience: blood and soil. A Jewish critic, who had never shared in the experience, but rather was steeped in another totally alien, and thus had no real comprehension of the soul-state from which the poet spoke, would, as a matter of course, feel hostile to such verse. Too bad for Bloom and his fellows that Yeats’s reputation is already established; they have now little other to do but to wring their hands and rend their garments in their studies.

William Butler Yeats: rooted in Ireland, a seeker in the Western tradition, a giant of our race and culture; like Nietzsche, a “conqueror of Time”; and, perchance, one of the heralds of the times to come:

O silver trumpets, be you lifted up
And cry to the great race that is to come.
Long-throated swans upon the waves of time,
Sing loudly, for beyond the wall of the world
That race may hear our music and awake.

– “The King’s Threshold”

Notes

[1] Joseph M. Hone, W. B. Yeats, 1865–1939 (1943).

[2] Harold Bloom, Yeats (1972).