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dimanche, 13 juin 2010

Le "maître-maçon" de Nikos Kazantzaki

kazantzakis.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1994

Le “maître-maçon” de Nikos Kazantzaki

 

Les éditions “A Die” publient Le Maître-Maçon, une pièce de théâtre composée en 1908 par Nikos Kazantzaki. Renée Jacquin, Présidente de l'association “Connaissance hellénique”, préface cette édition: «Parmi les ballades, légendes épico-lyriques, dont l'origine, selon S. Kyriadikis, remonte aux premiers siècles chrétiens, à l'époque de la tragédie orchestique, une des plus célèbres est celle du Pont d'Arta. Le caractère dramatique des ballades était accentué par la riche imagination populaire et souligné par une déclamation accompagnée de divers instruments. Il n'est pas douteux que tous ces éléments aient joué leur rôle dans le choix de Nikos Kazantzaki pour constituer le sujet de sa pièce Le Maître-Maçon, signée d'un pseudonyme tiré du nom d'une montagne crétoise (Petros Psiloritis). La croyance antique à l'indispensable sacrifice humain pour qu'un pont, un rempart, une ville nouvelle soient assurés de durer éternellement est à l'origine du Pont d'Arta. On retrouve dans toute la Grèce, dans les Balkans et même dans des régions bien plus éloignées ce sujet du pont qui s'effondre, malgré les efforts de quarante-cinq maçons et de soixante apprentis dit la version de Mytilène, les chiffres variant jusqu'au centuple dans d'autres textes (...) Ce serait mal connaître Kazantzaki si l'on pensait qu'il pût se contenter du simple canevas fourni par la ballade. Il a créé autour des personnages d'origine bien d' autres figures. Et, avant tout, il a exprimé dans cette tragédie de début, les grands thèmes qui traversent toute son œuvre. Revenu de Paris en Crète en 1909, il a rapporté avec lui sa thèse sur “Nietzsche dans la philosophie du droit et de la cité”. Elle lui était nécessaire à l'obtention de l'hyphygessia (équivalent de notre agrégation), titre indispensable pour être enseignant à la Faculté. Or, cette thèse avait été écrite en 1908,1a même année où il composait le Maître-Maçon. C'est dire combien la pièce est imprégnée des idées de Nietzsche qui coïncidaient à miracle avec celles de Kazantzaki, la notion du sacrifice en vue de réaliser l'œuvre d'art, celle de l'homme qui défie et domine son destin, par exemple». Cette édition nous présente le texte grec et sa traduction française (Jean de BUSSAC).

 

Nikos KAZANTZAKI, Le Maître-Maçon, Editions A Die (9 rue Saint-Vincent, F-26 150 Die). 103 pages.

 

samedi, 12 juin 2010

Mishima ed il Movimento studentesco: Zengakuren

yukio-mishima.jpgMishima ed il Movimento Studentesco: Zengakuren


Testimone della città di Tokyo in fiamme, dopo essere stata bombardata dai B-29 (dell’USAF, aereonautica statunitense), con l’uccisione di decine di migliaia di cittadini, Mishima reagì con la gloria, come fosse qualcosa di epico e maestosamente colorato. L’imperatore fu costretto a dichiarare la resa incondizionata. Le nazioni alleate posero tremende ed umilianti condizioni al Giappone. Il primo gennaio 1946 Hirohito fu obbligato a negare pubblicamente la propria origine divina, anacronismo per la materialistica mentalità occidentale, ma intollerabile per i veri giapponesi. Niente discendenza dalla dea del sole Amaterasu per il Mikado, sancita dal famigerato articolato numero 9 della Nuova Costituzione, promulgata il 3 novembre 1946, che imponeva al Giappone la rinuncia alle sue prerogative militari. La concessione perpetua dell’isola di Okinawa come gigantesca base U.S.A.. L’America non desiderava che un esercito giapponese autonomo difendesse il Giappone. Sacche di resistenza, specie a sinistra, a tali imposizioni furono placate dal governo con la favola della difesa della Costituzione, rafforzando la sua politica con vantaggi concreti senza onore. Per il Jieitai fu una ferita mortale. Il Jiminto (Partito Liberale Democratico) ed il Kyosanto (Partito Comunista), che insistevano sull’importanza della politica parlamentare, spazzarono le possibilità di ricorrere a metodi non parlamentari. Il Jieitai da figlio illegittimo della Costituzione divenne ‘’Esercito di Protezione della Costituzione’’, strumento di politici intercambiabili e degli interessi di partito.

Lo spirito del samurai virile era umiliato ed il Tate No Kai vi si ribellò, mentre nel Jieitai nessuna voce virile si levò contro l’ordine vergognoso del ‘’Difendete la Costituzione che vi rinnega!’’, silenzioso contro la logica distorta della Nazione. Il Jieitai auto ingannato ed auto dissacrato, privo di anima e spirito, limitato ad un controllo civile, fu accusato dalla sinistra di esser mercenario dell’America. Il valore dello spirito sulla vita, non era la libertà, la democrazia, ma il Giappone, con la degenerazione morale e il decadimento spirituale dei nipponici. Interpretazioni legali opportunistiche facevano dimenticare il problema della difesa, per legge il Jieitai era incostituzionale. Il Jieitai era stato oggetto di un inganno malvagio, aveva sopportato il disonore della Nazione dopo la sconfitta. Un’abnorme forza di polizia, non esercito nazionale armato senza sapere a chi dichiarare fedeltà. L’esercito proteggeva la storia, la cultura e le tradizioni della Nazione, la polizia difendeva la struttura politica. Il Giappone del dopoguerra seguì l’infatuazione della prosperità economica, dimenticando i grandi fondamenti della nazione, perse lo spirito nazionale, correndo al futuro, senza correggere il presente, piombato nell’ipocrisia e precipitato nel vuoto spirituale.

Il gioco della politica interna dissimulò le contraddizioni, mentre sprofondava nell’ipocrisia e nella bramosia di potere. La difesa dei particolarismi e degli interessi personali. Paesi stranieri si erano arrogati i piani riguardanti i prossimi cento anni della Nazione; l’umiliazione della disfatta nascosta per non essere cancellata, la profanazione della storia e delle tradizioni del Giappone, avrebbe richiesto il sacrificio della morte. Dagli anni ’50 sgretolato, anche psicologicamente, dalle bombe normali che distrussero il 75% delle città e le atomiche ipercriminali, l’Impero del Sole Levante fu deformato e riconfigurato nel secondo dopoguerra dagli U.S.A. a propria immagine e somiglianza. Il periodo post-bellico e post bomba atomica, gli orrori sociali della ricostruzione, l’asservimento economico, militare e culturale agli Stati Uniti, gli anti-corpi libertari, sessuali e ‘’criminali’’ concepiti dalle nuove generazioni, regolarmente e psicoticamente represse. Il Giappone era svenduto al ‘’modus vivendi’’ dell’occidente statunitense; al mito del ‘’Nuovo Giappone dei transistors’’. Il motto di Mishima era: ‘’Ciò che trasforma il mondo non è la conoscenza ma l’azione’’, ‘’In nome del passato abbasso l’avvenire!’’.

Cosciente della vita e della cultura integrale fu chiamato al sacrificio di sé stesso per difendere la continuità stessa di questa vita. ‘’Nella limitatezza dell’umana vita, io scelgo la vita dell’eternità’’. Il suo suicidio futuro fu esaltazione poetica della vitalità e grandezza patriottica dello scrittore, della lealtà e fedeltà all’Imperatore ed ai valori tradizionali da questo incarnati, spinta agli estremi livelli, dovere primario di ogni giapponese. Un romanticismo ridondante sul tema della Seconda Guerra Mondiale e il Giappone, in parallelismo con D’Annunzio. Per i giapponesi di ogni tendenza politica, l’esperienza bellica era un innegabile punto di riferimento esistenziale e politico. La sconfitta in guerra era un fattore comune ed il turning point più rilevante del Novecento. Immane esperienza con un indicibile senso di felicità , l’epoca del ‘’Tenno kai Banzai’’ (‘’Viva l’imperatore’’) dei piloti kamikaze era perduta, per cui il ‘’senso di felicità’’ dell’adolescente Mishima che aveva intravisto la guerra nella forma di una ‘’luce di lampo’’, con la sconfitta, naufragò miseramente. Mishima era cresciuto in un’atmosfera di magnifico apprezzamento per la morte, che portava al militarismo romantico della metà e della fine degli anni ‘60. Si avviò a vivere nel dopoguerra ‘’un’epoca fatta di finzioni’’, ‘’un invecchiamento in tutt’armonia’’, venticinque anni ‘’incredibilmente lunghi’’ per poi far vibrare con acciaio e sangue, il cuore degli uomini, lo scorrere della storia.

Nel mondo si sviluppava il movimento studentesco; l’Occidente viveva l’era turbolenta, viva e creatrice degli anni ’60 e ’70 attraverso le sue proteste e i suoi movimenti radicali, con la Guerra del Vietnam come principale obbiettivo della rabbia degli attivisti. Oriente, Cina di Mao e Guardie Rosse divennero fonte d’ispirazione per i Weathermen ed altri gruppi radicali occidentali. L’origine e l’ascesa del gruppo radicale dalla nascita dell’attivismo studentesco in opposizione alla ratifica dell’ANPO, Trattato di Reciproca Cooperazione e Sicurezza tra Giappone e Stati Uniti firmato nel maggio 1960, sotto il governo del Primo Ministro Nobusuke Kishi, con cui si sancì, una sudditanza del Giappone agli U.S.A., dietro il paravento della collaborazione militare, dato che il Sol Levante fornì basi militari agli americani e confermò la rinuncia ad ogni intervento bellico. Gli U.S.A. si impegnavano a garantire al Giappone la loro protezione militare. I giapponesi, feriti nel loro orgoglio, reagirono violentemente: si registrarono disordini, le prime proteste e lotte contro il supporto giapponese agli U.S.A. durante la Guerra del Vietnam, resistenza che sfiorò la rivolta. Nessun suicidio rituale per protesta dai generali, quando il Trattato di Antiproliferazione Nucleare, che concerneva i piani a lunga scadenza della politica nazionale, identico al Trattato ineguale del 5-5-3, di sicurezza nippo-americano, il Giappone offriva basi militari agli U.S.A. e confermava la rinuncia alla guerra. Mishima si schierò subito con i rivoltosi.

Fino agli anni ’60 Mishima si era ritenuto di sinistra, contattato dal JCP (il Partito Comunista) per arruolarlo come membro negli anni ‘50. L’amico di Mishima, Kobo Abe, eccellente scrittore, era un membro del JCP ed era stato espulso dal partito per anticonformismo. Mishima aveva rappresentato il disagio dei valori, nella società giapponese che si stava americanizzando, condannata a vivere eternamente il suo dopoguerra; il Giappone non si riconosceva più, abbandonato, corrotto. Il romanzo ‘’Dopo il banchetto’’ segnò il suo ingresso, vibrante e violento, in politica. Stigmatizzò duramente il mercanteggiamento elettorale a cui erano dediti i politici ed i costumi dell’alta borghesia.

Conosceva i meccanismi e gli interessi dei partiti. Scopriva un mondo in febbrile e tumultuosa agitazione fuori di sé, percorso da fermenti che indicavano la volontà di superare il dopoguerra. Dimostrazioni scoppiarono in Tokyo, sotto lo striscione del Zengakuren o Zen-nihon gakusei jichikai (Federazione dell’Autogoverno Studentesco del Giappone o Lega delle Unioni degli Studenti di Tutto il Giappone), un sindacato nazionale studentesco giapponese , associazione estremista di studenti marxisti-leninisti, sorta nel 1948 dall’unione di circa centinaia di migliaia di studenti universitari di estrazione non solo marxista ab origine, i quali, come espressione del malcontento, protestavano contro l’aumento delle tasse d’iscrizione ai corsi universitari ottenendo simpatie tra la popolazione nelle agitazioni del movimento degli studenti negli anni ’60. Il sindacato studentesco è stato protagonista di numerose proteste: da quella contro la guerra in Corea alla questione delle basi americane sul suolo giapponese sino alle grandi manifestazioni di protesta del 1968.

La lotta anti-ANPO giunse al culmine il 15 giugno 1960, quando all’Università di Tokyo la studentessa Michiko Kanba fu uccisa in uno scontro nei disordini con polizia di fronte al palazzo della Dieta. Sebbene la legislazione di ratifica del trattato fu approvata, la visita programmata in Giappone dal Presidente degli U.S.A. Dwight D. Eisenhower fu cancellata, e Kishi si dimise. Le sommosse stimolarono la sua fantasia e lo spinsero a scrivere nel 1960 ‘’Yukoku’’ (Patriottismo), racconto letterario e civile che lo introdusse nell’estrema destra sullo sfondo della Rivoluzione Conservatrice del 26 febbraio 1936 quando a NI NI Roku il movimento dei giovani preparò l’insurrezione, di una parte dell’esercito, contro il sistema asservito agli interessi dell’alta finanza, per promuovere l’autentica restaurazione imperiale. Una ventina di giovani ufficiali occuparono la zona dei ministeri adiacente il palazzo imperiale riuscendo ad assassinare delle personalità del mondo politico finanziario che comparivano sulla loro lista nera. Chiesero le dimissioni del governo, considerato traditore, l’avocazione di tutti i poteri militari da parte dell’Imperatore, una grande restaurazione Dhwa. Il proclama fu respinto da Hiro Hito, influenzato dagli ambienti finanziari contro cui insorsero i giovani ufficiali presi dal loro viscerale amor di Patria. L’Imperatore ordinò all’esercito di reprimere la sedizione e dichiarò gli insorti ‘’traditori’’.

Gli ufficiali si arresero senza opporre resistenza. Due di loro fecero seppuku, sedici furono condannati a morte nel nome dell’Imperatore che volevano sottrarre al condizionamento dell’alta finanza. La vicenda del protagonista di ‘’Yukoku’’, un giovane tenente della guardia imperiale tenuto all’oscuro, dai colleghi, dell’insurrezione preparata, perché sposo, da pochi mesi, di una giovane donna di rara bellezza. Allo scoppio della rivolta fu convocato d’urgenza dal suo comando, ma, preferì disertare ed uccidersi invece che sparare ai suoi camerati che si erano’’ammutinati’’ per la Patria e per l’Imperatore. La moglie si suicidò con lui, dopo un amplesso appassionato: l’ufficiale seguendo l’antico rito dei samurai, la donna conficcandosi un pugnale in gola. Eroismo e morte eroica ricorrevano anticipando, lo scenario della fine dello scrittore. Dal racconto Mishima trasse nel 1965 un film che diresse ed interpretò. Poi scrisse, ancora ispirandosi al fatto di NI NI Roku, il dramma ‘’Il crisantemo del decimo giorno’’ (1960) e l’elegia ‘’La voce degli spiriti degli eroi’’ (1966) in cui il motivo conduttore era il perché l’Imperatore fosse dovuto divenire un comune mortale. Mishima descrisse una cerimonia shintoista immaginaria in cui si richiamavano le anime dei giovani ufficiali e dei kamikaze.

Gli uni rimproveravano all’Imperatore il rifiuto di sanzionare la loro insurrezione del febbraio ’36, gli altri di aver tradito la loro fede ed il loro sacrificio quando aveva accettato il nungen sengen, la dichiarazione di rinuncia alla sua natura divina imposta dagli americani. Con queste tre opere, raccolte in un volume nel 1970, Mishima mosse una dura critica all’Imperatore e si guadagnò l’antipatia di una certa destra, oltre che l’amicizia scontata dell’estrema sinistra. Tokyo fu migliorata per le Olimpiadi estive del 1964, nuove autostrade e del shinkansen (treno proiettile); trasformazioni della società libera, il popolo si illudeva che le colpe degli anni di guerra potevano essere dimenticate. La scena artistica esplodeva: una nuova generazione di cineasti, l’iconoclasta e radicale Nagisa Oshima, nei film ‘’Seishun Zankoku Monogatari’’ (Storia crudele della gioventù) e del ’69 ‘’Shinjuku Dorobo Nikki’’ (Diario del ladro di Shinjuku), i temi del giovane amore e della violenza, descrivendo quelli come le ribellioni contro la stabilità; soffocando la vecchia generazione, che aveva fallito in Giappone.

Masaki Kobayashi, nella sua monumentale trilogia di 9 ore, ‘’Ningen no Joken’’ (La condizione umana) del 1959-’60, descriveva la vera storia della guerra ed il suo effetto sui forzati a combatterla. La cosiddetta angura (movimento teatrale underground). Lo splendido Juro Kara, commediografo, artista in un’enorme tenda rossa, ridefinì il rapporto tra attore ed audience, ed elevò un nihilismo poetico. Minoru Betsuyaku scrisse la sua migliore opera, ‘’Zo’’ (Elefante), la storia di un sopravvissuto ad Hiroshima che vuole che il popolo giapponese non dimentichi. Shuji Terayama creò metaforicamente lavori drammatico surrealistici nel suo spazio Shibuya, Tenjo Sajiki, raccolse telespettatori nel suo giro d’Europa. Il fotografo Moriyama Hiromichi (Daido), designer grafico freelance a Osaka, usò il nuovo Giappone come soggetto centrale del suo lavoro. Il cambiamento radicale e vertiginoso del modello di società isolata e tradizionale in pratiche contemporanee, il paradosso di una cultura che considerava la trasformazione liberatoria e sconvolgente, scioccante ed irresistibile. Nel ’60 studiò fotografia con Hosoe Eiko a Tokyo e nel collettivo in scioglimento di fotografi VIVO.

Nel ’62 tramite Hosoe incontrò Mishima, di cui fu avido lettore, senza condividerne l’ideologia politica che in parte si rapportò agli interessi fotografici di Daido. Espressionista, con un erotismo intenso e oscuro ed un’inclinazione verso la drammaticità, comprese i conflitti nella società giapponese, l’accettazione della cultura occidentale dei vincitori e la ricerca di un’identità giapponese separata orgogliosamente, conflitti riecheggiati in Mishima. Daido fondeva i due mondi di Mishima: società convenzionale, proibito e tragico, usando il linguaggio popolare e diretto della fotografia. A Zushi, sobborgo di Tokyo, vicino alla base navale americana di Yokosuka, dove scattava foto istantanee nella base, con l’amico Nakahira Takuma, fotografo editore della rivista ‘’Gendai no me’’ (L’occhio moderno). Un saggio fu dedicato alla base americana di Yokosuka, importante per le sorti della guerra in Vietnam, conflitto che alimentò i sentimenti antibellici della sinistra e del movimento studentesco. Lo spirito di ribellione che spezzava i legami con la tradizione, gli ideali di democrazia e modernità.

Mentre il suo dominus Tomatsu Shomei era critico verso l’invasione della cultura americana in Giappone, senza novità e liberazione, ma con tratti sinistri e minacciosi; Daido vedeva nell’americanizzazione trasformazioni individuali, da outsider, il mondo enigmatico del teatro come vita, o Giappone come teatro. Intensificò la sua amicizia con Nakahira, intellettuale marxista vicino ai movimenti rivoluzionari studenteschi, che aveva fondato la rivista ‘’Provoke’’ nel ‘68 e lo aveva introdotto in un’atmosfera di ideali politici ed esistenziali di sinistra, che si riflessero in immagini scure, inquiete e incerte.

Nel 1967 con Yasunari Kawabata, Jun Ishikawa, Kobo Abe, Mishima firmò il manifesto contro la ‘’Rivoluzione culturale’’ cinese. Mishima in un’intervista al Sunday Mainichi nel marzo 1968, ribadì le proprie convinzioni riguardo all’Imperatore. Il kokutai, il sistema nazionale aveva cessato di esistere in conseguenza del nungen sengen dell’Imperatore. Da ciò il marasma morale postbellico. Ideale plasmato nell’ ‘’Amore per la naturalezza, gli dei nell’ideale, il culto del passato, cerimonie e cortesia come regole di condotta, nella difesa della bellezza, nella visione poetica del mondo’’. Mishima nel suo saggio ‘’Tate No Kai’’ sulla rivista inglese ‘Queen’ scrisse sulla Costituzione pacifista, di essere stanco dell’ipocrisia del dopoguerra giapponese, dato che la Costituzione pacifista era stata usata come alibi politico sia da destra che da sinistra, non credeva che ci fosse altro Stato in cui il pacifismo fosse sinonimo di ipocrisia. In Giappone il modo di vita onorato era quello di una vita senza pericoli, un po’ sinistrorso dei pacifisti e dei sostenitori della non-violenza. L’esagerato conformismo di tali intellettuali convinse Mishima che tutti i conformismi erano una iattura e che gli intellettuali avrebbero dovuto condurre un modo di vita pericoloso.

L’influenza degli intellettuali e dei salotti socialisti si era sviluppata in modo assurdo e ridicolo. Intimavano alle madri di non dare ai propri bambini giocattoli come armi da fuoco e consideravano militaresco mettersi in fila e numerarsi ad alta voce col risultato che i bambini si radunavano in modo sciolto e sfibrato come un gregge di deputati. L’azione del gruppo del Tate-No-Kai fu un atto simbolico per avviare il processo di revisione della Costituzione e la trasformazione del Jieitai in un legittimo esercito nazionale. Il fallimento apparente di tale tentativo segnò la cesura tra due mondi della Destra giapponese: quella controrivoluzionaria degli anni sessanta e quella, più autentica, nuova e radicale degli anni settanta ( Shin-Uyoku). Il Tate-No-Kai fu concepita come struttura di attacco: centinaia di uomini lottavano a mani nude contro gli studenti dello Zengakuren. Il discorso golpista supponeva la morte dell’orda di ultra sinistra e obbligare i militari ad attuare, ristabilendolo, il codice d’onore ed abolendo i costumi occidentali. Il prodursi nel 1969 di una delle più gigantesche e violente manifestazioni dell’ultra-sinistra, disciolta dagli antisommossa senza provocare una vittima, fece comprendere che tal progetto doveva avere interesse: l’imperatore non era indifeso, aveva i ‘’grigi’’ locali.

L’associazione non partecipava alle dimostrazioni di piazza ma si teneva pronta per ogni evenienza ad uno scontro decisivo con i nemici del Giappone, anche se dipendeva dal denaro e dai fondi ricavati dai diritti d’autore che Mishima percepiva dalle vendite dei suoi manoscritti. Nel 1968 Mishima era stato invitato ad un raduno della destra radicale per un dibattito, criticava il conformismo, specie quello di sinistra, scegliendo un’esistenza avventurosa, contro gli intellettuali effeminati ed il socialismo da salotto dell’èlite intellettuale. Conservava l’inclinazione militarista ed ultranazionalista dell’anteguerra. Lo spirito del samurai era estinto, perchè antiquato rischiare la propria vita per un’ideale. Prevaleva il mercantilismo liberale filoamericano, perciò gli studenti affrontavano violentemente gli intellettuali per difendere le idee ma era troppo tardi. I disordini studenteschi nelle università e nelle scuole superiori nipponiche ricordavano a Mishima gli scontri con i filosofi Sofisti, antagonisti di Socrate, che isolarono i giovani dell’agorà (piazza) che si era rivoltata. I giovani e gli intellettuali avevano il compito di vivere tra ginnasio e agorà per difendere la propria opinione con il corpo e le arti marziali oltre lo scambio delle opinioni. La strategia militare dell’invasione indiretta, la lotta ideologica finalizzata da una potenza straniera, la contesa tra chi violava l’identità nazionale e chi la difendeva; la lotta popolare sotto forma di nazionalismo o di combattimento delle milizie irregolari contro l’esercito regolare.

Nel luglio 1968, Mishima fu ricevuto dal ministro delle finanze Fukuda, suo ex compagno di università, cui espose un piano di riarmo militare e spirituale, fondato sulla tradizione patriottica e sull’esempio dei samurai. Fu deluso, mentre il Ministro della Difesa nazionale lo invitò a partecipare a grandi manovre. Nell’agosto divenne IV° Dan di Kendo e conobbe il venticinquenne Masakatsu Morita. Nel ’69 con 45 studenti Mishima effettuò un’esercitazione militare nel campo di Go Tenba. Si sottopose alle lezioni di Iai ed in tre mesi ottenne il grado di primo Dan, mentre in aprile partecipò ai campionati mondiali di Kendo, karatè, arti marziali, culto delle armi, azione, ardimento degli antichi samurai, preparandosi ad un’eventuale ipotetica lotta armata.

Il 13 maggio 1969 Mishima fu invitato all’Istituto di Cultura Generale all’università di Tokyo, presso la città universitaria di Komaba, ad un dibattito sulla terra madre, organizzato dal movimento studentesco di estrema sinistra Zenkyoto, rifiutando la protezione della polizia e dei suoi cadetti del Tate No Kai, insultando i suoi ospiti. Prese coraggio: davanti agli stessi studenti che avevano già dimostrato, prendendo degli ostaggi. Il giorno del dibattito, comparve all’entrata della sala, da solo. La sua sola protezione era il haramaki tradizionale, la lunghezza del panno di cotone fasciata strettamente intorno allo stomaco per deviare la spinta della lamiera di un ipotetico assassino. Nella sala duemila studenti stavano ascoltando la discussione. All’entrata vi era un manifesto che annunciava il dibattito, con una caricatura di Mishima come ‘’gorilla moderno’’. Mishima durante il suo dibattito con gli allievi di Zenkyoto indicò: ‘’ero nervoso al momento come se stessi entrando nella tana del leone, ma io l’ho goduta molto, dopo tutto. Ho trovato che abbiamo un mucchio di cose in comune – un’ideologia rigorosa e un gusto per la violenza fisica, per esempio. Sia loro che io rappresentiamo oggi la nuova specie nel Giappone. Ho conservato la loro l’amicizia. Siamo amici fra cui v’è un recinto di filo.’’

La conversazione fu nel complesso pacifica, sia pur interrotta da fischi ed esclamazioni di dissenso, Mishima espose le sue osservazioni ed asserzioni di stima per il movimento studentesco, cercando di dirottarne l’attenzione sulla necessità di un ritorno alla Tradizione, intesa in senso impersonale, per vendicare l’onore della figura dell’imperatore, della patria e del popolo nipponico nella decadente e corrotta società consumistico-liberale del Giappone yankeezzato. All’università di Tokyo Mishima affrontò coraggiosamente gli studenti in rivolta, nel tentativo di incontrare il rettore, tenuto prigioniero. Mishima era l’unico scrittore di ‘’estrema destra’’ in Giappone, mentre i professori universitari, gli studenti ed il mondo dell’editoria erano vicini al Partito Comunista Giapponese o segretamente si imboscava nelle istituzioni. Appellandosi alle tradizioni tradite, Mishima incitò gli studenti a risvegliare l’antico orgoglio dei guerrieri per i valori tradizionali che il processo di modernizzazione aveva cancellato. Il fanatismo, la ricerca dell’estetica della morte tragica, doppio suicidio per amore e follia, divennero un ossessione dominante, parabola tipica della tradizione Zen. Mishima non fu fascista o imperialista, ma lealista e nazionalista di estrema destra. La fedeltà al proprio Signore o Shogun (generale) dei cavalieri (Daymos o Signori) della nobiltà guerriera in epoca feudale nel XII secolo, strumenti di potere degli Shogun fino alla restaurazione imperiale Meiji del 1868, dopo la sconfitta, conseguente combattimenti secondo ferree regole di lealtà ed onore del codice d’onore dei guerrieri Bushido, qualora fossero in procinto di essere catturati, si davano la morte.

L’azione significava espiare, riparare, un esame di coraggio psichico ed una forma, degna di rispetto. Il guerriero Bushi, dopo una formazione psicologica del samurai, accettava la morte liberamente come scelta di un’azione più nobile e bella dell’essere umano. Nei secoli successivi l’atto fu comandato dai superiori dell’esercito nipponico a chi violava gli ordini o tradiva. Presso gli ufficiali, significava auto immolarsi per una causa superiore; come, poi, i piloti dei bombardieri dei caccia ‘’zero’’ giapponesi che si gettavano in picchiata sulle navi da guerra, durante la Seconda Guerra Mondiale, i Kamikaze, (‘’Vento degli dei’’, termine derivato dal tifone che salvò il Giappone dall’invasione della flotta mongola, affondandola, nel 1821), esempio dell’idea fissa di eroismo nella guerra del Pacifico. La purezza, l’ardimento, il sacrificio di giovani corrispondevano a modello leggendario di eroe, ed il loro fallimento e la loro morte li trasformava in autentici eroi. Scrivevano poesie e si equiparavano a maestri di spada, gareggiando fra loro per il primato nel combattimento ravvicinato uno contro uno, facendo gare di merito per ricevere onori massimi. Lo spirito dei samurai era corrotto e deformato a causa della debolezza militare delle forze armate giapponesi.

Un proverbio giapponese, estrapolato dal ‘’Mutsuwaki’’, cronaca di guerra di un autore sconosciuto (1051-1062), ammonisce che ‘’Il valore della vita, nei confronti del proprio dovere, ha il peso di una piuma’’. Il pilota kamikaze sull’attenti recitava la massima del ‘’Mutsuwaki’’: ‘’Adesso abbandono la mia vita, per la salvezza del mio Signore. La mia vita è leggera come la piuma di una gru. Preferisco morire affrontando il nemico, piuttosto di vivere voltandogli le spalle’’. Il Corpo dei kamikaze ha rappresentato un fulgido esempio di sprezzo della morte, l’incarnazione degli alti valori morali dei Samurai, per la Destra giapponese quella che fomentava ed auspicava un ritorno alle tradizioni del paese, imbarbarito dall’occidentalizzazione.

Nel 1938 fu decretata la legge per la mobilitazione nazionale e due anni dopo, il 27 settembre, fu concluso tra il Giappone, la Germania e l’Italia il Patto Militare tripartito, detto ‘’Ro.Ber.To.’’ (Roma-Berlino-Tokyo). Tutte le fazioni di destra si erano unite ed il paese fu avvolto in fervori nazionalistici, nel culto del Divino Imperatore, nell’ultrapatriottismo e nel militarismo. Non solo il popolo giapponese, con la sua educazione confuciana ed il culto di antica data per qualsiasi modello guerriero, non tentò nessuna seria resistenza al nuovo sistema, ma si mostrò ebbro di questo ideologico sakè vecchio e nuovo.

Le organizzazioni politiche di destra usarono, fin dai tempi bellici, i piloti kamikaze, come simbolo di un Giappone militaristico, colonialista ed estremamente nazionalistico, ultra-nazionalistico; la maggior parte dei giapponesi odierni, vedono il soggetto con ignoranza e come un falso stereotipo, commentandolo con toni negativi e di scarsa simpatia. Il Fascismo giapponese non fu eguale al Fascismo italiano o al Nazionalsocialismo tedesco, ma peculiare per il differente ‘’modus cogitandi’’ nipponico. Per designare questo periodo impregnato di totalitarismo si preferiva usare i termini ‘’Nihon-shugi’’ (Giapponismo, termine vago utilizzato da fonti nazionalistiche per enfatizzare l’unicità e superiorità di ciò che è politica, cultura e società giapponese) e ‘’Tenno-Sei‘’ (Sistema Imperiale o ‘’Fascismo Tenno Sei’’ o Fascismo militarista’’). Lo studioso F. Mazzei: ‘’la nascita del fascismo giapponese appare un fatto più naturale o per meglio dire ‘’meno patologico’’ che non in Italia e in Germania’’.

I capi nipponici avevano una istruzione formale ‘’top’’conseguita in università imperiali e/o Accademie Militari Imperiali; erano ‘’drogati’’ unicamente di devozione al loro Imperatore/Dio. Per i piloti kamikaze si addice il motto inscritto sulla lapide in ricordo della battaglia africana di El Alamein in Egitto: ‘’Mancò la fortuna, non il valore’’, che conta in positivo per il culto per la bellezza della sconfitta. Durante il Regno dell’Imperatore Showa, (1926-‘45), Hiroito, Principe della Corona, l’esercito divenne la vera autorità, la presenza dell’Imperatore era quella di un Dio e la Sua fu una figura più religiosa che politica. Nelle poesie ‘’Haiku’’ scritte dai piloti kamikaze, l’Imperatore era nominato alla prima riga.

La struttura sociale e gli schemi di pensiero ed azione dei secoli precedenti dominati dai guerrieri storici giapponesi non si estinsero dopo il 1945, anzi perdurarono sotto altre forme, nel governo, nel mondo affaristico capitalista, nel sistema educativo, nella vita sociale, con la teoria de’ ‘’Il libro dei Cinque anelli’’ del samurai Myamoto Musashi, scritta nel XVII secolo, fondatore della scuola delle ‘’due spade’’. Mishima condivideva con l’estrema sinistra una forma di protesta contro l’americanizzazione cruenta ed il capitalismo del Sol Levante. In lui arti marziali, filosofia e spiritualità si fondevano permettendo all’individuo di raggiungere la perfezione nel Bushido.

Era fra gli ultimi rappresentanti della cultura, della storia e delle tradizioni giapponesi e del culto dell’imperatore, con la battaglia combattuta fino alla morte. Un ponte, confronto/scontro fra due weltanschauung accomunate da un parallelismo di due sponde, due rive di un medesimo fiume vitale che come due rette in geometria all’infinito si incontrano, nel frattempo potevano esplorare insieme un percorso omogeneo o simmetrico nel reciproco rispetto per un futuro fulgore per entrambe. Mishima aveva speso appieno la sua vita in militanza sulla terra per épater le bourgeois, elevando alla massima potenza la sfida all’opinione pubblica che solo Tanizaki aveva tentato. Nelle università i giovani studenti erano in agitazione, specie a Tokyo, nel movimento studentesco in lotta, lo Zengakuren (non ancora Zengakuren Zenkyoto). L’azione politica dello Zengakuren presentava una sorta di tensione artistica. Gli studenti aderenti mescolavano i loro sogni infantili al mondo degli ideali e della politica. L’insoddisfazione, da cui nasce anche l’arte, è comune a ogni rivoluzione, anche se coronata da successo.

La rivoluzione o risolvere con metodi violenti i problemi in cui il popolo si dibatteva a causa delle contraddizioni della società, sognava un ordine ideale, da instaurare dopo la rivoluzione. La passione rivoluzionaria esigeva l’esistenza di irrefrenabili tensioni vitali, di miseria, di terribili contraddizioni sociali di particolari condizioni contingenti. La figura dell’uomo politico ligio al mantenimento dell’ordine degenerò nel simbolo di un tedioso e grigio conformismo, privo di alcun attrattiva. La passione rivoluzionaria diede inizio ad un’azione violenta in un anarchismo caotico, non supportato dalla presenza di atroci contraddizioni sociali o di un’effettiva miseria.

La rivoluzione propugnata dagli studenti non era ispirata da alcun principio in grado di suscitare la simpatia delle masse. Quest’idea rivoluzionaria si propagava nel mondo, trascinando nel vortice della confusione e della rivolta ogni paese. La tendenza a proiettare nel mondo dell’azione concreta aspirazioni che andrebbero rivolte all’arte, incapace di soddisfarle, riverberando le sue inquietudini esistenziali sulle angosce della società; saggia la vita producendo artificialmente uno scontro con la morte, a testimoniare tali esigenze con un’azione di lotta. Una simile artificiosa condotta politica non si limitava al nazismo tedesco ma si era diffusa nel mondo. La trasformazione politica dell’arte, la metamorfosi artistica della politica. Se l’arte è un sistema innocente, l’azione politica ha come suo principio base la responsabilità. L’azione politica è valutata in base ai risultati, è ammesso un movente egoistico ed interessato, purchè conduca a splendidi risultati; al contrario un’azione ispirata a un principio etico, che approdi ad un esito atroce, non esime chi l’abbia compiuta dall’obbligo di assumersi le proprie responsabilità. La situazione politica moderna ha introdotto nella sua sfera d’azione l’irresponsabilità dell’arte, riducendo la vita ad un concetto fittizio; ha trasformato la società in un teatro, il popolo in una massa di spettatori televisivi, producendo la politicizzazione dell’arte; l’azione politica non assurge all’antico rigore della concretezza e della responsabilità.

Le battaglie di fronte alle barricate nell’edificio Yasuda, all’Università di Tokyo, suscitarono l’interesse di una moltitudine di telespettatori, stanchi del solito sceneggiato. Uno spettacolo in cui gli attori scrissero sui muri ‘’Moriremo magnificamente’’, ostentando risolutezza all’atto estremo, ma non morirono, si arresero alla polizia. Nel moderno Giappone ci si adattava ai criteri della maggioranza senza vita militare, sopravvivendo all’iter per la formazione di casa e famiglia.

Lo Zengakuren radicalmente si mostrava audace ed affrontava energicamente la polizia, che reagiva pacatamente. Nè coraggiosi veri né codardi. La vita si confrontava con la morte. La teoria dell’azione, che definisca il limite fra situazione normale e di emergenza. Una tensione spirituale continua nel corso degli eventi quotidiani, la tensione nell’attendere virilmente il pericolo, nel rispetto delle regole morali di etichetta. Gli studenti che partecipavano a dimostrazioni politiche e si opponevano al governo, benché si ribellavano al potere, esigevano nei reciproci rapporti un rigoroso rispetto delle differenze gerarchiche tra studenti di classi superiori e inferiori. Apprendevano che ovunque agiva il desiderio di potere, la volontà di affermare un dominio, s’imponeva un’etichetta, un codice di comportamento, seguendo il quale si accresceva la propria autorità. Etichetta o comportamento secondo buona educazione esaltava la virilità negli uomini, per obiettivo di conquista. Le regole velavano il radicale antagonismo tra i partecipanti per la vittoria. L’etichetta è la corazza che difende l’uomo vero. L’autocontrollo e le norme di comportamento esaltano la bellezza virile.

Esaltavano lo spiritualismo della filosofia dell’azione dei giapponesi. La sublimazione di un egocentrismo prossimo ad un super-Io nietzschiano nel seppuku, contro il Giappone annichilito e corrotto, inserito nell’inquieta ricerca dell’autentica vitalità della sua carriera, in cui vita e opera letteraria, aspetti inscindibilmente legati, spingendolo a definire i suoi ultimi anni come ‘’Fiume dell’azione’’, che con prosa, teatro e corpo convergevano nell’Universo Mishima. Lo spiritualismo giapponese disprezza il corpo, diversamente dall’edonismo materialistico americano. Mishima viveva in un punto equidistante tra due stereotipi estremi di due diverse civiltà. La passione è il contrario del piacere, nel sesso. Provoca sofferenze e rischi gratuiti; nei giovani il desiderio sessuale si trasforma in passione, mentre negli adulti diviene piacere. I moderni liberano il sesso dalla passione, il piacere richiede denaro.

Gli adulti erroneamente definivano i movimenti studenteschi dello Zengakuren come un’inevitabile conseguenza dell’abolizione delle case chiuse. Il movimento studentesco divenne sempre più estremista, essendo influenzato dalla Nuova Sinistra, effettuando manifestazioni violente, con il lancio di bombe incendiarie, occupava le università che chiudevano, lottava contro il coinvolgimento del Giappone nella guerra degli U.S.A. in Vietnam nel 1961, contro la corruzione dei funzionari delle università e la crescita della spesa per l’istruzione controllata. Nel 1968 l’imponente movimento partecipò alle proteste ed alle occupazioni universitarie e delle scuole secondarie superiori, essendo costituito da studenti, docenti, personale non docente, ricercatori universitari, assistenti universitari, alcuni professori di ruolo, costituendo la Commissione d’Interfacoltà di lotta, Zenkyoto. Vi furono pure attacchi e scontri violenti con la polizia all’ambasciata U.S.A., poi l’ala più estrema degli studenti formò l’Armata Rossa Sekigun-ha, organizzazione clandestina armata nata nel 1969 dalla fusione di quattro gruppi studenteschi della sinistra rivoluzionaria: Chukaku; Kuhohern; Kehin Ampo; Kakam aru. Di ispirazione maoista ed antiamericana, per la rivoluzione proletaria in Giappone e, poi, internazionale con la Nihon Sekigun nel 1971 o strettamente nazionale con l’Armata Rossa Unita o Rengo Sekigun, organizzazioni terroristiche.

Un nuovo modello sociale dal 1967; polemiche prosperarono ed incoraggiarono una consapevole comunità di cittadini; l’agitazione nel mondo aveva scosso il Giappone. La guerra in Vietnam fece detonare le dimostrazioni di massa. Ad ottobre 1967, uno studente fu ucciso all’Aeroporto Haneda durante la protesta Zengakuren contro la visita del Primo Ministro Eisaku Sato al Sud Vietnam. Nel 1968, 3000 lavoratori dimostrarono all’Aeroporto di Osaka contro l’uso militare americano delle strutture.

Da maggio 1968, più di un milione di persone marciarono a Parigi, il governo francese barcollava. Il governo Dubcek in Cecoslovacchia stava dando un volto umanitario al comunismo fino all’invasione dell’U.R.S.S. e allo strappo della facciata per sbriciolarla in agosto . Molte persone giapponesi riconobbero che, dal 1968, con un secolo trascorso dalla Restaurazione Meji, l’economia stava esplodendo, accompagnata da bizzarre predizioni di un Giappone diveniente n.1 nel mondo. La società giapponese si riformava con democratiche linee, creando un sistema di due partiti e una struttura di stato assistenziale. Il governo arco – conservatore di Eisaku Sato, rieletto nel febbraio 1967 e poi di nuovo nel gennaio 1970, diede il messaggio al popolo giapponese: mai tanto benessere.

La logica della classe dirigente pretese un ulteriore sacrificio dal popolo, la repressione continua della libertà individuale ed il bene sociale liberalizzato negli interessi di uno sviluppo industriale. Il collasso del sogno del 1960 di un più aperto e socialmente tollerante Giappone, scatenò le lotte interne al movimento studentesco. Il movimento stava soccombendo all’anarchia ed alla devastazione, poi il Giappone assunse un altro corso, incanalando un remissivo e conforme popolo nelle mani di un governo determinato ad arretrare ai ‘’buon vecchi tempi’’, quando l’orgoglio nazionalistico dominava la coscienza della nazione. La massa compatta e armata di lunghi bastoni di Zengakuren, studenti organizzati dell’estrema sinistra, resta un’immagine indelebile del carattere nazionale e di massa di quelle lotte sessantottine. Nel ‘70 erano organizzati in gruppi che poi lo stato smontò abilmente e fece sparire.

Un poderoso movimento studentesco, contadino e operaio, patriottico (Mishima), rosso e rivoluzionario, che nessun partito socialista e comunista riuscì a comprendere, contenere e guidare, combattè per oltre 20 anni, dalla fine degli anni 50 alla fine degli anni 70, per non immolarsi di fronte allo sfruttamento del lavoro intenso, ‘’sviluppo economico’’. Il Giappone era nel 1968 il paese della coscienza critica e delle manifestazioni ordinate in fila indiana. La società del dissenso si arrese quarant’anni fa senza ritrovare il filo del discorso.

La guerra in Vietnam, in quel periodo migliaia e migliaia di persone scesero in piazza a Shinjuku per protestare contro il passaggio quotidiano di treni che trasportavano armi che sarebbero servite per uccidere delle persone. Gli studenti rivoluzionari persero tutte le battaglie: l’inquinamento e la cementificazione completi del paese furono incoraggiati; venne aperto il famigerato aeroporto di Tokyo di Narita incaricato di bombardare il sud est asiatico palesemente e segretamente, le organizzazioni sindacali falcidiate, il partito liberaldemocratico andò al governo a vita. Il ’68 giapponese fu il più difficile da domare e cercò di spazzare via ciò. Immolarsi in cambio della fine di quell’osceno spettacolo, fu un estremo gesto artistico-metaforico di combattimento, diventato realtà. Il Giappone dei ribelli si sviluppò e la sua tragica fine venne dopo la sconfitta del movimento rivoluzionario in Asia, con una svolta autoritaria e terroristica di una parte del movimento nipponico della sinistra rivoluzionaria, lo Zengakuren.

Un movimento articolato e complesso, che anticipò lucidamente e di circa un decennio, il ’68 mondiale, come nel film di Nagisa Oshima ‘’Notti e nebbie del Giappone’’, che indicò nella generazione dei dirigenti formati dallo stalinismo, deviazionisti compresi, l’origine della malattia mortale del ‘’comunismo’’. Prefigurandone ambiziose e transnazionali ‘’lunghe marce’’; 112 università occupate ed in rivolta, migliaia di arresti, morti, feriti (da ambo le parti, ma era sempre una ad attaccare), battaglie campali cruentissime, di cui una avvenuta nei sotterranei della metropolitana di Tokyo. Attacchi alle stazioni di polizia. Scontri violenti. Bombe molotov. Fazzoletti sul viso e travi di legno in mano. Sovversione e rivoluzione, proteste.
Il 21 ottobre del 44° anno dell’era Showa (‘’Armonia illuminata’’), 1968, una dimostrazione pacifista, l’ultima prima del viaggio in America del Primo Ministro, fu soffocata dalle forze schiaccianti della polizia.

Centinaia i feriti e gli arrestati. Mishima ne fu testimone nel quartiere di Shinjuju (Tokyo); travestito da reporter della sezione domenicale del quotidiano di notizie ‘’Mainichi Shimbun’’, ne provò rammarico. La sua preoccupazione era di osservare se c’era stata ‘’escalation nelle armi che la parte di sinistra ha avuta a disposizione’’. Seguì la calca degli studenti per la via principale del distretto di Shinjuku, scorrente veloce avanti ed indietro per osservare le esplosioni di violenza che descrisse sui suoi notecards, fino alla residenza del primo ministro, che fu circondata. Mishima, coscientemente o non, limitò la sua comprensione delle questioni politiche e degli eventi; il fatto è che i suoi punti di vista erano poco relazionabili con la realtà che la politica stava ponderando. In tal modo capiva che non era possibile far cambiare la Costituzione. Il governo si era reso conto dei limiti delle forze dell’estrema sinistra, dalla reazione del popolo verso l’intervento della polizia, non dissimile a un coprifuoco, trasse la sicurezza di poter riuscire a controllare la situazione, senza la questione dell’emendamento alla Costituzione.

La polizia fu sufficiente a mantenere l’ordine pubblico e le strutture politiche. Contenere ed arginare questa energia rivoluzionaria per i politici era quasi impossibile leggi speciali furono promulgate dallo stato incapace di stare al passo coi tempi. Il 19 gennaio 1969, 850 poliziotti della squadra antisommossa munite di armi fino ai denti aveva respinto gli operai e gli studenti fuori dalla costruzione in cui erano asserragliati. Mishima aveva osservato con ammirazione il confronto/scontro per la determinazione degli Zengakuren. Ma quando il corso Yasuda cadde nelle mani della polizia senza la morte di neanche uno studente, fu disgustato ‘’Osservate e ricordate disse ai suoi cadetti, ‘’quando il momento finale è venuto, non c’era uno di loro che ha creduto in ciò che corrispondeva sufficientemente per lanciarsi da una finestra o per suicidarsi con la spada’’. Enfasi autodistruttiva. Fu un fenomeno imponente, rabbioso, energico, in Giappone come nel resto del mondo. Il Giappone aveva il suo gruppo di studenti radicali che dalle proteste pacifiche transitarono al terrorismo mentre al loro interno conducevano epurazioni sanguinarie, origine, sviluppo e tragica fine del movimento armato rivoluzionario in Giappone.

Nella grande ondata di mobilitazione spoliticizzata, non appartenente a nessun partito politico, nacquero vari gruppi rivoluzionari di ispirazione comunista, in contrasto fra di loro, la Sekigun-ha (Armata Rossa) di cui negli anni ’70 la società non capiva cosa fosse: una rotella impazzita ed armata dell’ingranaggio. Fusako Shigenobu, figlia di un professore di scienze militante di un gruppuscolo di estrema destra prima di aderire al Partito Comunista Giapponese, membro fondatrice della Sekigun-ha, nel 1971 sarebbe andata in Libano dove avrebbe fondato la Nihon Sekigun (Armata Rossa Giapponese), divenne il più famoso di questi gruppi radicali, legato all’etica samurai nel suo programma, autore di numerosi atti di terrorismo che durarono circa venti anni. Un movimento di protesta e di genuina rivolta trasformatosi in un massacro ed in una occasione perduta. Del gruppo internazionale, una parte dirottò un aereo e si spostò in Corea del Nord, un’altra parte si trasferì in Palestina e in Libano. Il governo giapponese spera di poter fare estradarne dalla Corea del Nord numerosi membri che vi hanno trovato rifugio.

Tale questione è al cuore delle difficoltà diplomatiche tra Pyongyang e Tokyo. In Giappone rimase la manovalanza del gruppo che si unì ad alcuni membri fuoriusciti dal partito comunista formando l’Armata Rossa Unita (Rengo Sekigun). Questo era il comune modus operandi dell’estrema sinistra di quegli anni, incluse le Guardie Rosse cinesi. Mori, Nagata, e i loro alleati seppero dare un indirizzo nipponico alla loro inquisizione interna; atti di bullismo verso di chi offendeva in qualche modo l’armonia (wa) del gruppo. Da questo immane confronto una cellula di emme-elle ultradogmatici formò una struttura clandestina istigata alla lotta armata, costola dell’Esercito Rosso Giapponese che, rapito un ministro, poi liberato, dopo il placet a negoziare il riconoscimento dell’avversario politico, in cambio della fine di ogni azione armata in patria, ottenendo lo scambio dei prigionieri e l’Armata Rossa spaccata in due, con, in parte, il proprio esodo internazionalista in Palestina. Tale parte andò a combattere in Palestina al fianco del PFLP, Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, di indirizzo marxista-leninista, introducendo l’opzione kamikaze che ha sinistre appendici attuali. Dall’Armata Rossa nacque l’Armata Rossa Giapponese che spostò il suo interesse a livello internazionale; comprendeva esponenti del mondo artistico giapponese quali i registi Koji Wakamatsu, fiancheggiatore, ed il surrealista Masao Adachi (Fukuoka 1939), scrittore ed ex membro dell’Armata Rossa Giapponese, assertore della sovranità delle masse, che leggeva autori sovversivi marxisti-leninisti o tradizionali come Mishima. Ci fu, poi, una propaganda dei media contro i movimenti studenteschi di sinistra.

Adachi soggiornò molti anni nei carceri libanesi ed israeliane, fu estradato ed agli arresti domiciliari in Giappone, dove vive da qualche anno in stato di semilibertà. Amici di Genet, novello Orfeo sui cui nuovi valori selvaggi: il male per il male, l’uomo delle metamorfosi capace di trasformare la sofferenza nel suo contrario, la sovversione superiore della scrittura. Mishima gli aveva dedicato un saggio nel ’56. Nel 1967 Genet in Giappone partecipò alle campagne antimilitariste contro l’attracco delle portaerei militari americane nel porto di Sasebo, si impegnò nelle manifestazioni per i contadini di Sanrizuka, protestò contro un progetto di esproprio delle terre, fu coinvolto negli scontri studenteschi, al fianco degli Zengakuren, verso cui Mishima provava una passione iconoclasta. Nel 1960 alcuni studenti avevano risvegliato la loro coscienza e si erano addentrati nel movimento studentesco dello Zengakuren per poi arruolarsi nella destra nipponica nazionalista, la Kadoka, che appoggiava la figura imperiale, riconducibile alla rivolta del 26 febbraio 1936. Nel movimento studentesco militavano anche elementi di estrema destra, che avrebbero preso una deriva terroristica o con un complesso atteggiamento psicologico.

Le autorità dell’ultra destra e gli ‘’amici’’ di Mishima in Parlamento, nelle grandi Zaibatsu, (concentrazioni industriali, commerciali o finanziarie), e nella Yakuza, mafia giapponese, si rivolgevano all’Occidente nella corsa al benessere economico. A fianco della polizia, i ‘’crumiri’’ che picchiavano gli studenti e gli operai dello Zengakuren erano degli Yakuza ed i basuzoku, teppisti motorizzati. Del resto Mishima parlava di sottotenenti dell’accademia militare, che sentendosi prima di tutto militari professionisti, aristocratici o meno, ufficiali o semplici militari, tecnici neutrali; qualora il comunismo fosse giunto al potere in Giappone, avrebbero continuato a svolgere senza problemi la loro attività nella costituenda Armata Rossa. Era la base dell’istruzione militare nell’Accademia militare.

Genet si lasciava alle spalle ‘’il mondo ebraico-cristiano’’. Giappone, Palestina e Marocco furono un fulcro nell’opera di continuo spaesamento di Genet, dalla fine degli anni Sessanta, dopo il suo incontro con il Maggio francese e con i palestinesi, il suo scontro con Sartre. Il materialismo ossessivo assunse la forza di un disperato misticismo, che accomunava Genet e Mishima, entrambi alla quiete di Andrè Gide. Legati da un’esistenza segnata dal rifiuto e da un’opera cresciuta sotto l’ombra del desiderio di morte, il sesso istituiva per loro un vincolo a cui si legarono, per tenere a bada la morte. Se Genet si liberò di Gide, Mishima non si liberò di Genet. Generiche le accuse di antisemitismo, di ‘’mistica del vuoto’’ o di ‘’estetica fascista’’ dallo storico psicologizzante Ivan Jablonka.

Mishima non fu il cantore romantico della bella morte antica, ma il profeta della rinascita spirituale. I detrattori di Mishima gli rimproveravano le simpatie verso la destra ed il culto della forza, l’essere il jolly dell’imperatore, il narcisismo, il suo nichilismo, di essersi procurato una morte senza senso, tra un’etica normativa ed il nulla. Nell’ottica tradizionale dell’antica cultura del Sol Levante, dei samurai, dei guerrieri dell’onore, il suo sacrificio fu il ‘’suicidio del guerriero’’ per il disgusto provocato dalla mancanza di vigore per l’integrità del Giappone contemporaneo rispetto al retaggio culturale. Un gesto estremo, espressione psicologica dello spirito tradizionale giapponese, che fece riscontrare un fascino dovuto al suicidio rituale. Artista del culto dell’onore, della bellezza, della morte sensuale ed eroica, usò la società mediatica e ne fu usato, divenendo mito, icona, emblema. Sacrificio supremo gettato in faccia all’abominevole modernità demistificatrice del mito, disprezzo delle forme del sacro, esaltando il pubblico di fronte al privato nel nome di valori spirituali della tradizione. La postmodernità è la ‘’via della ‘’mano sinistra’’ del tantrismo e della ‘’legge degli opposti’’, che non è destra né sinistra. Non è conservatrice né rivoluzionaria, contiene e nega la modernità, né rivendica lo spirituale del tempo né esalta l’impostura della modernità; non difende la leggenda del passato, né la modernità nella modernità.

L’eroe postmoderno è innovatore, attualizza l’arcaico, l’eterno, l’immortale nell’effimero, spirituale stadio di purezza. Creazione verso l’assoluto, Dio nell’inferno vitale terreno. Il mito della bella morte, la nobiltà della sconfitta che gridava al vento della storia l’estrema rivolta ideale di chi non si rassegnava a cavalcare la tigre di ogni intramontabile nozione di assoluto; quel volto contratto a pronunciare parole prive di senso contro la perdita dello ‘’spirito nazionale’’ e contro la ‘’condizione di vuoto’’ in difesa dell’ ‘’onore’’ e dell’ ‘’esistenza dello spirito’’. La forza del passato mostrava il volto peggiore, normativo, autoritario, un samurai esausto, stanco di lottare, incurante del ridicolo. Un blocco di marmo ultranazionalista e reazionario, simbolo e sintomo di reazione alla decadenza.

La dicotomia tradizione-moderno in quanto figlio del Giappone costretto a rinnegare il proprio passato ed a subire la cultura del vincitore. L’idea di Mishima esulava il patriottismo europeo, il suo culto per la figura dell’Imperatore era un’idea trascendente tipo quella di Julius Evola e le sue idee in materia di tradizione che non ad un comune nazionalista. Intervistato dal critico marxista Takashi Furubayashi, Mishima ribadì che nel mondo attuale la forza era denigrata, per cui l’etica di coloro che cercano di essere forti è disprezzata. ‘’Azione’’ sintetizzata nel suo pensiero ‘’desidero dare me stesso fino alla morte e, pur avendo la mia età, non essere da meno dei giovani che mi circondano’’.

 

 


Antonio Rossiello

22/11/2009

mardi, 08 juin 2010

La persistenza di Yukio Mishima

La persistenza di Yukio Mishima

di Valerio Zecchini

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]

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A quasi quarant'anni dalla morte, la persistenza della fortuna di Yukio Mishima non dà segni di cedimento, nemmeno in Italia: Madame De Sade (1965), uno dei drammi con cui riportò a nuova vita la tecnica tradizionale del teatro No, in questa stagione è stato rappresentato al teatro Dehon di Bologna con grande successo per due settimane; il brillante adattamento di Piero Ferrarini ne aggiorna l’ambientazione dalla rivoluzione francese al Maggio ’68. Intanto, la pubblicazione di testi ancora inediti nel nostro paese (che sembrano non finire mai), e la ristampa di libri ormai classici prosegue incessante. Mentre Mondatori ha fatto uscire il prezioso inedito “Abito da sera”,  la casa editrice SE ha di recente pubblicato, oltre al carteggio durato decenni col premio Nobel Yasunari Kawabata (“Kawabata – Mishima: Lettere), la novella La spada del 1963, della quale l'anno successivo uscì una versione cinematografica. In questo lungo racconto ambientato nel contesto di quella che è forse la più Giapponese delle arti marziali, il kendò, l'adesione ai valori tradizionali di lealtà, rigore morale, dedizione alla causa prende corpo con un'assolutezza che esclude ogni umano compromesso, fino all'inevitabile immolazione finale.

 Così come la novella Patriottismo del 1961 (dallo stesso Mishima trasformata in film quattro anni dopo), La spada ha tutte le caratteristiche del testamento spirituale in forma narrativa. E' per questo che il volume include anche il testamento spirituale “ufficiale” (il Proclama, manifesto che lo scrittore volle lasciare a giustificazione del suo gesto e che lesse a squarciagola alle truppe della caserma dove si suicidò), e una serie di testi sul martirio volontario di Mishima: “Riflessioni sulla morte di Mishima” di Henry Miller (1972), “L'ideologia della morte folle” (Hashikawa Bunzò, 1970), “Dietro tanta vivacità un senso di vuoto” (Donald Keene, 1970), e un estratto del magistrale saggio di Marguerite Yourcenar  “Mishima” del 1982. il libro si chiude con una sequenza di bellissime foto in bianco e nero che immortalano l'artista nel suo sublime narcisismo. In questi quarant'anni, scrivere sul suicidio valoriale e simbolico di Mishima sembra essere diventato un genere letterario a sé stante: oltre ai succitati autori e ai vari biografi, lo fece il maestro e sodale Yasunari Kawabata, il grande regista Paul Schrader nel 1984 ne fece un film memorabile, in Italia intervennero Alberto Moravia (ma lui non poteva capirci granchè) e Piero Buscaroli, che ne colse solo il movente politico.

Ma perchè il seppuku di Mishima, in cui un'etica eroica da antico samurai convive singolarmente con un estetismo pienamente dandy, continua ad affascinarci tanto? Probabilmente perchè più si esaspera il processo di modernizzazione e di decadenza (sia in Giappone, sia in Europa), più ci sentiamo attratti da quel mondo antico permeato di bellezza, onore, eroismo che lo scrittore giapponese ha costantemente evocato con le sue opere, la sua vita e soprattutto la sua morte. Una morte sconvolgente, ossessivamente annunciata, preparata con implacabile meticolosità e infine celebrata dinanzi al mondo come un rituale spettacolare e tragico. La sua uscita di scena ha rappresentato al tempo stesso l'apoteosi del personaggio, condannato da un demone inquieto a una vita perennemente sopra le righe, e la parola conclusiva dello scrittore, la sigla di un'opera totale in cui culto della gioventù, amore per la bellezza e morte eroica appaiono intrecciate in un destino ineluttabile. Il vero tradizionalista è un ribelle e un iconoclasta, come ben puntualizza Henry Miller nel suo scritto: “I veri pionieri nono iconoclasti; sono loro che salvaguardano la tradizione, non quelli che lottano per conservarla e così facendo ci soffocano. La tradizione può realmente esprimersi solo attraverso lo spirito dell'ardimento e della sfida, non con conformismi esteriori e col  mantenimento di usanze. Credo che fosse in questo senso che Mishima intendeva far rivivere i costumi dei suoi avi. Egli voleva ristabilire la dignità, il rispetto e la fiducia in se stessi. L'autentico cameratismo, l'amore per la natura e non l'efficienza, l'amore di patria e non lo sciovinismo, l'imperatore quale simbolo di capacità di comando in opposizione a un gregge senza volto e senza anima obbediente a ideologie mutevoli, i cui valori sono stabiliti dai teorici della politica.”

Il saggio di Marguerite Yourcenar rimane comunque a mio avviso il migliore sull'argomento Morte di Mishima: il più acuto e penetrante, l'unico che consideri l'importanza anzi la centralità dell'”omosessualità guerriera” in questa vicenda; vi si potrebbe addirittura individuare il disvelamento di quella “funzione sacra dell'omosessualità” di cui parlava Pasolini negli ultimi anni della sua vita. Dice la Yourcenar: “Circa due anni prima della fine, si produce per Mishima uno di quegli eventi insperati che sembrano manifestarsi puntualmente non appena la vita acquista una certa precipitazione e un certo ritmo. Un personaggio nuovo fa il suo ingresso, Morita, ventun anni, provinciale educato in un collegio cattolico, bello, un po' tarchiato, infiammato della stessa passione lealista che arde in colui che egli bel presto chiamerà maestro (Sensei), termine onorifico dato dagli studenti ai loro istruttori. Si è detto che, in Mishima, l'inclinazione verso l'avventura politica è cresciuta in proporzione alla foga del giovane”.

Morita fu l'ultimo a iscriversi all'Associazione degli Scudi (l'associazione paramilitare messa in piedi da Mishima) e in lui forse trovò il compagno e forse il fanatico che aveva sempre cercato, o almeno il risoluto spartano col quale condividere lo splendore della melanconia. Infatti, dopo che lo scrittore si fosse squarciato il ventre, avrebbe dovuto essere Morita a tagliargli la testa – ma non andò così, ci fu un terzo che dovette finirli entrambi. In Colori proibiti (1951) e successivamente nel racconto Onnagata Mishima aveva preso in esame il mondo dell'omosessualità moderna, mettendone in evidenza l'inconsistente vacuità, il frivolo estetismo. Nel suo rapporto con Morita sembrano invece rivivere le storie d'amore tra samurai descritte nel XVII secolo dal grande monaco/scrittore Ihara Saikaku, o l'amore folle dell'imperatore Adriano per il suo amante narrato dalla stessa Yourcenar nelle “Memorie di Adriano”, o ancora Alessandro Magno col fedele Efistione come ce lo ha fatto vedere qualche anno fa Oliver Stone in “Alexander” – o, per spingersi ancor più in là nella mitologia antica, il legame eroico tra Achille e Patroclo?

Come è reso evidente in vari scritti teorici, secondo Mishima il vincolo cameratistico dev'essere alla base anche del rapporto con la donna, essere quindi il fondamento del matrimonio. Ma, come aveva affermato nel corso del dibattito all'università con gli studenti comunisti (1968), era arrivato a pensare che l'amore stesso fosse diventato impossibile in un mondo privo di fede. Egli paragonava gli amanti ai due angoli di base di un triangolo, e l'imperatore, che essi venerano, al vertice: è la concezione di un sostrato di trascendenza necessario all'amore. Col suo lealismo incondizionato, Morita rispondeva a quell'esigenza.

Einaudi ha da poco ripubblicato “Una virtù vacillante”, romanzo uscito a puntate nel 1957, il quale ebbe un tale successo che nello stesso anno se ne realizzò un adattamento cinematografico. Qui Mishima, dal suo punto di vista privilegiato di bisessuale, analizza l'animo femminile con la precisione di un entomologo. Protagonista del romanzo è la sensuale Setsuko, una giovane signora dell'alta borghesia di Tokyo la quale, intrappolata in un matrimonio di convenienza, si ribella a ogni forma di moralità e si abbandona tra le braccia di un affascinante conoscente. L'autore descrive con maestria il conflitto che tormenta la giovane e bella Setsuko tra istinto ed etica, tra sentimento e razionalità, il misterioso e indomabile anelito a un amore travolgente, totale, eterno fino alla scoperta dell'ineluttabile verità: l'amante è  simile al marito e alla gran parte degli uomini, strutturalmente incapaci di corrispondere all'assolutezza dell'amore femminile. Questa consapevolezza la porterà alla catarsi finale della rinuncia ascetica. Setsuko a un certo punto spiega anche perchè non può esistere un dandy o un esteta donna: “Com'è profonda, a volte, la solitudine maschile! Quella femminile è diversa. Persino la solitudine di una vecchia è più carnale e avida. Per quanto sia sola, una donna non può vivere in un mondo ideale, perchè le è impossibile rinunciare alla propria femminilità. Se invece un uomo assurge all'alto dominio dello spirito, smette di esser una creatura terrestre”.

Questa avvincente storia d'amore è comunque pervasa da un'atmosfera di fatua decadenza, gli eleganti personaggi sono sempre mossi da biechi e meschini calcoli e spiegano benissimo cosa intendesse Mishima quando parlava dell'amore diventato impossibile in un mondo privo di fede.

Agli amori borghesi di “una virtù vacillante” si contrappone il profondo amore tra marito e moglie narrato nel racconto “Patriottismo”, offerto al pubblico come esemplare da Mishima: profondo perchè radicato nel sacrificio comune e nel cameratismo, sulla superiore devozione verso l'imperatore, nel sacro ruolo della donna come custode della tradizione. Tutto ciò che non poteva più esistere, se non come sopravvivenza, nel Giappone del 1970, e tanto meno nel Giappone di oggi.

 

Yukio Mishima

UNA VIRTU' VACILLANTE
Einaudi

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Yukio Mishima
LA SPADA

SE

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lundi, 07 juin 2010

Le Bulletin célinien / juin 2010

Le Bulletin célinien n°320 - Juin 2010

Au sommaire:

Marc Laudelout : Bloc-notes
Les ballets lus par Robert Poulet (1959)
Henri Godard : Céline et la danse
M. L. : Céline, auteur de ballets
M. L. : Le petit monde des céliniens
M. L. : « Voyage au bout de la nuit » brûlé par le IIIe Reich ?
Courrier des lecteurs
Céline vu par Giovanni Raboni (2000)
M. L. : Céline chez les fascistes canadiens


Le Bulletin célinien
B. P. 70
B 1000 Bruxelles 22
Belgique

juin 2010

Il y a trois mois, j’ai assisté à un intéressant dialogue entre François Gibault, biographe de Céline, et le psychanalyste Patrick Declerck (1). La divergence de vues portait sur l’humanisme de Céline — attesté pour le premier, réfuté par le second. Coïncidence : durant ce même mois de mars, Pierre Lainé – qui voit, lui aussi, en Céline un humaniste (2) – se voyait contesté par le critique Robert Le Blanc « car un humaniste, ce n’est pas quelqu’un qui fait preuve ici et là de sentiments d’humanité, de fraternité, c’est quelqu’un qui prétend “croire en l’homme” (3) ».
Céline croyait-il en l’homme ? Lui qui écrivait, dans Voyage au bout de la nuit, que « faire confiance aux hommes c’est déjà se faire tuer un peu » ? Henri Godard a raison de voir en Mea culpa « une virulente dénonciation de l’humanisme (4) » à partir de la réalité soviétique. Les propos les plus pessimistes visant l’espèce humaine, c’est bien dans ce libelle qu’on peut les lire. « L’Homme il est humain à peu près autant que la poule vole. » Le paradoxe étant qu’avec tout ce qu’il pense de l’homme, en général, et de ses compatriotes, en particulier, Céline ait tenu à leur sauver la mise par de terribles brûlots ayant essentiellement pour but de prévenir un (nouveau) conflit européen. Or, n’est-ce pas lui qui écrivait : « Il ne faut pas, voyez-vous, s’occuper de l’Homme, jamais. Il n’est rien (5). » ? Dans Les Beaux draps, qui constitue, en dépit des circonstances, son livre le plus roboratif, il propose une complète et profonde rééducation de l’homme passant par une conception nouvelle de la famille et de l’école. Alors même qu’étant donné ce qu’il avait écrit auparavant, il eût pu faire sienne cette conviction nietzschéenne selon laquelle la vie est mauvaise et qu’il ne nous appartient pas de la rendre meilleure.
Au moins, à ce moment précis, Céline appelle-t-il de ses vœux une forme d’épanouissement de l’homme basé sur des réformes radicales. Ce souhait fera long feu. Après les épreuves et l’exil, il n’aura de cesse de se présenter en esthète, fuyant les idées comme la peste et récusant, plus que jamais, le souci de s’intéresser à l’homme plutôt qu’à la chose en soi. Mais, s’il apparaît alors nihiliste, il ne le fut pas toujours.
Alors, était-il un humaniste déçu ? Un anti-humaniste ? Sa passion pour le biologique en fait-il même, comme l’affirment certains, un post-humaniste ? (6) Humaniste ou pas, Céline n’a pas fini de susciter la controverse. Dès lors qu’on aborde son cas, il me semble que sa vocation médicale, sa détestation de la guerre, sa passion pour la création (« Je suis du parti de la vie ») mais aussi, il est vrai, sa défiance farouche envers l’Homme sont autant d’éléments à prendre en compte.

Marc LAUDELOUT


Notes

1. Soirée littéraire consacrée, le 23 mars au Voyage au bout de la nuit à « Passa Porta » (Maison internationale des littératures, Bruxelles). Cette soirée était animée par Laurent Moosen.
2. « L’œuvre célinienne est une œuvre humaniste. Parce qu’elle dénonce les misères et les crimes de tous bords, les cruautés et les exploitations, parce qu’elle s’insurge, dénonce et tonitrue pour les malentendants, condamne les résignations, invite à une prise de conscience, ou plutôt impose cette prise de conscience jusqu’à l’angoisse et la nausée. Céline humaniste, oui, profondément humaniste.» (Pierre Lainé,
Céline, Pardès, 2005). À noter qu’à Dinard, une conseillère municipale de l’opposition s’opposant à la tenue du prochain colloque de la SEC dans cette ville indique qu’« on cherche vainement des bouffées humanistes [sic] » chez Céline. Nous reviendrons sur cette polémique.
3. Robert Le Blanc, « Autour de la correspondance », Le Bulletin célinien, n° 317, mars 2010, p. 9.
4. Henri Godard, « Notice de Guignol’s band » in Romans III, Gallimard, coll. « Bibliothèque de la Pléiade », 1988.
5. Lettre à Pierre Boujut, 7 janvier 1936 in Lettres, Gallimard, coll. « Bibliothèque de la Pléiade », 2009, p. 476.
6. Philippe Destruel, « Céline entre Ariel et Caliban. Les pamphlets : de l’humanisme déçu à l’anti-humanisme amer » in
Médecine (Actes du quinzième Colloque international Louis-Ferdinand Céline), Société d’études céliniennes, 2005.

dimanche, 06 juin 2010

Rebelle

Rebelle


« Deux qualités sont indispensables au Rebelle.
Il refuse de se laisser prescrire sa loi par les pouvoirs, qu'ils usent de la propagande ou de la violence.
Et il est décidé à se défendre. »
 
Traité du Rebelle, Ernst Jünger

jeudi, 27 mai 2010

Fiume o morte! A propos d'un volume collectif sur Gabriele d'Annunzio

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1996

Fiume o morte!

A propos d'un volume collectif sur Gabriele d'Annunzio

 

fiumeaffiche.jpgGabriele d'Annunzio (1863-1938), au temps de la “Belle époque”, était le seul poète italien connu dans le monde entier. Après la première guerre mondiale, sa gloire est devenue plutôt “muséale”, sans doute parce qu'il l'a lui-même voulu. Il devint ainsi “Prince de Montenevoso”. Un institut d'Etat édita ses œuvres complètes en 49 volumes. Surtout, il tranforma la Villa Cargnacco, sur les rives du Lac de Garde, en un mausolée tout à fait particulier (“Il Vittoriale degli Italiani”) qui, après la seconde guerre mondiale, a attiré plus de touristes que ses livres de lecteurs. En Allemagne, d'Annunzio a dû être tiré de l'oubli en 1988 par l'éditeur non-conformiste de Munich, Matthes & Seitz, et par un volume de la célèbre collection de monographies “rororo”. Aujourd'hui, coup de théâtre, un volume collectif rédigé par des philosophes et des philologues nous confirme que la grand “décadant” a sans doute été le “dernier poète-souverain de l'histoire” (références infra). A quel autre écrivain pourrait-on donner ce titre?

 

La ville et le port adriatique de Fiume (en croate “Rijeka”, en allemand “Sankt-Veit am Flaum”) était peuplée à 50% d'Italiens à l'époque. Les conférences parisiennes des vainqueurs de la première guerre mondiale avaient réussi à faire de cette cité un pomme de discorde entre l'Italie et la nouvelle Yougoslavie. Le Traité secret de Londres, qui envisageait de récompenser largement l'Italie pour son entrée en guerre en lui octroyant des territoires dans les Balkans, en Afrique et en Europe centrale, n'avait pas évoqué Fiume. Le Président Wilson n'avait pas envie d'abandonner à l'Italie l'Istrie et la Dalmatie. Après l'effondrement de l'Autriche-Hongrie, une assemblée populaire proclame à Fiume le rattachement à l'Italie. Des troupes envoyées par plusieurs nations alliées prennent position dans la ville. Des soldats et des civils italiens abattent une douzaine de soldats français issus de régiments coloniaux annamites (Vietnam). Aussitôt le Conseil Interallié ordonne le repli du régiment de grenadiers sardes, seule troupe italienne présente dans la cité. Ce régiment se retire à Ronchi près de Trieste. Là, quelques officiers demandent au héros de guerre d'Annunzio de les ramener à Fiume. Le 12 septembre 1919, d'Annunzio pénètre dans la ville à la tête d'un corps franc. Le soir même, le “Comando”, avec le poète comme “Comandante in capo”, prend le contrôle de la ville. Les Anglais et les Américains se retirent. D'Annunzio attend en vain l'arrivée de “combattants, d'arditi, de volontaires et de futuristes” pour transporter le “modèle de Fiume” dans toute l'Italie.

 

Des festivités et des chorégraphies de masse, des actions et des coups de force symboliques rendent Fiume célèbre. D'Annunzio voulait même débaptiser la ville et la nommer Olocausta (de “holocauste”, dans le sens premier de “sacrifice par le feu”). Sur le plan de la politique étrangère, le commandement de Fiume annonce dans son programme l'alliance de la nouvelle entité politique avec tous les peuples opprimés, surtout avec les adversaires du royaume grand-serbe et yougoslave. L'entité étatique prend le nom de “Reggenza Italiana del Carnaro” et se donne une constitution absolument non conventionnelle, la “Carta del Carnaro”. Son mot d'ordre est annoncé d'emblée: spiritus pro nobis, quis contra nos? (Si l'esprit est avec nous, qui est contre nous?). Le Premier ministre italien de l'époque était Giovanni Giolitti, âgé de 78 ans. Sous son égide, l'Italie et la nouvelle Yougoslavie s'unissent par le Traité de Rapallo. Avant qu'il ne soit ratifié, le héros de la guerre aérienne, Guido Keller, jette sur le parlement de Rome un pot de chambre, rempli de navets et accompagné d'un message sur les événements. Rien n'y fit. L'Italie attaque Fiume par terre et par mer. C'est le “Noël de Sang” (“Il Natale di Sangue”). Le régime de d'Annunzio prend fin, après quinze mois d'existence.

 

Le volume collectif qui vient de paraître en Allemagne n'est pas simplement une histoire de Fiume sous le “Comandante”. La préoccupation des auteurs a été bien davantage d'expliquer les événements de Fiume à la lumière des nouvelles formes “non-conventionnelles” de guerre et de propagande, nées de la première guerre mondiale (par “non-conventionnel”, on entend ici le non respect de la séparation entre combattants et non combattants, entre guerre et paix). Dans les nouvelles technologies de la vitesse (l'avion, la vedette lance-torpilles, les troupes d'assaut), dans les médias (le cinéma) et l'art de la propagande, d'Annunzio était d'une façon ou d'une autre impliqué. Ou en était carrément l'initiateur. En tant qu'aviateur, que commandant de vedettes lance-torpilles, qu'orateur et harangueur, le héros de la première guerre mondiale, couvert de décorations, élevé au grade de lieutenant-colonel, décidait lui-même des missions qu'il allait accomplir. Le philologue Siegert, dans sa contribution (), étudie la renovatio imperii  voulue par d'Annunzio à la lumière de l'histoire de la guerre aérienne entre 1909 et 1940, depuis la journée du vol aérien de Brescia jusqu'à la mort de Balbo.

 

La domination des airs, selon les théories du Général Giulio Douhet, paralysait l'adversaire en détruisant sa logistique. Douhet ne connaissait pas la différence entre l'armée et la population civile, la guerre aérienne réduisant tous les traités à des “chiffons de papier sans valeur”. Ou, comme le formulait Sir Arthur Harris, commandant des flottes de bombardiers britanniques pendant la seconde guerre mondiale, dans son ouvrage de 1947, Bomber Offensive:  . Siegert écrit: «Ce que l'on appelle la “target area bombing” fonde une nouvelle époque de l'histoire de l'Etre. Des choses comme les humains ne sont plus du tout les objets d'une intentio recta, mais les contenus contingents d'un espace standardisé à détruire sur lesquels circulent des objectifs aléatoires». Pendant la guerre, d'Annunzio a survolé Vienne, sur laquelle il a lancé des tracts où il était écrit qu'ils auraient pu être des bombes. Cette action confirmait la possibilité d'une guerre aérienne à outrance et constituait une opération de propagande destinée à frapper l'imagination des Viennois.

 

Pendant la seconde guerre mondiale également, les sociologues affectés au “Strategic Bombing Survey” du Pentagone n'ont pas seulement considéré les tapis de bombes sur les villes allemandes comme un simple moyen de paralyser l'effort de guerre de l'ennemi mais comme un premier pas vers la rééducation de la population du Reich: ainsi, un pas de plus était franchi dans le processus d'effacement des différences entre guerre et paix. Plus généralement, les théories de la guerre aérienne chez d'Annunzio et chez Douhet, puis chez les praticiens anglo-saxons du bombardement des villes à outrance, permettent de lever les frontières, de lancer des opérations sur l'espace tout entier sans tenir compte d'aucune barrière. L'Etat national classique devient ainsi caduc et doit en bout de course être remplacé par une forme néo-impériale, par une renovatio imperii  sur le modèle de Fiume.

 

Dans d'autres contributions de ce volume, notamment celle de Friedrich Kittler sur les “arditi” (les “téméraires”), version italienne de Sturmtruppen allemandes (dont Jünger fit partie) de la première guerre mondiale ou celle de Hans Ultich Gumbrecht sur les “redentori della vittoria” (= les sauveurs de la victoire) nous amènent à porter des réflexions non habituelles sur l'histoire des idées au XXième siècle. Le volume contient également une chronologie de la “guerre pour Fiume” et quelques réflexions sur la guerre aérienne telle que la concevaient d'Annunzio et Guido Keller. Enfin, des textes sur la constitution de Fiume et sur le statut de son “armée de libération”.

 

Ludwig VEIT.

(texte paru dans Criticón, n°152/1996).

 

Hans-Ulrich GUMBRECHT, Friedrich KITTLER, Bernhard SIEGERT (Hrsg.), Der Dichter als Kommandant. D'Annunzio erobert Fiume, Wilhelm Fink Verlag, München, 1996, 340 p., DM 58,-, ISBN 3-7705-3019-5.

 

dimanche, 23 mai 2010

Marc Augier, dit Saint-Loup

Marc Augier, dit Saint-Loup

Ecrivain maudit, passé au travers du mur de flamme de l'engagement politique, Marc Augier, dit Saint-Loup, a déjà fait l'objet de plusieurs études biographiques. On citera celle de Jérôme Moreau, Sous le signe de la roue solaire (L'AEncre, 2002) ou celle du sud-africain Myron Kok, Tels que Dieu nous a voulu (L'Homme Libre, 2004), qui centrent toutes les deux leur propos sur les idées et le parcours politique de l'écrivain. Mais l'auteur d'un grand roman comme La peau de l'aurochs, ne peut pas être tout entier réduit à l'engagement qui a été le sien au cours des années 40. La biographie de Saint-Loup, publiée aux éditions Pardès, dans l'excellente collection Qui suis-je ?, signée par Francis Bergeron, déjà auteur d'études sur Béraud, Daudet ou Monfreid, devrait permettre d'apporter un nouvel éclairage sur l'homme et son oeuvre.

Saint-Loup.jpg
" Marc Augier, alias Saint-Loup, fut emporté par le vent de l’Histoire, à toute vitesse, mais sans jamais tomber. Il en a tiré une oeuvre forte et virile, parcourue par un souffle épique. Une oeuvre peinte à fresques, où des individus et des groupes d’individus doivent affronter les bombardements, le rouleau compresseur des chars soviétiques, l’épuration, les foules ivres de violence, mais aussi la montagne, la neige, le froid polaire, les avalanches, les tempêtes, les poux, l’hiver russe, une panne de moteur en altitude ou, simplement, la fatigue au guidon d’une moto lancée sur les routes d’Europe. Ce qui fascine, chez Saint-Loup, ce sont des valeurs universelles, qui n’appartiennent à aucun camp: c’est cette vie de sportif, d’aventurier, de guerrier. Saint-Loup est le contraire d’un idéologue. C’est un militant, mais ce n’est pas un homme du combat des idées. C’est un homme d’action, ayant mis ce goût de l’action et du risque calculé au service de causes politiques et parfois militaires. Soixante-cinq ans après la fin de la guerre et plus de vingt ans après la chute du mur de Berlin, il est temps de relire son oeuvre, de la dégager de sa seule dimension hérétique, conséquence de ses quatre années à la LVF et à la Waffen SS. Oui, grâce à ce «Qui suis-je?» Saint-Loup, il faut revisiter ce grand créateur de mythes, et personnage mythique lui-même."

jeudi, 20 mai 2010

Björnstjerne Björnson, le poète de la liberté norvégienne

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Helge MORGENGRAUEN:

 

Björnstjerne Björnson, le poète de la liberté norvégienne

 

C’est le 8 décembre 1832 que nait à Kvikne dans le Hedmark norvégien et dans la grande ferme de Björgan, le futur poète national norvégien Björnstjerne Björnson, fils d’un pasteur de campagne.

 

Après des études secondaires dans un gymnasium d’Oslo, Björnson entre à l’Université où il ne reste que brièvement, sans obtenir de diplôme. C’était peu de temps avant de faire la connaissance d’Henrik Ibsen. De 1857 à 1859, il dirige le théâtre de Bergen puis entame une carrière de journaliste.

 

Comme ses idées étaient jugées encore trop “modernes” pour l’époque, il quitte l’Aftenbladet (= “La feuille du Soir”) et commence une longue série de voyages à l’étranger, d’abord en Italie et en Allemagne. En 1874, Björnson acquiert la ferme d’Aulestad dans la vallée de Gulbrand, lieu qui deviendra bien vite l’un des centres intellectuels les plus dynamiques de Norvège. Après quelques voyages aux Etats-Unis et un long séjour à Paris, il devient, revenu au pays, l’un des principaux poètes et écrivains de sa patrie.

 

En 1903, il est le premier Norvégien à obtenir le Prix Nobel de littérature. Björnson s’engage pour la création d’une république norvégienne, pour le suffrage universel, pour l’égalité des femmes et pour l’indépendance de la Norvège. Le 26 avril 1910, Björnstjerne Björnson meurt à Paris, quelques années après l’indépendance de son pays.

 

* * *

 

L’hymne national norvégien a été composé par Björnstjerne Björnson et commence par les mots: “Ja, vi elsker dette landet” (= “Oui, nous aimons ce pays”). Cet hymne a été chanté pour la première fois le 17 mai 1864. Cinquante ans auparavant, jour pour jour, la Norvège s’était donnée une constitution à Eidsvoll près d’Oslo; la véritable indépendance, toutefois, ne pouvait pas encore advenir sur l’échiquier international. La Norvège était inclue dans une Union avec la Suède, une Union qui durera jusqu’en 1905. Le 13 août de cette année, en effet, 99,5% des Norvégiens se prononceront pour la dissolution de cette Union avec la Suède. C’est depuis ce moment-là que l’ancien pays des Vikings est redevenu, pour la première fois depuis le moyen-âge, libre et indépendant. Cette volonté de liberté et d’indépendance nous explique encore et toujours pourquoi le peuple norvégien a voté deux fois, en 1972 et en 1994, contre toute intégration du pays dans une Europe élargie.

 

La Constitution, que la Norvège s’est donnée en 1814, est toujours valide aujourd’hui, à quelques rares et légères modifications près. La date du 17 mai, date à laquelle l’assemblée constitutionnelle s’est donnée une loi fondamentale en 1814, est devenue le jour de la fête nationale norvégienne. Voilà pourquoi, cinquante ans après le vote en faveur de cette loi fondamentale, le chant “Ja, vi elsker dette landet” a été entonné pour la toute première fois et reste, aujourd’hui encore, l’hymne national de la Norvège. Le patriotisme norvégien demeure une réalité forte: aucun Norvégien digne de ce nom ne se permettrait d’omettre une seule ligne de cet hymne qui compte huit strophes.

 

L’esprit vieux germanique de liberté, qui hisse l’indépendance au-dessus de tout et refuse catégoriquement de tomber dans la dépendance ou la servitude, reste très vivace en Norvège. Sous le Troisième Reich, les Allemands ont tenté de courtiser le “peuple frère germanique” du Nord de l’Europe mais sans le succès escompté: les Norvégiens ne voulaient rien avoir à faire avec l’hitlérisme. Aujourd’hui encore, les citoyens allemands ne peuvent pas acheter de terrains en Norvège.

 

Björnstjerne Björnson, fils de pasteur de la région centrale de la Norvège, lui, n’avait aucune réticence à frayer avec les autres peuples frères de l’aire germanique. Bien au contraire, il défendait, avec beaucoup d’autres, des idées révolutionnaires qui pouvaient parfaitement s’inscrire dans le corpus idéologique du pangermanisme (1).

 

Notre écrivain, qui avait dû renoncer, après trois ans à peine, à ses fonctions de journaliste au sein de la rédaction de l’Aftenbladet de Bergen parce qu’il y défendait des idées jugées à l’époque trop “progressistes”, publia en 1857 son premier récit, Synnöve Solbakken. Il y décrit de manière pénétrante la nature contradictoire du paysan norvégien, qu’il connaissait bien, de par ses propres expériences existentielles. Il mit ainsi en exergue la césure qui existait dans l’âme paysanne norvégienne entre une nature première d’essence païenne et des apports chrétiens ultérieurs. Les récits de Björnson sur la vie rurale norvégienne ont inauguré un véritable tournant dans l’histoire de la littérature de ce pays, un tournant vers le présent. Björnson donna ainsi l’impulsion décisive qui obligea les hommes et les femmes de lettres de Norvège à se tourner vers les thématiques sociales et politiques, après une parenthèse romantique, où l’on avait fait revivre les sagas et où l’esprit romantique avait tenté de redécouvrir les mythes du folklore norvégien, avec ses trolls et ses filles de la forêt. Cette impulsion, Björnson la doit au critique littéraire danois Georg Brandes qui appelait “à présenter enfin en littérature les problèmes et les thématiques qui résultent des nécessités sociales”. Henrik Ibsen, lui aussi, le grand contemporain et ami de Björnson, subira l’influence de Brandes. Tandis que ses pièces de théâtre fustigeaient les contradictions et l’hypocrisie morale de la société bourgeoise sur le déclin, Björnson, optimiste, croyait toujours au triomphe final du progrès social (2).

 

En ce sens, il s’est engagé à revendiquer le suffrage universel et l’égalité hommes/femmes. Il critiquait l’exploitation des ouvriers et réclamait une réforme fondamentale du système scolaire. Mais son thème favori, le plus important à ses yeux, était celui de l’indépendance norvégienne. Car, pour lui, la liberté de l’individu et la souveraineté du pays étaient indissociables, indissolublement liées l’une à l’autre.

 

“Le sentiment d’indépendance est indubitablement la force la plus puissante au monde; le sentiment d’honneur en est l’amorce. La pulsion vers l’autonomie est l’énergie qui régit le monde; c’est la vertu la plus haute que notre culture a produite, avec les grandes gestes du peuple, avec les tendres sentiments de la morale et toutes les forces libératrices jaillies des Lumières” (3).

 

En 1903, Björnson est le premier Norvégien, et même le premier Scandinave, à recevoir le Prix Nobel de littérature. Deux ans plus tard, il voit son pays accéder à cette indépendance, à laquelle il avait tant aspiré. Le 26 avril 1910, Björnstjerne Björnson meurt à Paris.

 

Helge MORGENGRAUEN.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°18/2010; trad. franç.: Robert Steuckers).

 

Notes du traducteur:

 

(1)     Le pangermanisme, jugé “nationaliste” dans la plupart des ouvrages contemporains d’historiographie, est classé arbitrairement “à droite” de l’échiquier politique par les terribles simplificateurs qui hantent nos établissements d’enseignement actuels ou régissent le monde des médias; au 19ème siècle, le pangermanisme véhicule des idéologèmes libertaires, populistes et anti-absolutistes, perçus par les contemporains comme “révolutionnaires” ou, du moins, “progressistes” et non pas comme “cléricaux” ou “réactionnaires”. C’est notamment le cas en Autriche et en Bavière, chez ceux qui admirent le “Kulturkampf” bismarckien. Les linéaments de pangermanisme que l’on retrouve en Belgique (y compris chez certains francophones), où a paru d’ailleurs la seule revue trilingue portant le titre de Der Pangermane, puisent généralement dans le corpus des libéraux de gauche à velléités orangistes.

 

(2)     La notion de progrès social en Scandinavie (et en d’autres terres germaniques) au 19ème siècle recouvre une idée d’accession à la citoyenneté pleine et entière de tous les éléments du peuple, de façon à faire chorus sur la scène internationale: un peuple fort est un peuple qui intègre tous ses citoyens, les mobilise à l’unisson et tire le meilleur de chaque individualité. La régression ou la stagnation sociale sont perçues comme des attitudes visant à empêcher des éléments sains et vigoureux d’oeuvrer au salut général de la nation.

 

(3)     Quand un Scandinave du 19ème siècle évoque de la sorte les Lumières, il ne se référe évidemment pas à un corpus de brics et de brocs, comme celui que nous ont fabriqué, des années 70 du 20ème siècle à nos jours, les Habermas et le filon de la “nouvelle philosophie” en France, mais surtout aux “Lumières” de Herder, chantre des matrices culturelles comme véritable sources de l’identité des peuples, qui ont alors pour tâche de les raviver continuellement. Pour un Björnson, les “Lumières” sont essentiellement la revendication de cette liberté individuelle et nationale qui fonde la souveraineté d’un peuple sain et fort. L’itinéraire de Björnson l’atteste: il  amorce sa carrière d’écrivain par une sorte de nationalisme romantique puis passe à la description et à la dénonciation des maux sociaux qui empêchent justement la masse des Norvégiens moins nantis de jouir d’une liberté personnelle, de façonner leur destin et de participer à la  construction de la  nation.

dimanche, 16 mai 2010

Entretien avec A. Murcie et L.-O. d'Algange, éditeurs de Jean Parvulesco

JeanParvulesco_Paris2000-217x300.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990

Entretien avec André Murcie et Luc-Olivier d'Algange, éditeurs de Jean Parvulesco

 

propos recueillis par Hugues RONDEAU

 

Amateurs de prose et de vers ajourés, André Murcie et Luc-Olivier d'Algange ne partagent cependant pas l'éthylique détachement de Rimbaud ou la talentueuse indifférence d'Hölderlin.

Pour eux, la poésie est le flambeau de leur combat. Courageux ou téméraires, ils se dépensent sans compter pour la survie d'une petite maison d'édition, les Nouvelles Littératures Européennes. Sous ce label sont déjà parus une revue au parfum de la grande littérature, un roman de Luc-Olivier d'Algange  (Le Secret d'or) et surtout un cahier d'hommage à Jean Parvulesco.

Trois cent quarante-quatre pages de témoignages et d'articles inédits font de ce volume, l'indispensable lexique de l'œuvre de l'auteur de  La Servante portugaise.

Editer Parvulesco ou avoir opté pour la subversion par le talent.

 

 

- En prenant la décision d'éditer Jean Parvu­lesco, génial trublion du la littérature franco­phone, vous avez pris un risque certain. Poête et essayiste, géopoéticien aurait dit Kenneth White, écrivain re­belle et ésotériste inspiré, Parvulesco ouvre les yeux des prédestinés mais demeure inconnu du grand public. Votre initiative avait-elle pour but de le rendre populaire ?

 

- Luc-Olivier d'Algange: Je dois avouer que mon engouement pour les écrits de Jean Parvulesco est né de la lecture en 1984 de son Traité de la chasse au faucon.  Il m'apportait la preuve attendue qu'une haute poésie était possible  —et même né­ces­saire—  dans cette époque pénombreuse où nous avons disgrâce de vivre. La dis­grâce, mais aussi, dirai-je, la chance ex­traordi­naire, car, en vertu de la loi des contrastes, c'est dans l'époque la plus déré­lictoire et la plus vaine que l'espoir nous est offert de connaître la joie la plus laborieuse et, dans sa splendeur absolue (Style), l'exaucement de la volonté divine.

Tel était le message que me semblait appor­ter la poésie de Jean Parvulesco. Or, sa­chant qu'André Murcie poursuivait une quête pa­rallèle à la mienne et qu'il envisa­geait en outre de lancer la revue Style,  il m'a semblé utile de lui faire part de ma dé­couverte. C'est ainsi que dès le premier numéro, avec un poême intitulé Le Privi­lège des justes se­crets, Jean Parvulesco de­vint une voie es­sentielle de la revue Style.  Celle-ci devait encore publier le vaste et fa­meux poème, Le Pacifique , nouvel axe du monde  ainsi que le Rapport secret à la nonciature,  qui est un admirable récit visionnaire sur les appari­tions de Medjugorge et de nombreux autres poèmes. Tout cela avant d'élargir encore son dessein, en créant les éditions des Nou­velles Littératures Européennes, et de pu­blier un Cahier Jean Parvulesco,  récapitu­lation en une succession de plans de l'univers de Parvulesco, en ses divers as­pects, poétiques, philosophiques, esthé­tiques, architecturaux, cinématogra­phiques ou politiques.

 

-  André Murcie:  En effet et ceci répond de façon plus précise à votre question, il est clair que Parvulesco va à contre-courant de ses contemporains. Jean Parvulesco n'est en aucune façon un spécialiste. Il est, au con­traire, de cette race d'auteurs qui font une œuvre, embrassement de l'infinité des appa­rences et de cette autre infini qui est der­rière les apparences. C'est là la diffé­rence soulignée par Evola entre «l'opus», l'œuvre, et le «labor», le labeur. Avec Par­vulesco, nous sommes aux antipodes d'un quelconque «travail du texte», c'est à dire que nous sommes au cœur de l'œuvre et même du Grand œuvre, ainsi que l'illustre d'ailleurs le premier essai, publié dans le Cahier dans la série des dévoilements: Al­chimie et grande poésie.

Ce texte est sans doute, depuis les De­meures philosophales  de Fulcanelli, l'approche la plus lumineuse de ces ar­canes et tous ceux qui cherchent à préciser les rapports qui unissent la création litté­raire et la science d'Hermès trouveront, sans nul doute, en ces pages, des informa­tions précieuses et, mieux que des informa­tions, des traces - au sens où Heidegger di­sait que nous devions mainte­nant nous in­terroger sur la trace des Dieux enfuis.

Pour Jean Parvulesco, il ne fait aucun doute que la lettre est la trace de l'esprit. C'est ainsi que son œuvre nous délivre des idolâ­tries du Nouveau Roman et autres lit­téra­tures subalternes qui réduisent les mots à leur propre pouvoir dans une sorte de res­sassement narcissique. Pour Jean Parvu­les­co, la littérature n'a de sens que parce qu'el­le débute avant la page écrite et s'achève a­près elle.

 

- Il est signicatif que ces propos sur l'alchimie soient, dans le même chapitre du Cahier, sui­vis par un essai intitulé: «La langue fran­çaise, le sentier de l'honneur»...

 

- Luc-Olivier d'Algange: Trace de l'esprit, trace du divin, la langue française retrouve en effet, dans la prose ardente et limpide de Jean Parvulesco, sa fonction oraculaire. Ses écrits démentent l'idée reçue selon la­quelle la langue française serait celle de la com­mune mesure, de la tiédeur, de l'anecdote futile. Jean Parvulesco est là pour nous rap­peler que dans la tradition de Scève, de Nerval, de Rimbaud, de Lautréa­mont ou d'Artaud, la langue française est celle du plus haut risque métaphysique.

«Langue de grands spirituels et de mys­tiques, écrit Jean Parvulesco, charitable­ment emportés vers le sacrifice permanent et joyeux, d'aristocrates et de rêveurs pré­destinés, faiseurs de nouveaux mondes et parfois même de mondes nouveaux, langue surtout, de paysans, de forestiers conspi­ra­teurs et nervaliens, engagés dans le chemi­nement de leurs obscures survi­vances trans­cendantales, occultes en tout, langue de la poésie absolue...».

C'est exactement en ce sens qu'il faudra comprendre le dessein littéraire qui est à l'origine du Cahier  - véritable table d'orien­tation d'un monde nouveau, d'une autre cul­ture, qui n'entretient plus aucun rapport, même lointain, avec ce que l'on en­tend or­dinairement sous ce nom. Car il va sans dire que la «Culture» selon Parvu­lesco n'est cer­tes pas ce qui se laisse asso­cier à la «Com­mu­nication» mais un prin­cipe, à la fois sub­versif et royal, qui n'a pas d'autre but que d'ou­trepasser la condition humaine.

Tel est sans doute le sens du chant intitulé Les douzes colonnes de la Liberté Absolue  que l'on peut lire vers la fin du Cahier:  «...que nous chantons, que nous chantons, par ces volumes conceptuels d'air s'appelant étangs, ou blancs corbeaux, au­tour de l'im­maculation des Douzes Co­lonnes, ver­tiges s'ou­vrant sur les Portes d'Or et indigo de l'At­lantis Magna, chu­chotement circu­laire et lent, je suis la Li­berté absolue».

L'œuvre doit ainsi accomplir, par une in­time transmutation, cette vocation surhu­maniste, qui, dans la pensée de Jean Par­vulesco, ne contredit point la Tradition, mais s'y inscrit, de façon, dirai-je, clandes­tine; toute vérité n'é­tant pas destinée à n'importe qui. Mais c'est là, la raison d'être de l'ésotérisme et du secret, qui, de fait, est un secret de nature et non point un secret de convention.

 

- Vous avez donné une large place dans le Cahier aux rêves et prémonitions métapoli­tiques de Jean Parvulesco.

 

- André Murcie: En ce qui concerne le do­maine politique, nous avons republié dans le Cahier, un ensemble d'articles de géopo­li­tique que Parvulesco publia naguère dans le journal Combat et qui eurent à l'époque un rententissement tout à fait extraodi­naire. Ce fut, à dire vrai, une occasion de polé­mi­ques furieuses. A la lumière d'évènements récents, concernant la réuni­fication de l'Alle­magne, les change­ments intervenus à l'Est, ces articles re­trouvent brusquement une actualité brû­lante. Il semblerait que seul ce­lui qui expé­rimente les avènements de l'âme soit des­tiné à comprendre les évè­nements du monde. Ainsi des études comme L'Allemagne et les destinés actuelles de l'Europe  ou en­co­re Géopolitique de la Mé­diterranée occiden­tale  donnent à relire les évènements ulté­rieurs dans une perspec­tive différente.

 

- Le Cahier s'enrichit aussi des reflexions peu banales de Parvulesco sur le cinéma.

 

- Luc-Olivier d'Algange: Je crois que nous mesurons encore mal l'influence de Jean Par­vulesco sur le cinéma français et euro­péen. On sait qu'il fut personnage dans cer­tains films de Jean-Luc Godard - en parti­cu­lier dans A bout de souffle, et qu'il fut aussi, par ailleurs, acteur et scénariste. A cet égard, le Cahier  contient divers témoi­gnages passionnants concernant, plus par­ticulière­ment, Jean-Pierre Melville et Wer­ner Schrœ­ter dont nul, mieux que l'auteur des Mystères de la villa Atlantis,  ne connait les véritables motivations.

Il nous propose là une relecture cinémato­graphique dans une perspective métapoli­ti­que qui dépasse de toute évidence les niai­se­ries que nous réserve habituellement la cri­tique cinématographique.

 

- André Murcie: L'intérêt extrême des té­moignages de Jean Parvulesco concernant l'univers du cinéma est d'être à la fois en pri­se directe et prodigieusement lointain. C'est à dire, en somme, de voir le cinéma de l'in­térieur, comme une vision, en sympa­thie pro­fonde avec le cinéaste lui-même, et non point telle la glose inapte d'un quel­conque cinéphile. C'est ainsi que Nietzsche ou Tho­mas Mann parlèrent de Wagner.

 

- D'autres textes, publiés dans ce Cahier ont également cette vertu du témoignage direct, qui nous donne à pressentir une réalité sin­gulière. Ainsi en est-il des récits portant sur Arno Brecker et Ezra Pound.

 

- Luc-Olivier d'Algange: J'ai été pour ma part très sensible à l'hommage que Jean Par­vulesco sut rendre à Ezra Pound dont Dominique de Roux disait qu'il n'était rien moins que «le représentant de Dieu sur la terre». Hélas, cette recherche de la poésie absolue était jusqu'alors mal comprise, li­vrée aux maniaques du «travail du texte» et autres adeptes du lit de Procuste, acharnés à faire le silence sur les miroitements ita­liens de l'œuvre de Pound.

Cette italianité fit d'alilleurs d'Ezra Pound une sorte d'apostat, alors que, par cette fidé­lité essentielle, il rejoignait au contraire, au-delà des appartenances spéci­fiantes, sa véri­table patrie spirituelle qui, en aucun cas ne pouvait être cette contrée où Edgard Poe et Lovecraft connu­rent les affres du plus impi­toyable exil.

Mais je laisse la parole à Jean Parvulesco lui-même: «Ce qu'Ezra Pound, l'homme sur qui le soleil est descendu, cherchait en Italie, on l'a compris, c'est le Paradis. Tos­cane, Om­brie, Ezra Pound avait accédé à la certi­tude inspirée, initiatique, abyssale, que le Para­dis était descendu, en Italie, pen­dant le haut moyen âge et que, très occul­tement, il s'y trouvait encore. Pour en trou­ver la passe in­terdite, il suffisait de se lais­ser conduire en avant, aveuglément - et nuptialement aveu­glé - par la secretissima,  par une cer­taine lu­mière italienne de tou­jours ».

 

Propos recueillis

par Hugues Rondeau.

 

Cahier Jean Parvulesco, 350 pages, Nouvelles Littératures Européennes, 1989.

 

Luc-Olivier d'Algange, né en 1955 à Göttingen (Allemagne) a publié :

 

Le Rivage, la nuit unanime  (épuisé)

Médiances du Prince Horoscopale (Cééditions 1978)

Manifeste baroque  (Cééditions, 1981)

Les ardoises de Walpurgis  (Cahiers du lo­sange, 1984)

Stances diluviennes  (Le Jeu des T, 1986)

Heurs et cendres d'une traversée lysergique  (Le Jeu des T, 1986)

 

Co-fondateur, avec F.J Ossang, de la revue CEE (Christian Bourgois éditeur)

Rédacteur de PICTURA EDELWEISS et PIC­TURA MAGAZINE

 

Textes parus dans :

Recoupes; Erres; L'Ether Vague; CEE; Encres Vives; Phé; Libertés; Sphinx; Evasion; Le Mi­roir du Verbe; Dismisura; Bunker; Le Cheval rouge; Devil-Paradis; Anthologie de la poésie initiatique vivante; Claron; Le Jeu des Tombes; Question de; Vers la Tradition; La Poire d'Angoisse; Camouflage; Strass-Polymorphe; Phréatique, Asturgie-Onirie; Pictura; Mensuel 25; Matulu, Place royale, L'Autre Monde.

 

André Murcie né en 1951

 

- Poèmes de poésie  (1967-1985)

- Poème pour la démesure d'André Murcie

- Poèmes de la démesure  (Work in progress).

mardi, 11 mai 2010

Léon Daudet ou "le libre réactionnaire"

Leon-Daudet.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1988

 

Un livre d'Eric Vatré: Léon Daudet ou  "le libre réactionnaire"

 

par Jacques d'ARRIBEHAUDE

 

Eric Vatré est en train de se faire une spécialité dans la biographie, art difficile et ingrat où les Français pa-raissent souvent légers devant les gigantesques tra-vaux d'érudition des chercheurs anglo-saxons. La personnalité de Léon Daudet est ici bien évoquée. Une des plumes les plus alertes, les plus vives, les plus cinglantes de la critique littéraire de ce premier demi-siècle. Un grand et passionné remueur d'idées et d'opinions, d'une liberté de ton absolue au service d'une pensée résolument hostile à ce qu'on a appelé depuis "l'idéologie dominante".

 

D'où le titre choisi par Vatré, à mon avis un pléonasme, car on imagine mal un réactionnaire qui ne choisirait pas librement d'être à contre-courant de ce qu'il aurait tout avantage à courtiser à longueur de colonnes, à l'exemple de l'ordinaire racaille journalistique contemporaine.

 

Vatré constate, sans vraiment l'expliquer, l'énigme d'une "Action Française" où cohabitent Maurras, apôtre farouche et sourd de la France seule et de sa prétendue supériorité intellectuelle, et Daudet, autre-ment ouvert, féru de Shakespeare, enthousiaste de Proust et de Céline, sensible à la peinture, à la musique, aux souffles poétiques venus d'ailleurs, là où Maurras, fossilisé dans ses plâtres académiques, sonne éperdument le clairon des grandeurs mortes dans le saint pré-carré du monarque introuvable.

 

Au total, Daudet, l'un des hommes au monde les moins doués pour l'action, et, en ce sens, une belle figure de cette IIIème République qu'il haïssait, et dont les ténors parlementaires ventripotents, crasseux et barbichus, si ridicules qu'ils fussent, sem-blent des aigles prodigieux comparés à nos politiciens actuels.

 

A lire et à relire avec le plus grand profit, pour plus de renseignements sur cette époque sans pareille, Les Décombres  de Lucien Rebatet.

 

Jacques d'ARRIBEHAUDE.

 

Eric VATRE, Léon Daudet ou le "libre réaction-nai-re",  Editions France-Empire, 1987, 350 pages, 110 FF.

 

 

vendredi, 07 mai 2010

Céline, le invettive di un dannato sul viale del tramonto

Céline, le invettive di un dannato sul viale del tramonto

Celinemmmmlllll.jpgEcco il Mostro. Sporco, indecente, nel pensare, nello scrivere e nel vivere. La lurida grandezza di Céline in tutto il suo splendore che poi coincide con la pienezza del suo squallore, ritratta in sette pose. Sette interviste nell’arco di un quindicennio sul viale del tramonto, dal dopoguerra alla sua morte, tornano in libreria sotto il titolo di Polemiche (Guanda, pagg. 120, euro 12,50).
Si avvicina il mezzo secolo della sua morte, ma non si allontanano le maledizioni sull’opera di Louis-Ferdinand Destouches, medico che diventò in arte Céline. Maledetto per il suo maledettismo, imperdonabile per le sue filippiche contro gli ebrei, i borghesi, i capitalisti. Non amo Céline, non sono un suo cultore, i suoi pamphlet irriverenti mi irritano, a cominciare da Bagattelle per un massacro e così la sua prosa intermittente e merdace, con tutti quei punti sospensivi; non ho mai scritto nulla su di lui e sulle sue opere. E ancor meno amo i celiniani, anzi detesto i manieristi del turpiloquio che traggono nobiltà e ispirazione da lui; non sopporto il rococò del triviale degli ultimi suoi emuli. Però, c’è della grandezza autentica nella sua scrittura, nel personaggio, nella sua vita. C’è della purezza nella sua impurità, e del genio nel suo delirio. Céline ha penetrato come pochi negli abissi della condizione umana, perduta a Dio e alla dignità, abbandonata nelle fogne oscure della vita. Uno dei rari scrittori che ha passione di verità e genuino desiderio di far combaciare la parola alla vita e alla verità più nuda e cruda. Così il suo stile riflette la sua passione di verità, tragica e brutale.
Quel vivere ai confini della morte, alla ricerca di emozioni estreme e grottesche, quello scrivere sulla soglia dell’invettiva, tra la parola e il vomito. Fu un medico valoroso, Céline, e un soldato valoroso, prima d’essere quel grande scrittore che fu. E pagò con quattordici mesi di duro carcere le sue parole di fuoco sugli ebrei e sul mondo; fu accusato di essere collaborazionista ma non aveva mai collaborato con nessuno, non aveva scritto per le riviste filo-naziste, era stato messo al bando nella Germania nazista, come arte degenerata, mentre dicevano che piacesse a Stalin. Viveva da barbone, in Danimarca e poi in Francia, in guerra contro il mondo. A condannarlo furono anche intellettuali che magari avevano trescato col nazismo. Come Sartre, che prima di collaborare con il comunismo e chiudere un occhio sui suoi orrori, aveva scritto anche per riviste collaborazioniste; ma alla fine il dannato fu lui, Céline. Io non vorrei dire, ma gli unici intellettuali che hanno pagato di persona le loro idee o anche i loro deliri, sono stati i Céline, i Pound, i Brasillach, i Gentile, i Pericle Ducati, i Borsani, i Carl Schmitt, gli Hamsun e si potrebbe ancora continuare. Epurati, a volte condannati a morte, o segregati in carcere, umiliati in gabbie, considerati peggio che bestie. Ed erano fior di scrittori, a volte anche generosi e grandi nella loro umanità, oltre che nei loro errori. La stessa cosa non avvenne invece per gli intellettuali che sostennero il comunismo, Stalin e Mao, Ho Chi Minh e Castro. Alcune idee si pagano, altre sono gratuite, se non addirittura ben pagate. Si vede che sono idee più grandi, più esigenti, diranno a propria consolazione i maledetti...
Céline fa parte di quell’universo di intellettuali dannati per uso di parola; ma lui restò un caso a sé, anarchico, disperatamente solo, non inscrivibile in nessun partito e in nessuna ideologia. Detestando i capitalisti e amando i poveri, Céline a volte dà l’impressione di essere un comunistoide, come lui stesso dice. Nella sua bella introduzione, Ernesto Ferrero ricorda che Céline fu difeso dal movimento nazionale ebreo, fu detestato dai nazisti che proibirono i suoi libri, ed egli stesso scrisse invettive contro Petain e contro Hitler paragonandolo a un clown pervaso di «satanismo wagneriano», fu il meno tedescofilo degli scrittori francesi e si tenne sempre in disparte. Una volta disse che gli ebrei sono i padri della nostra civiltà, e «si maledice sempre il proprio padre».

Queste interviste offrono lo spettacolo della solitudine creativa di Céline, la follia e la lucidità che si accavallano, insieme con la grazia e la ferocia. La tenerezza inerme si affaccia a volte nel suo aspro inveire: quando a esempio parla di sua madre e del suo nome d’arte tratto da lei per difendere la sua professione di medico; o quando parla della sua solitudine, della povertà, del suo gatto, della sua ritrosia a farsi fotografare («una foto è una pietra tombale») e del suo scrivere per campare... Ma poi riprende la vis polemica e il turpiloquio quando inveisce contro le cricche del potere, contro chi commercia e specula sulle idee e sulla pelle di altri, contro i riveriti padroni della letteratura, contro la Chiesa «grande ibridatrice e ruffiana». «Le civiltà finiscono con le donne, le frasi e i profumi»; «Parigi è il buco di culo del mondo. I francesi hanno coltivato la gioia di vivere». «La mia colpa? Aver detto sempre la mia verità, senza barare». La mia verità, dice Céline, non la verità, ha questa disarmante franchezza, questa libertaria modestia, estranea agli intolleranti. Queste interviste descrivono anche il disfacimento del suo corpo, il suo declino, le sue spalle che si curvano e sprofondano la sua testa tra i lunghi capelli e il collo torto. Resta una fronte spaziosa e uno sguardo ingenuo e profetico che invoca attenzione e sprigiona magìa. Un volto che racconta le ferite della sua genialità nella disfatta di una vita al termine della notte. Céline, il rigurgito della verità.

jeudi, 06 mai 2010

Mark Twain, critique de l'impérialisme américain

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Anton SCHMITT:

Mark Twain, critique de l’impérialisme américain

 

Beaucoup d’écrivains ont écrit plusieurs livres mais ne sont véritablement devenus célèbres que grâce à un seul de leurs ouvrages. Mark Twain est né sous le nom de Samuel Langhorne Clemens le 30 novembre 1835 dans le Missouri et est mort, il y a tout juste cent ans, le 21 avril 1910 dans le Connecticut. Il a acquis la célébrité sous son pseudonyme de Mark Twain. Il avait quatre ans lorsque sa famille emménagea dans la petite ville d’Hannibal sur les rives du Mississippi, lieu qui devint plus tard le théâtre des aventures de Huckleberry Finn. En 1847, le père de Mark Twain meurt; celui-ci commence alors à apprendre le métier de typographe. Son frère achète ensuite la feuille locale et c’est dans ce support-là que notre auteur écrira ses premiers et brefs articles. Après avoir atteint l’âge de dix-huit ans, il quitte Hannibal et devient timonier sur l’un de ces grands bateaux fluviaux qui assurent la navigation sur le Mississippi et sur le Missouri. Quand éclate la guerre civile américaine, cette navigation est interrompue sur les deux grands fleuves. Mark Twain devient soldat dans les armées confédérées mais abandonne son service dans la cavalerie au bout de deux semaines et décide de partir vers l’Ouest. Après un examen de conscience, il finit par adhérer intellectuellement au camp “yankee”. En 1862, il se trouve à Virginia City dans le Nevada où il exerce le métier de journaliste. En 1863, il se manifeste pour la première fois sous le pseudonyme de Mark Twain. Son itinéraire le mène toujours plus à l’Ouest, toujours plus loin de la guerre. En 1864, il s’intalle à San Francisco. Dans les années 70 du 19ème siècle, il se rend pour la première fois en Europe et au Proche Orient et séjourne longtemps en Allemagne, pays qu’il adorait. En 1891, lors de sa seconde tournée en Europe, le dernier empereur d’Allemagne, Guillaume II, l’invite à déjeuner avec lui. En 1870, il avait épousé Olivia Langdon et s’était installé, dans le Nord, dans le Connecticut. Sa voisine était Harriet Beecher-Stowe qui le conforta dans son attitude hostile à l’esclavage. 

 

Une étude comparative de ces deux auteurs et de leurs principaux ouvrages mérite d’être faite. En 1876, Mark Twain écrit Tom Sawyer et en 1883, Les aventures de Huckleberry Finn. Ces deux ouvrages sont devenus des classiques de la littérature pour la jeunesse, tout en contestant, à l’époque, la teneur de la littérature conventionnelle pour les jeunes qui ne présentait que des gamins modèles ou des petites filles sages. A l’époque, Twain avait fait scandale en campant un héros, Tom Sawyer, qui fait l’école buissonnière et qui, au lieu de mobiliser ses efforts pour atteindre l’idéal du bien-être matériel, s’acoquine avec un paria de village sans le sou, qu’il admire de surcroît, mais finit quand même par devenir riche.

 

Les bonnes consciences politiquement correctes estiment aujourd’hui que Les aventures de Huckleberry Finn méritent de sévères critiques car l’esclave de la Veuve Douglas, est appelé “Nigger Jim” dans le livre. Le terme “nègre”, au départ utilisé sans le moindre jugement de valeur, et a fortiori sans intention insultante, pour désigner les personnes de race à pigmentation foncée, est aujourd’hui considéré comme un vocable à connotation “raciste”, alors que le terme “nigger”, devenu, lui, une injure classique dans le vocabulaire dénigrant du racisme, demeure assez peu connu comme tel chez les non anglophones. Les bonnes consciences s’en offusquent, incapables qu’elles sont de resituer correctement une oeuvre littéraire dans le contexte de son époque. Les deux romans destinés à la jeunesse sont effectivement le reflet de la société américaine à l’époque de Mark Twain qui ne s’empêchait nullement d’en faire la critique. L’hypocrisie religieuse, le monde des pauvres, des strates sociales déshéritées, le désir pathologique d’atteindre la puissance pour la  puissance et l’âpreté au lucre  —la maladie  emblématique de l’Amérique pour Twain—  et l’esclavage dans les Etats du Sud ont tous fait l’objet de critiques sévères dans l’oeuvre de notre auteur. Ses flèches les plus acérées, il tentait toujours de les décocher en s’aidant de l’humour et de la satire. Le temps qu’il avait passé sur les rives du Mississippi et ses expériences personnelles, qu’il a manifestement travaillées pour en faire la matière première de son oeuvre littéraire, ont fait de lui un chroniqueur crédible. Le destin de “Nigger Jim”, pour pitoyable qu’il ait été, est décrit tout en laissant transparaître malgré tout une certaine joie de vivre.

 

L’ouvrage principal de sa voisine Harriet Beecher-Stowe est tout différent. Elle a tenté, avec succès, dans La case de l’Oncle Tom, d’inciter les masses de l’Union à haïr les Confédérés et à les pousser à la guerre alors qu’elle ne s’était jamais rendue dans le Sud, comme on s’en est aperçu ultérieurement. La description du planteur avare, esclavagiste, vicieux et maniant le fouet, une caricature de la réalité, avait pour but de dépeindre une figure inhumaine qui méritait bien d’être exterminée. Des jeunes gens, après avoir lu ce livre, se sont joyeusement engagés dans les troupes nordistes pour partir dans une guerre atroce et aller mourir dans les espaces en friche de la Virginie ou à Cold Harbour, tout en croyant combattre pour une cause juste et bonne. Contrairement au scénario mis en place par Harriet Beecher-Stowe, qui justifie à l’avance le meurtre et le lynchage, et même la guerre, comme seuls moyens de prêcher la libération, Mark Twain, lui, met en scène la libération de son “Nigger Jim” de manière pacifique. La propagande de guerre, toute ruisselante de haine, n’était nullement la tasse de thé de Mark Twain.

 

Dans les années 90 du 19ème siècle, il fut l’une des figures du mouvement anti-impérialiste aux Etats-Unis et fustigea à coups de commentaires caustiques les guerres que menait son pays contre l’Espagne, les Philippines, contre l’annexion de Puerto Rico et des Iles Mariannes. En 1891, comme nous venons de le dire, il entama sa seconde tournée en Europe et se choisit Berlin comme ville de résidence. C’est à partir de la capitale du nouveau Reich bismarckien qu’il  commençait ses tournées de conférences, afin de payer ses dettes. Il resta neuf ans dans le “Vieux Monde”. La langue allemande, qui, comme à bien d’autres, lui paraissait compliquée, fut souvent la cible de son humour et donna lieu à beaucoup de jeu de mots (comme la confusion entre: “Festgäste” – Commensaux- et “fresst feste” – “bouffez fêtes”).

 

Plus tard, il envoya ses filles étudier en Allemagne. Twain rédigea enfin un biographie du Général le plus célèbre de l’armée “yankee”, plus tard élu Président des Etats-Unis, Ulysses S. Grant. Il appartenait à une loge maçonnique. En 1901, l’Université de Yale lui octroya un diplôme de docteur honoris causa.

 

Anton SCHMITT.

(Article paru dans “zur Zeit”, Vienne; n°16/2010; trad. franç.: Robert Steuckers). 

mercredi, 05 mai 2010

Mark Twain: ironia e libertà

Mark Twain: ironia e libertà

di Marco Iacona

Fonte: secolo d'italia

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Della compagnia del grande scrittore Mark Twain, morto cento anni fa (il 21 aprile del 1910) a Redding nel Connecticut, avremmo bisogno tutt’oggi. Ed è per questo che ne parliamo ancora. Del suo senso dell’humor in primo luogo, della sua critica al conformismo, delle prese in giro, delle denunzie dei falsi miti e di tutte le glorie (che così ovviamente non furono), dei più classici “tempi che furono”. La sua vita fu insieme uno sberleffo e una ribellione contro quel qualcosa di difficilmente classificabile, a metà fra storia e sentimento, che non faceva parte dello spirito americano o meglio del suo di spirito, fatto di avventura e di semplice ricerca della verità. Twain fu scrittore anche molto scomodo, così in anticipo sui tempi da essere volontariamente ignorato per quello che scriveva (soprattutto nel campo del giornalismo); i parenti furono costretti a bruciare molti dei suoi manoscritti perché pericolosi per le comunità dei religiosi. Twain rispose alla “censura” in modo bonario, con uno dei tanti aforismi per i quali sarà universalmente noto: «solo ai morti è permesso di dire la verità». Oltretutto aveva con la professione di giornalista uno strano rapporto di amore (senz’altro) e di generosa avversione grazie a una filosofia del buon gusto e del saper vivere insieme: «Per prima cosa dovete avere ben chiari i fatti; così potete distorcerli come vi pare», diceva.  
Per questo strano feeling con la “verità” (perfino nelle comuni espressioni) e per essersi trovato ben più in là da certo anonimo quotidiano, Mark Twain venne classificato come il più americano fra gli scrittori d’America e per questo qualcuno affermò anche che «tutta la letteratura moderna statunitense viene da un libro di Mark Twain Huckleberry Finn. Tutti gli scritti americani derivano da quello. Non c’era niente prima. Non c’era stato niente di così buono in precedenza». A pensarla così nientemeno che Ernest Hemingway in compagnia di William Faulkner.
Si potrebbe cominciare dal suo nome allora che non era come forse alcuni sapranno Mark Twain, ma Samuel Langhorne Clemens; lo pseudonimo che lo ha reso famoso in tutto il mondo ha origini marinare come ricordano gli esperti di narrativa fantastica Gianni Pilo e Sebastiano Fusco: «“Mark Twain! Segna due braccia!”, gridavano, nel dialetto del Sud, gli scandagliatori sui battelli che percorrevano il Mississippi, segnalando al timoniere la profondità del fondale, ad evitare il rischio di incagliarsi sulle secche. Il giovane Samuel Longhorne Clemens, che su quei battelli aveva trascorso infanzia e giovinezza, quando cominciò a scrivere e pubblicare, volle scegliersi proprio quel grido come pseudonimo». Si potrebbe cominciare così, per comprendere la sua personalità di uomo libero, concreto quanto basta, innamorato delle scienze fisiche, libertario per sé e soprattutto per gli altri (fece parte della “American anti imperialism league”, lega  contraria all’annessione delle filippine da parte statunitense). Twain era aperto al mondo come ci si sarebbe atteso solo da un grande americano della sua generazione (era nato nel 1835), abbandonò presto gli studi a causa della morte del padre e fece mille mestieri, fu tipografo (apprendista), mercante, scrittore umorista, marinaio sui battelli, soldato nella Guerra Civile dalla parte dei Confederati, poi cercatore d’oro, reporter, viaggiatore instancabile e conferenziere nelle università. Conobbe e visitò non solo l’America ma il mondo intero in lungo e in largo e si fece conoscere a trent’anni grazie al racconto “ Il Ranocchio saltatore”; aveva “solo” quarant’anni invece quando divenne uno degli uomini più famosi d’America. Per comprendere la sua modernità – che avrebbe riversato negli scritti – si deve pensare a Mark Twain come un uomo che sarebbe arrivato primo degli altri in tanti piccoli-grandi gesti del quotidiano e della vita professionale. Lasciamo la parola a Pilo e Fusco allora: «Diceva di essere legato allo spirito paesano del “Profondo Sud”, ma in realtà era il più moderno degli scrittori. Fu il primo ad usare la macchina da scrivere e la stilografica, e a dettare un libro al grammofono. Scrisse i testi di alcune canzonette che divennero enormemente popolari. Fece dell’editoria un’industria da grandi cifre: rimase celebre l’anticipo di duecentomila dollari (di allora) da lui pagato per assicurarsi in esclusiva le memorie del generale Grant». Fu dunque un uomo molto ricco e famoso ma non sempre fortunato negli affari e nel privato. Passò la vecchiaia fra crisi e lutti familiari.
Gli studiosi raccontano quanto la vita di Mark Twain sia stata complicata (quasi fossero esistite più persone in una), sfaccettata, colma di lezioni e di contraddizioni riversate anch’esse nelle opere. E naturalmente hanno ragione. Due in particolare le più note e lette da generazioni di giovani (anche se, soprattutto la seconda delle due è tutt’altro che un libro per ragazzi perché venne perfino radiato dalle biblioteche): Le avventure di Tom Sawyer (1876) e Le avventure di Huckleberry Finn (1884). Detti libri altro non sarebbero (nell’immaginazione dei teorici) se non le diverse parti – almeno tre – della stessa vita dello scrittore. «Se alla fine di quella che abbiamo definito la prima fase della sua vita Clemens assomiglia in un certo senso a Tom Sawyer», scrive Guido Carboni autore per Mursia di un invito “alla lettura” dello scrittore americano, «è cioè una sorta di adolescente in fondo romantico e soprattutto desideroso di attrarre l’attenzione del mondo raccontando storie, più o meno abbellite nel ricordo e nella elaborazione narrativa delle proprie avventure, alla fine della seconda fase potremmo dire che assomiglia di più ad Huck, nonostante i suoi 50 anni. Come Huck ha accumulato molta esperienza della vita e degli uomini, anche se sembra molto meno disposto di Huck a perdonare i loro difetti, e una discreta ricchezza. Come Huck continua a dire di volersi distaccare al mondo di cui è entrato a far parte, di voler “scappare di casa” verso più liberi territori, ma resta a casa cercando un equilibrio nella doppia identità di rispettabile cittadino convinto del proprio ruolo di Pierino ribelle, fustigatore della stupidità del mondo che lo circonda. Solo che in Clemens queste tensioni non sembrano veramente trovare un accettabile equilibrio».
The Adventures of Huckleberry Finn è probabilmente il capolavoro di Twain ed è il seguito di “Tom Sawyer” (dove il personaggio di Huck che vive in un barile era già apparso). È il romanzo di un giovane figlio di un ubriacone «senza casa, senza famiglia, senza educazione, ozioso, sfrenato, malvagio». Malgrado tutto - o forse proprio per la sua personalità ribelle – divenuto «beniamino» dei giovanissimi del villaggio. La storia è quella di un ragazzo che non vuol cedere alla mancanza di libertà; la fama del romanzo è dovuta in primo luogo allo “scontro interno” fra civiltà e natura selvaggia; corruttrice la prima roussoianamente buona la seconda. Il punto di vista dal quale Twain racconta la storia (come per esempio il successivo nostro “Giornalino di Gian Burrasca” di Vamba o “Il Barone rampante” di Italo Calvino), è però quello del protagonista ribelle, nel libro manca infatti una morale perbenista - e vittoriana - in grado di far pendere la storia dal lato della cosiddetta civiltà e della ragione degli educatori.
Nel libro è assente la «”correzione” di una morale finale che dimostri come la disobbedienza, i “vizi”, la mancanza di decoro siano negativi e portino chi li pratica ad una brutta fine», probabilmente perché Twain da grande narratore autobiografico aveva presente la differenza fra un’esistenza vissuta nel rischio e il suo esatto contrario. Non sempre poi, per lui, quel mondo reale messo su nel tempo, mattone su mattone, rispondeva a un armonico disegno di libertà e verità. Per questo, per l’autore dell’ironico Un americano alla corte di re Artù occorreva una gran dose d’avventura per battere i “tiranni” del tempo, e con essa naturalmente alcuni preziosissimi aforismi: «Non abbandonare le tue illusioni. Se le lascerai, continuerai ad esistere, ma cesserai di vivere». Ecco: tanto basta per ricordarci di lui.                        
          


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jeudi, 29 avril 2010

Das Geheimnis von Sonne und Stahl: Yukio Mishimas Sun and Steel (1972)

Das Geheimnis von Sonne und Stahl: Yukio Mishimas Sun and Steel (1972)

Matthias Schneider  

Ex: http://www.blauenarzisse.de/ 

sunsteel.jpgYukio Mishima war sicherlich eine der schillerndsten, exzentrischsten und interessantesten Figuren, die je das Licht der literarischen Welt erblickten. Hierzulande erfreuen sich seine Werke wie Geständnis einer Maske, Patriotismus, Schnee im Frühling oder Liebesdurst großer Beliebtheit – dies jedoch zumeist innerhalb eines eher kleinen Zirkels. Man könnte also von einem „Geheimtip“ sprechen. Dabei dürfte dieser Mann bei weitem kein Unbekannter sein. International berühmt und sogar zwischenzeitlich im Gespräch für den Literaturnobelpreis gilt Mishima als einer der Exportschlager aus dem Land der aufgehenden Sonne.

Tod durch traditionelles Selbstmordritual

Abgesehen von seinen sprachlichen Fähigkeiten, welche sich durch einen ausgeprägten Wortschatz und einen unverhohlenen Ästhetizismus auszeichnen, sind besonders die tragischen wie extremen Umstände seines Ablebens vielen in Erinnerung geblieben. Der Mann, der am 25. November 1970 nach einem gescheiterten Restaurationsversuch und eigenem Treuebekenntnis zum japanischen Kaiser Seppuku Selbstmord beging, schockte damit sicherlich nicht nur seine Bewunderer und Leser. Auch die Medien zeigten großes Interesse an den Umständen und Hintergründen dieser spektakulär inszenierten Selbstentleibung.

Zwischen Körperkunst und schöngeistiger Kunst

Mishima wählte diese Methode des Freitods nicht zuletzt, weil er sich den Samurai verbunden fühlte. Sein jahrelanger Kraftsport und die mit militärischer Strenge ausgeübten Kampfkünste geben ein Zeugnis hiervon. Überhaupt gehörte das Formen des eigenen Körpers zu Mishimas Hauptbetätigungsfeldern. Welcher Art sein Selbstverständnis in Bezug auf seine sportlichen Aktivitäten war, erläutert Mishimas autobiographischer Essay Sun and Steel. Leider wurde dieser bis jetzt nicht ins Deutsche übertragen.

Die Symbole Sonne und Stahl

Die Sonne war für Mishima aufgrund seiner Erfahrungen im Krieg lange negativ besetzt. Sie spiegelte sich im Blut der gefallenen Soldaten und beschien die leblosen Körper. Mishima schätzte den Schatten, arbeitete fast ausschließlich zur nächtlichen Stunde. Doch diese Wahrnehmung verändert sich im Verlauf von Sun and Steel. Hier wird sie mitunter zum Lebens- aber auch zum Todessymbol, jedoch durchweg positiv konnotiert. Der Stahl wiederum steht als Synonym für die Gewichte, welche Mishima zehn Jahre zu einem fast religiös anmutenden Bestandteil seines Lebens werden ließ. Sie stellen als Abbild der Welt einen Kontrast zu seinen Muskeln dar, welche für ihn selbst stehen und durch den Stahl geformt werden. Zu deuten ist dies als Ausdruck der Überschneidungen zwischen dem „Selbst“ und der „Umwelt“.

Von Ameisen und Bäumen – Die zwei Pole der Wahrnehmung

Mishima unterschied zwei grundlegende Pole seiner Wahrnehmung: Zum einen die Worte, welche natürlich unmittelbar mit seiner Arbeit als Schriftsteller verbunden waren. Zum anderen identifizierte er das, was er als eigentliche Realität bezeichnete und auch das Bewusstsein des eigenen Körpers beinhalte. In seiner Welt markierten diese beiden Pole einen Zwiespalt. Im Gegensatz zu anderen Menschen, bei denen ein Körperbewusstsein bereits vor dem Umgang mit Wörtern auszumachen ist, attestierte sich Mishima in Hinblick auf seine eigene Person einen Vorrang der Worte. Dieser Vorrang würde sich über seine gesamte Kindheit und Jugend erstreckt haben. In Sun and Steel benutzt Mishima hierfür das Bild eines Baumes (Körper/Realität) mit weißen Ameisen (Worte). In seinem Fall prognostiziert er den Zerfall des Baumes durch das Einwirken der Ameisen, welcher schon einsetzte, bevor dieser wirklich wachsen konnte. Schlussendlich hätten die Ameisen (Worte) damit nicht nur den Baum zerstört oder unterdrückt, sondern auch sich selbst aufgehoben.

Künstlerisches Schaffen als „Verklärung von Wirklichkeit“

Mishima sah den Umgang mit der Sprache innerhalb seines eigenen literarischen Wirkens als eine auf Individualität beruhende Art der Verklärung von Wirklichkeit. So schildert er in diesem Essay ein Erweckungserlebnis bei einer religiösen Zeremonie. Bei dieser tragen junge Männer, allerdings von anderer Statur als er, einen Schrein und blicken dabei scheinbar von Lust erfüllt oder vom Schmerz gequält zum Himmel. Er beteiligt sich hieran und wird durch den eigenen Blick zum Himmel, welcher zugleich durch sein eigenes Aufgehen in der religiös-ekstatischen Masse markiert wird, mit einer anderen Bewusstseinsebene konfrontiert.

Es bemächtigte sich seiner ein Gefühl von Transzendenz. Im Stählen des eigenen Körpers sieht der Erweckte von nun an einen Weg, diesen Zustand dauerhaft herbeizuführen. Es geht ihm darum, ein Gleichgewicht zwischen Intellektualität und maskuliner Körperkraft zu schaffen. Die Worte entsprachen bisher nur dem Sehen im Sinne eines Selbstbewusstseins. Nun solle sich ein Gefühl der wahren Existenz verwirklichen, welches Mishima als eine Harmonie von innerem Bewusstsein und dem Ruf einer äußeren Stimme zu erkennen glaubt.

Körperkultur als Schlüssel für das Erreichen von Transzendenz

Die Einheit von innerem Streben und alltäglicher Pflicht stellte für Mishima ein höchstes Ideal dar, was somit auch einen möglichen Endpunkt des Lebens markierte. Auf diesen bereitet sich der wahre Krieger durch seine körperliche Arbeit vor. Mishima weist explizit darauf hin, dass ein tragischer und heroischer Tod, welcher für ihn das Ideal darstellte, nicht durch Muskelschwäche und Schlaffheit des Körpers zu verwirklichen ist.

Auf diese Weise gewährt seine Schrift einige recht persönliche Einblicke, die seine körperlichen Aktivitäten als Weg zur Transzendenz und so auch zum eigenen Tod verständlich machen. Besonders deutlich wird dies, wenn Mishima die Wirkung eines kalten Windhauchs auf seiner vom harten Training schweißglänzenden Haut beschreibt: eine Art betäubendes Gefühl entfaltet sich, so als spüre der Kämpfer seine Muskeln, seinen Körper nicht mehr. Jeder, der seinen Körper ähnlich in Schuss hält, wird dieses Gefühl sicher schon einmal am eigenen Leib erfahren haben.

Sun and Steel als Zugang zu Mishimas Selbstverständnis

Besonders interessant an Mishimas Schrift ist die unbestreitbare Tiefgründigkeit seiner Reflexionen über die Rolle des eigenen Körpers und seiner Wahrnehmung in einem scheinbar beständig fortwährenden Kampf. Speziell jene, welche schon ein wenig mit seiner Biographie vertraut sind, werden in diesem posthum veröffentlichten Werk ein wertvolles Utensil zum besseren Verständnis von Mishimas Selbstbild erkennen. Aber auch für diejenigen, denen der japanische Dichter noch unbekannt ist, lohnt sich die Lektüre.

Yukio Mishima: Sun and Steel. Kodansha America 1994. 107 Seiten. Englisch

lundi, 26 avril 2010

Louis-Ferdinand Céline: criminel ou humaniste?

Louis-Ferdinand Céline : Criminel ou Humaniste?

Ex: http://lepetitcelinien.blogspot.com/

Article d'Alessandro Gnocchi, paru dans Il Giornale, 28/10/2009.
Traduction: Stefano Fiorucci et Jeannine Renaux.

Criminel ou Humaniste? La France se dispute au sujet de Céline

Céline et l'Antisémitisme : le traditionnel champ de mines, où cycliquement quelqu'un s'aventure suscitant des réactions fermes. L'essayiste et éditeur français Karl Orend (le directeur de Alyscamps Press), dans un article publié cet été sur Times Literary Supplement, s'est lancé dans un défense passionnée de Céline, allant jusqu'à la réévaluation de ses pamphlets antisémites. Maintenant, après une lettre critique publiée par le journal britannique, les premières répliques arrivent. La site littéraire de l'édition internet de l'hebdomadaire français Le Nouvel Observateur prévoit un article du magasine mensuel Books, qui sortira demain et qui mettre Orend en morceaux.

D'après ce dernier, Bagatelles pour un massacre (1937), L'école des cadavres (1938) et Les Beaux Draps (1941) ont été écrits « en guise d'avertissement, d'appel à éviter de nouveaux massacres ». Orend, comme on dit, représente les positions de l'auteur de Voyage au bout de la nuit : la paranoïa d'un possible « complot juif » destiné à enfoncer l'Europe dans une nouvelle guerre, était en définitive, partagé par « des millions de personnes »; et la société française était imprégnée d'antisémitisme. En outre, selon Orend, il faudrait étudier le style de Céline: violent, sarcastique et halluciné. Un caractère tellement fort dans les oeuvres « politiques » qu'il serait à considérer comme « un excercice ». La thèse n'est pas nouvelle. En effet, l'opinion d'André Gide sur Bagatelles pour un massacre, confiée à un article de la « Nouvelle Revue Française» est célèbre : «C'est un jeu littéraire». Orend poursuit : la fuite de Céline à travers l'Allemagne et le Danemark, en 1945, suite aux accusations de collaborationisme avec les nazis qui occupaient la France, a été causé par le « lynchage médiatique » de l'écrivain; « lynchage médiatique » à l'origine de l'assassinat de son éditeur, Robert Denoël, en Décembre de la même année. Orend invite alors à considérer « le côté humain de Céline » trop longtemps « ignoré ». L'écrivain, « humaniste incompris », « s'occupait des pauvres et des malades et se consacrait à ceux qui avaient été loyaux envers lui. La musique et la danse étaient ses passions ».

Enfin, après avoir rappelé que sa mère était une Juive polonaise, Orend conclut: « La raison pour laquelle Céline est détesté est simple. Il nous rappelle les mensonges que les personnes ont écrit pour dissimuler leur honte d'avoir laissé courir l'Holocauste se poursuivre, en particulier la honte des Français, coupables de collusion. » En autres termes : Céline a été le bouc émissaire idéal pour une société complaisante et incapable d'admettre ses propres compromis avec le nazisme. C'est plus ou moins ce qu'a déclaré Céline même, par exemple dans les violentes invectives contre Sartre, qui l'avait accusé d'être embauché par les Allemands. Céline, dans A l'agité du bocal (édition italienne: Tarte, L'obliquo, 2005) répondra en reprochant au philosophe d'avoir accepté de mettre en scène ses oeuvres théâtrales pour les officiers de la Wehrmacht, et d'avoir toujours pris des positions ambiguës.

Oliver Postel-Vinay, sur Books, reproche à Orend de ne pas s'être contenté de chanter les louanges de l'écrivain, mais d'avoir voulu le réhabiliter « du point de vue moral ». Opération téméraire, aussi parce qu'il ne prend pas en compte un volume discret de matière, Postel-Vinay cite en particulier les articles publiés par Céline sur des journaux au moment de l'occupation nazie. (Auxquels on peut ajouter des documents sortis des recherches d'archives, dont rend partiellement compte la biographie de Céline écrite par Philippe Alméras, publié en Italie par Corbaccio). Il y a des attaques personnelles (le poète Juif Robert Desnos, morte par la suite dans un camp de concentration), des invitations à adopter une attitude dure sur les questions raciales, et l'espoir d'une division entre le Nord de la France, pur, et le Sud, métissé.

Antisémites, anti-communiste, anti-bourgeois, anti-libéral, anti-démocratique : il est évident que Céline divise. Il fut un grand écrivain. C'est pour cette raison, que pour certains, il semble intolérable que ses idées politiques soient indéfendables : et voici les Orend occupés à « le réhabiliter » et à en faire presque un petit saint. C'est pour la même raison, que pour certains il semble intolérable d'admettre la grandeur de son œuvre. Peut-on séparer l'écrivain de l'homme? Peut-être pas. Mais il est faux de juger la valeur d'un écrivain sur celle de l'homme, parce que nous devrions peut-être arracher trop de pages aux anthologies.

Alessandro Gnocchi,
Il Giornale, 28/10/2009

Traduzione dall'italiano:

Stefano Fiorucci e Jeannine Renaux

NOTE ALLA TRADUZIONE
La traduzione del testo è stata revisionata e raffinata da Jeannine Renaux. Fondamentale il suo apporto in particolare nella scelta dei verbi più appropriati al contesto della frase da tradurre. Laddove l'autore ha inserito nomi di case editrici, di riviste e titoli di opere si è deciso di utilizzare il corsivo per metterli in risalto. Qualora decidiate di lasciare invece il testo originale, togliete pure il corsivo senza bisogno di avvisare o chiedere il consenso. [...]
Stefano Fiorucci
21 marzo 2010

 

dimanche, 25 avril 2010

Les idées politiques de Céline

Vient de paraître :

Les idées politiques de Louis-Ferdinand Céline

Les éditions Ecriture publie dans la collection "Céline & Cie" Les idées politiques de Louis-Ferdinand Céline de Jacqueline Morand initialement paru en 1972. Une bonne analyse du contexte politique de la parution des pamphlets et des pamphlets eux-mêmes.

Présentation de l'éditeur

Céline s'est toujours défendu de s'être engagé politiquement, rappelant qu'il n'adhéra jamais à aucun parti, se flattant d'être un « homme de style » dépourvu de « message ». Ses écrits l'ont pourtant associé aux controverses politiques de son époque.
« Trois thèmes principaux se détachent. Le pacifisme semble l'avoir emporté par la vigueur du sentiment. L'antisémitisme a chargé l'écrivain du fardeau d'un péché capital. Le socialisme, entendu au sens large, l'a entraîné dans la voie d'un « communisme Labiche » et dans des projets largement utopiques d'organisation sociale. L'anarchisme et le fascisme, attitudes politiques souvent attribuées à l'écrivain, méritent discussion », explique l'auteur.
Une autre approche de la pensée célinienne fait de l'écrivain un précurseur à la fois de la démarche existentialiste et des philosophies de l'utopie. Si l'acceptation tragique et absurde de l'existence, le sens du nihilisme se retrouvent dans la pensée sartrienne, Céline se réfugia plutôt dans l'« utopie concrète », selon le mot d'Ernst Bloch, la plupart de ses propositions s'inspirant de cet « idéalisme pessimiste » cher à Marcuse.
Enfin, les pamphlets, motifs de sa condamnation définitive. S'ils ne semblent pas avoir influencé profondément l'immédiat avant-guerre, leur outrance même desservant leur cause, la critique des maux de son époque demeure comme un témoignage de la crise des esprits, caractéristique des années 1930. Ici, « dogmatisme brutal, provocation, lyrisme, recherche de l'effet aux dépens de la rigueur sont autant d'artifices et d'obstacles à franchir pour dégager l'idée elle-même ».

Jacqueline Morand,
Les idées politiques de Louis-Ferdinand Céline, Ed. Ecriture, 2010.

 

Michail Bulgakow: Hundeherz

heartdog.jpgMichail Bulgakow: Hundeherz

Claus M. WOLFSCHLAG

Ex: http://www.sezession.de/

Letztes Jahr weilte ich im Frühherbst in Lettland. Nachdem ich in einem Club in Riga ein Konzert der rührigen lettischen Reggae-Formation „Hospitalu iela“ erleben durfte, unterhielt ich mich backstage mit einem Bandmitglied, woraus sich in den Folgemonaten ein kleiner Schriftverkehr entwickelte. Der Musiker machte mich auf ein Werk des russischen Schriftstellers Michail Bulgakow aufmerksam: Hundeherz.

Das Werk ist eine frühzeitige, schonungslose Kritik am Sowjetkommunismus, in eine phantastische Groteske gekleidet. Die Geschichte spielt in Moskau im Winter 1924/25, also kurz nach Lenins Tod. Der erfolgreiche Schönheitschirurg Filipp Filippovich Preobrazhensky hat sich auch nach der Oktoberrevolution einen bürgerlichen Lebensstil bewahrt. Er wohnt weiterhin in einem einst eleganten Apartment-Haus mit Portier in einer edel eingerichteten 7-Zimmer-Wohnung mit angeschlossener Praxis, Köchin und Hausmädchen. Dem Druck des proletarischen Hauskomitees, die Wohnung zu verkleinern und Räumlichkeiten an zugeteilte Proletarier abzutreten, kann er sich durch seine guten Beziehungen zu Oberen der Parteihierarchie, die zu seinen Patienten gehören, entziehen.

Für seine Experimente gabelt er eines Tages einen halbverhungerten Straßenhund auf, den er mit seinem Assistenten wieder aufpeppelt. Dem Hund verpflanzt er schließlich operativ die Hypophyse und Hoden eines kürzlich verstorbenen Menschen, eines – wie sich herausstellt – einstigen Kriminellen und Alkoholikers. Dieses Experiment führt zu einem völlig unerwarteten Ergebnis. Der Hund verliert in den Folgetagen sein Fell, beginnt auf den Hinterbeinen zu gehen, bekommt zunehmend menschliche Züge und fängt schließlich zu sprechen an.

Nach einiger Weile hat Professor Preobrazhensky einen ausgewachsenen Menschen in seiner Wohnung, allerdings einen der unangenehmen Sorte. Nicht nur daß er keinerlei Tischmanieren hat, daß er sich ständig betrinkt, unflätig flucht und randaliert, er wächst auch zunehmend in das Gesellschaftssystem hinein. Das proletarische Hauskomitee sieht in dem Homunculus einen brauchbaren Genossen und beginnt mit der politischen Indoktrination. Bald singt Poligraf Poligrafovich Sharikov, wie sich der Hund alsbald nennt, Lieder gegen die Bourgeoisie, kritisiert die bürgerliche Lebensweise des Professors, fordert gleiche Rechte.

Poligraf Poligrafovich Sharikov macht dann gar noch Karriere im bürokratischen Apparat, wird Leiter einer Abteilung gegen streunende Tiere, hält Reden auf Parteiversammlungen, zu denen begeistert geklatscht wird, läßt seine Macht spielen, lügt und intrigiert. Als er schlußendlich Professor Preobrazhensky der konterrevolutionären Umtriebe denunziert, eskaliert die Lage.

Auch wenn Professor Preobrazhensky eine Rolle als „mad scientist“ zugewiesen wird, kann er teils als Verkörperung des Autors bewertet werden. Michail Bulgakow (1891-1940) war diplomierter Arzt und gilt als großer Satiriker der russischen Literatur. In den Wirren der russischen Bürgerkriegszeit nach dem Ersten Weltkrieg geriet er zwischen die Fronten, war erst medizinisch bei der Ukrainischen Republikanischen Armee tätig, desertierte dann und arbeitete in gleicher Funktion in der Roten Armee. Dann landete er bei den südrussischen Weißen Garden und bei tschetschenischen Kosaken. 1921 zog er nach Moskau, publizierte dort für Zeitschriften, veröffentlichte Prosastücke für eine in Berlin erscheinende Exilantenzeitung und schrieb Theaterstücke. Tiere dienten ihm als Figuren dazu, verschlüsselt Gesellschaftskritik zu üben.

bulg1926.gifBulgakow, mit einer Aristokratentochter verheiratet, lebte inmitten des Sowjetsystems auf einer der dort vorhandenen bürgerlichen Inseln, da das System weiterhin auf Vertreter der alten Intelligenz, auf Ärzte, Kulturschaffende, Wissenschaftler angewiesen war. Ab 1930 wurden die Werke Bulgakows nicht mehr veröffentlicht und keine Theaterstücke mehr aufgeführt. In mißlicher materieller Lage wandte er sich an die politische Führung, ihm entweder die Emigration oder eine Arbeit als Regie-Assistent zu verschaffen. Stalin persönlich rief Bulgakow, dessen Werke er offenbar mit Amusement selber gelesen hatte, an und versprach Hilfe. So arbeitete Bulgakow bis zu seinem Tod 1940 als Regie-Assistent und Übersetzer, unter anderem im Bolschoi-Theater.

Hundeherz war ebenso wie ein darauf basierendes Theaterstück 1926 verboten worden. Die Geschichte konnte deshalb erstmals 1968 in einer russischen Exilzeitung publiziert werden. Erst durch Glasnost und Perestroika unter Michael Gorbatschow war es möglich, das Buch 1987 auch in der Sowjetunion bekannt zu machen. 1988 konnte Vladimir Bortko den Stoff für das russische Fernsehen verfilmen, in einem seltsam antiquiert wirkenden Sepia-Stil.

Hundeherz ist eine Satire auf die utopischen Versuche, die menschliche Natur hin zu einem „Neuen Menschen“ zu verändern. Ein selbstherrlicher Wissenschaftler, der tiefgehend in die Natur eingreift, schafft unfreiwillig das neue Geschöpf. So wie Preobrazhensky für eine kauzig-versnobbte Bourgeoisie steht, so verkörpert der Homunculus Sharikov alle negativen Elemente des Proletariats. Vor allem die herrlichen Tischreden des Professors laden dazu ein, Bortkos Film anzusehen. Preobrazhensky beschwert sich erfrischend offen darüber, daß die ungehobelten Proletarier seine Perserteppiche verschmutzen, macht sich über eine Frau des Hauskomitees lustig, die sich wie ein Mann kleidet. Er verlautbart, daß er das mittlerweile tonangebende Proletariat nicht leiden könne, daß er es für den Verfall der guten Sitten und zunehmende Diebstähle verantwortlich macht. Er fragt rhetorisch, ob Karl Marx geschrieben hätte, daß man die Haupteingangstür seines Hauses zu schließen habe, um statt dessen nur noch den Hintereingang benutzen zu dürfen. Beim Essen erklärt er, daß man vor dem Diner keine bolschewistische Zeitung lesen solle, da dies auf den Magen schlage. Als sein Assistent ihn erinnert, daß es nur noch bolschewistische Zeitungen gäbe, antwortet er, daß man deshalb überhaupt keine Zeitung mehr lesen solle. In einem Experiment hätte er zudem nachweisen können, daß Leser der KP-Parteizeitung Pravda unter schwindenden Kniereflexen, Depressionen und Gewichtsverlust gelitten hätten.

Unfreiwillig wird Preobrazhensky aber dennoch zum Vollstrecker der kommunistischen Ideologie. Er schafft den „Neuen Mensch“ aus einem Hund. Warum solle man einen Menschen erschaffen wollen, wenn dies doch jede Frau auf natürliche Weise könne, fragt sich der Professor im Laufe der Handlung schließlich selbstkritisch. Der Homunculus nutzt die sozialen Verhältnisse hingegen rücksichtslos für seine Interessen und eine letztlich parasitäre Existenz. Appellen des autoritär auftretenden Professors, sich zu einem Kulturwesen zu verfeinern, entzieht er sich, um sich zum egoistischen Machtmenschen zu entwickeln. Er findet sich ein in ein Regime, in dem ein Hund reibungslos Karriere machen kann. Preobrazhensky und sein Assistent ahnen, welches menschenfeindliche Potential in diesem Geschöpf lauert und beschließen, rechtzeitig die Reißleine zu ziehen.

Manche Bilder des Films symbolisieren den beginnenden Verfall des kommunistischen Systems: bröckelnde Fassaden, löchrige Straßen, die Stromausfälle, die es, nach Aussage des Professors, zu zaristischer Zeit nicht gegeben hätte. Hinzu kommt die beginnende Ahnung des noch folgenden Terrors: Das aggressive Hauskomitee, das sozialen Druck gegen Besitzende im Privatbereich aufzubauen versucht, der Kult um die allumfassende Regelung durch die Bürokratie, die Kolonnen der Roten Armee, die Kampflieder singend durch die Straßen marschieren.

Ein außergewöhnliches Filmwerk der späten Sowjetunion, von ernstem Hintergrund und doch zugleich sehr heiter. Bei youtube ist es in mit englischen Untertiteln in 14 Teilen zu sehen.

vendredi, 23 avril 2010

Cioran: martyr ou bourreau?

Cioran : martyr ou bourreau ?

Réflexions sur le renversant faux-pas d'un politicien libéral

 

par José Javier ESPARZA

 

Cioran. Que n'aura-t-on pas dit de Cioran ? Pour certains commentateurs, ce n'est qu'un écrivain qui publie des aphorismes médiocres, ce n'est que l'auteur d'une « philosophie pour concierges » ; pour d'autres, il est le meilleur écrivain vivant de langue française. Entre ces deux extrêmes, on trouve un immense éventail d'opinions de valeurs diverses. Ce que l'on n'avait jamais dit de Cioran, c'est qu'il était fasciste. Mais aujourd'hui, c'est fait ; on ne voit pas bien pourquoi, mais un politicien libéral espagnol lui a attribué la paternité idéologique du phénomène Le Pen !

 

Le renversant faux-pas du politicien libéral

 

cioran.jpgCe n'est pas une blague. Cette opinion a bien été émise : par Lorenzo Bernaldo de Quirós, membre de la Junta Directiva del Club Liberal de Madrid qui fait bruyamment état de ses opinions philo­sophiques très particulières dans le supplément « Papeles para la Libertad » publié chaque semai­ne par le quotidien Ya (1). Dans l'un de ses ar­ticles, intitulé « Plus jamais Auschwitz », paru le 12 janvier 1988, Bernaldo de Quirós lançait un avertissement au monde libre, menacé par un danger imminent : Le Pen, locomotive d'un fas­cisme populiste, inspiré à son tour par un autre fascisme, plus dangereux, le fascisme intellectuel dont Bernardo de Quirós attribuait la responsa­bilité à une constellation étrange d'auteurs très différents les uns des autres : « Montherland » (il veut sans doute dire Montherlant), Fernando Sa­vater (2), Alain de Benoist et le penseur roumain Emil Cioran. Et de citer en note l'œuvre de ce dernier « El aciago domingo » (il se réfère peut-ê­tre à « El aciago Demiurgo », Le mauvais démiur­ge en trad. esp.). Par le biais d'une opération grossière d'amalgame des concepts, Bemaldo de Quirós les rend tous responsables (de façon plus ou moins importante) de la paternité des idées anti-chrétiennes, tragiques et anti-libérales qui menacent le bon ordre régnant en Occident : l'or­dre libéral.

 

Le raisonnement de Bemaldo de Quirós n'est pas habituel. Peut-être plus accoutumé au tissu gros­sier des discours économistes qu'aux subtilités et aux clairs-obscurs de la pensée philosophique, le madrilène libéral confond tout avec tout pour éla­borer vaille que vaille la réflexion suivante (qui n'est pas toujours explicite) dans son article : 1) le phénomène du populisme xénophobe devient à la mode (?) en France ; 2) en réalité, il y a plus important que cette vague politique immédiate­ment perceptible : l'existence en coulisse de pen­seurs comme Montherlant ou Alain de Benotst qui défendent des idées anti-chrétiennes et « aristocratisantes » ; 3) or, de Benoist « copie Cioran » ; et Savater aurait sa part de responsabilités dans la popularisation de Cioran en Espagne ; 4) ces au­teurs s'appuient sur les thèses des historiens révisionnistes (?) qui nient l'holocauste juif (des références, svp...) ; 5) comme on ne peut plus défendre aujourd'hui une xénophobie antijuive, on prêche pour une xénophobie anti-africaine, et nous voici revenus à Le Pen, la boucle est bou­clée. Naturellement, Bemaldo de Quirós n'écrit pas « Cioran est fasciste » mais son discours im­plicite est transparent lorsqu'il dit que de Benoist (qui, par conséquent, serait aussi « fasciste ») co­pie Cioran.

 

Si nous devions juger la pensée libérale en nous basant sur des opinions comme celle-là, nous de­vrions conclure que le libéralisme espagnol ne peut générer qu'une pensée malade, peureuse et hystérique devant tout ce qui s'oppose à l'empire du burger et de Superman. En effet, ni de Be­noist ni Savater ni probablement Cioran, ne sont d'accord avec l'empire du dollar. Mais ce n'est pas une raison pour les prendre pour des con­frères en conspiration et, moins encore, d'en fai­re les maîtres occultes de Le Pen qui, lui, par contre, ne manifeste guère son désaccord à l'égard de la domination du dollar, du nationalisme jacobin, du christianisme à la française et de Su­perman.

 

Le bourreau

Mais la question que pose directement l'article de notre libéral madrilène n'est pas aussi intéressante que la question de fond de tout ce problème : qu'est-ce qui les irrite ? Qu'est ce qui les rend nerveux ? Qu'est ce qui les dérange tant dans le discours de Cioran, eux, les défenseurs du statu quo ?

Il ne s'agit pas ici de défendre Cioran. Dans un article consacré au philosophe roumain, Savater écrivait : « Comment défendre les idées d'une per­sonne qui soutient que s'accrocher à une idée, c'est se construire un échafaud dans le cœur, de celui qui défend les droits de la divagation contre les certitudes du système et propose comme uni­que fondement de ses opinions, l'humour mo­mentané et spontané qui les suscite ? » (3). Non, Cioran est drôlement indéfendable. Et c'est sa première grande vertu, sa première grande oppo­sition à l'ordre qui juge tout selon que c'est bon ou mauvais pour le futur historique (et hypothé­qué) de l'ordre libéral.

C'est probablement bien malgré lui qu'Emil Cio­ran se mue en bourreau cruel du système qui l'entoure. Il ne pouvait en être autrement. Le courageux apatride roumain vit dans une civilisa­tion qui adore l'homme, qui idôlatre le sens de l'histoire, qui s'enfonce confortablement dans le coussin de l'Occident.

Cioran méprise l'homme, l'histoire et l'Occident. Voilà ses trois péchés capitaux.

L’avenir du cyanure

« L'homme sécrète du désastre » écrit Cioran, et il affirme « Je crois au salut de l'humanité, à l'avenir du cyanure… » (4). Le mépris de l'humain, la conviction que l'homme, cette « unité de désas­tre » (5), a déjà donné le « meilleur » de lui-même, voilà une constante qui se répète de manière in­sistante dans l'œuvre de Cioran. « Engagé hors de ses voies, hors de ses instincts – é­crit-il dans le Précis de décomposition –, l'hom­me a fini dans une impasse. Il a brûlé les étapes... pour rattraper sa fin ; animal sans avenir, il s'est enlisé dans son idéal, il s'est perdu à son propre jeu. Pour avoir vou­lu se dépasser sans cesse, il s’est figé ; et il ne lui reste comme resource que de récapituler ses folies, de les expier et d'en faire encore quelques autres » (6). Dans Valéry face à ses idoles (1970), il insiste : « Quand l'homme aura atteint le but qu'il s'est assigné : asservir la Création – il sera com­plètement vide : dieu et fantôme » (7). « Il n'est absolument pas nécessaire d'être prophète – écrit-il ailleurs – pour discerner clairement que l'homme a déjà épuisé le meilleur de lui-même, qu'il est en train de perdre sa contenance, s'il ne l'a déjà pas perdue » (8). L'huma­nité, par ses propres mérites, est « éjectée enfin de l'histoire » (9).

 

Histoire : banalité et apocalypse

La passion moderne pour l'histoire est précisé­ment une autre des cibles préférées de Cioran. Pour lui, l'histoire est un « mélange indécent de banalité et d'apocalypse » (10). Le progrès et la modernité, formes de civilisation construites sur le culte de l'histoire et de sa contemplation uto­pique dans l'attente d'une fin heureuse, sont au­tant de bourbiers où naufrage la consternante es­pérance humaine. « Tout pas en avant – écrit Cioran –, toute forme de dynamisme comporte quelque chose de satanique : le "progrès" est l'é­quivalent moderne de la Chute, la version profa­ne de la condamnation » (11). La même logique de la chute obscurcit le fantôme de la modernité : « être moderne, c'est bricoler dans l'Incurable » (12). Inéluctabilité de la marche de l'histoire ?

« Quiconque, par distraction ou incompétence, arrê­te tant soit peu l'humanité dans sa marche, en est le bienfaiteur » (13), affirme Cioran, en lançant un voile de terreur sur les consciences de ceux qui croyaient avoir construit la meilleure civilisa­tion qui ait jamais existé sur terre.

Le spectre de l'Occident

Cette civilisation, c'est l'Occident, « un possible sans lendemain » (14), une civilisation née sur les dogmes de l'humanisme et de l'historicisme. Tous deux nous apparaissent aujourd'hui comme de vieux squelettes décharnés. « Les vérités de l'humanisme – dit Cioran –, la confiance en l'homme et le reste, n'ont encore qu'une vigueur de fictions, qu'une prospérité d'ombres. L'Occi­dent était ces vérités : il n'est plus que ces fic­tions, que ces ombres. Aussi démuni qu'elles, il ne lui est pas donné de les vérifier. Il les traîne, les expose mais ne les impose plus ; elles ont ces­sé d'être menaçantes. Aussi, ceux qui s'accro­chent à l'humanisme se servent-ils d'un vocable exténué, sans support affectif, d'un vocable spectral » (15). Image de ce spectre : l'homme oc­cidental, un homme tourmenté, qui « fait penser à un héros dostoïevskien qui aurait un compte en banque » (16). De la même façon, tous les philo­sophes utopiques qui prétendirent trouver dans l'histoire un sens positif, une direction linéaire vers le meilleur, périssent : « Il y a plus d'honnê­teté et de rigueur dans les sciences occultes que dans les philosophies qui assignent un "sens" à l'histoire » (17) ; le matérialisme historique ne suppose pas en réalité un changement qualitatif quant à la providence divine : « c'est changer simplement de providentialisme » (18).

L'Occident meurt, installée à cheval sur ces deux spectres. « C'est en vain que l'Occident se cher­che une forme d'agonie digne de son passé » (19) ; mais personne n'a intérêt à s'éveiller : « l'Eu­rope, indifférente à ceux qui vaticinent, persévè­re allègrement dans son agonie ; agonie si obsti­née et durable qu'elle équivaut peut-être à une nouvelle vie » (20).

Cette féroce réalité que Cioran nous dévoile dans l'Occident contemporain, éclaire d'une nouvelle lumière des aspects plus quotidiens comme celui du colonialisme occidental dans ce qu'on appelle le Tiers Monde : « L'intérêt que le civilisé porte aux peuples dits arriérés est des plus suspects. Inapte à se supporter davantage, il s'emploie à se décharger sur eux du surplus des maux qui l'accablent, il les engage à goûter à ses misè­res, il les conjure d'affronter un destin qu'il ne peut plus braver seul » (21).

On comprend que, considérée de manière super­ficielle, cette thèse de Cioran puisse rappeler des filons bien précis de la pensée « réactionnaire » ou « traditionnelle ». En effet, il connaît les mysti­ques et se méfie des utopies ; il pense que l'hom­me est plus un animal qu'un saint, mais il croit que le théologien nous comprend mieux que le zoologiste ; on pourrait donc le considérer comme un de Maistre tourmenté et faible (au sens post­moderne de l'expression). Il contribue également à la confusion quand il écrit : « Tout semble admi­rable et tout est faux dans la vision utopique ; tout est exécrable, et tout a l’air vrai, dans les consta­tations des réactionnaires » (Essai sur la pensée réactionnaire) ; et quand il voit dans la politique « la malédiction par excellence d'un singe méga­lomane » (Ibid.).

Mais il faut laisser cette impression immédiate­ment de côté si nous voulons comprendre le reste de la férocité cioranesque. Cioran est, en effet, un bourreau aux yeux du troupeau occidental, et d'une certaine façon, un « réactionnaire » au sens pur du terme, cependant toute sa violence ne pro­vient pas d'une foi, elle est le résultat d'une im­mense déception, d'une condition angoissante, celle de l'« arrêté » à perpétuité au-dessus de l'abî­me du monde. Dans cette perspective, Cioran n'est plus un bourreau, mais un martyr ; dans ce cas, il faut écarter de ce terme tout ce qui pourrait nous suggérer héroïsme, ascèse et salut. Lui-mê­me se définit comme « un parvenu de la névrose, un Job à la recherche d'une lèpre, un Bouddha de pa­cotille, un Scythe flemmard et fourvoyé ».

Entre le dilettantisme et la dynamite

Élément déterminant dans l'angoisse de Cioran : sa condition d'apatride. « Un penseur – écrit-il­ – s'enrichit de tout ce qui lui échappe, de tout ce qu'on lui dérobe : s’il vient à perdre sa patrie, quel aubaine ! » (22). Orphelin de son appartenance et d'un enracinement, Cioran ne doit défendre au­cune vision du monde, aucun préjugé, aucune certitude. Savater a tort d'y voir une libération ; pour Cioran, oui, ça l'est, mais à un prix très élevé : le droit au Temps et à l'histoire : « Les autres tombent dans le temps ; je suis, moi, tombé du temps » (23).

Léger, détaché du temps et de l'espace, Cioran ne trouve pas d'appui non plus dans les idéolo­gies. Ici aussi, après avoir connu la fascination des extrêmes, il s'est « arrêté quelque part en­tre le dilettantisme et la dynamite » (24). Ni Dieu ni vie n'existent dans cet endroit. La vie est une « combinaison de chimie et de stupeur » (25), qui fait de la leucémie « le jardin où fleurit Dieu ». (26). Quant à Dieu lui-même...

Face à l'orgueil divin

« L'odeur de la créature nous met sur la piste d'u­ne divinité fétide » (27). Ce cruel aphorisme de Cioran peut résumer toute l'amertume de celui qui estime inconcevable une divinité seulement intelligible au départ de l'humain. Cioran se re­belle contre la bonté du créateur du mal : « L'idée de la culpabilité de Dieu n'est pas une idée gra­tuite, mais nécessaire et parfaitement compatible avec celle de sa toute-puissance : elle seule confère quelque intelligibilité au déve­loppement historique, à tout ce qu'il contient de monstrueux, d'insensé et de dérisoire. Attribuer à l'auteur du devenir la pureté et la bon­té, c'est renoncer à com­prendre la majorité des événements, et singulièrement le plus important : la Création » (28). Face à l'orgueil divin, Cioran n'hésite pas à s'inscrire sur les listes du diable : « J'ai eu beau fréquenter les mystiques, dans mon for intérieur j'ai toujours été du côté du Démon : ne pouvant pas l'égaler par la puissance, j'ai essayé de le valoir du moins par l’insolence, l’aigreur, l’arbitraire et le caprice » (29).

Et cependant celui qui croit voir en Cioran une nostalgie du sacré ne se trompe pas : « Quel dom­mage que, pour aller à Dieu, il faille passer par la foi ! » (30) ; il écrit et ajoute : « Si je croyais en Dieu, ma fatuité n'aurait pas de bornes : je me promènerais tout nu dans les rues... » (31). Nostalgie ou furie – chez Cioran, c'est la même chose – l'écueil divin est probablement la raison ultime de sa pensée, de son attitude devant la vie et de son attitude face à sa propre œuvre. Une œuvre à laquelle Cioran accorde une importance énorme, non à cause de son contenu mais à cau­se de son effet cathartique, de sa fonction matéria­lisatrice de la rébellion intime. Et c'est ici, dans cette révolte, que l'on doit s'installer pour com­prendre Cioran, pour situer sa férocité et son dé­sir délibéré du scandale.

Vengeance en paroles

Mais avant tout : devons-nous comprendre Cio­ran ? Il est difficile d'aborder avec bonne cons­cience l'épineux Roumain. Dans Syllogismes de l'amertume, il prévient les audacieux : « Tout commentaire d'une œuvre est mauvais ou inutile, car tout ce qui n'est pas direct est nul » (32). Et dans une lettre à Savater, il affirme à propos de Borgès une chose qui pourrait bien s'appliquer à lui-même : « À partir du moment où tout le monde le cite, on ne peut plus le citer, ou, si on le fait, on a l'impression de venir grossir la masse de ses "admirateurs", de ses ennemis » (33).

Faisons donc abstraction de la vantardise bien compréhensible de l'analyste, car nous ne pouvons éviter de commenter l'auteur. Et signalons, qu'en écrivant, Cioran se libère, se rebelle, se venge, se drogue ; c'est là la raison de son œu­vre : « J'écris pour ne pas passer à l'acte, pour é­viter une crise. L'expression est soulagement, revanche indirecte de celui qui ne peut di­gérer une honte et qui se rebelle en paroles contre ses semblables et contre soi. (…) Je n'ai pas écrit une seule ligne à ma température nor­male. (…) Écrire est une provocation, une vue heureusement fausse de la réalité qui nous place au-dessus de ce qui existe et de ce qui nous semble être. Concurrencer Dieu, le dé­passer même par la seule vertu du langage, tel est l'exploit de l'écrivain, spécimen ambigu, déchiré et infatué qui, sorti de sa con­dition naturelle, s'est livré à un vertige superbe, déconcertant toujours, quelquefois odieux » (34).

En dernière extrémité, nous pourrions dire que Cioran écrit selon sa mauvaise humeur : « Je n'ai rien inventé – écrit-il –, j’ai été seulement le secré­taire de mes sensations » (Écartèlement). Et il ne s'agit pas d'un faux jugement mais d'un jugement insuffisant. Les grogneries littéraires de Cioran ont porté une certaine critique, globale et aimable, si bien qu'en réalité, toute sa férocité n'est qu'un simple exercice de style ; il refuse ainsi toute espèce de vraisemblance avec la passion de l'apatride rou­main, il réduit tout son discours à une simple pratique ludique ; il insulte par conséquent le fus­tigateur de la condition humaine et il méprise le contenu de l'hérésie pour faire l'éloge de son expression propre. Banal. La littérature carnivore de Cioran est volontairement hérétique ; mais mê­me si elle ne l'était pas, toute sa capacité subver­sive s'y trouve, c'est indéniable, elle fait son ef­fet et parvient à convaincre ceux qui ne sont pas d'accord car, comme l'écrit Cioran, « l'hérésie représente la seule possibilité de revigorer les consciences, […] en les secouant, elle les préser­ve de l'engourdissement où les plonge le confor­misme » (35).

En tout cas, ce ne sera pas l'auteur qui nous en­lèvera ce doute. Cioran juge délibérément avec cette ambivalence, avec cette ambiguïté. Il sait que c'est la seule façon de durer. Dans son essai sur Joseph de Maistre, il écrit quelque chose qu'il semble dire à propos de lui-même : « sans ses contradictions, sans les malentendus qu’il a, par instinct ou calcul, créés à son propre sujet, son cas serait liquidé depuis longtemps, sa carrière close, et il connaîtrait la malchance d'être compris, la pire qui puisse s'abattre sur un auteur » (36).

Qu'ils s'alarment...

 

C'est évident : face à une réalité aussi complexe que celle de l'écrivain Cioran, les propos de tous les Bernaldos de Quirós circulant dans ce vaste monde ne sont que des mesquineries pour feuilletons américains. Autre évidence : impliquer l'a­patride tourmenté dans ce genre de questions po­liticiennes soulevées par exemple par un Le Pen relève de la plus solennelle des bêtises. Les raci­nes de la philosophie de Cioran, cette philoso­phie tragique et anti-humaniste, qui semble telle­ment effrayer nos bons libéraux espagnols, véhi­cule une culture qui est européenne jusque dans la moëlle, depuis cinq mille ans au moins ! Et confondre cette philosophie plurimillénaire avec un politicien français de cette fin de siècle, peu porté par ailleurs sur les excès intellectuels, est une exagération un peu alarmante.

Mais c'est peut-être de cela qu'il s'agit : alarmer les gens. Non pas d'alarmer les gens parce que telle ou telle philosophie existe envers et contre la volonté des conformistes, mais d'alarmer les bonnes consciences, couleur de rose, parce qu'un Cioran, génial et cruel, récupère, illustre, diffuse et affirme la seule chose qui, aujour­d'hui, peut conjurer le fantasme de l'Occident : la tragédie, l'anti-humanisme, l'éloge de la Chute, toutes sorties valables pour une civilisation qui, en effet – bien qu'elle ne veuille pas s'en rendre  compte – est déjà tombée.

Qu'ils s'alarment. Peu importe. Plus personne n'écoute. Pendant ce temps, la pensée de Cioran, une pensée barbare, éloignée des chaires et des conférences mondaines, devenue paradoxale­ment dangereuse parce qu'elle est désormais commercialisable (et peut-être commercialisable aujourd'hui précisément parce qu'elle est bar­bare), mine convictions et bétonnages. Cette « herméneutique des larmes » (ainsi Cioran défi­nit-il son style dans Des larmes et des saints) paraît s'emboîter à la perfection dans les angoisses contemporaines.

En 1934, dans une œuvre encore écrite en rou­main, Pe culmile disperarii (« Sur les cimes du désespoir »), Cioran écrivait : « Est-ce que l'exis­tence sera pour nous un exil et le néant une pa­trie ? ». Aujourd'hui, nous avons tous déserté l'existence ; aujourd'hui nous habitons tous le néant. Devons-nous nous étonner que l'angoisse de Cioran nous apparaisse comme sœur jumelle de notre propre angoisse ?

Les réactionnaires du XIXème siècle ont réagi contre le XVIIIème siècle en proposant un retour au XVIème siècle. Si aujourd'hui, en fin de modernité, il faut être réactionnaire (et soyons provocant : il n'est jamais mauvais d'être « réac­tionnaire », de réagir face aux phénomènes de dé­clin), seul peut l'être – et l'être dignement – le style de Cioran : sans propositions, sans alterna­tives. Le néant contre le vide ; l'angoisse doublée du râle face à la mort de toute illusion. C'est ce­la, finalement, la véritable dimension de Cioran : l'esthétique –puisqu'il n'y a plus d'éthique – menaçante d'une barbarie, en apparence fondée sur les Lumières, qui, seule, peut mettre un point final tragique à plus (ou beaucoup plus) de deux cents ans de civilisation à l'enseigne de l'Aufklärung.

José Javier ESPARZA

 

 

 

(1) Malgré son caractère superficiel fréquent, la lecture de ce supplément est à recommander. On y découvre tous les préjugés classiques de la droite libérale espagnole qui, au­jourd'hui, affectée par la « vague Reagan », tente de remplir sa malle doctrinale de thèses réductionnistes et économi­cistes, propres à l'anti-pensée libérale. Antérieurement, ce même supplément avait consacré à la post-modernité, nouveau monstre à trois têtes, une série d'opinions vrai­ment délirantes.

(2) La persécution de Femando Savater parait s'être trans­formée en nouveau sport national. L'année passée et au cours d'un hommage rendu à Ché Guevara, Savater fut du­rement apostrophé et qualifié de « fasciste » par une partie du public présent, tout cela pour avoir dit que le Ché était « comme un bon Rambo ». Peu après, le politicien démo­crate-chrétien et historien pro-américain Javier Tussell s'en prenait à l’auteur de La Tarea del héroe (« La Tâche du héros ») en l'accusant d'« irresponsabilité intellectuelle » à cause de ses déclarations critiques envers la fièvre mo­narchique espagnole. Aujourd'hui, Bemaldo de Quirós le rend en partie responsable du parrainage de Le Pen parce qu'« il copie Cioran » (?), Sans doute, la pensée de Savater est très critiquable mais, à notre avis, pas à cause de ces trois « crimes de pensée » qu'on lui impute à droite comme à gauche et qui constituent, justement, autant d'élans de lucidité chez ce philosophe qui suscite la polémique.

(3) F. Savater, « El indefendibile e indefenso Cioran », in Quimera, 4, febrero 1981.

(4) Syllogismes de l'amertume.

(5) Précis de décomposition. (6) op. cit.

(7) « Valéry face à ses idoles », texte repris dans le volume intitulé Exercices d'admiration : Essais et portraits (Galli­mard).

(8) « L'enfer du corps », essai paru dans Le Monde, 3 fé­vrier 1984.

(9) La chute dans le temps.

(10) Précis de décomposition.

(11) La chute dans le temps.

(12) Syllogismes de l'amertume. (13) ibid. (14) ibid. (15) ibid. (16) ibid. (17) ibid.

(18) Essai sur la pensée réactionnaire.

(19) Syllogismes de l'amertume.

(20) Essai sur la pensée réactionnaire.

(21) La chute dans le temps.

(22) Essai sur la pensée réactionnaire.

(23) La chute dans le temps.

 (24) Syllogismes de l'amertume. (25) ibid. (26) ibid. (27) ibid.

(28) Essai sur la pensée réactionnaire. (29) ibid.

(30) Syllogismes de l'amertume. (31) op. cit. (32) ibid.

(33) Exercices d’admiration. (34) ibid. (35)ibid. (36)ibid.

 

Cioran à Paris en 1949, au moment où venait de pa­raître son premier ouvrage en français, le Précis de décomposition. Cioran a appris le français grâce à un invalide de la Grande Guerre, virtuose de la lan­gue basque et de la langue française, érotomane délicat qui arpentait les boulevards de Montparnasse. Cet homme l'a exhorté à relire !es auteurs du XVIIlème siècle, à imiter leur perfection. Dans un interview accordé au philosophe allemand Gerd Bergfleth, Cioran rend hommage à cet inva­lide du Pays Basque, ce puriste de la langue et de la grammaire (Emil M. Cioran, Ein Gespräch, ge­führt von Gerd Bergfleth, Rive Gauche/Konkurs­buchverlag, Tübingen, 1985; Cioran a donné cette entrevue en langue alle­mande ; le texte original en est donc le texte alle­mand).

Cioran: une pensée contre soi héroïquement positive

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Liliana Nicorescu

Cioran : une pensée contre soi héroïquement positive

Ex: http://www.revue-analyses.org/

Être le « héros négatif » de son temps, c’est, selon Cioran, trahir celui-ci : participer ou non aux tourments de son époque, c’est toujours faire le mauvais choix, se leurrer. Comme Cioran lui-même fut le « héros négatif » d’un « Âge trop mûr », l’étude que lui consacre Sylvain David se veut une « approche “sociale” » d’une œuvre qui fait l’apologie de la marginalité et du désistement. L’enjeu est d’explorer les ressources esthétiques et sociales de l’écriture d’un misanthrope plus ou moins sociable, qui s’est déclaré « métaphysiquement étranger » et dont l’ambition fut de s’adresser à « la communauté des exclus, des unhappy few » (p.  11) — les faibles, les ratés, son segment favori de lecteurs — vivant, tout en en étant conscients, dans une modernité aux accents spengleriens ou nietzschéens, nommée tantôt « décadence », tantôt « déclin », tantôt « crépuscule », tantôt « monde finissant ». Vivre et écrire en marginal participe d’un « héroïsme négatif », c’est-à-dire « de la chute », « de la décomposition », de la pensée « contre soi » (« le seul geste héroïque possible encore à l’homme moderne »), au fondement duquel l’auteur place la quête d’« une posture digne à opposer à l’inconvénient ou à l’inconvenance de la condition de l’homme moderne  » (p. 17), d’une réponse lucide, parfois fataliste, aux questions incontournables de la modernité. C’est, selon Sylvain David, la source même de l’écriture cioranienne et de la posture négativement héroïque d’une œuvre qui s’articule autour de la dualité entre le sujet et la collectivité, d’une identité sapée par le doute, et d’un « penser contre soi-même » assidûment professé par l’auteur des Cimes du désespoir.

L’analyse de l’œuvre cioranienne passe — plus que jamais, après la mort de l’essayiste — par l’étape roumaine de sa création littéraire. Depuis onze ans, la question fondamentale est, selon certains critiques, de concilier « l’aristocrate du doute » et l’« antisémite de conviction ». Le « dévoilement du voile » annoncé par Alexandra Laignel-Lavastine en 2002 ne tente pas Sylvain David, qui, tout en reconnaissant une « historicisation » de la pensée cioranienne dans la deuxième étape de création de l’auteur de La Transfiguration de la Roumanie, refuse de l’historiciser in corpore ou à rebours et, par conséquent, de juger l’œuvre française en fonction de l’œuvre roumaine. La « seconde naissance » de Cioran passe, certes, par l’historicisation de sa pensée : celui qui prônait dans son premier livre roumain l’« héroïsme de la résistance et non de la conquête » allait admirer quelques années plus tard Corneliu Zelea-Codreanu et Hitler, pour s’attaquer ensuite à toute forme de fanatisme, d’engagement politique. Par conséquent, la tension fondamentale de l’œuvre cioranienne sera « la relation conflictuelle d’un homme avec son époque, son milieu, si ce n’est avec lui-même » (p.  23).

Les rapports entre l’écriture et le désengagement constituent la première partie du livre, intitulée Un discours (a)social. Les trois premiers livres français de Cioran (Précis de décomposition, 1949; Syllogismes de l’amertume, 1952; La Tentation d’exister, 1956) sont empreints de la certitude du déclin, de la décadence, de l’éternelle erreur. Si l’esprit moderne est marqué par « la négativité et le relativisme » (p. 24), l’œuvre de Cioran se distinguera non seulement en tant que « dénonciation du caractère insidieux de l’esprit moderne », mais aussi en tant que « discours (a)social » (p. 29). Dans cette période de passage, le segment français de l’œuvre cioranienne dénonce, juge et accuse systématiquement l’aspect politique, engagé, des écrits roumains. À cette époque, Cioran essaie de « se distancier d’une certaine incarnation de lui-même, de ce qu’il a déjà été » (p. 30). L’affirmation ne laissera aucun cioranien (ou cioranomane!) indifférent et place l’auteur de cet essai dans le camp modéré des lecteurs/exégètes de celui qui est accusé de « fuite lâche », de mémoire sélective, de mensonge et, surtout, de conservation du credo antisémite. Lire l’œuvre française de Cioran n’est pas, pour Sylvain David, « tenter de déterminer ce qu’a pu dire, ou faire, exactement l’essayiste, au cours des années 1930, mais plutôt de voir ce qu’il en pense, avec le recul, au moment où il entame sa nouvelle carrière » (p. 30). À l’encontre de ceux qui parlent de l’« insincérité permanente » de Cioran ou de son antisémitisme foncier et permanent, Sylvain David croit que « [p]lutôt que de commodément vouer son égarement de jeunesse à l’oubli », il convient de considérer que Cioran « revient inlassablement sur son expérience afin de comprendre et, éventuellement, dépasser les motivations qui ont pu le pousser à agir de la sorte » (p. 30).

En s’attaquant à la racine du Mal, de l’Intolérance, du Fanatisme, Cioran poursuit et accomplit un besoin d’expiation, de purification de ses jeunes égarements. La « rage tournée contre soi », la « négativité » se trouvent au cœur de cette écriture centrée sur la condition de l’homme moderne et qui réfléchit sur celle de l’écrivain dans une société de plus en plus politisée, de plus en plus divisée, de plus en plus radicalisée. La « poétique du détachement » qui illustre cette première étape de création française prend déjà contour dans le Précis de décomposition (Exercices négatifs à l’origine) que Cioran publiera en 1947 et s’articule non seulement autour de la « dénonciation de toute forme de dogmatisme ou d’intransigeance » (p. 36), mais aussi autour de l’écriture éclatée, fragmentaire, opposée, dira Cioran, à « la tentation de conclure ». Cette écriture fragmentée, fracturée est une expression de la modernité dans la mesure où la philosophie, le premier amour de l’essayiste, est, estime-t-il, incapable d’expliquer le monde ou le temps, qui mesure plutôt l’irrationalité contemporaine, le volet culturel de la durée, la fracture de la connaissance, du moi, la décomposition de la pensée et la décadence du Verbe.   

Cette étape créatrice du métèque correspond à un métissage esthétique, autrement dit à l’éclatement de la forme littéraire, dont le principal matériau, la langue, se dissout et s’incarne sous diverses formes : le doute se radicalise et se détache du discours philosophique impersonnel et systémique. Aux idées abstraites, Cioran, devenu « penseur d’occasion », préfère la connaissance empirique; l’écrivain est un sceptique déçu par la philosophie (universitaire ou non), un moraliste qui, avant d’observer les gens, doit « dépoétiser sa prose ». L’idée que « toute démiurgie verbale se développe aux dépens de la lucidité » conduit à l’esthétisation de la négation, à la « négativité esthétique » (p. 95), à travers laquelle l’écriture mesure et dénonce le déclin inéluctable d’un monde, d’un système de valeurs partagées.

La deuxième partie de l’étude de Sylvain David — intitulée De l’histoire de la fin à la fin de l’histoire — a pour fondement « le grand récit de la Chute ». Le corpus (Histoire et utopie, 1960; La Chute dans le temps, 1964 ; Le mauvais démiurge, 1969) propose une relecture de la Genèse, dont le centre nerveux est le panorama de la vanité que déplore l’Ecclésiaste. Au centre de la deuxième étape de l’œuvre française de Cioran, on trouve le « Cioran de la maturité ». Placé également sous le signe de la négation, ce deuxième segment français de l’œuvre cioranienne met en scène un moi lui-même fragmenté, décomposé, qui ne met plus en question ses égarements de jeunesse, mais ses accès de pessimisme, de scepticisme. Sur le plan de l’écriture, l’aphorisme est supplanté par l’essai, dont les thèmes centraux sont l’homme, le péché originel, la chute, le temps historique et l’Occident moribond. Dans l’herméneutique cioranienne, le péché originel s’appelle la « douleur originelle » et la Chute vient couronner « l’inaptitude au bonheur » des descendants d’Adam et Ève; leur « don d’ignorance » est le seul à les rendre heureux. Lucifer, quant à lui, n’eut qu’à saper « l’inconscience originelle » du couple primordial et de sa progéniture — dont l’« inconvénient » d’exister fut la seule fortune —, ce qui laissa cet univers à la discrétion d’un « mauvais démiurge ». Conséquence directe du péché originel, la chute dans le temps est en même temps une chute vers la mort : « avancer » et « progresser » sont des concepts distincts chez Cioran, car aller vers la mort est un progrès vers l’involution, vers la disparition non seulement des hommes (ou des peuples), mais aussi des cultures, des civilisations sujettes au temps historique. Fatalement, l’« abominable Clio » enchaîne l’homme et le laisse « en proie au temps, portant les stigmates qui définissent à la fois le temps et l’homme ». Séduite par l’élan vers le pire, l’humanité court vers sa perte, autrement dit, vers l’avenir : c’est plus fort qu’elle, car, écrit Cioran dans ses Écartèlements, « [l]a fin de l’histoire est inscrite dans ses commencements ».

La troisième partie — Une autobiographie sans événements (incluant De l’inconvénient d’être né, 1973; Aveux et anathèmes, 1987; Écartèlement, 1979 : Exercices d’admiration, 1986) — correspond à un réinvestissement du temps présent complètement dépolitisé. La réflexion qui accompagne cet héroïsme négatif se fait en trois volets : le malheur (plus ou moins inventé) de l’homme moderne, l’écriture fragmentaire en tant que miroir d’un univers atomisé, désagrégé, inachevé, et le défi stoïque, positivement connoté, de l’héroïsme négatif de Cioran, autrement dit, « le courage de continuer à vivre et à écrire à l’encontre de ses propres conclusions, de son propre savoir » (p. 26). Les piliers de cette « autobiographie sans événements » sont le suicide et la « (re)naissance ». La biographie de Cioran fut marquée par un suicide jamais commis, puisqu’on ne peut pas tuer une idée. Ce que Cioran retient du suicide, c’est l’idée de se donner la mort, pas l’acte en soi : « sans l’idée du suicide — estimait-il — on se tuerait sur-le-champ! » D’ailleurs, si celui qui se vantait d’avoir « tout sacrifié à l’idée du suicide, même la mort », ne s’est pas suicidé, c’est parce que, disait-il plus ou moins amèrement, de toute façon, « on se tue toujours trop tard ». La même biographie fut également marquée par « l’inconvénient d’être né », voire d’être né Roumain, par les « affres de la lucidité », par les tortures du paradoxe, par l’effort de reconstruction intérieure et de mise en scène d’un moi aliéné. Dans le Paris aggloméré et automatisé, le regard du métèque s’arrête sur des gens que personne ne voit, venus, eux aussi, d’ailleurs, ou bien sur des clochards-philosophes. Sa lucidité — autrement dit, son « inaptitude à l’illusion » — fut celle d’une tribu sceptique, fataliste, anhistorique, celle de ces analphabètes brillants qui savent depuis toujours que l’homme est perdu et qui lui ont inculqué cette lucidité en même temps que « l’envergure pour gâcher sa vie ».

Étant lui-même un paradoxe vivant, Cioran ne put mettre en scène qu’une paradoxale série de représentations de soi : le moraliste qui, avant d’observer les hommes, se donne comme devoir primordial de « dépoétiser sa prose » tend la main à un être lucide pris pour un sceptique; le « parvenu de la névrose » est le frère du « Job à la recherche d’une lèpre » ; le « Bouddha de pacotille » cherche la compagnie tourmentée d’un « Scythe flemmard et fourvoyé », « idolâtre et victime du pour et du contre », d’un « emballé divisé d’avec ses emballements », d’un « délirant soucieux d’objectivité », d’un « douteur en transe » ou d’un « fanatique sans credo ». Cette rhétorique du paradoxe et de l’opposition projette, selon Sylvain David, non seulement l’image d’un marginal, d’un étranger, d’un exclu, d’un apatride métaphysique, mais également et surtout un jeu de contraires qui trouve son plaisir esthétique dans les contorsions, dans les volutes élégamment orchestrées par une pensée organiquement écartelée « entre scepticisme et besoin de croire, entre lucidité et illusion vitale » (p. 273). Cette mise en scène du moi artistique participe d’un « métacommentaire » qui prolonge non seulement « une détestation de soi primaire » (en tout cas, moins importante, semble-t-il), mais surtout d’« une forme d’amour trahi ou d’orgueil blessé » (p. 275). La visée de celui qui se voulait « le secrétaire de [s]es sensations » n’est pourtant aucunement narcissique, mais plutôt viscérale, car, disait-il, ce ne sont pas nos idées, mais nos sensations et nos visions — parce qu’elles « n’émanent pas de nos entrailles » et sont « véritablement nôtres » — qui peuvent, qui doivent nous définir. Cet attachement au sensoriel est, observe Sylvain David, l’apogée de l’héroïsme négatif de Cioran : en parlant de sensations et de visions qui sont les siennes, pas les nôtres — c’est-à-dire « non partagées avec le commun » —, le dernier Cioran défend son héroïsme négatif en explorant ce que son passé, son identité, ses souvenirs ont de négatif. Cet effort expiatoire est plus qu’une catégorie esthétique : il s’impose en tant que garantie morale de l’œuvre de maturité d’un homme « désintégré ».

Sur les ruines d’un univers déserté par les dieux, un penseur inclassable vint installer son Verbe ahurissant, héritier de la sobriété et de l’élégance des moralistes dont il se réclamait comme descendant légitime, aussi bien que de la saveur amère et de la souplesse de sa langue maternelle. Seuls l’aphorisme ou le fragment pouvaient représenter cet univers morcelé, éclaté. À l’encontre de Ionesco ou de Beckett, qui ont exploré l’absurde du langage, Cioran resta plutôt un classique, car, bien que conscient des mots, il a cherché, au-delà de la fonction poétique de la langue, à faire passer ses négations au niveau de la rhétorique; son univers n’est pas l’absurde, mais le paradoxe qui repose sur toute une série de malgré : poursuivre sa réflexion, malgré la déception que provoque chez lui la philosophie, malgré le mal que provoque sa propre conscience (ou sa propre lucidité); écrire, malgré les doutes quant à la capacité de son écriture à définir sa conception du monde; publier, malgré un nombre restreint de lecteurs et le dégoût que provoque en lui le flux éditorial parisien.

Certes, Cioran a écrit parce que, disait-il, chaque livre est « un suicide différé ». Paradoxalement ou non, son héroïsme négatif n’est ni agressif ni virulent, mais plutôt la représentation concrète de son aptitude — qui l’aurait cru? — « au compromis stoïque », de sa « capacité de se mouler aux circonstances de la modernité sans jamais pour autant s’y diluer ou s’y travestir » (p. 326). Il ne lui restait qu’à devenir « le sceptique de service » d’un monde en agonie ou « le secrétaire de [s]es sensations », puisque « être le secrétaire d’une sainte » n’a pas été la chance de sa vie.

Le Cioran français est, selon certains exégètes du moraliste, le masque du Cioran roumain séduit, dans les années 1930, par le mouvement nationaliste roumain et qui, une fois établi en France, n’a fait que réécrire ses livres roumains, afin de cacher ses jeunes égarements tout en restant fidèle à ses anciens credo. À l’encontre de certains de ses prédécesseurs, Sylvain David met au cœur de sa lecture de l’œuvre française de Cioran le fondement esthétique et social de l’art du fragment, dont l’auteur du Mauvais démiurge fut le maître incontesté. Complètement dépolitisés, les paradoxes cioraniens retrouvent toute leur beauté et leur profondeur et construisent, par le biais d’une analyse aussi subtile qu’objective, le parcours sinueux, mais combien passionnant, d’un « héroïsme à rebours ».

 

Compte rendu par : Liliana Nicorescu

Référence : Sylvain David, Cioran. Un héroïsme à rebours, Les Presses de l’Université de Montréal, coll. « Espace littéraire », 2006, 338 p.

Pour citer cet article : Liliana Nicorescu, «Cioran : une pensée contre soi héroïquement positive», @nalyses [En ligne], Comptes rendus, XXe siècle, mis à jour le : 27/01/2010, URL : http://www.revue-analyses.org/index.php?id=623.

samedi, 17 avril 2010

Il caso Némirovsky: vita, morte et paradossi di un'ebvrea antisemita

Il caso Némirovsky:
vita, morte e paradossi di un’ebrea antisemita

di Stenio Solinas

Fonte: il giornale [scheda fonte]

 Cinque anni fa la Francia riscoprì all’improvviso una scrittrice che aveva dimenticato. Si chiamava Irène Némirovsky, era una russa di origine ebraica, era morta in un campo di concentramento nell’estate del 1942. Per un caso straordinario, le figlie avevano custodito fino a quel 2004 una valigia che conteneva la produzione letteraria materna, dattiloscritti, diari, appunti, e fra essi c’era il manoscritto del romanzo a cui Irène aveva lavorato dal giorno della disfatta bellica della Francia, giugno-luglio 1940, fino in pratica al momento in cui i gendarmi francesi si erano recati nella sua casa di campagna e l’avevano portata via. Suite française era il titolo scelto e per quanto nei piani della sua autrice esso prevedesse ancora un volume, relativo a come quel conflitto sarebbe finito, era omogeneo e a sé stante nelle due parti che lo componevano. Pubblicato a mezzo secolo di distanza, il romanzo ebbe un successo clamoroso, vinse dei premi, riportò alla ribalta il nome Némirovsky.

Anche in Italia il suo è stato un caso letterario. È Adelphi, infatti, l’editore che ne ha comprato i diritti e da Il ballo a David Golder, da Jézabel a Come mosche d'autunno a, appunto, Suite francese, ogni titolo si è rivelato un successo e ha contribuito a fare del suo autore uno dei più venduti e dei più citati. Poiché nel corso della sua vita Irène scrisse una decina di romanzi e una quarantina di racconti, il fenomeno è destinato a continuare nel tempo.

Adesso ancora Adelphi manda in libreria La Vita di Irène Némirovsky di Olivier Philipponnat e Patrick Lienhardt (traduzione di Graziella Cillario, pagg, 516, euro 23), uscita due anni fa in Francia da Grasset, una biografia molto ben documentata grazie alla quale del personaggio sappiamo praticamente tutto, compreso il forte tasso autobiografico della sua produzione, in pratica una sorta di reinvenzione artistica della sua famiglia, degli ambienti in cui visse, dei suoi gusti, delle sue passioni e dei suoi odii. E tuttavia, in questo saggio, così come nel successo che ha arriso a quanto finora è stato via via pubblicato, resta un elemento di ambiguità che nessuno si decide veramente a sciogliere e sul quale vale la pena di riflettere. Lo facciamo con tutta la delicatezza del caso, ma crediamo ne valga la pena.

Il fatto che la Némirovsky, intellettuale ebrea di origine, per quanto convertita al cattolicesimo, sia stata una vittima della «soluzione finale» hitleriana, potrebbe spiegare di primo acchito il perché di tanto interesse di pubblico e di critica: una sorta di risarcimento postumo per un nome che pure, negli anni Trenta, aveva goduto di risonanza, una sorta di mea culpa nei confronti di chi si era identificata con la Francia, la sua lingua, la sua storia, la sua cultura, e dalla Francia in fondo era stata abbandonata e poi tradita... Nel 1929 David Golder, il suo romanzo d’esordio per Grasset, vendette 60mila copie, ebbe una riduzione teatrale e una cinematografica, quest’ultima per la regia di Julien Duvivier, che andò persino alla Mostra del Cinema di Venezia del 1932...

E però, se si va più a fondo, un po’ tutta la narrativa della Némirovsky è un susseguirsi di ritratti e di ambienti in cui la «razza ebraica», come si sarebbe detto un tempo, non appare nella sua luce migliore, ma è spesso e volentieri un concentrato di avarizia e di cupidigia, di odio e di crudeltà, di disordine sociale e morale, di incapacità e/o non volontà di assimilazione, di vera e propria «razza a parte» insomma, nemica a tutti e in fondo nemica anche a se stessa...

C’è di più: russa di nascita (Kiev, 1901), la Némirovsky fugge dal suo Paese nel momento in cui i bolscevichi prendono il potere: la sua famiglia appartiene alla buona borghesia degli affari, lei ha l’educazione classica di chi fra istitutrici e lezioni private non si mischia al contatto promiscuo delle scuole pubbliche, passa le vacanze sulla Costa Azzurra, soggiorna ogni anno a Parigi... È una «russa bianca», insomma, con un padre banchiere e finanziere, una madre che pensa soltanto alle toilettes e agli amanti, un treno di vita che l’esilio, prima in Finlandia, poi in Svezia, infine in Francia, non muta più di tanto: appartamento sulla Rive droite, in pratica affacciato sugli Champs Elisées, studi alla Sorbona, estati a Biarritz o a Dauville... L’anticomunismo, insomma, è un dato acquisito, qualcosa che Irène respira fin da ragazza: ha fatto in tempo a vedere lo scoppiare della rivoluzione, i processi sommari, i saccheggi e i massacri. Non lo dimenticherà mai.

Infine, c’è un altro elemento da aggiungere al puzzle finora composto e alla ambiguità che lo circonda. Nel suo decennio letterario la Némirovsky scrive in linea di massima per testate che appartengono al largo spettro della destra francese, ha Robert Brasillach fra i suoi critici più entusiasti, ma anche più avvertiti quanto alla sua arte, ai suoi pregi e ai suoi difetti, frequenta Paul e Hélene Morand... Non è una scrittrice di politica, certo, non si interessa più di tanto alle ideologie, certo, ma è naturaliter di quel mondo borghese, antiparlamentare, antidemocratico, anticomunista, con qualche simpatia per il fascismo, con molte perplessità sul nazionalsocialismo, nazionalista e quindi attento al suolo, al sangue, alla radici, che è il mondo della destra francese della prima metà degli anni Trenta.

La Némirovsky, insomma, faceva parte di quel milieu di ebrei antisemiti di cui oggi non si riesce quasi più ad avere un’idea, ma che fra le due guerre mondiali esistette e spesso fu intellettualmente maggioritario: un atteggiamento etico ed estetico, il disprezzo per l’oro e per l’usura, per chi era considerato un senza patria, per chi rimaneva chiuso nel suo piccolo mondo di tradizioni e di riti.

Siamo di fronte, dunque, a un destino particolarmente tragico perché la Némirovsky è, come dire, vittima dei suoi «amici», non dei suoi nemici. Nelle lettere che Michel Epstein, il marito, scriverà a Otto Abetz, il potente capo della cultura tedesca in terra di Francia, si sottolinea in fondo proprio questo: l’essere anticomunista, il non avere tenerezza per gli ebrei, il fatto che i suoi libri continuino a essere pubblicati, che insomma non sia nella lista nera degli scrittori da dimenticare... Non è nazista Irène, certo che no, e non può sapere quale tragedia politica e morale sarà il nazismo, e il suo iniziale credere in Pétain non vuol dire augurarsi sterminio da un lato, sudditanza dall’altro. Abituati a ragionare con la testa del presente sulla realtà del passato, si fa fatica a capire le scelte di campo, le motivazioni, le speranze e le illusioni. Irène non penserà mai di mettersi in salvo perché crede di essere già in salvo: fa parte dell’intellighentia, di una nazione che ama e difende i suoi scrittori, è legata da sentimenti di amicizia con intellettuali e politici che ora godono di un peso maggiore rispetto agli anni di pace, è, insomma, nella stessa barca dei «vincitori».
Perché dovrebbero buttarla a mare, perché le dovrebbero fare del male? È per questa ambiguità che non si salvò. È questa ambiguità che ancora oggi fa velo a cosa veramente fu la Francia (e non solo la Francia) di ieri.


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jeudi, 15 avril 2010

"Proust è un bavoso". Viaggio nella biografia di un genio fulminato

«Proust è un bavoso»
Viaggio nella biografia di un genio fulminato

di Stenio Solinas

Fonte: il giornale [scheda fonte]

 «Gli editori sono tutti carogne». «Non aggiungete una sillaba al testo senza preavvisarmi! Fottereste il ritmo come niente - solo io posso ritrovarlo là dov’è. Ho l’aria bavosa, ma so a meraviglia ciò che voglio. Non una sillaba. Fate anche attenzione alla copertina. Niente music Hallismo. Niente sentimentalismo tipografico. Del classico». «I critici dicono sempre fesserie. Giornalisti innanzitutto, lavorano di chiacchiere, piccoli ricatti... Ci vorrebbe qualcuno che si decidesse a coprirmi di sputi!... La gente è sadica, vigliacca, invidiosa, distruttrice. Ha bisogno di sentire il saccheggio, lo spappolamento, altrimenti non ci sta...». «Bisogna vedere gli uomini come cani. Ciò che fanno, abbaiano, ringhiano, spiritualmente non significa niente, meno che zero... Purtroppo ci toccano le conseguenze materiali, ma moralmente... Cani, nient’altro che cani. Tutto è permesso, insomma, per evitare i loro morsi e ingannarli e aizzarli in modo che si sbranino fra loro. Meglio dimenticare tutto, mascherare in musica l’orrore del vivere».

Ma sì, è Céline che batte alla porta, strepita, irride, minaccia e s’incazza... Ben tornato Ferdinand sull’onda delle oltre 2mila pagine del volume che raccoglie una antologia monstre (più di 1500 lettere) della sua corrispondenza, dalla giovinezza alla morte (Lettres, Gallimard, collezione Bibliothèque de la Pléiade, pagg. 2080, euro 66,5; a cura di Henri Godard e Jean-Paul Louis). Per la prima volta, insieme con molti inediti, l’epistolario celiniano fino a oggi sparso e spesso disperso in innumerevoli rivi editoriali (le lettere dall’Africa, le lettere alle amiche, quelle agli editori e agli avvocati, le lettere dall’esilio) viene selezionato e cronologicamente ordinato. Il risultato è imponente.

Il carteggio è una miniera di informazioni sul Céline scrittore, sui suoi procedimenti, sulle sue idiosincrasie, ma ne scandaglia anche il privato: la passione per la bellezza («Sono pagano per la mia assoluta adorazione della bellezza fisica, della salute. Odio la malattia, la penitenza, il morboso(...) Perciò ho amato tanto l’America. La felinità delle sue donne!(...). Tranquillo stallone, guardone, palparle è un incanto senza pari, mi inebria, mi ispira - Darei tutto Baudelaire per una nuotatrice olimpionica»); il rifiuto della vita reale, obiettiva, il peso degli anni e dei guasti fisici.

Dietro il cliché del «medico dei poveri» la corrispondenza fa rigalleggiare il bell’uomo alto più di un metro e ottanta, che indossa abiti di buon taglio e stoffa inglese, biondo e con gli occhi azzurri, che conosce il mondo e il bel mondo, uno che a Ginevra come a Vienna, a New York come a Londra, sa dove andare, come muoversi, cosa vedere, a proprio agio con pianiste come Lucienne Delforge, con scultrici come Louise Nevelson, con figlie della buona borghesia di provincia come Edith Follet, la sua prima moglie. Vive in un appartamento moderno, con qualche souvenir coloniale, in rue Lepic: è cortese, ma riservato.
Ciò che nelle lettere d’anteguerra è accennato, sparso e variegato, in quelle post-belliche tende a raccogliersi su un triplice binario. Sul primo corre il métro emotif, il treno dello stile. «Tutto il mio lavoro è consistito nel cercare di rendere la prosa francese più sensibile e tesa, precisa, sferzante e cattiva iniettandole un linguaggio parlato, il suo ritmo, il suo tipo di poesia e di tenerezza malgrado tutto, di resa emotiva». «Io seguo con le parole l’emozione, non le lascio il tempo di rivestirsi in frase... l’afferro nuda e cruda, o meglio, nella sua poeticità. Perché il fondo dell’uomo malgrado tutto è poesia - il ragionamento si apprende, così come si impara a parlare - il bebè canta - il cavallo galoppa - il trotto è di scuola». «Non creo nulla, in verità - è come se ripulissi (...) una statua seppellita nell’argilla -

Esiste già tutto (...) Occorre soltanto spazzare (...) portare alla luce del giorno - AVERE LA FORZA - è una questione di forza - forzare il sogno nella realtà - una questione di pulizia (...) È un lavoro da operaio - operaio nelle onde».

Sul secondo corre il vagone della negazione e/o riduzione di ciò di cui è incolpato, della «congiura» ai suoi danni. «Sono un patriota sfrenato in un Paese di degenerati, lacchè e bastardi. Si tratta di ben altra cosa che tradimento, è precisamente il contrario. Sono gli altri, tutti gli altri che galoppano urlando dietro la bandiera, gareggiando per farsi inculare dal migliore offerente». «Ci si accanisce a volermi considerare un massacratore di ebrei. Io sono un preservatore accanito di francesi e di ariani - e contemporaneamente, del resto, di ebrei! Non ho voluto Auschwitz, Buchenwald. Cazzo! Basta! (...) Ho peccato credendo al pacifismo degli hitleriani, ma lì finisce il mio crimine». «La Germania mi fa naturalmente orrore. La trovo provinciale, pesante, grossolana (...) Per me è quella del ’14, la gare de l’Est, la linea dei Vosgi, la morte, la salsiccia, l’elmetto a punta».

Sul terzo, infine, fila il direttissimo delle recriminazioni, delle ingiurie, degli editori traditori, dei soldi che non arrivano, della pubblicità che manca, del boicottaggio. Sotto un torrente di minacce e prese per il culo, gli interlocutori passano la mano. Jean Paulhan, il «cervello» della casa editrice Gallimard lascia nel 1955, stanco e disgustato. «Di che si lagna quel vecchio bavoso - sarà il commento - Trova che la sposa è troppo bella, ha troppo temperamento?».

E l’antisemitismo? Céline lo trasforma in pacifismo, lo scolora, più che negarlo lo orienta in maniera diversa, fino a trasformare sé stesso nell’unico vero ebreo errante: esiliato, offeso, perseguitato... Ma dietro al razzismo c’è anche una questione di stile, come una lettera del 1943, che ha per tema Proust, mette bene in evidenza. «Lo stile di Proust? È semplicissimo. Talmudico. Il Talmud è imbastito come i suoi romanzi, tortuoso, ad arabeschi, mosaico disordinato. Il genere senza capo né coda. Per quale verso prenderlo? Ma al fondo infinitamente tendenzioso, appassionatamente, ostinatamente. Un lavoro da bruco. Passa, viene, torna, riparte, non dimentica nulla, in apparenza incoerente, per noi che non siamo ebrei, ma riconoscibile per gli iniziati. Il bruco si lascia dietro, come Proust, una specie di tulle, di vernice, che prende, soffoca riduce e sbava tutto ciò che tocca - rosa o merda. Poesia proustiana. Quanto alla base dell’opera: conforme allo stile, alle origini, al semitismo: individuazione delle élites imputridite, nobiliari, mondane, invertiti etc. in vista del loro massacro. Epurazioni. Il bruco vi passa sopra, sbava, le fa lucenti. I carri armati e le mitragliatrici fanno il resto. Proust ha assolto il suo compito». Conclusione: nel 1943 l’autore della Recherche avrebbe applaudito la sconfitta tedesca a Stalingrado...

Scrittore antimaterialista, Céline cercò di combattere il materialismo usando uno strumento, la razza, altrettanto materiale e, come tale, incapace di cogliere differenze di valori e di sensibilità. L’ideale ariano si trasformerà in beffa allorché, dopo essere stato imprigionato in Danimarca, si troverà a scrivere: «Merda agli ariani. Durante i 17 mesi di cella non un solo fottuto dei 500 milioni di ariani d’Europa ha emesso un gridolino in mia difesa. Tutti i miei guardiani erano ariani». Quando si predica la purezza c’è sempre qualcuno che si crede più puro di te. Un genio fulminato.


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mardi, 13 avril 2010

Dossier Dantec (2004)

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2004

DOSSIER “DANTEC”  :

 

Dantec devant les cochons

Source : http://ca.altermedia.info

 

MD-B.gifComme Présent l’avait prévu dès l’automne (1), le grand romancier et essayiste Maurice G. Dantec est soumis depuis quelques jours à une attaque en règle des «.Maîtres Censeurs » (2), de ces petits marquis islamo-gauchistes qui, depuis leurs quartiers chics et tranquilles de Saint-Germain veulent régenter les lettres et la pensée française.

 

Tout a commencé par une curieuse offensive à l’évidence préméditée, et collective, sur le forum du journal gratuit canadien Voir (3) qui s’est soudainement mis à vomir des messages d’insultes contre l’auteur de Babylon Babies (4) coupable, en vrac, d’être un « nazi américano-sioniste » (?), un islamophobe, un facho, et autres noms d’oiseaux.

 

Entre-temps, Dantec qui, du fait d’un quasi ostracisme dans les médias français, a pris l’habitude de lire, écrire et débattre sur le Web, lequel reste – pour le moment – un espace de liberté, commit l’irréparable péché de s’inscrire à la newsletter du Bloc Identitaire (5). Pire encore, l’écrivain poussa le vice jusqu’à accompagner cette démarche d’une lettre à Fabrice Robert, dirigeant du Bloc, pour lui préciser que, bien qu’en désaccord fondamental sur les positions de cette formation en ce qui concerne les Etats-Unis et Israël, il appréciait leur bel activisme contre le groupe de rap anti-français Sniper, pour leur défense de l’abbé Sulmont, et, plus généralement, leur lutte contre l’islamisation de la France. Last but not least, en homme courtois (quel ringard !), il leur souhaitait à la fin de cette missive, dont il autorisait la publication, tous ses vœux pour 2004… C’en était trop !

 

Ou plutôt, bien sûr, c’était enfin le « faux pas », qu’attendait le troupeau gras des cochons de la médiaklatura pour couiner en chœur leurs délations, leurs malédictions et leurs excommunications contre l’intellectuel qui avait osé, entamer un débat avec les intouchables, les lépreux de la droite identitaire !

 

Des « cochons » oui, comme disait Léon Bloy (1) qui fut aussi, en son temps, la cible d’une vindicte généralisée de la presse parce qu’il avait eu le malheur de défendre Tailhade ; et qui leur répondit en rédigeant Léon Bloy devant les cochons (6), que nous nous sommes permis de paraphraser dans notre intitulé. Des cochons comme ceux qui, dans l’excellente fable de George Orwell, prennent le pouvoir de La ferme des animaux en y installant leur totalitarisme absurde pour mieux se goinfrer au nom de la liberté.

 

Des cochons donc, vautrés dans leurs turpitudes, qui trouvent charmant d’aller biser les terroristes du Chiapas, de fêter le livre (!) chez Fidel Castro, de voter pour Arlette Laguiller, et, donc, le projet d’une bonne révolution sanglante, ou encore, et la liste serait longue, répandent leur vulgate d’anciens communistes, complices de régimes génocidaires, dans toutes les feuilles et sur tous les écrans.

 

C’est Libé, bien sûr, qui a sonné l’hallali, jeudi, en un article où l’amalgame simpliste n’avait d’égal que le verbe venimeux. Le Monde récidivait dans la foulée – « Dantec s’affiche avec l’extrême droite » - dans l’inénarrable style bolcho-jésuitique qui est le sien. Et c’est d’ailleurs dans ses colonnes que l’on pouvait lire avec stupeur la « réaction » de Patrick Raynal, directeur de collection du pestiféré Dantec, qui enfonçait ainsi l’un de ses poulains en s’estimant « catastrophé, étant contre toutes les opinions » de Maurice G. Dantec. Consternant.

 

Et l’ « affaire Dantec » d’enfler maintenant jusqu’au Canada, où le quotidien La Presse a cru bon d’apporter ses rondins au bûcher. Sans parler d’internet qui voit les sites gaucho-bobos se remplir d’indignation vengeresse. Mais nous concluions lors de notre précédent article que l’écrivain catholique n’était pas du genre à se laisser faire sans combattre. Lui qui pense la littérature comme un combat pour la Civilisation Occidentale chrétienne et se veut un « guerrier du Verbe », ne manque pas de rage et de souffle.

 

Déjà, ses réponses fusent depuis Montréal comme autant de missiles intercontinentaux ! Il y dénonce avec véhémence ces « journalistes » sans déontologie ni métier, leurs « mensonges » « qui prouvent [qu’ils sont] très proches des officines de désinformation gouvernementales ». Il assume ses écrits, avec une belle témérité qui devrait faire honte à tous les lâches du système, chiens couchés, silencieux, aux pieds des inquisiteurs de la grosse presse anarcho-trotstko-bancaire.

 

Mais nous disions aussi, « qui sait s’il ne se trouvera pas de nombreux et inattendus soutiens qui rallieront le labarum archéo-futuriste de ce Constantin de la littérature française ». Et c’est ce qui semble arriver. Déjà, nous savons que de nombreux mails et courriers de fans, issus de tous les milieux et de tous bords, partent en direction de la prestigieuse maison Gallimard (7) afin qu’elle mobilise pour soutenir son auteur. La revue culturelle Cancer ! n’est pas en reste, qui a ouvert une page spéciale sur internet (8) et dont les rédacteurs se solidarisent avec maudit ; le site subversiv.com aussi, qui publie une interview choc de Dantec et bien d’autres encore, dont, évidemment, les militants du Bloc identitaire.

 

On peut aussi imaginer, et nous l’espérons, que ses amis intellectuels et écrivains dits « nouveaux réactionnaires » qui avaient fait naguère crânement face à l’attaque du commissaire politique Lindenbergh, sauront faire preuve de solidarité avec lui. Et puis, la meilleure solution est encore d’aller acheter massivement les œuvres de Dantec, en vente dans toutes les librairies, car dans ce monde hélas dominé par le fric, c’est par le porte-monnaie qu’il faut convaincre le landerneau des lettres que ce genre de lynchage ne nous impressionne plus.

 

Olivier GERMAIN.

 

1. Faut-il brûler Maurice G. Dantec, Présent du 3 octobre 2003

2. Elizabeth Lévy, Lattès, 2002

3. www.voir.ca

4. Gallimard, La Noire, 1999

5. Bloc Identitaire – BP 13 – 06301 cedex 04 et www.les-identitaires.com

6. Mercure de France, 1895

7. Éditions Gallimard – 5, rue Sébastien-Bottin – 75328 Paris cedex 07. presse-serie-noire@gallimard.fr - Tél. : 01.49.54.42.00 Fax : 01.45.44.94.03

8. http://frkc.free.fr/revuec/dantec_nettoyage.htm sur revuecancer.com

 

“Dantec, un catholique futuriste”

 

MD grandjunction.jpgQue cette affaire Dantec est significative ! Que la France et le Québec représentent à la perfection le pire Occident ! Chez nous, une lâcheté endémique, apprise d’abord à la garderie, puis à l’école primaire, où l’on enseigne aux garçons à ne pas être des garçons, où ils sont castrés, n’ont pas le droit de se chamailler, sont traités comme de futurs hommes roses (ou gris), et ainsi de suite jusqu’à l’université. Le système d’éducation du Québec est une vaste entreprise de féminisation du mâle. On extirpe des coeurs toute violence et toute agressivité au lieu de discipliner et d’ennoblir ces instincts à l’origine des vieilles vertus militaires et chevaleresques garantes de la véritable paix et de la sécurité des plus faibles. On construit de cette façon un petit être inoffensif, fatigué, dépressif, aux instincts appauvris, sans résistance, et qui subit toujours. De là, le pacifisme des jeunes. Y a-t-il pire maladie morale ?

 

FAITES LE MORT, PAS LA GUERRE ! Ce défaitisme ignoble nous a été inculqué sur les genoux de nos professeurs. Nos politiciens sont des produits de cette éducation : des chiffes molles sans dignité. Cela c’est nous ! Le Québécois ressemble au dernier homme que redoutait Nietzsche. C’est en ce sens que le Québec est le théâtre des opérations. Le nouvel Adam, le produit glorieux (et ultime) de l’histoire universelle, c’est bien l’homo quebecensis, un homosexuel athée et pacifiste de gauche dont la bouille à la Michel Tremblay attend de se retrouver sur tous les timbres postes de l’Anation québécoise et qui tend les bras à Kofi Annan, pour que soit fondée sur le sinistre modèle québécois l’Anation mondiale ! Le Québec n’est tout entier qu’une maladie. Il est aussi, à sa manière, une prophétie. Pourquoi en sommes-nous arrivés là ? N’est-ce pas parce que nous avons imité la France ? Le totalitarisme cool à la québécoise, la décomposition arrogante, le pourrissement béat de toute une société (et non seulement d’une classe), nous viennent en droite ligne (par la gauche) de nos cousins français. La France et le Québec sont des dissociétés qui se confortent dans l’auto-adulation ("société distincte” ou “spécificité française"), l’antiaméricanisme, l’intolérance branchée, le conformisme culturel, le relativisme moral, le libéralisme extrême, une dépendance psychopathologique aux programmes sociaux, psycho-sociaux, méta-sociaux. La France et le Québec modernes, c’est l’Occident ” délivré ” du christianisme. Une proie facile !

 

Le Québec singe une France en train de crever et j’ose affirmer qu’il a dépassé son modèle. Il est vrai que la crevaison finale, lorsqu’il existe un désir sincère de ne pas être, un goût délicat d’extinction et de mensonge, une identité de plus en plus incertaine, n’est pas une tâche surhumaine. Loin de là ! L’islam dans un contexte pareil est simplement en train de terminer le travail…

 

Plusieurs ont consenti à ce qui apparaît comme une fatalité. Pas Dantec. Il a compris que l’Occident, ses libertés, sa pensée, son art, n’ont nul autre appui que le Dieu chrétien et juif, Créateur et Rédempteur. Il a donc entrepris de mettre fin à la grande crise nihiliste avant que celle-ci ne détruise l’Occident. De quoi l’accuse-t-on au bout du compte ? D’avoir greffé à des propos essentiellement raisonnables un peu de véhémence ? Eh quoi ! Il en faut lorsqu’on essaie de réveiller les morts, c’est-à-dire une gôche qui a tout bradé, l’honneur inclus, ainsi qu’une vieille droite nostalgique, neurasthénique, hystérique et paraplégique, complice de la décadence, à laquelle elle se complaît en un voyeurisme stérile et ambigu !

 

Dantec est un catholique futuriste (je mentionne que l’un des grands convertis du XXe siècle, Giovanni Papini, est issu du futurisme). Appelons catholiques futuristes ceux qui ont réussi la traversée du désert nihiliste pour enfin retrouver la Terre promise, plus splendide qu’aux premiers jours du monde. Et le voilà dans la bataille ! Qu’il est beau, qu’il est émouvant le courage du lion face aux hyènes… On le compare à Louis-Ferdinand Céline. Moi je discerne les ombres de Tertullien et de Léon Bloy, deux théophores, hagiophores, christophores et naophores (j’emploie ici le vocabulaire fastueux de saint Ignace d’Antioche), capables eux aussi d’une salutaire férocité. N’oublions jamais que nous devons affronter une énergie effrénée et vicieuse avec une vigueur virile et rationnelle (” We must meet a vicious and distempered energy with a manly and rational vigour ”, Edmund Burke).

 

Dantec nous réapprend une vertu trop dédaignée, la vertu de force. Il est bon qu’il soit parti de Nietzsche (et mieux encore qu’il ne s’y soit pas arrêté), car la vertu de force est inconsciemment (et quelquefois consciemment) méprisée par plusieurs chrétiens. Ne savent-ils plus que sans elle il n’existe ni véritable paix ni vraie justice ? La mentalité pacifiste et gauchisante est en définitive l’outil idéal pour l’islamisme et ses sbires. La lutte contre l’Islam jihadiste contribuera-t-elle à une renaissance de la France, à l’image de l’Amérique qui, elle, réussira (peut-être) sa Contre-révolution à cause de l’odieuse agression d’Al Qaeda ? L’Amérique croyait à tort avoir apprivoisé l’esprit révolutionnaire avec le libéralisme lockien et jeffersonnien. Elle ignorait que, insatiable, le principe révolutionnaire ne se contente ni de l’individualisme, ni même du collectivisme : on ne satisfait jamais un monstre dont la nature est de toujours répondre oui au mal. Pour lui, the Hell is the limit. Les meilleurs parmi les conservateurs américains ont alors compris que, s’ils ne réagissaient pas, surgirait le règne des égorgeurs, ceux-ci invités, cajolés, soutenus, par l’anomie libérale et qu’il fallait d’urgence que l’Amérique s’enracine à nouveau dans le christianisme natal qui l’a fondée. Quel spectacle et quel combat chez nos voisins du sud ! Le Joseph de Maistre américain, Orestes Brownson, enseignait déjà, en plein XIXe siècle, que le destin de l’Amérique et celui de l’Occident étaient suspendus au mouvement civilisateur universel : l’Église catholique romaine.

 

Aujourd’hui, plusieurs intellectuels américains ont recueilli la leçon du maître. Pendant ce temps, dans la Francité islamophile, le cercle des saddamistes dépités, (l’expression appartient à l’excellent Guy Millière) s’acharne contre le héros qui refuse la fin de la France, malgré la France elle-même. Osons, à la façon de Montalembert, une prédiction : le fils des croisés ne sera pas vaincu par les fils de Voltaire et par ceux de Mahomet. En tout cas, ce n’est pas la lecture, sur le site de Cancer!, des réactions d’Albert Sebag (Le Point) et de Pierre Marcelle (Libération) qui abattront un Dantec. Quel tartuffe que le premier et quel animal venimeux que le second ! Je ne me permettrai qu’une seule remarque à ces adeptes de la non-résistance à l’islam.

 

L’islamophobie, comme ils disent, est un signe de santé. Un chrétien islamophile se dénomme dhimmi (un dhimmi en devenir, comme les Français actuels, ou en fonction, comme les chrétiens du Proche Orient) ! La crainte de l’Islam est traditionnelle en Occident. Elle est en outre parfaitement justifiée par l’histoire et par la théologie. Ce n’est pas Dantec qui fait de Mahomet une des trois grandes figures de l’Antéchrist, c’est le Cardinal John Henry Newman, un exemple suprême d’urbanité (dixit l’incroyant Matthew Arnold) dans la littérature anglaise et l’un des plus grands théologiens depuis saint Thomas. Selon Newman (dans ses sermons sur l’Antéchrist), les trois grandes figures annonciatrices de l’Antéchrist sont Antiochus Épiphane, Julien l’Apostat et Mahomet. Le premier s’attaque spécifiquement à la religion (juive, évidemment). Le second est devenu empereur, quelques années après l’apparition d’une des plus terribles hérésies chrétiennes : l’arianisme. Il a d’ailleurs été éduqué par des Ariens (qui niaient la consubstantialité du Fils avec le Père et donc la divinité du Christ). L’arianisme fut pendant un certain temps quasi tout-puissant dans la chrétienté. On peut soutenir qu’il annonce l’islam et que celui-ci est bien, dans l’esprit de Newman (comme dans celui de Dantec) la grande division (plus importante que la Réforme). En ce sens, il faudrait parler de l’islam comme d’une première modernité (qui se joint en notre temps à la modernité occidentale proprement dite). L’avancée actuelle de l’islam en Europe n’est-elle pas annonciatrice de l’assaut ultime du nihilisme ? Dantec le croit : il a senti l’odeur de la bête.

 

Marcelle met sur le même plan l’antisémitisme et l’islamophobie. L’erreur est manifeste quoique nullement désintéressée ! L’antisémitisme est une abominable hérésie pour un chrétien ou un fils de chrétien, une espèce de marcionisme inconscient, un rejet de l’Ancien Testament, un crime contre la première Personne de la Sainte Trinité. Mais l’islam est l’hérésie par excellence : négation de la divinité du Christ et mépris de l’ordre naturel, une hérésie qui entraîne “la dégradation de la femme, l’esclavage de l’homme et la stérilité de la terre” (Donoso Cortès). Heureusement, il y a quelqu’un quelque part qui veille et qui résiste.

 

Jean RENAUD,

30 janvier 2004

 

Jean Renaud est le Directeur de la rédaction d’Egards, revue de résistance conservatrice - http://www.egards.qc.ca

 

Le droit de réponse de Maurice G. Dantec, REFUSÉ par Libération

 

MD-LRDM-B.gifIl existe un Paradis pour les journalistes. Comme il existe un enfer pour les écrivains.

 

Le paradis des journalistes s’appelle : LA PEUR. Et il conduit très directement à l’enfer des écrivains.

 

La Peur est le véritable maître de l’Homme de presse, c’est par elle qu’il règne, depuis bientôt 200 ans, sur la libre pensée, qu’il écrase de ses bottes à chaque occasion qui se présente. Celle-ci devient de plus en plus en rare. LA PEUR ! Son régime de domination si particulier s’est en effet instauré dans tous les esprits. Tout le monde est le flic de chacun, et de tous, et à commencer par soi-même.

 

Ernest Hello avait su, il y a plus d’un siècle, en quelques lignes fulgurantes, délimiter fermement la ligne de partage entre la peur et la crainte. La crainte c’est ce qui vous force à vous agenouiller devant la plus haute des souverainetés, et en fait elle conduit à la JOIE. La peur, créature du Diable, ne forme au final que des valets, dont l’angoisse est proportionnelle à l’ennui. Aussi, dès que par l’effet d’une sorte de hasard parfaitement impromptu, une voix ressurgit du silence, c’est-à-dire du bavardage continu qu’ils avaient cru une fois pour toute installé sous leur arbitrage, alors leur sang de navet ne fait qu’un demi-tour et leur bouche écume la rage tout juste bouillonnante des petits frustrés.

 

Pierre Marcelle est le chef de ces Archanges dont les merdicules d’encre et de papier mâché auréolent la présence plus sûrement encore que le halo des saints. Il est le Grand Vigile. Le Grand Collaborateur. Il est celui qui veut que les paroles qui sont des actes (je paraphrase à nouveau le grand Hello) cessent, immédiatement, car pour lui, la parole, il suffit de lire sa consternante prose dont on ne voudrait pas comme serpillière à urinoirs pour s’en apercevoir, la parole, pour Marcelle, c’est ce qui se répète, jusqu’à la nausée, dans les colonnes de son torchon.

 

La Peur a un seul ami. Son nom est Mensonge. Par exemple, lorsque ce triste Jdanov du Ve arrondissement se permet de dire que je me suis lié politiquement à un groupe néo-nazi, l’enflure Marcelle ne peut invoquer l’erreur : il commet sciemment un double-mensonge, comme d’autres pratiquent le double fist-fucking. Marcelle avait envoyé quelques sbires faire le sale boulot à sa place il y a une quinzaine de jours. Après tout, pourquoi paye-t-on au lance-pierre, avec des salaires de peóns brésiliens, les pigistes de Libé ?

 

Mais sa petite conjuration n’a trouvé qu’assez peu d’imbéciles pour lui emboîter le pas, mis à part ce qui fut un jour “Le Monde”. Aussi, enragé d’être forcé de constater que toute la France médiatico-culturelle ne le suivait pas comme un seul homme, prêt à brandir la tête de l’infâme au bout de sa pique, Marcelle, son courage ne parvenant pas tout à fait à se liquéfier sous lui, l’a pris à deux mains et l’a répandu dans un article dont la confection et le message rappellent fâcheusement, même certains de ses “amis” s’en sont rendus compte, les méthodes du Die Stürmer ou de la Pravda de la grande époque. Rien, absolument rien ne peut arrêter un Pierre Marcelle. Rien ne peut arrêter le nihilisme de ces petits-bourgeois de gauche, rien ne l’arrêtera, sinon sa propre agonie, qui est d’ailleurs si proche que c’est à se demander si tous ces piaillements ne signifient pas en fait que son heure, enfin, a sonné.

 

Ce qui, bien sûr, augmente d’autant la détresse du Marcelle. Le Marcelle vit dans un Monde qui doit absolument se perpétuer, c’est à dire sous la forme désormais indépassable de la contestation-marchandise.

 

Dans le Monde des Marcelle vous avez le droit d’être tout :

Vous avez le droit d’être homosexuel.

Vous avez le droit d’être athée.

Vous avez le droit d’être communiste.

Vous avez le droit d’être socialiste.

Vous avez le droit d’être écologiste.

Vous avez le droit d’être anarchiste.

Vous avez le droit d’être pro-islamiste.

Vous avez le droit d’être anti-sioniste.

Vous avez le droit d’être libéral.

Vous avez le droit d’être anti-libéral.

Vous avez le droit - et même le devoir - d’être anti-impérialiste.

Vous avez le droit (comprenons-le en fait sous le sens de “devoir") d’être anti-occidental.

vous avez le droit (devoir) d’être anti-capitaliste.

Vous avez le droit-devoir d’être contre toute “survivance de l’ordre ancien” honni.

 

Mais vous n’avez pas, bien sûr, le droit d’être “nazi”, car ce mot-valise fort pratique permet désormais d’enfermer à double tour toute pensée critique dans les oubliettes du déshonneur, mais surtout :

Vous n’avez pas le droit d’être Chrétien, et encore moins Catholique.

Vous n’avez pas le droit d’être Sioniste.

Vous n’avez pas le droit d’être opposé - théologiquement et politiquement, ce qui ne fait qu’un dans cette religion - à l’Islam (sous peine d’être taxé d’islamophobie, cette maladie mentale qui fait, comme en son temps l’anticommunisme, des dégâts sans cesse croissants dans la conscience des européens).

Vous n’avez pas le droit d’engager un dialogue poli, quoique très critique, avec des gens qui ont été enfermés dans le mot-valise des Marcelle.

Enfin, vous n’avez pas le droit de vous émouvoir, avec quelque indignation, de l’existence de centres de viol répandus par centaines dans les “cités” de notre bienheureuse “République”.

 

Les Marcelle ne veulent pas que cela s’ébruite. Car leur Paradis pourrait alors s’écrouler.

 

C’est alors que leur seule amie, la PEUR, entre en jeu. Leur Monde ne pourrait tenir sans elle, car elle est ce qui, pour le moment encore, interdit aux bouches de s’ouvrir. Mais la peur est une physique instable, elle est une créature du diable, les Marcelle s’en croient les commanditaires, ils n’en sont que les manœuvres. Et c’est pour cela que la PEUR, maintenant, leur revient à la face. Quelque chose s’est produit. Quelque chose a désorbité la peur de sa propre balistique quotidienne. Quelque chose a retourné la PEUR contre elle même. Et cette chose, ô Miracle, c’est LA PEUR ELLE-MÊME.

 

Le paradis des Marcelle n’est qu’un simulacre, un PROGRAMME. Il est à peu près aussi réel que la dernière version de SuperMario. Le Monde réel, lui, vit sous sa domination car il croit que c’est ce simulacre, le réel, et lui-même, ne lui a t-on pas assez rabâché, qui est un pur phantasme. Par exemple le type qui se fait cramer trois fois sa bagnole dans l’année vit un PHANTASME. Comme les adolescentes violées en tournantes. Comme les gens qu’on fracasse à coups de pierres parce qu’il n’auront pas donné une cigarette, comme les filles qu’on incendie avant de les jeter dans une benne à ordure.

 

Le Paradis des Marcelle n’est valable que pour les Marcelle, et leurs sous-fifres. Il n’est donc réel que pour eux. Les autres, ces pauvres phantasmes dont l’idiotie est sans cesse moquée et dénoncée par les Maîtres du Simulacron, n’ont souvent - pour survivre dans le grand camp de concentration franco-mondial - comme nourriture de subsistance que des livres. C’est pour cela que l’œil du Grand Vigile est constamment braqué sur ceux qui parviennent encore à en écrire. Car nous parlons de livres, bien sûr, pas de ces objets de consommation jetables, comme les tampons hygiéniques, que précisément la Peur a domestiqué, et propose sans cesse aux citoyens de la “République”.

 

Dans son appendicule où chaque ligne exsude de haine et d’ignorance crasse, le Roi des Marcelle ne me promet rien moins que l’Enfer! Il se fait en cela, benoîtement, l’écho des quelques rumeurs qui ont couru sur internet au sujet de ma possible ”éviction” de chez Gallimard, et qui ont, de fait, créé l’effet papillon que personne n’attendait ! Pauvre Marcelle ! Incapable d’écrire dans une langue française un tant soit peu correcte, il croit pouvoir jouer les florentins de la rue Sébastien-Bottin ! Pauvre Marcelle qui n’a pas compris que LA PEUR que lui et tous ses sbires sans cesse distillent, a mobilisé, par milliers, à ce que je sais, des lecteurs de “Dantec-le-catho-facho” qui ont CRU, en effet - et n’avaient-ils pas toutes les raisons de le faire ? - que LA PEUR, encore une fois, aurait le dessus. Car cette PEUR, c’est celle dont Pierre Marcelle fait entendre régulièrement les jappement lugubres.

 

Ils ont en effet PEUR de toute la clique qui est aux commandes de la culture, tels des Duvalier du carré germanopratin. Ils connaissent son pouvoir de nuisance. Ils vivent eux-mêmes dans la PEUR. Cette PEUR, par je ne sais quelle divine intorsion des éléments, les a alors délivrés d’elle-même. Ils ont dit : NON. Ils ont dit NON, monsieur Marcelle, nous ne voulons pas que “Dantec” rejoigne “l’enfer” dans lequel vous avez jeté déjà tant d’autres écrivains, qui ne pensent pas comme vous.

 

Ils ont dit NON à votre Paradis monsieur Marcelle : vous êtes en effet très puissant. Vous être le valet de la Peur. Regardez maintenant son Maître droit dans les yeux.

 

MgDANTEC,

 

NE PAS SUBIR

Général de Lattre

 

Pour en savoir plus: http://www.egards.qc.ca

samedi, 10 avril 2010

Jünger, los mitos y el mar

Jünger, los mitos y el mar

Ex: http://losojossinrostro.blogspot.com/ 

Me encuentro inmerso en la lectura de “Mitos griegos”, un libro de Friedrich Georg Jünger, el hermano de Ernst, que fue editado en España el año pasado por la editorial Herder. Surcando sus páginas alcancé un pasaje realmente especial, por su extraordinaria fuerza evocadora (al menos por lo que a su humilde servidor respecta). Es precisamente eso lo que hace de ese libro algo interesante; los mitos no se presentan como reliquias del pasado, como equivalencias despojadas de poder fascinador y ambiguo (Apolo=sol, Marte=guerra) y petrificadas por el proceso alegórico. No; los mitos aquí son algo vivo, real, palpitante, pletórico de belleza y terror a partes iguales.

El pasaje está dentro del fragmento que hace referencia a dos titanes, Océano y Tetis. Océano está vinculado, como otros titanes, con los fenómenos elementales. Se relaciona con las aguas, con la corriente universal que envuelve la tierra, con un rumor fluido y pacífico –Océano es el único que no interviene en la lucha entre Crono y Urano- pero también persistente. Siempre es igual a sí mismo y, también como los otros titanes, es presa de un “eterno retorno” (hay un inconfundible eco nietzscheano en la prosa de Jünger). Tetis es su esposa, madre de las oceánides y divinidades del agua.

Pero es cuando habla de Poseidón cuando aparece este pasaje, abismado en la contemplación de las formas marinas:


circunvoluciones y curvaturas. Determinadas criaturas marinas poseen una estructura estrictamente simétrica a partir de la cual configuran formas estrelladas y radiales, imágenes en las que también el agua interactúa con su fuerza moldeadora, radial y estrellada. Otras, como las medusas, son transparentes, su cuerpo entero está bañado en luz y avivado por exquisitos tornasoles. A todo lo nacido en el agua le es propio un esmalte, un color y un brillo que sólo el agua puede conferir. Es iridiscente, fluorescente, opalino y fosforescente. La luz que penetra a través del agua se deposita sobre un fondo sólido que refleja las delicadas refracciones y los destellos de la luz. Este tipo de brillo se observa en el nácar y aún más en la perla misma. Al mar no le faltan joyas, es más, todas las alhajas están en relación con el agua, poseen también una naturaleza acuática que les confiere un poder lumínico. En él los colores son más bien fríos“El reino de Poseidón está mejor ordenado que el de Océano. Es más suntuoso y armonioso. La corriente universal que fluye poderosamente lo encierra con un cinturón, lo encierra como centro a partir del cual la entera naturaleza marítima adquiere su forma (…) Todo lo que procede del mar muestra un parentesco, tiene algo en común que no oculta su origen. Los delfines, las nereidas, los tritones, todos emergen del medio húmedo y su complexión muestra el poder del elemento del que proceden. Las escamas, las aletas, las colas de pez únicamente se forman en el agua y, por el modo en que se mueven, están en correspondencia con la resistencia de las corrientes. Algo parecido muestran las conchas y las caracolas en sus formas planas, en sus y aún así resplandecientes, y se reflejan los unos en los otros. Prevalecen el verde y el azul, oscuros y claros a través de todos los matices. Al agitarse, las aguas se tornan negras y arrojan una espuma color de plata. También allí donde asoma el rojo, o el amarillo en estado puro, el agua participa de su formación.

Al que contempla estas formas admirables y a primera vista, a menudo, tan extrañas, le recuerdan ante todo los juegos de las nereidas. Son los juegos que ellas juegan en las aguas cristalinas, en sus cuevas verdes. Al nadador, al bañista le vienen a la mente estos juegos y lo serenan. La fertilidad del mar oculta un tesoro de serenidad; por mucho que se extraiga de él, siempre permanecerá inagotable. Quien descienda a las profundidades, sentirá el cariño con el que el mar se apodera del cuerpo y lo penetra, sentirá los abrazos que reparte. De la caracola en forma de espiral hasta el cuerpo blanco y níveo de Leucótea, de la que se enamoró el tosco Polifemo cuando la miraba jugar con la espuma de la orilla, todo sigue en él la misma ley. También Afrodita Afrogeneia emergió del mar; su belleza y su encanto son un obsequio del mar.

Del ámbito de Poseidón, del reino de Poseidón depende todo esto. Todo lo que se halla bajo la tutela del tridente tiene algo en común y muestra un parentesco inconfundible, Fluye, se mueve, es luminoso, transparente, cede a la presión y ejerce presión. Se eleva y se hunde rítmicamente, y en su formación revela el ritmo que lo impregna.”

¡Cuántas imágenes ha conjurado este texto en mi imaginación! Recuerdo aquel verano en la Costa Brava, hace ya muchos años, en el que me dediqué casi exclusivamente a recoger erizos de mar entre las rocas; era como una obsesión. Trataba de encontrar algo reconocible entre ese bosquecillo de púas, hasta que finalmente pasaba el dedo por él... y las púas respondían con un parsimonioso movimiento, todas hacia un mismo punto. Probablemente estuve haciendo eso durante horas y horas; alrededor había también estrellas y caballitos de mar, organismos que en su singularidad no pueden más que asombrar a los niños.

Por supuesto, recuerdo también el brillo de los corales y las procesiones de destellos plateados, y recuerdo también su nuca, cuando nadamos juntos aquella noche, hace ahora algo más de un año… el agua acariciaba nuestros cuerpos pero también infundía un terror primordial; era, de nuevo, una danza de sexo y muerte. Hubo otras muchas noches antes en que fuimos mecidos por ese rumor… todas iguales y diferentes a un tiempo.

Ah, me vienen tantas imágenes a la cabeza...

vendredi, 09 avril 2010

Avant-Garde Fascism

Avant-Garde Fascism

antliffAvant-Garde Fascism: The Mobilization of Myth, Art, and Culture in France, 1909–1939
Mark Antliff
Durham and London: Duke University Press,  2007

Mark Antliff, a professor of Art, Art History, and Visual Studies at Duke University, has put together a useful analysis of the cultural-aesthetic memes utilized by French fascists of 1909-1939 to promote their visions of national renewal. Antliff’s analysis focuses on the connection between fascist ideologies and the European avant-garde, which most people would more likely associate with the anti-national left. Antliff is fairly even handed in the book, with the occasional use of scare quotes to express his skepticism/disdain for certain “fascist ideas.”

In contrast, I believe his use of the term “democracy” should always have scare quotes, as “democratic” systems deceive the populace into believing that someone other than self-interested elites are running the show; however, apparently, Antliff and I disagree on our political preferences. Antliff also concludes the book with a line about how the ideas of the French fascists were not able to stem the tide of the “bloodshed” caused by the military aggressions of Hitler and Mussolini (including the invasion of France). Very well. One hopes an academic will write about the real blood that has been shed imposing “equality” on “the people” – either that of the mass-murdering Marxists or the genocidal globalist multiculturalists and their plans for a multiracial West. So much for my complaints about the book. What about fascism and avant-garde aesthetics?

Roger Griffin, in his Fascism (Oxford: Oxford University Press, 1995), famously described fascism as “palingenetic populist ultra-nationalism” – making the elements of renewal, rebirth, and regeneration central to all permutations of this ideology. It is also important to differentiate between real fascism and “para-fascist” ersatz fascism. Para-fascism is often confused with real fascism in the public mind, which gives the false impression that fascism is ossified reactionary conservatism, rather than a revolutionary movement interested in avant-garde themes and ideas.

The differences between real revolutionary fascism and para-fascism are easily summarized: Para-fascist regimes are authoritarian, traditionalist, reactionary regimes, often military dictatorships, that fossilize a status quo favoring traditional elites of business, nobility, religion, and the military. Such regimes want nothing to do with the revolutionary and palingenetic aspects of true fascism; the idea that the secular religious, Futuristic, and avant-garde characteristics of, say, (early) Italian Fascism has anything to do with Franco’s Spain or Pinochet’s Chile is absurd.

fortunato_depero_1945Indeed, as Griffin makes clear, fascists and para-fascists are usually, by their very nature, bitter enemies. While para-fascists may co-opt some superficial characteristics of their fascist opponents, in power they tend to ruthlessly suppress the expression of revolutionary fascism. When para-fascism attempts to co-opt fascism by sharing power – as Antonescu attempted in Romania with the Legionaries — conflict is inevitable, since the objectives of the two parties are completely different: para-fascist ossification vs. fascist palingenetic regeneration. Thus, in Romania, civil war between para-fascists and fascists led to the victory of the para-fascists, and the exile of the fascist forces. The idea that Antonescu was “fascist” is a byproduct of either ideological ignorance or ideological mendacity, a Marxist desire to strip their fascist competitors of revolutionary dynamism and reduce them to mere “bourgeois hooligans.”

Not all fascisms were equally “fascist” and revolutionary, and even individual fascist movements have oscillated between revolutionary ideals and borderline reactionary para-fascism.

For example, Italian fascism went through three distinct phases. In the years before the seizure of power and in the first half-dozen years of Mussolini’s regime, Italian fascism was in its “purest” form – revolutionary and palingenetic – emphasizing the regeneration of the Italian people and the Italian nation-state. Avant-garde themes and theorists, particularly Futurism, were important in this period, and individuals such as Marinetti were influential in early day Italian fascism.

However, the forces of reaction and of compromise with the establishment were always present; the presence of the King and the Vatican were two impediments to the process of “fascistization” that Mussolini could not, or would not, deal with. In the end, the Concordat was a turning point and the regime’s second phase veered to the “right” in the 1930s, becoming more conservative and reactionary, replacing internal regeneration with external imperialism. Without WW II, chances were good that Italian fascism would have degenerated into a stagnant para-fascist regime similar to that of Franco’s Spain.

Military defeat and the overthrow of Il Duce stopped that process; in the last and third phase of Italian fascism, the “Salo Republic,” the ideology shifted to the left, embracing a militant socialism, and becoming overtly pan-European in scope.

What about the Hitler and the Nazis? There has been some debate as to whether German National Socialism was a form of fascism. It seems to me obvious that it was; that differences existed between the Italian and German forms of fascism is not an argument against that conclusion. All genuine fascisms displayed important differences, yet still contained within themselves the core components of Griffin’s “palingenetic populist ultra-nationalism.”

In the case of National Socialism, the palingenesis was biological; Nazism was a heavily racialized and materialist form of fascism. The German National Socialists were tribalistic in worldview rather than Futurist, and, internal debates aside; Hitler himself was very hostile to the European avant-garde.

Thus, key differences between fascist forms are observed. The German brand had the biopolitical advantage of recognizing the importance of race. On the other hand, the Italian brand had the sociopolitical advantage of a more optimistic Futurist orientation, and was more open-minded with respect to tapping into the cultural energies created by the avant-garde artistic and sociopolitical movements extant in the first decades of the twentieth century.

eur-sq-colosseoIn some sense, perhaps the “purest” brand of fascism was that of Codreanu and his “Legion of the Archangel Michael,” also known as the Iron Guard. This intensely palingenetic movement emphasized spiritual and moral regeneration to create a Romanian “New Man” to lead the nation to a higher level and fulfill the destiny of the Romanian people. This highly “virulent” form of “palingenetic populist ultra-nationalism” proved itself unable to co-exist with Antonescu’s conservative authoritarian para-fascism; the Legionary movement’s attempt to seize full power for itself (rather than share it with para-fascists; this sharing was correctly seen by the Legionaries as being an emasculating compromise of their ideology) was crushed by the para-fascist military apparatus.

Three fascisms, three different movements. But the revolutionary energies unleashed by these ideologies stand in sharp contrast to the moribund and ossified conservatism of the para-fascists. The political/cultural avant-garde (Italian), the biological-racialist (German), and the spiritual/moral (Romanian) components of these fascisms are important to us today.

And it is probably wrong to separate out the avant-garde mindset as being only applicable to the political/cultural sphere. After all, we really do need new, cutting-edge memes with respect to both materialist race and non-materialist morality. To quote a certain pro-fascist poet: “Make it new!”

Mostra 1933With respect to Antliff’s book itself, chapter topics include Sorelian myth and anti-Semitism, and the fascistic politics of Valois, Lamour, and Maulnier. The importance of Sorelian myth was underscored by a recent Michael O’Meara piece that appeared on TOQ Online. Antliff stresses that culture and aesthetics were extremely important to Sorel in his quest to formulate a doctrine of instrumentally utilizing myth to overturn the hated rationalist-capitalist-democratic system. Art is part of this aesthetic emphasis and, truth be told, Sorel focused on culture over politics; indeed, he was scornful of the power of the myth being used and squandered for low-level political aims.

Further, Sorel went through a distinctly “anti-Semitic” phase, in which Jews were considered the exemplars of ultra-rationalist anti-creators, whose worldview set them in opposition to native peoples and native cultural expressions and aesthetics. Opposing the pro-Dreyfus “French” journal La revue blanche, Sorel sarcastically referred to the journal’s Jewish founders as “two Jews come from Poland in order to regenerate our poor country, so unhappily still contaminated by the Christian civilization of the seventeenth century.” Sorel accused Jewish intellectuals of wanting to promote an abstract (i.e., non-ethnic, non-national, non-cultural) concept of (French) citizenship and to also promote “cosmopolitan anarchy.”

Related to this “anti-Semitism,” Sorel admired and promoted the Classical World; the values of classical heroes, such as the Greeks at Thermopylae, were something counterpoised against the Jewish ethic and the degeneration of parliamentary democracy.

Sorel considered art as related to the creativity of work, a creativity that he wished to inculcate into the “productive workers” in place of assembly line mass capitalism and rationalized “one man-one vote” democracy. He also considered an enlightened “proletariat” as being able to reinvigorate a stagnant bourgeoisie through class conflict.

Georges Valois, 1878–1945

Georges Valois, 1878–1945

Georges Valois (born Alfred-Georges Gressent) went through a wide variety of ideological contortions in his lifetime, from fascism to “libertarian communism,” ending up dying in a Nazi concentration camp after being captured as a member of the “French Resistance.” While such an unbalanced individual represents much of what is wrong with the “movement” (changing your mind is one thing – completely switching your worldview from one moment to the next is another), some of his activities during his “fascist stage” are of interest.

Particularly enlightening is the focus on the urbanism of Le Corbusier, which stands in contrast to much of the American “movement” and its anti-urbanist emphasis on militant ruralism. No doubt, in the West today, the city is an anti-white, anti-Western disaster, full of racial enemies. No doubt as well that throughout much of human history, the city was an unhealthy and sterilizing place, inimical to racial survival and racial progress.

However, in our modern technological age, if we can solve our racial problems, the city itself does not necessarily have to be a racial evil. As part of a natural continuum of human ecologies – isolated rural, rural, suburban/town, small city, larger cities, etc. – the city may play an important role in the Futurist racial ethnostate of tomorrow, a place of technological advancement, racially healthy avant-garde memes, and sociopolitical dynamism. Racial nationalism can and should be reconciled to a certain degree of urbanism – not the urbanism of degeneration, but that of regeneration.

This of course underlies a schism within activism that often goes unnoticed – between modernist, technological tribalist-racialist Futurism and a ruralist anti-technological ecotribalism. It is clear that the French fascists described by Antliff for the most part fall into the first group. Thus, a major divide exists between the Futurist-Modernist fascists (think Marinetti in Italy) and the ruralist soil-oriented romantic past-oriented fascists (think Darre in Germany, or the agrarian-nostalgic Vichy regime in France).

Of course, a healthy society needs both worldviews, and in practical terms a balance is required. For example, Valois incorporated a “love for the native soil” along with his Futurist mindset. Indeed, Valois contrasted “Asiatic nomadness” associated with communism with the “Latin sedentary” style — derived from “cultured Roman legions” — of the French, tied to the native soil and inclined to fascism. He also associated the hated nomadic lifestyle with capitalism, since hyper-rational capitalism uprooted the workers from grounding in an organic society and turned them into atomized, rootless “nomads.”

A related issue is the relationship between Futurism and the veneration of the past. Antliff makes clear that the emphasis on the past in fascism (e.g., the Greco-Roman classical world) was not meant to mean turning back the clock and shunning progress. Instead, this look to the past was, paradoxically, futurist, in that the fascists wanted to take from the past certain noble values and behaviors and use these to help build the modern, technological world of tomorrow. Therefore, one need not discard the past to build a new future, but judiciously use elements of the past as necessary building blocks for the projected futurist edifice. Different strands of fascist thought need not be incompatible, just as common ground must be found between the tribalist futurist and tribalist ruralist strands of modern racial nationalist thought.

Another French fascist, Philippe Lamour, also went through many ideological “twists and turns,” ultimately rejecting fascism in favor of anti-fascism and syndicalism. Lamour originally represented the fascist variant of “machine primitivism” – that is, an anti-rationalist “new consciousness attuned to the dynamism of technology.” Thus, urban industrialism, technology, productivity, and futurist modernism need not be associated with “rational” egalitarianism but with tribalistic fascism. Lamour wished to create a “community of producers” integrating the different classes of French society to overturn liberal democracy in favor of a modernist technologically dynamic fascist state.

Early French fascists such as Lamour also promoted the idea of a European federation, and attempted to make common cause with more pan-European and “leftist” German National Socialists, such as the Strasserian “Black Front,” who favored European cooperation as opposed to Hitler’s hegemony through military conquest. Not coincidentally, before he fell into Hitler’s orbit, Mussolini also favored an alliance of European (fascist) states, promoted through the doctrine of “Roman Universality,” with practical expression through events such as the pan-fascist Montreux conference.

Lamour’s greatest contribution to French fascism was the promotion of the “conflict of generations,” pitting the younger fascistic generation of WW I against the older generation of parliamentary democrats. This latter group was seen as being out of touch with the new age of national regeneration, avant-garde culture and politics, Sorelian myth, as well as technological productivity. Lamour and his “war generation” were at the forefront of the battle of youth vs. the image of fossilized reactionary status quo politicians.

Aesthetically, the work of German artist Germaine Krull and even Soviet filmmaker Sergei Eisenstein influenced the avant-garde sensibilities of “machine primitive” young French fascists such as Lamour. Antliff summarizes Lamour’s unique contribution to the ideology of interwar French fascism as the melding of “machine aesthetics” to the concept of generational warfare. Thus, to Lamour, technological dynamism and the replacement of the ossified previous generation with fresh youth were the Sorelian myths required to spark an era of national renewal.

Thierry Maulnier, 1908–1988

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Thierry Maulnier (born Jacques Talagrand), author of “Crisis Is in Man,” had as his concept of Sorelian myth “classical violence.” Within the journal Combat, Maulnier and colleagues opposed the leftist French Popular Front’s Marxist-themed “culture” with their own view of aesthetics in architecture and sculpture. Antliff describes Combat’s as focusing on “three interrelated spheres: political institutions, human spirituality, and aesthetics.” The classicism of the Maulnier school promoted the idea of a “synthesis of Dionysian energy and Apollonian restraint.”

Politically, Maulnier wished for a form of French fascism that rejected parliamentary democracy but which still supported the rights and aspirations of the individual, as opposed to what was perceived as the more authoritarian and collectivist societies of Fascist Italy and National Socialist Germany. These distinctions between French and other fascisms became more salient after Mussolini fell into Hitler’s orbit and became hostile to French national interests. Indeed, before the start of WW II, Maulnier advocated a “minimal fascist program” for France that would be both a short-term “fix” to bolster the French military for confrontation with the Axis, as well as preparation for the long-term and permanent fascistic remodeling of society after the Axis threat had dissipated.

It must be noted that the Valois, Lamour, and Maulnier fascist ideologies, while linked together by a palingenetic call for national renewal and a rejection of parliamentary democracy, did differ in important ways. In particular, the classicism of Maulnier can be contrasted with the militant futurism and “machine primitivism” of Lamour. Although Antliff stresses that the French fascist focus on the classical world does not necessarily imply a rejection of modernism per se, the specific differences between Maulnier and Lamour were the greatest of any of the individuals profiled by Antliff. Valois and Lamour both embraced the image of “industrial production” as a central motif of their ideology; however, while Lamour spun together a myth of generational conflict, Valois instead emphasized a “spirit of victory” in which the heroism of WW I will now be turned to a battle of the entire nation to create an organized fascist-industrial society. Of these three men, it was Lamour who was the most steadfastly “avant-garde” in cultural-aesthetic orientation, Maulnier the least.

Crude ethnic stereotyping may lead one to conclude that an emphasis on art, culture, and aesthetics in the creation of fascist ideology was (and is) a particularly “French” phenomenon. Of course, other fascist movements were concerned with these issues, sometimes to a significant extent, but none of them incorporated such memes into the core of the political thinking as did French fascist thinkers. Indeed, the cultural-aesthetic emphasis of the French strain of fascism is a breath of fresh air after immersion in the more focused political thought of the Italian Fascists and the racialist ideals of the German National Socialists.

In fact, all three areas of focus – cultural-aesthetic, political, and racialist – are required for a complete memetic complex to promote fascistic ideals. As a biological reductionist, I would emphasize the racialist first of all, but doing so with respect to modern genetic science rather than the sort of quackery that passed as “racial science” under the Nazis. However, biological racialism by itself is not enough. Without an edifice of political and cultural-aesthetic memes, the foundation of ultimate interests will go nowhere.

Related to this issue of political aesthetics, I was impressed by Alex Kurtagic’s analysis of “semiotic systems” and the importance of style in shaping perceptions of status within nationalist memes. This is important. Of course, the enemy will, as a matter of course, attempt to oppose this approach through co-option and/or mockery.

Co-option is a problem for any memetic threat to establishment power; for example, the GOP has effectively co-opted “rightist, racist” concerns through the exploitation of “implicit whiteness.” This strategy has enabled the Republicans to retain white support while at the same time moving continuously leftward in the direction of overtly anti-white policies.

Thus, while aesthetics and style are important, they always must be innately linked to content to prevent the establishment from utilizing the same semiotic systems to promote the exact opposite of our objectives. Dealing with co-option will be difficult, and it is crucially important that the problem be analyzed from the beginning in a proactive fashion.

In other words, right from the start, the construction of unique avant-garde racial-nationalist semiotic systems must incorporate strategies for preventing co-option and dealing with co-option if these preventive measures fail. Therefore, we must identify, in advance, as many problems with each approach as possible, and develop multiple contingency plans for dealing with each emergent counter-move of the establishment.

Mockery is also a problem; the establishment, utilizing its control of the mass media and its stable of celebrity puppets, can subject any racial-nationalist semiotic system to a barrage of withering ridicule. It is important that the elitist and superior nature of the system be of sufficient strength that adherents can turn around such ridicule and assert it as a matter of pride and not shame. In other words, the establishment ridicule itself must be mocked as the pathetic attempts of a dying and out-of-touch system to delegitimize a novel movement of which they are afraid.

Again, careful planning is required to plan against the establishment’s ridicule strategy, but if both co-option and mockery can be successfully dealt with, the semiotic-aesthetic strategy has a chance to achieve its objectives. And those objectives are, in essence, to defuse the “social pricing” attacks of the establishment against racial-nationalist activists and adherents, by providing an alternative value system opposed to, and independent of, establishment standards and acceptance.

In summary, Antliff has dissected a particularly interesting and heretofore unexplored strain of French fascism characterized by an embrace of avant-garde cultural concepts, modernism, Futurism, productivity and the planned society, urbanism and industrial technology, exemplified by so-called “machine primitivism.”

With today’s worries of “peak oil,” and concerns that the multiracial West will collapse, visions of decentralized ruralistic tribalism have again become prominent in nationalist thought. However, the white man is endlessly inventive, and free of the shackles of genocidal globalist multiculturalism, the technological genius of whites, so unleashed, may provide the foundation for a Futurist, technologically advanced and tribalist society. Such a society would have options for both the urbanist technological and ruralist agrarian lifestyles for those whose preferences are for one or the other.

Although I am sure he is an “anti-fascist,” Antliff’s work helps us to consider one technological Futurist option. The major conclusion from both Antliff’s and Kurtagic’s analyses is that staid and conformist methods for sociopolitical activism may be best replaced, at least in part, by avant-garde memes that let some “fresh air” into stale “movement” environs.

Published:

mardi, 06 avril 2010

Louis-Ferdinand Céline par Ioannis Mouhasiris

Louis-Ferdinand Céline par Ioannis Mouhasiris