Ok

En poursuivant votre navigation sur ce site, vous acceptez l'utilisation de cookies. Ces derniers assurent le bon fonctionnement de nos services. En savoir plus.

mardi, 11 mai 2010

Léon Daudet ou "le libre réactionnaire"

Leon-Daudet.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1988

 

Un livre d'Eric Vatré: Léon Daudet ou  "le libre réactionnaire"

 

par Jacques d'ARRIBEHAUDE

 

Eric Vatré est en train de se faire une spécialité dans la biographie, art difficile et ingrat où les Français pa-raissent souvent légers devant les gigantesques tra-vaux d'érudition des chercheurs anglo-saxons. La personnalité de Léon Daudet est ici bien évoquée. Une des plumes les plus alertes, les plus vives, les plus cinglantes de la critique littéraire de ce premier demi-siècle. Un grand et passionné remueur d'idées et d'opinions, d'une liberté de ton absolue au service d'une pensée résolument hostile à ce qu'on a appelé depuis "l'idéologie dominante".

 

D'où le titre choisi par Vatré, à mon avis un pléonasme, car on imagine mal un réactionnaire qui ne choisirait pas librement d'être à contre-courant de ce qu'il aurait tout avantage à courtiser à longueur de colonnes, à l'exemple de l'ordinaire racaille journalistique contemporaine.

 

Vatré constate, sans vraiment l'expliquer, l'énigme d'une "Action Française" où cohabitent Maurras, apôtre farouche et sourd de la France seule et de sa prétendue supériorité intellectuelle, et Daudet, autre-ment ouvert, féru de Shakespeare, enthousiaste de Proust et de Céline, sensible à la peinture, à la musique, aux souffles poétiques venus d'ailleurs, là où Maurras, fossilisé dans ses plâtres académiques, sonne éperdument le clairon des grandeurs mortes dans le saint pré-carré du monarque introuvable.

 

Au total, Daudet, l'un des hommes au monde les moins doués pour l'action, et, en ce sens, une belle figure de cette IIIème République qu'il haïssait, et dont les ténors parlementaires ventripotents, crasseux et barbichus, si ridicules qu'ils fussent, sem-blent des aigles prodigieux comparés à nos politiciens actuels.

 

A lire et à relire avec le plus grand profit, pour plus de renseignements sur cette époque sans pareille, Les Décombres  de Lucien Rebatet.

 

Jacques d'ARRIBEHAUDE.

 

Eric VATRE, Léon Daudet ou le "libre réaction-nai-re",  Editions France-Empire, 1987, 350 pages, 110 FF.

 

 

vendredi, 07 mai 2010

Céline, le invettive di un dannato sul viale del tramonto

Céline, le invettive di un dannato sul viale del tramonto

Celinemmmmlllll.jpgEcco il Mostro. Sporco, indecente, nel pensare, nello scrivere e nel vivere. La lurida grandezza di Céline in tutto il suo splendore che poi coincide con la pienezza del suo squallore, ritratta in sette pose. Sette interviste nell’arco di un quindicennio sul viale del tramonto, dal dopoguerra alla sua morte, tornano in libreria sotto il titolo di Polemiche (Guanda, pagg. 120, euro 12,50).
Si avvicina il mezzo secolo della sua morte, ma non si allontanano le maledizioni sull’opera di Louis-Ferdinand Destouches, medico che diventò in arte Céline. Maledetto per il suo maledettismo, imperdonabile per le sue filippiche contro gli ebrei, i borghesi, i capitalisti. Non amo Céline, non sono un suo cultore, i suoi pamphlet irriverenti mi irritano, a cominciare da Bagattelle per un massacro e così la sua prosa intermittente e merdace, con tutti quei punti sospensivi; non ho mai scritto nulla su di lui e sulle sue opere. E ancor meno amo i celiniani, anzi detesto i manieristi del turpiloquio che traggono nobiltà e ispirazione da lui; non sopporto il rococò del triviale degli ultimi suoi emuli. Però, c’è della grandezza autentica nella sua scrittura, nel personaggio, nella sua vita. C’è della purezza nella sua impurità, e del genio nel suo delirio. Céline ha penetrato come pochi negli abissi della condizione umana, perduta a Dio e alla dignità, abbandonata nelle fogne oscure della vita. Uno dei rari scrittori che ha passione di verità e genuino desiderio di far combaciare la parola alla vita e alla verità più nuda e cruda. Così il suo stile riflette la sua passione di verità, tragica e brutale.
Quel vivere ai confini della morte, alla ricerca di emozioni estreme e grottesche, quello scrivere sulla soglia dell’invettiva, tra la parola e il vomito. Fu un medico valoroso, Céline, e un soldato valoroso, prima d’essere quel grande scrittore che fu. E pagò con quattordici mesi di duro carcere le sue parole di fuoco sugli ebrei e sul mondo; fu accusato di essere collaborazionista ma non aveva mai collaborato con nessuno, non aveva scritto per le riviste filo-naziste, era stato messo al bando nella Germania nazista, come arte degenerata, mentre dicevano che piacesse a Stalin. Viveva da barbone, in Danimarca e poi in Francia, in guerra contro il mondo. A condannarlo furono anche intellettuali che magari avevano trescato col nazismo. Come Sartre, che prima di collaborare con il comunismo e chiudere un occhio sui suoi orrori, aveva scritto anche per riviste collaborazioniste; ma alla fine il dannato fu lui, Céline. Io non vorrei dire, ma gli unici intellettuali che hanno pagato di persona le loro idee o anche i loro deliri, sono stati i Céline, i Pound, i Brasillach, i Gentile, i Pericle Ducati, i Borsani, i Carl Schmitt, gli Hamsun e si potrebbe ancora continuare. Epurati, a volte condannati a morte, o segregati in carcere, umiliati in gabbie, considerati peggio che bestie. Ed erano fior di scrittori, a volte anche generosi e grandi nella loro umanità, oltre che nei loro errori. La stessa cosa non avvenne invece per gli intellettuali che sostennero il comunismo, Stalin e Mao, Ho Chi Minh e Castro. Alcune idee si pagano, altre sono gratuite, se non addirittura ben pagate. Si vede che sono idee più grandi, più esigenti, diranno a propria consolazione i maledetti...
Céline fa parte di quell’universo di intellettuali dannati per uso di parola; ma lui restò un caso a sé, anarchico, disperatamente solo, non inscrivibile in nessun partito e in nessuna ideologia. Detestando i capitalisti e amando i poveri, Céline a volte dà l’impressione di essere un comunistoide, come lui stesso dice. Nella sua bella introduzione, Ernesto Ferrero ricorda che Céline fu difeso dal movimento nazionale ebreo, fu detestato dai nazisti che proibirono i suoi libri, ed egli stesso scrisse invettive contro Petain e contro Hitler paragonandolo a un clown pervaso di «satanismo wagneriano», fu il meno tedescofilo degli scrittori francesi e si tenne sempre in disparte. Una volta disse che gli ebrei sono i padri della nostra civiltà, e «si maledice sempre il proprio padre».

Queste interviste offrono lo spettacolo della solitudine creativa di Céline, la follia e la lucidità che si accavallano, insieme con la grazia e la ferocia. La tenerezza inerme si affaccia a volte nel suo aspro inveire: quando a esempio parla di sua madre e del suo nome d’arte tratto da lei per difendere la sua professione di medico; o quando parla della sua solitudine, della povertà, del suo gatto, della sua ritrosia a farsi fotografare («una foto è una pietra tombale») e del suo scrivere per campare... Ma poi riprende la vis polemica e il turpiloquio quando inveisce contro le cricche del potere, contro chi commercia e specula sulle idee e sulla pelle di altri, contro i riveriti padroni della letteratura, contro la Chiesa «grande ibridatrice e ruffiana». «Le civiltà finiscono con le donne, le frasi e i profumi»; «Parigi è il buco di culo del mondo. I francesi hanno coltivato la gioia di vivere». «La mia colpa? Aver detto sempre la mia verità, senza barare». La mia verità, dice Céline, non la verità, ha questa disarmante franchezza, questa libertaria modestia, estranea agli intolleranti. Queste interviste descrivono anche il disfacimento del suo corpo, il suo declino, le sue spalle che si curvano e sprofondano la sua testa tra i lunghi capelli e il collo torto. Resta una fronte spaziosa e uno sguardo ingenuo e profetico che invoca attenzione e sprigiona magìa. Un volto che racconta le ferite della sua genialità nella disfatta di una vita al termine della notte. Céline, il rigurgito della verità.

jeudi, 06 mai 2010

Mark Twain, critique de l'impérialisme américain

mark-twain-james-beckwith.jpg

 

Anton SCHMITT:

Mark Twain, critique de l’impérialisme américain

 

Beaucoup d’écrivains ont écrit plusieurs livres mais ne sont véritablement devenus célèbres que grâce à un seul de leurs ouvrages. Mark Twain est né sous le nom de Samuel Langhorne Clemens le 30 novembre 1835 dans le Missouri et est mort, il y a tout juste cent ans, le 21 avril 1910 dans le Connecticut. Il a acquis la célébrité sous son pseudonyme de Mark Twain. Il avait quatre ans lorsque sa famille emménagea dans la petite ville d’Hannibal sur les rives du Mississippi, lieu qui devint plus tard le théâtre des aventures de Huckleberry Finn. En 1847, le père de Mark Twain meurt; celui-ci commence alors à apprendre le métier de typographe. Son frère achète ensuite la feuille locale et c’est dans ce support-là que notre auteur écrira ses premiers et brefs articles. Après avoir atteint l’âge de dix-huit ans, il quitte Hannibal et devient timonier sur l’un de ces grands bateaux fluviaux qui assurent la navigation sur le Mississippi et sur le Missouri. Quand éclate la guerre civile américaine, cette navigation est interrompue sur les deux grands fleuves. Mark Twain devient soldat dans les armées confédérées mais abandonne son service dans la cavalerie au bout de deux semaines et décide de partir vers l’Ouest. Après un examen de conscience, il finit par adhérer intellectuellement au camp “yankee”. En 1862, il se trouve à Virginia City dans le Nevada où il exerce le métier de journaliste. En 1863, il se manifeste pour la première fois sous le pseudonyme de Mark Twain. Son itinéraire le mène toujours plus à l’Ouest, toujours plus loin de la guerre. En 1864, il s’intalle à San Francisco. Dans les années 70 du 19ème siècle, il se rend pour la première fois en Europe et au Proche Orient et séjourne longtemps en Allemagne, pays qu’il adorait. En 1891, lors de sa seconde tournée en Europe, le dernier empereur d’Allemagne, Guillaume II, l’invite à déjeuner avec lui. En 1870, il avait épousé Olivia Langdon et s’était installé, dans le Nord, dans le Connecticut. Sa voisine était Harriet Beecher-Stowe qui le conforta dans son attitude hostile à l’esclavage. 

 

Une étude comparative de ces deux auteurs et de leurs principaux ouvrages mérite d’être faite. En 1876, Mark Twain écrit Tom Sawyer et en 1883, Les aventures de Huckleberry Finn. Ces deux ouvrages sont devenus des classiques de la littérature pour la jeunesse, tout en contestant, à l’époque, la teneur de la littérature conventionnelle pour les jeunes qui ne présentait que des gamins modèles ou des petites filles sages. A l’époque, Twain avait fait scandale en campant un héros, Tom Sawyer, qui fait l’école buissonnière et qui, au lieu de mobiliser ses efforts pour atteindre l’idéal du bien-être matériel, s’acoquine avec un paria de village sans le sou, qu’il admire de surcroît, mais finit quand même par devenir riche.

 

Les bonnes consciences politiquement correctes estiment aujourd’hui que Les aventures de Huckleberry Finn méritent de sévères critiques car l’esclave de la Veuve Douglas, est appelé “Nigger Jim” dans le livre. Le terme “nègre”, au départ utilisé sans le moindre jugement de valeur, et a fortiori sans intention insultante, pour désigner les personnes de race à pigmentation foncée, est aujourd’hui considéré comme un vocable à connotation “raciste”, alors que le terme “nigger”, devenu, lui, une injure classique dans le vocabulaire dénigrant du racisme, demeure assez peu connu comme tel chez les non anglophones. Les bonnes consciences s’en offusquent, incapables qu’elles sont de resituer correctement une oeuvre littéraire dans le contexte de son époque. Les deux romans destinés à la jeunesse sont effectivement le reflet de la société américaine à l’époque de Mark Twain qui ne s’empêchait nullement d’en faire la critique. L’hypocrisie religieuse, le monde des pauvres, des strates sociales déshéritées, le désir pathologique d’atteindre la puissance pour la  puissance et l’âpreté au lucre  —la maladie  emblématique de l’Amérique pour Twain—  et l’esclavage dans les Etats du Sud ont tous fait l’objet de critiques sévères dans l’oeuvre de notre auteur. Ses flèches les plus acérées, il tentait toujours de les décocher en s’aidant de l’humour et de la satire. Le temps qu’il avait passé sur les rives du Mississippi et ses expériences personnelles, qu’il a manifestement travaillées pour en faire la matière première de son oeuvre littéraire, ont fait de lui un chroniqueur crédible. Le destin de “Nigger Jim”, pour pitoyable qu’il ait été, est décrit tout en laissant transparaître malgré tout une certaine joie de vivre.

 

L’ouvrage principal de sa voisine Harriet Beecher-Stowe est tout différent. Elle a tenté, avec succès, dans La case de l’Oncle Tom, d’inciter les masses de l’Union à haïr les Confédérés et à les pousser à la guerre alors qu’elle ne s’était jamais rendue dans le Sud, comme on s’en est aperçu ultérieurement. La description du planteur avare, esclavagiste, vicieux et maniant le fouet, une caricature de la réalité, avait pour but de dépeindre une figure inhumaine qui méritait bien d’être exterminée. Des jeunes gens, après avoir lu ce livre, se sont joyeusement engagés dans les troupes nordistes pour partir dans une guerre atroce et aller mourir dans les espaces en friche de la Virginie ou à Cold Harbour, tout en croyant combattre pour une cause juste et bonne. Contrairement au scénario mis en place par Harriet Beecher-Stowe, qui justifie à l’avance le meurtre et le lynchage, et même la guerre, comme seuls moyens de prêcher la libération, Mark Twain, lui, met en scène la libération de son “Nigger Jim” de manière pacifique. La propagande de guerre, toute ruisselante de haine, n’était nullement la tasse de thé de Mark Twain.

 

Dans les années 90 du 19ème siècle, il fut l’une des figures du mouvement anti-impérialiste aux Etats-Unis et fustigea à coups de commentaires caustiques les guerres que menait son pays contre l’Espagne, les Philippines, contre l’annexion de Puerto Rico et des Iles Mariannes. En 1891, comme nous venons de le dire, il entama sa seconde tournée en Europe et se choisit Berlin comme ville de résidence. C’est à partir de la capitale du nouveau Reich bismarckien qu’il  commençait ses tournées de conférences, afin de payer ses dettes. Il resta neuf ans dans le “Vieux Monde”. La langue allemande, qui, comme à bien d’autres, lui paraissait compliquée, fut souvent la cible de son humour et donna lieu à beaucoup de jeu de mots (comme la confusion entre: “Festgäste” – Commensaux- et “fresst feste” – “bouffez fêtes”).

 

Plus tard, il envoya ses filles étudier en Allemagne. Twain rédigea enfin un biographie du Général le plus célèbre de l’armée “yankee”, plus tard élu Président des Etats-Unis, Ulysses S. Grant. Il appartenait à une loge maçonnique. En 1901, l’Université de Yale lui octroya un diplôme de docteur honoris causa.

 

Anton SCHMITT.

(Article paru dans “zur Zeit”, Vienne; n°16/2010; trad. franç.: Robert Steuckers). 

mercredi, 05 mai 2010

Mark Twain: ironia e libertà

Mark Twain: ironia e libertà

di Marco Iacona

Fonte: secolo d'italia

http://easyquestion.net/thinkagain/wp-content/uploads/2010/03/mark-twain.jpg

Della compagnia del grande scrittore Mark Twain, morto cento anni fa (il 21 aprile del 1910) a Redding nel Connecticut, avremmo bisogno tutt’oggi. Ed è per questo che ne parliamo ancora. Del suo senso dell’humor in primo luogo, della sua critica al conformismo, delle prese in giro, delle denunzie dei falsi miti e di tutte le glorie (che così ovviamente non furono), dei più classici “tempi che furono”. La sua vita fu insieme uno sberleffo e una ribellione contro quel qualcosa di difficilmente classificabile, a metà fra storia e sentimento, che non faceva parte dello spirito americano o meglio del suo di spirito, fatto di avventura e di semplice ricerca della verità. Twain fu scrittore anche molto scomodo, così in anticipo sui tempi da essere volontariamente ignorato per quello che scriveva (soprattutto nel campo del giornalismo); i parenti furono costretti a bruciare molti dei suoi manoscritti perché pericolosi per le comunità dei religiosi. Twain rispose alla “censura” in modo bonario, con uno dei tanti aforismi per i quali sarà universalmente noto: «solo ai morti è permesso di dire la verità». Oltretutto aveva con la professione di giornalista uno strano rapporto di amore (senz’altro) e di generosa avversione grazie a una filosofia del buon gusto e del saper vivere insieme: «Per prima cosa dovete avere ben chiari i fatti; così potete distorcerli come vi pare», diceva.  
Per questo strano feeling con la “verità” (perfino nelle comuni espressioni) e per essersi trovato ben più in là da certo anonimo quotidiano, Mark Twain venne classificato come il più americano fra gli scrittori d’America e per questo qualcuno affermò anche che «tutta la letteratura moderna statunitense viene da un libro di Mark Twain Huckleberry Finn. Tutti gli scritti americani derivano da quello. Non c’era niente prima. Non c’era stato niente di così buono in precedenza». A pensarla così nientemeno che Ernest Hemingway in compagnia di William Faulkner.
Si potrebbe cominciare dal suo nome allora che non era come forse alcuni sapranno Mark Twain, ma Samuel Langhorne Clemens; lo pseudonimo che lo ha reso famoso in tutto il mondo ha origini marinare come ricordano gli esperti di narrativa fantastica Gianni Pilo e Sebastiano Fusco: «“Mark Twain! Segna due braccia!”, gridavano, nel dialetto del Sud, gli scandagliatori sui battelli che percorrevano il Mississippi, segnalando al timoniere la profondità del fondale, ad evitare il rischio di incagliarsi sulle secche. Il giovane Samuel Longhorne Clemens, che su quei battelli aveva trascorso infanzia e giovinezza, quando cominciò a scrivere e pubblicare, volle scegliersi proprio quel grido come pseudonimo». Si potrebbe cominciare così, per comprendere la sua personalità di uomo libero, concreto quanto basta, innamorato delle scienze fisiche, libertario per sé e soprattutto per gli altri (fece parte della “American anti imperialism league”, lega  contraria all’annessione delle filippine da parte statunitense). Twain era aperto al mondo come ci si sarebbe atteso solo da un grande americano della sua generazione (era nato nel 1835), abbandonò presto gli studi a causa della morte del padre e fece mille mestieri, fu tipografo (apprendista), mercante, scrittore umorista, marinaio sui battelli, soldato nella Guerra Civile dalla parte dei Confederati, poi cercatore d’oro, reporter, viaggiatore instancabile e conferenziere nelle università. Conobbe e visitò non solo l’America ma il mondo intero in lungo e in largo e si fece conoscere a trent’anni grazie al racconto “ Il Ranocchio saltatore”; aveva “solo” quarant’anni invece quando divenne uno degli uomini più famosi d’America. Per comprendere la sua modernità – che avrebbe riversato negli scritti – si deve pensare a Mark Twain come un uomo che sarebbe arrivato primo degli altri in tanti piccoli-grandi gesti del quotidiano e della vita professionale. Lasciamo la parola a Pilo e Fusco allora: «Diceva di essere legato allo spirito paesano del “Profondo Sud”, ma in realtà era il più moderno degli scrittori. Fu il primo ad usare la macchina da scrivere e la stilografica, e a dettare un libro al grammofono. Scrisse i testi di alcune canzonette che divennero enormemente popolari. Fece dell’editoria un’industria da grandi cifre: rimase celebre l’anticipo di duecentomila dollari (di allora) da lui pagato per assicurarsi in esclusiva le memorie del generale Grant». Fu dunque un uomo molto ricco e famoso ma non sempre fortunato negli affari e nel privato. Passò la vecchiaia fra crisi e lutti familiari.
Gli studiosi raccontano quanto la vita di Mark Twain sia stata complicata (quasi fossero esistite più persone in una), sfaccettata, colma di lezioni e di contraddizioni riversate anch’esse nelle opere. E naturalmente hanno ragione. Due in particolare le più note e lette da generazioni di giovani (anche se, soprattutto la seconda delle due è tutt’altro che un libro per ragazzi perché venne perfino radiato dalle biblioteche): Le avventure di Tom Sawyer (1876) e Le avventure di Huckleberry Finn (1884). Detti libri altro non sarebbero (nell’immaginazione dei teorici) se non le diverse parti – almeno tre – della stessa vita dello scrittore. «Se alla fine di quella che abbiamo definito la prima fase della sua vita Clemens assomiglia in un certo senso a Tom Sawyer», scrive Guido Carboni autore per Mursia di un invito “alla lettura” dello scrittore americano, «è cioè una sorta di adolescente in fondo romantico e soprattutto desideroso di attrarre l’attenzione del mondo raccontando storie, più o meno abbellite nel ricordo e nella elaborazione narrativa delle proprie avventure, alla fine della seconda fase potremmo dire che assomiglia di più ad Huck, nonostante i suoi 50 anni. Come Huck ha accumulato molta esperienza della vita e degli uomini, anche se sembra molto meno disposto di Huck a perdonare i loro difetti, e una discreta ricchezza. Come Huck continua a dire di volersi distaccare al mondo di cui è entrato a far parte, di voler “scappare di casa” verso più liberi territori, ma resta a casa cercando un equilibrio nella doppia identità di rispettabile cittadino convinto del proprio ruolo di Pierino ribelle, fustigatore della stupidità del mondo che lo circonda. Solo che in Clemens queste tensioni non sembrano veramente trovare un accettabile equilibrio».
The Adventures of Huckleberry Finn è probabilmente il capolavoro di Twain ed è il seguito di “Tom Sawyer” (dove il personaggio di Huck che vive in un barile era già apparso). È il romanzo di un giovane figlio di un ubriacone «senza casa, senza famiglia, senza educazione, ozioso, sfrenato, malvagio». Malgrado tutto - o forse proprio per la sua personalità ribelle – divenuto «beniamino» dei giovanissimi del villaggio. La storia è quella di un ragazzo che non vuol cedere alla mancanza di libertà; la fama del romanzo è dovuta in primo luogo allo “scontro interno” fra civiltà e natura selvaggia; corruttrice la prima roussoianamente buona la seconda. Il punto di vista dal quale Twain racconta la storia (come per esempio il successivo nostro “Giornalino di Gian Burrasca” di Vamba o “Il Barone rampante” di Italo Calvino), è però quello del protagonista ribelle, nel libro manca infatti una morale perbenista - e vittoriana - in grado di far pendere la storia dal lato della cosiddetta civiltà e della ragione degli educatori.
Nel libro è assente la «”correzione” di una morale finale che dimostri come la disobbedienza, i “vizi”, la mancanza di decoro siano negativi e portino chi li pratica ad una brutta fine», probabilmente perché Twain da grande narratore autobiografico aveva presente la differenza fra un’esistenza vissuta nel rischio e il suo esatto contrario. Non sempre poi, per lui, quel mondo reale messo su nel tempo, mattone su mattone, rispondeva a un armonico disegno di libertà e verità. Per questo, per l’autore dell’ironico Un americano alla corte di re Artù occorreva una gran dose d’avventura per battere i “tiranni” del tempo, e con essa naturalmente alcuni preziosissimi aforismi: «Non abbandonare le tue illusioni. Se le lascerai, continuerai ad esistere, ma cesserai di vivere». Ecco: tanto basta per ricordarci di lui.                        
          


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

jeudi, 29 avril 2010

Das Geheimnis von Sonne und Stahl: Yukio Mishimas Sun and Steel (1972)

Das Geheimnis von Sonne und Stahl: Yukio Mishimas Sun and Steel (1972)

Matthias Schneider  

Ex: http://www.blauenarzisse.de/ 

sunsteel.jpgYukio Mishima war sicherlich eine der schillerndsten, exzentrischsten und interessantesten Figuren, die je das Licht der literarischen Welt erblickten. Hierzulande erfreuen sich seine Werke wie Geständnis einer Maske, Patriotismus, Schnee im Frühling oder Liebesdurst großer Beliebtheit – dies jedoch zumeist innerhalb eines eher kleinen Zirkels. Man könnte also von einem „Geheimtip“ sprechen. Dabei dürfte dieser Mann bei weitem kein Unbekannter sein. International berühmt und sogar zwischenzeitlich im Gespräch für den Literaturnobelpreis gilt Mishima als einer der Exportschlager aus dem Land der aufgehenden Sonne.

Tod durch traditionelles Selbstmordritual

Abgesehen von seinen sprachlichen Fähigkeiten, welche sich durch einen ausgeprägten Wortschatz und einen unverhohlenen Ästhetizismus auszeichnen, sind besonders die tragischen wie extremen Umstände seines Ablebens vielen in Erinnerung geblieben. Der Mann, der am 25. November 1970 nach einem gescheiterten Restaurationsversuch und eigenem Treuebekenntnis zum japanischen Kaiser Seppuku Selbstmord beging, schockte damit sicherlich nicht nur seine Bewunderer und Leser. Auch die Medien zeigten großes Interesse an den Umständen und Hintergründen dieser spektakulär inszenierten Selbstentleibung.

Zwischen Körperkunst und schöngeistiger Kunst

Mishima wählte diese Methode des Freitods nicht zuletzt, weil er sich den Samurai verbunden fühlte. Sein jahrelanger Kraftsport und die mit militärischer Strenge ausgeübten Kampfkünste geben ein Zeugnis hiervon. Überhaupt gehörte das Formen des eigenen Körpers zu Mishimas Hauptbetätigungsfeldern. Welcher Art sein Selbstverständnis in Bezug auf seine sportlichen Aktivitäten war, erläutert Mishimas autobiographischer Essay Sun and Steel. Leider wurde dieser bis jetzt nicht ins Deutsche übertragen.

Die Symbole Sonne und Stahl

Die Sonne war für Mishima aufgrund seiner Erfahrungen im Krieg lange negativ besetzt. Sie spiegelte sich im Blut der gefallenen Soldaten und beschien die leblosen Körper. Mishima schätzte den Schatten, arbeitete fast ausschließlich zur nächtlichen Stunde. Doch diese Wahrnehmung verändert sich im Verlauf von Sun and Steel. Hier wird sie mitunter zum Lebens- aber auch zum Todessymbol, jedoch durchweg positiv konnotiert. Der Stahl wiederum steht als Synonym für die Gewichte, welche Mishima zehn Jahre zu einem fast religiös anmutenden Bestandteil seines Lebens werden ließ. Sie stellen als Abbild der Welt einen Kontrast zu seinen Muskeln dar, welche für ihn selbst stehen und durch den Stahl geformt werden. Zu deuten ist dies als Ausdruck der Überschneidungen zwischen dem „Selbst“ und der „Umwelt“.

Von Ameisen und Bäumen – Die zwei Pole der Wahrnehmung

Mishima unterschied zwei grundlegende Pole seiner Wahrnehmung: Zum einen die Worte, welche natürlich unmittelbar mit seiner Arbeit als Schriftsteller verbunden waren. Zum anderen identifizierte er das, was er als eigentliche Realität bezeichnete und auch das Bewusstsein des eigenen Körpers beinhalte. In seiner Welt markierten diese beiden Pole einen Zwiespalt. Im Gegensatz zu anderen Menschen, bei denen ein Körperbewusstsein bereits vor dem Umgang mit Wörtern auszumachen ist, attestierte sich Mishima in Hinblick auf seine eigene Person einen Vorrang der Worte. Dieser Vorrang würde sich über seine gesamte Kindheit und Jugend erstreckt haben. In Sun and Steel benutzt Mishima hierfür das Bild eines Baumes (Körper/Realität) mit weißen Ameisen (Worte). In seinem Fall prognostiziert er den Zerfall des Baumes durch das Einwirken der Ameisen, welcher schon einsetzte, bevor dieser wirklich wachsen konnte. Schlussendlich hätten die Ameisen (Worte) damit nicht nur den Baum zerstört oder unterdrückt, sondern auch sich selbst aufgehoben.

Künstlerisches Schaffen als „Verklärung von Wirklichkeit“

Mishima sah den Umgang mit der Sprache innerhalb seines eigenen literarischen Wirkens als eine auf Individualität beruhende Art der Verklärung von Wirklichkeit. So schildert er in diesem Essay ein Erweckungserlebnis bei einer religiösen Zeremonie. Bei dieser tragen junge Männer, allerdings von anderer Statur als er, einen Schrein und blicken dabei scheinbar von Lust erfüllt oder vom Schmerz gequält zum Himmel. Er beteiligt sich hieran und wird durch den eigenen Blick zum Himmel, welcher zugleich durch sein eigenes Aufgehen in der religiös-ekstatischen Masse markiert wird, mit einer anderen Bewusstseinsebene konfrontiert.

Es bemächtigte sich seiner ein Gefühl von Transzendenz. Im Stählen des eigenen Körpers sieht der Erweckte von nun an einen Weg, diesen Zustand dauerhaft herbeizuführen. Es geht ihm darum, ein Gleichgewicht zwischen Intellektualität und maskuliner Körperkraft zu schaffen. Die Worte entsprachen bisher nur dem Sehen im Sinne eines Selbstbewusstseins. Nun solle sich ein Gefühl der wahren Existenz verwirklichen, welches Mishima als eine Harmonie von innerem Bewusstsein und dem Ruf einer äußeren Stimme zu erkennen glaubt.

Körperkultur als Schlüssel für das Erreichen von Transzendenz

Die Einheit von innerem Streben und alltäglicher Pflicht stellte für Mishima ein höchstes Ideal dar, was somit auch einen möglichen Endpunkt des Lebens markierte. Auf diesen bereitet sich der wahre Krieger durch seine körperliche Arbeit vor. Mishima weist explizit darauf hin, dass ein tragischer und heroischer Tod, welcher für ihn das Ideal darstellte, nicht durch Muskelschwäche und Schlaffheit des Körpers zu verwirklichen ist.

Auf diese Weise gewährt seine Schrift einige recht persönliche Einblicke, die seine körperlichen Aktivitäten als Weg zur Transzendenz und so auch zum eigenen Tod verständlich machen. Besonders deutlich wird dies, wenn Mishima die Wirkung eines kalten Windhauchs auf seiner vom harten Training schweißglänzenden Haut beschreibt: eine Art betäubendes Gefühl entfaltet sich, so als spüre der Kämpfer seine Muskeln, seinen Körper nicht mehr. Jeder, der seinen Körper ähnlich in Schuss hält, wird dieses Gefühl sicher schon einmal am eigenen Leib erfahren haben.

Sun and Steel als Zugang zu Mishimas Selbstverständnis

Besonders interessant an Mishimas Schrift ist die unbestreitbare Tiefgründigkeit seiner Reflexionen über die Rolle des eigenen Körpers und seiner Wahrnehmung in einem scheinbar beständig fortwährenden Kampf. Speziell jene, welche schon ein wenig mit seiner Biographie vertraut sind, werden in diesem posthum veröffentlichten Werk ein wertvolles Utensil zum besseren Verständnis von Mishimas Selbstbild erkennen. Aber auch für diejenigen, denen der japanische Dichter noch unbekannt ist, lohnt sich die Lektüre.

Yukio Mishima: Sun and Steel. Kodansha America 1994. 107 Seiten. Englisch

lundi, 26 avril 2010

Louis-Ferdinand Céline: criminel ou humaniste?

Louis-Ferdinand Céline : Criminel ou Humaniste?

Ex: http://lepetitcelinien.blogspot.com/

Article d'Alessandro Gnocchi, paru dans Il Giornale, 28/10/2009.
Traduction: Stefano Fiorucci et Jeannine Renaux.

Criminel ou Humaniste? La France se dispute au sujet de Céline

Céline et l'Antisémitisme : le traditionnel champ de mines, où cycliquement quelqu'un s'aventure suscitant des réactions fermes. L'essayiste et éditeur français Karl Orend (le directeur de Alyscamps Press), dans un article publié cet été sur Times Literary Supplement, s'est lancé dans un défense passionnée de Céline, allant jusqu'à la réévaluation de ses pamphlets antisémites. Maintenant, après une lettre critique publiée par le journal britannique, les premières répliques arrivent. La site littéraire de l'édition internet de l'hebdomadaire français Le Nouvel Observateur prévoit un article du magasine mensuel Books, qui sortira demain et qui mettre Orend en morceaux.

D'après ce dernier, Bagatelles pour un massacre (1937), L'école des cadavres (1938) et Les Beaux Draps (1941) ont été écrits « en guise d'avertissement, d'appel à éviter de nouveaux massacres ». Orend, comme on dit, représente les positions de l'auteur de Voyage au bout de la nuit : la paranoïa d'un possible « complot juif » destiné à enfoncer l'Europe dans une nouvelle guerre, était en définitive, partagé par « des millions de personnes »; et la société française était imprégnée d'antisémitisme. En outre, selon Orend, il faudrait étudier le style de Céline: violent, sarcastique et halluciné. Un caractère tellement fort dans les oeuvres « politiques » qu'il serait à considérer comme « un excercice ». La thèse n'est pas nouvelle. En effet, l'opinion d'André Gide sur Bagatelles pour un massacre, confiée à un article de la « Nouvelle Revue Française» est célèbre : «C'est un jeu littéraire». Orend poursuit : la fuite de Céline à travers l'Allemagne et le Danemark, en 1945, suite aux accusations de collaborationisme avec les nazis qui occupaient la France, a été causé par le « lynchage médiatique » de l'écrivain; « lynchage médiatique » à l'origine de l'assassinat de son éditeur, Robert Denoël, en Décembre de la même année. Orend invite alors à considérer « le côté humain de Céline » trop longtemps « ignoré ». L'écrivain, « humaniste incompris », « s'occupait des pauvres et des malades et se consacrait à ceux qui avaient été loyaux envers lui. La musique et la danse étaient ses passions ».

Enfin, après avoir rappelé que sa mère était une Juive polonaise, Orend conclut: « La raison pour laquelle Céline est détesté est simple. Il nous rappelle les mensonges que les personnes ont écrit pour dissimuler leur honte d'avoir laissé courir l'Holocauste se poursuivre, en particulier la honte des Français, coupables de collusion. » En autres termes : Céline a été le bouc émissaire idéal pour une société complaisante et incapable d'admettre ses propres compromis avec le nazisme. C'est plus ou moins ce qu'a déclaré Céline même, par exemple dans les violentes invectives contre Sartre, qui l'avait accusé d'être embauché par les Allemands. Céline, dans A l'agité du bocal (édition italienne: Tarte, L'obliquo, 2005) répondra en reprochant au philosophe d'avoir accepté de mettre en scène ses oeuvres théâtrales pour les officiers de la Wehrmacht, et d'avoir toujours pris des positions ambiguës.

Oliver Postel-Vinay, sur Books, reproche à Orend de ne pas s'être contenté de chanter les louanges de l'écrivain, mais d'avoir voulu le réhabiliter « du point de vue moral ». Opération téméraire, aussi parce qu'il ne prend pas en compte un volume discret de matière, Postel-Vinay cite en particulier les articles publiés par Céline sur des journaux au moment de l'occupation nazie. (Auxquels on peut ajouter des documents sortis des recherches d'archives, dont rend partiellement compte la biographie de Céline écrite par Philippe Alméras, publié en Italie par Corbaccio). Il y a des attaques personnelles (le poète Juif Robert Desnos, morte par la suite dans un camp de concentration), des invitations à adopter une attitude dure sur les questions raciales, et l'espoir d'une division entre le Nord de la France, pur, et le Sud, métissé.

Antisémites, anti-communiste, anti-bourgeois, anti-libéral, anti-démocratique : il est évident que Céline divise. Il fut un grand écrivain. C'est pour cette raison, que pour certains, il semble intolérable que ses idées politiques soient indéfendables : et voici les Orend occupés à « le réhabiliter » et à en faire presque un petit saint. C'est pour la même raison, que pour certains il semble intolérable d'admettre la grandeur de son œuvre. Peut-on séparer l'écrivain de l'homme? Peut-être pas. Mais il est faux de juger la valeur d'un écrivain sur celle de l'homme, parce que nous devrions peut-être arracher trop de pages aux anthologies.

Alessandro Gnocchi,
Il Giornale, 28/10/2009

Traduzione dall'italiano:

Stefano Fiorucci e Jeannine Renaux

NOTE ALLA TRADUZIONE
La traduzione del testo è stata revisionata e raffinata da Jeannine Renaux. Fondamentale il suo apporto in particolare nella scelta dei verbi più appropriati al contesto della frase da tradurre. Laddove l'autore ha inserito nomi di case editrici, di riviste e titoli di opere si è deciso di utilizzare il corsivo per metterli in risalto. Qualora decidiate di lasciare invece il testo originale, togliete pure il corsivo senza bisogno di avvisare o chiedere il consenso. [...]
Stefano Fiorucci
21 marzo 2010

 

dimanche, 25 avril 2010

Les idées politiques de Céline

Vient de paraître :

Les idées politiques de Louis-Ferdinand Céline

Les éditions Ecriture publie dans la collection "Céline & Cie" Les idées politiques de Louis-Ferdinand Céline de Jacqueline Morand initialement paru en 1972. Une bonne analyse du contexte politique de la parution des pamphlets et des pamphlets eux-mêmes.

Présentation de l'éditeur

Céline s'est toujours défendu de s'être engagé politiquement, rappelant qu'il n'adhéra jamais à aucun parti, se flattant d'être un « homme de style » dépourvu de « message ». Ses écrits l'ont pourtant associé aux controverses politiques de son époque.
« Trois thèmes principaux se détachent. Le pacifisme semble l'avoir emporté par la vigueur du sentiment. L'antisémitisme a chargé l'écrivain du fardeau d'un péché capital. Le socialisme, entendu au sens large, l'a entraîné dans la voie d'un « communisme Labiche » et dans des projets largement utopiques d'organisation sociale. L'anarchisme et le fascisme, attitudes politiques souvent attribuées à l'écrivain, méritent discussion », explique l'auteur.
Une autre approche de la pensée célinienne fait de l'écrivain un précurseur à la fois de la démarche existentialiste et des philosophies de l'utopie. Si l'acceptation tragique et absurde de l'existence, le sens du nihilisme se retrouvent dans la pensée sartrienne, Céline se réfugia plutôt dans l'« utopie concrète », selon le mot d'Ernst Bloch, la plupart de ses propositions s'inspirant de cet « idéalisme pessimiste » cher à Marcuse.
Enfin, les pamphlets, motifs de sa condamnation définitive. S'ils ne semblent pas avoir influencé profondément l'immédiat avant-guerre, leur outrance même desservant leur cause, la critique des maux de son époque demeure comme un témoignage de la crise des esprits, caractéristique des années 1930. Ici, « dogmatisme brutal, provocation, lyrisme, recherche de l'effet aux dépens de la rigueur sont autant d'artifices et d'obstacles à franchir pour dégager l'idée elle-même ».

Jacqueline Morand,
Les idées politiques de Louis-Ferdinand Céline, Ed. Ecriture, 2010.

 

Michail Bulgakow: Hundeherz

heartdog.jpgMichail Bulgakow: Hundeherz

Claus M. WOLFSCHLAG

Ex: http://www.sezession.de/

Letztes Jahr weilte ich im Frühherbst in Lettland. Nachdem ich in einem Club in Riga ein Konzert der rührigen lettischen Reggae-Formation „Hospitalu iela“ erleben durfte, unterhielt ich mich backstage mit einem Bandmitglied, woraus sich in den Folgemonaten ein kleiner Schriftverkehr entwickelte. Der Musiker machte mich auf ein Werk des russischen Schriftstellers Michail Bulgakow aufmerksam: Hundeherz.

Das Werk ist eine frühzeitige, schonungslose Kritik am Sowjetkommunismus, in eine phantastische Groteske gekleidet. Die Geschichte spielt in Moskau im Winter 1924/25, also kurz nach Lenins Tod. Der erfolgreiche Schönheitschirurg Filipp Filippovich Preobrazhensky hat sich auch nach der Oktoberrevolution einen bürgerlichen Lebensstil bewahrt. Er wohnt weiterhin in einem einst eleganten Apartment-Haus mit Portier in einer edel eingerichteten 7-Zimmer-Wohnung mit angeschlossener Praxis, Köchin und Hausmädchen. Dem Druck des proletarischen Hauskomitees, die Wohnung zu verkleinern und Räumlichkeiten an zugeteilte Proletarier abzutreten, kann er sich durch seine guten Beziehungen zu Oberen der Parteihierarchie, die zu seinen Patienten gehören, entziehen.

Für seine Experimente gabelt er eines Tages einen halbverhungerten Straßenhund auf, den er mit seinem Assistenten wieder aufpeppelt. Dem Hund verpflanzt er schließlich operativ die Hypophyse und Hoden eines kürzlich verstorbenen Menschen, eines – wie sich herausstellt – einstigen Kriminellen und Alkoholikers. Dieses Experiment führt zu einem völlig unerwarteten Ergebnis. Der Hund verliert in den Folgetagen sein Fell, beginnt auf den Hinterbeinen zu gehen, bekommt zunehmend menschliche Züge und fängt schließlich zu sprechen an.

Nach einiger Weile hat Professor Preobrazhensky einen ausgewachsenen Menschen in seiner Wohnung, allerdings einen der unangenehmen Sorte. Nicht nur daß er keinerlei Tischmanieren hat, daß er sich ständig betrinkt, unflätig flucht und randaliert, er wächst auch zunehmend in das Gesellschaftssystem hinein. Das proletarische Hauskomitee sieht in dem Homunculus einen brauchbaren Genossen und beginnt mit der politischen Indoktrination. Bald singt Poligraf Poligrafovich Sharikov, wie sich der Hund alsbald nennt, Lieder gegen die Bourgeoisie, kritisiert die bürgerliche Lebensweise des Professors, fordert gleiche Rechte.

Poligraf Poligrafovich Sharikov macht dann gar noch Karriere im bürokratischen Apparat, wird Leiter einer Abteilung gegen streunende Tiere, hält Reden auf Parteiversammlungen, zu denen begeistert geklatscht wird, läßt seine Macht spielen, lügt und intrigiert. Als er schlußendlich Professor Preobrazhensky der konterrevolutionären Umtriebe denunziert, eskaliert die Lage.

Auch wenn Professor Preobrazhensky eine Rolle als „mad scientist“ zugewiesen wird, kann er teils als Verkörperung des Autors bewertet werden. Michail Bulgakow (1891-1940) war diplomierter Arzt und gilt als großer Satiriker der russischen Literatur. In den Wirren der russischen Bürgerkriegszeit nach dem Ersten Weltkrieg geriet er zwischen die Fronten, war erst medizinisch bei der Ukrainischen Republikanischen Armee tätig, desertierte dann und arbeitete in gleicher Funktion in der Roten Armee. Dann landete er bei den südrussischen Weißen Garden und bei tschetschenischen Kosaken. 1921 zog er nach Moskau, publizierte dort für Zeitschriften, veröffentlichte Prosastücke für eine in Berlin erscheinende Exilantenzeitung und schrieb Theaterstücke. Tiere dienten ihm als Figuren dazu, verschlüsselt Gesellschaftskritik zu üben.

bulg1926.gifBulgakow, mit einer Aristokratentochter verheiratet, lebte inmitten des Sowjetsystems auf einer der dort vorhandenen bürgerlichen Inseln, da das System weiterhin auf Vertreter der alten Intelligenz, auf Ärzte, Kulturschaffende, Wissenschaftler angewiesen war. Ab 1930 wurden die Werke Bulgakows nicht mehr veröffentlicht und keine Theaterstücke mehr aufgeführt. In mißlicher materieller Lage wandte er sich an die politische Führung, ihm entweder die Emigration oder eine Arbeit als Regie-Assistent zu verschaffen. Stalin persönlich rief Bulgakow, dessen Werke er offenbar mit Amusement selber gelesen hatte, an und versprach Hilfe. So arbeitete Bulgakow bis zu seinem Tod 1940 als Regie-Assistent und Übersetzer, unter anderem im Bolschoi-Theater.

Hundeherz war ebenso wie ein darauf basierendes Theaterstück 1926 verboten worden. Die Geschichte konnte deshalb erstmals 1968 in einer russischen Exilzeitung publiziert werden. Erst durch Glasnost und Perestroika unter Michael Gorbatschow war es möglich, das Buch 1987 auch in der Sowjetunion bekannt zu machen. 1988 konnte Vladimir Bortko den Stoff für das russische Fernsehen verfilmen, in einem seltsam antiquiert wirkenden Sepia-Stil.

Hundeherz ist eine Satire auf die utopischen Versuche, die menschliche Natur hin zu einem „Neuen Menschen“ zu verändern. Ein selbstherrlicher Wissenschaftler, der tiefgehend in die Natur eingreift, schafft unfreiwillig das neue Geschöpf. So wie Preobrazhensky für eine kauzig-versnobbte Bourgeoisie steht, so verkörpert der Homunculus Sharikov alle negativen Elemente des Proletariats. Vor allem die herrlichen Tischreden des Professors laden dazu ein, Bortkos Film anzusehen. Preobrazhensky beschwert sich erfrischend offen darüber, daß die ungehobelten Proletarier seine Perserteppiche verschmutzen, macht sich über eine Frau des Hauskomitees lustig, die sich wie ein Mann kleidet. Er verlautbart, daß er das mittlerweile tonangebende Proletariat nicht leiden könne, daß er es für den Verfall der guten Sitten und zunehmende Diebstähle verantwortlich macht. Er fragt rhetorisch, ob Karl Marx geschrieben hätte, daß man die Haupteingangstür seines Hauses zu schließen habe, um statt dessen nur noch den Hintereingang benutzen zu dürfen. Beim Essen erklärt er, daß man vor dem Diner keine bolschewistische Zeitung lesen solle, da dies auf den Magen schlage. Als sein Assistent ihn erinnert, daß es nur noch bolschewistische Zeitungen gäbe, antwortet er, daß man deshalb überhaupt keine Zeitung mehr lesen solle. In einem Experiment hätte er zudem nachweisen können, daß Leser der KP-Parteizeitung Pravda unter schwindenden Kniereflexen, Depressionen und Gewichtsverlust gelitten hätten.

Unfreiwillig wird Preobrazhensky aber dennoch zum Vollstrecker der kommunistischen Ideologie. Er schafft den „Neuen Mensch“ aus einem Hund. Warum solle man einen Menschen erschaffen wollen, wenn dies doch jede Frau auf natürliche Weise könne, fragt sich der Professor im Laufe der Handlung schließlich selbstkritisch. Der Homunculus nutzt die sozialen Verhältnisse hingegen rücksichtslos für seine Interessen und eine letztlich parasitäre Existenz. Appellen des autoritär auftretenden Professors, sich zu einem Kulturwesen zu verfeinern, entzieht er sich, um sich zum egoistischen Machtmenschen zu entwickeln. Er findet sich ein in ein Regime, in dem ein Hund reibungslos Karriere machen kann. Preobrazhensky und sein Assistent ahnen, welches menschenfeindliche Potential in diesem Geschöpf lauert und beschließen, rechtzeitig die Reißleine zu ziehen.

Manche Bilder des Films symbolisieren den beginnenden Verfall des kommunistischen Systems: bröckelnde Fassaden, löchrige Straßen, die Stromausfälle, die es, nach Aussage des Professors, zu zaristischer Zeit nicht gegeben hätte. Hinzu kommt die beginnende Ahnung des noch folgenden Terrors: Das aggressive Hauskomitee, das sozialen Druck gegen Besitzende im Privatbereich aufzubauen versucht, der Kult um die allumfassende Regelung durch die Bürokratie, die Kolonnen der Roten Armee, die Kampflieder singend durch die Straßen marschieren.

Ein außergewöhnliches Filmwerk der späten Sowjetunion, von ernstem Hintergrund und doch zugleich sehr heiter. Bei youtube ist es in mit englischen Untertiteln in 14 Teilen zu sehen.

vendredi, 23 avril 2010

Cioran: martyr ou bourreau?

Cioran : martyr ou bourreau ?

Réflexions sur le renversant faux-pas d'un politicien libéral

 

par José Javier ESPARZA

 

Cioran. Que n'aura-t-on pas dit de Cioran ? Pour certains commentateurs, ce n'est qu'un écrivain qui publie des aphorismes médiocres, ce n'est que l'auteur d'une « philosophie pour concierges » ; pour d'autres, il est le meilleur écrivain vivant de langue française. Entre ces deux extrêmes, on trouve un immense éventail d'opinions de valeurs diverses. Ce que l'on n'avait jamais dit de Cioran, c'est qu'il était fasciste. Mais aujourd'hui, c'est fait ; on ne voit pas bien pourquoi, mais un politicien libéral espagnol lui a attribué la paternité idéologique du phénomène Le Pen !

 

Le renversant faux-pas du politicien libéral

 

cioran.jpgCe n'est pas une blague. Cette opinion a bien été émise : par Lorenzo Bernaldo de Quirós, membre de la Junta Directiva del Club Liberal de Madrid qui fait bruyamment état de ses opinions philo­sophiques très particulières dans le supplément « Papeles para la Libertad » publié chaque semai­ne par le quotidien Ya (1). Dans l'un de ses ar­ticles, intitulé « Plus jamais Auschwitz », paru le 12 janvier 1988, Bernaldo de Quirós lançait un avertissement au monde libre, menacé par un danger imminent : Le Pen, locomotive d'un fas­cisme populiste, inspiré à son tour par un autre fascisme, plus dangereux, le fascisme intellectuel dont Bernardo de Quirós attribuait la responsa­bilité à une constellation étrange d'auteurs très différents les uns des autres : « Montherland » (il veut sans doute dire Montherlant), Fernando Sa­vater (2), Alain de Benoist et le penseur roumain Emil Cioran. Et de citer en note l'œuvre de ce dernier « El aciago domingo » (il se réfère peut-ê­tre à « El aciago Demiurgo », Le mauvais démiur­ge en trad. esp.). Par le biais d'une opération grossière d'amalgame des concepts, Bemaldo de Quirós les rend tous responsables (de façon plus ou moins importante) de la paternité des idées anti-chrétiennes, tragiques et anti-libérales qui menacent le bon ordre régnant en Occident : l'or­dre libéral.

 

Le raisonnement de Bemaldo de Quirós n'est pas habituel. Peut-être plus accoutumé au tissu gros­sier des discours économistes qu'aux subtilités et aux clairs-obscurs de la pensée philosophique, le madrilène libéral confond tout avec tout pour éla­borer vaille que vaille la réflexion suivante (qui n'est pas toujours explicite) dans son article : 1) le phénomène du populisme xénophobe devient à la mode (?) en France ; 2) en réalité, il y a plus important que cette vague politique immédiate­ment perceptible : l'existence en coulisse de pen­seurs comme Montherlant ou Alain de Benotst qui défendent des idées anti-chrétiennes et « aristocratisantes » ; 3) or, de Benoist « copie Cioran » ; et Savater aurait sa part de responsabilités dans la popularisation de Cioran en Espagne ; 4) ces au­teurs s'appuient sur les thèses des historiens révisionnistes (?) qui nient l'holocauste juif (des références, svp...) ; 5) comme on ne peut plus défendre aujourd'hui une xénophobie antijuive, on prêche pour une xénophobie anti-africaine, et nous voici revenus à Le Pen, la boucle est bou­clée. Naturellement, Bemaldo de Quirós n'écrit pas « Cioran est fasciste » mais son discours im­plicite est transparent lorsqu'il dit que de Benoist (qui, par conséquent, serait aussi « fasciste ») co­pie Cioran.

 

Si nous devions juger la pensée libérale en nous basant sur des opinions comme celle-là, nous de­vrions conclure que le libéralisme espagnol ne peut générer qu'une pensée malade, peureuse et hystérique devant tout ce qui s'oppose à l'empire du burger et de Superman. En effet, ni de Be­noist ni Savater ni probablement Cioran, ne sont d'accord avec l'empire du dollar. Mais ce n'est pas une raison pour les prendre pour des con­frères en conspiration et, moins encore, d'en fai­re les maîtres occultes de Le Pen qui, lui, par contre, ne manifeste guère son désaccord à l'égard de la domination du dollar, du nationalisme jacobin, du christianisme à la française et de Su­perman.

 

Le bourreau

Mais la question que pose directement l'article de notre libéral madrilène n'est pas aussi intéressante que la question de fond de tout ce problème : qu'est-ce qui les irrite ? Qu'est ce qui les rend nerveux ? Qu'est ce qui les dérange tant dans le discours de Cioran, eux, les défenseurs du statu quo ?

Il ne s'agit pas ici de défendre Cioran. Dans un article consacré au philosophe roumain, Savater écrivait : « Comment défendre les idées d'une per­sonne qui soutient que s'accrocher à une idée, c'est se construire un échafaud dans le cœur, de celui qui défend les droits de la divagation contre les certitudes du système et propose comme uni­que fondement de ses opinions, l'humour mo­mentané et spontané qui les suscite ? » (3). Non, Cioran est drôlement indéfendable. Et c'est sa première grande vertu, sa première grande oppo­sition à l'ordre qui juge tout selon que c'est bon ou mauvais pour le futur historique (et hypothé­qué) de l'ordre libéral.

C'est probablement bien malgré lui qu'Emil Cio­ran se mue en bourreau cruel du système qui l'entoure. Il ne pouvait en être autrement. Le courageux apatride roumain vit dans une civilisa­tion qui adore l'homme, qui idôlatre le sens de l'histoire, qui s'enfonce confortablement dans le coussin de l'Occident.

Cioran méprise l'homme, l'histoire et l'Occident. Voilà ses trois péchés capitaux.

L’avenir du cyanure

« L'homme sécrète du désastre » écrit Cioran, et il affirme « Je crois au salut de l'humanité, à l'avenir du cyanure… » (4). Le mépris de l'humain, la conviction que l'homme, cette « unité de désas­tre » (5), a déjà donné le « meilleur » de lui-même, voilà une constante qui se répète de manière in­sistante dans l'œuvre de Cioran. « Engagé hors de ses voies, hors de ses instincts – é­crit-il dans le Précis de décomposition –, l'hom­me a fini dans une impasse. Il a brûlé les étapes... pour rattraper sa fin ; animal sans avenir, il s'est enlisé dans son idéal, il s'est perdu à son propre jeu. Pour avoir vou­lu se dépasser sans cesse, il s’est figé ; et il ne lui reste comme resource que de récapituler ses folies, de les expier et d'en faire encore quelques autres » (6). Dans Valéry face à ses idoles (1970), il insiste : « Quand l'homme aura atteint le but qu'il s'est assigné : asservir la Création – il sera com­plètement vide : dieu et fantôme » (7). « Il n'est absolument pas nécessaire d'être prophète – écrit-il ailleurs – pour discerner clairement que l'homme a déjà épuisé le meilleur de lui-même, qu'il est en train de perdre sa contenance, s'il ne l'a déjà pas perdue » (8). L'huma­nité, par ses propres mérites, est « éjectée enfin de l'histoire » (9).

 

Histoire : banalité et apocalypse

La passion moderne pour l'histoire est précisé­ment une autre des cibles préférées de Cioran. Pour lui, l'histoire est un « mélange indécent de banalité et d'apocalypse » (10). Le progrès et la modernité, formes de civilisation construites sur le culte de l'histoire et de sa contemplation uto­pique dans l'attente d'une fin heureuse, sont au­tant de bourbiers où naufrage la consternante es­pérance humaine. « Tout pas en avant – écrit Cioran –, toute forme de dynamisme comporte quelque chose de satanique : le "progrès" est l'é­quivalent moderne de la Chute, la version profa­ne de la condamnation » (11). La même logique de la chute obscurcit le fantôme de la modernité : « être moderne, c'est bricoler dans l'Incurable » (12). Inéluctabilité de la marche de l'histoire ?

« Quiconque, par distraction ou incompétence, arrê­te tant soit peu l'humanité dans sa marche, en est le bienfaiteur » (13), affirme Cioran, en lançant un voile de terreur sur les consciences de ceux qui croyaient avoir construit la meilleure civilisa­tion qui ait jamais existé sur terre.

Le spectre de l'Occident

Cette civilisation, c'est l'Occident, « un possible sans lendemain » (14), une civilisation née sur les dogmes de l'humanisme et de l'historicisme. Tous deux nous apparaissent aujourd'hui comme de vieux squelettes décharnés. « Les vérités de l'humanisme – dit Cioran –, la confiance en l'homme et le reste, n'ont encore qu'une vigueur de fictions, qu'une prospérité d'ombres. L'Occi­dent était ces vérités : il n'est plus que ces fic­tions, que ces ombres. Aussi démuni qu'elles, il ne lui est pas donné de les vérifier. Il les traîne, les expose mais ne les impose plus ; elles ont ces­sé d'être menaçantes. Aussi, ceux qui s'accro­chent à l'humanisme se servent-ils d'un vocable exténué, sans support affectif, d'un vocable spectral » (15). Image de ce spectre : l'homme oc­cidental, un homme tourmenté, qui « fait penser à un héros dostoïevskien qui aurait un compte en banque » (16). De la même façon, tous les philo­sophes utopiques qui prétendirent trouver dans l'histoire un sens positif, une direction linéaire vers le meilleur, périssent : « Il y a plus d'honnê­teté et de rigueur dans les sciences occultes que dans les philosophies qui assignent un "sens" à l'histoire » (17) ; le matérialisme historique ne suppose pas en réalité un changement qualitatif quant à la providence divine : « c'est changer simplement de providentialisme » (18).

L'Occident meurt, installée à cheval sur ces deux spectres. « C'est en vain que l'Occident se cher­che une forme d'agonie digne de son passé » (19) ; mais personne n'a intérêt à s'éveiller : « l'Eu­rope, indifférente à ceux qui vaticinent, persévè­re allègrement dans son agonie ; agonie si obsti­née et durable qu'elle équivaut peut-être à une nouvelle vie » (20).

Cette féroce réalité que Cioran nous dévoile dans l'Occident contemporain, éclaire d'une nouvelle lumière des aspects plus quotidiens comme celui du colonialisme occidental dans ce qu'on appelle le Tiers Monde : « L'intérêt que le civilisé porte aux peuples dits arriérés est des plus suspects. Inapte à se supporter davantage, il s'emploie à se décharger sur eux du surplus des maux qui l'accablent, il les engage à goûter à ses misè­res, il les conjure d'affronter un destin qu'il ne peut plus braver seul » (21).

On comprend que, considérée de manière super­ficielle, cette thèse de Cioran puisse rappeler des filons bien précis de la pensée « réactionnaire » ou « traditionnelle ». En effet, il connaît les mysti­ques et se méfie des utopies ; il pense que l'hom­me est plus un animal qu'un saint, mais il croit que le théologien nous comprend mieux que le zoologiste ; on pourrait donc le considérer comme un de Maistre tourmenté et faible (au sens post­moderne de l'expression). Il contribue également à la confusion quand il écrit : « Tout semble admi­rable et tout est faux dans la vision utopique ; tout est exécrable, et tout a l’air vrai, dans les consta­tations des réactionnaires » (Essai sur la pensée réactionnaire) ; et quand il voit dans la politique « la malédiction par excellence d'un singe méga­lomane » (Ibid.).

Mais il faut laisser cette impression immédiate­ment de côté si nous voulons comprendre le reste de la férocité cioranesque. Cioran est, en effet, un bourreau aux yeux du troupeau occidental, et d'une certaine façon, un « réactionnaire » au sens pur du terme, cependant toute sa violence ne pro­vient pas d'une foi, elle est le résultat d'une im­mense déception, d'une condition angoissante, celle de l'« arrêté » à perpétuité au-dessus de l'abî­me du monde. Dans cette perspective, Cioran n'est plus un bourreau, mais un martyr ; dans ce cas, il faut écarter de ce terme tout ce qui pourrait nous suggérer héroïsme, ascèse et salut. Lui-mê­me se définit comme « un parvenu de la névrose, un Job à la recherche d'une lèpre, un Bouddha de pa­cotille, un Scythe flemmard et fourvoyé ».

Entre le dilettantisme et la dynamite

Élément déterminant dans l'angoisse de Cioran : sa condition d'apatride. « Un penseur – écrit-il­ – s'enrichit de tout ce qui lui échappe, de tout ce qu'on lui dérobe : s’il vient à perdre sa patrie, quel aubaine ! » (22). Orphelin de son appartenance et d'un enracinement, Cioran ne doit défendre au­cune vision du monde, aucun préjugé, aucune certitude. Savater a tort d'y voir une libération ; pour Cioran, oui, ça l'est, mais à un prix très élevé : le droit au Temps et à l'histoire : « Les autres tombent dans le temps ; je suis, moi, tombé du temps » (23).

Léger, détaché du temps et de l'espace, Cioran ne trouve pas d'appui non plus dans les idéolo­gies. Ici aussi, après avoir connu la fascination des extrêmes, il s'est « arrêté quelque part en­tre le dilettantisme et la dynamite » (24). Ni Dieu ni vie n'existent dans cet endroit. La vie est une « combinaison de chimie et de stupeur » (25), qui fait de la leucémie « le jardin où fleurit Dieu ». (26). Quant à Dieu lui-même...

Face à l'orgueil divin

« L'odeur de la créature nous met sur la piste d'u­ne divinité fétide » (27). Ce cruel aphorisme de Cioran peut résumer toute l'amertume de celui qui estime inconcevable une divinité seulement intelligible au départ de l'humain. Cioran se re­belle contre la bonté du créateur du mal : « L'idée de la culpabilité de Dieu n'est pas une idée gra­tuite, mais nécessaire et parfaitement compatible avec celle de sa toute-puissance : elle seule confère quelque intelligibilité au déve­loppement historique, à tout ce qu'il contient de monstrueux, d'insensé et de dérisoire. Attribuer à l'auteur du devenir la pureté et la bon­té, c'est renoncer à com­prendre la majorité des événements, et singulièrement le plus important : la Création » (28). Face à l'orgueil divin, Cioran n'hésite pas à s'inscrire sur les listes du diable : « J'ai eu beau fréquenter les mystiques, dans mon for intérieur j'ai toujours été du côté du Démon : ne pouvant pas l'égaler par la puissance, j'ai essayé de le valoir du moins par l’insolence, l’aigreur, l’arbitraire et le caprice » (29).

Et cependant celui qui croit voir en Cioran une nostalgie du sacré ne se trompe pas : « Quel dom­mage que, pour aller à Dieu, il faille passer par la foi ! » (30) ; il écrit et ajoute : « Si je croyais en Dieu, ma fatuité n'aurait pas de bornes : je me promènerais tout nu dans les rues... » (31). Nostalgie ou furie – chez Cioran, c'est la même chose – l'écueil divin est probablement la raison ultime de sa pensée, de son attitude devant la vie et de son attitude face à sa propre œuvre. Une œuvre à laquelle Cioran accorde une importance énorme, non à cause de son contenu mais à cau­se de son effet cathartique, de sa fonction matéria­lisatrice de la rébellion intime. Et c'est ici, dans cette révolte, que l'on doit s'installer pour com­prendre Cioran, pour situer sa férocité et son dé­sir délibéré du scandale.

Vengeance en paroles

Mais avant tout : devons-nous comprendre Cio­ran ? Il est difficile d'aborder avec bonne cons­cience l'épineux Roumain. Dans Syllogismes de l'amertume, il prévient les audacieux : « Tout commentaire d'une œuvre est mauvais ou inutile, car tout ce qui n'est pas direct est nul » (32). Et dans une lettre à Savater, il affirme à propos de Borgès une chose qui pourrait bien s'appliquer à lui-même : « À partir du moment où tout le monde le cite, on ne peut plus le citer, ou, si on le fait, on a l'impression de venir grossir la masse de ses "admirateurs", de ses ennemis » (33).

Faisons donc abstraction de la vantardise bien compréhensible de l'analyste, car nous ne pouvons éviter de commenter l'auteur. Et signalons, qu'en écrivant, Cioran se libère, se rebelle, se venge, se drogue ; c'est là la raison de son œu­vre : « J'écris pour ne pas passer à l'acte, pour é­viter une crise. L'expression est soulagement, revanche indirecte de celui qui ne peut di­gérer une honte et qui se rebelle en paroles contre ses semblables et contre soi. (…) Je n'ai pas écrit une seule ligne à ma température nor­male. (…) Écrire est une provocation, une vue heureusement fausse de la réalité qui nous place au-dessus de ce qui existe et de ce qui nous semble être. Concurrencer Dieu, le dé­passer même par la seule vertu du langage, tel est l'exploit de l'écrivain, spécimen ambigu, déchiré et infatué qui, sorti de sa con­dition naturelle, s'est livré à un vertige superbe, déconcertant toujours, quelquefois odieux » (34).

En dernière extrémité, nous pourrions dire que Cioran écrit selon sa mauvaise humeur : « Je n'ai rien inventé – écrit-il –, j’ai été seulement le secré­taire de mes sensations » (Écartèlement). Et il ne s'agit pas d'un faux jugement mais d'un jugement insuffisant. Les grogneries littéraires de Cioran ont porté une certaine critique, globale et aimable, si bien qu'en réalité, toute sa férocité n'est qu'un simple exercice de style ; il refuse ainsi toute espèce de vraisemblance avec la passion de l'apatride rou­main, il réduit tout son discours à une simple pratique ludique ; il insulte par conséquent le fus­tigateur de la condition humaine et il méprise le contenu de l'hérésie pour faire l'éloge de son expression propre. Banal. La littérature carnivore de Cioran est volontairement hérétique ; mais mê­me si elle ne l'était pas, toute sa capacité subver­sive s'y trouve, c'est indéniable, elle fait son ef­fet et parvient à convaincre ceux qui ne sont pas d'accord car, comme l'écrit Cioran, « l'hérésie représente la seule possibilité de revigorer les consciences, […] en les secouant, elle les préser­ve de l'engourdissement où les plonge le confor­misme » (35).

En tout cas, ce ne sera pas l'auteur qui nous en­lèvera ce doute. Cioran juge délibérément avec cette ambivalence, avec cette ambiguïté. Il sait que c'est la seule façon de durer. Dans son essai sur Joseph de Maistre, il écrit quelque chose qu'il semble dire à propos de lui-même : « sans ses contradictions, sans les malentendus qu’il a, par instinct ou calcul, créés à son propre sujet, son cas serait liquidé depuis longtemps, sa carrière close, et il connaîtrait la malchance d'être compris, la pire qui puisse s'abattre sur un auteur » (36).

Qu'ils s'alarment...

 

C'est évident : face à une réalité aussi complexe que celle de l'écrivain Cioran, les propos de tous les Bernaldos de Quirós circulant dans ce vaste monde ne sont que des mesquineries pour feuilletons américains. Autre évidence : impliquer l'a­patride tourmenté dans ce genre de questions po­liticiennes soulevées par exemple par un Le Pen relève de la plus solennelle des bêtises. Les raci­nes de la philosophie de Cioran, cette philoso­phie tragique et anti-humaniste, qui semble telle­ment effrayer nos bons libéraux espagnols, véhi­cule une culture qui est européenne jusque dans la moëlle, depuis cinq mille ans au moins ! Et confondre cette philosophie plurimillénaire avec un politicien français de cette fin de siècle, peu porté par ailleurs sur les excès intellectuels, est une exagération un peu alarmante.

Mais c'est peut-être de cela qu'il s'agit : alarmer les gens. Non pas d'alarmer les gens parce que telle ou telle philosophie existe envers et contre la volonté des conformistes, mais d'alarmer les bonnes consciences, couleur de rose, parce qu'un Cioran, génial et cruel, récupère, illustre, diffuse et affirme la seule chose qui, aujour­d'hui, peut conjurer le fantasme de l'Occident : la tragédie, l'anti-humanisme, l'éloge de la Chute, toutes sorties valables pour une civilisation qui, en effet – bien qu'elle ne veuille pas s'en rendre  compte – est déjà tombée.

Qu'ils s'alarment. Peu importe. Plus personne n'écoute. Pendant ce temps, la pensée de Cioran, une pensée barbare, éloignée des chaires et des conférences mondaines, devenue paradoxale­ment dangereuse parce qu'elle est désormais commercialisable (et peut-être commercialisable aujourd'hui précisément parce qu'elle est bar­bare), mine convictions et bétonnages. Cette « herméneutique des larmes » (ainsi Cioran défi­nit-il son style dans Des larmes et des saints) paraît s'emboîter à la perfection dans les angoisses contemporaines.

En 1934, dans une œuvre encore écrite en rou­main, Pe culmile disperarii (« Sur les cimes du désespoir »), Cioran écrivait : « Est-ce que l'exis­tence sera pour nous un exil et le néant une pa­trie ? ». Aujourd'hui, nous avons tous déserté l'existence ; aujourd'hui nous habitons tous le néant. Devons-nous nous étonner que l'angoisse de Cioran nous apparaisse comme sœur jumelle de notre propre angoisse ?

Les réactionnaires du XIXème siècle ont réagi contre le XVIIIème siècle en proposant un retour au XVIème siècle. Si aujourd'hui, en fin de modernité, il faut être réactionnaire (et soyons provocant : il n'est jamais mauvais d'être « réac­tionnaire », de réagir face aux phénomènes de dé­clin), seul peut l'être – et l'être dignement – le style de Cioran : sans propositions, sans alterna­tives. Le néant contre le vide ; l'angoisse doublée du râle face à la mort de toute illusion. C'est ce­la, finalement, la véritable dimension de Cioran : l'esthétique –puisqu'il n'y a plus d'éthique – menaçante d'une barbarie, en apparence fondée sur les Lumières, qui, seule, peut mettre un point final tragique à plus (ou beaucoup plus) de deux cents ans de civilisation à l'enseigne de l'Aufklärung.

José Javier ESPARZA

 

 

 

(1) Malgré son caractère superficiel fréquent, la lecture de ce supplément est à recommander. On y découvre tous les préjugés classiques de la droite libérale espagnole qui, au­jourd'hui, affectée par la « vague Reagan », tente de remplir sa malle doctrinale de thèses réductionnistes et économi­cistes, propres à l'anti-pensée libérale. Antérieurement, ce même supplément avait consacré à la post-modernité, nouveau monstre à trois têtes, une série d'opinions vrai­ment délirantes.

(2) La persécution de Femando Savater parait s'être trans­formée en nouveau sport national. L'année passée et au cours d'un hommage rendu à Ché Guevara, Savater fut du­rement apostrophé et qualifié de « fasciste » par une partie du public présent, tout cela pour avoir dit que le Ché était « comme un bon Rambo ». Peu après, le politicien démo­crate-chrétien et historien pro-américain Javier Tussell s'en prenait à l’auteur de La Tarea del héroe (« La Tâche du héros ») en l'accusant d'« irresponsabilité intellectuelle » à cause de ses déclarations critiques envers la fièvre mo­narchique espagnole. Aujourd'hui, Bemaldo de Quirós le rend en partie responsable du parrainage de Le Pen parce qu'« il copie Cioran » (?), Sans doute, la pensée de Savater est très critiquable mais, à notre avis, pas à cause de ces trois « crimes de pensée » qu'on lui impute à droite comme à gauche et qui constituent, justement, autant d'élans de lucidité chez ce philosophe qui suscite la polémique.

(3) F. Savater, « El indefendibile e indefenso Cioran », in Quimera, 4, febrero 1981.

(4) Syllogismes de l'amertume.

(5) Précis de décomposition. (6) op. cit.

(7) « Valéry face à ses idoles », texte repris dans le volume intitulé Exercices d'admiration : Essais et portraits (Galli­mard).

(8) « L'enfer du corps », essai paru dans Le Monde, 3 fé­vrier 1984.

(9) La chute dans le temps.

(10) Précis de décomposition.

(11) La chute dans le temps.

(12) Syllogismes de l'amertume. (13) ibid. (14) ibid. (15) ibid. (16) ibid. (17) ibid.

(18) Essai sur la pensée réactionnaire.

(19) Syllogismes de l'amertume.

(20) Essai sur la pensée réactionnaire.

(21) La chute dans le temps.

(22) Essai sur la pensée réactionnaire.

(23) La chute dans le temps.

 (24) Syllogismes de l'amertume. (25) ibid. (26) ibid. (27) ibid.

(28) Essai sur la pensée réactionnaire. (29) ibid.

(30) Syllogismes de l'amertume. (31) op. cit. (32) ibid.

(33) Exercices d’admiration. (34) ibid. (35)ibid. (36)ibid.

 

Cioran à Paris en 1949, au moment où venait de pa­raître son premier ouvrage en français, le Précis de décomposition. Cioran a appris le français grâce à un invalide de la Grande Guerre, virtuose de la lan­gue basque et de la langue française, érotomane délicat qui arpentait les boulevards de Montparnasse. Cet homme l'a exhorté à relire !es auteurs du XVIIlème siècle, à imiter leur perfection. Dans un interview accordé au philosophe allemand Gerd Bergfleth, Cioran rend hommage à cet inva­lide du Pays Basque, ce puriste de la langue et de la grammaire (Emil M. Cioran, Ein Gespräch, ge­führt von Gerd Bergfleth, Rive Gauche/Konkurs­buchverlag, Tübingen, 1985; Cioran a donné cette entrevue en langue alle­mande ; le texte original en est donc le texte alle­mand).

Cioran: une pensée contre soi héroïquement positive

cioran44444.jpg
Liliana Nicorescu

Cioran : une pensée contre soi héroïquement positive

Ex: http://www.revue-analyses.org/

Être le « héros négatif » de son temps, c’est, selon Cioran, trahir celui-ci : participer ou non aux tourments de son époque, c’est toujours faire le mauvais choix, se leurrer. Comme Cioran lui-même fut le « héros négatif » d’un « Âge trop mûr », l’étude que lui consacre Sylvain David se veut une « approche “sociale” » d’une œuvre qui fait l’apologie de la marginalité et du désistement. L’enjeu est d’explorer les ressources esthétiques et sociales de l’écriture d’un misanthrope plus ou moins sociable, qui s’est déclaré « métaphysiquement étranger » et dont l’ambition fut de s’adresser à « la communauté des exclus, des unhappy few » (p.  11) — les faibles, les ratés, son segment favori de lecteurs — vivant, tout en en étant conscients, dans une modernité aux accents spengleriens ou nietzschéens, nommée tantôt « décadence », tantôt « déclin », tantôt « crépuscule », tantôt « monde finissant ». Vivre et écrire en marginal participe d’un « héroïsme négatif », c’est-à-dire « de la chute », « de la décomposition », de la pensée « contre soi » (« le seul geste héroïque possible encore à l’homme moderne »), au fondement duquel l’auteur place la quête d’« une posture digne à opposer à l’inconvénient ou à l’inconvenance de la condition de l’homme moderne  » (p. 17), d’une réponse lucide, parfois fataliste, aux questions incontournables de la modernité. C’est, selon Sylvain David, la source même de l’écriture cioranienne et de la posture négativement héroïque d’une œuvre qui s’articule autour de la dualité entre le sujet et la collectivité, d’une identité sapée par le doute, et d’un « penser contre soi-même » assidûment professé par l’auteur des Cimes du désespoir.

L’analyse de l’œuvre cioranienne passe — plus que jamais, après la mort de l’essayiste — par l’étape roumaine de sa création littéraire. Depuis onze ans, la question fondamentale est, selon certains critiques, de concilier « l’aristocrate du doute » et l’« antisémite de conviction ». Le « dévoilement du voile » annoncé par Alexandra Laignel-Lavastine en 2002 ne tente pas Sylvain David, qui, tout en reconnaissant une « historicisation » de la pensée cioranienne dans la deuxième étape de création de l’auteur de La Transfiguration de la Roumanie, refuse de l’historiciser in corpore ou à rebours et, par conséquent, de juger l’œuvre française en fonction de l’œuvre roumaine. La « seconde naissance » de Cioran passe, certes, par l’historicisation de sa pensée : celui qui prônait dans son premier livre roumain l’« héroïsme de la résistance et non de la conquête » allait admirer quelques années plus tard Corneliu Zelea-Codreanu et Hitler, pour s’attaquer ensuite à toute forme de fanatisme, d’engagement politique. Par conséquent, la tension fondamentale de l’œuvre cioranienne sera « la relation conflictuelle d’un homme avec son époque, son milieu, si ce n’est avec lui-même » (p.  23).

Les rapports entre l’écriture et le désengagement constituent la première partie du livre, intitulée Un discours (a)social. Les trois premiers livres français de Cioran (Précis de décomposition, 1949; Syllogismes de l’amertume, 1952; La Tentation d’exister, 1956) sont empreints de la certitude du déclin, de la décadence, de l’éternelle erreur. Si l’esprit moderne est marqué par « la négativité et le relativisme » (p. 24), l’œuvre de Cioran se distinguera non seulement en tant que « dénonciation du caractère insidieux de l’esprit moderne », mais aussi en tant que « discours (a)social » (p. 29). Dans cette période de passage, le segment français de l’œuvre cioranienne dénonce, juge et accuse systématiquement l’aspect politique, engagé, des écrits roumains. À cette époque, Cioran essaie de « se distancier d’une certaine incarnation de lui-même, de ce qu’il a déjà été » (p. 30). L’affirmation ne laissera aucun cioranien (ou cioranomane!) indifférent et place l’auteur de cet essai dans le camp modéré des lecteurs/exégètes de celui qui est accusé de « fuite lâche », de mémoire sélective, de mensonge et, surtout, de conservation du credo antisémite. Lire l’œuvre française de Cioran n’est pas, pour Sylvain David, « tenter de déterminer ce qu’a pu dire, ou faire, exactement l’essayiste, au cours des années 1930, mais plutôt de voir ce qu’il en pense, avec le recul, au moment où il entame sa nouvelle carrière » (p. 30). À l’encontre de ceux qui parlent de l’« insincérité permanente » de Cioran ou de son antisémitisme foncier et permanent, Sylvain David croit que « [p]lutôt que de commodément vouer son égarement de jeunesse à l’oubli », il convient de considérer que Cioran « revient inlassablement sur son expérience afin de comprendre et, éventuellement, dépasser les motivations qui ont pu le pousser à agir de la sorte » (p. 30).

En s’attaquant à la racine du Mal, de l’Intolérance, du Fanatisme, Cioran poursuit et accomplit un besoin d’expiation, de purification de ses jeunes égarements. La « rage tournée contre soi », la « négativité » se trouvent au cœur de cette écriture centrée sur la condition de l’homme moderne et qui réfléchit sur celle de l’écrivain dans une société de plus en plus politisée, de plus en plus divisée, de plus en plus radicalisée. La « poétique du détachement » qui illustre cette première étape de création française prend déjà contour dans le Précis de décomposition (Exercices négatifs à l’origine) que Cioran publiera en 1947 et s’articule non seulement autour de la « dénonciation de toute forme de dogmatisme ou d’intransigeance » (p. 36), mais aussi autour de l’écriture éclatée, fragmentaire, opposée, dira Cioran, à « la tentation de conclure ». Cette écriture fragmentée, fracturée est une expression de la modernité dans la mesure où la philosophie, le premier amour de l’essayiste, est, estime-t-il, incapable d’expliquer le monde ou le temps, qui mesure plutôt l’irrationalité contemporaine, le volet culturel de la durée, la fracture de la connaissance, du moi, la décomposition de la pensée et la décadence du Verbe.   

Cette étape créatrice du métèque correspond à un métissage esthétique, autrement dit à l’éclatement de la forme littéraire, dont le principal matériau, la langue, se dissout et s’incarne sous diverses formes : le doute se radicalise et se détache du discours philosophique impersonnel et systémique. Aux idées abstraites, Cioran, devenu « penseur d’occasion », préfère la connaissance empirique; l’écrivain est un sceptique déçu par la philosophie (universitaire ou non), un moraliste qui, avant d’observer les gens, doit « dépoétiser sa prose ». L’idée que « toute démiurgie verbale se développe aux dépens de la lucidité » conduit à l’esthétisation de la négation, à la « négativité esthétique » (p. 95), à travers laquelle l’écriture mesure et dénonce le déclin inéluctable d’un monde, d’un système de valeurs partagées.

La deuxième partie de l’étude de Sylvain David — intitulée De l’histoire de la fin à la fin de l’histoire — a pour fondement « le grand récit de la Chute ». Le corpus (Histoire et utopie, 1960; La Chute dans le temps, 1964 ; Le mauvais démiurge, 1969) propose une relecture de la Genèse, dont le centre nerveux est le panorama de la vanité que déplore l’Ecclésiaste. Au centre de la deuxième étape de l’œuvre française de Cioran, on trouve le « Cioran de la maturité ». Placé également sous le signe de la négation, ce deuxième segment français de l’œuvre cioranienne met en scène un moi lui-même fragmenté, décomposé, qui ne met plus en question ses égarements de jeunesse, mais ses accès de pessimisme, de scepticisme. Sur le plan de l’écriture, l’aphorisme est supplanté par l’essai, dont les thèmes centraux sont l’homme, le péché originel, la chute, le temps historique et l’Occident moribond. Dans l’herméneutique cioranienne, le péché originel s’appelle la « douleur originelle » et la Chute vient couronner « l’inaptitude au bonheur » des descendants d’Adam et Ève; leur « don d’ignorance » est le seul à les rendre heureux. Lucifer, quant à lui, n’eut qu’à saper « l’inconscience originelle » du couple primordial et de sa progéniture — dont l’« inconvénient » d’exister fut la seule fortune —, ce qui laissa cet univers à la discrétion d’un « mauvais démiurge ». Conséquence directe du péché originel, la chute dans le temps est en même temps une chute vers la mort : « avancer » et « progresser » sont des concepts distincts chez Cioran, car aller vers la mort est un progrès vers l’involution, vers la disparition non seulement des hommes (ou des peuples), mais aussi des cultures, des civilisations sujettes au temps historique. Fatalement, l’« abominable Clio » enchaîne l’homme et le laisse « en proie au temps, portant les stigmates qui définissent à la fois le temps et l’homme ». Séduite par l’élan vers le pire, l’humanité court vers sa perte, autrement dit, vers l’avenir : c’est plus fort qu’elle, car, écrit Cioran dans ses Écartèlements, « [l]a fin de l’histoire est inscrite dans ses commencements ».

La troisième partie — Une autobiographie sans événements (incluant De l’inconvénient d’être né, 1973; Aveux et anathèmes, 1987; Écartèlement, 1979 : Exercices d’admiration, 1986) — correspond à un réinvestissement du temps présent complètement dépolitisé. La réflexion qui accompagne cet héroïsme négatif se fait en trois volets : le malheur (plus ou moins inventé) de l’homme moderne, l’écriture fragmentaire en tant que miroir d’un univers atomisé, désagrégé, inachevé, et le défi stoïque, positivement connoté, de l’héroïsme négatif de Cioran, autrement dit, « le courage de continuer à vivre et à écrire à l’encontre de ses propres conclusions, de son propre savoir » (p. 26). Les piliers de cette « autobiographie sans événements » sont le suicide et la « (re)naissance ». La biographie de Cioran fut marquée par un suicide jamais commis, puisqu’on ne peut pas tuer une idée. Ce que Cioran retient du suicide, c’est l’idée de se donner la mort, pas l’acte en soi : « sans l’idée du suicide — estimait-il — on se tuerait sur-le-champ! » D’ailleurs, si celui qui se vantait d’avoir « tout sacrifié à l’idée du suicide, même la mort », ne s’est pas suicidé, c’est parce que, disait-il plus ou moins amèrement, de toute façon, « on se tue toujours trop tard ». La même biographie fut également marquée par « l’inconvénient d’être né », voire d’être né Roumain, par les « affres de la lucidité », par les tortures du paradoxe, par l’effort de reconstruction intérieure et de mise en scène d’un moi aliéné. Dans le Paris aggloméré et automatisé, le regard du métèque s’arrête sur des gens que personne ne voit, venus, eux aussi, d’ailleurs, ou bien sur des clochards-philosophes. Sa lucidité — autrement dit, son « inaptitude à l’illusion » — fut celle d’une tribu sceptique, fataliste, anhistorique, celle de ces analphabètes brillants qui savent depuis toujours que l’homme est perdu et qui lui ont inculqué cette lucidité en même temps que « l’envergure pour gâcher sa vie ».

Étant lui-même un paradoxe vivant, Cioran ne put mettre en scène qu’une paradoxale série de représentations de soi : le moraliste qui, avant d’observer les hommes, se donne comme devoir primordial de « dépoétiser sa prose » tend la main à un être lucide pris pour un sceptique; le « parvenu de la névrose » est le frère du « Job à la recherche d’une lèpre » ; le « Bouddha de pacotille » cherche la compagnie tourmentée d’un « Scythe flemmard et fourvoyé », « idolâtre et victime du pour et du contre », d’un « emballé divisé d’avec ses emballements », d’un « délirant soucieux d’objectivité », d’un « douteur en transe » ou d’un « fanatique sans credo ». Cette rhétorique du paradoxe et de l’opposition projette, selon Sylvain David, non seulement l’image d’un marginal, d’un étranger, d’un exclu, d’un apatride métaphysique, mais également et surtout un jeu de contraires qui trouve son plaisir esthétique dans les contorsions, dans les volutes élégamment orchestrées par une pensée organiquement écartelée « entre scepticisme et besoin de croire, entre lucidité et illusion vitale » (p. 273). Cette mise en scène du moi artistique participe d’un « métacommentaire » qui prolonge non seulement « une détestation de soi primaire » (en tout cas, moins importante, semble-t-il), mais surtout d’« une forme d’amour trahi ou d’orgueil blessé » (p. 275). La visée de celui qui se voulait « le secrétaire de [s]es sensations » n’est pourtant aucunement narcissique, mais plutôt viscérale, car, disait-il, ce ne sont pas nos idées, mais nos sensations et nos visions — parce qu’elles « n’émanent pas de nos entrailles » et sont « véritablement nôtres » — qui peuvent, qui doivent nous définir. Cet attachement au sensoriel est, observe Sylvain David, l’apogée de l’héroïsme négatif de Cioran : en parlant de sensations et de visions qui sont les siennes, pas les nôtres — c’est-à-dire « non partagées avec le commun » —, le dernier Cioran défend son héroïsme négatif en explorant ce que son passé, son identité, ses souvenirs ont de négatif. Cet effort expiatoire est plus qu’une catégorie esthétique : il s’impose en tant que garantie morale de l’œuvre de maturité d’un homme « désintégré ».

Sur les ruines d’un univers déserté par les dieux, un penseur inclassable vint installer son Verbe ahurissant, héritier de la sobriété et de l’élégance des moralistes dont il se réclamait comme descendant légitime, aussi bien que de la saveur amère et de la souplesse de sa langue maternelle. Seuls l’aphorisme ou le fragment pouvaient représenter cet univers morcelé, éclaté. À l’encontre de Ionesco ou de Beckett, qui ont exploré l’absurde du langage, Cioran resta plutôt un classique, car, bien que conscient des mots, il a cherché, au-delà de la fonction poétique de la langue, à faire passer ses négations au niveau de la rhétorique; son univers n’est pas l’absurde, mais le paradoxe qui repose sur toute une série de malgré : poursuivre sa réflexion, malgré la déception que provoque chez lui la philosophie, malgré le mal que provoque sa propre conscience (ou sa propre lucidité); écrire, malgré les doutes quant à la capacité de son écriture à définir sa conception du monde; publier, malgré un nombre restreint de lecteurs et le dégoût que provoque en lui le flux éditorial parisien.

Certes, Cioran a écrit parce que, disait-il, chaque livre est « un suicide différé ». Paradoxalement ou non, son héroïsme négatif n’est ni agressif ni virulent, mais plutôt la représentation concrète de son aptitude — qui l’aurait cru? — « au compromis stoïque », de sa « capacité de se mouler aux circonstances de la modernité sans jamais pour autant s’y diluer ou s’y travestir » (p. 326). Il ne lui restait qu’à devenir « le sceptique de service » d’un monde en agonie ou « le secrétaire de [s]es sensations », puisque « être le secrétaire d’une sainte » n’a pas été la chance de sa vie.

Le Cioran français est, selon certains exégètes du moraliste, le masque du Cioran roumain séduit, dans les années 1930, par le mouvement nationaliste roumain et qui, une fois établi en France, n’a fait que réécrire ses livres roumains, afin de cacher ses jeunes égarements tout en restant fidèle à ses anciens credo. À l’encontre de certains de ses prédécesseurs, Sylvain David met au cœur de sa lecture de l’œuvre française de Cioran le fondement esthétique et social de l’art du fragment, dont l’auteur du Mauvais démiurge fut le maître incontesté. Complètement dépolitisés, les paradoxes cioraniens retrouvent toute leur beauté et leur profondeur et construisent, par le biais d’une analyse aussi subtile qu’objective, le parcours sinueux, mais combien passionnant, d’un « héroïsme à rebours ».

 

Compte rendu par : Liliana Nicorescu

Référence : Sylvain David, Cioran. Un héroïsme à rebours, Les Presses de l’Université de Montréal, coll. « Espace littéraire », 2006, 338 p.

Pour citer cet article : Liliana Nicorescu, «Cioran : une pensée contre soi héroïquement positive», @nalyses [En ligne], Comptes rendus, XXe siècle, mis à jour le : 27/01/2010, URL : http://www.revue-analyses.org/index.php?id=623.

samedi, 17 avril 2010

Il caso Némirovsky: vita, morte et paradossi di un'ebvrea antisemita

Il caso Némirovsky:
vita, morte e paradossi di un’ebrea antisemita

di Stenio Solinas

Fonte: il giornale [scheda fonte]

 Cinque anni fa la Francia riscoprì all’improvviso una scrittrice che aveva dimenticato. Si chiamava Irène Némirovsky, era una russa di origine ebraica, era morta in un campo di concentramento nell’estate del 1942. Per un caso straordinario, le figlie avevano custodito fino a quel 2004 una valigia che conteneva la produzione letteraria materna, dattiloscritti, diari, appunti, e fra essi c’era il manoscritto del romanzo a cui Irène aveva lavorato dal giorno della disfatta bellica della Francia, giugno-luglio 1940, fino in pratica al momento in cui i gendarmi francesi si erano recati nella sua casa di campagna e l’avevano portata via. Suite française era il titolo scelto e per quanto nei piani della sua autrice esso prevedesse ancora un volume, relativo a come quel conflitto sarebbe finito, era omogeneo e a sé stante nelle due parti che lo componevano. Pubblicato a mezzo secolo di distanza, il romanzo ebbe un successo clamoroso, vinse dei premi, riportò alla ribalta il nome Némirovsky.

Anche in Italia il suo è stato un caso letterario. È Adelphi, infatti, l’editore che ne ha comprato i diritti e da Il ballo a David Golder, da Jézabel a Come mosche d'autunno a, appunto, Suite francese, ogni titolo si è rivelato un successo e ha contribuito a fare del suo autore uno dei più venduti e dei più citati. Poiché nel corso della sua vita Irène scrisse una decina di romanzi e una quarantina di racconti, il fenomeno è destinato a continuare nel tempo.

Adesso ancora Adelphi manda in libreria La Vita di Irène Némirovsky di Olivier Philipponnat e Patrick Lienhardt (traduzione di Graziella Cillario, pagg, 516, euro 23), uscita due anni fa in Francia da Grasset, una biografia molto ben documentata grazie alla quale del personaggio sappiamo praticamente tutto, compreso il forte tasso autobiografico della sua produzione, in pratica una sorta di reinvenzione artistica della sua famiglia, degli ambienti in cui visse, dei suoi gusti, delle sue passioni e dei suoi odii. E tuttavia, in questo saggio, così come nel successo che ha arriso a quanto finora è stato via via pubblicato, resta un elemento di ambiguità che nessuno si decide veramente a sciogliere e sul quale vale la pena di riflettere. Lo facciamo con tutta la delicatezza del caso, ma crediamo ne valga la pena.

Il fatto che la Némirovsky, intellettuale ebrea di origine, per quanto convertita al cattolicesimo, sia stata una vittima della «soluzione finale» hitleriana, potrebbe spiegare di primo acchito il perché di tanto interesse di pubblico e di critica: una sorta di risarcimento postumo per un nome che pure, negli anni Trenta, aveva goduto di risonanza, una sorta di mea culpa nei confronti di chi si era identificata con la Francia, la sua lingua, la sua storia, la sua cultura, e dalla Francia in fondo era stata abbandonata e poi tradita... Nel 1929 David Golder, il suo romanzo d’esordio per Grasset, vendette 60mila copie, ebbe una riduzione teatrale e una cinematografica, quest’ultima per la regia di Julien Duvivier, che andò persino alla Mostra del Cinema di Venezia del 1932...

E però, se si va più a fondo, un po’ tutta la narrativa della Némirovsky è un susseguirsi di ritratti e di ambienti in cui la «razza ebraica», come si sarebbe detto un tempo, non appare nella sua luce migliore, ma è spesso e volentieri un concentrato di avarizia e di cupidigia, di odio e di crudeltà, di disordine sociale e morale, di incapacità e/o non volontà di assimilazione, di vera e propria «razza a parte» insomma, nemica a tutti e in fondo nemica anche a se stessa...

C’è di più: russa di nascita (Kiev, 1901), la Némirovsky fugge dal suo Paese nel momento in cui i bolscevichi prendono il potere: la sua famiglia appartiene alla buona borghesia degli affari, lei ha l’educazione classica di chi fra istitutrici e lezioni private non si mischia al contatto promiscuo delle scuole pubbliche, passa le vacanze sulla Costa Azzurra, soggiorna ogni anno a Parigi... È una «russa bianca», insomma, con un padre banchiere e finanziere, una madre che pensa soltanto alle toilettes e agli amanti, un treno di vita che l’esilio, prima in Finlandia, poi in Svezia, infine in Francia, non muta più di tanto: appartamento sulla Rive droite, in pratica affacciato sugli Champs Elisées, studi alla Sorbona, estati a Biarritz o a Dauville... L’anticomunismo, insomma, è un dato acquisito, qualcosa che Irène respira fin da ragazza: ha fatto in tempo a vedere lo scoppiare della rivoluzione, i processi sommari, i saccheggi e i massacri. Non lo dimenticherà mai.

Infine, c’è un altro elemento da aggiungere al puzzle finora composto e alla ambiguità che lo circonda. Nel suo decennio letterario la Némirovsky scrive in linea di massima per testate che appartengono al largo spettro della destra francese, ha Robert Brasillach fra i suoi critici più entusiasti, ma anche più avvertiti quanto alla sua arte, ai suoi pregi e ai suoi difetti, frequenta Paul e Hélene Morand... Non è una scrittrice di politica, certo, non si interessa più di tanto alle ideologie, certo, ma è naturaliter di quel mondo borghese, antiparlamentare, antidemocratico, anticomunista, con qualche simpatia per il fascismo, con molte perplessità sul nazionalsocialismo, nazionalista e quindi attento al suolo, al sangue, alla radici, che è il mondo della destra francese della prima metà degli anni Trenta.

La Némirovsky, insomma, faceva parte di quel milieu di ebrei antisemiti di cui oggi non si riesce quasi più ad avere un’idea, ma che fra le due guerre mondiali esistette e spesso fu intellettualmente maggioritario: un atteggiamento etico ed estetico, il disprezzo per l’oro e per l’usura, per chi era considerato un senza patria, per chi rimaneva chiuso nel suo piccolo mondo di tradizioni e di riti.

Siamo di fronte, dunque, a un destino particolarmente tragico perché la Némirovsky è, come dire, vittima dei suoi «amici», non dei suoi nemici. Nelle lettere che Michel Epstein, il marito, scriverà a Otto Abetz, il potente capo della cultura tedesca in terra di Francia, si sottolinea in fondo proprio questo: l’essere anticomunista, il non avere tenerezza per gli ebrei, il fatto che i suoi libri continuino a essere pubblicati, che insomma non sia nella lista nera degli scrittori da dimenticare... Non è nazista Irène, certo che no, e non può sapere quale tragedia politica e morale sarà il nazismo, e il suo iniziale credere in Pétain non vuol dire augurarsi sterminio da un lato, sudditanza dall’altro. Abituati a ragionare con la testa del presente sulla realtà del passato, si fa fatica a capire le scelte di campo, le motivazioni, le speranze e le illusioni. Irène non penserà mai di mettersi in salvo perché crede di essere già in salvo: fa parte dell’intellighentia, di una nazione che ama e difende i suoi scrittori, è legata da sentimenti di amicizia con intellettuali e politici che ora godono di un peso maggiore rispetto agli anni di pace, è, insomma, nella stessa barca dei «vincitori».
Perché dovrebbero buttarla a mare, perché le dovrebbero fare del male? È per questa ambiguità che non si salvò. È questa ambiguità che ancora oggi fa velo a cosa veramente fu la Francia (e non solo la Francia) di ieri.


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

jeudi, 15 avril 2010

"Proust è un bavoso". Viaggio nella biografia di un genio fulminato

«Proust è un bavoso»
Viaggio nella biografia di un genio fulminato

di Stenio Solinas

Fonte: il giornale [scheda fonte]

 «Gli editori sono tutti carogne». «Non aggiungete una sillaba al testo senza preavvisarmi! Fottereste il ritmo come niente - solo io posso ritrovarlo là dov’è. Ho l’aria bavosa, ma so a meraviglia ciò che voglio. Non una sillaba. Fate anche attenzione alla copertina. Niente music Hallismo. Niente sentimentalismo tipografico. Del classico». «I critici dicono sempre fesserie. Giornalisti innanzitutto, lavorano di chiacchiere, piccoli ricatti... Ci vorrebbe qualcuno che si decidesse a coprirmi di sputi!... La gente è sadica, vigliacca, invidiosa, distruttrice. Ha bisogno di sentire il saccheggio, lo spappolamento, altrimenti non ci sta...». «Bisogna vedere gli uomini come cani. Ciò che fanno, abbaiano, ringhiano, spiritualmente non significa niente, meno che zero... Purtroppo ci toccano le conseguenze materiali, ma moralmente... Cani, nient’altro che cani. Tutto è permesso, insomma, per evitare i loro morsi e ingannarli e aizzarli in modo che si sbranino fra loro. Meglio dimenticare tutto, mascherare in musica l’orrore del vivere».

Ma sì, è Céline che batte alla porta, strepita, irride, minaccia e s’incazza... Ben tornato Ferdinand sull’onda delle oltre 2mila pagine del volume che raccoglie una antologia monstre (più di 1500 lettere) della sua corrispondenza, dalla giovinezza alla morte (Lettres, Gallimard, collezione Bibliothèque de la Pléiade, pagg. 2080, euro 66,5; a cura di Henri Godard e Jean-Paul Louis). Per la prima volta, insieme con molti inediti, l’epistolario celiniano fino a oggi sparso e spesso disperso in innumerevoli rivi editoriali (le lettere dall’Africa, le lettere alle amiche, quelle agli editori e agli avvocati, le lettere dall’esilio) viene selezionato e cronologicamente ordinato. Il risultato è imponente.

Il carteggio è una miniera di informazioni sul Céline scrittore, sui suoi procedimenti, sulle sue idiosincrasie, ma ne scandaglia anche il privato: la passione per la bellezza («Sono pagano per la mia assoluta adorazione della bellezza fisica, della salute. Odio la malattia, la penitenza, il morboso(...) Perciò ho amato tanto l’America. La felinità delle sue donne!(...). Tranquillo stallone, guardone, palparle è un incanto senza pari, mi inebria, mi ispira - Darei tutto Baudelaire per una nuotatrice olimpionica»); il rifiuto della vita reale, obiettiva, il peso degli anni e dei guasti fisici.

Dietro il cliché del «medico dei poveri» la corrispondenza fa rigalleggiare il bell’uomo alto più di un metro e ottanta, che indossa abiti di buon taglio e stoffa inglese, biondo e con gli occhi azzurri, che conosce il mondo e il bel mondo, uno che a Ginevra come a Vienna, a New York come a Londra, sa dove andare, come muoversi, cosa vedere, a proprio agio con pianiste come Lucienne Delforge, con scultrici come Louise Nevelson, con figlie della buona borghesia di provincia come Edith Follet, la sua prima moglie. Vive in un appartamento moderno, con qualche souvenir coloniale, in rue Lepic: è cortese, ma riservato.
Ciò che nelle lettere d’anteguerra è accennato, sparso e variegato, in quelle post-belliche tende a raccogliersi su un triplice binario. Sul primo corre il métro emotif, il treno dello stile. «Tutto il mio lavoro è consistito nel cercare di rendere la prosa francese più sensibile e tesa, precisa, sferzante e cattiva iniettandole un linguaggio parlato, il suo ritmo, il suo tipo di poesia e di tenerezza malgrado tutto, di resa emotiva». «Io seguo con le parole l’emozione, non le lascio il tempo di rivestirsi in frase... l’afferro nuda e cruda, o meglio, nella sua poeticità. Perché il fondo dell’uomo malgrado tutto è poesia - il ragionamento si apprende, così come si impara a parlare - il bebè canta - il cavallo galoppa - il trotto è di scuola». «Non creo nulla, in verità - è come se ripulissi (...) una statua seppellita nell’argilla -

Esiste già tutto (...) Occorre soltanto spazzare (...) portare alla luce del giorno - AVERE LA FORZA - è una questione di forza - forzare il sogno nella realtà - una questione di pulizia (...) È un lavoro da operaio - operaio nelle onde».

Sul secondo corre il vagone della negazione e/o riduzione di ciò di cui è incolpato, della «congiura» ai suoi danni. «Sono un patriota sfrenato in un Paese di degenerati, lacchè e bastardi. Si tratta di ben altra cosa che tradimento, è precisamente il contrario. Sono gli altri, tutti gli altri che galoppano urlando dietro la bandiera, gareggiando per farsi inculare dal migliore offerente». «Ci si accanisce a volermi considerare un massacratore di ebrei. Io sono un preservatore accanito di francesi e di ariani - e contemporaneamente, del resto, di ebrei! Non ho voluto Auschwitz, Buchenwald. Cazzo! Basta! (...) Ho peccato credendo al pacifismo degli hitleriani, ma lì finisce il mio crimine». «La Germania mi fa naturalmente orrore. La trovo provinciale, pesante, grossolana (...) Per me è quella del ’14, la gare de l’Est, la linea dei Vosgi, la morte, la salsiccia, l’elmetto a punta».

Sul terzo, infine, fila il direttissimo delle recriminazioni, delle ingiurie, degli editori traditori, dei soldi che non arrivano, della pubblicità che manca, del boicottaggio. Sotto un torrente di minacce e prese per il culo, gli interlocutori passano la mano. Jean Paulhan, il «cervello» della casa editrice Gallimard lascia nel 1955, stanco e disgustato. «Di che si lagna quel vecchio bavoso - sarà il commento - Trova che la sposa è troppo bella, ha troppo temperamento?».

E l’antisemitismo? Céline lo trasforma in pacifismo, lo scolora, più che negarlo lo orienta in maniera diversa, fino a trasformare sé stesso nell’unico vero ebreo errante: esiliato, offeso, perseguitato... Ma dietro al razzismo c’è anche una questione di stile, come una lettera del 1943, che ha per tema Proust, mette bene in evidenza. «Lo stile di Proust? È semplicissimo. Talmudico. Il Talmud è imbastito come i suoi romanzi, tortuoso, ad arabeschi, mosaico disordinato. Il genere senza capo né coda. Per quale verso prenderlo? Ma al fondo infinitamente tendenzioso, appassionatamente, ostinatamente. Un lavoro da bruco. Passa, viene, torna, riparte, non dimentica nulla, in apparenza incoerente, per noi che non siamo ebrei, ma riconoscibile per gli iniziati. Il bruco si lascia dietro, come Proust, una specie di tulle, di vernice, che prende, soffoca riduce e sbava tutto ciò che tocca - rosa o merda. Poesia proustiana. Quanto alla base dell’opera: conforme allo stile, alle origini, al semitismo: individuazione delle élites imputridite, nobiliari, mondane, invertiti etc. in vista del loro massacro. Epurazioni. Il bruco vi passa sopra, sbava, le fa lucenti. I carri armati e le mitragliatrici fanno il resto. Proust ha assolto il suo compito». Conclusione: nel 1943 l’autore della Recherche avrebbe applaudito la sconfitta tedesca a Stalingrado...

Scrittore antimaterialista, Céline cercò di combattere il materialismo usando uno strumento, la razza, altrettanto materiale e, come tale, incapace di cogliere differenze di valori e di sensibilità. L’ideale ariano si trasformerà in beffa allorché, dopo essere stato imprigionato in Danimarca, si troverà a scrivere: «Merda agli ariani. Durante i 17 mesi di cella non un solo fottuto dei 500 milioni di ariani d’Europa ha emesso un gridolino in mia difesa. Tutti i miei guardiani erano ariani». Quando si predica la purezza c’è sempre qualcuno che si crede più puro di te. Un genio fulminato.


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

mardi, 13 avril 2010

Dossier Dantec (2004)

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2004

DOSSIER “DANTEC”  :

 

Dantec devant les cochons

Source : http://ca.altermedia.info

 

MD-B.gifComme Présent l’avait prévu dès l’automne (1), le grand romancier et essayiste Maurice G. Dantec est soumis depuis quelques jours à une attaque en règle des «.Maîtres Censeurs » (2), de ces petits marquis islamo-gauchistes qui, depuis leurs quartiers chics et tranquilles de Saint-Germain veulent régenter les lettres et la pensée française.

 

Tout a commencé par une curieuse offensive à l’évidence préméditée, et collective, sur le forum du journal gratuit canadien Voir (3) qui s’est soudainement mis à vomir des messages d’insultes contre l’auteur de Babylon Babies (4) coupable, en vrac, d’être un « nazi américano-sioniste » (?), un islamophobe, un facho, et autres noms d’oiseaux.

 

Entre-temps, Dantec qui, du fait d’un quasi ostracisme dans les médias français, a pris l’habitude de lire, écrire et débattre sur le Web, lequel reste – pour le moment – un espace de liberté, commit l’irréparable péché de s’inscrire à la newsletter du Bloc Identitaire (5). Pire encore, l’écrivain poussa le vice jusqu’à accompagner cette démarche d’une lettre à Fabrice Robert, dirigeant du Bloc, pour lui préciser que, bien qu’en désaccord fondamental sur les positions de cette formation en ce qui concerne les Etats-Unis et Israël, il appréciait leur bel activisme contre le groupe de rap anti-français Sniper, pour leur défense de l’abbé Sulmont, et, plus généralement, leur lutte contre l’islamisation de la France. Last but not least, en homme courtois (quel ringard !), il leur souhaitait à la fin de cette missive, dont il autorisait la publication, tous ses vœux pour 2004… C’en était trop !

 

Ou plutôt, bien sûr, c’était enfin le « faux pas », qu’attendait le troupeau gras des cochons de la médiaklatura pour couiner en chœur leurs délations, leurs malédictions et leurs excommunications contre l’intellectuel qui avait osé, entamer un débat avec les intouchables, les lépreux de la droite identitaire !

 

Des « cochons » oui, comme disait Léon Bloy (1) qui fut aussi, en son temps, la cible d’une vindicte généralisée de la presse parce qu’il avait eu le malheur de défendre Tailhade ; et qui leur répondit en rédigeant Léon Bloy devant les cochons (6), que nous nous sommes permis de paraphraser dans notre intitulé. Des cochons comme ceux qui, dans l’excellente fable de George Orwell, prennent le pouvoir de La ferme des animaux en y installant leur totalitarisme absurde pour mieux se goinfrer au nom de la liberté.

 

Des cochons donc, vautrés dans leurs turpitudes, qui trouvent charmant d’aller biser les terroristes du Chiapas, de fêter le livre (!) chez Fidel Castro, de voter pour Arlette Laguiller, et, donc, le projet d’une bonne révolution sanglante, ou encore, et la liste serait longue, répandent leur vulgate d’anciens communistes, complices de régimes génocidaires, dans toutes les feuilles et sur tous les écrans.

 

C’est Libé, bien sûr, qui a sonné l’hallali, jeudi, en un article où l’amalgame simpliste n’avait d’égal que le verbe venimeux. Le Monde récidivait dans la foulée – « Dantec s’affiche avec l’extrême droite » - dans l’inénarrable style bolcho-jésuitique qui est le sien. Et c’est d’ailleurs dans ses colonnes que l’on pouvait lire avec stupeur la « réaction » de Patrick Raynal, directeur de collection du pestiféré Dantec, qui enfonçait ainsi l’un de ses poulains en s’estimant « catastrophé, étant contre toutes les opinions » de Maurice G. Dantec. Consternant.

 

Et l’ « affaire Dantec » d’enfler maintenant jusqu’au Canada, où le quotidien La Presse a cru bon d’apporter ses rondins au bûcher. Sans parler d’internet qui voit les sites gaucho-bobos se remplir d’indignation vengeresse. Mais nous concluions lors de notre précédent article que l’écrivain catholique n’était pas du genre à se laisser faire sans combattre. Lui qui pense la littérature comme un combat pour la Civilisation Occidentale chrétienne et se veut un « guerrier du Verbe », ne manque pas de rage et de souffle.

 

Déjà, ses réponses fusent depuis Montréal comme autant de missiles intercontinentaux ! Il y dénonce avec véhémence ces « journalistes » sans déontologie ni métier, leurs « mensonges » « qui prouvent [qu’ils sont] très proches des officines de désinformation gouvernementales ». Il assume ses écrits, avec une belle témérité qui devrait faire honte à tous les lâches du système, chiens couchés, silencieux, aux pieds des inquisiteurs de la grosse presse anarcho-trotstko-bancaire.

 

Mais nous disions aussi, « qui sait s’il ne se trouvera pas de nombreux et inattendus soutiens qui rallieront le labarum archéo-futuriste de ce Constantin de la littérature française ». Et c’est ce qui semble arriver. Déjà, nous savons que de nombreux mails et courriers de fans, issus de tous les milieux et de tous bords, partent en direction de la prestigieuse maison Gallimard (7) afin qu’elle mobilise pour soutenir son auteur. La revue culturelle Cancer ! n’est pas en reste, qui a ouvert une page spéciale sur internet (8) et dont les rédacteurs se solidarisent avec maudit ; le site subversiv.com aussi, qui publie une interview choc de Dantec et bien d’autres encore, dont, évidemment, les militants du Bloc identitaire.

 

On peut aussi imaginer, et nous l’espérons, que ses amis intellectuels et écrivains dits « nouveaux réactionnaires » qui avaient fait naguère crânement face à l’attaque du commissaire politique Lindenbergh, sauront faire preuve de solidarité avec lui. Et puis, la meilleure solution est encore d’aller acheter massivement les œuvres de Dantec, en vente dans toutes les librairies, car dans ce monde hélas dominé par le fric, c’est par le porte-monnaie qu’il faut convaincre le landerneau des lettres que ce genre de lynchage ne nous impressionne plus.

 

Olivier GERMAIN.

 

1. Faut-il brûler Maurice G. Dantec, Présent du 3 octobre 2003

2. Elizabeth Lévy, Lattès, 2002

3. www.voir.ca

4. Gallimard, La Noire, 1999

5. Bloc Identitaire – BP 13 – 06301 cedex 04 et www.les-identitaires.com

6. Mercure de France, 1895

7. Éditions Gallimard – 5, rue Sébastien-Bottin – 75328 Paris cedex 07. presse-serie-noire@gallimard.fr - Tél. : 01.49.54.42.00 Fax : 01.45.44.94.03

8. http://frkc.free.fr/revuec/dantec_nettoyage.htm sur revuecancer.com

 

“Dantec, un catholique futuriste”

 

MD grandjunction.jpgQue cette affaire Dantec est significative ! Que la France et le Québec représentent à la perfection le pire Occident ! Chez nous, une lâcheté endémique, apprise d’abord à la garderie, puis à l’école primaire, où l’on enseigne aux garçons à ne pas être des garçons, où ils sont castrés, n’ont pas le droit de se chamailler, sont traités comme de futurs hommes roses (ou gris), et ainsi de suite jusqu’à l’université. Le système d’éducation du Québec est une vaste entreprise de féminisation du mâle. On extirpe des coeurs toute violence et toute agressivité au lieu de discipliner et d’ennoblir ces instincts à l’origine des vieilles vertus militaires et chevaleresques garantes de la véritable paix et de la sécurité des plus faibles. On construit de cette façon un petit être inoffensif, fatigué, dépressif, aux instincts appauvris, sans résistance, et qui subit toujours. De là, le pacifisme des jeunes. Y a-t-il pire maladie morale ?

 

FAITES LE MORT, PAS LA GUERRE ! Ce défaitisme ignoble nous a été inculqué sur les genoux de nos professeurs. Nos politiciens sont des produits de cette éducation : des chiffes molles sans dignité. Cela c’est nous ! Le Québécois ressemble au dernier homme que redoutait Nietzsche. C’est en ce sens que le Québec est le théâtre des opérations. Le nouvel Adam, le produit glorieux (et ultime) de l’histoire universelle, c’est bien l’homo quebecensis, un homosexuel athée et pacifiste de gauche dont la bouille à la Michel Tremblay attend de se retrouver sur tous les timbres postes de l’Anation québécoise et qui tend les bras à Kofi Annan, pour que soit fondée sur le sinistre modèle québécois l’Anation mondiale ! Le Québec n’est tout entier qu’une maladie. Il est aussi, à sa manière, une prophétie. Pourquoi en sommes-nous arrivés là ? N’est-ce pas parce que nous avons imité la France ? Le totalitarisme cool à la québécoise, la décomposition arrogante, le pourrissement béat de toute une société (et non seulement d’une classe), nous viennent en droite ligne (par la gauche) de nos cousins français. La France et le Québec sont des dissociétés qui se confortent dans l’auto-adulation ("société distincte” ou “spécificité française"), l’antiaméricanisme, l’intolérance branchée, le conformisme culturel, le relativisme moral, le libéralisme extrême, une dépendance psychopathologique aux programmes sociaux, psycho-sociaux, méta-sociaux. La France et le Québec modernes, c’est l’Occident ” délivré ” du christianisme. Une proie facile !

 

Le Québec singe une France en train de crever et j’ose affirmer qu’il a dépassé son modèle. Il est vrai que la crevaison finale, lorsqu’il existe un désir sincère de ne pas être, un goût délicat d’extinction et de mensonge, une identité de plus en plus incertaine, n’est pas une tâche surhumaine. Loin de là ! L’islam dans un contexte pareil est simplement en train de terminer le travail…

 

Plusieurs ont consenti à ce qui apparaît comme une fatalité. Pas Dantec. Il a compris que l’Occident, ses libertés, sa pensée, son art, n’ont nul autre appui que le Dieu chrétien et juif, Créateur et Rédempteur. Il a donc entrepris de mettre fin à la grande crise nihiliste avant que celle-ci ne détruise l’Occident. De quoi l’accuse-t-on au bout du compte ? D’avoir greffé à des propos essentiellement raisonnables un peu de véhémence ? Eh quoi ! Il en faut lorsqu’on essaie de réveiller les morts, c’est-à-dire une gôche qui a tout bradé, l’honneur inclus, ainsi qu’une vieille droite nostalgique, neurasthénique, hystérique et paraplégique, complice de la décadence, à laquelle elle se complaît en un voyeurisme stérile et ambigu !

 

Dantec est un catholique futuriste (je mentionne que l’un des grands convertis du XXe siècle, Giovanni Papini, est issu du futurisme). Appelons catholiques futuristes ceux qui ont réussi la traversée du désert nihiliste pour enfin retrouver la Terre promise, plus splendide qu’aux premiers jours du monde. Et le voilà dans la bataille ! Qu’il est beau, qu’il est émouvant le courage du lion face aux hyènes… On le compare à Louis-Ferdinand Céline. Moi je discerne les ombres de Tertullien et de Léon Bloy, deux théophores, hagiophores, christophores et naophores (j’emploie ici le vocabulaire fastueux de saint Ignace d’Antioche), capables eux aussi d’une salutaire férocité. N’oublions jamais que nous devons affronter une énergie effrénée et vicieuse avec une vigueur virile et rationnelle (” We must meet a vicious and distempered energy with a manly and rational vigour ”, Edmund Burke).

 

Dantec nous réapprend une vertu trop dédaignée, la vertu de force. Il est bon qu’il soit parti de Nietzsche (et mieux encore qu’il ne s’y soit pas arrêté), car la vertu de force est inconsciemment (et quelquefois consciemment) méprisée par plusieurs chrétiens. Ne savent-ils plus que sans elle il n’existe ni véritable paix ni vraie justice ? La mentalité pacifiste et gauchisante est en définitive l’outil idéal pour l’islamisme et ses sbires. La lutte contre l’Islam jihadiste contribuera-t-elle à une renaissance de la France, à l’image de l’Amérique qui, elle, réussira (peut-être) sa Contre-révolution à cause de l’odieuse agression d’Al Qaeda ? L’Amérique croyait à tort avoir apprivoisé l’esprit révolutionnaire avec le libéralisme lockien et jeffersonnien. Elle ignorait que, insatiable, le principe révolutionnaire ne se contente ni de l’individualisme, ni même du collectivisme : on ne satisfait jamais un monstre dont la nature est de toujours répondre oui au mal. Pour lui, the Hell is the limit. Les meilleurs parmi les conservateurs américains ont alors compris que, s’ils ne réagissaient pas, surgirait le règne des égorgeurs, ceux-ci invités, cajolés, soutenus, par l’anomie libérale et qu’il fallait d’urgence que l’Amérique s’enracine à nouveau dans le christianisme natal qui l’a fondée. Quel spectacle et quel combat chez nos voisins du sud ! Le Joseph de Maistre américain, Orestes Brownson, enseignait déjà, en plein XIXe siècle, que le destin de l’Amérique et celui de l’Occident étaient suspendus au mouvement civilisateur universel : l’Église catholique romaine.

 

Aujourd’hui, plusieurs intellectuels américains ont recueilli la leçon du maître. Pendant ce temps, dans la Francité islamophile, le cercle des saddamistes dépités, (l’expression appartient à l’excellent Guy Millière) s’acharne contre le héros qui refuse la fin de la France, malgré la France elle-même. Osons, à la façon de Montalembert, une prédiction : le fils des croisés ne sera pas vaincu par les fils de Voltaire et par ceux de Mahomet. En tout cas, ce n’est pas la lecture, sur le site de Cancer!, des réactions d’Albert Sebag (Le Point) et de Pierre Marcelle (Libération) qui abattront un Dantec. Quel tartuffe que le premier et quel animal venimeux que le second ! Je ne me permettrai qu’une seule remarque à ces adeptes de la non-résistance à l’islam.

 

L’islamophobie, comme ils disent, est un signe de santé. Un chrétien islamophile se dénomme dhimmi (un dhimmi en devenir, comme les Français actuels, ou en fonction, comme les chrétiens du Proche Orient) ! La crainte de l’Islam est traditionnelle en Occident. Elle est en outre parfaitement justifiée par l’histoire et par la théologie. Ce n’est pas Dantec qui fait de Mahomet une des trois grandes figures de l’Antéchrist, c’est le Cardinal John Henry Newman, un exemple suprême d’urbanité (dixit l’incroyant Matthew Arnold) dans la littérature anglaise et l’un des plus grands théologiens depuis saint Thomas. Selon Newman (dans ses sermons sur l’Antéchrist), les trois grandes figures annonciatrices de l’Antéchrist sont Antiochus Épiphane, Julien l’Apostat et Mahomet. Le premier s’attaque spécifiquement à la religion (juive, évidemment). Le second est devenu empereur, quelques années après l’apparition d’une des plus terribles hérésies chrétiennes : l’arianisme. Il a d’ailleurs été éduqué par des Ariens (qui niaient la consubstantialité du Fils avec le Père et donc la divinité du Christ). L’arianisme fut pendant un certain temps quasi tout-puissant dans la chrétienté. On peut soutenir qu’il annonce l’islam et que celui-ci est bien, dans l’esprit de Newman (comme dans celui de Dantec) la grande division (plus importante que la Réforme). En ce sens, il faudrait parler de l’islam comme d’une première modernité (qui se joint en notre temps à la modernité occidentale proprement dite). L’avancée actuelle de l’islam en Europe n’est-elle pas annonciatrice de l’assaut ultime du nihilisme ? Dantec le croit : il a senti l’odeur de la bête.

 

Marcelle met sur le même plan l’antisémitisme et l’islamophobie. L’erreur est manifeste quoique nullement désintéressée ! L’antisémitisme est une abominable hérésie pour un chrétien ou un fils de chrétien, une espèce de marcionisme inconscient, un rejet de l’Ancien Testament, un crime contre la première Personne de la Sainte Trinité. Mais l’islam est l’hérésie par excellence : négation de la divinité du Christ et mépris de l’ordre naturel, une hérésie qui entraîne “la dégradation de la femme, l’esclavage de l’homme et la stérilité de la terre” (Donoso Cortès). Heureusement, il y a quelqu’un quelque part qui veille et qui résiste.

 

Jean RENAUD,

30 janvier 2004

 

Jean Renaud est le Directeur de la rédaction d’Egards, revue de résistance conservatrice - http://www.egards.qc.ca

 

Le droit de réponse de Maurice G. Dantec, REFUSÉ par Libération

 

MD-LRDM-B.gifIl existe un Paradis pour les journalistes. Comme il existe un enfer pour les écrivains.

 

Le paradis des journalistes s’appelle : LA PEUR. Et il conduit très directement à l’enfer des écrivains.

 

La Peur est le véritable maître de l’Homme de presse, c’est par elle qu’il règne, depuis bientôt 200 ans, sur la libre pensée, qu’il écrase de ses bottes à chaque occasion qui se présente. Celle-ci devient de plus en plus en rare. LA PEUR ! Son régime de domination si particulier s’est en effet instauré dans tous les esprits. Tout le monde est le flic de chacun, et de tous, et à commencer par soi-même.

 

Ernest Hello avait su, il y a plus d’un siècle, en quelques lignes fulgurantes, délimiter fermement la ligne de partage entre la peur et la crainte. La crainte c’est ce qui vous force à vous agenouiller devant la plus haute des souverainetés, et en fait elle conduit à la JOIE. La peur, créature du Diable, ne forme au final que des valets, dont l’angoisse est proportionnelle à l’ennui. Aussi, dès que par l’effet d’une sorte de hasard parfaitement impromptu, une voix ressurgit du silence, c’est-à-dire du bavardage continu qu’ils avaient cru une fois pour toute installé sous leur arbitrage, alors leur sang de navet ne fait qu’un demi-tour et leur bouche écume la rage tout juste bouillonnante des petits frustrés.

 

Pierre Marcelle est le chef de ces Archanges dont les merdicules d’encre et de papier mâché auréolent la présence plus sûrement encore que le halo des saints. Il est le Grand Vigile. Le Grand Collaborateur. Il est celui qui veut que les paroles qui sont des actes (je paraphrase à nouveau le grand Hello) cessent, immédiatement, car pour lui, la parole, il suffit de lire sa consternante prose dont on ne voudrait pas comme serpillière à urinoirs pour s’en apercevoir, la parole, pour Marcelle, c’est ce qui se répète, jusqu’à la nausée, dans les colonnes de son torchon.

 

La Peur a un seul ami. Son nom est Mensonge. Par exemple, lorsque ce triste Jdanov du Ve arrondissement se permet de dire que je me suis lié politiquement à un groupe néo-nazi, l’enflure Marcelle ne peut invoquer l’erreur : il commet sciemment un double-mensonge, comme d’autres pratiquent le double fist-fucking. Marcelle avait envoyé quelques sbires faire le sale boulot à sa place il y a une quinzaine de jours. Après tout, pourquoi paye-t-on au lance-pierre, avec des salaires de peóns brésiliens, les pigistes de Libé ?

 

Mais sa petite conjuration n’a trouvé qu’assez peu d’imbéciles pour lui emboîter le pas, mis à part ce qui fut un jour “Le Monde”. Aussi, enragé d’être forcé de constater que toute la France médiatico-culturelle ne le suivait pas comme un seul homme, prêt à brandir la tête de l’infâme au bout de sa pique, Marcelle, son courage ne parvenant pas tout à fait à se liquéfier sous lui, l’a pris à deux mains et l’a répandu dans un article dont la confection et le message rappellent fâcheusement, même certains de ses “amis” s’en sont rendus compte, les méthodes du Die Stürmer ou de la Pravda de la grande époque. Rien, absolument rien ne peut arrêter un Pierre Marcelle. Rien ne peut arrêter le nihilisme de ces petits-bourgeois de gauche, rien ne l’arrêtera, sinon sa propre agonie, qui est d’ailleurs si proche que c’est à se demander si tous ces piaillements ne signifient pas en fait que son heure, enfin, a sonné.

 

Ce qui, bien sûr, augmente d’autant la détresse du Marcelle. Le Marcelle vit dans un Monde qui doit absolument se perpétuer, c’est à dire sous la forme désormais indépassable de la contestation-marchandise.

 

Dans le Monde des Marcelle vous avez le droit d’être tout :

Vous avez le droit d’être homosexuel.

Vous avez le droit d’être athée.

Vous avez le droit d’être communiste.

Vous avez le droit d’être socialiste.

Vous avez le droit d’être écologiste.

Vous avez le droit d’être anarchiste.

Vous avez le droit d’être pro-islamiste.

Vous avez le droit d’être anti-sioniste.

Vous avez le droit d’être libéral.

Vous avez le droit d’être anti-libéral.

Vous avez le droit - et même le devoir - d’être anti-impérialiste.

Vous avez le droit (comprenons-le en fait sous le sens de “devoir") d’être anti-occidental.

vous avez le droit (devoir) d’être anti-capitaliste.

Vous avez le droit-devoir d’être contre toute “survivance de l’ordre ancien” honni.

 

Mais vous n’avez pas, bien sûr, le droit d’être “nazi”, car ce mot-valise fort pratique permet désormais d’enfermer à double tour toute pensée critique dans les oubliettes du déshonneur, mais surtout :

Vous n’avez pas le droit d’être Chrétien, et encore moins Catholique.

Vous n’avez pas le droit d’être Sioniste.

Vous n’avez pas le droit d’être opposé - théologiquement et politiquement, ce qui ne fait qu’un dans cette religion - à l’Islam (sous peine d’être taxé d’islamophobie, cette maladie mentale qui fait, comme en son temps l’anticommunisme, des dégâts sans cesse croissants dans la conscience des européens).

Vous n’avez pas le droit d’engager un dialogue poli, quoique très critique, avec des gens qui ont été enfermés dans le mot-valise des Marcelle.

Enfin, vous n’avez pas le droit de vous émouvoir, avec quelque indignation, de l’existence de centres de viol répandus par centaines dans les “cités” de notre bienheureuse “République”.

 

Les Marcelle ne veulent pas que cela s’ébruite. Car leur Paradis pourrait alors s’écrouler.

 

C’est alors que leur seule amie, la PEUR, entre en jeu. Leur Monde ne pourrait tenir sans elle, car elle est ce qui, pour le moment encore, interdit aux bouches de s’ouvrir. Mais la peur est une physique instable, elle est une créature du diable, les Marcelle s’en croient les commanditaires, ils n’en sont que les manœuvres. Et c’est pour cela que la PEUR, maintenant, leur revient à la face. Quelque chose s’est produit. Quelque chose a désorbité la peur de sa propre balistique quotidienne. Quelque chose a retourné la PEUR contre elle même. Et cette chose, ô Miracle, c’est LA PEUR ELLE-MÊME.

 

Le paradis des Marcelle n’est qu’un simulacre, un PROGRAMME. Il est à peu près aussi réel que la dernière version de SuperMario. Le Monde réel, lui, vit sous sa domination car il croit que c’est ce simulacre, le réel, et lui-même, ne lui a t-on pas assez rabâché, qui est un pur phantasme. Par exemple le type qui se fait cramer trois fois sa bagnole dans l’année vit un PHANTASME. Comme les adolescentes violées en tournantes. Comme les gens qu’on fracasse à coups de pierres parce qu’il n’auront pas donné une cigarette, comme les filles qu’on incendie avant de les jeter dans une benne à ordure.

 

Le Paradis des Marcelle n’est valable que pour les Marcelle, et leurs sous-fifres. Il n’est donc réel que pour eux. Les autres, ces pauvres phantasmes dont l’idiotie est sans cesse moquée et dénoncée par les Maîtres du Simulacron, n’ont souvent - pour survivre dans le grand camp de concentration franco-mondial - comme nourriture de subsistance que des livres. C’est pour cela que l’œil du Grand Vigile est constamment braqué sur ceux qui parviennent encore à en écrire. Car nous parlons de livres, bien sûr, pas de ces objets de consommation jetables, comme les tampons hygiéniques, que précisément la Peur a domestiqué, et propose sans cesse aux citoyens de la “République”.

 

Dans son appendicule où chaque ligne exsude de haine et d’ignorance crasse, le Roi des Marcelle ne me promet rien moins que l’Enfer! Il se fait en cela, benoîtement, l’écho des quelques rumeurs qui ont couru sur internet au sujet de ma possible ”éviction” de chez Gallimard, et qui ont, de fait, créé l’effet papillon que personne n’attendait ! Pauvre Marcelle ! Incapable d’écrire dans une langue française un tant soit peu correcte, il croit pouvoir jouer les florentins de la rue Sébastien-Bottin ! Pauvre Marcelle qui n’a pas compris que LA PEUR que lui et tous ses sbires sans cesse distillent, a mobilisé, par milliers, à ce que je sais, des lecteurs de “Dantec-le-catho-facho” qui ont CRU, en effet - et n’avaient-ils pas toutes les raisons de le faire ? - que LA PEUR, encore une fois, aurait le dessus. Car cette PEUR, c’est celle dont Pierre Marcelle fait entendre régulièrement les jappement lugubres.

 

Ils ont en effet PEUR de toute la clique qui est aux commandes de la culture, tels des Duvalier du carré germanopratin. Ils connaissent son pouvoir de nuisance. Ils vivent eux-mêmes dans la PEUR. Cette PEUR, par je ne sais quelle divine intorsion des éléments, les a alors délivrés d’elle-même. Ils ont dit : NON. Ils ont dit NON, monsieur Marcelle, nous ne voulons pas que “Dantec” rejoigne “l’enfer” dans lequel vous avez jeté déjà tant d’autres écrivains, qui ne pensent pas comme vous.

 

Ils ont dit NON à votre Paradis monsieur Marcelle : vous êtes en effet très puissant. Vous être le valet de la Peur. Regardez maintenant son Maître droit dans les yeux.

 

MgDANTEC,

 

NE PAS SUBIR

Général de Lattre

 

Pour en savoir plus: http://www.egards.qc.ca

samedi, 10 avril 2010

Jünger, los mitos y el mar

Jünger, los mitos y el mar

Ex: http://losojossinrostro.blogspot.com/ 

Me encuentro inmerso en la lectura de “Mitos griegos”, un libro de Friedrich Georg Jünger, el hermano de Ernst, que fue editado en España el año pasado por la editorial Herder. Surcando sus páginas alcancé un pasaje realmente especial, por su extraordinaria fuerza evocadora (al menos por lo que a su humilde servidor respecta). Es precisamente eso lo que hace de ese libro algo interesante; los mitos no se presentan como reliquias del pasado, como equivalencias despojadas de poder fascinador y ambiguo (Apolo=sol, Marte=guerra) y petrificadas por el proceso alegórico. No; los mitos aquí son algo vivo, real, palpitante, pletórico de belleza y terror a partes iguales.

El pasaje está dentro del fragmento que hace referencia a dos titanes, Océano y Tetis. Océano está vinculado, como otros titanes, con los fenómenos elementales. Se relaciona con las aguas, con la corriente universal que envuelve la tierra, con un rumor fluido y pacífico –Océano es el único que no interviene en la lucha entre Crono y Urano- pero también persistente. Siempre es igual a sí mismo y, también como los otros titanes, es presa de un “eterno retorno” (hay un inconfundible eco nietzscheano en la prosa de Jünger). Tetis es su esposa, madre de las oceánides y divinidades del agua.

Pero es cuando habla de Poseidón cuando aparece este pasaje, abismado en la contemplación de las formas marinas:


circunvoluciones y curvaturas. Determinadas criaturas marinas poseen una estructura estrictamente simétrica a partir de la cual configuran formas estrelladas y radiales, imágenes en las que también el agua interactúa con su fuerza moldeadora, radial y estrellada. Otras, como las medusas, son transparentes, su cuerpo entero está bañado en luz y avivado por exquisitos tornasoles. A todo lo nacido en el agua le es propio un esmalte, un color y un brillo que sólo el agua puede conferir. Es iridiscente, fluorescente, opalino y fosforescente. La luz que penetra a través del agua se deposita sobre un fondo sólido que refleja las delicadas refracciones y los destellos de la luz. Este tipo de brillo se observa en el nácar y aún más en la perla misma. Al mar no le faltan joyas, es más, todas las alhajas están en relación con el agua, poseen también una naturaleza acuática que les confiere un poder lumínico. En él los colores son más bien fríos“El reino de Poseidón está mejor ordenado que el de Océano. Es más suntuoso y armonioso. La corriente universal que fluye poderosamente lo encierra con un cinturón, lo encierra como centro a partir del cual la entera naturaleza marítima adquiere su forma (…) Todo lo que procede del mar muestra un parentesco, tiene algo en común que no oculta su origen. Los delfines, las nereidas, los tritones, todos emergen del medio húmedo y su complexión muestra el poder del elemento del que proceden. Las escamas, las aletas, las colas de pez únicamente se forman en el agua y, por el modo en que se mueven, están en correspondencia con la resistencia de las corrientes. Algo parecido muestran las conchas y las caracolas en sus formas planas, en sus y aún así resplandecientes, y se reflejan los unos en los otros. Prevalecen el verde y el azul, oscuros y claros a través de todos los matices. Al agitarse, las aguas se tornan negras y arrojan una espuma color de plata. También allí donde asoma el rojo, o el amarillo en estado puro, el agua participa de su formación.

Al que contempla estas formas admirables y a primera vista, a menudo, tan extrañas, le recuerdan ante todo los juegos de las nereidas. Son los juegos que ellas juegan en las aguas cristalinas, en sus cuevas verdes. Al nadador, al bañista le vienen a la mente estos juegos y lo serenan. La fertilidad del mar oculta un tesoro de serenidad; por mucho que se extraiga de él, siempre permanecerá inagotable. Quien descienda a las profundidades, sentirá el cariño con el que el mar se apodera del cuerpo y lo penetra, sentirá los abrazos que reparte. De la caracola en forma de espiral hasta el cuerpo blanco y níveo de Leucótea, de la que se enamoró el tosco Polifemo cuando la miraba jugar con la espuma de la orilla, todo sigue en él la misma ley. También Afrodita Afrogeneia emergió del mar; su belleza y su encanto son un obsequio del mar.

Del ámbito de Poseidón, del reino de Poseidón depende todo esto. Todo lo que se halla bajo la tutela del tridente tiene algo en común y muestra un parentesco inconfundible, Fluye, se mueve, es luminoso, transparente, cede a la presión y ejerce presión. Se eleva y se hunde rítmicamente, y en su formación revela el ritmo que lo impregna.”

¡Cuántas imágenes ha conjurado este texto en mi imaginación! Recuerdo aquel verano en la Costa Brava, hace ya muchos años, en el que me dediqué casi exclusivamente a recoger erizos de mar entre las rocas; era como una obsesión. Trataba de encontrar algo reconocible entre ese bosquecillo de púas, hasta que finalmente pasaba el dedo por él... y las púas respondían con un parsimonioso movimiento, todas hacia un mismo punto. Probablemente estuve haciendo eso durante horas y horas; alrededor había también estrellas y caballitos de mar, organismos que en su singularidad no pueden más que asombrar a los niños.

Por supuesto, recuerdo también el brillo de los corales y las procesiones de destellos plateados, y recuerdo también su nuca, cuando nadamos juntos aquella noche, hace ahora algo más de un año… el agua acariciaba nuestros cuerpos pero también infundía un terror primordial; era, de nuevo, una danza de sexo y muerte. Hubo otras muchas noches antes en que fuimos mecidos por ese rumor… todas iguales y diferentes a un tiempo.

Ah, me vienen tantas imágenes a la cabeza...

vendredi, 09 avril 2010

Avant-Garde Fascism

Avant-Garde Fascism

antliffAvant-Garde Fascism: The Mobilization of Myth, Art, and Culture in France, 1909–1939
Mark Antliff
Durham and London: Duke University Press,  2007

Mark Antliff, a professor of Art, Art History, and Visual Studies at Duke University, has put together a useful analysis of the cultural-aesthetic memes utilized by French fascists of 1909-1939 to promote their visions of national renewal. Antliff’s analysis focuses on the connection between fascist ideologies and the European avant-garde, which most people would more likely associate with the anti-national left. Antliff is fairly even handed in the book, with the occasional use of scare quotes to express his skepticism/disdain for certain “fascist ideas.”

In contrast, I believe his use of the term “democracy” should always have scare quotes, as “democratic” systems deceive the populace into believing that someone other than self-interested elites are running the show; however, apparently, Antliff and I disagree on our political preferences. Antliff also concludes the book with a line about how the ideas of the French fascists were not able to stem the tide of the “bloodshed” caused by the military aggressions of Hitler and Mussolini (including the invasion of France). Very well. One hopes an academic will write about the real blood that has been shed imposing “equality” on “the people” – either that of the mass-murdering Marxists or the genocidal globalist multiculturalists and their plans for a multiracial West. So much for my complaints about the book. What about fascism and avant-garde aesthetics?

Roger Griffin, in his Fascism (Oxford: Oxford University Press, 1995), famously described fascism as “palingenetic populist ultra-nationalism” – making the elements of renewal, rebirth, and regeneration central to all permutations of this ideology. It is also important to differentiate between real fascism and “para-fascist” ersatz fascism. Para-fascism is often confused with real fascism in the public mind, which gives the false impression that fascism is ossified reactionary conservatism, rather than a revolutionary movement interested in avant-garde themes and ideas.

The differences between real revolutionary fascism and para-fascism are easily summarized: Para-fascist regimes are authoritarian, traditionalist, reactionary regimes, often military dictatorships, that fossilize a status quo favoring traditional elites of business, nobility, religion, and the military. Such regimes want nothing to do with the revolutionary and palingenetic aspects of true fascism; the idea that the secular religious, Futuristic, and avant-garde characteristics of, say, (early) Italian Fascism has anything to do with Franco’s Spain or Pinochet’s Chile is absurd.

fortunato_depero_1945Indeed, as Griffin makes clear, fascists and para-fascists are usually, by their very nature, bitter enemies. While para-fascists may co-opt some superficial characteristics of their fascist opponents, in power they tend to ruthlessly suppress the expression of revolutionary fascism. When para-fascism attempts to co-opt fascism by sharing power – as Antonescu attempted in Romania with the Legionaries — conflict is inevitable, since the objectives of the two parties are completely different: para-fascist ossification vs. fascist palingenetic regeneration. Thus, in Romania, civil war between para-fascists and fascists led to the victory of the para-fascists, and the exile of the fascist forces. The idea that Antonescu was “fascist” is a byproduct of either ideological ignorance or ideological mendacity, a Marxist desire to strip their fascist competitors of revolutionary dynamism and reduce them to mere “bourgeois hooligans.”

Not all fascisms were equally “fascist” and revolutionary, and even individual fascist movements have oscillated between revolutionary ideals and borderline reactionary para-fascism.

For example, Italian fascism went through three distinct phases. In the years before the seizure of power and in the first half-dozen years of Mussolini’s regime, Italian fascism was in its “purest” form – revolutionary and palingenetic – emphasizing the regeneration of the Italian people and the Italian nation-state. Avant-garde themes and theorists, particularly Futurism, were important in this period, and individuals such as Marinetti were influential in early day Italian fascism.

However, the forces of reaction and of compromise with the establishment were always present; the presence of the King and the Vatican were two impediments to the process of “fascistization” that Mussolini could not, or would not, deal with. In the end, the Concordat was a turning point and the regime’s second phase veered to the “right” in the 1930s, becoming more conservative and reactionary, replacing internal regeneration with external imperialism. Without WW II, chances were good that Italian fascism would have degenerated into a stagnant para-fascist regime similar to that of Franco’s Spain.

Military defeat and the overthrow of Il Duce stopped that process; in the last and third phase of Italian fascism, the “Salo Republic,” the ideology shifted to the left, embracing a militant socialism, and becoming overtly pan-European in scope.

What about the Hitler and the Nazis? There has been some debate as to whether German National Socialism was a form of fascism. It seems to me obvious that it was; that differences existed between the Italian and German forms of fascism is not an argument against that conclusion. All genuine fascisms displayed important differences, yet still contained within themselves the core components of Griffin’s “palingenetic populist ultra-nationalism.”

In the case of National Socialism, the palingenesis was biological; Nazism was a heavily racialized and materialist form of fascism. The German National Socialists were tribalistic in worldview rather than Futurist, and, internal debates aside; Hitler himself was very hostile to the European avant-garde.

Thus, key differences between fascist forms are observed. The German brand had the biopolitical advantage of recognizing the importance of race. On the other hand, the Italian brand had the sociopolitical advantage of a more optimistic Futurist orientation, and was more open-minded with respect to tapping into the cultural energies created by the avant-garde artistic and sociopolitical movements extant in the first decades of the twentieth century.

eur-sq-colosseoIn some sense, perhaps the “purest” brand of fascism was that of Codreanu and his “Legion of the Archangel Michael,” also known as the Iron Guard. This intensely palingenetic movement emphasized spiritual and moral regeneration to create a Romanian “New Man” to lead the nation to a higher level and fulfill the destiny of the Romanian people. This highly “virulent” form of “palingenetic populist ultra-nationalism” proved itself unable to co-exist with Antonescu’s conservative authoritarian para-fascism; the Legionary movement’s attempt to seize full power for itself (rather than share it with para-fascists; this sharing was correctly seen by the Legionaries as being an emasculating compromise of their ideology) was crushed by the para-fascist military apparatus.

Three fascisms, three different movements. But the revolutionary energies unleashed by these ideologies stand in sharp contrast to the moribund and ossified conservatism of the para-fascists. The political/cultural avant-garde (Italian), the biological-racialist (German), and the spiritual/moral (Romanian) components of these fascisms are important to us today.

And it is probably wrong to separate out the avant-garde mindset as being only applicable to the political/cultural sphere. After all, we really do need new, cutting-edge memes with respect to both materialist race and non-materialist morality. To quote a certain pro-fascist poet: “Make it new!”

Mostra 1933With respect to Antliff’s book itself, chapter topics include Sorelian myth and anti-Semitism, and the fascistic politics of Valois, Lamour, and Maulnier. The importance of Sorelian myth was underscored by a recent Michael O’Meara piece that appeared on TOQ Online. Antliff stresses that culture and aesthetics were extremely important to Sorel in his quest to formulate a doctrine of instrumentally utilizing myth to overturn the hated rationalist-capitalist-democratic system. Art is part of this aesthetic emphasis and, truth be told, Sorel focused on culture over politics; indeed, he was scornful of the power of the myth being used and squandered for low-level political aims.

Further, Sorel went through a distinctly “anti-Semitic” phase, in which Jews were considered the exemplars of ultra-rationalist anti-creators, whose worldview set them in opposition to native peoples and native cultural expressions and aesthetics. Opposing the pro-Dreyfus “French” journal La revue blanche, Sorel sarcastically referred to the journal’s Jewish founders as “two Jews come from Poland in order to regenerate our poor country, so unhappily still contaminated by the Christian civilization of the seventeenth century.” Sorel accused Jewish intellectuals of wanting to promote an abstract (i.e., non-ethnic, non-national, non-cultural) concept of (French) citizenship and to also promote “cosmopolitan anarchy.”

Related to this “anti-Semitism,” Sorel admired and promoted the Classical World; the values of classical heroes, such as the Greeks at Thermopylae, were something counterpoised against the Jewish ethic and the degeneration of parliamentary democracy.

Sorel considered art as related to the creativity of work, a creativity that he wished to inculcate into the “productive workers” in place of assembly line mass capitalism and rationalized “one man-one vote” democracy. He also considered an enlightened “proletariat” as being able to reinvigorate a stagnant bourgeoisie through class conflict.

Georges Valois, 1878–1945

Georges Valois, 1878–1945

Georges Valois (born Alfred-Georges Gressent) went through a wide variety of ideological contortions in his lifetime, from fascism to “libertarian communism,” ending up dying in a Nazi concentration camp after being captured as a member of the “French Resistance.” While such an unbalanced individual represents much of what is wrong with the “movement” (changing your mind is one thing – completely switching your worldview from one moment to the next is another), some of his activities during his “fascist stage” are of interest.

Particularly enlightening is the focus on the urbanism of Le Corbusier, which stands in contrast to much of the American “movement” and its anti-urbanist emphasis on militant ruralism. No doubt, in the West today, the city is an anti-white, anti-Western disaster, full of racial enemies. No doubt as well that throughout much of human history, the city was an unhealthy and sterilizing place, inimical to racial survival and racial progress.

However, in our modern technological age, if we can solve our racial problems, the city itself does not necessarily have to be a racial evil. As part of a natural continuum of human ecologies – isolated rural, rural, suburban/town, small city, larger cities, etc. – the city may play an important role in the Futurist racial ethnostate of tomorrow, a place of technological advancement, racially healthy avant-garde memes, and sociopolitical dynamism. Racial nationalism can and should be reconciled to a certain degree of urbanism – not the urbanism of degeneration, but that of regeneration.

This of course underlies a schism within activism that often goes unnoticed – between modernist, technological tribalist-racialist Futurism and a ruralist anti-technological ecotribalism. It is clear that the French fascists described by Antliff for the most part fall into the first group. Thus, a major divide exists between the Futurist-Modernist fascists (think Marinetti in Italy) and the ruralist soil-oriented romantic past-oriented fascists (think Darre in Germany, or the agrarian-nostalgic Vichy regime in France).

Of course, a healthy society needs both worldviews, and in practical terms a balance is required. For example, Valois incorporated a “love for the native soil” along with his Futurist mindset. Indeed, Valois contrasted “Asiatic nomadness” associated with communism with the “Latin sedentary” style — derived from “cultured Roman legions” — of the French, tied to the native soil and inclined to fascism. He also associated the hated nomadic lifestyle with capitalism, since hyper-rational capitalism uprooted the workers from grounding in an organic society and turned them into atomized, rootless “nomads.”

A related issue is the relationship between Futurism and the veneration of the past. Antliff makes clear that the emphasis on the past in fascism (e.g., the Greco-Roman classical world) was not meant to mean turning back the clock and shunning progress. Instead, this look to the past was, paradoxically, futurist, in that the fascists wanted to take from the past certain noble values and behaviors and use these to help build the modern, technological world of tomorrow. Therefore, one need not discard the past to build a new future, but judiciously use elements of the past as necessary building blocks for the projected futurist edifice. Different strands of fascist thought need not be incompatible, just as common ground must be found between the tribalist futurist and tribalist ruralist strands of modern racial nationalist thought.

Another French fascist, Philippe Lamour, also went through many ideological “twists and turns,” ultimately rejecting fascism in favor of anti-fascism and syndicalism. Lamour originally represented the fascist variant of “machine primitivism” – that is, an anti-rationalist “new consciousness attuned to the dynamism of technology.” Thus, urban industrialism, technology, productivity, and futurist modernism need not be associated with “rational” egalitarianism but with tribalistic fascism. Lamour wished to create a “community of producers” integrating the different classes of French society to overturn liberal democracy in favor of a modernist technologically dynamic fascist state.

Early French fascists such as Lamour also promoted the idea of a European federation, and attempted to make common cause with more pan-European and “leftist” German National Socialists, such as the Strasserian “Black Front,” who favored European cooperation as opposed to Hitler’s hegemony through military conquest. Not coincidentally, before he fell into Hitler’s orbit, Mussolini also favored an alliance of European (fascist) states, promoted through the doctrine of “Roman Universality,” with practical expression through events such as the pan-fascist Montreux conference.

Lamour’s greatest contribution to French fascism was the promotion of the “conflict of generations,” pitting the younger fascistic generation of WW I against the older generation of parliamentary democrats. This latter group was seen as being out of touch with the new age of national regeneration, avant-garde culture and politics, Sorelian myth, as well as technological productivity. Lamour and his “war generation” were at the forefront of the battle of youth vs. the image of fossilized reactionary status quo politicians.

Aesthetically, the work of German artist Germaine Krull and even Soviet filmmaker Sergei Eisenstein influenced the avant-garde sensibilities of “machine primitive” young French fascists such as Lamour. Antliff summarizes Lamour’s unique contribution to the ideology of interwar French fascism as the melding of “machine aesthetics” to the concept of generational warfare. Thus, to Lamour, technological dynamism and the replacement of the ossified previous generation with fresh youth were the Sorelian myths required to spark an era of national renewal.

Thierry Maulnier, 1908–1988

thierry-maulnier

Thierry Maulnier (born Jacques Talagrand), author of “Crisis Is in Man,” had as his concept of Sorelian myth “classical violence.” Within the journal Combat, Maulnier and colleagues opposed the leftist French Popular Front’s Marxist-themed “culture” with their own view of aesthetics in architecture and sculpture. Antliff describes Combat’s as focusing on “three interrelated spheres: political institutions, human spirituality, and aesthetics.” The classicism of the Maulnier school promoted the idea of a “synthesis of Dionysian energy and Apollonian restraint.”

Politically, Maulnier wished for a form of French fascism that rejected parliamentary democracy but which still supported the rights and aspirations of the individual, as opposed to what was perceived as the more authoritarian and collectivist societies of Fascist Italy and National Socialist Germany. These distinctions between French and other fascisms became more salient after Mussolini fell into Hitler’s orbit and became hostile to French national interests. Indeed, before the start of WW II, Maulnier advocated a “minimal fascist program” for France that would be both a short-term “fix” to bolster the French military for confrontation with the Axis, as well as preparation for the long-term and permanent fascistic remodeling of society after the Axis threat had dissipated.

It must be noted that the Valois, Lamour, and Maulnier fascist ideologies, while linked together by a palingenetic call for national renewal and a rejection of parliamentary democracy, did differ in important ways. In particular, the classicism of Maulnier can be contrasted with the militant futurism and “machine primitivism” of Lamour. Although Antliff stresses that the French fascist focus on the classical world does not necessarily imply a rejection of modernism per se, the specific differences between Maulnier and Lamour were the greatest of any of the individuals profiled by Antliff. Valois and Lamour both embraced the image of “industrial production” as a central motif of their ideology; however, while Lamour spun together a myth of generational conflict, Valois instead emphasized a “spirit of victory” in which the heroism of WW I will now be turned to a battle of the entire nation to create an organized fascist-industrial society. Of these three men, it was Lamour who was the most steadfastly “avant-garde” in cultural-aesthetic orientation, Maulnier the least.

Crude ethnic stereotyping may lead one to conclude that an emphasis on art, culture, and aesthetics in the creation of fascist ideology was (and is) a particularly “French” phenomenon. Of course, other fascist movements were concerned with these issues, sometimes to a significant extent, but none of them incorporated such memes into the core of the political thinking as did French fascist thinkers. Indeed, the cultural-aesthetic emphasis of the French strain of fascism is a breath of fresh air after immersion in the more focused political thought of the Italian Fascists and the racialist ideals of the German National Socialists.

In fact, all three areas of focus – cultural-aesthetic, political, and racialist – are required for a complete memetic complex to promote fascistic ideals. As a biological reductionist, I would emphasize the racialist first of all, but doing so with respect to modern genetic science rather than the sort of quackery that passed as “racial science” under the Nazis. However, biological racialism by itself is not enough. Without an edifice of political and cultural-aesthetic memes, the foundation of ultimate interests will go nowhere.

Related to this issue of political aesthetics, I was impressed by Alex Kurtagic’s analysis of “semiotic systems” and the importance of style in shaping perceptions of status within nationalist memes. This is important. Of course, the enemy will, as a matter of course, attempt to oppose this approach through co-option and/or mockery.

Co-option is a problem for any memetic threat to establishment power; for example, the GOP has effectively co-opted “rightist, racist” concerns through the exploitation of “implicit whiteness.” This strategy has enabled the Republicans to retain white support while at the same time moving continuously leftward in the direction of overtly anti-white policies.

Thus, while aesthetics and style are important, they always must be innately linked to content to prevent the establishment from utilizing the same semiotic systems to promote the exact opposite of our objectives. Dealing with co-option will be difficult, and it is crucially important that the problem be analyzed from the beginning in a proactive fashion.

In other words, right from the start, the construction of unique avant-garde racial-nationalist semiotic systems must incorporate strategies for preventing co-option and dealing with co-option if these preventive measures fail. Therefore, we must identify, in advance, as many problems with each approach as possible, and develop multiple contingency plans for dealing with each emergent counter-move of the establishment.

Mockery is also a problem; the establishment, utilizing its control of the mass media and its stable of celebrity puppets, can subject any racial-nationalist semiotic system to a barrage of withering ridicule. It is important that the elitist and superior nature of the system be of sufficient strength that adherents can turn around such ridicule and assert it as a matter of pride and not shame. In other words, the establishment ridicule itself must be mocked as the pathetic attempts of a dying and out-of-touch system to delegitimize a novel movement of which they are afraid.

Again, careful planning is required to plan against the establishment’s ridicule strategy, but if both co-option and mockery can be successfully dealt with, the semiotic-aesthetic strategy has a chance to achieve its objectives. And those objectives are, in essence, to defuse the “social pricing” attacks of the establishment against racial-nationalist activists and adherents, by providing an alternative value system opposed to, and independent of, establishment standards and acceptance.

In summary, Antliff has dissected a particularly interesting and heretofore unexplored strain of French fascism characterized by an embrace of avant-garde cultural concepts, modernism, Futurism, productivity and the planned society, urbanism and industrial technology, exemplified by so-called “machine primitivism.”

With today’s worries of “peak oil,” and concerns that the multiracial West will collapse, visions of decentralized ruralistic tribalism have again become prominent in nationalist thought. However, the white man is endlessly inventive, and free of the shackles of genocidal globalist multiculturalism, the technological genius of whites, so unleashed, may provide the foundation for a Futurist, technologically advanced and tribalist society. Such a society would have options for both the urbanist technological and ruralist agrarian lifestyles for those whose preferences are for one or the other.

Although I am sure he is an “anti-fascist,” Antliff’s work helps us to consider one technological Futurist option. The major conclusion from both Antliff’s and Kurtagic’s analyses is that staid and conformist methods for sociopolitical activism may be best replaced, at least in part, by avant-garde memes that let some “fresh air” into stale “movement” environs.

Published:

mardi, 06 avril 2010

Louis-Ferdinand Céline par Ioannis Mouhasiris

Louis-Ferdinand Céline par Ioannis Mouhasiris

La corrispondenza tra Julius Evola e Gottfried Benn

La corrispondenza tra Julius Evola e Gottfried Benn

Autore: Gianfranco de Turris

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

benn_mikroskop_dla.jpg L’accusa più scontata che l’intellighenzia ufficiale lancia contro Julius Evola è quella di essere un “nazista”, più che di essere stato (come innumerevoli altri uomini di cultura italiani) un “fascista”. Accusa ovvia e prevedibile, ma superficiale, che si basa su alcune apparenze: il suo retroterra culturale che si rifaceva ad una certa filosofia tedesca (a partire da Nietzsche); il suo essere caratterialmente più “tedesco” che “italiano, il suo interessamento tra le due guerre per far conoscere nel nostro Paese una certa cultura di lingua tedesce (da Bachofen a Spengler a Meyrink); i suoi contatti con la Germania del Terzo Reich; il suo aver ricordato come avesse conosciuto Himmler, visitato ai castelli dell’Ordine, tenuto conferenze in ambienti diversi come l’Herrenklub da un lato e le SS dall’altro; l’aver scritto articoli sulla politica estera, interna, culturale ed economica della Germania nazionalsocialista e sulle stesse SS (articoli di cui si ricordano gli eventuali apprezzamenti ma non le innumerevoli riserve critiche); e così via. Da tutto questo sfondo gli orecchianti derivano l’etichetta appunto di “nazista”: raramente si va alle fonti e si leggono nel loro complesso, a partire almeno dal 1930, con articoli e saggi su “Vita Nova” e “Nuova Antologia”, sino agli interventi su “Il Regime Fascista”, “Lo Stato” e “La Vita Italiana” del maggio-luglio 1943.

Visione aristocratica

Julius Evola non fu né “fascista” né “antifascista” (come già scriveva polemicamente sul suo quindicinale “La Torre” all’inizio del 1930), e di conseguenza non fu poi né “nazista” né “antinazista”: fu allora un incerto, un attendista, un ipocrista, un – come si suol dire – “pesce in barile”? No: del fascismo, e quindi del nazismo, accettò quelle idee, tesi, posizioni, atteggiamenti, scelte pratiche che si accordavano con quelle di una Destra Tradizionale e, poi, di quella che è stata definita la Rivoluzione Conservatrice tedesca. Una visione all’epoca ghibellina, imperiale, aristocratica che – se pur “utopica” – lo allontanava di certo dalla Weltanschauung populista “democratica” e “plebea” del fascismo ma soprattutto del nazismo, il cui materialismo biologico gli era del tutto insopportabile. Non si tratta di giustificazioni a posteriori, come qualcuno ha malignamente pensato leggendo le pagine de Il cammino del cinabro (1963), dato che Evola non è quello che oggi si suol dire un “pentito”: non ha mai rinnegato o respinto nulla del suo passato; anche se ha rettificato e preso le distanze da alcune sue posizioni giovanili (tutti dimenticano quel che scrisse circa Imperialismo pagano del 1928: “Nel libro, in quanto seguiva – debbo riconoscerlo – lo slancio di un pensiero radicalistico facente uso di uno stile violento, si univa ad una giovanile mancanza di misura e di senso politico e ad una utopica incoscienza dello stato di fatto”: non “pentimento” bensì logica maturazione di un uomo di pensiero). E che non si tratti di giustificazioni, lo stanno a dimostrare i documenti che nel corso degli anni, dopo la sua morte nel 1974, vengono lentamente alla luce dagli archivi pubblici e privati italiani e tedeschi. Da essi emerge un Julius Evola tutt’altro che “organico al regime” come addirittura si è scritto, ma nemmeno tanto marginale come si credeva: un saggista, giornalista, polemista, conferenziere che proseguì tra alti e bassi e che, dopo la crisi del 1930 con la chiusura de “La Torre” e la sua emarginazione, accettò di avvicinarsi a personaggi come Giovanni Preziosi, Roberto Farinacci, Italo Balbo, cioè si potrebbe dire i fascisti più “rivoluzionari” e “intransigenti”, per poter esprimere le proprie idee critiche al riparo di quelle nicchie, agendo come una specie di “quinta colonna” tradizionalista per tentare l’utopica impresa di “rettificare” in quella direzione il Regime: e così iniziò a scrivere a partire dal marzo 1931 su “La Vita Italiana”, dal gennaio 1933 su “Il Corriere Padano” e “Il Regine Fascista”, e quindi – uscito dal “ghetto” dei caduti in disgrazia – dall’aprile 1933 su “La Rassegna Italiana”, dal febbraio 1934 su l’autorevole “Lo Stato” e sul “Roma”, dal marzo 1934 su “Bibliografia Fascista”.

Sorvegliato speciale

Nonostante ciò Evola venne costantemente sorvegliato dalla polizia politica sia in Italia che all’estero: la corrispondenza controllata, gli amici che frequentava identificati (anche le amiche), le sue affermazioni in confidenza riferite, varie volte gli venne tolto il passaporto per le cose assai poco ortodosse che andava a dire sul fascismo e nazismo nelle sue conferenze in Germania e Austria. Come risulta dai documenti ormai pubblicati dei Ministeri degli Esteri e dell’Interno del Reich e da quelli provenienti dall’Ahnenerbe, era appena tollerato: non era un vero nemico, ma le sue idee non venivano apprezzate dai vertici nazionalsocialisti, dato che era considerato un “romano reazionario” che aspirava a far “sollevare l’aristocrazia” e non accettava molto il riferimento tedesco a “sangue e suolo”.

Un’adesione molto critica, dunque, quella di Julius Evola tale da non poterlo semplicisticamente definire né un “fascista”, né un “nazista” di pieno diritto. Il suo punto di riferimento era invece la Konservative Revolution ed i suoi esponenti dell’epoca. Sentiamo le sue stesse parole tratte da Il cammino del cinabro: “Già l’edizione tedesca del mio Imperialismo pagano, dove le idee di base erano state staccate dai riferimenti italiani, aveva fatto conoscere il mio nome in Germania negli ambienti ora indicati. Nel 1934 feci il mio primo viaggio nel nord, per tenere una conferenza in una università di Berlino, una seconda conferenza a Brema nel quadro di un convegno internazionale di studi nordici (il secondo Nordisches Thing, promosso da Roselius) e, cosa più importante di tutto, un discorso per un gruppo ristretto dell’Herrenklub di Berlino, il circolo della nobiltà tedesca conservatrice la cui parte di rilievo nella politica tedesca più recente è ben nota. Qui trovai il mio ambiente naturale. Da allora, si stabilì una cordiale e feconda amicizia fra me e il presidente del circolo, barone Heinrich von Gleichen. Le idee da me difese trovarono un suolo adatto per essere comprese e valutate. E quella fu anche la base per una mia attività in Germania, in seguito ad una convergenza di interessi e finalità”.

Altri contatti e collegamenti in quest’area conservatrice furono con il filosofo austriaco Othmar Spann e il principe Karl Anton Rohan, sulla cui “Europaische Revue” Evola aveva esordito sin dal 1932 e su cui continuò a pubblicare sino al 1943. Si tenga conto dell’anno. Il 1934 fu importante: dal 2 febbraio usciva il quotidiano di Cremona “Il Regime Fascista” una pagina quindicinale intitolata con stile tipicamente evoliano “Diorama Filosofico. Problemi dello spirito nell’etica fascista”, pubblicato con varia periodicità e interruzioni sino al 18 luglio 1943.

Mancano ancora studi complessivi su una iniziativa che fu unica nel Ventennio come intenti e complessità: un vero e proprio progetto culturale con cui Julius Evola intendeva esporre costruttivamente e criticamente il punto di vista della Destra tradizionale e conservatrice rispetto al fascismo. Su quella pagina scrissero molti autorevoli esponenti della cultura europea di tale tendenza: italiani, ma anche tedeschi, austriaci, francesi, inglesi. Fra i tedeschi anche il medico e poeta Gottfried Benn, con cui Evola era in contatto epistolare a quanto pare sin dal 1930.

Nella prima metà del 1934 uscì anche l’opera principale che Julius Evola aveva scritto – incredibilmente e per l’età e per l’attività che in quel momento stava svolgendo – fra il 1930 e il 1932: Rivolta contro il mondo moderno presso Hoepli; e venne effettuato quel viaggio in Germania ricordato nell’autobiografia. Durante la tappa berlinese vi fu il primo incontro diretto con Benn: molti erano i punti in comune fra il medico-scrittore, che era di dieci anni più vecchio di Evola (era nato nel 1886 e sarebbe morto nel 1956), e quest’ultimo. Di Benn si tende og gi a mettere in risalto il suo aspetto nichilista, ateo e astratto dagli aspetti più orribili della realtà umana, e si tende a dimenticare il suo apporto alla Rivoluzione Conservatrice tedesca. Sta di fatto che il contatto fra Evola e Benn ad una certa comunanza di idee portò ad un famoso saggio-recensione alla traduzione tedesca di Rivolta che apparve sul fascicolo del marzo 1935 della rivista «Die Literatur» di Stoccarda. È una specie di “canto del cigno” in cui Benn espone le sue idee e concorda con la «visione del mondo» evoliana: infatti, quello fu “il suo ultimo testo in prosa pubblicato sotto il Terzo Reich”, perché in seguito Rosenberg e Goebbels gli vietarono di scrivere alcunché. Recensione di profonda analisi di cui Evola stesso riconosceva l’importanza e volle porre in appendice alla sua raccolta di saggi L’arco e la clava (Scheiwiller, 1968), mentre adesso sarà posta in appendice alla nuova edizione di Rivolta che uscirà entro il 1998. Egli stesso amava ricordare soprattutto una frase: “Un ‘opera, la cui importanza eccezionale apparirà chiara negli anni che vengono. Chi la legge, si sentirà trasformato e guarderà l’Europa con un sguardo nuovo”.

“Rivolta” in Germania

Ora a confermare e precisare i rapporti Evola-Benn vi sono tre lettere del primo al secondo che sono state rintracciate da Francesco Tedeschi, studioso soprattutto dell’Evola artista, nello Schiller-Nationalmuseum Deutsches Literaturarchiv (Handschriften Abteilung) di Marbach, e che qui si pubblicano grazie alla sua fattiva collaborazione e al suo consenso: due manoscritte sono del 30 luglio e del 9 agosto 1934, una dattiloscritta del 13 settembre 1955 e se ne dà la traduzione integrale dovuta a Quirino Principe. Dai primi due scritti emergono alcuni fatti noti ed un altro assolutamente nuovo: i fatti noti sono che Benn ed Evola già si conoscevano almeno per lettera (“Ella ha ripetutamente mostrato un cordiale interesse per le mie fatiche”: 20 luglio), che sono effettivamente incontrati nel corso del viaggio evoliano in Germania (“Le sarei molto obbligato se ella mi offrisse le possibilità di punti di vista e di una più lunga conversazione tra noi due”: 9 agosto), che esisteva un reciproco apprezzamento su una medesima Weltanschauung “conservatrice” o “tradizionale” (“l’assoluta competenza che a mio giudizio Ella possiede su questi argomenti e la Sua grandissima conoscenza e intelligenza delle tradizioni cui io mi ricollego”: 20 luglio), che entrambi non si riconoscevano nel nazismo da poco salito al potere (“sono sempre più convinto che a chi voglia difendere e realizzare senza compromessi di sorte una tradizione spirituale e aristocratica non rimanga purtroppo, oggi. e nel mondo moderno, alcun margine di spazio; a meno che non si pensi unicamente a un lavoro elitario”: 9 agosto).

Il fatto nuovo e di enorme interesse è nella richiesta avanzata da Evola il 20 luglio, e accettata da Benn nella sua risposta (che non possediamo) del 27 luglio, di “sottoporre a revisione il manoscritto della traduzione” tedesca di Rivolta effettuata da Friedrich Bauer. Il particolare era del tutto sconosciuto ed Evola non ne ha mai parlato anche se esso – la revisione linguistica da parte di un poeta noto e apprezzato come Gottfried Benn – avrebbe potuto dare lustro al suo maggior libro. Non pare ci siano dubbi che tale revisione sia stata effettivamente compiuta, non tanto per i ringraziamenti alla “gentilissima intenzione” (9 agosto), quanto per il fatto che si danno specifici riferimenti sul manoscritto della traduzione stessa presso la casa editrice tedesca e, si può dedurre, per l’ampio interesse manifestato da Benn con la recensione su “Die Literatur” (il libro aveva dunque visto la luce entro il marzo 1935): non solo, allora, adesione alla “visione del mondo” esposta nell’opera, ma anche l’averla considerato come un testo al quale – per averne rivista la traduzione – si è particolarmente vicini. Un nuovo tassello che si aggiunge a comporre il quadro (ancora incompleto) del rapporto fra Julius Evola e la cultura conservatrice tedesca fra le due guerre. Si può quindi immaginare che il contatto epistolare con il medico poeta sia continuato ma per ora non se ne hanno altre tracce.

Ci si sposta allora in avanti di vent’anni, al 1955. La lettera del 13 settembre s’inquadra nel tentativo del filosofo di riprendere i contatti proprio con quegli esponenti anticonformisti che aveva conosciuto negli anni Trenta e Quaranta: si sa che nel 1947 aveva scritto a Guénon, nel 1951 a Eliade e Schmitt, nel 1953 a Jünger, per ricollegarsi ad un discorso intellettuale interrotto dagli eventi bellici, ma anche per proporre traduzioni dei loro libri in italiano, dato che potevano essere utili per una nuova Kulturkampf. Spesso le sue aspettative andarono deluse: non tutti erano rimasti fermi su certe idee, ovvero non ritenevano opportuno il momento per ricordarle, a causa dell’ombra negativa che ancora si stendeva su di loro dopo il 1945. E proprio per i suoi “recenti successi letterari” Benn non intese forse rispondere a quello che era stato un po’ più di un conoscente, dato che non risultavano altre lettere di Evola nel Nationalmuseum: sicché, si deve pensare che gli “antichi rapporti” non vennero ripresi. Certo è che Evola non faceva mistero di essere rimasto lo stesso (“Io sono sempre rimasto sulle mie antiche posizioni, per quanto riguarda l’orientamento intellettuale e i miei interessi prevalenti”) e non è detto che tali precisazioni non siano state controproducenti …

Quel che è invece un po’ singolare è il non ricordare a dovere il tipo di rapporti intercorsi vent’anni prima: non solo l’incontro a Berlino, ma la reciproca conoscenza delle opere e la questione di Rivolta. Il mancato accenno alla revisione della traduzione, ma anche al saggio su “Die Literatur” (poi però fatto pubblicare tredici anni dopo in appendice a L’arco e la clava, come si è già ricordato) è dovuto ad una défaillance mnemonica, o magari ad un senso di opportunità, per non imbarazzare forse il medico-poeta? È anche vero che Benn sarebbe morto solo dieci mesi dopo, il 7 luglio 1956, a settant’anni, e quindi ogni illazione può essere valida. Così come resta aperta ogni ipotesi sul perché Julius Evola, sia nelle lettere private, sia nel la sua autobiografia pubblica, abbia dimenticato molti episodi e personaggi importantissimi nelle vicende della sua vita: e non certo in senso positivo, tali da accrescere l’importanza della sua opera complessiva. Forse normalissimi vuoti di memoria come possono accadere a tutti, ma forse anche quella tendenza “impersonale” a minimizzare un certo suo lavoro conferendo così poca importanza – tanto da non ritenere che certi particolari valessero la pena di essere citati – a determinati momenti della sua vita. Sta di fatto, comunque, che queste lettere a Gottfried Benn riempiono in modo significativo una delle tante lacune che ancora rimangono per ricostruire compiutamente l’intensa vita di Julius Evola.

Note

(1) Il cammino del cinabro, Scheiwiller, Milano, 1972, p.79.
(2) Heidnischer Imperialismus, Armanen Verlag, Lipsia, 1933.
(3) Cioè, da un lato gli esponenti della “tradizione prussiana” e dall’altro la corrente di quegli scrittori, come Moeller van den Bruck, Bluher,
Jünger, von Salomon e così via, che era stata definita Rivoluzione Conservatrice.
(4) Il cammino del cinabro cit., p.137.
(5)
Alain de Benoist, Presenza di Got!fried Benn, in Trasgressioni n.19, 1990, p.84.
(6) Circa la Rivolta scrive
Evola a Giuseppe Laterza in una lettera da Karthaus in Alto Adige del 16 settembre 1931: “Sono in via di ultimarlo, quindi non so precisamente circa la sua lunghezza … “ (cfr. La Biblioteca ermetica, a cura di Alessandro Barbera, Fondazione J. Evola, Roma, 1997, pp.57-58).
(7) Lionel Richard, Nazismo e cultura, Garzanti, Milano, 1982, p.280.
(8) Cito in Il cammino del cinabro cit., p.138.

* * *

Tratto da Percorsi di politica, cultura, economia (6/1998).

vendredi, 02 avril 2010

Bulletin célinien n°318

Le Bulletin célinien n°318 - Avril 2010

Au sommaire:
- Marc Laudelout :
Bloc-notes
- *** : Ce 1er juillet 1961…
- Kléber Haedens : Ce qui maintenant commence… [1961]
- M. L. : 1940, du désastre à l’espoir
- Bente Karild : Un ultime témoignage
- Gilles Roques : Quelques lectures de Céline au Cameroun en décembre 1916
- Claude Duneton : Céline et la langue populaire
- Frédéric Saenen : Basta cosi !
Un numéro de 24 pages, 6 € franco.
Le Bulletin célinien
B. P. 70

B 1000 Bruxelles 22
Belgique

Le Bulletin célinien n°318 - Bloc-Notes

Dans une récente chronique, l’avocat Jacques Trémolet de Villers évoque le Céline pamphlétaire : « Quand Céline blague, il le fait dans une outrance verbale, et dans un chant qui, par le style même, détruit ce qui pourrait paraître une horrible et désastreuse théorie : que le monde moderne serait gouverné, de Washington à Moscou et de Londres à Tel-Aviv, par les juifs. Céline se moque de lui-même et de son propre antisémitisme. Céline met en musique, en peinture et presque en danse la râlante gauloise et parisienne. Il la transforme en œuvre d’art, comme Goya le faisait de ses monstres. Ce qui lui importe, c’est le petit bijou que, dans ses courts chapitres, sans cesse corrigés et réécrits, il arrive à ciseler. Au bout du travail de l’artiste, la méchanceté s’est envolée. Il faut être niais comme un antiraciste primaire pour prendre au pied de la lettre le propos, qui n’a été prétexte, pour l’artiste, qu’à faire son œuvre d’art (1). »
Toute la complexité et l’ambivalence des écrits antisémites de Céline affleure dans ces commentaires. Sur le sujet – cette fameuse tradition polémique du « culte de la blague » –, Nicholas Hewitt a donné des commentaires pertinents (2). Bien avant Trémolet de Villers, Gide lui-même avait refusé une interprétation littérale du texte pour y déceler un élément ludique et satirique (3). Et l’on sait que certains, à l’instar de Maurice Bardèche, préfèrent qualifier de satires (au moins Bagatelles) ces écrits qui ne répondent pas précisément à la définition donnée par les dictionnaires du terme « pamphlet » (4).
On peut aussi penser qu’en adoptant cette forme, Céline s’est en quelque sorte piégé lui-même, ne parvenant pas toujours à se faire prendre au sérieux ni par ses adversaires, ni par ses thuriféraires. À l’un de ceux-ci, il s’en est expliqué : « J’aurais pu donner dans la science, la biologie où je suis un peu orfèvre. J’aurais pu céder à la tentation d’avoir magistralement raison. Je n’ai pas voulu. J’ai tenu à déconner un peu pour demeurer sur le plan populaire (5). » Après 1945, cette « déconnade » constituera un bouclier précieux face aux attaques. Comment prendre en considération et dès lors condamner un antisémitisme qui a les apparences de la rigolade ? De la même façon, certains, figurant dans le même camp, lui témoignèrent une condescendance amusée, jugeant l’énergumène outrancier ou frivole.
Certes, Trémolet n’a pas tort : Bagatelles se veut une œuvre littéraire. Doublement même puisque ce livre déploie un manifeste esthétique. Mais c’est aussi un écrit de combat stigmatisant ce que Céline nomme les « juifs synthétiques », c’est-à-dire les aryens sans culture, aliénés, colonisés. « L’Art n’est que race et patrie », s’écriera-t-il dans Les Beaux draps, appelant alors de ses vœux un sursaut de la part d’un peuple dont il flétrit le manque de réactivité. Vis comica à l’appui, Céline espère conjurer, convaincre et susciter avant d’être repris par un pessimisme foncier.


Marc LAUDELOUT



Notes

1. Jacques Trémolet de Villers, « Le siècle juif ? » [à propos du livre de Yuri Slezkine, Le Siècle juif, La Découverte, 2009], Présent, 10 février 2010.
2. Nicolas Hewitt, « L’antisémitisme de Céline. Historique et culte de la blague » in Études inter-ethniques, Annales du CESERE (Centre d’Études supérieures et de Recherches sur les Relations ethniques et le Racisme), n° 6, Paris, Université Paris XIII, 1983. Repris dans Le Bulletin célinien, n° 215, décembre 2000, pp. 13-21.
3. André Gide, « Les Juifs, Céline et Maritain », La Nouvelle revue française, 1er avril 1938.
4. Ce terme désignant un texte court, ce qui, hormis Mea culpa, n’est pas la caractéristique des écrits en question. (« Bagatelles était une satire, une sorte d’Île des Oiseaux, comme dans Rabelais. », dixit Maurice Bardèche, Louis-Ferdinand Céline, La Table ronde, 1986, p. 180).
5. Lettre à Henri-Robert Petit datant de 1938 in L’Année Céline 1994, Du Lérot-IMEC Éditions, 1995, p. 76.

"Acéphale": The Headless Monster of "Modern" Masculinity

Jack DONOVAN:
Acéphale
The Headless Monster of "Modern" Masculinity

acephale_gf.jpgIn 1936, while staying at the coastal village of Tossa de Mar with artist
André Masson, George Bataille envisioned the Acéphale, pictured above. The Acéphale was a headless monster who symbolized man's rejection of hierarchy and God and his escape from the boredom of civilization into a life lost to the pursuit of fascination. Bataille was determined to bring about his leaderless, communal, ecstatic age of chaos through a sacred conjuration, and to this end he formed a secret society. As the tale goes, members of the Acéphale Society performed clandestine rituals -- one notably celebrating the decapitation of Louis XVI. However, the true conjuration sacrée required a human sacrifice. To bring about a new age of the crowd, of survivors held "in the grip of a corpse," someone needed to become the Acéphale. Someone needed to lose his head.

It never happened.

But it may as well have, because modern man has truly lost his head.

Modern man has the body of a Man. He has manly strength, sinew, reflexes and appetites. But he lacks direction, purpose, an ideal. He lacks virtus -- manly virtue. Modern man, like any freshly beheaded corpse, twitches and thrashes about destructively without his head to guide him. I cannot help but see this, and in observing this gruesome, sloppy spectacle I stand aghast alongside feminists and other "modernizers" of masculinity. However, I know that while headless, modern man is a monster -- a beast -- it is idealized, fully embodied and focused that Man is most fearsome and awe inspiring. Modern man flails about because he is ultimately impotent. Traditional Man is terrifyingly potent.

Masculinity has always changed. Men have been writing and speaking and arguing about what makes a man throughout history. As the particulars of a society change, the prevailing model of masculinity becomes more nuanced or more brutal according to need.

When men helmed Western civilization, they maintained a smooth continuity through changing times because they knew themselves. They knew what men were, they knew what men could -- and could not -- become. They knew what stirred their own souls, they knew how to speak to each other and reach common ground. They knew the kinds of ideas that would take their own hearts and move them into battle with swords or muskets, in animal skins or sharp uniforms. They knew that in peacetime men could not be ruled by fear alone, that masculine ideals and codes of honor would reveal both the stronger and the nobler aspects of a man even when he was not being watched. Men were able to carve a hard jaw, a stern brow and a proud, noble chin for mankind because they knew themselves. They knew how to shape a head that fit the body of a Man. Embodied Man had a rich and sustaining bloodline; he lived and thrived in the context of history and Tradition.

"Modern," headless man has no life-sustaining bloodline. Women and men with counter-masculine, alien, anti-Western agendas have successfully severed him from his history of heroes, ideals and the world of masculine Tradition. Traditional Man is their fearsome enemy, the agent of their supposed oppression and the Man to blame for all violence and what they call injustice. Their project is one of ressentiment --to cast the heroic Traditional man as the ultimate villain, and to ennoble their own set of "virtues" as the ideal.

(T)he problem with the other origin of the "good," of the good man, as the person of ressentiment has thought it out for himself, demands some conclusion. It is not surprising that the lambs should bear a grudge against the great birds of prey, but that is no reason for blaming the great birds of prey for taking the little lambs. And when the lambs say among themselves, "These birds of prey are evil, and he who least resembles a bird of prey, who is rather its opposite, a lamb,-should he not be good?" then there is nothing to carp with in this ideal's establishment, though the birds of prey may regard it a little mockingly, and maybe say to themselves, "We bear no grudge against them, these good lambs, we even love them: nothing is tastier than a tender lamb."

-- Friedrich Nietzsche, On the Genealogy of Morality


The wealth and luxury of the modern world have made possible an age of the lamb, and oh how the eagle is cursed!

Women, the
weakest men, men with an exploited sense of chivalry and misguided advocates for men are struggling to fashion a sheep's head for the eagle. But that project, too, is an unnatural, bloodless monstrosity. Frankenstein's work. The head doesn't fit. The body of Man rejects it, shrugs it off and remains headless. The enemies of Men toil under the assumption that the age of the sheep will last forever, and that the eagle must don a sheep's head if he is to survive at all.

Forever is a very long time.

The project for Traditional Man is first an archeological one. He venture out onto the lake of ice and recovers the frozen remains of Man's severed head. What follows is an anthropological project. He must study
paleo-masculinity; he must reverse engineer the head and understand the mechanics of masculinity as it functioned before Man's beheading. He must understand what came before, and repair his connection with his bloodline.

The sheep are crafting a world and a "modern" masculinity meant only for sheep. Eagles have no place in it.

But the age of sheep can't last forever. It is artificially ordered, unbalanced, unsustainable. The meek have inherited the earth, but by the very nature of their meekness they will be unable to keep it.

Traditional Man must find and keep his head, his manhood's redoubt. It is difficult to find and walk a path of honor in a world that is hateful to honor. It's a lonely path. But ultimately, every man is alone with his Honor.


Ennio Morricone is playing.


Eventually, an Interphase will come.

And another Age of Eagles.
Jack Donovan

Jack Donovan

Jack Donovan is a poor, blue-collar man made out of muscle and blood who moonlights as an advocate for the resurgence of patriarchal, paleo-masculine values among the Men of the West. He is a contributor to The Spearhead, as well as the author of Androphilia and co-author of Blood Brotherhood and Other Rites of Male Alliance. Mr. Donovan lives and works in Portland, Oregon.

mercredi, 31 mars 2010

The Golden Gardens of the Sun

 

The Golden Gardens of the Sun

The fire that connects to the mystery of living,

The gliding softness of the spring rain

That thaws the sparkling frostiness of winter’s veins,

The birds’ vibrating song,

Resounding through the new buds of trees,

And fleeting transparency of lacy air.

The wild primroses opiated in the vernal orgy,

By the silver rain drops

That slither into their flower cups,

To inspirit starry streamflow–

In the golden gardens of the sun.

By Xenia Sunic

To honour the return of the spring.

Other recommended posts related to Xenia Sunic

00:10 Publié dans Littérature | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : littérature, lettres, poésie, printemps, soleil, culte solaire | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

F. G. Jünger: la perfeccion de la técnica

friedrich_georg_18253.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1993

FRIEDRICH-GEORG JÜNGER (1898 - 1977)

LA PERFECCIÓN DE LA TÉCNICA

Robert Steuckers
/ [trd. Santiago Rivas]

Nacido el 1 de septiembre de 1989 en Hannover, hermano del celebérrimo escritor alemán Ernst Jünger. Friedrich-Georg Jünger se interesa desde edad muy temprana por la poesía, despertándose en él un fuerte interés por el clasicismo alemán, en un itinerario que atraviesa a Klopstock, Goethe y Hölderin. Gracias a esta inmersión precoz en la obra de Hölderin, Friedrich-Georg Jünger se encapricha por la antigüedad Clásica y percibe la esencia de la helenidad y de la romanidad antiguas como una aproximación a la naturaleza, como una glorificación de la elementaridad, al tiempo que se dota de una visión del hombre que permanecerá inmutable, sobreviviendo a través de los siglos en la psique europea, a veces visible a la luz del día, a veces oculta. La era de la técnica ha apartado a los hombres de esta proximidad vivificante, elevándolo de forma peligrosa por encima de lo elementario. Toda la obra poética de Friedrich-Georg Jünger es una vehemente protesta contra la pretensión mortífera que constituye este alejamiento. Nuestro autor quedará siempre profundamente marcado por los paisajes idílicos de su infancia, una marca que quedará reflejada en su amor incondicional a la Tierra, a la flora y a la fauna (sobre todo a los insectos: fue Friedrich-Georg quien introdujo a su hermano Ernst en el mundo de la entomología), a los seres más elementales de la vida sobre el planeta, al arraigo cultural.

La Primera Guerra Mundial pondrá fin a esta joven inmersión en la naturaleza. Friedrich-Georg se alistará en 1916 como aspirante a oficial. Gravemente herido en el pulmón, en el frente de Somme, en 1917, pasa el resto del conflicto en un hospital de campaña. Tras su convalecencia, se matricula en derecho, obteniendo el título de doctor en 1924. Pero nunca seguirá la carrera de jurista, sino que pronto descubrió su vocación de escritor político dentro del movimiento nacionalista de izquierdas, entre los nacional-revolucionarios y los nacional-bolcheviques, uniéndose más tarde a la figura de Ernst Niekisch, editor de la revista "Widerstand" (Resistencia). Desde esta publicación, así como desde "Arminios" o "Die Kommenden", los hermanos Jünger inauguraron un estilo nuevo que podríamos definir como "del soldado nacionalista", expresado por los jóvenes oficiales recién llegados del frente e incapaces de amoldarse a la vida civil. La experiencia de las trincheras y el fragor de los ataques les demostraron, por medio del sudor y la sangre, que la vida no es un juego inventado por el cerebralismo, sino un bullicio orgánico elemental donde, de hecho, reinan las pulsiones. La política, en su esfera propia, debe asir la temperatura de ese bullicio, escuchar esas pulsiones, navegar por sus meandros para forjar una fuerza siempre joven, nueva, vivificante. Para Friedrich-Georg Jünger, la política debe aprehenderse desde un ángulo cósmico, fuera de todos los "miasmas burgueses, cerebralistas e intelectualizantes". Paralelamente a esta tarea de escritor político y de profeta de este nuevo nacionalismo radicalmente antiburgués, Friedrich-Georg Jünger se sumerge en la obra de Dostoïevski, Kant y los grandes novelistas americanos. Junto a su hermano Ernst, emprende una serie de viajes por los países mediterráneos: Dalmacia, Nápoles, Baleares, Sicilia y las islas del Egeo.

Cuando Hitler accede al poder, el triunfante es un nacionalismo de las masas, no ese nacionalismo absoluto y cósmico que evocaba la pequeña falange (sic) "fuertemente exaltada" que editaba sus textos desde las revistas nacional-revolucionarias. En un poema, "Der Mohn" (La Amapola), Friedrich-Georg Jünger ironiza y describe al nacional-socialismo como "el canto infantil de una embriaguez sin gloria". Como consecuencia de estos versos sarcásticos se ve envuelto en una serie de problemas con la policía, por lo cual abandona Berlín y se instala, junto a Ernst, en Kirchhorst, en la Baja Sajonia.

Retirado de la política después de haber publicado más de un centenar de poemas en la revista de Niekisch -quien ve poco a poco aumentar sobre sí las presiones de la autoridad hasta que por fin es arrestado en 1937-, Friedrich-Georg Jünger se consagra por entero a la creación literaria, publicando en 1936 un ensayo titulado "Über das Komische" y terminando en 1939 la primera versión de su mayor obra filosófica: "Die Perfektion der Technik" (La Perfección de la Técnica). Los primeros borradores de esta obra fueron destruidos en 1942, durante un bombardeo aliado. En 1944, una primera edición, realizada a partir de una serie de nuevos ensayos, es reducida otra vez a cenizas por culpa de un ataque aéreo. Finalmente, el libro aparece en 1946, suscitando un debate en torno a la problemática de la técnica y de la naturaleza, prefigurando, a despecho de su orientación "conservadora", todas las reivindicaciones ecologistas alemanas de los años 60, 70 y 80. Durante la guerra, Friedrich-Georg Jünger publicó poemas y textos sobre la Grecia antigua y sus dioses. Con la aparición de "Die Perfektion der Technik", que conocerá varias ediciones sucesivas, los intereses de Friedrich-Georg se vuelcan hacia las temáticas de la técnica, de la naturaleza, del cálculo, de la mecanización, de la masificación y de la propiedad. Rehuyendo, en "Die Perfektion der Technik", el enunciar sus tesis bajo un esquema clásico, lineal y sistemático; sus argumentaciones aparecen así "en espiral", de forma desordenada, aclarando vuelta a vuelta, capítulo aquí, capítulo allá, tal o cual aspecto de la tecnificación global. Como filigrana, se percibe una crítica a las tesis que sostenía entonces su hermano Ernst en "Der Arbeiter" (El Trabajador), quien aceptaba como inevitables los desenvolvimientos de la técnica moderna. Su posición antitecnicista se acerca a las tesis de Ortega y Gasset en "Meditaciones sobre la Técnica" ( 1939 ), de Henry Miller y de Lewis Munford (quien utiliza el término "megamaquinismo"). En 1949 Friedrich-Georg Jünger publicó una obra de exégesis sobre Nietzsche, donde se interrogaba sobre el sentido de la teoría cíclica del tiempo enunciado por el anacoreta de Sils-Maria. Friedrich-Georg Jünger contesta la utilidad de utilizar y problematizar una concepción cíclica de los tiempos, porque esta utilización y esta problematización acabará por otorgar a los tiempos una forma única, intangible, que, para Nietzsche, está concebida como cíclica. El tiempo cíclico, propio de la Grecia de los orígenes y del pensamiento precristiano, debería ser percibido bajo los ángulos de lo imaginario y no desde la teoría, que obliga a conjugar la naturalidad desde un modelo único de eternidad, y así el instante y el hecho desaparecen bajo los cortes arbitrarios instaurados por el tiempo mecánico, segmentarizados en visiones lineales. La temporalidad cíclica nietzscheana, por sus cortes en ciclos idénticos y repetitivos, conserva -pensaba Friedrich-Georg Jünger- algo de mecánico, de newtoniano, por lo cual, finalmente, no es una temporalidad "griega". El tiempo, para Nietzsche, es un tiempo-policíaco, secuestrado; carece de apoyo, de soporte (Tragend und Haltend). Friedrich-Georg Jünger canta una a-temporalidad que se identifica con la naturaleza más elemental, la "Wildnis", la naturaleza de Pan, el fondo-del-mundo natural intacto, no-mancillado por la mano humana, que es, en última instancia, un acceso a lo divino, al último secreto del mundo. La "Wildnis" -concepto fundamental en el poeta "pagano" que es Friedrich-Georg Jünger- es la matriz de toda la vida, el receptáculo a donde ha de regresar toda la vida.

En 1970, Friedrich-Georg Jünger fundó, junto a Max Llimmelheber, la revista trimestral "Scheidwege", en donde figuraron en la lista de colaboradores los principales representantes de un pensamiento a la vez naturalista y conservador, escéptico sobre todas las formas de planificación técnica. Entre los pensadores situados en esta vertiente conservadora-ecológica que expusieron sus tesis en la publicación podemos recordar los nombres de Jürgen Dahl, Hans Seldmayr, Friederich Wagner, Adolf Portmann, Erwin Chargaff, Walter Heiteler, Wolfgang Häedecke, etc.

Friedrich-Georg Jünger murió en Überlingen, junto a las orillas del lago Constanza, el 20 de julio de 1977.

El germanista americano Anton H. Richter, en la obra que ha consagrado al estudio sobre el pensamiento de Friedich-Georg Jünger, señala cuatro temáticas esenciales en nuestro autor: la antigüedad clásica, la esencia cíclica de la existencia, la técnica y el poder de lo irracional. En sus textos sobre la antigüedad griega, Friedrich-Georg Jünger reflexiona sobre la dicotomía dionisíaca/titánica. Como dionisismo, él engloba lo apolíneo y lo pánico, en un frente unido de fuerzas intactas de organización contra las distorsiones, la fragmentación y la unidimensionalidad del titanismo y el mecanicismo de nuestros tiempos. La atención de Friedrich-Georg Jünger se centra esencialmente sobre los elementos ctónicos y orgánicos de la antigüedad clásica. Desde esta óptica, los motivos recurrentes de sus poemas son la luz, el fuego y el agua. fuerzas elementales a las cuales rinde profundo homenaje. Friedrich-Georg Jünger se burla de la razón calculadora, de su ineficacia fundamental, exaltando, en contrapartida, el poder del vino, de la exuberancia de lo festivo, de lo sublime que anida en la danza y en las fuerzas carnavalescas. La verdadera comprensión de la realidad se alcanza por la intuición de las fuerzas, de los poderes de la naturaleza, de lo ctónico, de lo biológico, de lo somático y de la sangre, que son armas mucho más eficaces que la razón, que el verbo plano y unidimensional, descuartizado, purgado, decapitado, desposeído: de todo lo que hace del hombre moderno un ser de esquemas incompletos. Apolo aporta el orden claro y la serenidad inmutable; Dionisos aporta las fuerzas lúdicas del vino y de las frutas, entendidos como un don, un éxtasis, una embriaguez reveladora, pero nunca una inconsciencia; Pan, guardián de la naturaleza, aporta la fertilidad. Frente a estos donantes generosos y desinteresados, los titanes son los usurpadores, acumuladores de riquezas, guerreros crueles carentes de ética enfrentados a los dioses de la profusión y de la abundancia que, a veces, consiguen matarlos, lacerando sus cuerpos, devorándolos.

Pan es la figura central del panteón personal de Friedrich-Georg Jünger; Pan es el gobernante de la "Wildnis", de la naturaleza primordial que desean arrasar los titanes. Friedrich-Georg Jünger se remite hasta Empédocles, quien enseñaba que el forma un "contiuum" epistemológico con la naturaleza: toda la naturaleza está en el hombre y puede ser descubierta por medio del amor.

Simbolizado por los ríos y las serpientes, el principio de recurrencia, de incesante retorno, por el que todas las cosas alcanzan la "Wildnis" original, es también la vía de retorno hacia esa misma "Wildnis". Friedrich-Georg Jünger canta al tiempo cíclico, diferente del tiempo lineal-unidireccional judeocristiano, segmentado en momentos únicos, irrepetibles, sobre un camino también único que conduce a la Redención. El hombre occidental moderno, alérgico a los imponderables escondrijos en donde se manifiesta la "Wildnis", ha optado por el tiempo continuo y vectorial, haciendo así de su existencia un segmento entre dos eternidades atemporales ( el antes del nacer y el después de la muerte ). Aquí se enfrentan dos tipos humanos: el hombre moderno, impregnado de la visión judeocristiana y lineal del tiempo, y el hombre orgánico, que se reconoce indisolublemente conectado al cosmos y a los ritmos cósmicos.

La Perfección de la Técnica


Denuncia del titanismo mecanicista occidental, esta obra es la cantera en donde se han nutrido todos los pensadores ecologistas contemporáneos para afinar sus críticas. Dividida en dos grandes partes y un excurso, compuesta de una multitud de pequeños capítulos concisos, la obra comienza con una constatación fundamental: la literatura utópica, responsable de la introducción del idealismo técnico en la materia política, no ha hecho sino provocar un desencantamiento de la propia veta utópica. La técnica no resuelve ningún problema existencial del hombre, no aumenta el goce del tiempo, no reduce el trabajo: lo único que hace es desplazar lo manual en provecho de lo "organizativo". La técnica no crea nuevas riquezas; al contrario: condena la condición obrera a un permanente pauperismo físico y moral. El despliegue desencadenado de la técnica está causado por una falta general de la condición humana que la razón se esfuerza inútilmente en rellenar. Pero esta falta no desaparece con la invasión de la técnica, que no es sino un burdo camuflaje, un triste remiendo. La máquina es devoradora, aniquiladora de la "sustancia": su racionalidad es pura ilusión. El economista cree, desde su aprehensión particular de la realidad, que la técnica es generadora de riquezas, pero no parece observarse que su racionalidad cuantitativista no es sino pura y simple apariencia, que la técnica, en su voluntad de perfeccionarse hasta el infinito, no sigue sino a su propia lógica, una lógica que no es económica.

Una de las características del mundo moderno es el conflicto táctico entre el economista y el técnico: el último aspira a determinar los procesos de producción en favor de la rentabilidad, factor que es puramente subjetivo. La técnica, cuando alcanza su más alto grado, conduce a una economía disfuncional. Esta oposición entre la técnica y la economía puede producir estupor en más de un crítico de la unidimensionalidad contemporánea, acostumbrado a meter en el mismo cajón de sastre las hipertrofias técnicas y las económicas. Pero Friedrich-Georg Jünger concibe la economía desde su definición etimológica: como la medida y la norma del "okios", de la morada humana, bien circunscrita en el tiempo y en el espacio. La forma actualmente adoptada por el "okios" procede de una movilización exagerada de los recursos, asimilable a la economía del pillaje y a la razzia ( Raubbau ), de una concepción mezquina del lugar que se ocupa sobre la Tierra, sin consideración por las generaciones pasadas y futuras.

La idea central de Friedrich-Georg Jünger sobre la técnica es la de un automatismo dominado por su propia lógica. Desde el momento que esta lógica se pone en marcha, escapa a sus creadores. El automatismo de la técnica, entonces, se multiplica en función exponencial: las máquinas, "per se", imponen la creación de otras máquinas, hasta alcanzar el automatismo completo, a la vez mecanizado y dinámico, en un tiempo segmentado, un tiempo que no es sino un tiempo muerto. Este tiempo muerto penetra en el tejido orgánico del ser humano y somete al hombre a su particular lógica mortífera. El hombre se ve así desposeído de "su" tiempo interior y biológico, sumido en una adecuación al tiempo inorgánico y muerto de la máquina. La vida se encuentra entonces sumida en un gran automatismo regido por la soberanía absoluta de la técnica, convertida en señora y dueña de sus ciclos y sus ritmos, de su percepción de sí y del mundo exterior. El automatismo generalizado es "la perfección de la técnica", a la cual Friedrich-Georg, pensador organicista, opone la "maduración" ( die Reife ) que sólo pueden alcanzar los seres naturales, sin coerción ni violencia. La mayor característica de la gigantesca organización titánica de la técnica, dominante en la época contemporánea, es la dominación exclusiva que ejercen las determinaciones y deducciones causales, propias de la mentalidad y la lógica técnica. El Estado, en tanto que instancia política, puede adquirir, por el camino de la técnica, un poder ilimitado. Pero esto no es, para el Estado, sino una suerte de pacto con el diablo, pues los principios inherentes a la técnica acabarán por extirpar su sustancia orgánica, reemplazándola por el automatismo técnico puro y duro.

Quien dice automatización total dice organización total, en el sentido de gestión. El trabajo, en la era de la multiplicación exponencial de los autómatas, está organizado hacia la perfección, es decir, hacia la rentabilización total e inmediata, al margen o sin considerar la mano de obra o del útil. La técnica solamente es capaz de valorarse a sí misma, lo que implica automatización a ultranza, lo cual implica a su vez intercambio a ultranza, lo que conduce a la normalización a ultranza, cuya consecuencia es la estandarización a ultranza. Friedrich-Georg Jünger añade el concepto de "partición" (Stückelung), donde las "partes" ya no son "partes", sino "piezas" (Stücke), reducidas a una función de simple aparato, una función inorgánica.

Friedrich-Georg Jünger cita a Marx para denunciar la alienación de este proceso, pero se distancia de él al ver que éste considera el proceso técnico como un "fatum" necesario en el proceso de emancipación de la clase proletaria. El obrero (Arbaiter) es precisamente "obrero" porque está conectado, "volens nolens", al aparato de producción técnico. La condición obrera no depende de la modestia económica ni del rendimiento, sino de esa conexión, independientemente del salario percibido. Esta conexión despersonaliza y hace desaparecer la condición de persona. El obrero es aquel que ha perdido el beneficio interior que le ligaba a su actividad, beneficio que evitaba su intercambiabilidad. La alienación no es problema inducido por la economía, como pensaba Marx, sino por la técnica. La progresión general del automatismo desvaloriza todo trabajo que pueda ser interior y espontáneo en el trabajador, a la par que favorece inevitablemente el proceso de destrucción de la naturaleza, el proceso de "devoración" (Verzehr) de los sustratos (de los recursos ofrecidos por la Madre-Naturaleza, generosa y derrochadora "donatrix"). A causa de esta alienación de orden técnico, el obrero se ve precipitado en un mundo de explotación donde carece de protección. Para beneficiarse de una apariencia de protección, debe crear organizaciones -sindicatos-, pero con el error de que esas organizaciones también están conectadas al aparato técnico. La organización protectora no emancipa, sino que encadena. El obrero se defiende contra la alienación y la "piezación", pero, paradójicamente, acepta el sistema de la automatización total. Marx, Engels y los primeros socialistas percibieron la alienación económica y política, pero estuvieron ciegos ante la alienación técnica, incapaces de comprender el poder destructivo de la máquina. La dialéctica marxista, de hecho, deviene en un mecanicismo estéril al servicio de un socialismo maquinista. El socialista permanece en la misma lógica que gobierna a la automatización total bajo la égida del capitalismo. Pero lo peor es que su triunfo no pondrá fin ( salvo caso de renunciar al marxismo ) a la alienación automatista, sino que será uno de los factores del movimiento de aceleración, de simplificación y de crecimiento técnico. La creación de organizaciones es causa de la génesis de la movilización total, que convierte a todas las cosas en móviles y a todos los lugares en talleres o laboratorios llenos de zumbidos y de agitación incesante. Toda área social tendente a aceptar esta movilización total favorece, quiera o no quiera, la represión: es la puerta abierta a los campos de concentración, a las aglomeraciones, a las deportaciones en masa y a las masacres colectivas. Es el reino del gestor impávido, figura siniestra que puede aparecer bajo mil máscaras. La técnica nunca produce armonía, la máquina no es una diosa dispensadora de bondades. Al contrario, esteriliza los sustratos naturales donados, organiza el pillaje planificado contra la "Wildnis". La máquina es devoradora y antropófaga, debe ser alimentada sin cesar y, ya que acapara más de lo que dona, terminará un día con todas las riquezas de la Tierra. Las enormes fuerzas naturales elementales son desarraigadas por la gigantesca maquinaria y retenidas prisioneras por ella y en ella, lo que no conduce sino a catástrofes explosivas y a la necesidad de una supervivencia constante: otra faceta de la movilización total.

Las masas se imbrican, voluntariamente, en esta automatización total, anulando al mismo tiempo las resistencias aisladas obra de los individuos conscientes. Las masas se dejan llevar por el movimiento trepidante de la automatización hasta tal punto que en caso de avería o paro momentáneo del movimiento lineal hacia la automatización experimentan una sensación de vida que les parece insoportable.

La guerra, también ella, en adelante, estará completamente mecanizada. Los potenciales de destrucción se amplifican hasta el extremo. El reclamo de los uniformes, el valor movilizante de los símbolos, la gloria, se esfuman en la perfección técnica. La guerra solamente podrán ser soportadas por los soldados tremendamente endurecidos y de coraje tenaz, solamente podrán soportarlas los hombres que sean capaces de exterminar la piedad en sus corazones.

La movilidad absoluta que inaugura la automatización total se revuelve contra todo lo que pueda significar duración y estabilidad, en concreto contra la propiedad (Eigentum). Friedrich-Georg Jünger, al meditar esta aseveración, define la propiedad de una manera original y particular. La existencia de las máquinas reposa sobre una concepción exclusivamente temporal, la existencia de la propiedad se debe a una concepción espacial. La propiedad implica limites, definiciones, vallados, muros y paredes, "clausuras" en definitiva. La eliminación de estas delimitaciones es una razón de ser para el colectivismo técnico. La propiedad es sinónimo de un campo de acción limitado, circunscrito, cerrado en un espacio determinado y preciso. Para poder progresar vectorialmente, la automatización necesita hacer saltar los cerrojos de la propiedad, obstáculo para la instalación de sus omnipresentes medios de control, comunicación y conexión. Una humanidad desposeída de toda forma de propiedad no puede escapar a la conexión total. El socialismo, en cuanto que niega la propiedad, en cuanto que rechaza el mundo de las "zonas enclaustradas", facilita precisamente la conexión absoluta, que es sinónimo de la manipulación absoluta. De aquí, se desprende que el poseedor de máquinas no es un propietario; el capitalismo mecanicista socava el orden de las propiedades, caracterizado por la duración y la estabilidad, en preferencia de un dinamismo omnidisolvente. La independencia de la persona es un imposible en esa conexión a los hechos y al modo de pensar propio del instrumentalismo y del organizacionismo técnicos.

Entre sus reflexiones críticas y acerbadas hacia la automatización y hacia la tecnificación a ultranza en los tiempos modernos, Friedrich-Georg Jünger apela a los grandes filósofos de la tradición europea. Descartes inaugura un idealismo que instaura una separación insalvable entre el cuerpo y el espíritu, eliminando el "sistema de influjos psíquicos" que interconectaba a ambos, todo para al final reemplazarlo por una intervención divina puntual que hace de Dios un simple demiurgo-relojero. La "res extensa" de Descartes en un conjunto de cosas muertas, explicable como un conjunto de mecanismos en los cuales el hombre, instrumento del dios-relojero, puede intervenir de forma completamente impune en todo momento. La "res cogitans" se instituye como maestra absoluta de los procesos mecánicos que rigen el Universo. El hombre puede devenir en un dios: en un gran relojero que puede manipular todas las cosas a su gusto y antojo, sin cuidado ni respeto. El cartesianismo da la señal de salida de la explotación tecnicista a ultranza de la Tierra.

BIBLIOGRAFÍA


1) Obras jurídicas, filosóficas o mitológicas, ensayos y aforismos: "Über das Stockwerksegentum", disertación presentada en la facultad de derecho de la Universidad de Leipzig, 3 de mayo de 1924; "Aufmarsch des Nationalismus", 1926; "Der Krieg", 1936; "Über das Komische", 1936; "Griechische Götter", 1943; "Die Titanien", 1944; "Die Perfektion der Technik", 1946; "Griechische Mythen", 1947; "Orient und Okzident", 1948; "Nietzsche", 1949; "Gedanken und Merkzeichen", 1949; "Rythmus und Sprache in deutschen Gedicht", 1952; "Die Spiele", 1953; "Gedanken und Merkzeichen, Zweite Sammlung", 1954; "Sprache und Kalkül", 1956; "Gedächtnis und Erinnerung", 1957; "Sprachen und Denken", 1962; "Die vollkommene Schöpfung", 1969; "Der Arzt und seine Zeit", 1970; "Apollon", en "Nouvelle Ecole" nº 35, invierno 1979.
 
2) Poesía: "Gedichte", 1934; "Der Krieg", 1936; "Der Taurus", 1937; "Der Missouri", 1940; "Der Westwind", 1946; "Die Silberdistelklause", 1947; "Das Weinberghaus", 1947; "Die Perlensschnur", 1947; "Gedischte", 1949; "Iris im Wind", 1952; "Ring der Jahre", 1954; "Schwarzer Fluss und windewisser Wald", 1955; "Es Pocht an der Tür", 1968; "Sämtliche Gedichte", 1974. El poema "Der Mohn" (1934) fue reproducido en la obra "Scheidewege", 1980.
 
3) Obras dramáticas, recitales, novelas, coversaciones, etrevistas y relatos de viajes: "Der verkleidete Theseus. Ein Lustspiel in fünf Aufzügen", 1934; "Briefe aus Mondello", 1943; "Wanderungen auf Rhodos", 1943; "Gespräche", 1948; "Dalmatinische Nacht", 1950; "Grüne Zweige", 1951; "Die Pfauen und andere Erzählungen", 1952; "Der erste Gang", 1954; "Zwei Schwestern", 1956; "Spiegel der Jahre", 1958; "Kreuzwege", 1961; "Wiederkehr", 1965; "Laura und andere Erzählungen", 1970.
 
4) Principales artículos publicados en las revistas nacional-revolucionarias y nacional-bolcheviques: "Das Fiasko der Bünde", en Arminius nº 7; "Die Kampfbünde", "Der Soldat", "Kampf!", "Normannen", en Die Standarte nº 1; "Deutsche Aussenpolitik und Russland", en Arminius nº 7; "Gedenkt Schlageter!", en Arminius nº 8; "Opium fürs Volk", en Arminius nº 9; "Der Pazifismus: Eine grundsätzliche Ausführung", en Arminius nº 11; "Die Gesittung und das soziale Drama", en Die Standarte nº 2; "Des roten Kampffliegers Ende: Manfred von Richthofen zum Gedächtnis", en Der Vormarsch nº 1; "Dreikanter", "Die Schlacht", en Die Vormarsch nº 2; "Chaplin", "Der Fährmann", "Konstruktionen und Parallelen", en Die Vormarsch nº 3; "Bombenschwindel", "Vom Geist des Krieges", en Die Vormarsch nº 4; "Revolution und Diktatur", en Das Reich nº 1; "Die Kommenden", en Das Reich nº 2; "Vom deutschen Kriegsschauplätze" en Widerstand nº 6; "Die Innerlichkeit", en Widerstand nº 7; "Über die Gleichheit", "Wahrheit und Wirklichkeit", "E.T.A. Hoffmann", en Widerstand nº 9.

5) Participación en obras colectivas: En la obra editada por Ernst Jünger titulada "Die Unvergessenen" (1928), FGJ escribió las monografía sobre Otto Braun, Hermann Löns, Manfred von Richthofen, Gustav Sack, Albert Leo Schlageter, Maximilian von Spee y Georg Trakl; "Krieg und Krieger", en el libro de Ernst Jünger "Krieg und Krieger", 1930: Introducción en la obra sobre la iconografía de Edmund Schlutz, "Das Gesicht der Demokratie. Ein Bilderwerk zur Geschichte der deutschen Nachkriegszeit" (1931); "Glück und Unglück", en "Was ist Glück?", actas del simposium organizado por Armin Mohler sobre Carl Friedrich von Siemens en la Universidad de Munich, 1976.
 

6) Sobre Friedrich-Georg Jünger: Franz Joseph Schöningh, "Friedrich-Georg Jünger und der preussische Stil", en Hochland, febrero 1935; Emil Lerch, "Dichter und Soldat: Friedrich-Georg Jünger", en Schweizer Annalen, julio-agosto 1936; Wilhelm Schneider, "Die Gedichte von Friedrich-Georg Jünger", en Zeitschrift für Deutschkunde, diciembre 1940; Walter Mannzen, "Die Perfektion der Technik", en Der Ruf der jungen Generation, noviembre 1946; Stephan Hermlin, "Friedrich-Georg Jünger und die Perfektion der Technik", en Ansichten über einige neue Schriftsteller und Bücher, 1947; Sophie Dorothee Podewils, "Friedrich-Georg Jünger: Dichtung und Echo", Hamburgo 1947; Joseph Wenzl, "Im Labyrinth der Technik: Zu einem neuen Buch Friedrich-Georg Jüngers", en Wort und Wahrheit nº 3 1948; Max Bense & Helmut Günther, "Die Perfektion der Technik: Bemerkungen über ein Buch von F.G. Jünger", en Merkur 1948; Karl August Horst, "Friedrich-Georg Jünger und der Spiegel der Meduse", en Merkur 1955; Curt Hohoff, "F.G. Jünger" en Jahresring, 1956; Idem "Friedrich-Georg Jünger zum 60" en Geburtstag, 1958; Hans Egon Holthusen, "Tugend und Manier in der heilen Welt: Zu F.G. Jünger", en Hochland, febrero 1959; Hans-Peter des Coudres, Friedrich-Georg-Jünger-Bibliographie", en Philobiblon, Hamburgo ¿1963?; Franziska Ogriseg, "Das Erzählwerk Friedrich-Georg Jünger", Innbruck 1965; Heinz Ludwig Arnold, "Friedrich-Georg Jünger: ein Erzähler, der zu meditieren weiss", en Merkur 1968; Sigfrid Bein, "Der Dichter am See: Geburtstag Friedrich-Georg Jünger" en Welt und Wort, 1968; Dino Larese, "Friedrich-Georg Jünger: Eine Begegnung" en Amriswil, 1968; Robert de Herte, "Friedrich-Georg Jünger" en Éléments nº 23, 1977; Armin Möhler, "Friedrich-Georg Jünger", en Criticon nº 46, 1978; Wolfgang Hädecke, "Die Welt als Maschine. über Friedrich-Georg Jüngers Buch Die Perfektion der Technik", en Scheidewegw nº 3, 1980; Anton H. Richter, "A thematic aproach to the works of F.G. Jünger" Berna 1982; Robert Steuckers, "L´itinérarie philosophique et politiques de Friedrich-Georg Jünger", en Vouloir, nº 45 marzo 1988.

7) Para la comprensión del contexto familiar y político: Karl Otto Paetel, "Versuchung oder Chance? Zur Geschichte des deutschen nationalbolschewismus", Gotinga 1965; Marjatta Hietala, "Der neue nationalismus in der Publizistik Ernst Jüngers und des Kreises um ihn", Helsinki 1975; Heimo Schwilk, "Ernst Jünger, Leben und Werk in Bildern und Texten", Klett-Cotta 1968; Martin Meyer, "Ernst Jünger". Munich 1990.

lundi, 29 mars 2010

Louis Ferdinand Céline - An Anarcho-Nationalist

Louis Ferdinand Céline — An Anarcho-Nationalist 

Tom Sunic 

March 24, 2010 

In his imaginary self-portrayal, the French novelist Louis-Ferdinand Céline (1894–1961) would be the first one to reject the assigned label of anarcho-nationalism. For that matter he would reject any outsider’s label whatsoever regarding his prose and his personality. He was an anticommunist, but also an anti-liberal. He was an anti-Semite but also an anti-Christian. He despised the Left and the Right. He rejected all dogmas and all beliefs, and worse, he submitted all academic standards and value systems to brutal derision.

Briefly, Céline defies any scholarly or civic categorization. As a classy trademark of the French literary life, he is still considered the finest French author of modernity — despite the fact that his literary opus rejects any academic classification. Even though his novels are part and parcel of the obligatory literature in the French high school syllabus and even though he has been the subject of dozens of doctoral dissertations, let alone thousands of polemics denouncing him as the most virulent Jew-baiting pamphleteer of the 20th century, he continues to be an oddity eluding any analysis, yet commanding respect across the political and academic spectrum. 

Can one offer a suggestion that those who will best grasp L.F. Céline must also be his lookalikes — the replicas of his nihilist character, his Gallic temperament and his unsurpassable command of the language?   

Cadaverous Schools for Communist and Liberal Massacres     

The trouble with L.F. Céline is that although he is widely acclaimed by literary critics as the most unique French author of the 20th century and despite the fact that a good dozen of his novels are readily available in any book store in France, his two anti-Semitic pamphlets are officially off limits there.  

Firstly, the word pamphlet is false. His two books, Bagatelles pour un massacre (1937) and Ecole des cadavres (1938), although legally and academically rebuked as “fascist anti-Semitic pamphlets,” are more in line with the social satire of the 15th century French Rabelaisian tradition, full of fun and love making than modern political polemics about the Jewry. After so many years of hibernation, the satire Bagatelles finally appeared in an anonymous American translation under the title of Trifles for a massacre, and can be accessed online 

 Louis-Ferdinand Céline

The anonymous translator must be commended for his awesome knowledge of French linguistic nuances and his skill in transposing French argot into American slang. Unlike the German or the English language, the French language is a highly contextual idiom, forbidding any compound nouns or neologisms. Only Céline had a license to craft new words in French. French is a language of high precision, but also of great ambiguities. Moreover, any rendering of the difficult Céline’s slangish satire into English requires from a translator not just the perfect knowledge of French, but also the perfect knowledge of Céline’s world.  

Certainly, H.L. Mencken’s  temperament and his sentence structure sometimes carry a whiff of Céline. Ezra Pound’s toying with English words in his radio broadcasts in fascist Italy also remind  a bit of Céline’s style. The rhythm ofHarold Covington’s narrative and the violence of his epithets may remind one a wee of Celine’s prose too.  

But in no way can one draw a parallel between Céline and other authors — be it in style or in substance. Céline is both politically and artistically unique. His language and his meta-langue are unparalleled in modern literature.

To be sure Céline is very bad news for Puritan ears or for a do-good conservative who will be instantly repelled by Céline’s vocabulary teeming as it does with the overkill of metaphorical “Jewish dicks and pricks.”        

Trifles is not just a satire. It is the most important social treatise for the understanding of the prewar Europe and the coming endtimes of postmodernity. It is not just a passion play of a man who gives free reign to his emotional outbursts against the myths of his time, but also a visionary premonition of coming social and cultural upheavals in the unfolding 21st century. It is an unavoidable literature for any White in search of his heritage.     

These weren’t Hymie jewelers, these were vicious lowlifes, they ate rats together… They were as flat as flounders. They had just left their ghettos, from the depths of Estonia, Croatia, Wallachia, Rumelia, and the sties of Bessarabia… The Jews, they now frequent the guardhouse, they are no longer outside… When it comes to crookedness, it is they who take first place… All of this takes place under the hydrant! with hoses as thick as dicks! beside the yellow waters of the docks… enough to sink all the ships in the world…in a décor fit for phantoms…with a kiss that’ll cut your ass clean open…that’ll turn you inside out. 

The satire opens up with imaginary dialogue with the fictional Jew Gutman regarding the role of artistry by the Jews in the French Third Republic, followed by brief chapters describing Céline’s voyage to the Soviet Union.  

Between noon and midnight, I was accompanied everywhere by an interpreter (connected with the police). I paid for the whole deal… Her name was Natalie, and she was by the way very well mannered, and by my faith a very pretty blonde, a completely vibrant devotee of Communism, proselytizing you to death, should that be necessary… Completely serious moreover…try not to think of things! …and of being spied upon! nom de Dieu!…

…The misery that I saw in Russia is scarcely to be imagined, Asiatic, Dostoevskiian, a Gehenna of mildew, pickled herring, cucumbers, and informants… The Judaized Russian is a natural-born jailer, a Chinaman who has missed his calling, a torturer, the perfect master of lackeys. The rejects of Asia, the rejects of Africa… They were just made to marry one another… It’s the most excellent coupling to be sent out to us from the Hells. 

When the satire was first published in 1937, rare were European intellectuals who had not already fallen under the spell of communist lullabies. Céline, as an endless heretic and a good observer refused to be taken for a ride by communist commissars. He is a master of discourse in depicting communist phenotypes, and in his capacity of a medical doctor he delves constantly into Jewish self-perception of their physique... and their genitalia. 

The peculiar feature of Céline narrative is the flood of slang expressions and his extraordinary gift for cracking jokes full of obscene humors, which suddenly veer off in academic passages full of empirical data on Jews, liberals, communists, nationalists, Hitlerites and the whole panoply of famed European characters. 

But here we accept this, the boogie-woogie of the doctors, of the worst hallucinogenic negrito Jews, as being worth good money!… Incredible! The very least diploma, the very least new magic charm, makes the negroid delirious, and makes all of the negroid Jews flush with pride! This is something that everybody knows… It has been the same way with our own Kikes ever since their Buddha Freud delivered unto them the keys to the soul!  

Mortal Voyage to Endtimes  

In the modern academic establishment Céline is still widely discussed and his first novels Journey to the End of the Night and Death on the Installment Plan are still used as Bildungsroman for the modern culture of youth rebellion. When these two novels were first published in the early 30’s of the twentieth century, the European leftist cultural establishment made a quick move to recuperate Céline as of one of its own. Céline balked. More than any other author his abhorrence of the European high bourgeoisie could not eclipse his profound hatred of leftist mimicry.  

Neither does he spare leftists scribes, nor does he show mercy for the spirit of “Parisianism.” Unsurpassable in style and graphics are Céline’s savaging caricatures of aged Parisian bourgeois bimbos posturing with false teeth and fake tits in quest of a rich man’s ride. Had Céline pandered to the leftists, he would have become very rich; he would have been awarded a Nobel Prize long ago.  

In the late 50’s the bourgeoning hippie movement on the American West Coast also tried to lump him together with its godfather Jack Kerouac, who was himself enthralled with Céline’s work. However, any modest reference to hisBagatelles or Ecole des Cadavres has always carefully been skipped over or never mentioned. Equally hushed up is Céline’s last year of WWII when, unlike hundreds of European nationalist scholars, artists and novelists, he miraculously escaped French communist firing squads or the Allied gallows.    

His endless journey to the end of the night envisioned no beams of sunshine on the European horizon. In fact, his endless trip took a nasty turn in the late 1944 and early 1945, when Céline, along with thousands of European nationalist intellectuals, including the remnants of the French pro-German collaborationist government fled to southern Germany, a country still holding firm in face of the oncoming disaster. The whole of Europe had been already set ablaze by death-spitting American B17’s from above and raping Soviet soldiers emerging in the East. These judgment day scenes are depicted in his postwar novels D’un château l’autre (Castle to Castle)  and Rigodoon.   

Céline’s sentences are now more elliptic and the action in his novels becomes more dynamic and more revealing of the unfolding European drama. His novels offer us a surreal gallery of characters running and hiding in the ruins of Germany. One encounters former French high politicians and countless artists facing death — people who, just a year ago, dreamt that they would last forever. No single piece of European literature is as vivid in the portrayal of human fickleness on the edge of life and death as are these last of Céline’s novels.  

But Céline’s inveterate pessimism is always couched in self-derision and always stung with black humor. Even when sentenced in absentia during his exile inDenmark, he never lapses into self pity or cheap sentimentalism. His code of honor and his political views have not changed a bit from his first novel.  

Upon his return to France in 1951, the remaining years of Céline’s life were marred by legal harassment, literary ostracism, and poverty. Along with hundreds of thousands Frenchmen he was subjected to public rebuke that still continues to shape the intellectual scene in France. Today, however, this literary ostracism against free spirits is wrapped up in stringent “anti-hate” laws enforced by the thought police —  70 years after WWII! Stripped of all his belongings, Céline, until his death, continued to use his training as a physician to provide medical help to his equally disfranchised suburban countrymen.  Always free of charge and always remaining a frugal and modest man.

Tom Sunic (http://www.tomsunic.info; http://doctorsunic.netfirms.com) is author, translator, former US professor in political science and a former diplomat. His new book, Postmortem Report: Cultural Examinations from Postmodernity, prefaced by Kevin MacDonald, has just been released.Email him.

 

Permanent link: http://www.theoccidentalobserver.net/authors/Sunic-Celine...

mercredi, 24 mars 2010

Muray est grand et Luchini est son prophète

Muray est grand et Luchini est son prophète

Philippe-Muray_2334.jpgSamedi, 15 h, théâtre de l’Atelier. Fabrice Luchini vient tranquillement s’assoir près d’une table couverte de livres. La salle est comble. Il avait déjà enchanté les fans de grands textes avec ses lectures de Nietzsche, de La Fontaine et d’autres auteurs de calibre. Il s’attèle cette fois-ci à l’œuvre de Philippe Muray, l’écrivain contempteur de la société hyperfestive et des rebellocrates, polémiste de haut vol disparu en 2006.

Dès la première phrase, le public est conquis. La lecture de Luchini est, pour Muray, plus qu’un hommage, une seconde vie. L’évidence s’impose. Une alchimie s’est produite entre l’impertinence géniale de l’écrivain et l’insolence talentueuse du comédien. Le phrasé unique de ce dernier, sa force d’évocation sans égale donnent toute sa plénitude au texte assassin. Face au règne du Grotesque, usurpateur, c’est un tyrannicide littéraire de la bêtise contemporaine.

Ce qui fait de cette dernière un sujet inédit, selon Muray, c’est le triste mérite d’ajouter, aux formes éternelles du ridicule, l’esprit de sérieux qui suinte aujourd’hui en permanence du nihilisme content de soi.

C’est l’étalage surréaliste, la mise en scène autocentrée de l’Homo Festivus, si fier de succéder à l’homme de l’Histoire et de la différenciation. Aussi, à travers la parole jubilatoire de Luchini, l’auteur de L’Empire du Bien a-t-il à cœur de ne rater aucune de ses cibles. Sa verve énergique volatilise ainsi le culte infantéiste, la peur de la maturité et les fantasmes régressifs qui les traduisent. Son brio décapant pulvérise l’émergence des « agents d’ambiance » et autres « accompagnateurs petite enfance », ces nouveaux emplois créés par Martine Aubry en curieuse amatrice de sots métiers. 

En fin analyste des ressorts profonds du romantisme, il met à jour la démission du bobo ordinaire devant le tragique de la vie, refusant par là-même la frontière pourtant féconde entre beauté et laideur, dignité et petitesse. Les modulations de la voix de Luchini donnent alors tout l’écho mérité au propos lucide de Muray, quand il arrache souverainement le masque du Bien à la banalité du mal, aux petits intérêts sordides qui ne s’avouent plus à eux-mêmes, faute de référent.

Sous les tirs ajustés de cet auteur de grande race, l’époque nous apparaît bel et bien sans l’emballage habituel. On patauge dans le pathos, le moralisme de terreur, le théâtre de rue, le « sourire de salut public », la manie du débat à tout propos, où l’on disserte démocratiquement, avec un minimum d’encadrement médiatique tout de même, d’objets sans consistance définie : un peu de tout et beaucoup de rien.

Si cette liberté de ton vous enthousiasme, n’hésitez pas, le 22 ou le 29 mars, à vous rendre au théâtre de l’Atelier. Un artisan du verbe y célèbre un maître du pamphlet. Muray est grand, et le temps d’une lecture inspirée, Luchini est son prophète.

Philippe Gallion

Texte paru sur le blog du Choc du mois [1] sous le titre « Muray par Lucchini ».


Article printed from :: Novopress.info France: http://fr.novopress.info

URL to article: http://fr.novopress.info/53263/muray-est-grand-et-luchini-est-son-prophete/

URLs in this post:

[1] Choc du mois: http://blogchocdumois.hautetfort.com/archive/2010/03/16/muray-par-luchini.html

mardi, 23 mars 2010

Citation d'Ernst von Salomon

sal.jpgCitation d'Ernst von Salomon

"Il y a une tyrannie à laquelle nous ne pourrons jamais nous soumettre, c'est celle des lois économiques.  Car, étant donné qu'elle est complètement étrangère à notre nature, il nous est impossible de progresser sous elle.  Elle devient insupportable parce qu'elle est d'un rang trop inférieur.  C'est là que se trouve le critère ; c'est là qu'il faut choisir même sans demander de preuves. On a ou non le sens de la hiérarchie des valeurs, et toute discussion est impossible avec ceux qui nient cette hiérarchie."

Ernst Von Salomon, Les Réprouvés, Paris, 1931.

lundi, 22 mars 2010

L'Alsace réhabilité René Schickele, son écrivain maudit

L’Alsace réhabilite René Schickele, son écrivain maudit

schikele1.jpgSTRASBOURG (NOVOPress Alsace) : Le Prix Nathan Katz 2010 [1], qui distingue une œuvre du patrimoine littéraire alsacien, a été remis hier à Strasbourg à Irène Kuhn et Maryse Staiber pour la première traduction en français de Himmlische Landschaft, Paysages du ciel [2], œuvre du poète de la terre et de l’âme alsaciennes René Schickele (Obernai 1883-Vence 1940).

Cet hommage est une véritable réhabilitation. Celui que Thomas Mann comparait au Lorrain Maurice Barrès et voyait comme « le poète de la terre alsacienne, un écrivain du terroir, mais au sens le moins bourgeois, au sens le plus artistique de ce terme », occupe une place éminente dans la littérature allemande de l’entre-deux-guerres alors que son œuvre et son souvenir furent en Alsace soit oubliés soit objets de vives polémiques.

René Schickele est né, en effet, dans l’Alsace annexée par le Reich allemand ; il écrivait en allemand, la langue que l’école lui avait enseignée. Il vécut les drames de l’Alsace écartelée entre deux nations, qui forgèrent chez lui un engagement socialiste et pacifiste incompris de ses contemporains. Il en fut aussi la victime. Ses livres allaient être, en raison de cet engagement, interdits puis brûlés par le régime nazi. Quittant Berlin pour un retour en France en 1932, René Schickele ne put se faire longtemps d’illusion sur une nouvelle fortune dans la patrie dont sa mère était originaire : « Je ne suis pas fait pour la cuisine littéraire comme elle se pratique en France, c’est-à-dire à Paris. Il y a bien quelques bonnets qui me connaissent et même me jugent à ma valeur. Mais pour eux je suis le Boche qui n’a pas voulu de sa patrie en 1918. »

René Schickele n’est pourtant pas un écrivain politique. Son œuvre de poète, essayiste et romancier est immense – elle reste à traduire dans sa quasi-totalité – et marquée surtout par le lyrisme et la proximité avec la nature. Il participe à l’histoire de l’Alsace à ce titre, mais aussi au titre d’un combat pour la construction européenne qui fut éminemment avant-gardiste. Il est en effet le premier, en 1901, à avoir formulé l’idée d’une « République de l’esprit », d’une « alsacianité de l’esprit », dans laquelle l’Alsace ne pouvait être, au cœur de la grande Europe, qu’une terre de médiation entre la France et l’Allemagne :

alsace.jpg« Le pays des Vosges et le pays de la Forêt Noire, écrivit-il, étaient les deux pages d’un livre ouvert – je voyais clairement devant moi comme le Rhin loin de les séparer les unissait en les tenant ensemble serrés comme des plombs. L’une des deux pages regardait vers l’Est, l’autre vers l’Ouest, et sur chacune d’elles se trouvait le début de deux chants différents et cependant parents. Du Sud venait le fleuve et il allait vers le Nord, il recueillait en lui les eaux venues de l’Est et les eaux venues de l’Ouest pour les porter en un flot unique, en un seul tout jusqu’à la mer… Et cette mer étreignait la grande presqu’île habitée par les fils les plus jeunes, les plus insatiables de l’espèce humaine, cette presqu’île en laquelle se termine la trop puissante Asie… L’Europe. »

Le Prix Nathan Katz invite aujourd’hui à redécouvrir une œuvre majeure pour l’Alsace : une Alsace décomplexée, qui pourrait enfin revendiquer, après plus de 60 ans et toute douleur cicatrisée, son double héritage littéraire.

Viennent de paraître :
Paysages du ciel (Himmlische Landschaft), Arfuyen, mars 2010.
Terre d’Europe, Arfuyen, mars 2010.
Le Retour, seul texte de René Schickelé écrit en français, Éditions Bf, février 2010.

[cc [3]] Novopress.info, 2010, Dépêches libres de copie et diffusion sous réserve de mention de la source d’origine
[
http://fr.novopress.info [4]]


Article printed from :: Novopress.info France: http://fr.novopress.info

URL to article: http://fr.novopress.info/52841/l%e2%80%99alsace-rehabilite-rene-schickele-son-ecrivain-maudit/

URLs in this post:

[1] Le Prix Nathan Katz 2010: http://www.prixeuropeendelitterature.eu/html/ficheauteur.asp?id=29

[2] Paysages du ciel: http://www.arfuyen.fr/html/fichelivre.asp?id_livre=433

[3] cc: http://creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/2.0/fr/

[4] http://fr.novopress.info: http://fr.novopress.info../