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mardi, 06 avril 2010

La corrispondenza tra Julius Evola e Gottfried Benn

La corrispondenza tra Julius Evola e Gottfried Benn

Autore: Gianfranco de Turris

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

benn_mikroskop_dla.jpg L’accusa più scontata che l’intellighenzia ufficiale lancia contro Julius Evola è quella di essere un “nazista”, più che di essere stato (come innumerevoli altri uomini di cultura italiani) un “fascista”. Accusa ovvia e prevedibile, ma superficiale, che si basa su alcune apparenze: il suo retroterra culturale che si rifaceva ad una certa filosofia tedesca (a partire da Nietzsche); il suo essere caratterialmente più “tedesco” che “italiano, il suo interessamento tra le due guerre per far conoscere nel nostro Paese una certa cultura di lingua tedesce (da Bachofen a Spengler a Meyrink); i suoi contatti con la Germania del Terzo Reich; il suo aver ricordato come avesse conosciuto Himmler, visitato ai castelli dell’Ordine, tenuto conferenze in ambienti diversi come l’Herrenklub da un lato e le SS dall’altro; l’aver scritto articoli sulla politica estera, interna, culturale ed economica della Germania nazionalsocialista e sulle stesse SS (articoli di cui si ricordano gli eventuali apprezzamenti ma non le innumerevoli riserve critiche); e così via. Da tutto questo sfondo gli orecchianti derivano l’etichetta appunto di “nazista”: raramente si va alle fonti e si leggono nel loro complesso, a partire almeno dal 1930, con articoli e saggi su “Vita Nova” e “Nuova Antologia”, sino agli interventi su “Il Regime Fascista”, “Lo Stato” e “La Vita Italiana” del maggio-luglio 1943.

Visione aristocratica

Julius Evola non fu né “fascista” né “antifascista” (come già scriveva polemicamente sul suo quindicinale “La Torre” all’inizio del 1930), e di conseguenza non fu poi né “nazista” né “antinazista”: fu allora un incerto, un attendista, un ipocrista, un – come si suol dire – “pesce in barile”? No: del fascismo, e quindi del nazismo, accettò quelle idee, tesi, posizioni, atteggiamenti, scelte pratiche che si accordavano con quelle di una Destra Tradizionale e, poi, di quella che è stata definita la Rivoluzione Conservatrice tedesca. Una visione all’epoca ghibellina, imperiale, aristocratica che – se pur “utopica” – lo allontanava di certo dalla Weltanschauung populista “democratica” e “plebea” del fascismo ma soprattutto del nazismo, il cui materialismo biologico gli era del tutto insopportabile. Non si tratta di giustificazioni a posteriori, come qualcuno ha malignamente pensato leggendo le pagine de Il cammino del cinabro (1963), dato che Evola non è quello che oggi si suol dire un “pentito”: non ha mai rinnegato o respinto nulla del suo passato; anche se ha rettificato e preso le distanze da alcune sue posizioni giovanili (tutti dimenticano quel che scrisse circa Imperialismo pagano del 1928: “Nel libro, in quanto seguiva – debbo riconoscerlo – lo slancio di un pensiero radicalistico facente uso di uno stile violento, si univa ad una giovanile mancanza di misura e di senso politico e ad una utopica incoscienza dello stato di fatto”: non “pentimento” bensì logica maturazione di un uomo di pensiero). E che non si tratti di giustificazioni, lo stanno a dimostrare i documenti che nel corso degli anni, dopo la sua morte nel 1974, vengono lentamente alla luce dagli archivi pubblici e privati italiani e tedeschi. Da essi emerge un Julius Evola tutt’altro che “organico al regime” come addirittura si è scritto, ma nemmeno tanto marginale come si credeva: un saggista, giornalista, polemista, conferenziere che proseguì tra alti e bassi e che, dopo la crisi del 1930 con la chiusura de “La Torre” e la sua emarginazione, accettò di avvicinarsi a personaggi come Giovanni Preziosi, Roberto Farinacci, Italo Balbo, cioè si potrebbe dire i fascisti più “rivoluzionari” e “intransigenti”, per poter esprimere le proprie idee critiche al riparo di quelle nicchie, agendo come una specie di “quinta colonna” tradizionalista per tentare l’utopica impresa di “rettificare” in quella direzione il Regime: e così iniziò a scrivere a partire dal marzo 1931 su “La Vita Italiana”, dal gennaio 1933 su “Il Corriere Padano” e “Il Regine Fascista”, e quindi – uscito dal “ghetto” dei caduti in disgrazia – dall’aprile 1933 su “La Rassegna Italiana”, dal febbraio 1934 su l’autorevole “Lo Stato” e sul “Roma”, dal marzo 1934 su “Bibliografia Fascista”.

Sorvegliato speciale

Nonostante ciò Evola venne costantemente sorvegliato dalla polizia politica sia in Italia che all’estero: la corrispondenza controllata, gli amici che frequentava identificati (anche le amiche), le sue affermazioni in confidenza riferite, varie volte gli venne tolto il passaporto per le cose assai poco ortodosse che andava a dire sul fascismo e nazismo nelle sue conferenze in Germania e Austria. Come risulta dai documenti ormai pubblicati dei Ministeri degli Esteri e dell’Interno del Reich e da quelli provenienti dall’Ahnenerbe, era appena tollerato: non era un vero nemico, ma le sue idee non venivano apprezzate dai vertici nazionalsocialisti, dato che era considerato un “romano reazionario” che aspirava a far “sollevare l’aristocrazia” e non accettava molto il riferimento tedesco a “sangue e suolo”.

Un’adesione molto critica, dunque, quella di Julius Evola tale da non poterlo semplicisticamente definire né un “fascista”, né un “nazista” di pieno diritto. Il suo punto di riferimento era invece la Konservative Revolution ed i suoi esponenti dell’epoca. Sentiamo le sue stesse parole tratte da Il cammino del cinabro: “Già l’edizione tedesca del mio Imperialismo pagano, dove le idee di base erano state staccate dai riferimenti italiani, aveva fatto conoscere il mio nome in Germania negli ambienti ora indicati. Nel 1934 feci il mio primo viaggio nel nord, per tenere una conferenza in una università di Berlino, una seconda conferenza a Brema nel quadro di un convegno internazionale di studi nordici (il secondo Nordisches Thing, promosso da Roselius) e, cosa più importante di tutto, un discorso per un gruppo ristretto dell’Herrenklub di Berlino, il circolo della nobiltà tedesca conservatrice la cui parte di rilievo nella politica tedesca più recente è ben nota. Qui trovai il mio ambiente naturale. Da allora, si stabilì una cordiale e feconda amicizia fra me e il presidente del circolo, barone Heinrich von Gleichen. Le idee da me difese trovarono un suolo adatto per essere comprese e valutate. E quella fu anche la base per una mia attività in Germania, in seguito ad una convergenza di interessi e finalità”.

Altri contatti e collegamenti in quest’area conservatrice furono con il filosofo austriaco Othmar Spann e il principe Karl Anton Rohan, sulla cui “Europaische Revue” Evola aveva esordito sin dal 1932 e su cui continuò a pubblicare sino al 1943. Si tenga conto dell’anno. Il 1934 fu importante: dal 2 febbraio usciva il quotidiano di Cremona “Il Regime Fascista” una pagina quindicinale intitolata con stile tipicamente evoliano “Diorama Filosofico. Problemi dello spirito nell’etica fascista”, pubblicato con varia periodicità e interruzioni sino al 18 luglio 1943.

Mancano ancora studi complessivi su una iniziativa che fu unica nel Ventennio come intenti e complessità: un vero e proprio progetto culturale con cui Julius Evola intendeva esporre costruttivamente e criticamente il punto di vista della Destra tradizionale e conservatrice rispetto al fascismo. Su quella pagina scrissero molti autorevoli esponenti della cultura europea di tale tendenza: italiani, ma anche tedeschi, austriaci, francesi, inglesi. Fra i tedeschi anche il medico e poeta Gottfried Benn, con cui Evola era in contatto epistolare a quanto pare sin dal 1930.

Nella prima metà del 1934 uscì anche l’opera principale che Julius Evola aveva scritto – incredibilmente e per l’età e per l’attività che in quel momento stava svolgendo – fra il 1930 e il 1932: Rivolta contro il mondo moderno presso Hoepli; e venne effettuato quel viaggio in Germania ricordato nell’autobiografia. Durante la tappa berlinese vi fu il primo incontro diretto con Benn: molti erano i punti in comune fra il medico-scrittore, che era di dieci anni più vecchio di Evola (era nato nel 1886 e sarebbe morto nel 1956), e quest’ultimo. Di Benn si tende og gi a mettere in risalto il suo aspetto nichilista, ateo e astratto dagli aspetti più orribili della realtà umana, e si tende a dimenticare il suo apporto alla Rivoluzione Conservatrice tedesca. Sta di fatto che il contatto fra Evola e Benn ad una certa comunanza di idee portò ad un famoso saggio-recensione alla traduzione tedesca di Rivolta che apparve sul fascicolo del marzo 1935 della rivista «Die Literatur» di Stoccarda. È una specie di “canto del cigno” in cui Benn espone le sue idee e concorda con la «visione del mondo» evoliana: infatti, quello fu “il suo ultimo testo in prosa pubblicato sotto il Terzo Reich”, perché in seguito Rosenberg e Goebbels gli vietarono di scrivere alcunché. Recensione di profonda analisi di cui Evola stesso riconosceva l’importanza e volle porre in appendice alla sua raccolta di saggi L’arco e la clava (Scheiwiller, 1968), mentre adesso sarà posta in appendice alla nuova edizione di Rivolta che uscirà entro il 1998. Egli stesso amava ricordare soprattutto una frase: “Un ‘opera, la cui importanza eccezionale apparirà chiara negli anni che vengono. Chi la legge, si sentirà trasformato e guarderà l’Europa con un sguardo nuovo”.

“Rivolta” in Germania

Ora a confermare e precisare i rapporti Evola-Benn vi sono tre lettere del primo al secondo che sono state rintracciate da Francesco Tedeschi, studioso soprattutto dell’Evola artista, nello Schiller-Nationalmuseum Deutsches Literaturarchiv (Handschriften Abteilung) di Marbach, e che qui si pubblicano grazie alla sua fattiva collaborazione e al suo consenso: due manoscritte sono del 30 luglio e del 9 agosto 1934, una dattiloscritta del 13 settembre 1955 e se ne dà la traduzione integrale dovuta a Quirino Principe. Dai primi due scritti emergono alcuni fatti noti ed un altro assolutamente nuovo: i fatti noti sono che Benn ed Evola già si conoscevano almeno per lettera (“Ella ha ripetutamente mostrato un cordiale interesse per le mie fatiche”: 20 luglio), che sono effettivamente incontrati nel corso del viaggio evoliano in Germania (“Le sarei molto obbligato se ella mi offrisse le possibilità di punti di vista e di una più lunga conversazione tra noi due”: 9 agosto), che esisteva un reciproco apprezzamento su una medesima Weltanschauung “conservatrice” o “tradizionale” (“l’assoluta competenza che a mio giudizio Ella possiede su questi argomenti e la Sua grandissima conoscenza e intelligenza delle tradizioni cui io mi ricollego”: 20 luglio), che entrambi non si riconoscevano nel nazismo da poco salito al potere (“sono sempre più convinto che a chi voglia difendere e realizzare senza compromessi di sorte una tradizione spirituale e aristocratica non rimanga purtroppo, oggi. e nel mondo moderno, alcun margine di spazio; a meno che non si pensi unicamente a un lavoro elitario”: 9 agosto).

Il fatto nuovo e di enorme interesse è nella richiesta avanzata da Evola il 20 luglio, e accettata da Benn nella sua risposta (che non possediamo) del 27 luglio, di “sottoporre a revisione il manoscritto della traduzione” tedesca di Rivolta effettuata da Friedrich Bauer. Il particolare era del tutto sconosciuto ed Evola non ne ha mai parlato anche se esso – la revisione linguistica da parte di un poeta noto e apprezzato come Gottfried Benn – avrebbe potuto dare lustro al suo maggior libro. Non pare ci siano dubbi che tale revisione sia stata effettivamente compiuta, non tanto per i ringraziamenti alla “gentilissima intenzione” (9 agosto), quanto per il fatto che si danno specifici riferimenti sul manoscritto della traduzione stessa presso la casa editrice tedesca e, si può dedurre, per l’ampio interesse manifestato da Benn con la recensione su “Die Literatur” (il libro aveva dunque visto la luce entro il marzo 1935): non solo, allora, adesione alla “visione del mondo” esposta nell’opera, ma anche l’averla considerato come un testo al quale – per averne rivista la traduzione – si è particolarmente vicini. Un nuovo tassello che si aggiunge a comporre il quadro (ancora incompleto) del rapporto fra Julius Evola e la cultura conservatrice tedesca fra le due guerre. Si può quindi immaginare che il contatto epistolare con il medico poeta sia continuato ma per ora non se ne hanno altre tracce.

Ci si sposta allora in avanti di vent’anni, al 1955. La lettera del 13 settembre s’inquadra nel tentativo del filosofo di riprendere i contatti proprio con quegli esponenti anticonformisti che aveva conosciuto negli anni Trenta e Quaranta: si sa che nel 1947 aveva scritto a Guénon, nel 1951 a Eliade e Schmitt, nel 1953 a Jünger, per ricollegarsi ad un discorso intellettuale interrotto dagli eventi bellici, ma anche per proporre traduzioni dei loro libri in italiano, dato che potevano essere utili per una nuova Kulturkampf. Spesso le sue aspettative andarono deluse: non tutti erano rimasti fermi su certe idee, ovvero non ritenevano opportuno il momento per ricordarle, a causa dell’ombra negativa che ancora si stendeva su di loro dopo il 1945. E proprio per i suoi “recenti successi letterari” Benn non intese forse rispondere a quello che era stato un po’ più di un conoscente, dato che non risultavano altre lettere di Evola nel Nationalmuseum: sicché, si deve pensare che gli “antichi rapporti” non vennero ripresi. Certo è che Evola non faceva mistero di essere rimasto lo stesso (“Io sono sempre rimasto sulle mie antiche posizioni, per quanto riguarda l’orientamento intellettuale e i miei interessi prevalenti”) e non è detto che tali precisazioni non siano state controproducenti …

Quel che è invece un po’ singolare è il non ricordare a dovere il tipo di rapporti intercorsi vent’anni prima: non solo l’incontro a Berlino, ma la reciproca conoscenza delle opere e la questione di Rivolta. Il mancato accenno alla revisione della traduzione, ma anche al saggio su “Die Literatur” (poi però fatto pubblicare tredici anni dopo in appendice a L’arco e la clava, come si è già ricordato) è dovuto ad una défaillance mnemonica, o magari ad un senso di opportunità, per non imbarazzare forse il medico-poeta? È anche vero che Benn sarebbe morto solo dieci mesi dopo, il 7 luglio 1956, a settant’anni, e quindi ogni illazione può essere valida. Così come resta aperta ogni ipotesi sul perché Julius Evola, sia nelle lettere private, sia nel la sua autobiografia pubblica, abbia dimenticato molti episodi e personaggi importantissimi nelle vicende della sua vita: e non certo in senso positivo, tali da accrescere l’importanza della sua opera complessiva. Forse normalissimi vuoti di memoria come possono accadere a tutti, ma forse anche quella tendenza “impersonale” a minimizzare un certo suo lavoro conferendo così poca importanza – tanto da non ritenere che certi particolari valessero la pena di essere citati – a determinati momenti della sua vita. Sta di fatto, comunque, che queste lettere a Gottfried Benn riempiono in modo significativo una delle tante lacune che ancora rimangono per ricostruire compiutamente l’intensa vita di Julius Evola.

Note

(1) Il cammino del cinabro, Scheiwiller, Milano, 1972, p.79.
(2) Heidnischer Imperialismus, Armanen Verlag, Lipsia, 1933.
(3) Cioè, da un lato gli esponenti della “tradizione prussiana” e dall’altro la corrente di quegli scrittori, come Moeller van den Bruck, Bluher,
Jünger, von Salomon e così via, che era stata definita Rivoluzione Conservatrice.
(4) Il cammino del cinabro cit., p.137.
(5)
Alain de Benoist, Presenza di Got!fried Benn, in Trasgressioni n.19, 1990, p.84.
(6) Circa la Rivolta scrive
Evola a Giuseppe Laterza in una lettera da Karthaus in Alto Adige del 16 settembre 1931: “Sono in via di ultimarlo, quindi non so precisamente circa la sua lunghezza … “ (cfr. La Biblioteca ermetica, a cura di Alessandro Barbera, Fondazione J. Evola, Roma, 1997, pp.57-58).
(7) Lionel Richard, Nazismo e cultura, Garzanti, Milano, 1982, p.280.
(8) Cito in Il cammino del cinabro cit., p.138.

* * *

Tratto da Percorsi di politica, cultura, economia (6/1998).

vendredi, 02 avril 2010

Bulletin célinien n°318

Le Bulletin célinien n°318 - Avril 2010

Au sommaire:
- Marc Laudelout :
Bloc-notes
- *** : Ce 1er juillet 1961…
- Kléber Haedens : Ce qui maintenant commence… [1961]
- M. L. : 1940, du désastre à l’espoir
- Bente Karild : Un ultime témoignage
- Gilles Roques : Quelques lectures de Céline au Cameroun en décembre 1916
- Claude Duneton : Céline et la langue populaire
- Frédéric Saenen : Basta cosi !
Un numéro de 24 pages, 6 € franco.
Le Bulletin célinien
B. P. 70

B 1000 Bruxelles 22
Belgique

Le Bulletin célinien n°318 - Bloc-Notes

Dans une récente chronique, l’avocat Jacques Trémolet de Villers évoque le Céline pamphlétaire : « Quand Céline blague, il le fait dans une outrance verbale, et dans un chant qui, par le style même, détruit ce qui pourrait paraître une horrible et désastreuse théorie : que le monde moderne serait gouverné, de Washington à Moscou et de Londres à Tel-Aviv, par les juifs. Céline se moque de lui-même et de son propre antisémitisme. Céline met en musique, en peinture et presque en danse la râlante gauloise et parisienne. Il la transforme en œuvre d’art, comme Goya le faisait de ses monstres. Ce qui lui importe, c’est le petit bijou que, dans ses courts chapitres, sans cesse corrigés et réécrits, il arrive à ciseler. Au bout du travail de l’artiste, la méchanceté s’est envolée. Il faut être niais comme un antiraciste primaire pour prendre au pied de la lettre le propos, qui n’a été prétexte, pour l’artiste, qu’à faire son œuvre d’art (1). »
Toute la complexité et l’ambivalence des écrits antisémites de Céline affleure dans ces commentaires. Sur le sujet – cette fameuse tradition polémique du « culte de la blague » –, Nicholas Hewitt a donné des commentaires pertinents (2). Bien avant Trémolet de Villers, Gide lui-même avait refusé une interprétation littérale du texte pour y déceler un élément ludique et satirique (3). Et l’on sait que certains, à l’instar de Maurice Bardèche, préfèrent qualifier de satires (au moins Bagatelles) ces écrits qui ne répondent pas précisément à la définition donnée par les dictionnaires du terme « pamphlet » (4).
On peut aussi penser qu’en adoptant cette forme, Céline s’est en quelque sorte piégé lui-même, ne parvenant pas toujours à se faire prendre au sérieux ni par ses adversaires, ni par ses thuriféraires. À l’un de ceux-ci, il s’en est expliqué : « J’aurais pu donner dans la science, la biologie où je suis un peu orfèvre. J’aurais pu céder à la tentation d’avoir magistralement raison. Je n’ai pas voulu. J’ai tenu à déconner un peu pour demeurer sur le plan populaire (5). » Après 1945, cette « déconnade » constituera un bouclier précieux face aux attaques. Comment prendre en considération et dès lors condamner un antisémitisme qui a les apparences de la rigolade ? De la même façon, certains, figurant dans le même camp, lui témoignèrent une condescendance amusée, jugeant l’énergumène outrancier ou frivole.
Certes, Trémolet n’a pas tort : Bagatelles se veut une œuvre littéraire. Doublement même puisque ce livre déploie un manifeste esthétique. Mais c’est aussi un écrit de combat stigmatisant ce que Céline nomme les « juifs synthétiques », c’est-à-dire les aryens sans culture, aliénés, colonisés. « L’Art n’est que race et patrie », s’écriera-t-il dans Les Beaux draps, appelant alors de ses vœux un sursaut de la part d’un peuple dont il flétrit le manque de réactivité. Vis comica à l’appui, Céline espère conjurer, convaincre et susciter avant d’être repris par un pessimisme foncier.


Marc LAUDELOUT



Notes

1. Jacques Trémolet de Villers, « Le siècle juif ? » [à propos du livre de Yuri Slezkine, Le Siècle juif, La Découverte, 2009], Présent, 10 février 2010.
2. Nicolas Hewitt, « L’antisémitisme de Céline. Historique et culte de la blague » in Études inter-ethniques, Annales du CESERE (Centre d’Études supérieures et de Recherches sur les Relations ethniques et le Racisme), n° 6, Paris, Université Paris XIII, 1983. Repris dans Le Bulletin célinien, n° 215, décembre 2000, pp. 13-21.
3. André Gide, « Les Juifs, Céline et Maritain », La Nouvelle revue française, 1er avril 1938.
4. Ce terme désignant un texte court, ce qui, hormis Mea culpa, n’est pas la caractéristique des écrits en question. (« Bagatelles était une satire, une sorte d’Île des Oiseaux, comme dans Rabelais. », dixit Maurice Bardèche, Louis-Ferdinand Céline, La Table ronde, 1986, p. 180).
5. Lettre à Henri-Robert Petit datant de 1938 in L’Année Céline 1994, Du Lérot-IMEC Éditions, 1995, p. 76.

"Acéphale": The Headless Monster of "Modern" Masculinity

Jack DONOVAN:
Acéphale
The Headless Monster of "Modern" Masculinity

acephale_gf.jpgIn 1936, while staying at the coastal village of Tossa de Mar with artist
André Masson, George Bataille envisioned the Acéphale, pictured above. The Acéphale was a headless monster who symbolized man's rejection of hierarchy and God and his escape from the boredom of civilization into a life lost to the pursuit of fascination. Bataille was determined to bring about his leaderless, communal, ecstatic age of chaos through a sacred conjuration, and to this end he formed a secret society. As the tale goes, members of the Acéphale Society performed clandestine rituals -- one notably celebrating the decapitation of Louis XVI. However, the true conjuration sacrée required a human sacrifice. To bring about a new age of the crowd, of survivors held "in the grip of a corpse," someone needed to become the Acéphale. Someone needed to lose his head.

It never happened.

But it may as well have, because modern man has truly lost his head.

Modern man has the body of a Man. He has manly strength, sinew, reflexes and appetites. But he lacks direction, purpose, an ideal. He lacks virtus -- manly virtue. Modern man, like any freshly beheaded corpse, twitches and thrashes about destructively without his head to guide him. I cannot help but see this, and in observing this gruesome, sloppy spectacle I stand aghast alongside feminists and other "modernizers" of masculinity. However, I know that while headless, modern man is a monster -- a beast -- it is idealized, fully embodied and focused that Man is most fearsome and awe inspiring. Modern man flails about because he is ultimately impotent. Traditional Man is terrifyingly potent.

Masculinity has always changed. Men have been writing and speaking and arguing about what makes a man throughout history. As the particulars of a society change, the prevailing model of masculinity becomes more nuanced or more brutal according to need.

When men helmed Western civilization, they maintained a smooth continuity through changing times because they knew themselves. They knew what men were, they knew what men could -- and could not -- become. They knew what stirred their own souls, they knew how to speak to each other and reach common ground. They knew the kinds of ideas that would take their own hearts and move them into battle with swords or muskets, in animal skins or sharp uniforms. They knew that in peacetime men could not be ruled by fear alone, that masculine ideals and codes of honor would reveal both the stronger and the nobler aspects of a man even when he was not being watched. Men were able to carve a hard jaw, a stern brow and a proud, noble chin for mankind because they knew themselves. They knew how to shape a head that fit the body of a Man. Embodied Man had a rich and sustaining bloodline; he lived and thrived in the context of history and Tradition.

"Modern," headless man has no life-sustaining bloodline. Women and men with counter-masculine, alien, anti-Western agendas have successfully severed him from his history of heroes, ideals and the world of masculine Tradition. Traditional Man is their fearsome enemy, the agent of their supposed oppression and the Man to blame for all violence and what they call injustice. Their project is one of ressentiment --to cast the heroic Traditional man as the ultimate villain, and to ennoble their own set of "virtues" as the ideal.

(T)he problem with the other origin of the "good," of the good man, as the person of ressentiment has thought it out for himself, demands some conclusion. It is not surprising that the lambs should bear a grudge against the great birds of prey, but that is no reason for blaming the great birds of prey for taking the little lambs. And when the lambs say among themselves, "These birds of prey are evil, and he who least resembles a bird of prey, who is rather its opposite, a lamb,-should he not be good?" then there is nothing to carp with in this ideal's establishment, though the birds of prey may regard it a little mockingly, and maybe say to themselves, "We bear no grudge against them, these good lambs, we even love them: nothing is tastier than a tender lamb."

-- Friedrich Nietzsche, On the Genealogy of Morality


The wealth and luxury of the modern world have made possible an age of the lamb, and oh how the eagle is cursed!

Women, the
weakest men, men with an exploited sense of chivalry and misguided advocates for men are struggling to fashion a sheep's head for the eagle. But that project, too, is an unnatural, bloodless monstrosity. Frankenstein's work. The head doesn't fit. The body of Man rejects it, shrugs it off and remains headless. The enemies of Men toil under the assumption that the age of the sheep will last forever, and that the eagle must don a sheep's head if he is to survive at all.

Forever is a very long time.

The project for Traditional Man is first an archeological one. He venture out onto the lake of ice and recovers the frozen remains of Man's severed head. What follows is an anthropological project. He must study
paleo-masculinity; he must reverse engineer the head and understand the mechanics of masculinity as it functioned before Man's beheading. He must understand what came before, and repair his connection with his bloodline.

The sheep are crafting a world and a "modern" masculinity meant only for sheep. Eagles have no place in it.

But the age of sheep can't last forever. It is artificially ordered, unbalanced, unsustainable. The meek have inherited the earth, but by the very nature of their meekness they will be unable to keep it.

Traditional Man must find and keep his head, his manhood's redoubt. It is difficult to find and walk a path of honor in a world that is hateful to honor. It's a lonely path. But ultimately, every man is alone with his Honor.


Ennio Morricone is playing.


Eventually, an Interphase will come.

And another Age of Eagles.
Jack Donovan

Jack Donovan

Jack Donovan is a poor, blue-collar man made out of muscle and blood who moonlights as an advocate for the resurgence of patriarchal, paleo-masculine values among the Men of the West. He is a contributor to The Spearhead, as well as the author of Androphilia and co-author of Blood Brotherhood and Other Rites of Male Alliance. Mr. Donovan lives and works in Portland, Oregon.

mercredi, 31 mars 2010

The Golden Gardens of the Sun

 

The Golden Gardens of the Sun

The fire that connects to the mystery of living,

The gliding softness of the spring rain

That thaws the sparkling frostiness of winter’s veins,

The birds’ vibrating song,

Resounding through the new buds of trees,

And fleeting transparency of lacy air.

The wild primroses opiated in the vernal orgy,

By the silver rain drops

That slither into their flower cups,

To inspirit starry streamflow–

In the golden gardens of the sun.

By Xenia Sunic

To honour the return of the spring.

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F. G. Jünger: la perfeccion de la técnica

friedrich_georg_18253.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1993

FRIEDRICH-GEORG JÜNGER (1898 - 1977)

LA PERFECCIÓN DE LA TÉCNICA

Robert Steuckers
/ [trd. Santiago Rivas]

Nacido el 1 de septiembre de 1989 en Hannover, hermano del celebérrimo escritor alemán Ernst Jünger. Friedrich-Georg Jünger se interesa desde edad muy temprana por la poesía, despertándose en él un fuerte interés por el clasicismo alemán, en un itinerario que atraviesa a Klopstock, Goethe y Hölderin. Gracias a esta inmersión precoz en la obra de Hölderin, Friedrich-Georg Jünger se encapricha por la antigüedad Clásica y percibe la esencia de la helenidad y de la romanidad antiguas como una aproximación a la naturaleza, como una glorificación de la elementaridad, al tiempo que se dota de una visión del hombre que permanecerá inmutable, sobreviviendo a través de los siglos en la psique europea, a veces visible a la luz del día, a veces oculta. La era de la técnica ha apartado a los hombres de esta proximidad vivificante, elevándolo de forma peligrosa por encima de lo elementario. Toda la obra poética de Friedrich-Georg Jünger es una vehemente protesta contra la pretensión mortífera que constituye este alejamiento. Nuestro autor quedará siempre profundamente marcado por los paisajes idílicos de su infancia, una marca que quedará reflejada en su amor incondicional a la Tierra, a la flora y a la fauna (sobre todo a los insectos: fue Friedrich-Georg quien introdujo a su hermano Ernst en el mundo de la entomología), a los seres más elementales de la vida sobre el planeta, al arraigo cultural.

La Primera Guerra Mundial pondrá fin a esta joven inmersión en la naturaleza. Friedrich-Georg se alistará en 1916 como aspirante a oficial. Gravemente herido en el pulmón, en el frente de Somme, en 1917, pasa el resto del conflicto en un hospital de campaña. Tras su convalecencia, se matricula en derecho, obteniendo el título de doctor en 1924. Pero nunca seguirá la carrera de jurista, sino que pronto descubrió su vocación de escritor político dentro del movimiento nacionalista de izquierdas, entre los nacional-revolucionarios y los nacional-bolcheviques, uniéndose más tarde a la figura de Ernst Niekisch, editor de la revista "Widerstand" (Resistencia). Desde esta publicación, así como desde "Arminios" o "Die Kommenden", los hermanos Jünger inauguraron un estilo nuevo que podríamos definir como "del soldado nacionalista", expresado por los jóvenes oficiales recién llegados del frente e incapaces de amoldarse a la vida civil. La experiencia de las trincheras y el fragor de los ataques les demostraron, por medio del sudor y la sangre, que la vida no es un juego inventado por el cerebralismo, sino un bullicio orgánico elemental donde, de hecho, reinan las pulsiones. La política, en su esfera propia, debe asir la temperatura de ese bullicio, escuchar esas pulsiones, navegar por sus meandros para forjar una fuerza siempre joven, nueva, vivificante. Para Friedrich-Georg Jünger, la política debe aprehenderse desde un ángulo cósmico, fuera de todos los "miasmas burgueses, cerebralistas e intelectualizantes". Paralelamente a esta tarea de escritor político y de profeta de este nuevo nacionalismo radicalmente antiburgués, Friedrich-Georg Jünger se sumerge en la obra de Dostoïevski, Kant y los grandes novelistas americanos. Junto a su hermano Ernst, emprende una serie de viajes por los países mediterráneos: Dalmacia, Nápoles, Baleares, Sicilia y las islas del Egeo.

Cuando Hitler accede al poder, el triunfante es un nacionalismo de las masas, no ese nacionalismo absoluto y cósmico que evocaba la pequeña falange (sic) "fuertemente exaltada" que editaba sus textos desde las revistas nacional-revolucionarias. En un poema, "Der Mohn" (La Amapola), Friedrich-Georg Jünger ironiza y describe al nacional-socialismo como "el canto infantil de una embriaguez sin gloria". Como consecuencia de estos versos sarcásticos se ve envuelto en una serie de problemas con la policía, por lo cual abandona Berlín y se instala, junto a Ernst, en Kirchhorst, en la Baja Sajonia.

Retirado de la política después de haber publicado más de un centenar de poemas en la revista de Niekisch -quien ve poco a poco aumentar sobre sí las presiones de la autoridad hasta que por fin es arrestado en 1937-, Friedrich-Georg Jünger se consagra por entero a la creación literaria, publicando en 1936 un ensayo titulado "Über das Komische" y terminando en 1939 la primera versión de su mayor obra filosófica: "Die Perfektion der Technik" (La Perfección de la Técnica). Los primeros borradores de esta obra fueron destruidos en 1942, durante un bombardeo aliado. En 1944, una primera edición, realizada a partir de una serie de nuevos ensayos, es reducida otra vez a cenizas por culpa de un ataque aéreo. Finalmente, el libro aparece en 1946, suscitando un debate en torno a la problemática de la técnica y de la naturaleza, prefigurando, a despecho de su orientación "conservadora", todas las reivindicaciones ecologistas alemanas de los años 60, 70 y 80. Durante la guerra, Friedrich-Georg Jünger publicó poemas y textos sobre la Grecia antigua y sus dioses. Con la aparición de "Die Perfektion der Technik", que conocerá varias ediciones sucesivas, los intereses de Friedrich-Georg se vuelcan hacia las temáticas de la técnica, de la naturaleza, del cálculo, de la mecanización, de la masificación y de la propiedad. Rehuyendo, en "Die Perfektion der Technik", el enunciar sus tesis bajo un esquema clásico, lineal y sistemático; sus argumentaciones aparecen así "en espiral", de forma desordenada, aclarando vuelta a vuelta, capítulo aquí, capítulo allá, tal o cual aspecto de la tecnificación global. Como filigrana, se percibe una crítica a las tesis que sostenía entonces su hermano Ernst en "Der Arbeiter" (El Trabajador), quien aceptaba como inevitables los desenvolvimientos de la técnica moderna. Su posición antitecnicista se acerca a las tesis de Ortega y Gasset en "Meditaciones sobre la Técnica" ( 1939 ), de Henry Miller y de Lewis Munford (quien utiliza el término "megamaquinismo"). En 1949 Friedrich-Georg Jünger publicó una obra de exégesis sobre Nietzsche, donde se interrogaba sobre el sentido de la teoría cíclica del tiempo enunciado por el anacoreta de Sils-Maria. Friedrich-Georg Jünger contesta la utilidad de utilizar y problematizar una concepción cíclica de los tiempos, porque esta utilización y esta problematización acabará por otorgar a los tiempos una forma única, intangible, que, para Nietzsche, está concebida como cíclica. El tiempo cíclico, propio de la Grecia de los orígenes y del pensamiento precristiano, debería ser percibido bajo los ángulos de lo imaginario y no desde la teoría, que obliga a conjugar la naturalidad desde un modelo único de eternidad, y así el instante y el hecho desaparecen bajo los cortes arbitrarios instaurados por el tiempo mecánico, segmentarizados en visiones lineales. La temporalidad cíclica nietzscheana, por sus cortes en ciclos idénticos y repetitivos, conserva -pensaba Friedrich-Georg Jünger- algo de mecánico, de newtoniano, por lo cual, finalmente, no es una temporalidad "griega". El tiempo, para Nietzsche, es un tiempo-policíaco, secuestrado; carece de apoyo, de soporte (Tragend und Haltend). Friedrich-Georg Jünger canta una a-temporalidad que se identifica con la naturaleza más elemental, la "Wildnis", la naturaleza de Pan, el fondo-del-mundo natural intacto, no-mancillado por la mano humana, que es, en última instancia, un acceso a lo divino, al último secreto del mundo. La "Wildnis" -concepto fundamental en el poeta "pagano" que es Friedrich-Georg Jünger- es la matriz de toda la vida, el receptáculo a donde ha de regresar toda la vida.

En 1970, Friedrich-Georg Jünger fundó, junto a Max Llimmelheber, la revista trimestral "Scheidwege", en donde figuraron en la lista de colaboradores los principales representantes de un pensamiento a la vez naturalista y conservador, escéptico sobre todas las formas de planificación técnica. Entre los pensadores situados en esta vertiente conservadora-ecológica que expusieron sus tesis en la publicación podemos recordar los nombres de Jürgen Dahl, Hans Seldmayr, Friederich Wagner, Adolf Portmann, Erwin Chargaff, Walter Heiteler, Wolfgang Häedecke, etc.

Friedrich-Georg Jünger murió en Überlingen, junto a las orillas del lago Constanza, el 20 de julio de 1977.

El germanista americano Anton H. Richter, en la obra que ha consagrado al estudio sobre el pensamiento de Friedich-Georg Jünger, señala cuatro temáticas esenciales en nuestro autor: la antigüedad clásica, la esencia cíclica de la existencia, la técnica y el poder de lo irracional. En sus textos sobre la antigüedad griega, Friedrich-Georg Jünger reflexiona sobre la dicotomía dionisíaca/titánica. Como dionisismo, él engloba lo apolíneo y lo pánico, en un frente unido de fuerzas intactas de organización contra las distorsiones, la fragmentación y la unidimensionalidad del titanismo y el mecanicismo de nuestros tiempos. La atención de Friedrich-Georg Jünger se centra esencialmente sobre los elementos ctónicos y orgánicos de la antigüedad clásica. Desde esta óptica, los motivos recurrentes de sus poemas son la luz, el fuego y el agua. fuerzas elementales a las cuales rinde profundo homenaje. Friedrich-Georg Jünger se burla de la razón calculadora, de su ineficacia fundamental, exaltando, en contrapartida, el poder del vino, de la exuberancia de lo festivo, de lo sublime que anida en la danza y en las fuerzas carnavalescas. La verdadera comprensión de la realidad se alcanza por la intuición de las fuerzas, de los poderes de la naturaleza, de lo ctónico, de lo biológico, de lo somático y de la sangre, que son armas mucho más eficaces que la razón, que el verbo plano y unidimensional, descuartizado, purgado, decapitado, desposeído: de todo lo que hace del hombre moderno un ser de esquemas incompletos. Apolo aporta el orden claro y la serenidad inmutable; Dionisos aporta las fuerzas lúdicas del vino y de las frutas, entendidos como un don, un éxtasis, una embriaguez reveladora, pero nunca una inconsciencia; Pan, guardián de la naturaleza, aporta la fertilidad. Frente a estos donantes generosos y desinteresados, los titanes son los usurpadores, acumuladores de riquezas, guerreros crueles carentes de ética enfrentados a los dioses de la profusión y de la abundancia que, a veces, consiguen matarlos, lacerando sus cuerpos, devorándolos.

Pan es la figura central del panteón personal de Friedrich-Georg Jünger; Pan es el gobernante de la "Wildnis", de la naturaleza primordial que desean arrasar los titanes. Friedrich-Georg Jünger se remite hasta Empédocles, quien enseñaba que el forma un "contiuum" epistemológico con la naturaleza: toda la naturaleza está en el hombre y puede ser descubierta por medio del amor.

Simbolizado por los ríos y las serpientes, el principio de recurrencia, de incesante retorno, por el que todas las cosas alcanzan la "Wildnis" original, es también la vía de retorno hacia esa misma "Wildnis". Friedrich-Georg Jünger canta al tiempo cíclico, diferente del tiempo lineal-unidireccional judeocristiano, segmentado en momentos únicos, irrepetibles, sobre un camino también único que conduce a la Redención. El hombre occidental moderno, alérgico a los imponderables escondrijos en donde se manifiesta la "Wildnis", ha optado por el tiempo continuo y vectorial, haciendo así de su existencia un segmento entre dos eternidades atemporales ( el antes del nacer y el después de la muerte ). Aquí se enfrentan dos tipos humanos: el hombre moderno, impregnado de la visión judeocristiana y lineal del tiempo, y el hombre orgánico, que se reconoce indisolublemente conectado al cosmos y a los ritmos cósmicos.

La Perfección de la Técnica


Denuncia del titanismo mecanicista occidental, esta obra es la cantera en donde se han nutrido todos los pensadores ecologistas contemporáneos para afinar sus críticas. Dividida en dos grandes partes y un excurso, compuesta de una multitud de pequeños capítulos concisos, la obra comienza con una constatación fundamental: la literatura utópica, responsable de la introducción del idealismo técnico en la materia política, no ha hecho sino provocar un desencantamiento de la propia veta utópica. La técnica no resuelve ningún problema existencial del hombre, no aumenta el goce del tiempo, no reduce el trabajo: lo único que hace es desplazar lo manual en provecho de lo "organizativo". La técnica no crea nuevas riquezas; al contrario: condena la condición obrera a un permanente pauperismo físico y moral. El despliegue desencadenado de la técnica está causado por una falta general de la condición humana que la razón se esfuerza inútilmente en rellenar. Pero esta falta no desaparece con la invasión de la técnica, que no es sino un burdo camuflaje, un triste remiendo. La máquina es devoradora, aniquiladora de la "sustancia": su racionalidad es pura ilusión. El economista cree, desde su aprehensión particular de la realidad, que la técnica es generadora de riquezas, pero no parece observarse que su racionalidad cuantitativista no es sino pura y simple apariencia, que la técnica, en su voluntad de perfeccionarse hasta el infinito, no sigue sino a su propia lógica, una lógica que no es económica.

Una de las características del mundo moderno es el conflicto táctico entre el economista y el técnico: el último aspira a determinar los procesos de producción en favor de la rentabilidad, factor que es puramente subjetivo. La técnica, cuando alcanza su más alto grado, conduce a una economía disfuncional. Esta oposición entre la técnica y la economía puede producir estupor en más de un crítico de la unidimensionalidad contemporánea, acostumbrado a meter en el mismo cajón de sastre las hipertrofias técnicas y las económicas. Pero Friedrich-Georg Jünger concibe la economía desde su definición etimológica: como la medida y la norma del "okios", de la morada humana, bien circunscrita en el tiempo y en el espacio. La forma actualmente adoptada por el "okios" procede de una movilización exagerada de los recursos, asimilable a la economía del pillaje y a la razzia ( Raubbau ), de una concepción mezquina del lugar que se ocupa sobre la Tierra, sin consideración por las generaciones pasadas y futuras.

La idea central de Friedrich-Georg Jünger sobre la técnica es la de un automatismo dominado por su propia lógica. Desde el momento que esta lógica se pone en marcha, escapa a sus creadores. El automatismo de la técnica, entonces, se multiplica en función exponencial: las máquinas, "per se", imponen la creación de otras máquinas, hasta alcanzar el automatismo completo, a la vez mecanizado y dinámico, en un tiempo segmentado, un tiempo que no es sino un tiempo muerto. Este tiempo muerto penetra en el tejido orgánico del ser humano y somete al hombre a su particular lógica mortífera. El hombre se ve así desposeído de "su" tiempo interior y biológico, sumido en una adecuación al tiempo inorgánico y muerto de la máquina. La vida se encuentra entonces sumida en un gran automatismo regido por la soberanía absoluta de la técnica, convertida en señora y dueña de sus ciclos y sus ritmos, de su percepción de sí y del mundo exterior. El automatismo generalizado es "la perfección de la técnica", a la cual Friedrich-Georg, pensador organicista, opone la "maduración" ( die Reife ) que sólo pueden alcanzar los seres naturales, sin coerción ni violencia. La mayor característica de la gigantesca organización titánica de la técnica, dominante en la época contemporánea, es la dominación exclusiva que ejercen las determinaciones y deducciones causales, propias de la mentalidad y la lógica técnica. El Estado, en tanto que instancia política, puede adquirir, por el camino de la técnica, un poder ilimitado. Pero esto no es, para el Estado, sino una suerte de pacto con el diablo, pues los principios inherentes a la técnica acabarán por extirpar su sustancia orgánica, reemplazándola por el automatismo técnico puro y duro.

Quien dice automatización total dice organización total, en el sentido de gestión. El trabajo, en la era de la multiplicación exponencial de los autómatas, está organizado hacia la perfección, es decir, hacia la rentabilización total e inmediata, al margen o sin considerar la mano de obra o del útil. La técnica solamente es capaz de valorarse a sí misma, lo que implica automatización a ultranza, lo cual implica a su vez intercambio a ultranza, lo que conduce a la normalización a ultranza, cuya consecuencia es la estandarización a ultranza. Friedrich-Georg Jünger añade el concepto de "partición" (Stückelung), donde las "partes" ya no son "partes", sino "piezas" (Stücke), reducidas a una función de simple aparato, una función inorgánica.

Friedrich-Georg Jünger cita a Marx para denunciar la alienación de este proceso, pero se distancia de él al ver que éste considera el proceso técnico como un "fatum" necesario en el proceso de emancipación de la clase proletaria. El obrero (Arbaiter) es precisamente "obrero" porque está conectado, "volens nolens", al aparato de producción técnico. La condición obrera no depende de la modestia económica ni del rendimiento, sino de esa conexión, independientemente del salario percibido. Esta conexión despersonaliza y hace desaparecer la condición de persona. El obrero es aquel que ha perdido el beneficio interior que le ligaba a su actividad, beneficio que evitaba su intercambiabilidad. La alienación no es problema inducido por la economía, como pensaba Marx, sino por la técnica. La progresión general del automatismo desvaloriza todo trabajo que pueda ser interior y espontáneo en el trabajador, a la par que favorece inevitablemente el proceso de destrucción de la naturaleza, el proceso de "devoración" (Verzehr) de los sustratos (de los recursos ofrecidos por la Madre-Naturaleza, generosa y derrochadora "donatrix"). A causa de esta alienación de orden técnico, el obrero se ve precipitado en un mundo de explotación donde carece de protección. Para beneficiarse de una apariencia de protección, debe crear organizaciones -sindicatos-, pero con el error de que esas organizaciones también están conectadas al aparato técnico. La organización protectora no emancipa, sino que encadena. El obrero se defiende contra la alienación y la "piezación", pero, paradójicamente, acepta el sistema de la automatización total. Marx, Engels y los primeros socialistas percibieron la alienación económica y política, pero estuvieron ciegos ante la alienación técnica, incapaces de comprender el poder destructivo de la máquina. La dialéctica marxista, de hecho, deviene en un mecanicismo estéril al servicio de un socialismo maquinista. El socialista permanece en la misma lógica que gobierna a la automatización total bajo la égida del capitalismo. Pero lo peor es que su triunfo no pondrá fin ( salvo caso de renunciar al marxismo ) a la alienación automatista, sino que será uno de los factores del movimiento de aceleración, de simplificación y de crecimiento técnico. La creación de organizaciones es causa de la génesis de la movilización total, que convierte a todas las cosas en móviles y a todos los lugares en talleres o laboratorios llenos de zumbidos y de agitación incesante. Toda área social tendente a aceptar esta movilización total favorece, quiera o no quiera, la represión: es la puerta abierta a los campos de concentración, a las aglomeraciones, a las deportaciones en masa y a las masacres colectivas. Es el reino del gestor impávido, figura siniestra que puede aparecer bajo mil máscaras. La técnica nunca produce armonía, la máquina no es una diosa dispensadora de bondades. Al contrario, esteriliza los sustratos naturales donados, organiza el pillaje planificado contra la "Wildnis". La máquina es devoradora y antropófaga, debe ser alimentada sin cesar y, ya que acapara más de lo que dona, terminará un día con todas las riquezas de la Tierra. Las enormes fuerzas naturales elementales son desarraigadas por la gigantesca maquinaria y retenidas prisioneras por ella y en ella, lo que no conduce sino a catástrofes explosivas y a la necesidad de una supervivencia constante: otra faceta de la movilización total.

Las masas se imbrican, voluntariamente, en esta automatización total, anulando al mismo tiempo las resistencias aisladas obra de los individuos conscientes. Las masas se dejan llevar por el movimiento trepidante de la automatización hasta tal punto que en caso de avería o paro momentáneo del movimiento lineal hacia la automatización experimentan una sensación de vida que les parece insoportable.

La guerra, también ella, en adelante, estará completamente mecanizada. Los potenciales de destrucción se amplifican hasta el extremo. El reclamo de los uniformes, el valor movilizante de los símbolos, la gloria, se esfuman en la perfección técnica. La guerra solamente podrán ser soportadas por los soldados tremendamente endurecidos y de coraje tenaz, solamente podrán soportarlas los hombres que sean capaces de exterminar la piedad en sus corazones.

La movilidad absoluta que inaugura la automatización total se revuelve contra todo lo que pueda significar duración y estabilidad, en concreto contra la propiedad (Eigentum). Friedrich-Georg Jünger, al meditar esta aseveración, define la propiedad de una manera original y particular. La existencia de las máquinas reposa sobre una concepción exclusivamente temporal, la existencia de la propiedad se debe a una concepción espacial. La propiedad implica limites, definiciones, vallados, muros y paredes, "clausuras" en definitiva. La eliminación de estas delimitaciones es una razón de ser para el colectivismo técnico. La propiedad es sinónimo de un campo de acción limitado, circunscrito, cerrado en un espacio determinado y preciso. Para poder progresar vectorialmente, la automatización necesita hacer saltar los cerrojos de la propiedad, obstáculo para la instalación de sus omnipresentes medios de control, comunicación y conexión. Una humanidad desposeída de toda forma de propiedad no puede escapar a la conexión total. El socialismo, en cuanto que niega la propiedad, en cuanto que rechaza el mundo de las "zonas enclaustradas", facilita precisamente la conexión absoluta, que es sinónimo de la manipulación absoluta. De aquí, se desprende que el poseedor de máquinas no es un propietario; el capitalismo mecanicista socava el orden de las propiedades, caracterizado por la duración y la estabilidad, en preferencia de un dinamismo omnidisolvente. La independencia de la persona es un imposible en esa conexión a los hechos y al modo de pensar propio del instrumentalismo y del organizacionismo técnicos.

Entre sus reflexiones críticas y acerbadas hacia la automatización y hacia la tecnificación a ultranza en los tiempos modernos, Friedrich-Georg Jünger apela a los grandes filósofos de la tradición europea. Descartes inaugura un idealismo que instaura una separación insalvable entre el cuerpo y el espíritu, eliminando el "sistema de influjos psíquicos" que interconectaba a ambos, todo para al final reemplazarlo por una intervención divina puntual que hace de Dios un simple demiurgo-relojero. La "res extensa" de Descartes en un conjunto de cosas muertas, explicable como un conjunto de mecanismos en los cuales el hombre, instrumento del dios-relojero, puede intervenir de forma completamente impune en todo momento. La "res cogitans" se instituye como maestra absoluta de los procesos mecánicos que rigen el Universo. El hombre puede devenir en un dios: en un gran relojero que puede manipular todas las cosas a su gusto y antojo, sin cuidado ni respeto. El cartesianismo da la señal de salida de la explotación tecnicista a ultranza de la Tierra.

BIBLIOGRAFÍA


1) Obras jurídicas, filosóficas o mitológicas, ensayos y aforismos: "Über das Stockwerksegentum", disertación presentada en la facultad de derecho de la Universidad de Leipzig, 3 de mayo de 1924; "Aufmarsch des Nationalismus", 1926; "Der Krieg", 1936; "Über das Komische", 1936; "Griechische Götter", 1943; "Die Titanien", 1944; "Die Perfektion der Technik", 1946; "Griechische Mythen", 1947; "Orient und Okzident", 1948; "Nietzsche", 1949; "Gedanken und Merkzeichen", 1949; "Rythmus und Sprache in deutschen Gedicht", 1952; "Die Spiele", 1953; "Gedanken und Merkzeichen, Zweite Sammlung", 1954; "Sprache und Kalkül", 1956; "Gedächtnis und Erinnerung", 1957; "Sprachen und Denken", 1962; "Die vollkommene Schöpfung", 1969; "Der Arzt und seine Zeit", 1970; "Apollon", en "Nouvelle Ecole" nº 35, invierno 1979.
 
2) Poesía: "Gedichte", 1934; "Der Krieg", 1936; "Der Taurus", 1937; "Der Missouri", 1940; "Der Westwind", 1946; "Die Silberdistelklause", 1947; "Das Weinberghaus", 1947; "Die Perlensschnur", 1947; "Gedischte", 1949; "Iris im Wind", 1952; "Ring der Jahre", 1954; "Schwarzer Fluss und windewisser Wald", 1955; "Es Pocht an der Tür", 1968; "Sämtliche Gedichte", 1974. El poema "Der Mohn" (1934) fue reproducido en la obra "Scheidewege", 1980.
 
3) Obras dramáticas, recitales, novelas, coversaciones, etrevistas y relatos de viajes: "Der verkleidete Theseus. Ein Lustspiel in fünf Aufzügen", 1934; "Briefe aus Mondello", 1943; "Wanderungen auf Rhodos", 1943; "Gespräche", 1948; "Dalmatinische Nacht", 1950; "Grüne Zweige", 1951; "Die Pfauen und andere Erzählungen", 1952; "Der erste Gang", 1954; "Zwei Schwestern", 1956; "Spiegel der Jahre", 1958; "Kreuzwege", 1961; "Wiederkehr", 1965; "Laura und andere Erzählungen", 1970.
 
4) Principales artículos publicados en las revistas nacional-revolucionarias y nacional-bolcheviques: "Das Fiasko der Bünde", en Arminius nº 7; "Die Kampfbünde", "Der Soldat", "Kampf!", "Normannen", en Die Standarte nº 1; "Deutsche Aussenpolitik und Russland", en Arminius nº 7; "Gedenkt Schlageter!", en Arminius nº 8; "Opium fürs Volk", en Arminius nº 9; "Der Pazifismus: Eine grundsätzliche Ausführung", en Arminius nº 11; "Die Gesittung und das soziale Drama", en Die Standarte nº 2; "Des roten Kampffliegers Ende: Manfred von Richthofen zum Gedächtnis", en Der Vormarsch nº 1; "Dreikanter", "Die Schlacht", en Die Vormarsch nº 2; "Chaplin", "Der Fährmann", "Konstruktionen und Parallelen", en Die Vormarsch nº 3; "Bombenschwindel", "Vom Geist des Krieges", en Die Vormarsch nº 4; "Revolution und Diktatur", en Das Reich nº 1; "Die Kommenden", en Das Reich nº 2; "Vom deutschen Kriegsschauplätze" en Widerstand nº 6; "Die Innerlichkeit", en Widerstand nº 7; "Über die Gleichheit", "Wahrheit und Wirklichkeit", "E.T.A. Hoffmann", en Widerstand nº 9.

5) Participación en obras colectivas: En la obra editada por Ernst Jünger titulada "Die Unvergessenen" (1928), FGJ escribió las monografía sobre Otto Braun, Hermann Löns, Manfred von Richthofen, Gustav Sack, Albert Leo Schlageter, Maximilian von Spee y Georg Trakl; "Krieg und Krieger", en el libro de Ernst Jünger "Krieg und Krieger", 1930: Introducción en la obra sobre la iconografía de Edmund Schlutz, "Das Gesicht der Demokratie. Ein Bilderwerk zur Geschichte der deutschen Nachkriegszeit" (1931); "Glück und Unglück", en "Was ist Glück?", actas del simposium organizado por Armin Mohler sobre Carl Friedrich von Siemens en la Universidad de Munich, 1976.
 

6) Sobre Friedrich-Georg Jünger: Franz Joseph Schöningh, "Friedrich-Georg Jünger und der preussische Stil", en Hochland, febrero 1935; Emil Lerch, "Dichter und Soldat: Friedrich-Georg Jünger", en Schweizer Annalen, julio-agosto 1936; Wilhelm Schneider, "Die Gedichte von Friedrich-Georg Jünger", en Zeitschrift für Deutschkunde, diciembre 1940; Walter Mannzen, "Die Perfektion der Technik", en Der Ruf der jungen Generation, noviembre 1946; Stephan Hermlin, "Friedrich-Georg Jünger und die Perfektion der Technik", en Ansichten über einige neue Schriftsteller und Bücher, 1947; Sophie Dorothee Podewils, "Friedrich-Georg Jünger: Dichtung und Echo", Hamburgo 1947; Joseph Wenzl, "Im Labyrinth der Technik: Zu einem neuen Buch Friedrich-Georg Jüngers", en Wort und Wahrheit nº 3 1948; Max Bense & Helmut Günther, "Die Perfektion der Technik: Bemerkungen über ein Buch von F.G. Jünger", en Merkur 1948; Karl August Horst, "Friedrich-Georg Jünger und der Spiegel der Meduse", en Merkur 1955; Curt Hohoff, "F.G. Jünger" en Jahresring, 1956; Idem "Friedrich-Georg Jünger zum 60" en Geburtstag, 1958; Hans Egon Holthusen, "Tugend und Manier in der heilen Welt: Zu F.G. Jünger", en Hochland, febrero 1959; Hans-Peter des Coudres, Friedrich-Georg-Jünger-Bibliographie", en Philobiblon, Hamburgo ¿1963?; Franziska Ogriseg, "Das Erzählwerk Friedrich-Georg Jünger", Innbruck 1965; Heinz Ludwig Arnold, "Friedrich-Georg Jünger: ein Erzähler, der zu meditieren weiss", en Merkur 1968; Sigfrid Bein, "Der Dichter am See: Geburtstag Friedrich-Georg Jünger" en Welt und Wort, 1968; Dino Larese, "Friedrich-Georg Jünger: Eine Begegnung" en Amriswil, 1968; Robert de Herte, "Friedrich-Georg Jünger" en Éléments nº 23, 1977; Armin Möhler, "Friedrich-Georg Jünger", en Criticon nº 46, 1978; Wolfgang Hädecke, "Die Welt als Maschine. über Friedrich-Georg Jüngers Buch Die Perfektion der Technik", en Scheidewegw nº 3, 1980; Anton H. Richter, "A thematic aproach to the works of F.G. Jünger" Berna 1982; Robert Steuckers, "L´itinérarie philosophique et politiques de Friedrich-Georg Jünger", en Vouloir, nº 45 marzo 1988.

7) Para la comprensión del contexto familiar y político: Karl Otto Paetel, "Versuchung oder Chance? Zur Geschichte des deutschen nationalbolschewismus", Gotinga 1965; Marjatta Hietala, "Der neue nationalismus in der Publizistik Ernst Jüngers und des Kreises um ihn", Helsinki 1975; Heimo Schwilk, "Ernst Jünger, Leben und Werk in Bildern und Texten", Klett-Cotta 1968; Martin Meyer, "Ernst Jünger". Munich 1990.

lundi, 29 mars 2010

Louis Ferdinand Céline - An Anarcho-Nationalist

Louis Ferdinand Céline — An Anarcho-Nationalist 

Tom Sunic 

March 24, 2010 

In his imaginary self-portrayal, the French novelist Louis-Ferdinand Céline (1894–1961) would be the first one to reject the assigned label of anarcho-nationalism. For that matter he would reject any outsider’s label whatsoever regarding his prose and his personality. He was an anticommunist, but also an anti-liberal. He was an anti-Semite but also an anti-Christian. He despised the Left and the Right. He rejected all dogmas and all beliefs, and worse, he submitted all academic standards and value systems to brutal derision.

Briefly, Céline defies any scholarly or civic categorization. As a classy trademark of the French literary life, he is still considered the finest French author of modernity — despite the fact that his literary opus rejects any academic classification. Even though his novels are part and parcel of the obligatory literature in the French high school syllabus and even though he has been the subject of dozens of doctoral dissertations, let alone thousands of polemics denouncing him as the most virulent Jew-baiting pamphleteer of the 20th century, he continues to be an oddity eluding any analysis, yet commanding respect across the political and academic spectrum. 

Can one offer a suggestion that those who will best grasp L.F. Céline must also be his lookalikes — the replicas of his nihilist character, his Gallic temperament and his unsurpassable command of the language?   

Cadaverous Schools for Communist and Liberal Massacres     

The trouble with L.F. Céline is that although he is widely acclaimed by literary critics as the most unique French author of the 20th century and despite the fact that a good dozen of his novels are readily available in any book store in France, his two anti-Semitic pamphlets are officially off limits there.  

Firstly, the word pamphlet is false. His two books, Bagatelles pour un massacre (1937) and Ecole des cadavres (1938), although legally and academically rebuked as “fascist anti-Semitic pamphlets,” are more in line with the social satire of the 15th century French Rabelaisian tradition, full of fun and love making than modern political polemics about the Jewry. After so many years of hibernation, the satire Bagatelles finally appeared in an anonymous American translation under the title of Trifles for a massacre, and can be accessed online 

 Louis-Ferdinand Céline

The anonymous translator must be commended for his awesome knowledge of French linguistic nuances and his skill in transposing French argot into American slang. Unlike the German or the English language, the French language is a highly contextual idiom, forbidding any compound nouns or neologisms. Only Céline had a license to craft new words in French. French is a language of high precision, but also of great ambiguities. Moreover, any rendering of the difficult Céline’s slangish satire into English requires from a translator not just the perfect knowledge of French, but also the perfect knowledge of Céline’s world.  

Certainly, H.L. Mencken’s  temperament and his sentence structure sometimes carry a whiff of Céline. Ezra Pound’s toying with English words in his radio broadcasts in fascist Italy also remind  a bit of Céline’s style. The rhythm ofHarold Covington’s narrative and the violence of his epithets may remind one a wee of Celine’s prose too.  

But in no way can one draw a parallel between Céline and other authors — be it in style or in substance. Céline is both politically and artistically unique. His language and his meta-langue are unparalleled in modern literature.

To be sure Céline is very bad news for Puritan ears or for a do-good conservative who will be instantly repelled by Céline’s vocabulary teeming as it does with the overkill of metaphorical “Jewish dicks and pricks.”        

Trifles is not just a satire. It is the most important social treatise for the understanding of the prewar Europe and the coming endtimes of postmodernity. It is not just a passion play of a man who gives free reign to his emotional outbursts against the myths of his time, but also a visionary premonition of coming social and cultural upheavals in the unfolding 21st century. It is an unavoidable literature for any White in search of his heritage.     

These weren’t Hymie jewelers, these were vicious lowlifes, they ate rats together… They were as flat as flounders. They had just left their ghettos, from the depths of Estonia, Croatia, Wallachia, Rumelia, and the sties of Bessarabia… The Jews, they now frequent the guardhouse, they are no longer outside… When it comes to crookedness, it is they who take first place… All of this takes place under the hydrant! with hoses as thick as dicks! beside the yellow waters of the docks… enough to sink all the ships in the world…in a décor fit for phantoms…with a kiss that’ll cut your ass clean open…that’ll turn you inside out. 

The satire opens up with imaginary dialogue with the fictional Jew Gutman regarding the role of artistry by the Jews in the French Third Republic, followed by brief chapters describing Céline’s voyage to the Soviet Union.  

Between noon and midnight, I was accompanied everywhere by an interpreter (connected with the police). I paid for the whole deal… Her name was Natalie, and she was by the way very well mannered, and by my faith a very pretty blonde, a completely vibrant devotee of Communism, proselytizing you to death, should that be necessary… Completely serious moreover…try not to think of things! …and of being spied upon! nom de Dieu!…

…The misery that I saw in Russia is scarcely to be imagined, Asiatic, Dostoevskiian, a Gehenna of mildew, pickled herring, cucumbers, and informants… The Judaized Russian is a natural-born jailer, a Chinaman who has missed his calling, a torturer, the perfect master of lackeys. The rejects of Asia, the rejects of Africa… They were just made to marry one another… It’s the most excellent coupling to be sent out to us from the Hells. 

When the satire was first published in 1937, rare were European intellectuals who had not already fallen under the spell of communist lullabies. Céline, as an endless heretic and a good observer refused to be taken for a ride by communist commissars. He is a master of discourse in depicting communist phenotypes, and in his capacity of a medical doctor he delves constantly into Jewish self-perception of their physique... and their genitalia. 

The peculiar feature of Céline narrative is the flood of slang expressions and his extraordinary gift for cracking jokes full of obscene humors, which suddenly veer off in academic passages full of empirical data on Jews, liberals, communists, nationalists, Hitlerites and the whole panoply of famed European characters. 

But here we accept this, the boogie-woogie of the doctors, of the worst hallucinogenic negrito Jews, as being worth good money!… Incredible! The very least diploma, the very least new magic charm, makes the negroid delirious, and makes all of the negroid Jews flush with pride! This is something that everybody knows… It has been the same way with our own Kikes ever since their Buddha Freud delivered unto them the keys to the soul!  

Mortal Voyage to Endtimes  

In the modern academic establishment Céline is still widely discussed and his first novels Journey to the End of the Night and Death on the Installment Plan are still used as Bildungsroman for the modern culture of youth rebellion. When these two novels were first published in the early 30’s of the twentieth century, the European leftist cultural establishment made a quick move to recuperate Céline as of one of its own. Céline balked. More than any other author his abhorrence of the European high bourgeoisie could not eclipse his profound hatred of leftist mimicry.  

Neither does he spare leftists scribes, nor does he show mercy for the spirit of “Parisianism.” Unsurpassable in style and graphics are Céline’s savaging caricatures of aged Parisian bourgeois bimbos posturing with false teeth and fake tits in quest of a rich man’s ride. Had Céline pandered to the leftists, he would have become very rich; he would have been awarded a Nobel Prize long ago.  

In the late 50’s the bourgeoning hippie movement on the American West Coast also tried to lump him together with its godfather Jack Kerouac, who was himself enthralled with Céline’s work. However, any modest reference to hisBagatelles or Ecole des Cadavres has always carefully been skipped over or never mentioned. Equally hushed up is Céline’s last year of WWII when, unlike hundreds of European nationalist scholars, artists and novelists, he miraculously escaped French communist firing squads or the Allied gallows.    

His endless journey to the end of the night envisioned no beams of sunshine on the European horizon. In fact, his endless trip took a nasty turn in the late 1944 and early 1945, when Céline, along with thousands of European nationalist intellectuals, including the remnants of the French pro-German collaborationist government fled to southern Germany, a country still holding firm in face of the oncoming disaster. The whole of Europe had been already set ablaze by death-spitting American B17’s from above and raping Soviet soldiers emerging in the East. These judgment day scenes are depicted in his postwar novels D’un château l’autre (Castle to Castle)  and Rigodoon.   

Céline’s sentences are now more elliptic and the action in his novels becomes more dynamic and more revealing of the unfolding European drama. His novels offer us a surreal gallery of characters running and hiding in the ruins of Germany. One encounters former French high politicians and countless artists facing death — people who, just a year ago, dreamt that they would last forever. No single piece of European literature is as vivid in the portrayal of human fickleness on the edge of life and death as are these last of Céline’s novels.  

But Céline’s inveterate pessimism is always couched in self-derision and always stung with black humor. Even when sentenced in absentia during his exile inDenmark, he never lapses into self pity or cheap sentimentalism. His code of honor and his political views have not changed a bit from his first novel.  

Upon his return to France in 1951, the remaining years of Céline’s life were marred by legal harassment, literary ostracism, and poverty. Along with hundreds of thousands Frenchmen he was subjected to public rebuke that still continues to shape the intellectual scene in France. Today, however, this literary ostracism against free spirits is wrapped up in stringent “anti-hate” laws enforced by the thought police —  70 years after WWII! Stripped of all his belongings, Céline, until his death, continued to use his training as a physician to provide medical help to his equally disfranchised suburban countrymen.  Always free of charge and always remaining a frugal and modest man.

Tom Sunic (http://www.tomsunic.info; http://doctorsunic.netfirms.com) is author, translator, former US professor in political science and a former diplomat. His new book, Postmortem Report: Cultural Examinations from Postmodernity, prefaced by Kevin MacDonald, has just been released.Email him.

 

Permanent link: http://www.theoccidentalobserver.net/authors/Sunic-Celine...

mercredi, 24 mars 2010

Muray est grand et Luchini est son prophète

Muray est grand et Luchini est son prophète

Philippe-Muray_2334.jpgSamedi, 15 h, théâtre de l’Atelier. Fabrice Luchini vient tranquillement s’assoir près d’une table couverte de livres. La salle est comble. Il avait déjà enchanté les fans de grands textes avec ses lectures de Nietzsche, de La Fontaine et d’autres auteurs de calibre. Il s’attèle cette fois-ci à l’œuvre de Philippe Muray, l’écrivain contempteur de la société hyperfestive et des rebellocrates, polémiste de haut vol disparu en 2006.

Dès la première phrase, le public est conquis. La lecture de Luchini est, pour Muray, plus qu’un hommage, une seconde vie. L’évidence s’impose. Une alchimie s’est produite entre l’impertinence géniale de l’écrivain et l’insolence talentueuse du comédien. Le phrasé unique de ce dernier, sa force d’évocation sans égale donnent toute sa plénitude au texte assassin. Face au règne du Grotesque, usurpateur, c’est un tyrannicide littéraire de la bêtise contemporaine.

Ce qui fait de cette dernière un sujet inédit, selon Muray, c’est le triste mérite d’ajouter, aux formes éternelles du ridicule, l’esprit de sérieux qui suinte aujourd’hui en permanence du nihilisme content de soi.

C’est l’étalage surréaliste, la mise en scène autocentrée de l’Homo Festivus, si fier de succéder à l’homme de l’Histoire et de la différenciation. Aussi, à travers la parole jubilatoire de Luchini, l’auteur de L’Empire du Bien a-t-il à cœur de ne rater aucune de ses cibles. Sa verve énergique volatilise ainsi le culte infantéiste, la peur de la maturité et les fantasmes régressifs qui les traduisent. Son brio décapant pulvérise l’émergence des « agents d’ambiance » et autres « accompagnateurs petite enfance », ces nouveaux emplois créés par Martine Aubry en curieuse amatrice de sots métiers. 

En fin analyste des ressorts profonds du romantisme, il met à jour la démission du bobo ordinaire devant le tragique de la vie, refusant par là-même la frontière pourtant féconde entre beauté et laideur, dignité et petitesse. Les modulations de la voix de Luchini donnent alors tout l’écho mérité au propos lucide de Muray, quand il arrache souverainement le masque du Bien à la banalité du mal, aux petits intérêts sordides qui ne s’avouent plus à eux-mêmes, faute de référent.

Sous les tirs ajustés de cet auteur de grande race, l’époque nous apparaît bel et bien sans l’emballage habituel. On patauge dans le pathos, le moralisme de terreur, le théâtre de rue, le « sourire de salut public », la manie du débat à tout propos, où l’on disserte démocratiquement, avec un minimum d’encadrement médiatique tout de même, d’objets sans consistance définie : un peu de tout et beaucoup de rien.

Si cette liberté de ton vous enthousiasme, n’hésitez pas, le 22 ou le 29 mars, à vous rendre au théâtre de l’Atelier. Un artisan du verbe y célèbre un maître du pamphlet. Muray est grand, et le temps d’une lecture inspirée, Luchini est son prophète.

Philippe Gallion

Texte paru sur le blog du Choc du mois [1] sous le titre « Muray par Lucchini ».


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[1] Choc du mois: http://blogchocdumois.hautetfort.com/archive/2010/03/16/muray-par-luchini.html

mardi, 23 mars 2010

Citation d'Ernst von Salomon

sal.jpgCitation d'Ernst von Salomon

"Il y a une tyrannie à laquelle nous ne pourrons jamais nous soumettre, c'est celle des lois économiques.  Car, étant donné qu'elle est complètement étrangère à notre nature, il nous est impossible de progresser sous elle.  Elle devient insupportable parce qu'elle est d'un rang trop inférieur.  C'est là que se trouve le critère ; c'est là qu'il faut choisir même sans demander de preuves. On a ou non le sens de la hiérarchie des valeurs, et toute discussion est impossible avec ceux qui nient cette hiérarchie."

Ernst Von Salomon, Les Réprouvés, Paris, 1931.

lundi, 22 mars 2010

L'Alsace réhabilité René Schickele, son écrivain maudit

L’Alsace réhabilite René Schickele, son écrivain maudit

schikele1.jpgSTRASBOURG (NOVOPress Alsace) : Le Prix Nathan Katz 2010 [1], qui distingue une œuvre du patrimoine littéraire alsacien, a été remis hier à Strasbourg à Irène Kuhn et Maryse Staiber pour la première traduction en français de Himmlische Landschaft, Paysages du ciel [2], œuvre du poète de la terre et de l’âme alsaciennes René Schickele (Obernai 1883-Vence 1940).

Cet hommage est une véritable réhabilitation. Celui que Thomas Mann comparait au Lorrain Maurice Barrès et voyait comme « le poète de la terre alsacienne, un écrivain du terroir, mais au sens le moins bourgeois, au sens le plus artistique de ce terme », occupe une place éminente dans la littérature allemande de l’entre-deux-guerres alors que son œuvre et son souvenir furent en Alsace soit oubliés soit objets de vives polémiques.

René Schickele est né, en effet, dans l’Alsace annexée par le Reich allemand ; il écrivait en allemand, la langue que l’école lui avait enseignée. Il vécut les drames de l’Alsace écartelée entre deux nations, qui forgèrent chez lui un engagement socialiste et pacifiste incompris de ses contemporains. Il en fut aussi la victime. Ses livres allaient être, en raison de cet engagement, interdits puis brûlés par le régime nazi. Quittant Berlin pour un retour en France en 1932, René Schickele ne put se faire longtemps d’illusion sur une nouvelle fortune dans la patrie dont sa mère était originaire : « Je ne suis pas fait pour la cuisine littéraire comme elle se pratique en France, c’est-à-dire à Paris. Il y a bien quelques bonnets qui me connaissent et même me jugent à ma valeur. Mais pour eux je suis le Boche qui n’a pas voulu de sa patrie en 1918. »

René Schickele n’est pourtant pas un écrivain politique. Son œuvre de poète, essayiste et romancier est immense – elle reste à traduire dans sa quasi-totalité – et marquée surtout par le lyrisme et la proximité avec la nature. Il participe à l’histoire de l’Alsace à ce titre, mais aussi au titre d’un combat pour la construction européenne qui fut éminemment avant-gardiste. Il est en effet le premier, en 1901, à avoir formulé l’idée d’une « République de l’esprit », d’une « alsacianité de l’esprit », dans laquelle l’Alsace ne pouvait être, au cœur de la grande Europe, qu’une terre de médiation entre la France et l’Allemagne :

alsace.jpg« Le pays des Vosges et le pays de la Forêt Noire, écrivit-il, étaient les deux pages d’un livre ouvert – je voyais clairement devant moi comme le Rhin loin de les séparer les unissait en les tenant ensemble serrés comme des plombs. L’une des deux pages regardait vers l’Est, l’autre vers l’Ouest, et sur chacune d’elles se trouvait le début de deux chants différents et cependant parents. Du Sud venait le fleuve et il allait vers le Nord, il recueillait en lui les eaux venues de l’Est et les eaux venues de l’Ouest pour les porter en un flot unique, en un seul tout jusqu’à la mer… Et cette mer étreignait la grande presqu’île habitée par les fils les plus jeunes, les plus insatiables de l’espèce humaine, cette presqu’île en laquelle se termine la trop puissante Asie… L’Europe. »

Le Prix Nathan Katz invite aujourd’hui à redécouvrir une œuvre majeure pour l’Alsace : une Alsace décomplexée, qui pourrait enfin revendiquer, après plus de 60 ans et toute douleur cicatrisée, son double héritage littéraire.

Viennent de paraître :
Paysages du ciel (Himmlische Landschaft), Arfuyen, mars 2010.
Terre d’Europe, Arfuyen, mars 2010.
Le Retour, seul texte de René Schickelé écrit en français, Éditions Bf, février 2010.

[cc [3]] Novopress.info, 2010, Dépêches libres de copie et diffusion sous réserve de mention de la source d’origine
[
http://fr.novopress.info [4]]


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[1] Le Prix Nathan Katz 2010: http://www.prixeuropeendelitterature.eu/html/ficheauteur.asp?id=29

[2] Paysages du ciel: http://www.arfuyen.fr/html/fichelivre.asp?id_livre=433

[3] cc: http://creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/2.0/fr/

[4] http://fr.novopress.info: http://fr.novopress.info../

Del rapporto tra volo e scrittura in Saint-Exupéry

saintEX.jpgDel rapporto tra volo e scrittura in Saint-Exupéry

Autore: Fiorenza Licitra /

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Robert Brasillach, scrittore e critico cinematografico del secolo scorso, rimproverò Saint-Exupéry di aver scritto della sua esperienza d’aviatore, asserendo che solo chi non ha esperito un mestiere e la sua arte sia in grado di parlarne con semplicità e stupore, al contrario di chi, conoscendoli bene, tende più a infiorare il racconto di sfarzi.

Come a dire che la caccia al leone può raccontarla meglio un animalista che un Hemingway.

L’autore del Volo di notte non ha bisogno di apologie, ha già fatto da sé spiegando all’ingenuità di Brasillach che un mestiere non è il risultato di una serie di regole contenuta in un manuale tecnico e non è neanche un’esperienza esteriore che vive di resoconti teorici, ma è  più la storia intima di un’azione fisica e sensuale.

Quello su cui a tal proposito vale la pena riflettere è la stretta connessione che c’è tra il volo e la scrittura, che non sono mondi dispari ed estranei, ma talmente affini da essere metafora l’uno dell’altra.

E’ grazie alle pagine di Saint-Exupéry che, se non si apprende la tecnica del volo, se ne vive tuttavia l’intima riflessione, la sospensione dal tempo e il legame con lo spazio.

Dalle sue rotte sospese l’aviatore-scrittore crea «una topografia celeste, più importante di quella terrestre, d’ordine quasi occulto, poiché si esprime solo attraverso i segni»: interpreta così le curve delle dune, decifra il colore della sabbia – scuro o tenero per un atterraggio di fortuna -, scopre che di notte la nebbia è una forma di luce e che le bianche pieghe del mare insegnano l’avversità del vento.

Accostandosi al misterioso linguaggio della natura, il cui alfabeto muto è denso di significati e di rimandi, stringe un tessuto di relazioni con il mondo grazie al quale «una pianura si fa più verde e diventa più pianura, un villaggio più villaggio».

Saint-Exupéry sa che apprendere un nuovo linguaggio, sottostando a quelle che sono le regole del gioco – tradotte a volte anche nei colpi di fucile dei Mauri – sia la vera meta del viaggiatore, a differenza del semplice turista che, ancorato alle sue convenzioni, dei luoghi coglie solo l’esotico e il pittoresco, gli aspetti più insignificanti del viaggio.

E’ nella scrittura che il pilota francese trasferisce la dialettica appresa in cielo: nei suoi racconti come nei suoi romanzi si trova la visione perspicua del mondo, la relazione con la notte e i suoi abissi, o quella con il deserto del Sahara, che delinea l’infinita ricerca del senso attraverso la simbologia del viaggio e il viaggio nella simbologia.

La letteratura non è forse questo? Non è la dimensione in cui l’uomo manifesta, mediante la parola scritta, la sua imperscrutabile relazione simbolica con il mondo? In Saint-Exupéry lo è senz’altro.

L’autore, senza utilizzare gerghi tecnici, traccia nero su bianco la rotta di stelle percorsa durante le traversate, affidando alle pagine il proprio sentimento di tenerezza per la sera che scende sulla città, che lo schianta molto più di quanto oserebbe la paura di un pericolo imminente, quella del vuoto e della morte.

A sostenere il suo lungo volo così come i suoi versi – è molto probabile che sia un poeta – è la necessità interiore, la cui voce si sente appena nel frastuono delle distrazioni e nelle abitudini indotte, ma che diviene forte e chiara quando un uomo è solo.

Ecco un altro aspetto sostanziale che accomuna il pilota allo scrittore: la solitudine di chi passeggia tra gli astri, in cerca di “un’unica stella su cui abitare”, è della stessa pasta di quella di chi prova a disegnare sulla mappa di un foglio bianco un fiume capace di toccare ogni regione del suo pensiero e ogni paese in cui dimora un sentimento. E’ una solitudine fatta d’inquietudine, di strade ignote e volti lontani, ma anche di fitte relazioni con il circostante al quale ci si accosta più facilmente quando lo si pensa, lo si immagina, lo si sente interiormente.

Infine quello che lega indissolubilmente i due mestieri, o meglio le due arti, dell’uomo Saint-Exupéry è il sogno: il pilota, che dal cielo immagina una donna in particolare o le schiene doppie dei cammelli, sogna allo stesso modo dello scrittore che, impugnando una penna, segue una visione più forte del vero.

Saint-Exupéry troverà la morte nel Luglio del 1944, mentre sorvola l’Île de Riou, a sud di Marsiglia. Nonostante le lunghe ricerche, durate anni, il suo corpo non è mai stato ritrovato, ma è normale che sia così: non lo troverete in fondo al mare, ma sul pianeta del Piccolo Principe a guardare – quando la malinconia lo coglierà forte – quarantatré tramonti in compagnia di una rosa.

Per il resto del tempo sarà più facile scorgerlo mentre «si esercita agli attrezzi tra le stelle», come quell’equilibrista del volo e della scrittura che fu.

Non bisogna cercarlo in fondo al mare, non è laggiù; più facile, invece, sarà trovarlo mentre si esercita agli attrezzi tra le stelle, come quell’equilibrista del simbolo che è.

mercredi, 17 mars 2010

Nouveautés sur le blog http://lepolemarque.blogspot.com

Landsknechts-Speisstragers-1.jpg

Nouveautés sur le blog

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Les articles de Laurent Schang

Joseph Kessel en Sibérie

Entretien avec Jean-Dominique Merchet: "Nous sortons de l'époque des guerres faciles"

 

 

dimanche, 14 mars 2010

Ernst von Salomon - Der Geächtete

Ernst von Salomon – Der Geächtete

Geschrieben von: Matthias Schneider - Ex: http://www.blauenarzisse.de/  

Freikorps2-f9911.jpgWird heute über die Konservative Revolution gesprochen, fallen den meisten wohl als erstes Oswald Spengler, Ernst Jünger oder Carl Schmitt als zentrale Theoretiker dieses Zirkels ein. Des weiteren Namen wie Stefan George oder Gottfried Benn, welche zuvorderst durch ihre lyrischen Werke bestachen und mit selbigen fester Bestandteil des Literaturkanons sind. Häufig unter den Tisch fällt aber Ernst von Salomon – völlig zu Unrecht.

Ein Preuße durch und durch

Über Spengler und Co. ist eine nicht unbeträchtliche Menge an Sekundärliteratur aus sowohl politologischer als auch literaturwissenschaftlicher Feder vorgelegt worden. Über Ernst von Salomon gibt es dagegen bei weitem nicht so viel. Die Sekundärliteratur zu seiner Person und seinem Schaffen lässt sich an maximal zwei Händen abzählen. Im Vergleich zu den Werken seiner Kollegen sind von Salomons heute weitgehend unbekannt. Eigentlich recht verwunderlich, besonders wenn man an seinen 1951 erschienenen Roman „Der Fragebogen“ denkt, welcher zum letzten nicht-linken Bestseller deutscher Sprache werden sollte. Von Salomons Wirken bis zur Veröffentlichung desselben evoziert das Bild eines bewegten, fast schon abenteuerlichen Lebens.

Geboren wurde Ernst von Salomon am 25. September 1902 in Kiel. Seine Familie stammte ursprünglich aus Venedig. Das zum damaligen Zeitpunkt preußische Kiel sollte ihn deutlich prägen. Die preußischen Tugenden verinnerlichte er schon sehr früh. Zusammen mit seinem preußischen Idealbild eines autoritären Staates sozialistischer Prägung ließ er sie zu seiner grundlegenden Lebensmaxime werden. Den entsprechenden charakterlichen Schliff erhielt er in einem preußischen Kadettenkorps. 1919 trat von Salomon in das Freiwillige Landesjägerkorps „General Maercker“ ein. Er wollte das besetzte Deutschland im Kampf gegen den Bolschewismus verteidigen. Neben der Aufgabe, kommunistische Aufstände niederzuschlagen, bestand schließlich ein weiteres Betätigungsfeld im Abschirmen der Weimarer Nationalversammlung. Hier fühlte sich von Salomon deplaziert und ausgenutzt. Es war ihm unklar, wie seine Aufgabe eigentlich auszusehen hatte.

Politischer Aktionismus als Selbstzweck?

Was von Salomon schon früh kennzeichnen sollte, war sein unbedingter Handlungswille: „Nicht das war wichtig, dass, was wir taten, sich als recht erwies, sondern dass in diesen aufgeschlossenen Tagen überhaupt gehandelt wurde.“ Die Frage nach der internationalen Verortung Deutschlands beantwortete er mit seinem erneuten Gang an die Front im Baltikum. Hier kämpfte er Seite an Seite mit den Engländern gegen ein Vordringen der Bolschewisten. Er wurde dafür, wie alle deutschen Truppenangehörigen, die sich zu diesem Schritt entschlossen hatten, von seinem Heimatland mit Verachtung gestraft. Orientierungslos und desillusioniert begaben die Truppen sich Ende 1919 in die Heimat zurück.

Nach Beteiligung am missglückten Kapp-Putsch und kurzzeitigem Aufenthalt in der Reichswehr sollte es zunächst der Kreis um den Brigadeführer Ehrhardt, ein Zusammenschluss von Freikorps sein, dessen Reihen von Salomon sich einzugliedern gedachte, um durch verschiedene Aktionen Widerstand gegen die Besatzung durch die Franzosen zu leisten. Der Wille zum unbedingten Handeln ebnete so den Weg für verschiedene Attentate, denen schließlich am 24. Juni 1922 auch Walther Rathenau zum Opfer fallen sollte.

Rathenau wurde nicht nur als Vertreter des Liberalismus, sondern auch als Erfüllungspolitiker und rechte Hand der Siegermächte geschmäht. Diesen verhängnisvollen Schritt sollte von Salomon später bereuen. Zum einen, weil er damit gegen seine preußischen Werte verstoßen hatte. Außerdem weil seine Beihilfe zu diesem Mord an einem Juden, wenn auch in seinem Fall nicht antisemitisch begründet, einen nicht unbeträchtlichen Eindruck auf Adolf Hitler machen sollte. Hitler feierte die Attentäter fortan als Vorläufer der nationalsozialistischen Bewegung. Von Salomon missfiel das sehr.

Nationalrevolutionäre Bekanntschaften: Hielscher und Jünger

Er wurde zu fünf Jahren Zuchthaus verurteilt, schwor seinem einstigen Extremismus ab und begann während dieser Zeit an eigenen Schriften zu arbeiten. Bereits 1927 entlassen schloss von Salomon Bekanntschaft mit verschiedenen nationalrevolutionär gesinnten Zirkeln. Er verkehrte unter anderem mit Friedrich Hielscher und Ernst Jünger, für deren Zeitschrift Vormarsch er als Redakteur tätig war. Während dieser Zeit engagierte er sich für die Landvolkbewegung in Schleswig-Holstein.

Das führte schließlich zu einer erneuten Verhaftung, da die aufständischen Bauern auch Bombenanschläge, allerdings nur auf Gebäude und Privatwohnungen von Regierungsvertretern, verübten. Zwar sprach sich von Salomon gegen diese Vorgehensweise aus, konnte die Bauern aber nicht davon abbringen. In der Folge wurde er mit einem Anschlag auf den Reichstag in Verbindung gebracht und zu weiteren anderthalb Jahren Zuchthaus in Moabit verurteilt.

Das literarische Werk: „Die Geächteten“, „Die Stadt“, „Die Kadetten“, „Der Fragebogen“

Während dieser Zeit verfasste von Salomon sein erstes größeres Werk, den autobiographischen Roman „Die Geächteten“. Darin erläutert er unter anderem die genauen Umstände und Beweggründe für das Rathenau-Attentat und rekapituliert die Zeit im Gefängnis. Der Titel veranschaulicht von Salomons Selbstverständnis: Immer sah er sich als einen Außenstehenden. Weder in der Weimarer Republik noch im Dritten Reich noch in der Bundesrepublik fühlte er sich je heimisch und dem herrschenden System zugehörig, sondern ausgeschlossen und eben geächtet.

Auf den Romanerstling von 1930 sollte schon zwei Jahre später „Die Stadt“ und schließlich 1933 „Die Kadetten“ folgen. Letzterer handelt von seiner eigenen Jugend im Kadettenkorps und stellt auch eine Art Loblied auf diese Zeit dar. In dem Werk „Nahe Geschichte“ (1936) bemühte sich von Salomon darum, die ideologische Trennlinie zwischen den Freikorpsverbänden, zu denen er sich einst gezählt hatte, und den Nationalsozialisten herauszustellen, insbesondere vor dem Hintergrund der zunehmenden Vereinnahmung ersterer durch letztere: „Die Partei wird wohl schwer zu schlucken haben an dem eindeutigen Verhältnis der Freikorps, auf die sich die Partei als ihre Vorgänger beruft, als Korporationen eines starken Staatsbewusstseins gegenüber dem Volk, welches freilich in allen seinen Manifestationen gegen den staatlichen Willen stand.“

Sein wohl größter Erfolg dürfte aber der ebenfalls wieder autobiographisch angelegte Roman „Der Fragebogen“ sein. Selbiger gilt heute als erster großer deutschsprachiger Nachkriegsbestseller. Er lässt die eigens durchlebten letzten 50 Jahre deutscher Geschichte inklusive aller Biegungen und Brechungen in Form von Antworten auf die im auszufüllenden Entnazifizierungsfragebogen gestellten Fragen Revue passieren. An Zynismus wird hier sowohl in Bezug auf die eigene Vergangenheit mit allen Jugendsünden als auch den vom Autor strikt abgelehnten Nationalsozialismus nicht gespart. Gleichzeitig werden die Fragen sarkastisch-spöttisch kommentiert und insbesondere die Entnazifizierungspraxis der Amerikaner kritisiert.

Von Salomon kritisierte die Alliierten ebenso wie die Nationalsozialisten

Von Salomon scheut sich nicht, konkrete Vergleiche zu den Methoden der Nationalsozialisten anzustellen. Etwa wenn die Häftlinge in den Internierungslagern der Alliierten grundlos als Kriegsverbrecher beschimpft, verprügelt oder mit Urin bespritzt werden. Dass solche Themen auf Seiten der Kritiker, auch schon unter Adenauer, für hitzige Diskussionen und Anfeindungen gegen von Salomon führten, lässt sich leicht vorstellen.

Der Hauptvorwurf an von Salomon dürfte wohl gewesen sein, durch die mitunter zugegebenermaßen etwas undifferenzierte Anklage der Amerikaner, den NS zwangsläufig aufgewertet zu haben. Dass dies keineswegs gewollt war, dürfte anhand von Salomons mehr als einmal deutlich formulierter Abneigung gegenüber Rassismus und Antisemitismus sowie dem totalitären Charakter des NS deutlich geworden sein. Nicht umsonst gab er Ille Gotthelft, eine Jüdin, als seine Frau aus, um sie vor der Verfolgung durch die Nazis zu schützen.

Deutscher Selbstbehauptungswille im verdammten 20. Jahrhundert

Ungeachtet der teilweisen negativen Kritikerstimmen war der Roman ein großer literarischer Erfolg. Auch heute noch lohnt es sich, ihn zu lesen. Von Salomon tritt hier für einen deutschen Selbstbehauptungswillen ein, welcher sich ressentimentfrei und absolut tolerant gegenüber jedweder politischer Idee, solange sie nicht ins Verbrecherische ausufert, zeigt und spricht sich gegen die Kollektivverdammung der eigenen Nation aus. Allerdings reichte der Erfolg des „Fragebogens“ nicht zum Leben und so verfasste von Salomon unter anderem wenig ernstgenommene Drehbücher für Filme. Es wurde zunehmend stiller um ihn. Ernst von Salomon starb am 9. August 1972.

Heute ist seine schillernde und facettenreiche Persönlichkeit weitgehend in Vergessenheit geraten. Auf manche mag von Salomons preußischer Geist antiquiert wirken. Seine Ideen und Betrachtungen sind aber bis heute sehr scharfsinniger Natur. Seine Erfahrungen bieten dem Leser ein weitreichendes Panorama über ein spannendes Leben in schwierigen politischen Zeiten.

La correspondance de Céline en Pléiade

La correspondance de Céline en Pléiade

Nonfiction.fr, 25/01/2009 : “Être de la Pléiade” est une des grandes obsessions littéraires des dernières années de Céline, “fameuse idée” qui lui vient dès 1956, et dont il sera question dans une bonne partie de ses lettres à Gaston Gallimard : “Les vieillards, vous le savez, ont leurs manies. Les miennes sont d’être publié dans La Pléiade.” C’est chose faite un an après sa mort, et parachevée par la parution de cette anthologie, qui rassemble 50 ans de correspondances, dont une partie inédite. Avec ce volume, la maison Gallimard met la dernière pierre à son entreprise de réédition des correspondances céliniennes . Céline aura pourtant donné du fil à retordre à ses fondateurs. S’il rend hommage à la NRF de l’avoir généreusement accueilli, c’est pour préciser entre parenthèses “avec 20 ans de retard”. La veille de sa mort, cet enragé menace Gallimard, s’il n’augmente pas les termes de son contrat, de louer un tracteur et de “défoncer la NRF”. Constamment persuadé d’être floué, il reproche à Gallimard de ne pas faire assez de publicité pour ses livres, de ne pas le remercier pour sa dédicace dans Féerie pour une autre fois, de ne pas répondre assez vite à ses lettres, mais trouve en celui-ci un interlocuteur à sa mesure, qui ne se laisse nullement démonter par ses lettres les plus déchaînées : “Vraiment Céline, vous m’étonnez, en vous lisant j’ai cru lire du Jarry.”

Il faut dire que le monde littéraire n’a jamais eu les faveurs de Céline. Au fil de ses lettres, il balance, à droite à gauche, ces “petites vacheries acidulées” dont il a le secret. La littérature est “cette grande partouze des vanités” dans laquelle les éditeurs, “parasites goulus”, les prix littéraires, “crise de grande canaillerie”, les “confrères”, vaniteux et jaloux, “Si tu veux voir les pires abrutis d’un pays, demande à voir les écrivains” écrit-il à Milton Hindus, sont l’objet d’une détestation particulière. Céline, “la première vache du pré Denoël”, “le cheval courageux qui a tiré toute sa cargaison de navets”, serait la proie de toutes les jalousies depuis la sortie du Voyage : son entrée trop éclatante en littérature fait de lui “la bête à abattre”.

Ça commençait plutôt bien, pourtant : aux antipodes du héros de Mort à Crédit, ses lettres d’enfance envoyées à ses parents lors de ses séjours linguistiques en Angleterre et en Allemagne, dressent le portrait d’un fils aimant et attentionné, qui apprend le piano et le violon “avec ardeur”, remercie ses parents pour les sacrifices qu’ils font pour lui, et compte les jours qui le séparent de leurs retrouvailles. On est étonné par l’autorité qui se dégage de ces lettres, où Destouches multiplie descriptions caustiques et adresses sentencieuses. À 15 ans, alors que sa tante Joséphine est sur le point de mourir, il recommande à sa mère de soutenir son oncle “En un mot, puisque tout espoir est perdu, cherche à lui préparer une autre vie plutôt que de le consoler de la présente.” L’appareil critique est attentif à repérer les motifs qui nourriront la future œuvre célinienne, y compris les plus prosaïques : les pardessus, les cols de chemise, l’abcès de la mère, le cresson, et surtout la traversée de la Manche, ancêtre de l’épique traversée en mer de Mort à Crédit. Second temps, le front, “spectacle d’horreurs”, “odyssée lamentable”, qui met en scène Céline en soldat courageux et patriote, récompensé de la médaille militaire, bien différent du Bardamu du Voyage. Le souvenir de la guerre apparaît dans la correspondance avec Joseph Garcin, autre ancien combattant de 14, comme le déclencheur de l’écriture, rempart à l’oubli, résistance à la dislocation des choses : “Vous le savez mon vieux, sur la Meuse et dans le Nord et au Cameroun j’ai bien vu cet effilochage atroce, gens et bêtes et loi et principes, tout au limon, un énorme enlisement – je n’oublie pas. Mon délire part de là.”

Les lettres des années 1930, et la diversité des interlocuteurs avec lesquelles elles sont échangées, constituent autant d’éclairages sur l’itinéraire intellectuel de Céline. Hantise de la décadence, ultrapessimisme mais aussi anti-intellectualisme de plus en plus forcené, antisémitisme larvé jusqu’en 1935, obsessionnel et proliférant dans toutes les correspondances à partir de 1936, en sont les traits les plus saillants. “Je suis ici l’ennemi numéro un des Juifs” se félicite Céline après la parution de Bagatelles pour un massacre, ce qui rend ses tentatives de justification d’après guerre assez dérisoires. Ces années sont également celles de la mise en place d’une figure d’ouvrier des lettres, Céline s’appliquant, comme il le fera toute sa vie, à désamorcer tous les clichés romantiques de la création littéraire : “Cette sorte d’état second, joie créatrice soi-disant ! Quelle merde !” Écrire, c’est avant tout “gagner du pèze”, pour “se tirer d’embarras matériels”. Les termes d’œuvre, et même de manuscrit sont écartés, au profit d’un vocable plus prosaïque : “blot”, “ours”, “machin”, “monstre”. Céline, qui signait ses lettres d’Afrique “des Touches”, se réclame à présent du peuple. Intéressante à ce titre la comparaison entre les lettres à Joseph Garcin, aventurier un peu voyou, proxénète à ses heures uni à Céline par les souvenirs de 14 et une “camaraderie de bordel” et à Élie Faure, jusqu’à leur rupture en 1935. “Vous êtes au nerf – vous accrochez la vie, comme moi vous êtes curieux, vous savez le prix des choses, vous n’êtes pas allé au lycée commun.” écrit-il au premier en 1933, et dans une de ses dernières lettres à Faure : “Vous ne savez pas ce que je sais. Vous avez été au lycée.” Ce rejet du lycée, de la culture scolaire, est lié à une conception de l’écriture du côté du nerf, de la viande, de la fibre, qui, débarrassée des médiations savantes, puise dans l’émotion directe, poétique à laquelle se greffe la problématique antisémite : pour Céline, Proust écrit “tarabiscoté” parce qu’il est juif, et encombré d’un trop-plein de médiations culturelles .

Autre période où l’épistolier se montre particulièrement prolifique : les années d’exil au Danemark. La plainte, et son revers, l’agression, forment la véritable toile de fond de la correspondance. En 1945, il commente ainsi son sort, alors que Le Monde a publié dès avril 1945 les premiers témoignages des rescapés des camps nazis : “Je crois que rien d’aussi monstrueux aucun fanatisme aussi enragé ne se soit jamais abattu sur une sorte d’hommes, ni juifs, ni chrétiens, ni communards n’ont connu une unanimité d’Hallali aussi impeccable.” Le ton est donné : l’Histoire est passée au filtre des récits délirants, des haines obsessionnelles qui font de Céline une victime sacrificielle, aux prises avec une “ménagerie de monstres” déchaînés. Son séjour au Danemark est transfiguré en un tableau qui tient à la fois de Shakespeare, de Breughel, et d’Ensor : La Baltique : “La Baltique est pas regardable. La Sépulcrale je l’appelle et les bateaux rares, des cercueils, les voiles : des crêpes.” Staegersallee, où il a logé : “C’est le nid, le repaire, la taverne des sorcières maléficieuses” ; Karen Jensen, qui l’a hébergé : “une sorcière de Macbeth, en plus pillarde, canaille”. Korsor, où il habite trois ans, “une sévérité de mœurs et de paroles et d’allure à faire crever 36 Calvins”.

Les correspondances sont également l’espace où s’élabore bien avant les Entretiens avec le professeur Y, un art poétique “égrené en images” . Images connues du “métro émotif” ou du “bâton tordu”, mais aussi images de l’écriture en “forêt tropicale”, pleine de lianes à abattre, en château à extirper d’une “sorte de gangue de brume et de fatras”, en “statue enfouie dans la glaise” à nettoyer, déblayer. À certains privilégiés, Céline expose les éléments maîtres de sa poétique : le rendu émotif, “Je sais bien l’émotion avec les mots, je ne lui laisse pas le temps de s’habiller en phrase”, la musique, la danse, demandant à son traducteur de respecter “le rythme dansant du texte”, “toujours au bord de la mort, ne pas tomber dedans”. On retrouve dans ces lettres tout ce qui fait le génie du style célinien, dans une version brute, impulsive, surexcitée – on sait que Céline, s’il était conscient de la valeur de sa correspondance, ne retravaillait pratiquement pas ses lettres. C’est encore lui qui parle le mieux du célèbre style Céline. Dans une lettre à la NRF de 1949, il expose ainsi ses ambitions littéraires : “rendre la prose française plus sensible, raidie, voltairisée, pétante, cravacheuse et méchante”, “style surtendu”, composé de “menues surprises”, d’infimes torsions de la langue, et d’une superposition aussi savante qu’instinctive des registres les plus divers.

Car Céline sait faire toutes les voix, et c’est pourquoi malgré la monotonie de ses plaintes et de ses colères, il lasse rarement son lecteur : il parle tantôt comme un moraliste du XVIIe siècle, égrenant sentences pascaliennes et aphorismes de son cru, tantôt comme un maquereau. Sur l’amour, par exemple, ce “bouquin que nous achetons tous à un moment de notre vie”. Non que ce soit un sujet sur lequel il convient de discourir : “Le sexe dure trois secondes. On en écrit pendant trois siècles – Quelle histoire !” Mais quand Marie Canavaggia, sa secrétaire et l’une de ses principales correspondantes, commet le tort de s’aventurer sur un terrain sentimental, Céline s’il se prétend retiré des affaires, tient à rappeler une fois pour toutes qu’il est de l’“école Cascade”, et oppose aux sentiments “accessoires et froufrouteurs” de Marie son propre idéal de santé et sa vigueur de ton. “La vie est trop courte pour se torturer d’abstinences idiotes et les hommes organisent les privations et les tortures avec trop de zèle pour que j’y ajoute des rosaires ! et des rosières ! Foutre Dieu non ! Seulement la force manque ! Les femmes ont des réserves sensuelles ‘tropicales’ ne l’oubliez pas, les plus prudes, les plus réservées et les plus piaffants lovelaces ne sont à leurs côtés jamais que de miteux velléitaires.” On est quasiment dans du Laclos quand elle lui demande de lui retourner ses lettres et qu’il s’exécute, maussade. “Ramassez toute cette brocaille !” intime-t-il à la malheureuse.

La variété des registres produit des effets comiques, parfois involontaires. Le 7 février 1935, Céline envoie deux lettres, la première, assez élégiaque, à Karen Jensen, une amie danoise : “Poésie d’abord Karen, et poésie c’est continuité d’une histoire qui va si possible de l’enfance à la mort”. L’autre à son traducteur, John Marks, en prévision d’un voyage à Londres : “Préparez-moi, mon vieux, un cul bien anglais pour ce séjour.” À travers ces lettres, c’est un vaste spectacle à plusieurs voix qui est mis en scène, où le tragique côtoie bien souvent le grotesque. La guerre est une “ignoble tragédie”, son procès une comédie où son avocat se prend pour une actrice, et Céline lui-même tantôt clown, tantôt “vieil acrobate vieillard qui remonte au trapèze”, quand au Danemark, il se remet à écrire, tantôt moraliste observateur de ce spectacle des vanités.

Ces correspondances constituent à la fois un observatoire de choix sur le parcours de Céline et la genèse des romans, et par la virtuosité du style, une pièce même de l’œuvre célinienne. L’appareil critique est particulièrement riche et éclairant, même si une notice présentant les principales figures de cette galerie de correspondants aurait pu apporter plus de commodité à une lecture souvent complexe. “Serrer au plus près l’énigme Céline”, comme le propose Henri Godard dans sa préface, n’est pas pour autant l’élucider. 1936 constitue le seuil à partir duquel un noyau obscur, harangues antisémites et paranoïa galopante, résiste à toute logique. Il y a l’amertume du Goncourt raté et de la mauvaise réception de Mort à Crédit. Il y a aussi que la pulsion, la violence forment le carburant de l’écriture romanesque, et pas seulement des pamphlets. Autoproclamé écrivain de la haine, Céline s’est cependant toujours refusé à reconnaître ce à quoi l’expression des siennes l’a amené à participer

Camille KOSKAS

Louis-Ferdinand Céline, Lettres, Gallimard Pléiade, 2009.
Merci à Pierre L.

samedi, 13 mars 2010

Tout sur Céline, chaque jour...

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Tout sur Céline, chaque jour:

le Bulletin célinien n°317/mars 2010

Le Bulletin célinien n°317 - mars 2010

Au sommaire:
- Marc Laudelout :
Bloc-notes
- M. L. : « Céline dans Tovaritch » (suite)
- Robert Le Blanc & Étienne Nivelleau : « Autour de la correspondance »
- *** : « Trois céliniens commentent Lettres »
- Pierre Lalanne : « Albert Paraz, l’homme-orchestre »
- Albert Paraz : « D’un château l’autre » [1957]
- Jacques Aboucaya : « Paraz à découvrir »
- *** : « Albert Paraz et L’Express »
- P.-L. Moudenc : « La correspondance de Céline à Paraz ».

Un numéro de 24 pages, 6 € franco.

Le Bulletin célinien
B. P. 70
B 1000 Bruxelles 22
Belgique

C’est un documentaire attrayant que la Société Européenne de Production a réalisé sur Céline à la demande du Conseil général des Hauts-de-Seine(1). Il s’intègre dans une série de portraits de personnalités ayant vécu dans cette partie de la petite couronne d’Île-de-France. Ce ne sont pas seulement les dix dernières années de la vie de l’écrivain qui sont traitées dans ce film, même si elles sont naturellement privilégiées. Au moyen d’images d’archives, c’est tout l’itinéraire de l’écrivain qui est retracé. L’ensemble, de belle facture, s’ouvre par des prises de vues aériennes, excusez du peu, de la « Villa Maïtou ». Autre intérêt du film : on peut y voir une belle brochette de « céliniens historiques », François Gibault, Henri Godard, Philippe Alméras, Frédéric Vitoux — plus le benjamin de l’équipe, David Alliot. Chacun, dans le style qui lui est propre, évoque l’homme et l’œuvre. Des témoins interviennent également : Christian Dedet (écrivain et médecin comme lui), Geneviève Frèneau (sa voisine à Meudon), Judith Magre (élève du cours de danse de Lucette), Madeleine Chapsal (qui réalisa la fameuse interview que l’on sait). Des extraits des trois entretiens télévisés (Dumayet, Parinaud, Pauwels) sont égrenés tout au long du film. De la belle ouvrage assurément.
Fallait-il choisir comme conseiller historique Fabrice d’Almeida, auteur à succès d’un livre sur La vie mondaine sous le nazisme ? Dans ce film, il ne craint pas d’affirmer que, sous l’Occupation, « l’antisémitisme de Céline contribue et va dans le sens de l’extermination qui est en cours ». Pour être sûr d’être bien compris, il ajoute : « Qu’il n’y ait pas d’ambiguïté : Céline a même dit qu’il fallait liquider les juifs ». C’est, on le voit, aller beaucoup plus loin que tous les céliniens très critiques à l’égard du pamphlétaire. Qu’ils l’acceptent ou non, ceux qui interviennent dans le film se voient ainsi indirectement associés aux affirmations de cet historien. L’un de ceux-ci évoqua jadis « le problème du sens à donner au langage paroxystique célinien »(2). Tout le problème est là, en effet. C’était à propos de la fameuse lettre à Alain Laubreaux parue dans Je suis partout en 1941. Céline concluait de la sorte : « Cocteau décadent, tant pis ! Cocteau, Licaïste, liquidé ! ». Si on met cette lettre en parallèle avec celle que Céline adresse à Cocteau lui-même peu de temps après, la perspective n’est plus exactement la même(3).
Il faut noter que ce documentaire va connaître une importante audience puisqu’il est d’ores et déjà commercialisé sous la forme d’un coffret DVD. Il va en outre être diffusé sur trois chaînes de télévision(4). C’est dire le retentissement qu’auront les dires d’Almeida. On peut penser que cette question épineuse aurait méritée d’être plutôt traitée par les biographes de l’écrivain(5).

Marc LAUDELOUT


Notes
1. Céline à Meudon (2009). Réalisation : Nicolas Craponne. Producteur : Société Européenne de Production à la demande du Conseil général des Hauts-de-Seine pour la collection « Un lieu, un destin ». Durée : 52’.
2. Philippe Alméras, « Quatre lettres de Louis-Ferdinand Céline aux journaux de l’Occupation », French Review, avril 1971. Repris dans Philippe Alméras,
Sur Céline, Éditions de Paris, 2008, pp. 11-23.
3. Lettre de Céline à Jean Cocteau in Cahiers Céline 7 (« Céline et l’actualité, 1933-1961 »), Gallimard [ Les Cahiers de la Nrf ], 2003, pp. 230-231.
4. Les chaînes « TV5 Monde », « Histoire » et France 5. Par ailleurs, le coffret a été envoyé dans les établissements scolaires, les bibliothèques et médiathèques des Hauts-de-Seine. Il est vendu (45 €) dans les musées départementaux. Les autres écrivains évoqués dans cette collection sont Chateaubriand, Charles Péguy et Paul Léautaud. Le DVD seul sera vendu 12 €. Le film peut être vu sur le site www.vallee-culture.fr ainsi que sur le blog
http://lepetitcelinien.blogspot.com.
5. Sur ce sujet, voir, par exemple, ce qu’écrit Claude Duneton : « Il est bien malaisé d’apprécier sans passion, et sur de justes balances, l’état d’esprit qui régnait à l’époque. Malgré tout ce que l’on a pu dire ensuite, le public – dont Céline faisait partie – n’avait guère le moyen de connaître, sur le moment même, les horreurs qui étaient en train de se commettre dans les camps nazis. Que l’on fût pro-hitlérien ou résistant, personne ne pouvait imaginer à quelles lugubres extrémités conduisait la haine raciale… » (
Bal à Korsør. Sur les traces de Louis-Ferdinand Céline, Grasset, 1994).

mercredi, 10 mars 2010

Il superomismo sociale di D'Annunzio

Il superomismo sociale di D’Annunzio

Autore: Luca Leonello Rimbotti - http://www.centrostudilaruna.it/

GabrieleD.jpgChe le rivoluzioni nazionali europee del XX secolo abbiano regolarmente avuto alle loro spalle il meglio dell’intellettualità dei rispettivi Paesi, e che tale prestigioso palladio non abbia l’eguale in altri contesti ideologici, costituisce una delle maggiori frustrazioni per l’intellighentzia liberalgiacobina. Nel caso del Fascismo italiano, la galleria dei padri nobili più lontani, come quella degli immediati profeti e antesignani, è sterminata. Di qui, l’ingrato lavoro cui si sottopongono da decenni i poligrafi antifascisti: nascondere se possibile, altrimenti mettere in sordina e depistare, al fine di limitare il danno che reca alla credibilità democratica il fatto che il Fascismo possa impunemente godere del prestigio postumo di tanti geni nazionali che lo precorsero. Senza andare più indietro, i casi di un Carducci, di un Oriani, di un Pascoli, di un Pirandello, di un Pareto, di un Marinetti sono conosciuti: qui si concentra sovente lo sforzo dei nuovi “negazionisti”: le assonanze, le precise rispondenze, le plateali coincidenze tra il loro pensiero ideale, sociale e politico e l’ideologia fascista vengono appunto negate o minimizzate, contestando l’incontestabile attraverso la pratica abituale del cavillo cabalistico oppure della semplice deformazione.

D’Annunzio è un caso a sé. Il grande poeta è stato a lungo ridicolizzato dai progressisti come esteta da burla, in virtù del suo “decadentismo borghese”. E a lungo è stato giudicato come nulla più che una manifestazione retorica di interessi di classe. Molti ricorderanno i frasari paramarxisti che per lunghe stagioni relegarono D’Annunzio tra i servi del capitalismo. Un solo esempio a caso: quel libro einaudiano con cui Angelo Jacomuzzi nel 1974 definiva il pensiero del Vate «funzionale all’affermazione dell’ideologia del capitalismo avanzato». Oggi, che il febbrone marxistico è degenerato in pandemìa liberista, sciocchezze del genere non sono più somministrabili. Oggi questo particolare tipo di “negazionismo” viaggia su binari meno rozzi, più sfumati. Eppure, qua e là, vediamo ancora riaffiorare con altri argomenti l’antica tendenza alla mistificazione.

Stavolta, infatti, non si vuole enfatizzare il D’Annunzio reazionario, ma piuttosto fabbricarne addirittura uno antifascista. Si passa, insomma, da una forzatura a un’invenzione di sana pianta. È il caso, ad esempio, di un breve scritto di Vito Salierno, intitolato non a caso Gabriele d’Annunzio: il disprezzo per i fascisti e il rapporto con Mussolini, che compare nel libro a più mani L’Italia e la “grande vigilia”. nella politica italiana prima del fascismo, a cura di Romain H. Rainero e Stefano B. Galli (Franco Angeli editore). Il saggetto in parola, sin da titolo, si picca di voler dimostrare che D’Annunzio e i fascisti non avevano nulla a che spartire. Due mondi diversi. A riprova, si cita la famosa lettera che il Comandante inviò a Mussolini il 16 settembre 1919, rimproverandolo di non aver mobilitato i Fasci a sostegno dell’impresa fiumana. E si cita anche l’ordine dato ai legionari, a Marcia su Roma appena terminata, di «mantenersi assolutamente estranei all’attuale situazione politica». Il fatto che D’Annunzio e Mussolini avessero la medesima ideologia non conta. Contano le occasionali divergenze sulla tattica politica. Poco importa, ad esempio, che D’Annunzio si fosse affacciato al balcone di Palazzo Marino a Milano il 3 agosto 1922 – in piena fase insurrezionale fascista – per arringare una folla nazionalista e avendo a fianco fior di squadristi e neri gagliardetti… e poco importa che in occasione della Marcia, D’Annunzio, se non si sperticò in elogi, neppure si pronunciò contro: si sa infatti che il Vate, quell’ingresso a Roma, avrebbe voluto farlo lui, mancandogli tuttavia i talenti politici per scegliere il come e il quando. Suscettibile com’era, ci rimase male quando la “rivoluzione nazionale” fu portata a compimento da altri, relegandolo ai margini della scena.

E si sa anche che certe sue rampogne a Mussolini erano figlie più di un antagonismo tra caratteri forti che non tra divergenti vedute di fondo. Mussolini aveva la capacità politica che sfuggiva completamente al Comandante, tutto avvolto nelle sue potenti evocazioni simboliche. D’Annunzio, da parte sua, ebbe il talento estetico necessario per fondare la liturgia celebrativa e la mistica comunitaria, poi ereditate dal Fascismo e socializzate su scala nazionale.

Non potendo contestare in toto la coincidenza ideologica tra Mussolini e D’Annunzio, oggi, per confutare il primo e salvare il secondo da una fratellanza ideologica che disturba, si preferisce pestare sul pedale delle marginali divergenze: ad esempio, quelle immaginate tra il corporativismo fascista e il corporativismo della Carta del Carnaro. Che effettivamente, se guardata col microscopio, rigirata in controluce, ai raggi X, proprio volendo, in alcune sfumature è un po’ diversa, che so, dalla Carta del Lavoro… Oppure, come ha fatto Ferdinando Cordova – in un suo vecchio libro recentemente ristampato –, si preferisce cavillare su certe differenze di scelta politica tra alcuni arditi e legionari dannunziani e gli arditi e gli squadristi fascisti… Insomma, una letteratura bizantina che gode ancora buona salute. Gli storici più equilibrati e meno corrivi hanno da tempo liquidato questi tentativi di imbrogliare le carte.

Il pensiero politico dannunziano, presente non solo negli scritti e discorsi politici, ma nella sua intera produzione letteraria, poetica e giornalistica, era quanto mai chiaro. L’Immaginifico possedeva il dono divino, assente nei tardi glossatori democratici, della brutale schiettezza. La sua ideologia? Ce l’ha riassunta anni fa un insospettabile come Paolo Alatri: «il principio della completa libertà d’azione dell’uomo superiore… la polemica antidemocratica e antiparlamentare, la celebrazione delle virtù della razza, l’esaltazione della guerra, l’esaltazione della romanità e la celebrazione del Risorgimento… un socialismo di superuomini…». Cos’altro aggiungere? Questa ideologia dannunziana proprio non fa venire in mente nessuna assonanza, a quanti accarezzano un improbabile D’Annunzio anti-fascista o a-fascista?

I vecchi storici marxisti erano in fondo più onesti degli attuali “revisionisti” democratici. Lo stesso Alatri – ma come lui anche i vari Ernesto Ragionieri o Gabriele De Rosa – rimarcavano per l’appunto che D’Annunzio «preparò il terreno al fascismo», proprio perché, se non fascista (un carattere come quello era maldisposto per natura a inquadrarsi in un partito comandato da un altro…), fu quanto meno protofascista. E, inoltre, proprio quegli storici ricordavano il debito che l’ideologia nazionalpopolare di D’Annunzio aveva col socialismo nazionale di Corradini, col suo imperialismo sociale e con il sindacalismo rivoluzionario: tutti elementi che furono alla base dell’ideologia fascista. Dice: ma nella Carta del Carnaro si parla di libertà, si afferma che tutti i cittadini sono uguali… e poi a capo della Reggenza il Vate mise De Ambris, un libertario antifascista. Sì, ma che dire del fatto che alla prima occasione D’Annunzio se ne sbarazzò a favore di Giuriati, che era fascista e che diventò un gerarca? Ma poi, non si parla nella Dottrina del Fascismo proprio dello “Stato etico” come manifestazione della vera libertà e dell’eguale dignità di tutti gli Italiani? E che dire poi della stragrande maggioranza dei legionari fiumani, che dal 1921 confluirono in blocco nel PNF? Senza contare che, se ci fu, come ci fu, una forte vena “di sinistra” nella Carta del Carnaro, essa fu preceduta e di molto dal programma sansepolcrista dei Fasci di Combattimento.

Per la verità, la leggenda di un D’Annunzio “di sinistra” (ma di una sinistra estrema, non tanto nazionale, quanto addirittura internazionalista e para-comunista) venne malauguratamente diffusa da De Felice e poi rinforzata da qualche suo allievo. In un famoso convegno di storici tenutosi a Pescara nel 1987, De Felice pensò bene di provare questo fantasioso schieramento del poeta, ricordando che D’Annunzio invitò a Fiume sia Gramsci che il commissario sovietico agli esteri Cicerin. Questa presa di posizione di De Felice è alla base dei tentativi della storiografia contemporanea di rinverdire la mitologia di un D’Annunzio estraneo alla politica e ai valori del Fascismo e con l’unico occhio rimastogli volto alla sinistra estrema. Ma, anche qui, si tratta di argomenti facilmente smontabili. Un conto sono le tattiche o gli atti politici contingenti, un altro conto è l’ideologia politica di fondo che sostiene un’azione. Basterà ricordare, per chiarire la faccenda, che, ad esempio, il primo Stato occidentale che riconobbe diplomaticamente l’URSS fu l’Italia, ma nel 1923 e per iniziativa di Mussolini, e senza che per questo diventasse comunista…

Fatto sta che è su mitologie di tale inconsistenza che ancora oggi si lavora. Una volta conosciuta l’opera dannunziana, una volta letta la sua straripante prosa estremistica, se ne riconoscono le tracce che anticiparono il Fascismo fin dai primi scritti giovanili negli anni Ottanta dell’Ottocento. Se il punto di partenza dell’ideologia di D’Annunzio fu il superomismo nietzscheano, a questo il poeta aggiunse col tempo quella sensibilità sociale che già era da un pezzo nell’aria sia nel nazionalismo corradiniano, sia nelle scelte dei sindacalisti rivoluzionari in favore dell’interventismo: confluiti poi l’uno e gli altri nel Fascismo. Il Vate si esprimeva a favore della energia dominatrice che agisce tanto nell’arte quanto nell’arte politica di un capo carismatico; esaltava le glorie italiane e affidava alla nazione una missione da realizzarsi attraverso i trionfi guerrieri; celebrava il destino della stirpe formulando una delle rivendicazioni imperialistiche più radicali del Novecento: a questo aggiunse l’idea di una nobiltà del popolo presente anche nell’umile lavoro quotidiano. Da Giovanni Rizzo, il prefetto che il Duce inviò al Vittoriale per sorvegliare non tanto D’Annunzio quanto la fauna di parassiti che lo circondava, sappiamo che Gardone pullulava di faccendieri e mestatori: «avversari di varia tinta, partigiani, zelatori e gelosi si davan da fare per attizzare il fuoco della discordia». Ma invano: D’Annunzio confermò fino alla fine l’identità di ideali col Fascismo. Dev’essere stata una ben strana inimicizia, quella tra i due, se ad esempio nel 1936 D’Annunzio poté inviare a Mussolini – che chiamava spesso il grande Capo – parole che non lasciano scampo: «Tutta la mia arte migliore si tendeva dal mio profondo nell’ansia di scolpire la tua figura grande, mentre tu solo contro gli intrighi de’ vecchi, contro la falsità degli ipocriti… difendevi la tua patria, la mia patria, l’Italia, l’Italia, l’Italia, tu solo, a viso aperto!…».

* * *

Tratto da Linea del 27 giugno 2008.

dimanche, 07 mars 2010

De visita en la casa de Ernst Jünger


El Aura se impregna especialmente en las sustancias orgánicas:
madera, cuero, pergamino, cera, lana, lino.
Todas ellas preparan el justo ánimo
donde la piedra y el metal ponen únicamente el acento.

Ernst Jünger


De visita en la casa de Ernst Jünger

Giovanni B. Krähe - Ex: http://geviert.wordpress.com/

No hace mucho el periódico alemán FAZ publicó un artículo sobre los necesarios trabajos de restauración en la casa del escritor alemán Ernst Jünger. Las imágenes que reproducimos en este post (© FAZ, Jünger-Haus) pertenecen a la casa de Wilflingen, localidad donde se encuentra la Jünger-Haus, construcción de época barroca (1728) perteneciente entonces al barón Franz Schenk von Stauffenberg (pariente de Klaus, el del atentado contra Hitler). Jünger vivió en esta casa desde los años cincuenta hasta su fallecimiento en 1998. En 1950 el barón Franz le ofreció al escritor una habitación en el castillo, oferta que Jünger declinó por la habitación de enfrente, una construcción del siglo XVIII con once cuartos y un jardín, destinada a la familia del Oberförsterei (inspector del bosque, ver última imagen). Un año después de la gentil oferta, Jünger se mudaría definitivamente. Personalidades como el presidente Theodor Heuss, François Mitterrand, el canciller Helmut Kohl o el escritor Jorge Luis Borges entre otros, “peregrinaron” en su momento hasta la casa del escritor de in Stahlgewittern. En las imágenes se pueden apreciar algunos de los objetos entre más de setenta mil catalogados por los técnicos y germanistas del archivo Marbach durante el trabajo de mudanza provisoria. Más de 450 fotografías de inventario y dos meses de trabajo de catalogación minuciosa, han sido necesarios para poder restituir después las cosas a su lugar exacto, luego de los trabajos de restauración. Entre las fotos podemos observar el Stahlhelm (casco de acero) de la Primera y Segunda Guerra Mundial (arriba de derecha a izquierda), la colección de fósiles marinos y la nota colección jüngeriana de Käfer, escarabajos, reflejo de su pasión por la entomología (Jünger estudió zoología en Leipzig).

Algunas cosas se quedarán en la casa: la colección de escarabajos se quedará para evitar que pueda dañarse, dada la fragilidad, al igual que la tortuga de Jünger de nombre Hebe. Jünger comenta en 1990 sobre Hebe: Ob wohl schon jemand bemerkt hat, dass die Schildkröten, änhlich wie die Katzen, gern am Bäckchen gestreichelt werden? (¿habrá notado alguien que las tortugas también gustan de ser acariciadas en su caparazón como los gatos?). Un transporte especial ha sido preparado para la biblioteca personal del autor: los libros serán transportados al archivo subterráneo de Marbach exactamente como han sido encontrados en la posición original. Cabe destacar la colección de relojes de arena (ver detalle más abajo). A continuación algunas fotos:

Más fotos:

Links:

Editorial Klett-Cotta, las obras completas

Jünger en España (El Mundo, 1995)

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jeudi, 04 mars 2010

Les plus atroces injustices...

Les plus atroces injustices...

Ex: http://zentropa.splinder.com/

"Aucun adulte ne peut lire Dickens sans percevoir ses limites, mais elles ne remettent pas en cause cette générosité d'esprit innée qui joue en quelque sorte le rôle d'une ancre et empêche presque toujours Dickens de partir à la dérive. C'est probablement là le secret de sa popularité. Cette espèce d'heureux antinomianisme que l'on trouve chez Dickens est l'un des traits caractéristiques de la culture populaire occidentale. Il est présent dans les contes et chansons humoristiques, dans les figures mythiques comme Mickey Mouse ou Popeye, dans l'histoire du socialisme ouvrier, dans les protestations populaires contre l'impérialisme, dans l'élan qui pousse un jury à accorder des indemnités exorbitantes quand la voiture d'un riche écrase un pauvre. C'est le sentiment qu'il faut toujours être du côté de l'opprimé, prendre le parti du faible contre le fort. En un sens, c'est un sentiment qui est passé de mode depuis une cinquantaine d'années.
L'homme de la rue vit toujours dans l'univers psychologique de Dickens, mais la plupart des intellectuels, pour ne pas dire tous, se sont ralliés à une forme de totalitarisme ou à une autre. D'une point de vue marxiste ou fasciste, la quasi-totalité des valeurs défendues par Dickens peuvent être assimilées à la "morale bourgeoise" et honnies à ce titre. Mais pour ce qui est des conceptions morales, il n'y a rien de plus "bourgeois" que la classe ouvrière anglaise.

dickensmisère.jpgLes gens ordinaires, dans les pays occidentaux, n'ont pas encore accepté l'univers mental du "réalisme" et de la politique de la Force. Il se peut que cela se produise un jour ou l'autre, auquel cas Dickens sera aussi désuet que le cheval de fiacre. Mais s'il a été populaire en son temps, et s'il l'est encore, c'est principalement parce qu'il a su exprimer sous une forme comique, schématique et par là même mémorable, l'honnêteté innée de l'homme ordinaire. Et il est important que sous ce rapport des gens de toutes sortes puissent être considérés comme "ordinaires". Dans un pays tel que l'Angleterre, il existe, par delà la division des classes, une certaine unité de culture. Tout au long de l'ère chrétienne, et plus nettement encore après la Révolution française, le monde occidental a été hanté par les idées de liberté et d'égalité. Ce ne sont que des idées, mais elles ont pénétré toutes les couches de la société. On voit partout subsister les plus atroces injustices, cruautés, mensonges, snobismes, mais il est peu de gens qui puissent contempler tout cela aussi froidement qu'un propriétaire d'esclaves romain, par exemple. Le millionnaire lui-même éprouve un vague sentiment de culpabilité, comme un chien dévorant le gigot qu'il a dérobé. La quasi-totalité des gens, quelle que soit leur conduite réelle, réagit passionnellement à l'idée de la fraternité humaine. Dickens a énoncé un code auquel on accordait et on continue à accorder foi, même si on le transgresse. S'il en était autrement, on comprendrait mal comment il a pu à la fois être lu par des ouvriers (chose qui n'est arrivée à aucun autre romancier de son envergure), et être enterré à Westminster Abbey."

George Orwell, Charles Dickens (1939) in Dans le ventre de la baleine et autres essais, Editions Ivrea/Encyclopédie des Nuisances, Paris, 2005, pp. 124-125.

dimanche, 28 février 2010

Ezra Pound: The Liberty of Subsidy

Copie_de_Ezra_Pound_1971.jpgThe liberty of subsidy

Ex: http://rezistant.blogspot.com/
Liberty is defined in the declaration of the Droits de l’homme, as they are proclaimed on the Aurillac monument, as the right to do anything that ne nuit pas aux autres. That does not harm others. This is the concept of liberty that started the enthusiasms in 1776 and in 1790. I see a member of the Seldes family giving half an underdone damn whether their yawps do harm or have any other effect save that of getting themselves advertised. If you were talking about the liberty of a responsible Press that is a different kettle of onions, and is something very near to the state of the Press in Italy at the moment. The irresponsible may be in a certain sense "free" though not always free of the consequences of their own irresponsibility, whatever the theoretical government, or even if there be no government whatsoever, but their freedom is NOT the ideal liberty of eighteenth-century preachers. A defect, among others, of puritanism, or of protestantism or of Calvin the damned, and Luther and all the rest of these blighters whom we Americans have, whether we like it or not, on our shoulders, is that it and they set up rigid prohibitions which take no count whatsoever of motive. Thou shalt not this and that and the other. This is a shallowness, it is the thought of inexperienced men, it is thought in two dimensions only.

What you want to know about the actions of a friend or mistress is WHY did he or she do it? If the act was done for affection you forgive it. It is only when the doer is indifferent to us that we care most for the effect. Doc Shelling used to say that the working man (American or other) wanted his rights and all of everybody else’s.“ The party ” in Russia has simplified things too far, perhaps ? too far ?We have in our time suffered a great clamour from those who ask to be “governed,” by which they mean mostly that they want to run yammering to their papa, the state, for jam, biscuits, and persistent help in every small trouble. What do they care about rights? What is liberty, if you can have subsidy?

Ezra Pound, Jefferson and/or Mussolini. L´idea statale. Fascism as I have seen it.. Stanley Nott, London 1936.

samedi, 27 février 2010

Michel Tournier: parcours philosophique

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

Michel Tournier: parcours philosophique

 

tournier.jpgMichel Tournier est un écrivain qui compte et son œuvre peut être abordée selon de multiples perspec­tives. Jean-Paul Zarader a choisi celle de la philosophie dans une étude intitulée Vendredi ou la vie sauvage de Michel Tournier: un parcours philosophique. Il donne ainsi ses raisons: «Cet ouvrage a voulu prendre au sérieux l'affirmation de Michel Tournier: “Je n'écris pas pour les enfants, j'écris de mon mieux. Et quand j'approche mon idéal, j'écris assez bien pour que les enfants aussi puissent me lire”. On s'est donc appliqué a lire Vendredi ou la vie sauvage  et à en esquisser un commentaire, sans ja­mais se référer à cette première version que constitue Vendredi ou les limbes du Pacifique. Quant au caractère philosophique du commentaire, il résulte d'une simple évidence: c'est que nul ne peut, le voudrait-il, se renier. Or Tournier est philosophe de formation et, loin de renier la philosophie, il n'a ja­mais cessé de la considérer comme la racine de son œuvre littéraire». Cet essai est suivi d'un entretien inédit avec Michel Tournier dont nous citerons un des propos: «Le principal enseignement de l'ethnographie, qui débouche sur l'idéalisme, est qu'il n'y a pas la Civilisation et le reste des sauvages, mais des civilisations, parmi lesquelles la nôtre, celle de la France de 1995 qui ne sera pas tout à fait la même que celle de la France de 1996. Et puis, il y a la civilisation des Eskimos, des Pygmées, des Papous... Il faut étudier ces civilisations. Le drame, c'est que la civilisation occidentale moderne a pour effet de détruire toute autre civilisation qui l'approche. Ainsi les Eskimos, qui avaient une civilisation solide et cohérente dans un milieu très défavorable, se sont effondrés dès lors que les Américains les ont touchés» (Jean de Bussac).

 

Jean-Paul ZARADER, Vendredi ou la voie sauvage de Michel Tournier: un parcours philosophique, Editions Vinci, 1995, (135-141, rue du Mont-Cenis, F-75.018 Paris), 222 pages, 110 FF.

samedi, 20 février 2010

Céline vient de débarquer

celine_1_louis-ferdinand-celine-0045_1262086184.jpgCéline vient de débarquer...

Lucien Rebatet

Ex: http://zentropa.splinder.com/

"Quand un matin du début de novembre 1944, le bruit se répandit dans Sigmaringen : « Céline vient de débarquer », c’est de son Kränzlin que le bougre arrivait tout droit. Mémorable rentrée en scène. Les yeux encore pleins du voyage à travers l’Allemagne pilonnée, il portait une casquette de toile bleuâtre, comme les chauffeurs de locomotive vers 1905, deux ou trois de ses canadiennes superposant leur crasse et leurs trous, une paire de moufles mitées pendues au cou, et au-dessus des moufles, sur l’estomac, dans une musette, le chat Bébert, présentant sa frimousse flegmatique de pur parisien qui en a bien connu d’autres. Il fallait voir, devant l’apparition de ce trimardeur, la tête des militants de base, des petits miliciens : « C’est ça, le grand écrivain fasciste, le prophète génial ? » Moi-même, j’en restais sans voix.  Louis-Ferdinand, relayé par Le Vigan, décrivait par interjections la gourance de Kränzlin, un patelin sinistre, des Boches timbrés, haïssant le Franzose, la famine au milieu des troupeaux d’oies et de canards. En somme, Hauboldt était venu le tirer cordialement de ce trou, et Céline, apprenant l’existence à Sigmaringen d’une colonie française, ne voulait plus habiter ailleurs.

La première stupeur passée, on lui faisait fête. Je le croyais fini pour la littérature. Quelques mois plus tôt, je n’avais vu dans son Guignol’s Band qu’une caricature épileptique de sa manière (je l’ai relu ce printemps, un inénarrable chef d’œuvre, Céline a toujours eu dix, quinze ans d’avance sur nous). Mais il avait été un grand artiste, il restait un grand voyant.  Nous nous sommes rencontrés tous les jours pendant quatre mois, seul à seul, ou en compagnie de La Vigue, de Lucette, merveilleuse d’équilibre dans cette débâcle et dans le sillage d’un tel agité. Céline, outre sa prescience des dangers et cataclysmes très réels, a été constamment poursuivi par le démon de la persécution, qui lui inspirait des combinaisons et des biais fabuleux pour déjouer les manœuvres de quantités d’ennemis imaginaires. Il méditait sans fin sur des indices perceptibles de lui seul, pour parvenir à des solutions à la fois aberrantes et astucieuses. Autour de lui, la vie s’enfiévrait aussitôt de cette loufoquerie tressautante, qui est le rythme même de ses plus grands bouquins. Cela aurait pu être assez vite intolérable. Mais la gaité du vieux funambule emportait tout.

Le « gouvernement » français l’avait institué médecin de la colonie. Il ne voulait d’ailleurs pas d’autre titre. Il y rendit des services. Abel Bonnard, dont la mère, âgée de quatre-vingt-dix ans, se mourait dans une chambre de la ville, n’a jamais oublié la douceur avec laquelle il apaisa sa longue agonie. Il pouvait être aussi un excellent médecin d’enfants. Durant les derniers temps, dans sa chambre de l’hôtel Löwen, transformée en taudis suffocant (dire qu’il avait été spécialiste de l’hygiène !) il soigna une série de maladies intrinsèquement célinesques, une épidémie de gale, une autre de chaudes-pisses miliciennes. Il en traçait des tableaux ébouriffants.  L’auditoire des Français, notre affection le ravigotaient d’ailleurs, lui avaient rendu toute sa verve. Bien qu’il se nourrît de peu, le ravitaillement le hantait : il collectionnait par le marché noir les jambons, saucisses, poitrines d’oies fumées. Pour détourner de cette thésaurisation les soupçons, une de ses ruses naïves était de venir de temps à autre dans nos auberges, à l' « Altem Fritz », au « Bären », comme s'il n'eût eu d'autres ressources, partager la ration officielle, le « Stammgericht », infâme brouet de choux rouges et de rutabagas. Tandis qu'il avalait la pitance consciencieusement, Bébert le « greffier » s'extrayait à demi de la musette, promenait un instant sur l'assiette ses narines méfiantes, puis regagnait son gîte, avec une dignité offensée.

— Gaffe Bébert ! disait Ferdinand. Il se laisserait crever plutôt que de toucher à cette saloperie... Ce que ça peut être plus délicat, plus aristocratique que nous, grossiers sacs à merde ! Nous on s'entonne, on s'entonnera de la vacherie encore plus débectante. Forcément !

Puis, satisfait de sa manœuvre, de nos rires, il s'engageait dans un monologue inouï, la mort, la guerre, les armes, les peuples, les continents, les tyrans, les nègres, les Jaunes, les intestins, le vagin, la cervelle, les Cathares, Pline l'Ancien, Jésus-Christ. La tragédie ambiante pressait son génie comme une vendange. Le cru célinien jaillissait de tous côtés. Nous étions à la source de son art. Et pour recueillir le prodige, pas un magnétophone dans cette Allemagne de malheur ! (Il en sort à présent cinquante mille par mois chez Grundig pour enregistrer les commandes des mercantis noyés dans le suif du « miracle » allemand.)

Dans la vaste bibliothèque du château des Hohenzollern Céline avait choisi une vieille collection de la Revue des Deux Mondes, 1875-1880. Il ne tarissait pas sur la qualité des études qu'il y trouvait : « Ça, c'était du boulot sérieux... fouillé, profond, instructif... Du bon style, à la main... Pas de blabla. » C'est la seule lecture dont il se soit jamais entretenu devant moi. Il était extrêmement soucieux de dissimuler ses « maîtres », sa « formation ». Comme si son originalité ne s'était pas prouvée toute seule, magnifiquement.

De temps à autre, quand nous nous promenions tous deux sans témoin, le dépit lui revenait de sa carrière brisée, mais sans vaine faiblesse, sur le ton de la gouaille :
— Tu te rends compte ? Du pied que j'étais parti... Si j'avais pas glandé à vouloir proférer les vérités... Le blot que je me faisais... Le grand écrivain mondial de la « gôche »... Le chantre de la peine humaine, de la connarderie absurde... Sans avoir rien à maquiller. Tout dans le marrant, Bardamu, Guignol, Rigodon... Prix Nobel... Les pauvres plates bouses que ça serait, Aragon, Malraux, Hemingway, près du Céline... gagné d'avance... Ah ! dis donc, où c'est que j'allais atterrir !... « Maî-aître »... Le Nobel... Milliardaire... Le Grand Crachat... Doctor honoris causa... Tu vois ça d'ici !

Bien entendu, il ne fut pas question un seul instant d’employer Céline à une propagande quelconque, hitlérienne ou française. Moi-même, tout à fait indifférent aux bricolages « ministériels », je passai l’hiver à compulser les livres d’art du Château et à grossir le manuscrit de mon roman, les Deux Etendards.

Nous devions en grande partie ces privilèges à notre ami commun, le cher Karl Epting, qui avait dirigé l’Institut allemand à Paris, le vrai lettré européen, demeuré d’une francophilie inaltérable, même après les deux années de Cherche-Midi dont il paya.

Outre  cette amitié précieuse, la mansuétude de tous les officiers allemands était acquise à Céline. Et il la fallait très large, pour qu’ils pussent fermer leurs oreilles à ses sarcasmes. Car Louis-Ferdinand était bien le plus intolérant, le plus mal embouché de tous les hôtes du Reich. Pour tout dire, il ne pardonnait pas à Hitler cette débâcle qui le fourrait à son tour dans de si vilains draps. C’était même le seul chapitre où il perdît sa philosophie goguenarde, se fît hargneux, méchant. Par réaction, par contradiction, l’antimilitariste saignant du Voyage se recomposait un passé, une âme de patriote à la Déroulède. Ah ! l’aurai-je entendu, le refrain de son fait d’armes des Flandres, « maréchal des logis Destouches, volontaire pour une liaison accomplie sous un feu d’une extrême violence », et du dessin qui l’avait immortalisé à la première page de l’Illustré National.

– En couleurs… Sur mon gaye… Au galop, le sabre au vent… Douzième cuirassier !... Premier médaillé militaire sur le champ de bataille de la cavalerie française… C’est moi, j’ai pas changé. Présent !... qui c’est qui me l’a tiré ma balle dans l’oreille ? C’est pas les Anglais, les Russes, les Amerlos… J’ai jamais pu les piffer, moi les Boches. De les voir se bagotter comme ça partout, libres, les sales « feldgrau » sinistres, j’en ai plein les naseaux, moi, plein les bottes !

– Mais enfin, Louis, tu oublies. Ils sont chez eux, ici !

– J’oublie pas, j’oublie pas, eh ! fias ! C’est bien la raison… Justement… Les faire aux pattes, sur place ! Une occasion à profiter, qui se retrouvera pas… Au ch’tar, les Frizons, tous, les civils comme les griviers. Au « Lag », derrière les barbelés, triple enceinte électrique… Tous, pas de détail. Voilà comment je la vois, moi, leur Bochie.

Il écumait, réellement furieux. Alors qu’il reniflait des traquenards sous les invites les plus cordiales, qu’il se détournait d’un kilomètre pour éviter une voiture dont le numéro ne lui paraissait « pas franc », il se livrait devant les Allemands à son numéro avec une volupté qui écartait toute prudence. Karl Epting avait projeté de constituer, pour notre aide, une Association des intellectuels français en Allemagne. Un comité s’était réuni, à la mairie de Sigmaringen. Céline y avait été convié, en place d’honneur. Au bout d’une demi-heure, il l’avait transformée en pétaudière dont rien ne pouvait plus sortir.

Un dîner eut lieu cependant le soir, singulièrement composé d’un unique plat de poisson et d’une kyrielle de bouteilles de vin rouge. De nombreuses autorités militaires et administratives du « Gau » s’étaient faites inviter, friandes d’un régal d’esprit parisien. Il y avait même un général, la « Ritterkreuz » au cou. Céline, qui ne buvait pas une goutte de vin, entama un parallèle opiniâtre entre le sort des « Friquets », qui avaient trouvé le moyen de se faire battre, mais pour rentrer bientôt chez eux, bons citoyens et bons soldats, consciences nettes, ne devant des comptes à personne, ayant accompli leur devoir patriotique, et celui des « collabos » français qui perdaient tout dans ce tour de cons, biens, honneur et vie. Alors ; lui, Céline, ne voyait plus ce qui pourrait l’empêcher de proclamer que l’uniforme allemand, il l’avait toujours eu à la caille, et qu’il n’avait tout de même jamais été assez lourd pour se figurer que sous un pareil signe la collaboration ne serait pas un maléfice atroce. Mais les hauts militaires avaient décidé de trouver la plaisanterie excellente, ils s’en égayèrent beaucoup, et Ferdinand fut regretté quand il alla se coucher.

Les Allemands passaient tout à Céline, non point à cause de ses pamphlets qu'ils connaissaient mal, mais parce qu'il était chez eux le grand écrivain du Voyage, dont la traduction avait eu un succès retentissant. Le fameux colonel Boemelburg lui-même, terrible bouledogue du S.D. et policier en chef de Sigmaringen, s'était laissé apprivoiser par l'énergumène. Il fallait bien d'ailleurs que Céline fût traité en hôte exceptionnel pour être arrivé à décrocher le phénoménal « Ausweis », d'un mètre cinquante de long, militaire, diplomatique, culturel et ultra-secret, qui allait lui permettre, faveur unique, de franchir les frontières de l'Hitlérie assiégée.

Il n'avait pas fait mystère de son projet danois : puisque tout était grillé pour l'Allemagne, rejoindre coûte que coûte Copenhague, où il avait confié dès le début de la guerre à un photographe de la Cour son capital de droits d'auteur, converti en or, et que ledit photographe avait enterré sous un arbre de son jardin. L'existence, la récupération ou la perte de ce trésor rocambolesque n'ont jamais pu être vérifiées. Mais sur la fin de février ou au début de mars, on apprit bel et bien que Céline venait de recevoir le mythique « Ausweis » pour le Danemark.

Deux ou trois jours plus tard, pour la première fois, il offrit une tournée de bière, qu'il laissa du reste payer à son confrère, le docteur Jacquot. À la nuit tombée, nous nous retrouvâmes sur le quai de la gare. Il y avait là Véronique, Abel Bonnard, Paul Marion, Jacquot, La Vigue, réconcilié après sa douzième brouille de l'hiver avec Ferdine, deux ou trois autres intimes. Le ménage Destouches, Lucette toujours impeccable, sereine, entendue, emportait à bras quelque deux cents kilos de bagages, le reliquat sans doute des fameuses malles, cousus dans des sacs de matelots et accrochés à des perches, un véritable équipage pour la brousse de la Bambola-Bramagance. Un lascar, vaguement infirmier, les accompagnait jusqu'à la frontière, pour aider aux transbordements, qui s'annonçaient comme une rude épopée, à travers cette Allemagne en miettes et en feu. Céline, Bébert sur le nombril, rayonnait, et même un peu trop. Finis les « bombing », l'attente résignée de la fifaille au fond de la souricière. Nous ne pèserions pas lourd dans son souvenir. Le train vint à quai, un de ces misérables trains de l'agonie allemande, avec sa locomotive chauffée au bois. On s'embrassa longuement, on hissa laborieusement le barda. Ferdinand dépliait, agitait une dernière fois son incroyable passeport. Le convoi s'ébranla, tel un tortillard de Dubout. Nous autres, nous restions, le cœur serré, dans l'infernale chaudière. Mais point de jalousie. Si nous devions y passer, du moins le meilleur, le plus grand de nous tous en réchapperait.
                  
Lucien REBATET, Mémoires d’un fasciste II, Pauvert, 1976, p. 218 – 224.

lundi, 15 février 2010

Per Olov Enquist et le traumatisme des Suédois

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Per Olov Enquist et le traumatisme des Suédois

 

 

Il y a quelques semaines sont parues en langue néerlandaise les mémoires du très célèbre romancier suédois, mondialement connu, Per Olov Enquist, sous le titre de « Een ander leven » (= « Une autre vie »). Dans ces mémoires, il consacre plusieurs passages (pages 191 à 207) à un roman documentaire, « Legionärerna » (= Les légionnaires »), dont il existe également une version néerlandaise, ouvrage qu’il avait publié en 1968. Le livre traite des Baltes et des Allemands réfugiés en Suède et livrés aux Soviétiques entre novembre 1945 et janvier 1946. Ce livre a permis aussi, ultérieurement, de réaliser un film sur cet  événement qui constitue toujours un traumatisme permanent en Suède. Le livre d’Enquist est paru à un moment où la Suède s’imaginait être la conscience morale du monde. Cette situation mérite quelques explications.

 

A la fin de la deuxième guerre mondiale, 3000 soldats de la Wehrmacht allemande avaient trouvé refuge sur le territoire suédois. Ils avaient été internés dans le pays. Ils avaient tenté d’échapper à l’Armée Rouge en imaginant se mettre à l’abri dans une Suède jugée sûre. L’histoire a très mal fini. Le 2 juin 1945, l’Union Soviétique exige que tous les soldats arrivés en Suède après le 8 mai 1945 leur soient livrés. Le gouvernement socialiste de Stockholm répondit le 16 juin 1945 qu’il livrerait tous les soldats de la Wehrmacht, donc aussi ceux qui avaient débarqué en Suède avant le 8 mai. Le gouvernement suédois tenait absolument à garder de bonnes relations avec l’Union Soviétique, surtout qu’il avait tout de même certaines choses à se reprocher. Pendant la guerre, les Suédois n’avaient jamais cessé de livrer du minerais de fer aux Allemands et avaient autorisé le transport de troupes allemandes à travers le territoire suédois, en direction de la Finlande.

 

A la fin du mois de novembre 1945, un navire soviétique, un transporteur de troupes, arrive dans le port de Trelleborg. Immédiatement, les soldats menacés d’être livrés optent pour la résistance passive. Plusieurs d’entre eux font la grève de la faim. Une tempête de protestation secoue les médias. Dans le centre de la capitale suédoise, des citoyens outrés organisent des manifestations. Les manifestants suédois savaient que les soldats qui seraient livrés allaient au devant d’une mort certaine. Bon nombre d’officiers suédois refusèrent d’exécuter les ordres. On chargea donc la sûreté de l’Etat d’exécuter l’ordre d’expulsion.

 

Le premier jour, soit le 30 novembre 1945, les agents de la sûreté parvinrent à mettre de force 1600 soldats sur le navire soviétique. Il y eut des scènes déchirantes. Plusieurs soldats se suicidèrent et environ 80 hommes s’automutilèrent. Ceux-ci furent à nouveau internés et échappèrent ainsi au sort fatal qu’on leur réservait, car ils furent confiés à des autorités civiles. Les blessés furent acheminés vers l’Union Soviétique en deux transports, les 17 décembre 1945 et 24 janvier 1946. Ensuite, 310 internés furent mis à la disposition des Britanniques et 50 autres livrés aux Polonais.

 

Au total, 2520 soldats de la Wehrmacht ont été déportés de Suède en Union Soviétique. On n’a jamais rien su de leur sort ultérieur. Aujourd’hui encore, le mystère demeure. Parmi eux se trouvaient 146 soldats de la Waffen SS originaires des Pays Baltes. Ce fut surtout leur sort qui a ému les Suédois. La trahison à l’égard des Baltes est devenu le traumatisme récurrent de la Suède contemporaine. Le gouvernement a essayé de se défendre en arguant que les Britanniques avaient, eux aussi, livré aux Soviétiques des dizaines de milliers de cosaques et de soldats russes de l’Armée Vlassov. L’émoi national eut toutefois pour résultat que le gouvernement suédois refusa de livrer les réfugiés civils issus des Pays Baltes. La livraison des soldats baltes, en revanche, a déterminé toute la période de la Guerre Froide en Suède.

 

Le 20 juin 1994, le ministre suédois des affaires étrangères s’est excusé, au nom de son gouvernement, auprès de la Lituanie, de l’Estonie et de la Lettonie, parce que la Suède avait livré jadis leurs compatriotes à l’empire rouge de Staline.

 

« Maekeblyde » / «  ‘t Pallieterke ».

(article paru dans « ‘t Pallieterke », Anvers, 3 février 2010 ; trad. franc. : Robert Steuckers).

 

Source :

Per Olov ENQUIST, « Een ander leven », Amsterdam, Anthos, 2009, 493 pages, 25,00 Euro – ISBN 978 90 4141 416 8.

dimanche, 14 février 2010

De Arbeider: Heerschappij en gestalte

 

De Arbeider: Heerschappij en gestalte
 
 
Ex: Nieuwsbrief Deltastichting - N°32 - Februari 2010
Dit boek van  Ernst Jünger verscheen in 1932. Twee ideologieën reikten toen naar de wereldmacht; het fascisme en het bolsjewisme. Hitler staat vlak voor zijn grote doorbraak en Stalin voert dodelijke campagnes tegen zijn tegenstanders. Het lijkt een andere wereld te worden waarbij de arbeider in een steeds technischere wereld en een geplande maatschappij, een centrale rol inneemt.
 
Ernst Jünger beschrijft in dit visionaire boek de toekomst en de heersende rol van de arbeider.
In deze indrukwekkende maar tegelijkertijd ook gevaarlijke mystiek van de arbeid ontstaat een gehele nieuwe politieke, sociale en maatschappelijke ordening. De Arbeider als 'Herrschaft und Gestalt'. Het boek werd ten onrechte door beide opkomende politieke kampen geannexeerd, want Jünger behoorde tot geen enkele partij. Jünger was de autonome schrijver, die beroemd geworden was door zijn beschrijvingen van de oorlog van 1914-1918. Vanuit die ervaring bekeek hij de zich om hem heen veranderende wereld.
 
In het eerste deel beschrijft Jünger hoe men de arbeider in die tijd probeerde te begrijpen en hoe Jüngers aanzet daarvan verschilt. Het begrip 'gestalte' is daarbij essentieel en de toepassing daarvan op de arbeider. In het tweede deel kiest Jünger een aantal terreinen waarin hij de opkomst van de gestalte van de arbeider al meent waar te nemen, zoals in de aard van de oorlogvoering in de Eerste Wereldoorlog, de uiterlijke kenmerken van het nieuwe type mens, de veranderende omgang met techniek, de nieuwe vormen van kunst, kunstbeschouwing en media, en tenslotte in de economische sturing van de maatschappij door het arbeidsplan van een arbeidsdemocratie. Het boek is voorzien van een uitgebreide inleiding en nawoord door de vertalers, en bevat ook essays van Jünger, waarin hij nader op zijn boek ingaat.
 
Dit boek kan besteld worden bij Identiteit Vzw door het sturen van een E-post.
De kostprijs bedraagt 39,95 € verzending inbegrepen!
 

samedi, 13 février 2010

Nicholson Baker et le mythe de la "guerre juste"

Nicholson Baker et le mythe de la “guerre juste”

 

nicholson baker.jpgNicholson Baker est un romancier américain bien connu: il a acquis une réputation (sulfureuse) en Allemagne, où son roman “Vox”, consacré à cette nouvelle forme de sexualité et d’érotisme qui se construit via le téléphone, a connu un succès retentissant. Mais Nicholson Baker a décidé, récemment, de ne plus se consacrer exclusivement aux romans ou à la sexualité par procuration technologique qui turlupine ses contemporains. Son nouvel ouvrage, “Menschenrauch” en allemand, “Fumée humaine”, est consacré à la seconde guerre mondiale. Quelle est la motivation qui a poussé notre auteur à changer de registre? La guerre en Irak! Elle a été vendue au public américain et britannique comme une “guerre juste”, menée par les “bons” contre un “méchant”, que l’on vouait à l’avance au gibet. Cette simplification propagandiste et belliciste, profondément cruelle parce qu’assénée avec bonne conscience, Nicholson Baker l’a tout de suite rejetée, instinctivement. Comme plus d’un pacifiste anglo-saxon, l’hypocrisie et l’hystérie des “guerres justes” menées tambour battant par Londres et Washington l’ont induit à se poser la question cruciale: existe-t-il vraiment une “guerre juste” en soi, et les guerres décrétées  “justes” de jadis ont-elles été vraiment été aussi “justes” qu’on nous l’a enseigné?

 

Nicholson Baker va se pencher sur la “guerre juste” considérée urbi et orbi comme “paradigmatique”: la seconde guerre mondiale. Dans le langage quotidien, dans les évidences médiatiques assénées à tire-larigot, cette deuxième guerre mondiale est bien la guerre la plus juste d’entre toutes les guerres justes, puisqu’elle a éradiqué le “mal absolu”, le nazisme, animé par d’abominables croquemitaines, aidés par des légions grouillantes de petits belzébuths zélés (selon Goldhagen) ou des esthètes pervers (selon Jonathan Littell). La rééducation médiatique, cinématographique et hollywoodienne nous enseigne tout cela avec grande acribie depuis des décennies, a fortiori depuis “Holocauste” et, tout récemment encore avec “Inglorious Bastards”. L’intention de Nicholson Baker n’a nullement été de pondre le énième essai “révisionniste”, « relativiste » ou critique, comme on en trouve des quantités industrielles dans les rayons des librairies anglophones. Son approche peut paraître sobre, voire sèche, mais, en tout cas, elle est très innovatrice: son livre appelle, sans pathos ni trémolos, à dénoncer la marotte de mener des “guerres justes” et à démasquer la colossale hypocrisie anglo-saxonne d’avoir baptisé “guerre juste” la seconde guerre mondiale ; pour atteindre cet objectif, l’ouvrage, volumineux, est construit d’une manière absolument originale ; il juxtapose un nombre impressionnant de coupures de textes, d’extraits de livres ou de discours, glanés dans les bibliothèques ou les archives, dans les collections de vieux journaux. Nicholson Baker les a classés par ordre chronologique. Il n’a utilisé que les sources accessibles, en posant comme principe cardinal de sa démarche que « la vérité se cache dans le monde ouvert, visible ».

 

Sa collection de citations et d’extraits de presse commence en 1892 par un fragment d’Alfred Nobel, qui dit espérer que l’invention de ses explosifs terrifiants va mettre un terme à l’envie de faire la guerre. Elle se termine par un extrait du journal de l’antifasciste judéo-allemand Victor Klemperer; il est daté du 31 décembre 1941 et son auteur exprime ses doutes quant à l’avenir de l’humanité, tant les appels au carnage le désolent et le révulsent. Entre cette première et cette dernière citation, une quantité d’assertions posées par des personnalités connues ou inconnues ou d’anecdotes révélatrices comme celles-ci : le 3 novembre 1941, l’ambassadeur britannique est bombardé d’œufs par des pacifistes américains alors qu’il tient un discours à Cleveland aux Etats-Unis ; le 4 novembre, un avion japonais lance des denrées alimentaires contaminées sur une ville chinoise ; le 5 novembre, le ghetto de Lodz en Pologne est ceinturé d’une nouvelle barrière de barbelés – motif : on attend un « arrivage » de Tziganes venus d’Autriche.

 

humansmoke2222.jpgCe livre a provoqué un tollé aux Etats-Unis : on n’a pas manqué de reprocher à Nicholson Baker de professer un « pacifisme naïf et spécieux » ; on l’accuse d’avoir « trahi la mémoire des morts », et surtout de deux grands morts, Churchill et Roosevelt, rien que parce qu’il a cité quelques-uns de leurs textes, pour prouver qu’ils ont délibérément voulu la guerre. On reproche aussi à Nicholson Baker d’avoir voulu prouver l’antisémitisme des alliés et donc d’avoir dit, par ricochet, que l’antisémitisme n’était pas une caractéristique exclusive de l’Axe. En refusant ainsi de localiser l’antisémitisme dans le seul camp allemand, Nicholson Baker aurait dédouané le nazisme et la personne d’Hitler. Telle n’était pas son intention, bien sûr, mais les manichéisme qui président aux discours bellicistes et aux narrations véhiculées par les médias ne tolèrent aucune entorse à leurs schémas binaires : il faut les accepter benoîtement ou subir ostracisme et inquisition. Si Hitler a été indubitablement antisémite, ses adversaires n’étaient pas exempts du même mal, sauf que, chez eux, il était sans doute moins virulent, déclamé de manière moins spectaculaire. Il est vrai que l’historiographie israélienne actuelle, qui n’est pas tendre avec la « narration sioniste » dominante jusqu’ici au sein de l’Etat hébreu, n’omet pas de rappeler que les maximalistes sionistes de l’entre-deux-guerres avaient des sympathies pour l’Axe et pour l’IRA, considéraient que les Britanniques étaient tout à la fois les ennemis principaux de la cause sioniste et les alliés des Arabes en Palestine et en Transjordanie et que les membres du LHI et de l’Irgoun ont lutté contre la présence anglaise et, partant, contre l’Angleterre en guerre contre le Reich et l’Italie fasciste, jusqu’en 1942, année où leurs activistes principaux ont été éliminés par l’action conjuguée des services britanniques et de la Haganah sioniste mais pro-alliée. Pour reprendre le combat contre l’Angleterre dès 1944, bien avant l’effondrement définitif du IIIème Reich (!!), et le continuer jusqu’en 1948, notamment contre la Légion Arabe du général écossais Glubb Pacha. Là encore, dans l’histoire récente du Proche-Orient, les manichéismes ne sont plus de mise dans la communauté scientifique, que l’on appartienne ou soutienne l’un camp ou l’autre.

 

On est peut-être en droit de dire, sans risque de fort se tromper, que les citations alignées par Nicholson Baker au fil des pages de son dernier ouvrage sont « subjectives ». Mais en alignant de tels textes, qui ne cadrent pas avec ce que l’on nous prie instamment de croire dur comme fer aujourd’hui, Nicholson Baker ne juge pas : il fait parler les citations et laisse son lecteur libre de former son propre jugement, parce qu’il lui apporte des éclairages nouveaux, lui ouvre des perspectives nouvelles et insoupçonnées. Ce livre nous enseigne surtout que cette fameuse « guerre juste d’entre les plus justes » que fut la seconde guerre mondiale n’a pas été menée pour les grands principes, pour la liberté ou la démocratie, ou par solidarité pour les communautés israélites d’Europe centrale persécutées, mais pour de simples raisons de puissance et d’hégémonie, d’égoïsme impérial. Avec cet ouvrage, et sans doute bien d’autres que les machines médiatiques nous dissimulent, nous entrons dans l’ère d’une historiographie allergique à toutes les orthodoxies imposées, d’une historiographie qui nous fait voyager dans le réel même, c’est-à-dire dans une immense zone grise, entre le « bien »  lumineux et le « mal » obscur.

 

Version allemande du livre de Nicholson Baker :

« Menschenrauch. Wie die Zweite Weltkrieg begann und die Zivilisation endente » (= « Fumée humaine. Comment la deuxième guerre mondiale a commencé et la Civilisation s’est achevée »), Rowohlt, Hambourg, 640 pages, 24,90 euro.

 

(source : Christel Dormagen, «  ‘Menschenrauch’ : Nicholson Baker viel gelobtes, viel gescholtenes Buch gegen den Mythos vom ‘gerechten Krieg’ », in : « Rowohlt Revue », n°87, Frühjahr 2009. Adaptation française : Dimitri Severens).

mardi, 09 février 2010

Knut Hamsun: Saved by Stalin?

Knut Hamsun: Saved by Stalin?

Editor’s Note: The following article is from Euro-Synergies, July 12, 2009. It is my translation of Robert Steuckers’ translation of a June 24, 2009 item from the Flemish ’t Pallierterke website. I have altered the title and section headings.

hamsun2In 2009, we mark the 150th birthday of Knut Hamsun (1859-1952). The Norwegian novelist, born Knut Pedersen, is, along with Hendrik Ibsen, the most widely read and translated Norwegian writer of all. In 1890, Knut Hamsun made his debut with his stylistically innovative novel Hunger. From the start, this novel was a great success and was the beginning of a long and productive literary career. In 1920, Knut Hamsun won the Nobel Prize for literature. His influence on European and American literature is immense and incalculable. Writers like Ernest Hemingway, Henry Miller, Louis-Ferdinand Celine, Hermann Hesse, Franz Kafka, Thomas Mann, and I. B. Singer were inspired by the talent of Knut Hamsun. Singer called him the “father of modern literature.” In Flanders, two writers, Felix Timmermans and Gerald Walschap, were inspired by the Norwegian Nobel Prize-winner.

In Norway, the 150th birthday of Knut Hamsun will be celebrated by theatrical exhibitions, productions, and an international conference. One of the main squares of Oslo, located just beside the national Opera, will henceforth bear his name. A monument will finally be erected in his honor. One might say that the Norwegians have just discovered the name of their very famous compatriot. Recently, a large number of towns and villages have named squares and streets for him. At the place where he resided, in Hamaroy, a “Knut Hamsun Center” will officially open on August 4th, the day of his birth. On that day, a special postage stamp will be issued. Yet Knut Hamsun was denounced and vilified for decades by the Norwegian establishment.

Hamsun lived a nomadic life much of his existence. He was born the son of a poor tailor. His destitute father entrusted him to a rich uncle. The small boy was to work for this uncle in order to repay the debts that his parents had run up, plus interest. At the end of four years, the young boy, then fourteen years old, had enough of this uncle and went out into the big world. Twice hunger forced him to emigrate to the United States where he took countless odd jobs. But always he had the same objective in mind: to become a writer. His model was his compatriot Björnstjerne Björnson.

Germanophile

After his literary breakthrough with Hunger, Hamsun became incredibly productive. He owed a large part of his success to the German translations of his works. His books received huge printings there. Thanks to his German publisher, Hamsun finally knew financial security after so many years utter destitution. But there was more. The Norwegian writer never hid his Germanophilia. Indeed, it became more pronounced as his Anglophobia grew. British arrogance revolted him. He could no longer tolerate it after the Boer Wars and the forceful interventions in Ireland. In his eyes, the British did not deserve any respect at all, only contempt. To this Anglophobia, he quickly added anti-Communism.

During the German occupation of Norway (1940-45), he certainly aided the occupiers, but remained above all an intransigent Norwegian patriot. In its articles, Knut Hamsun exhorted his compatriots to volunteer to help the Germans fight Bolshevism. In his eyes, the US president Roosevelt was an “honorary Jew.” He was received by Hitler and Goebbels with all honors. The meeting with Hitler had long-term effects. From the start, Hamsun, who was close to deafness, trampled under foot the rules of protocol and pressed the Führer to remove the feared and hated German governor Terboven.  Nobody ever had the cheek to speak to Hitler in this tone and come straight to the point. Hamsun’s intervention was, however, effective: after his visit to Hitler, the arbitrary executions of hostages ceased.

The Gallows?

On May 26th, 1945, Hamsun and his wife, a convinced National Socialist, were placed under house arrest. For unclear reasons, Hamsun was declared “psychologically disturbed” and locked up for a while in a private psychiatric clinic in Oslo. The left government wanted to get rid of him but, but aside from his Germanophilia, he was irreproachable. He had never been member of anything. Quite the contrary! Thanks to him, a good number of lives had been saved. Admittedly, he had refused to deny the sympathy he felt for Hitler.

At the end of 1945, the Soviet Minister for foreign affairs, Molotov, informed his Norwegian colleague Trygve Lie that it “would be regrettable to see Norway condemning his great writer to the gallows.” Molotov had taken this step with the agreement of Stalin. It was after this intervention that the Norwegian government abandoned plans to try Hamsun and contented itself with levying a large fine what almost bankrupted him. The question remains open: would Norway have condemned the old man Hamsun to capital punishment? The Norwegian collaborators were all condemned to heavy punishments. But the Soviet Union could exert a strong and dreaded influence in Scandinavia in the immediate post-war period.

Until his death in February 1952, the Norwegian government spoke of Hamsun as a common delinquent. He would have to wait sixty years for his rehabilitation.