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samedi, 09 janvier 2010

Slavoj Zizek, un fascista di sinistra dei nostri giorni

Slavoj Zizek, un fascista di sinistra dei nostri giorni

di Luciano Lanna

Ex: http://robertoalfattiappetiti.blogspot.com/

 Articolo di Luciano Lanna
Dal Secolo d'Italia di venerdì 30 ottobre 2009
«È tempo di sporcarsi le mani!», ci dice Slavoj Zizek, ironizzando sul «moralismo sterile» e il disincanto minimalista che pervade pressoché tutte le culture politiche. Non se ne può più, aggiunge, con quella miscela che determina quel pensiero unico - prospettato come il solo ammissibile - obbligato a oscillare tra un impolitico liberalismo permissivista e una correlativa enfasi retorica sui valori. E si deve, a suo dire, fuoriuscire da questa forma unica del senso comune attraverso un "salto" che conduca nelle ragioni profonde delle vecchie cause perse, di tutto ciò che ormai viene delineato come folle e legato ai fallimenti storico-politici del Novecento.
«Come riscattare - spiega Zizek - il potenziale emancipatore di quei fallimenti evitando la doppia trappola dell'attaccamento nostalgico al passato e dell'adattamento un po' troppo furbo alle nuove circostanze?». Una cosa è certa: i progetti di "grande politica" del '900 sono stati attraversati dalla tentazione totalitaria conducendo direttamente al proprio fallimento e a veri e propri incubi collettivi. Quei tentativi di imporre la rivoluzione hanno pordotto soprattutto regimi in cui il popolo è stato ridotto al silenzio. Ma, bisogna stare attenti - è l'invito esplicito di Zizek - a non buttare il bambino insieme all'acqua sporca. Per dirla tutta: potrebbe esistere un altro percorso possibile tra i fallimenti del '900 e l'idea e la prassi contemporanea di una riduzione della politica alla sola dimensione di amministrazione razionale di interessi?
Al filosofo di Lubiana d'altronde ne hanno dette di tutti i colori, accusandolo a seconda delle volte di essere l'«Elvis Presley della teoria della cultura» o anche un «fascista di sinistra». Ma lui in tutta risposta se n'è uscito con questo suo ultimo librone, In difesa delle cause perse (Ponte alle Grazie pp. 638, € 26,00), andato a ruba anche nelle librerie italiane. Classe 1949, laureato in filosofia, ha approfondito i suoi studi a Parigi. L'interesse per la politica è centrale nella sua riflessione tanto che nel 1990 fu anche candidato alle elezioni presidenziali del suo paese per il partito Democratico Liberale. Il suo pensiero è integralmente caratterizzato dall'applicazione e dalla chiarificazione sociale e politica dei concetti di Lacan ma tra i suoi riferimenti rientrano anche Heidegger, la Scuola di Francoforte, Kierkegaard, Pascal e da mistici quali Jakob Boehme e Angelus Silesius. È nota inoltre la sua ammirazione per Chesterton, di cui ha tradotto diversi libri in sloveno. I suoi maggiori riferimenti contemporanei sono senza dubbio Deleuze, Badiou e Rancière. La peculiarità del suo stile filosofico e della sua stessa scrittura, all'origine del suo notevole successo mediatico, è la capacità di trattare di pensiero politico facendo riferimento alla letteratura e al cinema popolari contemporanei (da Fight Club e Pulp Fiction al B-Movie italiana degli anni '70 sino ai film con Bruce Lee).
Inviso ai nostalgici dei vecchi recinti e a chi rifiuta sconfinamenti del pensiero nell'ambito dell'immaginario, Zizek viene spesso assimilato a torto ai teorici del postmodernismo e ai sostenitori della fine delle grandi narrazioni. Ma la sua posizione è addirittura antitetica a queste prospettive: «Nella lotta anni '60, tra Beatles e Rolling Stones, io stavo con gli Stones: i Beatles erano troppo soft...». E rilancia, anzi, con la necessità di riappropriarsi di una politica fatta "di passione". Tra «liberali anemici» e «fondamentalisti» pseudo-appassionati lui contesta l'opposizione di questa alternativa e invita a recuperare in politica le dimensioni del sacrificio e della disciplina. Non a caso, intervistato qualche tempo fa dal quotidiano il Manifesto, rilanciava con un ossimoro tipicamente novecentesco: «Non mi dispiace definirmi ironicamente un "fascista di sinistra"».
È originale la sua analisi degli ultimi quarant'anni: «Un aspetto dell'immediato del dopo-‘68 è stato il progressivo scivolamento verso una sorta di spiritualità all'americana. Lo spazio per l'azione collettiva era scomparso e lasciava il posto alla sessualità spiccia o a una violenza individuale diretta verso il terrorismo. La catastrofe iniziò lì». D'altronde in Italia sbagliano quei suoi detrattori che, accusandolo di nichilismo e relativismo, considerano le sue analisi rivolte esclusivamente alla sinistra. Eppure Zizek è durissimo contro la logica anti-statalista che accomuna larga parte della sinistra alla stessa impostazione di buona parte della destra, vero pensiero unico dominante: «Purtroppo non vedo - dice - nessun segno della cosiddetta estinzione dello Stato, al contrario. Perfino negli Stati Uniti, ad esempio, quasi ogni volta che si determina un conflitto tra la società civile e lo Stato, mi ritrovo a essere dalla parte di questo piuttosto che di quella...».
Le pagine di In difesa della cause perse sono estremamente chiare da questo punto di vista: «Quando le persone di sinistra lamentano il fatto che oggi solo la destra si mostra appassionata, è in grado di proporre un nuovo immaginario mobilitante, mentre la sinistra si impegna solo nell'amministrazione, esse non vedono la necessità strutturale di ciò che percepiscono». E la metafora più evidente, a suo avviso, sta nel destino dell'europeismo che di fatto «non riesce a suscitare passioni: esso è fondamentalmente un progetto di amministrazione, non un impegno ideologico». Ragion per cui il superamento dell'impasse passa, secondo Zizek, nel recupero di una libertà intesa come prassi, attraverso una versione «impegnata» della stessa libertà: «Non è qualcosa di dato - precisa il filosofo sloveno - ma essa è sempre riconquistata attraverso una dura lotta, in cui si deve essere pronti a rischiare tutto... La vera libertà non è una libertà di scelta fatta da una distanza di sicurezza, come scegliere tra una torta di fragole e una torta di cioccolato». E anche per questo, in un clima generalizzato e globale di «permissivismo che funge da ideologia dominante» è forse giunto il momento per riappropriarsi della «disciplina» esistenziale e dello «spirito di sacrificio». La libertà come tensione irriducibile e il vero libertarismo come tutt'altro dal permissivismo postmodernista. Una libertà presa sul serio e che non si determina con la rassegnazione minimalista conseguente alla presa d'atto del fallimento del Novecento. Non a caso tutto il terzo capitolo del libro è dedicato a Heidegger e agli altri intellettuali radicali tentati dal totalitarismo, ma dei quali Zizek vuole recuperare il positivo. C'è qualcosa che accomuna certe riflessioni dello sloveno a quelle dello storico israeliano Zeev Sternhell quando sosteneva: «Si può essere pieni di ammirazione per la vitalità della cultura fascista, per lo stesso senso di unità che il fascismo restituiva alla collettività, ma nello stesso tempo aborrire il totalitarismo, lo Stato poliziesco, il crimine politico. Non si è necessariamente candidati al posto di guardiani di campi di concentramento o di servi delle dittature se si riesce a percepire quello che i dissidenti degli anni '30 ammiravano nello spirito del tempo e cioé la rivolta contro la concezione utilitaristica della società».
Sbaglia quindi chi volesse accostare le suggestioni di Zizek a qualsiasi tentazione estremista o fondamentalista. Vale su tutto la sua confutazione della lettura neocon del film 300 di Zack Snyder: «I razzisti culturali occidentali amano affermare che, se i persiani fossero riusciti a sottomettere la Grecia, oggi ci sarebbero minareti ovunque in Europa. Ma quest'affermazione stupida è doppiamente sbagliata: non solo non ci sarebbe stato un Islam in caso di sconfitta della Grecia (dal momento che non ci sarebbe stato un pensiero greco e dunque un cristianesimo, presupposti storici dell'Islam); ancora più importante - conclude - è il fatto che ci sono minareti in molte città europee oggi, e il genere di tolleranza multiculturale che ha reso questa cosa possibile è per l'appunto il risultato della vittoria greca sui persiani».
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
L'articolo è anche sul sito web del Secolo d'Italia:
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Le monde comme système

aardebol300.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990

Le Monde comme Système

 

par Louis SOREL

 

Si le substantif de géopolitique n'est pas la sim­ple contraction de «géographie poli­ti­que», cette méthode d'approche des phé­no­mènes po­li­ti­ques s'enracine dans la géo­gra­phie; elle ne peut donc se désintéresser de l'évolution. Ré­pu­tée inutile et bonasse (1), la géographie est un savoir fondamentale­ment politique et un outil stratégique. Confrontée à la recomposi­tion politique du monde, elle ne peut plus se li­miter à la des­cription et la mise en carte des lieux et se définit comme science des types d'or­ganisation de l'espace terrestre. Le pre­mier tome de la nouvelle géographie univer­sel­le, dirigée par R. Bru­net, a l'ambition d'être u­ne représenta­tion de l'état du Monde et de l'é­tat d'une science. La partie de l'ouvrage di­ri­gée par O. Doll­fuss y étudie le Monde comme étant un sys­tè­me, parcouru de flux et struc­turé par quel­ques grands pôles de puissance.

 

O. Dollfuss, universitaire (il participe à la for­mation doctorale de géopolitique de Paris 8) et collaborateur de la revue Hérodote, prend le Mon­de comme objet propre d'ana­ly­ses géogra­phiques; le Monde conçu com­me totalité ou système. Qu'est-ce qu'un sys­tè­me? «Un sys­tème est un ensemble d'élé­ments interdépen­dants, c'est-à-dire liés en­tre eux par des rela­tions telles que si l'une est modifiée, les autres le sont aussi et par conséquent tout l'ensemble est trans­formé» (J. Rosnay).

 

Nombre de sciences emploient aujourd'hui u­ne méthode systémique, les sciences phy­siques et biologiques créatrices du concept, l'éco­no­mie, la sociologie, les sciences poli­tiques… mais la démarche est innovante en géogra­phie.

 

Le Monde fait donc système. Ses éléments en interaction sont les Etats territoriaux dont le maillage couvre la totalité de la sur­face ter­restre (plus de 240 Etats et Terri­toi­res), les fir­mes multinationales, les aires de marché (le mar­ché mondial n'existe pas), les aires cultu­relles définies comme espaces caractérisés par des ma­nières communes de penser, de sentir, de se comporter, de vi­vre. Les relations entre E­tats nourrissent le champ de l'international (interétatique se­rait plus adéquat) et les re­la­tions entre ac­teurs privés le champ du trans­national: par exemple, les flux intra-firmes qui repré­sen­tent le tiers du com­merce mon­dial. Ces dif­fé­­rents éléments du système Mon­de sont donc «unis» par des flux tels qu'au­cune ré­gion du monde n'est aujourd'hui à l'abri de décisions prises ail­leurs. On parle a­lors d'in­terdépendance, terme impropre puis­que l'a­symétrie est la règle.

 

L'émergence et la construction du système Mon­de couvrent les trois derniers siècles. Long­temps, le Monde a été constitué de «grai­ns» (sociétés humaines) et d'«agré­gats» (socié­tés humaines regrou­pées sous la direc­tion d'u­ne autorité unique, par exem­ple l'Empire ro­main) dont les rela­tions, quand elles exis­taient, étaient trop té­nues pour modi­fier en pro­fondeur les com­por­tements. A partir du XVIième siècle, le dé­sen­clavement des Euro­péens, qui ont con­nais­sance de la roton­dité de la Terre, va met­tre en relation toutes les par­ties du Mon­de. Naissent alors les premièrs «é­co­nomies-mondes» décrites par Immanuel Wal­ler­stein et Fernand Braudel et lorsque tou­tes les terres ont été connues, délimitées et ap­propriées (la Conférence de Berlin en 1885 a­chève la répartition des terres afri­caines entre Etats européens), le Monde fonctionne comme système (2). La «guerre de trente ans» (1914-1945) accélèrera le pro­cessus: tou­tes les huma­nités sont désor­mais en interaction spa­tiale.

 

L'espace mondial qui en résulte est profon­dé­ment différencié et inégal. Il est le produit de la combinaison des données du milieu naturel et de l'action passée et présente des sociéts hu­maines; nature et culture. En ef­fet, le poten­tiel écologique (ensemble des élé­ments phy­siques et biologiques à la dis­posi­tion d'un groupe so­cial) ne vaut que par les mo­yens techniques mis en œuvre par une société cul­turellement définie; il n'exis­te pas à propre­ment parler de «ressources na­turelles», toute ressource est «produite».

 

Et c'est parce que l'espace mondial est hété­ro­gène, parce que le Monde est un assem­blage de potentiels différents, qu'il y a des é­changes à la surface de la Terre, que l'es­pa­ce mondial est par­couru et organisé par d'innombrables flux. Flux d'hommes, de ma­tières premières, de produits manu­fac­turés, de virus… reliant les dif­férents com­par­timents du Monde. Ils sont mis en mou­vement, commandés par la circu­la­tion des capitaux et de l'information, flux mo­teurs invisibles que l'on nomme influx. Aus­si le fonctionnement des interactions spa­tia­les est conditionné par le quadrillage de ré­seaux (systèmes de routes, voies d'eau et voies ferrées, télécommunications et flux qu'ils sup­portent) drainant et irriguant les différents ter­ritoires du Monde. Inéga­le­ment réparti, cet en­semble hiérar­chisé d'arcs, d'axes et de nœuds, qui con­tracte l'es­pace terrestre, forme un vaste et invisi­ble anneau entre les 30° et 60° paral­lèles de l'hémisphère Nord. S'y localisent Etats-U­nis, Europe occidentale et Japon re­liés par leur conflit-coopération. Enjambés, les es­pa­ces intercalaires sont des angles-morts dont nul ne se préoccupe.

 

L'espace mondial n'est donc pas homogène et les sommaires divisions en points cardi­naux (Est/Ouest et Nord/sud), surimposés à la trame des grandes régions mondiales ne sont plus opératoires (l'ont-elles été?). On sait la coupure Est-Ouest en cours de cica­trisation et il est ten­tant de se «rabattre» sur le modèle «Centre-Pé­ri­phérie» de l'écono­mis­te égyptien Samir A­min: un centre dy­na­mique et dominateur vi­vrait de l'ex­ploi­tation d'une périphérie extra-dé­terminée. La vision est par trop sommaire et O. Doll­fuss propose un modèle explicatif plus ef­ficient, l'«oligopole géographique mondial». Cet oligopole est formé par les puissances ter­ritoriales dont les politiques et les stra­tégies exer­cent des effets dans le Monde en­tier. Par­te­naires rivaux (R. Aron aurait dit adver­saires-partenaires), ces pôles de com­man­de­ment et de convergence des flux, re­liés par l'anneau in­visible, sont les centres d'impulsion du sys­tème Monde. Ils orga­ni­sent en auréoles leurs périphéries (voir les Etats-Unis avec dans le premier cercle le Ca­nada et le Mexique, au-de­là les Caraïbes et l'Amérique Latine; ou encore le Japon en Asie), se combat­tent, négocient et s'allient. Leurs pouvoirs se concentrent dans quel­ques grandes métropoles (New-York, Tok­yo, Londres, Paris, Francfort…), les «îles» de l'«ar­chipel métropo­litain mon­dial». Sont mem­­bres du club les su­perpuis­sances (Etats-Unis et URSS, pôle in­com­plet), les mo­yennes puissances mondiales (ancien­nes puissances impériales comme le Royaume-Uni et la Fran­ce) et les puis­sances écono­miques comme le Ja­pon et l'Allemagne (3); dans la mouvance, de pe­tites puissances mon­diales telles que la Suisse et la Suède. Viennent ensuite des «puis­sances par anti­ci­pation» (Chine, Inde) et des pôles régio­naux (Arabie Saoudite, Afrique du Sud, Nigéria…). Enfin, le sys­tème monde a ses «arrières-cours», ses «chaos bornés» où rè­gnent la vio­lence et l'anomie (Ethiopie, Sou­dan…).

 

La puissance des «oligopoleurs» vit de la com­binatoire du capital naturel (étendue, po­sition, ressources), du capital humain (nom­bre des hommes, niveau de formation, degré de cohé­sion culturelle) et de la force ar­mée. Elle ne sau­rait être la résultante d'un seul de ces fac­teurs et ne peut faire l'é­co­nomie d'un projet po­litique (donc d'une volonté). A juste titre, l'au­teur insiste sur l'im­portance de la gouver­nance ou aptitude des appareils gouvernants à assurer le con­trôle, la conduite et l'orientation des popula­tions qu'ils encadrent. Par ailleurs, l'objet de la puissance est moins le contrôle di­rect de vastes espaces que la maîtrise des flux (grâce à un système de surveillance satelli­taire et de missiles circumterrestres) par le contrôle des espaces de communication ou synapses (détroits, isthmes…) et le traite­ment massif de l'information (4).

 

Ce premier tome de la géographie univer­selle atteste du renouvellement de la géo­graphie, de ses méthodes et de son appareil conceptuel. On remarquera l'extension du champ de la géo­graphicité (de ce que l'on es­time relever de la discipline) aux rapports de puissance entre unités politiques et es­paces. Fait notoire en Fran­ce, où la géogra­phie a longtemps pré­tendu fonder sa scien­tificité sur l'exclusion des phénomènes po­litiques de son domaine d'étu­de. Michel Serres affirme préférer «la géogra­phie, si sereine, à l'histoire, chaotique». R. Bru­net lui répond: «Nous n'avons pas la géo­gra­phie bucolique, et la paix des frondai­sons n'est pas notre refuge». Pas de géogra­phie sans drame!

 

Louis SOREL.

Sous la direction de Roger Brunet, Géo­gra­phie universelle,  tome I, Hachet­te/­Re­clus, 1990; Olivier Dollfuss, Le système Monde,  li­vre II, Hachette Reclus, 1990.

 

(1) Cf. Yves Lacoste, La géographie, ça sert d'abord à faire la guerre, petite collection Mas­pero, 1976.

(2) Cf. I. Wallerstein, The Capitalist World Economy,  Cambridge University Press, 1979 (traduction française chez Flammarion) et F. Braudel, Civilisation matérielle, Economie et Capitalisme,  Armand Colin, 1979. Du même au­teur, La dynamique du capitalisme (Champs Flammarion, 1985) constitue une utile introduc­tion (à un prix "poche").

(3) I. Ramonet, directeur du Monde diploma­ti­que, qualifie le Japon et l'Allemagne de «puis­san­ces grises» (au sens d'éminence…). Cf. «Al­lemagne, Japon. Les deux titans», Manières de voir  n°12, édition Le Monde di­plo­matique. A la recherche des ressorts com­muns des deux pays du «modèle indus­tria­liste», les auteurs se dépla­cent du champ éco­nomique au champ politique et du champ poli­tique au champ culturel tant l'é­conomique plonge ses ra­cines dans le culturel. Ph. Lorino (Le Monde di­ploma­tique,  juin 1991, p.2) estime ce recueil révéla­teur des ambiguïtés françaises à l'égard de l'Allemagne, mise sur le même plan que le Japon, en dépit d'un pro­ces­sus d'intégration ré­gionale déjà avancé.

(4) Les «îles» de «l'archipel-monde» (le terme rend compte tout à la fois de la globalité crois­san­te des flux et des interconnexions et de la fragmentation politico-stratégique de la pla­nète) étant reliée par des mots et des images, Michel Foucher affirme que l'instance cultu­relle de­vient le champ majeur de la confronta­tion (Cf. «La nouvelle planète», n°hors série de Libé­ra­tion, [ou du Soir  en Belgique, ndlr], déc. 1990). Dans le même recueil, Zbigniew Brzezinski, ancien «sherpa» de J. Carter, fait de la domina­tion américaine du marché mon­dial des té­lé­com­munications la base de la puissance de son pays; 80% des mots et des images qui cir­culent dans le monde provien­nent des Etats-Unis.

vendredi, 08 janvier 2010

Armin Mohler et la révolution conservatrice

die-konservative-revolution-196x300.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990

Armin Mohler et la «Révolution Conservatrice»

(2ième partie)

 

par Luc PAUWELS

 

 

Dans notre numéro 59/60 de novembre-décembre 1989, Robert Steuckers avait analysé la première partie de l'introduction théorique d'Armin Mohler. Au même moment, Luc Pauwels, directeur de la revue Teksten, Kommentaren en Studies (in nr. 55, 2de trimester 1989), se penchait sur le même maître-ouvrage de Mohler et mettait l'accent sur la seconde partie théorique, notamment sur la classification des différentes écoles de ce mouvement aux strates multiples. Nous ne reproduisons pas ci-dessous l'entrée en matière de Pauwels, car ce serait répéter en d'autres mots les propos de Steuckers. En revanche, le reste de sa démonstration constitue presque une sorte de suite logique à l'analyse parue dans notre n°59/60.

 

Débuts et contenu

 

Les premiers balbutiements de la Révolution Conservatrice, écrit Mohler, ont lieu lors de la Révolution française: «Toute révolution suscite en même temps qu'elle la contre-révolution qui tente de l'annihiler. Avec la Révolution française, advient victorieusement le monde qui, pour la Révolution Conservatrice représente l'adversaire par excellence. Définissons provisoirement ce monde comme celui qui refuse de mettre l'immuable de la nature humaine au centre de tout et croit que l'essence de l'homme peut être chan­gée. La Révolution française annonce ainsi la possibilité d'un progrès graduel et estime que toutes les choses, relations et événements sont explicables rationnellement; de ce fait, elle essaie d'isoler chaque chose de son contexte et de la comprendre ainsi pour soi».

 

Mohler nous rappelle ensuite un malentendu te­nace, que l'on rencontre très souvent lorsque l'on évoque la Révolution Conservatrice. Un malen­tendu qui, outre la confusion avec le fascisme et le national-socialisme, lui a infligé beaucoup de tort: c'est l'idée erronée qui veut que tout ce qui est (ou a été) fait et dit contre la Révolution fran­çaise, son idéologie et ses conséquences, relève de la Révolution Conservatrice.

 

La Révolution de 1789 a dû faire face, à ses dé­buts, à deux types d'ennemis qui ne sont en au­cune manière des précurseurs de la Révolution Conservatrice. D'abord, il y avait ses adversaires intérieurs, qui estimaient que les résultats de la Révolution française et/ou de son idéologie égali­taire étaient insuffisants. Cette opposition interne a commencé avec Gracchus Babeuf (1760-1797), adepte d'«Egalité parfaite» (la majuscule est de lui), qui voulait supprimer toutes les formes de propriété privée et espérait atteindre l'«Egalité des jouissances». Sa tentative de coup d'Etat, appelée la «Conjuration des Egaux», fut tué dans l'œuf et l'aventure se termina en parfaite égalité le 27 mai 1797... sous le couperet de la guillotine.

 

Toutes les tendances qui puisent leur inspiration dans l'égalitarisme de Babeuf et qui, sur base de ces idées, critiquent la Révolution française, n'ont rien à voir, bien entendu, avec la Révolution Conservatrice (RC). Elles appartien­nent, pour être plus précis, aux traditions du marxisme et de l'anarchisme de gauche.

 

Ensuite, la Révolution française, dès ses débuts, a eu affaire à des groupes qui la combattaient pour maintenir ou récupérer leurs positions so­ciales (matérielles ou non), que les Jacobins me­naçaient de leur ôter ou avaient détruites. Les adeptes de la RC ont toujours eu le souci de faire la différence entre leur propre attitude et cette position; ils ont qualifié l'action qui en découlait, écrit Mohler, de «restauratrice», de «réactionnaire», d'«altkonservativ» («vieille-con­servatrice»), etc. Mais, au cours du XIXième siècle, les tenants de la RC (qui ne porte pas en­core son nom, ndt) et les «Altkonservativen» font face à un ennemi commun, ce qui les force trop souvent à forger des alliances tactiques avec les réactionnaires, à se retrouver dans le même camp politique. Ainsi, la différence essentielle qui sé­pare les uns des autres devient moins perceptible pour les observateurs extérieurs. Dans les rangs mêmes de la RC, on s'aperçoit des ambiguïtés et le discours s'anémie. Pour les RC de pure eau, ces alliances et ces ambiguïtés auront trop sou­vent des conséquences fatales. Mohler nous l'explique: «Car, à la RC, n'appartiennent  —comme le couplage paradoxal des deux mots l'indique— que ceux qui s'attaquent aux fonde­ments du siècle du progrès sans simplement vouloir une restauration de l'Ancien Régime».

 

Sous sa forme pure, la RC est toujours restée au stade de la formulation théorique. Rauschning, lui aussi, décrit ce caractère composite dans son ouvrage intitulé précisément Die Konservative Revolution: «Le mouvement opposé, qui se dresse contre le développement des idées révolu­tionnaires, a amorcé sa croissance au départ de stades initiaux embrouillés et semi-conscients, pour atteindre ce que nous nommons, avec Hugo von Hoffmannstahl, la RC. Elle représente le renversement complet de la tendance politique actuelle. Mais ce contre-mouvement n'a pas en­core trouvé d'incarnation pure, adaptée à lui-même. Il participe aux tentatives d'instaurer des modèles d'ordre totalitaire et césariste ou à des essais plattement réactionnaires. C'est pour toutes ces raisons, précisément, qu'il reste confus et brouillon...».

 

Sur base de cette constatation, Mohler observe que toute description cohérente du processus de maturation de la RC se mue automatiquement en une véritable histoire des idées. Si on cherche à la décrire comme une partie intégrante de la réalité politique, elle déchoit en un événement subalterne ou marginal. De ce fait, il ne faut pas donner des limites trop exiguës à la RC: elle déborde en effet sur d'autres mouvements, d'autres courants de pensée. Et vu le flou de ces limites, flou dû à la très grande hétérogénéité des choses que la RC embrasse, des choses qui font irruption dans son champs, Mohler est obligé de tracer une démar­cation arbitraire afin de bien circonscrire son su­jet. Il s'explique: «Au sens large, le terme "Révolution Conservatrice" englobe un ensemble de transformations s'appuyant sur un fondement commun, des transformations qui se sont ac­complies ou qui s'annoncent, et qui concerne tous les domaines de l'existence, la théologie comme par exemple les sciences naturelles, la musique comme l'urbanisme, les relations inter­familiales comme les soins du coprs ou la façon de construire une machine. Dans notre étude, nous nous bornerons à donner une définition ex­clusivement politique au terme; notre étude se limitant à l'histoire des idées, nous désignons par "Révolution Conservatrice" une certaine pensée politique».

 

Les pères fondateurs, les précurseurs et les parrains

 

Une pensée politique, une Weltanschauung, im­plique qu'il y ait des penseurs. Mohler les appelle les Leitfiguren,  les figures de proue, que nous nommerions par commodité les «précurseurs». Mohler souligne, dans la seconde partie de son ouvrage, inédite dans les premières éditions, que l'intérêt pour les précurseurs s'est considérable­ment amplifié. Les figures qui ont donné à la RC sa plus haute intensité spirituelle et psychique, ses penseurs les plus convaincants et aussi ses incarnations humaines les plus irritantes ont dé­sormais trouvé leurs biographes et leurs ana­lystes».

 

Si l'on parle de «père fondateur», il faut évidem­ment citer Friedrich Nietzsche (1844-1900), re­connu par les amis et les ennemis comme l'initiateur véritable du phénomène intellectuel et spirituel de la RC. A côté de lui, le penseur fran­çais, moins universellement connu, Georges Sorel (1847-1922)... Nous reviendrons tout à l'heure sur ces deux personnages centraux.

 

Au second rang, une génération plus tard, nous trouvons le «trio» (ainsi que le nomme Mohler): Carl Schmitt (1888-1985), Ernst Jünger (°1895) et Martin Heidegger (1889-1976). Mohler cite ensuite toute une série de penseurs dont l'influence sur la RC est sans doute moins directe mais non moins intense. Les parrains non-alle­mands sont essentiellement des sociologues et des historiens du début de notre siècle qui, très tôt, avaient annoncé le crise du libéralisme bour­geois: les Italiens Vilfredo Pareto (1848-1923) et Gaëtano Mosca (1858-1941), l'Allemand Robert(o) Michels (1876-1936), installé en Italie, l'Américain d'origine norvégienne Thorstein Veblen (1857-1929). L'Espagne nous a donné Miguel de Unamuno (1864-1936) puis, une gé­nération plus tard, José Ortega y Gasset (1883-1956). La France, elle, a donné le jour à Maurice Barrès (1862-1923).

 

Quelques-uns de ces penseurs revêtent une double signification pour notre propos: ils sont à la fois «parrains» de la RC en Allemagne et partie intégrante dans les initiatives conservatrices-révo­lutionnaires qui ont animé la scène politico-idéo­logiques dans nos propres provinces.

 

Parmi les «parrains» allemands de la RC, Mohler compte le compositeur Richard Wagner (1813-1883), les poètes Gerhart Hauptmann (1862-1946) et Stefan George (1868-1933), le psycho­logue Ludwig Klages (1872-1956) et, bien sûr, Thomas Mann (1875-1955), Gottfried Benn (1896-1956) et Freidrich-Georg Jünger (1898-1977), le frère d'Ernst.

 

D'autres parrains allemands sont à peine connus dans nos provinces; Mohler les cite: les poètes Konrad Weiss (1880-1940) et Alfred Schuler (1865-1923), les écrivains Rudolf Borchardt (1877-1945) et Léopold Ziegler (1881-1958), un ami d'Edgar J. Jung, connu surtout pour son livre Volk, Staat und Persönlichkeit («Peuple, Etat et personnalité»; 1917). Enfin, il y a Max Weber (1864-1920), le plus grand sociologue que l'Allemagne ait connu, célèbre dans le monde entier mais pas assez pratiqué dans nos cercles non-conformistes.

 

La RC dans

d'autres pays

 

Pour Mohler, la RC est «un phénomène politique qui embrasse toute l'Europe et qui n'est pas en­core arrivé au bout de sa course». Dans la préface à la première édition de son ouvrage, nous lisons que la RC est «ce mouvement de rénovation intel­lectuelle qui tente de remettre de l'ordre dans le champs de ruines laissé par le XIXième siècle et cherche à créer un nouvel ordre de la vie. Mais si nous ne sélectionnons que la période qui va de 1918 à 1932, nous pouvons quand même affir­mer que la RC commence déjà au temps de Goethe et qu'elle s'est déployée sans interruption depuis lors et qu'elle poursuit sa trajectoire au­jourd'hui sur des voies très diverses. Et si nous ne présentons ici que la partie allemande du phé­nomène, nous n'oublions pas que la RC a touché la plupart des autres pays européens, voire cer­tains pays extra-européens».

 

Mohler réfute la thèse qui prétend que la RC est un phénomène exclusivement allemand. Il suffit de nommer quelques auteurs pour ruiner cet opi­nion, explique Mohler. Quelques exemples: en Russie, Dostoievski (1821-1881), le grand écri­vain, chaleureux nationaliste et populiste russe; les frères Konstantin (1917-1860) et Ivan S. Axakov (1823-1886). En France, Georges Sorel (1847-1922), le social-révolutionnaire le plus original qui soit, et Maurice Barrès (1862-1923). Ensuite, le philosophe, homme politique et écri­vain espagnol Miguel de Unamuno (1864-1936), l'économiste et sociologue italien Vilfredo Pareto (1848-1923), célèbre pour sa théorie sur l'émergence et la dissolution des élites. En Angleterre, citons David Herbert Lawrence (1885-1930) et Thomas Edward Lawrence (1888-1935), qui fut non seulement le mystérieux «Lawrence d'Arabie» mais aussi l'auteur des Seven Pillars of Wisdom,  de The Mint,  etc.

 

Cette liste pourrait être complétée ad infinitum. Bornons-nous à nommer encore T.S. Eliot et le grand Chesterton pour la Grande-Bretagne et Jabotinski pour la diaspora juive. Tous ces noms ne sont choisis qu'au hasard, dit Mohler, parmi d'autres possibles.

 

Dans les Bas Pays de l'actuel Bénélux, on ob­serve un contre-mouvement contre les effets de la Révolution française dès le début du XIXième siècle. En Hollande, les conservateurs protestants se donnèrent le nom d'«antirévolutionnaires», ce qui est très significatif. Guillaume Groen van Prinsterer (1801-1876) et Abraham Kuyper (1837-1920) donnèrent au mouvement antirévo­lutionnaire et au parti du même nom (ARP, de­puis 1879) une idéologie corporatiste et orga­nique de facture nettement populiste-conservatrice (volkskonservatief). Conrad Busken Huet (1826-1886), prédicateur, journaliste et romancier, in­fléchit son mouvement, Nationale Vertoogen, contre le libéralisme, héritier de la Révolution française. Son ami Evert-Jan Potgieter (1808-1875) qui, en tant qu'auteur et co-auteur de De Gids,  avait beaucoup de lecteurs, évolua, lui aussi, dans sa critique de la société, vers des positions conservatrices-révolutionnaires; il dé­crivait ses idées comme participant d'un «radicalisme conservateur» (konservatief radika­lisme).

 

Après la première guerre mondiale, aux Pays-Bas, les idéaux conservateurs-révolutionnaires avaient bel et bien pignon sur rue et se distin­guaient nettement du conservatisme confession­nel. Ainsi, le Dr. Emile Verviers, qui enseignait l'économie politique à l'Université de Leiden, adressa une lettre ouverte à la Reine, contenant un programme assez rudimentaire d'inspiration con­servatrice-révolutionnaire. Sur base de ce pro­gramme rudimentaire, une revue vit le jour, Opbouwende Staatkunde  (Politologie en marche). Le philosophe et professeur Gerard Bolland (1854-1922) prononça le 28 septembre 1921 un discours inaugural à l'Université de Leiden, tiré de son ouvrage De Tekenen des Tijds (Les signes du temps), qui lança véritablement le mouvement conservateur-révolutionnaire aux Pays-Bas et en Flandre.

 

Dans les lettres néerlandaises, dans la vie intellec­tuelle des années 20 et 30, les tonalités et in­fluences conservatrices-révolutionnaires étaient partout présentes: citons d'abord la figure très contestée d'Erich Wichman sans oublier Anton van Duinkerken, Gerard Knuvelder, Menno ter Braak, Hendrik Marsman et bien d'autres. En Flandre, la tendance conservatrice-révolutionnaire ne se distingue pas facilement du Mouvement Flamand, du nationalisme flamand et du courant Grand-Néerlandais: la composante national(ist)e de la RC domine et refoule facilement les autres. Hugo Verriest et Cyriel Verschaeve, deux prêtres, doivent être mentionnés ici (1), de même qu'Odiel Spruytte (1891-1940), un autre prêtre peu connu mais qui fut très influent, surtout parce qu'il était un brillant connaisseur de l'œuvre de Nietzsche (2). En dehors du mouvement fla­mand, il convient de mentionner le leader socia­liste Henri De Man (3), le Professeur Léon van der Essen (4) et Robert Poulet, récemment décédé et auteur, entre autres, de La Révolution est à droite (5). Sans oublier le Baron Pierre Nothomb (6), chef des Jeunesses Nationales et Charles Anciaux de l'Institut de l'Ordre Corporatif (7).

 

Les noms de Lothrop Stoddard et de Madison Grant, défenseurs soucieux de l'identité de la race blanche, de James Burnham, théoricien de The Managerial Revolution,  mais aussi auteur du The Suicide of the West  et de The War we are in, montrent que les Etats-Unis aussi ont contribué à la RC. Dans les grands bouleversements qui af­fectent depuis quelques dizaines d'années l'Afrique, l'Asie et l'Amérique Latine, on peut, explique Mohler, trouver des phénomènes appa­rentés: «Notamment le mélange, caractéristique de la RC, de lutte pour la libération nationale, de révolution sociale et de rédécouverte de sa propre identité».

 

Le mouvement ouvrier péroniste en Argentine, avec Juan et Evita Perón, constitue, sur ce cha­pitre, un exemple d'école. Plus nettement mar­quée encore est l'œuvre du révolutionnaire chi­nois, le Dr. Sun Ya-Tsen (1866-1925), fondateur du Kuo-Min-Tang, qui, dans son livre Les trois principes du peuple (8), prêche explicitement pour le nationalisme, la révolution sociale et la voie chinoise vers la démocratie.

 

Mohler pose un constat: le fait que la Révolution française a mis en branle un contre-mouvement conservateur dont le point focal a été l'Allemagne, indique clairement que nous avons affaire à un phénomène de dimensions au moins européennes; «L'accent mis sur l'élément alle­mand dans la RC mondiale se justifie sur certains plans. Mêmes les expressions non allemandes de cette révolution intellectuelle contre les idées de 1789 s'enracinent dans ce chapitre de l'histoire des idées en Allemagne, qui s'étend de Herder au Romantisme. En Allemagne même, cette révolte a connu sa plus forte intensité».

 

L'un des facteurs qui a le plus contribué à l'européanisation générale de la RC est sans con­teste la large diffusion des œuvres et des idées de Nietzsche. Armin Mohler tente de ne pas englo­ber Nietzsche dans la RC, mais démontre de fa­çon convaincante que sans Nietzsche, le mouve­ment n'aurait pas acquis ses Leitbilder («images directrices») typiques et communes. Son in­fluence s'est faite sentir dans les Bas Pays, no­tamment chez le jeune August Vermeylen (9) et, d'après H.J. Elias (10), sur toute une génération d'étudiants de l'Athenée d'Anvers, parmi les­quels nous découvrons Herman van den Reeck, Max Rooses, Lode Claes et d'autres figures cé­lèbres. La philosophie de Nietzsche a permis qu'éclosent dans toute l'Europe des courants d'inspiration conservatrice-révolutionnaire.

 

Le Normand Georges Sorel, le second «père fondateur» de la RC selon Mohler (11), est toute­fois resté inconnu dans nos régions. Cet ingé­nieur et philosophe n'a pratiquement jamais été évoqué dans notre entre-deux-guerres (12). A notre connaissance, la seule publication néerlan­daise qui parle de lui est l'étude de J. de Kadt sur le fascisme italien; elle date de 1937 (13). On dit qu'il aurait exercé une influence discrète sur Joris van Severen (14) mais son meilleur biographe, Arthur de Bruyne (15), dont le travail est pourtant très fouillé, ne mentionne rien.

 

Les groupes «völkisch»

 

Nous ne devons pas concevoir la RC comme un ensemble monolithique. Elle a toujours été plu­rielle, contradictoire, partagée en de nombreuses tendances, mouvements et mentalités souvent antagonistes. Mohler distingue cinq groupes au sein de la RC; leurs noms allemands sont: les Völkischen, les Jungkonservativen  et les Nationalrevolutionäre, dont les tendances idéo­logiques sont précises et distinctes. Ensuite, il y a les Bündischen  et la Landvolkbewegung, que Mohler décrit comme des dissidences historiques concrètes qui n'ont produit des idéologies spéci­fiques que par la suite. Cette classification en cinq groupes de la RC allemande n'est pas aisément transposable dans les autres pays. Partout, on trouve certes les mêmes ingrédients mais en doses et mixages chaque fois différents. Cette prolixité rend évidemment l'étude de la RC très passionnante.

 

Le premier groupe, celui des Völkischen, met l'idée de l'«origine» au centre de ses préoccupa­tions. Les mots-clefs sont alors, très souvent, le peuple (Volk), la race, la souche (Stamm)  ou la communauté linguistique. Et chacun de ces mots-clefs conduit à l'éclosion de tendances völkische  très différentes les unes des autres. Dans la foule des auteurs allemands de tendance völkische, si­gnalons-en quelques-uns qui ont été lus et appré­ciés à titres divers chez nous, de manière à ce que le lecteur puisse discerner plus aisément la nature du groupe que par l'intermédiaire d'une longue démonstration théorique: Houston Stewart Chamberlain, Adolf Bartels, Hans F.K. Günther, Ernst Bergmann, Erich et Mathilde Ludendorff, Herman Wirth et Erwin Guido Kolbenheyer.

 

Chez nous, quand la tendance völkische est évo­quée, l'on songe tout de suite à Cyriel Verschaeve qui y a indubitablement sa place. Les mots-clefs volk  (peuple) et taal  (langue) peuvent toutefois nous induire en erreur car l'ensemble du mouvement flamand a pris pour axes ces deux vocables. Une fraction seulement de ce mouve­ment peut être considérée comme appartenant à la tendance völkische, notamment une partie de l'orientation grande-néerlandaise qui, explicite­ment, plaçait le «principe organique de peuple» (organische volksbeginsel),  théorisé par Wies Moens (16), ou le «principe national-populaire», au-dessus de toutes autres considérations poli­tiques et/ou philosophiques. Nous songeons à Wies Moens lui-même et à la revue Dietbrand,  à Ferdinand Vercnocke, à Robrecht de Smet et sa Jong-Nederlandse Gemeenschap (Communauté Jeune-Néerlandaise), à l'aile dite Jong-Vlaanderen (Jeune-Flandre) de l'activisme (17), à l'anthropologue Dr. Gustaaf Schamelhout (18), etc.

 

Au sein de la tendance völkische  a toujours co­existé, chez nous, une tradition basse-allemande (nederduits),  à laquelle appartenaient Victor Delecourt et Lodewijk Vlesschouwer (qui partici­pait, e.a., à la revue De Broederhand),  le Aldietscher  (Pan-Thiois) Constant Jacob Hansen (1833-1910) (19) et le germanisant plus radical encore Pol de Mont (1857-1931), qui déjà avant la première guerre mondiale avait développé son propre corpus völkisch.

 

Le groupe des Jungkonservativen

 

A rebours de volks (völkisch), le terme de jung­konservativ (jongkonservatief)  n'a jamais, à ma connaissance, été utilisé dans nos provinces. En Allemagne, démontre Mohler, le terme jungkon­servativ  est le vocable classique qu'ont utilisé les fractions du mouvement conservateur qui, par l'adjonction de l'adjectif «jeune» (jung), vou­laient se démarquer du conservatisme antérieur, purement «conservant» et réactionnaire, l'Altkonservativismus. Les Jungkonservativen  s'opposent, en esprit et sur la scène politique, au monde légué par 1789 et tirent de cette opposition des conséquences résolument révolutionnaires. Les grandes figures du Jungkonservativismus,  également connue hors d'Allemagne, sont no­tamment Oswald Spengler (20), Arthur Moeller van den Bruck (21), Othmar Spann, Hans Grimm et Edgar J. Jung.

 

Le peuple et la langue, concepts-clefs des Völkischen, ne sont certes pas niés par les Jungkonservativen,  encore moins méprisés. Mais pour eux, ces concepts ne sont pas perti­nents si l'on veut construire un ordre: ils condui­sent à la constitution d'Etats nationaux fermés, monotone, comparables aux Etats d'inspiration jacobine. De plus, ces Etats précipitent l'Europe, continent qui n'a que peu de frontières linguis­tiques et ethniques précises, dans des conflits frontaliers incessants, dans des querelles d'irrédentisme, des guerres balkaniques. En per­vertissant le principe völkisch,  ils provoquent une extrême intolérance à l'encontre des minorités ethniques et linguistiques à l'intérieur de leurs propres frontières. De tels débordements, l'histoire en a déjà assez connus.

 

Le mot-clef pour les Jungkonservativen est dès lors le Reich. L'idée de Reich,  prisée également dans les Bas Pays, n'implique pas un Etat fermé à peuple unique ni un Etat créé par un peuple conquérant sachant manier l'épée. Le Reich est une forme de vivre-en-commun propre à l'Europe, né de son histoire, qui laisse aux souches ethniques et aux peuples, aux langues et aux régions, leurs propres identités et leurs propres rythmes de développement, mais les ras­semble dans une structure hiérarchiquement su­périeure. Dans ce sens, explique Mohler, l'Etat de Bismarck et celui de Hitler ne peuvent être considérés comme des avatars de l'idée de Reich. Ce sont des formes étatiques qui oscillent entre l'Etat-Nation de type jacobin et l'Etat-conquérant impérialiste à la Gengis Khan.

 

En langue néerlandaise, Reich  peut parfaitement se traduire par rijk. Dans d'autres langues, le mot allemand est souvent traduit à la hâte par des mots qui n'ont pas le même sens: «Empire» suggère trop la présence d'un empereur; «Imperium» fait trop «impérialiste»; «Commonwealth» suggère une association de peuples beaucoup plus lâche.

 

Mentionnons encore trois particularités qui nous donnerons une image plus complète du groupe jungkonservativ.  D'abord, l'influence chrétienne est la plus prononcée dans ce groupe. L'idée médiévale de Reich est perçue par quelques-uns de ces penseurs jungkonservativ comme essen­tiellement chrétienne, qualité qui demeurera telle, affirment-ils, même si l'idée doit connaître encore des avatars historiques. Les Jungkonservativen chrétiens perçoivent la catholitas comme une force fédératrice des peuples, comme une sorte de ciment historique. Pour eux, cette catholitas  ne semble donc pas un but en soi mais un instrument au service de l'idée de Reich.

 

Ensuite, ces Jungkonservativen cutlivent une nette tendance à peaufiner leur pensée juridique, à ébaucher des structures et des ordres juridiques idéaux. C'est en tenant compte de cet arrière-plan que le deuxième concept-clef de la sphère jung­konservative,  en l'occurrence l'idée d'ordre, prend tout son sens. En dehors de l'Allemagne, c'est incontestablement ce concept-là qui a été le plus typique. Mohler écrit, à ce propos: «L'unité, à laquelle songent les Jungkonservativen  (...) englobe une telle prolixité d'éléments, qu'elle exige une mise en ordre juridique».

 

rivolu10.jpgEnfin, troisièmement, les Jungkonservativen  sont les plus «civilisés» de la planète RC et, pour leurs adversaires, les plus «bourgeois». Après eux viennent les Völkischen,  qui passent pour des philologues mystiques ou des danseurs de danses populaires, et les Nationaux-Révolutionnaires, qui font figures de dinamiteros exaltés. Des cinq groupes, les Jungkonservativen sont les seuls, dit Mohler, qui ne s'opposent pas de manière irréconciliable à l'environnement poli­tique établi, soit à la République de Weimar. Ils sont restés de ce fait des interlocuteurs acceptés. Entre eux et les adversaires de la RC, les ponts n'ont pas été totalement coupés, malgré les cé­sures profondes qui séparaient à l'époque les familles intellectuelles.

 

Dans les Bas Pays, plusieurs figures de la vie in­tellectuelle étaient apparentées au courant jung­konservativ.  Songeons à Odiel Spruytte qui, malgré son ancrage profond dans le Mouvement Flamand, restait un défenseur typique de l'«universalisme» d'Othmar Spann (22). Aux Pays-Bas, citons Frederik Carel Gerretsen, his­torien, poète (sous le pseudonyme de Geerten Gossaert) et homme politique (actif, entre autres, dans la Nationale Unie).

 

Lorque l'on recherche les traces de l'idéologie jungkonservative  dans nos pays, il faut analyser et étudier les concepts de solidarisme et de per­sonnalisme: les tenants de cette orientation doctri­nale appartenaient très souvent à la démocratie chrétienne. Les «navetteurs» qui oscillaient entre la démocratie chrétienne et la RC, version jung­konservative,  étaient légion.

 

Le Jungkonservativ  le plus typé, le seul à peu près qui ait vraiment fait école chez nous, c'est Joris van Severen. Chez lui, les concepts-clefs d'«ordre» et d'«élite» sont omniprésents; sa pen­sée est juridico-structurante, ce qui le distingue nettement des nationalistes flamands aux dé­marches protestataires et friands de manifesta­tions populaires. Autre affinité avec les Jungkonservativen: sa tendance à chercher des interlocuteurs dans l'aile droite de l'établisse­ment... Mais ce qui est le plus éton­nant, c'est la similitude entre sa pensée de l'ordre et l'idée de Reich des Jungkonservativen de l'ère wei­marienne: Joris van Severen refuse la thèse «une langue, un peuple, un Etat» et part en quête d'un modèle historique plus qualitatif, reflet d'un ordre supérieur, mais très éloigné de l'Etat belge de type jacobin, qui, pour lui, était aussi inaccep­table. Dans cette optique, ce n'est pas un hasard qu'il se soit référé aux anciens Pays-Bas, dans leur forme la plus traditionnelle, celle du «Cercle de Bourgogne» du Reich  de Charles-Quint. Jacques van Artevelde (23) en avait lancé l'idée au Moyen Age et elle avait tenu jusqu'en 1795. L'argumentation qu'a développé Joris van Severen pour étayer son idéal grand-néerlandais dans le sens des Dix-Sept Provinces historiques (24), et contre toutes les tentatives de créer un Etat sur une base exclusivement linguistique, est au fond très semblable à celle qu'avait déployé Edgar J. Jung lorsqu'il polémiquait avec les Völkischen  pour défendre l'idée de Reich. A la fin des années 30, van Severen parlait de plus en plus souvent du «Dietse Rijk»  (de l'Etat thiois; du Regnum  thiois), utilisant dans la foulée le vieux terme de Dietsland (Pays Thiois) (25) pour bien marquer la différence qui l'opposait aux «nationalistes linguistiques» (26).

 

Les nationaux-révolutionnaires

 

Le troisième groupe, celui des nationaux-révolu­tionnaires, est un produit typique de la «génération du front» en Allemagne. Il est plus difficile à cerner pour nous, dans les Bas Pays. De plus, la plupart des auteurs nationaux-révolu­tionnaires sont peu connus chez nous. Friedrich Hielscher, Karl O. Paetel, Arthur Mahraun, pour ne nommer que les plus connus d'entre eux, sont très souvent ignorés, même par les politologues les plus chevronnés. D'autres, en revanche, sont beaucoup plus célèbres. Mais cette célébrité, ils l'ont acquise pendant une autre période et pour d'autres activités que leur engagement national-révolutionnaire. Ainsi, Ernst von Salomon acquit sa grande notoriété pour ses romans à succès. Otto et Gregor Strasser, à la fin de leur carrière, ont été connus du monde entier parce qu'ils ont été les compagnons de route de Hitler, avant de s'opposer violemment à lui et, pour Gregor, de devenir sa victime. Ernst Niekisch, lui, est sou­vent considéré à tort comme un communiste parce qu'après la guerre il a enseigné à Berlin-Est (27). Mais cette notoriété, due à des faits et gestes po­sés en dehors de l'engagement politique, fait que les nationaux-révolutionnaires sont en général très mal situés. On les considère comme des «nazis de gauche», ce qui est inexact dans la plu­part des cas, sauf peut-être pour Gregor Strasser, assassiné sur ordre de Hitler en 1934. Ou bien on les considère comme des communistes sans carte du parti, ce qui n'est vrai que pour quelques-uns d'entre eux.

 

En réalité, l'attitude nationale-révolutionnaire est le fruit d'une étincelle jaillie du choc entre l'extrême-gauche et l'extrême-droite. Les étin­celles ne meurent pas si l'on parvient, grâce à elles, à allumer un foyer: ce que voulaient les na­tionaux-révolutionnaires. Ils considéraient plus ou moins les Völkischen  comme des roman­tiques et des «archéologues» et les Jungkonservativen  comme des individus qui voulaient construire du neuf avant que les ruines n'aient été balayées. Evacuer les ruines, mieux, contribuer énergiquement au déclin rapide du monde bourgeois, dénoncer la décadence capita­liste: voilà ce que les nationaux-révolutionnaires comprenaient comme leur tâche. Pour la mener à bien, ils présentait un curieux cocktail de passion sauvage et de froideur sans illusions, produit de leur expérience du front.

 

Mohler cite une phrase typique de Franz Schauwecker, figure de proue du «nationalisme soldatique»: «L'Allemand se réjouit de ses dé­clins parce qu'ils sont le rajeunissement». La gauche comme la droite sont dépassées pour les nationaux-révolutionnaires. Ils voulaient dépasser la gauche sur sa gauche et la droite sur sa droite. Pour eux, Staline était un conservateur et Hitler un libéral. Ce que les temps nouveaux apporte­ront, ils ne le savent pas trop: «mouvement», tel est le premier mot-clef. Le deuxième, c'est la «nation», celle qui est née dans les tranchées. Schauwecker décrit comment la réalité et la foi, comment l'instinct et la profondeur de la pensée, la nature et l'esprit ont fusionné. «Dans cette unité, la nation était soudainement présente». C'est cela pour eux, le nationalisme: la société allemande sans classes.

 

Au Pays-Bas, il y a eu une figure nationale-révo­lutionnaire bien typée: Erich Wichman (1890-1929), surnommé souvent avec mépris le «premier fasciste néerlandais», alors qu'il est très difficile de coller l'étiquette de fasciste (si l'on entend par fasciste, cette sorte de militaires d'opérette chaussés de belles bottes bien cirées) sur ce représentant impétueux de la bohème hol­landaise, au visage déformé par un oeil de verre. Les noms des groupuscules qu'il a fondé De Rebelse Patriotten  (Les Patriotes Rebelles), De Anderen  (Les Autres), De Rapaljepartij  (Le Parti de la Racaille) trahissent tous l'élan oppositionnel et le défi adressé à «tout ce qui est d'hier», assor­tis d'un résidu de foi nationale. A son ami, le Dr. Hans Bruch, il écrivit ces phrases révélatrices: «Je n'ai pas besoin de vous dire que, moi comme vous, nous souhaitons que les Pays-Bas et Orange soient au-dessus de tout! Mais... ce cri de guerre ne peut plus être un cri de guerre parce qu'il a été répété a satiété, éculé, galvaudé et usé par les nationalistes de vieille mouture; par de gros bonshommes tout gras affublés de mous­taches tombantes, qui remplissent des salles de réunion pour se plaindre, se lamenter et se con­sumer en jérémiades parce que notre nation, hé­las, n'a jamais eu assez de sentiment national. (...) Et nous, les combatifs, nous ne pouvons rien avoir en commun avec eux! Car, nous, nous ne voulons pas nous plaindre, mais agir. Mais nous ne voulons pas non plus pousser des cris de joie, car nous savons qu'en tant que peuple nous n'avons encore rien - nous avons la ferme vo­lonté de mettre un terme définitif à notre misère!» (28).

 

La prose de Wichman, en violence et en radica­lisme, ne cède en rien devant les phrases de Franz Schauwecker ou d'autres nationaux-révolution­naires: «Tout, aujourd'hui, est cérébralisé et cal­culé. Il n'y a plus place en ce monde pour l'aventure, l'imprévu, l'élasticité, la fantaisie et la «démonie». La raison raisonnante la plus bête garde seule droit au chapitre. Dieu s'est mis à vivre peinard. Cette époque est morte, sans âme, sans foi, sans art, sans amour. (...) Ce n'est plus une époque, c'est une phase de transition mais qui peut nous dire vers où elle nous mène? Si tout devient autrement que nous le voulons — et pourquoi cela ne deviendrait-il pas autrement? On pourra une fois de plus nous appeler "les fous". Tout acte peut être folie, est en un certain sens une folie. Et celui qui craint d'être appelé un "fou", d'être un "fou", celui qui craint d'être une part vivante d'un tout vivant, celui qui ne veut pas "servir", celui qui ne veut pas être "facteur" en invoquant sa précieuse "personnalité" et ainsi faire en sorte qu'advienne un monde contraire à ses pensées, celui qui a peur d'être un «lépreux de l'esprit», qui ne veut être "particule", qui ne veut être ni une feuille dans le vent ni un animal soumis à la nécessité ni un soldat dans une tran­chée ni un homme armé d'un gourdin et d'un re­volver sur la Piazza del Duomo (ou sur le Dam); celui qui ne commence rien sans apercevoir déjà la fin, qui ne fait rien pour ne pas commettre de sottise: voilà le véritable âne! On ne possède rien que l'on ne puisse jeter, y compris soi-même et sa propre vie. C'est pourquoi, il serait peut-être bon de nous débarrasser maintenant de cette "République des Camarades", de cette étable de "mauvais bergers". Oui, avec violence, oui, avec des "moyens illégaux"! C'est par des phrases que le peuple a été perverti, ce n'est pas par des phrases qu'il guérira (Multatuli) (29). Donc, répé­tons-le: aux armes!».

 

Le type du national-révolutionnaire a également fait irruption sur la scène politique flamande, surtout dans les tumultueuses années 20. Notamment dans le groupe Clarté  et dans sa né­buleuse, qui voulaient forger un front unitaire ré­volutionnaire regroupant les frontistes flamands (30), les communistes, les anarchistes et les so­cialistes minoritaires. On hésite toutefois à ranger des individus dans cette catégorie car l'engagement proprement national-révolutionnaire n'a quasi jamais été qu'une phase de transition: quelques flamingants radicaux ont tenté de trou­ver une synthèse personnelle entre, d'une part, un engagement nationaliste flamand et, d'autre part, une volonté de lutte sociale-révolutionnaire. Après une hésitation, longue ou courte selon les individualités, cette synthèse a débouché sur un national-socialisme plus proche du sens étymo­logique du mot que de la NSDAP, encore peu connue à l'époque. Chez d'autres, la synthèse conduisit à un engagement résolument à gauche, à un socialisme voire un communisme teinté de nationalisme flamand.

 

Boudewijn Maes (1873-1946) est sans doute l'une des figures les plus hautes en couleurs du microcosme «national-révolutionnaire» flamand. Ce nationaliste flamand libre-penseur (vrijzinnig) avait lutté contre les activistes pendant la première guerre mondiale parce qu'ils étaient trop bour­geois à son goût. Après 1918, il les défendit parce qu'il était animé d'un sens aigu de la justice et parce qu'il s'estimait solidaire du combat na­tional flamand. Aussi parce qu'il voyait en eux des victimes de l'«Etat bourgeois» belge et donc des révolutionnaires potentiels. En 1919, il est élu au Parlement belge sur les listes du Frontpartij.  Il y restera seulement deux ans. Dans des groupuscules toujours plus petits, no­tamment au sein d'un Vlaams-nationaal Volksfront, il illustra un radicalisme pur, dont il ne faut pas exagérer la portée, et par lequel il voulait dépasser les socialistes et les communistes sur leur gauche. Plus tard, il passa au socialisme et mourut communiste flamand.

 

A propos des deux derniers groupes de la RC al­lemande, nous pouvons être brefs. Les Bündischen, héritiers des célèbres Wandervögel, constituent un phénomène typique dans l'histoire du mouvement de jeunesse allemand, lequel a véritablement alimenté tous les cénacles de la RC. Notre mouvement de jeunesse flamand, depuis Rodenbach (31), en passant par l'Algemeen Katholiek Vlaams Studentenverbond (AKVS) (32), jusqu'au Diets Jeugdverbond, n'est pas comparable aux Bündischen sur le plan idéolo­gique: la majeure partie des affiliés à l'AKVS, à ses successeurs et à ses émules, est restée, des années durant, fidèle à une sorte de tradition völ­kische catholisante. D'autres noyauteront l'aile droite de la démocratie chrétienne flamande. Cette communauté de tradition forme aujourd'hui en­core le lien entre les groupes nationalistes fla­mands et certains cénacles du parti catholique. C'est l'idéologie de base que partagent notam­ment un journal comme De Standaard et les ani­mateurs du pélérinage annuel à la Tour de l'Yser (IJzerbedevaart).

 

La Landvolkbewegung  fut une révolte paysanne, brève mais violente, qui secoua le Slesvig-Holstein entre 1928 et 1932. On peut tracer des parallèles entre des événements analogues qui se sont produits au Danemark et en France mais, dans nos régions, nous n'apercevons aucun phé­nomène de même nature. Mohler lui-même, dans son Ergänzungsband (cf. références infra) de 1989, revient sur sa classification antérieure des strates de la RC en cinq groupes: la Landvolkbewegung  a été de trop courte durée, trop peu chargée d'idéologie et trop dépendante d'orateurs issus d'autres groupes de la RC (surtout des nationaux-révolutionnaires) pour constituer à égalité un cinquième groupe.

 

Le fascisme défini

par les Staliniens

 

Mohler note que la littérature secondaire concer­nant la RC parue depuis 1972 (année de parution de la seconde édition de son maître-ouvrage) est devenue de plus en plus abondante et imprécise. La raison de cet état de choses: la propagation de la conception stalinienne du fascisme, y compris dans les milieux universitaires. «Cette concep­tion, qui a l'élasticité du caoutchouc, est en fait un concept de combat, contenant tout ce que le stalinisme perçoit comme ennemi de ses desseins, jusque et y compris les sociaux-démocrates. Lorsque l'on parlait jadis du national-socialisme de Hitler ou du fascisme de Mussolini, on savait de quoi il était question. Mais le «fascisme alle­mand» peut tout désigner: la NSDAP, les Deutsch-Nationalen, la CDU, le capitalisme, Strauß comme Helmut Schmidt  -  et c'est préci­sément cette confusion qui est le but. Et bien sûr, la RC, elle aussi, aboutit dans cette énorme marmite».

 

Cette confusion a débouché d'abord sur une litté­rature tertiaire traitant du fascisme et dépourvue de toute valeur historique, ensuite sur des petits opuscules apologétiques qui «désinforment» en toute conscience. Prenons un exemple pour montrer comment le concept illimité de fascisme, propre au vocabulaire stalinien, s'est répandu dans le langage courant au cours des années 70 et 80: l'écrivain néerlandais Wim Zaal écrit un livre qui connaitra deux éditions, avec un titre chaque fois différent pour un contenu grosso modo iden­tique. Ce changement de titre est révélateur. En 1966, l'ouvrage est titré De Herstellers (Les Restaurateurs). Il traite de plusieurs aspects de l'idéologie conservatrice-révolutionnaire aux Pays-Bas. La définition qu'il donne de cette idéologie n'est pas tout à fait juste mais elle a le mérite de ne pas être ambiguë et parfaitement concise; nous lui reprocherions de réduire l'univers conservateur-révolutionnaire à celui des adeptes de l'«ordre naturel», ce qui n'est pas le cas car d'autres traditions intellectuelles l'ont ali­menté. Ecoutons sa définition: «Ce que visait le mouvement restaurateur, c'était précisément de restaurer l'ordre naturel du vivre-en-commun et de le débarrasser des maux que lui avait infligés les forces révolutionnaires à partir de 1780. Toutes les conséquences de ces révolutions n'étaient pas perverses mais leurs principes l'étaient». La seconde édition (remaniée) du livre paraît en 1973: elle traite du même sujet mais change de titre: De Nederlandse fascisten (Les fascistes néerlandais).

 

De Gorbatchev au Pape Jean-Paul II, de Reagan à Khomeiny, y a-t-il une figure de proue du monde politique ou de l'innovation idéologique qui n'ait jamais été traité de «fasciste» par l'un ou l'autre de ses adversaires? Dans de telles conditions, ne doit-on pas considérer que le mot est désormais vide de toute signification, du moins pour ce qui concerne le récepteur. En revanche, dans le chef de l'émetteur, le message est très clair; celui qui traite un autre de «fasciste», veut dire: «J'entends vous discriminer sur le plan intellectuel»; en d'autres mots: «Je refuse tout dialogue».

 

Ni dans cet article ni dans le travail de Mohler, le fait de dénoncer cet usage élastique du terme «fascisme» ne constitue pas une tentative d'évacuer du débat les rapports historiques réels qui ont existé entre, d'une part, la RC et, d'autre part, le fascisme ou le national-socialisme. La pensée révolutionnaire-conservatrice ne peut être purement et simplement réduite au rôle de «précurseur» de l'idéologie fasciste. ce serait trop facile et grotesque. A ce propos, Mohler écrit: «Tous ceux qui critiquent les idées de 1789 cou­rent le risque de se voir étiquettés par les prota­gonistes de ces idées révolutionnaires de "pères fondateurs du fascisme" (ou du "nazisme") (...) D'Héraclite à Maître Eckehart, en passant par Paracelse et Luther, Frédéric le Grand, Hamann et Zinzendorf, pour aboutir à Schopenhauer et Kierkegaard, on peut, dans la foulée, construire les arbres généalogiques du fascisme les plus fantasmagoriques».

 

En réalité, parmi les protagonistes des idées con­servatrices-révolutionnaires, on trouvera les ap­préciations et les attitudes les plus diverses vis-à-vis du fascisme, tant en Allemagne que dans nos pays. La prudence et la précision s'imposent. Quelques figures de la RC se sont en effet con­verties très vite et avec beaucoup d'enthousiasme au nazisme, comme, par exemple, un Alfred Bäumler ou un Ernst Kriek, ou, chez nous, un Herman van Puymbroeck (33), futur rédacteur-en-chef de Volk en Staat. D'autres ont vu leur enthousiasme s'évanouir rapidement, mais trop tard pour échapper à la mort: l'exemple de Gregor Strasser, assassiné le 30 juin 1934, un jour avant Edgar J. Jung, qui avait, lui, combattu le natio­nal-socialisme dès le début et avec la plus grande énergie. Thomas Mann et Karl Otto Paetel choisi­rent d'émigrer, tout comme Otto Strasser et Hermann Rauschning. Le national-révolution­naire dur et pur, ennemi de Hitler, Hartmut Plaas, mourra en 1944 dans un camp de concentration tout comme l'avocat liégeois Paul Hoornaert, grand admirateur de Mussolini et chef de la Légion Nationale.

 

Pour d'autres encore, la collaboration mena à un ultime engagement dans la Waffen-SS,  dont ils ne revinrent jamais; pour citer deux exemples, l'un flamand, l'autre néerlandais: Reimond Tollenaere (1909-1942) et Hugo Sinclair de Rochemont (1901-1942). Au cours de cette même année 1942, la collaboration était déjà un passé bien révolu pour un Henri De Man ou un Arnold Meijer, ex-chef du Zwart Front néerlan­dais. Quant à Tony Herbert, jadis figure symbo­lique de tout ce qui comptait à droite en Flandre dans les années 30, il était déjà entré de plein pied dans la résistance. Dans la véritable résistance à Hitler, derrière l'attentat du 20 juillet 1944, se profile une quantité de figures issues de la RC, notamment de la Brigade Ehrhardt, comme l'Amiral Wilhelm Canaris, le Général Hans Oster voire l'écrivain Ernst Jünger. Quant à l'homme qui, en 1945, dans le tout dernier numéro de Signal, la revue de propagande allemande qui pa­raissait dans la plupart des langues européennes pendant la guerre, publia un article pathétique pour marquer la fin du IIIième Reich, était une fi­gure de la RC: Giselher Wirsing, issu du Tat-Kreis (34). En 1948, il participera à la fondation du journal Christ und Welt,  dont il deviendra le rédacteur en chef en 1954 et le restera jusqu'à sa mort en 1975 (35).

 

Les noms que nous venons de citer ne constituent pas des exceptions. Loin de là. Tous répondent en quelque sorte à la règle. Mais comment expli­quer à quelqu'un qui a été élevé sous l'égide du concept stalinien de fascisme, ou a reçu un ensei­gnement universitaire marqué par ce concept, que c'est un fait historiquement attesté que dès le dé­but de l'année 1933, le citoyen néerlandais Jan Baars (36), chef de l'Algemene Nederlandse Fascistenbond (ANFB; = Ligue Générale des Fascistes Néerlandais), envoie un télégramme à Hitler pour protester contre la persécution des Juifs (37). Le 30 janvier 1933, le jour où Hitler arriva au pouvoir, un autre télégramme partit de Hollande. Non pas envoyé par Jan Baars mais par l'association des étudiants catholiques d'Amsterdam, le cercle Thomas Aquinas. C'était un télégramme de félicitations. Précisons-le. Au cas où vous ne l'auriez pas deviné.

 

Luc PAUWELS.

(texte paru dans la revue anversoise Teksten, Kommentaren en Studies, nr. 55, 2de Trimester 1989; adresse: DELTAPERS v.z.w., Postbus 4, B-2110 Wijnegem).       

 

(1) cfr. Arthur De Bruyne, Cyriel Verschaeve - Hendrik De Man, West-Pocket, 4-5, De Panne, 1969.

Jos Vinks, Cyriel Verschaeve, de Vlaming, De Roerdomp, Brecht/Antwerpen, 1977.

Hugo Verriest (1840-1922) fut l'élève de Guido Gezelle au cou­vent théologique de Roeselare (Roulers). Nommé prêtre en 1864. Enseigne à Bruges, Roeselare, Ypres, Heule. Curé à Wakken, commune de la famille de Joris van Severen en 1888. Exerça une influence prépondérante sur le mouvement étudiant nationaliste d'Albrecht Rodenbach (la fameuse Blauwvoeterij).

A son sujet, lire: Luc Delafortrie, Reinoud D'Haese, Noël Dob­belaere, Antoon Van Severen, Rudy Pauwels, Dr. R. Bekaert, Hugo Verriest - Joris Van Severen, Komitee Wakken, Wakken, 1984.

(2) Frank Goovaerts, «Odiel Spruytte. Een vergeten konserva­tief-revolutionnair denker in Vlaanderen», in Teksten, kommen­taren en studies,  nr. 55/1989.

(3) Sur De Man en français: André Philip, Henri De Man et la crise doctrinale du socialisme,  Librairie universitaire J. Gam­bier, Paris, 1928.

Revue européenne des sciences sociales, Cahiers Vilfredo Pareto, Tome XII, 1974, n°31 («Sur l'œuvre de Henri De Man»).

Michel Brelaz, Henri De Man. Une autre idée du socialisme,  Ed. des Antipodes, Genève, 1985.

En guise d'introduction générale: Robert Steuckers, «Henri De Man», in Etudes et Recherches, GRECE, Paris, n°3, 1984.

En anglais: Peter Dodge, Beyond Marxism. The Faith and Works of Hendrik De Man,  M. Nijhoff, The Hague (NL), 1966.

(4) Léon van der Essen, Pages d'histoire nationale et européenne, Les Œuvres/Goemare, Bruxelles, 1942.

Léon van der Essen, Alexandre Farnèse et les origines de la Bel­gique moderne, 1545-1592,  Office de publicité, Bruxelles, 1943.

Léon van der Essen, Pour mieux comprendre notre histoire na­tionale,  Charles Dessart éd., s.d.

(5) Robert Poulet, La Révolution est à droite. Pamphlet,  De­noël et Steele, Paris, 1934.

(6) Frederic Kiesel, Pierre Nothomb,  Pierre de Meyere éd., Pa­ris/Bruxelles, 1965.

(7) Charles Anciaux, L'Etat corporatif. Lois et conditions d'un régime corporatif en Belgique,  ESPES, Bruxelles, 1942.

(8) Dr. Sun Ya-Tsen, The Three Principles of the People, China Publishing Company, Taipei R.O.C., 1981.

(9) August Vermeylen, écrivain flamand, né à Bruxelles en 1872 et mort à Uccle en 1945. Etudie à Bruxelles, Berlin et Vienne. Il enseignera à Bruxelles et à Gand. Sera démis de ses fonctions par les autorités allemandes en 1940. Influence de Baudelaire et du mouvement décadent français mais défenseur de la langue néer­landaise. Co-fondateur de la revue littéraire Van Nu en Straks. Individualiste anarchisant à ses débuts, il évoluera vers un socia­lisme communautaire, justifié par un panthéisme dynamique. Son œuvre la plus célèbre est De wandelende Jood (Le Juif er­rant), illustrant la quête de la vérité en trois phases: la jouissance sensuelle, l'ascèse et le travail.

(10) Hendrik J. Elias, Geschiedenis van de Vlaamse Gedachte,  4 delen, Uitg. De Nederlandse Boekhandel, Antwerpen, 1971. Ces quatre volumes retracent l'histoire intellectuelle du mouvement flamand et recense minutieusement les influences diverses qu'il a subies, notamment celles venues des Pays-Bas, d'Allemagne et de Scandinavie. Ces ouvrages sont indispensables pour com­prendre les lames de fond non seulement de l'histoire flamande mais aussi de l'histoire belge.

(11) Mohler se réfère surtout au livre de Michael Freund, Georges Sorel. Der revolutionäre Konservatismus (V. Kloster­mann, Frankfurt a.M., 1972). De même qu'aux passage que consacre Carl Schmitt à Sorel dans Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus (1926), aujourd'hui dispo­nible en français sous le titre de Démocratie et Parlementarisme  (Seuil, 1988).

(12) Sorel a exercé une incontestable influence sur le philosophe martyr José Streel (1910-1946), idéologue du rexisme et auteur, entre autres, de La Révolution du XXième siècle (Nouvelle So­ciété d'Edition, Bruxelles, 1942). Dans cet ouvrage concis, on repère aussi l'influence prépondérante de Péguy, Maurras et De Man. Sur José Streel, lire ce qu'en écrit Bernard Delcord, «A propos de quelques "chapelles" politico-littéraires en Belgique (1919-1945)», in Cahiers du Centre de Recherches et d'Etudes historiques de la Seconde Guerre mondiale/Bijdragen van het Na­vorsings- en Studiecentrum voor de Geschiedenis van de Tweede Wereldoorlog, Bruxelles, Ministère de l'Education natio­nale/Ministerie van Onderwijs, Archives Générales du Royaume - Algemeen Rijksarchief, Place de Louvain 4 (b.19), Bruxelles, 1986. On lira de même toutes les remarques que formule à son sujet le Prof. Jacques Willequet dans La Belgique sous la botte, résistances et collaborations, 1940-1945, Ed. Universitaires, Pa­ris, 1986. Signalons aussi que José Streel fut l'un des artisans de l'accord Rex-VNV, règlant, dans le cadre de la collaboration, le problème linguistique belge.

(13) J. De Kadt, Het fascisme en de nieuwe vrijheid,  N.V. Em. Querido's Uitgevers-Maatschappij, Amsterdam, 1939.

(14) Sur Joris Van Severen, lire: L. Delafortrie, Joris Van Seve­ren en de Nederlanden, Oranje-Uitgaven, Zulte, 1963.

Jan Creve, Recht en Trouw. De Geschiedenis van het Verdinaso en zijn milities,  Soethoudt, Antwerpen, 1987.

(15) Arthur De Bruyne, Joris Van Severen, droom en daad,  De Roerdomp, Brecht/Antwerpen, 1961-63.

(16) Le poète Wies Moens (1898-1982) fut un activiste (un «col­laborateur») pendant la première guerre mondiale. Il étudia à l'Université de Gand de 1916 à 1918. Il purgera quatre ans de pri­­son pour ses sympathies nationalistes. Il fondera les revues Pogen  (1923-25) et Dietbrand (1933-40). En 1945, il est con­damné à mort mais trouve refuge aux Pays-Bas pour échapper à ses bourreaux. Il fut le principal représentant de l'expression­nisme flamand et entretint des liens avec Joris Van Severen, avant de rompre avec lui.

Cfr. Erik Verstraete, Wies Moens,  Orion, Brugge, 1973.

(17) L'activisme est la collaboration germano-flamande pendant la première guerre mondiale. A ce propos, lire: Maurits van Haegendoren, Het aktivisme op de kentering der tijden, Uitgeve­rij De Nederlanden, Antwerpen, 1984.

(18) Frank Goovarts, «Dr. G. Schamelhout, antropologie en Vlaamse Beweging», in Teksten, kommentaren en studies, nr. 42, 1985. Le Dr. G. Schamelhout peut être considéré comme un élève de Georges Vacher de Lapouge. Il s'est intéressé également aux ethnies européennes.

(19) Le mouvement pan-thiois (Alldietscher Beweging)  visait à unir toutes les «tribus» basses-allemandes, soit néerlandaises et allemandes du nord, en forgeant un Etat qui aurait rassemblé les Pays-Bas, la Belgique (avec les départements français du Nord et du Pas-de-Calais), la Prusse, le Hanovre, le Oldenbourg, etc. La langue de cet Etat aurait été une synthèse entre le néerlandais ac­tuel et les dialectes bas-allemands. A ce sujet, lire: Ludo Si­mons, Van Duinkerke tot Königsberg. Geschiedenis van de All­dietsche Beweging,  Orion, Brugge, 1980.

(20) Sur Spengler, l'ouvrage en français le plus complet est celui de Gilbert Merlio, Oswald Spengler, témoin de son temps, Aka­demischer Verlag Hans-Dieter Heinz, Stuttgart, 1982 (deux vo­lumes).

(21) Sur Arthur Moeller van den Bruck, l'ouvrage en français le plus complet est celui de Denis Goeldel, Moeller van den Bruck (1876-1925), un nationaliste contre la révolution,  Peter Lang, Frankfurt a.M./Bern, 1984.

(22) Deux livres récents sur Spann: Walter Becher, Der Blick aufs Ganze. Das Weltbild Othmar Spanns, Universitas, Mün­chen, 1985.

J. Hanns Pichler (Hg.), Othmar Spann oder die Welt als Ganzes, Böhlau, Wien, 1988.

(23) Pour comprendre le mouvement d'unité dans les Bas Pays au Moyen Age, lire Léon Vanderkinderen, Le siècle des Arte­velde. Etudes sur la civilisation morale et politique de la Flandre et du Brabant,  J. Lebègue & Cie, Bruxelles, 1907.

(24) Les dix-sept provinces regroupent les pays suivants dans l'optique de Joris Van Severen et de ses adeptes de jadis et d'aujourd'hui: la Frise, le Groningue, la Drenthe, l'Overijssel, le Pays de Gueldre, le Pays d'Utrecht, la Hollande, la Zélande, le Brabant, le Limbourg (Limbourg historique, Limbourg belge, soit l'ex-Comté de Looz, Limbourg néerlandais contemporain), le Pays de Liège, le Pays de Namur, le Luxembourg (Grand-Du­ché, Luxembourg belge et Pays de Thionville/Diedenhofen), le Hainaut, la Flandre, l'Artois et la Picardie.

(25) Le terme néerlandais de «Dietsland» se traduit en français par «Pays Thiois». Le long de la frontière linguistique, en Pays de Liège, on trouve également la forme «tixhe», typique de l'ancienne graphie liégeoise. On parle également de «Lorraine thioise» pour désigner la partie allemande de la Lorraine.

(26) Van Severen semble être le seule représentant de la RC dans nos pays à avoir utiliser et revendiquer le terme de «conservateur-révolutionnaire». C'était dans un article du 23 juillet 1932, paru dans De West-Vlaming.  Cité par Arthur De Bruyne, op. cit., p. 140.

Rappelons qu'une querelle demeure sous-jacente entre, d'une part, le nationalisme à base exclusivement linguistique, rêvant d'un Etat néerlandais unissant la Flandre et les Pays-Bas, et, d'autre part, les adeptes des Dix-Sept Provinces Unies, regroupant les régions néerlandophones, wallonophones, picardophones et ger­manophones de l'ancien «Cercle de Bourgogne».

(27) Pour comprendre l'itinéraire d'Ernst Niekisch, lire Uwe Sauermann, Ernst Niekisch und der revolutionäre Nationalismus, Bibliothekdienst Angerer, München, 1985.

(28) Cité par Wim Zaal dans De Nederlandse Fascisten, Weten­schapelijke Uigeverij, Amsterdam, 1973.

(29) Multatuli est le pseudonyme d'Eduard Douwes Dekker (1820-1887), écrivain néerlandais, pionnier de la colonisation de l'Indonésie. Lecteur de Nietzsche, il se posera en partisan d'une monarchie éclairée et d'un système d'éducation non étouffant. Son roman le plus célèbre est Max Havelaer, une chronique as­sez satirique de la colonie néerlandaise en Indonésie.

(30) Le frontisme est le mouvement politique des années 20 en Flandre, porté par les soldats revenus du front. Sur la scène élec­torale, il se présentait sous la dénomination de Frontpartij. Ce mouvement d'anciens soldats du contingent était pacifiste et sou­cieux de ne plus verser une seule goutte de sang flamand pour la France, considérée comme ennemie mortelle des peuples ger­maniques et du catholicisme populaire.

(31) Albrecht Rodenbach (1856-1880), jeune poète flamand, formé au séminaire de Roeselare (Roulers), élève de Hugo Ver­riest (cf. supra), fonde, en entrant à la faculté de droit de l'Université Catholique de Louvain, le mouvement étudiant fla­mand, la Blauwvoeterij. Ses poèmes mêlent un catholicisme charnel et sensuel, typiquement flamand, à un paganisme wagné­rien, nourri de l'épopée des Nibelungen: un contraste éton­nant et explosif...

A son sujet, lire: Cyriel Verschaeve, Albrecht Rodenbach. De Dichter,  Zeemeeuw, Brugge, 1937.

(32) L'AKVS publie toujours une revue, AKVS-Schriften. Adresse: AKVS-Schriften,  c/o Paul Meulemans, Kruisdagenlaan 75, B-1040 Brussel. Tél.: 02/734.25.52.

(33) La radicalité des positions de H. Van Puymbrouck transpa­raît dans le texte d'une brochure publiée à Berlin en 1941 et inti­tulée Flandern in der neuen Weltordnung  (Verlag Grenze und Ausland, Berlin, 1941) et rééditée en 1985 par Hagal-Boeken, Speelhof 10, B-3840 Borgloon.

(34) Sur le Tat-Kreis,  cfr.: Klaus Fritzsche, Politische Roman­tik und Gegenrevolution, Fluchtwege in der Krise der bürgerli­chen Gesellschaft: Das Beispiel des «Tat-Kreises», edition Suhr­kamp, es 778, Frankfurt a.M., 1976. Ouvrage très critique mais qui révèle les grandes lignes de l'idéologie du Tat-Kreis.

(35) A propos de Giselher Wirsing, on lira avec profit le texte que lui a consacré Armin Mohler au moment de sa mort en 1975 («Der Fall Giselher Wirsing») et repris dans son recueil intitulé Tendenzwende für Fortgeschrittene, Criticón Verlag, München, 1978.

(36) Jan Baars, né le 30 juin 1903, fit partie de la résistance néerlandaise pendant la guerre. Il est décédé le 24 avril 1989.

(37) Wim Zaal, op. cit., p.119.

jeudi, 07 janvier 2010

La excepcion en Carl Schmitt - Una exposicion introductoria

La excepción en Carl Schmitt

Una exposición introductoria

Christian Reátegui / Ex:
http://la-coalicion.blogspot.com/



La previsión de una dictadura comisarial en los dos últimos textos constitucionales peruanos ha pasado inadvertida. Para comenzar, la positivización del concepto jurídico de medida en dichos textos constitucionales ha pasado sin mayores comentarios. Tanto en la Constitución peruana de 1979 como en la de 1993 podemos leer textos similares:

Constitución de 1979“Artículo 211º.- Son obligaciones y atribuciones del Presidente de la República:
...
18.- Adoptar las medidas necesarias para la defensa de la República, la integridad del territorio y la soberanía en caso de agresión.”

Constitución de 1993

"Artículo 118º.- Corresponde al Presidente de la República:
...
15.- Adoptar las medidas necesarias para la defensa de la República, de la integridad del territorio y de la soberanía del Estado".

Se ha dicho que los constituyentes peruanos de 1979 adoptaron la fórmula de la empleada en el artículo 16 de la Constitución francesa de 1958, que fue a su vez recogida del texto del famoso artículo 48 de la Constitución de Weimar (1919). Lo que es menos conocido es que este artículo 48 fue el centro de un debate jurídico rico e intenso en la Alemania de esos años acerca de sus alcances y, en última instancia, acerca del concepto de Constitución, debate en el que el concepto de medida (maßnahme) desempeñó un papel central. Para el jurista alemán
Carl Schmitt dicho artículo sustentaba la posibilidad de una Dictadura del Presidente del Reich. Es más, dicho artículo devenía en el referente interpretativo de toda la Constitución:

“Artículo 48. Si un Land no cumpliese con sus obligaciones conforme a lo dispuesto en la Constitución o en una Ley del Reich, el Presidente del Reich podrá hacérselas cumplir con ayuda de las Fuerzas Armadas.
Si la seguridad y el orden públicos se viesen gravemente alterados o amenazados, el Presidente del Reich podrá adoptar las medidas necesarias para el restablecimiento de la seguridad y orden públicos, utilizando incluso las Fuerzas Armadas si fuera necesario. A tal fin puede suspender temporalmente el disfrute total o parcial de los derechos fundamentales recogidos en los artículos 114, 115, 117, 118, 123, 124 y 153.
El Presidente del Reich está obligado a informar inmediatamente al Reichstag de la adopción de todas las medidas tomadas conforme a los párrafos 1º y 2º de este artículo. Las medidas deberán ser derogadas a petición del Reichstag.
En caso de peligro por demora, el Gobierno de cualquier Land podrá aplicar provisionalmente medidas de carácter similar a las referidas en el párrafo 2º de este artículo. Las medidas deberán ser derogadas a petición del Reichstag o del Presidente del Reich.
Una ley del Reich desarrollará el resto"

Para Schmitt el párrafo 2º, primera parte, de este artículo contiene el fundamento constitucional de un apoderamiento para una comisión de acción ilimitada, en términos precisos, una dictadura comisarial. Sobre la verificación o no del presupuesto (alteración o amenaza de la seguridad y del orden públicos) para dicho apoderamiento, decide de por sí el Presidente. De acuerdo a Schmitt, el párrafo 2º, en su parte primera, constituía derecho vigente y no requería la ley que desarrollara el estado de excepción que preveía el 5º párrafo. Ante el acaecimiento de alteración o amenaza de la seguridad y del orden públicos, el Presidente podía adoptar todas las medidas necesarias (nötigen Maßnahmen), cuya necesidad era evaluada de acuerdo a las circunstancias y al solo arbitrio del propio Presidente. En consecuencia la dictadura Presidencial cuya posibilidad preveía la Constitución de Weimar, se concretizaba en la adopción de medidas.

Para Schmitt una medida era una acción individualizada o una disposición general, adoptada frente a una situación concreta que se considera anormal, y que es, por lo tanto, superable, con una pretensión de vigencia por tiempo no indefinido. Una medida se caracteriza por su dependencia de la situación objetiva concreta. Ello supone que la magnitud de la medida, su procedimiento y su eficacia jurídica dependen de la naturaleza de las circunstancias. El aforismo latino rebus sic stantibus preside su adopción y ejecución. Ahora bien, la dictadura comisarial desarrollada por Schmitt no significaba la disolución del orden jurídico existente ni que el Presidente deviniese en soberano, ya que las medidas era sólo de naturaleza fáctica y no podían ser equiparadas con actos de legislación ni de administración de justicia, sin que ello significase que no se pudiesen tomar medidas que se aproximaran por sus resultados y consecuencias prácticas a fallos judiciales, decisiones administrativas conseguidas tras un procedimiento previamente establecido o a normas generales (leyes y/o reglamentos), pero que jurídicamente no serían equiparables en significado ni en eficacia jurídicas. Esto porque una medida no podía reformar, derogar o suspender preceptos constitucionales, pero sí podía desconocerlos, separándose de ellos para un caso concreto o una generalidad de casos concretos, en lo que Schmitt llamaba “quebrantamiento” (durchbrechung) de la Constitución. Hay que apuntar que, de acuerdo a Schmitt, hay que distinguir entre Constitución y leyes constitucionales. La Constitución sería la decisión de conjunto de un pueblo acerca de la forma y modo de su unidad política, mientras que las leyes constitucionales serían los preceptos o normas que, por una razón u otra, han sido recogidas en el texto constitucional. Entonces para nuestro autor la Constitución es intangible, mientras que las leyes constitucionales (preceptos o normas) no, por lo que pueden ser “quebrantadas” por las medidas para un caso determinado o casos determinados, y ello sólo en defensa de la propia Constitución en estados de excepción. Hay que precisar que cualquier ley constitucional podría ser desconocida puntualmente por las medidas (o “quebrantada”) y no sólo las que contienen derechos fundamentales, como sucede con lo permitido por la norma de la segunda parte del párrafo 2º como más adelante veremos.

Un ejemplo para clarificar la diferencia entre medida y decisión administrativa, sería la que da el propio Schmitt a propósito de lo establecido en el artículo 129º de la Constitución de Weimar. Este artículo preveía una serie de garantías a favor de los funcionarios, así, sólo podrían ser privados de su cargo mediante un procedimiento conforme a Derecho, tenían la posibilidad de interponer recursos impugnatorios, el respeto a sus derechos adquiridos, etc. A pesar de ello, a través de una medida se podría suspender a determinados funcionarios y confiar su cargo a otras personas. Tales medidas tendrían efectos o resultados jurídicos, pero no la eficacia de una decisión adoptada tras un proceso disciplinario que concluyese con la separación definitiva del cargo del funcionario. Esto significa que el funcionario suspendido continuaría disfrutando (jurídicamente) de su status de funcionario, situación que no se daría con el separado jurídicamente del servicio. Asimismo, la persona encargada, mediante una medida, del cargo y de sus tareas públicas no conseguiría, por ello, alcanzar la situación jurídica de funcionario.

Para Schmitt no escapó que esta comisión para una dictadura presidencial, entraba en contradicción con lo establecido en la segunda parte de ese mismo 2º párrafo, que para él contenía otra norma que, junto al apoderamiento general de su primera parte, determinaba que para conseguir el restablecimiento de la seguridad y el orden públicos, el Presidente del Reich también podía suspender (suspension), es decir, poner temporalmente fuera de vigencia, en todo o en parte, a los derechos fundamentales contenidos en las leyes constitucionales de los artículos 114º (libertad personal), 115º (inviolabilidad del domicilio), 117º (secreto de la correspondencia y de correo), 118º (libertad de prensa), 123º (libertad de reunión), 124º (libertad de asociación) y 153º (propiedad privada). Esta contradicción, que, por un lado, permitía suspender toda el ordenamiento jurídico existente y, por otro, sólo permitía suspender una serie de derechos enumerados taxativamente, se debía, según Schmitt, a la confusión entre dictadura soberana y comisarial, que supone el considerar que el Presidente del Reich podía emitir ordenanzas con fuerza de ley sin considerar la distinción entre ley y medida y la asignación de competencias que conformaba la Constitución del Reich, y a la creencia ingenua que, en el Estado de Derecho burgués, la seguridad sólo podría ser puesto en peligro por individuos o grupos de individuos en tumultos y motines, no por organizaciones políticas, colectivos o agrupaciones solidarias, ya que los grupos intermedios y gremios de este tipo habían desaparecido.

Esta misma contradicción, entre la existencia del establecimiento de una dictadura presidencial (artículos 211 numeral 18 de la Constitución de 1979, y 118 numeral 15 de la Constitución de 1993) con la de un régimen de excepción limitado (artículos 231 de la Constitución de 1979, y 137 de la Constitución de 1993) se ha dado, a nuestro entender, tanto en la Constitución peruana anterior como en la actual. Basta con leer el artículo 231º de la Constitución de 1979 y el 137º de la que nos rige actualmente:

Constitución de 1979

"Artículo 231.- El Presidente de la República, con acuerdo del Consejo de Ministros, decreta, por plazo determinado, en todo o parte del territorio y dando cuenta al Congreso o a la Comisión Permanente, los estados de excepción que en este artículo se contemplan:

a.- Estado de emergencia, en caso de perturbación de la paz o del orden interno, de catástrofe o de graves circunstancias que afecten la vida de la Nación. En esta eventualidad, puede suspender las garantías constitucionales relativas a la libertad y seguridad personales, la inviolabilidad del domicilio, la libertad de reunión y de tránsito en el territorio, que se contemplan en los incisos 7, 9 y 10 del artículo 2º y en el inciso 20-g del mismo artículo 2º. En ninguna circunstancia se puede imponer la pena de destierro. El plazo del estado de emergencia no excede de sesenta días. La prórroga requiere nuevo decreto. En estado de emergencia, las Fuerzas Armadas asumen el control del orden interno cuando lo dispone el Presidente de la República.

b.- Estado de sitio, en caso de invasión, guerra exterior, o guerra civil, o peligro inminente de que se produzcan, con especificación de las garantías personales que continúan en vigor. El plazo correspondiente no excede de cuarenta y cinco días. Al decretarse el estado de sitio el Congreso se reúne de pleno derecho. La prórroga requiere aprobación del Congreso”


Constitución de 1993

“Artículo 137.- El Presidente de la República, con acuerdo del Consejo de Ministros, puede decretar, por plazo determinado, en todo el territorio nacional, o en parte de él, y dando cuenta al Congreso o a la Comisión Permanente, los estados de excepción que en este artículo se contemplan:

1.- Estado de emergencia, en caso de perturbación de la paz o del orden interno, de catástrofe o de graves circunstancias que afecten la vida de la Nación. En esta eventualidad, pueden restringirse o suspenderse el ejercicio de los derechos constitucionales relativos a la libertad y la seguridad personales, la inviolabilidad del domicilio, y la libertad de reunión y de tránsito en el territorio comprendidos en los incisos 9, 11 y 12 del artículo 2º y en el inciso 24, apartado f del mismo artículo. En ninguna circunstancia se puede desterrar a nadie.

El plazo de emergencia no excede de sesenta días. Su prórroga requiere nuevo decreto. En estado de emergencia las Fuerzas Armadas asumen el control del orden interno si así lo dispone el Presidente de la República.

2.- Estado de sitio, en caso de invasión, guerra exterior, guerra civil, o peligro inminente de que se produzcan, con mención de los derechos fundamentales cuyo ejercicio no se restringe o suspende. El plazo correspondiente no excede de cuarenta y cinco días. Al decretarse el estado de sitio, el Congreso se reúne de pleno derecho. La prórroga requiere aprobación del Congreso".

El que el artículo 55 de la Constitución actual, que prescribe que los tratados celebrados por el Estado, y que se encuentren en vigor, forman parte del derecho nacional, y la 4º Disposición Final y Transitoria que dispone que las normas relativas a los derechos y a las libertades que la Constitución reconoce se interpretan de conformidad con la Declaración Universal de Derechos Humanos y con los tratados y acuerdos internacionales sobre dichas materias ratificadas por el Perú, pueden dar la impresión que el problema jurídico se ha zanjado. Ello puede ser considerado efectivamente así, pero pasa por alto que toda disciplina jurídica que pretende tener vigencia en el tiempo, es decir, eficacia social, no puede responder a autoengaños a partir de visiones ideologizadas de experiencias pasadas. Sobre ello queda mucho por abundar aún.

mercredi, 06 janvier 2010

Démocratie américaine et dialectique de la liberté

estados-unidos.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990

Démocratie américaine et dialectique

de la liberté

à propos d'un livre de Gottfried Dietze

 

par Hans-Dietrich SANDER

Parmi les livres dignes d'intérêt récemment pa­rus, et soumis à la conspiration du silence, il y a l'ouvrage sur l'Amérique de Gottfried Dietze:

 

Gottfried Dietze, Amerikanische Demokratie — Wesen des praktischen Liberalismus,  Olzog Verlag, München, 1988, 297 S., DM 42.

 

Depuis longtemps déjà, l'auteur n'avait plus pu­blié d'articles dans la Frankfurter Allgemeine Zeitung  et dans Die Welt (Bonn). Il n'est plus membre de la Mount Pelerin Society.  Il s'en est retiré, parce qu'il ne lui a pas été permis de pro­noncer son discours sur Kant en langue alle­mande lors d'une diète de la dite société à Berlin! Mais personne en revanche n'a pu le traiter de «terroriste intellectuel». Gottfried Dietze est pro­fesseur ordinaire de «théorie comparée des pou­voirs» à la John Hopkins University de Baltimore, l'une des cinq universités les plus co­tées aux Etats-Unis (sa faculté occupe d'ailleurs la première place en son domaine). Ses travaux, il les publie en Allemagne chez J.C.B. Mohr (Paul Siebeck) et chez Duncker & Humblot, c'est-à-dire chez les meilleurs éditeurs de matières polito­logiques. La maison Olzog, qu'il a choisie pour éditer son livre sur l'Amérique, ouvrage destiné à un public plus vaste, ne suscite pas davantage les colères des professionnels hystériques qui enten­dent façonner l'opinion publique selon leurs seuls critères. La démocratie ouest-allemande vient manifestement d'atteindre un seuil critique, où, désormais, ceux qui prononcent des paroles libres, claires, transparentes, passent pour des excentriques. Et, «notre démocratie», pour re­prendre les mots de son Président Richard v. Weizsäcker, ne peut pas se permettre des excen­triques politiques.

 

Critique du libéralisme pur et réminiscences tocquevilliennes

 

Dietze passe depuis longtemps déjà pour un ex­centrique dans notre bonne république. Pour être exact, depuis que le Spiegel a découvert, jadis, qu'il servait de conseiller au candidat à la Présidence américaine Barry Goldwater, et cela, au moment où la guerre du Vietnam atteignait son point culminant. Toute évocation de son nom, à l'époque, suscitait la suspicion. Il a tenté de re­venir en Allemagne, en y postulant un poste uni­versitaire. Sans succès. Le dernier des grands théoriciens du libéralisme politique n'est pas le bienvenu dans la République fédérale, acquise pourtant aux principes du libéralisme. Cette si­tuation n'est pas incompréhensible. Elle découle, d'une part, du rapport même que Dietze entretient avec l'idéologie libérale et, d'autre part, de son engagement politique aux côtés de Goldwater. La modestie de Dietze est telle, qu'il n'a pas osé pa­raphraser Kant dans les sous-titres de ses ou­vrages majeurs, Reiner Liberalismus (Le libéra­lisme pur) et Amerikanische Demokratie (La dé­mocratie américaine). Au premier, il aurait parfai­tement pu donner le titre de Kritik des reinen Liberalismus  (Critique du libéralisme pur); au second, Kritik des praktischen Liberalismus  (Critique du libéralisme pratique). Il aurait ainsi imité le grand penseur de Königsberg, avec sa Critique de la raison pure  et sa Critique de la rai­son pratique.

 

Le titre du livre qui me préoccupe ici, Amerikanische Demokratie,  paraphrase pourtant un autre grand théoricien politique, Alexis de Tocqueville, auteur de La démocratie en Amérique. Mais Dietze adopte une perspective critique à l'endroit des idées de Tocqueville. Il cherche à donner d'autres définitions aux con­cepts. Contrairement à Tocqueville, qui, il y a 150 ans, voulait explorer l'essence de la démo­cratie à la lumière de la démocratie américaine, Dietze cerne la démocratie américaine en soi, qui, dans la forme qu'elle connaît aujourd'hui, n'existait pas encore vers 1830-40, sa transfor­mation radicale par Andrew Jackson n'en étant qu'à ses premiers balbutiements. La démocratie américaine, explique Dietze, est fondamentale­ment différente des autres démocraties, ce qui la rend précaire quand elle est imposée à d'autres pays.

 

La néomanie américaine

 

Dietze approche son sujet en analysant les phé­nomènes et les discours de la quotidienneté amé­ricaine, de la banalité quotidienne de l'American Way of Life, qui, soutenu par cette bonne cons­cience typique du «Nouveau Monde», se présente comme une poussée incessante vers la nouveauté (Drang nach dem Neuen), vers tout ce qui est nouveau. Le concept américain de liberté repose sur un fondement problématique: en l'occurrence sur la volonté d'être toujours prêt à réceptionner cette nouveauté. Ensuite, ce concept trouve son apogée dans la notion de Manifest Destiny, du destin et de la mission de l'Amérique, qui est d'apporter cette liberté à tous les autres peuples. Dans la foulée de ses possibilités illimitées, la démocratie américaine n'a pas créé une forme spécifique de libéralisme politique mais des va­riations libérales toujours changeantes.

 

Ce type de démocratie a très fortement marqué le peuple américain et, à l'inverse, le peuple a mar­qué la démocratie américaine. Les origines des Etats-Unis, faites d'émigrations et d'immigrations, se sont transformées en migra­tions et en vagabondages, en manifestations et en agitations. Le résultat: une absence permanente de racines, qui trouve un parallèle saisissant dans le monde juif toujours dé-localisé (ent-ortet). Cette absence de racines est la condition première de la symbiose actuellement dominante. Contrairement aux symbioses d'antan, cette symbiose actuelle ne présente pas une panoplie de négations qui se combinent utilement à des positions données, mais une gamme de négations qui s'imposent sur la scène publique en se créant du tort les unes aux autres.

 

Une pulsion jamais assouvie de liberté jouissive

 

Le pouvoir du peuple en Amérique oscille ainsi de la démocratie élitaire à la démocratie égalitaire, de la démocratie représentative à la démocratie di­recte, de la démocratie limitée à la démocratie il­limitée. Quelle vue d'ensemble cela donne-t-il? Celle d'un «pot-pourri dans le melting pot»; par «melting pot», nous n'entendons pas, ici, le seul mélange des races et des ethnies. Ce jeu chao­tique dérive précisément de cette pulsion inces­sante vers la nouveauté et se maintient par la force intrinsèque dégagée par cette pulsion. Il dérive des droits inaliénables à jouir de la triade life, li­berty and pursuit of happiness, d'une liberté toujours plus grande qui se mesure surtout à la possession de biens matériels et à leur jouissance. Dans une telle optique, le pays n'est rien, l'individu est tout.

 

Ce serait bien là le perpetuum mobile  d'un monde totalement immanent, si la pulsion de li­berté n'était pas pluri-signifiante et à strates mul­tiples. Dans son analyse, Gottfried Dietze déploie une dialectique de la liberté, où sa position vis-à-vis du libéralisme prend des formes socratiques. En effet, le livre, en de longs passages, se lit comme un dialogue, où chaque facette est oppo­sée à son contraire (son négatif), si bien qu'à la fin, on débouche sur des questions ouvertes.

 

La pulsion de liberté du libéralisme pur n'est pas seulement dirigée contre les tyrans: elle s'épuise dans la lutte interne de concurrences diverses aux frais des autres. Cela ne nous mène pas seule­ment à la lutte hobbesienne de tous contre tous, lutte où apparaîtrait juste la crainte de Hegel de voir l'homme considérer qu'une telle liberté au­torise et prône le vol, le meurtre et le désordre, mais aussi à une exploitation despotique de la mi­norité par la majorité, ce qui serait parfaitement conciliable avec le libéralisme, parce qu'il exige plus de liberté pour l'individu sans regard pour les autres.

 

La transposition de cette émancipation dans le domaine de la libido, comme on a pu l'observer au cours de ces dernières décennies en Amérique, fait que cette pulsion, sans regard pour autrui, qui poursuit sa quête insatiable de bonheur conduit à une «jungle sexuelle» que Hobbes n'avait pas pu imaginer.

 

Une symbiose entre

Jefferson et Freund

 

La permissivité engendrée par la lutte concurren­tielle outrancière et la multiplication des contacts sexuels, où la question du bien et du mal n'est plus posée, a forgé une symbiose entre Jefferson et Freud, dont les conséquences excessives ne peuvent surgir qu'en Amérique: «Les idées de Freud, telles qu'elles ont été prises en compte et perçues par les Américains, ont complété celles de Jefferson —du moins dans les interprétations qu'elles avaient acquises au cours du temps; elles les ont complétées de façon telle que le pensée li­bérale ancrée dans ce peuple s'est vue considéra­blement élargie, s'est apurée à l'extrême et s'est détachée de tout contexte axiologique».

 

Sur le plan de la liberté, nous apercevons très vite la différence essentielle entre Tocqueville et Dietze. Tocqueville voyait une démocratie améri­caine liée à l'idée d'égalité, suscitant une tendance générale et progressive à expulser toute notion de liberté. Dietze, au contraire, voit dans la liberté le pôle adverse de la démocratie et de l'égalité; et, pour lui, la liberté est tout aussi illusoire que la démocratie et l'égalité. Ce que Tocqueville crai­gnait jadis, soit de voir advenir une dictature égalitaire de la démocratie, n'a pas eu lieu: la pulsion de liberté s'y est sans cesse heurtée et en a émoussé les contours.

 

La pulsion de liberté, en tant que fondement ul­time du libéralisme à l'américaine, s'est toujours mise en travers de toutes les mesures de contrôle, d'équilibrage et de conservation. Sans ces me­sures, le libéralisme devient un mouvement anti-autoritaire. De ce fait, le despotisme de la majorité et le mouvement anti-autoritaire sont les extrêmes du libéralisme pratique, extrêmes qui se rejoi­gnent dans le libéralisme pur. Prenons deux exemples.

 

Une presse libre qui censure

ce qui ne lui plaît pas

 

Le premier montre comment l'expression «presse populaire» a acquis un sens ambigu. La presse, qui, à l'origine, était un instrument servant à presser des lettres sur du papier, a fini très vite par presser ses vues dans les cerveaux du peuple, à la manière la plus libérale qui soit: «L'ancienne liberté de presse, soit la liberté de la presse vis-à-vis de toute censure étatique, s'est transformée radicalement: elle est devenue liberté pour la presse de censurer, dénoncer et vilipender l'Etat, des citoyens individuels et des groupes précis de la société d'une manière éhontée, nuisant aux cibles infortunées et profitant à ceux qui usent et abusent de cette liberté. Cette situation s'observe dans tous les pays où la presse est libre mais elle est plus frappante encore aux Etats-Unis, écrit Dietze, le plus libéral des pays».

 

Le deuxième exemple nous montre les possibili­tés illimitées que laisse entrevoir le jeu de mot democracy/democrazy,  où le «pouvoir du peuple» apparaît comme l'«enfollement du peuple». Dietze souligne à plusieurs reprises que la quintessence de la démocratie américaine ne permet pas de percevoir cet «enfollement» comme une dégénérescence. Car la quintessence de la démocratie américaine, c'est que son libéralisme est réellement sans principes, dépourvu de tout point de référence éthique et de toute forme de responsabilité.

 

Les déceptions des Européens face à l'extrême versatilité américaine ne sont dès lors pas con­vaincantes: «Vu d'Amérique, vu du lieu où se bousculent toutes les variantes et variations du li­béralisme, il ne peut guère y avoir de déceptions nées du spectacle et du constat de comportements instables, du va-et-vient de la politique améri­caine. On ne peut être déçu que lorsque quelque chose évolue d'une façon autre, pire, que ce que l'on avait prévu. Mais, dans la démocratie améri­caine, qui se rapproche plus du libéralisme pur que n'importe quelle autre démocratie, on ne doit guère s'attendre à une politique constante. Toute constance y disparaît sous la pression des sou­haits et des désirs des individus et du peuple, mus par l'humeur du moment».

 

Anarchie et volonté de simplification outrancière

 

Au point culminant de ses analyses enjouées et sans pitié, qui rappellent celles de Machiavel, Dietze cite le poète irlandais William Butler Yeats: «Things fall apart; the center cannot hold; Mere anarchy is loosed upon the world»  («Les choses se disloquent; le centre ne maintient plus rien; une anarchie brute envahit le monde»). Pour Dietze, Yeats, dans cette phrase résume l'essence du libé­ralisme pur. Quand cette situation d'anarchie est atteinte, toute dialectique de liberté prend fin.

 

Dietze explique ensuite le processus dans son moteur intime et profond: «Bien des signes nous l'indiquent: la complexité croissante de la vie a éveillé une nostalgie du simple, du pur, avec des simplifications outrancières, si bien que la démo­cratie n'apparaît même plus comme une forme politique dans le sens où l'entendaient Locke ou Rousseau mais bien plutôt comme l'entendait Bakounine». La démocratie à l'américaine est le catalyseur de ce courant sous-jacent fondamental: «Sans doute, très probablement, les évolutions du Nouveau Monde, avec la pulsion constante de changement qui règne là-bas, ont accéléré le pro­cessus. Car l'américanisation du monde est un fait que l'on ne saurait ignorer en ce siècle, que les Américains déclarent être le leur, même si le rêve d'une pax americana  est passé depuis long­temps».

 

La question finale que pose le livre de Dietze est la suivante: «Qu'adviendra-t-il de l'Amérique et de l'américanisme? Il faut attendre. L'avenir nous le dira». Question rhétorique ou question ma­cabre? Dietze prononce des vérités que l'on n'aime guère entendre dans la République de Bonn, où l'on considère la démocratie à l'américaine comme une sotériologie, pour ne pas dire comme une vache sacrée, alors que cette dé­mocratie a été instaurée en RFA comme un sys­tème provisoire mais qu'on s'est habitué à consi­dérer comme définitif. Ce sont des vérités que l'on n'aime guère entendre parce qu'elles sonnent justes. On préfère se boucher les oreilles.

 

Après la révolution populaire allemande de RDA, qui fait apparaître la démocratie de Bonn pour ce qu'elle est vraiment, soit un système provisoire, et la remet en question, il n'est pourtant plus possible de se boucher les oreilles. Les Alle­mands devront, en opérant la synthèse de leurs divers systèmes politiques actuels, trouver une réponse adéquate, adaptée à leur histoire, pour dépasser le système de la démocratie à l'amé­ricaine.

 

Hans-Dietrich SANDER.

(recension parue dans Staatsbriefe 1/1990; adresse: Castel del Monte Verlag, Türkenstr. 57, D-8000 München 40).

 

 

 

dimanche, 27 décembre 2009

La fallacieuse théorie du libre échange et la diabolisation du protectionnisme

539w.jpgLa fallacieuse théorie du libre échange et la diabolisation du protectionnisme

Avec l’aimable autorisation de Polémia [1].

Le modèle de la théorie des coûts comparés de Ricardo, décrit en 1817, dans son ouvrage On the principles of Political Economy repose sur une hypothèse essentielle, à savoir que la structure des coûts comparatifs dans les divers pays reste invariable au cours du temps. Or, il n’en est ainsi que dans le cas des ressources naturelles. Ainsi, par rapport à l’Europe occidentale, les pays producteurs de pétrole disposent d’un avantage comparatif qui restera le même dans un avenir prévisible. De même, les produits tropicaux ont un avantage comparatif qui ne saurait disparaître.

La théorie des coûts comparés est fondée sur l’immobilité des facteurs de production

En revanche, dans le domaine industriel, aucun avantage comparatif ne saurait être considéré comme permanent. Chaque pays aspire légitimement à rendre ses industries plus efficaces et il est souhaitable qu’il puisse y réussir. Il résulte de là que l’arrêt de certaines activités dans un pays développé, en raison des désavantages relatifs d’aujourd’hui, pourra se révéler demain complètement stupide, dès lors que ces désavantages relatifs disparaîtront. Il faudrait alors rétablir ces industries, mais entre-temps on aura perdu le savoir-faire.

Voir : Les théories de la mondialité par Gérard Dussouy
http://www.polemia.com/article.php?id=2347 [2]

La théorie de Ricardo ne vaut que dans un monde stable et figé. Elle n’est pas valable dans un monde dynamique, où les fonctions de production et les salaires évoluent au cours du temps, où les capitaux peuvent se déplacer librement et où les industries peuvent être délocalisées.

Selon la théorie de Ricardo, le libre échange n’est justifié que si les taux de change correspondent à l’équilibre des balances commerciales. Or, c’est l’importance des flux financiers spéculatifs et des mouvements de capitaux qui expliquent l’extraordinaire instabilité des cours du dollar, du yen ou de l’euro. La prétendue régulation par les taux de change flottants des balances commerciales n’a donc aucune signification aujourd’hui.

Or capital et main d’œuvre sont de plus en plus mobiles

De tous les dogmes économiques, le libre-échange est celui sur lequel les néo-libéraux sont le plus intraitables. Formulé il y a presque deux siècles dans le contexte théorique de l’immobilité des facteurs de production (capital et travail) et de la division internationale du travail, il est toujours présenté comme le nec plus ultra de la modernité, et comme la recette du développement et de la croissance. Ses hérauts ont réussi le tour de force de le pérenniser dans un contexte exactement contraire à celui de sa conception : aujourd’hui, le capital ne connaît plus aucune entrave à sa circulation internationale et la main d’œuvre devient, elle aussi, de plus en plus mobile. Quant à la division internationale du travail, elle appartient au passé, avec la multiplication des entreprises mettant en œuvre des technologies de pointe dans les pays à bas salaires. L’économie mondiale est devenue un bateau ivre, sans gouvernail.

La réalité disqualifie intellectuellement le libre-échangisme

Voilà qui devrait disqualifier intellectuellement le libre-échangisme. Il n’en est rien. Il constitue, bien au contraire, le soubassement même de l’Union européenne, qui fait de la libre circulation des capitaux, des biens et des services trois de ses libertés fondamentales, la quatrième étant celle de la circulation des personnes.
Il est assez cocasse de remarquer que les Américains eux-mêmes, en la personne de Paul Volcker, ancien Président de la Federal Reserve Bank, dans un livre commun avec Toyoo Gyothen, ancien Ministre des Finances au Japon, ont reconnu que la théorie des avantages comparatifs perdait toute signification lorsque les taux de change pouvaient varier de 50% ou même davantage (1). Une forte dévaluation du dollar de 20% ou plus qui équivaut à une barrière douanière protectrice pour les pays qui appartiennent à la zone dollar est un énorme coup de canif aux principes du libre échange..

Friedrich List (1789 - 1846) économiste et théoricien du protectionnisme

De Friedrich List à Paul Bairoch

Friedrich List, en 1840, expliqua qu’il fallait protéger les industries naissantes en Allemagne face à la concurrence sans merci des pays industriels les plus avancés : « Toute nation qui, par des tarifs douaniers protecteurs et des restrictions sur la navigation, a élevé sa puissance manufacturière et navale à un degré de développement tel qu’aucune autre nation n’est en mesure de soutenir une concurrence libre avec elle ne peut rien faire de plus judicieux que de larguer ces échelles qui ont fait sa grandeur, de prêcher aux autres nations les bénéfices du libre échange, et de déclarer sur le ton d’un pénitent qu’elle s’était jusqu’alors fourvoyée dans les chemins de l’erreur et qu’elle a maintenant, pour la première fois réussi à dénouer la vérité ».

Paul Bairoch, professeur à l’Université de Genève, a également montré que la croissance économique dans la période 1870-1940, fut largement liée au protectionnisme. Paul Bairoch a publié, en 1994, une étude sur les Mythes et Paradoxes de l’histoire économique (2). Il écrit : « On aurait du mal à trouver des exemples de faits en contradiction plus flagrante avec la théorie dominante qui veut que le protectionnisme ait un impact négatif, tout au moins dans l’histoire économique du XIXe siècle. Le protectionnisme a toujours coïncidé dans le temps avec l’industrialisation et le développement économique, s’il n’en est pas à l’origine. » Bairoch montre notamment que le protectionnisme ne fut pas la cause, mais bien la conséquence du krach de Wall Street en octobre 1929. A partir de séries statistiques s’étalant de 1800 à 1990, il explique que le monde développé du XIXe siècle et de la première moitié du XXe siècle, à l’exception de quelques brèves périodes, tira son expansion économique de politiques très majoritairement protectionnistes, mais que, en revanche, il imposa le libéralisme aux pays qui allaient devenir le tiers monde, à l’Inde en particulier. Ni le Royaume-Uni, ni la France, ni la Corée, ni le Japon, ni la Prusse n’ont acquis leur puissance industrielle en respectant la loi des avantages comparatifs de David Ricardo.

La croissance dopée par les droits de douane

Cette approche a même donné naissance au « paradoxe de la croissance dopée par les droits de douane » (Tariff-growth paradox). Il est en effet établi, pour le XIXe siècle comme pour une bonne partie du XXe siècle, que la croissance est en relation inverse avec le degré d’ouverture du commerce international (3).

Les « nouveaux pays industrialisés » d’Asie démontrent également l’importance du protectionnisme. Une étude, publiée par l’université Harvard, souligne qu’il peut, tout autant que le libre-échange, générer une forte croissance économique (4). Ainsi, alors que le discours dominant du journalisme économique proclame depuis deux décennies que le protectionnisme est le mal absolu, les travaux scientifiques les plus récents aboutissent à un résultat inverse. Il y a donc discordance entre les discours économiques médiatiques et le discours scientifique.

Droits de douane et protection de l’environnement

Par ailleurs la libéralisation des échanges est loin de produire les gains espérés (5). Elle engendre des coûts qui ne sont pas pris en compte dans les modèles utilisés par les organisations internationales. Son bilan économique, hors même tout jugement social, est bien plus sombre qu’on ne l’affirme. Les droits de douane par exemple contribuent à défendre l’environnement en diminuant les quantités de CO2 engendrées par les périples de la mondialisation. Avant de venir garnir les linéaires des grandes surfaces en Écosse, les crevettes « pêchées in Scotland » de la société Young’s Sea Food effectuent 27000 km aller retour avec le Bengla Desh pour être simplement décortiquées dans ce pays à bas coût de main d’œuvre ! (6)

Les États-Unis, une nation longtemps protectionniste…

Si l’on regarde l’histoire économique des États-Unis, depuis leur création, il n’y a pas eu de nation plus protectionniste que les États-Unis ! On a dit d’Alexander Hamilton, dès la création des États-Unis, qu’il était un autre Colbert. La guerre de sécession opposait le Nord industriel protectionniste au Sud agricole libre-échangiste (7). Le paroxysme du protectionnisme fut atteint en 1930 avec la loi Smoot-Hawley qui imposait des droits de douane record aux importations. De leur origine jusqu’aux années 1930, les États-Unis pratiquèrent donc un protectionnisme virulent avec des tarifs douaniers de l’ordre de 50% ; c’est avec cette stratégie qu’ils connurent le taux de croissance le plus élevé du monde et accédèrent au leadership mondial.

…Devenue libre-échangiste en 1945

Ce n’est que depuis 1945, sous la pression des Etats-Unis y trouvant leur intérêt, qu’une véritable pensée unique s’est mise en place : seul le libre échange absolu serait conforme à la rationalité économique. Toute autre analyse relève d’une pensée pré-scientifique et ne peut que susciter la commisération des gens compétents (8). Par ailleurs le pays qui s’est fait le soudain héraut du libre-échange le bafoue sans vergogne s’il n’y trouve plus avantage. Il y a fort à parier, avec une balance commerciale déjà déficitaire en 2006 de 763 milliards de dollars dont 232 milliards de dollars avec la Chine, que les mesures protectionnistes du Congrès américain vis-à-vis des importations chinoises vont se multiplier et prendre de plus en plus d’ampleur, malgré les digues de l’OMC.

Les Européens, en tant que consommateurs, peuvent acheter des produits de Chine ou d’Inde meilleur marché. Mais pour ces consommateurs, la contrepartie réelle de ces importations à bas prix est finalement la perte et la précarité de leur emploi ou la baisse de leurs salaires, ainsi que des prélèvements accrus pour couvrir le coût social du chômage. Les importations de biens de consommation en Europe augmentent d’une façon structurelle plus vite que les productions nationales menant le plus souvent à leur disparition.
Vers un protectionnisme européen ?
Emmanuel Todd a donc entièrement raison lorsqu’il a pu dire en décembre 2006 : « Je suis arrivé à la conclusion, il y a quelques années, que le protectionnisme était la seule conception possible et, dans un second temps, que la seule bonne échelle d’application du protectionnisme était l’Europe ». Mais là encore les médias et les moutons de panurge européens attendent que les États-Unis virent de bord à nouveau vers le protectionnisme, pour avoir enfin bonne conscience, voir les réalités en face et proclamer avec force leurs nouvelles certitudes d’une préférence communautaire qu’ils n’osent même pas évoquer à l’heure actuelle ! La forteresse Europe ne semble pouvoir être construite qu’à la remorque de « Fortress USA ». Ulysses Grant, Président des États-Unis de 1868 à 1876, a pu dire, avec un grand sentiment prémonitoire : « Pendant des siècles, l’Angleterre s’est appuyée sur la protection, l’a pratiquée jusqu’à ses plus extrêmes limites et en a obtenu des résultats satisfaisants. Après deux siècles, elle a jugé commode d’adopter le libre échange, car elle pense que la protection n’a plus rien à lui offrir. Eh bien, Messieurs, la connaissance que j’ai de notre pays me conduit à penser que dans moins de deux cent ans, lorsque l’Amérique aura tiré de la protection tout ce qu’elle a à offrir, elle adoptera le libre échange ».

En finir avec les bobards libre-échangistes !

Alors que cela est inexact, un très grand nombre d’Européens, crétinisés par les lieux communs médiatiques, établissent très souvent la comparaison avec la ligne Maginot, croyant ainsi mettre brillamment et très rapidement un terme aux discussions avec leur interlocuteur, essayant de lui faire comprendre que la messe est dite ! Or, à la réflexion, la ligne Maginot en mai 1940 a parfaitement joué son rôle, car la seule véritable erreur a été de faire sur le plan militaire le même pêché de naïveté qu’aujourd’hui sur le plan économique, à savoir de respecter la neutralité de la Belgique, tout comme l’on respecte aujourd’hui les bobards libre-échangistes, et de ne pas en achever la construction jusqu’à Dunkerque, dont l’équivalent économique actuel serait le rétablissement de la préférence communautaire ! L’Allemagne avait aussi sa ligne Maginot, la ligne Siegfried, qui a parfaitement joué son rôle fin 1944- début 1945 !

Marc Rousset – 15/12/2009 – Auteur de la Nouvelle Europe Paris Berlin Moscou, Godefroy de Bouillon, 538 p., 2009

Notes :
1) Paul Volcker et Toyoo Gyohten – Changing Fortunes – NY, Random House-1992-p293
2) Paul Bairoch – Mythes et Paradoxes de l’histoire économique – Editions La découverte, 1994, p.80
3) Kevin H. O’Rourke – Tariffs and growth in the late 19th century – Economic Journal, vol.110, n°3, Londres, avril 2000
4) Michael A. Clemens et Jeffrey G. Williamson – A tariff-growth paradox ? Protection’s impact in the world around 1875-1997 – Center for International Development – Université Harvard- Cambridge-Mass-août 2001
5) Franck Ackerman – The shrinking gains from trade : a critical assessment of Doha round projections – Global Development and Environment Institute – document de travail n° 05-01, Université Tufts-Medford (Mass)- octobre 2005
6) Thierry Fabre – L’incroyable parcours des produits « made in monde » – Capital – Mars 2007, pp 76-79
7) André Philip – Histoire des faits économiques et sociaux – Aubier-1963 – pp 142 – 146
8) Marc Rousset – Les Euroricains – Chapitre XX – Non au libre échange mondialiste – Godefroy de Bouillon -2001- pp.186 – 199


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samedi, 19 décembre 2009

Annotation sur le "Travailleur"

lemine11.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Annotation sur le «Travailleur»

 

Dr. Karlheinz WEISSMANN

 

Ernst Jünger a toujours voulu que l'on inclue son Travailleur  dans l'édition de ses œuvres complètes, sur­tout contre les “bien-pensants” qui l'exhortaient à prendre distance à l'endroit de ce “faux-pas” littéraire. Déjà dans une “Troisième lettres aux amis”, datée du 1er septembre 1946, Jünger insistait: il ne reniait rien de son œuvre, celle-ci devait être considérée comme un tout; il ne prenait ses distances d'aucun fragment de ce travail. Le rapport qui existe entre des écrits tels La mobilisation totale ou Le Travailleur, d'une part, et d'autres tels Jardins et Routes, est comparable à celui qui unit l'Ancien et le Nouveau Testament. Plus tard, il a répété cette formule de l'Ancien et du Nouveau Testament, mais cela ne nous dit rien de clair, finalement, sur la valeur qu'il faut attribuer actuellement aux premiers écrits de Jünger. La seconde version du Cœur aventureux  déjà, la décision de publier en 1934 une édition des œuvres com­plètes mais sans les textes nationalistes du début des années 20 ensuite, signale la volonté de Jünger de marquer une césure entre la partie purement politique de ses premiers écrits et ses livres ultérieurs. Mais il fit tout de même une exception de taille: les deux ouvrages que nous venons de mentionner, La Mobilisation totale et Le Travailleur. Mais au prix d'une interprétation qui rend presque méconnaissable l'intention initiale. Voilà pourquoi il m'apparaît opportun de poser une nouvelle fois la question: quelle est l'“assise dans la vie” que possèdent ces textes? Ce qui doit nous permettre de tourner notre regard vers un fragment de l'histoire des impacts obtenus par ses livres-clefs, histoire au demeurant peu connue, mais ô combien instructive et éclairante.

 

La Mobilisation totale  et Le Travailleur  étaient tous deux des livres apocalyptiques. Depuis le début des années 30 la crise s'accentuait considérablement en Allemagne; simultanément augmentait le besoin de “grandes solutions”. Les modèles technocratiques, les “Plans” de réorganisation de l'Etat et de la société bénéficiait d'une incontestable conjoncture, puisque le jeu libre des libéraux, en politique comme en éco­nomie, avait incontestablement failli. Pour les extrémistes de gauche, le modèle était les plans quinquen­naux soviétiques, tandis qu'une fraction des économistes professionnels autour de John M. Keynes imaginait une politique interventionniste du plein-emploi. Enfin, des cercles de non-conformistes, où se rencontraient, pour échanger des idées, hommes de gauche et de droite, libéraux, sociaux-démocrates, des banquiers, des conservateurs et des nationaux-socialistes. Ces idées ont trouvé une écho dans le fameux “Plan WTB” (d'après les noms de ses inventeurs: Wladimir Woytinski, Karl Baade et Fritz Tarnow), édité par la fédération des syndicats (Gewerkschaftsbund), de même que dans le Wirtschaftliches Sofortprogramm der NSDAP (= “Programme économique tout-de-suite de la NSDAP”) de Gregor Strasser ou dans le Sofortprogramm de Günther Gereke qui devint par la suite Commissaire du Reich pour la poli­tique de l'emploi dans le Cabinet von Schleicher. En lançant son appel à la “nostalgie anti-capitaliste”, Strasser a pu transformer en triomphe pour la NSDAP les élections de juillet 1932; ailleurs, le Président de l'ADGB, Theodor Leipart, tentait de rassembler tous les partisans de l'autarcie nationale, qui voulaient dé­livrer les syndicats libres du carcan de la SPD. Dans son célèbre discours de Bernau, le 14 octobre 1932, Leipart expliquait que la tâche du travailleur était de se mettre au service de son peuple; il évoquait l'«esprit soldatique de l'imbrication dans le Tout et du don de soi au Tout», qui devait animer le prolétariat dans l'avenir.

 

On peut avancer la thèse que Leipart a été inspiré par Le Travailleur  de Jünger. A une époque aussi chaotique, les ennemis d'hier se rassemblent dans de nouveaux groupements: Le Travailleur  avait incon­testablement touché une corde sensible dans l'air du temps. Mais ce livre mythique et apocalyptique a également suscité une série d'incompréhensions. Les uns considéraient Le Travailleur  comme un ou­vrage “bolchévique”, d'autres y voyaient le résultat d'un culte impolitique de la technique, d'autres encore en interprétaient le contenu comme l'expression d'une philosophie nihiliste, née sous la pression des faits. Ce sont précisément les admirateurs de Jünger dans les ligues de jeunesse nationales-révolution­naires et le mouvement Widerstand d'Ernst Niekisch qui se sont sentis interpellés et irrités. Une irritation qui s'est encore accrue quand Jünger, sans ambages, accepte la modernité et insiste sur le rapport unis­sant la “mobilisation allemande” et la “domination planétaire du Travailleur”. Si Jünger a voulu faire du Travailleur  un écrit programmatique du “nouveau nationalisme”, alors il n'a pas été compris de son public ou n'a été accepté qu'avec réserve. En 1933, les dernières possibilités d'organiser des discussions fruc­tueuses disparaissent.

 

meunier2.jpgMais, dans l'Allemagne nationale-socialiste, on comptait un petit nombre d'admirateurs de Jünger qui considéraient toujours que Le Travailleur était un manifeste et, en même temps, un manuel de politique pratique. Ce groupe se rassemble dans les années 30 autour de Meinhard Sild et Edgar Traugott. Tous deux appartenaient à la NSDAP clandestine d'Autriche et sont passés à la SS après l'Anschluß. Pourtant leurs idées étaient en ultime analyse bien différentes des directives principales qu'énonçaient les idéo­logues officiels de la NSDAP. Ils s'étaient doter d'un petit forum dans la revue Zeitgeschichte. La couver­ture de cette publication présentait un aigle et un serpent, les animaux du Zarathoustra de Nietzsche; la tonalité des articles et des poèmes publiés était franchement nietzschéenne. Ensuite, les jeunes hommes rassemblés autour de Sild et de Traugott se sentaient fidèles à un “socialisme” qui, tout-à-fait dans le sens du Travailleur de Jünger, voulait organiser la “mise au travail totale” et élever l'Allemagne au rang d'une puissance capable “d'intervenir de la façon la plus vigoureuse qui soit dans les rapports de force régissant le monde”. Pour eux, il ne s'agissait nullement de “totalitarisme” ou d'une justification fol­ciste (= völkisch) des guerres pour l'espace vital: mais bien plutôt des effets de cette logique froide qui a tant fasciné Jünger lui-même. Traugott et Sild, à leur façon, tirent les leçons du “réalisme héroïque”, dont ils attendent qu'il “compénètre totalement le monde d'esprit guerrier, de réalisme et de paganisme”. Dans l'état actuel des recherches, on ne peut pas affirmer exactement quelle a été la nature du rapport entre Jünger, d'une part, et Traugott et Sild, d'autre part. Quoi qu'il en soit, leurs idées se sont différenciés dès que la guerre a éclaté. Sild a encore patronné l'édition de campagne de Feuer und Blut en 1941, mais déjà dans un article de juin 1939 pour les Nationalsozialistische Monatshefte,  il exprime ses réserves quant à l'amitié qui lie Jünger au dessinateur Alfred Kubin, qui plonge son regard dans les abîmes les plus glauques de l'âme humaine et que Jünger considérait comme un “frère en esprit”. Cette amitié ne corres­pondait pas à ce que l'on attendait de Jünger, en qui on voyait, à l'époque, le “type même de l'activiste technique et le chef efficace”. La version finale des Falaises de marbre  était, elle aussi, en contradiction avec cette image que l'on se faisait de Jünger. Traugott a consacré une longue recension à ce livre, dès sa parution, dans les colonnes de Zeitgeschichte:  il y louait les qualités littéraires, tout en indiquant clai­rement ce qui le séparait de l'auteur. L'essai de Traugott, paru en 1941, Von der Führung  (= Du Commandement) ne contient plus aucune allusion à Jünger; le contenu de cet ouvrage s'aligne largement sur l'orthodoxie nationale-socialiste.

 

Tout ce que je viens d'écrire sur le groupe rassemblé autour de Traugott et Sild permet de comprendre le Jünger “politique”. L'engagement de Jünger dans les années 20 n'a pas été une marotte: sans aucun doute, il a appartenu aux têtes pensantes de la droite révolutionnaire allemande. Mais sa participation au débat politique n'autorise aucune simplification extrême, comme celles de l'historiographie boîteuse qui se pare du label d'“antifascisme”, en répétant ses arguments à satiété. Jünger était un nationaliste à l'époque mais il a toujours été plus que cela. Mais, après avoir écrit Le Travailleur,  il tire une conclusion: la politique n'est qu'un phénomène superficiel qui n'influe en rien sur les processus titaniques à l'œuvre dans notre monde; Jünger n'a pas voulu s'exposer aux coups de cette “titanisation”, parce qu'il la croyait inévitable. Cette attitude est sans doute le résultat d'un moment de faiblesse, mais elle est aussi em­preinte de sagesse. Car l'un des messages les plus forts de Jünger demeure le suivant: il est bon “de de­viner que derrière les excès de dynamisme de notre temps se trouve caché un centre immobile”.

 

Dr. Karlheinz WEISSMANN.

(article paru dans Junge Freiheit, n°12/95; trad. franç.: Robert Steuckers).

lundi, 14 décembre 2009

Les thèses de Zeev Sternhell sur le fascisme français

sternhell_zeev_1223326966.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1985

Les thèses de Zeev Sternhell sur le fascisme français

par Robert STEUCKERS

Qui est Zeev Sternhell? Un historien israëlien, membre du Parti Travailliste de son pays et partisan du dialogue avec les Palestiniens. Son œuvre, constituée jusqu'ici de trois ouvrages majeurs (1), a pris pour thème principal l'histoire du fascisme français, perçue essentiellement sous l'angle de l'évolution des idées. Pour Sternhell, le fascisme français est un fascisme plus pur que ses équivalents italien ou allemand, pour ne parler que des "fascismes" (mes guillemets ne sont pas innocents, ici) les plus notoires. Il est plus pur car ses diverses composantes se distinguent bien clairement du reste des idéologies politiques du XIXème et du XXème siècles. Un autre grand explorateur du fascisme, l'Allemand Ernst Nolte, avait pris pour objets de ses investigations, le national-socialisme hitlérien, le fascisme mussolinien et l'Action Française de Maurras. Ce n'est pas cette dernière que Sternhell examine. Il ne réduit pas le phénomène fasciste français à la geste de Maurras, de son groupe et de son quotidien. Le phénomène est beaucoup plus complexe que cela. Beaucoup plus diversifié aussi. Certes, les interprétations de Sternhell ne sont pas exemptes de défauts et nous reviendrons, en fin d'exposé, sur quelques lacunes ou quelques omissions.

 

Je crois que l'œuvre de Sternhell doit ici être placée dans le contexte du XIXème siècle, qu'elle expose par ailleurs si brillament. Nous vivons aujourd'hui la fin des grandes idéologies. Peu nombreux sont ceux qui croient encore au démocratisme chrétien ou au traditionalisme catholique des ultramontains du siècle dernier, au libéralisme manchesterien qui revient un peu à la mode, au socialisme caricaturé par les médiocrités sociales-démocrates qui sont au marxisme ce qu'un misérable journaliste d'une quelconque feuille démocrate-chrétienne est à Thomas d'Aquin. Personne, en tout cas, n'est prêt à sacrifier sa vie, à donner des heures, des jours voire des semaines de militantisme pour ces vieilleries poussiéreuses.

 

Nous n'avons pas réalisé les espoirs du XIXème siècle, ce siècle où les idées ont fusé, où elles ont mobilisé savants et militants, où on est mort pour elles. Il faut se replonger dans ce XIXème siècle où l'on a jeté les bases des sciences humaines ou exactes les plus diverses. Sans son avidité pour le savoir humain, pas de sociologie, sans un Darwin, pas de biologie moderne, sans une myriade de savants, pas de psychologie, sans Mendeleïev, pas de chimie, sans Bopp, pas de linguistique moderne. La liste est longue. Ce que nous n'avons pas réussi, c'est à créer une nouvelle politique, tenant compte de ces acquis scientifiques, de ces connaissances nouvelles. Le XXème siècle reste, politiquement parlant, en-deçà des connaissances globales que nous possédons depuis une centaine d'années. Il n'est parvenu qu'à neutraliser les défis contenus dans les sciences humaines et exactes nées au cours du XIXème. Nous vivons aujourd'hui cette cassure, ce chiasme qui nous conduit chaque jour davantage sur la piste du déclin. Quelles que soient d'ailleurs nos options, révolutionnaires ou conservatrices. Les conservateurs peuvent puiser des arguments terriblement efficaces dans les découvertes des archéologues ou des linguistes, des philologues ou des historiens du XIXème. Les révolutionnaires tout autant. Un Julius Evola ne serait pas arrivé à ses conclusions sans les travaux d'un Bachofen ou d'un Fustel de Coulanges, sans un Cumont ou un Rohde, sans les acquis de la philologie latine. Marx, et surtout Engels, sont, eux aussi, les fils spirituels de ce XIXème. L'héritage darwinien est présent chez eux. Toute leur critique dirigée contre le phénomène religieux dérive des historiens des religions du XIXème. Toute la théorie d'Engels sur les origines de la famille et de l'Etat provient d'une lecture plus qu'attentive de Bachofen et de Morgan.

 

Mais nous, nous sommes les enfants de l'oubli; les enfants adoptés par une Amérique sans histoire mais affligée de beaucoup de vices. Celui de la gaminerie en tête. Celui de la haine de l'intellect, de la haine des souvenirs ensuite. Le personnel politique dont nous subissons la médiocrité intellectuelle et la vulgarité est aussi un résultat, navrant, de cet oubli.

 

Mais revenons à Sternhell.

 

Une question essentielle doit être posée et c'est celle que nous pose son œuvre: quels sont les fondements du fascisme français, quelles sont les racines, au XIXème siècle, de ces fondements?

 

C'est la question centrale à laquelle son livre La Droite révolutionnaire  tente de répondre. Sternhell voit cinq composantes dans le fascisme français. Passons-les en revue.

 

1. Le Boulangisme:

 

Le substantif "boulangisme" dérive du nom du Général Boulanger. Ce personnage de la vie politique française émerge après les événements tragiques de 1871, la défaite de l'Empire de Napoléon III sous les coups de la nouvelle Allemagne de Bismarck et les tueries sanglantes de la Commune. La gauche parisienne, la plus combative d'antan, a été écrasée sous la mitraille des Versaillais. Les partis de gauche ont perdu leurs meilleurs hommes dans cette effroyable tourmente. Les réparations exigées par l'Allemagne sont énormes. L'économie française ne s'en porte forcément pas bien. Une agitation sociale voit le jour; des grèves éclatent. Boulanger apparaît comme une figure salvatrice. Ce général, non issu des milieux de gauche par la force des choses, attire à lui un très grand nombre d'électeurs socialistes. Son programme de justice sociale, couplé à un charisme évident et à un nationalisme qui réclame le retour de l'Alsace à la "patrie française", lui assure un inconstestable succès électoral. Ces succès, il les enregistre précisément dans les cantons où la gauche, traditionnellement, encaissait le plus de suffrages.

 

sternhellbarres.jpgDe cette aventure boulangiste, Sternhell retient surtout que les masses sont friandes de deux choses: un socialisme concret, pas trop abstrait, pas trop bavard, pas trop théorique et un nationalisme volontaire car elles savent instinctivement, qu'au fond, société et nation sont quasi identiques. Que ce sont des valeurs collectives et non individualistes.L'ennemi, pour ces masses parisiennes, c'est la classe qui a pour philosophie le libéralisme et l'individualisme, donc l'égoïsme, et qui met cette philosophie en pratique, avec, pour corollaire, les résultats sociaux désastreux dont la classe ouvrière se souvient encore.

 

2. L'antisémitisme de gauche et le "racisme":

 

Qu'est-ce que l'antisémitisme de gauche? Il est, à mes yeux, difficile à cerner pour la simple et bonne raison qu'il participe de la lutte contre les religions qu'ont décrétée les libertaires, les socialistes et les révolutionnaires depuis la fin du XVIIIème siècle. La religion chrétienne d'Europe dérivant d'une matrice proche-orientale, on rejettera tout ce qui procède de cette matrice pour renouer avec un héritage refoulé, que redécouvre la philologie en plein essor. Cet héritage, ce sont les antiquités grecque et latine, les patrimoines celte, germanique et slave dans les pays qui n’ont jamais été soumis aux aigles romaines. Les socialistes danois et allemands du Nord redécouvrent ainsi les traditions vikings. Ce recours aux racines a également une fonction politique indéniable: celle d'arracher au clergé le monopole de la culture, puisque le clergé, surtout dans les pays catholiques, constitue le bouclier intellectuel des classes dominantes.

 

a) Blanqui, Toussenel, Tridon:

 

Dans cet univers très diversifié à l'échelle européenne, une figure sort des rangs en France: celle d'Auguste Blanqui.Fondateur du cercle "Les Amis du Peuple", Auguste Blanqui incarne ce que l'on pourrait appeller un "élitisme révolutionnaire". Il a presque passé la moitié de sa vie en prison et tirait de cette expérience une fierté, un orgueil indéniables. Proches de lui, évoluaient deux antisémites: Toussenel et Tridon. Ces écrivains parlaient du "molochisme juif" et expliquaient que la religion biblique dérivait du culte de Baal-Moloch et que Yahvé en était un avatar ultérieur. L'Allemand Georg Friedrich Daumer, un grand oublié du XIXème (2), avait élaboré cette théorie du "molochisme juif" dès 1842. Marx a lu cet ouvrage, dérivé des découvertes philologiques de l'orientaliste Johann Arnold Kanne. Klages en a retenu l'essentiel et Ludwig Feuerbach comptait Daumer parmi ses amis. Le socialiste belge Edmond Picard en reparlera dans un pamphlet antisémite (3), distribué par la social-démocratie en Belgique.

 

La gauche la plus radicale de cette époque reproche dès lors aux religions orientales, et donc au christianisme qui a fait souche en Europe, de dériver d'un culte dont l'axe central est le sacrifice humain. Ce faisant, cette gauche révolutionnaire procède à une analogie entre le capitalisme, assimilé au fait juif chez Toussenel et Tridon, et le Baal-Moloch dévoreur de chair humaine (4). Le capitalisme, comme l'idole proche-orientale, dévore des énergies avant que celles-ci ne puissent donner la pleine mesure de leurs potentialités. Tel est donc le mécanisme de pensée que la théorie, purement philologique de Daumer, injecte volens nolens dans les slogans du socialisme blanquiste. Comment en est-on arrivé à ce glissement, aux possibles effrayants? Il faudra que les recherches parviennent à déterminer si, oui ou non, Toussenel et Tridon ont lu Daumer, des traductions partielles de son œuvre ou de la littérature secondaire concernant ses thèses. Quoi qu'il en soit, les bases d'un antisémitisme populaire sont jetées. Elles se greffent sur un réflexe d'hostilité religieuse, de haine de classe et d'analogies hâtives. Dans la naissance de cet idéologème antisémite, un peu oublié de nos jours, la philologie, comme toujours au XIXème siècle, joue un rôle primordial.

 

L'anticapitalisme est couplé à un antisémitisme, basé, lui, sur une interprétation de nature philologique qui implique le refus d'un héritage "étranger".

 

b) Vacher de Lapouge et le "mythe aryen":

 

L'antisémitisme de gauche se retrouve chez Vacher de Lapouge. Formé à une école marxiste, le noyau central de l'idéologie de Vacher de Lapouge est constitué par un refus de l'individualisme et une adhésion aux théories déterministes, véhiculées par le matérialisme philosophique de l'époque. Les hommes, dans cette optique, sont non seulement déterminés par leur situation socio-économique mais aussi par leur biologie, par leur race. Telle est la démarche de Vacher de Lapouge. Son matérialisme philosophique l'induit à postuler un matérialisme biologique. Dans son livre principal, L'Aryen et son rôle social  (5), il mêle marxisme et darwinisme, parle de lutte des races (superposée bien évidemment à la lutte des classes). August Strindberg, le grand dramaturge suédois, socialiste et anarchiste à sa façon, mettra en scène une intuition du même genre dans Mademoiselle Julie (Fröken Julie  ). Fröken Julie, fille de la bonne bourgeoisie suédoise est séduite par son domestique, brute d'une vitalité débordante. Ce dernier prend la place d'un fils de bourgeois qui, normalement, aurait dû initier Fröken Julie à la sexualité. La lutte des classes est envisagée ici sous l'angle de la biologie et de la sexualité. Lecteur de Darwin, de Marx, de Schopenhauer et de Nietzsche, Strindberg réalise une synthèse que le XXème siècle n'est sans doute plus capable de faire, malgré un David Herbert Lawrence (même problématique dans L'Amant de Lady Chatterley ) ou un Rozanov (6).

 

Vacher de Lapouge renoue également avec une tradition plus ancienne, encore toute empreinte des délicatesses du XVIIIème, la tradition gobinienne. Gobineau, qui se déclarait Normand et, par conséquent, descendant des Vikings danois qui s'emparèrent, avec leur Jarl Rollon, de la Normandie au Xème siècle, voyait dans les Nordiques, les Germains, les peuples qui avaient enrichi l'Europe entière, apportant, outre leur sang, jugé plus "pur", leur sens de l'organisation et leurs qualités guerrières. Le drame du monde contemporain, c'est de ne pas cultiver cet héritage, de faire fi de cette qualité raciale et d'inconsciemment enclencher un processus de dénordicisation. Si les théoriciens racistes allemands, britanniques et américains (7) reprendront à la lettre cette thèse et lui donneront une ampleur considérable, n'allons surtout pas croire qu'en tant que Français, Gobineau constitue une exception. Le "mythe nordique", avant de partir à la conquête des pays anglo-saxons et germaniques, fut une idée bien française. Au début du siècle, Madame de Staël s'était enthousiasmée pour l'Allemagne des poètes et des penseurs et le XVIIIème siècle avait connu l'engouement pour l'Angleterre, surtout chez un Montesquieu. Le Professeur André Devyver, de l'Université de Bruxelles, a consacré, en 1973, un ouvrage de 608 pages à cette tradition française de germanomanie ou de nordicomanie. Intitulé Le Sang épuré. Les préjugés de race chez les gentilshommes français de l'Ancien Régime (1560-1720) (Editions de l'Université de Bruxelles, Bruxelles, 1973), ce livre retrace l'histoire du "mythe germanique" depuis le début du XVIème siècle (Etienne Pasquier) jusqu'à la théorie des "vertus magiques du sang germanique" de Henry de Boulainvilliers (1658-1722) et ses prolongements (8).

 

Dans les origines du fascisme français, Sternhell met donc en exergue cette double tradition matérialiste portée par Vacher de Lapouge, celle du matérialisme philosophique et celle du matérialisme biologique. Le livre de Devyver lui semble inconnu. Mais, ici, on constatera aussi que des traditions décrétées parfaitement "démocratiques" (selon les critères en usage dans nos médias) ont, elles aussi, sacrifié au "mythe du sang germanique pur" puisque l'engouement qu'a montré tout le XVIIIème français pour ce qui était anglais partait du principe que le mode "communautaire" nordique, le mode de représentation communale ou parlementaire (et peut-être l'antique démocratie islandaise) constituaient des exemples historiques de sociétés non inféodées à un quelconque absolutisme. L'esprit politique de l'Europe du Nord, et plus spécialement de l'Angleterre, est rebelle à l'absolutisme. Il résiste . Niekisch, figure de proue du national-bolchévisme allemand, faisant sienne la définition de Dostoïevsky, selon laquelle les Allemands étaient un peuple protestataire , renouera, plus tard, dans son anti-romanisme anti-catholique, avec cette idée de résistance  (Widerstand , comme le nom de son journal et de son cercle) mais en ne glorifiant pas, bien sûr, le parlementarisme anglais, mais bien l'esprit des Paysans révoltés du XVIème siècle, des Saxons de Witukind et des Chérusques d'Arminius. Chez Niekisch, l'influence du livre d'Engels  sur la Guerre des Paysans n'a pas été sans importance non plus. Le mythe, indépendemment de ses interprétations et des peuples-acteurs qu'il met en scène, demeure le même. On pose un Nord "rebelle" (anglais, allemand ou scandinave) à un Sud qui croupit sous l'absolutisme. Par sa dénordicisation et par le recul subséquent de l'idée innée de liberté, présente chez les peuples du Nord selon Madame de Staël, Henry de Boulainvilliers, Gobineau, etc., la France serait en déclin. Elle serait décadante. De Vacher de Lapouge découle donc, affirme Sternhell, cette idée du déclin de la France, d'une France qui perd sa substance plus vite que les nations voisines. Il est vrai que la France, contrairement à l'Allemagne, l'Angleterre ou les Pays-Bas, connaissait, à la fin du siècle dernier, un tassement de sa croissance démographique. En 1899, le Baron Charles Mourre dressait le bilan de l'histoire de France, selon une optique semblable (in: D'où vient la décadence économique de la France. Les causes présentes expliquées par les causes lointaines , Paris, Plon/Nourrit, 1899). Parmi les causes du déclin français, Mourre cite: l'idée d'égalité (il rejoint en cela Gobineau), le culte du fonctionnariat, un trop important interventionnisme étatique (ce qui ne le range assurément pas parmi les "hommes de gauche"), l'affaiblissement de la natalité, l'immoralité publique, la question juive (leitmotiv de cette fin de XIXème et prélude à l'affaire Dreyfus), l'influence du climat (selon l'engouement déterministe de l'époque), etc. Mourre termine son ouvrage en expliquant pourquoi les Anglo-Saxons sont "supérieurs". Il ferme ainsi la boucle qui englobe Montesquieu et Gobineau, l'anglomanie du XVIIIème et la nordicomanie du XIXème. Cette supériorité s'expliquerait par la persistance d'un type d'organisation communautaire et du "foyer" familial. Mourre puise ses arguments chez Demolins et Le Play. Le leitmotiv persistera jusqu'à un Drieu La Rochelle qui sera fasciné par ses ancêtres normands, par la propension au sport que montrent les Anglais puis par la vigueur allemande mise en exergue par le culte du corps sain propre au national-socialisme.

 

Le "racisme" de Vacher de Lapouge lance trois idées-cadres: l'anti-individualisme, le déterminisme (biologique) et l'idée d'une France décadente (d'une France qui fait mal...). Ces trois idées-cadres sont déterminantes pour l'évolution ultérieure du fascisme français.

 

c) L'influence de Wagner:

 

Wagner a eu sur le XIXème siècle français une influence beaucoup plus importante qu'on ne le croit généralement. Barrès disait qu'il fallait honorer en lui "les préssentiments d'une éthique nouvelle". Ce sera, outre Barrès, l'écrivain et poète Paul Valéry qui se plongera le plus dans l'univers de la mystique wagnérienne. Mais au-delà de la littérature et de la musique, qu'apporte Wagner sur le plan strictement politique? En quoi est-il très précisément politisable? Il est politisable surtout parce qu'il a été lui-même un activiste de gauche. Maurice Boucher, germaniste français et Professeur à la Sorbonne, a consacré en 1947 un ouvrage aux idées politiques de Wagner (Les idées politiques de Richard Wagner. Exemple de nationalisme mythique , Paris, Aubier/Montaigne, 1947). Dans ce livre, Boucher évoque l'idée de perfectibilité humaine que Wagner avançait vers 1848. Mais cette perfectibilité, propre des idéologies de gauche, ne doit pas se subordonner à une quelconque représentation de l'au-delà. La perfectibilité est inscrite dans la nature matérielle. L'analogie avec Vacher de Lapouge est claire ici également. Et Wagner, malgré les mythes de ses opéras, se range dans la tradition matérialiste et révolutionnaire du XIXème. Sur le plan éthique, certes, son discours n'a rien de la sécheresse d'une démonstration matérialiste. Et, ajoute Boucher, si Wagner a cherché à concilier des intuitions chrétiennes avec l'hellénisme immortel, Herder, avant lui, jugeait cette synthèse impossible à faire et Nietzsche, bien sûr, la jugeait scandaleusement "immorale".

 

d)  L'impact de Gustave Le Bon:

 

Sternhell souligne, à juste titre d'ailleurs, la grande influence de l'auteur de La psychologie des foules dans l'élaboration d'un corpus doctrinal "fasciste", si, du moins, il s'avère légitime de parler d'un  corpus doctrinal fasciste. Gustave Le Bon se situe dans le sillage de la découverte de l'inconscient. Son influence a été et reste considérable. Chacun des quarante titres qu'il a publiés a été tiré à près de 500.000 exemplaires! Mussolini et Hitler ont lu sa Psychologie des foules  avec attention et avec passion. Des passages entiers de Mein Kampf  sont tirés des écrits de Le Bon. Mais l'impact des théories de Le Bon ne se limite pas aux seuls milieux des états-majors fasciste ou national-socialiste. Freud s'est basé sur lui pour rédiger sa Psychologie collective  et son Analyse du moi. Ce  qu'apporte Le Bon, c'est surtout une définition des instincts des peuples et de la foule. Ces instincts dominent tout et déterminent l'agir des hommes. La conscience est dès lors reléguée au second plan. Psychologie et biologie prennent le pas sur les fantasmes mécanicistes du siècle rationaliste. Au déterminisme rationaliste et mécaniciste se substitue un déterminisme d'ordre psychologique et biologique. Et Sternhell écrit: "Ce déterminisme implique un anti-individualisme extrême et une négation totale de la traditionnelle conception de la nature humaine". Psychologie collective, race, inconscient constituent des "forces obscures", l'âme invisible qui crée et secrète des institutions visibles. Une des composantes essentielles des fascismes selon Sternhell est précisément de placer ces "forces obscures" au-dessus de la "raison". Avec l'avénement des sciences du XIXème siècle, le culte de la raison s'effondre. Or, c'est sur ce culte, strictement individualiste, que se fondent nos sociétés et nos corpus juridiques. Parler de l'inconscient, des forces obscures des collectivités ou de la race, constitue donc un défi mortel aux structures juridiques de nos démocraties. La potentialité révolutionnaire de ces découvertes a été jugulée au cours du XXème siècle. Mais le barrage dressé tiendra-t-il sous la pression des instincts? La fin de ce siècle semble confirmer le contraire. L'agressivité des foules, comme, par exemple, sur les stades de football d'Angleterre ou du Heysel, devient telle qu'on se remet à douter de la raison humaine. Dans un autre registre, la vague écologiste, surtout en Allemagne, renoue avec des idéaux collectifs et avec l'idée de communauté si bien décrite par Ferdinand Tönnies. Sternhell ajoute que "forces obscures" de la psychologie et "mythes" soréliens possèdent bon nombre de caractéristiques communes. Nous y reviendrons.

 

e) Hippolyte Taine, maillon dans la chaîne:

 

Généralement, on ne considère guère Taine comme l'un des précurseurs du fascisme. Sternhell souligne avec brio l'importance qu'il a eu dans l'élaboration du dit fascisme français. Auteur du célèbre ouvrage Les origines de la France contemporaine et d'une Histoire de la littérature anglaise contemporaine , Taine fait de la "race" le premier facteur explicatif de l'histoire. Taine parle des "habitudes mentales innées" des peuples européens. Dans l'introduction à son histoire de la littérature anglaise, il énumère les trois facteurs déterminants qui président à la naissance de l'histoire et du génie littéraire d'un peuple: la race, le milieu et le moment. Trois déterminismes donc qui relient son analyse, sa méthode d'investigation historique, au corpus général de la pensée du XIXème siècle. Sternhell puise la majorité de ses arguments, pour ranger Taine parmi les précurseurs du fascisme français, dans l'introduction à l'Histoire de la littérature anglaise . On eut espéré quand même une analyse plus détaillée des Origines de la France contemporaine . Sternhell estimant globalement que le fascisme est une "réaction" contre les idées de 1789, leur rationalisme, leur individualisme et leur démocratisme, il aurait été utile de passer au peigne fin les douze volumes des Origines . Dans Maurice Barrès et le nationalisme français (Paris, Armand Colin, 1972), Sternhell dit simplement que Barrès tire de l'œuvre de Taine l'idée d'une France décérébrée  et sur le déclin. Thèmes qui auront aussi leur impact sur Maurras, comme nous allons le voir. La référence à Taine aurait pu être, me semble-t-il, plus importante. Pour Sternhell, Taine est le maillon d'une chaîne qui relie Gobineau à Jules Soury (cf. infra) et à Barrès et ceux-ci aux fascistes français des années trente et de la collaboration.

 

f) l'influence prépondérante de Jules Soury:

 

Un des grands mérites de Sternhell, c'est d'avoir redécouvert la figure et l'œuvre de Jules Soury. Totalement oublié depuis quelques décennies, ce dernier était professeur à la Sorbonne et très populaire en tant que vulgarisateur scientifique et que propagandiste des idées de Darwin et Haeckel, au tournant du siècle. Certes, ses thèses correspondent en gros à celles, restées mieux connues, de Le Bon et de Vacher de Lapouge, et se développent autour d'un axe central: le déterminisme. Pour Soury, le monde social est régi par des "lois fatales", des "lois d'airain". Le libre-arbitre est une fable et l'homme moral aussi. L'homme, selon Soury, n'est qu'un des rouages de la gigantesque mécanique universelle. Il est le produit d'une sélection naturelle et la France, si elle a subi la défaite de 1871, c'est parce qu'elle ne s'est pas "épurée" à temps, qu'elle n'a pas voulu, à l'instar de l'Allemagne, redevenir une "race". Le langage de Soury est plus clair, moins ambigu, que celui des autres auteurs français situés dans la même veine.

 

Cette clarté sera perçue par Maurice Barrès qui a véritablement bu les paroles du professeur et les a faites siennes. Toute l'œuvre de l'auteur des Déracinés  repose sur une interprétation, géniale sur le plan littéraire, des thèses de Soury. Nous mesurons par là l'importance du déterminisme de Soury dans la genèse du fascisme français.

 

3.La Droite prolétarienne

 

Dans cette genèse du fascisme français, Sternhell place le mouvement ouvrier anti-grèves des Jaunes . Cette juxtaposition est curieuse, surtout si l'on sait que, par exemple, Blanqui et Vacher de Lapouge, militants socialistes révolutionnaires, appartiennent, selon Sternhell, eux aussi, à l'ascendance du fascisme. Pour Sternhell, ce mouvement jaune , dirigé contre les mouvements de grève "rouges" par des hommes comme Lanoir et Biétry, exploite un mécontentement ouvrier en maniant un discours nationaliste à la Boulanger et chargé de thèmes antisémites. Ce sont ces idéologèmes-là qui incitent Sternhell à inclure le mouvement des Jaunes  dans la généalogie du fascisme français. Il appelle ce mouvement une "droite prolétarienne" et constate qu'elle est opposée au prolétariat organisé par la gauche. Deux autres aspects de cette "droite prolétarienne" à signaler ici: le vertuisme et l'immobilisme social, préconisé comme étant dans l'intérêt des ouvriers.

 

4. L'extrême-gauche antidémocratique

 

Cette quatrième composante, d'après Sternhell, du fascisme français des origines est sans doute la plus importante. C'est elle qui aligne les noms les plus prestigieux, des noms connus dans l'Europe entière. Citons-en surtout trois: Lagardelle, Roberto Michels et Georges Sorel. Hubert Lagardelle définissait le socialisme comme un mouvement né pour lutter contre les idées libérales-bourgeoises. En prononçant cette définition, Lagardelle vise le mode de fonctionnement des démocraties libérales. Le mouvement ouvrier a commis l'erreur d'accepter le jeu démocratique et parlementaire. Ce faisant, il ne s'émancipe pas de l'Etat créé par les bourgeois. Roberto Michels, activiste de la SPD d'alors, le parti socialiste le plus puissant d'Europe, qualifiait la naissance de l'oligarchie socialiste de Verbonzung, Verkalkung, Verbürgerlichung, c'est-à-dire l'emprise des bonzes (des caciques), la sclérose doctrinale et l'embourgeoisement par le recrutement de trop de "juristes et d'avocats". Pour Michels, les socialistes officiels deviennent tout simplement une oligarchie parmi d'autres oligarchies. C'est alors que la veine révolutionnaire s'épuise. Quant à Georges Sorel, dont l'œuvre mérite à elle seule une longue exégèse, il est l'auteur des Réflexions sur la violence où, précisément, cette violence est conçue comme le moteur de l'histoire. La démocratie, pense Sorel, peut désormais travailler contre l'avénement du socialisme. Le syndicalisme, dans lequel Sorel place tous ses espoirs, réagira, lui, contre l'emprise de la démocratie et recourra, non aux urnes, procédé jugé aussi bourgeois que trompeur, mais à la violence qui effraie les "philanthropes", c'est-à-dire la grève générale.

 

5. Les dimensions non conservatrices de l'Action Française

 

L'Action Française, lancée par Vaugeois, Pujo et Maurras entre 1898 et 1900, est le modèle par excellence du mouvement de droite. Pourtant, elle contient dans son corpus doctrinal, des éléments que l'on classerait volontiers à gauche aujourd'hui. Nous y reviendrons dans la suite de cet exposé.

 

L'impact de Maurice Barrès

 

En 1972, quand paraissait en France l'ouvrage de Sternhell consacré à Maurice Barrès, le professeur Robert Soucy de l'Oberlin College de l'University of California (Berkeley) publiait un ouvrage intitulé Fascism in France. The Case of Maurice Barrès  (University of California, 1972). Soucy cernait bien les six fondements de la pensée barrésienne. Formé à la lecture de Nietzsche, Dostoïevsky, Carlyle et Bergson (pour ne pas revenir sur les influences qu'il reçut de Wagner et de Soury), Barrès a d'abord navigué dans le "Culte du Moi". Le nationalisme ne le concernait pas et, lui, le fondateur du "culte des morts" écrivait alors: "Les morts, ils nous empoisonnent!". Petit à petit, son nationalisme allait se former et tourner autour de six axes, non coordonés en un système à la façon allemande et hégélienne, mais juxtaposés en un ensemble marqué d'esthétisme et de sensibilité. Ces six piliers sont:

1) Les trois vertus du héros "réaliste".

Ces trois vertus sont le sens du réel , de la "réalité". Ensuite, la force de la passion car les passions mènent le monde. Les passions et non les raisons frileuses. Et, enfin, l'énergie . Le culte de l'énergie, propre aux fascismes de l'entre-deux-guerres, découle tout droit de cette apologie barrésienne du dynamisme des chefs, des masses et des peuples.

 

2) Les racines.

Barrès découvrira ses racines lorraines. Du culte des racines découlera celui de la "Terre et des Morts".

 

3) Le vitalisme.

Pour Barrès, le vitalisme, c'est se fondre dans la volonté inconsciente des sentiments les plus obscurs de l'être, sentiments obscurs hérités de nos ancêtres, les Morts.

 

4) La démocratie de masse et le culte du chef.

Les masses sont le réceptacle des énergies obscures que le chef canalise et dirige vers des objectifs choisis. La liberté reçoit dès lors une nouvelle définition: c'est la force qu'acquiert un homme quand il est lié à d'autres hommes. Dans cette définition nouvelle de la liberté, posée par Barrès, se résument tous les arguments que nous avons préalablement analysés: le déterminisme hostile au libre-arbitre des libéraux et des conservateurs, l'impératif collectif de la race, des ancêtres et des morts dont nous devons poursuivre la mission historique. Enfin, l'inéluctabilité des "forces obscures", des "principes collectifs".

 

5) Le racisme.

C'est pour Barrès, l'héritage de Soury et l'idée de peuple, découverte chez Wagner.

 

6) Le culte du héros et le charisme.

 

De ces six "piliers", bien mis en évidence par Robert Soucy, Sternhell dégage les composantes de la théorie politique de Barrès, de son "nationalisme organique". Sternhell montre comment ces idées de base de Barrès vont être articulées dans la pratique politique qu'il suggèrera aux nationalistes français. Ce nationalisme implique:

 

1) Une hostilité farouche à la république "dissociée  et décérébrée ".

2) L'affirmation de principes de stabilité.

Ces principes sont ceux qui découlent du culte de la Terre et des Morts. Ce culte permet aux Français de vivre "dans leur vérité propre". Barrès entame ici une polémique avec ce qu'il appelle le kantisme abstrait , un kantisme qui nous enseigne à agir de façon à ce que nos maximes puissent avoir une vérité universelle. Barrès s'insurge ici devant cet universalisme postulé par le kantisme car il arrache l'intellectuel à son peuple et en fait un déraciné .La stabilité historique d'une nation se mesure dès lors, dit Barrès, à sa capacité de défendre ses vérités propres et non à chercher la chimère d'une universalité quelconque (9).

 

3) Les facteurs de conservation.

Personnellement hostile au christianisme, Barrès finira par admettre le catholicisme comme un moyen de faire l'unité de la nation.

 

4) Les forces de destruction.

Celles-ci procèdent précisément des universalismes et des valeurs étrangères. Il convient de ne pas laisser au protestantisme la bride sur le cou car c'est une tradition allemande et non française (10). Parmi les universalismes les plus "pernicieux", selon Barrès, il y a le judaïsme (11). Ce dernier disloque la cohésion des nations, dit Barrès, et porte d'autres valeurs que celles de notre Terre et de nos Morts.

 

5) La question lorraine.

Province dont Barrès est issu, la Lorraine est en partie annexée à l'Allemagne impériale depuis la défaite française de 1871. Barrès part d'une exaltation de sa province, de son terroir, matrice de ses propres énergies. Cette province doit pouvoir échapper à un centralisme qui étouffe sa vitalité. La question lorraine sert de prélude à une idée barrésienne très importante, celle du régionalisme.

 

6) Le régionalisme.

En 1894-1895, Barrès mènera une campagne en faveur des libertés locales, régionales et syndicales. Il se fait là le porte-parole d'un fédéralisme dont les cellules de base seraient les provinces. Le fédéralisme permettrait justement de fédérer, de rassembler toutes les énergies de la nation et de n'en étouffer aucune.

 

Le rôle de l'Action Française

 

sternhellnidrnigau.jpgNée en 1898, sous l'impulsion de Vaugeois et de Pujo, l'Action Française prendra son envol définitif l'année suivante quand Maurras se joint à l'équipe initiale et quand se créent d'abord le Bulletin d'AF, puis la Revue d'AF. Charles Maurras sera le père du "nationalisme intégral" dont les deux idées-maîtresses seront le monarchisme (l'affirmation de la nécessité de faire gouverner la France par un roi fort et de décentraliser le pays) et la germanophobie, qui tournera souvent à l'obsession et au ridicule.

 

En plus du monarchisme et de la germanophobie, il convient d'ajouter une dimension résolument esthétique: le culte religieux qu'éprouvait Maurras pour la civilisation gréco-romaine, pour le Sud méditerranéen. Ce culte dérive d'une équation toute personnelle; Maurras est issu de la Provence et le soleil de sa patrie lui manquera toujours à Paris. En plus, depuis son jeune âge, il est sourd (ce qui renforce encore son caractère bourru et son entêtement devenu légendaire). Ce sont donc, chez lui, les organes de la perception visuelle et tactile qui auront le dessus. L'esthétisme maurrassien et son amour du soleil, de la lumière et des couleurs est le corollaire naturel de sa surdité. Ajoutons encore que Maurras sera, toute sa vie, fasciné par la personnalité de Richelieu.

 

Quel sera dès lors le nationalisme de Maurras ?

Avant toute chose, une synthèse. Lui-même dira qu'il n'innove rien et qu'il n'est qu'un perroquet. Ce "perroquet" n'est donc ni un philosophe ni un bâtisseur de systèmes mais un journaliste brillant, au talent sûr et indéniable et au style mordant. Le style prend ici le pas sur la vérité. L'esthétique sur le vrai. C'est là le propre des "races latines" comme le soulignait déjà Hippolyte Taine. Or, Maurras se sentait et se voulait "latin". Son engouement pour Taine, anglophile et germanophile, lui aura apporté sa propre définition du "Latin"! Pour Maurras, la France est une "déesse", l'œuvre des quarante rois capétiens et non de quelques décennies de démocratie. En fin de compte, le nationalisme intégral de Maurras, assez coupé des masses populaires, sera un nationalisme défensif, axé sur la xénophobie anti-allemande et sur l'antisémitisme. Ce nationalisme de repli sur soi est renforcé encore par le "traditionalisme" de Maurras. Qu'est-ce que le traditionalisme? C'est l'héritage des Contre-Révolutionnaires de Maistre, Bonald et Le Play. De l'œuvre de ces contre-révolutionnaires découle une apologie de l'Ancien Régime où le non-individualisme et l'organicisme permettaient une meilleure organisation de la société grâce aux corporations et aux corps de métier, dissous par les lois de la Révolution. Le nationalisme aura alors pour tâche de restaurer des structures sociales intermédiaires entre l'individu et l'Etat. Deuxième idée politique déduite de cette apologie de l'Ancien Régime: le régionalisme. La France était plus stable, affirment Maurras et ses disciples, quand les provinces avaient plus d'importance. La République néglige les meilleurs du peuple français: les paysans. Cette idée du "bon paysan" renoue avec un autre culte royaliste: celui des Chouans et des Vendéens.

 

Le traditionalisme maurrassien reste toutefois en-deçà de la critique portée en Allemagne à l'encontre des idées de 1789. Lorsque l'on analyse les ouvrages du Baron von Stein, d'Adam Müller ou de Savigny, on percevra mieux l'évolution des idées qui a d'abord porté au pouvoir les idéaux de 1789, puis a consommé le divorce entre la Révolution Française et les aspirations confuses qui dynamisaient le mouvement révolutionnaire pour être trahies par lui, puis a fait passé la volonté de participation de tous à la chose publique dans les mentalités germaniques par le truchement du romantisme. Maurras n'avait pas la moindre connaissance de la "politologie" romantique et réduisait celle-ci à certains aspects de Rousseau. Plus tard, Carl Schmitt analysera l'occasionalisme (12) romantique avec bien plus d'acuité que le chef de file de l'Action Française. L'organicisme de Maurras n'était finalement que fort superficiel. Faut-il y voir une des raisons majeures de l'échec politique de l'AF ?

 

Le nationalisme intégral de Maurras est également un "positivisme". Maurras, en effet, cherche à politiser à son profit les acquis de la philosophie d'Auguste Comte. N'étant pas chrétien et se définissant comme agnostique, Maurras ne peut pas justifier son idée monarchique par le recours au "droit divin". Ce qu'avaient fait les traditionalistes contre-révolutionnaires. Il lui faut donc avancer des arguments de nature "scientifique". Pour Maurras, ce ne sera donc pas Dieu qui veut la monarchie mais la "raison". La raison politique bien entendu. Il parlera donc d'un empirisme organisateur . Ce type de raison, invoqué par Maurras, n'est pas celui du siècle des Lumières, générateur de la Révolution et des idéaux de 1789 qu'il honnissait. La raison du XVIIIème siècle lui apparaît mièvre et démocratique. Celle qui le fascine, en revanche, est celle du XVIIème. Il revendique la clarté logique de ce XVIIème siècle où la France était la première puissance en Europe et où ses armées ravageaient le Saint Empire. Culte de Richelieu et de la clarté logique  du XVIIème constituent donc les deux référentiels de base pour l'esthétique politique de Maurras. Ces référentiels sont ceux d'une France encore forte, d'une France qui a la population la plus dense du continent. Or, depuis la fin de l'épopée napoléonienne, ce n'est plus le cas. Le déclin démographique a commencé. L'Angleterre et l'Allemagne, l'Italie et la Russie ont connu des explosions démographiques formidables. La France perd son importance d'antan et Maurras, lecteur de Gobineau, de Taine, de Soury et sans doute aussi de Mourre (cf. supra), le sait. Il refuse ce déclin et rêve d'une France qui retrouverait sa puissance de jadis. C'est ici aussi que l'on peut observer la nature finalement "défensive" du nationalisme maurrassien.

 

Maurras ne pouvait ni se référer à la vigueur française des armées révolutionnaires ni à la geste grandiose de Napoléon. Son anti-républicanisme et son monarchisme l'en empêchaient. Il a donc puisé ses modèles exemplatifs dans le XVIIème. Les Allemands et les ressortissants des Pays-Bas du Sud, devenus Belgique depuis 1830, pourraient difficilement choisir comme référentiel ce siècle qui ne fut, pour eux, qu'une succession de misères atroces, de carnages, de villes incendiées, de famines et de guerres civiles. Pensons au Simplicissimus de Grimmelshausen (13) !

 

Reste la position de Maurras à l'égard de l'Eglise et du catholicisme. Sa position est double. Il dira "oui" à l'Eglise en tant que facteur d'ordre, en tant que principe organisateur. Il dira "non" au message intérieur du christianisme, parce que celui-ci repose sur des éléments juifs et non gréco-romains. Ce "oui" à l'Eglise et à ses principes hiérarchiques est inséparable du "non" au message des Evangiles, jugés "démocratiques". En dehors de l'Eglise, dira Maurras, les Evangiles sont un poison (14).

 

Parmi les aspects les plus intéressants du maurrassisme, aspects encore partiellement exploitables aujourd'hui, il faut évoquer le "socialisme anti-étatique". Maurras rejette le capitalisme parce qu'il est cosmopolite. Ce cosmopolitisme ne place a fortiori pas les intérêts de la nation française au-dessus de ses intérêts propres. De ce fait, pour Maurras, il doit être combattu. Cette position le rapproche du discours "révolutionnaire-syndicaliste" et du courant "anarcho-syndicaliste". "Monarchistes de gauche" et syndicalistes de diverses orientations se regrouperont en 1911 autour de la revue du Cercle Proudhon  qui n'eut qu'une existence éphémère. Le dénominateur commun qui unissait ces hommes venus d'horizons aussi divers, c'était la volonté de donner au politique pur la priorité par rapport aux stratégies économiques cosmopolites. La défense de la nation, en tant qu'acquis historique incontournable, et la défense du peuple, en tant que masse démographique porteuse d'énergies héritées de l'histoire, se rejoignent dans une lutte commune contre une idéologie qui nie les héritages politiques et ne se soucie guère de la santé morale et physique des peuples. Pour les adversaires des monarchistes de gauche et des anarcho-syndicalistes (dont Georges Sorel), le "peuple" se présente comme une masse indifférenciée d'individus susceptibles d'être embauchés (et alors on les flatte) pour être ultérieurement licenciés, si les fluctuations du marché l'exigent. Cette gauche sociale et cette "droite" traditionaliste, non indifférente à la question ouvrière, se dressent donc conjointement face aux idéologies et aux acteurs politiques qui observent, pour leur strict intérêt personnel et financier, les soi-disant lois du marché. Pour la gauche et des hommes comme Lagardelle, Sorel et Michels (cf. supra), la social-démocratie accepte les lois du marché et se borne à demander de petits aménagements destinés à rendre la dictature du "marché" (nous serions tentés de dire la "théocratie" du marché) (15) supportable aux masses populaires. Cette acceptation par la social-démocratie "oligarchique" du jeu du marché a provoqué la désaffection de ses éléments les plus pugnaces et a contribué à la naissance des partis communistes, surtout au lendemain de la première guerre mondiale. Le fascisme est une autre variante de la réaction anti-sociale-démocrate. C'est vrai en France avec Sorel et Lagardelle. Ce sera vrai en Allemagne aussi avec des hommes et des femmes aussi différents que De Man, Liebknecht, Rosa Luxemburg, etc. Les PC et les "Luxemburgiens" riposteront par une nouvelle interprétation de l'œuvre de Marx et d'Engels. Les fascistes quitteront la tradition "marxiste" et puiseront leurs arguments dans d'autres doctrines et notamment celle de Proudhon.

 

Maurras dira, avec l'esprit de synthèse qu'on lui connaît: "Le nationalisme est comme une belle main et pour cette jolie main, un socialisme bien conçu, non démocratique et non cosmopolite, peut constituer un gant parfait". En conclusion, disons que l'anti-romantisme maurrassien repose sur deux idées-maîtresses: 1) l'hostilité à Rousseau, considéré comme le père spirituel de la Révolution et de la Terreur de Robespierre et 2) la germanophobie. L'Allemagne, aux yeux de Maurras, est la patrie du romantisme et le romantisme est le fruit des "brumes du Nord". A ces "brumes", il convient d'opposer le soleil des classicismes français et gréco-romain.

 

De 1914 à 1945

 

Avec Taine, Vacher de Lapouge, Drumont, Tridon, Toussenel, Barrès et Maurras, les assises du fascisme français du XXème siècle sont posées. C'est au départ de ces corpus doctrinaux que les écrivains fascistes et les théoriciens politiques qui se sont retrouvés dans leur sillage, échaffauderont leurs propres fascismes. J'insiste ici sur le pluriel . Nous verrons pourquoi. La première guerre mondiale sera une parenthèse sanglante. L'AF sombre dans le chauvinisme tricolore. Sorel se tait et désapprouve le carnage européen. Les esprits se séparent, alors qu'ils auraient pu joindre leurs voix et leurs protestations pour donner au siècle naissant la synthèse complète et définitive qu'il attendait et qu'il attend toujours. Après la guerre, l'acharnement des milieux de l'AF ne se tarit pas. Maurras rappelle sans cesse le testament politique de Richelieu, son idole: il faut coloniser subtilement la Belgique et le Luxembourg, les inclure dans une union douanière avec la France et les obliger à accepter des accords militaires. Bref, une annexion à peine déguisée que beaucoup en Belgique ne lui pardonneront jamais (16). Enfin, il faut morceler l'Allemagne, détacher si possible les régions catholiques du Sud de la Prusse protestante et "militariste", créer une république rhénane fantoche et en faire un protectorat français, imposer des réparations telles à l'Allemagne que la France puisse vivre sans travailler, etc. Les thèses maurrassiennes culminent lors de l'occupation de la Ruhr. Finalement, ce fut l'échec. Et aussi, faut-il l'ajouter, un mauvais calcul. Les colonies étaient déjà censées fournir à la France matières premières et richesses diverses; si l'on ajoutait l'Allemagne comme fournisseur obligé et contraint de produits finis et de machines-outils, l'on commettait finalement une erreur politique monstre: ne pas investir sur place et omettre de créer un outil industriel autochtone, basé sur une main-d'œuvre nationale, garante du bon fonctionnement de la machine économique. Par rapport à l'Allemagne qui, sous l'impulsion d'un économiste génial comme List (17), a toujours su créer son plein-emploi et produire une très large part de ses matières premières sur place en semi-autarcie, ce fut une faiblesse, une faiblesse que la France allait payer cher en 1940. L'historien J. Marseille (in: Empire colonial et colonialisme français , Albin Michel, Paris, 1985) reconnait que le colonialisme français a été un frein à l'essor, au développement et à la modernisation  du capitalisme métropolitain (surtout sur le plan de l'outil). La décolonisation a plutôt été, dans les années 60, un mouvement de modernisation de la métropole française.

 

Plus clairvoyants et plus européens furent les "démocrates" Briand et Stresemann. Ces hommes ont cherché le rapprochement franco-allemand et la réconciliation au-delà des charniers de Verdun et de la Somme. Est-ce un hasard si Ferdinand de Brinon, ambassadeur de Vichy à Paris pendant la seconde guerre mondiale et chaleureux partisan de la collaboration franco-allemande, venait de ce pacifisme... L'intransigeance du nationalisme français, alors sans clairvoyance économique, a suscité la naissance d'un nationalisme allemand offensif, réponse à la politique de Clémenceau, considéré Outre-Rhin comme un nouveau Richelieu (18). L'irresponsabilité économique française se percevait également en Europe Centrale où elle a détaché les zones agricoles de Pologne et de Hongrie de ses débouchés traditionnels: l'Allemagne industrielle. Le peuple français n'a guère tiré profit de ce nationalisme-là, puisque son outil industriel n'a pas été rénové à la même vitesse que celui de l'Allemagne.

 

L'entre-deux-guerres a connu trois périodes successives dans l'élaboration de son fascisme. Ces périodes s'étendent, pour la première, de 1920 à 1930, puis de 1934 à 1940 et, enfin, de 1940 à 1945, celle de la "collaboration". Chaque génération a donc connu son  fascisme.

 

La période de 1920 à 1930

 

Cette époque du fascisme français, la première, chronologiquement, du "fascisme conscient", a été dominée par la figure de Georges Valois, un fasciste naïf selon Sternhell. Valois a commencé sa carrière politique en tant que membre de l'Action Française. Il était un socialiste monarchiste. Son monarchisme dérive d'un culte du dirigeant, de l'homme d'Etat capable d'incarner et la théorie et la pratique. Pour Valois, Lénine et Mussolini étaient de tels hommes. Par la révolution bolchévique de 1917 et par la Marche sur Rome de 1922, Lénine puis Mussolini ont su allier théorie et pratique. Valois s'apercevra que Maurras n'est pas un homme de la même trempe. Il n'est qu'un théoricien, incapable d'accéder au pouvoir et de "marcher sur Paris". C'est la raison pratique qui a poussé Valois à quitter le milieu de l'AF et à fonder son propre mouvement, le Faisceau . La référence à Mussolini est clairement affichée. Le mot d'ordre de Valois, la clef de voûte de sa théorie politique se résume à une équation: "nationalisme + socialisme = fascisme".

 

Au départ, Valois n'était pas marxiste (au contraire de Mussolini et de Lénine) mais il n'était pas non plus anti-communiste, au sens où la droite classique, le fascisme des théoriciens ou des journalistes issus d'Action Française et celui des déçus du stalinisme (les adhérents du PPF de Doriot et de Victor Barthélémy) l'entendaient. Valois voulait unir les forces de gauche, les forces socialistes, dans un front unique pour le salut de la nation française. Ce front porterait un roi social au pouvoir. Dès lors, pourquoi ne pas marcher ensemble, main dans la main, communistes et fascistes? Cette idée, Valois a été à peu près le seul à la défendre en France après la première guerre mondiale. En Allemagne, la tentation "nationale-bolchévique" rassemblait plus de monde. Il suffit d'évoquer des noms comme ceux de Niekisch, Schlageter, Paetel, Tusk, Scheringer, Schulze-Boysen, Radek, Ernst von Salomon, etc.(19).

 

C'est en 1925 que Valois fonde son Faisceau . Le parti durera trois ans. Ensuite, Valois retrouvera les rangs de la gauche classique. Il abandonnera ses chimères royalistes et militera désormais pour une "République syndicale".

 

Il ne s'engagera pas dans la collaboration. Au contraire, actif dans un réseau de résistance, il sera arrêté en mai 1944 par la Gestapo et transféré au camp de Bergen-Belsen, où il mourra du typhus à l'âge de 66 ans.

 

La carrière de Valois prouve indubitablement son honnêteté foncière. C'est ce que Sternhell appelle, avec une inélégance que je déplore, de la "naïveté". Certes, les idées de Valois sont marquées de quelques incohérences. Catholique, sans adhérer aux thèses réactionnaires que le catholicisme a souvent fait siennes, Valois est aussi un "panlatiniste". Du temps du Faisceau , il cherchait à unir les nations romanes contre les puissances anglo-saxonnes. Maurras partageait sans doute cette option, mais sa germanophobie outrancière mettait l'ennemi anglo-saxon au second plan. Par son hostilité à l'égard des puissances thalassocratiques anglo-saxonnes, Valois a été un précurseur et a fait montre d'une remarquable clairvoyance. En effet, en février 1923, Londres et Washington imposent une limitation du nombre des navires de guerre. L'Allemagne est particulièrement visée, bien sûr. Mais l'Italie et la France sont presque traitées avec la même rudesse. Valois s'insurge contre cette entorse aux souverainetés nationales des pays romans. Aujourd'hui, dans la construction de projets spatiaux, dans l'organisation de nos exportations de céréales, dans la coopération en matières nucléaires avec des pays latino-américains ou arabes, les Etats-Unis sabotent toute initiative européenne. C'est la conséquence de leur intervention dans les affaires de notre continent en 1917. Le Faisceau  soulignait là un problème grand-européen qui n'a pas cessé d'exister, qui s'est même renforcé par la seconde intervention des Etats-Unis en 1942 (débarquement en Afrique du Nord).

 

La vision du monde de Valois, contrairement à ce que semble dire Sternhell, est, elle aussi, marquée par deux dualismes d'essence "raciste": le dualisme Aryen/Asiate et le dualisme Aryen/Juif. La phobie du "péril jaune" tourmentait Valois et il rangeait la Russie entre l'Asie et l'Europe, la considérait comme une puissance tantôt asiatique tantôt européenne. Le dualisme aryen/juif correspond à l'héritage du XIXème siècle que véhiculent presque tous les penseurs, théoriciens et journalistes fascistes. Valois est aussi l'initiateur du culte de Jeanne d'Arc. Sur le plan des analyses comparatives entre doctrines allemandes et doctrines françaises que les historiens seront inmanquablement amenés à faire, un rapprochement entre l'hostilité de Valois à l'égard des thalassocraties et celle de l'Allemand Sombart à l'égard de la Händlermentalität  anglo-saxonne (mentalité marchande) s'impose. Signalons que Sombart est un ex-marxiste qui confère au catholicisme un rôle non négligeable de barrage contre la progression de l'esprit marchand en Europe continentale. En Flandre, Sombart était fort lu chez les catholiques autoritaires (et fascistoïdes dirait-on aujourd'hui). C'est Victor Leemans qui l'a introduit à l'Université de Louvain par une brochure excellente sur le plan didactique: Werner Sombart. Zijn Economie en zijn socialisme , De Nederlandsche Boekhandel, Antwerpen, 1939.

 

Valois n'a pas eu d'héritiers, si ce n'est, dit Sternhell, le francisme de Bucard. Mais Bucard n'était ni un économiste brillant comme Valois ni un bon analyste des relations internationales. Son fascisme sera religieux, à la limite du caricatural. Il sera fait de défilés et de cérémonies aux morts. Il sera tout rituel. Sans avoir le moindre impact sur les événements de la vie politique française. Ce fascisme réellement naïf sera l'un des premiers à être "internationaliste", c'est-à-dire attentif et sympathique à l'égard des mouvements similaires d'au-delà des frontières de l'Hexagone.

 

Le deuxième fascisme: 1930-1940

 

Ce deuxième fascisme sera un fascisme de journalistes, écrit Pierre-Marie Dioudonnat (in: Je suis partout. 1930-1944. Les maurrassiens devant la tentation fasciste , Paris, La Table Ronde, 1973). Non pensé, non érigé en système à la façon marxiste ou hégélienne, ce fascisme est "senti". Il est plus vitaliste-barrésien que positiviste-maurrassien. C'est d'ailleurs ce qui consomme la rupture de la plupart de ces fascistes de la deuxième génération avec Maurras. Enfin, il prend nettement ses distances avec le "nationalisme intégral" du chef de l'Action Française et se déclare "internationaliste", partisan du "fascisme immense et rouge". Ce fascisme a la faiblesse de ne pas constituer une doctrine de d'Etat. Il est impossible de le considérer comme une théorie de la société que ses adeptes chercheraient à traduire dans le concret. Chaque écrivain, chaque journaliste du célèbre "Je suis partout " crée son propre fascisme. Les expériences personnelles s'avèrent déterminantes. L'occasionnalisme est ici roi, pour reprendre la terminologie critique de Carl Schmitt à l'encontre du romantisme allemand et de celui de Lamartine. Pour ce que Paul Sérant nommait le "romantisme fasciste", le reproche schmittien d'occasionnalisme nous apparaît également valable. Dans l'orbite de Je suis partout , évoluent d'anciens communistes (comme Doriot), d'anciens socialistes (comme Déat), d'anciens radicaux de gauche à tendances nationales-jacobines, d'anciens pacifistes enthousiastes de la SDN (comme de Brinon), d'anciens conservateurs (comme Gaxotte), d'anciens nationaux-républicains et d'anciens royalistes d'AF.

 

Cette diversité ne permet pas de former un mouvement unique, un seul parti d'union des forces fascistes. Celui qui a eu le plus de succès, dans ce sens, fut Doriot avec son PPF, parce qu'il est parti d'une base préalablement communiste dans son fief de la banlieue rouge de Paris, notamment la ville de Saint-Denis. En revanche, sur un plan strictement métapolitique, l'influence de ces journalistes et écrivains s'est fait sentir bien au-delà des groupuscules fascistes.

 

Sternhell a suscité beaucoup de polémiques en France depuis la parution de son dernier livre parce qu'il avait inclu dans la mouvance fasciste le personnalisme chrétien d'un Emmanuel Mounier, fondateur de la revue Esprit . Mounier était pourtant resté très critique à l'égard du fascisme. Il a admis que le fascisme soulevait de bonnes questions mais que, non spiritualiste, sa révolution demeurait insuffisante. Ce personnalisme avait reçu les influences du socialiste belge Henri De Man et s'était penché sur la tradition proudhonienne. La figure de Proudhon, rappelons-le, avait déjà rapproché royalistes de gauche et anarcho-syndicalistes au sein des Cahiers du Cercle Proudhon , revue fondée en 1911 et à laquelle Sorel avait collaboré. Sternhell ne distingue pas, je crois, les problèmes de fond des problèmes de langage. Mounier et les siens voulaient acquérir une audience politique et ne pouvaient faire autrement que de sacrifier aux modes du temps. Indubitablement, le fascisme et le national-socialisme avaient lancé des modes: celle du culte des corps et du sport, celle de la communauté populaire et des vertus intégratrices du nationalisme. Mounier se serait automatiquement marginalisé s'il n'avait pas tenu compte de ces engouements.

 

L'expérience des néo-socialistes s'axe sur l'œuvre de Henri De Man (Cf. notre article in Etudes et Recherches  n°3, GRECE, Paris, 1984). De Man apporte les influences allemandes, parallèlement à la découverte de l'idée de communauté, théorisée par Tönnies en Allemagne et introduite en France par Raymond Aron en 1935. De Man, du temps où il séjournait en Allemagne, avait édité ses ouvrages chez l'éditeur conservateur-révolutionnaire Eugen Diederichs (Cf. La "Konservative Revolution" et ses éditeurs  par Michel Froissard in Vouloir , n°13, février 1985, Wezembeek-Oppem). Diederichs voulait dé-barrasser le mouvement ouvrier des "scories" d'un marxisme dépassé.Les livres de De Man lui paraissaient importants dans cette optique. Sternhell comprend parfaitement l'importance de De Man dans la genèse d'un socialisme alternatif français. Mais faut-il prendre le néo-socialisme français pour un "fascisme"? N'ayant lu de De Man que les seuls ouvrages traduits ou rédigés directement en français, Sternhell ne comprend guère les contextes allemand et belge où est né le planisme demaniste. Sternhell ne maîtrise pas les langues allemande et néerlandaise et risque de considérer De Man comme un penseur français parmi d'autres ayant exercé une influence sur de futurs collaborateurs tels Déat. En fait, c'est parce que Déat, sociologue de formation, s'est fortement inspiré de De Man que Sternhell range le socialiste belge parmi les théoriciens pré-fascistes voire fascistes. De Man reste une sorte de keynésien doté d'une forte influence allemande. Sa doctrine se résume en quelques points (du moins nous bornons nous ici à n'en soulever que les principaux):

 

1) Le matérialisme marxiste est dépassé. Il faut remplacer le déterminisme marxiste par une "théorie des mobiles", c'est-à-dire une assise philosophique qui tienne compte des acquis des sciences psychologiques. Or Sternhell avait considéré le déterminisme comme la pierre angulaire du "pré-fascisme" d'un Vacher de Lapouge, d'un Taine et d'un Soury. Le fascisme est-il dès lors à la fois déterministe et anti-déterministe? L'une position n'exclut-elle pas automatiquement l'autre? Il faut relever, me semble-t-il, cette contradiction majeure. La réponse au débat qu'elle appelle se trouve chez Diederichs. Avant 1914, Diederichs publie Jaurès, les écrits du socialiste suédois Steffen, puis, après la Grande Guerre, ceux de De Man parce qu'ils tiennent tous compte de l'apport philosophique de Bergson. Vacher de Lapouge, marxiste au départ, passe au déterminisme biologique. C'est pour donner au socialisme une puissance que le déterminisme marxiste ne pouvait lui conférer. Chez Vacher de Lapouge, l'homme reste agi par sa race, par sa biologie. Mais on peut purifier une biologie défaillante par l'eugénisme, dit Vacher de Lapouge (et après lui, Montandon et Martial). De Man restaure la volonté de l'homme, donc un "libre arbitre" correcteur. Mounier, en tant que chrétien, se soucie aussi de la préservation d'une forme ou d'une autre de "libre arbitre". Aux yeux des contradicteurs de Sternhell (comme Gilbert Comte, cf. infra), c'est une erreur de vouloir assimiler au fascisme le personnalisme de Mounier, puisque celui-ci tient compte du libre arbitre, seul garant de la démocratie et de la liberté humaine. De Man, par son volontarisme, intéresse les disciples et les amis de Mounier. La distinction entre "fascisme" et "non-fascisme" passerait-elle par une acceptation ou un refus du libre arbitre? Sternhell aurait dû y penser pour s'éviter les polémiques.

 

De Man se situe à la charnière puisque l'homme socialiste, pour lui, est agi par une soif de nature psychologique: vouloir une dignité . Un person-naliste ne peut rester sourd à ce plaidoyer et à cette démonstration.

 

2) De Man distingue le socialisme du "marxisme vulgaire". Ce dernier ne serait qu'une vulgate maniée par les oligarques des partis socialistes ayant perdu leur punch révolutionnaire.

 

3) L'idée du socialisme allemand, c'est-à-dire d'un socialisme conforme à chaque peuple a très longtemps préoccupé De Man. Il a indubitablement subi les influences de Sombart, Rathenau, Rosa Luxemburg (son spontanéisme), des dissidents de la SPD, de Keyserling et vraisemblablement du livre d'Ernst Jünger, Der Arbeiter. Dans l'ensemble, son œuvre vise à remplacer l'archaïque matérialisme, le vieux déterminisme marxiste par un volontarisme qui ne parie pas sur les "forces obscures" de la race, comme chez Barrès, mais sur la puissance que peut déployer l'aspiration humaine à la dignité. La nuance est de taille et je crois que Sternhell ne l'a pas entièrement perçue. Certes, l'aspiration à davantage de dignité et les pulsions obscures relèvent l'une et l'autre de l'irrationnel. Mais tous les irrationnels sont-ils identiques? Faut-il reprendre la dichotomie posée jadis par Lukacs dans Die Zerstörung der Vernunft  ?

 

L'internationalisme fasciste

 

Il est légitime de dire, avec Pierre-Marie Dioudonnat, que l'internationalisme du fascisme des collaborateurs de Je suis partout  constitue à la fois une réponse et un défi à l'anti-fascisme organisé des intellectuels parisiens et des émigrés anti-fascistes d'Allemagne. L'internationalisme se renforce par le culte des actes beaux: la résistance des défenseurs de l'Alcazar, la guerre d'Espagne, les Jeux Olympiques de Berlin en 1936, les "cathédrales de lumière" de Nuremberg auxquelles participèrent Robert Brasillach, Lucien Rebatet et le futur Sénateur rexiste Pierre Daye, lui aussi collaborateur de Je suis partout . Parmi les événements commentés positivement, il y avait la victoire électorale de Léon Degrelle à Bruxelles en 1936. Mais le mouvement de Degrelle, à cette époque, n'avait vraiment pas encore grand'chose de commun avec les autres fascismes ou avec le national-socialisme allemand: pas de chemises ni d'uniformes, peu de drapeaux, un ancrage très net dans le milieu catholique. Le rexisme de 1936 était une réaction spontanée de citoyens écœurés par les turpitudes politiciennes et cherchant des garanties contre un chômage qui les menaçait en permanence.

 

Cet internationalisme se complète d'un culte vitaliste, d'une idée de la jeunesse (que Rex s'annexait puisqu'il s'affirmait le représentant des "jeunes plumes" contre les "vieilles barbes"), de la notion de joie . En effet, c'est sans doute l'énergisme de Barrès qui constitue le lointain ancêtre de cette idée de joie . Mais est-ce, à cette époque, une caractéristique du seul fascisme? Certes, le Dr. Robert Ley crée, en Allemagne, l'organisation Kraft durch Freude (La force par la joie) . Mais le monde socialiste marqué par le marxisme n'y reste pas étranger. De Man avait écrit La joie du travail , dans une perspective socialiste et le Front Populaire, quand il accède au pouvoir, en France, fait éclater partout sa joie: danses, pique-niques, vacances, auberges de jeunesse, randonnées à bicyclette, etc... Brasillach, lui, ricanait des "congés payés" tout en s'émerveillant des réalisations sociales de l'Allemagne nationale-socialiste, où les ouvriers partaient aussi en congés payés; sur les navires de l'organisation Kraft durch Freude , ils partaient en croisière en Baltique, en Méditerrannée, dans les fjords de Norvège,... Est-ce, chez Brasillach, une pointe de conservatisme au milieu d'une explosion de joie révolutionnaire, à la fois fasciste et socialiste? Curieusement, libéraux et conservateurs n'ont jamais sacrifié au culte de la joie. Les nouveaux sociaux-démocrates d'après 1945, à vrai dire, non plus... Sic transiit gloria mundi...

 

La collaboration et l'épilogue

 

Le fascisme français n'a jamais vu ses idées traduites dans la réalité. Après la défaire de 1940, le gouvernement de Vichy organise, dans la mesure de ses moyens, la société française selon les critères du "conservatisme" et du "corporatisme" de la droite traditionaliste catholique. Le modèle n'est ni l'Italie de Mussolini ni l'Allemagne de Hitler, mais le Portugal de Salazar ou l'Espagne de Franco voire l'austro-fascisme clérical et réactionnaire de Dollfuß. On renoue avec l'esprit anti-révolutionnaire des milieux royalistes les plus sclérosés. On se réfère aux thèses les plus à droite de Maurras.

 

Face à cette situation, les écrivains et journalistes de Je suis partout  adhèrent au "mythe SS", à l'idéologie internationaliste que véhiculaient les centres de recrutement de la Waffen SS. De ces centres est né un véritable "européisme" très différent du "nationalisme intégral" de Maurras. La dimension cesse ici d'être étroitement "nationale" pour prendre une ampleur "continentale". La presse allemande traduite en Français, comme l'hebdomadaire berlinois Signal , répand cette idéo-logie européenne. Les références à l'histoire et au "Reich fédérateur" introduisent en France une nouvelle vision du politique. Qui n'a guère eu d'épigones, faut-il l'ajouter.

 

Le PPF de Doriot, formation solide avant-guerre, passe du communisme de ses membres fondateurs au fascisme anti-communiste, surtout quand Doriot lui-même devient lieutenant de la Wehrmacht. L'anti-communisme du PPF prend souvent des tournures passionnelles et l'empêche d'élaborer un socialisme nouveau, inspiré, par exemple, des idées de De Man.

 

Parmi les écrivains les plus originaux et les plus typiques de l'époque, citons Drieu La Rochelle. Ancien combattant de la Grande Guerre, il est un écrivain hors ligne, fasciné par le mythe de la jeunesse et le culte de la force. Malheureusement, sa personnalité demeure fragile. Il ne sera pas un capitaine politique. Dans l'évolution doctrinale, dont nous venons d'esquisser les grandes lignes, Drieu a toute sa place car son culte de l'énergie l'a conduit successivement à admirer le monde anglo-saxon, puis le national-socialisme allemand et, enfin, peu de temps avant son suicide, il a placé ses espoirs dans les potentialités de la Russie de Staline.

 

Les réactions à l'encontre des thèses de Zeev Sternhell

 

Nous avons examiné trois réactions très différentes: celle d'Armin Mohler, auteur de Die Konservative Revolution in Deutschland 1918-1933 , celle du Club de l'Horloge, laboratoire d'idées des droites libérales en France (RPR,UDF,FN) et, enfin, celle du journaliste du Monde , Gilbert Comte, qui nous signale les détournements possibles, à des fins politiques, de l'œuvre de Sternhell.

 

Armin Mohler se félicite du succès des travaux de Sternhell parce qu'ils sortent les recherches sur le fascisme d'un ghetto où philosophes et sociologues voulaient encadrer ce phénomène politique très complexe dans des concepts trop rigides. Les études de Sternhell, écrit-il dans Criticón (n°76, mars-avril 1983), sont le fruit d'un travail d'historien qui ne se préoccupe que de saisir des événements uniques. L'unicité de ces événements interdit précisément de les enfermer dans des catégories toute faites, catégories qui seraient marquées du sceau de l'universel. Mohler apprécie le fait que Sternhell se soit davantage penché sur le fascisme proprement politique et non sur le fascisme de salon (dixit Mohler) ou le fascisme littéraire. Ensuite, il souligne l'importance de l'analyse strictement française que pose Sternhell. Pour Mohler, en effet, la France est le bouillon de culture d'une intelligence fasciste à l'état pur, qui ne se retrouve nulle part ailleurs en Europe. Si l'Italie et l'Allemagne ont connu des régimes "fascistes" (ou plus ou moins qualifiables comme tels) pendant vingt-et-un ou douze ans, la France a généré, elle, un fascisme épuré où transparaissent toutes les thématiques dans un langage simple, limpide, beau, facilement maniable et communicable aux masses. Pour Mohler comme pour Sternhell, c'est donc la France qui a inventé le fascisme à défaut de l'avoir mis en pratique. Le fascisme français doit sa pureté au fait qu'il n'est jamais passé à la pratique et aux compromissions qu'elle implique. Le "consensus républicain" a été inébranlable. Aussi inébranlable que les cénacles où germaient les diverses pensées fascistes françaises. Mohler admire aussi, chez Sternhell, le choix de la chronologie. Une chronologie exacte, figée, est impossible à déterminer pour ce qui concerne l'émergence, le développement et l'effondrement du fascisme français. Il existe une sorte de continuité qui va de 1885 à 1940. Mais Sternhell perçoit parfaitement, dit Mohler, que les années qui précédèrent 1914 sont plus importantes que celles d'après la Grande Guerre. Les fondements sont jetés; les générations ultérieures n'ont fait que les exploiter.

 

Autres mérites de Sternhell selon Mohler: il néglige l'étude des groupuscules bizarres, il considère que le fascisme, à son époque, est une idéologie comme les autres et non une aberration vis-à-vis de lois de l'histoire soi-disant infaillibles; pour Sternhell, enfin, le fascisme n'est pas le propre de groupes sociaux bien déterminés. La cause du fascisme ne réside pas dans une quelconque crise économique ou dans les résultats de l'une ou l'autre guerre mais bien dans l'effondrement de vieilles valeurs, de vieilles certitudes. Il est le produit d'une crise de civilisation.

 

Les valeurs qui s'effondrent sont celles du libéralisme, ce sont les convictions de la fin du XVIIIème. Les catalyseurs du phénomène fasciste sont surtout les "révisionnistes de gauche", soréliens ou adeptes des thèses de Labriola, de Michels, de Lagardelle et, plus tard, de Henri De Man. Le fascisme enregistre des succès parce qu'il faut aller, comme le disait De Man, au-delà du marxisme . La marque du socialisme révisionniste est telle qu'aucune équation entre fascisme et conservatisme ne s'avère possible.

 

Ce fait, qu'aucune équation entre fascisme et conservatisme ne s'avère possible, le Club de l'Horloge parisien compte bien l'exploiter. Pour poser l'équation "socialisme = fascisme", dans un but politicien et électoraliste. Henry de Lesquen rappelle les thèses de Sternhell pour signaler que le fascisme et la droite (à laquelle de Lesquen veut s'identifier) s'opposent et que, contrairement aux apparences, le nationalisme les sépare! Au cours du même colloque (consigné dans un livre intitulé Socialisme et fascisme: une même famille? , Albin Michel, Paris, 1984), le professeur François-Georges Dreyfus part, lui, de l'analyse de Hayek et met en exergue de sa contribution une phrase de Moeller van den Bruck, citée par l'auteur de The Road to Serfdom : "Toutes les forces antilibérales se liguent contre tout ce qui est libéral". Dreyfus explique la filiation qui relie le fascisme italien au socialisme révisionniste, le doriotisme au communisme pragmatique de son chef avant son émancipation par rapport au PCF, les éléments socialistes de la Konservative Revolution (Sombart, le "socialisme prussien" de Spengler et de Moeller van den Bruck, etc.), les racines socialistes de la NSDAP et leur mise en pratique sous l'impulsion du Dr. Ley. Dreyfus, tout en utilisant quelques arguments teintés de racisme (il évoque l'asiatisme  de certains penseurs allemands comme Keyserling, Rathenau et surtout...Spengler! Cette notion d'asiatisme , il la puise dans l'ouvrage du maurrassien Henri Massis, L'Occident et son destin ), cherche a jeter les bases d'une interprétation néo-libérale des phénomènes politiques du XXème siècle. Il s'agit de rejeter a priori les idéologies ou les pensées qui se situent en marge des traditions libérales et social-démocrate keynésienne. Le communisme orthodoxe et le fascisme sont ainsi fourrés dans le même sac, parce qu'ils n'acceptent pas l'organisation libérale de l'économie de la planète. En fait, c'est un maccarthysme doré que nous livre le Club de l'Horloge. Il n'est plus question de mettre en doute le bien fondé des idées personnelles de Thatcher et de Reagan, puisées chez Friedmann et Hayek, von Mises et les néo-conservateurs américains.

 

C'est également ce que craignent Gilbert Comte et Claude Julien (directeur du Monde Diplomatique). Le point de départ de leur critique vient du fait que Sternhell juge le personnalisme de Mounier proche des fascismes des années trente. Claude Julien, dans son éditorial du Monde Diplomatique de mars 1985, écrit: "Pour que ce "libéralisme" (celui que redécouvre Louis Pauwels en même temps que les vertus chrétiennes et l'efficace stratégie de la secte Moon, ndlr) puisse prospérer, il importe de discréditer tous ceux qui, dans un passé encore proche, osaient en dénoncer les tares et lui opposer une autre conception de l'homme et de la société...". Claude Julien montre bien ici à quelles fins les thèses de Sternhell pourraient servir: la défense et l'illustration d'un "totalitarisme libéral", hostile à tout autre vision de la société que celle qui la soumet aux lois du marché. Et il ajoute: "Le reaganisme et le néo-libéralisme voudraient briser les solidarités humaines qui font la vitalité d'une société, tout subordonner à de prétendues lois économiques, évacuer tout idéal qui oserait s'opposer au matérialisme capitaliste; bref, leur affairisme et leur pseudo-réalisme renverraient dans les marges toute option qui ne serait pas exclusivement dictée par d'arbitraires priorités économiques. Enfin deviendrait gouvernables des sociétés ainsi dépolitisées ". Voilà donc l'analyse que posent Julien et Comte. Les transgressions sont dangereuses. Point de salut hors des ukases libéraux.

 

Certes, reprocher à Sternhell son manque de sérieux dans l'analyse des sources, comme le fait Gilbert Comte (Cf. Zeev Sternhell, "historien" du fascisme en France , in: Le Monde Diplomatique , mars 1985), est sans doute un peu fort. Néanmoins, inclure tous les révisionnismes socialistes et le personnalisme chrétien de Mounier dans une idéologie qui constitue "le diable" pour nos contemporains, permet des récupérations politiques dans le style de celle d'Henry de Lesquen et de François-Georges Dreyfus. Récupérations qui renforcent la restauration libérale qui, en Angleterre, aux Etats-Unis et en Belgique, est en train d'allier le libéralisme à l'Etat policier. Un phénomène est ainsi en gestation: le libéralisme policier. L'Europe connaît son "pinochetisme".

 

Quelle conclusion tirer de l'œuvre de Sternhell? D'abord que les manichéismes faciles sont désormais révolus. Le fascisme, démon rituel de nos médias, a été un phénomène capillarisé dans l'ensemble des sociétés européennes. Personne n'y a échappé, même pas ceux qui l'ont combattu. Il a exercé des séductions irréfutables. Le processus d'exorcisme, à l'œuvre depuis quarante ans, est donc condamné à l'échec: les thèses du fascisme, dont finalement aucune ne lui est propre, sont susceptibles de revenir sous divers oripeaux, écologistes, conservateurs ou socialistes. A propos du nationalisme, le sociologue ouest-allemand Arno Klönne (in: Zurück zur Nation? , Diederichs, Köln, 1984; Cf. également, Martin Werner Kamp, Retour à la nation?  in: Vouloir  n°15/16, avril-mai 1985) a montré comment les thèses néo-droitistes, écologistes, le nationalisme de gauche de Herbert Ammon et de Peter Brandt (le fils de Willy), le nationalisme plus traditionnel, fichtéen et idéaliste, de Bernard Willms, le neutralisme allemand actuel, les thèses "nationales-révolutionnaires" portées par des revues comme Aufbruch  et Wir Selbst , l'analyse des sociétés occidentales effectuée par le sociologue conservateur Günther Rohrmoser, se mélangent en un cocktail explosif qui risque de reléguer le vieux conformisme libéral au dépotoir de l'histoire, réalisant en même temps un pas en avant vers la réunification allemande et la libération continentale à laquelle aspirent tous les Européens conscients, de l'Est comme de l'Ouest. Un fructueux pot-pourri, semblable à celui où ont germé non seulement les fascismes français, mais aussi les socialismes révisionnistes et le personnalisme chrétien (les "transgressions" de ce siècle), est en train de se constituer en Allemagne Fédérale aujourd'hui. Ce phénomène s'exporte rapidement dans tous les pays de l'Est européen, sous domination soviétique. Face à cette germination, un événement comme celui qui a secoué la France de la fin 1984 aux législatives de mars 1986, le phénomène Le Pen, est dérisoire. L'homme intelligent ne doit pas perdre de temps à analyser cette réaction épidermique, privée de toute espèce de clairvoyance politique et économique.

 

Aujourd'hui aussi les manichéismes s'effondrent.

 

Les libéraux aimeraient pourtant les restaurer. Ils aimeraient voir le monde divisé en "bons libéraux" et en "mauvais tous les autres". Pour sortir de l'impasse, la lecture de Sternhell nous apparaît indispensable; mais en tenant compte des avertissements d'un maître contemporain, Claude Julien.

 

Robert STEUCKERS.

Bruxelles, février-juin 1985.

mercredi, 09 décembre 2009

L'alternative socialiste européenne

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L'alternative socialiste européenne

Ex: http://unitepopulaire.org/

« Le socialisme a été, au XIXe siècle, une réaction contre les brutalités sociales de l’industrialisation dans une société dominée socialement par la bourgeoisie et idéologiquement par les libéraux. Mais le socialisme a toujours ambitionné d’être autre chose. Notamment de s’inspirer d’une autre vision de l’homme. Un homme non pas seulement ni même principalement régi par ses intérêts mais à la recherche de la satisfaction d’exigences fondamentales comme du lien social et de la coopération.

En d’autres termes, tout socialisme repose sur une anthropologie distincte de celle des libéraux. Il repose sur une anthropologie non individualiste. En conséquence, il ne peut y avoir de social-libéralisme : il faut choisir, et les socio-libéraux, par exemple le parti actuellement dit socialiste, ont choisi, ils ont choisi le libéralisme. En identifiant le socialisme à la liberté au sens de l’autonomie de chacun, Jacques Généreux dit très justement : "Ce sont les liens qui libèrent." (Le Socialisme Néo-Moderne ou l’Avenir de la Liberté, Seuil, 2009). Tout est dit : à savoir que la vraie liberté, c’est d’assurer autour de l’homme l’existence et la vitalité d’un réseau de solidarités.

Sur cette base d’une vision "solidariste" de la société, qui exclut les schémas de pure rivalité et d’addition d’égoïsmes, les socialistes ont proposé bien des projets dès le XIXe siècle. En écartant les utopies les plus précoces et souvent les plus idéalistes, les plus intéressants des projets ont toujours été ceux qui prenaient appui sur l’expérience ouvrière elle-même pour proposer des restaurations de la maîtrise du travail de chacun, ou encore des autogestions, ou encore des autonomies ouvrières. A côté de cela, la part faite à l’Etat dans les projets socialistes a toujours été variable, sachant que l’Etat fait partie du politique mais n’est pas tout le politique. […]

La révolution socialiste dans l’aire de civilisation européenne comme réponse concrète et comme mythe mobilisation pour nos peuples. Ainsi pourra-t-il être mis fin au pseudo-"libre-échange" des hommes et des marchandises, c’est-à-dire à la "chosification" de l’homme. Ainsi l’immigration de masse pourra-t-elle être enrayée. Ainsi le déracinement pourra-t-il faire place aux liens sociaux de proximité et aux identités reconquises. Ainsi la nation pourra-t-elle être à nouveau aimée comme patrie socialiste dans une Union des Républiques Socialistes Européennes. Un beau programme, moins irréaliste qu’il n’y paraît, car l’illusion serait de croire qu’on peut rester libre dans le monde de l’hyper-capitalisme mondialisé. »

 

Pierre Le Vigan, "Union des patriotes contre le mondialisme ?", Flash n°13, 7 mai 2009

mardi, 08 décembre 2009

Gildensozialismus

urzelparade_agnetheln.jpg Gildensozialismus

Ex: http://rittermabuse.wordpress.com/

Aus:

Harry Graf Kessler
Aufsätze und Reden 1899-1933

Gildensozialismus

(1920)

Bolschewismus und »Spartakismus« nehmen vor der Öffentlichkeit soviel Raum ein, daß die Entwicklung einer anderen, tief bedeutsamen Richtung innerhalb des Sozialismus ziemlich unbemerkt erfolgt ist. Diese neue Richtung macht sich seit kurzem in mannigfaltigen Formulierungen fast gleichzeitig in Deutschland, Österreich und England bemerkbar. Ihre Geschichte weist zurück auf den französischen Syndikalismus der ersten Jahre des Zwanzigsten Jahrhunderts, der – von Georges Sorel und seinem Intellektuellenkreis formuliert – die bis dahin bei der radikalen französischen Arbeiterschaft herrschende staatssozialistische Doktrin revolutionierte. Jener staatssozialistischen Idee setzte nämlich Sorel ein Programm entgegen, das als Ziel die Selbstherrlichkeit des einzelnen Betriebes oder wenigstens Produktionszweiges und die unbeschränkte Herrschaft seiner Arbeiter über seine Produktionsmittel und Produkte forderte und als wirksamstes Mittel zu diesem Ziele nicht erst die Eroberung der Staatsgewalt, sondern die direkte Besitzergreifung aller Produktionsmittel durch die Arbeiter mithilfe des Generalstreiks proklamierte. Aus diesem Ideenvorrat holte oder schuf sich die erste russische Revolution (1905) den Rätegedanken. Gleichzeitig begann aber auch schon der Syndikalismus den von ihm heftig bekämpften Marxismus zu befruchten. Und diese Kreuzung war der Ausgangspunkt der jetzt hervortretenden neuen Anschauungen.

Für ihre Verbreitung in Deutschland und Österreich muß es hier genügen, auf Otto Bauers ›Weg zum Sozialismus‹ und auf sein neues, glänzendes, in der ›Vossischen Zeitung‹ bereits ausführlich gewürdigtes Buch ›Bolschewismus oder Sozialdemokratie‹ hinzuweisen, ferner auf Hilferdings ›Mehrheitsbericht‹ der deutschen Kohlensozialisierungskommission sowie auf mannigfache Vorschläge von Walther Rathenau, Georg Bernhard und anderen für eine planmäßige Selbstverwaltung der Produktion. Diese Vorstellungen und Vorschläge nähern sich, von einer andern Seite, der sozialistischen Grundanschauung der ›Sozialistischen Monatshefte‹ und dem daraus folgenden Postulat eines Aufbaus der Gemeinschaftsproduktion, wie es auf dem zweiten Rätekongreß in Berlin von Julius Kallski und Max Cohen vertreten wurde.

In England, wo der französische Syndikalismus durch die Agitation des fanatischen und hochbegabten Arbeiterführers Tom Mann einen stürmischen, aber kurzlebigen Erfolg errang, gab den Anstoß zum sogenannten »Gildensozialismus«, in dem dort sich die neuen Anschauungen verkörpert haben, das 1906 erschienene Buch von Arthur J. Penty: ›The Restoration of the Gild System‹. Die eigentliche Theorie entwickelten in den nächsten Jahren die Schriftsteller A. R. Orage und S. B. Hodson in ihrer Zeitschrift ›The New Age‹ in einer Aufsatzreihe, die sie dann als Buch: ›National Guilds‹ herausgaben. Zu Einfluß gelangte die ganze Bewegung aber erst im Kriege, als die Notwendigkeit sich ergab, neue organisatorische Lösungen vorzubereiten für den Abbau der Kriegswirtschaft und für den Aufbau einer neuen Friedenswirtschaft. Ostern 1915 war als Propagandazentrum die ›National Guilds League‹ in London gegründet worden, und das allgemeine Bedürfnis nach neuen Organisationsformen der Wirtschaft bahnte ihren Ideen schnell einen Weg in die Arbeiterbewegung. Vor allem waren es gewisse einflußreiche Arbeiterführer, die das neue Programm in die Arbeiterschaft einzelner großer Produktionszweige hineintrugen. So schloß sich zum Beispiel der Generalsekretär der Bergarbeiterföderation Großbritanniens, Frank H. Hodges, der ›National Guilds League‹ an und begründete die 1918 vom Bergarbeiterkongreß der Regierung präsentierte Vorlage für die Sozialisierung des englischen Kohlenbergbaus auf dem Gilden-Gedanken. Auch der Vertreter dieser Vorlage vor dem Regierungsausschuß, der rasch zu großem Ansehen gelangte Arbeiter Straker, gehört zur ›National Guilds League‹. Noch bedeutsamer war der Anschluß der Eisenbahner, die ebenfalls ihr Sozialisierungsprogramm auf dem Gilden-Gedanken aufbauten; denn dieses übernahmen alsbald auch die amerikanischen und französischen Eisenbahner, so daß auch dort bereits eine gewaltige Bewegung den gleichen Zielen wie der Gildensozialismus nachstrebt. Die großen Eisenbahnerstreiks in diesem Jahre drüben und hüben bezweckten die Verwirklichung gerade von gildensozialistischen Forderungen.

Was ist nun das Neue und Positive am »Gilden-Sozialismus«? Zunächst ein großes Mißtrauen gegen den Staat und gegen jede Form des Staatssozialismus. Ein Mißtrauen, das im englischen Gildensozialismus vor allen Dingen wächst aus seinem Haß gegen jede Art von Despotismus. Dieses scheidet auch grundsätzlich den Gildensozialismus vom Bolschewismus. Der Pol, um den sich alle Gedanken der Gildensozialisten drehen, ist der der Freiheit, der zweckmäßigen Sicherung möglichst vollständiger politischer, wirtschaftlicher und kultureller Selbstbestimmung. Auf die Frage, was das Grundübel der modernen Gesellschaft ist, antwortet einer der bedeutendsten gildensozialistischen Schriftsteller, G. D. H. Cole, in seinem Buche ›Self Government in Industry‹ (London 1917): nicht die Armut weiter Schichten, sondern die Versklavung weiter Schichten. Der Arbeiter klagt die heutige Gesellschaft mit Recht an, nicht weil er arm, sondern weil er unfrei ist. »Die Massen sind nicht Sklaven, weil sie arm sind, sondern arm, weil sie Sklaven sind.« Das Problem ist nicht, dem Arbeiter mehr Lohn oder mehr Lebensannehmlichkeiten (etwa auf dem Wege patriarchaler Fürsorge) zu schaffen, sondern ihn zu einem freien Mann zu machen! Das Gegenteil der »gottgewollten Abhängigkeit« muß die Norm werden.

Aber außerdem verbindet er die Idee der Freiheit mit einer von Genossenschaftstheoretikern wie Gierke und dem Staatsrechtslehrer der Universität Bordeaux, Léon Duguit, übernommenen genossenschaftlichen Auffassung vom Aufbau der Gesellschaft und des Staates. Die Gesellschaft und der Staat sind danach nicht bloß ein Sammelsurium von geographisch durch die Landesgrenzen zusammengehaltenen Individuen, sondern ein kunstvolles Ineinanderarbeiten von tätigen genossenschaftlichen Gruppen. Der einzelne Mensch kann gleichzeitig einer ganzen Reihe verschiedener Gruppen (mehreren geographischen, mehreren beruflichen) angehören. Aber jede Gruppe ist trotzdem in sich geschlossen und von einem eigenen, spezifischen Leben erfüllt durch den Zweck, dem sie dient: durch die Funktion, die sie in der Gesellschaft ausübt. Nicht vom Staate, überhaupt nicht durch irgendwelche Verleihung oder »Delegation«, sondern aus sich selbst, aus ihrer Funktion, bekommt die Gruppe nicht bloß ihre Existenz, sondern auch ihr Recht, jedes ihr überhaupt zustehende Recht. Und zu diesen Rechten gehört auch für sie, ebenso wie für den einzelnen Menschen, die Freiheit, d. h. die Selbstbestimmung innerhalb der Grenzen ihrer Funktion. Die umwälzende staatsrechtliche und soziale Bedeutung dieser Anschauungen kann hier nur angedeutet werden. Es würde an dieser Stelle zu weit führen, darauf näher einzugehen. Nur ein Punkt muß noch hervorgehoben werden:

Den Rechten jeder funktionellen Gruppe steht die von diesen untrennbare Pflicht gegenüber, ihre Funktion möglichst vollkommen auszuüben, ihre funktionelle Energie auf das höchste zu steigern und daher allen Fähigkeiten innerhalb der Gruppe den Weg zu öffnen, damit sie ungeschmälert im Sinne der Funktion, der die Gruppe dient, wirken können. Auf dem Umwege über den Begriff der Funktion gelangt daher diese Anschauung zu einer neuen und erweiterten Begründung der menschlichen Freiheit: der Mensch muß frei sein, nicht bloß ganz allgemein als Individuum, als »Zeitgenosse« und gleiches unter gleichen Individuen, weil die Freiheit eine metaphysische oder ethische oder sentimentale Forderung ist; sondern er muß frei sein auch ganz besonders als tätiges Individuum, als spezifisches und ungleiches unter ungleichen Individuen, als Mitträger einer Funktion, als Glied einer innerhalb der menschlichen Gesellschaft spezifisch wirkenden Gruppe, damit seine Kräfte unvermindert zur Stärkung der Funktion, zur Stärkung der Gruppe bei ihrem funktionellen Wirken beitragen. Es ergibt sich ein Begriff der Demokratie, der, weit über das Politische hinausgreifend, alle Gebiete des menschlichen Lebens erfaßt und mit der Zeit verwandeln muß: der Begriff einer die einseitige, bloß politische Demokratie ergänzenden, allseitigen, funktionellen Demokratie, deren Ziel sich knapp in Nietzsches kraftvoll aktivistischen Worten formulieren läßt: »Freiheit sich schaffen, zu neuem Schaffen.«

Der Stellung des Arbeiters im modernen Unternehmen, dem Begriff der Lohnarbeit überhaupt widersprechen diese Forderungen, wie man sieht, von Grund auf. Denn der Arbeiter wird nicht mit allen seinen Kräften, als ganze Persönlichkeit, zur Produktion herangezogen, sondern nur als Lieferant einer Ware, seiner Ware »Arbeit«, die ihm der Unternehmer abkauft.

Und ebenso widersprechen jene Forderungen der Einstellung eines Produktionsprozesses auf den privaten Profit. Denn seine Rechte beruhen nach jener Theorie ausschließlich auf seiner öffentlichen Funktion (nicht auf dem Eigentum des Unternehmers). Seine Einstellung auf den größten privaten Profit statt auf den größten öffentlichen Nutzen und Bedarf ist daher eine Rechtsbeugung.

In beiden Punkten, in dem der Lohnarbeit und dem des privaten Profits, verlangt der Gildensozialismus einen radikalen Umschwung und bietet dafür jene Lösungen, die seine Eigenart ausmachen.

Die Lohnarbeit soll verschwinden dadurch, daß die Verwaltung der Unternehmungen den privaten Kapitalisten entzogen und auf die Gewerkschaften (Trade Unions) übertragen wird. Die Gildensozialisten weisen darauf hin, daß schon heute die Leiter, die technischen und kaufmännischen Direktoren, Aufsichtsratmitglieder usw. der großen Unternehmungen zum großen Teil nicht mehr mit eigenem Kapital arbeiten, sondern bloß Angestellte von Kapitalisten sind. Nunmehr sollen sie statt dessen Angestellte einer Gewerkschaft, der organisierten Werktätigen des betreffenden Produktionszweiges werden, wobei sie selbst als Mitbeteiligte am Produktionsprozeß ihre Stellung innerhalb der Gewerkschaft fänden. Jeder Produktionszweig der englischen Volkswirtschaft würde also eine von seinen sämtlichen organisierten Arbeitern und Angestellten verwaltete ›Nationale Gilde‹, die ganze englische Produktion eine planmäßige Maschine aus lauter selbstverwaltenden nationalen oder nationalföderierten Gilden, deren Mittelstück ein alle einzelnen Gilden zusammenfassender nationaler ›Gildenkongreß‹ zu sein hätte.

Damit wäre in der Tat die Lohnarbeit abgeschafft. Nicht aber ohne weiteres die Einstellung der Produktion auf den Profit. Denn ein selbstverwaltender Produktionszweig könnte ebenso für die in ihm organisierten Werktätigen wie ein kapitalistisches Unternehmen für seine Aktionäre sorgen und ebenfalls bloß auf deren Profit statt auf den gesellschaftlichen Nutzen und Bedarf sehen. Wer letzten Endes bestimmen soll, was und zu welchem Preise produziert wird, bleibt also problematisch. Auch sind sich in dieser Hinsicht die Gildensozialisten selbst noch nicht einig. Aber die Kämpfe, die um diese Frage in ihren Reihen vor sich gehen, sind gerade deshalb lehrreich. Und eine gewisse Klärung scheint sich anzubahnen. Ursprünglich beeinflußt von der staatssozialistischen, besonders durch den Altmeister des englischen Sozialismus, Sidney Webb, vertretenen Anschauung, daß der Staat, d.h. das Parlament der natürliche Vertreter der Konsumenten sei und als solcher das letzte Wort haben müsse, sind jetzt die Gildensozialisten, durch die Kriegswirtschaft abgeschreckt, eher geneigt, den Staat auch bei diesen Fragen zurückzudrängen. Die Sozialisierungsvorlage der englischen Bergarbeiter (1919) überträgt das Bergwerkseigentum nicht auf den Staat, sondern (Art. 5 und 1) auf einen zu gleichen Teilen von der Regierung und den Bergarbeitern (der Bergarbeiterföderation von Großbritannien) ernannten zwanzigköpfigen ›Rat‹ (›Mining Council‹), in dem der Staat nur insofern einen kleinen Vorsprung hat, als der Ratspräsident von der Regierung ernannt und dem Parlamente verantwortlich ist. Die Konsumenten als solche sind nicht vertreten, d. h. eben nur durch die Regierungsmitglieder im ›Rat‹.

Aber der Glaube, daß überhaupt der Staat (d. h. das Parlament) die gegebene alleinige und genügende Vertretung der Konsumenten gegenüber den organisierten Produzenten sein könnte, ist gerade in gildensozialistischen Kreisen stark erschüttert. Cole meint jetzt, daß es eine einzige, allumfassende Vertretung aller Konsumenten, wie der Staatssozialismus sie im Parlamente sehen will, überhaupt nicht geben könne, da die Interessen der Konsumenten viel zu mannigfaltig und widerspruchsvoll seien. Er verlangt zwar, daß die Vertretungen der Konsumenten geographisch abgegrenzt werden, im Gegensatz zu den beruflich abgegrenzten Produzentenorganisationen, lehnt es aber ab, das Staatsgebiet als die einzig maßgebende, ja auch nur als die wichtigste geographische Einheit anzusehen, erkennt vielmehr die Konsumentengruppe, die ein gemeinsames Interesse an irgendeinem Produkt oder Dienste hat, als eine wirkliche, lebendige Einheit an, die nach den Grundsätzen der funktionellen Demokratie von sich aus das Recht hat, die Befriedigung ihrer Bedürfnisse zusammen mit der Produzentengruppe zu regeln, und will daher je nach dem Produkt oder Dienst, dessen Art und Preis geregelt werden sollen, wechselnde Vertretungen der Konsumenten, deren geographische Basis auch verschieden groß sein kann. Also einerseits eine weitgehende Dezentralisation, so daß bei Bedürfnissen persönlicher und häuslicher Art örtliche Konsumvereine die Bestimmung hätten; bei mehr kommunalen Bedürfnissen örtliche, für das besondere Fach oder Produkt spezifische Vertretungen, die nicht etwa identisch wären mit unseren heutigen, unterschiedslos für alle Zwecke gewählten Gemeindevertretungen. Andererseits aber auch nationale und sogar internationale Zusammenfassungen der Konsumenten bei großen, gleichförmigen, nationalen oder internationalen Bedürfnissen oder Diensten. Mit diesem Ausblick, der auf das Gebiet des Völkerbundes hinübergreift, muß diese kurze, leider gar zu unvollständige Darstellung des gildensozialistischen Planes für die Organisation der Erzeugung und Verteilung enden.

Nur ein besonderer Fall soll zum Schluß noch kurz erwähnt werden, weil er die erste praktische Verwirklichung des Gildensozialismus werden könnte. Die Wohnungsnot hat im Januar dieses Jahres die Bauarbeiter von Manchester veranlaßt, ihre verschiedenen Gewerkschaften zu einem Gildenausschuß zusammenzufassen, der faktisch sämtliche Bauarbeiter der Stadt und Umgegend vertritt. Gestützt auf dieses Monopol, hat der Gildenausschuß dem Stadtrat von Manchester angeboten, sofort zweitausend Häuser zu bauen zu einem Preise, der wesentlich niedriger wäre als der von den Bauunternehmern angeforderte. Der Gildenausschuß verlangt als Gegenleistung nur Vorstreckung des nötigen Kapitals, wogegen natürlich die Stadt das Eigentum an den fertigen Häusern bekäme. Aus dem Artikel, in dem Cole (›New Republic‹ vom 3. März 1920) über diesen Plan berichtet, scheint hervorzugehen, daß seine Verwirklichung bevorstand. Man wird seine Fortschritte mit dem lebhaftesten Interesse verfolgen müssen, denn es wäre das erste Beispiel der wenn auch bloß örtlichen Selbstverwaltung eines großen und lebenswichtigen Produktionszweiges.

 

Quelle: http://gutenberg.spiegel.de/?

samedi, 05 décembre 2009

Bertrand de Jouvenel, son amitié pour Pierre Drieu La Rochelle et les non-conformistes français de l'entre-deux-guerres

jouvenel.jpgSéminaire de «Synergon-Deutschland», Nordhessen, 31 octobre 1998

 

Bertrand de Jouvenel, son amitié pour Pierre

Drieu la Rochelle et les non-conformistes

français de l'entre-deux-guerres

 

Le 11 novembre 1918, à onze heures, le vieux continent bascule dans le XXième siècle. L'Europe, qui dépose enfin les armes au soir de quatre années de lutte fratricide, peut contempler horrifiée les derniers vestiges de sa grandeur déchue. Élevés dans le culte positiviste du demi-dieu Progrès, fils de la déesse Raison, dix millions d'hommes, de frères, sont venus expirer sur les rivages boueux, semés de ferraille, tendus de barbelés, de la modernité. Nouveau Baal-Moloch d'une nouvelle guerre punique. Le premier, le poète Paul Valéry baisse les yeux devant tant de gâchis, et soupire: «Nous autres, civilisations, nous savons maintenant que nous sommes mortelles (…) Nous sentons qu'une civilisation a la même fragilité qu'une vie». Malgré les sirènes bergsoniennes, dont le cri s'est depuis longtemps emparé des prophéties de Nietzsche, la France se réveille seulement de ses utopies. Il lui aura fallu pour en arriver là un million et demi de morts, deux fois plus de mutilés, une économie exsangue, un peuple tout entier anémié. Si pour les politiques unanimes, le responsable du massacre, c'est l'Allemand dans son essence, du Kaiser au plus petit fonctionnaire des postes impériales, la jeunesse pour sa part sent confusément que c'est toute l'Europe qui entre en décadence, menaçant jusqu'en leur tréfonds les bases de la civilisation.

 

De quelque nationalité qu'elle soit, le diagnostic de l'intelligentsia européenne est le même: 1918 marque l'entrée fracassante dans la «crise de civilisation». Des voix s'élèvent, d'Allemagne bien sûr avec Oswald Spengler et son Déclin de l 'Occident en 1922, mais aussi depuis la Grande-Bretagne, en les personnes de Norman Angel et le Chaos européen en 1920, ou Arnold Toynbee, qui publie L 'Eclipse de l 'Europe en 1926. Mais aussi depuis les exilés russes avec le Nouveau Moyen Age de Nicolas Berdiaeff (1924) sans oublier la France, Henri Massis et Défense de l'Occident en 1926, René Guénon, La Crise du Monde Moderne (1927) et André Malraux. Celui-ci, porte-parole des littérateurs à tendance révolutionnaire qui n'ont pas connu l'expérience de la guerre, embrasse toute la problématique de son époque dans son opuscule paru en 1926 et intitulé La Tentation de l'Occident .Il écrit: «La réalité absolue a été pour vous Dieu puis l'homme; mais l'homme est mort, après Dieu, et vous cherchez avec angoisse celui à qui vous pourriez confier son héritage. Vos petits essais de structure pour des nihilismes modérés ne me semblent plus destinés à une longue existence...». A droite comme à gauche de l'échiquier politique la désorientation et la révolte sont grandes, et l'on s'insurge contre une société qui a ainsi pu envoyer à la boucherie ses enfants pour le seul bénéfice de la bourgeoisie capitaliste. Beaucoup cherchent alors le salut à venir dans la révolution et se tournent vers un ordre nouveau qui mobiliserait toutes les énergies pour sauver le pays du marasme. Foulant au pied les vieilles chapelles partitocratiques, la jeunesse intellectuelle entre en ébullition dans ses deux décennies 1920-1930, appelant de ses vœux à l'Europe par-delà les patries, à une véritable tabula rasa contre la vieille bourgeoisie molle, fautive du charnier européen, tombeau de la civilisation.

 

Une mentalité générationnelle propre

 

Transcendant les querelles idéologiques, aspirant à prendre les rênes du pouvoir, cette fraction militante, éclatée en divers courants communément regroupés sous l'étiquette «non-conformiste», voit émerger quelques figures marquantes, pour la plupart issues des grands partis traditionnels. L'historien Philippe Burrin, discutant les thèses exprimées par Zeev Sternhell sur le «fascisme français», est arrivé au fil de ses recherches à sérier une mentalité générationnelle propre, unie dans la multiplicité des personnes, des revues, des cercles. Sur le débat non encore clos autour de l'imprégnation du phénomène fasciste sur ses différents mouvements, et par ricochet leur propre part de responsabilité dans l'émergence d'un large courant d'opinion favorable au fascisme (la thèse de la «nébuleuse concentrique fascistoïde» développée par Zeev Sternhell), il est convenu de scinder «l'esprit des années 30» en trois tendances:

- la Jeune Droite de Thieny Maulnier, brillant khâgneux dissident de l'Action Française,

- Esprit d'Emmanuel Mounier,

- et Ordre Nouveau d'Alexandre Marc.

Trois courants autour desquels gravitèrent de plus petites structures telles que Combat ou Réaction. Toutes convergeant vers une commune volonté de rompre avec le «désordre établi» pour un cornmunautarisme fédéral européen

 

Mais à trop focaliser leur travail sur les seules années 30 —relégant par là le mixtum compositum non-conformistes à une émanation supplémentaire de la pensée de droite face à l'hitlérisme—, les chercheurs en sont venus à oblitérer deux faits majeurs de la généalogie non-conformiste: la large provenance d'éléments de gauche, à l'apport théorique considérable pour le développement futur du courant personnaliste, et ce qu'on pourrait définir par esprit de contradiction d'«esprit des années 20», où seront jetées toutes les données de la mouvance.

 

Parmi cette nébuleuse, deux personnalités radicales-socialistes émergent: Bertrand de Jouvenel et Pierre Drieu la Rochelle. En marge du non-conformisme, dans le sillage du politicien Gaston Bergery, Jouvenel et Drieu seront de toutes les aventures intellectuelles de l'entre-deux-guerres. De la collaboration au périodique La Lutte des Jeunes à l'écriture d'essais théoriques inspirés de Henri de Man et au New Deal, en passant par des sommets d'amitié franco-allemande et l'engagement désespéré auprès du PPF doriotiste à la veille de 1939.

 

«De ces groupes, note le ténor du non-conformisme Jean de Fabrègues dans son livre Maurras et son Action Française, à ceux qui font la revue Plans avec Philippe Lamour ou à Alexandre Marc, ou à la Lutte des Jeunes avec Bertrand de Jouvenel et Pierre Andreu, ou à l'Homme Nouveau (...) ou même à Esprit avec Mounier et Izard, court une sorte de commune réaction. On écrira un jour: «la génération de 1930» et c'est vrai». Drieu Jouvenel, deux vies dans le siècle.

 

Deux voyageurs dans le siècle:

 

«Une génération forme un tout. Ceux qui lui appartiennent ont beau différer par leurs principes, leurs conditions, leurs natures? Ils sont plus près les uns des autres que de leurs pères ou de leurs fils. A subir les mêmes contagions, à se mêler aux mêmes combats, à se soumettre aux mêmes modes, aux disciplines sociales, aux conséquences des mêmes découvertes, ils ont acquis une unité morale, une ressemblance physique qu'ils ne remarquent point mais qui paraîtra flagrante à la postérité lorsqu'elle lira leur œuvre ou regardera leurs images». Ce n'est pas à Bertrand mais à son père, Henry de Jouvenel (1), qu'il revient d'avoir le mieux exposé dans La Paix Française, témoignage d'une génération (1932), ce que Denis de Rougemont nommera, pour sa part, «communauté d'attitude essentielle» dans le Cahier des Revendications de la NRF.

 

Dès à partir du milieu des années 20, «années décisives» s'il en est, la contestation s'est amplifiée parmi les rangs de la gauche. Motivé par la marche sur Rome victorieuse de Mussolini, par l'inquisition anti-trotskiste et l'excommunication de l'Action Française, le projet d'une «troisième voie» nationale se fait jour. Rénovation du politique, dynamique jeune, égale réfutation des modèles collectiviste et libéral, libération spirituelle et matérielle de la personne sont au centre des priorités. Tandis que Georges Valois, ancien animateur des Cahiers du Cercle Proudhon, fonde le Faisceau en 1925, un sémillant député radical-socialiste, Gaston Bergery, coordonne la fronde des «Jeunes Turcs» où s'illustre un journaliste fraîchement sorti de l'Université, Bertrand de Jouvenel, qu'inspire le thème de la «Quatrième République» défendu par Bergery. 1928 sera une année capitale pour Jouvenel.

 

Brillant combattant de 14-18, Bergery est rejoint au sein de la tendance réformatrice par un littérateur avec qui il s'est lié en 1916, Pierre Drieu la Rochelle. Mis en présence l'un et l'autre, Jouvenel et Drieu se rejoignent sur leurs espoirs européens, leur foi dans la SDN. Drieu a déjà publié quatre essais pro-européens à l'époque, Etat Civil (2), Mesure de la France (3), Le Jeune Européen (4) et Genève contre Moscou (5), où quatre thématiques essentielles se rejoignent:

- le patriotisme européen,

- la haine de la démocratie libérale,

- la crise spirituelle de l'Europe devant l'essor technologique,

- le socialisme éthique.

«L'Europe se fédérera, ou elle se dévorera, ou elle sera dévorée», écrit-il dans Mesure de la France.

 

Dans l'orbite de Bergery gravite un jeune éditorialiste, Jean Luchaire. Directeur du mensuel pacifiste Notre Temps depuis 1927, il n'hésite pas à ouvrir ses colonnes tant à l'équipe du Faisceau de Valois qu'aux idées révisionnistes du Belge Henri De Man, dont le planisme est divulgué en France par l'opuscule d'André Philip, Henri De Man et la crise doctrinale du socialisme.

 

Européisme et socialisme

 

jouvenel7777.jpgParues en 1928, les thèses de De Man impressionnent vivement Jouvenel, cependant que de nouveaux cercles d'inspiration planiste se constituent: X-Crise, Plans, Nouvelles Equipes. Le 31 octobre 1928, le premier exemplaire du journal La Voix sous la direction de Jouvenel sort de presse. De préoccupation socio-économique, le périodique expose un programme dirigiste qui entend se conformer aux nouvelles nécessités du temps:

«Assurer à la classe ouvrière un niveau de vie convenable par une politique de logement et un vaste système d'assurances (...)

«Assurer au peuple entier l'instruction gratuite, la sélection des plus aptes (...)

«Assurer le développement méthodique de la production de la production, selon un vaste plan qui encourage l'initiation individuelle.

«Assurer à l'Etat la compétence, à l'administration la promptitude, par la mise en œuvre des principes syndicalistes.

«Assurer la paix entre les peuples par l'arbitrage obligatoire

«Assurer la solution des problèmes économiques et sociaux par leur internationalisation.

«Voilà notre programme».

 

Simultanément paraît aux éditions Valois son premier livre, L'Economie Dirigée— Le Programme de la Nouvelle Génération. Jouvenel n'est pas le premier intellectuel du milieu luchairien à être publié par Georges Valois dans sa «Bibliothèque Nationale». Gaston Riou y a déjà sorti Europe, ma patrie et Luchaire s'apprête lui-même à y imprimer Une génération réaliste pour janvier 1929.

 

Européisme et socialisme réformiste forment les bases des revendications communes aux non-conformistes de gauche. Ni exaltée, ni utopiste, L'Economie Dirigée arrive en librairie pour son 25ième anniversaire. La recherche d'une marche économique socialement bénéfique cimente l'ouvrage. L'idée de plan est omniprésente. D'esprit saint-simonien selon ses propres propos, L'Economie Dirigée assigne aux industriels une mission sociale dans le développement harmonieux de la nation. Son dirigisme n'impose pas, mais incline la production grâce à la création d'un inventaire des possibilités de production nationale dont disposeraient les gouvernants. Novateur, son ouvrage récuse Wall Street comme Moscou et envisage un système de répartition des richesses équilibré, ni libertarien ni étatiste. «Au XlXième siècle, le travail a été la vache à lait du capital, au XXième siècle, le capital sera la vache à lait du travail» écrit-il alors, plein d'enthousiasme. Gorgée d'espoir, son corpus doctrinal élaboré, la jeune intelligentsia «rad-soc» marche à l'Europe. Le tremblement de terre américain du krach de 1929 est encore loin de faire ressentir ses secousses de ce côté de l'Atlantique, et les non-conformistes entendent œuvrer à la réconciliation franco-allemande concomitamment aux efforts de la Société des Nations. La jeunesse à la rescousse de ses pères. Non-conformistes et révolutionnaires-conservateurs se rencontrent pour relever l'étendard de Prométhée.

 

«Europe, Jeunesse, Révolution!»

 

«L'esprit de revanche de l'Allemagne a hanté ma jeunesse». La confession de Bertrand de Jouvenel n'est pas celle d'un cas isolé. La signature du Traité de Paix, où pas un Allemand ne fut convié à discuter des articles, est vécue par la jeune génération comme une injustice sans précédent dans l'histoire des relations européennes. L'article 231 du Traité de Versailles, qui reconnaît seule fautive l'Allemagne, entérine son dépeçage et la surcharge d'indemnités écrasantes, offense l'esprit européen qu'est censée défendre la Société des Nations. Et malgré la ratification des accords de Locarno, on sait l'édifice briandiste fébrile.

Humiliée, rejetée dans la crise économique par l'occupation de la Ruhr, I'Allemagne weimarienne peut à tout moment basculer. A l'esprit de réconciliation, la NSDAP montant rétorque par l'esprit de revanche. C'est à la jeunesse, pensent Jouvenel et Drieu, qu'il incombe de réaliser l'unité européenne.

 

Visionnaire mais surtout alarmiste, Drieu clame à qui veut l'entendre que «l'Europe ne peut pas vivre sans ses patries, et certes elles mourraient si en les tuant elle détruisait ses propres organes; mais les patries ne peuvent plus vivre sans l'Europe». Jouvenel et Drieu conjuguent leurs efforts et achèvent coup sur coup les manuscrits de Vers les Etats-Unis d'Europe (6) et L'Europe contre les Patries, deux essais prophétiques, pacifistes et antimilitaristes, fédéralistes et socialistes, en librairie en 1931. Raillant la devise de l'Action Française, «Tout ce qui est national est nôtre», Jouvenel place en sous-titre l'exorde suivant: «Tout ce qui est international est nôtre». Et de fait, depuis 1929, les jeunes radicaux se sont joints en un «front commun de la jeunesse intellectuelle», associant deux groupes:

- «l'Entente franco-allemande des étudiants républicains et socialistes» (lié au Deutscher Studentenverband)

- et le «Comité d'Entente de la jeunesse pour le rapprochement franco-allemand»,

initié par Jean Luchaire et Otto Abetz, dont le destin croisera à maintes reprises les routes de Drieu et Jouvenel.

 

Une connivence qui se matérialise en juillet-août avec la tenue des premières rencontres du «Cercle de Sohlberg», suivies en septembre d'un sommet à Mannheim, en août 1931 du congrès de Rethel auquel participe Jouvenel avec Pierre Brossolette. Au cours de ces réunions étudiantes, les deux parties s'entendent à récuser unilatéralement les clauses de Versailles et prônent de concert une réponse organique énergique au déclin de la civilisation.

 

Placées sous le credo de «révolution spirituelle», les intervenants du F.C.J.I. divergent cependant, césure majeure, sur la forme que devra prendre le nouvel ordre européen. Au nationalisme classique des Français, politique et culturel, s'oppose l'idée de «Reich» allemand, d'essence völkisch pour la plupart. Mais refus du nationalisme intégral comme de l'internationalisme réunissent les collectifs présents. Malheureusement ces rencontres se solderont par un échec. Deux événements de première importance dans le devenir des relations franco-allemandes vont torpiller les projets du Front Commun. En France d'abord, où la crise a atteint l'économie en 1931, la victoire ingérable du Cartel des Gauches aux législatives en 1932 débouche sur l'instabilité politique. Ni les Tardieu, Blum, Daladier ou Laval ne paraissent en mesure de répliquer à l'inertie qu'avaient manifestée avant eux les Clemenceau, Poincaré et Briand. Précipitées par la récession économique et la corruption des institutions les émeutes du 6 février 1934 poussent les intellectuels français à se repositionner par rapport a une nouvelle donne: fascisme et antifascisme. En Allemagne, par l'accession à la chancellerie d'Adolf Hitler en 1933, qui enterre la détente franco-allemande et sonne le glas du rêve lorcanien de désarmement. Déjà, la mort d'Aristide Briand, le 7 mars 1932, le jour même où Hitler obtint ses fatidiques 37% aux élections présidentielles, n'avaient pas manqué d'éveiller les craintes du Cercle de Sohlberg. Chacun avait compris que s'évanouissait le rêve d'une Europe fédérale. Au congrès de Francfort mené en février 1932 par Alexandre Marc d'Ordre Nouveau et Harro Schulze-Boysen de Planen succède en avril 1933 une rencontre à Paris sous l'impulsion de Luchaire avec, aux côtés de Drieu, Jouvenel et Fabre-Luce, des représentants des Jeunesses Radicales, du Sillon Catholique, de Jeune République, et du côté allemand des émissaires du nouveau régime. Ce colloque marque la fin des illusions et entérine le déclin du Front Commun.

 

Les réunions de Berlin et du Claridge, organisées par Jouvenel, Abetz et Kirchner, rédacteur en chef de la Frankfurter Zeitung passé au national-socialisme, destinées à «jeter les bases d'une société de coopération intellectuelle groupant l'élite (des) deux pays» (7), scellent logiquement le refroidissement des gouvernements français et allemand, dans un contexte nouveau de radicalisation des positions idéologiques. Des rencontres rhénanes ne subsistera que le goût amer d'un parallélisme d'idées dans le rejet, non dans les solutions proposées. A l'arrivée de Hitler, Bergery opposera désormais au “ni Droite ni Gauche” une nouvelle ligne stratégique marquant le retour du politique dans une logique de tensions nationale et internationale: démocratie contre totalitarisme.

 

Un exercice tercériste: “La Lutte des Jeunes”

 

La victoire du Cartel des Gauches en 1932 n'apporte que déception à Gaston Bergery, qui trahit son ambition d'un parti unitaire de la gauche. Rongeant son frein, il claque la porte du parti radical-socialiste en mars 33 et annonce simultanément la formation d'un Front Commun, anticipant le Front Populaire de 1936, qu'il veut antifasciste et anticapitaliste. Déat au nom des néo-socialistes et Doriot, venu sans autorisation du Parti Communiste, répondent présents. Drieu et Jouvenel rejoignent le mouvement et lancent début 1934 un bimensuel, La Flèche, qui expose les vues du Front Commun.

 

Drieu se cherche alors et oscille entre sa fascination pour l'efficacité communiste et son attirance pour l'héroïsme fasciste. L'idée d'une troisième voie lui apparaît de plus en plus comme une vue de l'esprit. Son chef-d'œuvre, Gilles, où Bergery parait sous les traits de Clérences, évoque ses tergiversations. La réponse ne se fait pas attendre. Pareils à Gilles, Drieu et Jouvenel vivent le 6 février 1934 comme un véritable électrochoc. Jouvenel prend la décision de fonder son hebdomadaire, qu'il intitule La Lutte des Jeunes. Au sentiment sourd d'une France passive, avachie a répondu la jeunesse descendue dans la rue. Mounier dans Esprit s'exalte pour cette «nouvelle génération», «neuve et hardie, qui sauve notre pays d'être le plus réactionnaire d'Europe»; Drieu, au comble de la joie, écrit: «On chantait pêle-mêle la Marseillaise et l'Internationale. J'aurais voulu que ce moment durât toujours». Plus circonspect, Jouvenel mesure pourtant l'émergence opportune d'un bloc de la jeunesse. Fidèle à la ligne non-conformiste, La Lutte des Jeunes s'adjoint la collaboration d'intellectuels d'horizons aussi divers que Mounier, Brossolette, Gurvitch, Beracha, Lacoste, Andreu. Et toujours Drieu.

 

Si Zeev Sternhell ne voit la que «fascistes, anti-démocrates et anticapitalistes» optant pour «un régime autoritariste et corporatiste» (simple préfiguration en somme de la Révolution Nationale pétainiste), le programme publié en première page de La Lutte des Jeunes est autrement plus réformiste et d'orientation planiste: «(...) Il faut “désembouteiller” les professions en permettant aux vieux de se retirer. Et il faut ainsi assurer l'embauchage des jeunes. Il ne suffira point de multiplier les stades, de faciliter la pratique du sport, il faudra encore permettre aux jeunes de vivre en pleine campagne durant un mois de l'année au moins (...) Où est la solution? Dans les camps de jeunesse qui peuvent être établis sur les domaines de l'Etat (...) C'est dans de pareils camps qu'une partie de la jeunesse chômeuse pourra être établie, y suivent des cours de formation professionnelle, travaillent dans des ateliers coopératifs».

 

Jouvenel rompt à son tour avec le Parti Radical mais se démarque de Bergery dont il pressent la perte de vitesse. Drieu devient le théoricien de la convergence. Seul il se réclame dorénavant du fascisme, écrivant le 11 mars 1934 dans sa chronique: «Il faut un tiers parti qui étant social sache aussi être national, et qui étant national sache aussi être social (...) il ne doit pas juxtaposer des éléments pris à droite et à gauche; il doit imposer à des éléments pris a droite et à gauche la fusion dans son sein». Il s'agit de ramener «les radicaux désabusés, les syndicalistes non fonctionarisés, les socialistes français, les anciens combattants et les nationalistes qui ne veulent pas être dupes des manœuvres capitalistes». Telle est la thèse de son livre Socialisme fasciste (8). Dans la foulée, Jouvenel lance des «Etats Généraux de la Jeunesse» auxquels prennent part une cinquantaine de groupes.

 

Le planisme de De Man, l'Union Nationale de Ramsay McDonald et le New Deal de Roosevelt

 

Où que se tourne le regard de Jouvenel, le triomphe du planisme le convie à s'en faire le propagateur français. En Belgique, c'est l'alliance que concluent à la Noël 33 Paul Van Zeeland, du parti catholique, premier ministre, et Henri De Man, vice-président du Parti Ouvrier Belge (POB), nommé ministre de la «résorption du chômage». En Grande-Bretagne, c'est la constitution d'un cabinet d'Union Nationale par Ramsay Mc Donald, chef du Labour Party et premier ministre britannique. Aux USA enfin, avec le 4 mars 1933 I'investiture de Franklin Delano Roosevelt, qui réoriente l'économie selon le modèle du New Deal. Un premier voyage effectue en Amérique fin 1931, ponctué d'un livre, La Crise du capitalisme américain, avait convaincu Jouvenel des tares intrinsèques, «génétiques» du système capitaliste. La victoire des Démocrates signe le retour de Washington sur Wall Street, d'un pouvoir volontaire, héroïque, d'un gouvernement qui gouverne. Le keynésianisme rooseveltien, que Jouvenel définit comme jumeau du socialisme alternatif de De Man, intègre pleinement sa vision économique: «Mais ce qui intéresse la prospérité de la nation, et du même coup sa puissance, ce sont les dépenses faites par les entreprises pour produire et pour investir en vue de produire plus et autre chose, et ce sont les dépenses faites par les travailleurs pour consommer plus et autre chose. L'harmonie entre ces catégories de dépenses et leur continuité, voilà qui est incomparablement plus important que l'équilibre budgétaire». Des propos criants d'actualité.

 

La Lutte des Jeunes n'était initialement conçue par Jouvene1 que comme le tremplin vers une nouvelle formation politique résolument d'avant-garde, et Drieu ne pense pas autrement. Aussi, quand les «Etats Généraux» marquent leurs premiers signes d'essoufflement, les deux intellectuels reportent aussitôt leur attraction sur la formation la plus originale de l'époque, le Parti Populaire Français de Jacques Doriot.

 

Grandeur et misère du doriotisme

 

En mai 1934, alors que paraissait le premier numéro de La Lutte des Jeunes, Jacques Doriot, meneur chahuteur et adulé du PC, est exclu de l'Internationale Communiste. Maire de Saint-Denis depuis 1931, le 6 février 1934 a pour lui aussi été décisif. Sans attendre la permission du parti. Doriot a mis sur pied un comité antifasciste dans sa ville et appelé à l'union de la gauche. Mal lui en prend car à l'époque la formule stalinienne du «social-fascisme» est encore de rigueur. Réélu maire en 1935, député en 1936, il fonde le PPF le 28 juin 1936 en réaction au Front Populaire.

 

D'emblée, le «Grand Jacques» attire à lui de nombreux intellectuels, dont Drieu et Jouvenel, qui le choisissent, l'un pour son attente d'un «nationalisme révolutionnaire» authentique, l'autre dans l'optique d'un programme planiste complet. Tous deux collaborent à la rédaction des périodiques L'Émancipation Nationale et La Liberté. Si Drieu justifie son adhésion par le nihilisme qui le gagne: «Il n'y a plus de partis en France, il n'y en a plus dans le monde... Il n'y a plus de conservateurs parce qu'il n'y a plus rien de nouveau. Il n'y a plus de socialistes parce qu'il n'y a jamais eu de chefs socialistes que des bourgeois et que tous les bourgeois depuis la guerre sont en quelques manières socialistes», Jouvenel s'appuie pour sa part sur les propres dires de Doriot: «Je ne veux copier ni Mussolini, ni Hitler. Je veux faire du PPF un parti de style nouveau, un parti comme aucun autre en France. Un parti au-dessus des classes (...)».

 

Accédant avec Drieu au bureau politique du parti en 1938, Jouvenel se fait l'avocat du planisme. Une fois de plus, la déconvenue est à la hauteur de leurs souhaits. Privé de son électorat traditionnel, le PPF compense ses pertes par un vote de droite qui l'attire vers le conservatisme le plus étriqué. Alors que Drieu s'éloigne, accusant Doriot d'abandonner son «fascisme révolutionnaire» pour un «fascisme réactionnaire» de compromission, Jouvenel constate l'échec du «socialisme à la française» qui l'avait mené au doriotisme. Définitivement sevré du PPF au soir des accords de Munich, que Doriot par pacifisme applaudit, Jouvenel rend sa carte en janvier 1939, ulcéré de la dérive antisémite du parti. Non sans avoir publié, ultime rebuffade devant les orages qui naissent au-dessus du continent, Le réveil de l'Europe. Relégué parmi les penseurs d'extrême-droite, Jouvenel devra s'adresser à Gringoire et Candide pour ses articles. Drieu poursuivra en solitaire sa carrière finalement plus anarchique que fasciste.

 

Faisant le point sur ses dix ans de revendication non-conformiste, Jouvenel confiera, dans son recueil de mémoires Un voyageur dans le siècle: «Nous étions une génération raisonnable, soucieuse de l'avenir, souhaitant que ce fut un avenir de réconciliation et de paix, et un avenir de progrès économique et social. Nous ne faisions pas de rêves. C'étaient hélas nos dirigeants qui rêvaient». Drieu suicidé en 1945, après que Jouvenel, réfugié en Suisse pour actes de résistance, ait vainement tenté de le retenir lors d'une de ses visites en 1943, celui-ci poursuivra son œuvre. Dénonçant l'inadaptation des appareils philosophiques et politiques aux mutations du monde moderne.

 

Aujourd'hui réduit à l'archéologie de l'histoire des idées, le courant anti-conformiste aura considérablement pesé après-guerre sur la génération fédéraliste des années 50, à l'origine du Conseil de l'Europe. Et quoi qu'en dise Zeev Sternhell, «l'esprit des années 30» n'aura pas été que le compagnon de route du fascisme. Michel Winock, historien issu des rangs d'Esprit, rappelle à juste titre le foisonnement de points de vue que Drieu et Jouvenel illustreront dans leur amitié: «Beaucoup de matière grise avait été dépensée. De tous ces plans, de ces programmes, de ces utopies, il reste seulement des archives quand la critique des souris n'a pas eu le temps de faire son œuvre. Néanmoins, quelques idées-forces germèrent, certaines pour alimenter la Révolution Nationale, où bon nombre de ces jeunes gens se retrouvèrent (ndlr: on pense à Luchaire, Doriot et Bergery), d'autre pour nourrir les programmes de la Résistance pour une France libérée et rénovée. On avait assisté à un feu d'artifice de la jeunesse intellectuelle. Les étincelles de quelques fumées persisteront». (extrait de Le Siècle des intellectuels, Seuil, 1997).

 

Nul doute que la pensée fédéraliste, telle que définie par Bernard Voyenne, aura abondamment puisé dans le personnalisme. Pilotes du mouvement, les revues La Fédération et Le XXème Siècle Fédéraliste compteront ainsi parmi leurs parrains les signatures de Halévy, Andreu, Daniel-Rops, Rougemont et bien sûr Jouvenel.

Juste reconnaissance pour celui qui dépassant les clivages aura aussi bien collaboré à Vu qu'à Marianne, à L 'Œuvre qu'à Paris-Soir. Pour autant, Jouvenel se détachera rapidement des tumultes politiques de l'après-guerre, navré de l'imprévision des hommes: «De 1914 à 1945, I'Europe se sera quasiment suicidée, de même que la Grèce dans sa guerre de Trente Ans. Et comme la Grèce s'était retrouvée par la suite exposée aux influences contraires de la Macédoine et de Rome, de même l'Europe entre la Russie et les Etats-Unis». Après La défaite, livre publié chez Plon en 1941, signifiait son abattement: «Il n'est pas douteux que la France aurait pu faire à temps sa propre révolution de jeunesse. Le fourmillement des manifestes, d'idées, de plans, de petits journaux et de jeunes revues qui suivit le 6 février 1934 en témoigne amplement. Les mêmes tendances anticapitalistes et antiparlementaires s'exprimaient dans la jeunesse de droite et dans la jeunesse de gauche, qui d'ailleurs multipliaient les contacts». Son maître-livre, Du Pouvoir, imprimé à Genève dès 1945, demeure la désillusion de toute une élite. La mort volontaire de Drieu n'y aura sans doute pas été étrangère.

 

Laurent SCHANG.

 

(1)     directeur du quotidien Le Matin, ministre de l'instruction publique (1924), haut-commissaire au Levant (1925-1926). Epoux de Colette.

(2)     1921.

(3)     1922.

(4)     1927.

(5)     1928.

(6)      qui paraît chez Valois.

(7)     où sont présents Fernand de Brinon, Jean Luchaire, Jules Romains, Paul Morand, Drieu la Rochelle.

(8)     publié en 1934.

 

 

samedi, 28 novembre 2009

Hommage à Panajotis Kondylis

Panajotis_Kondylis2222.gifArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1998

Hommage à Panajotis Kondylis

(1943-1998)

 

Toute fama passe. C’est un adage que Panjotis Kondylis, philosophe grec né en 1943, a médité calmement. Il savait que si son œuvre était publiée d’abord en langue grecque, elle n’aurait guère d’impact. Kondylis s’est demandé s’il devait publier en anglais, en allemand ou en français. Finalement, il s’est décidé pour l’allemand. Aussi, dès cette décision prise, il a passé chaque année de sa vie six mois dans les bibliothèques de Heidelberg, six mois dans sa patrie hellénique.

 

La vie de Kondylis était celle d’un savant isolé, espèce en voie de totale disparition aujourd’hui. Kondylis était indépendant sur le plan matériel car il était issu d’une famille fortunée. Cette indépendance matérielle garantissait son indépendance d’esprit.

 

Son premier ouvrage, publié en 1979 et épais de 700 pages était la continuation d’études entamées à Heidelberg (Die Entstehung der Dialektik  - Eine Analyse der geistigen Entwicklung von Hölderlin, Schelling und Hegel bis 1802;  = La naissance de la dialectique. Analyse d’une évolution intellectuelle de Hölderlin, Schelling et Hegel jusqu’en 1802). Ensuite, il a publié Die Aufklärung im Rahmen des neuzeitlichen Rationalismus  en 1981 (= L’idéologie des Lumières dans le cadre du rationalisme moderne). Kondylis n’interprétait pas les Lumières comme une idéologie découlant des principes de la rationalité (sapere aude)  mais comme une réhabilitation de la sensualité. Le livre témoigne d’une immense culture livresque, même s’il apparaît un peu sec dans sa volonté opiniâtre de démontrer une thèse unique. Kondylis n’aimait pas les gris. Son ouvrage le plus connu, édité en 1991, Der Niedergang der bürgerlichen Denk- und Lebensform  - Die liberale Moderne und die massendemokratische Postmoderne (Le déclin de la forme de pensée et de vie bourgeoise - La modernité libérale et la postmodernité démocratique de masse), était en fait une analyse du phénomène de la masse, de la société et de la démocratie des masses.

 

En 1992, parait Planetarische Politik nach dem Kalten Krieg  (= Politique planétaire après la Guerre Froide). En 1996, Montesquieu und der Geist der Gesetze (= Montesquieu et l’esprit des lois). Mais dans les rangs des divers conservatismes, deux livres ont surtout mobilisé les attentions: Macht und Entscheidung  (1984; = Pouvoir et Décision) et Konservativismus  - Geschichtlicher Gehalt und Untergang  (1986; = La conservatisme: contenu historique et déclin). Effectivement, sur le conservatisme, peu de livres ont donné une description aussi fouillée du phénomène. La conclusion de Kondylis, contenue déjà tout entière dans le sous-titre de l’ouvrage, a suscité pas mal de critiques. Kondylis affirmait effectivement: «Le conservatisme est mort. Il est historiquement lié à une époque, celle de la noblesse. Tout ce qui, ultérieurement, s’est donné le nom de “conservatisme”, devrait plus être qualifié de “vieux-libéralisme”, car une telle appelation serait plus exacte. Car ces conservatismes sont dorénavant soumis aux conditionnements de la modernité...». Mais c’est surtout sa thèse principale qui a été rejetée comme trop “mécanique”, malgré l’admiration de toute sa corporation pour une certaine pertinence de sa démonstration et pour son enquête à travers toutes les sphères culturelles de l’Europe: Kondylis affirmait qu’avec la dissolution des restes de la société civile médiévale, c’est-à-dire avec l’abandon de la féodalité et l’élimination des avantages juridiques et publiques de la noblesse, le conservatisme politique avait factuellement cessé d’exister.

 

Enfin, au moment de sa mort, Kondylis, le réaliste qui méprisait la “lourdeur moralisante”, travaillait à un ouvrage en trois volumes sur la “socio-ontologie”. Hélas, la Grande Faucheuse l’a emporté le 10 juillet, quelques heures avant qu’il ne quitte Athènes pour se rendre à Heidelberg.

 

Hans B. von SOTHEN.

(hommage paru dans Junge Freiheit, n°30/1998).      

 

 

vendredi, 27 novembre 2009

Tussen nationaal en internationaal kapitaal

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Tussen nationaal en internationaal kapitaal

Geplaatst door yvespernet op 20 november 2009

Inleiding

Bedrijven klagen graag over wetten en regels die staat uitvaardigt m.b.t. interventie in de economie. We stellen echter ook vast dat de meeste bedrijven zich zullen uitspreken in voorkeur voor een staat. De staat kan immers de bedrijven beschermen en een economische politiek voeren waar zij baat bij hebben. Ook de arbeiders hebben baat bij een staat die zorgt voor sociale wetgeving en dus sociale rust, waar de bedrijven op hun beurt dan weer baat bij hebben. Algemeen gezien kan men stellen dat een volksnationalistische staat zorgt voor de nodige economische, politieke en sociale stabiliteit om in een degelijk niveau van welzijn én welvaart te voorzien. Maar tegenover deze bedrijven staan de grote multinationals van het grootkapitaal die net zullen ijveren naar zo weinig mogelijk staatsingrijpen. Dit omdat hun vertakkingen immers internationaal zijn en van zo een grote omvang dat zij enkel nog maar kunnen tegengehouden worden door staatsingrijpen. Zonder dat ingrijpen zouden zij immers monopolieposities kunnen innemen en volledig hun zin doen, vaak met desastreuze ecologische, sociale en economische gevolgen . Het is dus zeer belangrijk om in te zien dat men niet kan spreken van “hét kapitaal”, maar dat we een onderscheid moeten maken tussen het nationaal kapitaal en het internationaal (groot)kapitaal. Voor we dus verdergaan over de rol van de staat is het even nodig om stil te staan bij het verschil tussen deze twee.

Het verschil tussen nationaal en globaal kapitaal

Het nationaal kapitaal verkiest zich te hechten aan een staat en diens inwoners om zijn economische activiteiten te ontplooien. Ze zullen hun best doen om zoveel mogelijk van de subsidies in handen te krijgen om hun activiteiten op nationaal niveau uit te bouwen. Eventueel zijn daar wel internationale vertakkingen bij, maar deze vorm van kapitaal blijft zijn zwaartepunt in één land houden en zal bij besparingen ook in dat land als laatste besparen.

Het internationaal grootkapitaal heeft geen binding meer met één land. Hun hoofdvestiging is niet uitgekozen vanwege een emotionele verbinding, maar vanwege pure machtspolitiek. Zij zullen zich vestigen in een sterke staat die ze kunnen gebruiken om andere landen onder druk te zetten. Zodra zij echter kunnen, zullen zij echter de macht van de staat op de economie ondermijnen om hun activiteiten te vergroten. Voor het grootkapitaal telt enkel winst en nog meer winst.

Dit verschil is belangrijk voor onze strijd aangezien we vriend van vijand moeten kunnen onderscheiden. We zijn geen marxisten die alle kapitaalbezitters smeerlappen vinden, wij wensen ook niet een communistisch systeem te organiseren waarbij vooral de armoede collectief bezit is. Het is echter wel onze strijd dat wij wensen te strijden tegen entiteiten die onze eigenheid en onafhankelijkheid aanvallen. En momenteel is het grootkapitaal “goed” bezig met dat te doen en helaas met succes. Daarom moeten we ook onze bondgenoten gedeeltelijk zoeken in het nationale kapitaal, zonder daardoor blind te worden voor het feit dat ook in het nationale kapitaal elementen zitten die maar al te graag tot het internationale grootkapitaal willen horen.

De legitimatie van de staat

Liberalen en anarcho-kapitalisten stellen het bestaan van de staat en diens macht over maatschappij regelmatig in vraag. De eersten willen nog een minimum aan staat behouden, anarcho-kapitalisten willen echter alle vorm van staat afschaffen en alles overlaten aan de bedrijven en de vrije markt. Voor ons solidaristische volksnationalisten is dit echter onmogelijk. Wij beschouwen de staat immers als een hulpmiddel en een verdediging van de volksgemeenschap. In onze visie dienen de staatsgrenzen getrokken te worden rond de grenzen van volkeren en niet omgekeerd. Vanuit die optiek is de volksgemeenschap dus de kern en drijvende motor van het bestaan van de staat en tevens de oorzaak en middel van die staat om te functioneren. Verder stellen wij ook dat door het bestaan van de staat de volksgemeenschap en diens economie kan worden beschermd tegen het grootkapitaal dat enkel denkt aan winst en niets geeft om sociale wetgeving, of de ecologische en sociale gevolgen van hun manier van zaken doen.

Maar het is belachelijk om te denken dat een staat altijd perfect functioneert. Indien dat wel het geval zou zijn, zouden we niet met de problemen van vandaag de dag zitten. Het is dan ook belangrijk om een nationaal besef van plicht in te bouwen in de mensen die de bureaucratie van de staat bemannen. Wanneer de staat immers geplaagd wordt door grote corruptie en belastingsgelden het centrale gezag niet bereiken, zullen mensen de staat gaan beschouwen als een manier op zich om winst te maken. Waarop het centrale gezag vervolgens zal reageren door de staat te gaan gebruiken als een verzameling middelen die verkocht kunnen worden om aan geld te geraken. Niet enkel in de huidige corrupte Afrikaanse staten kunnen we dit terugvinden, ook bij ons hebben we dit probleem gehad in de geschiedenis van de staatsvorming. Kijken we maar naar de 16de eeuw waarbij posities in de staat verkocht worden. Als deelnemer aan het parlement van Parijs moest men gewoon 6.000 livres betalen in 1522, tegen 1600 was dit 60.000 livres geworden , om deze functie te krijgen. Normaal vereiste dit juridisch onderwijs en kunnen, maar doordat het centraal gezag constant geld nodig had, door het ontbreken van een vaste stroom belastingen en de visie op de staat als een manier van persoonlijke verrijking, en dus dit soort functies verkocht.

Sterker nog, een nachtwakerstaat zoals vele liberalen voorstellen is net veel kwetsbaarder voor dingen als een staatsgreep. Het principe van een staat houdt immers nog steeds in dat een staat de volledige autoriteit heeft binnen de bevoegdheidsgrenzen die door de staat worden gesteld. Maar wanneer de staat zijn handen aftrekt van belangrijke en winstgevende economische sectoren, kweken zij een groot ongenoegen naar de bevolking toe. Dit doordat dit meestal gebeurt in landen waar multinationals opeens enorm veel macht krijgen en allesbehalve ethisch handelen. Dit leidt tot sociale onrust waar de staat, wegens gebrek aan financiële middelen, niet kan ingrijpen. Landen waar de staat de controle afgeeft op economisch vlak zijn dan ook kwetsbaarder voor militaire staatsgrepen . Kijken we bvb maar naar landen waar de staat zich volledig heeft teruggetrokken uit de oliesector en die bedrijven grote macht hebben. Nigeria is daar een goed voorbeeld van, waar de Movement for the Emancipation of the Niger Delta, vecht tegen het beleid van Shell. Shell heeft ook in het verleden reeds voorvechters van de bevolking daar laten vermoorden. In het geval van de Niger delta en Shell heeft Shell meerdere keren in het verleden zelfs geweigerd om te betalen voor de door hen veroorzaakte milieuschade . Pas onlangs hebben zij een minimum aan schadevergoeding betaald voor de moord op een emancipatievoorman. Ook moeten we onthouden dat een machtsvacuüm altijd opgevuld zal worden. Als het centrale gezag ondermijnd wordt, zal het gezag steeds op een lager niveau worden hersteld . Het resultaat van het uitvoeren van dit soort anarchistische avonturen zal dan ook enkel leiden tot het opkomen van lokale krijgsheren die de volksgemeenschap enkel verdelen.

Een andere kritiek die vaak wordt gehoord over de staat is de stelling dat staatsbedrijven hopeloos inefficiënt zijn en gigantisch veel verlies draaien, ten koste van de gemeenschapsgelden van de belastingen. Het is een feit dat staatsbedrijven vaak door politieke spelletjes beperkt worden in hun werking en ook dringend gesaneerd moeten worden. We mogen ook de dubieuze rol van sommige vakbondsmilitanten niet negeren. De vakbond is een organisatie die wij dienen toe te juichen, maar zoals bij andere organisaties zitten ook daar rotte appels die liever staken omdat dat spannender en leuker is. Het is dan ook nodig dat het personeelsbeleid bij de overheid op kwaliteiten en werkinzet worden gebaseerd en niet op vaste benoemingen moet steunen, al mogen we natuurlijk niet raken aan het principe van sociale wetgeving en bescherming.

Maar we mogen ook een andere visie hierop niet vergeten: overheidsbedrijven die niet geprivatiseerd geraken, zijn vaak de sectoren waar bedrijven (nog) geen winst op kunnen maken. Wanneer de staatsbedrijven immers geprivatiseerd worden, zien we niet een daling in prijzen en een verhoging in aanbod. Integendeel, de liberalisering van de energiesector in België zorgde ervoor dat energieprijzen hier 30% naar boven gingen. De liberalisering van het spoorwegsysteem in Groot-Brittannië zorgde voor grote prijsstijgingen, een grote stijging in ongelukken en het bijna instorten van het spoorwegsysteem . Het hebben van staatsbedrijven die betaald worden door belastingsgeld heeft reeds in het verleden aangetoond dat het een beter aanbod kan geven dan de liberalisering van die bedrijven. Kijken we maar naar de voornoemde voorbeelden of als we verder van huis willen kijken: Indië. Een Indische studie naar tevredenheid van klanten over dienstverlening en aanbod van producten in de banksector had als resultaat dat de overheidsbank Bank of India op alle vlakken het best scoorde . Een ander heikel punt met het bestaan van de staat zijn de belastingen.

De staat en belastingen

Wanneer we de grenzen van soevereiniteit tussen bedrijven en de staat, en dus tussen economie en politiek beleid, willen bespreken, is het nodig om de zaken concreter te bekijken. Immanuel Wallerstein heeft in zijn “World System Analysis” gesteld dat de soevereine staten proberen om in de volgende zeven gebieden zoveel mogelijk autoriteit op te bouwen : (1) Staten zetten de regels uit waar de voorwaarden bepaald worden waarin kapitaal, goederen en arbeid hun grenzen mogen overschrijden. (2)Staten bepalen de wetten met betrekking tot eigendomsrechten. (3) Staten bepalen de regels met betrekking tot arbeids- en loonsbeleid. (4) Staten bepalen welke kosten bedrijven moeten internaliseren. (5) Staten bepalen welke economische sectoren gemonopoliseerd mogen worden en in welke mate en vorm. (6) Staten bepalen de mate, vorm en inning van belasting. (7) Staten kunnen ingrijpen in het beleid van bedrijven binnenin hun grenzen, waarmee zij echter ook indirect de beslissingen van andere staten bepalen.

We hebben elders in dit artikel reeds besproken dat het internationale grootkapitaal ijvert om zoveel mogelijk beperkingen op de vrije handel af te schaffen. Hiertegenover staan dan de arbeidersbewegingen die net staatsinterventie willen om zo sociale wetgeving af te dwingen. Het is echter ook duidelijk dat vele grote bedrijven toch wel een zekere vorm van staat willen behouden om bepaalde dingen af te dwingen. In het begin van dit hoofdstuk hebben we het reeds gehad over hoe de centrale staat in de eerste plaats zijn macht uitbreidde om zoveel mogelijk belastingsgeld naar de staat te kunnen doen vloeien. Om uit te leggen waarom vele van de grote bedrijven toch nog steeds een zekere vorm van staat willen, is het nodig om het principe van belastingen en de gevolgen van het gebruik daarvan van naderbij te bekijken.

Één van de meest gehoorde, en favoriete, kritieken op het principe van de staat is dat zij belastingen heffen. Sterker nog, heel het principe van belastingen heffen is net één van de kernpunten geweest waar heel het principe van de staat rond gebouwd is geweest in vroegere eeuwen. Er wordt wel eens gezegd dat niemand graag belastingen betaalt, maar eigenlijk is dit helemaal niet zo. Al zullen velen het niet graag toegeven, bijna iedereen, zowel bedrijven als personen, wilt belastingen afdragen zodat de staat kan zorgen voor bepaalde voorzieningen die opgebouwd en onderhouden worden met belastingsgeld. De grote kritiek op belastingen komt eigenlijk neer op twee bedenkingen:

Het belastingsgeld wordt niet nuttig besteed: deze kritiek komt neer op de bedenking dat het belastingsgeld niet gebruikt wordt om diegenen te helpen die het braaf afdragen, maar om politici, bureaucraten, de staat zelf of vreemdelingen te onderhouden. En we kunnen inderdaad stellen dat in vele West-Europese staten het belastingsgeld op deze manier wordt misbruikt.

Hoe meer belastingen voor de staat, hoe minder geld de anderen hebben: belastingsgeld afdragen betekent eigenlijk het plaatsen van persoonlijke financiële middelen in één grote gemeenschappelijke pot, waarover de controle in handen ligt van de vertegenwoordigers van de gemeenschap, maar niet in de handen van de individuele leden van die gemeenschap.

Wanneer we kijken naar de tweede bedenking, botsen we ineens op een praktisch gevolg van belastingsgeld. De staat herverdeelt het belastingsgeld via sociale voorzieningen, openbare voorzieningen en subsidies. Dit gecombineerd met het feit dat de staat tevens de controle heeft over de wetten m.b.t. personen- en goederenverkeer geeft de staat eigenlijk enorm veel macht. Zodra de staat echter die macht gebruikt, kunnen we niet spreken over neutraliteit. Elke beslissing die de staat neemt op dit vlak is automatisch een bevoordeling of benadeling van de vele groepen, personen of bedrijven in de samenleving. Er bestaat dan ook geen neutrale houding van de staat wanneer het op ingrijpen in de markt aankomt, net omdat de staat de beschikking heeft over grote financiële stromen, namelijk de belastingen. Door het aanwenden van deze belastingsgelden bepaalt de staat een zeer groot deel van de samenleving. De subsidiëring van bepaalde culturele initiatieven en het niet-subsidiëren van anderen kan zeer diepgaande effecten hebben op de ontwikkeling van de geesten in de maatschappij.

Vanuit die optiek is het dus naast monetaire politiek ook zeer belangrijk om als staat een controle te behouden over de inning van de belastingen. Met het gebruik van deze collectieve pot geld kan men immers meer doen dan de staat onderhouden en in openbare voorzieningen voorzien, het kan ook een cultuurbeleid en een mentaliteit sturen. Het kan ook een economie wijzigen door bepaalde sectoren, of zelfs individuele bedrijven, te bevoordelen. Dit is dan ook één van de redenen dat bedrijven nog steeds een zekere mate van staat zullen aanvaarden. Door het huidige systeem waarbij de politieke elite samenspant met de economische en culturele elites, is het beheersen van de staat handig om zo aan extra gelden voor het bekomen van een agenda. Ondanks het feit dat ik in de vorige stukken heb gesteld dat een staat soeverein moet zijn in zijn gebieden, volgens de zeven stellingen van Immanuel Wallerstein, sluit dit echter toch niet uit dat een staat invloed heeft op het beleid van een andere staat zonder dat daarbij noodzakelijk sprake moet zijn van geweld.

Conclusie

We kunnen dan ook stellen dat voor ons solidaristische volksnationalisten het van vitaal belang is om een functionerende staat te hebben die de volksgemeenschap en diens economie ondersteunt om zo het algemeen belang te dienen. Offensieven van het internationale grootkapitaal hiertegen dienen tegengehouden worden door een nieuw nationaal verbond van werkgevers en werknemers. Die eersten kunnen gemotiveerd worden om hier te blijven door speciale verankeringswetten (belastingsvoordelen als een bedrijf minstens x-aantal jaar gegarandeerd hier blijft en bij eventueel faillissement onder tijdelijke overheidscuratele komt). De staat dient ook zijn legitimatie uit de volksgemeenschap te halen omdat hij anders zijn volledige bestaansrecht verliest. Onze revolutie dient dan ook niet alleen een volksnationale revolutie te zijn, ze dient ook een revolutie in de structuren te zijn. Edgard Delvo zei het nog het beste door te stellen dat een volksgemeenschap dient ondersteunt te worden door een volksstaat.

Aldus, laten we strijden voor de Dietse Volksstaat!

Yves Pernet

Bronnen

  1. ROBIN, M.-M., “De wereld volgens Monsanto”, Uitgeverij De Geus, Breda, 2009
  2. WIENSHER-HANKS, M., “Early Modern Europe, 1450-1789”, Cambridge University Press, Cambridge, 2006, pp.96-97
  3. WALLERSTEIN, I. “World system analysis: an introduction”, Duke University Press, Durham, 2004, p.53
  4. <http://globalguerrillas.typepad.com/globalguerrillas/2006/05/journal_shell_r.html> (nagekeken op 17 juni 2009)
  5. “In the ongoing war between Shell Oil and Nigeria’s open source guerrilla movement (MEND), has reached a new level. Shell Oil was ordered by a Nigerian court (likely with Nigerian government support) to pay $1.5 billion in reparations for environmental damage to the Niger delta. Shell has refused to pay”
  6. WALLERSTEIN, I. “World system analysis: an introduction”, Duke University Press, Durham, 2004, p.53
  7. BROWN, E., “The Web of Debt”, Third Millenium Press, Baton Rouge, 2008, p.415
  8. HUMMEL, W., “A Plan for Monetary Reform”, < http://wfhummel.net/>
  9. WALLERSTEIN, I. “World system analysis: an introduction”, Duke University Press, Durham, 2004, p.46

Panajotis Kondylis: Pouvoir et décision

kondy13k.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1998

Panajotis Kondylis: Pouvoir et décision

 

Les livres les plus intéressants de Panajotis Kondylis, décédé en juillet dernier, sont: Geschichte des Konservativismus, Theorie des Krieges, Der Niedergang der bürgerlichen Lebensform  et Macht und Entscheidung  (= Histoire du conservatisme, Théorie de la guerre, Le déclin de la forme vitale bourgeoise  et Pouvoir et décision). Dans Pouvoir et décision,  Kondylis plaide pour une forme de la pensée qui a été copieusement décriée au cours des dernières décennies, et qui est le fondement de la démarche philosophique de Carl Schmitt. Kondylis justifie l’option de Schmitt en défendant le décisionnisme, tombé dans le discrédit depuis que les penseurs “héroïques” de la “révolution conservatrice” s’en sont emparé. Dans son ouvrage sur la décision, Kondylis démontre, appuyé sur ses innombrables connaissances, que toutes nos identités collectives et individuelles, y compris leurs expressions philosophiques ou rationnelles les plus élevées, reposent sur un fondement inaliénable qui est toujours une décision initiale, irrationnelle en dernière instance, révélant un rapport ami/ennemi.

 

Les idées sont dès lors des armes, qui servent l’objectif biologique de la lutte pour la survie ou pour l’accroissement de ses propres forces. La croissance et l’augmentation volontaire de ses potentialités dépendent étroitement, en fin de compte, de l’impératif de survie, auquel on ne peut se soustraire. Justement, c’est dans les périodes de crise que les individualités et les collectivités reviennent aux racines de leur propre identité, pour se renforcer et maintenir leurs forces. De ce fait, dans la formation des systèmes de pensée identitaires, la logique est un moyen parmi d’autres moyens, mais auquel on peut finalement renoncer.

 

Dans les systèmes théologiques, les principes de l’homme-créé-àl’image-de-Dieu et la faillibilité humaine constituent des contradictions sur le plan logique; de même, dans l’anthropologie de l’émancipation (Aufklärung), on trouve une contradiction: l’homme est une fraction de la nature, et, en même temps, les normes culturelles conditionnent le libre exercice de la volonté. Mais ces contradictions s’évanouissent dès qu’on les considèrent comme l’expression d’une volonté de pouvoir légitime. Les idées et les formes du savoir ne cherchent pas à “reflèter” la réalité: elles sont bien plutôt des constructions et des interprétations qui servent d’armes dans la confrontation ami/ennemi.

 

Comme Odo Marquard l’a remarqué: vouloir exprimer des vérités éternelles soustraites au temps est l’illusion majeure de la classe bourgeoise, qui pense qu’elle est au-dessus de toutes les autres classes. Les mythes, les religions et les idéologies sont donc des décisions au niveau de la Weltanschauung, qui assurent la permanence et la stabilité des identités. Souvent, la situation historique fait qu’il devient nécessaire de faire subir aux identités des mutations complètes, parce que la communauté politique ou nationale doit survivre. Le maintien de l’identité est un impératif existentiel que l’on ne peut toutefois pas détacher des circonstances spatio-temporelles. Même si l’identité est une fiction, elle demeure un impératif inaliénable. Si une individualité se rencontrait elle-même en temps que personne, mais dans un état antérieur à celui qu’elle revêt aujourd’hui, elle ne s’identifierait pas nécessairement à elle.

 

Holger von DOBENECK.

(article paru dans Junge Freiheit,  n°34/1998; trad. franç.: Robert Steuckers).

 

mardi, 24 novembre 2009

Le rapport politique-ésotérisme: entretien avec le Prof. G. Galli

magier.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1997

Le rapport politique-ésotérisme

Entretien avec le prof. Giorgio Galli

 

Pendant de nombreux siècles, les rois, les empereurs, les hommes politiques, toujours isolés de leurs contemporains, ont demandé les conseils de “mages”, d'astrologues, de voyants, d'alchimistes, avant de prendre des décisions importantes. Ces curieux conseillers étaient toujours présents, plus ou moins officiellement, dans l'orbite des hommes qui les consultaient fidèlement. La révolution scientifique nous a fait croire que le mystérieux filon occulte qui s'insère entre la politique et les pratiques ésotériques s'était dilué et avait disparu. Mieux vaut être prudent avant de l'affirmer péremptoirement! Même à notre époque pleinement sécularisée, marquée par un grand scepticisme, par l'athéisme généralisé, on peut repérer les liens obscurs unissant de mystérieuses congrégations aux hommes du pouvoir.

 

Giogio Galli, professeur d'histoire des doctrines politiques à l'Université de Milan, s'est préoccupé de ces thématiques, en écrivant des livres qui ont suscité la curiosité, l'intérêt mais aussi causé une certaine inquiétude. Nous lui avons demandé de nous expliquer dans quelle mesure l'ésotérisme influence les lieux du pouvoir dans le monde occidental, au seuil du troisième millénaire.

 

GG: «Les rapports entre l'ésotérisme et la politique n'ont plus de nos jours la continuité qu'ils avaient dans les temps passés, mais le phénomène n'est pas pour autant épuisé depuis l'avènement de la révolution scientifique. Il est moins apparent, mais il est néanmoins présent. En notre siècle qui s'achève, à côté des idéologies de masse qui ont favorisé l'avènement de l'homme nouveau, dominateur de la technique et de la science, forgé dans l'acier des fabriques et prêt à se jeter dans les tempêtes d'acier comme l'a décrit Ernst Jünger, nous voyons réémerger des cultures anciennes qui, bientôt, influeront les événements historiques. De la mystérieuse figure de Raspoutine installée à la cour des Tsars aux voyants consultés par Hitler pendant la guerre, on constate que les hommes à la tête de la politique mondiale contemporaine ont consulté des astrologues connus: autant de phénomènes qui contredisent l'apparent cynisme de notre société contemporaine et démontrent que l'homme, même s'il est puissant, a besoin de croire en quelque chose».

 

Q: Depuis plusieurs années, vous avez étudié les rapports entre la culture politique et les anciennes cultures ésotériques. En lisant vos livres consacrés à cette thématique, comme Hitler e il nazismo magico, La politica e i maghi, Alba magica,  des pans obscurs des époques historiques récentes se révèlent et j'ai noté que l'ésotérisme en politique intéresse davantage la droite que la gauche. Comment cela se fait-il?

 

GG: «Je crois plutôt que la présence de l'occultisme est transversale et se retrouve dans tous les camps politiques, même si divers penseurs auxquels la droite extrême fait constamment référence, comme Julius Evola ou Ernst Jünger, ou l'entourage des SS de Himmler, ou les savants nationaux-socialistes qui se préoccupaient du Graal, se sont profondément intéressés aux arts ésotériques. Les écrivains Pauwels et Bergier, auteurs d'un livre devenu rapidement très célèbre, Le matin des magiciens, ont donné une définition lapidaire du national-socialisme: «C'est Guénon plus les Panzerdivisionen». René Guénon fut un grand connaisseur des cultes traditionnels pré-chrétiens et est devenu une sorte de “phare illuminant” pour certains cercles de la droite dure en Europe. Ces phénomènes idéologico-politiques nous amènent à constater ce que vous venez d'évoquer dans votre question: l'ésotérisme semble être un engouement des droites dures, mais, à l'analyse, on doit constater qu'il est présent dans toute la sphère politique et n'est nullement un apanage exclusif des droites. La recherche de l'irrationnel est profondément ancrée dans l'âme humaine. La science ne peut pas expliquer aux hommes pourquoi ils sont nés, pourquoi ils tombent amoureux, pourquoi ils meurent, etc.».

 

Q.: D'aucuns prétendent que lorsque l'on ne croit plus en Dieu, on croit en tout le reste...

 

GG: «Nous nous trouvons face à une grande crise des religions institutionalisées de modèle occidental. Le christianisme s'est transformé, alors que le mystère nous accompagne tout au long de notre vie. Le sacré connait une éclipse, aussi parce que l'Eglise catholique ne réussit plus à donner une réponse convaincante aux questions que les hommes lui posent. L'illusion des Lumièresa réduit les mystères de l'univers, ce qui s'est avéré une erreur. En outre, dans le monde entier, on assiste à un retour aux peurs ataviques de la fin des temps, parce que nous approchons le passage d'un millénaire à un autre. Toutes ces situations sont le terrain de culture de doctrines plus ou moins ésotériques, présentes en filigrane dans la société moderne: de l'homéopathie au New Age, de la prolifération des cartomanciennes aux prédicateurs itinérants. Ce vaste champ, qui a été jusqu'ici ignoré des historiens et des sociologues, pourrait être défini comme celui de la “fantapolitologie”: il pourrait révéler des indices intéressants sur la société actuelle. C'est pour cette raison que j'étudie le phénomène avec une attention soutenue».

 

Q.: Les symboles utilisés par les mouvements politiques peuvent avoir une signification dépassant le message politique proprement dit et renouer avec des mythes très anciens. Que pensez-vous de la récupération par la Lega Nord de Bossi des traditions celtiques et lombardes-germaniques? Et du symbole de la Padanie, le “Soleil des Alpes”?

 

GG: «Il me semble que la Ligue, qui existe depuis bientôt quinze ans, a connu des évolutions diverses. Le concept de Padanie est très récent et s'est imposé dans une phase de l'évolution du mouvement, où l'aspect symbolique est devenu plus important, où l'on assiste à la réémergence graduelle de cultures alternatives, y compris dans le champ politique. Aujourd'hui, la Ligue cherche à créer une identité padanienne, mais qui ne pourra pas se profiler sur une base seulement économique, religieuse ou linguistique, vu que la Padanie n'est pas l'Ecosse. D'où le projet de fonder cette identité sur un symbole fort. Indubitablement, la symbolique padanienne semble jouir d'un certain succès: la couleur (le vert) et le symbole (le Soleil des Alpes) sont immédiatement et clairement perceptibles. Evidemment, nous ne sommes pas en mesure de jauger de l'efficacité d'un tel message à court terme. Je ne crois pas que la référence à la culture celtique soit adaptée à la Padanie actuelle. Les Celtes possédaient une vision du sacré fortement liée à la nature. Les prêtresses druidiques y jouaient un rôle important. Les croyances celtiques n'ont rien de commun avec la culture des habitants de la Padanie en 1997».

 

Q.: De quoi parlera votre prochain livre?

 

GG: «Il traitera d'un aspect social particulier de l'Italie contemporaine. Je vais me référer au premier livre que j'ai écrit et j'intitulerai mon nouvel ouvrage Italia e meriggio dei maghi  (= L'Italie et le midi des mages). Je parlerai des innombrables personnes qui se sont rapprochées des cultures restées jusqu'ici marginales dans la société post-industrielle. Je vais démontrer que ces personnes n'ont pas choisi cette voie parce qu'elles se défient de la science, ou qu'elles ne l'ont pas empruntée uniquement en raison d'une telle méfiance. En Italie, un quart de la population se tourne désormais vers la médecine alternative, croit aux horoscopes, visite les cartomanciennes ou se rapproche des philosophies orientales. L'Italie est en train de changer, sous bon nombre d'aspects».

(propos recueillis par Gianluca Savoini, parus dans La Padania, 22 oct. 1997; trad. frtanç.: Robert Steuckers).

mercredi, 18 novembre 2009

Elk volk zijn socialisme!

solidarite-main-tendue.jpgElk volk zijn socialisme!

Naar aanleiding van een tv-reportage (‘Koppen’, 16 okt. jl.) en een debat (3okt.jl) georganiseerd door het Nieuw-Solidaristisch Alternatief (N-SA), is opnieuw het debat geopend rond het wezen van “het solidarisme”. Het N-SA is daarover verheugd, omdat op die manier een onderwerp uit de vergetelheid komt waar het al enkele decennia in vertoeft. Er zijn naast de klassieke linkse tegenstanders ook nogal wat rechtse kringen die het onderwerp liever lieten voor wat het is en was. Een debat dus, over wat solidarisme is, en wat het nieuw-solidarisme is of zou kunnen zijn.

Opmerkelijk is dat een aantal mensen uit de rechtse traditionele Vlaamse Beweging (voor zover daar nog “bewogen” wordt) plots het solidarisme herontdekt hebben, en daarbij menen te kunnen stellen dat het N-SA ten onrechte van de term “solidarisme” gebruik maakt. Ik verwijs hierbij naar een artikel van de hand van Stijn Calle dat verscheen bij het internetmagazine ‘Bitterlemon’. Omdat hierbij op een aantal vlakken nogal kort door de bocht werd gegaan, dit artikel als antwoord.

Ten eerste meent de heer Calle het verzamelbegrip “solidarisme” te moeten definiëren. Goed, en ook nodig, maar wat ons betreft kan de verscheidenheid binnen wie en wat zich doorheen de tijden als solidaristisch bestempelde niet zomaar plotsklaps ingeperkt worden tot de eigen visie. Solidarisme is en blijft een verzamelbegrip. De Fransman Léon Bourgeois, de christendemocraat Leo Tindemans, Verdinaso-leider Joris van Severen… noemden zich allen ooit “solidarist”. Hun mening(en), visies en initiatieven kunnen onmogelijk los gezien worden van het tijdskader en de maatschappelijke omstandigheden, en wijken vaak sterk onderling af en dus ook van wat vandaag het N-SA zegt of doet. Om maar te stellen hoe uiteenlopend de invullingen van dat solidarisme kunnen zijn. Niemand die dat betwist, maar toch meent de heer Calle dat hij bijvoorbeeld de Franse vrijmetselaar Léon Bourgeois kan verbannen uit het solidaristische kamp, omdat Calle aan het solidarisme een uitdrukkelijke Rooms-katholieke spirituele basis toekent. Het is juist dat de Rooms-Katholieke Kerk (RKK) in de ontwikkeling van haar sociale maatschappelijke leer in zeer belangrijke mate heeft bijgedragen tot de ontwikkeling van diverse solidaristische stromingen (cfr. Pesch, Rerum Novarum,…). Net omwille van die grote verscheidenheid binnen “het solidarisme” en het feit dat wij  deze niet willen inperken door eenzijdige definities, heeft het N-SA destijds de benaming van het “nieuw-solidarisme” aangenomen.

Maar in zijn definiëringsijver gaat de heer Calle nog wat verder en stelt dat het solidarisme een “concretisering van wat gemeenschappelijk in tijd en ruimte de derde weg wordt genoemd”. Die “Derde Weg” is een al even problematisch verzamelbegrip als politiek “links” en “rechts” of zoals “het solidarisme” zelf. Die Derde Weg betekent in de eerste plaats afstand nemen van het politieke en maatschappelijke bestel dat door de heersende ideologie wordt gevormd met haar politiek-filosofisch centrum, linker- en rechterzijde. En dat doet Calle niet, integendeel hij wenst er een uitdrukkelijk rechtse (“radicaal rechts”) invulling aan te geven. Dat “het solidarisme” tot nog toe steeds leefde bij mensen en groepen die als “rechts” te catalogeren zijn, verandert niets aan het feit dat die Derde Weg de facto betekent dat er kruisverbanden worden gelegd uit diverse filosofische, wetenschappelijke, politieke… richtingen. Het N-SA bekent zich tot die Derde Weg, en neemt bijgevolg dus afstand van wat gemeenzaam “extreem-rechts” of eufemistisch door henzelf als“radicaal rechts” wordt omschreven. Net omdat het om een nieuw project voor een nieuwe tijd gaat, die op zowat alle vlakken lijnrecht ingaat tegen de heersende ideologie en haar politieke, maatschappelijke en institutionele systeem. Die Derde Weg betekent afstand nemen van het (conservatieve) status quo of van reactionair gedachtegoed. We raken hier onmiddellijk aan de kwestie van het nationaal-revolutionaire denken, waarover verder meer.  

Een gebrek aan die eerdergenoemde spirituele basis van  het solidarisme wordt het N-SA verweten, en daarmee zijn we bij het tweede punt van kritiek aanbeland. Onterecht, maar allicht heeft de heer Calle hier zijn mening gevormd op basis van wat op het debat van 3 oktober werd besproken, en waar die spirituele basis nauwelijks of niet aan bod kwam. Kern van zijn betoog is dat het solidarisme een beroep doet op een spiritualistische inhoud en zich daarmee onderscheid van zowel liberalisme als socialisme. Dat is juist en N-SA erkent dit ook, voor zover met dit socialisme de marxistische varianten bedoeld worden! Calle situeert die spirituele basis echter – in tegenstelling tot het N-SA - uitdrukkelijk en exclusief binnen het katholieke geloof. Dit anno 2009 doen, betekent zo veel als het organiseren van de begrafenis van het solidarisme. Immers de sociale leer van de RKK en de geloofsmatige basis daarvan, kan niet los gezien worden van het instituut die de Kerk op zich is. De Kerk socialiseert nauwelijks nog, haar macht en invloed bij de brede bevolking krimpt, nog slechts een kleine minderheid van Vlamingen is overtuigd katholiek gelovig en leeft ook volgens haar geloof, een grote maar slinkende groep Vlamingen bewijst er nog latent lippendienst aan. Bovendien wordt die grotendeels inhoudelijk gelijklopende spirituele basis evengoed geboden door andere filosofische overtuigingen, die soms diametraal tegenover het katholicisme staan. Ik verwijs hier bijvoorbeeld naar de Franse Nouvelle Droite rond Alain de Benoist met haar Manifest voor Europees Herstel en Vernieuwing dat aan de vooravond van de eeuwwisseling werd gepubliceerd.

In Vlaamse conservatief-katholieke en andere Vlaamsgezinde kringen die zich bij tijd en wijlen op solidarisme beroepen, is het echter al decennia lang (ongeveer sinds eind de jaren ’70 van vorige eeuw) oorverdovend stil aangaande theorievorming en concrete stellingname inzake solidarisme. Is het intellectuele luiheid en/of desinteresse? In elk geval is het claimen van of het ontzeggen aan anderen van “het solidarisme” vanuit die hoek dan ook op z’n zachtst gezegd potsierlijk te noemen. Het heeft er ook toe geleid dat – zeker op partijpolitiek vlak – conservatieve liberalen en zelfs neoliberalen de kaas van tussen het solidaristische brood namen. Wat men nog onder solidarisme kan verstaan bij de overblijvers, is niets meer dan een vorm van liefdadigheid die de bittere pil van economisch (neo)liberalisme moet vergulden. Tenzij deze mensen standpunten zouden verdedigen waar ze eigenlijk niet achter staan… Het soort solidarisme dus, waar destijds de katholieke baron Woeste zich op beriep toen zijn Bokken pensen mochten uitdelen aan de arbeiders en Daens door hen als… socialist werd versleten. Structurele wijzigingen in het sociaal-economische en maatschappelijke bestel zijn dan ongewenst, het conservatieve status-quo ten voordele van de machthebbers en het heersende regime kan er maar wel bij varen, maar dat is geenszins wat het N-SA wenst.

En daarmee komen we bij een volgende punt van “kritiek”: rond het N-SA hangen er te veel socialistische zwaveldampen, hetgeen wel des duivels moet zijn voor de gemiddelde conservatief. Zoals eerder gezegd, het N-SA heeft daar geen probleem mee, op voorwaarde dat we het hebben over niet-marxistisch socialisme. Het is een onderscheid die men ter klassieke rechterzijde wel eens durft te vergeten. Geen oubollige 20ste eeuwse retoriek en/of achterhaalde begrippen en inzichten, maar een nieuwe analyse die gebruik maakt van het eerder aangehaalde leggen van kruisverbanden over filosofische grenzen heen, zowel historisch als hedendaags.

Als nieuw-solidaristen menen wij dat we een kader kunnen aanreiken voor een vorm van socialisme dat vorm kan geven aan de maatschappij voor de Lage Landen. Elk volk zijn socialisme, wars van elke vorm van internationalisme en wat ons betreft voortbouwend op de brede en zeer gedifferentieerde solidaristische traditie (bewegingen, personen…) in de Lage Landen. Dit socialisme is zonder meer een ethisch socialisme, het is niet de abstracte ideeënconstructie maar de bezielende idee die de voornaamste taak van het nieuw-solidarisme omlijnt: de vorming van de gemeenschapsdienende persoonlijkheid bevorderen in deze tijd van een ontworteld begrip inzake persoonlijke vrijheid en een massaal verspreid materialistisch egoïsme. Voor nieuw-solidaristen is dit socialisme geen systeem, geen wetenschappelijk omkleedde constructie, maar eerder een vorm van geloof. Een geloof in het zinvolle van mens-zijn, een geloof in zelfontwikkeling en –ontplooiing voor elke mens in een omgeving waar welzijn hoger geacht wordt dan welvaart, zonder het belang van het materiële te willen ontkennen of verwaarlozen. Immers, om het even welk beleidssysteem dat er niet zou in slagen om de productieve krachten in de bevolking arbeid te verschaffen en een zekere mate van materiële welvaart te verzekeren, kan mensen hun zelfachting niet teruggeven. Een dergelijk systeem is op zich verwerpelijk en als het zichzelf niet naar de ondergang werkt, verdient het enkel maar op weg naar die ondergang gezet te worden.

Concreet betekent dit dat het N-SA de onzalige belangenstrijd door een solidariteitsbewustzijn tussen alle lagen van de bevolking wenst te vervangen en bijgevolg ook aanstuurt op de structurele en institutionele veranderingen die dit moet helpen mogelijk maken. Het N-SA bepleit de vorming van een volksfront en wijst bijgevolg automatisch klassenstrijd af! Er gaapt een zeer wijde kloof tussen het ethische socialisme van het nieuw-solidarisme enerzijds en het belangensocialisme van het marxisme anderzijds. Toch moet gesteld dat we in tegenstelling tot de klassieke conservatieven wel geloven in een – weliswaar beperkte – mate van maakbaarheid van de maatschappij. Zoniet, blijft elk solidarisme steken in liefdadigheid binnen het bestaande politieke, economische en institutionele systeem dat uitblinkt in wankelmoedigheid, immobilisme en willoze, besluiteloze regeringen. Het N-SA pleit dan ook voor de vorming van een nationaal-democratie, waar orde, gezag en autoriteit als wapen tegen willekeur en dictatuur gelden en waar medemenselijkheid niet langs het dwaalpad van liberale “vrijheid” loopt maar wel langs vrij aanvaarde plicht. Enkel plichtenleer is ethisch verantwoord, want wie de absolute individuele vrijheid als het hoogste goed erkent, aanvaardt onmiddellijk ook het recht ze naar eigen goeddunken te gebruiken en dus ook te misbruiken.

Ondanks de afwijzing van het marxisme, moeten we ook hier een kanttekening maken. Marx en zijn theorie kunnen op diverse wijzen worden benaderd. Wie een correct oordeel over Marx wil vellen zal en kan niet uit het oog verliezen dat in de maatschappelijke toestand en de kapitalistische verhoudingen van die tijd, de arbeiders wel degelijk proletariërs waren en dat de klassenstrijdleer van toen de belichaming was van de socialistische drang naar menselijke waardigheid. Marx wenste een menselijkere wereld, maar hij heeft zich vergist. Marx was fout indien hij dacht dat door het vervangen van het kapitalistisch productieproces door het collectivistisch model, meteen ook het egocentrische individualistische mensentype zou vervangen worden door een altruïstische, sociaalgezinde mens. Een betere maatschappij vergt boven alles een betere mens, en beter word je als mens door ethiek hoog in het vaandel te voeren en door het streven naar een zinvoller leven dat in ruime mate aan medemensen tegemoet komt. Marxisme kan beschouwd worden als een wetenschappelijke theorie en dan is het boven alles een analysetheorie van het kapitalisme van de 19de en begin 20ste eeuw, niet van het socialisme! Marx was correct toen hij het klassenbewustzijn van de arbeiders vooropstelde als sociologische integratiekracht met het oog op hun politieke en sociaal-economische ontvoogding, hij was fout toen hij daarop meende een sociale theorie te kunnen bouwen wegens te abstract, te gelijkschakelend, en vooral voor de dag van vandaag te sterk verouderd. Als dit woord (“klasse”en andere terminologie) dus voorkomt in discours van politieke militanten zowel binnen het N-SA als daarbuiten in niet-marxistische kringen, moet dit gezien worden in het licht hiervan. Het nieuw-solidarisme is geenszins gebaseerd op dit klassebegrip, wel integendeel!

Meteen raken we nog een volgende punt van kritiek aan, onder andere door de heer Calle aangehaald op het debat van 3 okt. jl., namelijk dat het principe van een vakbond tegengesteld zou zijn aan “het solidarisme”. Vakbond, syndicalisme, klasse, revolutie… zijn dan allemaal termen die toegewezen moeten worden aan het marxisme (of varianten daarvan) en die zogezegd niet zouden passen in het solidarisme. Dit is zowel historisch als inhoudelijk fout. Historisch gezien hebben diverse vakverenigingen in de eerste helft van de 20ste eeuw bijgedragen aan het ontstaan van een sterke solidaristisch geïnspireerde beweging in het toenmalige katholieke Vlaanderen. De Werkmansbond tot Zelfverdediging en het Vlaams Nationaal Vakverbond zijn maar twee voorbeelden hiervan. Of de rol die Jules Declercq speelde binnen het Verdinaso, wat vooral te maken had met het syndicalisme. Het Verbond van Nationale Arbeiderssyndikaten (NAS) vormde de belangrijkste wervingsbasis voor het Verdinaso, ondanks het gestook van nogal wat clerus tegen het NAS en het Verdinaso. Meermaals namen Dinaso-publicaties het op voor nationaalsyndicalisten.

De kritiek op de klassieke partijvakbonden van toen geldt ook nu nog: het zijn partijsyndicaten die een staat binnen de staat vormen, en waarvan de top belang heeft bij het status-quo. Er moet een onderscheid gemaakt worden tussen de bestaande toestand en wat daarmee aangevangen moet worden enerzijds, en de gewenste toestand in de toekomst zoals de nieuw-solidaristen dit zien anderzijds. De gewenste toestand is eenvoudig: syndicalisme is een systeem binnen hetwelk de economie kan worden geordend, sociale orde en rechtvaardigheid kan worden uitgebouwd. Nu is onderhand genoeg gebleken is dat correcties op het liberaal-kapitalisme voortdurend onder druk staan van neoliberale dwaalideeën. Het is een geheel waar verplichte samenwerking nieuwe instituten (vroeger corporaties genoemd) creëert, die voortbouwen op de Europese continentale traditie van sociaal overleg en waarin een vakbond dus een nieuwe invulling krijgt van haar taken die meer afgestemd zijn op de noden in de 21ste eeuw. In een tijd waarin zowat alles is gedegradeerd tot koopwaar (niet enkel arbeid), is het noodzakelijk dat echte oppositie een vakvereniging voorstelt die een dergelijke nieuwe invulling van haar taken en wezen krijgt. De bestaande wettelijke toestand daarentegen, zorgt er voor dat een dergelijke vakvereniging niet vanuit het niets kan worden opgebouwd naast de bestaande partijvakbonden die zich goed hebben beschermd tegen mogelijke nieuwe concurrentie. Bovendien is het bereiken van een werkbare ‘Orde’ binnen het huidige vroeg 21ste-eeuwse demoliberale bestel niet (meer) mogelijk.  Dit betekent dat het regime in zijn geheel als politieke vijand beschouwd moet worden, en niet de belangenorganisaties van werknemers op zich die hoe dan ook de zwakste partij zijn binnen het bestaande systeem. Dit betekent volgens N-SA evenzeer dat de klassieke betekenis van syndicale actie en het nut van stakingen niet enkel mogelijk moeten zijn maar zelfs aanmoediging verdienen, zo lang dit demo-liberale systeem niet in de gewenste existentiële crisis verkeert.

Tot slot kan nog ingegaan worden op de – in principe reeds tot op de draad versleten – “kritiek” op de leiding van het N-SA en dan meer bepaald de hoofdcoördinator, zijnde Eddy Hermy, of het op de man spelen in het commentaar op gastsprekers (de heer Reitz). Ik verwijs hierbij naar commentaren van de heer Calle in meerdere artikels van het conservatieve internetmagazine Bitterlemon. Los van het bedenkelijke niveau die dergelijke “kritieken” meestal slechts halen, en het bijgevolg ook dit antwoordartikel niet ten goede komt om erop in te gaan, kunnen we dergelijke zaken maar moeilijk laten passeren. Dat sommigen, onder wie de heer Calle, het moeilijk hebben of hadden met bepaalde debattechnieken kan best zijn en daar is weinig aan te verhelpen, maar in het licht van bovenstaande verduidelijking omtrent nieuw-solidarisme, de verschillende vormen van socialisme en de eraan verbonden terminologie en visies, lijkt het verwijt van “intellectuele oneerlijkheid” die door eerdergenoemde werd gemaakt gewoon fout te zijn. Uiteindelijk komt het wat Eddy Hermy betreft telkens weer uit op de aloude insinuaties omtrent het verleden als Amada-militant. Dit in het licht van het discours en de visie die het N-SA erop nahoudt, wordt logischerwijs verdacht gemaakt door de klassieke extreem-rechtse zijde. Tenslotte is de heer Calle deeltijds medewerker van het VB en partijgenoot Philip Dewinter meende de insinuatie in een vraaggesprek in het links-liberale weekblad Humo van 27 okt. j.l. nog eens fijntjes te moeten overdoen. De voorbeelden van personen in de brede radicale Vlaamse Beweging en daarbuiten (ook in het buitenland) die de overstap maakten van marxistisch-revolutionair naar nationaal-revolutionair zijn veelvuldig. Ook het toekennen van een soort absoluut “Führerschap” aan de “leider” van het N-SA is op niets meer dan gebakken lucht gebaseerd. Het N-SA-bestuur bestaat uit een groep mensen die gezamenlijk, in consensus beslissen en waarvan elk lid heus wel voor zichzelf kan nadenken en voorstellen formuleren, onder wie ondergetekende.

P. Van Damme
Coördinator N-SA

A Call to the Alternative Right

pgottfried1.jpgA Call to the Alternative Right
 

As one might surmise, one doesn’t get rich by serving the HL Mencken Club. Unlike other organizations, which have claimed the “conservative” label, belonging to our club is not a ladder to social acceptability or a means of increasing one’s income or deferred annuity allowance. Investing time and energy in an organization like ours is not a wise career move but something reminiscent of the fate that Mustafa Kemal thought would await Turkish troops as they prepared for the British attack at Gallipoli in 1915: “I am not asking you to stand and fight here; I am asking you to die in your tracks.” I doubt that even my favorite American military commander, the grim Stonewall Jackson, would have given his cavalry troops orders that were as bleak as this. But this is what the future founder of the Turkish republic said to his soldiers. I mention this not because I intend to order anyone to his death, but because I’m underlining the extraordinary dedication shown by those who have joined our ranks.

I’m especially impressed by those young people who are here. To say they have embraced the non-authorized Right indicates more than simply an ideological address. It betokens their willingness to become non-authorized dissenters, that is, to turn their backs on the characteristically stale conversations of media debates and the allowable differences of opinion within the Beltway.

Turning one’s back on this prescribed discourse means forfeiting the perks that flow from those in power. It also means being labeled as a troublemaker or extremist—and for those who persist in their orneriness, this choice may also mean being pushed out of magazines for which one previously wrote and having one’s books snubbed by the arbiters of acceptable political concerns.

A question I sometimes hear from my Republican son is this: Why do we believe that what we discuss here could not be discussed at conservative foundations or, say, on FOX-News? Presumably our conversation would be welcome in such outlets, unless we did something as shocking as badmouthing ethnic minorities. But there are two problems with this contention. One, the fact that we, or at least most of us, are kept from these outlets would suggest that whatever we discuss most definitely does not suit Republican- or neoconservative-sponsored forums or publications. This is the case even though we do not seek to insult any ethnic or religious group.

Two, we are obviously raising issues that for ideological or social reasons movement conservative organizations do not engage. A few illustrations might help make this point. Arguing that democracy and freedom are on a collision course, that modern liberal democracies, which combine universal rights with massive welfare states, necessarily undermine communal and family authorities, and that character and intelligence are largely fixed by heredity are not positions that neoconservative Beltway foundations would be eager to take on.

And if one considers the tight connection between movement-conservatives and the Republican Party, having authorized conservative organizations think outside the two-party box becomes even more problematic. After all, GOP partisans and clients do not want to hamper Michael Steele and the Republican National Committee from reaching out. And “reaching out” in this context means frantically trying to raid the other party’s base. Although GOP operators don’t hesitate to put down Democrats, what this amounts to is railing against the high costs of Democratic programs, while ignoring those incurred by the GOP in power.

Movement conservatives have assumed the task of airbrushing positions that GOP politicians are taking or would like some people to think they’re taking. Movement conservative publicists, for example, tried to convince us that Republican presidential candidates Rudolph Giuliani and Mitt Romney had shifted their social views, shortly before the presidential primaries in 2008. These supposedly genuine conversions had occurred on such delicate issues as late-term abortion, gay marriage, and the treatment of illegal immigrants. Nonetheless we were urged to take these timely shifts seriously, because someone at National Review or Weekly Standard has a thing for Rudy or struck up a friendship with Mitt. We were assured that Rudy was solid on the war and that he had once stiffed some Arab leader who came to New York. I would also call attention to a law prepared by Heritage, and introduced in 2005 by Governor Romney in Massachusetts, making sure that every Massachusetts resident had health insurance. Although this measure has contributed to towering state deficits, former Governor Romney, we are told, had nothing to do with this folly. It was supposedly altered by a Democratic legislation beyond recognition. Thus movement conservatives proclaimed, after they had tried to explain away Romney’s earlier support for gay marriage and other positions identified with the social Left.

Conservative journalists have done the GOP establishment other noteworthy favors. They scolded black civil rights leaders and more recently, former President Carter for suggesting that opponents of Obama’s health care plan are driven by racism. But this torrential indignation was almost entirely absent from GOP congressional leaders. Republican whip in the House, Eric Cantor of Virginia, pointedly refused to respond to the charge against his party. Cantor side-stepped the question when it came up in a press interview. Senate Minority leader Mitch McConnell became equally taciturn when confronted by the same charge.

What speaks volumes about how the GOP is handling Carter’s reproach is what GOP National Chairman Michael Steele said at a black institution Philander Smith College, in Little Rock, on September 22. Steele stressed his party’s urgent need to win over the black vote, and he denounced “the subtle forms of racism” that blacks encounter in both employment and college admissions. The GOP would take steps to deal with these subterranean forms of prejudice, and this audience should have no trouble figuring out what these countermeasures are. At last we can see the real value of movement conservative outcries against Democratic accusations of Republican racism. The apparent outrage is a mere diversionary noise for Republican politicians who are trying to make nice to the civil rights lobby. Some movement conservatives may have noticed this but are too ambitious or too comfortable to point out what is taking place.

Also illustrating the difference between us and movement conservatives, especially those who are joined at the hip with the GOP, are the differing ways in which we and they would react to something that recently happened at my college, which was the introduction of an elaborate plan for diversity training among students and faculty. This is something movement conservatives and the alternative Right may conceivably agree about, but here first impressions can be deceiving. Of course, we and they might scoff with equal disdain at our “Five-Year Plan for Strengthening Campus Diversity”—entitled “Embracing Inclusive Excellence”—which talks about the malice being vented against the handful of Jews, Muslims, and Hindus on campus. There is no evidence of these malicious outbursts, and the only evidence for discrimination cited is a methodologically dubious survey answered by 5 students, who were asked if they noticed white Christian students “glancing” suspiciously at them.

We and the neoconservative establishment would recognize (I hope) that these reports were invalid; and even if they were not, the solution offered, recruiting inner-city populations and providing them with scholarships, would not likely end the marginalization of Hindus. We might also have objected with equal annoyance to the plan for sending our faculty to affirmative-action training sessions; finally our two sides might have ridiculed the lop-sided 5 to1 majority by which the diversity plan passed the faculty—without any expectation that this document would be amended to conform to reality.

But having noted this conceivable area of agreement, I would also stress the divergence between our sides when it comes to extricating ourselves from the multicultural fever swamp. Possible neoconservative alternatives to what I’ve described, by such characteristic advocates as Lynne Cheney, David Horowitz and Bill Bennett, might include a compulsory course on the American heritage. This course would showcase our country as a self-perfecting global democracy; and it would take students on an inspirational journey from the Declaration of Independence’s proclamation that “All men are created equal” through FDR’s Four Freedoms down to Martin Luther King’s “I Have a Dream” speech. This and other similar measures would be used to teach students of all races and creeds “democratic values,” the spread of which, we would be told, is the high moral end for which the U.S. was brought into existence.

We might also hear a recommendation from neoconservative social commentator Dinesh D’Souza, calling for extraordinary efforts to integrate college students of all different ethnic backgrounds. D’Souza would accuse our administration of not going far enough to commit students and faculty to a universally exportable democratic way of life. We would also likely be told that recruiting minorities for the wrong reasons would create islands of separateness on our campus instead of making everyone into a member of the world’s first global nation. Finally we might be warned, perhaps by Cal Thomas or David Horowitz, that lurking behind calls for diversity is a hidden plea for anti-Zionism or a defeatist response to the War On Terror. Such hidden agendas characterize the advocates of diversity; who in any case are deviating from the goal of the saintly Martin Luther King, a firm opponent of all forms of quotas, even for black Americans.

Needless to say, I couldn’t think of anyone on the Alternative Right who would take any of these stands. Our side would stress that not every adolescent can do college work. Colleges that are serious about traditional disciplines might appeal to, at most, 20 percent of the young, which is the percentage of those who have the cognitive skills for doing college-level study. Given the fraudulent product that now passes for college education, it is not surprising that most students and faculty can neither learn nor teach what was once deemed appropriate as college subjects.

One could easily point to speakers at this conference who have taken the positions outlined. These fearless critics have questioned the transformation of American higher education into a devalued consumer product, made available to those who are incapable of real learning. Small wonder that colleges are turned into centers of multicultural social experiments and diversitarian gibberish! What better use could one find for a falsely advertised institution that is trying to entertain young social work, communication and primary education majors while taking their parents’ money!

Neoconservative educationists, we might also hear from the Alternative Right, have their own fish to fry. They are seeking to defend their version of the democratic welfare state as the best of all governments. They also have another far-reaching goal that is explicit or implicit in their college outreach. Neoconservatives, to speak about them specifically, wish to limit any disagreement on campuses generated by their aggressively internationalist foreign policy. In pursuit of this end, they happily falsify or obscure certain embarrassing historical facts, e.g., the massive deceit applied to pushing the U.S. into past foreign wars, and the published views of such neocon heroes as Churchill and Wilson dealing with racial and ethnic differences.

Neoconservatives and their defenders would accuse our side of taking positions that have no chance of being accepted. And they might be right on this last point. Our positions would infuriate the educational establishment and much of the public administration apparatus. Many of us, moreover, are strict constitutionalists, who would argue, to the consternation of the political class, that the federal government is excessively entangled in state and local education. It should be of no concern to public administrators whether a private college has or has not been recruiting designated minorities. Academic education should not be an occasion for government social planners to impose their vision on the private sector. Indeed private colleges, if they were truly concerned about being independent, would reject federal and state aid, and they would do all in their power to keep our managerial government from interfering with their institutions.

Note I am not defending “our side” in these debates. I am only making clear that we and they do not hold the same views about American education or about how its problems are to be engaged. I would also concede the obvious here, namely, that some people on our side of the divide may occasionally work for those on the other side and that the GOP out of power will occasionally get behind books and authors presenting arguments that would not please Republican administrations. Not all who make the arguments of the alternative Right have been subject to equally oppressive sanctions or have been uniformly denied a place in the sun. There are disparities in the ways that the GOP-movement conservative establishment has treated individual critics on the right. What seems beyond dispute however is that we and they disagree fundamentally on a wide range of questions, far more than we in this room would disagree with each other. The conventional conservative movement is therefore justified in recognizing that we are more different from their movement than establishment conservatives are from those on the center left. Movement conservatives and neoconservatives dialogue openly with the liberal Left while ignoring or ridiculing us—and this happens for a very good reason. The authorized version of the conservative movement understands that we and they are not of the same spirit. Unlike them, we do not serve the GOP; nor are we obliged to go along with neoconservative whims and fixations lest we lose our jobs or media outlets.

Most of us have already been confined to outer darkness; and there is no way we can change this unless we force our way, screaming and kicking, into the neoconservative-liberal conversation. The reason we must exist is that we dare to raise the questions that are anathema to the conventional media. And this is the reason that we lack corporate money and that our devotees are not writing for the Wall Street Journal, New York Times or Washington Post. We stand outside the egalitarian, managerial-state consensus, a consensus that in the end moves in only in one direction, which is leftward.

Those who opposed this trend were long an isolated minority, but now dissenters can be heard on talk radio, some of whom are even gaining a widespread popular appeal. This for me is a heartening development, despite the sad fact that most of us remain excluded from this turn of events, and although what is being described lacks any deep intellectual content. Note that nothing in these remarks would question the shallowness and histrionics of what I’m characterizing as the conservative talk-show phenomenon. As anyone who knows me can testify, it is hard for me to listen to Limbaugh or Beck for a protracted length of time without suffering an upset stomach. But what I’m noting here are long-range trends. There are forces on the American Right which have attracted mass-democratic attention, forces that the neoconservative media do not entirely own and which they can only provisionally preempt. This may bedevil our adversaries, especially if such populist heroes as Rush Limbaugh, Glenn Beck and Mike Savage strike out on their own, that is, decide to go after the GOP and the neoconservatives with the same fury that they’ve vented on the Democrats.

As the onetime isolated Right continues to gain adherents and visibility, what increases apace is the possibility for a breakthrough. And as one observes the sudden rise of our group, it seems to me that those who were once marginalized have become like lilies in a junkyard. Let us hope this junkyard, which is the conservative movement of programmed party-liners and GOP hacks, will eventually become something else. Perhaps the lilies that have sprung up amid the trash and debris will come to replace the present movement conservative wasteland—together with its FOX-News contributors.

La subsidiaridad, entre la libertad y la autoridad

LA SUBSIDIARIEDAD, ENTRE LA LIBERTAD Y LA AUTORIDAD

 

Stéphane Gaudin (*)

¿Qué se puede esperar de la subsidiariedad hoy en día? Este principio que levanta muchas interrogantes ha sido puesto de actualidad por el Tratado de Maastricht, así como gracias a numerosas obras que le han sido dedicadas. Puede resultarnos útil por tanto estudiar un poco más a fondo este concepto que ocupa hoy en día un lugar central en el cuerpo doctrinal de los eco-federalistas europeos.

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Durante la Antigüedad el subsidium era un método de organización militar: una línea de tropa permanecía en alerta, por detrás del frente de batalla, dispuesta a dar auxilio en caso de debilidad. Con el tiempo, este método se convirtió en un principio que se extendió al orden filosófico, jurídico, social y político. Sus raíces son muy antiguas, incluso aunque el término "subsidiariedad" parece más reciente. Los trabajos de Aristóteles, de Tomás de Aquino, de Althusius, de Proudhon, la Encíclica Rerum Novarum del Papa León XIII (1891), más la Quadragesimo Anno de Pío XII tienen su inspiración en este principio. Más tarde aún, el Papa Pío XII en su Discurso a los Cardenales, el 20 de febrero de 1946, precisará que: "toda autoridad social es por naturaleza subsidiaria".

LOS ORÍGENES DE LA SUBSIDIARIEDAD

En su obra "Política", Aristóteles describe una sociedad orgánica -la Polis- en cuyo seno encajarían jerárquicamente los grupos: familias - pueblos. Cada uno de estos grupos tratarían de ser autosuficientes, pero sin jamás conseguirlo del todo; a excepción de la Polis, considerada como un espacio político total. Aquí es el único cuerpo autónomo - y por tanto perfecto (la autonomía, Autarkeia, era considerada por los antiguos griegos como sinónimo de perfección) - en el que el ciudadano puede desplegar sus potencialidades, de cara al bien común. Este "estado natural", permite a los grupos de los que está constituido, ser "capaces de sobrevivir en el dominio de sus propias actividades":

1. Actividades que se complementan pero que no se solapan entre sí. De esta forma, la Polis respeta la autonomía (auto nomos: que se da a sí mismo sus propias leyes) de los grupos que son competentes para asegurarse a sí mismos sus propios asuntos. Tomás de Aquino retomará por su parte este antiguo principio, con este importante matiz: la persona sucede a la Polis como "substancia primera" (Boecio). La persona es, a imagen de Dios, única, a través de su voluntad, de su conciencia, de sus actos y de su libre albedrío. "La idea de persona, salida del pensamiento cristiano y hasta cierto punto de la cultura escandinava, consagra la dignidad de esta substancia autónoma, a la que ninguna autoridad le está permitido ignorar su existencia utilizándola como medio".

2. El hombre trasciende por tanto a su a su pertenencia por su relación íntima e individual con Dios, "es miembro de la sociedad en tanto que ser dependiente, obligado a captar de su alrededor, en su entorno social, los elementos vitales y de su desarrollo físico, intelectual y moral. Puesto que es un ser espiritual, cuyas acciones propias son inmanentes , la persona transciende el medio social en el que se encuentra incrustado".

3. Para el pensamiento tomista, el principio de subsidiariedad está al servicio de la persona (que pertenece a pesar de todo a una colectividad) mientras que para Aristóteles, se encuentra al servicio directo de los múltiples grupos - espaciales, "los clanes"; y temporales, los "linajes" - que conforman la Polis.

ALTHUSIUS, PRECURSOR DEL FEDERALISMO

A principios del siglo XVII, un jurista germánico y calvinista, Althusius (1557-1638), rector del Escuela Jurídica de Herborn desde 1602, escribió la gran obra "Política methodice digesta" (1603) que le hará célebre hasta convertirle, hoy en día, en uno de los precursores de la "doctrina" federalista.

Hombre de decisión y de acción, se propone poner en práctica sus ideas en el seno del Síndico de la ciudad portuaria de Emden, en Frisia oriental, para luchar contra la autoridad del conde soberano Enno. Permanecerá en ese cargo hasta su muerte. Althusius es un hombre de su tiempo, que defiende la tradición comunalista y los cuerpos intermedios que son muy numerosos en su época (familias, corporaciones, ligas, gremios, ciudades, provincias...).

Considerando que para ser solidario, es necesario, por encima de todo, ser libre y autónomo, Althusius es un feroz defensor de las comunidades en las que sus miembros respetan las leyes a través del "pacto jurado". Para él, "la política es la ciencia que consiste en unir a los hombres entre ellos para mejor integrarlos en la vida social, de forma que la comunidad permanezca mejor y más fuertemente conservada entre los asociados". A esto es lo que denominará "simbiótica". En esta frase se transluce la influencia aristotélica. Como él, Althusius considera que la sociedad humana no está formada por individuos sino por comunidades que se articulan alrededor de un principio de armonía. Estas comunidades orgánicas, en tanto que "persona representata" (personas morales) son, como cada ciudadano, sujetos de derecho, y gozan de las mismas libertades. Para subsistir, prosperar, realizarse y proyectarse, los hombres se asocian voluntariamente con el fin de paliar los deseos que solos, nunca hubieran podido satisfacer. Si la asociación se reconoce entonces insuficiente, más asociaciones se pueden reunir y se prestan a formar un "jus foederis" (o una confederación) para el bien común. Esta alianza no tiene necesariamente en cuenta necesariamente la proximidad geográfica. Dos comunidades alejadas la una de la otra pueden encontrar intereses e ideales comunes. Dentro de esta perspectiva Althuseriana, solo el pueblo detenta la soberanía "puesto que vive en esferas ya soberanas y casi autosuficientes. La participación en el poder solo se justifica por la autonomía social, que es ante todo un hecho, y se convierte en un derecho por su necesidad natural". Recordemos que en aquella época Alemania era una mosaico de pequeños estados, de ciudades libres y de minúsculos reinos (unos 350). El Estado, en aquella época, no debía intervenir en el interior de estas comunidades; sino que se debía ocupar de asuntos que se delegaban en su competencia, es decir la paz, la defensa, la policía, la moneda. El principio de subsidiariedad era un instrumento jurídico y un freno a las potenciales derivas totalitarias.

Su pertenencia al Síndico de Emden, permite a Althusius concretizar socialmente este principio que había quedado como algo puramente filosófico en Aristóteles y Tomás de Aquino. Este pensamiento se iba a perpetuar de nuevo en la época contemporánea con Proudhon.

LA SUBSIDIARIEDAD EN PROUDHON

El principio de subsidiariedad está en el centro mismo de la teoría federalista de Proudhon; la subsidiariedad, según Proudhon, permite equilibrar las relaciones por lo general tirantes entre la autoridad y la libertad. Demasiada autoridad conduce al despotismo, demasiada libertad a la anarquía.

En su obra: "El Principio Federativo", aparecido en 1862, afirmaba: "El problema político (...), reducido a su expresión más simple, consiste en encontrar el equilibrio entre dos elementos opuestos, la autoridad y la libertad. Todo falso balance se traduce inmediatamente para el Estado, en desorden y ruina, y para los ciudadanos, en opresión y miseria. En otros términos, las anomalías o perturbaciones en el orden social resultan del antagonismo de estos dos principios; éstos desaparecerán cuando los principios se encuentren coordinados de forma que no se puedan perjudicar el uno al otro". Esta "coordinación" ideal se encuentra en el principio de subsidiariedad. El ciudadano oscila entre estos dos polos (autoridad y libertad), con sus competencias, al servicio de las comunidades simples (familias, talleres, sindicatos) y de las comunidades más complejas (comunas, cantones, regiones, Estados). El fin buscado en cada uno de los escalones es siempre el de la autosuficiencia. El ciudadano conserva, en cada nivel, una parcela de soberanía que le convierte en un actor responsable en el seno de una ciudad federalista, ya no natural -el pacto- sino contractual -el contrato-. La forma del contrato prima sobre la del régimen. Para Proudhon, el enemigo principal sigue siendo primordialmente el centralismo estático y nivelador, ya sea democrático o monárquico. El centralismo beneficiándose de la "incapacidad ciudadana" (criterio por lo demás muy subjetivo) intentará progresivamente inmiscuirse en todos los asuntos sociales privados o públicos, transformando así al ciudadano-activo en sujeto-pasivo. El pensamiento proudhoniano nos advierte que la sociedad debe, en la medida de lo posible, superar al Estado si pretende la mejor vida.



En la misma época, los Papas, buscarán inspiración principalmente en los escritos del italiano Taparelli, del obispo alemán Kettele y del francés La Tour du Pin, para elaborar la "doctrina social de la Iglesia". En fin, los tres tienen en común el pretender rehabilitar los cuerpos intermedios. Para Ketteler (1848): "en tanto que familia, la comuna se basta para cumplir su fin natural, por lo que debemos dejarle libre autonomía...El pueblo gobierna por sí mismo sus propios asuntos: es necesario una escuela práctica de política en la administración comunal, donde se reproducen a pequeña escala los asuntos que son tratados a gran escala en los parlamentos. De esta forma el pueblo adquiere la formación política y la capacidad que hace al hombre sentirse independiente", así el autor podrá añadir las bases necesarias a la práctica de una "ciudadanía ascensional". Taparelli sugiere que: "el todo debe venir en ayuda de la parte y la parte del todo, es decir que la parte no desaparezca en
el todo y que el todo no absorba la parte en su unidad". La Tour du Pin, por su parte, propone construir un orden orgánico, natural y jerarquizado, fundado en gran parte sobre las corporaciones. Es necesario, afirma, acabar con el hombre pervertido por el reinado del dinero y de la usura restableciendo una moralidad de la solidaridad e inyectando "Edad Media" en una sociedad cada vez más industrializada. La nostalgia social de La Tour du Pin acabaría inspirando el régimen fuertemente corporativista de Salazar, en Portugal; y en menor medida, el de Mussolini, en Italia.

"EL NUEVO ESTADO" DE FRANÇOIS PERROUX

El economista francés François Perroux ya intuyó los defectos que iban a presentar estos regímenes excesivamente corporativistas, inadaptados a la época contemporánea, indicando que "sin intervención rigurosa del Estado, un sistema corporativo conduce de forma irremisible a la formación de neo-feudalidades económicas". Por tanto, Perroux propone un "Estado Nuevo", puesto que estimaba que el Estado liberal no iba a ser capaz de superar las graves crisis sociales de los años treinta. Fundando, en parte, su teoría económico-social sobre las comunidades de trabajo, compuestas de representantes, de patronos, de asalariados, Perroux estimaba que era necesario contar con un ejecutivo fuerte y una descentralización de funciones sociales: numerosas competencias que hoy en día se confían al Estado estarán aseguradas igual de correctamente, con la misma eficacia y con menor coste en el marco regional, dotado de una existencia, de unos medios de acción efectivos incluidos los relacionados con la comunidad de trabajo. Estos órganos como los engranajes administrativos propiamente dichos se encuentran en situación de asegurar la regularidad y la continuidad de los intercambios entre el Estado y la sociedad. La Revolución Francesa destruiría los cuerpos intermedios, últimos vestigios del feudalismo. El 4 de agosto se hizo tabla rasa de las instituciones medievales para que primaran los engranajes de la República. Poco a poco, el recién creado ciudadano se encuentra solo cara al todopoderoso Estado cada vez más centralizador. El siglo XIX vio surgir el liberalismo triunfante, responsable de numerosos males sociales, siendo el del éxodo rural el más característico. El hombre había dejado de ser la "piedra angular" de la sociedad, puesto que el dinero le había reemplazado. Para contrarrestar esta involución, los Papas van a elaborar la "doctrina social de la Iglesia". Oscilando entre la ingerencia y la no-ingerencia del Estado, la Iglesia critica los excesos del materialismo que disuelve la dignidad, y por tanto la libertad humana. La encíclica Quadragesimo Anno, hace de la subsidiariedad el eje de su reflexión: "Como no se puede quitar a los individuos y dar a la comunidad lo que ellos pueden realizar con su propio esfuerzo e industria, así tampoco es justo, constituyéndose un grave perju¡cio y perturbación de recto orden, quitar a las comunidades menores e inferiores lo que ellas pueden hacer y proporcionar y dárselo a uña sociedad mayor y más elevada, ya que toda acción de la sociedad, por su propia fuerza y naturaleza, debe prestar ayuda a los miembros del cuerpo social, pero sin destruirlos y absorberlos" (Q.A.79; p.93).

UNA "TERCERA VIA" ESPIRITUAL

Los Papas, en particular León XIII, no pretendían una vuelta a una utópica Edad Media, sino que deseaban un proyecto cristiano de cara a la industrialización de una sociedad, una nueva actitud de cara al materialismo y al individualismo que afectaban de forma especialmente dramática a las clases más desfavorecidas; una "tercera vía" espiritual entre el capitalismo y el socialismo a través de un humanismo teocéntrico, respetuoso de la diversidad y de la riqueza del cuerpo social. Precediendo a la Rerum Novarum, la encíclica Humanum Genus (1884) precisaba: "Mas como no pueden ser iguales las capacidades de los hombres, y distan mucho uno de otro por razón de las fuerzas corporales o del espíritu, y son tantas las diferencias de costumbres, voluntades y temperamentos, nada más repugnante a la razón que el pretender abarcarlo y confundirlo todo y llevar a las leyes de la vida civil tan rigurosa igualdad. Así como la perfecta constitución del cuerpo humano resulta de la juntura y composición de miembros diversos, que, diferentes en forma y funciones, atados y puestos en sus propios lugares, constituyen un organismo hermoso a la vista, vigoroso y apto para bien funcionar, así en la humana sociedad son casi infinitas las diferencias de los individuos que la forman; y si todos fueran iguales y cada uno se rigiera a su arbitrio, nada habría más deforme que semejante sociedad; mientras que si todos, en distinto grado de dignidad, oficios y aptitudes, armoniosamente conspiran al bien común, retratarán la imagen de una ciudad bien constituida y según pide la naturaleza."

Así pues, durante mucho tiempo conducido por la Iglesia Católica a través de su doctrina social, el principio de subsidiariedad volverá a la esfera política en el siglo XX gracias al protagonismo dentro de su cuerpo doctrinal que le asignarán los grupos federalistas militantes por una nueva Europa democrática. Este término ya era familiar en los Estados dotados de estatutos de tipo federal o confederal como Alemania (Länder), Suiza (Cantones) o España (Comunidades Autónomas)...Solo el Estado francés, unitario y centralista desde hace siglos parece alérgico a este concepto; hasta el punto de que el término se encuentra aun ausente de la mayor parte de los diccionarios de la lengua francesa. Hoy en día este principio reaparece correlativamente a la construcción del espacio europeo y con la cuestión de la repartición de las competencias entre las Comunidades y sus Estados miembros (especialmente en el famoso artículo 3b del Tratado de Maastricht)[1], y viene bien recordárselo a ciertos "euroescépticos" asustados por la deriva centralizadora y burocrática bruselense.

¿HACIA UN NUEVO CONCEPTO DE SUBSIDIUM?

Pienso no obstante que conviene evitar considerar el principio de subsidiariedad como el remedio milagroso a nuestro estado de deficiencia democrática. Creo que hoy en día no se dan las condiciones mínimas en la base necesarias para una correcta aplicación de este principio. En efecto, las sociedades modernas industrializadas sufren una fragmentación del cuerpo social en una miríada de individuos reagrupados en estructuras antagonistas y que defienden sus intereses a corto plazo. Consustancial a esta atomización social y a la pérdida de referencias identitarias que supone, desaparece progresivamente el sentimiento natural de pertenencia comunitaria, a menudo en favor de una cultura de empresa artificial y pobre. Añadamos a todo esto la pérdida de la reflexión y de espíritu crítico de nuestros contemporáneos, distraídos de sus deberes de ciudadanía por los medios audiovisuales. Además, las estructuras nacional-estatales están dispuestas a integrarse (y desintegrarse) en la "Megamáquina" (Mumford, Bahro, Latouche) de la economía globalizada cuyos principales corolarios son: el nacimiento de las macro-regiones económicas (ALENA, MERCOSUR, UE, ANSEA..), la intensificación de los intercambios de mercancías, de personas y de capitales, la deslocalización de industrias, la sobreproducción, la aceleración de las transferencias de información, la disminución de los costes de transporte y el aumento del poder de las organización internacionales (ONU, OTAN, etc...).

Atenazada entre la mundialización de los objetivos y la individualización de las servidumbres, este tipo de sociedad no está en disposición de preservar su autonomía y su soberanía. En este contexto, las instituciones de Bruselas tienen todas las de ganar al reclamar la utilización de este principio, que de aplicarse hoy en día, entrañaría de hecho, la instauración de un principio de ingerencia insoportable y sin contrapartida en los asuntos nacionales, regionales y locales de los países europeos. El principio de subsidiariedad necesita para ser efectivamente aplicado la previa recomposición del cuerpo social alrededor de principios mutualistas. Esta recomposición ya está en curso, pero irá cada vez más contra las instituciones legales nacional-estatales y europeas. La legítima voluntad de los pueblos a hacerse cargo de su destino a través de la aparición de estas nuevas comunidades generatrices de solidaridades concretas y de verdadera convivencia, se nutrirá irremediablemente del sistema de partidos y de lobbys portadores de ideologías obsoletas, y que son hoy en día, los únicos beneficiarios del sistema oligárquico vigente.


[1]

 

" La Comunidad actuará dentro de los límites de las competencias que le atribuye el presente Tratado y de los objetivos que éste le asigna.

En los ámbitos que no sean de su competencia exclusiva, la Comunidad intervendrá, conforme al principio de subsidiariedad, sólo en la medida en que los objetivos de la acción pretendida no puedan ser alcanzados de manera suficiente por los Estados miembros, y, por consiguiente, puedan lograrse mejor, debido a la dimensión o a los efectos de la acción contemplada, a nivel comunitario.

Ninguna acción de la Comunidad excederá de lo necesario para alcanzar los objetivos del presente Tratado."

Artículo 3 B del Tratado de la Comunidad Europea,(TCE):

 
 (*) Stéphane Gaudin para Breizh-2004, Movimiento Federalista Bretón y Europeo.

lundi, 16 novembre 2009

Les leçons de Vladimir Volkoff sur la désinformation

volkoff.jpgLes leçons de Vladimir Volkoff sur la désinformation

 

Intervention de Philippe Banoy lors de la 10ième Université d’été de “Synergies Européennes”, Basse-Saxe, août 2002.

 

I. Volkoff et la subversion

 

Vladimir Volkoff, fils d’immigrés russes en France, est principalement un romancier prolixe, qui s’est spécialisé dans le roman historique, dont les thèmes majeurs sont la Russie et la guerre d’Algérie, et dans le roman d’espionnage.

 

Lorsqu’il servait à l’armée, il a entendu, un jour, une conférence sur la guerre psychologique. Pour la petite histoire, il fut le seul, parmi ses camarades, à avoir apprécié ce cours. Ses compagnons tournaient ce genre d’activité en dérision. Volkoff, lui, s’est aussitôt découvert un intérêt pour ces questions.

 

Son héritage familial le  prédisposait à être attentif aux vicissitudes du  communisme et aux techniques mises au point par les Soviétiques en matières de manipulation. Poursuivant ses investigations, Volkoff  découvre le livre de Mucchilli, intitulé La subversion, où la guerre subversive se voit résumée en trois points:

◊ 1. Démoraliser la nation adverse et désintégrer les groupes qui la composent.

◊ 2. Discréditer l’autorité, ses défenseurs, ses fonctionnaires, ses notables.

◊ 3. Neutraliser les masses pour empêcher toute intervention spontanée et générale en faveur de l’ordre établi, au moment choisi pour la prise non violente du pouvoir par une petite minorité. Selon cette logique, il convient d’immobiliser les masses plutôt que de les mobiliser (cf. : les révolutionnaires professionnels de Lénine, avant-garde du prolétariat).

 

Après le succès de son roman Le retournement, dont le thème central est l’espionnage soviétique en France, Volkoff est engagé par le SDECE pour écrire un autre roman, sur la désinformation cette fois et avec la documentation que le service avait rassemblée. Volkoff commence par réfléchir, puis accepte cette mission. Résultat: son livre intitulé Le montage. Il connaît vite un succès important. Sollicité par ses lecteurs, qui veulent savoir sur quoi repose ce livre, il publie Désinformation, arme de guerre, une anthologie de textes sur le sujet. Rappelons  que Volkoff, dans Le montage, fait référence à Sun Tzu et à l’objectif du stratège de l’antiquité chinoise : gagner la  guerre avant même de la livrer. Citations : «Dans la guerre, la meilleure politique, c’est de prendre l’Etat intact; l’anéantir n’est qu’un pis aller». «Les experts dans l’art de la guerre soumettent l’armée ennemi sans combat. Ils prennent les villes sans donner l’assaut et renversent un Etat sans opérations prolongées». «Tout l’art de la guerre est fondé sur la duperie». Sun Tzu, et à sa suite, Volkoff, formule ses commandements :

◊1. Discréditez tout ce qui est bien dans le pays de l’adversaire.

◊2. Impliquez les représentants des couches dirigeantes du pays adverse dans des entreprises illégales. Ebranlez leur réputation et livrez-les, le moment venu, au dédain de leurs concitoyens. 

◊3. Répandez la discorde et les querelles entre citoyens du pays adverse.

◊4. Excitez les jeunes contre les vieux. Ridiculisez les traditions de vos adversaires [Volkoff ajoute : Attisez la guerre entre les sexes].

◊5. Encouragez l’hédonisme et la lassivité chez l’adversaire.

 

Comme le fait remarquer Volkoff, la subversionne peut faire surgir du néant ce type de faiblesses. Comme dans toute pensée de l’action indirecte, il faut savoir détecter, chez l’adversaire, toutes formes de faiblesse et les encourager. Tout peuple fort, en revanche, échappe à cette stratégie indirecte; il n’est pas aussi facilement victime de ces procédés.

 

2. De ce que n’est pas la désinformation

 

Avant d’expliquer ce que n’est pas l’information, il convient de formuler une mise en garde et de bien définir ce qu’est l’information à l’âge de la “société de l’information”. Le militaire distingue l’information, d’une part, et le renseignement, d’autre part. L’information est ce qui est recueilli à l’état brut. Le renseignement, quant à lui, est passé par un triple tamis : a) l’évaluation de la source (est-elle fiable ou non fiable, est-elle connue ou inconnue, quelles sont ses orientations philosophiques, politiques, religieuses, etc.?); b) l’évaluation de l’information (est-elle crédible ou non?); c) le recoupement de l’information. Dans toute information ou pour tout renseignement, il y a un émetteur et un récepteur. Les questions qu’il faut dès lors se poser sont les suivantes : Pourquoi l’émetteur émet-il son message? Pourquoi le récepteur est-il visé par l’émetteur et pourquoi écoute-t-il son message? L’officier de renseignement, en charge du recoupement, doit savoir que chacun est marqué par sa subjectivité. Il doit pouvoir en tirer des conclusions. Ce qui nous amène à constater que l’objectivité, en ce domaine, n’existe pas. Ceux qui prétendent donner une information objective sont soit idiots soit malhonnêtes.

 

volk1938773693_small_1.jpg◊A. LA DéSINFORMATION N’EST PAS DE LA PROPAGANDE.

Quand on fait de la propagande, on sait que c’est de la propagande. On sait qui émet et on sait qui est visé. La propagande est claire. Elle vise à convaincre en semblant s’adresser à l’intelligence mais, en réalité, elle vise les émotions.

◊B. LA DéSINFORMATION N’EST PAS DE LA PUBLICITé.

Le but de la publicité n’est pas de tromper mais de vendre. Le mensonge n’est qu’un moyen d’influencer le consommateur. Elle s’adresse aux pulsions et à l’inconscient des gens. La propagande feint de convaincre, alors que la  publicité cherche à séduire, et son but est clair : “achetez Loca-Laco” ou “votez Clinton”.

◊C. LA DéSINFORMATION N’EST PAS DE L’INTOXICATION.

Elle ressemble à la désinformation puisqu’elle vise, via des informations, à tromper et à manipuler subtilement une cible. Mais l’intoxication ne vise que les chefs, pour les amener à prendre une mauvaise décision, qui doit causer leur perte.

 

3. Qu’est ce que la désinformation?

 

La désinformation dépend de trois paramètres:

◊1. Elle vise l’opinion publique, sinon elle serait de l’intoxication.

◊2. Elle emploie des moyens détournés, sinon elle serait de la propagande.

◊3. Elle a des objectifs politiques, intérieurs ou extérieurs, sinon elle serait de la publicité.

Ce qui nous conduit à la définition suivante : la désinformation est une manipulation de l’opinion publique, à des fins politiques, avec une information traitée par des moyens détournés.

 

4. Comment la désinformation est-elle conçue?

 

Au niveau de la méthode, nous relevons une analogie avec la publicité.

◊A. On doit définir qui est le bénéficiaire de l’opération : c’est celui pour qui l’opération est montée.

◊B. On doit disposer de celui qui va réaliser l’opération : l’agent (CIA ou KGB).

◊C. On doit procéder à une étude de marché : quel message va-t-on utiliser  pour arriver au but et comment toucher la cible?

◊D. On doit déterminer les supports : la télévision, la presse, une pétition, internet, un intellectuel, etc.

◊E. On doit déterminer les relais : les “idiots utiles” et les agents payés dans les sphères de la télévision, de la presse écrite, des pages de la grande toile, les artistes, les acteurs, les écrivains, etc.

◊F. On doit déterminer les caisses de résonnance : tous les individus qui, touchés par l’information fausse, la répandent en toute bonne foi, la lancent et la propagent sur un mode idéologique ou autre.

◊G. On doit déterminer la cible : elle peut être la population du pays adverse dans son ensemble; elle peut aussi viser une partie de la population (par exemple, les enseignants) voire des pays tiers (p. ex. : l’opération “swastika” à la fin des années 50, pour faire croire à une résurgence du nazisme en Allemagne).

 

La diabolisation est une forme de désinformation, car elle vise à détruire l’image de l’adversaire (ou de ses chefs) par des méthodes pseudo-objectives. Quelles sont-elles? Quelques exemples : a) Diffuser de faux  documents “officiels”; b) diffuser de fausses photos ou de vraies photos décontextualisées (exemples récents : un cliché de morts serbes avec une légende qui les désigne comme “kosovars”); c) fabriquer de fausses déclaration ou un montage; d) diviser les antagonistes en “bons” et en “mauvais”, en donnant à ce manichéisme des airs “objectifs”; dans la foulée, on passe sous silence les crimes des “bons”, et on s’abstient de toute critique à leur égard. 

 

5. Comment la désinformation se pratique-t-elle ?

 

◊ a. On nie le(s) fait(s) ou on utilise le mode interrogatif ou dubitatif quand on les évoque. Les  formules privilégiées sont : “On dit que... mais il s’agit d’une source serbe, ou néo-nazie, ou paléo-communiste, ou...”. On discrédite ainsi immédiatement l’information vraie que l’on fait passer pour peu “sûre”.

◊ b. On procède à l’inversion des faits.

◊ c. On procède à un savant mélange de vrai et de faux.

◊ d. On modifie le motif d’une action, par exemple, l’agression des Etats-Unis et de l’OTAN contre la Serbie a été présentée non pas comme une action militaire classique mais comme une “mission humanitaire”. Pour l’Irak, la volonté de faire main basse sur les réserves pétrolières du pays est camouflée derrière une argumentation reposant sur le “droit international”.

◊ e. On modifie les circonstances ou on ne les dit pas. Ce procédé est souvent utilisé dans les informations relatives au conflit israélo-palestinien ou à la guerre civile en Irlande du Nord.

◊ f. On noie l’information vraie dans un nuage d’informations sans intérêt.

◊ g. On utilise la méthode de la suggestion, conjuguée au conditionnel. Exemple : “Selon nos sources, il y aurait eu des massacres...”.

◊ h. On accorde une part inégale à l’adversaire dans les temps consacrés à l’information. Un exemple récent : on a accordé trois minutes d’antenne à Le Pen au second tour des Présidentielles françaises du printemps 2002, ainsi qu’à Chirac, mais, avant cette distribution “égale” du temps d’antenne, on a présenté pendant vingt minutes des manifestations anti-Le Pen.

◊ i. On accorde parfois la part égale en temps, en invitant les deux camps à s’exprimer : le premier camp, qui est dans les bonnes grâces des médias, est représenté par un universitaire habitué à parler sur antenne; l’autre camp, auquel les médias sont hostiles, est alors représenté par un chômeur alcoolique.

◊ j. On estime que chaque camp a une part égale en responsabilité. Dans le cas du conflit israélo-palestinien, les Palestiniens lancent des pierres, les Israéliens ripostent avec des chars. Le conflit est jugé insoluble : les deux camps sont de “mauvaise volonté”. Ainsi le conflit perdure au bénéfice du plus fort.

◊ k. On présente l’information en ne disant que la moitié d’un fait. Exemple pris pendant la crise du Kosovo : “Les Serbes ont utilisé des gaz”. Sous-entendu : des “gaz de combat” ou des “chambres à gaz”. En réalité, la police serbe avait dispersé une manifestation avec des gaz lacrymogènes.

 

6. Comment réagir face à la désinformation ?

 

◊ 1. Il faut d’abord rester modeste et ne pas prétendre simplifier à outrance des réalités complexes. L’homme libre, l’esprit autonome, pose un jugement historique (généalogique, archéologique), profond, sur les réalités politiques du monde.

◊ 2. Il faut, dans tous les cas de figure, rester méfiant. Il faut systématiquement recouper les informations, s’interroger sur la plausibilité d’une information médiatique, se méfier des répétitions et des appels systématiques à l’émotion.

◊ 3. Il faut s’informer soi-même, lire des ouvrages élaborés sur les peuples, les régions, les régimes, les situations incriminées dans les grands médias. Une culture personnelle solide permet de repérer immédiatement les simplifications journalistiques et médiatiques.

◊ 4. Il faut lire des ouvrages et des journaux ouvertement idéologiques, non conformistes, qualifiés de “marginaux”, car ils expriment des vérités autres, mettent en exergue des faits occultés par les grands consortiums médiatiques. Lire ces ouvrages et cette presse doit évidemment se faire de manière intelligente et critique, pour ne pas tomber dans des simplifications différentes et tout aussi insuffisantes.

◊ 5. Il faut créer et animer des cercles alternatifs d’analyse, afin de ne pas laisser “sous le boisseau” les vérités que l’on a glânées individuellement par de bonnes lectures alternatives.

 

Philippe BANOY.

jeudi, 12 novembre 2009

L'"Arthasastra" de Kautilya: aux sources de la pensée politique indienne

kautilyas_arthasastra_and_social_welfare_idi618.jpgL'«Arthasastra» de Kautilya: aux sources de la pensée politique indienne

 

L'Arthasastra de Kautilya est un grand texte classique indien en sanskrit consacré à l'art de gouverner. Il fut traduit intégralement en anglais pour la première fois en 1915. Les éditions du Félin viennent d'en publier une partie en français. Gérard Chaliand écrit dans son avant-propos: «L'Arthasastra  est un monument considérable qui témoigne de la puissance et de l'originalité de la pensée politique indienne. L'Arthasastra est un traité sur l'Etat, le pouvoir et l'usage de la force. Ecrit matérialiste, pourrait-on dire, aux antipodes d'une conception théocratique, le traité de Kautilya pourrait être qualifié de machiavélien si l'anachronisme n'était flagrant, le discours indien précédant la réflexion du Florentin d'environ quinze siècles (...). Selon la tradition, le traité serait l'œuvre du ministre et conseiller du premier empereur de la dynastie des Maurya, contemporain d'Alexandre le Grand, qui régna au dernier quart du VIième siècle avant notre ère. En fait, la datation de l'œuvre est incertaine (elle varie du Iier avant au IVième après notre ère). On tend aujourd'hui à la situer aux alentours du Iier siècle. Bref, l'ouvrage a environ deux mille ans et son titre, Artha,  désigne la prospérité et sa recherche, quête éminemment matérielle, qui, pour l'Etat, consiste à acquérir et conserver richesse et puissance. L'Arthasastra, ou science du politique, est un traité comprenant quinze livres  —soit cinq cents pages—  dont on ne trouvera ici qu'une modeste partie, mais qui me semble essentielle si l'on veut saisir l'essence de ce chef-d'œuvre politique. Car l'Arthasastra  est à la naissance du politique ce que Sun Zi est à la naissance de la stratégie: une élaboration d'une originalité absolue» (J. de BUSSAC).

 

Kautilya, Arthasastra. Traité politique et militaire de l'Inde ancienne, Editions du Félin, 1998, 122 pages. 100 F.

 

lundi, 09 novembre 2009

Lucio Caraciolo: De l'autonomie du point de vue géopolitique

3_2009_Eurussia_280.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1998

Entretien avec Lucio Caracciolo, directeur de la revue Limes (Rome)

De l'autonomie du point de vue géopolitique

 

Pendant très longtemps il était politiquement incorrect de parler de géopolitique. Les vainqueurs de la Deuxième Guerre mondiale, dans l'urgence de dénazifier l'Europe avaient associé de façon exclusive cette importante discipline scientifique aux théories du Lebensraum (de l'espace vital) propagées par les théoriciens du Reich hitlérien. Finalement en Italie aussi, depuis quelque années, on peut à nouveau approcher cette discipline avec sérénité notamment grâce à une excellente revue trimestrielle de géopolitique, Limes, dirigée par Lucio Caracciolo. Dans le sillage du succès qu'elle a obtenu, de plus en plus souvent des publications à caractère géopolitique paraissent dans les librairies. La dernière en ordre chronologique est le Glossaire de géographie et de géopolitique  (Société Editrice Barbarossa), éditée par Enrico Squarcina. Sur les thématiques géopolitiques, nous avons interviewé le directeur de Limes.

 

Docteur Caracciolo, pouvez-vous nous résumer les contenus et les finalités de cette discipline?

 

Quand Michel Korinman, qui dirige avec moi Limes, m'a soumis le projet de lancer une revue italienne de géopolitique (depuis novembre 1996 nous avons une édition jumelle en France), nous avons expliqué immédiatement, à nous-mêmes et aux amis qui ont voulu participer à cette aventure, les termes originaux de notre approche. Nous n'avons pas la prétention d'élaborer les lois de l'histoire et encore moins de faire de la “science”. Beaucoup plus modestement, nous essayons d'analyser des cas particuliers dans des conflits de pouvoir sur base spatiale, donc pouvant être reproduits cartographiquement. Nous ne pensons pas pouvoir généraliser les cas singuliers en constantes universelles. Nous préférons examiner la façon dont les différentes parties en conflit  —pacifique ou militaire—  mandatent et utilisent des représentations politiques respectives pour réaliser leurs projets. Par exemple: Grande Serbie contre Grande Croatie, ou même Padanie contre Italie, et cela en nous efforçant de mettre les parties dans le même plan moral, même s'il est clair que chacun de nous a ses préférences et ses idées. C'est pourquoi dans Limes vous trouverez des points de vue de droite et de gauche, des positions laiques ou religieuses émanant de personnalités différentes quand elles ne sont pas carrément opposées, depuis Romano Prodi à Gianfranco Miglio, de Luciano Canfora à Virgilio Ilari, de Geminello Alvi à Sergio Romano. Ce n'est qu'en les confrontant dans leur dynamicité qu'on peut comprendre les raisons des uns et des autres.

 

En cette époque de globalisation, la conception de «nation» a-t-elle encore une signification quelconque? L'Italie peut-elle être considérée une nation à part entière?

 

Il est certain que la nation est toujours très importante. Et il est tout aussi vrai que l'Etat national, en tant qu'objet de relations internationales, compte toujours beaucoup. Mais je reste très prudent quand il s'agit de définir notre époque actuelle comme l'“époque de la globalisation”. Laissons aux historiens du futur le soin des interprétations. Il est clair que la croissance de l'interdépendance économique et culturelle multiplie les sujets géopolitiques. Aujourd'hui nous avons des régions, des provinces et même des villes possédant une vision géopolitique propre, et pour légitimer ces visions, elles aiment se donner le nom de “nations”. C'est le cas, entre autres, de la Padanie, dont je n'ai pas encore bien cerné le territoire (mais dans ce cas c'est moi qui devrait vous interviewer...).

 

Pour ce qui est de l'Italie, c'est une nation qui existe, en tant qu'Etat, depuis seulement 136 ans, même si l'idée d'Italie a 2000 ans d'histoire: elle descend de la réforme géopolitique de l'empereur Auguste dans le cadre de l'empire romain. Je ne connais pas beaucoup de nations aussi profondément enracinées dans le passé, sauf la Chine. Je suis convaincu que l'Italie durera encore longtemps, même si je n'ai pas de mal à imaginer une nation italienne intégrée dans un Etat européen.

 

Dans le dernier numéro de Limes, vous vous occupez de la politique étrangère de la Ligue du Nord en affirmant qu'elle se base sur les principes de l'ethno-fédéralisme. Vous citez aussi une pensée de Bossi: «C'est dans la nation, c'est-à-dire au sein d'un peuple ethniquement homogène, qu'on peut agir pour le mieux, mus par un meilleur élan affectif». Quelle est votre opinion?

 

77.jpgLa philosophie néo-existentialiste du sénateur Bossi dépasse largement mes facultés d'intelligibilité. Personnellement, j'éprouve un élan affectif majeur dans une relation amoureuse plutôt que dans le rapport avec ma nation. De plus, j'ai le vilain défaut de ne pas adhérer aux principes de l'ethno-fédéralisme, peut-être parce qu'en dépit de tous mes efforts, je ne les comprends toujours pas. Par ma nationalité, je suis italien, mais cela ne me suffit pas pour reconnaître les Italiens comme un peuple ethniquement homogène. Je ne sais pas trop ce qu'est une nation ethnique mais je suis certain que si elle devenait cette nation, je partirais ailleurs. Je suis encore partisan de l'idée qu'un état ethnique ne peut pas être un état libre et démocratique. Mais je n'ai pas la prétention de convaincre les liguistes et je suis très curieux d'entendre leurs argumentations.

 

Pouvez-vous vous exprimer sur le projet de créer des “eurorégions”, dans le style de celle souhaitée depuis longtemps par les Tyroliens?

 

Je ne suis ni favorable ni totalement défavorable aux eurorégions en tant qu'idée abstraite. Ce qui m'intéresse, ce sont plutôt les eurorégions singulières et, surtout, l'usage géopolitique qu'on en fait. Comment être contre ce projet, lorsqu'il s'agit de renforcer les liens économiques entre pays voisins ou d'améliorer les infrastructures de connexion entre frontières? Par contre, je suis préoccupé par le projet d'eurorégions qui, de façon claire ou occulte, remet en question les frontières européennes actuelles, en favorisant le surgissement de nouveaux murs sur le Continent. Si, par exemple, la création de l'eurorégion Tyrol signifie en clair rouvrir le contentieux entre l'Italie et l'Autriche, alors je suis totalement contre.

 

Est-ce que la présence de l'OTAN sur le territoire européen est encore justifiée? Que pensez-vous de l'élargissement de l'Alliance Atlantique?

 

L'OTAN représente une Amérique européenne et une Europe américaine. Je suis persuadé qu'après la fin de l'URSS nous avons encore besoin d'une présence américaine en Europe, pas tellement pour faire face à une invasion en provenance de l'Est mais plutôt pour stabiliser le Continent et éteindre les foyers de guerre, surtout dans l'aire adriatico-balkanique. Evidemment, nos intérêts ne correspondent pas toujours à ceux des Américains, c'est pourquoi nous devons faire entendre notre voix au sein de l'Alliance, tout en sachant que le poids qui donne la mesure est toujours l'Amérique. Quelle alternative? Une superpuissance Européenne? Une Allemagne comme superviseur du Continent? Mieux vaut rester sérieux et chercher à cultiver un rapport atlantique tant que ça dure. Je suis contre l'élargissement de l'OTAN pour plusieurs raisons (nouvelles divisions au cœur de l'Europe, humiliation gratuite de la Russie, marginalisation de l'Italie), mais surtout parce que je crains que cela n'entraîne un relâchement dans l'Alliance, donc une dégradation évidente de son bon fonctionnement. Cela finirait par donner de bons arguments à ceux qui, en Amérique, veulent liquider l'OTAN.

 

Des courants de pensée plutôt critiques vis-à-vis d'une future unification monétaire commencent à se propager. Pensez-vous qu'une Europe principalement économique et monétaire sera profitable aux peuples?

 

Le dernier volume de Limes  est consacré à cette problématique. Personnellement, plus j'y pense et plus je doute que l'Euro puisse servir à unir l'Europe. Au contraire, après Maastricht (mais pas uniquement à cause de Maastricht), je vois croître les tendances désagrégatrices, les particularismes, les nationalismes, l'inaptitude à trouver un point de médiation entre les intérêts nationaux. De ce fait, dans la meilleure des hypothèses, la préférence ira au projet anglais (aujourd'hui soutenu aussi par les Allemands) qui préconise une grande aire de libre-échange qui s'étend de l'Atlantique aux Balkans. Projet aussi légitime (et peut-être même réaliste...) qu'éloigné de l'idée classique d'Europe.

 

Limes s'est souvent préoccupé des rapports entre les Européens et le monde islamique. D'après vous, à quels scénarios pouvons-nous nous attendre dans un futur rapproché?

 

limes-la-cina-spacca-loccidente.jpgJe ne connais pas le futur, mais je crains que la schématisation du conflit de civilisation, inventé par le politologue américain Samuel Huntington, puisse un jour prévaloir. Si on suivait ce type de raisonnement, tout le monde serait perdant, aussi bien les Européens que les Islamiques. En outre, il n'existe pas d'ensemble géopolitique spécifique pour la détermination du monde islamique et nous n'avons aucun intérêt à promouvoir sa création. Si je peux avancer une suggestion, je dirais qu'il faut éviter à tout prix que le rapport avec le monde arabe et le monde islamique soit géré par des soi-disant experts (largement rémunérés), qui nous empêchent d'entendre la véritable voix des Arabes et des Islamiques.

 

Croyez-vous qu'il existe une possibilité quelconque pour que les nations voisines, telles l'Allemagne et l'Autriche, reconnaissent un jour la Padanie indépendante?

 

Dans Limes  vous trouverez des idées très divergentes sur la Padanie, y comprises naturellement celles de ses supporters. Nous avons même demandé au sénateur Bossi le privilège d'un entretien géopolitique sur la Padanie, dans le but d'expliquer clairement cet chose mystérieuse. Par exemple: quelles sont ses frontières? Comment pense-t-il légitimer son indépendance et se détacher du reste de l'Italie? Comment est-il possible de désagréger l'Italie tout en intégrant l'Europe? Je souhaite que bientôt le sénateur Bossi veuille apporter réponse à ces questions en nous honorant d'un interview. Quant à la reconnaissance de la Padanie de la part de l'Autriche et de l'Allemagne, j'ai bien peur que cela ne relève la possibilité zéro, à moins d'être d'accord pour briser l'Union Européenne ou d'imaginer un consensus italien à l'indépendance padane.

 

(propos recueillis par Gianluca Savoini pour le journal Padania, Milan).

 

samedi, 07 novembre 2009

Mei '68: de mythe, de realiteit, en de hormonen

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Mei ’68: de mythe, de realiteit, en de hormonen


 

  
Lezing gegeven in het Vlaams Parlement, 17 mei 2008

 


 Johan Sanctorum / http://www.visionair-belgie.be/

   

Van kostschoolopstand tot teletubbie-dictatuur

Ik dank de organisatoren van dit colloquium voor de uitnodiging. Een ook ter linkerzijde goed aangeschreven filosoof erbij halen, het blijft een risico, je weet nooit wat de man gaat vertellen, en het pleit alleszins voor de breeddenkendheid van de initiatiefnemers. En dat cordon sanitaire doorkruisen,- het blijft zoals U weet een geliefde hobby van me.

Ik zal het vandaag kort hebben over drie zaken die me nauw aan hart liggen,- en ik denk dat ik ook voor het grootste deel van deze achtbare vergadering mag spreken,- namelijk politiek, cultuur en sex.

Mei ’68, het betekent voor ieder van ons iets anders, in zoverre zelfs, dat ik me afvraag of het wel als algemeen begrip de geschiedenis zal halen.  Ik was toen veertien en herinner me vaag zwart-wit TV beelden van Franse studenten die met straatkasseien gooiden, Sovjettanks in Praag, gitaarspelende hippies in Berkeley, anti-Viëtnambetogingen zowat overal, kabouters in Amsterdam, en niet te vergeten: de tirades tegen het establishment vanwege studentenleider Paul Goossens in Leuven, naderhand topfiguur van datzelfde politiek-cultureel establishment, en onlangs door heel de pers uitgewuifd als gepensioneerd Belga-journalist.

Die metamorfose van rebel tot boegbeeld van een ‘links-progressieve’ elite, daar heb ik het straks nog over. Maar wat hebben al deze evenementen, van Praag tot Berkeley, eigenlijk gemeen? Vrijwel niets. Behalve dat ze zich allemaal in het jaar 1968 afspeelden en schone plaatjes opleverden. Het zijn eigenlijk vooral de media, met het nieuwe medium televisie op kop, die er een verzamelnaam aan gegeven hebben, als hing er toen wereldwijd iets in de lucht. En het zijn ook de media die vandaag hun archieven oprakelen om dit non-event met een nostalgisch parfum te besproeien. De ’68-gebeurtenissen leverden immers de beste TV-beelden van die decade op, naast de Vietnam-oorlog natuurlijk. De mediatieke hype die zo gecreëerd werd, vanuit een aantal onsamenhangende gebeurtenissen, leidde tot een historische mythe waar de protagonisten zelf in gingen geloven. Tot op vandaag.

Er stelt zich dan ook een dringende behoefte aan een kritische lezing van de feiten en een demystificatie van het begrippenkader. Een poging dus tot echte historische kritiek die ballonnen doorprikt, mechanismen ontrafelt en processen reconstrueert. Uit die reconstructie blijkt namelijk vooral de inhoudelijke leegte, de gewichtloosheid en het Narcistisch-puberaal karakter van heel dat Franse mei-68 gebeuren.  Het heeft een hypotheek heeft gelegd op het politiek bewustzijn van vandaag, ons taalgebruik, de beeldcultuur, de zogenaamde vrije sexuele moraal. Het dient overigens gezegd dat tenoren uit de Franse denkwereld, zoals de psychoanalyticus Jacques Lacan, ook al die ballon doorprikt hebben. In 1969 al sneerde hij zijn Maoistische studentenpubliek toe dat ze het woord 'revolutie' hebben uitgehold en dat ze binnenkort dat establishment, waartegen ze zo tekeer gingen, zouden overnemen. Profetische woorden...

Neem nu inderdaad het woord ‘revolutie’ zelf. Het is niet toevallig dat sinds die periode alles en iedereen zich ‘revolutionair’ is beginnen noemen,- de weergaloze inflatie van deze term weerspiegelt al het licht soortelijk gewicht van de politieke statements uit die tijd. Sinds het ultrafijn borsteltje dat Chanel bij de mascara ‘Chanel Inimitable’ meelevert, door de producent zelf als ‘revolutionair’ wordt bestempeld, is het misschien nuttig om dat woord eens tot zijn essentie te herleiden.

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Historisch gezien zijn er namelijk maar twee vormen van authentieke revoltes, namelijk de hongeropstand en de vrijheidsbeweging. Op straat komen omdat Uw kinderen van de honger creperen, dàt is een goede reden om met kasseien te gooien. Ik ben in dat opzicht een Marxist. De tirannenmoord anderzijds, een instinctief-liberaal vrijheidsgebaar tegen de verknechting, is een tweede archetype van de revolte. De Franse revolutie van 1789 verenigde die twee, dat gaf haar het historisch momentum. Wat men achteraf ook moge beweren: de intellectuelen liepen er maar achter, en zaten op café toen de hongerige meute de Bastille bestormde.

Honger en/of verknechting. De maag en het hart. De probleempjes van de Grote Revolutie ontstaan echter daar, waar er eigenlijk geen objectieve voorwaarden voor de revolte aanwezig zijn, maar waar de jeugdige hormonen toch beginnen op te spelen. Op dat moment ontstaat er een soort verkleutering, tot op een niveau van kinderachtige charades, collectieve verbrandingssessies van testosteron, Narcistische opflakkeringen van gelegenheidsredenaars, allerlei ludieke acties rond ‘emancipatie’-issues, kat-en-muisspelletjes met de politie om toch maar de schijn van een repressief klimaat te creëren in de hoop dat er eentje zijn matrak bovenhaalt en er een TV-camera in de buurt is, kortom: er wordt een virtuele realiteit gecreëerd die, in het geval van mei-68,  zichzelf opblies tot ‘een historisch moment’. En omdat er geen honger in het spel was, en eigenlijk ook geen echte repressie, althans niet in het 'revolutionaire' epicentrum Parijs, bedacht men ter plekke dan maar een derde soort revolte die hier van toepassing leek, nl. de 'culturele revolutie'.  Een lege doos, zo blijkt nu.

Want uit heel de reconstructie van het discours uit die dagen blijkt, hoe de jongens en meisjes wanhopig zochten naar een politiek-culturele legitimatie voor hun hormonenopstoot. We weten ondertussen allemaal hoe het is begonnen: in Nanterre wilden de mannelijke kotstudenten op de meisjesslaapkamers geraken. Een kostschoolopstand, als het ware. Pas toen dat niet lukte, werden de grote retoriek en het revolutionaire programma bovengehaald. Het staat inderdaad nogal idioot om het aftreden van een regering te eisen omwille van vlinders in de buik. Men afficheerde het dus als een ‘culturele revolutie’, een algemene Umwertung aller Werte, een zaak van vrouwenemancipatie, sexuele vrijheid, artistieke vrijheid, om tenslotte zelfs de arbeiders in de Renault-fabrieken wijs te maken dat dit hun strijd was

De ironie van de geschiedenis is dus, dat er rond 1968 een aantal min of meer authentieke verzetsbewegingen het nieuws haalden (de Praagse Lente, de anti-Vietnamdemonstraties, Leuven-Vlaams…), maar dat het meest gemediatiseerde feit, datgene waarvan de beelden heel de wereld rondgingen, nl. de Parijse studentenopstand, weinig meer was dan een hormonaal aangestuurd straattheater.

Los van bv. de gebeurtenissen in Praag en het protest tegen de Vietnamoorlog, vormden de Parijse studentenrellen van mei ’68 in essentie weinig meer dan een ludieke vadermoord, een uit de hand gelopen testosteron-opstoot vanwege een zorgeloze jeugd met tijd teveel. De zoektocht naar een politieke legitimatie voor deze quasi-revolutie eindigde in een volstrekt leeghoofdig ‘progressisime’, dat op zijn beurt de politiek-correcte ideeëndictatuur van de jaren ’90 zou voortbrengen. Het handhaven van deze bewustzijnsvernauwing was dé voorwaarde voor de ’68-generatie om haar politieke en culturele machtsgreep te bestendigen.

Ik denk dat de leugen, die toen al in het verhaal zat, zijn eigen leven is gaan leiden en zichzelf heeft versterkt, doorheen de tijd, tot diep in de jaren ’90-, met als apotheose bij ons het aantreden van 'paars'.

Want het tweede groot probleem dat zich stelde voor de protagonisten van die onnavolgbare Chanel-generatie, na de politieke legitimatie van de testosteronrevolte, is het moment waarop ze als veertigers en vijftigers zelf aan de macht kwamen. Toen moesten de Vandenbrouckes, de Van de Lanottes en de Van den Bossches, die in hun jonge tijd nog met het rode boekje van Mao hadden gezwaaid en nu hun ‘lange mars door de instellingen’ beloond zagen met een buikje, een ministerpost, en tenslotte een functie van gedelegeerd bestuurder bij BIAC, beletten dat hun lege doos werd opengedaan,- de doos van een tot jeugdsentiment verworden kostschoolopstand. Hoe konden de contestanten van weleer beletten dat ze zelf gecontesteerd werden?

Daartoe moest het huidige regime van de oud-'68-ers bijna voorgesteld worden als een verwezenlijkte utopie, de beste der mogelijke werelden waar zij zogezegd voor op de barrikaden hadden gestaan, en die zij nu ook rechtmatig mochten besturen. Deze buikjesdans van oudstrijders heeft een specifiek en subtiel soort onverdraagzaamheid opgeleverd. Het is namelijk in deze teletubbie-sfeer van verplichte blijdschap en het eeuwigdurende carnaval dat het ‘politiek-correcte’ discours is ontstaan: een complex van retorische en semantische kunstgrepen, censuur en zelfcensuur, waardoor vrijheid en bevoogding elkaar perfect overlappen. Het resultaat was een soort mainstream-progressiviteit die vooral gericht was op het onderdrukken van tegenstromen, het afstoppen van externe vraagstelling (‘waar zij we eigenlijk mee bezig?’) en het ontmoedigen van historische kritiek.

De eerste leugen (de mythe van de 'culturele revolutie') werd dus toegedekt met een tweede leugen (de demonisering van elke fundamentele dissidentie). Om te beletten dat er fundamentele vragen zouden gesteld worden rond die speeltuinrevolutie en haar politieke travestie, moest de euforische logica van de bezette meisjesslaapzaal ook in alle geledingen van de maatschappij doorgetrokken worden. Alles wat daarbuiten viel, was fout, politiek-incorrect, ondemocratisch, rechts, extreemrechts, racistisch, sexistisch, fascistisch enz.

Mei '68 heeft ons niet bevrijd, het heeft alleen de vrijheid tot sloganeske sluier verheven, die breed gedrapeerd is over de repressiemechanismen van de postmoderne netwerkstaat, de fluwelen logedictatuur, de democratie van de kiesdrempels, de cordons sanitaires en de politieke processen.

Mei '68 riep zichzelf eerst uit tot het jaar nul, het begin van een nieuwe tijdrekening, maar stremde gaandeweg tot het einde van de geschiedenis, het jaar 1984 van Big Brother. Binnen dit postmodern paradigma wordt elke kritiek zinloos en zijn de machthebbers tegelijk de behoeders van de vrijemeningsuiting via hun ingenieuze newspeak. Paars heeft dat procédé van de taalmanipulatie en de bewustzijnsvernauwing tot een kunst verheven. Zo ontstond er rond deze machtsgeneratie van de 68-ers een aureool van immuniteit. In het zelfverklaarde paradijs is er geen ruimte voor dissidentie, vermits het per definitie perfect is. Chanel inimitable, weigert alle namaak. De enige gepaste regeringsvorm van Utopia is die van de fluwelen dictatuur. En daar zitten we middenin. Nog altijd. Al zijn er tekenen dat er sleet op begint te komen.

 

'De verbeelding aan de macht': apotheose van het cultureel establishment

Men zou nu verwachten dat de culturele elite,- kunstenaars, academici, media- die manipulatie doorziet en er zich tegen afzet. Niets is minder waar. Ze is zelf meegestapt in de euforische parade van de verwezenlijkte utopie, en heeft het motto 'de verbeelding aan de macht' op een bizarre wijze gerealiseerd, nl. als een feest van de perceptie, een stroom van simulacres,- zoals de Franse filosoof Baudrillard ze karakteriseert. Schaduwvoorstellingen die ons het zicht op de realiteit ontnemen en dus ook de externe kritiek onmogelijk maken, hetgeen hun systeembevestigend karakter verraadt. 

 medium_moutons.gifCultuur, althans de officiële, geaccrediteerde versie, verwerd tot het hilarische trompetgeschal rond de tribune van de poco-dictatuur. De opdracht was en is om te verwarren, mist te spuiten. De ontzettende logorrhee en beeldenstroom die elke dag op ons afkomt, oversatureert ons bevattingsvermogen compleet, maakt ons murw en mentaal weerloos. Ook dat is een erfenis van het ’68-theater en de machtsgreep van deze ludieke generatie. Alles is scherts, ironie, spel, franje. Het politiek bedrijf, de cultuurindustrie en de media convergeren rond deze mateloze cultus van de schijn, het beeld en de perceptie, in een spektakelmaatschappij waarin je alleen bestaat als je op TV komt. En ook dat heeft hoger vernoemde Jacques Lacan achteraf scherp ontmaskerd,- ik citeer: "Cultuur is verworden tot een machinerie van hysterische waarheden die elkaar opvolgen als modieuze gadgets zonder samenhang en zonder schaamte."  

De aan hysterie grenzende libertaire roes van na ‘68, die ons figuren als Jan Hoet en Hugo Claus opleverde, heeft de modale burger niet kritischer of mondiger gemaakt. Integendeel, de veelbezongen artistieke vrijheid beperkte zich vooral tot de zelfverheerlijking van een nieuwe, mediagestuurde elite van trendintellectuelen die zich klakkeloos associeerden met de paarse euforie en haar perceptielogica.
Daarbij hanteerden ze het ‘surrealistische’ Belgische model als een spiegelbeeld van hun eigen flou artistique. Omgekeerd blijft het neo-unitaire regime deze elegante cultuurclowns koesteren, als apologeten van een complexe, ondoorzichtige staatsbureaucratie.

 

In het zog van Coco Chanel definieert elke kunstenaar zich als een 'rebel', terwijl hij eigenlijk de intransparantie van de postmoderne macht reflecteert. Zo’n half jaar geleden sloeg de Amerikaanse installatiekunstenaar Paul McCarthy (geboren in 1945, afgestudeerd in 1969, de data spreken voor zich) letterlijk en figuurlijk een gat in het SMAK-museum. Met een ketchupfles van 18 meter hoog, reusachtige hopen stront, een vastgebonden varken, en nog wat toestanden waarvoor muren moesten gesloopt worden, kwam de SMAK-directie uit op een deficit van een half miljoen Euro gemeenschapsgeld. Het lijkt populistisch en laag-bij-de-gronds om dat deficit te koppelen aan een waardeoordeel over die mijnheer McCarthy, maar er schuilt wel degelijk een logica in: achter de ludieke absurditeit van dit soort happenings zit een enorme kunstmarkt die in een inhoudloze vernieuwingsspiraal zit en dus constant moet choqueren om de aandacht te trekken. Alles moet duur zijn, groot, opgeblazen, excentriek, en al het nieuwe wordt even snel weer vervangen door het nieuwste. Als toeschouwers en participanten worden wij constant meegelokt in dit opbod. Iedereen moet blij zijn, enthoesiast, vooruitkijkend, positief, en vooral niet ‘verzuurd’. Zo convergeerde het exces van de kunstmarkt en de beeldcultuur met de ambities van de oud-'68-generatie om elke politieke en sociale dissidentie preventief af te blokken.

 Er is binnen deze hype-industrie immers geen enkele ruimte voor bezinning, zelfbevraging of zelfs maar kritisch voorbehoud. De post-68-kunst, die ons zogezegd bevrijd heeft, produceert de ene fata morgana na de andere. Ze wordt gecreëerd door vedette-clowns die via een absurdistisch-ludieke beeldtaal ons oordeelsvermogen buitenspel zetten en ethische reflexen bij voorbaat ontzenuwen. Kunst zou volgens hen continu langs de kassa kunnen passeren zonder zich ergens voor te moeten verantwoorden. Ik ben niet de enige die wijst op die quasi-subversiviteit van de hedendaagse post-68-kunst en zijn ‘revolutionair’ marktlabel. Ook critici als Marc Holthof komen tot die analyse. Ik citeer even een essay van hem: “Sinds marketing de kunst in haar macht heeft moet ze constant revolteren. Maar niet tegen de maatschappelijke orde, wel tegen zichzelf, tegen de concurrerende kunststromingen. De kunst speelt een permanente thuiswedstrijd. Daar gaat alle energie naar, met als resultaat dat de maatschappelijke relevantie vaak nihil is.”

Nihil, dat is dus de balans van het Jan Hoet-tijdperk. Groteske grappen die ons moeten verzoenen met het ethisch deficit, de intellectuele verwarring en de politieke intransparantie. Macht is vandaag gebaseerd op vaagheid en gecodeerde informatie. De cultus van de artistieke vrijheid loopt zo op een bizarre wijze parallel met een publiek afstompingsproces, een gewenning aan het onredelijke en absurde. De gewone man haalt finaal zijn schouders op en leest Dag Allemaal. Hij heeft afgehaakt, zowel wat de politiek betreft als wat het kunstgebeuren aangaat. Opdracht vervuld, de narren mogen andermaal langs de kassa passeren.

Zo komt het dat vrijwel alle kunstenaars hier te lande uitbundig het paarse regime bejubeld hebben,- de meest ‘progressieve’ voorop: de symbiose tussen een politieke cultuur van de perceptie en de gebakken lucht, en een op deze thermieken zwevende, vrolijke cultuurindustrie, was hier volmaakt. Politiek en cultuur, als twee podia van een surrealistische totaalhappening. En zo komt het ook dat haast heel dat cultureel establishment het 'Belgische model' vreugdevol omarmde: Ik hou van U, je ‘taime tu sais. De post-68-culturo’s houden van België, zoals het gefederaliseerde Belgische kluwen van 1970 zelf baadt in een halfslachtig flou artistique.

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Het is tenslotte evenmin een toeval dat de diepbetreurde Vlaamse schrijver Hugo Claus en aanvoerder van de artistieke ’68-generatie,  een intimus was van Guy Verhofstadt, de man die de geschiedenis zal ingaan als diegene die realiteit met perceptie compleet kon verwisselen.

Vraag is hier: Wie houdt van wie? Wie houdt wie recht? 

 

Van ‘sexuele revolutie’ tot pornificatie: sex als drug en marketing-tool

In het waanidee van de ‘culturele revolutie’ speelt de zgn. ‘sexuele revolutie’ een centrale rol. En inderdaad, de borsten en billen zijn alomtegenwoordig, je kan geen TV meer aanzetten of een tijdschrift ter hand nemen, of het gaat over sex. Meisjes van elf lopen met een T-shirt rond, waarop te lezen staat ‘fuck me’. Jongens van twaalf die ‘het’ nog niet gedaan hebben, zijn achterlijke nerds. Maar achter deze zogenaamde emancipatie blijkt weer een verhaal te schuilen van maatschappelijk-politieke recuperatie en ook weer brutale marketingstrategie.

Want hoe kan men het plebs beter aan de leiband houden, dan zijn energie helemaal te laten omzetten in sex, voor, tijdens en na het eten? Naarmate het sperma van de muren druipt en de publieke sfeer doordrenkt wordt van erotische metaforen en verborgen of open verleiders, verengt zich weerom dat bewustzijn tot een zelfverslavend spel van prikkels en reflexen. Er ontstaat een sfeer van constante hitserigheid die perfect het hysterisch consumentisme imiteert, en die door Herbert Marcuse –nochtans weer een ‘68er…- werd omschreven als ‘repressieve desublimatie’. Simpel gezegd: ‘Laat ze neuken, dan denken ze niet na.’  In deze overprikkelde samenleving is het weerom heel moeilijk om afstand te bewaren,- het is een cultuur van de onvervulbare begeerte die alle menselijke energie afleidt naar een fixatie op lustbeleving. Niet dat U alles zomaar krijgt wat wordt geafficheerd, het gaat evenzeer om illusie en ersatz-bevrediging. De knappe, halfnaakte blondine op de motorkap zal de Uwe niet zijn, alleen haar simulacre, haar afdruk wordt meegeleverd als U de auto koopt. De mysterieuze Mister Dash die de vrouwen komt verrassen temidden van hun wasgoed is even reëel als Sinterklaas, maar als erotische passé-partout en universele verleider werkt hij perfect: droom zacht, dames, zet U op de wasmachine en laat U eens goed gaan.

Onvermijdelijk lopen ook hier de massamedia mee als animatoren van het pretpark. Tegenwoordig maakt het dagblad De Standaard reklame met soft-pornoboekjes die U voor vijf Euro plus een uitgeknipte bon kan gaan afhalen bij de krantenboer. Het is echt zielig om zien,- op de redactie van die kwaliteitskrant heerst de opgewonden sfeer van collegejongens die een bordeelvitrine passeren. De lezer wordt, in zijn zoektocht naar informatie, afgeleid naar een rossig amalgaam van erotiek, fictie, voyeuristische pretlectuur. Heel subtiel draait de journalistieke missie, via een verkeerd begrepen ‘progressiviteit’, om tot een verpulping in dienst van de verkoopcijfers, maar tegelijk ook met het oogmerk om het publiek te gewennen aan een gemakkelijke, lichtvoetige en in se onbenullige vorm van infotainment.

De puberale erotomanie van mei ’68 is mettertijd weggegleden in een universele pornificatie, die de eros banaliseert, die intellectueel afstompt, en die door de moderne marketing helemaal is geïnstrumenteerd. De alomtegenwoordigheid van sex, als drug en marketing-tool, is misschien wel het meest hallucinante teken van een emancipatie-idee die in haar tegendeel is omgeslagen. Ze belemmert een echte sexuele bevrijding, in het kader van een menselijke ontplooiing op fysisch, psychisch en sociaal vlak.

 

Zo zijn we weer bij de kern van de zaak: de zgn. ‘sexuele vrijheid’ is vandaag vooral een marketeerskwestie. De strategie om kinderen zo snel mogelijk tot pubers op te fokken, heeft uiteraard niets met emancipatie te maken, maar alles met de mogelijkheid om hen zo snel mogelijk beschikbaar te maken voor de commerciële tienercultuur, de markt van GSM’s, I-pods, tot en met, jawel, de revolutionaire mascara van Chanel. Komt daarbij dat pubers veel gemakkelijker om de tuin te leiden zijn dan kinderen, net vanwege hun labiele hormonale huishouding. Borstjes en puistjes doen de kassa's rinkelen!  De alomtegenwoordige opdringerigheid van sexuele signalen, wat men vandaag aanduidt als de ‘pornificatie van de publieke ruimte’, is misschien wel het meest hallucinante teken van een emancipatie-idee die in haar tegendeel is omgeslagen. Wat Marx ooit over godsdienst zei, als ‘opium van het volk’, geldt vandaag voor het universele erotisme. Het heeft de verveling, de afstomping en de totale deconcentratie van het onderbroekenuniversum voortgebracht. Ik citeer nog maar eens Baudrillard: "Alles kan en alles mag, alles is bevrijd en er zijn geen taboes meer, maar in de plaats van een opwindend feest levert dit een geweldig gevoel van leegte op. We leven in de hel van hetzelfde".

Terug dan maar naar het preutse Victorianisme? Neen, allerminst. Sexuele ontplooiing blijft voor mij als een rode draad lopen doorheen het menselijke rijpingsproces. Dat zit echter niet in het puberaal-erotomane register van mei ’68 en zijn depolitiserende, hektische, escapistische onderstroom.  Wel in een zoektocht naar zelfverwezenlijking op fysisch, psychisch en sociaal vlak. Dat is een verhaal van emotionele intelligentie, empathie, gevoel voor intimiteit, keuzebekwaamheid, maturiteit.

Om maar te zeggen, beste vrienden: de politicus die tepels laat overplakken, heeft een probleem. We hebben als zuigeling haast allemaal aan die tepels gehangen, en ik kan me echt geen kind of tiener voorstellen die een trauma overhoudt aan een afbeelding ervan. De krampachtige censuur van wat menselijk en normaal is, is zo aberant als de pornificatie zelf. Het zijn twee kanten van één medaille. Onlangs werd in de VS een kleuter van vier veroordeeld omdat het kind zijn juf knuffelde. Men vraagt zich af wat voor soort rechters tot dit soort uitspraken komt. En in wat voor een klimaat van sexuele overspannenheid de politici leven die deze perverte magistraten benoemen. Het was evenzeer onzin om de expositie van L.P. Boon's fameuze Feminatheek als een uiting van zedenverwildering af te schilderen en te verbieden. Het eigenlijke schandaal bestond erin dat heel het gedoe inhoudelijk naast de kwestie was, ons niets wijzer maakte over het werk van Boon, en vooral diende als publiekstrekker in een door de Vlaamse boekenindustrie gesponsorde reklamestunt. Kunst, sex en marketing dus, andermaal.

Ach, dat verhaal van normen en waarden. We mogen onze kritiek op de fluwelen dictatuur van de vrijheid-blijheid-generatie niet zelf laten scleroseren tot een verhaal van ouderwets conformisme en nieuwe preutsheid,- een gemopper van opa’s die beweren dat alles vroeger veel beter was. Ook het christendom, inclusief zijn lichaamsvijandig puritanisme, is ons als staatsgodsdienst opgedrongen, omstreeks het jaar 800 van onze tijdrekening. De ‘normen en waarden’ die daarbij tot een traditie gingen behoren, zijn bij ons vastgelopen in het Vlaamse parochialisme, de verstikkende pastoorsdictatuur en de betuttelende tsjevenmoraal. Inclusief zwarte plakband op tepels. Maar Mei '68 heeft ons van die benauwdheid niet verlost. Ze heeft nieuwe cirkulaire processen gecreëerd van de obsessie en de verslaving.

Ons radicaal perspectief is niet het tijdperk van vóór het IIde Vaticaans Concilie, maar een tijdperk achter de horizon, waarin zingeving en spiritualiteit –om eens die belegen term te gebruiken- een nieuwe invulling krijgen. Vrijheid en autonomie, gekoppeld aan bewustzijn en zin voor het Grote Geheel. Onvermijdelijk zal daarin bv. ook het ecologisch thema sterk op de voorgrond komen. Voor mij moet de normen-en-waarden-discussie gepaard gaan met een nieuwe vraagstelling rond de emotionele en instinctieve uitbouw van het individu en de groep. We zijn natuurwezens met een libido en een doodsangst, en tegelijk zijn we cultuurwezens, met een tijdsbesef, een geschiedenis, en een besef dat ons verstand eindig is, dat er wellicht altijd iets achter de horizon zal blijven. Dat spanningsveld tussen natuur en cultuur moet helemaal van vooraf aan geëxploreerd worden,- en, sorry vrienden, van de begrippen ‘staat’, ‘elite’, ‘politieke macht’, ‘geïnstitutionaliseerde godsdienst’, en dies meer zal, vrees ik, eens we daaraan toe gekomen zijn, niet veel meer overschieten.

Besluit: uitzicht op een contre-démocratie?

Welke conclusie moeten we nu trekken uit dit verhaal vol charades, gezichtsbedrog en bewustzijnsvernauwing,- het verhaal van een revolutie die er geen is, en een vrijheidsbeweging die meer onvrijheid heeft voortgebracht dan welke kerk of secte ook?

Ik denk dat de revolte, of als U wil de contra-revolte, meer dan ooit aan de orde is. Maar hoe contesteren in een universum waar alles mag en alles kan? De voetafdruk van de mei-68-generatie is, via haar lange mars door de instellingen, zo groot en desastreus geworden op die instellingen,- ze heeft m.a.w. het politiek-cultureel systeem zodanig naar haar hand gezet, dat men voorlopig binnen dat systeem nog maar bitter weinig aan politiek activisme kan doen. De uitgang en de diaspora wenken, naar het internet, de zgn. burgerjournalistiek, de civil society, de buitenparlementaire oppositie, de tegencultuur. Het is een moeilijk maar louterend proces.

Het zgn. apolitisme van de burger en heel de anti-establishment-onderstroom wijzen hier de weg. Het is de weg van de contre-démocratie, (Pierre Rosanvallon), de informele en onrecupereerbare waakzaamheidsattitude die men vooral buiten het parlementair halfrond bespeurt, buiten de praatbarak, buiten de instellingen, buiten de klassieke media.

De verzieking van het Belgische regime, waar de oudgedienden van Mei ’68 zich haast paniekerig aan vastklampen, versterkt nog deze maatschappelijke onderstroom van het grote ongenoegen. En het zal sommigen in deze zaal bizar in de oren klinken, maar misschien zijn de gedoodverfde protestpartijen zoals het Vlaams Belang, Lijst Dedecker, Pim Fortuyn, maar ook de nieuw-linkse S.P. van Marijnissen in Nederland, zelfs Obama in de VS, de laatste partijpolitieke verschijningsvormen van het anti-establishment-gevoel, alvorens dat gevoel opgaat in een globale toestand van burgerlijke ongehoorzaamheid, die kan leiden tot meer politiek bewustzijn, meer mondigheid, meer echte ‘vrijheid’. Verrassend genoeg ligt de échte, late erfenis van mei ’68 dan misschien wel eerder bij vernoemde protestpartijen, in de rand van de parlementair-democratische arena opererend, dan bij de huidige 'progressieve' elites die tot nader order het establishment uitmaken...

Ik dank U allen voor Uw aandacht.

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vendredi, 06 novembre 2009

Le "socialisme allemand" de Werner Sombart

kapak_sombart.jpgArchives de SYNERGIES  EUROPEENNES – 1990

 

Thierry MUDRY:

Le “socialisme allemand” de Werner Sombart

 

Né en 1863 à Ermsleben, Werner Sombart est le fils d'Anton Ludwig Sombart, hobereau et industriel prussien, membre libéral de la Chambre prussienne des Députés et du Reichstag.

 

Werner Sombart étudie l'économie politique et le droit dans les Universités allemandes. Après avoir obtenu son doctorat, il est d'abord secrétaire de la chambre de commerce de Brême puis professeur extraordinaire (chargé de cours) à l'Université de Breslau. Mais le "radicalisme" de Sombart (influencé par Lassalle et Marx) lui vaut la défaveur du ministère prussien de l'instruction publique: son avancement est stoppé. En 1906, il donne des cours à l'Ecole des hautes études commerciales de Berlin et plusieurs années plus tard, en 1918, il devient enfin professeur ordinaire à l'Université de Berlin où il prend la succession d'Adolf Wagner, l'un des maîtres de la Jeune Ecole historique et du "socialisme de la chaire"  (Kathedersozialismus).

 

Economiste et sociologue, Sombart apparaît comme l'historien du capitalisme mais aussi comme un critique impertinent du capitalisme. Sombart s'éloigne cependant peu à peu d'une critique d'inspiration marxiste pour adopter une critique d'inspiration nationaliste et luthérienne. On distingue aisément le Sombart qui se consacre à l'étude scientifique du capitalisme et particulièrement à l'étude de la genèse de l'esprit capitaliste et le Sombart militant qui prend fait et cause pour le mouvement ouvrier à la fin du XIXème siècle et au début de ce siècle, pour l'Allemagne pendant la Grande Guerre et pour le "socalisme allemand" dans les années 30. Le premier Sombart est l'auteur en 1902 des tomes I et II du "Capitalisme moderne" qui connaîtront des rééditions successives en 1916 et 1924/27 (Sombart publiera en 1928 le tome III traduit en français sous le titre L'apogée du capitalisme);  en 1903 de L'économie allemande du XIXème siècle;  en 1911 d'un ouvrage sur Les Juifs et la vie économique  (traduit en français); en 1913, il publie Le bourgeois  (également traduit en français) et ses études sur le développement du capitalisme moderne: Luxe et capitalisme, Guerre et capitalisme, etc. En revanche, Le socialisme et le mouvement social au XIXème siècle  publié en 1896 (traduit en français), Commerçants et héros qui parut pendant la Grande Guerre, Le socialisme prolétarien  publié en 1924 et Le socialisme allemand  publié en 1934 (traduit en français) sont indiscutablement l'œuvre du Sombart militant.

 

Sombart = Marx + l’école historique?

 

D'après Schumpeter (à qui Sombart céda sa chaire à l'Université de Berlin), Sombart aurait subi tout autant l'influence de Karl Marx que celle de l'Ecole historique.

 

Sombart étudia l'économie politique à Berlin, or "l'enseignement économique était alors dans les universités allemandes sous l'influence de l'Ecole historique réagissant contre l'étroitesse d'esprit et l'optimisme exagéré du libéralisme (le Manchestertum "fossile") et plus ou moins imbu de socialisme d'Etat" (André Sayous, préface à L'apogée du capitalisme  de Werner Sombart, Payot, Paris, 1932, pp XII et XIII). Sombart eut pour maîtres à l'Université de Berlin Gustav Schmoller et Adolf Wagner. Ce dernier, qu'une commune admiration pour les travaux de Ferdinand Lassalle (l'un des pères du socialisme d'Etat) rapprochait de Sombart, le désigna d'ailleurs comme son successeur à l'Université. Pour certains, il conviendrait de ranger Sombart parmi les auteurs de l'Ecole historique mais ce n'est pas l'avis d'André Sayous: "économiste et sociologue, il (Werner Sombart) traite en réalité l'histoire comme une "science auxiliaire" qu'il utilise, répétons-le, avec une grande liberté d'esprit et même, parfois, selon son bon plaisir" (ibid., p. XVII) mais, reconnaît Sayous, "Sombart a conservé des liens avec l'Ecole historique. Généralement, son argumentation repose sur l'histoire et il se sert de celle-ci dans l'esprit démonstratif des maîtres de l'école allemande" (ibid., p. XVIII).

 

Sombart a subi aussi l'influence de Karl Marx. En 1894, Sombart accueille avec enthousiasme la publication du troisième volume du Capital  et publie une étude sur le marxisme qui lui vaut les éloges de Friedrich Engels. Deux ans plus tard, il écrit Le socialisme et le mouvement social du XIXème siècle. Mais Sombart s'éloigne peu à peu du marxisme, la 10ème édition de son Socialisme et mouvement social parue en 1924 sous le titre Le socialisme prolérarien apparaît aux yeux de certains comme une diatribe anti-marxiste. Mais devenu pourtant "anti-marxiste", Sombart reconnaît volontiers sa dette envers Marx. Dans l'introduction à L'apogée du capitalisme,  il se défend d'avoir voulu attaquer Marx: au contraire, affirme-t-il, "je m'étais proposé de continuer et, dans un certain sens, de compléter et d'achever l'œuvre de Marx. Tout en repoussant la conception du monde de Marx et, avec elle, tout ce qu'on désigne aujourd'hui, en synthétisant et précisant son sens, sous le nom de "marxisme"; j'admire en lui sans réserves le théoricien et l'historien du capitalisme. Tout ce qu'il y a de bon dans mes propres ouvrages, c'est à l'esprit de Marx que je le dois, ce qui ne m'empêche naturellement pas de m'écarter de lui non seulement sur des points de détail, voire dans la plupart de mes façons de voir particulières, mais sur des points essentiels de ma conception d'ensemble" (ibid., p.15). En 1934, dans Le socialisme allemand  (paru dans sa traduction française chez Payot, Paris, 1938), Sombart opère une distinction entre le "marxisme pratique" et le marxisme "qui, à titre de théorie historique, est d'une incomparable valeur pour les sciences sociales" (p. 100).

 

Sombart et l'étude du capitalisme

 

Pour Sombart, le capitalisme -qu'il définit par ailleurs comme une "catégorie historique"- est un "système économique" qui "repose d'une façon subjective sur le primaire de l'acquisition, trouvant son expression dans le gain; il est essentiellement "individualiste", car il a comme base la concurrence; enfin, il représente les idées de rationalisation dans l'ordre économique" (André Sayous, op. cit., p. XX).

 

Sombart distingue trois périodes dans l'histoire du capitalisme:

 

- le "capitalisme primitif" qui prend fin avec la révolution industrielle;

- le "haut capitalisme" ou "apogée du capitalisme" qui correspond à la période s'étendant de l'emploi métallurgique du coke (dont Sombart situe les débuts dans les années 1760/1770) à la Ière guerre mondiale. "C'est au cours de cette époque que le capitalisme a réalisé son épanouissement le plus complet et est devenu le système économique dominant" (L'apogée du capitalisme,  p.12);

- le "capitalisme tardif", période qui s'ouvre avec la Ière guerre mondiale.

 

Pour Sombart, il ne fait pas de doute que "les forces motrices de la vie économique" ne sont pas plus la piété puritaine que la plus-value du capital (Sombart renvoie ici dos à dos Weber et Marx); ni même la division du travail et la concurrence chères aux économistes classiques, ni non plus le système juridique, la technique ou la démographie. Les seules forces motrices de l'histoire en général et de la vie économique en particulier, ce sont les hommes vivants avec leurs pensées et leurs passions et surtout certains d'entre eux. C'est l'homme, en tant que sujet de l'histoire, qui construit les systèmes économiques. Ainsi, le capitalisme naissant "fut l'œuvre de quelques hommes d'affaires entreprenants, appartenant à toutes les couches de la population. Il y avait parmi eux des nobles, des aventuriers, des marchands, des artisans, mais ils ont été pendant longtemps trop faibles pour imprimer à la vie économique une direction décisive. A côté d'eux, des princes énergiques (...) et plus particulièrement de hauts fonctionnaires, comme Colbert, ont joué dans l'évolution économique de l'époque un rôle de premier ordre (en poussant les particuliers  dans des entreprises capitalistes)" (ibid., p. 29). A l'époque du capitalisme avancé "toute la direction de la vie économique a passé entre les mains des entrepreneurs capitalistes qui, désormais soustraits à la tutelle de l'Etat, sont devenus (...) les seuls organisateurs du processus économique, pour autant que celui-ci se déroule dans le cadre de l'économie capitaliste" (ibid., p.30). L'entrepreneur capitaliste est donc la seule force motrice de l'économie capitaliste moderne. Il est la seule force productive: "tous les autres facteurs de la production, le capital et le travail, se trouvent sous sa dépendance, ne sont animés que par son activité créatrice. De même, toutes les inventions techniques ne reçoivent que de lui leur vitalité" (ibid., p.31).

 

Le capitalisme va-t-il mourir d’un excès de rationalisation?

 

Sombart a consacré les deux premiers tomes de son Capitalisme moderne  à l'étude du pré-capitalisme et du capitalisme primitif et le troisième tome à l'étude du haut capitalisme. Quant au capitalisme tardif, Sombart y a consacré la conclusion de son Apogée du capitalisme. La principale caractéristique de cette période serait "la substitution du principe de l'entente à celui de la libre-concurrence". Le déclin du capitalisme s'amorce et celui-ci, pense Sombart, va probablement mourir d'un excès de rationalisation. "La crise allait évidemment donner une puissante accélération à la thèse du déclin, largement vulgarisée par Fried, disciple de Sombart et collaborateur de la revue Die Tat, dont le livre intitulé La fin du capitalisme  (1931) fut une manière de best-seller dans les milieux nationalistes" (Louis Dupeux, Stratégie communiste et dynamique conservatrice ..., Librairie Honoré Champion, Paris, 1976, p. 12).

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Sombart  "a distingué des périodes de civilisation et conçu chacune d'elles comme un "système" d'un "esprit" ou "style déterminé" ... "où ainsi que chez Karl Marx, les fonctions économiques constituent les bases et les caractères propres de la période, mais où, différence fondamentale, chaque sentiment de l'économique est précisé d'une façon spéciale" (André Sayous, op. cit., pp. x et xi). "Ce qui imprime à une époque, et aussi à une période économique, son cachet particulier, c'est son esprit" écrit Sombart (ibid., p.8). Le capitalisme s'accompagne d'un "esprit capitaliste" et c'est cet esprit qui, en se transformant, a fait évoluer le capitalisme.

 

Mais, quel est cet "esprit capitaliste" et quel rôle joue-t-il dans l'apparition et l'évolution du capitalisme? Sombart apporte des éléments de réponse dans son livre Le bourgeois.

 

L'esprit capitaliste (c'est-à-dire l'esprit qui anime l'entrepreneur capitaliste et qui caractérise le système que celui-ci crée) est né, pense Sombart, de la réunion de l'esprit d'entreprise et de l'esprit bourgeois: "(...) L'esprit d'entreprise est une synthèse constituée par la passion de l'argent, par l'amour des aventures, par l'esprit d'invention, etc. tandis que l'esprit bourgeois se compose, à son tour, de qualités telles que la prudence réfléchie, la circonspection qui calcule, la pondération raisonnable, l'esprit d'ordre et d'économie. (Dans le tissu multicolore de l'esprit capitaliste, l'esprit bourgeois forme le fil de laine mobile, tandis que l'esprit d'entreprise en est la chaîne de soie)" (Le bourgeois,  Payot, Paris 1966, p. 25).

 

Sombart distingue parmi les sources de l'esprit capitaliste:

- des bases biologiques: les "natures bourgeoises" et les "prédispositions ethniques" (chez les Etrusques, les Frisons et les Juifs);

- les forces morales: la philosophie (interprétation rationaliste et utilitariste des écrits stoïciens, auteurs rustiques romains), les influences religieuses (catholicisme, protestantisme, judaïsme), les forces morales proprement dites (morale sociale conduisant à l'adoption et au culte des "vertus bourgeoises");

- les "conditions sociales": l'Etat, les migrations, la découvertes de mines d'or et d'argent, la technique, l'activité professionnelle pré-capitaliste, le capitalisme comme tel.

 

La controverse entre Weber et Sombart

 

Max Weber s'est élevé "contre les prétentions dogmatiques d'une explication totale de l'histoire par l'économie" mais "il ne voulait nullement -constate Raymond Aron (La sociologie allemande contemporaine, PUF, Paris 1981, pp.112/113)- réfuter le marxisme en lui opposant une théorie idéaliste de l'histoire, qui lui aurait paru aussi schématique et indéfendable que le matérialisme historique". Sombart approuve Weber sur ce point: dans Le bourgeois,  Sombart constate la multiplicité des causes qui permettent d'expliquer la genèse de l'esprit capitaliste. Il s'en prend aux "partisans intransigeants de la conception matérialiste de l'histoire", mais écrit-il, "opposer à l'explication causale économique une autre explication universelle est une chose dont je me sens incapable (...)" (p.338). Tous deux voient dans la religion une des causes du capitalisme. Dans L'éthique protestante et l'esprit du capitalisme,  Weber attribue au calvinisme un rôle important dans la genèse de l'esprit capitaliste: "jamais assuré de son élection, le calviniste en cherche les signes ici-bas. Il les trouve dans la prospérité de son entreprise. Mais il ne peut s'autoriser du succès pour se reposer ou utiliser son argent en vue du luxe ou du plaisir. Il doit donc réemployer cet argent dans l'entreprise: formation de capital  par obligation ascétique. Bien plus, seul le travail régulier, rationnel, le calcul qui permet à chaque instant de se rendre compte de la situation de l'entreprise, seul le commerce pacifique sont en accord avec l'esprit de cette morale" (Raymond Aron, op. cit., p.112). Sombart, pour sa part, attribue au thomisme et au judaïsme un rôle bien plus important que le calvinisme dans l'apparition de l'esprit capitaliste.

 

En imposant un droit naturel rationnel fondé sur le Décalogue mais qui intégrait aussi "la philosophie grecque de la dernière période de l'hellénisme", le thomisme a opéré une rationalisation déjà de nature à favoriser la mentalité capitaliste. "Pour que le capitalisme put s'épanouir, l'homme naturel, l'homme impulsif devait disparaître et la vie, dans ce qu'elle a de spontané et d'original, céder la place à un mécanisme psychique spécifiquement rationnel: bref, l'épanouissement du capitalisme avait pour condition un renversement, une transmutation de toutes les valeurs" (Le bourgeois,  pp. 227/228). A cela, il faut ajouter la condamnation par le thomisme et les scolastiques, de la prodigalité (mais aussi de l'avarice) et de l'oisiveté, l'idéal bourgeois "d'une vie chaste et modérée", le culte de la décence et de l'honorabilité, les préceptes d'une administration juste et rationnelle: ainsi s'opéra une sorte de "dressage psychique" qui réussit à transformer en entrepreneurs capitalistes "le seigneur impulsif et jouisseur d'une part, l'artisan obtus et nonchalant d'autre part" (ibid., p.231). Sombart note enfin chez certains scolastiques (notamment italiens), qui ici dépassent la pensée de Thomas d'Aquin, une profonde sympathie pour le capitalisme.

 

En jugeant très favorablement la richesse, en élaborant un rationalisme très rigoureux, le judaïsme contenait et développait "jusqu'à leurs dernières conséquences logiques, toutes les doctrines favorables au capitalisme" (ibid., p.250)". Mais ce qui a permis à la religion juive d'exercer une action vraiment décisive, c'est le traitement particulier qu'elle appliquait aux étrangers. La morale juive était une morale à double face, et ses lois différaient selon qu'il s'agissait de Juifs ou de non-Juifs" (ibid., p.251). "Le traitement différentiel que le droit juif appliquait aux étrangers" a eu pour conséquences: le relâchement de la morale commerciale et la transformation précoce des "conceptions relatives à la nature du commerce et de l'industrie, et cela dans le sens d'une liberté de plus en plus grande" (ibid., pp 254 et 255). Sombart étudia d'une manière plus précise dans son livre sur "Les Juifs et la vie économique" les rapports entre judaïsme et capitalisme.

 

Luthérianisme, calvinisme, thomisme et scolastique

 

Le protestantisme apparaît dès lors singulièrement en retrait: "comme le mouvement inauguré par la Réforme a eu incontestablement pour effets une intériorisation de l'homme et un raffermissement du besoin métaphysique, les intérêts capitalistes devaient nécessairement souffrir dans la mesure où l'esprit de la Réforme se répandait et se généralisait" (ibid., p.239). Le luthérianisme se montra particulièrement anti-capitaliste (et Sombart devait recueillir l'héritage de cet anti-capitalisme luthérien). Le puritanisme lui-même (variante anglo-saxonne du calvinisme) fut une entrave au développement du capitalisme avec son idéal de pauvreté hérité du christianisme primitif, sa "condamnation sévère de tout effort ayant pour objectif l'acquisition de la richesse, c'est-à-dire, et avant tout, une condamnation des moyens de s'enrichir qu'offre le capitalisme" (ibid., p.241). Mais, après la morale scolastique (ou thomiste), "à son tour, la morale puritaine proclame la nécessité de la rationalisation et de la méthodisation de la vie, des instincts et des impulsions, de la transformation de l'homme naturel en un homme rationnel". "Lorque la morale puritaine exhorte les fidèles à mener une vie bien ordonnée, elle ne fait que reproduire mot pour mot les préceptes de la morale thomiste, et les vertus bourgeoises qu'elle prêche sont exactement les mêmes que celles dont nous trouvons l'éloge chez les scolastiques" (ibid., pp 243/244). Ce qui apparaît favorable au capitalisme chez les puritains semble donc emprunté au thomisme et aux scolastiques.

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La raison première de cette divergence entre Weber et Sombart, Raymond Aron croit la trouver "dans le fait qu'ils n'utilisent pas la même définition du capitalisme". Pour Weber, le "capitalisme", c'est essentiellement le capitalisme occidental, le capitalisme "s'oppose à une économie qui tend, avant tout, à la satisfaction des besoins. Le capitalisme serait le système qu'anime un désir de gains sans limite, qui se développe et progresse sans terme, économie d'échanges et d'argent, de mobilisation et de circulation des richesses, de calcul rationnel. Les caractères sont moins dégagés par une comparaison avec les autres civilisations que saisis intuitivement dans leur ensemble" (Raymond Aron, op. cit., p.114). Autre raison probable de cette divergence: les convictions des deux auteurs. Max Weber est un protestant libéral qui croit réconcilier protestantisme et capitalisme dans l'esprit de l'homme allemand en distinguant une morale de la conviction obéissant aux impératifs de la foi et une morale de la responsabilité soumise aux impératifs de l'action. La morale de la conviction délimite un domaine religieux de plus en plus intériorisé (ce qui est bien conforme à l'essence du protestantisme), la morale de la responsabilité un domaine économique abandonné au capitalisme (et un domaine politique soumis à la raison d'Etat). A l'inverse, Sombart est un anti-capitaliste d'obédience marxiste et, plus tard, d'obédience luthérienne.

 

Vertus bourgeoises et éléments héroïques de la psyché européenne

 

Après avoir passé en revue les diverses manifestations nationales de l'esprit capitaliste (Italie, Espagne, France, Allemagne, Pays-Bas, Grande-Bretagne, USA), Sombart s'intéresse à l'évolution de celui-ci. (Pour Sombart, nous le savons, l'évolution du capitalisme est intimement liée à celle de l'esprit capitaliste).

 

- Dans un premier temps, les "vertus bourgeoises" se joignent à l'esprit d'entreprise et à l'amour de l'or (caractéristiques mentales des peuples européens) pour donner naissance à l'entrepreneur capitaliste d'abord tout à la fois héros, marchand et bourgeois. Puis, les "vertus bourgeoises" l'emportent peu à peu sur l'élément héroïque. A cela plusieurs raisons: le développement des armées professionnelles, l'auto-rité des forces morales, le mélange des sangs (cf. "Le bourgeois", pp 339/340).

 

Deux époques se succèdent alors:

 

- celle du "bourgeois vieux-style" tenu en laisse, selon l'expression même de Sombart, par les mœurs et une morale d'inspiration chrétienne;

- celle de l'"homme économique moderne" (à partir de la fin du XIXème siècle) qui ne connaît plus ni entraves, ni restriction.

 

Sombart aborde enfin un délicat problème de causalité: le capitalisme est-il l'émanation ou la source de l'esprit capitaliste? Selon Sombart, on ne peut opposer l'esprit capitaliste au capitalisme dont il est partie intégrante mais on peut en revanche l'opposer à l'"organisation capitaliste" (qui comprend tous les éléments constitutifs du système capitaliste qui ne peuvent être rangés dans la catégorie "esprit"). "Sans l'existence préalable d'un esprit capitaliste (ne fût-ce qu'à l'état embryonnaire), l'organisation capitaliste n'aurait jamais pu naître" (ibid., p.328): une création ne peut préexister à son créateur mais elle peut acquérir une certaine autonomie et agir en retour sur son créateur. Ainsi le capitalisme, création de l'esprit capitaliste, est devenu une des sources (et "non la moins importante" ajoute Sombart) de cet esprit.

 

Deux dangers menacent désormais l'esprit capitaliste: la "féodalisation" ("l'enlisement dans la vie de rentier ou l'adoption d'allures seigneurales") et la bureaucratisation croissante des entreprises. "Peut-être, conclut Sombart, assisterons-nous aussi au crépuscule des dieux et l'or sera-t-il rejeté dans les eaux du Rhin" (ibid., p.342). Voici un rêve auquel le "socialiste" Sombart s'efforce de donner quelque consistance ...

 

Sombart et le socialisme allemand

 

Après s'être consacré à l'étude du capitalisme, Sombart devient en 1934 le porte-parole d'un "socialisme allemand". Mais, quel est le contenu de ce socialisme allemand à la Sombart?

 

Sombart s'efforce de donner une définition du socialisme. Après avoir passé en revue les diverses acceptions courantes du terme et porté sur chacune d'elles un jugement, Sombart définit le socialisme comme un "normativisme social". "J'entends par là un état de vie sociale où la conduite de l'individu est déterminée en principe par des normes obligatoires, qui doivent leur origine à une raison générale, intimement liée à la communauté politique, et qui trouvent leur expression dans le "nomos" (Werner Sombart "Le socialisme allemand", Payot, paris 1938, p.77). "On n'est vraiment socialiste que lorsqu'on considère comme nécessaire que la conduite de l'individu soit soumise, dans ses manifestations extérieures, à des règles générales" (ibid.).

 

Sombart distingue ensuite les variétés de socialisme:

 

-         d'après la nature de l'ordre socialiste imaginé: "du point de vue de l'espace ou de la quantité", ce peut-être un "socialisme total ou partiel"; "du point de vue du temps" "un socialisme absolu ou relatif"; "du point de vue de la forme", "un socialisme de l'égalité ou de l'inégalité", ou bien "un socialisme de l'individu ou de l'ensemble", ou encore "un socialisme méca-nistique, amorphe, espacé, abstrait, pensé, international, social" ou "un socialisme organique, morphique, technique, concret, imaginé, par classes sociales, national, étatique";

-          

-         d'après les fondements de l'ordre socialiste: socialisme évolutionniste ou révolutionnaire, socialisme sacré ou profane;

 

-         d'après la mentalité en vertu de laquelle l'ordre socialiste est construit (mentalité mercantile ou héroïque).

 

Un socialisme anti-économiste

 

Sombart, lorsqu'il définit le socialisme et les variétés de socialisme, veut faire œuvre scientifique mais on sent qu'il prend déjà parti et qu'il dessine à gras traits les contours de "son" socialisme. Peu après avoir défini le socialisme, Sombart écrit: "Etant donné que la libération des forces sociales avait eu pour principal effet de mettre au premier plan l'économie et de subordonner toute l'existence de la société à ses lois, le mouvement socialiste moderne est naturellement dirigé surtout contre la primauté de l'économie. Le cri de guerre du socialisme fut: débarassons-nous de l'économie!" (ibid., p.81). On comprend déjà que le socialisme de Sombart sera essentiellement un anti-économisme. Lorsque Sombart énumère les diverses variétés de socialisme, à l'évidence il porte son choix sur certaines d'entre elles. Le socialisme qu'il prône ne peut être que "partiel", "relatif", inégalitaire, "organique, concret, national, étatique ...": il ne peut être que révolutionnaire (ou volontariste, c'est-à-dire "engendré par la liberté, par un acte créateur") et profane -ici, Sombart dévoile dans sa critique du socialisme chrétien une de ses principales sources d'inspiration: Martin Luther lui-même, pour qui l'Evangile n'enseigne en rien la façon dont on doit gouverner les hommes et administrer les biens matériels (cf "Contre les paysans pillards et meurtriers")-; Sombart se prononce enfin pour un socialisme "héroïque" -Sombart reprend ici les thèmes développés dans son livre de guerre ("Marchands et héros", 1915). Deux conceptions de la vie s'opposent: d'un côté, la conception mercantile (qualifiée pendant la guerre d'"anglo-saxonne") qui vise au "plus grand bonheur pour le plus grand nombre" (le bonheur étant "le bien-être dans l'honnêteté") et qui cultive le "pacifique côte-à-côte des commerçants" (Sombart vitupère ici les "vertus bourgeoises" qu'il avait froidement examinées dans "Le Bourgeois"); de l'autre côté, la mentalité héroïque considère la vie comme une tâche et cultive les "vertus guerrières" (cette mentalité se serait incarnée dans l'Allemagne luthérienne et prussienne). Le "socialisme allemand" de Sombart apparaît comme la traduction à tous les niveaux, notamment au niveau économique, d'une mentalité héroïque dominante: le service de la communauté, de l'Etat et du peuple prime le sevice de soi-même.

 

Sombart précise le sens qu'il donne au terme "socialisme allemand": " (...) l'on pourrait entendre par socialisme allemand des tendances socialistes répondant à l'esprit allemand, qu'elles soient d'ailleurs représentées par des Allemands ou des non-Allemands. Dans ce sens, on pourrait considérer comme socialisme pensé à l'allemande un socialisme qui serait relativiste, adapté à toute la nation, volontariste, profane, païen, et qu'on pourrait -à fortiori- qualifier de socialisme national. Sous le terme général de socialisme national, on peut entendre un socialisme  qui tend à se réaliser dans une association nationale, qui part de l'idée que socialisme et nationalisme sont parfaitemebt adaptables" (ibid., pp. 139/140). Sombart précise encore: "Pour moi, socialisme allemand veut dire socialisme pour l'Allemagne, c'est-à-dire un socialisme qui vaut seulement et exclusivement pour l'Allemagne" (ibid.), parfaitement adapté au corps, à l'âme et à l'esprit de la Nation allemande.

 

Un socialisme réactionnaire?

 

On peut dire du socialisme de Sombart qu'il est "réactionnaire":

 

- en raison de ses objectifs: le socialisme allemand aspire à la "culture" qui est appelée à abolir "l'état actuel de la civilisation". Il faut pour cela briser la primauté de l'économique et des biens matériels qu'a instauré l'âge économique et se libérer de la foi dans le progrès qui obnubile l'âme allemande. Le socialisme de Sombart se veut donc une rupture avec la modernité occidentale (l'"âge économique") et l'idée même de progrès.

 

"Ce que j'appelle "socialisme allemand" écrit Sombart, signifie -exprimé d'une façon négative- l'abandon de tous les éléments de l'âge économique" (ibid. p.60) "sortir l'Allemagne du désert de l'âge économique, telle est la tâche que le socialisme allemand estime avoir à remplir" (ibid., p.180). Ce qui caractérise l'âge économique c'est que les mobiles économiques, les mobiles matériels "ont prédominé toutes les autres aspirations" (la théorie matérialiste de l'histoire apparaît aiinsi valable pour cette périàde, "mais pour cette période seule"); "(...) c'est la prédominance des intérêts économiques, en tant que tels, qui marque l'époque de son empreinte -étant bien entendu, naturellement, que le caractère de cette empreinte est déterminé par le caractère même de l'économie, en l'espèce l'économie capitaliste" (ibid., p;.18). L'âge économique a conduit à l'explosion démographique de l'Europe, à l'augmentation de la durée de vie moyenne, à l'accroissement considérable de la consommation et de la production des biens matériels. L'Europe industrielle est devenue une ville immense de plusieurs centaines de millions d'habitants, les autres pays du globe formant une banlieue autour de cette ville. Les rapports des pays entre eux furent bouleversés. En Europe, les sociétés et les formes de vie ont été bouleversées: Sombart constate la dissolution des communautés traditionnelles et la fin de l'enracinement, les Européens ne formant plus que des masses d'individus "errant ça et là"; notre existence a été soumise à un processus d'intellectualisation (fin de l'initiative, du travail intelligent, du métier), de matérialisation (c'est-à-dire de mécanisation) et d'égalisation (tendance à l'uniformité). La vie publique elle aussi a été bouleversée (un seul fondement et une seule mesure de la valeur: la richesse; une seule hiérarchie: celle qui se fonde sur le capital et le revenu; des partis de classe sont apparus et l'Etat s'est mis au service des intérêts économiques). Enfin, toute vie spirituelle a disparu ("la vie humaine est devenue vide de sens").

 

sombartOL12444976M-M.jpgLe socialisme allemand de Sombart, qui est une réaction contre cet état de fait, veut opérer un retour vers un ordre humain (c'est-à-dire un ordre dans lequel l'état de péché qui définit l'homme depuis la chute n'est pas nié, un ordre dans lequel l'homme peut de nouveau servir Dieu). En condamnant l'âge économique et ses manifestations diverses, Sombart apparaît proche d'autres "socialistes allemands" les plus radicaux (les nationaux-bolchéviques) condam-naient la "fuite dans le Moyen-Age", la "tendance anti-industrielle et anti-technique" (et le christia-nisme) qui caractérisaient l'idéologie des frères Strasser et de Sombart; ils repoussaient un "socialisme allemand" si ouvertement réactionnaire et se voulaient résolument modernes: ils acceptaient la société industrielle et le pouvoir de la technique les fascinait.

 

- Le socialisme de Sombart apparaît réactionnaire en raison de ses références luthériennes.

 

Ce qui s'est passé en Europe occidentale et en Amérique depuis la fin du XVIIIème siècle est pour Sombart l'œuvre de Satan. Luther jetait son encrier sur Satan venu le tenter, Sombart, émule de Luther, utilise sa plume pour dénoncer l'œuvre de Satan: l'âge économique ...

 

De Luther et des luthériens, Sombart a retenu l'idée que l'autorité politique est directement instituée par Dieu. Luther a justifié l'autorité politique par le péché originel, par la corruption dont il est cause sur terre; pour Sombart, le "socialisme allemand" exige un état fort car "il met le bien de tous au-dessus du bien de l'individu" et "parce qu'il estime qu'il a à faire à l'homme pécheur". Au sein de la société, affirme Luther, "chaque homme trouve sa vocation dans les obligations ponctuelles de son état (Beruf), dans la réalisation de la charge que Dieu lui a confiée, domaine dans lequel il reste soumis à l'autorité séculière" (Jacques Droz, "Histoire des doctrines politiques en Allemagne", PUF, que sais-je?, Paris 1978, p.22). Sombart rejoint ici aussi l'opinion de Luther. Enfin, pour Luther comme pour le luthérien Sombart, la division de l'humanité en peuples et en Nations correspond à un plan divin: le peuple (Volk) est un organisme d'origine divine appelé à remplir une mission au sein de l'humanité (idée reprise et développée par le luthérien Herder).

 

Etre un peuple de l’esprit, de l’action et de la variété

 

Pour remplir la mission que Dieu lui a confiée au milieu des autres peuples, le peuple allemand doit, selon Sombart, être toujours plus un peuple de l'esprit, de l'action et de la variété.

 

Le luthérianisme conduit donc Sombart à l'étatisme (dans sa version prussienne), au rationalisme -les germanistes français ont révélé le lien très étroit qui unissait le luthérianisme au nationalisme allemand (Jacques Droz, "Histoire des doctrines  politiques en Allemagne", Edmond Vermeil "l'Allemagne Essai d'explication", etc.) mais ils l'ont évidemment, caricaturé-, au "corporatisme" (le terme de "corporatisme" n'est peut-être pas très approprié: il ne s'agit pas ici en effet de la Corporation mais du "stand", l'état, voir plus loin).

 

Sombart est un nationaliste mais il apparaît en retrait par rapport à d'autres auteurs nationalistes, notamment par rapport aux "völkische" stricto sensu (ceux qui mettent l'accent sur la dimension raciale-biologique du peuple): le peuple n'est pas conçu à la manière völkisch comme race, le peuple pas plus que la Nation ou l'Etat ne sont assimilés à des organismes naturels (mais plutôt, à des entités spirituelles -l'organicisme au sens strict est rejeté comme biologisme.

 

Il faut remarquer que le luthérianisme professé par Sombart l'est aussi par des "socialistes allemands" proches de lui: Otto Strasser, les membres du groupe constitué autour de la revue "die Tat" notamment Hans Zehrer et Léopold Dingräve (surnom de Wilhelm Eschmann).

 

Le socialisme de Sombart est un anti-judaïsme: "(...) ce que nous avons défini comme étant l'esprit de l'ère économique est justement, à beaucoup d'égards, l'esprit juif. Et, dans ce sens, Karl Marx a certainement raison quand il dit que "l'esprit pratique des Juifs est devenu l'esprit pratique des peuples chrétiens" et que "les Juifs se sont émancipés dans la mesure où les chrétiens sont devenus juifs" et encore que "la nature réelle des Juifs s'est concrétisée dans la société bourgeoise"." ("le socialisme allemand" pp. 215/216). Le capitalisme incarne l'esprit juif, il appartient au "socialisme allemand" d'incarner l'esprit allemand.

 

Le socialisme prolétarien est un capitalisme à rebours

 

Par sa nature même, le socialisme allemand" s'oppose au socialisme prolétarien. Le socialisme prolétarien est "un capitalisme à rebours, le socialisme allemand est un anti-capitalisme. L'œuvre libératrice du socialisme allemand ne se limite pas à une classe ou à un autre groupe de la populaton mais s'étend à celle-ci toute entière, dans toutes ses parties (...). Le socialisme allemand n'est pas un socialisme prolétarien, petit-bourgeois ou "partiel", c'est un "socialisme populiste" (ibid.p.180). Il embrasse le peuple entier dans tous les domaines de sa vie.

 

Pour Sombart, le socialisme prolétarien est "le fils authentique" de l'ère économique. Il en a toutes les tares. Dans son livre sur "Le socialisme allemand", Sombart définit rapidement le contenu idéologique du socialisme prolétarien et critique ses fondements pseuod-scientifiques: il lui reproche notamment d'avoir, avec sa théorie de l'histoire, transformé "les traits particuliers de l'ère économique en traits généraux ce l'histoire de l'humanité" (ibid. p.130). Sombart ne fait que reprendre, pour l'essentiel, les thèses qu'il développa dans "Le socialisme prolétarien" en 1924.

 

A l'époque où Marx fit ses débuts das la vie active (entre 1840 et 1850), écrit Sombart, "le capitalisme représentait un chaos, quelque chose d'informe, dont il était impossible de prévoir avec certitude les effets et les conséquences. Celui qui en abordait l'étude, guidé par l'idée de l'évolution (et telle fut précisément l'idée directrice de Marx), pouvait assigner à son devenir tous les buts qu'il voulait. Il pouvait y voir en germe les choses les plus magnifiques, prétendre que ce chaos était fait pour enfanter un monde de merveilles, un monde idéal, dont le capitalisme serait la phase préalable, la condition nécessaire" ("L'apogée du capitalisme", pp. 15/16). On comprend ainsi les "bizarres prédictions" de Marx "relatives à l'augmentation illimitée de la productivité, à la "concentration" générale des industries, à l'écroulement final et inévitable de l'édifice économique, etc.". Ainsi se justifiait l'optimisme de Marx. Mais, constate Sombart, le capitalisme nous est désormais connu: "Nous ne sommes plus assez naïfs et ignorants pour adorer le capitalisme comme une Sainte Vierge qui porte dans ses flancs le Rédempteur" (ibid, p.17).

 

Se mettre à l’écoute dela “Volkheit”

 

Le "socialisme allemand" exige un Etat fort. Cet Etat fort s'identifie à l'Obrigkeitstaat de tradition luthérienne, dont le chef, le Prince, n'est responsable que devant Dieu, et que Sombart veut, comme Goethe, à l'écoute non du peuple mais de la "populité" (Volkheit) -sur ce dernier point, Sombart démarque Wilhelm Stapel, auteur protestant d'une "théologie du nationalisme" (dont le titre exact est: "L'homme d'Etat chrétien. Théologie du nationalisme", paru en 1932). Stapel écrivait: "Les lois justes ne doivent pas correspondre à la "volonté du peuple", mais à la "volonté de la Volkheit". Car le peuple ne sait jamais d'une volonté claire ce qu'il veut,  mais la Volkheit est raisonnable, constante, pure et vraie."- Sombart n'est pas le seul à préconiser un renouveau de l'Obrigkeitstaat, d'autres en Allemagne préconisent aussi (des représentants de la jeune génération parmi lesquels ses disciples de "die Tat").

 

L'étatisme de Sombart n'est pas fondé sur la seule doctrine de Luther. Sombart cite Hegel et prétend se rattacher à "la conception allemande de l'Etat" (l'Etat y est envisagé comme une "union idéale" par oppo-sition à la conception rationnelle et individualiste) à laquelle sont restés fidèles les conservateurs prussiens et les socialistes allemands (Lorenz von Stein, Rodbertus, Lassalle).

 

L'Etat allemand qu'il imagine devrait s'inspirer de l'exemple de l'Eglise catholique ou de l'armée prussienne et, tout en étant fort, il devrait être fédératif et décentralisé.

 

"Le socialisme allemand désapprouve (…) la forme qu'a revêtue la société à l'époque économique". Il aspire à un ordre social "corporatif" ou "organique" ou "populaire", notions qui paraissent s'unir toutes en celle de répartition par états"("le socialisme alle-mand", p.240). Sombart établit "une distinction catégorique entre deux notions d'état: la notion sociale et la notion politique". Dans le premier sens, l'état est un "tout partiel" qui, avec d'autres "touts partiels", constitue "l'organisme social". "La notion politique de l'état-classe est par contre celle qui entend par état un groupe qui est reconnu comme tel par l'Etat-pouvoir politique, qui y est incorporé et qui en a reçu des missions déterminées. Ces missions sont principalement les suivantes: (1) entretien d'une mentalité particulière, d'un esprit particulier (…); (2) renforcement du principe de l'inégalité dans l'Eta-pouvoir politique par l'octroi à l'état-classe de privilèges déterminés ou le retrait de droits déterminés; (3) exercice de fonctions dans la vie po-litique et sociale." (ibid, p.242). Pour Sombart, c'est dans un sens politique qu'il convient d'entendre la notion d'état.

 

Cette conception de l'état procède à la fois du "Beruf" luthérien et du "Stand" romantique remis à l'honneur par l'école viennoise d'Othmar Spann. L'idée d'état connaît alors un vif succès dans les milieux nationalistes allemands, particulièrement chez ceux qui s'y veulent "socialistes allemands".

 

La technique doit se plier au nomos

 

Nous vivons dans l'âge technique, constate Sombart. "Si notre époque est celle de la technique, c'est qu'elle a oublié les buts pour les moyens, autrement dit, qu'elle a vu le but final dans la création artificielle des moyens". Tout le monde admire les produits d'une technique perfectionnée "sans se demander quels buts seront ainsi atteints, sans apprécier les valeurs qui seront ainsi produites" (ibid. p.276). "A quel point la technicisation de notre époque est avancée, on le voit par la façon dont le culte de la technique s'étend à tous les domaines de notre culture et les marques tous de son empreinte" (ibid, p.277). Face à cet état de fait, comment réagir? Sombart rejette les "théories fatalistes" ("la technique moderne permet aux hommes de rationaliser la terre"): le "socia-lisme allemand" domestiquera la technique et la pliera au nomos! Sombart préconise, outre un certain nombre de mesures policières, un contrôle de l'office des Brevets sur la valeur de l'invention puis un contrôle sur l'application de l'invention; la recher-che scientifique sera enlevée à l'initiative privée et confiée à un institut d'Etat; les inventeurs seront rémunérés sans tenir compte de la valeur com-merciale ou industrielle de l'invention, "ainsi la fièvre des inventeurs tombera".

 

Le "socialisme allemand" doit encourager une "bonne consommation" qui entretienne "des formes de vie simples et naturelles". Sombart rejette la culture prolétarienne et lui préfère une culture "bourgeoise" (c'est-à-dire une certaine aisance) et paysanne (bien enracinée et variée). Il rejette aussi le "luxe capitaliste du bourgeois" et réserve l'éclat et la splendeur à l'Etat.

 

La consommation en Allemagne est pour Sombart mal organisée d'un point de vue quantitatif et qualitatif. Beaucoup de défauts de la consommation actuelle dépendent de certaines conditions de la vie moderne (urbanisation, notamment). L'Etat doit donc intervenir pour amener les masses à modifier leur consommation.

 

Le "socialisme allemand" vise aussi à l'orga-nisation de la production. Sombart veut subs-tituer une économie planifiée à l'économie "libre" (c'est-à-dire abandonnée à l'arbitraire des individus). Remarque préalable: "économie plani-fiée" ne signifie pas pour Sombart "collectivisme". Dans l'économie qu'il envisage "la propriété privée et la propriété collective subsisteront côte à côte" (éco-nomie mixte) mais la propriété privée sera "une propriété donnée en fief" (ibid., p.346). Opposé au collectivisme doctrinaire, Sombart ne manifeste cependant pas un respect exagéré pour la propriété privée: pendant la Grande Crise, il réclame la création d'une "propriété sociale" (Louis Dupeux, op. cit., p.15).

 

L’économie planifiée selon Sombart

 

Une véritable économie planifiée, d'après Sombart, se caractérise par:

 

- la totalité "c'est-à-dire qu'il n'y a économie planifiée que lorsque le plan embrasse l'ensemble des exploitations et des phénomènes économiques à l'intérieur d'un territoire important" ("le socialisme allemand", p.302). Mais le plan peut comptendre des zones libres "où l'individu pourra faire et laisser faire ce qui lui plaira".

 

- "l'unité, c'est-à-dire un centre unique d'où émane le plan" (ibid., p.303). L'économie doit être soumise au "Führerprinzip" et au-dessus des chefs  d'entreprise, il doit exister une direction suprême: le "conseil suprême économique" (le centre unique de décision ne peut être que l'Etat, ou une émanation de celui-ci, c'est dire qu'une économie planifiée ne peut être qu'une économie nationale. Mais l'économie nationale doit être nécessairement planifiée si on veut qu'elle assure l'unité de la Nation).

 

- la variété: le plan doit tenir compte de la dimension des domaines économiques; de la structure sociale d'un pays donné; du caractère national, du niveau culturel et de toute l'histoire du pays. Les diverses branches de l'économie doivent être organisées différemment et cette organisation varie à l'intérieur même de chaque branche. L'économie planifiée doit aussi avoir des moyens d'action variés.

 

C'est ainsi que l'économie planifiée nationale cor-respond à cette "économique qu'Aristote opposait à la chrématistique"." (ibid., p.306).

 

Autarcie et autarchie

 

A l'économie mondiale en crise, Sombart oppose l'autarcie. "Autarcie ne signifie pas, bien entendu, qu'une économie nationale doive devenir indé-pendante d'une façon intégrale (…), qu'elle doive renoncer à toute relation internationale quelle qu'elle soit (…). En considérant les faits, je qualifierais déjà d'autarcique une économie nationale qui ne dépend en aucune façon de ses relations avec les peuples étrangers, c'est-à-dire qui n'est pas obligée de recourir au commerce extérieur pour assurer sa propre existence (…)" (ibid., p.310). Mais "l'autarchie est plus importante que l'autarcie. Or l'autarchie nationale réside dans le fait que les catégories où nous pensons les relations internationales de l'avenir ne sont plus celles du commerce libre -où l'on trouvait, à la première place, la funeste clause de la nation la plus favorisée- mais celle d'une politique nationale planifiée: traités de commerce, unions douanières, droits préfé-rentiels, contingentements, interdictions d'impor-tation et d'exportation, commerce de troc, principe de la réciprocité, monopole du commerce de certains articles, etc." (ibid., p.348).

 

Sombart s'en prend à la grande industrie: son socialisme doit favoriser l'économie paysanne et artisanale et donc les classes moyennes. A l'opposé du socialisme prolétarien, le "socialisme allemand" met au centre de sa sollicitude non pas le prolétariat, mais les classes moyennes qui sont le plus aptes à défendre les intérêts de l'individu comme de l'Etat: c'est uniquement dans les exploitations paysannes et artisanales que l'hommes ayant une activité économique trouve la possibilité de se développer pleinement, de donner son véritable sens au travail, forme la plus importante de la vie humaine" (ibid., pp.318/319). Le "socialisme allemand" veillera au développement de l'activité artisanale, à la réorganisation du pays et s'opposera à l'indus-trialisation croissante de l'agriculture.

 

Domaine de l’industrie et Plan

 

Dans le domaine de l'industrie, Sombart préconise, outre la soumission des entreprises aux objectifs du plan:

 

- la socialisation de certains secteurs stratégiques de l'économie et un contrôle de l'Etat sur les entreprises abandonnées au capitalisme (notamment un contrôle du crédit);

- l'amélioration des conditions de travail et la fixation des salaires ouvriers par l'Etat;

- la fin de la concurrence sauvage et de la "con-currence suggestive" (la publicité); en revanche "la concurrence matérielle ne doit pas être exclue des cadres de l'économie dirigée";

- l'abandon du principe de rentabilité remplacé par l'"esprit ménager"

-         une "production permanente et continue": "nous sommes maintenant mûrs pour une économie stationnaire et nous renvoyons l'économie "dynamique" du capitalisme là où elle avait son origine: au diable". "En stabilisant nos méthodes de production, de transport et de vente, nous supprimons une des causes des arrêts et troubles périodiques du processus économique et, par conséquent, le danger toujours menaçant du chômage, la pire des plaies de l'ère économique" (ibid., pp.340/341).

 

Lutte contre le chômage et travaux publics

 

L'Etat doit lutter contre le chômage et en même temps entreprendre la transformation de l'économie nationale. Pour lutter contre le chômage, écrit Sombart, l'Etat doit se créer une capacité d'achat supplémentaire qu'il utilisera afin d'entreprendre ou d'encourager des travaux convenables (c'est-à-dire des travaux "dont la réalisation peut entraîner une augmentaton, notamment une augmentation durable de la productivité nationale, plus exactement encore une augmentation du volume des marchandises"; ces travaux doivent être des travaux durables ou entraîner des travaux durables qui contribuent à un développement permanent de l'organisme produc-teur"; ces "travaux doivent ouvrir ces sources intaris-sables au sein de l'économie nationale allemande, afin de la rendre plus productive et susceptible de devenir indépendante"(ibid., pp 356/357).

 

Pour Sombart, la colonisation agricole semble le meilleur moyen de ranimer l'économie allemande et d'entraîner une transformation de celle-ci et de la société elle-même dans le sens voulu par le "socialisme allemand".

 

Sombart reprend ici à son compte le programme d'Heinrich Dräger et de Gregor Strasser qu'il avait approuvé et soutenu en 1932. Heinrich Dräger, fabricant de Lübeck et fondateur de la "Société d'Etudes pour une économie monétaire et une économie de crédit" (à laquelle collaborait Ernst Wagemann), défendait l'idée de "la création de travail par la création de crédit productive" (cf. Jean-Pierre Faye, "Langages totalitaires", Hermann, Paris, 1973, pp.647/648). Dräger rédigea pour Gregor Strasser (alors n°2 du Parti nazi et dirigeant de son aile gauche), la seconde partie du "programme économique de la NSDAP" publié en août 1932 sous le titre de "Sofortprogramm". Ce texte proposait un programme de création de travail de grande envergure mené sous l'égide de l'Etat et accompagné de réformes de structure. Il prévoyait, à côté de la modernisation des villes et de la construction d'habitats sains, le partage des grandes propriétés foncières non rentables en vue de l'établissement de paysans sans terre et l'exécution de travaux nécessaires au développement de l'économie rurale (ibid., pp 656 et 672).

 

En guise de conclusion …

 

Il est impossible de dissocier le scientifique Sombart, sociologue, économiste et historien de l'économie, du Sombart militant, marxiste puis "socialiste allemand" et nationaliste luthérien. Le premier étudie froide-ment le capitalisme et l'esprit capitaliste, le second les condamne en bloc et bâtit une alternative. Les deux se complètent. Pendant la Grande Guerre, "Marchands et héros" fait écho au "Bourgeois", Sombart y oppose au type humain bourgeois, porteur du capitalisme, le héros porteur de ce qu'il définira plus tard comme "socialisme allemand". Le "socialisme allemand" fait écho pendant la Grande Crise au maître-ouvrage de Sombart, "le capitalisme moderne" achevé peu avant.

 

Sombart a probablement influencé (et subi l'influence) de nombreux autres "socialistes allemands". Sombart avoue d'ailleurs cette parenté: le socialisme dont il se réclame, il le voit représenté en Allemagne par de nombreux nationaux-socialistes (sans doute pense-t-il plus particulièrement à Gregor Strasser), "par plusieurs adhérents à l'ancien Front Noir parmi lesquels se distingue Otto Strasser, auteur d'un livre plein de pensée, "Der Aufbau des deutschen Sozialismus" (1932), ainsi que par plusieurs isolés, comme les partisans de l'ancien milieu du "Tat" (de l'"Action"): Eschmann, Fried, Wirsing, Zehrer, etc., par des hommes comme August Winnig, August Pieper, et beaucoup d'autres encore" ("Le socialisme allemand", p.140).

 

Mais, les convictions personnelles de Sombart, et plus encore: son ton, le rapprocherait plutôt d'un autre courant situé nettement plus "à droite" et dans lequel on peut ranger Oswald Spengler; Wilhelm Stapel, directeur de la revue "Deutsches Volkstum" (Hambourg); Karl-Anton Prinz Rohan, directeur de l'"Europaïsche Revue"; Othmar Spann, idéologue de l'"austro-fascisme"; Edgar Jung, animateur du "Münchener Kreis", conseiller de von Papen; Heinrich von Gleichen, animateur et président du "Herrenklub"; voire Julius Evola. etc. Avec eux Sombart partage l'inspiration chrétienne, une idée de la race (et du Volk) dégagée de la biologie, une conception de l'Etat autoritaire éventuellement ditrigé par une aristocratie de naissance, une conception "universaliste" du corps social et la vision d'un ordre social fondé sur la hiérarchie des "Stände" qiu n'est pas sans évoquer, tout nuance péjorative mise à part, l'ordre des castes, etc. Un crédo qui s'oppose point par point au crédo du nationalisme populaire (Völkisch) qui s'est pourtant inspiré de Sombart pour construire sa doctrine économique.

 

Thierry MUDRY.

(article paru  dans la  revue “Orientations”, Wezembeek-Oppem, n°12, été 1990/hiver 1990-91).

jeudi, 05 novembre 2009

Bourdieu analyse le néo-libéralisme

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Bourdieu analyse le néo-libéralisme

http://unitepopulaire.org/

« L'euphémisme est indispensable pour susciter durablement la confiance des investisseurs – dont on aura compris qu'elle est l'alpha et l'omega de tout le système économique, le fondement et le but ultime, le telos, de l'Europe de l'avenir – tout en évitant de susciter la défiance ou le désespoir des travailleurs, avec qui, malgré tout, il faut aussi compter, si l'on veut avoir cette nouvelle phase de croissance qu'on leur fait miroiter, pour obtenir d'eux l'effort indispensable. […]

Si les mots du discours néolibéral passent si facilement, c'est qu'ils ont cours partout. Ils sont partout, dans toutes les bouches. Ils courent comme monnaie courante, on les accepte sans hésiter, comme on fait d'une monnaie, d'une monnaie stable et forte, évidemment, aussi stable et aussi digne de confiance, de croyance, que le deutschemark : « Croissance durable », « confiance des investisseurs », « budgets publics », « système de protection sociale », « rigidité », « marché du travail », « flexibilité », à quoi il faudrait ajouter, « globalisation », « flexibilisation », « baisse des taux » – sans préciser lesquels – « compétitivité », « productivité », etc.

Cette croyance universelle, qui ne va pas du tout de soi, comment s'est-elle répandue ? Un certain nombre de sociologues, britanniques et français notamment, dans une série de livres et d'articles, ont reconstruit la filière selon laquelle ont été produits et transmis ces discours néolibéraux qui sont devenus une doxa, une évidence indiscutable et indiscutée. Par toute une série d'analyses des textes, des lieux de publication, des caractéristiques des auteurs de ces discours, des colloques dans lesquels ils se réunissaient pour les produire, etc., ils ont montré comment, en Grande-Bretagne et en France, un travail constant a été fait, associant des intellectuels, des journalistes, des hommes d'affaires, dans des revues qui se sont peu à peu imposées comme légitimes […]

Ce discours d'allure économique ne peut circuler au-delà du cercle de ses promoteurs qu'avec la collaboration d'une foule de gens, hommes politiques, journalistes, simples citoyens qui ont une teinture d'économie suffisante pour pouvoir participer à la circulation généralisée des mots mal étalonnés d'une vulgate économique. Un exemple de cette collaboration, ce sont les questions du journaliste qui va en quelque sorte au devant des attentes de l’économiste : il est tellement imprégné par avance des réponses qu'il pourrait les produire. C'est à travers de telles complicités passives qu'est venue peu à peu à s`imposer une vision dite néolibérale reposant sur une foi d'un autre âge dans l'inévitabilité historique fondée sur le primat des forces productives. Et ce n'est peut-être pas par hasard si tant de gens de ma génération sont passés sans peine d'un fatalisme marxiste à un fatalisme néolibéral : dans les deux cas, l'économisme déresponsabilise et démobilise en annulant le politique et en imposant toute une série de fins indiscutées, la croissance maximum, l'impératif de compétitivité, l'impératif de productivité, et du même coup un idéal humain, que l'on pourrait appeler l'idéal FMI (Fonds monétaire international). On ne peut pas adopter la vision néolibérale sans accepter tout ce qui va de pair, l'art de vivre yuppie, le règne du calcul rationnel ou du cynisme, la course à l'argent instituée en modèle universel. Prendre pour maître à penser le président de la Banque fédérale d'Allemagne, c'est accepter une telle philosophie.

Ce qui peut surprendre, c'est que ce message fataliste se donne les allures d'un message de libération, par toute une série de jeux lexicaux autour de l'idée de liberté, de libéralisation, de dérégulation, etc., par toute une série d'euphémismes, ou de double jeux avec les mots. […] Si cette action symbolique a réussi au point de devenir une croyance universelle, c'est en partie à travers une manipulation systématique et organisée des moyens de communication. Ce travail collectif tend à produire toute une série de mythologies, des idées-forces qui marchent et font marcher, parce qu'elles manipulent des croyances : c'est par exemple le mythe de la globalisation et de ses effets inévitables sur les économies nationales ou le mythe des "miracles" néolibéraux, américain ou anglais. »

 

Pierre Bourdieu, "Dans la tête d’un banquier", Le Monde Diplomatique, septembre 1997

mardi, 03 novembre 2009

Triste mondialisation...

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Triste mondialisation...

Ex: http://unitepopulaire.org/

« En vingt ans, les pays de l'Est se sont mondialisés à la vitesse grand V. A peine le mur de Berlin était-il tombé que les enseignes du "monde libre" déboulaient en force pour y planter leur logo. […] Les mêmes chaînes de vêtements low-cost, les mêmes fast-foods, les mêmes centres commerciaux, reproduits à l'identique et à l'infini aux quatre coins de la planète. Les sorties dans les shopping centers sont d'ailleurs devenues un but d'excursion en soi. […]

Grâce à Ikea, les intérieurs du monde ont d'ailleurs de plus en plus tendance à tous se ressembler. Ne dit-on pas que, déjà, un Européen sur dix aurait été conçu sur un lit Ikea ? Pour ensuite vivre sa vie dans des salons et des chambres à coucher copies conformes des pages du catalogue.

Question gastronomie, voyager loin ne permet plus forcément de manger différemment et de découvrir des plats typiques. Tant il devient difficile d'échapper à la dictature des hamburgers et à leurs corollaires : les pizzas, les crêpes et les sandwiches, assortis de quelques nouilles sautées. Ces fleurons de la world food nous poursuivent jusqu'au bout du monde, sur les plages de Tunisie ou de Thaïlande, comme au pied des pyramides d'Egypte ou de la Grande Muraille de Chine.

Est-ce pour éviter tout dépaysement ? L'aéroport de Genève vient en tout cas d'inaugurer "un nouveau concept de restauration" (sic) qui, sous l'appellation Les Jardins de Genève, réunit la quintessence de la bouffe mondialisée – Burger King, Starbucks Coffee, Upper Crust... Mais à l'heure où même le Musée du Louvre à Paris va prochainement accueillir un McDonald's, il n'y a plus qu'à s'incliner. Et à se diriger dare-dare vers le premier M jaune venu, pour y commander tranquillement son McRösti. »

 

Catherine Morand, Le Matin Dimanche, 18 octobre 2009