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dimanche, 28 novembre 2010

Comunità e Comunitarismo

Comunità e Comunitarismo

di Luca Lionello Rimbotti

Ex: http://www.centroitalicum.it/

index.jpgLa lotta che l’individualismo liberaldemocratico ha ingaggiato per demolire ogni realtà e rappresentazione comunitaria ha il significato di un finale regolamento di conti tra l’umano e il disumano. Al fondo, si apre una divaricazione tra visioni del mondo che è oltre la sociologia, oltre la storia, investendo l’antropologia e la vita di base di ognuno. Chi cura l’appartenere e percepisce il legame, avverte la precisa sensazione, e la avverte come verità di evidenze, che l’individuo è preceduto da qualcosa che lo connota e lo distingue, cioè la comunità che gli dona individuazione anche come singolo soggetto, e senza la quale l’essere non è appunto individuabile, non è descrivibile, non rivela nulla di sé, se non la solitudine astratta e il nonsenso concreto. Chi giudica che la società venga prima dell’individuo pensa socialmente, pensa comunitariamente, pensa plurale. Chi invece giudica che sia l’individuo a venire prima della società ragiona in termini di monade semplice e ottusa: l’essere umano assembrato casualmente, riunito in folla per necessità e bisogno. I “contrattualisti”, quei liberali che pensano la società come nata dall’incontro dei meri bisogni, costituiscono i grandi demolitori moderni dell’idea comunitaria. Coloro che da secoli tendono l’insidia ad ogni costituirsi di tessuti relazionali e di legami politici e metapolitici. Essi pensano unicamente entro categorie individuali: l’interesse, la sicurezza, il profitto.


Costoro sono ancora tra di noi a recare danno. Con le iniezioni di emigranti ad alto dosaggio il pensiero unico è vicino alla meta di creare un mondo di disgregazione, in cui abbia rilievo sociale unicamente l’individuo e invece alle comunità – storiche, geografiche, etniche – venga costantemente innalzata la forca, come a isole di conservatorismo, di oscurantismo, di razzismo da demonizzare e perseguitare. Dopotutto, ancora oggi è in pieno svolgimento la lotta ottocentesca tra la comunità e la società. E, come un paio di secoli fa, abbiamo i poteri centrali assolutisti che minano le realtà locali, le svellono e le annichiliscono a suon di immigrazione e di propaganda “multietnica”: il che vuol dire “anti-etnica”. La società è quel luogo in cui tutte le identità vengono negate e in cui la Modernità compie il suo prodigio cosmopolita. La comunità è al contrario quel luogo in cui l’identità viene protetta con le unghie e coi denti, in cui i patrimoni biostorici vengono rivendicati, le appartenenze si armano a difesa e si rinsaldano. Il dominio assoluto del pensiero neo-illuminista prevede la disintegrazione della realtà di popolo, alla quale si sostituisce quella di popolazione, la massa priva di volto e di carattere. «Storicamente, la filosofia illuminista – ha scritto recentemente de Benoist – se l’è presa prima di tutto con le comunità organiche, delle quali attaccava il modo di vita considerandolo impregnato di “superstizioni” irrazionali e di “pregiudizi”, proponendosi di sostituirle con una società di individui».
Questo lavoro secolare è prossimo alla realizzazione finale. Anche se, nel frattempo, qua e là per l’Europa si colgono sintomi di risveglio della “provincia” profonda, partiti “contadini” che nascono, movimenti di difesa etnica che sembrano muovere i primi passi, magari ottenendo anche buoni risultati elettorali a scorno dell’europeismo bancario e mondialista.


Il comunitarismo organico ha poco a che vedere con la linea di pensiero di eguale nome che ad esempio in America raccoglie qualche avversario del liberismo. Laggiù, si tratta ancora e di nuovo di un equivoco: far passare per anti-liberale ciò che è di fatto libertario e “democratico” nel senso deteriore, depotenziato, del termine. Il “comunitarismo” made in Usa è un balocco intellettuale nato in qualche campus, è il vezzo di qualche professor e l’esca di qualche outsider, non ha la sostanza di un retaggio concreto e non è per nulla radicato a realtà etniche e storiche connotate. Per comunitarismo, qui da noi in Europa, si intende da sempre un’altra cosa. L’appartenenza a una bio-storia con tanto di geografia, di lingua, di paesaggio e di tradizione. Non un metodo “democratico”, ma un fatto antropologico. In Europa, il comunitarismo non è un’opzione nata in aule universitarie di alternativa borghese, ma una realtà sgorgata dalla terra e dalla storia, un accumulo secolare che alla fine ha dato una somma totale: l’identità. In Europa la “regione” è un fatto. E l’autogoverno microcomunitario è storia. Gli assolutismi illuministi vecchi e nuovi negano questo fatto e questa storia, ma essi esistono ugualmente e vivono, più o meno sottotraccia. Gli imperi erano sistemi di “regioni”, di regionalismi comunitari, di città libere, di comunità di villaggio, di assemblee locali, di autogestione delle economie, di cooperazione sociale, di suddivisione del lavoro, di corporazoni di mestiere, di statuti autonomi, di competenze ereditate. L’Europa delle nazioni, nata dal feudalesimo comunitario, è il frutto della solidificazione politica delle diverse comunità viventi. I centralismi giacobini, adusi alla violenta negazione della “periferia”, oggi ripetono la loro aggressiva politica di spoliazione identitaria attraverso strumenti artificiali, semi-massonici, del tipo del baraccone mondialista di Bruxelles, epicentro della voluta dis-integrazione.
In Europa, persino le dittature totalitarie sono state fortemente comunitariste – in senso non solo nazionale, ma di territorialità locale. Ad onta di un potere centrale forte (ma che certi storici hanno invece definito “debole”), esse dettero fiato politico alla comunità di zona, alla regione, fino alla vallata o al territorio storico, al Gau, al Kreis, alla circoscrizione, al distretto. Per dire, persino il fascismo “centralista” e autoritario riconosceva le “piccole patrie”, incoraggiava il tradizionalismo locale, l’identificazione territoriale, addirittura i dialetti, i folcklori, gli immaginari contadini legati alla zolla, e al suo interno poterono avere il loro ruolo riconosciuto proto-leghismi ben strutturati, del tipo di “Strapaese”. Si santificavano i luoghi dell’identità, da Fiume alla Dalmazia, e si sacralizzavano i diversi ceppi etnici: le “forti genti del Cadore”, i “fanti della Peloritana”...E persino il Terzo Reich, anzi, proprio il Terzo Reich, con un imprinting di tipo propriamente neoimperiale, fece una politica di disgregazione dello Stato nazionale liberalmassonico e di riscoperta delle aggregazioni etniche: la Slovacchia, la Vallonia, le Fiandre, l’Austria tornata “marca orientale” come nel Medioevo, il Voralpenland – che, alla maniera di un Gianfranco Miglio quarant’anni dopo, concepiva solidarismi transnazionali, macroregionali, di aree geografiche omogenee – e si pensava niente di meno che a riesumare qualcosa come la Borgogna, l’Alvernia, il Gotenland, etc. Per dire, ai congressi del partito, si recitava una preghiera patriottica – lo Spatengruss – in cui ogni comunità di schiatta proclamava la sua provenienza (Pomerania, Slesia, Renania...) e recava una manciata della sua terra, da fondere simbolicamente a tutte le altre...e questo molto prima che Bossi raccogliesse nell’ampolla l’acqua del Po alle feste popolari della Lega Nord.... L’Europa nata dal crollo sovietico è andata spontaneamente in questa direzione, senza stare a sentire i diktat globalisti: gli Stati artificiali nati dai trattati di pace – come la Cecoslovacchia o la Jugoslavia – si sono disintegrati automaticamente e hanno dato vita a quello che già esisteva nel 1941: la Croazia, la Slovacchia, la Boemia- Cechia, la Serbia...persino l’Ucraina indipendente, quale l’aveva concepita lo Stato Maggiore guglielmino nel 1918, è risorta tale e quale. I nazionalismi oggi rilanciati, i regionalismi recentemente rianimati, dalla Corsica alle Fiandre, dalla Catalogna alla Padania alla Bretagna, sono il segnale di un comunitarismo di nuovo vivace e concreto, l’unico vero, l’unico storicamente rilevabile. Che bene o male è popolo, suolo comune e storia condivisa.


Tutto questo ci parla di due volontà, due direttrici in opposizione tra loro. Da un lato il termitaio di Cosmopoli, dall’altro la comunità. Dalla più grande, lo Stato nazionale o possibilmente un domani la federazione tra Stati polarizzati da un forte centro politico-simbolico, fino alla più piccola, la famiglia, il nucleo parentale, il ceppo ereditario. Cosa del tutto naturale è che i cosmopoliti abbiano in odio questo comunitarismo territoriale, che lo infamino quale rifugio di ogni male: gretto conservatorismo, causa di “frammentazione sociale”, di chiusura autistica al mondo...mentre la verità è all’opposto. Soltanto una matura consapevolezza identitaria, fortemente difesa e rinsaldata di fronte agli assalti della Modernità, è in grado di garantire continuità alle differenze. Dove regna l’indistinto, lì si ha davvero non il “multiculturalismo”, ma la soppressione di ogni cultura.


Contrariamente a quanto pensa de Benoist, non ritengo che l’ascesa recente delle comunità sia «concomitante all’esaurimento dello Stato nazionale ». Lo Stato nazionale, anche quello scompaginato dei nostri giorni, è tutt’altro che alla fine del suo ruolo storico. E i nuovi comunitarismi che sorgono al suo interno ne testimoniano, a mio parere, anziché il declino, il rafforzamento e l’immutato significato di essenziale contenitore. Come di cosa viva, che non sta in piedi per apparato burocratico, ma per convivenza conciliatrice tra realtà omogenee ma differenziate, simili ma non necessariamente uguali, che tendono all’affermazione, alla visibilità, al riconoscimento. Il regionalismo non nega, ma presuppone lo Stato nazionale. In assenza di qualche forma imperiale di Europa, o di un unico potere che gestisca l’autorità di tutto il continente – poiché l’autorità sovrana può essere solo una e indivisa - lo Stato nazionale è il perfetto veicolo delle differenziazioni comunitarie. In questo contesto, gli imbrogli lessicali, che tendono a separare concettualmente la comunità organica tradizionale da un supposto “comunitarismo” progressista, non fanno parte della scena storica, ma di quella di una tarda ideologia post-marxista, alla ricerca disperata di un rilancio qualsiasi. Sono asserzioni fuori contesto, che saltano a pie’ pari e per pregiudizio egualitarista ogni tratto qualificante, ogni centro di individuazione, in primis il dato etnico-biologico che dà forma fisica al contenuto culturale. Il “comunitarismo” che oggi ha qualche voce in capitolo negli Stati Uniti, è chiaramente un altro mondo, che nulla ha a che fare con il fenomeno europeo di cui ha usurpato il nome. Di là dall’Atlantico, chiunque può dirsi “comunitarista” a poco prezzo. Anche tra i più tenaci globalizzatori si può sempre trovare qualcuno che dica di avere una sfumatura un po’ diversa...come dire, meno appiattita sul liberismo, più “di base”, ma pur sempre alla maniera americana: “comunitaristi”, a quei livelli, si può essere senza alcun impegno, dai Clinton a certi confessionalismi bacchettoni, fino ai famosi neoconservatives...notoriamente portatori di un “comunitarismo” morale, chiesastico, alla quacchera, che nulla accomuna al senso della vera comunità solidale totale: questa prevede una stirpe ben connotata, un territorio, una tradizione, una Kultur. Il falso “comunitarismo” all’americana è un codice razionale, è la riproposta del vecchio “patto sociale” di sicurezza tra individui e gruppi, di matrice illuminista, è insomma la solita minestra sui “diritti”, è un tragico universalismo e non un sano e realistico relativismo. Riecheggia in queste formule il prepotere repubblicano dei giacobini e il patriottismo debole dei costituzionalisti puritani. Lo stesso MacIntyre, il campione di questa versione contraffatta di “comunitarismo”, che pure seziona l’universalismo liberale nelle tradizioni particolari e che parla di ritorno ad Aristotele, in fondo non fa che ripresentare la nostalgia americana – un po’ reazionaria e molto bigotta – per tutte quelle belle civic virtues celebrate dal Tocqueville...Aristotele, in tutto questo, davvero non c’entra. Lui aveva in mente un’altra cosa, la sua – se vogliamo dirla tutta - era la filosofia politica della comunità gerarchica e guerriera che non si vergogna di parlare chiaro, fino al punto di limitare il privilegio dell’appartenenza ai soli eredi di un retaggio antropologico preciso.


Poiché, tradizionalmente, per l’appunto, l’appartenenza alla comunità è un privilegio, e per nulla un diritto. Ciò che, in Europa, si è da qualche secolo incaricato di dare forma politica a questo privilegio è lo Stato nazionale. Può non piacere, ma è così. Qui il federalismo è altra cosa da quello americano. Il federalismo europeo è concettualmente e storicamente più un impero che una confederazione...lo stesso suono delle parole indica l’opposizione dei significati: da una parte, sacrale comunità giurata di eredi; dall’altra, profana aggregazione di individui per interesse, sulla base del contratto costituzionale. Due universi incomunicanti.


È chiaro che lo Stato nazionale a cui facciamo riferimento, come al migliore contenitore delle differenze di sotto-aggregazione regionalistica, non è quello liberaldemocratico. Questo si nega votandosi all’autodistruzione multietnica. Lo Stato nazionale, al contrario, se è “nazionale” di fatto e non di nome, non può non essere innestato sull’omogeneità di base delle sue componenti. Si ha in vista cioè una differenziazione tra simili, non una convivenza coatta tra dissimili. Oggi occorre diffidare di certi sposalizi morganatici tra post-marxisti e neo-liberali. Sono nozze d’interesse che producono una figliolanza ibrida e di sesso incerto: l’ideologia “comunitarista” così concepita rappresenta un ulteriore stadio di sfaldamento dei significati. La comunità vera e reale, e non quella disegnata sulle cattedre, vive nel segno di poche, ma certissime cose. Significa comunanza di nascita, di terra su cui si vive, di progetti e di destini condivisi, di lavoro inteso a tutti i livelli: dalla produzione materiale alla solidarietà sociale, dal volontariato reciproco alla protezione e alla sicurezza. E fino alla sovranità popolare vera, all’autogestione degli spazi, dei sistemi e dei programmi di vita. Il luogo è il recinto del legame. Un limes lo circonda, lo individua, lo rende percepibile. Questo luogo è lo spazio comunitario in cui un popolo vive e vuole vivere, creando la sua ineguagliabile, irripetibile identità.

vendredi, 26 novembre 2010

El Reich neoconservador de Edgar J. Jung

EL REICH NEOCONSERVADOR DE EDGAR J. JUNG

Alexander Jacob
 
 
El movimiento neo-conservador en la República de Weimar fue una empresa política elitista que pretendía devolver a Alemania a su mundo espiritual original y posición como líder del Sacro Imperio Romano-Germánico medieval de la nación alemana. Constituido por intelectuales como Oswald Spengler, Arthur Moeller van den Bruck, y Edgar Julius Jung, los neo-conservadores estaban destinados a destruir la situación socio-política y ética de la República de Weimar liberal que se había impuesto a Alemania por sus enemigos. La mayoría de los neo-conservadores eran miembros de los clubes de élite de la época, el Juniklub, fundada por Moeller van den Bruck, y su sucesor, el Herrenklub, y se oponían tanto a todos los populistas de los sistemas democráticos liberales.
De los neo-conservadores, tal vez el más influyente teórico y activista político fue, sin duda, el abogado de Munich, Edgar Julio Jung. Jung no era solamente un pensador y propagandista, sino también un político activo en la República de Weimar, después de haber comenzado su carrera política al mismo tiempo que su práctica jurídica poco después de la primera Guerra Mundial. Jung nació en 1894 en el Palatinado bávaro y sirvió como voluntario en la guerra. Después de la guerra, se unió a una unidad del Cuerpo Libre y participó en la liberación de Munich de la República Soviética de Baviera en la primavera de 1919. Antes de la ocupación franco-belga del Ruhr (1923-25), Jung había terminado su doctorado en Derecho y comenzó la práctica en Zweibrücken. Sus actividades políticas durante este tiempo incluyen la organización de la resistencia y de las actividades terroristas contra la ocupación del Ruhr, formando parte del directorio del Deutsche Volkspartei.
Después de la crisis del Ruhr, Jung se estableció como abogado en Munich, donde vivió hasta su muerte. Jung adquirió fama a través de su política de varios escritos en el Deutsche Rundschau, y su tratado político más importante, Die Herrschaft der Minderwertigen (segunda edición, 1929, 30), que, según Jean Neuhrohr, fue considerado como una especie de "biblia del neo- conservadurismo".
En enero de 1930, Jung se unió a la Volkskonservative Vereinigung, un partido de extrema derecha formado inicialmente por doce diputados del Reichstag, que se habían separado de la Volkspartei Deutschnationale dirigido por Alfred Hugenberg. La actitud de Jung frente al Partido Socialista Nacional de Hitler era tibia, a pesar de su admiración por las "energías positivas" del movimiento. Hitler se había postulado a la nación como un ídolo para hipnotizar a las masas ignorantes, mientras que un cierto movimiento conservador trataba de elevar a las masas mediante la invocación de la santificación de su liderazgo. Los partidos de extrema derecha sin embargo estaban demasiado divididos para formar una alternativa sólida a las fuerzas nacionalistas, especialmente después de una segunda secesión de la DNV, que creó otro partido escindido, el Volkspartei Konservative.
El intento de Jung para imponer su propia marca de 'conservadurismo revolucionario' en la VKV se reunió con poco éxito, y cuando la DNV y KVP unieron fuerzas en diciembre de 1930 la dirección de la nueva coalición fue entregada no a Jung, pero sí a Pablo Lejeune-Jung. En enero del año siguiente, Jung y algunos de los conservadores de Baviera formaron la «Bewegung zu Volkskonservative Bewegung deutscher 'como una política de origen"para todos aquellos que, al margen de las consignas y las fórmulas mágicas de la vida política partidaria, estaban dispuestos a mirar los problemas políticos contemporáneos desde la perspectiva exclusiva de la misión histórica del pueblo alemán".
Sin embargo, la negativa de Jung a cooperar con los conservadores más moderados como Heinrich Brüning y los recursos de Treviranus, a fin de promover su propia marca de conservadurismo revolucionario, no ayudó a su movimiento, que había perdido casi toda la fuerza política en la primavera de 1931. La carencia de entusiasmo de Jung por el canciller Brüning fue explicada por él en un borrador de una carta a Pechel de fecha 14 de agosto 1931:
"Sólo cuando el gobierno está en camino de volver al concepto de autoridad y se libera de la esterilidad del parlamentarismo alemán, puede que estas fuerzas se pongan al servicio de la nación en su conjunto. En la reorganización del gabinete, el objetivo debe ser el abandono total de su base del partido. No es la aprobación de las partes, pero la práctica y la competencia profesional deben determinar la selección de aquellos a quienes usted, canciller respetado, tendrán que ayudarle en el dominio de estas tareas difíciles."
Cuando Hitler y el Partido Nacional Socialista obtuveron las victorias masivas en la región y las elecciones estatales del 24 de abril de 1932, Jung dio la bienvenida a la realidad jurídica de la adhesión de los nazis al poder. Porque, aunque Jung estaba temeroso de las tendencias extremistas de los nazis, esperaba que con este proceso legal, se evitaría la debacle de un ataque forzoso a la voluntad política mayoritaria. Además, la marea de entusiasmo nazi en el país era imparable y la alianza conservadora se vió impotente cuando el NSDAP obtuvo una resonante victoria en las elecciones del Reichstag de noviembre de 1932. Jung quedó naturalmente sorprendido cuando Hitler astutamente unió fuerzas con el conservador Von Papen para formar un gobierno de coalición en enero de 1933. Jung siempre mantuvo una actitud de superioridad con el populismo de Hitler, y creía que, puesto que los conservadores eran "responsables de que este hombre llegase al poder, ahora tenemos que deshacernos de él".
Así que, cuando Franz von Papen fue nombrado vicecanciller de Brüning, en 1933, Jung escribió a Papen que ofrecía sus servicios como escritor de discursos y asesor intelectual. Por consejo de su estrecho colaborador, Hans Haumann, Papen invitó a Jung a unirse con su gobierno en una organización con capacidad de asesoramiento. La intención de Jung en el servicio a la administración de Papen fue "para proteger [a Papen] con una pared de los conservadores" que proporcionaría el rector un enriquecimiento moral necesario frente a un rápido ascenso de Hitler al poder. Con la esperanza de frenar el extremismo de Hitler con su ideología conservadora, Jung se destacó como redactor de los discursos para Papen, cuando éste, Hugenberg y Seldte Franz de la Stalhelm se unieron para formar el conservador Kampfront Schwarz-Rot-Weiss. Sus discursos fueron diseñados para impresionar a la nueva coalición de fuerzas de extrema derecha con un sello conservador en lugar del extremista nazi. Jung defendió el gobierno de Papen contra los nazis "de las acusaciones de reaccionarios”, haciendo hincapié en el carácter revolucionario de la nueva derecha y poniendo de relieve lo espiritual y los defectos ideológicos de Hitler y su partido.
Mientras Papen trataba de luchar contra el movimiento nazi desde un punto de vista conservador, Jung escribió una crítica del fenómeno nazi en su Sinndeutung der deutschen Revolución (1933), en el que reiteró sus acusaciones de neoliberalismo y democratismo, al tiempo que destacaba que "el objetivo de la nacional-revolución tiene que ser la despolitización de las masas y su exclusión de la dirección del Estado".
Jung llama a un nuevo estado basado en la religión y en el mundo visto universalmente. No las masas, sino una nueva nobleza, o una élite auto-consciente, debe informar al nuevo gobierno, y el cristianismo debe ser la fuerza moral en el estado. La propia sociedad debe ser organizada jerárquicamente y más allá de los límites del nacionalismo, a pesar de que debe basarse en "una base völkisch indestructible”. La referencia a ir más allá de los límites del nacionalismo fue, por supuesto, motivada por su deseo de restituir un Reich federalista europeo. El conservadurismo de Jung se distinguió también por su llamamiento para la creación de una monarquía electiva y el nombramiento de un regente imperial como el director espiritual del nuevo Reich europeo-germánico. Sin embargo, tanto el proyecto de Reich como el énfasis puesto en las asociaciones völkisch, se llevaron a cabo de forma más dramática y temeraria por Hitler que por cualquiera de los líderes conservadores.
La oposición de Jung a Hitler tomó una forma más concreta a principios de 1934, cuando emprendió numerosos viajes por toda Alemania para desarrollar una red de simpatizantes conservadores que ayudasen a derrocar el régimen de Hitler. El propio Papen no estaba al tanto de los esfuerzos de Jung en esta dirección y la asistencia de Jung vino de Herbert von Bose, Günther von Tschirschky y Ketteler. Jung incluso contemplaba personalmente asesinar a Hitler, a pesar de los temores de que esta acción drástica podría descalificarlo para asumir un papel protagonista en la nueva dirección. Después adoptó la alternativa académica de escribir otro discurso para Papen, última entrega que se desarrolló en la Universidad de Marburg el 17 de junio de 1934. Los repetidos ataques sobre la ilegitimidad del régimen de Hitler y los fracasos políticos de este régimen en este discurso, obligaron a Hitler, bajo el consejo de Goering, Himmler y Heydrich, su asistente, para deshacerse de la amenaza planteada por Jung. Así, junto con Röhm y los oficiales SA, que se había convertido en rebeldes para los nazis, Jung perdió la vida en la "Noche de los cuchillos largos", el 30 de junio de 1934.
Retrospectivamente, podemos considerar la carrera política de Jung como ambivalente. Motivado por un lado, por su filosofía y la visión de un Reich alemán neo-medieval que debía destruir el sistema parlamentario nocivo de los liberales, la oposición de Jung a Hitler y su negativa a comprometerse con sus compañeros conservadores de la derecha fueron, claramente, impulsados por su ambición personal y, tal vez incluso, por la envidia de los éxitos políticos de Hitler. De hecho, el proyecto conservador propuesto por Jung difería de un extremista como Hitler sólo en grado y no en especie. La comunidad en que Jung deseaba convertir al pueblo alemán, en realidad se presentaba, de una forma similar a la diseñada por de Hitler, como un gigantesco movimiento de masas. Por supuesto, este populismo carecía de la sustancia espiritual que Jung había estipulado para la comunidad, pero los nazis, al menos, podían argumentar que fueron ellos los que sentaron las bases völkisch necesarias para una cultura espiritual uniforme. Además, la dramática política extranjera de Hitler, después de la muerte de Jung, en realidad se parecía demasiado al imperialismo cultural propuesto por Jung para el Reich alemán que debía liderar al resto de Europa.

samedi, 20 novembre 2010

Quella rivoluzione dal basso

La Riflessione di Albertoni, presidente del Consiglio regionale lombardo
Quella rivoluzione dal basso
Il pensiero di Miglio mai così attuale in questa fase storico-politica del paese

Ex: http://www.leganord.org/

Miglio-300x250.jpgLe idee politiche sono paragonabili a quei fiumi “carsici” che nei loro tortuosi e rapidi percorsi sprofondano nelle viscere delle montagne per riaffiorare, poi e a distanza di molti chilometri, improvvisamente e più impetuosi di prima.

È successo storicamente ed in forma davvero strabiliante con l’idea federale di Carlo Cattaneo e sta ora succedendo anche con le idee confederaliste di Gianfranco Miglio.
Non casualmente proprio a lui in vista dell’imminente discussione nel Consiglio Regionale della Lombardia del nuovo Statuto di Autonomia (già fissata per i giorni 11-12-13 marzo pv) sarà dedicato un importante Convegno di studio e di attualità istituzionale sabato 23 febbraio pv a Como (ore 15 – Hotel Palace – Lungolario Trieste, 16).
Al II Congresso della Lega Lombarda (tenuto ad Assago, Milano, il 12 dicembre 1993) venne presentato dall’eminente studioso comasco, allora già senatore eletto come indipendente nella lista della Lega Nord, il vitalissimo documento noto come “Decalogo di Assago”. L’architettura della Repubblica ivi disegnata prevedeva la libera associazione delle attuali 15 Regioni a Statuto Ordinario in tre “Macroregioni” e l’associazione ad esse delle cinque Regioni a Statuto Speciale. Da allora sono trascorsi quindici anni, che hanno registrato quattro fallimenti nel tentativo di realizzare una riforma significativa della Costituzione vigente: 1994, Commissione De Mita–Jotti; 1997, Commissione Bicamerale D’Alema; 2006 voto popolare contrario alla proposta federalista della “Devolution”; 2006-2008 costatata incapacità totale del Governo Prodi e della maggioranza di centro-sinistra persino di attuare l’unica riforma approvata e riguardante il Titolo V, Parte II, articoli 114-133 relativi a Comuni, Province, Città metropolitane e Stato.
Se facciamo un salto all’indietro e torniamo all’aprile 1999, Gianfranco Miglio (1918-2001) nel suo ultimo, lucidissimo Saggio intitolato al famoso “asino di Buridano”, prendendo atto di alcuni di questi fallimenti (di cui fu testimone), sostenne con convinzione che «[…] le Costituzioni omni-comprensive perderanno d’importanza, sostituite da pluralità di “Statuti”, raccordati fra loro dall’azione della giurisprudenza». E in chiusura dello stesso Saggio prevedeva che «[…] si dovrebbe cominciare con riforme modeste; le quali, a loro volta, rendono poi indispensabili altri cambiamenti, che alla fine approdano ad un ordinamento complessivo abbastanza nuovo ed organico.
Una specie di “riforma involontaria”, fatta in virtù di necessità pratiche quotidiane».
E’ quello che ha fatto e sta concludendo il Consiglio Regionale della Lombardia dal luglio 2006 ad oggi con il superamento della distinzione tra Regioni a Statuto Ordinario e Speciale, applicando l’articolo 116-III comma Costituzione e prevedendo in dodici fondamentali materie più ampie e complete autonomie (procedura già conclusa dalla Regione il 3 aprile 2007), ma anche con il Federalismo fiscale previsto dall’articolo 119-II comma Costituzione che prevede la “compartecipazione” della Regione e di Comuni, Province e Città metropolitane con lo Stato sul gettito fiscale prodotto dal territorio (“Progetto di legge al Parlamento” Rosi Mauro, approvato dalla Regione il 19 giugno 2007).
La conclusione di questa “rivoluzione dal basso” sarà alla metà del prossimo marzo con la prima approvazione del nuovo Statuto di Autonomia.
Le idee della Lega e quelle di Gianfranco Miglio scorrono, quindi, ora più impetuose che mai. Non è certo un caso che l’unica riforma costituzionale approvata e vigente, quella del 2001, che fu approvata dal solo centro-sinistra, rechi in sé una cospicua quota della irresistibile forza ideale e culturale del Federalismo. L’esempio che viene dalla Lombardia e dalle sue formali, trasparenti e grandemente condivise proposte di applicazione della riforma costituzionale del 2001 sta a dimostrare la seria possibilità di dare vita ad un ben diverso e riformatore “ordinamento politico e costituzionale” della Repubblica da realizzare in un futuro assai ravvicinato ma alla condizione di avere come interlocutori un Governo ed un Parlamento corretti e leali.

Articolo tratto da laPadania del 15/02/2008

vendredi, 19 novembre 2010

Miglio: "Un nuovo Federalismo per le identità"

Così Gianfranco Miglio rispondeva, nel 1993, a Massimo Cacciari
“Un nuovo Federalismo per le identità”
Per secoli la cultura europea ha ossessivamente coltivato i miti del centralismo statale

Questa lettera fu scritta nel 1993 da Gianfranco Miglio a Massimo Cacciari, nell’ambito dell’incalzante dibattito sul Federalismo.

Ex: http://www.leganord.org/

miglio.jpgGIANFRANCO MIGLIO
Caro Massimo, ho gradito la tua lettera, anche perché mi conferma che il nuovo impegno in campo amministrativo non cancellerà la tua preziosa partecipazione ai dibattiti in tema di pensiero politico.
Quello che ormai la cultura americana chiama il “nuovo federalismo “, è (come del resto anche tu riconosci) una vera e propria “rivoluzione”: è forse la più importante delle molteplici rivoluzioni che si intrecciano a illuminare la meravigliosa “fine secolo” in cui viviamo. Mentre il vecchio “federalismo” era uno strumento (tollerato) per generare, presto o tardi, uno Stato unitario il “nuovo federalismo” è un modello istituzionale creato per riconoscere, garantire e gestire le diversità. Per quattro secoli la cultura europea ha, ossessivamente, coltivato i miti dell’unità e dell’omogeneità, funzionali allo “Stato moderno”. Dentro lo Stato tutti uniti e solidali, nell’ordine e nella pace; fuori dello Stato la guerra e la legge della jungla. Prestissimo, nei miei “Arcana Imperii”, uscirà la traduzione dei libro di Patrick Riley sulla Volontà generale, in cui si scoprono le origini teologiche del mito dell’unità.
Con il declino dello Stato “unitario” (“nazionale”) tramontano anche i miti della sovranità e dei confini.
Circa la prima, ciò che contrassegna il vero ordinamento federale è la presenza di una pluralità di “sovranità”; almeno due: quella degli Stati- membri e quella dello Stato-federazione. Ma pluralità di sovranità equivalenti significa: nessuna sovranità.
Circa i “confini” essi sono uno sciagurato prodotto dello “Stato moderno” (e, prima ancora, dell’egemonia degli agrimensori nella costruzione del diritto romano di proprietà): prima del Seicento, e sopra tutto nel mondo medioevale, i confini non erano un “destino”.
Ma il flauto che guida la danza del cambiamento, è il (periodico!) declino del “patto politico” (fedeltà) e l’emergere del contratto-scambio. Il “federalismo”(dai tempi di Giovanni Althusio!) è sempre stato legato al primato del “contratto”: e un contratto non crea mai un potere “sovrano”, perché l’efficacia di un sistema di contratti riposa sul fatto che i contraenti hanno interesse ad osservarli, sotto pena di essere esclusi dalla convivenza di coloro i quali “scambiano”. La fortuna attuale del diritto internazionale “privato” nasce da qui, e non dal fatto che esista la Corte dell’Aja.
Noi stiamo entrando in un’età caratterizzata dal primato del “contratto” e dall’eclissi del patto di fedeltà (pensa alla fine dell’indissolubilità` del matrimonio!). Dopo due secoli di ossessivo e crescente appello al patto di fedeltà (e alla “politica”) il pendolo della storia ci porta verso l’individualismo e la libertà di contratto.
Già oggi dappertutto l’esercizio del potere decisionale ha perso il suo carattere di “Machtspruch”, di “pronuncia di potenza”, e ha preso la forma di “arbitrato” e di “negoziato”. E gli ordinamenti “federali” sono sistemi in cui si tratta e si negozia senza soste.
Un altro punto cruciale: poiché le “diversità” continuano ad evolversi e ad emergere, le Costituzioni federali saranno sempre più “a tempo determinato”, e non “atemporali” come il vecchio Stato unitario (fondato per l’eternità): saranno Costituzioni modificabili ogni trenta-cinquant’anni.
Ma la più grande rivoluzione che si compie sotto i nostri occhi, con il declino dello “Stato unitario” (sovrano e “nazionale”) è la ricomposizione della originaria “convivenza delle genti”: prima che nascesse lo “Stato moderno”, e la così detta “Comunità internazionale”, sul piano giuridico e concettuale, non c’era un “dentro” e un “fuori” – un “dentro” legittimo e legale, e un Risposta a Cacciari di Gianfranco Miglio Annttoollooggiiaa 142 - Quaderni Padani Anno VIl, N. 37/38 - Settembre-Dicembre 2001 “fuori” abbandonato alla legge del più forte (o del più fortunato) -. Tutte le regole erano prodotto non di istanze “sovrane” (pensa alla debolezza delle pronunce papali o imperiali) ma di relazioni contrattuali. Oggi la gestione dei problemi interni degli Stati tende sempre più ad assomigliare a quella delle controversie un tempo chiamate “internazionali”; e la svolta è stata rappresentata dalla fine del “bipolarismo”: apogeo dell’”ordine” statal-internazionale, e quindi dei vecchio sistema.
Sono queste considerazioni che vanno tenute presenti se si vuole capire il “nuovo federalismo” ed il suo significato storico: sopra tutto se si vuol distinguere il vero federalismo dal vari “autonomismi” e “regionalismi” in circolazione, che rappresentano soltanto travestimenti del vecchio Stato unitario.
Io sto concentrando tutte le mie idee a proposito di questi temi, in una “plaquette” Costituzione federale. La ragione contro il pregiudizio; ma la farò uscire dopo le elezioni: quando si aprirà (se si aprirà!) il dibattito sulle riforme costituzionali (che tu, giustamente, giudichi indispensabile).
Sono convinto che, fra quarant’anni, tutti gli ordinamenti dei paesi civili (tranne forse quello italiano) saranno “neofederali”.
Certo (come sempre) decisivo è il problema di fissare (riconoscere) i due punti di aggregazione (“cantone”, o come lo si vorrà chiamare, versus “autorità federale”) per fondare il rapporto dialettico permanente su cui poggerà il sistema. Non per attribuire all’uno o all’altro una inutile “sovranità”: perché il potere di decidere le controversie sarà intermittente e suscitato da una clausola del contratto di fondazione.
Tu hai ragione quando avverti che è molto importante determinare le funzioni e le strutture delle aggregazioni interne (a valle) dei soggetti membri della federazione (Municipi, Regioni, eccetera). È un capitolo tutto da inventare.
Ma qui debbo rivelarti un dubbio che mi rattrista: come si atteggerà la tecnica dell’antico “jus publicum europaeum” (vulgo: cosa faranno i giuspubblicisti) davanti al compito enorme di “reinventare” il nuovo modello di ordinamento politico europeo? Ho paura che la capacità creativa della nostra cultura giuridica sia ormai spenta, e che arrivi quindi priva di forze all’appuntamento con la storia. Spero di sbagliarmi.

Articolo tratto da laPadania del 14/02/2008

Se vogliamo le riforme dobbiamo farcele, perché nessuno le farebbe al nostro posto.
Numerose saranno le riforme della Costituzione che io intendo far partire dalla devoluzione.
Non è difficile sognare. È difficile, invece, sognare confrontandosi con la realtà per cambiarla.

Umberto Bossi

lundi, 15 novembre 2010

El neoliberalismo, la derecha y lo politico

El neoliberalismo, la derecha y lo político

Jéronimo MOLINA

Ex: http://www.galeon.com/razonespanola/

minerve.jpg1. Aquello que con tanta impropiedad como intención se denomina «a la derecha» se ha convertido, como el socialismo utópico y el liberalismo político en el siglo XIX, en el chivo expiatorio de la política superideologizada que se impuso en Europa desde el fin de la I guerra mundial. Entre tanto, «la izquierda», como todo el mundo sabe, se ha erigido en administradora «urbi et orbe» de la culpa y la penitencia del hemisferio político rival. La izquierda, consecuentemente, ha devenido el patrón de la verdad política; así pues, imperando universalmente la opinión pública, su infalibilidad no puede tomarse a broma. Por otro lado, la retahíla de verdades establecidas y neoconceptos políticos alumbrados por el «siglo socialista» no tiene cuento.

Removidas en su dignidad académica las disciplinas políticas polares (el Derecho político y la Filosofía política), caracterizadas por un rigor y una precisión terminológicas que hoy se nos antojan, al menos de momento, inigualables, el problema radical que atenaza al estudioso de la Ciencia política tiene una índole epistemológica, pues las palabras fallan en lo esencial y ni siquiera alcanzan, abusadas, a denunciar realidades. Agotado hasta la médula el lenguaje político de la época contemporánea, nadie que aspire a un mínimo rigor intelectual debe apearse del prejuicio de que «ya nada puede ser lo que parece». En esta actitud espiritual, dolorosamente escéptica por lo demás, descansa probablemente la más incomprendida de las mentalidades políticas, la del Reaccionario, que casi todo el mundo contrapone equívocamente al vicio del pensamiento político conocido como progresismo.

2. En las circunstancias actuales, configuradoras, como recordaba no hace mucho Dalmacio Negro, de una «época estúpida», lo último que se debe hacer, por tanto, es confiar en el sentido inmaculado de las palabras. Todas mienten, algunas incluso matan o, cuando menos, podrían inducir al suicidio colectivo, no ya de un partido o facción, sino de la «unidad política de un pueblo». Hay empero raras excepciones en la semántica política que curiosamente conducen al pensamiento hacia los dominios de la teología política (politische Theologie) cultivada por Carl Schmitt, Alvaro d'Ors y unos pocos más escritores europeos. Parece que en dicha instancia todavía conservan los conceptos su sentido. De la importancia radical de lo teológico político, reñida con la consideración que estos asuntos merecen de una opinión pública adocenada, pueden dar buena cuenta los esfuerzos del llamado republicanismo (Republicanism) para acabar con toda teología política, uno de cuyos postulados trascendentales es que todo poder humano es limitado, lo detente el Amigo del pueblo, el Moloch fiscal, la Administración social de la eurocracia de Bruselas o los guerreros filantrópicos neoyorquinos de la Organización de las Naciones Unidas. Este nuevo republicanismo, ideología cosmopolítica inspirada en el secularismo protestante adonde está llegando en arribada forzosa el socialismo académico, no tiene que ver únicamente con el problema de la forma de gobierno. Alrededor suyo, más bien, se ha urdido un complejo de insospechada potencia intelectual, un internacionalismo usufructuario de los viejos poderes indirectos, cuya fe se abarca con las reiterativas y, como recordaba Michel Villey, antijurídicas declaraciones universales y continentales de derechos humanos. Todo sea para arrumbar la teología política, reducto ultramínimo, junto al realismo y al liberalismo políticos tal vez, de la inteligencia política y la contención del poder. Ahora bien, este republicanismo cosmopolítico, que paradójicamente quiere moralizar una supuesta política desteologizada, no es otra cosa que una política teológica, íncubo famoso y despolitizador progeniado por Augusto Comte con más nobles intenciones.

3. A medida que el mito de la izquierda, el último de los grandes mitos de la vieja política, va desprendiéndose del oropel, los creyentes se ven en la tesitura de racionalizar míticamente el fracaso de su religión política secular. Una salida fácil, bendecida por casi todos, especialmente por los agraciados con alguna canonjía internacional, encuéntrase precisamente en el republicanismo mundial y pacifista, sombra ideológica de la globalización económica. Vergonzantes lectores del Librito Rojo y apóstatas venales de la acción directa predican ahora el amor fraternal en las altas esferas supraestatales y salvan de la opresión a los pueblos oprimidos, recordando a Occidente, una vez más, su obligación de «mourir pour Dantzig!». Estas actitudes pueden dar o acaso continuar el argumento de las vidas personales de los «intelectuales denunciantes», como llamaba Fernández-Carvajal a los «soixante huitards», mas resultan poca cosa para contribuir al sostenimiento de la paz y la armonía mundiales. Tal vez para equilibrar la balanza se ha postulado con grande alarde la «tercera vía», postrera enfermedad infantil del socialismo, como aconsejaría decir el cinismo de Lenin. Ahora bien, esta prestidigitante herejía política se había venido configurando a lo largo del siglo XX, aunque a saltos y como por aluvión. Pero no tiene porvenir esta huida del mito hacia el logos; otra cosa es que el intelectual, obligado por su magisterio, lo crea posible. Esta suerte de aventuras intelectuales termina habitualmente en la formación de ídolos.

Aunque de momento no lo parezca, a juzgar sobre todo por los artistas e intelectuales que marcan la pauta, la izquierda ha dejado ya de ser sujeto de la historia. ¿Cómo se explica, pues, su paradójica huida de los tópicos que constituyen su sustrato histórico? ¿A dónde emigra? ¿Alguien le ha encomendado a la izquierda por otro lado, la custodia de las fronteras de la tradición política europea? La respuesta conduce a la inteligencia de la autoelisión de la derecha.

Suena a paradoja, pero la huida mítico-política de la izquierda contemporánea parece tener como meta el realismo y el liberalismo políticos. Este proceso, iniciado hace casi treinta años con la aparición en Italia de los primeros schmittianos de izquierda, está llamado a marcar la política del primer tercio del siglo XXI. No cabe esperar que pueda ventilarse antes la cuestión de la herencia yacente de la política europea. Ahora bien, lo decisivo aquí, la variable independiente valdría decir, no es el derrotero que marque la izquierda, pues, arrastrada por la inercia, apenas tiene ya libertad de elección. Como en otras coyunturas históricas, heraldos de un tiempo nuevo, lo sustantivo o esencial tendrá que decidir sobre todo lo demás.

El horizonte de las empresas políticas del futuro se dibuja sobre las fronteras del Estado como forma política concreta de una época histórica. El «movimiento», la corrupción que tiraniza todos los asuntos humanos, liga a la «obra de arte» estatal con los avatares de las naciones, de las generaciones y, de manera especial, a los de la elite del poder. La virtud de sus miembros, la entereza de carácter, incluso el ojo clínico político determinan, como advirtió Pareto, el futuro de las instituciones políticas; a veces, como ha sucedido en España, también su pasado.

4. Precisamente, el cinismo sociológico paretiano -a una elite sucede otra elite, a un régimen otro régimen, etcétera- ayuda a comprender mejor la autoelisión de la derecha. La circulación de las elites coincide actualmente con el ocaso de la mentalidad político-ideológica, representada por el izquierdismo y el derechismo. En términos generales, la situación tiene algún parangón con la mutación de la mentalidad político-social, propia del siglo XIX. Entonces, las elites políticas e intelectuales, atenazadas por los remordimientos, evitaron, con muy pocas excepciones, tomar decisiones políticas. Llegó incluso a considerarse ofensivo el marbete «liberal», especialmente después de las miserables polémicas que entre 1870 y 1900 estigmatizaron el liberalismo económico. Son famosas las diatribas con que el socialista de cátedra Gustav Schmoller, factótum de la Universidad alemana, mortificó al pacífico profesor de economía vienés Karl Menger. Así pues, aunque los economistas se mantuvieron beligerantes -escuela de Bastiat y Molinari-, los hombres políticos del momento iniciaron transición al liberalismo social o socialliberalismo. La defección léxica estuvo acompañada de un gran vacío de poder, pues la elite europea había decidido no decidir; entre tanto, los aspirantes a la potestad, devenida res nullius. acostumbrados a desempeñar el papel de poder indirecto, que nada se juega y nada puede perder en el arbitrismo, creyeron que la política era sólo cuestión de buenas intenciones.

El mundo político adolece hoy de un vacío de poder semejante a aquel. La derecha, según es notorio, ha decidido suspender sine die toda decisión, mientras que la izquierda, jugando sus últimas bazas históricas, busca refugio en el plano de la «conciencia crítica de la sociedad». En cierto modo, Daniel Bell ya se ocupó de las consecuencias de este vacío de poder o «anarquía» en su famoso libro Sobre el agotamiento de las ideas políticas en los años cincuenta (1960). Al margen de su preocupación por la configuración de una «organización social que se corresponda con las nuevas formas de la tecnología», asunto entonces en boga, y, así mismo, con independencia de la reiterativa lectura de esta obra miscelánea en el sentido del anuncio del fin de las ideologías, Bell se aproximó a la realidad norteamericana de la izquierda para explicar su premonitorio fracaso. El movimiento socialista, del que dice que fue un sueño ilimitado, «no podía entrar en relación con los problemas específicos de la acción social en el mundo político del aquí y del ahora, del dar y tomar». La aparente ingenuidad de estas palabras condensa empero una verdad política: nada hay que sustituya al poder.

6. El florentinismo político de la izquierda, que en esto, como en otros asuntos, ha tenido grandes maestros, ha distinguido siempre, más o menos abiertamente, entre el poder de mando o poder político en sentido estricto, el poder de gestión o administrativo y el poder cultural, espiritual o indirecto. La derecha, en cambio, más preocupada por la cuestiones sustanciales y no de la mera administración táctica y estratégica de las bazas políticas, ha abordado el asunto del poder desde la óptica de la casuística jurídica política: legitimidad de origen y de ejercicio; reglas de derecho y reglas de aplicación del derecho; etcétera. La izquierda, además, ha sabido desarrollar una extraordinaria sensibilidad para detectar en cada momento la instancia decisiva y neutralizadora de las demás -pues el dominio sobre aquella siempre lleva implícito el usufructo indiscutido de la potestad-. De ahí que nunca haya perdido de vista desde los años 1950 lo que Julien Freund llamó «lo cultural».

En parte por azar, en parte por sentido de la política (ideológica), la izquierda europea más lúcida hace años que ha emprendido su peculiar reconversión a lo político, acaso para no quedarse fuera de la historia. Lo curioso es que este movimiento de la opinión se ha visto favorecido, cuando no alentado, por la «autoelisión de la derecha» o, dicho de otra manera, por la renuncia a lo político practicada sin motivo y contra natura por sus próceres.

La izquierda europea, depositaria del poder cultural y sabedora de la trascendencia del poder de mando, permítese abandonar o entregar magnánimamente a otros el poder de gestión o administrativo, si no hay más remedio y siempre pro tempore, naturalizando el espejismo de que ya no hay grandes decisiones políticas que adoptar. Resulta fascinante, por tanto, desde un punto de vista netamente político, el examen de lo que parece formalmente una repolitización de la izquierda, que en los próximos años, si bien a beneficio de inventario, podría culminar la apropiación intelectual del realismo y del liberalismo políticos, dejando al adversario -neoliberalismo, liberalismo económico, anarcocapitalismo- que se las vea en campo franco y a cuerpo descubierto con la «ciencia triste». Aflorarán entonces las consecuencias del abandono neoliberal de lo político.



Jerónimo Molina

dimanche, 14 novembre 2010

Communal Freedom and Democracy

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Communal Freedom and Democracy

Adolf Gasser’s attempt of a conceptual clarification

by Dr phil René Roca, historian, Switzerland

Ex: http://www.currentconcerns.ch/

The historian Adolf Gasser (1903 – 1985) suggests that democracy is a historically evolved but rather fragile achievement. In his major work “Gemeindefreiheit als Rettung Europas” (Communal freedom as the salvation of Europe)1 and in many further contributions he reflects on a definition of the term “democracy” which should be as comprehensive as possible. For Gasser the term has a historical, an ethical and an educational dimension. The term “communal freedom” is at the center of his considerations. Starting point of his theoretical considerations is a historical paper on “sound and fragile democracies” in Europe after World War I.

In 1919 all European states up to the Russian border were characterized by democratic structures. But during the next two decades the democratic beginnings disappeared in favor of authoritarian or totalitarian systems of government in many states. This could particularly be observed in states, which had introduced a democracy for the first time after World War I. Gasser does not consider the principal reason for this “widespread dying of European democracies” a foreign problem, but a domestic one. Democracy particularly failed in those states, in which it did not succeed to combine freedom and order to an “organic compound”. Those states, which had a specifically shaped democratic tradition, resisted the totalitarian temptation despite the world economic crisis and World War II. Among them were, besides the Anglo-Saxon countries USA and Great Britain, the Scandinavian states, Holland and Switzerland. This, Gasser says, proves that there are two kinds of democracies, sound ones and fragile ones:

“Therefore we are to refrain from claiming that somehow democracy as such or an interlinked economic system has failed. We rather have to keep in mind that the uniform term ‘democracy’ is a quite unrealistic abstraction. In reality the term democracy, like all other social auxiliary terms, reveals a different trait from country to country. ‘Democracy’ and ‘democracy’ can be rather different things despite corresponding constitutional features; particularly, its nature is determined by the spiritual-political attitude of the individual people. In other words: After all, democracy is not a matter determined by the kind of state order, but a matter determined by the people’s convictions.”2

Thus Gasser describes a feature, which makes it possible to differentiate clearly between the sound and the fragile democracies at any time. The terms “spiritual-political attitude” and “people’s convictions” illuminate an ethical dimension of democracy. To Gasser, this dimension is not ideationally inflated or ideologically curtailed, but linked with a fundamental structural feature. The feature is the organization of the communal and regional autonomy. All sound democracies, as different as they may be, have a

“traditional and extremely lively self-governing system of their local and regional subsidiary associations. Widespread decentralization of the administration: that is the essential characteristic of these ‹old and free people’s states›.”3

Gasser considers the contrast between decentralized and centralistic administrative systems to be the key to the problem, which explains why some democracies were successful and sustainable and others were not.
For Gasser, the starting point for decentralized public administration is the “free”4 commune, which has cooperative roots. The cooperative as “a particularly finely-woven organizing element”5 defines itself by the three so-called “selves”: self-governing, self-determination and self-help. If free communes, organized in such a manner, come together to build a state, this state is federal, thus structured in a decentralized way. The human dimension in this structure must be based on certain ethical principles. The people, based on their specific cultural background, develop into these socio-economic structures; they shape and advance them. The ethical principles provide the stability, security and predictability:

“State formations, which grew from bottom to top and which represent the concept of self-governing, are usually communities of a very special kind; because they are primarily held together by spiritual and ethical forces while power-political braces are subordinate.”6

The ethical dimension of communal freedom

With the description of different principles Gasser tries to define the ethical dimension more clearly. In this context, he speaks of a kind of “synthesis of civic watchfulness on the one hand and civic self-discipline on the other”7. This mental-moral dimension cannot simply be introduced by a written constitution. It does also not follow automatically, if a commune is free. In order to make this dimension humane, moral values are required, which are to be taught in education and set as an example within the political level. The free commune, Gasser writes, educates the citizens not to a quantitative, but to a qualitative way of civic thinking. This important element shows the commune as “autonomous small-scale organization”, as “a school for citizenship”8 in an educational context, which is both founded on values and creates them.
In the following Gasser’s different ethical principles will be described in more detail.

The principle of co-ordination

Civic community life is only possible in the context of an organizing principle. The two possible organizing principles are the principle of subordination and that of co-ordination. In other words, the principle of administration by authoritarian dominance opposes that of co-operative self-governing.

“Either the stately order becomes secured by an authoritarian command and power apparatus, or it is based on the free social will of a people’s collectivity.”9

In the first case the structure of the state develops essentially from top to bottom, in the second case from ground to top. Either the people have to get used to being commanded or (most of them) to obeying, or they are guided by the will to co-operate freely. In this context, Gasser mentions that there are of course mixed forms; however, all the examples show a certain tendency towards one of the two organizing principles.
For Gasser, the contrast “rule vs. cooperative” is the most important contrast social history knows. It sheds light on the most elementary foundations of human community life and has mental and moral consequences.

The principle of voluntariness

Co-operatively organized communes require free, social co-operation. The working together represents a synthesis of freedom and order and is possible only if the will to free collective co-operation is inseparably combined with the will to free collective integration. The free acceptance of voluntary and adjunct work in addition to the regular duties results in a militia system, which is indispensable for the smoothest possible social procedures on all national levels.

“A sound development of democracy on a large scale will only be possible where it is practiced and realized on a small scale every day.”10

The principle of shared responsibility

16.jpgThe voluntary cooperation, which is practiced within the manageable area of the commune, naturally leads to a further ethical principle, the principle of the shared responsibility. It develops, as Gasser expresses, an “internal bond to reality”,11 i.e. primarily to the commune, which shapes a “system of collective readiness to share responsibility and to political tolerance”.12 Freedom must combine itself with a feeling of duty for the public matters, because

“[…] where there is a lack of genuine will for responsibility, for shared responsibility, there is an immediate threat that freedom will dege nerate into bare individualism and egoism.”13

However, the individual does not completely dissolve in the collective; it must not subordinate to the community:

“Starting point of the cooperative, decentralized states is not the individual freedom, but the communal freedom. But there is a seed of individual freedom to be found inevitably in the communal freedom […].”14

The principle of the collective respect for law

A collective conviction of what is right is central to the communal freedom. Those national state systems that were developed from bottom to top, that are based on communal freedom, show a completely different development of the law than centralistic authoritarian states. The “ancient right” (or also the “ancient freedom”) developed in co-operative and decentralized political systems has become a tradition throughout the centuries, and in conflict situations it represents an important point of reference in each case. The old civic and legal education – often verbally delivered and condensed in a kind of customary law – was of great importance, because it was backed by the collective. This backing of the existing order, often expressed in rituals and symbols, is only possible if the order is considered to be absolutely legal in its basic outlines. If this legal order is to be changed and adapted, it is usually developed, but not destroyed.

The principle of collective confidence

According to Gasser, the co-operative combination of freedom and right creates forces of “outrageous moral strength”15. For Gasser, this is above all general political and social confidence. The individual’s readiness for confidence is a prerequisite for a collective fundament of trust. Under these circumstances, no communal citizen must fear a political breach of law by fellow citizens. This “being free from fear” represents a substantial characteristic of all co-operative and decentralized communities for Gasser. Where the communal freedom exists, people steadfastly stick to the decentralized organizing, self-governing principle, and usually native confidants are entrusted with certain executive functions. So bi-partisan readiness for confidence can develop, which leads to the acceptance of the democratic majority principle:

“Only from deep-rooted confidence in communalism, i.e. to the free community will, one is able to generally take it as natural that a majority considers the free will of a minority if possible – and a minority is for its part morally obliged to submit by its own free will to the free will of a people’s and a parliament majority.”16

The principle of collective tolerance

In the free commune, Gasser says, everyone is forced to compromise with the political opponent. If the communal citizen gets accustomed to being responsibly moderate in this small, assessable area, then “from the beginning strong forces of reconciliation and mediation are involved.”17
The “communal freedom” is not able to manufacture heavenly conditions. Human passions and feeling of hate remain components of human nature. However, these often destructive forces repeatedly encounter “wholesome barriers” in the free commune, which “diminish their political explosive effects”, Gasser states.18 One of these “barriers” is the readiness to compromise:

“Striving for clear compromises backed by genuine consideration for the justified vital interests and attitudes of our fellow citizens, also of those organized in other parties, must become second nature somehow, if the liberal democracy were to become a firmly rooted way of life.19

From this collective tolerance emerges a high readiness to accept good faith as a guiding value. Thus one cannot absolutely guarantee but effectively secure the inner and outer peace of a community nevertheless.

Conclusion: the principle of ethical collectivism

Gasser’s term “communal ethics” is determined by the described mental and moral principles, to which the individual must feel bound. For its existence and advancement, the free commune requires such a “collective will to bind oneself”20 or, expressed differently, an “ethical collectivism”21. Gasser thus sheds light on the “internal nature”22 of democracy and gives his definition a socio-psychological dimension by including ethical principles.
Gasser always refers to this dimension in his texts. He starts out from a positive concept of man: Man is good by nature.23 As a person, each human being has certain rights and duties and can establish his necessary social relations at best in the surroundings of a free commune. Thus people develop their skills and forces and are able to solve the problems together with others. Thus, the autonomous small areas form the basis, and take influence on greater stately regions, regardless of their structure.
“Moral bonds” secure the peace of a society against inside threats as well as threats from outside. All communal and federal democracies, built from bottom to the top, have a basically pacifist tendency, Gasser claims. With its synthesis of freedom and order, the decentralized structure including free communes reaches a degree of social justice, which curbs militarist and expansive forces. The individual is more content, feels safe and cannot easily be seduced to foreign policy war adventures.

Educational dimension of communal freedom

Finally the “educational dimension” of communal freedom is to be presented briefly, as Gasser repeatedly mentions it. For him, the commune is a “humanitarian school for citizenship”24 and in a lively democracy it serves an educational purpose which should not be underestimated:

“Only in an assessable, natural community the normal citizen is able to acquire what we use to call political sense of proportion, a feeling for the human proportions. It is the only place where he can learn to understand and consider the justified requests of his neighbors and their different ideas and interests in the daily discussion; it is the only place where the necessary minimum of communal structure develops on the ground of freedom, which is able to effectively impede the tendency to authoritarianism as well as to anarchy. In this sense autonomous small areas remain irreplaceable schools for citizenship, without which the free democratic state would wither from the roots.”25

A lively democracy does not only require educated humans, who master cultural techniques and who acquire certain abilities and skills and develop them. A democracy also requires as it were the people’s “emotional intelligence”.26 This intelligence must develop in the family first, as well as in the assessable, natural community first; later on it can also be effective beyond that sphere. As far as educational issues are concerned, Gasser always refers to the work of Heinrich Pestalozzi (1746 – 1827). In digesting and summarizing the different historical aspects and the ideas of progressive thinkers, Gasser can be called the actual discoverer of the “small region” and “assessability” as the basic conditions of a working democracy. Therefore it is certainly worthwhile to apply his ideas, modified by new research, to the question how direct democracy was historically developed in Switzerland.•

Translation Current Concerns

1 Adolf Gasser, Gemeindefreiheit als Rettung Europas. Grundlinien einer ethischen Geschichtsauffassung, Second, grossly extended edition, Basel 1947, p. 7–12.
2 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 10.
3 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 10f.
4 Gasser uses the term “free” or “freedom” in the context of a national political category of the “commune” quite comprehensively. He does not limit it to the political rights of co-determination. Those were limited in Switzerland in the “ancient régime” to the citizens of a single commune, i.e. they were exclusive. Only in times of the Helvetica and then again during Regeneration the rights of co-determination were extended on a cantonal level. Women were excluded longest.
5 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 15.
6 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 17.
7 Adolf Gasser, Bürgermitverantwortung als Grundlage echter Demokratie, in: Gasser,A., Staatlicher Grossraum und autonome Kleinräume, Basel 1976, p. 43
8 Adolf Gasser, Staatlicher Grossraum und autonome Kleinräume, Basel 1976, p. 147
9 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 12
10 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 11
11 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 19
12 Adolf Gasser, Der europäische Mensch in der Gemeinschaft, in: Gasser, A., Staatlicher Grossraum und autonome Kleinräume, Basel 1976, p. 4
13 Gasser, Bürgermitverantwortung, p. 33
14 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 27
15 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 20
16 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 97
17 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 24
18 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 24
19 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 24
20 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 16
21 Gasser, Der europäische Mensch …, p. 4
22 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 10
23 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 255
24 cf. Adolf Gasser, Die Schweizer Gemeinde als Bürgerschule (1959), in: Gasser, A., Staatlicher Grossraum und autonome Kleinräume, Basel 1976, p. 85–91
25 Adolf Gasser, Zum Problem der autonomen Kleinräume. Zweierlei Staatsstrukturen in der freien Welt, in: Aus Politik und Zeitgeschichte, Attachment to the weekly magazine Das Parlament, vol. 31/77, p. 4
26 cf. Daniel Goleman, Emotional Intelligence, New York, 1996

Adolf Gasser

The Swiss historian Adolf Gasser (1903–1985) completed his studies in Heidelberg and Zurich with doctorates in history and classical philology. From 1928 to 1969 he taught as a grammar school teacher in Basel. In the course of his lectureships he became private lecturer in 1936 and an adjunct professor in 1942; from 1950 to 1985 he taught as an extraordinary professor for constitutional history at the University of Basel. After World War II he started an active lecturing activity in the Federal Republic of Germany. Gasser was joint founder of the Council of European Municipalities and Regions, from 1953 to 1968 he was a Liberal member of the Grand Council of Basel, and he was a president of the FDP of the canton Basel.
 

His works include (published in German language, all titles are translated here for better understanding):
– The territorial development of Switzerland. Confederation 1291–1797, 1932
– History of the People’s Freedom and Democracy, 1939
– Communal freedom as salvation of Europe, 1943
– On the foundations of the state, 1950

El organicismo de Maetzu

El organicismo de Maeztu

Pedro Carlos Gonzàlez Cuevas

Ex: http://www.galeon.com/razonespanola/

1. EL CORPORATIVISMO INGLES

maeztu.jpgEn 1912, Maeztu había empezado a interesarse por las ideas sindicalistas y corporativistas que comenzaban a dominar en algunos círculos intelectuales europeos. No encontró, desde luego, el sindicalismo revolucionario de raíz soreliana un simpatizante en Maeztu, quien rechazó de plano sus actitudes violentas y, sobre todo, un irracionalismo tomado de Bergson; era «antiintelectual y antiinteligente», heredero de la «sofistería moderna»1. Se equivocaban, además, Sorel y sus acólitos en la percepción de la realidad social, al sostener, como el marxismo, la visión dicotómica de las clases sociales; lo que suponía, tanto a nivel teórico como práctico, una enorme simplificación, que prescindía de sectores tan decisivos como el campesinado y toda la clase media -comerciantes, industriales, pequeños rentistas, intelectuales, etc.-. El fundamento real del sindicalismo, por el contrario, era la pluralidad de las clases sociales, que, a través de sus organizaciones sindicales, se disponían a defender sus intereses. «Se funda en que las clases sociales son muchas. Y en esta multiplicidad de intereses de clase es necesario precisar y concretar los de la clase obrera, si ha de evitarse que los trabajadores tomen por propios los intereses de otras clases sociales2.

Al lado del sindicalismo revolucionario existía otro, de carácter conservador, defendido en Gran Bretaña por Hilaire Belloc y los hermanos Chesterton; en Francia por León Duguit. Maeztu consideraba a esta tendencia mucho más seria que la anterior. No obstante, rechazaba, por entonces, los planteamientos de Duguit, cuyo «solidarismo» tanto influiría en la gestación de La crisis del humanismo. El corporativismo de Duguit significaba, para el Maeztu todavía liberal, un intento de retorno a la Edad Media, ya que pretendía reducir al individuo a una mera dimensión profesional, aboliendo la individual y política, es decir, la subjetividad, producto de la emancipación lograda desde el Renacimiento3. Chesterton y Belloc eran comparables a Charles Maurras y León Daudet4.

Con todo, tanto los sindicalistas revolucionarios como los conservadores incidían en aspectos reales de la vida social; en particular su insistencia en el carácter objetivo de las clases sociales como portadoras de intereses materiales específicos, que los parlamentos de las sociedades liberales, anclados todavía en una filosofía social profundamente individualista, se obstinaban en ignorar, incluso en marginar: «La idea política se trueca en retórica que cubre un interés; el interés rapaz se cubre con piel de cordero. Todo por no reconocer al hombre su doble carácter de profesional y de hombre, de miembro de una clase y de miembro de la comunidad»5.

Como ya habían propugnado los krausistas, el corporativismo podía servir de correctivo al individualismo liberal; y, por otra parte, a la racionalización del pluralismo social. En ese sentido, Maeztu abogaba por un sistema de tipo bicameral, que diera asiento diferenciado a la representación corporativa. Una de las cámaras se organizaría mediante el sufragio universal; mientras que la otra se basaría en la representación por clases, profesiones y grupos de interés, «hacendados, industriales, comerciantes, labradores, obreros, abogados, médicos, personal pedagógico, etc»6.

A este tipo de corporativismo tampoco era ajeno su contacto con los intelectuales reunidos en torno a la revista «The New Age», que dirigía el antiguo fabiano Alfred Richard Orage; quien, con la ayuda económica del dramaturgo Bernard Shaw, había logrado sacarla a la luz en 19077. «The New Age» se convirtió en el órgano doctrinal del socialismo guildista, iniciado bajo la inspiración de William Morris y John Ruskin; y cuyo origen más próximo se encontraba en los escritos del arquitecto Arthur Joseph Penty, sobre todo en The Restoration of the guild system, en donde abogaba por el retorno del artesanado, y la producción simple bajo la inspiración reguladora de los «gremios». Dos miembros de «The New Age» Samuel George Hobson y Alfred Richard Orage -su director- aprovecharon las ideas de Penty, que también colaboraba en la revista, convirtiéndolas en algo diferente. Ninguno de ellos compartía el medievalismo de Penty; y eran partidarios de las nuevas formas de producción y concebían los gremios como grandes agencias democráticamente controladas para encargarse de la industria8.

El «guildismo» se oponía tanto al marxismo como al socialismo de raíz fabiana, cuyo estatismo rechazaba. Sobre la base de empresas organizadas en cooperativas de producción elevaba un sistema social que confiaba al Estado un papel subsidiario, es decir, el cuidado de las funciones de interés general, dejando la solución de los otros problemas a las comunidades inferiores. Así, las funciones que abandonaba el Estado eran ocupadas por la guilda, que era, en la concepción de Hobson, una asociación de todos los trabajadores, de todas las categorías de la administración, de la dirección y de la producción en la industria. Dentro de la revista existían, sin embargo, diferentes orientaciones y tendencias. Mientras Hobson y Orage defendían una estructura gremial que controlase y organizase la producción bajo la inspección del Estado; otros, como Cole, se mostraban contrarios a la idea de Estado soberano y proponían la doctrina del «pluralismo», basada en el principio de «función»9.

Esta teoría, sobre la que Maeztu edificaría su doctrina de la sociedad defendida en La crisis del humanismo, suponía indudablemente un desafío a las ideas dominantes sobre el sistema demoliberal y el gobierno representativo y, según reconocería el propio Cole, podía armonizarse perfectamente tanto con el liberalismo como con un ideario de carácter antiliberal10.

Para Maeztu, el guildismo era, y así lo expresó en una carta a su amigo Ortega, un auténtico reto intelectual, dado que aún no estaba suficientemente teorizado, tarea que él se proponía abordar: «El socialismo gremial tiene una ventaja y una desventaja. No está aún pensado. Hay que inventarlo»11.

«The New Age» se convirtió en un importante centro de discusión sobre temas económicos, sociales y filosóficos, donde acudían y colaboraban intelectuales de distinta militancia política e ideológica. Allí conoció al poeta Ezra Pound12, a los hermanos Chesterton, Percy Widham Lewis, Hilaire Belloc, Orage, Penty, etc. Maeztu simpatizó con Orage, a quien consideraba un pensador carente de originalidad, pero de gran capacidad de divulgación, que «pulió, fijó y dio esplendor a cuantas percibió y le parecían interesantes por ser nuevas»13. La influencia de Penty fue mucho mayor en Maeztu, sobre todo, por sus críticas a la civilización industrial. Penty le enseñó «la necesidad de restaurar la supremacía del espíritu sobre el culto supersticioso de las máquinas a que fian los modernos sus esperanzas de un mundo mejor»14.

De la misma forma, el «distributismo» de Belloc, que insistía como Penty, en la restauración de la pequeña propiedad, del artesanado y de los gremios, mediante la creación de juntas de oficios y profesiones, tuvo influencia en la ulterior trayectoria política e intelectual de Maeztu. Se trataba del «mayor enemigo que ha encontrado en Inglaterra la propaganda socialista y el defensor más brillante de la única alternativa democrática al colectivismo, a saber: el Estado distributivo, es decir, un Estado en que la riqueza se halle distribuida entre la inmensa mayoria de los ciudadanos»15.

Mención aparte merece, por su impronta en Maeztu, la figura de otro de los colaboradores de «The New Age», el escritor y filósofo Thomas Ernst Hulme. Miembro de una comoda familia, Hulme había nacido en Endon, en 1883; y se educó en prestigiosos colegios de Cambridge, de donde fue expulsado por su carácter pendenciero y bohemio. Luego, residió en Canadá y Bruselas. Amigo de Henri Bergson, gracias a su ayuda logró la readmisión en Cambridge16. Hulme era conocido entonces como traductor de las obras de su amigo Bergson y de las Reflexiones sobre la violencia de George Sorel. Amigo de Ezra Pound y colaborador de «The New Age», su perspectiva ideológica era deudora del intuionismo de Bergson, de las ideas estéticas de Charles Maurras y Pierre Lasserre, y de las críticas de Sorel al hedonismo y relativismo característicos de la sociedad finisecular. Hulme sostenía que la cultura moderna, cuyos orígenes se encontraban en el Renacimiento, llevaba a la Humanidad hacia un callejón sin salida. El humanismo renacentista supuso la eliminación radical del distanciamiento medieval del hombre con la civitas terrena y del mundo natural con respecto al sobrenatural. Y, en consecuencia, su principal error consistió en destruir la objetividad de los valores, interpretándolos «en términos de categorías de vida»; lo que conducía a un peligroso relativismo ético17. Por contra, el pensamiento medieval, a diferencia del humanismo, tenía por base la objetividad de los valores y la imperfección radical del hombre; y ello en virtud de los principios religiosos que le servían de fundamento. A la luz de los principios religiosos, el hombre aparecía, no como la medida de todas las cosas, sino como un ser radicalmente imperfecto, lastrado por el pecado original, al que solo mediante la disciplina y la religión podía conseguirse algo de valor. Ello tenía su manifestación en el arte, en las diferencias entre la vitalidad del arte renacentista y la tendencia a la abstracción del medieval. El resurgir de la abstracción, con su simbolismo geométrico y desantropomorfizado, presagiaba el ocaso del humanismo y la vuelta a los principios tradicionales de servidumbre a supuestos suprahumanos.

Tanto el humanismo como la ética medieval habían sufrido, a lo largo del XVIII y XIX, una renovación, que llevaba a una contínua confrontación entre el romanticismo, como concreción estética y política del sinuoso proceso de desarrollo de la subjetividad que arranca del Renacimiento, y el clasicismo, con su perspectiva pesimista, que llevaba a supuestos políticos de carácter conservador, como habían propugnado Charles Maurras y Pierre Lasserre. En ese sentido, Hulme estaba convencido de que se iba gestando en el interior de la cultura contemporánea un profundo cambio ideológico que llevaba a un renacimiento del espíritu clásico frente a los supuestos relativistas del proyecto de la modernidad; y ello era visible en los escritos de George Sorel: «Hay muchos -señalaba- que empiezan a estar desilusionados de la democracia liberal y pacifista, aunque huyan de la ideología opuesta a causa de sus asociaciones reaccionarias. Para estas gentes, Sorel, revolucionario en economía, pero clásico en ética, puede resultar un liberador»18.

Fiel a sus ideas, Hulme murió luchando en Francia durante la Gran Guerra, cerca de Newport el 28 de septiembre de 1917. Comentando la huella que Hulme dejó en su pensamiento, Maeztu afirmó que su influencia no se redujo al ámbito doctrinal y filosófico; fue importante también su ejemplo de heroismo y valor cívico «sobreponiéndose a las flaquezas de la carne»19.

La huella de Hulme fue perceptible igualmente en figuras cimeras de la intelectualidad inglesa: T.S. Eliot, Ezra Pound, David H. Lawrence, etc20.





2. «LA CRISIS DEL HUMANISMO», O EL APOCALIPSIS DE LA MODERNIDAD



Así, el estallido de la Gran Guerra sorprendió a Maeztu en plena evolución ideológica. Su opción, sin embargo, no fue dudosa, y a pesar de su admiración intelectual por Alemania, estuvo en todo momento a favor de Inglaterra. El vasco nunca dudó de la victoria final de Gran Bretaña y sus aliados: «Inglaterra -dirá a Ortega en una carta- ha estado dormida en estos años, pero empieza a despertar. Y, no lo dude usted, acabará por ganar la guerra»21. No obstante, celebraba que España permaneciese neutral en el conflicto; hecho que atribuyó a la presión de los intelectuales y de las clases populares frente «a la germanofilia de las clases conservadoras22»

Su progresivo cambio de perspectiva ideológica tuvo su concreción en la fundamentación religiosa-católica de su militancia aliadófila. Alemania era la representante de la «herejía germánica», consecuencia directa de la Reforma protestante y su doctrina de la justificación por la fe, frente a la doctrina católica del pecado original y la justificación por las obras. El luteranismo había afirmado la dominación del sujeto en lo relativo a la capacidad de atenerse a sus propias intelecciones; y en consecuencia, dejó al hombre libre de ataduras de orden ético y moral. La consecuencia lógica de aquel proceso fue la independencia del Estado en relación a la autoridad ética de la Iglesia, debido a los principios subjetivistas que le servían de base. Libre de cualquier poder ajeno a sí mismo, se convirtió con Hegel en un valor completamente autónomo; lo cual explicaba la crueldad de los alemanes a lo largo del conflicto23.

Pero la guerra no era sólo producto de esa mentalidad religiosa; y mucho menos de las disputas entre imperios rivales. Ni Francia, ni Gran Bretaña, ni Rusia habían amenazado el poder de Alemania. El estallido de la guerra había sido, muy al contrario, producto de la voluntad de la nobleza, el Ejército y el Kaiser para conservar su hegemonía en el interior de Alemania frente al empuje de la burguesía, los intelectuales y la clase obrera24.

Enviado como corresponsal al frente, Maeztu se mostró, en algunas de sus crónicas, entusiasmado por el espectáculo de la guerra. Y es que pensaba que las consecuencias sociales del conflicto podían ser, a la larga, positivas, porque la convivencia en las trincheras contribuiría poderosamente al establecimiento de vínculos permanentes entre las distintas clases sociales. Además, la guerra enseñaría a «trabajar mejor y más deprisa, y con mejor organización, disciplina y solidaridad25. El propio Ejército se había convertido en el modelo de sociedad jerárquica, estable y disciplinada: «No es lo justo que los hombres desiguales sean tratados como iguales. Lo justo es que se dé lo suyo a cada uno y el respeto a todos. Aquí, en el Ejército, el soldado es soldado y el general es general». Al mismo tiempo, volvía a aparecer en sus escritos el elemento nietzscheano de su juventud. La guerra era incluso un factor de regeneración moral, tanto a nivel individual como colectivo, porque suscitaba el impulso heroico: «El cañoneo entiende la sangre. Se vive como un redoble permanente. Se recupera el sentido de la aventura. Las historias dejan de ser historias. Se es uno mismo historia. Y aunque no se vea nada desde nuestro agujero, se siente uno mismo centro de la Historia»26.

Bajo la impresión del desarrollo del conflicto, Maeztu redactó en 1916, a partir de una serie de escritos publicados en «The New Age» y otros diarios y revistas, Autority, liberty and function in the light of the war, traducido posteriormente, en 1919, al español con el título de La crisis del humanismo. Los principios de autoridad, libertad y función a la luz de la guerra27.

El punto de partida de la obra era la dramática situación en la que se debatían las sociedades europeas, cuya raíz se encontraba en el subjetivismo y relativismo característicos de la modernidad. En el Renacimiento se había generado un sentimiento fuertemente mundano del hombre, que comenzaba a hallarse confinado en la esfera y dimensión de lo puramente corporal, en los acontecimientos vitales; y, en consecuencia, tuvo lugar la aparición de un nuevo tipo de hombre, seguro de su individualidad, que lo define todo, y, por lo tanto, cada vez más alejado de la transcendencia. La individualidad se encontró libre de frenos, y la ética se antropoformizó, relativizándose. El hombre se convirtió, pues, en «un esclavo de sus propias pasiones». Y en este relativismo ético se encuentra la génesis de los dos errores característicos de la modernidad, dominante en las sociedades contemporáneas: el liberalismo y el socialismo. El liberalismo tenía como sustrato el individualismo atomista que no contemplaba otra fuente de certeza y de moralidad que el individuo aislado; sobre la cual era imposible fundamentar una sociedad bien organizada. De la misma forma, el socialismo, a pesar de sus diferencias ideológicas con el liberalismo, tenía su raíz última en el relativismo subjetivista, sustituyendo la arbitrariedad individual por la del Estado, error en el que igualmente habían caído Hegel y la mayoría de la intelligentsia alemana. El proyecto socialista convertía en el único propietario de los medios de producción al Estado, que, de esta forma asumía en relación a la sociedad civil las funciones de juez y parte, encarnados en una burocracia despótica, cuya situación era, en el fondo, análoga, incluso más tiránica, a la de la vieja oligarquía del dinero.

Frente a todo ello, Maeztu propugnaba la superación del relativismo inherente al proyecto de la modernidad, mediante el retorno al principio de la «objetividad de las cosas». Continuando su evolución ideológica iniciada en su interpretación de la filosofía kantiana, en la que, como sabemos, encontró los supuestos absolutos que transcienden a la relatividad asociada al mundo empírico, Maeztu se decide por el intento de renovación de la vieja pretensión ontológica de entender el mundo bajo el signo de un idealismo objetivo y de volver a ensamblar metafísicamente los momentos de la razón disociados en la evolución cultural del mundo moderno, como medio para poner coto a la desintegración de la jerarquía de los valores comúnmente aceptados. Como ya hizo Hulme. Maeztu toma, para ello, de George E. Moore la noción de «bien objetivo», de valor intrínseco de la objetividad de los principios morales. La objetividad de las cosas abre a los hombres el acceso al mundo suprahistórico. Cuando Maeztu hace referencia a la «primacía de las cosas» se refiere a los valores eternos, que se encuentran por encima de la subjetividad y del mundo material, tales como la Verdad, la Justicia, el Amor y el Poder, cuya unidad se encarna en Dios. Desde esta perspectiva, se llega a la conclusión de que el hombre no se encuentra en el mundo para seguir su personal arbitrio, sino como servidor de esos valores objetivos. Tal es el supuesto en el que descansa el «clasicismo cristiano», debelador del romanticismo y del humanismo, de su ilusoria creencia, sobre todo, en la bondad natural del hombre. El catolicismo era consciente de que el optimismo antropológico conducía a la disolución social; y sólo mediante la autoridad que domeñara su naturaleza corrupta, consecuencia del pecado original, podía conseguirse la armonía y la estabilidad.

Sobre la base de esté moral objetiva, era posible edificar una teoría objetiva de la sociedad. Maeztu se sirve para ello, de las aportaciones de León Duguit, en cuanto éste negaba la noción de derecho subjetivo individual y admite los derechos objetivos, nacidos de la función de cada uno en el conjunto social. La organización de la sociedad en torno al principio de «función» puesta al servicio de los valores objetivos conduce a una estructura gremialista. El conflicto entre autoridad y libertad, individuo y sociedad es superado mediante la restauración de los gremios, que servirían de corrección tanto al individualismo anárquico de los liberales como a la burocracia despótica de los socialistas y estatistas.

Maeztu entiende por «gremio» una asociación autónoma e independiente del Estado, en la que se encuentran organizadas todas las clases sociales y grupos de interés. La razón de ser del gremialismo es la pluralidad de clases sociales y sus respectivos intereses. El principio «funcional» comprende todas las actividades del hombre y sanciona cada una de ellas con los derechos correspondientes a la «función». En el reparto de funciones y competencias se encuentra la garantía de las libertades reales. Maeztu se inclina por las tesis propias del «pluralismo» británico frente al concepto de soberanía estatal. No había razón alguna para dar por buena la tesis del poder soberano del Estado, ni nadie que mirara con los ojos la realidad social podía admitir la existencia de la voluntad general de Rousseau o la estatolatría de Hegel. Antes al contrario, la sociedad ofrecía el espectáculo de una multitud de grupos y corporaciones, dueños cada uno de su propia esfera y servidores de sus diversos fines y funciones. De esta forma, Maeztu se muestra partidario de una cierta forma de anarquismo legal, es decir, de la relativa disolución de los poderes del Estado, donde pueden ser ejercidos directamente por los ciudadanos y las instituciones gremiales.

El contenido de La crisis del humanismo en modo alguno pasó inadvertido para sus contemporáneos. Quizá fue Salvador de Madariaga, amigo de Maeztu por aquel entonces e igualmente relacionado con los escritores de «The New Age»28, el primer comentarista de la obra, que no dudó en calificar de «excelente»29. En un sentido igualmente elogioso, se manifestó el escritor catalán Eugenio d'Ors, que vio en La crisis una «excelente y nueva teorización del gremialismo»30. Años después, Antonio Sardinha, líder intelectual del Integralismo Lusitano, la consideró breviario de pensamiento tradicionalista, por su insistencia en el principio del pecado original y en la instauración de un sistema gremial31.

La crisis del humanismo despertó igualmente el interés de los católicos. No era para menos; dado que hasta entonces Maeztu había sido uno de los representantes del liberalismo intelectual en España. Pero la valoración de sus contenidos fue, en gran medida, ambivalente. Así, Rafael García y García de Castro -futuro obispo de Granada- vio en ella el afortunado abandono por parte de Maeztu de los principios liberales; pero también le reprochó una insuficiente asimilación de la dogmática católica. Maeztu valoraba en mayor medida los factores menos transcendentes del catolicismo, es decir, la jerarquía, el culto y la propagación de los sentimientos de identidad y de comunidad. En el fondo, parecía que para Maeztu la religión brotaba más de una «necesidad de coherencia social» que de «las relaciones del hombre con Dios»32.

La crítica de las izquierdas fue más dura. Luis Araquistain le reprochó sus objeciones al socialismo. Lejos de configurar un absolutismo de Estado, era un absolutismo de la sociedad. No obstante, la idea más combatida por Araquistain fue la de objetividad de las cosas y su primacía, cuya consecuencia podía ser, a su juicio, una regresión hacia un sistema de carácter teocrático, «a una civilización como la china, o a una sociedad tan estéril y terrible como algunas congregaciones religiosas»33. Otro socialista, Fernando de los Ríos, se apresuró a dejar bien claro que su interpretación del Renacimiento -sustentada en su obra El sentido humanista del socialismo- era por entero diferente a la de Maeztu. Por otra parte denunciaba el principio de «función» como puramente «formalista», sin contenido real, pues resultaba incompatible tanto con el sistema capitalista como con el socialista34.

Con mayor acritud se expresó el discípulo de Giner de los Ríos e institucionista de pro, Francisco Rivera Pastor, quien, recordando la anterior compenetración de Maeztu con el pensamiento moderno, consideró La crisis como una regresión intelectual. Ahora, Maeztu aparecía como un auténtico tradicionalismta negador del progreso y defensor del pecado original; todo lo cual equivalía políticamente al «ruralismo, a los arcaicos latifundios patriarcalistas, a la concepción pseudoaristocrática de una decadente república platónica…»35.

Más recientemente, La crisis del humanismo ha sido vista, al menos por algunos historiadores del pensamiento español contemporáneo, como precedente ideológico del fascismo e incluso del régimen del general Franco. Así, José María de Areilza calificó la obra como «lejana predicción de los fascismos europeos»36. Posterioremente, Salvador de Madariaga -cuyas alabanzas a La crisis del humanismo ya conocemos- sostendrá una tesis semejante en su discutible ensayo España. La obra de Maeztu era «una de las primeras y mejores definiciones del Estado autoritario funcional que se ha escrito en Europa»; y llama al escritor vasco «precursor del falangismo y aún quizás del fascismo»37. En la misma línea, el historiador marxista Manuel Tuñón de Lara afirma que Maeztu, se adelanta a Mussolini en la concepción de una «sociedad sindicalista»38.

¿Qué decir de tales aseveraciones? Ante todo, destacar su superficialidad. En el caso de Areilza, su opinión era comprensible en un momento, como 1941, de exaltación totalitaria, tras el final de la guerra civil. Madariaga, por su parte, fue siempre un historiador sumamente superficial, que, salvo en su célebre biografía de Bolívar, no pasó del afán divulgativo39. La opinión de Tuñón de Lara, como de costumbre en la obra de este autor, era más política que propiamente historiográfica. Se trataba, en el fondo, de interpretar a Maeztu como fascista; y con él al sistema político nacido de la guerra civil.

En ninguno de los casos, hubo un análisis mínimamente serio de la obra. Y es que, a diferencia de lo sustentado por estos autores, la concepción corporativista de Maeztu dista mucho de ser favorable a cualquier forma de totalitarismo, pues uno de sus aspectos centrales consiste en la limitación del poder estatal, que se reduce, en la práctica, a la función de armonizar la vida social. De hecho, uno de los grandes teóricos del totalitarismo, Carl Schmitt, vio en el guildismo y en el pluralismo británicos, base de la concepción social de Maeztu, una teoría que encubría el dominio político de los «poderes indirectos» frente a la soberanía estatal40.

Por otra parte, las reflexiones de Maeztu se inscribían claramente en la crisis del Estado liberal de Derecho característica del período posterior a la Gran Guerra, que implicó la creación de nuevos marcos institucionales de distribución de poder que llevaban a un desplazamiento en favor de las fuerzas sociales organizadas de la economía y la sociedad en detrimento de un parlamentarismo debilitado41. Como en el resto de Europa, la sociedad española -si bien con cierto retraso, dado su menor desarrollo económico- comenzó a articularse en organizaciones que representaban, desde distintos prismas ideológicos, los diversos grupos e intereses sociales. Este proceso de «corporativización» fue clave tanto por el desarrollo que experimentaron como por el protagonismo que lograron las distintas asociaciones42.



Pedro Carlos González Cuevas

samedi, 13 novembre 2010

How the Left Won the Cold War

How the Left Won the Cold War

 
 
fascist-leftists.jpgThe following address was delivered to the HL Mencken Club's annual meeting in Baltimore, October 22, 2010.
I’m often asked why there is need for an independent or non-aligned Right. Aren’t Sean Hannity, Sarah Palin and Rich Lowry covering all our bases? Why should we create a movement on the right when FOX and those middle-aged people marching around at Tea Parties with costume-store wigs, are doing our job? Why give ammunition to the Democrats by showing that our side is divided? We should be pulling together so we can pummel Nancy Pelosi and Harry Reid in next month’s referendum on Obamacare.

Engaging this question fully would require more than a ten-page exposition. Indeed there is no way to address it without being in this instance a Hegelian. It was the great German philosopher Hegel who argued that the true definitions of concepts and movements are necessarily genetic. Such definitions can not be dealt with properly, unless we go back to the origin of what is being defined. A tree is not what it first appears to be, but the history of that object, from the time it was a seedling. So too there is no way to understand where we are at the present time without noticing where we were before. The present state of any institution or movement reflects a dialectical process teeming with strife. It is only when, according to Hegel, conflicting forces can be brought together in a permanent synthesis that the inherent contradictions are resolved. Before that point is reached, the dialectic must go on, as something integral to what is being formed.

My intention is not to belabor you with Hegelian concepts. It is rather to bring up the unfinished dialectic of the right, for understanding why we do not belong to the authorized “conservative movement” and why that movement has become an echo of the Left. Allow me then to start with this generalization. In the second half of the 20th century, the other side, from our perspective, won almost everywhere in the West. But the Left that prevailed was not the gerontocracy and garrison socialism associated with Soviet rule. This Left had little to do with occupation armies in baggy pants, with inefficiently distributed goods and services, and with an arsenal of atomic missiles. The Left that triumphed was a truly radical one, and it celebrated its victories in Western countries that were straining to practice more egalitarian forms of democracy.

Whether the American civil rights movement and its later implications for feminists, gays, transvestites, and illegals, the ascent of antifascism and tiers-mondialisme in France, Italy, Spain and the Lowlands, or the morbid preoccupation of Germans with their undemocratic past and troubling Sonderweg, the post-Communist Left has had a constant task. It seeks to right the wrongs of the past, and specifically those wrongs that are blamed on White Christian, Indo-European civilization.

It may be superfluous to go over here the characteristics of this Left, since most of you are aware of what is being described. I might also recommend my book The Strange Death of European Marxism, which shows how the present Left differs from both Marxism in theory and Communism in practice. This movement is conventionally referred to as cultural Marxism, and it is now at war with anything that is not sufficiently radical in the social sphere. It adherents blame bourgeois society for such evils as “racism,” “sexism,” “homophobia,” and the horrors of Hitler’s Third Reich. This post-Marxist Left appeals to the guilty conscience of the West for having held down everyone else and for not having fought with enough determination against “fascism.”

Though in Europe this Left defends Communist regimes and typically plays down the crimes of Stalin’s Russia, it is not primarily interested in socialism. It is interested above all in reconstructing society, in integrating Western nation states into global organizations and in opening Western countries to Third World immigration and to popularizing non-Christian or non-Judeo-Christian religions. For those who may have noticed, the EU has become a major instrument for this desired social experiment in Europe.

Where this Left overlaps Christian theology is in its stress on guilt and the need for atonement. But the Christian attitudes have been recycled into a replacement theology, one that develops a cult of revolutionary saints and victims, and one that produces a liturgical calendar centered on politically correct remembrance. In this replacement theology victimizing groups are expected to exhibit unconditional atonement toward those considered historical victims.

This post-Marxist Left began to supplant Communism as the major leftist ideology in the West before the fall of the Soviet Empire. Already in the 1960s, a youth culture rejecting bourgeois standards of conduct and in close alliance with anti-colonial Third World revolutionaries, had taken root in Europe. Energy began to flow in the large Communist parties in France and Italy away from traditional party cadres toward young radicals. This rising elite were concerned with combating discrimination against women and immigrants and the marginalization of gays more than they were with the nationalization of productive forces. Although the emerging order became more apparent after the violent demonstrations of the soixante-huitards in Paris in May 1968 and the organization of Red Brigades in Germany and Italy, signs of a changing guard were present before.

In a perceptive work, Sognando la rivoluzione: La sinstra italiana e le origini dei sessantottanti, the Milanese political historian Danilo Breschi shows how Communist youth organizations and workers’ strikes fell into the hands of what the old cadre called “decadent bourgeois adolescents.” While those who showed up for strikes in the 1960s in Turin, Genoa, Milan, Bologna and other cities in the northern industrial belt were self-proclaimed anti-capitalist radicals, recruited from Catholic Action, Trotskyist factions, and ethnic minorities, for the under-30 demonstrators, the real agenda was more ambitious -- but also more feasible. It was a social-cultural transformation to be engineered from above. Longtime advocates of Marxism, like film-maker P.P. Pasolini and Marx-scholar Lucio Colletti, raged against these usurpers, and they called for ousting them from respectable leftist gatherings. Colletti went so far as to call the police to eject these “decadents” from his office; and Pasolini saw their agitation on the Italian Left with growing apprehension and referred to their statements as a “verbal disease.”

This post-Marxist, anti-bourgeois Left had less sympathy for Communist parties than they do for other socialist groups, and they have gotten on particularly well with the Greens. As the Greens shifted their focus from environmentalism to filling Western countries with the Third World poor and with promoting alternative lifestyles, they became indistinguishable from the post-Marxist Left. By the end of the Cold War, Communism in the West had become obsolete because the cultural Marxist Left had taken its place and because this replacement Left was shaping the left side of the political spectrum in western Europe.

The Communist parties in France, Italy, and Germany continued to function as one of several bastions of Cultural Marxism but not usually as its vital center. A similar process unfolded in the Soviet empire more slowly. Under the noses of Communist officials in East Germany, cultural radicals, and most prominently Stasi informant and now head of the German Party of the Democratic Left, Gregor Gysi, were coming into their own. The DDR’s collapse allowed these radicals to join those in the West who were pushing the same antibourgeois projects, namely, gay and feminist rights, harping on fascist dangers, and turning nation states into branches of a global managerial regime.

One might try to challenge the eventual direction of my argument by insisting this has nothing to do with FOX or Glenn Beck. The conservative movement proclaims itself to be anti-leftist. It mocks the glorification of Islam and upholds Western democratic and feminist ideas; and it defends the sovereignty of the American state against international organizations. A well-paid GOP satirist, Mark Steyn, actually derides Europeans and Canadians nonstop for catering to anti-Western fanatics. I could not therefore be suggesting that our official conservatives represent cultural Marxist or liberal Christian quirks.

In fact I am suggesting precisely this view.

And I would make the further point that what separates our authorized right-center from the post-Marxist Left, in Europe and on the American and Canadian Left, is mostly quantitative. While the Left pushes Political Correctness without buts or ifs, the conservative movement expresses it in a less extreme form. But both groups reflect in varying degrees the same general cultural movement. Like our Left and like the dominant ideology in Western Europe, our 30- and 40-some conservative publicists are immersed in a leftist culture. And the result is something that all of them believe things that adults in the 1950s, including Communist sympathizers, would barely have understood.

It would be no exaggeration to say that Sarah Palin, who is an outspoken advocate of anti-discrimination laws for women, is more radical socially than were French and Italian Communist leaders sixty years ago. While old-fashioned CP members favored a centrally controlled economy and rooted for the Soviet side in the Cold War, unlike Sarah, they were not eager to punish sexists. And they didn’t give a hoot about gays, up until the time Communist parties were under siege from the post-Marxist Left. It is inconceivable that Communists of this era would have followed Jonah Goldberg, Charles Krauthammer, John Podhoretz, the neocon New York Post and the WSJ in affirming government-enforced “gay rights.” Two historians of the post-World War Two Communist movements in France and Italy, Annie Kriegel and Andrea Ragusa, depict a party leadership that belonged, even in spite of itself, to a bourgeois age. They stress the degree to which Communist parties embodied the social attitudes of the pre-Vatican Two Church.

Acceptable critics of the Islamic invasion of Europe like Steyn and Christopher Caldwell are targeting (and this must be noted) a specifically European experiment in multiculturalism. America’s willingness to take in and naturalize just about anybody does not bother these critics; presumably our big tent can hold lots more than we already have. By declaring ourselves to be a “propositional nation” held together by human rights and the belief in universal democratic equality, we are opening our doors to the world, or at least to those in the world who affirm our universalist creed.

I’ve also learned over the last two decades thanks to movement conservative celebrities: that Martin Luther King was acting specifically as a conservative Christian theologian when he spearheaded the civil rights revolution; that gay marriage, properly understood, may be a conservative “family value;” and that we are duty-bound to convert Muslims to our current notion of women’s rights and gay rights. It is precisely these ideas that make us “Western”; and if we truly value the glories of our civilization, which came into existence during some recent phase of late modernity, we should work to spread everywhere our high ideals. Equally relevant, those who have challenged our human rights beliefs, and most outrageously 19th-century counterrevolutionaries were actually “liberals.” Otherwise these mislabeled conservatives would have embraced the American creed of democratic equality!

A striking example of how deeply leftist thought patterns have affected the Right can be discerned in William F. Buckley responses to the attacks in the liberal/neocon press against the “anti-Semites” Joe Sobran and Pat Buchanan. In National Review in December 1991 and March 1992 and in his subsequent In Search of Anti-Semitism, Buckley distinguishes between those who are anti-Semites by conviction and those who are “contextually” anti-Jewish. His key distinction goes back to the Marxist notion of being an “objective reactionary,” meaning someone who challenges the preferences of the Communist Party. Buckley’s argument from context likewise recalls the charge in Europe against those who challenge multiculturalism, as greasing the skids for neo-Nazis.

From this standpoint, it does not matter whether or not one says something that is objectively correct. What counts is not upsetting certain VIPs. In Buckley’s brief, neither the malefactors nor the victims have anything to do with the European Holocaust. The catastrophe is being placed at the doorstep of anyone who allows himself to be intimidated into accepting it. Furthermore, the blame in this instance affects American Christians, who are required to show prescribed sensitivity toward particular American Jews. There are surrogate victims and surrogate victimizers, the first being Buckley’s dinner companions and those journalists who felt outraged, and the second being those who made offending remarks but who had nothing to do with Nazi crimes. Offenders had to be driven off the pages of National Review and out of polite society. They are or were the equivalent of what the Communists used to call “social fascists” and what the European guardians of PC consider “fascistoid.” Such antisocial types are contextually dangerous and therefore must be ostracized lest they do harm.

Note that our two contextual anti-Semites were not abetting violence against Jews, any more than European critics of Muslim immigration or German scholars who question the exclusive blame of their country for every major war are trying to unleash pogroms. They have simply run afoul of certain elite groups, by reopening an inconvenient debate. The conservative movement plays this game by declaring any question it doesn’t want raised forever closed. Such questions now include, among a myriad of other things, objecting in any way to the major congressional legislation of the 1960s.   

 

What did remain in the conservative movement from the 1950s through the 1980s was anti-Communism. American conservatives throughout this period were in favor of resistance to Communist expansion and generally viewed the Soviets as an evil empire. But the movement’s arguments against the evil empire changed over the decades, from defending Western civilization against a godless foe to standing up for global democratic values against a reactionary homophobic Russian enemy.

And these changing reasons for an anti-Soviet stand tell much about the movement’s leftward drift. This drift became a forced march after the neoconservatives ascended to power, and its consequences help explain why there is an independent Right. We more than others have resisted the post-Marxist Left. We remain at war with the cultural and political forces that reshaped the Left in the 1960s; the conservative movement by contrast has made its peace with those forces -- while emphatically denying what has happened.

The authorized conservative movement has worked to blur this truth. The “victory of the West” in the Cold War is placed into an invented series of conservative triumphs, going from Reagan’s “conservative revolution” in the 1980s through the presidency of Bush II. In the Heritage Foundation’s embellishment, even the Clinton presidency belonged to an “ongoing conservative revolution” that began with Reagan and culminated in Dubya’s democratic crusading. Like Reagan and Bush I and II, Clinton supposedly practiced fiscal conservatism and advanced American concepts of human rights, albeit not as effectively as his Republican rivals. There have also been “good” Europeans who aided this conservative march, including an otherwise run-of-the-mill social leftist Tony Blair, who rallied to the Bush administration. Thatcher and Kohl were two other friends, who supported us during the Cold War. The German chancellor Kohl was obsequious enough, that is, “conservative” enough in the current Pickwickian sense, to make sure that his country’s unification would be a passing stage in his country’s merger with an international body. “Conservative” outside the U.S. means going along with neoconservative policies.

 

Movement conservatives have also applied the “C” label to things that have nothing to do with any genuine Right. Democratic equality and moderate feminism are two such preferred values that the conservative movement has claimed for itself. Conservative think-tanks have also reinvented self-described leftists as men and women of the Right. The reinventions of King, Joe Lieberman, and Pat Moynihan as “conservative” heroes all exemplify this practice. And such manipulations have their use. The movement can claim to be doing well, even when the Left triumphs.

Conservative publicists have also reconstructed the 1960s, by divorcing its cultural radicalism from its politics. Although nasty hippies, we are told, fouled the air by not brushing their teeth and by smoking pot, the 1960s also produced legislative reforms that would have pleased Edmund Burke. It was the Civil Rights Act that according to Jonah Goldberg bestowed on our country economic freedom -- for the first time. And the Voting Rights Act was another “conservative” landmark, because thereafter the federal government made sure that all citizens would be able to vote. In fact it kept certain parts of the country under perpetual federal surveillance, lest the Black-voting proportion fell below certain expected turnouts. After all, voting for one or both of our two institutionalized parties is a “conservative” practice. And presumably the more people of different pigmentation vote, the more “conservative” we become. And equally important, the Immigration Reform of 1965 filled the U.S. with a “conservative” Catholic electorate, the benefits (or conservatism) of which have still to be ascertained.

In the 1950s and 1960s conservatives held markedly different views. While they held no brief for those who were occupying university buildings or taking drugs, they were at least equally unhappy with that era’s political reforms. Not even in their wildest dreams could most of them have imagined that such far-reaching attempts at remaking our country attitudinally and ethnically would one day be declared conservative. And I would make the obvious point that one doesn’t have to applaud Jim Crow laws (and I for one don’t) in order to recognize that measures that were taken to end “discrimination” have created a permanent governmental straightjacket from which we’re not likely to extricate ourselves. There was nothing “conservative” about the congressional and bureaucratic measures by which that straightjacket was constructed.

But today’s conservative movement is about preserving the 1960s. It has turned that decade’s transformative legislation into the cornerstone of “conservative” politics. And then there was that other questionable triumph for the Right. Supposedly the collapse of the Soviet Empire belonged to a series of conservative victories in the West, associated with Reagan, Thatcher, and their successors. But the end of Soviet hegemony in Eastern Europe did not cause the ideological shift that is sometimes ascribed to it. The Soviets left the stage of History after a more radical Left had taken over; and this occurred preeminently in the West, which had never suffered the fate of a Soviet occupation. This replacement Left reshaped Communist organizations long before the collapse of the Soviet Empire, and in its milder form, it determined the general political culture in Western countries, including that of a transformed American Right.

One cannot complete the story of why there is an independent Right without also looking at the big picture. We are part of that picture, as much as those who now oppose us. But unlike those movement conservatives who do know the truth, we are not given to manipulating the facts. In the West, there were no conservative victors in the Cold War; such victors, if they existed, were the renascent nations of Eastern Europe. And even these deserving victors may be threatened with moral defeat, if the Left that has triumphed in the West, including this country, continues to gain ground.

Paul E. Gottfried

Paul E. Gottfried

Paul Gottfried has spent the last thirty years writing books and generating hostility among authorized media-approved conservatives. His most recent work is his autobiography Encounters; and he is currently preparing a long study of Leo Strauss and his disciples. His works sell better in Rumanian, Spanish,Russian and German translations than they do in the original English, and particularly in the Beltway. Until his retirement two years hence, he will continue to be Raffensperger Professor of Humanities at Elizabethtown College in Elizabethtown, PA.

dimanche, 07 novembre 2010

A Forgotten Thinker On Nation-States vs. Empire

A Forgotten Thinker On Nation-States vs. Empire

Paul Gottfried

Ex: http://www.freespeechproject.com/

Carl_Schmitt_-_The_Enemy_bigger_crop.jpgGerman legal theorist Carl Schmitt (1888-1985[!]) has enjoyed a widespread following among European academics and among that part of the European Right that is most resistant to Americanization. In the U.S. it is a different matter. Outside of the editors and readers of Telos magazine, which has heavily featured his work, Schmitt's American groupies are becoming harder and harder to find.

My intellectual biography of this thinker, which Greenwood Press published in 1990, has sold rather badly. An earlier, much denser biography, by Joseph W. Bendersky, put out by Princeton in 1983, obtained a broader market. In the eighties, academically well-connected commentators, including George Schwab, Ellen Kennedy, Gary Ulmen, and Bendersky, built up for Schmitt a scholarly reputation on these shores by trying to relate his thought to then-contemporary political issues. This caused so much concern among American global democrats that The New Republic (August 22, 1988) published a grim tirade by Stephen Holmes against the Schmittian legacy. An echo could be found in the New York Review of Books (May 15, 1997), in a screed by another neoconservative, Mark Lila. Though the Schmitt scholars sent in responses, the New York Review would not publish any of them. Apparently the political conversation in Midtown Manhattan is not broad enough to include non-globalists.

Schmitt is properly criticized for having joined the Nazi Party in May 1933. But he clearly did so for opportunistic reasons. Attempts to draw a straight line between his association with the Party and his writings of the twenties and early thirties, when he was closely associated with the Catholic Center Party, a predecessor of the Christian Democrats, ignore certain inconvenient facts. In 1931 and 1932, Schmitt urged Weimar president Paul von Hindenburg to suppress the Nazi Party and to jail its leaders. He sharply opposed those in the Center Party who thought the Nazis could be tamed if they were forced to form a coalition government. While an authoritarian of the Right, who later had kind words about the caretaker regime of Franco, he never quite made himself into a plausible Nazi. From 1935 on, the SS kept Schmitt under continuing surveillance.

There are two ideas raised in Schmitt's corpus that deserve attention in our elite-decreed multicultural society. In The Concept of the Political (a tract that first appeared in 1927 and was then published in English in 1976 by Rutgers University) Schmitt explains that the friend/enemy distinction is a necessary feature of all political communities. Indeed what defines the "political" as opposed to other human activities is the intensity of feeling toward friends and enemies, or toward one's own and those perceived as hostile outsiders.

This feeling does not cease to exist in the absence of nation-states. Schmitt argued that friend/enemy distinctions had characterized ancient communities and would likely persist in the more and more ideological environment in which nation-states had grown weaker. The European state system, beginning with the end of the Thirty Years War, had in fact provided the immense service of taming the "political."

The subsequent assaults on that system of nation-states, with their specific and limited geopolitical interests, made the Western world a more feverishly political one, a point that Schmitt develops in his postwar magnum opus Nomos der Erde (now being translated for Telos Press by Gary Ulmen). From the French Revolution on, wars were being increasingly fought over moral doctrines - most recently over claims to be representing "human rights." Such a tendency has replicated the mistakes of the Age of Religious Wars. It turned armed force from a means to achieve limited territorial goals, when diplomatic resources fail, to a crusade for universal goodness against a demonized enemy.

A related idea treated by Schmitt is the tendency toward a universal state (a “New World Order”?). Such a tendency seemed closely linked to Anglo-American hegemony, a theme that Schmitt took up in his commentaries during and after the Second World War.

German historians in the early twentieth century had typically drawn comparisons between, on the one side, Germany and Sparta and, on the other, England (and later the U.S.) and Athens - between what they saw as disciplined land powers and mercantile, expansive naval ones. The Anglo-American powers, which relied on naval might, had less of a sense of territorial limits than landed states. Sea-based powers had evolved into empires, from the Athenians onward.

But while Schmitt falls back, at least indirectly, on this already belabored comparison, he also brings up the more telling point: Americans aspire to a world state because they make universal claims for their way of life. They view "liberal democracy" as something they are morally bound to export. They are pushed by ideology, as well as by the nature of their power, toward a universal friend/enemy distinction.

Although in the forties and fifties Schmitt hoped that the devastated nation-state system would be replaced by a new "political pluralism," the creation of spheres of control by regional powers, he also doubted this would work. The post-World War II period brought with it polarization between the Communist bloc and the anti-Communists, led by the U.S. Schmitt clearly feared and detested the Communists. But he also distrusted the American side for personal and analytic reasons. From September 1945 until May 1947, Schmitt had been a prisoner of the American occupational forces in Germany. Though released on the grounds that he played no significant role as a Nazi ideologue, he was traumatized by the experience. Throughout the internment he had been asked to give evidence of his belief in liberal democracy. Unlike the Soviets, in whose zone of occupation he had resided for a while, the Americans seemed to be ideologically driven and not merely vengeful conquerors.

Schmitt came to dread American globalism more deeply than its Soviet form, which he thought to be primitive military despotism allied with Western intellectual faddishness. In the end, he welcomed the "bipolarity" of the Cold War, seeing in Soviet power a means of limiting American "human rights" crusades.

A learned critic of American expansionists, Schmitt did perceive the by-now inescapably ideological character of American politics.

In the post-Cold War era, despite the irritation he arouses among American imperialists, his commentaries seem fresher and more relevant than ever before.    

Paul Gottfried is Professor of Humanities at Elizabethtown College, PA. He is the author of After Liberalism and Carl Schmitt: Politics and Theory.  

mardi, 02 novembre 2010

Tradition et Révolution

Tradition et Révolution

par Edouard RIX

Ex: http://tpprovence.wordpress.com/

Pour quoi combattons-nous ? Cette question fondamentale, tout soldat politique doit se la poser. Aussi contradictoire que cela puisse paraître, nous sommes tentés de répondre que nous luttons pour la Tradition et la Révolution.

LA TRADITION

Tout d’abord, il ne faut pas confondre la Tradition avec les traditions, c’est-à-dire les us et coutumes.

La Tradition désigne l’ensemble des connaissances d’ordre supérieur portant sur l’Etre et ses manifestations dans le monde, telles qu’elles nous ont été léguées par les générations antérieures. Elle porte non pas sur ce qui a été donné une fois dans un temps et un espace déterminés, mais sur ce qui est toujours. Elle admet une variété de formes -les traditions-, tout en restant une dans son essence. On ne saurait la confondre avec la seule tradition religieuse, car elle couvre la totalité des activités humaines -politique, économie, social, etc…

A la suite de Joseph de Maistre, de Fabre d’Olivet et, surtout, de René Guénon, Julius Evola parle d’une «Tradition primordiale» qui, historiquement, permettrait d’envisager l’origine concrète d’un ensemble de traditions. Il s’agirait d’une «tradition hyperboréenne», venue de l’Extrême Nord, située au commencement du présent cycle de civilisation, en particulier des cultures indo-européennes.

Du point de vue d’Evola, «une civilisation ou une société est traditionnelle quand elle est régie par des principes qui transcendent ce qui n’est qu’humain et individuel, quand toutes ses formes lui viennent d’en haut et qu’elle est toute entière orientée vers le haut». La civilisation traditionnelle repose donc sur des fondements métaphysiques. Elle est caractérisée par la reconnaissance d’un ordre supérieur à tout ce qui est humain et contingent, par la présence et l’autorité d’élites qui tirent de ce plan transcendant les principes nécessaires pour asseoir une organisation sociale hiérarchiquement articulée, ouvrir les voies vers une connaissance supérieure et enfin conférer à la vie un sens vertical.

Le monde moderne est quant à lui, à l’opposé du monde de la Tradition qui s’est incarné dans toutes les grandes civilisations d’Occident et d’Orient. Lui sont propres la méconnaissance de tout ce qui est supérieur à l’homme, une désacralisation généralisée, le matérialisme, la confusion des castes et des races.

LA REVOLUTION

Quant au terme Révolution, il doit être rapporté à sa double acception. Dans son sens actuel, le plus couramment utilisé, Révolution veut dire changement brusque et violent dans le gouvernement d’un Etat. La Révolution française et la Révolution russe de 1917 en sont l’illustration parfaite.

Toutefois, au sens premier, Révolution ne signifie pas subversion et révolte, mais le contraire, à savoir retour à un point de départ et mouvement ordonné autour d’un axe. C’est ainsi que, dans le langage astronomique, la révolution d’un astre désigne précisément le mouvement qu’il accomplit en gravitant autour d’un centre, lequel en contient la force centrifuge, empêchant ainsi l’astre de se perdre dans l’espace infini.

Or nous sommes aujourd’hui à la fin d’un cycle. Avec la régression des castes, descente progressive de l’autorité de l’une à l’autre des quatre fonctions traditionnelles, le pouvoir est passé des rois sacrés à une aristocratie guerrière, puis aux marchands, enfin aux masses. C’est l’âge de fer, le Kalî-Yuga indo-aryen, âge sombre de la décadence, caractérisé par le règne de la quantité, du nombre, de la masse, et la course effrénée à la production, au profit, à la richesse matérielle.

Etre pour la Révolution aujourd’hui, c’est donc vouloir le retour de notre civilisation européenne à son point de départ originel, conforme aux valeurs et aux principes de la Tradition, ce qui passe, pour reprendre l’expression de Giorgio Freda, par « la désintégration du système» actuel, antithèse du monde traditionnel auquel nous aspirons.

Edouard Rix, Le Lansquenet, automne 2002, n°16.

mardi, 26 octobre 2010

Démocratie directe: la grande peur des bien-pensants!

Démocratie directe : la grande peur des bien-pensants !

 

landsgemeinde1.jpgEx: http://www.polemia.com/

La Fondation pour l’innovation politique (Fondapol), créée par Jérôme Monod, organise, le 16 octobre 2010, à Lille, un colloque sur « Ce que le web fait à la démocratie représentative ». Un sujet dont l’intitulé paraît étroit (quid de la démocratie directe ?) et craintif.

Ce qui a conduit Yvan Blot, contributeur régulier de Polémia, et président de l’Association « Agir pour la démocratie directe » à proposer à la Fondapol une étude purement factuelle sur la démocratie directe. Il s’agissait d’un parangonnage portant sur les expériences suisse allemande italienne et américaine Un sujet intéressant d’autant que depuis 2008 la constitution française prévoit la possibilité d’organiser des référendums d’initiative populaire (à condition toutefois que la demande soit formulée par un cinquième des membres du Parlement et un dixième des électeurs).
Polémia

La peur du peuple

La réponse négative qu’il a reçue du Secrétaire général de la Fondapol, Mathieu Zagrodzki, est très révélatrice :

« Après réflexion et concertation approfondies, nous estimons que notre priorité aujourd’hui est de défendre la démocratie représentative. Notre sentiment est que la démocratie directe constitue l’une de ces voies de passage qui favorisent aujourd’hui l’expression du populisme, le risque le plus élevé se trouvant dans la rencontre entre cette procédure de décision et les questions très sensibles posées par l’immigration, comme l’a démontré le récent exemple de la votation citoyenne en Suisse sur l’interdiction des minarets. A l’heure où les divisions au sein de la société tendent à s’accroître, l’appropriation de la décision publique par des communautés locales nous semble plus de nature à créer de nouveaux problèmes qu’à fournir des solutions. En outre, une fondation pro-européenne comme la nôtre ne peut soutenir le développement de référendums locaux sans songer aux risques de blocage de l’intégration européenne qu’ils pourraient générer. Nous préférons ainsi vous annoncer à ce stade notre décision de ne pas engager le travail que vous nous proposez. »

Démocratie réelle ou démocratie de façade ?

La réponse d’Yvan Blot met les pieds dans le plat :
« Merci de votre franche réponse qui me permet de mieux situer les contours de l'oligarchie gouvernante actuelle. Vous savez fort bien que la démocratie représentative est une façade : les lois sont faites par les hauts fonctionnaires (dont je suis) et par les lobbies et médias qui gravitent autour, et certainement pas par les députés (je l'ai été). Le choix réel n'est pas aujourd'hui entre la démocratie dite représentative et la démocratie directe mais entre l'oligarchie actuelle et la démocratie réelle qui doit comporter à la fois des éléments directs et représentatifs comme en Suisse.

Les grandes menaces d'aujourd'hui, endettement des Etats jusqu'à la faillite par exemple, ne sont pas le fruit du « populisme» mais des décisions des oligarques régnants. Ceux-ci nous mènent à la catastrophe et c'est alors que vous verrez le triomphe du populisme qui vous fait peur. Quant à l'Europe, vouloir l'intégrer à marche forcée en ignorant les peuples, c'est bâtir sur du sable.

Forces oligarchiques contre forces démocratiques

Nos opinions divergent donc clairement. Je crois que l'idéologie oligarchique que vous incarnez ressemble à celle de l'Ancien Régime en 1789. J'espère que les événements qui vont produire sa chute de façon inévitable seront le moins violents possible. Je crains qu'en refusant la démocratisation de notre système politique, l'oligarchie qui s'approprie actuellement le pouvoir ne creuse sa propre tombe. C'est déjà arrivé dans l'histoire. L'attitude réactionnaire, même affublée du masque du progressisme, est une attitude perdante.

Je suis ravi de ce dialogue révélateur des forces oligarchiques et démocratiques en présence. J'espère au moins qu'elles pourront dialoguer et que la tentation de la censure des voix des citoyens ne l'emportera pas : toute censure est vaine et vaincue à terme. »

Yvan Blot
06/10/2010

Correspondance Polémia – 15/10/2010

lundi, 25 octobre 2010

Néolibéralisme et euthanasie des classes moyennes

Néolibéralisme et euthanasie des classes moyennes

Ex: http://www.mecanopolis.org/

Par Bernard Conte

Pendant que le néolibéralisme fait son travail de sape, nos élites complices, grassement rémunérées, tentent de détourner l’attention des populations. À l’instar des prestidigitateurs, elles pointent des faits, des « évidences », des idées, des théories… pour mieux dissimuler la réalité et manipuler les opinions.

Après avoir longtemps nié le phénomène du laminage des classes moyennes en Occident, les néolibéraux – de « gauche », comme de « droite »2 [1] – l’admettent, au moins implicitement, aujourd’hui. Mais pour eux, ce phénomène serait tout à fait « naturel », car il se doublerait de l’apparition et de l’essor de classes moyennes au Sud et plus particulièrement dans les pays émergents.

Quoi de plus équitable ? Les pays du Sud n’ont-ils pas un « droit » inaliénable au développement et leurs populations ne peuvent-elles prétendre à « s’embourgeoiser » à leur tour ? La mondialisation néolibérale, tant décriée, aurait des effets positifs sur les classes moyennes au Sud. Face à la dynamique inéluctable de délocalisation des classes moyennes au Sud, les réactions égoïstes des « petits » bourgeois du Nord visant à protéger leur niveau de vie – en s’attachant à leurs privilèges, en revendiquant, en manifestant dans les rues, par exemple – seraient aussi vaines qu’inutiles, voire, à la limite, racistes.

Ce discours est totalement biaisé car la dynamique des classes moyennes suit un cycle au cours duquel elle passe par une phase de croissance, suivie d’une période de décroissement. Ces périodes sont déterminées par la nature des liens entre les classes moyennes et le capital. Pendant la phase ascendante, la classe moyenne prospère parce qu’elle est « l’alliée » du capital. Lorsqu’elle devient son « ennemie », la classe moyenne périclite. Dans les deux cas, c’est l’État, entre les mains de la classe politique, qui gère la production ou la destruction de la classe moyenne.

La dynamique cyclique des classes moyennes : entre densification et éclaircissement

Au cours des Trente glorieuses au Nord et pendant la période du développement introverti3 [2] au Sud, la classe moyenne s’est densifiée, avec plus ou moins d’intensité, dans de nombreuses zones de la planète. L’adoption de politiques néolibérales, de désinflation compétitive au Nord et d’ajustement structurel au Sud, a inversé la tendance en éclaircissant les rangs des classes moyennes. Cette évolution donne à penser que la dynamique des classes moyennes suit une trajectoire cyclique.

L’évolution de la classe moyenne en Afrique : l’exemple de la Côte d’Ivoire

L’expérience de la Côte d’Ivoire, pendant et après le « miracle » économique, illustre bien cette dynamique. Sous l’égide de son Président, Félix Houphouët-Boigny, la Côte d’Ivoire a mis en œuvre un modèle de développement « au caractère libéral et ouvert officiellement affirmé, devait présenter trois étapes successives : le capitalisme privé étranger, le capitalisme d’État, avant la relève par le capitalisme privé national, encouragé par un processus de rétrocession. La stratégie industrielle retenue était la substitution des importations. La politique industrielle s’est appuyée sur l’État et les intérêts français dont les profits étaient garantis par le code des investissements promulgué en 1959 et par la protection du marché interne4 [3] ».

Il s’agissait, pour l’État, de susciter l’apparition d’une classe « motrice », moyenne et supérieure, qui puisse prendre en main le développement national. À cette fin, l’État a mis en œuvre une stratégie multiforme notamment fondée sur :

  1. l’éducation – formation : « en 1960, l’État consacrait 22% de son budget à la formation ; cette proportion passait à 33% en 1973, pour atteindre 54,9% en 19835 [4] ».
  2. l’ivoirisation du capital et de l’emploi (et particulièrement des cadres) par la relève des étrangers dans la fonction publique, dans le secteur de l’immobilier et des PME et dans les grandes entreprises (le plus souvent filiales de sociétés transnationales) ainsi que par l’extension de l’appareil d’État et du secteur public6 [5].

« L’appareil d’État sert de précurseur, de trait d’union et de tremplin à l’intégration des nationaux aux postes économiques. L’État joue le rôle d’agent moteur, créant les conditions de l’accès aux participations économiques, ne se substituant jamais à l’initiative privée là où elle existe, et toujours de manière à ce que ces initiatives soient compatibles avec les orientations du passé. La promotion des nouvelles initiatives tend à se faire dans des secteurs réservés7 [6] ».

Ainsi, grâce à l’action publique, les classes moyennes émergent. Par exemple, « avec un effectif de 78 000 emplois en janvier 1978, l’Administration est le premier employeur du pays. Comme le secteur parapublic représente pour sa part 61 000 emplois (y compris les sociétés d’économie mixte) c’est près de 40 % de l’emploi moderne qui est, directement ou indirectement, contrôlé par l’État8 [7] ». De même, dans son étude sur l’emploi en Côte d’Ivoire, Françoise Binet dénombre, en 1978, 4 832 patrons d’entreprises à Abidjan dont 41,2 % sont ivoiriens9 [8]. Ces chiffres traduisent l’émergence et la densification progressive de classes moyennes salariées et entrepreneuriales au cours des Vingt glorieuses (ou du miracle ivoirien), aussi marquées par un taux de croissance du PIB réel d’environ 7 % par an en moyenne, une performance qui a engendré l’entrée de la Côte d’Ivoire dans la catégorie des pays à revenu intermédiaire selon la classification de la Banque mondiale. Dans les années 1970, la Côte d’Ivoire bénéficie du niveau de vie le plus élevé d’Afrique de l’Ouest.

Le tournant se situe au début des années 1980 avec la chute des cours internationaux du cacao et du café, principales exportations de la Côte d’Ivoire. A partir de 1981, s’ouvre la période de l’ajustement. En raison de l’intangibilité revendiquée de la parité du franc CFA vis-à-vis du franc français, l’ajustement sera tout d’abord désinflationniste (en termes réels ), puis en 1994, il comportera la dévaluation de 50 % du CFA. Les mesures d’abaissement de la dépense publique, de réduction des effectifs de la fonction publique, la privatisation, la disparition pure et simple d’entreprises publiques ou d’entreprises liées à l’industrialisation par substitution des importations… vont se traduire par un appauvrissement de la majorité de la population avec un creusement des inégalités. En considérant l’indice du PIB réel par habitant égal à 100 en 1980, sa valeur n’était plus que de 79,7 en 198810 [9]. La réduction des emplois publics grossit les rangs du secteur informel et inverse le flux de l’exode rural: « en ce début des années 1990, nombre d’autochtones, montés dans les villes car ayant bénéficié du programme gouvernemental de 1978, dit d’ivoirisation de la fonction publique, sont forcés de revenir dans leurs villages d’origine suite à la suppression de nombreux emplois administratifs11 [10] ». Ces populations, appartenant à la classe moyenne « ajustée », « compressée », sont victimes d’un déclassement. On assiste à « l’extension de la pauvreté et à l’accroissement des inégalités12 [11] ». L’augmentation de la pauvreté, qui en « 2008 a atteint un seuil critique de 48,9 % contre seulement 10 % en 198513 [12] », traduit le fait que la classe moyenne se paupérise.

En Côte d’Ivoire, de l’indépendance à la fin des années 1970, la classe moyenne s’est constituée dans le cadre du modèle de développement mis en œuvre par Félix Houhpouët-Boigny. Cette classe a vu ses rangs s’éclaircir progressivement avec les programmes d’ajustement structurel néolibéraux. On observe cette même dynamique sous d’autres cieux.

Argentine : « la classe moyenne est détruite14 [13] »

En Amérique Latine, l’exemple de l’Argentine révèle que la période des ajustements a délité la classe moyenne nombreuse qui s’était constituée auparavant. En effet, jusqu’à la fin des années 1970, « l’Argentine était une société relativement bien intégrée – tout au moins si on la compare aux autres pays d’Amérique Latine – caractérisée par une vaste classe moyenne, résultat d’un processus de mobilité sociale ascendante dont la continuité n’avait jamais été remise en cause15 [14] ». A partir des années 1980, la classe moyenne se délite. «  On observe notamment l’entrée dans le monde de la pauvreté d’individus issus de la classe moyenne : il s’agit des « nouveaux pauvres » dont le nombre a cru de 338 % entre 1980 et 199016 [15] ». Cette tendance s’est poursuivie, si bien qu’en janvier 2002, le Président argentin nouvellement élu, Eduardo Duhalde, révélait « qu’en 2001, la classe moyenne [avait] perdu 730 000 argentins, venus grossir les rangs des 15 millions de pauvres, soit 40 % de la population du pays17 [16] ». A cette occasion, le Chef de l’État déclarait : « la classe moyenne est détruite18 [17] ».

La fin du « miracle » asiatique et le laminage des classes moyennes

En Asie du Sud-Est, de 1970 à 1995, les pays émergents ont enregistré une forte croissance économique, si bien que l’on a parlé de « miracle ». Au cours de cette période, une classe moyenne essentiellement urbaine a progressivement émergé. La grave dépression de 1997-1998 a fortement impacté « la classe moyenne des pays du Sud-Est asiatique [qui] a payé le prix fort de cette crise : de nombreuses personnes ont perdu simultanément leur emploi et les économies de plusieurs années19 [18] ». Le phénomène tend à se poursuivre avec la crise actuelle. En Corée du Sud par exemple, la crise actuelle (2008) « évoque celle de 1998. Du coup, les jeunes se ruent vers les sociétés d’État, où les emplois sont plus stables. En une décennie, la classe moyenne coréenne a diminué de 10 %. Beaucoup forment aujourd’hui une nouvelle classe de pauvres20 [19] ».

Au Nord : l’euthanasie progressive des classes moyennes

Au Nord, depuis le début des années 1980, on assiste à « l’euthanasie » de la classe moyenne constituée pendant les Trente glorieuses21 [20]. Aux États-Unis, « s’il existe un point sur lequel les années 1980 ont réussi à créer un accord (de toute façon a posteriori) entre des économistes de différentes tendances, c’est précisément sur la diminution quantitative de la classe moyenne : « the big squeeze » de l’économie domestique située au niveau des revenus intermédiaires, la mobilité vers le bas des « cols blancs », les dumpies (downwardly mobile professionals selon la définition de Business Week) ont remplacé les yuppies plus connus du début des années 198022 [21] ». La tendance au délitement a été masquée, jusqu’à la crise des « sous-primes », grâce à « un accès au crédit excessivement laxiste » qui « a permis à une grande partie des ménages moins nantis de maintenir un niveau de vie aisé » et qui « a généré ce qu’on pourrait appeler une ‘fausse classe moyenne’ aux États-Unis23 [22] ». En Allemagne, selon une étude scientifique récente de l’institut DIW, au cours des dix dernières années, « les classes moyennes se sont « rétrécies24 [23] » car elles sont « les perdantes des transformations qu’a subi la répartition des revenus au cours de la dernière décennie25 [24] ». En France, la dynamique d’atrophie des classes moyennes est moins perceptible, en raison de l’existence initiale d’un État-providence renforcé et de sa plus lente destruction. Louis Chauvel montre que, pendant les Trente glorieuses, l’ascenseur social a permis à un grand nombre de jeunes, issus du milieu agricole ou ouvrier, d’accéder à la classe moyenne qui s’est développée rapidement au cours de cette période26 [25]. C’était l’âge d’or de la classe moyenne en France. Mais, à partir du début des années 1980, la situation se détériore progressivement. « Sans nier l’importance des difficultés des classes populaires et de ceux qui font face à la marginalisation sociale, c’est au tour des catégories centrales de la société d’expérimenter une forme de précarité civilisationnelle27 [26] ».

Il apparaît que les classes moyennes se sont développées dans des lieux et à des moments différents, pendant des périodes de durée variable, mais caractérisées par une croissance économique relativement élevée. Lorsque l’environnement s’est révélé moins favorable, ces classes moyennes sont entrées en crise. La dynamique des classes moyennes semble suivre une chronologie caractérisée par une période de croissance, prolongée par une phase de décroissement.

Dans cette hypothèse, il est utile de s’interroger sur les facteurs explicatifs de la dynamique cyclique des classes moyennes.

Quelques pistes de réflexion sur les déterminants de la dynamique cyclique des classes moyennes

Notre hypothèse suggère que l’on assiste, dans le temps, à une montée des classes moyennes suivie de leur décrue. Une raison de cette trajectoire pourrait se situer dans le rôle ambigu des classes moyennes dans le processus de développement. En effet, les classes moyennes apparaissent à la fois comme un facteur de développement économique et comme un frein à la croissance des profits. Le cheminement cyclique pourrait s’expliquer par un échelonnement différencié dans le temps des effets précités. Dans tous les cas, il apparaît que l’évolution de la classe moyenne est intimement liée à l’intervention de l’État. C’est l’État (ou plutôt les élites politiques au pouvoir) qui décide de (dé)règlementer et de légiférer pour promouvoir ou enrayer le développement de la classe moyenne. La loi est (presque) toujours instrumentalisée pour servir les intérêts du capital qui peuvent coïncider avec ceux de la classe moyenne à un moment donné et en diverger à une autre période. En cas de convergence d’intérêts, la loi favorise la densification de la classe moyenne, en cas de divergence, la loi organise l’euthanasie de la classe moyenne jugée inutile, hostile et coûteuse pour le capital.

La classe moyenne « alliée » du capitalisme industriel

Dans certaines circonstances, la classe moyenne apparaît comme un facteur de développement de par son impact sur l’offre et sur la demande. Par exemple, au cours de la période des Trente glorieuses, la classe moyenne (intégrant une bonne partie de la classe ouvrière) a largement participé au bon fonctionnement du système fordiste, caractérisé par la production de masse et la consommation de masse. Pour son développement, le capitalisme industriel avait besoin d’un grand marché ainsi que de capacités productives résidentes pour l’approvisionner.

La classe moyenne a tenu un rôle important dans la création et le soutien de la demande tant sur le plan quantitatif que qualitatif. Grâce à un pouvoir d’achat en progression régulière, elle a consommé des quantités croissantes de biens et de services standardisés, mais elle a aussi accepté de payer un prix plus élevé pour la « qualité », ce qui a stimulé l’investissement pour l’innovation, la différenciation et la commercialisation de nouveaux biens et services28 [27].

Du côté de l’offre, certains considèrent la classe moyenne comme un vecteur important de l’entrepreneuriat et de l’innovation des petites entreprises. La classe moyenne s’est aussi constituée à partir de la main-d’œuvre qualifiée dont les entreprises et l’État (l’État providence) avaient besoin pour leur développement. Grâce à l’effort d’éducation – formation, ladite classe a fourni le capital humain nécessaire tout en permettant à une masse d’individus issus de milieux modestes de rejoindre ses rangs. Au total, « la classe moyenne apparaît comme la source de tous les intrants requis pour assurer la croissance en termes d’économie néoclassique – idées nouvelles, accumulation du capital physique et accumulation du capital humain29 [28] ».

Ainsi, les Trente glorieuses ont scellé un compromis (une « alliance ») temporaire entre la classe moyenne, essentiellement salariée, et le capital industriel. La superposition géographique des aires de production et de consommation était un élément décisif du compromis. Grosso modo, ce qui était essentiellement produit au Nord était consommé au Nord. Ce faisant, la fraction de la valeur ajoutée à laquelle les capitalistes renonçaient dans le processus productif, pour la verser sous forme de salaire direct et indirect, revenait dans leur escarcelle lors de l’achat des biens et services par les salariés. En d’autres termes, le salaire était à la fois un coût et un vecteur de profit pour l’entreprise. La coïncidence géographique de la production et de la consommation engendrait un cercle vertueux conduisant au développement autocentré.

Dans une certaine mesure, on a constaté la mise en place de compromis similaires dans les pays du Sud, au cours de la période du nationalisme – clientéliste, notamment caractérisé par l’industrialisation par substitution des importations. En Côte d’Ivoire, par exemple, le compromis initiateur de la classe moyenne était fondé sur la redistribution de la rente agricole issue des filières cacao-café, sur le développement du secteur industriel ainsi que sur les apports d’aide extérieure30 [29]. Le capital international récupérait la rente par le biais des importations et de la production nationale qu’il assurait majoritairement.

Lorsque le contexte évolue, les intérêts des protagonistes peuvent se mettre à diverger et le compromis peut être remis en cause. Dans ce cas, la classe moyenne et le capital deviennent ennemis.

La classe moyenne « ennemie » du capitalisme financier

La survenance d’une série d’évènements va graduellement modifier le contexte de l’économie mondiale : la fin du système de taux de change fixes en 1971, les chocs pétrolier de 1973 et de 1979, la stagflation, la crise de la dette des pays du Sud en 1982, la chute du mur de Berlin et l’implosion du bloc soviétique. L’évolution va permettre l’accélération et l’approfondissement de la mondialisation néolibérale, financière et économique.

Le capitalisme se financiarise et la production industrielle est relocalisée principalement sur le continent asiatique qui dispose d’une main d’œuvre à très bas salaires. La désindustrialisation frappe les pays du Nord31 [30], mais également les pays du Sud32 [31] qui avaient, dans le cadre du nationalisme – clientéliste, adopté des stratégies d’industrialisation par substitution des importations.

Le libre-échange permet d’inonder les marchés de produits à bas prix qui concurrencent (de façon déloyale ?) les productions nationales, révélant leur défaut de « compétitivité ». (Re)devenir compétitif33 [32] implique l’abaissement des coûts de production directs et indirects. Cette démarche passe par la réduction des salaires réels, des avantages sociaux… et, plus généralement, des dépenses « clientélistes » (assimilées à de la corruption) et des dépenses liées à l’État providence (présentées comme inéquitables, car essentiellement corporatistes).

Sous prétexte de concurrence, il s’agit de rehausser les profits. Pour ce faire, il convient d’ajuster les structures économiques et sociales nationales aux règles du « laisser-faire » – « laisser-passer », étendu à l’ensemble de la planète. « Parmi la population, comme les pauvres le sont trop et que les riches sont exemptés34 [33], c’est sur la classe moyenne que reposera l’essentiel de la charge de l’ajustement35 [34] ».

Ainsi, la classe moyenne devient « l’ennemie » du capitalisme financiarisé car son existence injustifiée – puisque sous d’autres cieux, des populations assurent les mêmes tâches productives à moindre coût – réduit les profits. Le capitalisme dénonce le compromis conclu précédemment et fait procéder à l’euthanasie de la classe moyenne parasite. Pour ce faire, l’intervention de l’État, guidée par les élites politiques complices, apparaît indispensable.

La classe moyenne produite ou détruite par l’État

L’intervention de l’État est impérative pour assurer le développement de la classe moyenne ou son euthanasie, car c’est lui qui légifère, règlemente, incite, réprime… contrôlant ainsi, plus ou moins directement, une large part de la production et de la redistribution des richesses. L’État prend et donne, fait et défait, tricote et détricote… Par le biais de la loi, du secteur public, de la fiscalité – redistribution…, l’État façonne, corrige et adapte la structure sociale nationale. Les élites politiques (issues du suffrage universel en démocratie) assurent la direction de l’État, proposent et votent les lois. Ce sont donc lesdites élites politiques nationales qui portent la responsabilité de la densification ou de l’éclaircissement de la classe moyenne.

Durant la phase ascendante du cycle, le compromis entre le capital et la classe moyenne autorise les élites politiques à œuvrer en sa faveur. L’État intervient pour assurer un bien-être accru par la loi et la réglementation, pour créer des emplois, pour mettre en place des services publics de qualité…, ce qui a pour effet de densifier la classe moyenne36 [35] tout en permettant au capital de se valoriser pleinement. On assiste à la construction de l’État providence et de l’État nationaliste – clientéliste. Au cours de cette phase, dans les pays du Sud, une bonne partie du surplus dégagé sur le territoire national, principalement sous forme de rente (agricole, minière, énergétique…), est mobilisé par l’État et distribué sur place. C’est la période des « Pères de la nation » (Houphouet-Boigny, N’Krumah, Nyerere…). Au Nord, le fordisme permet la croissance autocentrée, génératrice de surplus largement redistribué. Sur le plan politique, le climat est assez serein. En effet, en démocratie, les élites politiques émanent, pour une large part, de la classe moyenne. Elles fondent leur discours sur les concessions, obtenues ou à négocier avec les capitalistes37 [36], au profit de la classe moyenne essentiellement. De ce fait, la classe politique se trouve relativement en phase avec l’électorat38 [37].

Au cours de la période descendante du cycle, qui coïncide avec la divergence des intérêts du capital et de la classe moyenne, l’État œuvre à la destruction de cette dernière. Cela signifie la défaisance39 [38] des dispositifs mis en place au cours de la période précédente : l’État providence au Nord et l’État nationaliste – clientéliste au Sud. En régime démocratique, cette démarche présente un risque majeur pour les élites dirigeantes qui doivent mettre en œuvre des politiques contraires aux intérêts de leur électorat traditionnel40 [39]. Le contournement de cet obstacle politique implique l’atomisation du pouvoir de l’Etat central41 [40], l’organisation de la démocratie virtuelle42 [41], la promotion de l’idéologie du marché, la manipulation de l’opinion publique, le changement des élites par leur internationalisation43 [42]… Les élites, au pouvoir ou susceptible d’y accéder, réunies autour du projet néolibéral (monétariste ou ordolibéral) qu’elles déclinent avec le vocabulaire propre à leur position « officielle » sur l’échiquier politique, produisent un discours étriqué et peu différencié, qui tente de cacher la réalité de la dynamique de paupérisation du plus grand nombre, imposée par le capitalisme financiarisé. Le fossé se creuse entre la classe politique et les électeurs qui expriment leur désintérêt par une abstention massive aux scrutins électoraux. Malgré cela, les élites s’impliquent de plus en plus au service du capital contre les populations et particulièrement contre la classe moyenne. Pour elles, les règles du marché qui sont censées récompenser les prudents44 [43] et sanctionner les téméraires ne s’appliquent pas aux capitalistes financiers. La crise de 2008, montre que les élites ont fait en sorte que « les téméraires semblent être les bénéficiaires de la crise qu’ils ont provoquée, tandis que le reste de la société [et particulièrement la classe moyenne] porte le fardeau de leur insouciance45 [44] ». L’instrumentalisation de l’État et des institutions supranationales au service du capitalisme financiarisé engendre une crise globale de légitimité des élites, qu’elles soient nationales ou internationales.

Au total, selon que la classe moyenne sert ou dessert le capital, les élites utilisent l’État pour en densifier ou pour en éclaircir les rangs.

Conclusion

De nombreux scientifiques et commentateurs ont souligné l’importance des classes moyennes dans le processus de développement. Les performances des pays du G7 qui, de 1965 à 2004 ont représenté une part quasi stable de 65 % du PIB mondial peuvent être, en grande partie, attribuées à une classe moyenne nombreuse46 [45]. « Ce sont les classes moyennes qui ont bâti l’économie française du XXème siècle ; elles en ont été les plus grandes bénéficiaires47 [46] ». Plus généralement, « sur le long terme (200 ans), l’économie de marché occidentale a resserré les inégalités entre les classes sociales [et] ce sont les classes moyennes qui ont le plus bénéficié de ce resserrement des inégalités48 [47] ». La tendance s’inverse à partir de la fin des années 1970 avec la mondialisation néolibérale qui lamine progressivement les classes moyennes. Face à ce constat, d’aucuns49 [48] avancent que la « réduction » des classes moyennes dans certaines zones géographiques serait surcompensée par la densification de ces mêmes classes dans d’autres zones du globe.

On s’interroge sur l’apparition et la densification des classes moyennes dans les pays émergents (Chine, Inde…). Selon notre analyse, dans un contexte de mondialisation néolibérale, de libre-échange, de déréglementation, de libre mouvement des capitaux… et de non-intervention incitatrice et protectrice de l’État, les classes moyennes ne seront qu’un phénomène éphémère. En effet, le marché mondial mettant en concurrence tous les peuples, les revenus sont forcément plafonnés par la nécessité de rester compétitifs par rapport aux nouveaux entrants sur ledit marché (par exemple : la Chine par rapport au VietNam…, etc). Dans ces conditions, une classe moyenne ne peut se développer durablement. Dès que, dans un pays, les revenus atteignent un certain seuil, les coûts de production deviennent trop élevés pour affronter la concurrence tant sur le marché national que mondial. Les productions concernées sont alors délocalisées vers des pays ou des régions plus compétitives, où se créent des embryons de classe moyenne au « détriment » de celle du pays d’origine. Il s’agit d’une sorte de jeu à somme nulle où l’un gagne ce que l’autre perd50 [49].

Pour se densifier durablement, la classe moyenne a besoin de l’intervention incitatrice et protectrice de l’État qui ne peut intervenir dans un contexte de mondialisation néolibérale. Il faut donc réhabiliter l’État. De plus, les élites politiques à la tête de l’État (ou susceptibles de l’être) doivent privilégier les intérêts de la classe moyenne par rapport à ceux du capital.

Depuis de nombreuses années, l’expérience nous montre qu’au niveau mondial – à quelques rares exceptions près51 [50] – les élites au pouvoir, au capital social internationalisé, semblent plutôt être à la solde du capital financier. Cela signifie que l’avenir radieux des classes moyennes implique le changement des élites qui ne se fera certainement pas sans violence52 [51].

Benard Conte, pour Mecanopolis [52]

Bernard Conte est économiste politique et maître de conférences à l’Université Montesquieu-Bordeaux IV 

Visiter le blog de Bernard Conte [53]

Notes :

1 [54] Cet article est une version épurée d’une communication [55] présentée au Congrès des études africaines en France, CEAN – IEP de Bordeaux, septembre 2010.
2 [56] En France, on les nomme : droite « bling bling » et gauche « caviar », sur le plan des idées politiques, une épaisseur de moins d’un cheveu les sépare.
3 [57] Au Sud pendant cette période, « de nombreux pays optent pour un développement introverti en mettant en œuvre des stratégies d’industrialisation par substitution des importations (ISI), aptes à lutter contre la détérioration des termes de l’échange (DTE). Il s’agit de remplacer progressivement les importations de produits manufacturés par la production nationale dans une stratégie de remontée de filière. Pour ce faire, le marché domestique doit être protégé (au moins temporairement) et l’État joue un rôle majeur dans la mise en œuvre de ladite stratégie (state-led-development) », Bernard Conte, Clientélisme, ajustement et conflit [58], Bordeaux, CED, DT n° 101, 2004, p. 1.
4 [59] Bernard Conte, Clientélisme, ajustement et conflit, op. cit. p. 5.
5 [60] Bernard Conte, La division internationale du travail et le développement interne : le cas de la Côte d’Ivoire, op. cit. p. 359.
6 [61] Ibidem, p. 321-376.
7 [62] Bonnie Campbell, « Quand l’ivoirisation secrète une couche dominante », Le Monde diplomatique, novembre 1981.
8 [63] République de Côte d’Ivoire, Ministère du plan, Plan de développement économique social et culturel, 1981-1985, Abidjan, 1982, p. 744.
9 [64] Bilan national de l’emploi en Côte d’Ivoire, Ministère des relations extérieures, Etudes et documents, n° 47, Paris, mai 1982, p. 132.
10 [65] Jean-Paul Azam, La faisabilité politique de l’ajustement en Côte d’Ivoire (1981 – 1990), (version révisée n°3) études du Centre de développement, OCDE, Paris, 1994, p. 71.
11 [66] « Cote d’Ivoire, compétition capitaliste aigüe autour de la répartition de la rente issue de l’exploitation des ressources naturelles », La lettre de mouvement communiste, n° 15 ; janvier 2005, http://www.mouvement-communiste.com/pdf/letter/LTMC0515.pdf [67] consulté le 19 août 2010.
12 [68] Denis Cogneau et Sandrine Mesplé-Somps, L’économie ivoirienne, la fin du mirage ? Dial, Paris, Document de travail DT/2002/18, Décembre 2002, p. 88.
13 [69]Afrik.com, « Côte d’Ivoire : la pauvreté atteint le seuil critique de 48,9 % », 6 janvier 2009,
http://www.afrik.com/breve15294.html [70] consulté le 19 août 2010.
14 [71] Gabriel Kessler, « L’expérience de paupérisation de la classe moyenne argentine », Cultures & Conflits, 35, 1999, http://www.conflits.org/index173.html [72] Consulté le 17 juillet 2010. Le délitement de la classe moyenne s’observe aussi au Brésil, cf. par exemple : Larissa Morais, «  La classe moyenne brésilienne », Jornal do Brasil, 12 mai 2004, traduction Elizabeth Borghino pour Autres Brésils, http://www.autresbresils.net/spip.php?article73 [73] consulté le 8 août 2010.
15 [74] Gabriel Kessler, « L’expérience de paupérisation de la classe moyenne argentine », art.cit.
16 [75] Idem.
17 [76] Latinreporters.com, « Argentine: le péroniste Eduardo Duhalde, 5e président en deux semaines », http://www.latinreporters.com/argentinepol020102.html [77] , consulté le 1er août 2010.
18 [78] Idem. Le délitement de la classe moyenne s’observe aussi au Brésil, cf. par exemple : Larissa Morais, «  La classe moyenne brésilienne », Jornal do Brasil, 12 mai 2004, traduction Elizabeth Borghino pour Autres Brésils, http://www.autresbresils.net/spip.php?article73 [73] consulté le 8 août 2010.
19 [79] Geneviève Brunet, « Crise des pays émergents. De bons élèves lourdement punis », L’Hebdo, http://www.hebdo.ch/crise_des_pays_emergents_de_bons_elev... [80] consulté le 1er août 2010. Voir aussi : John Evans, « Impact social de la crise asiatique. » Le Monde diplomatique, mai 1998, pp. 3.
20 [81] Alain Wang, « Asie : la crise frappe les classes moyennes », », Courriercadres.com http://www.courriercadres.com/content/asie-la-crise-frapp... [82] 19 mars 2009, consulté le 2 août 2010.
21 [83] Cf. Bernard Conte, La Tiers-Mondialisation de la planète [84], Bordeaux, Presses universitaires de Bordeaux, 2009.
22 [85] Christian Marazzi, « Middle-class confusion de terme, confusion de concept », Collectif d’analyse politique, http://cap.qc.ca.edu/a-la-redecouverte-du-concept-de-clas... [86] Première publication en juillet 1994, Mise en ligne le lundi 7 juillet 2003, consulté le 2 août 2010.
23 [87] Marc-André Gagnon, « La ‘fausse classe moyenne’ piégée », Le journal des alternatives, http://www.alternatives.ca/fra/journal-alternatives/publications/archives/2009/vol-15-no-8-mai-2009/article/la-fausse-classe-moyenne-piegee 30 avril 2009 [88], consulté le 2 août 2010.
24 [89] « Elles constituent désormais moins des deux tiers de la société », Cf. note suivante.
25 [90] Cidal, « L’érosion des classes moyennes se poursuit en Allemagne », Centre d’information et de documentation sur l’Allemagne, Paris, http://www.cidal.diplo.de/Vertretung/cidal/fr/__pr/actual... [91] , publié le 17/06/2010, consulté le 4 août 2010. L’étude est disponible à cette adresse : http://www.diw-berlin.de/documents/publikationen/73/diw_0... [92]
26 [93] Louis Chauvel, Les classes moyennes à la dérive, Paris, Seuil, 2006.
27 [94] Louis Chauvel, « Classes moyennes, le grand retournement », Le Monde, 3 mai 2006. p. 24.
28 [95] Kevin Murphy, Andrei Shleifer et Robert Vishny, “Income Distribution, Market Size and Industrialization,” Quarterly Journal of Economics, (août 1989), p. 537-564.
29 [96] Homi Kharas, The emerging middle class in developing countries [97], Working Paper n° 285, Paris, OCDE, Development Centre, janvier 2010, p. 7. Traduction de l’auteur.
30 [98] Cf. Bernard Conte, « Côte d’Ivoire : du clientélisme ‘éclairé’ au clientélisme ‘appauvri’ », Strategic-Road.com, 19/04/2003, http://www.strategic-road.com/pays/pubs/cote_divoire_clie... [99] consulté le 27 août 2010.
31 [100] « [En France], de 1997 à 2007, la part de l’industrie dans le PIB est passée de 18,4% à 12,1% et les emplois industriels ont diminué de 2 millions en trente ans », Pascal Salin, « Faut-il craindre la désindustrialisation ? », La Tribune, 10/03/2010.
32 [101] « L’ajustement structurel a contribué, contrairement à ce que laisse entendre le FMI, à la désindustrialisation de l’Afrique », Joseph Stiglitz, « L’Afrique doit compter davantage sur elle-même », Les Afriques, 08/02/2010, http://www.lesafriques.com/actualite/joseph-stiglitz-l-af... [102] consulté le 26/08/2010.
33 [103] La compétitivité devient obsessionnelle. Cf. par exemple : T. Biggs, M. Miller, M. Otto, C. et G. Tyler, « Africa Can Compete! Export Opportunities and Challenges for Garments and Home Products in the European Market, » World Bank – Discussion Papers 300, World Bank. 1996.
34 [104] Les riches sont les seuls censés produire de la croissance, il faut les protéger, par exemple grâce à un « bouclier » fiscal.
35 [105] Bernard Conte, « Le oui irlandais débloque l’Europe ordolibérale », Contre Info.info, 10/10/2009, http://contreinfo.info/article.php3?id_article=2835 [106] consulté le 27/08/2010.
36 [107] Au Chili, « les couches moyennes ont joui d’une redistribution favorable – à l’intérieur de l’ensemble des salariés – des dépenses publiques dans les domaines de la santé, de l’éducation et surtout du logement, sous les différents gouvernements démocratiques qui ont précédé la dictature », Rosa Jimenez et René Urbina, « Les avatars des couches moyennes dans le Chili d’aujourd’hui [108] », in. Tiers-Monde, 1985, tome 26, n° 101. Classe moyenne : la montée et la crise, p. 154-174. citation p. 161.
37 [109] Il semble que les capitalistes soient prêts à accorder la majorité des concessions, car elles vont dans le sens de la marche du fordisme et du nationalisme – clientéliste.
38 [110] Les promesses électorales peuvent être globalement tenues.
39 [111] C’est à dessein que j’emploie le terme du vocabulaire financier « défaisance », car il s’agit d’une exigence du capitalisme financier.
40 [112] En régime « moins » démocratique, la démarche peut conduire au conflit, éventuellement armé. Cf. Bernard Conte, « Afrique de l’Ouest : clientélisme, mondialisation et instabilité », Paris, Encyclopaedia Universalis, 2004, p. Du même auteur : « La responsabilité du FMI et de la Banque mondiale dans le conflit en Côte d’Ivoire [113] », Etudes internationales, vol. XXXVI, n° 2, juin 2005. p. 219-228.
41 [114] Cf. Bernard Conte, La Tiers-Mondialisation de la planète, op. cit. p. 194-199.
42 [115] Ibidem, p. 199-203.
43 [116] Cf. Yves Dezalay et Bryant G. Garth. La mondialisation des guerres de palais. Paris, Le Seuil, 2002 ; Zbigniew Brzezinski, Between Two Ages : America’s Role in the Technetronic Era, New York, Viking Press, 1970.
44 [117] Ceux qui prennent des risques « calculés » par opposition à ceux qui prennent des risques « inconsidérés ».
45 [118] George Friedman, “The Global Crisis of Legitimacy”, Stratfor, global intelligence, 4 mai 2010. http://www.stratfor.com/weekly/20100503_global_crisis_leg... [119] consulté le 19 août 2010. Traduction libre.
46 [120] “Underpinning the performance of the G7, and indeed driving the global economy, is a large middle class”, Homi Kharas, The emerging middle class in developing countries, op. cit.
47 [121] Xavier Théry, « Comment les classes moyennes ont divorcé des élites », Marianne 2, 27/09/2009, http://www.marianne2.fr/Comment-les-classes-moyennes-ont-... [122] consulté le 30/08/2010.
48 [123] Ibidem.
49 [124] Les néolibéraux évidemment.
50 [125] Par contre, le capital est toujours gagnant.
51 [126] On peut citer le Venezuela.
52 [127] Les révolutions ont souvent eu pour origine la classe moyenne.


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Swami Vivekananda e il suo tempo, tra modernità e tradizione

Swami Vivekananda e il suo tempo, tra modernità e tradizione

Elena BORGHI

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Swami Vivekananda e il suo tempo, tra modernità e tradizione

Il quadro storico

Il periodo storico in cui visse ed operò Swami Vivekananda, la seconda metà dell’Ottocento, fu per l’India un momento particolarmente intenso.

Sul piano politico, caratterizzò questi anni il passaggio del governo dell’India dalla Compagnia delle Indie Orientali alla Corona inglese, che assunse il controllo diretto del Paese nel 1858, a seguito del Mutiny. Considerato da alcuni il primo scoppio del fervore nazionalista ed indipendentista, questo evento ebbe come principali conseguenze un’ondata terribile di violenze e la deriva ancor più autoritaria del governo inglese in India. Certamente, la rivolta fu indicativa del carattere predatorio della Compagnia e del livello di esasperazione da essa indotto nella popolazione, che cominciava a mal sopportare il peso del dominio inglese. Se, infatti, il regime coloniale trasformava gradualmente l’India in una nazione moderna – introducendo infrastrutture, reti di comunicazione, organizzazione della burocrazia e della società civile – d’altro canto il Paese pagava un prezzo altissimo in termini economici, sociali e politici.

Sul piano economico, l’India subì in questo periodo la devastazione causata dai legami sproporzionati tra centro e periferia dell’impero, che distrussero la preesistente economia, anche se, per quanto sfrenato, lo sfruttamento economico dell’India garantiva alla Gran Bretagna guadagni complessivamente piuttosto limitati. L’apporto fondamentale della colonia, infatti, rimase sempre la sua funzione di bacino potenzialmente inesauribile di reclutamento di uomini per l’esercito inglese in India, per l’apparato burocratico coloniale e per l’indentured labour, il sistema di “lavoro a contratto” che sostituì gli schiavi africani con migliaia di contadini e braccianti indiani, trasferiti nelle piantagioni e nelle miniere dei luoghi più disparati, legati a contratti che mascheravano uno stato di effettiva schiavitù.

Questi erano tra gli aspetti che, naturalmente, contribuivano a disintegrare il tessuto sociale indiano; vi si aggiungeva il portato del bagaglio ideologico introdotto dal regime coloniale, che cooperò enormemente alla cristallizzazione delle differenze castali e religiose e, dunque, alla frammentazione della società indiana in una miriade di blocchi contrapposti ed ostili, chiusi a livello endogamico, regolati da criteri gerarchici e definiti su basi di purezza razziale e rituale.


I movimenti di riforma

Di pari passo con il potere coloniale, cresceva lo scontento ed il senso di inadeguatezza di alcune categorie, perlopiù intellettuali di classe media ed estrazione urbana, figli di un’educazione di stampo occidentale, dalla cui iniziativa scaturì quel processo di rinnovamento sociale e culturale – nonché di ridefinizione identitaria, presa di coscienza nazionale e critica del regime coloniale – che investì l’India nel periodo in esame.

Si trattò di un periodo di fermento culturale e di tentativi di riforma sociale e religiosa, volti a ripensare le pratiche considerate più aberranti della tradizione hindu (come la sati, l’immolazione delle vedove sulla pira del marito, o il matrimonio infantile), a diffondere un’istruzione di tipo moderno, a ridiscutere la condizione femminile. Motore e scopo ultimo di questi movimenti era l’acquisizione di strumenti atti ad affrontare «l’esibita superiorità dell’Occidente cristiano nei confronti della cultura e delle religioni indiane»1, come dimostrarono, in particolare, le misure a favore dell’istruzione femminile. Auspicate dai riformatori per motivi che poco avevano a che fare con il reale desiderio di apportare miglioramenti alla generale condizione delle donne, queste misure si rivelarono, in realtà, necessarie ad altri scopi: confutare le teorie europee – secondo le quali la discriminazione cui erano sottoposte le donne in India e la loro condizione erano immagine dell’arretratezza del Paese in generale –, dando prova dell’adeguatezza dell’India all’autogoverno; creare “nuove donne indiane” capaci di essere mogli e madri più adatte alle necessità (pratiche, ma anche identitarie e d’immagine) della classe emergente, e di socializzarne i valori e le aspirazioni, pur entro i confini della tradizione patriarcale, che restava per i riformatori un punto fermo e indiscutibile.2

In ambito religioso, la riforma si concretizzò nelle figure di alcuni pensatori e nella fondazione di istituzioni, volte a rivedere le più grandi tradizioni indiane – hindu e musulmana – alla luce di uno spirito più moderno e razionale.

È tra questi riformatori che si colloca Vivekananda, al secolo Narendranath Datta, nato in quella Calcutta all’epoca centro della vita politica e culturale del Paese, e in una famiglia di scienziati e pensatori illustri.

Fin da bambino profondamente interessato ai temi dell’Hinduismo e della meditazione e dotato di un carisma e di una passione per la ricerca della verità inusuali per la sua età, Narendranath ricevette un’istruzione di stampo occidentale, appassionandosi in particolare alla filosofia, e coltivando allo stesso tempo lo studio della poesia sanscrita, dei testi sacri e degli scritti del riformatore suo contemporaneo Rammohan Ray.

Razionale, dedito al ragionamento logico e sprezzante dei dogmi religiosi tradizionali, Narendranath si avvicinò al Brahma Samaj, l’istituzione fondata a Calcutta nel 1828 da Rammohan Ray al fine di operare una trasformazione dello Hinduismo in senso moderno, depurando la religione dalle pratiche più barbare ed introducendo nello studio della stessa il principio di ragione. Narendranath, affascinato dalle arringhe dei riformatori che facevano parte del movimento, sembrava destinato ad una carriera del tutto simile, borghese e socialmente impegnata, fino a quando un incontro introdusse nel suo percorso un cambiamento di rotta.


Da Narendranath a Vivekananda

Era il 1880, quando Narendranath incontrò per la prima volta Ramakrishna, il sacerdote officiante di un tempio situato a Dakshineshwar, un sobborgo di Calcutta, e dedicato ad una forma del dio Shiva, che veniva lì adorato insieme alla dea Kali. Brahmano di estrazione contadina, con un’istruzione limitata cui sopperivano buon senso, mitezza e profonda devozione, costui era un rinunciante di eccezionale spessore, un rappresentante della corrente mistica della bhakti, la “devozione”, e un punto di riferimento per gli intellettuali bengalesi, affascinati dalla schiettezza dei suoi insegnamenti.

Quell’incontro provocò un imponente cambiamento nella vita del giovane Narendranath, che in pochi anni, durante i quali proseguì nel tentativo di conciliare il materialismo delle scienze occidentali e lo spiritualismo in cui lo precipitavano i momenti a Dakshineshwar, divenne il discepolo prediletto di Ramakrishna. Come il suo Maestro, divenne un Advaitavedantin, un sostenitore dell’indirizzo dottrinale del non-dualismo, che predicava l’unità tra Sé individuale e Assoluto. Da questi insegnamenti Narendranath avrebbe in seguito derivato la convinzione della divinità degli esseri umani, dunque la considerazione di tutte le forme dell’esistenza quali manifestazioni dello spirito divino.

Nel 1886 Ramakrishna, dopo aver iniziato i discepoli alla loro nuova condizione di sanyasin3, indicò Narendranath come loro guida. Fu così che egli divenne Vivekananda, “colui che ha la beatitudine della discriminazione spirituale”. Due anni più tardi Vivekananda cominciò la sua vita di parivrajaka, “monaco errante”, partendo per un pellegrinaggio che durò anni, un viaggio solitario compiuto a piedi sulle strade polverose dell’India, dallo Himalaya fino a Kanyakumari. Questa esperienza fornì a Vivekananda una conoscenza profonda del Paese, quale non aveva mai posseduto. Alla fine del viaggio, quando finalmente raggiunse Kanyakumari, Vivekananda rifletté su tutto quello che aveva visto: «Un Paese dove milioni di persone vivono dei fiori della pianta mohua, e un milione o due di sadhu e circa cento milioni di brahmani succhiano il sangue di queste persone, senza fare il minimo sforzo per migliorare la loro condizione, è un Paese o l’inferno? È quella una religione, o la danza del diavolo?»4

Partito con l’obiettivo di portare unità tra le varie sette e confessioni indiane, radunandole sotto l’ombrello del messaggio vedantico, Vivekananda comprese che al suo Paese servivano istruzione e cibo, più che insegnamenti religiosi. Ripensò a quel che aveva sentito dire alcuni mesi prima, circa l’organizzazione a Chicago del World’s Parliament of Religions, un congresso che avrebbe ospitato rappresentanti di ogni religione del mondo; Vivekananda decise che si sarebbe recato negli Stati Uniti, per predicare il messaggio vedantico e chiedere in cambio il sostegno economico necessario a fondare in India istituzioni educative e caritative per le classi più svantaggiate.

Pochi mesi più tardi ebbe inizio la sua missione in Occidente, che lo vide tenere innumerevoli conferenze e radunare intorno a sé molti sostenitori.


Un pensiero moderno e rivoluzionario

Attualizzando gli aspetti religioso-filosofici della dottrina vedantica, all’interno di un pensiero in cui la speculazione teorica e dogmatica veniva costantemente riportata alle necessità pratiche del suo tempo e del suo luogo – percepite come urgenti ed imprescindibili –, Vivekananda divenne l’esempio di una nuova tipologia di riformatore, capace di coniugare gli insegnamenti ancestrali del pensiero vedantico con l’attualità dell’India più comune. Questa narrazione, dunque – a differenza di quelle costruite da altri riformatori, che auspicavano un ripensamento, quando non un distacco, della “tradizione” sociale e religiosa, sentita come ostacolo al “progresso” –, non presupponeva una revisione in chiave filo-occidentale del bagaglio culturale e religioso indiano, bensì glorificava quel passato, proponendolo come la chiave che avrebbe aperto all’India le porte della giustizia sociale, dell’istruzione, dello sviluppo materiale e spirituale.

«La società più grande è quella in cui le verità più alte diventano concrete»5, sosteneva Vivekananda, facendo riferimento alla necessità di costruire una società strutturata in modo da permettere la realizzazione della divinità umana. Da questa convinzione di base, derivata dalla filosofia vedantica, egli ricavò il suo progetto di società utopica, che si sarebbe retta sul pilastro dell’uguaglianza tra gli uomini. Il fatto che egli ritenesse necessarie all’avverarsi di questa idea da un lato la diffusione dell’istruzione – che doveva diventare di massa, affinché gli strati più svantaggiati acquisissero forza e coscienza del proprio valore – e, dall’altro, la soppressione di ogni privilegio – politico, economico o religioso che fosse – dimostra il carattere rivoluzionario del pensiero di Vivekananda. Diversamente da molti suoi contemporanei, egli non era disposto a prevedere risultati parziali; eppure, l’imponenza di questo progetto e il suo carattere utopico non compromettevano in alcun modo la fede di Vivekananda nella sua realizzabilità.

«Pane! Pane! Non credo in un Dio che non riesce a darmi il pane in questo mondo, mentre mi promette la beatitudine eterna nei cieli! Bah! L’India deve essere affrancata, i poveri devono essere nutriti, l’istruzione deve essere diffusa, e la piaga del potere sacerdotale deve essere eliminata».6

Anche nel suo rapporto ideale con l’Occidente Vivekananda differiva dal resto dei riformatori: non prevedendo né una forma di riverente assimilazione ai suoi valori, né il rifiuto astioso di essi, egli auspicava una sorta di collaborazione e di mutuo scambio di eccellenze: «Direi che la combinazione della mente greca, rappresentata dall’energia dell’Europa, e della spiritualità hindu darebbe origine a una società ideale in India. […] L’India deve imparare dall’Europa la conquista del mondo esteriore, e l’Europa deve imparare dall’India la conquista del mondo interiore. Allora non ci saranno hindu ed europei: ci sarà un’umanità ideale, che ha conquistato entrambi i mondi, quello esterno e quello interno. Noi abbiamo sviluppato una parte dell’umanità, e loro un’altra. È l’unione delle due ciò cui dobbiamo aspirare».7

Ancora, la modernità del pensiero di Vivekananda si espresse nella sua considerazione del gesto filantropico che, come in ambito cristiano, fino a quel momento era stato reputato dal sistema hindu tradizionale una questione privata tra donatore e beneficiario. Egli fu il primo a proporre un’etica del seva (il “servizio”) istituzionalizzata – così come è divenuta la filantropia, un po’ ovunque nel mondo, in tempi recenti –, con lo scopo di garantire una ripartizione equa e il più possibile estesa di azioni di solidarietà nei confronti di persone bisognose: “Fare del bene agli altri è l’unica grande religione universale”8, sosteneva Vivekananda, accordando alla pratica del seva un significato che andava ben oltre la semplice azione filantropica. Teorizzò, inoltre, che la figura sociale più autorevole in India – e dunque più adatta a diffondere un pensiero in certo modo rivoluzionario – era quella del sanyasin. Mentre i suoi contemporanei proponevano modelli borghesi, di uomini d’alta casta colti e mondani, o figure eroiche della tradizione storica e religiosa indiana, Vivekananda individuava nel monaco, nell’asceta e nel rinunciante la sede della saggezza e della credibilità presso il popolo; era a queste figure, estranee ai meccanismi del potere, all’avidità e al perseguimento dell’interesse personale, che Vivekananda avrebbe affidato il compito di diffondere il messaggio, dimostrando ancora una volta l’intransigenza che guidava il suo pensiero.

Su questi pilastri poggiava la Ramakrishna Mission, istituita da Vivekananda a fine secolo quale organizzazione impegnata in ambito sociale e strettamente connessa alla vita del monastero dell’Ordine di Ramakrishna, i cui monaci fondevano nella propria esperienza quotidiana lavoro sociale e pratica spirituale – due aspetti che, completandosi a vicenda, fungevano l’uno da motore dell’altro. Intervenendo inizialmente soprattutto in ambito educativo e nella lotta alla povertà, la Ramakrishna Mission cominciò così in quegli anni il suo servizio all’India, che Vivekananda descriveva in termini angosciati:

«Fiumi ampi e profondi, gonfi e impetuosi, affascinanti giardini sulle rive del fiume, da fare invidia al celestiale Nandana-Kanana; tra questi meravigliosi giardini si ergono, svettanti verso il cielo, superbi palazzi di marmo, decorati da preziose finiture; ai lati, davanti e dietro, agglomerati di baracche, con muri di fango sgretolati e tetti sconnessi […]; figure emaciate si aggirano qua e là coperte di stracci, con i volti segnati dai solchi profondi di una disperazione e di una povertà vecchie di secoli […]; questa è l’India dei nostri giorni!

[…] Devastazione causata da peste e colera; malaria che consuma le forze del Paese; morte per fame come condizione naturale; carestie mortali che spesso danzano il loro macabro ballo; un kurukshetra di malattie e miseria, un enorme campo per le cremazioni disseminato dalle ossa della speranza perduta.

[…] Un agglomerato di trecento milioni di anime, solo apparentemente umane, gettate fuori dalla vita dall’oppressione della loro stessa gente e delle nazioni straniere, dall’oppressione di coloro che professano la loro stessa religione e di coloro che predicano altre fedi; pazienti nella fatica e nella sofferenza e privati di ogni iniziativa, come schiavi, senza alcuna speranza, senza passato, senza futuro, desiderosi solo di mantenersi in vita in qualche modo, per quanto precario; di natura malinconica, come si confà agli schiavi, per i quali la prosperità dei loro simili è insopportabile. […] Trecento milioni di anime come queste brulicano sul corpo dell’India come altrettanti vermi su una carcassa marcia e puzzolente. Questo è il quadro che si presenta agli occhi dei funzionari inglesi».9

Costituito inizialmente da appena una dozzina di monaci, nei cento e più anni che ci separano dalla sua fondazione l’Ordine di Ramakrishna è oggi un movimento transnazionale di proporzioni enormi, simbolo di pace ed ecumenismo, fondato sulla pratica del servizio disinteressato come metodo per la realizzazione del divino e caratterizzato da un approccio razionale alla religione – considerata non un apparato ritualistico ma una scienza dell’essere e del divenire –, da una tradizione colta e dall’efficacia dei suoi interventi in campo sociale.

Definiscono Ramakrishna Mission e Ramakrishna Math (rispettivamente la componente pratica del movimento e l’organizzazione monastica) le tre caratteristiche che sono state segni distintivi di Vivekananda e del suo operato e che, risultando a tutt’oggi innovative, dimostrano la statura di un riformatore illuminato, rivoluzionario per il tempo e il luogo in cui visse: la modernità – che si esprime nell’attualizzazione dei principi vedantici, e nel collocare nel presente il pensiero guida dell’operato di queste istituzioni; l’universalità – data dal rivolgersi non ad un unico Paese o ad uno specifico gruppo di persone, ma all’umanità intera; e la concretezza – che risiede nel porre i principi teorici e spirituali a servizio del miglioramento delle quotidiane condizioni di vita delle persone.


* Elena Borghi, dottoressa in Studi linguistici e antropologici sull’Eurasia e il Mediterraneo (Università “Ca’ Foscari” di Venezia), è autrice di Sai Baba di Shirdi. Il santo dei mille miracoli (Red, Milano 2010) e Vivekananda. La verità è il mio unico dio (Red, Milano 2009)


1 Torri, M., Storia dell’India, Editori Laterza, Roma-Bari 2000, p. 453.

2 Jayawardena, K., Feminism and Nationalism in the Third World, Zed Books, Londra 1986.

3 Asceta errabondo, che ha rinunciato ad ogni piacere mondano e ad ogni forma di possesso materiale ed umano, per dedicarsi unicamente al conseguimento della liberazione, il moksha. Il monaco rinunciante trascorre la propria vita in solitario cammino, elemosinando il cibo, coltivando il silenzio e il raccoglimento, inaccessibile ad ogni desiderio e ad ogni umana debolezza. La contemplazione dello Spirito supremo, il distacco, la disciplina e la meditazione profonda sono i suoi compiti, che lo preparano ad abbandonare per sempre la dimora terrena ed il corpo mortale, liberandolo dal ciclo di rinascita e rimorte.

4 The complete Works of Swami Vivekananda, Mayavati Memorial Editing, Advaita Ashrama, Calutta 1992-95, vol. VI, p. 254.

5 Ibid., vol. II, p. 85.

6 Ibid., vol. IV, p. 368.

7 Ibid., vol. V, p. 216.

8 Ibid., vol. IV, p. 403.

9 Ibid., vol. V, p. 441-442.

samedi, 23 octobre 2010

La crise de la laïcisation et le retour de la théologie politique

La crise de la laïcisation et le retour de la théologie politique

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Par Paolo Becchi

Un des piliers de l’Occident moderne a été décrit de manière exemplaire par Max Weber comme un processus de rationalisation et de désenchantement du monde. Ce modèle d’identité laïque du monde moderne n’a pas seulement entraîné l’éclatement de la métaphysique en diverses sciences mais également la relégation au domaine privé de la conscience individuelle de la religion et, d’une ma­nière plus générale, des valeurs et des normes. Parallèlement à l’apparition du positivisme scientiste axé sur le paradigme rationnel d’une science axiologiquement neutre, on a assisté à la perte de la dimension publique de la religion qui, comme l’éthique, a été réduite à une affaire privée. Contrairement à la rationalité de la science et de la technique, les choix éthiques et religieux reposent sur des décisions individuelles issues de sentiments personnels, et finalement irrationnels.

 

Depuis longtemps, l’éthique essaie de se détacher de ce schéma. Mentionnons ici John Rawls et sa théorie de la justice, Hans Jonas et son principe de responsabilité et Karl-Otto Appel et son éthique de la discussion. C’est chez ces auteurs que les efforts pour trouver une ultime justification rationnelle ont atteint leur point culminant. Leurs tentatives de réhabiliter la philosophie pratique (en partie seulement chez Jonas) rencontraient un horizon dépourvu de transcendance. Il semblait que le bon Dieu eût perdu sa fonction et le paradigme de Weber, du moins en ce qui concerne la religion, devait continuer à ne pas être mis en doute. L’éthique pouvait sans difficulté devenir publique mais la religion restait dans le domaine privé.

Cependant en raison du fait incon­testable que, ces dernières années, le sentiment religieux avait pénétré sous diverses formes dans le domaine public, cette façon de penser est entrée en crise. Ce phénomène nouveau a produit ce qu’on peut appeler une «réhabilitation de la théologie politique». Pour beaucoup de personnes, cela signifie un dangereux retour en arrière, voire un grand danger pour la démocratie. Mais à mon avis, la démocratie est aujourd’hui menacée par tout autre chose, par exemple quand il suffit à une agence de notation américaine d’élever la voix pour ­mettre l’Union européenne à genoux. Quoi qu’il en soit, il ne se passe pas de jour sans que la presse ne publie un plaidoyer en faveur de la raison laïque, lequel fait renaître un fatras idéologique néo-rationaliste tout à fait inapte à permettre de comprendre la réalité. Mais la question principale reste la suivante: L’Occident est-il sérieusement menacé par la théologie politique ou le paradigme de la laïcisation poussé à ses extrémités est-il au bord de l’effondrement? Voici quelques idées à ce sujet.

L’absence de Dieu, ou du moins sa relégation loin des événements humains, doit être remplacée par le report de sa toute-puis­sance sur l’homo creator. C’est la dernière étape audacieuse de la laïcisation. La vo­lonté humaine devient une copie de la volonté di­vine.

La recherche obstinée d’une libération de toute dépendance extérieure, caractéristique du monde moderne, se révèle actuellement être l’illusion d’une liberté absolue créant les monstres d’une quête de pouvoir qui se dresse non seulement contre la nature extérieure mais aussi contre la nature intérieure, c’est-à-dire la nature humaine. Le fait de se libérer de la transcendance, le caractère absolu donné à l’immanence ont pour conséquence paradoxale un avilissement de ­l’homme. Et pour citer Nietzsche, «il semble que l’homme soit arrivé à une pente qui descend, – il roule toujours plus loin du centre…». De sujet dominateur qu’il était, il est devenu un objet dominé, un instrument passif et sans dé­fense servant à réaliser des expériences techniques de plus en plus sophistiquées et consternantes.

Il s’agit là du projet du génie génétique et de ses nombreux partisans, projet qui représente le plus grand danger de notre ­époque car il remet véritablement en question la survie de l’homme sur Terre. Nous sommes tous reliés les uns aux autres mais prisonniers de ce réseau. Présents partout et nulle part, nous avons déjà perdu le sens de l’espace et nous sommes sur le point de perdre le sens du temps. L’espèce humaine semble avoir atteint le point final de son évolution et une nouvelle réalité se prépare déjà: la création d’une espèce nouvelle, post-humaine, grâce à une intervention directe dans le code génétique de l’espèce actuelle. Peut-on faire quelque chose contre cette évolution insensée vers le néant?

A cet égard, l’éthique et le droit montrent leur faiblesse: Dans les époques de grand danger, on a besoin d’un antidote plus efficace. Et je ne pense pas à la théologie poli­tique au sens d’un instrumentum regni, c’est-à-dire à une reconquête de la religion en tant que simple servante du pouvoir politique. L’ouverture à la transcendance, refoulée et pourtant toujours présente, pourrait peut-être se révéler une importante force motivante. En effet, l’intangibilité de l’homme peut-elle être fondée autrement que par une redécouverte, éventuellement sous forme de théologie négative, cette catégorie du sacré dont on s’est débarrassé trop vite?

Avant qu’il ne devienne un sujet avec Descartes, l’homme n’avait jamais trouvé sa mesure en lui-même, dans le fundamentum inconcussum de sa propre assurance, mais dans l’espace religieux. Afin d’éviter qu’aujourd’hui le processus d’absolutisation de l’homme, le mythe du surhomme, ne se transforme paradoxalement en son anéantissement total, nous devrions redécouvrir le sens religieux de nos limites et le frisson éprouvé devant le sacré en tant qu’ultime horizon du sens. La rationalité ne suffit pas, elle doit se nourrir de quelque chose qu’elle ne peut pas produire elle-même.

Certes, il serait naïf de penser qu’on peut combattre le nihilisme qui gagne du terrain grâce à une synthèse entre la foi et la connaissance. Dans les premiers siècles de notre culture, c’est effectivement la synthèse, réa­lisée par la théologie, entre le christianisme et le platonisme qui l’a emporté sur le premier nihilisme (celui de la gnose). Mais, après le scepticisme radical de ­Nietzsche et de ­Heidegger, cela paraît maintenant impos­sible. Nous devons nous accommoder de l’ab­sence de Dieu, de la présence de cette ab­sence. Mais cela ne signifie de loin pas que «tout soit possible», que l’évolution soit maintenant entre les mains de la volonté de puis­sance d’un homme qui, pour prendre la place de Dieu, irait jusqu’à mettre en jeu son propre avenir. Cela signifie plutôt que nous ne pouvons pas nous empêcher de vivre dans une perspective de doute radical dans lequel il n’y a pas de certitudes et de garanties métaphysiques ultimes mais uniquement une quête de sens permanente. Ce sens n’est pas introduit dans les choses par l’homme mais il existe et l’homme est seul à pouvoir le découvrir.

Dieu ne nous a pas légué son rôle de créateur mais a créé l’homme «à son image» et lui a par là même prêté une dignité transcendante grâce à laquelle il a pu occuper une place particulière dans la nature. Avant toute valeur et au-delà, la référence à la spécificité de la condition humaine, c’est-à-dire à sa signification ontologique, nous permettra peut-être de freiner, voire de stopper la course folle de la société biotechnologique vers l’autodestruction. Cela représente peut-être un espoir pour les générations futures: nous n’avons pas le droit de les priver de la dignité qui nous caractérise et de faire de l’espèce humaine une antiquité dans l’histoire de l’évolution.

Paolo Becchi

Traduction : Horizons et Débats [2]

Paolo Becchi est chargé de cours de philosophie du droit à l’Université de Gênes depuis 1999. Depuis octobre 2006, il est titulaire de la chaire de philosophie du droit et de l’Etat à l’Université de ­Lucerne.

Ses nombreuses activités de chercheur et d’intervenant lors de congrès l’ont mis en contact constant avec la culture juridique de langue allemande. Aussi a-t-il traduit en italien des ouvrages de Hegel, de Hans Jonas et de Kurt Seelmann. Il est membre de l’Istituto Italiano di Bioetica, de la Hans-Jonas-Gesellschaft, de la direction de l’Institut für angewandte Ethik (Grünstadt), de l’Interdisziplinäres Zentrum Medizin-Ethik-Recht de l’Université Martin-Luther de Halle-Wittenberg, du comité scientifique des Rechtsphilosophische Hefte et rédacteur de la revue Ragion Pratica. Ses principaux domaines de recherches sont la philosophie du droit de Hegel, celle des Lumières, l’histoire de l’élaboration des codes aux XVIIIe et XIXe siècles, et certains sujets de bioéthique et de droit de la médecine.

 


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La Laïcité décérébrée de la France et l'avenir politique de l'Europe

La laïcité décérébrée de la France et l’avenir politique de l’Europe

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Par Manuel de Diéguez

 Face au messianisme conquérant d’une démocratie placée sous le joug d’un empire planétaire de la « liberté » et de la « justice », l’Europe asservie oppose depuis bientôt trois quarts de siècle un repli stratégique illusoire. Triste camp retranché, en vérité, qu’une apologie désespérée des simples « cultures », piteuse retraite dans la multiplicité et la diversité des folklores censés opposer la barrière infranchissable des régions à l’expansion apostolique et vassalisatrice d’un empire victorieux ! Toutes les civilisations vaincues recourent au stratagème d’un panégyrique éploré et stérile de leur passé glorieux. On croit repousser les Tamerlan de l’histoire à seulement cultiver des fleurs de grand prix, on croit terrasser les barbares à les enivrer de parfums qu’ignorent leurs narines. Les trésors pillés du musée de Bagdad fleurent bon dans les foires et sur les marchés du Nouveau Monde. L’Occident oubliera-t-il que la seule civilisation insubmersible est née à Athènes ?

 

Elle n’avait pas de joyaux somptueux à étaler aux regards ; son seul glaive était celui de la raison. Alors, les premières victoires des argumentations rigoureuses ont couronné les enchaînements de la dialectique, alors le diadème de la logique est devenu pour toujours le casque et la tiare de la civilisation mondiale. La pensée rationnelle de demain triomphera-t-elle des cultures décérébrées de notre temps?

Les premiers architectes du discours raisonné avaient compris que la démocratie serait philosophique ou ne serait pas. Les théocraties ne pensent pas – leurs dieux savent tout – tandis que le pouvoir des masses populaires combat un ennemi plus difficile à vaincre que les idoles – l’opinion publique. Du moins les prêtres disposaient-ils d’un noyau dur de l’entendement politique dont ils avaient reçu l’armure en héritage et dont les ancêtres avaient fait étinceler les cuirasses, tandis que la démocratie guerroie avec le chaos cérébral du plus grand nombre, ce qui la condamne à demeurer à jamais minoritaire et désarmée sur l’agora.

Parmi les capitulations cérébrales des civilisations qu’entraîne leur chute dans la servitude politique, la première est celle de la laïcité française, qui a renoncé au scalpel de la pensée critique et qui donnera demain à une France en voie de décérébration une place de choix au musée des « arts premiers » du quai Branly.

C’est au cœur de ce naufrage de la raison que je me suis demandé si l’Europe vassalisée par la  » doxa  » du clergé des modernes quittera l’horticulture culturelle dans laquelle elle s’est peureusement réfugiée. J’ai donc imaginé un dialogue serré entre la laïcité au bistouri d’un apprenti-philosophe et celle d’un républicain culturaliste, afin de tenter d’illustrer la tragédie du dépérissement de l’encéphale de la France.

1- La laïcité et les croyances religieuses

Le fantassin de la laïcité nationale: Voyez-vous, Monsieur, la ruine de la République de l’intelligence tient à l’asthénie politique de la laïcité. Comment voulez-vous fonder l’unité morale et intellectuelle d’un pays dont le culte de la raison avait pourtant bâti les premiers autels, comment voulez-vous convertir aux droits et aux pouvoirs de la méthode le peuple des logiciens de 1789 si nous renonçons à former les générations montantes à l’école d’un discours raisonné? Hélas, notre pauvre éducation nationale n’initie plus les enfants aux principes qui guidaient la droiture de l’intelligence française – elle se contente de charger leur mémoire de savoirs tout bêtement exacts.

Le philosophe : Fort bien, Monsieur, mais comment définissez-vous la laïcité?

Le fantassin : La laïcité, c’est la tolérance à l’égard de toutes les religions de la terre, la laïcité, c’est le respect que professe notre civilisation à l’égard de toutes les croyances sacrées qui rendent désormais le monde aussi providentiellement divers que du temps du polythéisme, la laïcité c’est la substitution de la bénédiction républicaine à la bénédiction apostolique. Tous les catéchismes et tous les mythes sacrés en bénéficieront dorénavant – et, dans le même temps, quel élan unanime du genre humain vers la compréhension rationnelle du monde si la laïcité, c’est également et tout à la suite la proclamation sans ambages de la séparation radicale des catéchèses ecclésiales et des Etats rationnels!

Le philosophe : Je crains de rencontrer la résistance d’une première casemate fortifiée sur le chemin de l’œcuménisme que suivra votre raison en promenade; car je doute de la cohérence cérébrale d’une laïcité que vous placez maintenant sur la même route fleurie que la théologie prospère des Eglises. Qu’est-ce que votre tolérance équitablement partagée entre les droits de la logique d’Euclide et celle de la Révélation? Par quel raisonnement d’une rigueur exemplaire, je l’espère, fondez-vous le rayonnement de la France rationnelle dans le monde sur un postulat philosophique contradictoire par nature et par définition? Car vous nous présentez les attraits d’une tolérance complaisante aux dieux dont un long usage de leurs bénédictions a certifié la pédagogie. Mais leurs doctrines se trouvent en guerre les unes avec les autres. Comment votre tolérance se présentera-t-elle, dans le même temps, en porte-parole assermenté de la vigueur et de la cohérence de la pensée républicaine? La logique universelle dont la raison véritable est armée déploiera-t-elle par centaines les banderoles d’une légitimation générale des usages et des traditions les plus absurdes?

Le fantassin : Tout Etat responsable se fonde sur une raison responsable. Comment défendez-vous une laïcité politiquement irresponsable et, par conséquent, incivique?

Le philosophe : Fort bien: vous avouez que votre tolérance n’est pas philosophique pour un sou, mais seulement politique en diable; vous avouez que les démocraties l’ont adoptée pour le seul motif qu’elles l’ont jugée payante, donc de nature à défendre l’ordre public à peu de frais. Mais alors, comment annoncerez-vous tout à trac aux croyants les plus convaincus, donc aux citoyens persuadés de la pertinence de leur orthodoxie religieuse , que la République consent non point à valider franchement, mais seulement à « tolérer » hypocritement leur erreur et qu’elle met beaucoup d’habileté politique à plaquer le masque de la charité sur le visage d’une France devenue tartufique des pieds à la tête?

Si vous avez affaire à des cervelles pour lesquelles deux et deux font cinq, pourquoi renoncez-vous si vite à réfuter leur aberration? Tout simplement, parce que vous savez bien que les croyances religieuses sont tenaces et même indéracinables, de sorte que vous vous dites qu’il appartient à tout Etat de sens rassis de les accepter du bout des lèvres, donc de renoncer à faire régner de force les théorèmes des géomètres de la condition humaine dans les têtes rebelles à en écouter les prémisses et les conclusions. Mais c’est assurer seulement la paix civile que d’édicter l’interdiction pure et simple de débattre sérieusement de la nature des dieux. En politique, ce n’est pas la logique, mais seulement la politique qui dit ce qui est rationnel et ce qui ne l’est pas. Votre tolérance est donc feinte et contrefaite du seul fait qu’elle n’est pas honnêtement légitimable dans l’ordre des sciences et des savoirs reconnus, votre laïcité décérébrée n’est rien de plus que la forme du machiavélisme que l’éducation nationale des démocraties a lovée au cœur d’une Liberté rendue secrètement acéphale, mais fière de la vacuité cérébrale de son civisme.

2 – La laïcité et la logique

Le fantassin : Ne savez-vous pas que la séparation de l’Eglise et de l’Etat commence sur les bancs de l’école et qu’elle repose entièrement sur l’enseignement, dès le plus jeune âge, des droits de la raison, donc sur l’initiation des enfants aux pouvoirs de l’argumentation logique? Comment la France de notre génération déverserait-elle les principes d’une logique cacochyme dans les têtes innocente de la génération suivante?

Le philosophe : Dans ce cas, dites-moi, je vous prie, comment vous édifiez sans le dire et en catimini une République que vous avez amputée en coulisses de l’esprit de logique de la France, dites-moi, je vous prie, ce qu’il en est d’une nation que vous ne prétendez laïque que pour rire? Quel sens faut-il donner à votre refus masqué, mais catégorique d’exercer pleinement les droits de la pensée rationnelle? L’autorité régalienne qu’exerce votre laïcité retorse et contrefaite, vous en déguisez non moins pieusement la doctrine que l’Eglise fait monter le pain de sa dogmatique dans le four de sa sainteté. Mais qu’est-ce qu’un Etat tellement illogique qu’il renoncera non moins fermement qu’une tyrannie cauteleuse ou une théologie impérieuse à convaincre l’adversaire par des démonstrations serrées et conduites en bon ordre? Que vous placiez l’autorité de votre despotisme sur un trône terrestre ou céleste, ce sera toujours à un maître que vous obéirez. Croyez-vous vraiment que la France laïque pourra s’offrir longtemps le luxe de jeter la pensée logique par-dessus bord, croyez-vous vraiment que la République fera de l’irrationnel le levain de sa foi aussi aisément que l’Eglise reçoit la manne de la Révélation dans ses ciboires?

Le fantassin : L’arbitraire s’accompagne toujours d’une oppression. Je ne vois pas de quelle oppression les croyants auraient à se plaindre au sein de notre République. Ce sont la Monarchie de Juillet, la Restauration et le second Empire qui ont mis en place une dictature catéchétique, si j’en crois une éducation nationale qui me l’a enseigné sur les bancs de l’école laïque.

Le philosophe : Imaginez un instant une France dans laquelle la religion catholique, apostolique et romaine aurait retrouvé dans leur plénitude, primo, l’exercice de la puissance publique, secundo, l’autorité du clergé sur la société civile, tertio, les moyens de la hiérarchie sacerdotale de régner sur les esprits dont elle disposait sous la monarchie; puis, imaginez que cet Etat armé de nouveau et jusqu’aux dents des droits de son ciel, que cet Etat, dis-je, daigne vous accorder une grâce particulière, celle de vous damner de votre propre chef; imaginez, de surcroît, que ce sceptre d’une fausse liberté soit censé vous élever au rang d’élu d’un Dieu résigné – celui que le progrès continu des savoirs rationnels dans le siècle contraindrait, de son propre aveu, à vous décorer des insignes de son propre accommodement aux prétentions effrontées du profane. Dans ce cas, ne s’agirait-il pas exclusivement, pour les représentants assermentés de leurs dogmes aux abois, de sauvegarder bon gré mal gré les apparences d’un ordre public et d’une unité théologiques de la nation, alors que celle-ci serait censée avoir chu dans les affres du temporel et se trouverait livrée aux tortures de la damnation aux yeux du Saint Siège? Que diriez-vous de tant de bienveillance et de bénignité apparente d’une Eglise de ce genre à votre égard, de tant de clémence et de condescendance du Vatican pour votre hérésie, de tant de mépris de Rome sous l’affichage benoît de sa charité?

Et maintenant, prenez la situation inverse, celle d’une République devenue maîtresse des lieux. Ne sera-t-elle pas contrefaite à son tour, une laïcité frappée de l’interdiction doctrinale de réfuter le péché d’ignorance et de sottise dans les écoles publiques, ne sera-t-elle pas hypocrite, elle aussi, une raison républicaine dont le refus de raisonner se parera d’une sagesse politique souveraine ? Mais croyez-moi, les fidèles ne sont pas dupes des gages de votre fausse bonté. Ils préfèreraient que vous tiriez le fer que d’assister au spectacle de vos dérobades sous l’apprêt de vos bénédictions laicisées.

3 – La laïcité respectueuse

Le fantassin : Je ne vois pas comment la laïcité respecterait les croyances religieuses de bonne foi si elle leur infligeait l’humiliation de les réfuter sur le pré. Les bons républicains n’ont pas d’autre choix que de laisser l’ épée au fourreau.

Le philosophe : Dans ce cas, je vois se dessiner à l’horizon une difficulté morale de plus forte taille encore que la difficulté cérébrale, celle de la définition du respect. Est-ce respecter les peuplades primitives de s’incliner bien bas devant leurs grigris? Est-ce respecter un interlocuteur que de demeurer bouche cousue devant lui, mais de n’en penser pas moins? Est-ce respecter un ignorant que de juger inguérissable sa sottise? Voyez le coup de force inavoué que vous cachez sous les dehors trompeurs de votre respect: vous laissez l’illettré croupir dans son trou, mais vous tranchez les armes à la main de l’étendue des pouvoirs intellectuels et politiques que vous concédez à son idole. Ce sera à votre seule initiative que le totem se verra signifier votre interdiction pure et simple de se mêler de politique au sein de la République. Vous réduisez les apanages de l’amulette du ciel au droit que vous lui accordez de dresser l’oreille aux prières de ses adorateurs; mais ces derniers, vous les parquez dans leurs demeures ou leurs temples et vous ratatinez les prérogatives de leur culte au point de leur interdire de jamais se manifester au grand jour et sur la voie publique. Mais, dans le même temps, vous renoncez prudemment à convaincre les croyants de l’inanité de leur théologie.

Le fantassin : La République ne réfute les dieux que dans la mesure où la nécessité s’en impose aux démocraties rationnelles. Les juifs ont réfuté les idoles des païens, non point jusqu’à les proclamer inexistantes, mais seulement en tant qu’impuissantes, donc inutiles, puisque non profitables à leur politique; les chrétiens sont allés un peu plus loin – les dieux trop anthropomorphes à leurs yeux étaient ridicules et ne pouvaient exister. Mais leurs connaissances psychologiques des dieux rentables n’allait pas jusqu’à psychanalyser la politique de l’idole panoptique qu’ils s’étaient donnée. Pourquoi voulez-vous que la République réfute une divinité autrefois omnipotente et omnisciente, mais qui n’est plus enseignée ni dans les écoles publiques, ni dans les écoles confessionnelles, puisque les manuels scolaires ont été déniaisés dans les deux institutions et que tous les enseignants reconnus sont désormais habilités par des diplômes laïcs?

Le philosophe : Que voilà un beau prétexte pour mettre un terme à la conquête de la connaissance scientifique du genre simiohumain! A ce compte, nous ne saurons jamais ni pourquoi les ancêtres ont cru en leurs faux dieux pendant trois millénaires, alors qu’ils excellaient déjà dans les arts et les sciences, ni pourquoi nous croyons encore en trois fantômes qui trépasseraient aussitôt dans l’ordre politique si nous leur retirions leurs fourches du diable et leurs marmites infernales – ce dont les Eglises se gardent bien.

Quelle est la solidité de votre prétendue science de tous les dieux ou d’un seul si elle vous interdit encore de vous mêler résolument de leurs affaires dans la cité et de leur fermer le caquet? Elle est infirme, votre anthropologie critique si elle vous autorise à ne condamner les idoles que superficiellement, donc sans oser les citer à comparaître devant votre tribunal, faute, me semble-t-il, de vous trouver en mesure de rédiger l’acte d’accusation qui répondrait à la question de savoir pourquoi l’encéphale des évadés de la zoologie sécrète des dieux ; elle est manchote, votre science du simianthrope si elle n’ose prêter une oreille même distraite au Céleste enraciné au plus secret de l’inconscient du singe vocalisé. Mais si votre judicature n’est pas suffisamment légitimée à vos propres yeux, comment pouvez-vous prétendre respecter un ciel auquel vous interdisez pourtant d’autorité de mettre le nez dans les affaires de votre République? Pourquoi ne daignez-vous pas réduire sa folie a quia ? Les chrétiens ont osé ridiculiser les autels des païens et anéantir leurs simulacres sacrés. Pourquoi reculez-vous devant la superbe des trois dieux uniques qui vous font délirer, alors qu’ils ne se chamaillent qu’avec les atouts que vous leur avez mis entre les mains? Comment se fait-il que vous les saluiez d’un hochement de tête et que vous poursuiviez votre chemin en détournant les yeux? Craignez-vous d’en apprendre davantage sur l’homme et sur la politique qu’à réfuter Neptune ou Apollon?

Et puis, votre laïcité au petit pied a-t-elle seulement des titres à se proclamer citoyenne si vous vous contentez de remplacer les fausses allégations de Jupiter par la prosternation des Français et de leur Ministère de l’éducation nationale devant le mutisme apeuré de l’intelligence de la France? Qu’avez-vous fait du cerveau de la nation depuis 1905? Puisque nous savons, nous, que l’idole à trois têtes devant laquelle notre espèce continue de s’agenouiller n’a d’autre domicile que les boîtes osseuses en folie des déments qui les adorent, l’honnêteté qui inspire l’esprit de logique de la République exige pour le moins que nous consentions à les extraire des cervelles et à en exposer les effigies sur les places publiques.

4 – La République aux cent têtes

Le fantassin : Si Périclès avait ordonné la séparation de l’Eglise et de l’Etat, il lui aurait bien fallu sauver les apparences de la foi à Athènes; et comment les aurait-il sauvées sans imposer le silence, du moins en public, aux prêtres de Zeus, d’Athéna, de Mars et de Poséidon ? Allez-vous redonner à l’Eglise de France le droit de haranguer et même d’ameuter les citoyens dans la rue ? Nous avons mis deux siècles à seulement limiter quelque peu le pouvoir immense dont disposait l’Eglise sous la monarchie et qui lui permettait d’égarer le faible entendement des foules de l’époque ; et maintenant vous prétendez tout subitement redonner au clergé gallican le droit de tromper les sots, et cela sous le prétexte, absurde par définition, selon lequel le droit naturel des dévots devenus républicains serait de nous faire entendre leurs arguties avec la même docilité pieuse qu’ils doivent, eux, à leur ignorance et à leur naïveté ! Mais vous savez bien que si vous mettez face à face un savant et un ignorant et si vous demandez au public de les départager, ce sera toujours le plus bavard et le plus malin qui se verra couronné des lauriers du vainqueur. Si l’astrologie était enseignée dans nos écoles, la moitié des Français croiraient à l’astrologie. Comment pouvez-vous redonner tous leurs droits aux idoles, et cela au nom même de la laïcité?

Le philosophe : Tiens, tiens, vous voilà tout allumé d’une saine indignation philosophique , vous voilà monté sur le pont d’une raison plus logicienne! Mais vous éludez encore la vraie question, qui n’est pas de combattre sur le front des droits de l’ignorance et de la sottise, mais de préciser ce qu’il en coûtera à la raison incohérente du XXIe siècle que vous nous préparez, vous qui videz la laïcité du contenu qui la définit, vous qui la rendrez si fièrement irrationnelle à son tour qu’elle vous reconduira tout droit à la même capitulation de la pensée logique que la théologie du Moyen Age. Savez-vous que, plus d’un siècle après la séparation de l’Eglise et de l’Etat, un tiers des Français croit encore dur comme fer en l’existence du paradis et de l’enfer? Vous estimez qu’il n’est pas digne d’une République de la raison de perdre son temps à réfuter des totems. Mais savez-vous que les concepts se totémisent à leur tour et qu’on ne devient un spéléologues des profondeurs de l’inconscient de la « raison » elle-même que si l’on a appris à observer les idoles verbifiques qui trônent dans les têtes?

Le fantassin : Sachez , Monsieur le philosophe, que la République ne viole pas les consciences, sachez que la démocratie compte sur les progrès constants de la raison dans le monde, même si ces progrès doivent se révéler d’une lenteur désespérante, sachez que la France refuse tout net de fonder les droits de la pensée rationnelle sur le recours à la force.

Le philosophe : Mais, mon bon Monsieur, qui vous parle de faire appel à la force des baïonnettes ? Votre laïcité faussement revêtue des apanages d’une République d’avant-garde, mais engagée sur le front de bataille de la raison totémisée du monde actuel, votre laïcité, dis-je, refuse avec persévérance d’honorer les droits attachés depuis Voltaire à l’exercice de la pensée critique; et votre refus de décrypter la totémisation rampante de la raison des modernes et d’en connaître la généalogie suffira grandement à fonder votre espèce de liberté intellectuelle sur un obscurantisme condamné à ignorer les ressorts anthropologiques de vos idéalités sacralisées. Vous avez beau jeu de vous faire une gloire de garder vos gendarmes dans leurs casernes si votre pacification cérébrale de la France repose sur votre censure des conquêtes de la postérité du siècle des Lumières. Je vois les mâchoires discrètement sacerdotalisées de votre République verbifique dévorer à belles dents les « hérésies » de la raison combattante de demain.

Qu’en est-il de la raison de la France rousseauiste dont vous bénissez encore les ciboires et les cierges ? Vous êtes les nouveaux naturistes ; c’est pourquoi vous croyez n’avoir pas à vous mettre sur la piste de la divinité même fatiguée de votre temps. Vous ne refusez que les théologiens qui ont minutieusement recensé les traits de leur idole à l’école de deux millénaires de leur doctrine. Vous avez seulement dépassé les théoriciens du ciel qui vous dessinaient les contours abrupts ou amollis de leur roi dans les nues et sur la terre. Ceux-là, pourquoi se tueraient-ils à faire semblant d’apprendre les secrets d’une idole dont ils prétendent connaître les arcanes en long et en large et depuis tant de siècles? Mais vous, pourquoi n’avez-vous pas connaissance des rouages du dieu Liberté qui rôde dans les couloirs de votre République et qui fait fumer vos sacrifices sur les autels du langage devant lesquels votre démocratie ensanglantée se prosterne?

5 – La quête de la raison

Le fantassin : Où voulez-vous en venir?

Le philosophe : Vous le savez bien : si la République se prélassait dans les aîtres d’ une raison accomplie, donc arrivée à bon port, croyez-vous que la France demeurerait un Etat intellectuellement vivant? La pensée suit son chemin de croix. Il lui est interdit de prendre place sur le bateau ivre que sa rivale, la théologie, croit conduire d’une main sûre. Jamais le paradis de la vérité rationnelle ne rivalisera à armes égales avec celui d’une mythologie exercée, elle, à s’enfermer de génération en génération et de siècle en siècle dans des fortins inattaquables. Mais s’il appartient à la République de la raison de poursuivre inlassablement son voyage, comment fonderiez-vous l’ordre public sur une forme nouvelle de la paresse d’esprit, celle que vous avez baptisée la tolérance au pays d’Alice? Sous le masque de votre tolérance, j’y reviens, je vois un refus sacerdotal de faire progresser la connaissance des secrets redoutables du genre humain, je vois l’orgueil et la peur à travers les trous du manteau de votre parcelle de raison.

Le fantassin : J’ai foi en l’avenir de la science, Monsieur, j’ai foi en l’élan naturel que la révolution française a donné à l’intelligence dans le monde entier. Comment ne vaincrait-elle pas un adversaire tapi derrière les murailles fissurées de ses dogmes? Comment ne terrasserait-elle pas les régiments de la peur à l’école des légions aguerries d’une logique dont rien ne saurait arrêter la marche?

Le philosophe : Que voilà un beau stratège! J’ai déjà dit que les religions n’ont pas à fortifier sans relâche leurs châteaux forts, puisqu’elles ont disqualifié d’avance et à jamais les armes présentes et futures de leurs agresseurs. Est-il une stratégie plus assurée de l’emporter à tous coups que de n’avoir en rien à réfuter des arguments? Mais voyez comme nous sommes à la peine: si nous n’allons pas défier l’ennemi dans ses retranchements, si nous n’ouvrons pas une brèche dans ses rangs, si nous suspendons un seul instant nos assauts sur un champ de bataille qui nous est étranger, si nous n’observons pas la rouille qui menace sans cesse nos propres armes, si nous ne fortifions pas sans relâche nos propres campements à l’école des dangers de la pensée vivante, donc faillible, nous tomberons dans la même léthargie cérébrale qui, depuis l’âge des premiers singes raisonneurs, donne à la foi la citadelle inviolable de sa somnolence pour trésor. Ce ne sont pas des légions sous les armes que nous combattons, c’est le sommeil du genre humain. Croyez-moi, cet ennemi-là dispose de ressources dont vous mesurez mal l’étendue. Si vous n’y prenez garde, une laïcité à l’usage de Paul et Virginie et que vous croyez encore habile à naviguer entre les récifs périra beaucoup plus rapidement que la paresse d’esprit des croyances dont les Bernardin de Saint Pierre de la démocratie auront renoncé à combattre les ténèbres, parce qu’il est dans la nature d’une raison bucolique de périr corps et biens dans la stagnation, tandis que les religions prospèrent à servir de havres tranquilles à une humanité avide de s’engourdir.

Le fantassin : Monsieur, ne pensez-vous pas que votre philosophie d’une laïcité périlleuse et sans cesse au combat conduira l’humanité tout entière à l’anarchie? « De l’audace, encore de l’audace et toujours de l’audace », disait Danton. Mais quels Etats et quelles sociétés peuvent-ils se condamner à faire progresser sans fin leur apostolat? Ne vaut-il pas mieux administrer prudemment la boîte osseuse de la France et des Français, quitte à la laisser faire escale dans une rade trop tranquille, s’il est mortel de la livrer précipitamment aux risques de la navigation en haute mer? Car enfin, si la République socratique que vous appelez de vos vœux était vouée à approfondir sans relâche la connaissance la plus angoissante des secrets du genre humain et si la science de notre évolution en panne se révélait de plus en plus mortelle pour la cité, n’en viendrions-nous pas à nous demander pourquoi il existe des religions messianiques, donc pourquoi notre espèce se forge des dieux prometteurs, donc pourquoi elle s’enivre de songes tour à tour euphoriques et terrifiants, donc pourquoi les évadés de la nuit animale se montrent bien souvent, je vous le concède, plus prêts à prendre les armes pour défendre les rêves qui comblent leurs attentes que leurs pauvres lopins sur la terre ? Est-il de sage politique finaliste, Monsieur, d’expédier la sotériologie républicaine et la démocratie édénique siéger dans le royaume du salut par le savoir si, décidément, les extases du vrai savoir sont incompatibles avec les exigences de l’action?

6 – Le regard sur le Dieu des singes

Le philosophe : Je ne vous le fais pas dire! Voyez-vous, depuis la parution de L’origine des espèces de Darwin en 1859 et de l’Interprétation des songes de Freud en 1900, ce n’est plus l’astronomie minusculisée de Copernic qui se voit frappée d’interdit par tous les Etats du monde, mais la spectrographie anthropologique du Dieu de la délivrance que nos ancêtres adoraient. Au XVIIIe siècle, c’était encore le récit de la création qui commençait de se trouver réfuté par les encyclopédistes ; aujourd’hui, c’est la croyance en l’existence même d’une idole soi-disant rédemptrice, mais aux châtiments sauvages et aux récompenses trompeuses, d’une idole de la délivrance qui se révèle scindée entre trois cervelles calculatrices, trois morales intéressées, trois théologies harponneuses, trois clergés gros et gras, trois hameçons catéchétiques, trois codes pénaux en lambeaux, une idole qui se révèle un totem aussi sanglant que stupide et que nos anthropologues relèguent dans le paléolithique. Votre laïcité sera bonne à jeter aux orties si, cent six ans après la loi de séparation de l’Eglise et de l’ Etat, elle n’ose pas davantage démontrer les duperies du ciel que Descartes ne s’est risqué à défendre l’héliocentrisme quatre-vingts ans après la parution du De Revolutionibus du grand Polonais. Qu’en est-il de l’animal politique coincé entre ses béatitudes et ses tortures infernales et que nous appelons « Dieu »?

Le fantassin : Vous allez un peu fort ! Vous avez de la chance que la République ait aboli la sainte inquisition et ses bûchers!

Le philosophe : La raison est à l’école des blasphèmes et des sacrilèges. Voyez dans quel abîme de l’ignorance et de la sottise vous vous précipitez si, près d’un demi-millénaire après le procès de Galilée, vous prétendez priver la République des saintes profanations de la raison de demain. Car vous allez substituer aux pouvoirs d’un ciel abêti et cruel les apanages, régaliens à leur tour, des Etats auto- idéalisés à l’école des artifices de leur propre verbiage. Si vous vous décidez à faire débarquer dans nos écoles la connaissance anthropologique de la sauvagerie de tous les dieux, quel portrait de la barbarie de nos ancêtres que le spectacle du monstre céleste qui se faisait offrir leur chair et leur sang sur ses offertoires et auquel nos malheureux ascendants payaient le tribut de la rédemption de leurs squelettes! Si la République devenait le nouvel Isaïe de la raison du monde, comme nous jetterions allègrement aux orties le garant de l’éternité de nos ossatures! Voyez comme nous sommes loin du petit séisme astronomique qui a bouleversé la boîte crânienne des théologiens du cosmos il y a un demi-millénaire, voyez comme notre siècle sera celui du chambardement de la science du fonctionnement cérébral de notre espèce ou ne sera pas. Souvenez-vous de ce que les décadences sont toujours liées aux paniques de la pensée. Ce sera au prix de la décadence de la civilisation mondiale de l’intelligence que vous porterez votre laïcité acéphale sur les fonts baptismaux des formes nouvelles de l’ignorance du monde. Mais peut-être la vraie France fécondera-t-elle la conque osseuse d’une humanité encore en devenir.

7 – L’homme et l’imaginaire

Le fantassin : Comment démontrez-vous l’inexistence, sous quelque forme spatiale que ce soit, du Dieu des sacrifices sanglants dans un univers devenu multidimensionnel? Et puis, même si l’idole n’existait que dans les esprits, songez qu’un Dieu privé de ses foudres et de sa chambre des tortures désarmerait la République des châtiments. Retirerez-vous son glaive dans l’imaginaire à la France dite « des armes et des lois »?

C’est pourquoi je me demande si la République, elle, se trouve ailleurs que dans le cerveau des Français. Je vous défie de jamais rencontrer ce personnage au coin de la rue; mais si vous soutenez qu’il se cacherait dans les articles de la Constitution, qu’il se ferait voir davantage en chair et en os sur les bancs de l’Assemblée nationale, que son corps serait visible sous l’uniforme des agents de la force publique, que les robes noires des magistrats et des ténors du Barreau manifesteraient sa réalité physique, vous me répondrez que la France et son Etat ne sont présents que sous l’os frontal des habitants de ce pays et que la géographie se refuse à porter secours aux attentes de l’esprit et du cœur. La question se réduit donc, me semble-t-il, à celle de savoir pourquoi les dieux ont eu d’abord des bras et des jambes, puis se sont réduits à un souffle dans l’éther, alors que la France ne se gêne pas de donner le change et de faire croire qu’elle existe indépendamment de la foi de ses fidèles et qu’elle aurait donc besoin de l’étoffe de ses drapeaux et des rubans de ses décorations pour bien montrer qu’elle n’arbore des signes et des signaux que pour se prouver à elle-même qu’elle n’est ni une vapeur, ni un simple acteur de l’esprit.

Mais ne pensez-vous pas que l’humanité a besoin de substantifier des personnages mentaux et que la politique veut rencontrer son propre corps collectif et le concrétiser dans l’imaginaire afin de s’en faire un interlocuteur public? Mais alors, ne pensez-vous pas que le dieu des cierges et des ciboires est construit sur le même modèle? Voyez comme il a besoin de cérémonies, de rites, de chasubles, de crosses d’évêques et de régiments de prêtres pour exister, lui aussi, à l’exemple de la France!

Le philosophe : Vous voyez bien que la dissection anthropologique de « Dieu » nous éclaire sur la vie des Etats et des hommes dans l’imagination patriotique et religieuse confondues! Songez que le simianthrope est un animal né social et que, de la fourmi aux abeilles et aux loups, les animaux socialisés par la nature se révèlent hiérarchisés, donc placés par leur capital psychogénétique sous les ordres d’un chef à la fois réel et imaginaire, de sorte qu’ils se sentent appelés par leur propre dédoublement cérébral à se ranger docilement sous un sceptre bicéphale et à en respecter les commandements bifaces avec une docilité ou une indocilité qu’ils appellent leur liberté ou leur servitude. Puis le lent grossissement de la conque osseuse du singe évolutif au cours des âges l’a nécessairement conduit à se demander ce qu’il adviendrait de ses chefferies physiques et mentales s’il n’avait pas de harpon pour capturer et domestiquer l’air, la mer et les étendues célestes.

C’est pourquoi une simiohumanité devenue peu ou prou post-zoologique à la rude école d’apprentissage des millénaires de ses songes s’est donné dans les nues des maîtres fabuleux et de plus en plus proportionnés à l’extension de son environnement oculaire et mental. Mais comment retirer leur casquette aux idoles si je suis un animal dédoublé entre son corps et ses songes ? Quand la difficulté de séparer Poséidon de la mer et Apollon du soleil est devenue plus difficile que de séparer Hermès du commerce, il nous a bien fallu reléguer Zeus dans un au-delà du monde visible, mais sans lui retirer pour autant les cordes qui nous rattachent à lui. Nous en avons profité pour attribuer au glaive sanglant de la justice de Zeus des qualités morales et politiques de plus en plus incompatibles avec sa fonction de président de nos tribunaux et de garde-chiourme de nos prisons. Depuis lors, trois idoles carcérales et séraphiques à souhait sont devenues les étais, les poutres de soutènement et les recours du singe qu’épouvante le vide et le silence de la geôle de l’immensité dans laquelle il se trouve enfermé.

Le fantassin : Vous vous demandez donc comment nous allons désensauvager l’idole des singes sans la réduire à une potiche politique.

Le philosophe : Je me demande avant tout comment nous arracherons la République aux griffes d’un empire étranger si notre laïcité en était réduite à recourir aux armes de la raison rudimentaire des ancêtres. Etes-vous sûr que votre laïcité acéphale se révèlera l’instrument d’un asservissement moins complaisant de la France et de l’Europe à l’empire américain qu’une idole trop hâtivement désarmée? Autrement dit, sommes-nous condamnés à retourner aux dieux primitifs pour survivre ou bien allons-nous nous donner un Dieu de l’intelligence? Mais ce Dieu-là, comment le ferons-nous « exister »?

Le fantassin : Fort bien, fort bien ; mais pourquoi croyez-vous que Socrate a bu dans un esprit patriotique la ciguë mortelle dont les archontes de la ville ont jugé de sage politique de lui tendre la coupe? Ne pensez-vous pas que ce philosophe indocile a compris le danger pour la philosophie elle-même de tomber dans une misanthropie incivique si elle ne scellait pas une alliance docilement patriotique et indissoluble avec les Etats de son temps ? Votre « Dieu » de l’intelligence, sur quelle balance pèserez-vous la supériorité de son encéphale?

8 – La sainteté de la raison

Le philosophe : Vous admettez donc que si la sagesse politique la plus médiocre était l’âme véritable de la laïcité, il nous faudrait négocier la bancalité cérébrale de la République d’aujourd’hui avec les archontes . Mais ne croyez-vous pas que les vrais guerriers de la laïcité se mettent à l’école et à l’épreuve de la ciguë socratique?

Le fantassin : Bon, entrons encore davantage dans les sacrilèges de votre dialectique de la sainteté de la raison: certes, la France socratique ne saurait rendre la raison de notre siècle aussi ignorante et aveugle que la bonne et sotte théologie de nos ancêtres. Mais si nous lui fournissions des arguments acérés, croyez-vous que nous nous serons mis à l’abri pour si peu? Qui nous assurera que nous ne courrons pas à bride abattue vers l’autre danger que vous avez évoqué, celui de tomber dans un second Moyen Age? Comment les peurs qu’on prend pour des garde-fous ou des sauve-qui-peut protègeraient-ils les démocraties des audaces fécondes, donc selon vous, des blasphèmes créateurs que prononcera la raison? Vous dites que si une Liberté fondée sur le refus d’accorder ses droits à la pensée critique devait se rendre aussi catéchétique dans les coulisses que sa rivale dans le ciel, le tour serait venu, pour la fille aînée d’une raison privée de votre bistouri, d’enfanter un obscurantisme du XXIe siècle. Vous dites que cet obscurantisme de la dernière cuvée se prétendra faussement laïc et démocratique à souhait. Mais comment démontrez-vous que seul le scalpel d’une laïcité résolument pensante protègera la France des attraits du faux messianisme de la démocratie américaine. Comment démontrez-vous qu’une laïcité timide serait l’arme d’une vassalisation irrésistible de l’Europe?

Le philosophe: Ne voyez-vous pas que le culte d’une raison démocratique amputée conduira le monde moderne à un tartuffisme de la liberté politique aussi contrefait que le culte précédent, qui livrait les vaincus à leur vainqueur sous les couleurs d’une divinité faussement irénique et toujours complice du plus fort, ne voyez-vous pas que votre France se prosternera devant les idoles du langage forgées sur l’enclume des idéalités politiques du Nouveau Monde, ne voyez-vous pas que les totems du triomphateur se révèleront non moins redoutables que les grigris dont la monarchie fleurissait ses autels, ne voyez-vous pas que votre République d’une laïcité décérébrée armera de pied en cap un clergé bureaucratique auquel sa piété docile servira d’échine aussi flexible que celle du clergé chrétien, ne voyez-vous pas que votre scolastique des droits de l’homme enfantera une classe dirigeante fière de sa demi « raison » politique, ne voyez-vous pas que votre sacerdoce de la Liberté distribuera les nouveaux bénéfices ecclésiastiques dont la fonction publique déversera la manne et le pactole, ne voyez-vous pas que le nouvel esprit d’orthodoxie qui s’imposera au cœur de l’Etat de demain sera forgé sur l’enclume des idéaux de la démocratie américaine?

9 – Un double examen de conscience

Parvenus à cette auberge, le dialogue entre nos deux bretteurs a marqué une pause. Le fantassin se disait que si la guerre entre une laïcité devenue acéphale sur les autels des idéalités de la République devait mettre en danger la sainteté toute verbale des démocraties de la Liberté, le genre humain se vaporiserait dans des abstraction pseudo rédemptrices et que le danger de se prosterner devant des idoles verbales forgées par les démocraties auto-idéalisées serait aussi grand que de retourner au vocabulaire du Moyen Age. De son côté, le philosophe s’interrogeait maintenant avec angoisse sur le sort politique qui menaçait la science anthropologique encore au berceau dont il rêvait. Le tribunal des idéalités était-il appelé à se changer en un nouveau saint office? La censure idéologique interdirait-elle de formuler les méthodes de décryptage des secrets théologiques du singe rêveur? L’évolution cérébrale dangereusement pseudo rationnelle de l’animal parlant le reconduirait-elle à châtier les nouveaux blasphèmes de la pensée?

Certes, la généalogie critique de l’espèce de raison que sécrète l’encéphale simiohumain allait permettre de spectrographier les personnages verbaux que les semi évadés de la zoologie encensent dans leur tête et dans leur cœur. Mais une République tolérante à l’égard du sacrilège socratique accepterait-elle la déconfiture du  » Dieu  » mimétique qui se regardait depuis tant de siècles dans le miroir que sa créature lui tendait? La France n’était pas près de jeter à la casse l’idole vieillie qui conduisait l’Europe à la décadence; au contraire, elle jugeait préférable de la requinquer un instant afin qu’elle renforçât les chaînes que le conquérant lui avait attachées aux chevilles.

Et pourtant il était bien évident que les Etats européens condamnés à se refléter dans leurs identités collectives magnifiées par le ciel de leur servitude politique et religieuse seraient conduits à la dissolution pure et simple. Certes, un continent qui demeurerait sous la tutelle de ses songes sacrés allait tomber dans l’ignorance et la sottise des vassaux qui proclament toujours que leur défaite serait l’expression de la volonté impénétrable de l’idole de leur vainqueur; mais une humanité indocile et qui saurait qu’elle n’a décidément jamais eu d’autre interlocuteur qu’elle-même serait-elle encore de taille à fonder l’éthique de sa résurrection sur son abandon dans le vide de l’immensité ? Le fantassin de la laïcité se tourna vers son ami le philosophe:

- Ne pensez-vous pas, Monsieur, lui dit-il, que si la République et le cosmos n’avaient plus de gouvernail à se partager, nous ferions naufrage ensemble?

Le philosophe lui répondit :

- Je ne me résignerai jamais à boiter sans fin entre les félicités de la bêtise et les désespoirs de l’intelligence.

Et le dialogue reprit pour quelques instants encore.

10 – Comment pousser Dieu dans le dos ?

Le fantassin : Je vous concède que « Dieu » n’était qu’un malheureux apprenti pédagogue. Nos ancêtres encore dans l’enfance s’échinaient de siècle en siècle à la double tâche de porter humblement sa casaque dans leurs prières et à le déniaiser à l’école de leur intelligence naissante; et il est vrai qu’ils l’ont éduqué avec suffisamment de succès d’une époque à l’autre qu’ils l’ont rendu au moins égal en esprit aux plus sages de ses créatures. Mais où puisaient-ils les ressources cérébrales qui leur permettraient de lui attribuer peu à peu des qualités morales et intellectuelles en progrès sur les précédentes? Quand le flair politique de leur créateur mythique, fort médiocre à l’origine, eut appris peu à peu à égaler celui de tous les Machiavel de sa théologie , quand sa science de l’avenir cérébral de sa créature eut fait pâlir d’envie les plus grands docteurs de son Eglise, pourquoi ne s’est-on pas demandé de quelle intelligence ses prophètes nourrissaient leurs performances cérébrales et quelles étaient les armes du bord qui leur avaient permis d’installer progressivement dans le cosmos une divinité capable de se perfectionner lentement?

Le philosophe : Réjouissez-vous, Monsieur, c’est précisément sur ce modèle que la République fonctionne en réalité dans les têtes. La démocratie, elle aussi, tente sans relâche de porter remède à ses infirmités. Les sachant inguérissables par nature, cette théologienne invétérée gesticule sur les planches d’un théâtre croulant sous les détritus. Mais si vous mettez en parallèle les ahanements respectifs d’un « Dieu » fatigué et d’une République calquée sur les progrès poussifs de son intelligence, ne disposerez-vous pas d’un programme transcendant aux soubresauts irrationnels de l’Histoire?

11 – L’intelligence ascensionnelle

Le philosophe se disait maintenant qu’un regard de l’intelligence ascensionnelle du simianthrope pourrait faire aller de l’avant et parallèlement l’encéphale du créateur fabuleux d’autrefois et la matière grise de sa malheureuse créature; car celle-ci demeurait obstinément emboîtée dans son propre effigie dûment célestifiée. Qu’en était-il d’une idole et d’une République tellement calquées l’une sur l’autre qu’on les voyait courir de conserve parmi les ruines du monde et rivaliser d’ambition à lui donner une direction? Certes, « Dieu » n’avait jamais été qu’une idole à dégrossir dans les laboratoires du devenir; et si on la plaçait au-dessus de ses adorateurs, c’était seulement afin d’apprendre plus facilement à se regarder progressivement du dehors. Mais n’est-ce pas devenir « divin », si je puis dire, que d’apprendre à porter un regard de haut et de loin sur les animaux sacrés dont nos ancêtres avaient peuplé le cosmos et qu’ils appelaient des dieux? Quand on a su qu’il s’agissait d’idoles à décoder, on est parvenu à courir à leurs côtés, puis à surplomber leurs ateliers. Si la laïcité enfantait un regard toujours provisoire sur l’infirmité cérébrale et morale des trois dieux uniques, ne deviendrait-elle pas l’Isaïe des modernes?

Imaginons donc une République future et qui se serait armée d’un télescope dont le miroir réfléchirait ensemble le tortionnaire souterrain et le vaporisateur de nos ancêtres. Quelle comète de l’intelligence de l’humanité ! Nos ancêtres peuplaient les nues d’animaux politiques sauvages et difformes. Quels forgerons d’un « Dieu » bancal sommes-nous inconsciemment demeurés au sein d’une République à laquelle Socrate enseigne un « Connais-toi » perpétuellement ouvert – celui que la philosophie ne cessera jamais de demeurer à elle-même. A nous de savoir si nous délivrerons ce diamant de sa gangue.

Quand le fantassin de la laïcité pensante et le philosophe se séparèrent, le premier était armé d’un regard d’anthropologue sur les abysses des Républiques, le second d’une spéléologie du genre simiohumain plus inachevable que jamais.

Manuel de Diéguez, le 3 octobre 2010

Manuel de Diéguez est un philosophe français d’origine latino-américaine et suisse.

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vendredi, 22 octobre 2010

A qui profite le terrorisme?

A qui profite le terrorisme ?

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La guerre menée par le terrorisme, telle qu’elle est présentée par les responsables gouvernementaux, par les médias, par les forces de polices et par les terroristes eux-mêmes contre leurs adversaires déclarés, est tout à fait invraisemblable.

 

L’exaltation idéologique peut conduire à toutes sortes de crimes, et l’héroïsme individuel comme les assassinats en série appartiennent à toutes les sociétés humaines. Ces sortes de passions ont contribué depuis toujours à construire l’histoire de l’humanité à travers ses guerres, ses révolutions, ses contre-révolutions. On ne peut donc être surpris qu’un mitrailleur, un kamikaze ou un martyre commettent des actes dont les résultats politiques seront exactement opposés à ceux qu’ils prétendent rechercher, car ces individus ne sont pas ceux qui négocient sur le marché des armes, organisent des complots, effectuent minutieusement des opérations secrètes sans se faire connaître ni appréhendés avant l’heure du crime.

Quoiqu’elle veuille s’en donner l’allure, l’action terroriste ne choisit pas au hasard ses périodes d’activités, ni selon son bon plaisir ses victimes. On constate inévitablement une strate périphérique de petits terroristes, dont il est toujours aisé de manipuler la foi ou le désir de vengeance, et qui est, momentanément, tolérée comme un vivier dans lequel on peut toujours pécher à la commande quelques coupables à montrer sur un plateau : mais la « force de frappe » déterminante des interventions centrales ne peut-être composée que de professionnels ; ce que confirment chaques détails de leur style.

L’incompétence proclamée de la police et des services de renseignements, leurs mea-culpa récurrent, les raisons invoquées de leurs échecs, fondées sur l’insuffisance dramatique de crédits ou de coordination, ne devraient convaincre personne : la tâche la première et la plus évidente d’un service de renseignements est de faire savoir qu’il n’existe pas ou, du moins, qu’il est très incompétent, et qu’il n’y a pas lieu de tenir compte de son existence tout à fait secondaire. Pourtant, ces services sont mieux équipés techniquement aujourd’hui qu’ils ne l’ont jamais été.

Tout individu notoirement ennemi de l’organisation sociale ou politique de son pays, et, d’avantage encore, tout groupe d’individus contraint de se déclarer dans cette catégorie est connu de plusieurs services de renseignements. De tels groupes sont constamment sous surveillance. Leurs communications internes et externes sont connues. Ils sont rapidement infiltrés par un ou plusieurs agents, parfois au plus haut niveau de décision, et dans ce cas aisément manipulables. Cette sorte de surveillance implique que n’importe quel attentat terroriste ait été pour le moins permis par les services chargés de la surveillance du groupe qui le revendique, parfois encore facilité ou aidé techniquement lorsque son exécution exige des moyens hors d’atteinte des terroristes, ou même franchement décidé et organisé par ces services eux-mêmes. Une telle complaisance est ici tout à fait logique, eu égard aux effets politiques et aux réactions prévisibles de ces attentats criminels.

Le siècle dernier, l’histoire du terrorisme a démontré qu’il s’agit toujours, pour une faction politique, de manipuler des groupes terroristes en vue de provoquer un revirement avantageux de l’opinion publique dont le but peut être de renforcer des dispositifs policiers pour contrer une agitation sociale, présente ou prévisible, ou de déclancher une opération militaire offensive, et son cortège d’intérêts économiques, à laquelle s’oppose la majorité de la nation.

Allemagne 1933 : Hitler

Le 30 janvier 1933, Hitler est nommé chancelier d’Allemagne et chef du pouvoir exécutif. Pourtant, deux adversaires potentiels sont encore devant lui : le Reichstag, qui vote les lois, arrête le budget et décide la guerre, ainsi que le parti communiste allemand, qui, dans le marasme économique de l’époque, pouvait se relever inopinément et constituer un dangereux concurrent. Le 22 février, Goering, alors président du Reichstag attribue aux SD (Sicherheitsdienst : Service de renseignements de sûreté) des fonctions de police auxiliaire. Le 23, la police perquisitionne au siège du parti communiste et y « découvre » un plan d’insurrection armée avec prises d’otages, multiples attentats et empoisonnements collectifs. Le 27 février, un militant gauchiste s’introduit sans difficultés dans le Reichstag et, avec quelques allumettes, y provoque un incendie. Le feu s’étend si rapidement que le bâtiment est détruit. Tous les experts, techniciens et pompiers, ont témoigné qu’un tel incendie ne pouvait être l’œuvre d’un seul homme. Bien après la guerre, d’anciens nazis confirmeront le rôle des SD dans cet attentat. Dès le lendemain de l’incendie, plusieurs milliers d’élus et de militants communistes sont arrêtés, l’état d’urgence décrété, le parti communiste interdit. Quinze jours plus tard les nazis remportent les élections au Reichstag, Hitler obtient les pleins pouvoirs et, dès juillet 1933, interdit tous les autres partis.

Italie 1970 : les Brigades rouge

Au cours des années septante, l’Italie était au bord d’une révolution sociale. Grèves, occupations d’usines, sabotages de la production, remise en question de l’organisation sociale et de l’Etat lui-même ne semblaient plus pouvoir être jugulé par les méthodes habituelle de la propagande et de la force policière. C’est alors que des attentats terroristes, destinés à provoquer de nombreuses victimes, et attribués à un groupe « révolutionnaire », les Brigades Rouges, sont venu bouleverser l’opinion publique italienne. L’émotion populaire permit au gouvernement de prendre diverses mesures législatives et policières : des libertés furent supprimées sans résistance, et de nombreuses personnes, parmi les plus actives du mouvement révolutionnaire, furent arrêtées : l’agitation sociale était enfin maîtrisée. Aujourd’hui, les tribunaux eux-mêmes reconnaissent que la CIA était impliquée, de même que les services secrets italiens, et que l’Etat était derrière ces actes terroristes.

USA 1995 : Timothy Mc Veigh

Le 19 avril 1995, un vétéran de la première guerre du Golfe, Timothy Mc Veigh, lance contre un bâtiment du FBI, à Oklahoma City, un camion chargé d’engrais et d’essence. Le bâtiment s’effondre et fait cent soixante-huit victimes. Au cours de l’instruction, Mc Veigh a déclaré avoir été scandalisé par l’assaut donné par le FBI, deux ans plus tôt, à une secte d’adventiste à Wacco, dans le Texas. Assaut au cours duquel périrent plus de quatre-vingt membres de la secte, dont vingt-sept enfants. Révolté par ce crime, Mc Veigh était donc parti en guerre, seul, contre le FBI. Et au terme de son procès, largement médiatisé, il a été exécuté, seul, par une injection mortelle, devant les caméras américaines.

Après l’attentat, 58 % des Américains se sont trouvés d’accord pour renoncer à certaine de leur liberté afin de faire barrage au terrorisme. Et dans l’effervescence populaire entretenue par les médias, le président Clinton du signer le consternant antiterrorism Act autorisant la police à commettre de multiples infractions à la constitution américaine.

Au vu des ravages causés par l’attentat, Samuel Cohen, le père de la bombe à neutrons, avait affirmé : « Il est absolument impossible, et contre les lois de la physique, qu’un simple camion remplis d’engrais et d’essence fassent s’effondrer ce bâtiment. » Deux experts du Pentagone étaient même venu préciser que cette destruction avait été « provoquée par cinq bombes distinctes », et avaient conclu que le rôle de Mc Veigh dans cet attentat était celui de « l’idiot de service ».

Au cours de son procès, Mc Veigh a reconnu avoir été approché par des membres d’un « groupe de force spéciales impliquées dans des activités criminelles ». Le FBI ne les a ni retrouvés, ni recherchés. Mais dans cette affaire, la police fédérale a dissimulé tant d’informations à la justice qu’au cours de l’enquête, l’ancien sénateur Danforth a menacé le directeur du FBI d’un mandat de perquisition, mandat qu’il n’a pu malheureusement obtenir. L’écrivain Gore Vidal affirme, dans son livre La fin de la liberté : vers un nouveau totalitarisme, sans hésiter : « Il existe des preuves accablantes qu’il y a eu un complot impliquant des milices et des agents infiltrés du gouvernement afin de faire signer à Clinton l’antiterrorism Act ».

USA : 11/9

La situation mondiale exige l’ouverture continuelle de nouveaux marchés et demande à trouver l’énergie nécessaire pour faire fonctionner la production industrielle en croissance constante. Les immenses réserve des pays arabes, et la possibilité des se les approprier, d’acheminer cette énergie à travers des zones contrôlées, font désormais l’objet de conflits entre les USA, décidés à asseoir leur hégémonie, et les autres pays d’Europe et d’Asie. S’emparer de telles réserves aux dépends du reste du monde exige une suprématie militaire absolue et d’abord une augmentation considérable du budget de la défense. Mesures que la population américaine n’était, il y a quelques années encore, aucunement disposée à entériner. Le 11 janvier 2001, la commission Rumsfeld évoquait qu’un « nouveau Pearl Harbour constituera l’évènement qui tirera la nation de sa léthargie et poussera le gouvernement américain à l’action.»

Les services de renseignements américains, qui prétendaient tout ignorer de l’attentat du 11 septembre, étaient si bien averti dans les heures qui ont suivi, qu’ils pouvaient nommer les responsables, diffuser des comptes rendus de communications téléphoniques, des numéros de cartes de crédit, et même retrouver inopinément le passeport intact d’un des pilotes terroristes dans les ruines fumantes des deux tours, permettant ainsi de l’identifier ainsi que ses présumés complices. La version des autorités américaines, aggravée plutôt qu’améliorée par cent retouches successives, et que tous les commentateurs se sont fait un devoir d’admettre en public, n’a pas été un seul instant croyable. Son intention n’était d’ailleurs pas d’être crue, mais d’être la seule en vitrine.

Le pouvoir est devenu si mystérieux qu’après cet attentat, on a pu se demander qui commandait vraiment aux Etats-Unis, la plus forte puissance du monde dit démocratique. Et donc, par extension, on peut se demander également qui peut bien commander le monde démocratique ?

Démocratie : Etat et Mafia

La société qui s’annonce démocratique semble être admise partout comme étant la réalisation d’une perfection fragile. De sorte qu’elle ne doit plus être exposée à des attaques, puisqu’elle est fragile ; et du reste n’est plus attaquable, puisque parfaite comme jamais société ne fut. Cette démocratie si parfaite fabrique elle-même son inconcevable ennemi : le terrorisme. L’histoire du terrorisme est écrite par l’Etat, elle est donc éducative. Les populations ne peuvent certes pas savoir qui se cache derrière le terrorisme, mais elles peuvent toujours en savoir assez pour être persuadées que, par rapport à ce terrorisme, tout le reste devra leur sembler plutôt acceptable, en tout cas plus rationnel et plus démocratique.

On se trompe chaque fois que l’on veut expliquer quelque chose en opposant la Mafia à l’Etat : ils ne sont jamais en rivalité. La théorie vérifie avec efficacité ce que toutes les rumeurs de la vie pratique avaient trop facilement montré. La Mafia n’est pas étrangère dans ce monde ; elle y est parfaitement chez elle, elle règne en fait comme le parfait modèle de toutes les entreprises commerciales avancées.

La Mafia est apparue en Sicile au début du XIXe siècle, avec l’essor du capitalisme moderne. Pour imposer son pouvoir, elle a du convaincre brutalement les populations d’accepter sa protection et son gouvernement occulte en échange de leur soumission, c’est-à-dire un système d’imposition directe et indirecte (sur toutes les transactions commerciales) lui permettant de financer son fonctionnement et son expansion. Pour cela, elle a organisé et exécuté systématiquement des attentats terroristes contre les individus et les entreprises qui refusaient sa tutelle et sa justice. C’était donc la même officine qui organisait la protection contre les attentats et les attentats pour organiser sa protection. Le recours à une autre justice que la sienne était sévèrement réprimé, de même que toute révélation intempestive sur son fonctionnement et ses opérations.

Malgré ce que l’on pourrait croire, ce n’est pas la Mafia qui a subvertit l’Etat moderne, mais ce sont les Etats qui ont concocté et utilisé les méthodes de la Mafia. Tout Etat moderne contraint de défendre son existence contre des populations qui mettent en doute sa légitimité est amené à utiliser à leur encontre les méthodes les plus éprouvées de la Mafia, et à leur imposer ce choix : terrorisme ou protection de l’Etat.

Mais il n’y a rien de nouveau à tout cela. Thucydide écrivait déjà, 400 ans avant Jésus-Christ, dans La guerre du Péloponnèse : « Qui plus est, ceux qui y prenaient la parole étaient du complot et les discours qu’ils prononçaient avaient été soumis au préalable à l’examen de leurs amis. Aucune opposition ne se manifestait parmi le reste des citoyens, qu’effrayait le nombre des conjurés. Lorsque que quelqu’un essayait malgré tout des les contredire, on trouvait aussitôt un moyen commode des les faire mourir. Les meurtriers n’étaient pas recherchés et aucune poursuite n’était engagée contre ceux qu’on soupçonnait. Le peuple ne réagissait pas et les gens étaient tellement terrorisés qu’ils s’estimaient heureux, même en restant muet, d’échapper aux violences. Croyant les conjurés bien plus nombreux qu’ils n’étaient, ils avaient le sentiment d’une impuissance complète. La ville était trop grande et ils ne se connaissaient pas assez les uns les autres, pour qu’il leur fût possible de découvrir ce qu’il en était vraiment. Dans ces conditions, si indigné qu’on fût, on ne pouvait confier ses griefs à personne. On devait donc renoncer à engager une action contre les coupables, car il eût fallut pour cela s’adresser soit à un inconnu, soit à une personne de connaissance en qui on n’avait pas confiance. Dans le parti démocratique, les relations personnelles étaient partout empreintes de méfiance, et l’on se demandait toujours si celui auquel on avait à faire n’était pas de connivence avec les conjuré ».

Aujourd’hui, les manipulations générales en faveur de l’ordre établi sont devenues si denses qu’elles s’étalent presque au grand jour. Pourtant, les véritables influences restent cachées, et les intentions ultimes ne peuvent qu’être assez difficilement soupçonnées, presque jamais comprises.

Notre monde démocratique qui, jusqu’il y a peu, allait de succès en succès, et s’était persuadé qu’il était aimé, a du renoncer depuis lors à ces rêves ; il n’est aujourd’hui plus que l’arme idéologique d’un nouvel ordre mondial.

Publié sur Mecanopolis [2] le 18 octobre 2010

 


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mercredi, 20 octobre 2010

Carl Schmitt, pensador liberal

Carl Schmitt, pensador liberal: a modo de introducción

por Giovanni B. Krähe

Ex: http://geviert.wordpress.com/
 

Una de las tesis consolidadas en los estudios schmittianos es el anti-liberalismo de Carl Schmitt. Conservadores, monárquicos, católicos, filo-schmittianos “de Weimar”,  anti-schmittianos de wikipedia, ocasionalistas pro-dictadura, antifascistas etc., todos, en familia, están de acuerdo con esta tesis: Schmitt fue un anti-liberal. En este preciso punto, ambos bandos de apologetas y anti-schmittianos se demuestran de acuerdo. La pregunta que queremos poner en este post es: ¿Pero de cuál liberalismo señores? ¿contra cuál liberalismo Schmitt desarrolla su crítica? A continuación retomanos una respuesta que se dió en este blog a modo de introducción sumaria al tema.

Entre revolución nacional y religión: las cuatro tradiciones de la Sonderweg alemana

En Alemania se desarrollan cuatro diferentes tradiciones políticas: conservadora, liberal, católica y socialista. Todas nacen y se desarrollan mucho antes de la fundación del Reich alemán por Bismark (1871). Las cuatro tradiciones poseen un curioso elemento pre-estatual, pre-societario, comunitario y anti-contractualista. Estas características no las convierten en tradiciones “prematuras” o “tardías” (H. Plessner) en relación a la formación de los Estados en USA, Inglaterra o Francia. Muy al contrario. En efecto, a las características mencionadas se añaden otros dos factores históricos muy interesantes que se desarrollarán transversalmente a las cuatro tradiciones mencionadas. Estos dos factores determinarán la denominada “vía particular” (Deutscher Sonderweg):  la revolución nacional y la religión. Siempre a modo de sinopsis, mencionaremos una diferencia curiosa ulterior: el denominado “absolutismo iluminado” de los prusianos (S. XVIII). Los prusianos introducen reformas estructurales a diferentes niveles (la tolerancia religiosa por ejemplo) que la “reina de las revolución continental”, la revolución francesa, conocerá tan sólo posteriormente. Se puede notar entonces un Estado alemán de facto, ya maduro en diferentes frentes, que le faltaba únicamente la forma política del aparato estatal en su sentido moderno con soberanía única, monopolio de la fuerza y territorio unificado. Mientras en los demás casos nacionales europeos los primeros partidos asumirán el rol de la socialización política, en Alemania, en cambio, los primeros agentes de socialización política no son “partidos”, sino asociaciones (Vereine) de creyentes, dado que no hay “Estado” como unidad política hasta 1871. El fenómeno de las asociaciones (religiosas) alemanas es un fenómeno europeo  de tipo cooperativo-comunitario muy interesante para los estudios de historia comparada.

Socialización política entre imperio y reino: los movimientos nacionales de creyentes

Estos agentes de socialización política serán más bien movimientos religiosos y nacionales, en parte “aglutinados” bajo una identidad negativa (el enemigo francés), pero curiosamente forjados a partir de una sutil “ambigüedad” constitutiva muy particular: una continuidad latente con el Sacro Romano Imperio Germánico. Debido a esta continuidad, al interior de las cuatro tradiciones mencionadas todos los agentes desarrollarán un visión fuertemente a favor del modelo del Reich como unidad indivisible y fuertemente pro-unitaria. Esto último se explica en parte debido a la ausencia misma de una forma estatal. No se olvide que el Sacro Romano Imperio era casi una “forma federal” sui generis, por lo tanto las “partes” hacen referencia a un imperio, no a una forma de estados relativamente autónomos, como afirmaría la actual teoría federal por ejemplo. Tal caracter pro-unitario y pro-imperio no será, entonces, unitario únicamente en terminos de la unidad del “Estado-nación” (que no existía), sino de cada uno de estos agentes en relación a sí mismo y al Reich.  En efecto, la etimología de la palabra alemana “partido” (Partei), tuvo siempre un significado íntimamente negativo para todos los agentes que entraban por primera vez en la area política de la revolución nacional. En esta revolución nacional, no se podía ser egoísticamente “de parte” frente a la comunidad. Se cumple, según las máximas de la ética prusiana de la época, un preciso rol, se brinda un preciso servicio (Dienst), según una precisa llamada (Beruf, profesión), para ejercer una función en un preciso ámbito (Be-Reich) al interior de la comunidad espiritual del Reino (Reich). Estos agentes que las cuatro tradiciones ideológicas canalizan a través de la idea de nación y religión, generarán ese futuro sistema de partidos fuertemente orientado al formato imperial de la comunidad del Reich. Será también la misma peculiaridad que llevará a la fuerte polarización inter-partidaria que se verá después de la Primera guerra Mundial, cuando el modelo configurante del II Reich desaparece.

Esta tendencia religiosa nacional-comunitaria, basada en la defensa del Estado como principio, la comunidad política y la identidad colectiva, no es únicamente una peculiaridad de la tradición alemana católica y conservadora, como se podría imaginar rápidamente. Será también un rasgo emblemático de las otras dos familias idelógicas, la liberal y la socialista, incluída la radicalización posterior de esta última, la comunista (en su ala no internacionalista atención). Esta curiosa convergencia se debió a la tendencia general pro-unificación del Estado en su sentido moderno, que era un objetivo y tendencia transversal a las cuatro familias ideológicas. Sólo el comunismo, variante externa y espuria del socialismo alemán, asumirá una contratendencia crítica a través del internacionalismo (por lo tanto será visto como el primer enemigo). Con la derrota de la primera Guerra, los partidos que representaban estras cuatro tradiciones ideológicas (más la novedad comunista) se verán, entonces, tal cual por primera vez, es decir en términos modernos: simplemente “partidos”, organizaciones “de parte” dentro de un Estado democrático frágil. La respuesta será insólita: Ese elemento partidario fuertemente inclusivo y pro-Reich (más aún en el revanchismo de la  derrota) regresará otra vez con el totalitarismo monopartidario del Nacionalsocialismo. El temor que Schmitt ya habia previsto venir desde antes de la primera Guerra, es decir, la completa eliminación de la distinción entre Estado y cuerpo social, se cumple finalmente. Nuevamente re-emerge, entonces, de sus cenizas la tendencia pro-Reich perdida. Este perfil fuertemente de estado-partido – mutatis mutandis – no desaparecerá después de la guerra. Es el caso del denominado “Estado-de-partidos” del sistema político alemán. Este sistema posee una fuerte hegemonía de coaliciones inter-partídarias (2 partidos centrales+3 satélites) excluyentes (se habla de Alemania actual como una “democracia blindada”).

Pietismo y Reforma

Estos agentes de socialización política se irán forjando entonces al interior de una tradición política nacional-religiosa madura, cuya mencionada “ambigüedad” constitutiva se continuará reflejando especularmente ya sea a nivel de la Liga alemana (1815-16) como del pacto militar de la liga “alemana del norte” (1866), oscilante entre “liga de estados” y el “Estado unitario”. Al interior del elemento religioso mencionado no podemos olvidar un factor histórico decisivo muy anterior obviamente, pero no menos incisivo, no sólo en Alemania: los efectos políticos de la Reforma. A esta se añadirá otro factor silencioso dentro de la Reforma misma, no menos decisivo, sobre todo a nivel de los mencionados agentes de socialización política nacional-religiosos, transformados en el tiempo en  movimientos “nacional-sociales”, en cuanto agentes de socialización política . Esto último debido al increiblemente rapido proceso de modernización industrial (casi a la par sino superior a Inglaterra). Tal factor silencioso interno no menos decisivo es el Pietismus, movimiento de creyentes evangélicos anti-iluministas y anti-dogmáticos que desarrollan una mística comunitaria transversal a la Reforma, en el tiempo convertida en “religión de Estado”. El Pietismus fue una corriente evangélica “transversal”, fuertemente comunitaria (fundaban ciudades (!) de creyentes) al dogma reformista. Su núcleo más íntimo es exquisítamente místico.

El nacional-liberalismo alemán de Carl Schmitt

Dados estos elementos histórico-ideológicos weltanschaulich, se puede deducir entonces que  la tradición del liberalismo alemán que surge de este contexto es una tradición con fuertes elementos religiosos en sus primeras formas sociales, y nacional-comunitarios en su vínculo con el Estado. Este liberalismo alemán no será, por lo tanto, confundido con el liberalismo anglosajón (tal vez con la tradición conservadora whig). No hay ni un “individuo” por defender ni libertades negativas por asegurar ante un Estado (no existía tal cual). Luego de la fundación del Reich (1871) el vínculo del nacional-liberalismo alemán a favor de la forma estatal aumentará más aún: En efecto, la peculiaridad del nacional-liberalismo alemán no es la defensa del individuo, sino la defensa de la relación entre la comunidad política y el Estado. En la historia del liberalismo europeo, el liberalismo alemán será sucesivamente catalogado como una “idealización” (Sartori), a través de Hegel, del Estado moderno. Este liberalismo alemán será considerado finalmente como un modelo “estado-céntrico”, para diferenciarlo del liberalismo inglés (que sería individualista-utilitarista). Bajo esta precisa tradición nacional-liberal se formará Schmitt, no menos que Max Weber. El joven Schmitt recibirá además la influencia del mencionado Pietismus, elemento que lo llevará luego a descubrir el misticismo de Franz v. Baader y los anti-iluministas franceses (Louis Claude de Saint Martin). Tales elementos “esotéricos” no serán tampoco extraños a Max Weber.

primera conclusión (tesis):

1) Como ya intuído por la escuela de Leipzig (H. Schelsky en particular), la crítica de Carl Schmitt al liberalismo es una crítica al liberalismo inglés desde la peculiaridad del nacional-liberalismo alemán (H.Preuss, Von Stein) . En la historia de la doctrinas políticas se tiene limitadamente en mente una tradición liberal anglo-americana y se desconoce la peculiaridad del liberalismo continental alemán. Desde esta perspectiva limitada, cualquier crítica no-comunista al liberalismo pasa entonces como mero anti-liberalismo,  asi como cualquier anti-comunismo, es decir, cualquier crítica no-liberal al comunismo, pasa como Fascismo. lo mismo sucede con la falacia del “anti-liberalismo” de Schmitt a secas. A partir de esta ignorancia (porque ignorancia es), se cataloga a Carl Schmitt como un pensador anti-liberal. Nosotros afirmamos: sí,  Schmitt es un pensador anti-liberal, pero contra el liberalismo inglés. El nacional-liberalismo de Schmitt podría catalogarse como una “tercera vía” hegeliana de derecha, como ya desarrollado en una traducción de un artículo de Schmitt al respecto.

mardi, 19 octobre 2010

Messianismus mit verheerenden Folgen

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Dr. Tomislav SUNIC:

 Messianismus mit verheerenden Folgen

Ex: http://www.deutsche-stimme.de/

Ein Kapitel Hintergrundpolitik: Nutznießer und Drahtzieher der US-Kriege im Irak und Afghanistan

Statt der Frage »Wem nutzt der Krieg in Afghanistan und Irak« kann man auch die Frage stellen: »Wer war der Anstifter dieser beiden Kriege?« Diese direkte Frage klingt aber nicht sachlich und stellt außerdem eine Fundgrube für Verschwörungstheoretiker dar.

Wilde Spekulationen über die wahren Motive dieser Kriege interessieren uns hier nicht, abgesehen von der Tatsache, wenngleich manche auch stimmen mögen. Was uns interessiert ist die Bilanz dieser Kriege, wie diese Kriege sprachlich und völkerrechtlich gerechtfertigt werden und wer von diesen Kriegen am meisten profitiert.

 


Übrigens sind Verschwörungstheorien keinesfalls Kennzeichen sogenannter »Rechtsradikaler« – wie liberalistische Medien oft unterstellen. Laut neuer liberaler Sprachregelung nutzt die herrschende Klasse im Westen gegen ihre politischen Feinde und Gegner auch Verschwörungsvokabeln, die auf Verteufelung und Kriminalisierung abzielen. Auch benutzen die Systempolitiker zur Rechtfertigung ihrer eigenen militärischen Aggressionen durchaus Verschwörungstheorien. Monate vor der Invasion Iraks hatten viele amerikanische Politiker und Medienleute mit vollem Ernst über die »irakischen Massenvernichtungswaffen« schwadroniert. Es stellte sich bald heraus, daß die Iraker keine derartigen Waffen hatten, wie später von denselben Politikern auch zugegeben wurde.


Ähnliche Sprachregelungen sind heute im Wortschatz der EU-Systempolitiker zu bemerken, die freilich ihre politischen Mythen und Vorstellungen nicht mit dem Wort »Propaganda«, sondern mit den Vokabeln »Kulturarbeit« und »Menschenrechte« tarnen.

Feldzugsplan aus der Schublade

Im Falle des Irak und Afghanistans ist es wichtig zu analysieren, wie die Systempolitiker und die Kriegshetzer mit der Sprache umgehen. Einerseits hört man Horrorvokabeln wie »Kampf gegen den Terror«, »Islamofaschismus«, »Al Kaida-Terroristen«, und andererseits vernimmt man sentimentale Sprüche wie »Kampf für die Menschenrechte« »Multikulti-Toleranz« oder »Freiheit für afghanische Frauen«.
Die deutsche Kanzlerin klang dabei auch nicht glaubwürdig, als sie vor kurzem in Bezug auf den deutschen Einsatz in Afghanistan erklärte: »Unsere gefallenen Soldaten haben ihr Leben für Freiheit, Rechtsstaatlichkeit und Demokratie gegeben.« Ihre Worte stellen eine typisch theatralische Metasprache nach kommunistischer Machart dar.
Außer dieser hypermoralischen Seite aus dem liberalen Lexikon sind die empirischen Belege und Beweise für die vorgenannten Angaben, Aussagen und Wunschvorstellungen der Systempolitiker bezüglich des Irak und Afghanistans spärlich, wenn nicht völlig abwesend.
Zunächst eine Bilanz: Der Krieg in Afghanistan wurde drei Wochen nach dem Terroranschlag in New York am 11. September 2001 begonnen. Eine langfristige militärische Strategie für Afghanistan kann man nicht innerhalb von drei Wochen formulieren. Der Plan zum Sturz der Regime in Afghanistan und Irak war schon lange Zeit vorher medial und akademisch in Amerika vorbereitet worden. Die ersten Hinweise auf den kommenden Krieg im Nahen Osten hatten amerikanische Medien und pro-zionistische Kulturkreise in Amerika schon Anfang neunziger Jahren gegeben, nämlich nach dem unentschiedenen ersten Golfkrieg von 1991.
Viele pro-israelische Kreise in Amerika sowie bekannte amerikanisch-jüdische Akademiker und Journalisten entwarfen damals einen langfristigen Plan für die Umorganisation des Nahen Osten und Asiens. Besonders wichtig war die Rolle einer sogenannten Denkfabrik wie dem »American Enterprise Institute« und die Aufstellung des »Projektes für das neue amerikanische Jahrhundert« (PNAC).
Sehr bedeutende Namen waren unter diesem Firmenschild beteiligt. Diese sind unter der Selbsteinschätzung »Neokonservative« bekannt und pflegten dabei ihre eigenen fixen Wahnideen zur Weltverbesserung. Der 11. September kam ihnen wie von Gott gesandt.
Ein entscheidender Kulturkampf, oder in der heutigen Sprache ausgedrückt: eine Erfolgspropaganda, muß in der Regel immer den großen politischen Umwälzungen vorangehen. Der Krieg in Afghanistan und Irak begann zuerst als akademische Auseinadersetzung, die von den neokonservativen Intellektuellen in Amerika bestimmt wurde. Aber das soll nicht heißen, daß sich die Akademiker und die Befürworter dieser Kriege nicht irren konnten. Die ganze völkerrechtliche Architektur der Irakkriege ist heute brüchig geworden.

Schwache Europäer, korrupte Kommunisten

Die US-Neokonservativen wollten seit langem die irakische und iranische Regierung beseitigen. Auch die angebliche Terrorgruppe Al Kaida war eine nebulöse Unterstellung, an der vielleicht etwas dran sein kann, die aber auch falsch sein kann. Wir haben nämlich keine genauen Beweise dafür, daß diese Terrorgruppe wirklich existiert. Aber solche Unterstellungen, ob wahr oder falsch, sind oft ein perfektes Mittel zur Rechtfertigung endloser Kriege. Schlimmer noch: Sie sind heute ein ideales Alibi für die Errichtung eines Überwachungssystems.
Nach neun Jahren Krieg in Afghanistan, nach sieben Jahren im Irak, hat sich das Sicherheitsklima im Nahen Osten und in Afghanistan sowie in der ganzen Welt nicht verbessert, sondern verschlechtert. Darin stimmen fast alle Politiker in Europa und Amerika überein. Heute gibt es einer größere Terrorismusgefahr als vor acht oder neun Jahren. Man kann sagen, daß die Terrorismusgefahr in Europa seitens radikaler Islamisten in dem Maße steigt, wie der Krieg in Irak und Afghanistan andauert.
Und was geschah mit den Europäern? Natürlich brauchten die Amerikaner 2001 die Zustimmung ihrer Verbündeten für die beiden Kriege. In Westeuropa war es dieses Mal ein bißchen schwieriger, da die meisten Systempolitiker in Europa, abgesehen von ihrer sonstigen Anbiederungspolitik gegenüber Washington, wußten, daß diese Kriege keine raschen Resultate erbringen würden. Das offizielle Deutschland war skeptisch, da es mehr muslimische Einwanderer beherbergt als die USA. Aber als europäisches NATO-Mitglied war es nicht leicht, den Amerikanern zu trotzen.

Politische Theologie der Amerikaner

Im Gegensatz zu Deutschland und Frankreich hatten die Amerikaner keine Probleme, Befürworter für ihre Expeditionen in Afghanistan und Irak in Osteuropa zu finden. Einer der Gründe dafür war, daß fast alle Etablierten und Akademiker vom Baltikum bis zum Balkan Überreste oder der Nachwuchs ehemaliger Kommunisten sind. Um ihre eigene kriminelle Vergangenheit aus den kommunistischen Terrorzeiten zu decken, müssen sie jetzt päpstlicher als der Papst sein, also amerikanischer als die Amerikaner selbst.
Die ersten Nutznießer der beiden Kriege waren, zumindest am Anfang der Kriege, wie schon erwähnt, die Neokonservativen und Israel. Aber es ist falsch zu behaupten, daß der Krieg nur von den amerikanischen Neokonservativen gerechtfertigt wurde. Um die wirklichen Motive der amerikanischen Außenpolitik zu begreifen, muß man die amerikanische politische Theologie gut verstehen, insbesondere die Überzeugung vieler amerikanischen Politiker von einer besonderen politischen Auserwähltheit. Die Nutznießer und die Architekten der Kriege sind ein tagespolitisches Phänomen, aber der Zeitgeist, der ihnen die Kriege rechtfertigt ist ein geistesgeschichtliches Phänomen. Dies kann man nicht voneinander trennen.
Uri Avnery, ein linker israelischer Schriftsteller, hat vor kurzem gesagt, daß »Israel ein kleines Amerika und die USA ein großes Israel« seien. Seit einhundert Jahren hat Amerika seine politischen Begriffe aus dem Alten Testament. Im Zuge dessen haben viele amerikanische Politiker ihre Mentalität von den alten Hebräern übernommen. Es ist auch kein Zufall, daß sich Amerika als Gottesbote mit einer universalistischen Botschaft für die ganze Welt wahrnimmt.
Vor 150 Jahren waren es die sezessionistischen Staaten des Südens, die das Sinnbild des absolut Bösen darstellten; später, Anfang des 20. Jahrhunderts, wurde das Sinnbild des »bösen Deutschen« bzw. »der Nazis« zum allgemeinen Feindbild; dann, während des Kalten Krieges, war eine Zeitlang der böse Kommunist in der Sowjetunion das Symbol des absolut Bösen. Heute gibt es keine Kommunisten, Konföderierten oder Faschisten mehr. Deswegen mußten die amerikanischen Weltverbesserer ein Ersatzfeindbild finden: nämlich den »Islamo-Faschisten« oder den islamistischen Terroristen.
In diese Kategorie des Bösen soll man die palästinensische Hamas, die libanesische Hisbollah und manche »Schurkenstaaten« wie Irak oder Iran einstufen. Geopolitisch sind diese Staaten von keinerlei Bedeutung für Amerika. Aber Amerikas religiös-ideologische Beziehungen zu Israel verpflichten die amerikanischen Politiker, Israels Feinde als ihre eigenen Feinde zu behandeln.
Es ist völlig falsch, nur die Israelis oder die Neokonservativen für die Kriege der USA verantwortlich zu machen. Sie sind zwar eindeutig die Nutznießer, aber die wahren Architekten dieser Weltverbesserungsideologie sind die Millionen amerikanischer christlicher Zionisten, die eine außerordentliche Rolle in Amerika spielen. Es ist auch falsch, über angebliche amerikanische »Heuchelei« zu reden, wie es oft üblich ist. Aufgrund ihres alttestamentarischen Geistes glauben viele amerikanische Christzionisten tatsächlich, daß Amerikas Militäreinsätze für alle Völker gut seien.

Die Verantwortung der Messianisten

Aus dieser Positionierung entspringt auch die Ideologie der »Menschenrechte«, die wir heute als etwas Selbstverständliches und Humanes hinnehmen. Aber gerade im Namen der Menschenrechte kann man ganze Völker bzw. viele nonkonformistische Intellektuelle kurzerhand auslöschen. Wenn jemand über »Menschenrechte« spricht, sollte man ihn immer fragen, was mit jenen passieren sollte, die nicht in die Kategorie der vorgesehenen Menschen passen. Das sind dann nämlich meist Bestien und Tiere, die nicht nur umerzogen, sondern kurzerhand physisch liquidiert werden sollten.
Fragen wir uns, welche Gedanken durch die Köpfe der amerikanischen Piloten gingen, die Köln oder Hamburg im Jahr 1943 niederbrannten. Ihrem Selbstverständnis nach waren sie keine Kriminellen. Sie hatten keine Gewissensbisse, da dort unten nach ihrer Auffassung keine Menschen, sondern die Verkörperung ganz besonders gefährlicher Tiere lebten.
Die amerikanischen Christ-Zionisten und viele andere biblische Fanatiker tragen die größte Verantwortung für die meisten der amerikanischen Kriege unserer Zeit. Der Außerwähltheitsgedanke führt nicht zu mehr Völkerverständigung, sondern zu endlosen Kriegen.

Unser Autor Dr. Tomislav (Tom) Sunic ist Schriftsteller und ehemaliger US-Professor für Politikwissenschaft. (www.tomsunic.info) Er ist Kulturberater der American Third Position Party. Sein neustes Buch erschien in Frankreich: La Croatie; un pays par défaut? (Ed Avatar, Paris, 2010)

Ordo ordinans: il carattere istitutivo del termine nomos

Ordo ordinans: il carattere istitutivo del termine nomos

Giovanni B. Krähe / Ex: http://geviert.wordpress.com/

26092631128.jpgCome sappiamo, dalla dissoluzione dell’ordinamento medioevale sorse lo Stato territoriale accentrato e delimitato. In questa nuova concezione della territorialità – caratterizzata dal principio di sovranità – l’idea di Stato superò sia il carattere non esclusivo dell’ordinamento spaziale medioevale, sia la parcellizzazione del principio di autorità (1).

Parallelamente, l’avvento dell’epoca moderna mise in atto un’autentica rivoluzione nella visione dello spazio. Questa fu caratterizzata dal sorgere, attraverso la scoperta di un nuovo mondo, di una nuova mentalità di tipo globale. In questo senso, l’evolversi del rapporto fra ordinamento e localizzazione introdusse un nuovo equilibrio tra terra ferma e mare libero, ‘‘fra scoperta e occupazione di fatto’’ (2). A questo punto ci sembra importante mettere in evidenza la specificità del rapporto che caratterizza un particolare ordine spaziale. Questo non è, come si può dedurre da una prima lettura dell’opera schmittiana, il semplice mutamento dei confini territoriali prodotto dallo sviluppo del dominio tecnico sulle altre dimensioni spaziali (terra, mare, aria o spazio globale complessivo). Ogni mutamento nei confini di queste dimensioni può determinare il sorgere di un nuovo ordinamento, di un nuovo diritto internazionale, ma non necessariamente istituire quest’ordinamento. Qui si colloca il concetto di sfida (Herausforderung) a partire dal quale, per Schmitt, una decisione politica fonda un nuovo nomos, che si sostituisce al vecchio ordinamento dello spazio (3).

Su questa via, possiamo considerare il concetto di ‘politico’ come un approccio teorico in risposta alla sfida aperta lasciata dalla fine della statualità in quanto organizzazione non conflittuale dei gruppi umani. Allo stesso modo possiamo cogliere, attraverso le trasformazioni del concetto di guerra, la proposta teorica schmittiana di una possibilità di regolazione della belligeranza. È vero poi che una decisione politica può anche risolversi in un mero rapporto di dominio egemonico, tutto centrato nella propria autoreferenzialità della sua politica di potenza. Non si può parlare in questo caso dell’emergere di un nuovo nomos in quanto il problema della conflittualità non si presenta più nei termini di una possibilità di regolazione. In questo senso, tale problema, se riferito alla guerra nell’epoca moderna, caratterizzata dalla ambiguità del principio di self-help, diventa fonte interminabile di nuove inimicizie :

“Le numerose conquiste, dedizioni, occupazioni di fatto (…) o si inquadrano in un ordinamento spaziale del diritto internazionale già dato, oppure spezzano quel quadro e hanno la tendenza – se non sono soltanto dei fugaci atti di forza – a costituire un nuovo ordinamento spaziale del diritto internazionale”(4).

Abbiamo detto che dal rapporto fra ordinamento e localizzazione può emergere un determinato ordine spaziale. La possibilità aperta di fondare, nel senso della sfida accennata da Schmitt, un nuovo ordine dipende dal carattere istitutivo della decisione politica. Il potere costituente, che da questa decisione emerge, problematizza nei suoi capisaldi il rapporto considerato implicito fra atti costituenti e istituzioni costituite, fra nomos e lex. Nella scontata sinonimia di queste due categorie fondamentali, l’autore introduce una distinzione radicale. Questa distinzione che considera l’atto fondativo di un determinato ordine spaziale attraverso la specificità pre-normativa della decisione politica è il carattere istitutivo del termine nomos (5). Questa caratteristica pre-normativa del nomos non va intesa nel senso di un diritto primitivo anteriore all’ordinamento della legalità statale, ma all’interno di una pluralità di tipi di diritto. In questa prospettiva, la norma, che c’è alla base del diritto positivo – costituito, a sua volta, sull’effetività materiale di un spazio pacificato – si colloca, all’interno di questa pluralità.

Per Schmitt, tuttavia, il nomos “è un evento storico costitutivo, un atto della legittimità che solo conferisce senso alla legalità della mera legge” (6). Di questa opposizione tra nomos e lex ripresa più volte dall’autore non ci occupiamo in questa sede, in quanto essa puó essere intesa come un unico processo a carattere ordinativo. Questo processo che viene generalmente operato dalla norma, è già, tra l’altro, implicito nello stesso nomos (7) . Piuttosto, ció che ci interessa sottolinerare all’interno di questo processo ordinativo è la collocazione del concetto di guerra. Cosí, in termini moderni, se il carattere istitutivo del termine nomos – nel senso di un ordo ordinans imperiale o federale come accennato da A. Panebianco – determina l’inizio di un unico processo strutturante fra ordinamento e localizzazione, allora la conflittualitá puó essere regolamentata, se collocata all’interno di questo processo. In questo senso, le odierne categorie del diritto internazionale sorte dal principio dello jus contra bellum (come, ad esempio, i crimini di guerra oppure i crimini contro l’umanitá) non solo non risolvono il problema dichiarando la guerra “fuori legge”, ma riducono le regolazioni della belligeranza a meri atti di polizia internazionale.

Note

(¹) La non esclusività risiedeva nella sovrapposizione di diverse istanze politico-giuridiche all’interno di uno stesso territorio. Cfr. John Gerard Ruggie, Territoriality and beyond: problematizing modernity in international relations, in “International Organization”, n. 47, 1, Winter 1993, p. 150.

(2) Carl Schmitt, Il nomos della terra (1950), Adelphi, Milano, 1991, p. 52.

(3) Cfr. ivi, p.75; vedi inoltre Carl Schmitt, Terra e Mare, Giuffrè, Milano, 1986, pp. 63-64 e pp. 80-82; sul concetto di sfida vedi la premessa (1963) a Id., Le categorie del ‘politico’, cit., pp. 89-100 in: Carl Schmitt:  Il concetto di ‘politico’ (1932), in Id., Le categorie del ‘politico’, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972.

(4)  Carl Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 75; sul ruolo dell’America fra egemonia e nomos cfr. lo scritto Cambio di struttura del diritto internazionale (1943), pp. 296-297 e L’ordinamento planetario dopo la seconda guerra mondiale (1962), pp. 321-343 in Carl Schmitt, L’unità del mondo e altri saggi a cura di Alessandro Campi, Antonio Pellicani Editore, Roma, 1994.

(5) Sulla distinzione schmittiana tra nomos e lex si veda Carl Schmitt, Il nomos della terra, cit., pp. 55-62. La problematicità che introduce questa distinzione, per quanto riguarda l’ordinamento giuridico interno allo Stato, è stata sviluppata dall’autore in Legalità e legittimità, in Id., Le categorie del ‘politico’ cit., p. 223 ss.

(6) Carl Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 63.

(7) Sul carattere processuale specifico del termine nomos si veda Appropiazione/Divisione/Produzione (1958), in C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’ cit., p. 299 ss., e Id., Nomos/Nahme/Name (1959), in Caterina Resta, Stato mondiale o Nomos della terra. Carl Schmitt tra universo e pluriverso. A.Pellicani Editore, Roma, 1999.

samedi, 16 octobre 2010

Maurice Allais

Maurice Allais

ex: http://www.telegraph.co.uk/ 

Maurice Allais, who died on October 9 aged 99, was a Nobel Prize winner who warned against "casino" stockmarket practices that eventually precipitated the current global financial crisis; he also claimed to have disproved Einstein's General Theory of Relativity.

 
Photo: AFP/GETTY

In the 1990s he delighted eurosceptics by his opposition, almost unique among French economists, to the single European currency; europhobes were less enthused when he revealed that he was against it because the currency's introduction should have been preceded by wholesale European political union.

He had won his Nobel for Economics in 1988. But he might also have been a candidate for the award in Physics, a discipline in which he was best known for his discovery that Earth's gravitational pull appears to increase during a solar eclipse.

Fluctuations have since been measured during 20 or so total solar eclipses, but the results remain inconclusive, and the "Allais effect", as it is known, continues to confound scientists. Allais himself had little doubt that the effect indicated a flaw in Einstein's theory of relativity. Indeed, he had little time for Einstein who, he claimed, had plagiarised the work of earlier scientists such as Lorentz and Poincaré in his 1905 papers on special relativity and E=mc2.

As an economist, Allais had reason to complain that others had been given credit that was his due. In his first major work, A la Recherche d'une Discipline Economique (1943), he proved mathematically that an efficient market could be achieved through a system of equilibrium pricing (when prices create a balance in demand with what can be supplied).

It proved vital in guiding the investment and pricing decisions made by younger economists working for the state-owned monopolies that proliferated in Western Europe after the Second World War – and for the authorities regulating private sector monopolies in an age of denationalisation.

He was awarded the Nobel for his "pioneering contributions to the theory of markets and efficient utilisation of resources", but the award was late in coming. His work has been compared favourably with that carried out at the same time or later by the American Paul Samuelson and the British economist John Hicks, both of whom won Nobel Prizes in the 1970s. Allais's work also served as a basis for the analysis of markets and social efficiency carried out by one of his former pupils, Gerard Debreu, who won the Nobel Economics Prize in 1983 after he became an American citizen, and Kenneth Arrow, who won the prize in 1972.

The main reason why Allais was overlooked for so long appears to be that he did not publish in English until late in his career and as a result did not gain the international recognition that was his due. Paul Samuelson felt that, had Allais's early works been in English, "a generation of economic theory would have taken a different course".

The son of a cheese shop owner, Maurice Allais was born in Paris on May 11 1911. After his father died in captivity during the First World War, he was raised by his mother in reduced circumstances.

A brilliant student at the Lycée Louis-le-Grand, Allais trained as an engineer at the Ecole Polytechnique and worked for several years as a mining engineer. He turned to economics after being appalled by the suffering he saw during a visit to the United States during the Great Depression. He taught himself the subject and soon began to teach it at the Ecole Nationale Supérieure des Mines de Paris, introducing a mathematical rigour into the French discipline, which at that time was mostly non-quantitative.

Allais's most important contributions to economic theory were formulated during the Second World War, when French academics, working under German occupation, were largely cut off from the outside world.

John Hicks, one of the first Allied economists in Paris after the liberation, recalled making his way to an attic where, once his eyes had adjusted to the dark, he could see a group with miners' lamps on their heads listening to a lecturer at a board. The lecturer was Allais, and he was talking about whether the interest rate should be zero per cent in a no-growth economy. This foreshadowed his second major publication, Economie et Intérêt (1947), a massive work on capital and interest which has formed the basis for the so-called "golden rule of accumulation". This states that to maximise real income, the optimum rate of interest should equal the growth rate of the economy.

Allais's book also included the suggestion that in stimulating an economy it is helpful to use a simple model consisting of two generations, young and old. At each step, the old generation dies, the young generation grows old, and a new young generation appears. The model, now known as the overlapping generations model, got little attention at the time, but more than a decade later Paul Samuelson introduced the same idea independently.

Allais's work had more than theoretical importance. When France rebuilt its economy on a combination of state dirigisme and market economics, Allais provided the theoretical framework needed to allow planners to resist the short-termism of politicians and set optimum pricing and investment strategies.

During the 1950s he pioneered a new approach when, in examining how people respond to economic stimuli, he asked a group to choose among certain gambles, and then examined their decisions. He discovered that the subjects acted in ways that were inconsistent with the standard theory of utility, which predicts that people will behave as rational economic beings. As a result he created the "Allais Paradox", an equation that predicts responses to risk.

Allais, who served as director of research at the National French Research Council, remained active and independent-minded until well into his eighties. Shortly before the stock market crash of 1987 he wrote a paper warning that the situation presented "three fundamental analogies with that which preceded the Great Depression of 1929-1934: a great development of promises to pay, frenetic speculation, and a resulting potential instability in credit mechanisms, that is, financing long-term investments with short-term deposits."

In 1989 he warned that Wall Street had become a "veritable casino", with loose credit practices, insufficient margin requirements and computerised trading on a non-stop world market – all contributing to a dangerously volatile financial climate.

In a recent article he argued that a "rational protectionism between countries with very different living standards is not only justified but absolutely necessary".

Allais was a prolific writer, both in the length of his pieces (his books typically ran to 800 or 900 pages) and in the variety of subjects he addressed. As well as works on economic theory and physics, he also wrote books on history.

Maurice Allais was appointed an officer of the Légion d'honneur in 1977 and grand officer in 2005. He was promoted to Grand Cross of the Légion d'honneur earlier this year.

His wife, Jacqueline, died in 2003, and he is survived by their daughter.

Maurice ALLAIS (1911-2010)

 Maurice ALLAIS (1911-2010)

(vertaald door Frederik Ranson : Ex: http://n-sa.be/ )

AllaisMauH2.jpgMaurice Allais, die op 9 oktober op 99-jarige leeftijd overleed, was een Nobelprijswinnaar die waarschuwde tegen de "casino"-praktijken op de aandelenmarkt die uiteindelijk hebben geleid tot de huidige wereldwijde financiële crisis; hij beweerde ook Einsteins algemene relativiteitstheorie te hebben weerlegd.

In de jaren 1990 verheugde hij de eurosceptici door zijn verzet, bijna uniek onder de Franse economen, tegen de Europese eenheidsmunt; eurofoben waren minder enthousiast toen hij onthulde dat hij ertegen was omdat de invoering van de munt had moeten worden voorafgegaan door een Europese politieke unie op grote schaal.

Hij won zijn Nobelprijs voor de Economie in 1988. Maar hij had ook kandidaat kunnen zijn voor die in de Natuurkunde, een vakgebied waarin hij het best bekend was voor zijn ontdekking dat zwaartekracht van de aarde lijkt te stijgen tijdens een zonsverduistering.

In 1954 experimenteerde hij met een zelf uitgevonden "paraconische" slinger en hij merkte dat, wanneer de maan voor de zon passeerde, de slinger een beetje sneller bewoog dan hij zou moeten hebben gedaan. Zijn verklaring, uiteengezet in L'Anisotropie de l'espace (1997), was dat ruimte andere eigenschappen vertoont langs verschillende assen en dit als gevolg van beweging door een ether die gedeeltelijk wordt beïnvloed door planetaire lichamen.

Schommelingen zijn inmiddels gemeten tijdens een twintigtal totale zonsverduisteringen, maar de resultaten zijn nog niet overtuigend en het "Allais-effect" (zoals het bekend staat) blijft voor verwarring zorgen onder wetenschappers. Allais zelf twijfelde er niet aan dat het effect een fout in Einsteins relativiteitstheorie aangaf. Inderdaad, hij had weinig tijd voor Einstein, die volgens hem het werk van eerdere wetenschappers zoals Lorentz en Poincaré had geplagieerd in zijn geschriften van 1905 over de speciale relativiteitstheorie en E=mc2.

Als econoom had Allais reden om te klagen dat anderen erkenning hadden gekregen die hem toekwam. In zijn eerste grote werk, A la Recherche d'une discipline économique (1943), bewees hij wiskundig dat een efficiënte markt kan worden bereikt via een systeem van economisch evenwicht (wanneer de prijzen zorgen voor een evenwicht tussen de vraag en wat kan worden geleverd).

Het bleek van vitaal belang in het sturen van de beslissingen over investeringen en prijzen die genomen werden door jongere economen, werkzaam voor de staatsmonopolies die zich uitbreidden in het West-Europa van na de Tweede Wereldoorlog – en voor de overheden die private sectorale monopolies reguleerden in een tijdperk van denationalisering.

Hij werd bekroond met de Nobelprijs voor zijn "baanbrekende bijdragen aan de theorie van de markten en een efficiënt gebruik van middelen", maar de onderscheiding kwam laat. Zijn werk is gunstig vergeleken met dat uitgevoerd op hetzelfde ogenblik of later door de Amerikaan Paul Samuelson en de Britse econoom John Hicks, die beiden Nobelprijzen wonnen in de jaren ‘70. Allais’ werk diende ook als basis voor de analyse van de markten en maatschappelijke efficiëntie uitgevoerd door een van zijn voormalige leerlingen, Gérard Debreu, die de Nobelprijs voor de Economie won in 1983 (nadat hij Amerikaanse staatsburger was geworden) en Kenneth Arrow, die de prijs in 1972 won.

De belangrijkste reden waarom Allais zo lang over het hoofd werd gezien lijkt te zijn dat hij niet in het Engels publiceerde tot laat in zijn carrière en als gevolg daarvan niet de internationale erkenning kreeg die hem toekwam. Paul Samuelson vond dat als Allais’ vroege werken in het Engels waren geweest, "een generatie van economische theorievorming een andere koers zou hebben genomen".

Maurice Allais werd geboren als zoon van de eigenaar van een kaaswinkel in Parijs op 11 mei 1911. Nadat zijn vader tijdens de Eerste Wereldoorlog in krijgsgevangenschap overleed, werd hij opgevoed door zijn moeder in moeilijke omstandigheden.

Als een briljante student aan het Lycée Louis-le-Grand werd Allais opgeleid als ingenieur aan de Ecole Polytechnique en hij werkte enkele jaren als mijningenieur. Hij wendde zich tot de economie na geschokt te zijn door het leed dat hij zag tijdens een bezoek aan de Verenigde Staten tijdens de Grote Depressie. Hij schoolde zichzelf in het onderwerp en begon al snel te les te geven aan de Ecole Nationale Superieure des Mines de Paris, waarbij hij een wiskundige strengheid invoerde in het Franse vakgebied, dat op dat ogenblik voornamelijk niet-kwantitatief was.

Allais’ belangrijkste bijdragen aan de economische theorie werden geformuleerd tijdens de Tweede Wereldoorlog, toen de Franse academici – werkend onder Duitse bezetting – grotendeels van de buitenwereld afgesneden waren.

John Hicks, een van de eerste geallieerde economen in Parijs na de bevrijding, herinnerde zich dat hij zich een weg moest banen naar een zolder waar – eens zijn ogen zich aan het duister hadden aangepast – hij een groep met mijnwerkerslampen op hun hoofd kon zien luisteren naar een leraar voor een bord. Die leraar was Allais en hij was aan het spreken over het feit of de rente nul procent zou moeten zijn in een economie zonder groei. Dit was de voorbode van zijn tweede grote publicatie, Economie et interêt (1947), een enorm werk over kapitaal en rente dat de basis heeft gevormd voor de zogenaamde "gouden regel van de accumulatie". Daarin staat dat om het reële inkomen te maximaliseren de optimale rente gelijk moet zijn aan de groei van de economie.

Allais’ boek bevatte ook de suggestie dat het bij het stimuleren van een economie nuttig is om een eenvoudig model, bestaande uit twee generaties (jong en oud), te gebruiken. Bij elke stap sterft de oude generatie, wordt de jonge generatie ouder en verschijnt een nieuwe jonge generatie. Het model – nu bekend als het overlappende-generatiesmodel – kreeg weinig aandacht op dat ogenblik, maar meer dan een decennium later introduceerde Paul Samuelson  hetzelfde idee onafhankelijk van Allais.

Allais' werk hadden meer dan een theoretisch belang. Toen Frankrijk zijn economie in een combinatie van staatsdirigisme en markteconomie heropbouwde, leverde Allais het theoretische kader dat de planners nodig hadden om het korte-termijndenken van politici te kunnen weerstaan en optimale prijs- en investeringsstrategieën op te stellen.

Tijdens de jaren 1950 bedacht hij als eerste een nieuwe aanpak toen hij, tijdens onderzoek naar hoe mensen reageren op economische prikkels, een groep vroeg om te kiezen tussen bepaalde gokken en vervolgens hun beslissingen onderzocht. Hij ontdekte dat de proefpersonen handelden op manieren die in strijd waren met de standaardtheorie over nut, die voorspelt dat mensen zich zullen gedragen als rationele economische wezens. Als gevolg daarvan bedacht hij de "Allais-paradox", een vergelijking die reacties op risico's voorspelt.

Allais, die werkte als directeur van het Franse Nationale Centrum voor Wetenschappelijk Onderzoek, bleef actief en onafhankelijk denkend tot ver in zijn tachtigerjaren. Kort voor de beurskrach van 1987 schreef hij een opstel waarin hij schreef dat de situatie "drie fundamentele gelijkenissen (vertoonde) met dat wat de Grote Depressie van 1929-1934 voorafging: een bovenmatige ontwikkeling van schuldbewijzen, koortsachtige speculatie en een daaruit voortvloeiende mogelijke instabiliteit in kredietmechanismen, dat wil zeggen: de financiering van investeringen op lange termijn met korte-termijndeposito's".

In 1989 waarschuwde hij dat Wall Street een "waar casino" was geworden, met losse kredietpraktijken, onvoldoende margevereisten en een gecomputeriseerde handel op een non-stop wereldmarkt – die allen bijdragen tot een gevaarlijk wispelturig financieel klimaat.

In een recent artikel betoogde hij dat een "rationeel protectionisme tussen landen met een zeer uiteenlopende levensstandaard niet alleen gerechtvaardigd is, maar zelfs absoluut noodzakelijk".

Allais was een productieve schrijver, zowel in de lengte van zijn stukken (zijn boeken hadden dikwijls 800 à 900 pagina’s) als in de verscheidenheid van onderwerpen die hij behandelde. Naast werken over economische theorie en natuurkunde schreef hij ook boeken over geschiedenis.

Maurice Allais werd benoemd tot officier van het Legion d'honneur in 1977 en Grootofficier in 2005. Hij werd bevorderd tot het Grootkruis van het Legion d'honneur eerder dit jaar.

Zijn vrouw, Jacqueline, overleed in 2003 en hij wordt overleefd door hun dochter.

Bron: Telegraph

jeudi, 14 octobre 2010

Dead Right : The Infantilization of American Conservatism

Dead Right

The Infantilization of American Conservatism

 
 
 
Dead Right
 

Commentaries published on this website, most notably by Richard Spencer and Elizabeth Wright, have underlined the problems with the Tea Party movement and its most prominent representatives. These pointed observations about Glenn Beck, Rand Paul, Sarah Palin, and Christine O’ Donnell have all been true; and if I have more or less defended some of these figures in the past, I’ve done so, while conceding most of the argument made against them. I agree in particular with Elizabeth Wright’s brief against Rand Paul’s stuttering attempt to object to the public accommodations clause in the Civil Rights Act and her withering attack on Glenn Beck’s recent “carnival of repentance” in Washington.

Elizabeth concludes that such soi-disant critics of the Left cannot bring themselves to find fault with any excess in the Civil Rights movement -- and especially not with its far leftist icon Martin Luther King. “Conservatives” are so terrified of being called “racists” or for that matter, sexists or homophobes, that they devote themselves tirelessly to showing they are just as sensitive as the next PC robot. Indeed, they often go well beyond anyone on the left in genuflecting before leftist icons. This was the purpose of the Martin Luther King-adoration rally held by Beck in Washington.

And even more outrageously, such faux conservatives accuse long-dead Democratic presidents, who were well to the right of the current conservative movement, of being more radical than they actually were. It would be no exaggeration to say that Wilson and FDR were far more reactionary than any celebrity in the Tea Party movement. One could only imagine what such antediluvian Democrats would have said if they had heard last year’s “Conservative of the Year,” chosen by Human Events, Dick Cheney, weeping all over the floor about not allowing gays to marry each other. And what would that stern Presbyterian and Southern segregationist Wilson have thought about the cult of King or the attempts by Tea Party leaders Palin and McDonnell to impose feminist codes of behavior on business and educational establishments. Wilson had to be dragged even into supporting the extension of the franchise to women.

The Tea Party sounds so often like the Left because it is for the most part a product of the Left. Its people were educated in public schools, watch mass entertainment, and have absorbed most of the leftist values of the elite class, to whose rule they object only quite selectively. From the demonstrators’ perspective, that elite isn’t patriotic enough in backing America’s crusades for human rights and in looking after the marvelous welfare state we’ve already built. The Tea Party types are understandably upset that their entitlements may be imperiled, if the current administration continues to run up deficits. This is the essence of their anti-government rant. And above all they don’t want more illegals coming into the country who may benefit from the social net and who may be receiving tax-subsidized medical care.

But this, we are assured, has nothing to do with race or culture. In fact the Tea Party claims to be acting on behalf of blacks and legally resident Latinos, in the name of Martin Luther King and all the civil rights saints of the past. It just so happens that almost all these activists are white Christians. Nonetheless, they are also people, as Elizabeth perceptively notices, who would like us to think they’re acting in the name of other ethnic groups, even if those groups don’t much like them. As four “young conservatives” explained to the viewers of the Today show last week, the Right wishes to lower taxes, specifically “to make jobs available to black Americans.” Unfortunately black Americans loathe those reaching out to them, presumably as a gesture of repentance as well as in pursuit of votes.

Those “conservatives” who want a moderate but not excessive welfare state and who act in the name of blacks, Latinos and dead leftist heroes, are fully tuned in to the conservative establishment. According to polls, these folks love FOX-news and avidly read movement conservative publications. Palin, Sean Hannity and Karl Rove, all FOX contributors, are among their favored speakers; and the Tea Party’s likely candidate for president, Sarah Palin, is now surrounded by such predictable neocon advisors as Randy Scheuermann and Bill Kristol. Even with her insipid, ungrammatical phrases about reducing the size of government, Palin already looks like an updated, feminine and feminized version of what the GOP has been running for president for decades, with neocon approval.

Actually one shouldn’t expect anything else from the Tea Party. In the 1980s the conservative movement witnessed a monumental sea change, when the neoconservatives assumed full power and proceeded to kick out dissenters. This development shaped the future of the Right, and its effects are still with us. The neoconservatives not only neutralized any real Right but also managed to infantilize what they took over. An entire generation of serious conservative thinkers were bounced out and replaced by either lackeys or by those who were essentially recycled liberal Democrats. The latter had recoiled from the anti-Zionist stands of the leftwing of the Democratic Party and then were given as a consolation prize carte blanche to swallow up the conservative movement.

Afterwards the establishment Right began to move in the direction of the Left, and it did so while limiting the range of disagreement with its opponents to a few acceptable talking points. The emphasis was on Middle Eastern intervention, disciplining anti-Semitic nations, and spreading “democratic values.” Internally the neocon Herrenklasse had no real interest, except for being able to do favors for corporations that financed them and for the Religious Right, which is fervently Zionist. The notion the neocons bestowed depth on the conservative movement may be the most blatant lie ever told. What they brought was agitprop, of the kind practiced by Soviet bureaucrats, and armies of culturally illiterate adolescents to turn out their party propaganda.

In all fairness, it must be said that the master class tolerated other points of view, for example from Catholic Thomists or Evangelicals, as long as these religiously inspired positions didn’t interfere with what counted for the neocons. Those who called the shots would also occasionally demand from their dependents certain favors, in return for subsidies and publicity, e.g., stressing the compatibility of Christian theology with neocon policies. Freeloading intellectuals could only be tolerated for so long.

This hegemony had two noticeable effects on the current Right, aside from the unchanged role of the neocons as the main power-players. The rightwing activists shown on TV and those they support in elections include badly educated duds, and these are individuals who often don’t sound like anything an historian might recognize as conservative. Their yapping about human rights (supposedly there is now a human right to own a gun) and their outpouring of the politics of guilt, as noted by Elizabeth Wright, are just two of their weird characteristics. About ten years ago I gaped with astonishment when I read a commentary by Jonah Goldberg explaining that the Catholic counterrevolutionary Joseph de Maistre was really a far leftist. It seems that Maistre questioned the idea of universal human rights und dared to note that human beings were marked by different national and ethnic features. These quirks, according to Goldberg, belong exclusively to the left, like “liberal fascism.” When the intellectual Right can come up with such nonsense and then parley it into a fortune, it is hard to imagine any lower depths of cultural illiteracy to which it could sink.

The “conservative wars” of the 1980s, which involved mostly a mopping up operation, also led to a hard Right that is unrelated to any other American intellectual Right. Those associated with this Right wish to have nothing to do with the failed or decimated Old Right that was smashed decades ago. It has found its home among the thirty-some generation and even more, among younger conservatives who are not part of the DC neocon network. One finds among these militants an almost primitive counterrevolutionary mentality. It is one that has taken form as an impassioned reaction to the Left’s masquerading as the Right, which began with the neoconservatives’ ascendancy to total domination. Although I have my reservations about what I’m describing, it must be seen as a spirited response to a fraud as well as to something that is intellectually and aesthetically vulgar.

Clearly this youthful Right is in no way influenced by Russell Kirk or by other “cultural conservatives” of an earlier generation. Its advocates reject a Right that was co-opted by the neocons and by those who are thought to have failed to resist that fateful takeover. Nor would most of those in the “culturally conservative” camp (Jim Kalb may be the exception here) feel comfortable with the exuberant reactionaries of the rising generation. Many of them sound like neo-pagans because they are convinced that the Western religious tradition has given rise to what they condemn as “the pathology of egalitarianism.” The French New Right, Nietzsche, and Carl Schmitt have all shaped this still inchoate youthful American Right. In their case Europe has cast its shadow on the US, unlike the multicultural Left, which, as I have argued in several books, is our poisonous gift to the Europeans.

The emergence of this anti-egalitarian Right and the infantilization of movement conservatism indicate what can not be undone. The American Right has changed irreversibly because of what occurred during the Reagan years and in the ensuing decade. We shall continue to live with the consequences.  

mercredi, 13 octobre 2010

Maurice Allais: la mort d'un dissident

Maurice Allais : la mort d'un dissident

 

"Ceux qui détiennent le pouvoir de décision nous laissent le choix entre écouter des ignorants ou des trompeurs" (Maurice Allais)

arton2301.jpgEx: http:://www.polemia.com/

Seul Français prix Nobel d’économie, Maurice Allais, est mort à 99 ans dimanche 10 octobre. Esprit universel, économiste et physicien, il était à la fois couvert d’honneurs et réduit au silence. Car il s’était attaqué aux tabous du temps. Critiquant notamment le libre-échangisme mondial, la financiarisation de l’économie, l’immigration incontrôlée. Annonçant dès 1998 la crise financière, il avait été ensuite réduit au silence : en 2005, le Figaro lui avait même refusé un article critique sur la Constitution européenne que ce grand économiste libéral (libéral-socialiste, aimait-il à dire) avait dû publier dans …l’Humanité.

Rappelons quelques uns de ses axiomes tels que ceux qu’il avait énoncés dans sa « Lettre aux Français contre les tabous indiscutés », publiée - une fois, hélas, n’était pas coutume – dans Marianne du 5 décembre 2009 :

« Le point de vue que j'exprime est celui d'un théoricien à la fois libéral et socialiste. »

« Les grands dirigeants de la planète montrent une nouvelle fois leur ignorance de l'économie qui les conduit à confondre deux sortes de protectionnismes : il en existe certains de néfastes, tandis que d'autres sont entièrement justifiés. Dans la première catégorie se trouve le protectionnisme entre pays à salaires comparables, qui n'est pas souhaitable en général. Par contre, le protectionnisme entre pays de niveaux de vie très différents est non seulement justifié, mais absolument nécessaire. C'est en particulier le cas à propos de la Chine, avec laquelle il est fou d'avoir supprimé les protections douanières aux frontières. Mais c'est aussi vrai avec des pays plus proches, y compris au sein même de l'Europe. »

« Mon analyse étant que le chômage actuel est dû à cette libéralisation totale du commerce, la voie prise par le G20 m'apparaît par conséquent nuisible. Elle va se révéler un facteur d'aggravation de la situation sociale. À ce titre, elle constitue une sottise majeure, à partir d'un contresens incroyable. » (…) Nous faisons face à une ignorance criminelle. »

« Ma position et le système que je préconise ne constitueraient pas une atteinte aux pays en développement. Actuellement, les grandes entreprises les utilisent pour leurs bas coûts, mais elles partiraient si les salaires y augmentaient trop. Ces pays ont intérêt à adopter mon principe et à s'unir à leurs voisins dotés de niveaux de vie semblables, pour développer à leur tour ensemble un marché interne suffisamment vaste pour soutenir leur production, mais suffisamment équilibré aussi pour que la concurrence interne ne repose pas uniquement sur le maintien de salaires bas. Cela pourrait concerner par exemple plusieurs pays de l'est de l'Union européenne, qui ont été intégrés sans réflexion ni délais préalables suffisants, mais aussi ceux d'Afrique ou d'Amérique latine. »

« Les grands dirigeants mondiaux préfèrent, quant à eux, tout ramener à la monnaie, or elle ne représente qu'une partie des causes du problème. Crise et mondialisation : les deux sont liées. »

« Cette ignorance et surtout la volonté de la cacher grâce à certains médias dénotent un pourrissement du débat et de l'intelligence, par le fait d'intérêts particuliers souvent liés à l'argent. Des intérêts qui souhaitent que l'ordre économique actuel, qui fonctionne à leur avantage, perdure tel qu'il est. Parmi eux se trouvent en particulier les multinationales qui sont les principales bénéficiaires, avec les milieux boursiers et bancaires, d'un mécanisme économique qui les enrichit, tandis qu'il appauvrit la majorité de la population française mais aussi mondiale. »

« Question clé : quelle est la liberté véritable des grands médias ? Je parle de leur liberté par rapport au monde de la finance tout autant qu'aux sphères de la politique. »

Polémia qui, à plusieurs reprises, a rendu hommage au Prix Nobel d'économie 1988, signale ici quelques recensions, mises sur son site, de l’œuvre récente de Maurice Allais.

Maurice Allais : les causes du chômage français
Maurice Allais : le coût de l’immigration
Maurice Allais flingue le néo-libéralisme dans une revue financée par Bercy
Les analyses prophétiques de Maurice Allais

Polémia
12/10/2010

Maurice Allais: la crise financière mondiale

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La crise financière mondiale
 
par Maurice Allais
31 octobre 2008

Ex: http://contre-info.info/

« L’économie mondiale tout entière repose aujourd’hui sur de gigantesques pyramides de dettes, prenant appui les unes sur les autres dans un équilibre fragile. Jamais dans le passé une pareille accumulation de promesses de payer ne s’était constatée. Jamais sans doute il n’est devenu plus difficile d’y faire face. Jamais sans doute une telle instabilité potentielle n’était apparue avec une telle menace d’un effondrement général. » En 1998, le prix Nobel d’économie Maurice Allais tirait les conclusions de la grave crise financière qui venait de frapper l’Asie. Aujourd’hui, cette analyse de l’instabilité de la mondialisation financière carburant au crédit s’avère prémonitoire.

Publié à l’origine en octobre 1998 dans le Figaro à l’occasion de la crise asiatique, ce texte a été ensuite repris dans l’ouvrage « La crise mondiale d’aujourd’hui », paru en 1999. Nous reproduisons ici un extrait où Maurice Allais décrit les causes de la crise financière qui préfigurait celle que nous connaissons aujourd’hui.

Maurice Allais, La crise mondiale d’aujourd’hui, 1999

À partir de juin 1997 une crise monétaire et financière s’est déclenchée en Asie et elle se poursuit actuellement. Le déroulement de cette crise, dont nul n’avait prévu la soudaineté et l’ampleur, a été très complexe, mais en 1997 et 1998, et pour l’essentiel, on peut distinguer trois phases : de juin à décembre 1997, de janvier à juin 1998 et de juin 1998 à octobre 1998 [1] .

· La première phase, de juin à décembre 1997, purement asiatique, a débuté avec une très forte spéculation à la baisse de la monnaie thaïlandaise, aboutissant à sa dévaluation de 18 % le 2 juillet 1997. Cette période a été marquée par la chute des monnaies et des Bourses des pays asiatiques : la Thaïlande, la Malaisie, l’Indonésie, les Philippines, Taïwan, Singapour, Hongkong, la Corée du Sud. La chute moyenne de leurs indices boursiers a été d’environ 40 %. Par rapport au dollar, les monnaies de la Thaïlande, de la Corée, de la Malaisie et de l’Indonésie se sont dépréciées respectivement d’environ 40 %, 40 %, 50 % et 70 %.

· La deuxième phase, de décembre 1997 à juin 1998, a donné lieu, après une courte reprise en janvier-février, à de nouvelles chutes des Bourses asiatiques. Pour l’ensemble de la période, la chute moyenne des cours a été d’environ 20 %.

Le fait marquant de cette période a été le rapatriement aux États-Unis et en Europe des capitaux prêtés à court terme en Asie, entraînant par-là même des hausses des cours de bourse aux États-Unis et en Europe. La hausse a été particulièrement marquée à Paris, où le CAC 40 a augmenté d’environ 40 % de décembre 1997 à juillet 1998, hausse deux fois plus forte qu’à New York.

La fin de cette période a été marquée par une très forte baisse des matières premières et un effondrement de la Bourse de Moscou d’environ 60 %. Au cours de cette période, les difficultés des intermédiaires financiers au Japon se sont aggravées et le yen a continué à se déprécier. De fortes tensions monétaires se sont également manifestées en Amérique latine.

· La troisième phase a débuté en juillet 1998, avec de très fortes tensions politiques, économiques et monétaires en Russie [2]. Le rouble n’a plus été convertible. Le 2 septembre, il avait perdu 70 % de sa valeur et une hyperinflation s’était déclenchée.

Cette situation a suscité de très fortes baisses des actions aux États-Unis et en Europe. La baisse à Paris du CAC 40, d’environ 30 %, a été spectaculaire. Elle s’est répandue rapidement dans le monde entier. Personne aujourd’hui n’apparaît réellement capable de prévoir l’avenir avec quelque certitude.

· Dans les pays asiatiques, qui ont subi des baisses considérables de leurs monnaies et de leurs Bourses, les fuites spéculatives de capitaux ont entraîné de très graves difficultés sociales. Ce qui est pour le moins affligeant, c’est que les grandes institutions internationales sont bien plus préoccupées par les pertes des spéculateurs (indûment qualifiés d’investisseurs) que par le chômage et la misère suscités par cette spéculation.

La crise mondiale d’aujourd’hui et la Grande Dépression. De profondes similitudes

· De profondes similitudes apparaissent entre la crise mondiale d’aujourd’hui et la Grande Dépression de 1929-1934 : la création et la destruction de moyens de paiement par le système du crédit, le financement d’investissements à long terme avec des fonds empruntés à court terme, le développement d’un endettement gigantesque, une spéculation massive sur les actions et les monnaies, un système financier et monétaire fondamentalement instable.

Cependant, des différences majeures existent entre les deux crises. Elles correspondent à des facteurs fondamentalement aggravants.

· En 1929 , le monde était partagé entre deux zones distinctes : d’une part, l’Occident, essentiellement les États-Unis et l’Europe et, d’autre part, le monde communiste, la Russie soviétique et la Chine. Une grande part du tiers-monde d’aujourd’hui était sous la domination des empires coloniaux, essentiellement ceux de la Grande-Bretagne et de la France.

Aujourd’hui, depuis les années 70, une mondialisation géographiquement de plus en plus étendue des économies s’est développée, incluant les pays issus des anciens empires coloniaux, la Russie et les pays de l’Europe de l’Est depuis la chute du Mur de Berlin en 1989. La nouvelle division du monde se fonde sur les inégalités de développement économique.

Il y a ainsi entre la situation de 1929 et la situation actuelle une différence considérable d’échelle, c’est le monde entier qui actuellement est concerné.

· Depuis les années 70, une seconde différence, majeure également et sans doute plus aggravante encore, apparaît relativement à la situation du monde de 1929.

Une mondialisation précipitée et excessive a entraîné par elle-même des difficultés majeures. Une instabilité sociale potentielle est apparue partout, une accentuation des inégalités particulièrement marquée aux États-Unis, et un chômage massif en Europe occidentale.

La Russie et les pays de l’Europe de l’Est ont rencontré également des difficultés majeures en raison d’une libéralisation trop hâtive.

Alors qu’en 1929 le chômage n’est apparu en Europe qu’à la suite de la crise financière et monétaire, un chômage massif se constate déjà aujourd’hui au sein de l’Union européenne, pour des causes très différentes, et ce chômage ne pourrait qu’être très aggravé si la crise financière et monétaire mondiale d’aujourd’hui devait se développer.

· En fait, on ne saurait trop insister sur les profondes similitudes, tout à fait essentielles, qui existent entre la crise d’aujourd’hui et les crises qui l’ont précédée, dont la plus significative est sans doute celle de 1929. Ce qui est réellement important, en effet, ce n’est pas tant l’analyse des modalités relativement complexes, des « technicalities » de la crise actuelle, qu’une compréhension profonde des facteurs qui l’ont générée.

De cette compréhension dépendent en effet un diagnostic correct de la crise actuelle et l’élaboration des réformes qu’il conviendrait de réaliser pour mettre fin aux crises qui ne cessent de ravager les économies depuis au moins deux siècles, toujours de plus en plus fortes en raison de leur extension progressive au monde entier.

La création et la destruction de moyens de paiement par le mécanisme du crédit

· Fondamentalement, le mécanisme du crédit aboutit à une création de moyens de paiement ex nihilo, car le détenteur d’un dépôt auprès d’une banque le considère comme une encaisse disponible, alors que, dans le même temps, la banque a prêté la plus grande partie de ce dépôt qui, redéposée ou non dans une banque, est considérée comme une encaisse disponible par son récipiendaire. À chaque opération de crédit il y a ainsi duplication monétaire. Au total, le mécanisme du crédit aboutit à une création de monnaie ex nihilo par de simples jeux d’écriture [3]. Reposant essentiellement sur la couverture fractionnaire des dépôts, il est fondamentalement instable.

Le volume des dépôts bancaires dépend en fait d’une double décision, celle de la banque de s’engager à vue et celle des emprunteurs de s’endetter. Il résulte de là que le montant global de la masse monétaire est extrêmement sensible aux fluctuations conjoncturelles. Il tend à croître en période d’optimisme et à décroître en période de pessimisme, d’où des effets déstabilisateurs.

En fait, il est certain que, pour la plus grande part, l’ampleur de ces fluctuations résulte du mécanisme du crédit et que, sans l’amplification de la création (ou de la destruction) monétaire par la voie bancaire, les fluctuations conjoncturelles seraient considérablement atténuées, sinon totalement supprimées [4] .

· De tout temps, on a pu parler des « miracles du crédit ». Pour les bénéficiaires du crédit, il y a effectivement quelque chose de miraculeux dans le mécanisme du crédit puisqu’il permet de créer ex nihilo un pouvoir d’achat effectif qui s’exerce sur le marché, sans que ce pouvoir d’achat puisse être considéré comme la rémunération d’un service rendu.

Cependant, autant la mobilisation d’« épargnes vraies » par les banques pour leur permettre de financer des investissements productifs est fondamentalement utile, autant la création de « faux droits » par la création monétaire est fondamentalement nocive, tant du point de vue de l’efficacité économique qu’elle compromet par les distorsions de prix qu’elle suscite que du point de vue de la distribution des revenus qu’elle altère et rend inéquitable.

Le financement d’investissements à long terme avec des fonds empruntés à court terme

Par l’utilisation des dépôts à vue et à court terme de ses déposants, l’activité d’une banque aboutit à financer des investissements à moyen ou long terme correspondant aux emprunts qu’elle a consentis à ses clients. Cette activité repose ainsi sur l’échange de promesses de payer à un terme donné de la banque contre des promesses de payer à des termes plus éloignés des clients moyennant le paiement d’intérêts.

Les totaux de l’actif et du passif du bilan d’une banque sont bien égaux, mais cette égalité est purement comptable, car elle repose sur la mise en parallèle d’éléments de nature différente : au passif, des engagements à vue et à court terme de la banque ; à l’actif, des créances à plus long terme correspondant aux prêts effectués par la banque.

De là résulte une instabilité potentielle permanente du système bancaire dans son ensemble puisque les banques sont à tout moment dans l’incapacité absolue de faire face à des retraits massifs des dépôts à vue ou des dépôts à terme arrivant à échéance, leurs actifs n’étant disponibles qu’à des termes plus éloignés.

Si tous les investissements dans les pays sous-développés avaient été financés par les banques, grâce à des prêts privés d’une maturité au moins aussi éloignée, et si le financement des déficits de la balance des transactions courantes des États-Unis était uniquement assuré par des investissements étrangers à long terme aux États-Unis, tous les déséquilibres n’auraient qu’une portée beaucoup plus réduite, et il n’existerait aucun risque majeur.

Ce qui, par contre, est éminemment dangereux, c’est l’amplification des déséquilibres par le mécanisme du crédit et l’instabilité du système financier et monétaire tout entier, sur le double plan national et international, qu’il suscite. Cette instabilité a été considérablement aggravée par la totale libération des mouvements de capitaux dans la plus grande partie du monde.

Le développement d’un endettement gigantesque

À partir de 1974, le développement universel des crédits bancaires et l’inflation massive qui en est résultée ont abaissé pour une décennie les taux d’intérêt réels à des valeurs très faibles, voire négatives, génératrices à la fois d’inefficacité et de spoliation. À des épargnes vraies se sont substitués des financements longs à partir d’une création monétaire ex nihilo. Les conditions de l’efficacité comme celles de l’équité s’en sont trouvées compromises. Le fonctionnement du système a abouti tout à la fois à un gaspillage de capital et à une destruction de l’épargne.

· C’est grâce à la création monétaire que, pour une large part, les pays en voie de développement ont été amenés à mettre en place des plans de développement trop ambitieux, et à vrai dire déraisonnables, et à remettre à plus tard les ajustements qui s’imposaient, tant il est facile d’acheter, dès lors qu’on peut se contenter de payer avec des promesses de payer.

Par nécessité, la plupart des pays débiteurs ont été amenés à se procurer par de nouveaux emprunts les ressources nécessaires à la fois pour financer les amortissements et les intérêts de leurs dettes et pour réaliser de nouveaux investissements. Peu à peu, cependant, la situation est devenue intenable.

· Parallèlement, l’endettement des administrations publiques des pays développés en pourcentage du produit national brut et la charge des intérêts en pourcentage des dépenses publiques ont atteint des niveaux difficilement supportables.

Une spéculation massive

Depuis 1974, une spéculation massive s’est développée à l’échelle mondiale. La spéculation sur les monnaies et la spéculation sur les actions, les obligations et les produits dérivés en représentent deux illustrations significatives.

· La substitution, en mars 1973, du système des changes flottants au système des parités fixes, mais révisables, a accentué l’influence de la spéculation sur les changes alimentée par le crédit.

Associé au système des changes flottants, le système du crédit tel qu’il fonctionne actuellement a puissamment contribué à l’instabilité profonde des taux de change depuis 1974.

Pendant toute cette période, une spéculation effrénée s’est développée sur les taux de change relatifs des principales monnaies, le dollar, le deutschemark et le yen, chaque monnaie pouvant être achetée à crédit contre une autre, grâce au mécanisme du crédit.

· La spéculation sur les actions et les obligations a été tout aussi spectaculaire. À New York, et depuis 1983, se sont développés à un rythme exponentiel de gigantesques marchés sur les « stock-index futures », les « stock-index options », les « options on stock-index futures », puis les « hedge funds » et tous « les produits dérivés » présentés comme des panacées.

Ces marchés à terme, où le coût des opérations est beaucoup plus réduit que sur les opérations au comptant et où pour l’essentiel les positions sont prises à crédit, ont permis une spéculation accrue et généré une très grande instabilité des cours. Ils ont été accompagnés d’un développement accéléré de fonds spéculatifs, les "hedge-funds".

En fait, sans la création de monnaie et de pouvoir d’achat ex nihilo que permet le système du crédit, jamais les hausses extraordinaires des cours de bourse que l’on constate avant les grandes crises ne seraient possibles, car à toute dépense consacrée à l’achat d’actions, par exemple, correspondrait quelque part une diminution d’un montant équivalent de certaines dépenses, et tout aussitôt se développeraient des mécanismes régulateurs tendant à enrayer toute spéculation injustifiée.

· Qu’il s’agisse de la spéculation sur les monnaies ou de la spéculation sur les actions, ou de la spéculation sur les produits dérivés, le monde est devenu un vaste casino où les tables de jeu sont réparties sur toutes les longitudes et toutes les latitudes. Le jeu et les enchères, auxquelles participent des millions de joueurs, ne s’arrêtent jamais. Aux cotations américaines se succèdent les cotations à Tokyo et à Hongkong, puis à Londres, Francfort et Paris.

Partout, la spéculation est favorisée par le crédit puisqu’on peut acheter sans payer et vendre sans détenir. On constate le plus souvent une dissociation entre les données de l’économie réelle et les cours nominaux déterminés par la spéculation.

Sur toutes les places, cette spéculation, frénétique et fébrile, est permise, alimentée et amplifiée par le crédit. Jamais dans le passé elle n’avait atteint une telle ampleur.

Un système financier et monétaire fondamentalement instable L’économie mondiale tout entière repose aujourd’hui sur de gigantesques pyramides de dettes, prenant appui les unes sur les autres dans un équilibre fragile. Jamais dans le passé une pareille accumulation de promesses de payer ne s’était constatée. Jamais sans doute il n’est devenu plus difficile d’y faire face. Jamais sans doute une telle instabilité potentielle n’était apparue avec une telle menace d’un effondrement général.

Toutes les difficultés rencontrées résultent de la méconnaissance d’un fait fondamental, c’est qu’aucun système décentralisé d’économie de marchés ne peut fonctionner correctement si la création incontrôlée ex nihilo de nouveaux moyens de paiement permet d’échapper, au moins pour un temps, aux ajustements nécessaires. Il en est ainsi toutes les fois que l’on peut s’acquitter de ses dépenses ou de ses dettes avec de simples promesses de payer, sans aucune contrepartie réelle, directe ou indirecte, effective.

Devant une telle situation, tous les experts sont à la recherche de moyens, voire d’expédients, pour sortir des difficultés, mais aucun accord réel ne se réalise sur des solutions définies et efficaces.

Pour l’immédiat, la presque totalité des experts ne voient guère d’autre solution, au besoin par des pressions exercées sur les banques commerciales, les Instituts d’émission et le FMI, que la création de nouveaux moyens de paiement permettant aux débiteurs et aux spéculateurs de faire face au paiement des amortissements et des intérêts de leurs dettes, en alourdissant encore par là même cette charge pour l’avenir.

Au centre de toutes les difficultés rencontrées, on trouve toujours, sous une forme ou une autre, le rôle néfaste joué par le système actuel du crédit et la spéculation massive qu’il permet. Tant qu’on ne réformera pas fondamentalement le cadre institutionnel dans lequel il joue, on rencontrera toujours, avec des modalités différentes suivant les circonstances, les mêmes difficultés majeures. Toutes les grandes crises du XIXème et du XXème siècle ont résulté du développement excessif des promesses de payer et de leur monétisation.

Particulièrement significative est l’absence totale de toute remise en cause du fondement même du système de crédit tel qu’il fonctionne actuellement, savoir la création de monnaie ex nihilo par le système bancaire et la pratique généralisée de financements longs avec des fonds empruntés à court terme.

En fait, sans aucune exagération, le mécanisme actuel de la création de monnaie par le crédit est certainement le "cancer" qui ronge irrémédiablement les économies de marchés de propriété privée.

L’effondrement de la doctrine laissez-fairiste mondialiste

Depuis deux décennies, une nouvelle doctrine s’était peu à peu imposée, la doctrine du libre échange mondialiste, impliquant la disparition de tout obstacle aux libres mouvements des marchandises, des services et des capitaux.

· Suivant cette doctrine, la disparition de tous les obstacles à ces mouvements serait une condition à la fois nécessaire et suffisante d’une allocation optimale des ressources à l’échelle mondiale.

Tous les pays et, dans chaque pays, tous les groupes sociaux verraient leur situation améliorée.

Le marché, et le marché seul, était considéré comme pouvant conduire à un équilibre stable, d’autant plus efficace qu’il pouvait fonctionner à l’échelle mondiale. En toutes circonstances, il convenait de se soumettre à sa discipline.

Les partisans de cette doctrine, de ce nouvel intégrisme, étaient devenus aussi dogmatiques que les partisans du communisme avant son effondrement définitif avec la chute du Mur de Berlin en 1989. Pour eux, l’application de cette doctrine libre-échangiste mondialiste s’imposait à tous les pays et, si des difficultés se présentaient dans cette application, elles ne pouvaient être que temporaires et transitoires.

Pour tous les pays en voie de développement, leur ouverture totale vis-à-vis de l’extérieur était une condition nécessaire et la preuve en était donnée, disait-on, par les progrès extrêmement rapides des pays émergents du Sud-Est asiatique. Là se trouvait, répétait-on constamment, un pôle de croissance majeur pour tous les pays occidentaux.

Pour les pays développés, la suppression de toutes les barrières tarifaires ou autres était une condition de leur croissance, comme le montraient décisivement les succès incontestables des tigres asiatiques, et, répétait-on encore, l’Occident n’avait qu’à suivre leur exemple pour connaître une croissance sans précédent et un plein-emploi [5]. Tout particulièrement la Russie et les pays ex-communistes de l’Est, les pays asiatiques et la Chine en premier lieu, constituaient des pôles de croissance majeurs qui offraient à l’Occident des possibilités sans précédent de développement et de richesse.

Telle était fondamentalement la doctrine de portée universelle qui s’était peu à peu imposée au monde et qui avait été considérée comme ouvrant un nouvel âge d’or à l’aube du XXIeme siècle.

Cette doctrine a constitué le credo indiscuté de toutes les grandes organisations internationales ces deux dernières décennies, qu’il s’agisse de la Banque mondiale, du Fonds monétaire international, de l’Organisation mondiale du commerce, de l’Organisation de coopération et de développement économiques, ou de l’Organisation de Bruxelles.

· Toutes ces certitudes ont fini par être balayées par la crise profonde qui s’est développée à partir de 1997 dans l’Asie du Sud-Est, puis dans l’Amérique latine, pour culminer en Russie en août 1998 et atteindre les établissements bancaires et les Bourses américaines et européennes en septembre 1998.

Cette crise a entraîné partout, tout particulièrement en Asie et en Russie, un chômage massif et des difficultés sociales majeures. Partout les credo de la doctrine du libre-échange mondialiste ont été remis en cause. Deux facteurs majeurs ont joué un rôle décisif dans cette crise mondiale d’une ampleur sans précédent après la crise de 1929 :

-  l’instabilité potentielle du système financier et monétaire mondial ;

-  la mondialisation de l’économie à la fois sur le plan monétaire et sur le plan réel [6].

En fait, ce qui devait arriver est arrivé. L’économie mondiale, qui était dépourvue de tout système réel de régulation et qui s’était développée dans un cadre anarchique, ne pouvait qu’aboutir tôt ou tard à des difficultés majeures.

La doctrine régnante avait totalement méconnu une donnée essentielle : une libéralisation totale des échanges et des mouvements de capitaux n’est possible, elle n’est souhaitable que dans le cadre d’ensembles régionaux groupant des pays économiquement et politiquement associés, et de développement économique et social comparable.

· En fait, le nouvel ordre mondial, ou le prétendu ordre mondial, s’est effondré et il ne pouvait que s’effondrer. L’évidence des faits a fini par l’emporter sur les incantations doctrinales.


Publication originale Maurice Allais, texte établi par Etienne Chouard


 

 

[1] Je rappelle que mon analyse ne porte ici que sur la période juin 1997-octobre 1998. La rédaction de ce chapitre s’est achevée le 1er novembre 1998.

[2] L’échec de l’économie soviétique n’était que trop prévisible. Le passage brutal, suivant les conseils d’experts américains, à une économie de marchés de propriété privée après soixante-douze ans de collectivisme ne pouvait qu’échouer. Dans mon mémoire du 3 avril 1991, La construction européenne et les pays de l’Est dans le contexte d’aujourd’hui présenté au troisième symposium de la Construction, j’écrivais :

« On ne saurait sans danger se dissimuler tous les risques qu’implique le passage, même graduel, à une économie de marchés de propriété privée : l’apparition pratiquement inévitable de nouveaux riches, la génération d ’inégalités criantes et peu justifiées que le marché ne pourra réellement réduire que lorsque la concurrence deviendra suffisante, des formes plus ou moins brutales de gestion des entreprises privées, le chômage, l’inflation, la dissolution des moeurs, etc. Ce sont là des risques majeurs à l’encontre desquels les Pays de l’Est doivent se prémunir.

(...) Ce passage doit faire l’objet d’un Plan de décollectivisation. Il peut sembler paradoxal, au moins à première vue, que le libéral que je suis puisse préconiser une planification pour sortir de la planification collectiviste centralisée. Cependant, c’est là une nécessité éclatante. (...) »

C’est là ce qu’il aurait fallu faire au lieu de la chienlit laisser-fairiste qui a été appliquée. Aujourd’hui encore, je suis convaincu que seule une planification pourrait sortir la Russie de la crise profonde où elle se trouve.

[3] Ce n’est qu’à partir de la publication en 1911 de l’ouvrage fondamental d’Irving Fisher, The purshasing power of money, qu’il a été pleinement reconnu que le mécanisme du crédit aboutit à une création de monnaie.

[4] Comme les variations de la dépense globale dépendent à la fois de l’excès de la masse monétaire sur le volume global des encaisses désirées et des variations de la masse monétaire, le mécanisme du crédit a globalement un effet déstabilisateur puisqu’en temps d’expansion de la dépense globale la masse monétaire s’accroît alors que les encaisses désirées diminuent et qu’en temps de récession la masse monétaire décroît alors que les encaisses désirées s’accroissent.

[5] Les taux de croissance élevés des tigres asiatiques étaient mal interprétés. En fait, pour l’essentiel, ils résultaient du fait que ce économies étaient en retard par rapport aux économies développées et qu’une économie se développe d’autant plus vite qu’elle est en retard. Sur la démonstration de cette proposition tout à fait essentielle, voir mon ouvrage de 1974 « L’inflation française et la croissance. Mythologie et réalité », chapitre II, p. 40-45.

 

 

 

 

[6] Voir mon ouvrage, Combats pour l’Europe, 1994, Éditions Juglar

 

 

 

Maurice Allais: Il faut protéger le travail contre les délocalisations

Il faut protéger le travail contre les délocalisations
 
par Maurice Allais, prix Nobel d’économie
 
16 janvier 2010

« Tout libéraliser amène les pires désordres », constate le prix Nobel d’économie Maurice Allais, qui se définit comme « libéral et socialiste », préoccupé à la fois par « l’efficacité de la production » et de « l’équité de la redistribution des richesses ». Il est « fou d’avoir supprimé les protections douanières aux frontières », tonne-t-il, car le commerce international est un moyen et non une fin en soi : le « chômage résulte des délocalisations, elles-mêmes dues aux trop grandes différences de salaires... À partir de ce constat, ce qu’il faut entreprendre en devient tellement évident ! Il est indispensable de rétablir une légitime protection. » Déplorant la quasi unanimité en faveur de la mondialisation qui prévalait avant la crise, Maurice Allais dénonce « un pourrissement du débat et de l’intelligence, par le fait d’intérêts particuliers souvent liés à l’argent », et rappelle que malgré ses demandes répétées, les médias ont toujours refusé de donner la parole au seul Nobel d’économie français.

Par Maurice Allais, Marianne, 5 décembre 2009

Le point de vue que j’exprime est celui d’un théoricien à la fois libéral et socialiste. Les deux notions sont indissociables dans mon esprit, car leur opposition m’apparaît fausse, artificielle. L’idéal socialiste consiste à s’intéresser à l’équité de la redistribution des richesses, tandis que les libéraux véritables se préoccupent de l’efficacité de la production de cette même richesse. Ils constituent à mes yeux deux aspects complémentaires d’une même doctrine. Et c’est précisément à ce titre de libéral que je m’autorise à critiquer les positions répétées des grandes instances internationales en faveur d’un libre-échangisme appliqué aveuglément.

Le fondement de la crise : l’organisation du commerce mondial

La récente réunion du G20 a de nouveau proclamé sa dénonciation du « protectionnisme » , dénonciation absurde à chaque fois qu’elle se voit exprimée sans nuance, comme cela vient d’être le cas. Nous sommes confrontés à ce que j’ai par le passé nommé « des tabous indiscutés dont les effets pervers se sont multipliés et renforcés au cours des années » (1). Car tout libéraliser, on vient de le vérifier, amène les pires désordres. Inversement, parmi les multiples vérités qui ne sont pas abordées se trouve le fondement réel de l’actuelle crise : l’organisation du commerce mondial, qu’il faut réformer profondément, et prioritairement à l’autre grande réforme également indispensable que sera celle du système bancaire.

Les grands dirigeants de la planète montrent une nouvelle fois leur ignorance de l’économie qui les conduit à confondre deux sortes de protectionnismes : il en existe certains de néfastes, tandis que d’autres sont entièrement justifiés. Dans la première catégorie se trouve le protectionnisme entre pays à salaires comparables, qui n’est pas souhaitable en général. Par contre, le protectionnisme entre pays de niveaux de vie très différents est non seulement justifié, mais absolument nécessaire. C’est en particulier le cas à propos de la Chine, avec laquelle il est fou d’avoir supprimé les protections douanières aux frontières. Mais c’est aussi vrai avec des pays plus proches, y compris au sein même de l’Europe. Il suffit au lecteur de s’interroger sur la manière éventuelle de lutter contre des coûts de fabrication cinq ou dix fois moindres - si ce n’est des écarts plus importants encore - pour constater que la concurrence n’est pas viable dans la grande majorité des cas. Particulièrement face à des concurrents indiens ou surtout chinois qui, outre leur très faible prix de main-d’œuvre, sont extrêmement compétents et entreprenants.

Il faut délocaliser Pascal Lamy !

Mon analyse étant que le chômage actuel est dû à cette libéralisation totale du commerce, la voie prise par le G20 m’apparaît par conséquent nuisible. Elle va se révéler un facteur d’aggravation de la situation sociale. À ce titre, elle constitue une sottise majeure, à partir d’un contresens incroyable. Tout comme le fait d’attribuer la crise de 1929 à des causes protectionnistes constitue un contresens historique. Sa véritable origine se trouvait déjà dans le développement inconsidéré du crédit durant les années qui l’ont précédée. Au contraire, les mesures protectionnistes qui ont été prises, mais après l’arrivée de la crise, ont certainement pu contribuer à mieux la contrôler. Comme je l’ai précédemment indiqué, nous faisons face à une ignorance criminelle. Que le directeur général de l’Organisation mondiale du commerce, Pascal Lamy, ait déclaré : « Aujourd’hui, les leaders du G20 ont clairement indiqué ce qu’ils attendent du cycle de Doha : une conclusion en 2010 » et qu’il ait demandé une accélération de ce processus de libéralisation m’apparaît une méprise monumentale, je la qualifierais même de monstrueuse. Les échanges, contrairement à ce que pense Pascal Lamy, ne doivent pas être considérés comme un objectif en soi, ils ne sont qu’un moyen. Cet homme, qui était en poste à Bruxelles auparavant, commissaire européen au Commerce, ne comprend rien, rien, hélas ! Face à de tels entêtements suicidaires, ma proposition est la suivante : il faut de toute urgence délocaliser Pascal Lamy, un des facteurs majeurs de chômage !

Plus concrètement, les règles à dégager sont d’une simplicité folle : du chômage résulte des délocalisations, elles-mêmes dues aux trop grandes différences de salaires... À partir de ce constat, ce qu’il faut entreprendre en devient tellement évident ! Il est indispensable de rétablir une légitime protection. Depuis plus de dix ans, j’ai proposé de recréer des ensembles régionaux plus homogènes, unissant plusieurs pays lorsque ceux-ci présentent de mêmes conditions de revenus, et de mêmes conditions sociales. Chacune de ces « organisations régionales » serait autorisée à se protéger de manière raisonnable contre les écarts de coûts de production assurant des avantages indus a certains pays concurrents, tout en maintenant simultanément en interne, au sein de sa zone, les conditions d’une saine et réelle concurrence entre ses membres associés.

Un protectionnisme raisonné et raisonnable

Ma position et le système que je préconise ne constitueraient pas une atteinte aux pays en développement. Actuellement, les grandes entreprises les utilisent pour leurs bas coûts, mais elles partiraient si les salaires y augmentaient trop. Ces pays ont intérêt à adopter mon principe et à s’unir à leurs voisins dotés de niveaux de vie semblables, pour développer à leur tour ensemble un marché interne suffisamment vaste pour soutenir leur production, mais suffisamment équilibré aussi pour que la concurrence interne ne repose pas uniquement sur le maintien de salaires bas. Cela pourrait concerner par exemple plusieurs pays de l’est de l’Union européenne, qui ont été intégrés sans réflexion ni délais préalables suffisants, mais aussi ceux d’Afrique ou d’Amérique latine.

L’absence d’une telle protection apportera la destruction de toute l’activité de chaque pays ayant des revenus plus élevés, c’est-à-dire de toutes les industries de l’Europe de l’Ouest et celles des pays développés. Car il est évident qu’avec le point de vue doctrinaire du G20, toute l’industrie française finira par partir à l’extérieur. Il m’apparaît scandaleux que des entreprises ferment des sites rentables en France ou licencient, tandis qu’elles en ouvrent dans les zones à moindres coûts, comme cela a été le cas dans le secteur des pneumatiques pour automobiles, avec les annonces faites depuis le printemps par Continental et par Michelin. Si aucune limite n’est posée, ce qui va arriver peut d’ores et déjà être annoncé aux Français : une augmentation de la destruction d’emplois, une croissance dramatique du chômage non seulement dans l’industrie, mais tout autant dans l’agriculture et les services.

De ce point de vue, il est vrai que je ne fais pas partie des économistes qui emploient le mot « bulle ». Qu’il y ait des mouvements qui se généralisent, j’en suis d’accord, mais ce terme de « bulle » me semble inapproprié pour décrire le chômage qui résulte des délocalisations. En effet, sa progression revêt un caractère permanent et régulier, depuis maintenant plus de trente ans. L’essentiel du chômage que nous subissons -tout au moins du chômage tel qu’il s’est présenté jusqu’en 2008 - résulte précisément de cette libération inconsidérée du commerce à l’échelle mondiale sans se préoccuper des niveaux de vie. Ce qui se produit est donc autre chose qu’une bulle, mais un phénomène de fond, tout comme l’est la libéralisation des échanges, et la position de Pascal Lamy constitue bien une position sur le fond.

Crise et mondialisation sont liées

Les grands dirigeants mondiaux préfèrent, quant à eux, tout ramener à la monnaie, or elle ne représente qu’une partie des causes du problème. Crise et mondialisation : les deux sont liées. Régler seulement le problème monétaire ne suffirait pas, ne réglerait pas le point essentiel qu’est la libéralisation nocive des échanges internationaux, Le gouvernement attribue les conséquences sociales des délocalisations à des causes monétaires, c’est une erreur folle.

Pour ma part, j’ai combattu les délocalisations dans mes dernières publications (2). On connaît donc un peu mon message. Alors que les fondateurs du marché commun européen à six avaient prévu des délais de plusieurs années avant de libéraliser les échanges avec les nouveaux membres accueillis en 1986, nous avons ensuite, ouvert l’Europe sans aucune précaution et sans laisser de protection extérieure face à la concurrence de pays dotés de coûts salariaux si faibles que s’en défendre devenait illusoire. Certains de nos dirigeants, après cela, viennent s’étonner des conséquences !

Si le lecteur voulait bien reprendre mes analyses du chômage, telles que je les ai publiées dans les deux dernières décennies, il constaterait que les événements que nous vivons y ont été non seulement annoncés mais décrits en détail. Pourtant, ils n’ont bénéficié que d’un écho de plus en plus limité dans la grande presse. Ce silence conduit à s’interroger.

Un prix Nobel... téléspectateur

Les commentateurs économiques que je vois s’exprimer régulièrement à la télévision pour analyser les causes de l’actuelle crise sont fréquemment les mêmes qui y venaient auparavant pour analyser la bonne conjoncture avec une parfaite sérénité. Ils n’avaient pas annoncé l’arrivée de la crise, et ils ne proposent pour la plupart d’entre eux rien de sérieux pour en sortir. Mais on les invite encore. Pour ma part, je n’étais pas convié sur les plateaux de télévision quand j’annonçais, et j’écrivais, il y a plus de dix ans, qu’une crise majeure accompagnée d’un chômage incontrôlé allait bientôt se produire, je fais partie de ceux qui n’ont pas été admis à expliquer aux Français ce que sont les origines réelles de la crise alors qu’ils ont été dépossédés de tout pouvoir réel sur leur propre monnaie, au profit des banquiers. Par le passé, j’ai fait transmettre à certaines émissions économiques auxquelles j’assistais en téléspectateur le message que j’étais disposé à venir parler de ce que sont progressivement devenues les banques actuelles, le rôle véritablement dangereux des traders, et pourquoi certaines vérités ne sont pas dites à leur sujet. Aucune réponse, même négative, n’est venue d’aucune chaîne de télévision et ce durant des années.

Cette attitude répétée soulève un problème concernant les grands médias en France : certains experts y sont autorisés et d’autres, interdits. Bien que je sois un expert internationalement reconnu sur les crises économiques, notamment celles de 1929 ou de 1987, ma situation présente peut donc se résumer de la manière suivante : je suis un téléspectateur. Un prix Nobel... téléspectateur, Je me retrouve face à ce qu’affirment les spécialistes régulièrement invités, quant à eux, sur les plateaux de télévision, tels que certains universitaires ou des analystes financiers qui garantissent bien comprendre ce qui se passe et savoir ce qu’il faut faire. Alors qu’en réalité ils ne comprennent rien. Leur situation rejoint celle que j’avais constatée lorsque je m’étais rendu en 1933 aux États-Unis, avec l’objectif d’étudier la crise qui y sévissait, son chômage et ses sans-abri : il y régnait une incompréhension intellectuelle totale. Aujourd’hui également, ces experts se trompent dans leurs explications. Certains se trompent doublement en ignorant leur ignorance, mais d’autres, qui la connaissent et pourtant la dissimulent, trompent ainsi les Français.

Cette ignorance et surtout la volonté de la cacher grâce à certains médias dénotent un pourrissement du débat et de l’intelligence, par le fait d’intérêts particuliers souvent liés à l’argent. Des intérêts qui souhaitent que l’ordre économique actuel, qui fonctionne à leur avantage, perdure tel qu’il est. Parmi eux se trouvent en particulier les multinationales qui sont les principales bénéficiaires, avec les milieux boursiers et bancaires, d’un mécanisme économique qui les enrichit, tandis qu’il appauvrit la majorité de la population française mais aussi mondiale.

Question clé : quelle est la liberté véritable des grands médias ? Je parle de leur liberté par rapport au monde de la finance tout autant qu’aux sphères de la politique.

Deuxième question : qui détient de la sorte le pouvoir de décider qu’un expert est ou non autorisé à exprimer un libre commentaire dans la presse ?

Dernière question : pourquoi les causes de la crise telles qu’elles sont présentées aux Français par ces personnalités invitées sont-elles souvent le signe d’une profonde incompréhension de la réalité économique ? S’agit-il seulement de leur part d’ignorance ? C’est possible pour un certain nombre d’entre eux, mais pas pour tous. Ceux qui détiennent ce pouvoir de décision nous laissent le choix entre écouter des ignorants ou des trompeurs.

(1) L’Europe en crise. Que faire ?, éditions Clément Juglar. Paris, 2005.

(2) Notamment La crise mondiale aujourd’hui, éditions Clément Juglar, 1999, et la Mondialisation, la destruction des emplois et de la croissance : l’évidence empirique, éditions Clément Juglar, 1999.


Publication originale Marianne, via Etienne Chouard (pdf)