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jeudi, 17 janvier 2013

Dalla morte del pensiero critico nasce la democrazia totalitaria

Dalla morte del pensiero critico nasce la democrazia totalitaria

di Francesco Lamendola

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]


 

Il conformismo culturale e l’irreggimentazione del pensiero hanno raggiunto un livello così allarmante da lasciare ampio spazio all’ipotesi che tutto ciò non sia casuale, non sia dovuto “solo” ai meccanismi della società di massa e del relativo consumismo, ma che sia il frutto di un disegno globale ben definito e orchestrato nell’ombra da chi sa e può e vuole giungere al totale lavaggio del cervello dei cittadini-sudditi: una sorta di contro-iniziazione planetaria.

Il sospetto è rafforzato dalla logica del “cui prodest?” e da tutta una serie di indizi, ultimo dei quali l’irrompere, nella nostra lingua, di neologismi assolutamente privi di contenuto, ma presentati come auto-evidenti e, anzi, “sacri”, nel senso che il solo metterne in dubbio la legittimità suona alle masse indottrinate come una sorta di oltraggio agli dèi; neologismi il cui scopo è estendere sempre di più l’area del consenso intorno a slogan e parole d’ordine e attutire e addormentare sempre di più l’uso critico della ragione.

Prendiamo il caso del “femminicidio”, parola di nuovo conio che improvvisamente i media hanno sfornato e che si è imposta con la velocità dell’evidenza: ma una evidenza di strano tipo, in quanto non discussa e non vagliata in sede critica, non maturata nelle coscienze, ma calata dall’alto in maniera auto-referenziale ed equivalente a un mantra, a una giaculatoria liberatrice, contro la quale solo un blasfemo oserebbe sollevare delle perplessità.

Femminicidio, dunque, è la tendenza del maschio padrone e criminale ed assassinare le donne: la sua compagna, sua moglie, le sue figlie, sua madre: pare che il passatempo preferito degli uomini sia diventato quello di ammazzare le donne. È vero che, a volte, succede anche il contrario – possiamo raccontare un fatto di cui siamo personalmente a conoscenza, di una donna che ha ucciso con l’accetta suo marito mentre questi dormiva, ed è anche stata assolta per infermità mentale -, ma tali casi non contano, evidentemente. Ed é altrettanto vero che delitti passionali ce ne sono sempre stati, tutt’al più oggi la merce-notizia si vende meglio quando consiste di ingredienti sadici e truculenti: ma anche questo non ha importanza. Quello che conta è che la cultura femminista oggi imperante ha deciso che chi uccide una donna va punito due volte – una volta perché ha ucciso qualcuno, una seconda volta perché questo qualcuno era una donna; e tanto basta.

Certo, qualche anima ingenua potrebbe obiettare che, allora, bisognerebbe raddoppiare la pena anche per chi uccide un bambino, o per chi uccide un anziano indifeso, o per chi uccide un omosessuale - notoriamente vittima designata della omofobia, o per chi uccide una persona di colore – notoriamente vittima designata dei pregiudizi razziali, e via di seguito; e forse ci arriveremo, effettivamente. Tutto, tranne che parlare di “viricidio”: perché solo chi uccide un uomo, un uomo nel pieno delle forze, non merita un raddoppio della pena, né un particolare biasimo morale: in fondo, un uomo sa ben difendersi; dunque, perché calcare la mano sul suo assassino? Se l’assassino è una donna, poi, qualche buona ragione l’avrà pure avuta…

Quanto alle motivazioni di questo supposto incremento dei “femminicidi”, è chiaro che si tratta di una bieca reazione maschile al tentativo di emancipazione delle donne. Che le donne, non in quanto singole persone (chissà quanti casi di singole donne realmente maltrattate ci sono), ma in quanto genere femminile, possano avere una parte di responsabilità, non certo nelle violenze che subiscono, ma nel deterioramento dei rapporti con l’uomo e nella crisi delle coppie e delle famiglie, ebbene questo lo si può pensare, ma non lo si deve dire, perché dirlo equivarrebbe a esporsi alla gogna mediatica, come è capitato a quel tale parroco di una frazione di Lerici.

Non si può dire, in particolare, che le donne esagerano nel provocare sessualmente i maschi: non si può dirlo, perché è una verità scomoda e fastidiosa; e chi la dice, vien fatto passare per un fiancheggiatore di coloro i quali maltrattano e uccidono le donne; anche se non è affatto così, anche se si tratta solo di una constatazione oggettiva, che qualunque donna intellettualmente onesta - del resto - dovrebbe riconoscere.

Certo, c’è modo e modo di dire le cose; e poi bisogna vedere chi le dice e in che veste le dice: quel parroco, a quel che ci è dato di sapere, ha parlato in maniera rozza e inopportuna, su questo non c’è dubbio. Ma nella sostanza del discorso, siamo proprio sicuri che abbia torto? Che sia quel mostro che i media si sono affrettati a dipingere, auspicandone la sospensione a divinis o, quanto meno, decretandone una messa al bando morale da parte dell’intera società italiana, laica ed ecclesiastica? Noi non ne siamo così convinti.

Del resto, troppe volte si osserva come delle tesi in sé legittime, e talvolta perfino sacrosante, vengono deliberatamente equivocate e stravolte dai media; e come, inoltre, a sostenerle siano dei personaggi a dir poco goffi e maldestri, i quali sembrano far di tutto per rendere insostenibili delle affermazioni di puro buon senso. Vien da pensare -  a giudicar male si fa peccato, diceva Andreotti, ma ci si azzecca quasi sempre - che costoro siano, se non proprio degli infiltrati e degli agenti provocatori, quanto meno degli utili idioti per la causa di coloro i quali, stando nell’ombra, fanno di tutto per orientare l’opinione pubblica su determinate posizioni sociali, culturali e politiche.

Prendiamo il caso della Lega Nord. Essa ha interpretato, fra le altre cose, un legittimo disagio, un legittimo e giustificato timore della popolazione italiana nei confronti della immigrazione selvaggia e dell’aumento esponenziale dei reati legati al furto, alla rapina, allo spaccio di droga, alla prostituzione, alla violenza sessuale. I telegiornali nazionali ne parlano poco, ma le cronache locali della provincia italiana sono piene, ogni giorno, di fatti del genere, che vedono quali protagonisti, all’ottanta per cento, immigrati irregolari e anche regolari.

Non si può dirlo, però: si passa per razzisti. I nostri uomini politici e i nostri amministratori, nelle loro ville e villette dei quartieri residenziali, non sanno, letteralmente, cosa voglia dire vivere in un quartiere degradato dalla presenza di migliaia e migliaia di immigrati, parte dei quali si comportano bene e rispettano le leggi, ma molti dei quali, invece, si comportano malissimo e sono venuti nel nostro Paese con la specifica intenzione di delinquere impunemente. Quei signori non sanno cosa voglia dire vivere in strade e quartieri dove i ladri hanno passato a setaccio tutte le case, tutti gli appartamenti, rubando e non di radio picchiando e terrorizzando gli inquilini. I nostri uomini politici “progressisti” si preoccupano, e giustamente, del sovraffollamento delle carceri, ma non hanno una parola da spendere per quei milioni di loro concittadini che sono costretti a vivere nell’insicurezza e nella paura, a causa di una disordinata e aggressiva immigrazione che procede senza regole e senza filtri da parte delle pubbliche autorità.

Sorge un partito politico che, fra le altre cose, parla di questo problema; ahimé: ne parla in termini inaccettabili, con demagogia, con toni rozzi e brutali: compaiono perfino dei deputati che indossano delle magliette che irridono la religione islamica e la offendono senza ragione, così, per pura stupidità. Viene proprio da pensare che tanta idiozia non sia frutto del caso. Sia come sia: il fatto che la protesta contro l’immigrazione selvaggia sia così male orchestrata, che sia così sgangherata e triviale, la rende automaticamente poco seria, la squalifica, fa sì che essa non venga presa sul serio dai mass-media, i quali – anzi - si accaniscono nel descrivere come barbari quei politici e quegli elettori. Nessuno, a quanto pare, nei salotti del politicamente corretto, si domanda onestamente se quelle voci non vadano prese sul serio; se il malessere dei cittadini non abbia un fondamento reale: è tale il ricatto ideologico, che ciascuno preferisce chiudere occhi ed orecchi davanti all’evidenza, piuttosto che venir sospettato di sentimenti razzisti.

È così che la distruzione del pensiero critico prepara la strada al totalitarismo democratico, che è solo il paravento dei poteri occulti che agiscono nell’ombra: banche, massoneria, multinazionali, agenzie di rating. La strategia è quella del cane di Pavlov: lanciare certe parole d’ordine e far sì che le masse reagiscano in maniera emotiva, viscerale, secondo slogan e frasi fatte, senza un barlume di pensiero critico: lo slogan, infatti, è la negazione del pensare.

Si pronuncia un certo slogan, e il pubblico ammaestrato reagisce con la salivazione: non pensa, non discute, non vuol sentir ragioni: sa di avere la verità in tasca, forte del fatto che milioni di uomini-massa la pensano (si fa per dire) esattamente come lui; o, per essere più esatti, reagiscono allo stimolo esattamente come lui. Non solo: se qualcuno mette in discussione la parola-totem, lo slogan sacro, allora vuol dire che questo tale, oltre ad essere empio, è anche superbo: perché si permette di pensare a modo suo, si permette di disprezzare le opinioni della massa.

Nella reazione pavloviana, dunque, un ruolo importante è svolto da quell’ingrediente antichissimo e sempre efficace che è l’invidia: il veleno dell’invidia per chi pensa di essere migliore, e probabilmente lo è; ma questo va contro i dogmi del totalitarismo democratico, dove tutti sono uguali, DEVONO ESSERE UGUALI, anche nell’intelligenza: come si può ammettere che il mio vicino capisca le cose meglio di me, se non può permettersi neanche il fuoristrada che possiedo io, né le vacanze alle Seychelles, che io non mi faccio mancare? Che senso hanno avuto la Rivoluzione francese e tutto quel che è venuto dopo, se devo riconoscere che il mio vicino sia più intelligente di me? I mediocri possono ammettere, al massimo, la superiorità teorica di qualcuno che è lontano, che non vedono fisicamente, o di qualcuno che è morto e sepolto: ah, come era bravo Van Gogh; che genio impareggiabile, era: peccato che, quand’era vivo, gli toccava vendere le sue tele per un piatto di minestra.

Così vanno le cose in regime di democrazia totalitaria: il “popolo” ha sempre ragione e gli slogan del popolo sono sempre veritieri; anche se a coniarli non è stato il “popolo”, ma qualcun altro; anche se a metterli in circolazione sono stati i media, che fingono di inchinarsi davanti a sua maestà il popolo, lo blandiscono, ne cantano le lodi: come è intelligente il popolo, come è bravo e buono e bello il popolo; ma i poteri dai quali sono finanziati e organizzati, lo disprezzano in maniera radicale, lo usano come un gregge da portare qua e là, da mungere, da tosare, da sfruttare in ogni maniera possibile; sempre, però – questo è il segreto – fingendo di carezzarlo, di ammirarlo, di lodare anche le sciocchezze più macroscopiche che escono dalla sua bocca.

Basta osservare come si comportano i conduttori televisivi allorché, raramente a dire il vero, si trovano davanti al microfono qualcuno che parla in maniera critica e assennata, che non ripete le solite formulette preconfezionate, che dice qualcosa di scomodo e tale da suscitare la riflessione altrui: lo zittiscono, lo insultano, si dissociano solennemente, dicono che egli solo porta la responsabilità delle cose che sta dicendo, che esse non rispecchiano assolutamente il punto di vista di quel telegiornale o di quella rete televisiva; e poi, naturalmente, si guardano bene dall’invitarlo una seconda volta. Anzi, per essere sicuri che non si ripetano certi incidenti, provvedono a imbastire un linciaggio mediatico per direttissima: estrapolano alcune sue frasi, gli fanno dire quello che non aveva detto, tirano fuori, persino, qualche episodio – vero o non vero, o magari gonfiato ad arte – del suo passato, che suoni non troppo edificante: e voilà, il gioco fatto, il guastafeste è messo a tacere una volta per sempre.

Quel prete di Lerici, per esempio: non era un ex militare dalla sberla facile? Non aveva preso a sganassoni un povero barbone? E allora: che aspetta a dimettersi, a lasciare la tonaca per manifesta indegnità? Si è permesso di sostenere che troppe donne, invece di occuparsi della famiglia, e specialmente dei figli, dedicano le loro migliori energie per rendersi sexy e provocanti: orrore, peccato di lesa maestà! Ha detto che, quando un matrimonio va in pezzi, la colpa non è sempre dell’uomo, di questo energumeno brutale e insensibile, ma qualche volta anche delle gentili signore: orrore, peccato di lesa maestà!

Il problema è che, quando le riflessioni di buon senso vengono sistematicamente zittite e criminalizzate, il malessere sociale aumenta, perché non trova alcuna valvola di sfogo, alcun luogo idoneo per essere ascoltato, magari anche criticato, ma soprattutto discusso. È già successo, nella storia recente: fascismo, nazismo e comunismo non erano unicamente e totalmente – non ai loro rispettivi esordi, quanto meno - delle ideologie criminali, ma esprimevano anche delle istante legittime e perfino sacrosante. Respinte con orrore dalla società dei benpensanti, si sono estremizzati, sono degenerati, sono diventati qualcosa di politicamente devastante – e ne è seguito quel che ne è seguito. Ma chi studia seriamente le loro origini, scoprirà facilmente che, al principio, in quelle ideologie vi erano molte cose condivisibili, molte cose di puro buon senso, molte cose di semplice onestà e di giustizia istintiva, almeno in quel contesto storico.

Si ha come l’impressione che i poteri forti, nascosti nell’ombra e tuttora saldamente alla guida del mondo, abbiano fatto del loro meglio per respingere quei movimenti nel sottosuolo, per esasperarli, per estremizzarli con il loro disdegno, con il loro sarcasmo, con il loro rifiuto pregiudiziale, orchestrando ad arte le campagne di disinformazione dei mass-media a livello internazionale. Tanto che, ancora oggi, a parecchi decenni di distanza, è pressoché impossibile parlare di fascismo, nazismo e comunismo senza fare gli scongiuri, senza imprecare contro di essi, senza maledirli in saecula saeculorum, radicalmente e senza appello. Eppure il fascismo non è stato solo bastone e olio di ricino, così come il nazismo non è stato solo Auschwitz, né il comunismo, solo i processi di Mosca ed i gulag siberiani. E senza pensare che anche la democrazia totalitaria ha commesso e continua a commetter dei crimini, al confronto dei quali impallidiscono perfino quelli dei totalitarismi espliciti: dalle bombe atomiche sganciate sul Giappone, alla guerra chimica e batteriologica condotta impunemente nel Vietnam, al milione di morti in Iraq e al milione di morti in Afghanistan, dei quali nessuno parla mai, perché tutti pensano sempre e solo alle 3.500 vittime americani delle Twin Towers – ammesso e non concesso che queste ultime siano state provocate dai terroristi islamici.

Attenzione, dunque: quando i media sfornano neologismi ad orologeria, bisogna raddoppiare lo stato di allerta: significa che la democrazia totalitaria – o meglio, chi si nasconde dietro di essa - si prepara ad un ulteriore giro di vite nel lavaggio del cervello ai nostri danni…

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mardi, 01 mars 2011

The Culture of Critique & the Pathogenesis of Modern Society

The Culture of Critique & the Pathogenesis of Modern Society

Michael O'Meara

Ex: http://www.counter-currents.com/

Reinhart Koselleck
Critique and Crises: Enlightenment and the Pathogenesis of Modern Society
Cambridge: MIT Press, 1988

La politique, c’est le destin. — Napoleon

Koselleck’s Critique and Crisis (1959) is one of the great dissertations of the 20th-century German university system.

It cast new light not just on the past it re-presented, but on the present, whose own light informed its re-presentation.

This was especially the case with the potentially cataclysmic standoff between American liberalism and Russian Communism and the perspective it gave to Koselleck’s study of the Enlightenment origins of the Modern World.

How was it, he asked, that these two Cold War super-powers seemed bent on turning Europe, especially Germany, into a nuclear wasteland?

The answer, he suspected, had something to do with the moralizing Utopianism of 18th-century rationalism, whose heritage ideologically animated each hegemon.

1. The Absolutist Origins of the Modern State

Koselleck was one of Carl Schmitt’s postwar “students” and his work is indebted to Schmitt’s The Leviathan in the State Theory of Thomas Hobbes (1938).

Like his mentor, Koselleck saw modern ideologies, despite their atheistic rejection of faith, as forms of “political theology” that spoke to the faith-based heart that decides how one is to live.

In this sense, the self-proclaimed Enlightenment of the 18th century was a philosophical rebuttal to political Absolutism, whose institutional response to the breakdown of medieval Christendom occurred in ways that frustrated the liberal aspirations of the rising bourgeoisie.

In the century-long blood-letting that had followed the Protestant critique of medieval Catholicism, Europe’s ecclesiastical unity and its traditional social supports were everywhere shattered.

As the old estates broke down and old ties and loyalties were severed, there followed a period of anarchy, in which Catholics and Protestants zealously shed each others blood in the name of their contending truths.

In this sectarian strife — this bellum omnium contra omnes — where ecclesiastical authority ceased to exist and each man was thrown back upon his individual conscience, morality became a banner of war and the public observance of morality a justification for murdering Europeans with dissenting beliefs.

It was the advent of the Absolutist State system, philosophically anticipated in Hobbes’ Leviathan, that brought these bloody religious conflicts to a halt, establishing a peaceful basis to European life — by “privatizing” morality, secularizing authority, and depriving individual mentalities of political effect.

The neutralization of religious belief that came with the Absolutist secularization of the State would secure conditions requisite to the citizen’s peaceful pursuit of his private will or gain, as private ideals ceased to be obligatory duties and the State became “the artifact of atomized individuals.”

Absolutist regimes succeeded in this way in “reducing measures of contingency, conflict, and compulsion” to the status of differences of opinion — bare, in effect, of religious significance, as “external compulsion” imposed restraints on the individual’s “inner freedom.”

The historians’ designated Age of Absolutism and Enlightenment begins, then, with the Peace of Westphalia in 1648, which brought not just the Thirty Years War in the German-speaking lands, but all Europe’s religious wars to an end (except on the borderlands of Ireland and the Balkans) — and ends only with the advent of another European civil war, which opened with the liberal revolutions of 1776/1789 and closed with the English triumph over Napoleon in 1814.

History, though, rarely conforms to the tidy categories scholars make of it.

Unlike the Continent, England went from religious war to Absolutism and then to bourgeois revolution and finally to a bourgeois Restoration all in the course of a half-century (c. 1642–1688), experiencing an intense though only brief period of Absolutism.

England’s expanding maritime power, opened to all the world it dominated, had, in fact, merely a transitional need of Absolutism, for it would soon become the first implicitly liberal of the “modern” regimes.

Koselleck focuses on the longer, more pronounced Continental developments, treating England as a variant of the larger trend.

In his depiction, the Absolutist State system emerging after the Treaty of Westphalia was based on a transformation of political authority — which divided the “public sphere” into two sharply separate domains: That of political authority proper (the sovereign State) and that of society, conceived as a subaltern realm of individual “subjects.”

The subject’s moral conscience in this system was subordinated to the requirements of political necessity — what Hobbes called “reason.”  This restricted morality to the social realm of private opinion, depriving it of political effect.

With Absolutism, the public interest, about which the sovereign alone had the right to decide, ceased to lay under the jurisdiction of the individual’s moral conscience.

The Continent’s new monarchical States — with Louis XIV’s France the model of the others — would govern according to a raison d’état (Staatsräson), which made no reference to religious considerations.

Law here was severed from special interests and religious factions, becoming part of a domain whose political decisions — ideally — transcended “Church, estate, and party.”

“To traditional moral doctrines, [Hobbes] opposes one whose theme is political reason.”

Persecuting churches and religiously bound social fractions were hereby forced to give way to the sovereign authority of the Absolutist monarch, who recognized no higher authority than God Himself.

As Absolutist peace took priority to faith, the individual subject — previously situated in a loose medieval hierarchy, imbued with certain corporate rights and responsibilities — was transformed into an apolitical subject.

He had, as such, to submerge his conscience to reasons of State — to reasons necessary for maintaining the peace.

This privatization of morality dictated by the State’s secularization was not directed against religion per se, but against a religious conscience whose political claims, in a period of general breakdown, threatened war.

What the Absolutist State did — and what Hobbes theoretically legitimated in the Leviathan — was to transform the individual’s conscience into a matter of “opinion,” of subjective belief, separate from politics — and thus from the political reasons of the State.

This was accomplished by making the public interest the prerogative of the sovereign, not that of the individual’s religious conscience, for the latter inevitably led to religious strife.

In this secular political system, State policy and laws became the sole concern of the sovereign monarch, who stood above religion, anchoring his laws not in a higher transcendence, but in State imperatives.

In Hobbes’ famous formulation: “Laws are made by authority, not by truth.”

Hereafter, State policy and laws would be legislated by reasons of State — not the moral conscience and not self-interest and faction.  For the State could fulfill its function of securing peace and maintaining order only if individuals ceded their rights to the sovereign, who was to embody their larger welfare.

Contested issues were thereby reduced to differences of opinion that could be resolved by reasons of State.

Through Absolute sovereignty, it was possible again to create an internal realm of peace, separate from other Absolutist State systems, each of which possessed a similar peaceful interior, where the individual was free to believe whatever he wished as long as no effort was made to impose his “private” belief on the public, whether Catholic or Protestant.

This would keep religious fanaticism from trespassing on domestic tranquility and, at the same time, guarantee the State’s integrity.

Among Absolutist States, relations remained, of course, that of “a state of nature” — for each upheld and pursued policies based on their own rational sense of self-interest (raison d’état).

Conflict and war between Absolutist States were nevertheless minimized — not just by the fact that they accepted the integrity of the other’s moral conscience — but also by a sense of sharing the same Christian civilization, the same standards of significance and style, the same general, interrelated history that distinguished them from non-Europeans.

On this basis, the community of European States after 1648 grew into a family of sovereign powers, each respectful of the others’ domestic integrity, each of whose kings or queens shared the blood of other royal families, each of whose wars with other Europeans was governed by a jus publicum europaeum.

2. The Culture of Critique

It was the failure to comprehend the nature of the Absolutist State system (its avoidance of divisive political questions of faith and belief) that gave rise to the Enlightenment and its culture of critique.

For once the religious wars came to an end and authority was secularized, European society “took off.”

By the time Louis XIV died in 1715, the bourgeoisie, formerly an important but subordinate stratum of medieval European society, had become the chief economic power of an 18th-century society more and more dependent on its economic prowess. Made up of “merchants, bankers, tax lessees, and other businessmen” who had acquired great wealth and social prestige, this rising class (whose deism and materialism took “political” form in liberalism’s scientistic ideology) was nevertheless kept from State power and powerlessly suffered monarchical infringements on its monied wealth.

Resentful of State authority, the intelligentsia of this rising class took its stand in the private moral realm, which the Absolutist State had set aside for the subject and his moral conscience.

Through this breech between the public and the private, the chief ideologue of this rising bourgeoisie, John Locke, would step. His Essay Concerning Human Understanding – “the Holy Scripture of the modern bourgeoisie” — helped blur the boundary between moral and State law, as the former assumed a new authority and the distinction between the two diminished.

Pace Hobbes, Locke argued that bourgeois moral laws (now divorced from religion and anchored in rationalist notions of self-interest devoid of transcendental reference) had arisen in the human conscience, which the State had exempt from interference. As such, the citizen had a right to pass moral judgements on the State.

Such judgements, whatever the motive, eventually made State law dependent on the consent or rejection — the rule, in effect — of the bourgeoisie’s allegedly “objective” opinion.

In this situation, the bourgeois view of virtue and vice — its “religion of technicity” — took on a political charge, superseding the realm of private individual opinion, as it became “public opinion.”

At the same time, bourgeois critics favored the risk-free sphere of the unpolitical private realm, where they sought to dictate policy. Instead, then, of forthrightly challenging the underlying metaphysical principles of the Absolutist order, they framed their defining metaphysical identity (matters of faith — in this case their godless theology) in moral and economic terms devoid of political responsibility.

Bourgeois morality, not the State’s “reason,” proceeded in this way to take hold of the public — society — and set the standard for the “moral value of human action.”

This opened the way to a reconfiguration of the Absolutist relationship between morality and politics.

The public realm in Locke’s bourgeois philosophy was accordingly re-conceived as a social realm of individual consciences and this realm’s opinion as the “law” that was to bind the public.

Bourgeois morality, as such, not only entered, but soon conquered society, as its private views rose to that of public opinion.

Few, moreover, would be able to resist the pressure of its judgment.

“Reasons of State” were henceforth subject to the secular, calculating “reason” of the bourgeoisie — as “reason” ceased to be the avoidance of civil war and became the self-interest of the rationalist acting individual.

This made society increasingly independent of the State, just as State laws were increasingly subject to the “empowering” moral (and economic) judgments of society.

In the course of the 18th century, the bourgeois as citizen would assume, through his culture of critique, the “rank of a supreme tribunal” — ultimately passing judgment on the State (though doing so safely removed from the day-to-day imperatives of the political realm).

In England, following the oh-so Glorious Revolution of 1688 (a terrible, fateful year, with more to follow, in Irish history), the Whig bourgeoisie, through Parliament, became dominant, entering into an alliance with the constitutionally-bound monarch (William of Orange).

On the more religiously polarized continent, where Absolutist States had a greater role to play, the antithesis between State legislation and bourgeois secular morality (rooted in Protestantism’s critical essence) assumed a different, more antagonistic character.

This continental polarization of morals and politics — compounded by the growing social weight of the bourgeoisie and the discontent generated by its political disenfranchisement — grew in the course of the 18th century, as the bourgeoisie increasingly assumed the leadership of “society.”

Its moral critique of the State and of the ancien régime — a critique posed in secular and rationalist, rather than Christian terms — is what is known as the “Enlightenment,” that metapolitical “culture of critique,” whose light allegedly emanated from the bourgeoisie’s rational conscience (which was modeled in many ways on that of the Jews, for it was based on the dictates of money and its unpolitical affirmation of the private).

3. The Crisis of the Old Order

“When and whenever [men] are subjects without being citizens, they inevitably endow other concerns and pursuits—economic, social, cultural—with an independent and hence rival authority.” This was the great failing of Absolutism.

In such a situation, the voluntary associations of the bourgeoisie—Masonic lodges, salons, clubs, coffee-houses, academies, sociétés de pensées, the “Republic of Letters”—became rival centers of moral authority and eventually rival models of political authority.

The criticism of these bourgeois organs sought to “test” the validity or truth of its subject, making reason a factor of judgement in its process of pro and con.

Bourgeois judgements critical of the political system set off, in turn, a crisis threatening the existing State.

As scientific materialists, armed with a naive analytic-empiricist epistemology, such bourgeois critics waged their subversive campaign with no appreciation of existing political realities or the imperatives and limits these realities imposed. This would make their moral crusade unrealistic, Utopian, unconcerned with the “contingency, conflict, and compulsion” that occupies and defines the political field.

Their Utopian proposals (their anti-political politics) constituted, as such, no actual political alternative, based as they were on a purely formal, abstract understanding of the political realm, which it subjected to the individual’s moral conscience.

But once the private moral realm started to impinge on the political sphere of the Absolutist State, the State itself was again called into question.

First unconsciously and then increasingly consciously, the bourgeois Enlightenment applied its Utopian and ultimately hypocritical standards to the State, whose political imperatives were ignored rather than recognized for what they were—so as not to complicate its own geometrical schemes of reform.

The Enlightenment, it followed, was wont to see itself in moral terms, not political—not even metapolitical—ones.

This self-deceiving politics could only end in ideological excess and terror—for the sole way to realize its Utopian political theology would be by forcing others to accept and submit to it.

The result, Koselleck concludes, was the advent of the modern condition—this “sense that we are being sucked into an open and unknown future, the pace of which has kept us in a constant state of breathelessness ever since the dissolution of the traditional ständische societies.”

The turbulent “tribune of reason” bequeathed by the Enlightenment aimed, moreover, at every sphere of human endeavor—not just the Absolutist State, traditional Catholic Christianity, or the numerous corporate restraints inhibiting the market.

Everything historically given was, as such, to be re-conceived as a historical process that had to be re-directed, reformed, and re-planned, as the dictates of fate gave way to the rationalist obliteration of political aporia (i.e., the impasses or challenges posed by exceptional situations determined only by the sovereign).

Through its Règne de la Critique, the bourgeoisie (as prosecutor, judge, and jury) subjected the State to an enlightened conscience that debunked its “rationality” and increasingly advocated, or implied, its replacement.

With this rationalist critique of Absolutism came an unfolding philosophy of history—which promised a victory that was to be gained without struggle or war, that applied to all mankind, and that would bring about a better, more rational, and peaceful future—if only “reason” (i.e., bourgeois interests) was allowed to rule.

Through this critique, politics—the tough decisions fundamental to human existence—was dissolved into an Utopian project indifferent to the historical given. Everything, it followed, was subject to criticism, nothing was taboo—not the “order of human things,” not even life itself would be spared the alienation that came with the critic’s unpolitical reason.

Then, as the critic assumed the right to subject the whole world to his verdict, acting as “the king of kings,” criticism was “transformed into a maelstrom that sucks the present from under the feet of the critic”—for his criticisms amounted to an endless assault on the present in the name of a far-off, but allegedly enlightened future.

4. Modern Pathogenesis

At the highest level, Koselleck offers “a generic theory of the modern world”—one that seeks to explain something of our age to us.

In his view, criticism engendered crisis, calling the future into question.

The Enlightenment’s culture of critique could, however, only culminate in revolution—a revolution whose new order would privilege the rich and powerful (and, in time, the Jews).

By subordinating law to morality, ignoring the differences that divide men over the great questions of existence, the liberal State born of Enlightenment culture stripped sovereignty of its power.

Henceforth bourgeois morality became the invisible framework of the State, as sovereign authority was changed into an act of persuasion and reason—and the essence of politics (no longer the polemic over fundamental problems of human existence) became the non-political rule of a discursive bourgeoisie indifferent to matters of faith and desirous of a fate-less society without a sovereign State.

As social and political realities were indiscriminately mixed and subjected to the invisible opinion of the bourgeois public, based on an ostensively objective reason, everything failing to accord with that opinion became an injustice, subject to reform.

Society here assumed the right to abrogate whatever laws it wished, inadvertently establishing a reign of permanent revolution.

Refusing to recognize the State’s amoral (rather than immoral) character, the emerging bourgeois political system—with its culpablizing, but “value free” politics and its civil ideal taken as the universal destiny of all humanity—not infrequently had to resort to naked force to realize its Utopia: the terror and mass killings that followed 1789, the nuclear holocaust inherent in the Cold War, the on-going, unrelenting destructuration of the local and global today.

The consequence has been liberalism’s non-political State (whether in its 19th-century guise as a Night Watchman State or in its 20th-century Nanny State form). This State replaced politics with morality, tradition with planning, disagreements with a cold indifference to all that matters. It became thus a legal order, a Rechtsstaat, supposedly unattached to any constituting system of ascription or belief, and thus beyond any “exception” that might make visible the actual basis of bourgeois rule.

In this situation, where politics were negated and political problems were reduced to “organizational-technical and economic-sociological tasks,” the world was emptied of “seriousness” and turned into a vast realm of entertainment, where the bourgeois was allowed to enjoy the fruits of his acquisitions.

With liberalism, then, politics ceases to be a destiny and becomes a technique hostile to all who refuse its philistine philosophy of history—for the linear notion of progress inherent in this philosophy undermines and “reforms” everything that has historically ensured the integrity of white life.

Source: TOQ Online, Dec. 24, 25, & 26 2009

vendredi, 24 septembre 2010

Interview: Anarcho-Primitivist Thinker and Activist John Zerzan

Interview: Anarcho-Primitivist Thinker and Activist John Zerzan

By Alex BIRCH

Ex: http://www.corrupt.org/

Anarcho-Primitivist Thinker and Activist John ZerzanJohn Zerzan is one of the leading advocates of the anti-civilization movement, communicating through speech, literature and action that modern society is unsustainable and harmful to our psychology and freedom. Following in the footsteps of Theodore Kaczynski, Zerzan is a radical anarcho-primitivist and believes that we must get rid of civilization itself, returning to a very simple lifestyle close to nature. His ideas confront commonly held beliefs about primitive people and about our path towards progress.



When was the first time you seriously began to question modern civilization?

I began to question civilization by the early '80s. Began the route to this in the '70s when I was looking at the beginnings of industrialism in England, which led to certain conclusions about the nature of technology (that's it's always about values, never neutral). This went on to thinking about division of labor and soon I was confronted by the nature of civilization. About when Fredy Perlman was making similar conclusions.

Most people today would agree that we live in troubled times, but few would dare to claim the system is fundamentally flawed. What makes you defend the radical viewpoint that we cannot reform civilization to better meet our needs and the future health of our planet?

Freud saw civ [Editor's note: civilization] as the cause of neurosis (Civ and its Discontents), Jared Diamond called domestication (the basis of civ) "the worst mistake humans ever made." It isn't so hard to come to a radical conclusion about it; what is harder is to project an alternative.

A big part of your criticism against civilization is that it gives birth to hierarchies and inequalities. Is it possible for humans to completely get rid of social power structures?

I think it's possible to get rid of the structures; afterall. Homo didn't seem to need them for more than two million years. Power structures emerge quite recently really. That is with domestication, followed swiftly by civ.

Kaczynski arrestedGerman anthropologist Hans-Peter Dürr made a study during the 80’s, which described primitive tribes in modern time displaying extreme social guilt over nakedness and sexuality. Aren’t there other countless examples of primitive tribes where social and cultural norms uphold power and gender structures as part of everyday life?

Primitive is a fairly useless term. The watershed is whether or not people practice some domestication. This sounds simplistic but it holds true universally. Think of a behavior or attitude that we might call negative. Did it exist before domestication? No is the simple answer.

Theodore Kaczynski rejected leftism, because he believed it would inevitably support collectivism, and thus, the growth of large-scale societies. Do you agree with him or have you chosen a different ideological path?

I do agree with that. I am anti-leftist. ('Post-leftist' is a phoney term signifying about nothing.)

Kaczynski also famously claimed that technology creates incentive for its own continued growth. Is technology a necessary evil, or is primitive technology in small-scale communities acceptable, as long as it doesn’t develop into industrial forms?

Tools are fine, that which has little or no division of labor/specialization. Systems of technology are a 'necessary evil' if you want eco-disaster and barren techno-cultures (like this one).

Let’s say we had the possibility of returning to local, self-sustaining communities tomorrow. Would we be able to regulate or prevent communities to unite and begin developing better technology and more advanced lifestyles?

Given what we know about the bad results of political and technological development I would think that people would not want to replicate that path.

IndustrialismYou’ve said that the “symbolic thinking” of modern man, including language, mathematics and time, limits and oppresses our freedom. What do you believe led up to the development of these things—why did humanity choose civilization culture and not primitive culture? Do we have a choice at all?

My guess is that the very, very slow movement of division of labor crept up on humans and set the stage for domestication. All of society moves along together so that it is hard to reverse things - which is a big reason technology never goes backward. The whole question of the symbolic is connected, I think, to the movement of alienation. Unless it's just a coincidence that both seemed to have come along together.

Kaczynski argues that we need to destroy key elements of industrial society in order to return to a pre-industrial order. Do you believe this is realistically possible, and if so, are there ethical limits to radical activism against the current order?

I think the elements need to be destroyed but if the population wants technology it will likely, I'm afraid, simply be re-installed. So the challenge is deeper than just physically destroying the stuff. The limits of militancy would seem to be determined in terms of how serious the situation is in one's estimation. That is people who are shocked by radical acts are basically those who feel that the dominant order is mainly sound and healthy.

Do you believe green anarchists are organized enough to be able to overthrow the current system and replace it with your ideal vision, or do anarcho-primitivists need to align themselves with other anti-globalist groups in order to grow more powerful?

What other 'anti-globalist' groups, is one question. Where are leftist groups, for instance, anti-globalization? They want to reform it not get rid of it - because industrial existence, mass society, is fine with them. But a-p folks [Editor's note: anarcho-primitivists] are nowhere potent enough yet to be decisive against it.

Tribal communityWhat changes do you want to see being implemented as a part of reducing the negative impacts of globalization?

Abolition of globalization ,in favor of radically decentralized, face-to-face community somewhat along the lines of band society, which obtained for thousands of generations.

Some people might compare your views with that of Rousseau. Isn’t there a danger in romanticizing “the wild man” against “the modern man,” imposing a romantic picture of what’s it like to live a primitive lifestyle?

Romantizing or idealizing life outside of domestication/civlization is not a good idea and the road there is not likely to be a picnic. But what are the choices? Continuing on a path of suicide, genocide, ecocide?

The current ecological crisis is beginning to scare many. Is humanity by nature an irresponsible species, or what motivates us to value profit and greed over long-term health for the environment and ourselves?

No, not by nature. Again, consider that war, hierarchy, eco-destruction, the systematic objectification of women, religion, work, etc etc. are products of domestication/civ and that people - who were cooking with fire 2 million years ago -did fine without that exalted development.

John ZerzanDo you believe a collapse of the globalist order is inevitable, or is there a possibility for humanity to unite its best of minds and choose a different path?

I am actually hopeful that as reality continues to present itself unmistakably that there could be a conscious choice in favor of a sane existence. That of course is what I am working toward.


Visit John Zerzan's site at http://www.johnzerzan.net/ for more information.

dimanche, 28 février 2010

Salauds de populistes?

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Salauds de populistes?

Ex: http://unitepopulaire.org/

« Certains journalistes, intellectuels ou dits tels, et autres intervenants de circonstance sortent du bois pour dénoncer le populisme. Mais voilà, le peuple a pris  la tangente et n’obéit plus. Alors que fait-on ? On parle des horreurs que peut entraîner cet affreux populisme. En direct de Paris, un parlementaire suisse, invité d’urgence par  notre radio, nous avertit gravement que le populisme peut conduire au totalitarisme. Un écrivain, incendiaire de chalet, allume un autre bûcher : le populisme n’est jamais aussi dangereux que lorsqu’il touche même les intellectuels. Nous voilà avertis : c’est un devoir de dénoncer, et violemment, ce populisme. Organisons-nous en clubs de vrais Suisses, créons des cercles kreisiens  qui voient le racisme partout ! Que le tocsin sonne, réveillons cette populace qui ne mérite que haine et mépris ! […]

Le populisme n’est rien de tout cela. Il existe des travaux remarquables sur ce phénomène. Quel média en fera une série, pour essayer de comprendre plutôt que de donner libre cours à la haine du haut envers le bas ? Ce sont les problèmes sociaux graves non résolus dont souffrent les couches populaires, et non l’élite bien lovée, qui débouchent sur le populisme. Mais ces problèmes ont été tus, car gênants pour la bien-pensance jusqu’à ce qu’ils deviennent insupportables pour ceux qui les subissent quotidiennement, et depuis des décennies. Alors ils votent “subitement” par dizaines  de milliers, même à Genève, pour ceux qui prétendent régler ces problèmes en une fraction de seconde, en désespoir de cause.

Qu’ont fait personnellement ces dénonciateurs hautains pour participer à la résolution de ces problèmes ? Rien, puisqu’ils n’osaient même pas en parler. Et là ils sortent du bois, avec quel effet? Ils vont renforcer la rancœur, toujours bien au chaud.

J.-F. Revel  résumait, il y a vingt ans déjà, le problème : les politiciens et les intellectuels qualifient avec mépris de populistes les mouvements politiques qu’ils n’ont pas senti venir. J’ajoute: et pour cause. »

 

Uli Windisch, Le Nouvelliste, 11 janvier 2010

mercredi, 25 novembre 2009

Pour sortir de l'hyperconsommation

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Pour sortir de l'hyperconsommation

Ex: http://unitepopulaire.org/

« La définition du bien-vivre a profondément changé au cours de ces dernières années, de même que l’importance accordée à la réussite économique et à la consommation ostentatoire. Que faut-il changer aujourd’hui ? Selon moi, il faut éradiquer ou, à tout le moins, largement tempérer cette obsession de l’achat qui est devenue le principe organisateur de la vie occidentale. […] Le lien avec la crise économique actuelle est évident. Dans une culture où l’envie impérieuse de consommer domine la psychologie des citoyens, les gens sont prêts à tout pour se donner les moyens d’acheter : trimer comme des esclaves, faire preuve de rapacité au travail et même enfreindre les règles pour maximiser leurs gains. C’est également pour cela qu’ils achètent des maisons au-dessus de leurs moyens et multiplient les crédits. On peut dire sans risque de se tromper que l’hyperconsommation a elle aussi joué un rôle dans le désastre économique. Toutefois, il ne suffit pas de la pointer du doigt pour la faire disparaître du cœur de nos sociétés. Il faut la remplacer par quelque chose d’autre. […]

L’expérience montre que, lorsque la consommation sert de substitut à l’objet des besoins supérieurs, elle est semblable au tonneau des Danaïdes. Plusieurs études ont révélé que, dans les pays où le revenu annuel moyen par habitant est supérieur à 20’000 dollars, il n’y a aucune corrélation entre l’augmentation des revenus et le bien-être des populations. Ces travaux indiquent en outre qu’une grande partie des habitants des pays capitalistes se sentent insatisfaits, pour ne pas dire profondément malheureux, quel que soit leur pouvoir d’achat, parce que d’autres personnes gagnent et dépensent encore plus qu’eux. Ce n’est pas la privation objective qui compte, mais le sentiment relatif de privation. Et comme, par définition, la plupart des gens ne peuvent pas consommer davantage que les autres, l’hyperconsommation nous renvoie toujours à ce dilemme. […]

L’hyperconsommation ne touche pas seulement la classe dominante des sociétés d’abondance ; les classes moyennes et populaires sont elles aussi concernées. Un grand nombre de personnes, toutes catégories sociales confondues, ont le sentiment de travailler pour tout juste parvenir à joindre les deux bouts. Pourtant, un examen attentif de leur liste courses et de leurs garde-robe révèle qu’elles consacrent une bonne part de leurs revenus à l’achat de biens liés au statut social, comme des vêtements de marque et autres produits dont le besoin n’est pas réel. Cette mentalité peut sembler tellement ancrée dans la culture occidentale que toute résistance serait vaine. Mais la récession économique a déjà poussé bon nombre d’individus à acheter moins de produits de luxe, à freiner sur les fêtes somptueuses et même à accepter de réduire leur salaire ou de prendre des congés sans solde. Jusqu’à présent, la plupart de ces comportements ne sont pas volontaires ; ils sont dictés par la nécessité économique. Il faut toutefois voir là l’occasion d’aider les gens à comprendre qu’une consommation réduite ne reflète pas un échec personnel. C’est le moment ou jamais d’abandonner l’hyperconsommation pour se consacrer à autre chose ! […]

Une société qui résisterait au consumérisme au profit d’autres principes organisateurs ne se contenterait pas de réduire la menace d’une crise économique et de rendre ses membres plus heureux. Elle présenterait également d’autres avantages. Elle consommerait par exemple moins de ressources matérielles et aurait donc beaucoup moins d’effets nocifs sur l’environnement. Elle favoriserait aussi une plus grande justice sociale. »

 

Amitai Etzioni, Prospect (Londres), janvier 2009

mardi, 16 juin 2009

Mijn kritiek op de democratie

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Mijn kritiek op de democratie


Erich Wolff - Ex: http://bitterlemon.eu/
Democratie heeft vele kuren en door het gebruikte systeem van algemene verkiezingen zijn er veel mogelijkheden voor politieke partijen en drukgroepen om met lage methoden kiezers aan zich te binden. We bespreken 3 van deze methoden. 

Een succesvolle methode is geweld en intimidatie. Gebruik terreur en niemand op termijn durft het meer tegen je op te nemen. De meeste mensen zijn geen idealisten en de fatsoenlijken onder hen moeten een gezin onderhouden. Ze zullen ook, als ze geconfronteerd worden met de dreiging van georganiseerd geweld eieren voor hun geld kiezen. Immers, idealen zijn niet zo belangrijk als je zoontje van 4 maanden en je vrouw die moeten eten. Overheers de straat en je overheerst de staat door het stemloket. 

Een andere en ook meer subtiele methode om het gevaar van algemene verkiezingen die jouw kant niet op gaan te neutraliseren is het opwekken van een maatschappelijk taboe. In tegenstelling tot wat sommigen denken is het opwekken van een taboe niet zo moeilijk. Je grijpt een incident aan veroorzaakt door een ongelukkige drommel en je schreeuwt het van de hoogste toren hoe slecht de persoon wel niet is die het incident heeft veroorzaakt. Doe dit grondig en verruïneer de persoon publiekelijk. Herhaal dit proces met meerdere mensen en de meesten zullen de boodschap snappen. Om het af te maken koppel je taboe aan een partij, bij voorkeur mensen die toch al een slechte naam hebben door hun eigen geklungel. 

Een concreet voorbeeld hiervan is de kwestie rond etniciteit en criminaliteit. Oftewel de kwestie Buikhuizen. Buikhuizen haalde het in zijn hoofd om een correlatie tussen etniciteit en criminaliteit te zoeken. Dat kan natuurlijk niet, vond links, omdat criminaliteit en al het andere slechte gedrag “voortkomt uit de sociaaleconomische klasse”. Oftewel geef een Marokkaanse vrouwenmishandelaar (daar zijn er genoeg van) een inkomen van 10.000 euro per maand en hij houd vanzelf op een magische wijze op zijn vrouw te slaan. Maar goed, de toon was gezet. Buikhuizen werd ontslagen en eigenlijk niemand durfde het er nog over te hebben tot aan de politiek aan toe. Het gevaar van rechts via de stembus was (tot 11 september 2001, uiteraard) succesvol geneutraliseerd. 

Maar met stip de walgelijkste methode om kiezers te binden wordt, niet toevallig, gebruikt door de meest walgelijke partij uit ons politieke bestel. Namelijk de PvdA. De PvdA bind kiezers aan de partij door gedwongen solidariteit via belastingen. De PvdA staat het soort overheid voor die de burgerlijke kringen in de weg loopt en een de kerk onmogelijk maakt de armen op te vangen. 

Het is bepaald geen toeval dat de PvdA populair is in de kringen van raamambtenaartjes, besturen van organisaties die leven op de riante cultuursubsidies en allochtonen. Dit is het resultaat van een goed uitgedacht beleid. Dit beleid houd concreet in: voor iedereen een uitkering. 

Omdat geniale dingen in de kern altijd simpel zijn is deze methode ook meer dan succesvol. Immers, het leger mensen dat èèn van de riante uitkeringen ontvangt is vatbaar voor het argument dat als je de PvdA wegstemt de andere partij wel een kan gaan snoeien in het stelsel van de vele soorten uitkeringen. Het stemadvies luid dan altijd impliciet: stem PvdA! Dat het land kapot gaat aan het leger inactieven wat wordt gecreëerd deert niet. Zolang de PvdA aan de macht blijft komt de Brave New World immers weer een stukje dichterbij. 

Advies: kies voor de afschaffing van het algemeen stemrecht. Kies voor beschaving.

dimanche, 26 avril 2009

La tyrannie technologique - Critique de la société numérique

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La Tyrannie technologique :

Critique de la société numérique

Présentation de l'éditeur

Après le travail et le sommeil, la troisième activité des Occidentaux est de regarder la télévision. 80% de la population française possède un téléphone portable contre moins de 5% dix ans plus tôt. Créée en 1998 dans un garage, la société Google est aujourd'hui cotée en bourse et valorisée à plusieurs milliards de dollars. Au cours des dix dernières années, les ventes d'antidépresseurs ont doublé. Les nouvelles technologies, fer de lance et alibi d'une industrie obsédée par la rentabilité, participent chaque jour un peu plus à la destruction du lien social et à la disparition des formes anciennes de sociabilité, d'organisation du travail et de la pensée. Leur diffusion massive et leur omniprésence posent les bases d'une véritable mutation anthropologique comparable à l'apparition de l'écriture. Si l'alphabétisation fut bien souvent la compagne de l'émancipation, les technologies contemporaines préparent et organisent un monde fondé sur la vitesse, l'immédiateté, la superficialité, le profit et la mort. Ecrit par plusieurs auteurs tirant leurs réflexions de leurs travaux militants ou universitaires, La Tyrannie technologique dresse un panorama lucide et percutant de l'emprise des nouvelles technologies sur notre vie quotidienne.

Collectif,
La Tyrannie technologique : Critique de la société numérique, Ed. L'échappée, 2007.

mardi, 31 mars 2009

De dubbele bodems van de rechtsstaat - Over macht, elites en geheimtalen

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De dubbele bodems van de rechtsstaat – Over macht, elites en geheimtalen

 

Justitie wil weer ‘begrijpelijk’ en aaibaar overkomen, dichter bij de mensen staan, en dat is goed nieuws. Gedaan met norse magistraten en vonnissen in stadhuistaal, ‘gelet op’, gezien dat’, ‘in hoofde van’… Een vriendelijk schouderklopje en dan de gevangenis in, U passeert niet langs start. Deurwaarders wisselen das en maatpak voor een leuke jeans-outfit en zetten U en Uw huisraad vervolgens met de glimlach op de stoep: het oog wil ook wat. Ach, het is weer eens wat anders, of meer van hetzelfde. Na de ‘Witte Mars’ en de idemkleurige ridders ging het ook allemaal veranderen,- de gerechtelijke achterstand vandaag is nog nooit zo groot geweest en de verjaringstruc werkt perfect met een goede advocaat.  Het nieuwe Antwerpse Justitiepaleis ging een toonbeeld zijn van nederigheid, justitie-dicht-bij-de-mensen en blablabla,- het resultaat is ondertussen gekend: een modernistische mastodont die het Brusselse Poelaertpaleis overtreft. Veel interessanter dan zich te verkijken op de face-lifts, is dan ook om te analyseren hoe het gerecht in de coulissen functioneert, en hoe de discrete maatschappelijk-culturele verbindingslijnen lopen tussen establishment, misdaadmilieu en politiek theater. Een verkenning van de ingewanden van dat wat zich sinds de jaren ’80 de ‘rechtsstaat’ is gaan noemen…

 

Gerecht en ‘milieu’: boswachter en stroper tegen Robin Hood

 

Eerst een paar feiten.

 

Op 22 November 2005 kwam Madani Bouhouche bij het houthakken onder een eik terecht, vlakbij zijn optrekje in de Franse Pyreneeën. Een wat onnozel einde voor dé toplegende uit de Belgische onderwereld. Hij was zijn loopbaan begonnen bij de Belgische OpsporingsBrigade, maar dook al snel voor eigen rekening in het zware milieu, samen met andere (ex-) rijkswachters. Bouhouche werd voor het eerst aangehouden in januari 1986 op verdenking van moord op wapeningenieur Juan Mendez, maar in november 1988 weer vrijgelaten. In 1995 werd hij veroordeeld tot 20 jaar dwangarbeid wegens moord op een Antwerpse diamantair, maar hij kwam 5 jaar later (!) al voorwaardelijk vrij, om dus stante pede naar het zonnige Zuiden uit te wijken. Waar hij companen uit het milieu ongestoord bleef ontmoeten, ondanks de voorwaarden van zijn parool. Bovendien dook zijn naam regelmatig op in het onderzoek naar de overvallen van de ‘Bende Van Nijvel’ tussen 1982 en 1985, en had de cel Jumet (belast met het onderzoek, dat om mysterieuze redenen aan het parket van Dendermonde was onttrokken) alle redenen om Madani met meer dan gewone belangstelling te blijven volgen. Niet dus, men liet hem compleet ongemoeid. Sterker nog: pas in Januari van dit jaar kwamen onze meesterdetectives ‘toevallig’ (sic) op de hoogte van zijn dood en pakten vervolgens hun koffers richting Pyreneeën om wat te gaan snuffelen in de villa van de al twee maanden overleden topgangster. De vraag waarom hij al die tijd rustig in la douce France mocht rentenieren, blijft onbeantwoord, evenals de vraag waarom het onderzoek naar de Bende van Nijvel na 20 jaar niet één serieus spoor heeft opgeleverd. Werk op de plank voor échte speurneuzen en onderzoeksjournalisten. Want met die cel Jumet wordt het nooit wat, zoveel is zeker.

 

Het geval Bouhouche is typisch voor de innige verstrengeling van gerecht en misdaadmilieu, ondanks het vertoon van de spectaculaire razzia's. De aloude kroeggrap dat de criminelen de grootste werkgevers van de politie zijn en dat er een soort gentlemen’s agreement tussen beide bestaat, is eigenlijk nog een understatement: het gaat dikwijls over hetzelfde soort lieden, dat, afhankelijk van de situatie, aan de ene of de andere kant terechtkomt en ook wel eens van kamp wisselt. Het verhaal van de boswachter en de stroper dus,- ook Bouhouche is begonnen als rijkwachter. Hun natuurlijke symbiose staat hen toe om een nieuwe vijand te definiëren: de spelbedervers en outlaws die het systeem zelf in vraag stellen,- om in de beeldspraak van het bos te blijven: de Robin Hoods van deze wereld. De echte schietschijf van het gerecht lijkt dan ook niét de georganiseerde misdaad, maar individuen en groupuscules die als ‘staatsvijandig’ geboekstaafd staan. De ‘politieke’ criminelen dus. De grotendeels non-verbale modus vivendi van justitie en milieu bestrijkt een brede schemerwereld van speurders, tipgevers, verklikkers, drugdealers, junkies, spijtoptanten, infiltranten allerhande, waar het grote publiek geen zaken mee heeft, maar die ideologisch ook tot een ‘rechtse’ onderstroom behoort.

 

Het kat-en-muisspel tussen gerecht en onderwereld heeft iets sportiefs, terwijl het opjagen van politieke dissidentie bittere ernst is. De georganiseerde misdaad levert het alibi voor méér politie, maar ondersteunt de klopjacht bij gelegenheid ook logistiek en operationeel, tot op het niveau van een parallelle militie.

 

Het verschil in strafmaat tussen klassieke criminaliteit en politieke subversie toont aan dat deze stille verstandhouding zich voortzet tot in de rechtszaal. Het valt bijvoorbeeld op dat de vervolgingsijver t.o.v. de Cellules Communistes Combattantes (CCC), eveneens actief medio de jaren ’80, veel groter was, dan de gedrevenheid om een oude rat als Bouhouche te volgen. De leden van die extreem-linkse cel, met twee dode brandweerlui op hun actief, -min of meer een ongeluk, zo zou blijken-  werden vrij snel gearresteerd en kregen een gepeperde rekening: levenslang voor leider Pierre Carette die pas voorwaardelijk vrij kwam in 2003. Zijn ‘medeplichtige’ Pascale Vandegeerde, die alleen maar een pamfletje had getypt en niet eens bij de acties betrokken was, kreeg 25 jaar en verliet in 2000 de gevangenis als een oude vrouw. Men herinnert zich het historische dovemansgesprek op Canvas tussen de wereldvreemde Marxist Pierre Carette kort na diens vrijlating, en zijn gewezen vervolger Wilfried Martens, in die tijd premier. Zelden zo’n ontluisterend psychodrama op TV gezien. Voor de moraliserende katholiek Martens (die het parlement in 1985 heel de tijd had voorgelogen over de kernraketten, dit terzijde) was Carette zelfs geen mens, maar eerder een wild beest, iets Hannibal Lector-achtig.

 

Het verhaal van dierenrechtenactiviste Anja Hermans spreekt ook boekdelen: hoe een rebelse punkster in fanatiek gezelschap terechtkomt, betrokken geraakt bij de aanslag op een hamburgertent en naderhand probeerde de auto van een onderzoeksrechter in brand te steken. Anja is me er eentje. Ooit kalkte ze, daags voor de blijde intrede van Filip en Mathilde, ‘Schijt aan de monarchie’ op het Antwerpse Boudewijnmonument. Normaal spreekt men over graffiti en zelfs straatkunst. Dat Boudewijnmonument is overigens op zich oerlelijk, ik vond Anja's ingreep estethisch zelfs een verbetering. ‘Staatsgevaarlijk’ luidde het verdict. Twee keer de maximumstraf. Uit de verslagen van de onderzoekscel blijkt duidelijk dat niet de materiële schade aan de McDonalds of het monument op zich, maar de symboolwaarde en het motief de speurders interesseerden,- nl. de ‘anti-imperialistische’ (sic) neigingen van Anja die, naar ik kan schatten, minstens zo lang gebromd heeft als Monsieur Bouhouche en die momenteel nog altijd wordt gestalkt door de staatsveiligheid. Haar parool werd wél naar de letter opgevolgd: toen haar nieuw lief een strafblad bleek te hebben, vloog ze terug achter de tralies. Vijf zelfmoordpogingen heeft ze er ondertussen op zitten. Door een extra streng gevangenisregime, inclusief isoleercel, is ze mentaal en fysiek een wrak. Geen politicus die deze schending van de mensenrechten durft aan te kaarten.

 

Twee maten en twee gewichten? Het lijkt erop dat gerecht en milieu tot hetzelfde netwerk behoren en objectieve bondgenoten zijn in het uitbouwen van een sterk politioneel apparaat, gericht op het uitschakelen van lastposten. De wederzijdse infiltratie van gerecht en misdaadmilieu is niet eens abnormaal of pervers, het behoort tot de standaardstrategie van de Belgische Staatsveiligheid. Het kat-en-muisspel tussen gerecht en onderwereld heeft iets sportiefs, terwijl het opjagen van politieke dissidentie bittere ernst is. De georganiseerde misdaad levert het alibi voor méér politie, maar ondersteunt bij gelegenheid ook logistiek en operationeel, tot op het niveau van een parallelle militie. De Bende van Nijvel betekende met haar 28 doden de ontsporing van die logica, en dat Bouhouche er iets mee te maken had, zal ooit aan het licht komen: een para-militair doodseskader dat, via het format van de warenhuis-holdup, een ultrarechtse coup in België moest voorbereiden. Dat het zover niet gekomen is, heeft vooral te maken met externe, macropolitieke omwentelingen zoals de val van de muur en het zgn. ‘einde van het communisme’, waardoor het rechts-Belgicistisch discours à la VDB en Baron de Bonvoisin zijn vijandbeeld compleet de mist in zag gaan.

 

Elites en geheimtaal: het geknetter van de kleine lettertjes

 

Ondertussen zijn we de 21ste eeuw binnengewandeld: andere tijden, andere zeden. Exit Bouhouche. Het 'milieu' is nagenoeg helemaal overgenomen door de Oosteuropese maffia, die voor de rest overigens dezelfde rol van haas speelt. De gangsters van weleer gaan op rust. Murat Kaplan, auteur van een resem gewapende overvallen met dodelijke afloop, is allang weer een vrij man... die onlangs werd betrapt op het jatten van een paar planken voor zijn kiekenkot. De oude villadief Jan Fabre werd gepromoveerd tot decorateur van het Koninklijk Paleis: het establishment biedt volop plaats aan bekeerde stropers.Hoe zit dat postmodern netwerk eigenlijk in elkaar?

 

In zijn boek ‘De Elite van België-Welkom in de club’ (Uitg. Van Halewyck) geeft onderzoeksjournalist Jan Puype een interessante staalkaart van discrete en machtige netwerken in ons land: loges, ‘denktanks’, serviceclubs allerhande, waar schoon volk bijeenkomt en belangrijke deals informeel worden bedisseld, ver van Uw en mijn bed. De geheimzinnigdoenerij van de clubs is méér dan folklore, al lijken de rituelen ons dikwijls archaisch en grotesk: ze wijzen op afscherming en bedekken verregaande normvervaging. Het fenomeen wijst op een verschuiving van de ‘klassieke’ milieu/gerecht-aliantie naar een afgestofte, echte oligarchie waarin adel, academici, topambtenaren, industriëlen, rechters, politici, advocaten, maar ook geaccrediteerde witteboordcriminelen een plaats vinden. Hier en daar mag ook een brave journalist of gesettlede kunstenaar het gezelschap opfleuren. Overigens haast allemaal lui die op de nominatielijst staan voor een ereteken of een adellijke titel: het Hof superviseert en patroneert discreet deze amicale topmilieus. Complot of natuurlijke affiniteit? Of komt van het een het ander? De magistratuur voelt zich in deze afgeschermde cenakels van het establishment in elk geval perfect thuis. Het verklaart bv. de milde vonnissen in de zgn. ‘jachtongevallen’ (een dronken baron die vanop zijn domein een wandelaar afschiet) of, recent nog, de onverwachte vrijspraak in de pedofiliedossiers van het sjieke Brusselse St. Michielscollege, waar de rechter van dienst toevallig ook school had gelopen. Of de zachte behandeling van Paul Nihoul, zakenman, arrangeur en nevenintrige uit het Dutroux-dossier. Klassejustitie dus, zonder twijfel.

 

De hermetische taalcode van de elites vermenigvuldigt zich over alle takken van het establishment en neemt allerlei gedaanten aan: van het onleesbare Belgisch Staatsblad, over het academisch potjeslatijn, de mystificaties van het artistiek modernisme, het Sanskriet van de beursanalyses, tot het abrakadabra van de loges.

 

Het boek van Puype is eigenlijk een uitloper van de Dutroux-affaire die de Witte Beweging op gang bracht: politiek is deze beweging mislukt, maar de maatschappelijke onderstroom, het algemeen onbehagen omtrent zaken die achter onze rug en boven ons hoofd worden bedisseld, is vandaag sterker dan ooit. Het is overigens, o ironie, vandaag vooral het Vlaams Belang dat de vruchten plukt van deze mislukte revolte tegen een systeem dat leeft van de desinformatie. Macht heeft in de moderniteit niets te maken met dwang maar alles met ondoorzichtigheid. De code van de elites vermenigvuldigt zich over alle takken van het establishment en neemt allerlei gedaanten aan: van het onleesbare Belgisch Staatsblad, over het academisch potjeslatijn, de surrealistische mystificaties van het artistiek modernisme, het Sanskriet van de beursanalyses, tot het abrakadabra van de loges. De complexiteit van het geschreven recht (het hermetisch wetboek of ‘codex’) is het model voor al deze geheimtalen. Het is op zijn beurt een transcriptie... van het Bargoens (de geheime dieventaal). Andermaal is de band tussen boven- en onderwereld opmerkelijk. De geheime protocollen van de clubs zijn de afspiegeling van een hermetisch wetboek vol kleine lettertjes,- die dan weer aanleiding geven tot allerlei juridische spitstechnologie, waarvan de ‘verjaring’ de bekendste is. De dingen moeten dus ingewikkeld gemaakt worden om de netwerken intact te houden en om een mistgordijn te creëren voor ontsnappingsroutes van fijne lui die zichzelf wat te enthousiast bediend hebben. De recent gestemde wet Franchimont biedt in dat opzicht een uitgebreid menu van subtiele uitwijkmanoeuvers voor wie 'de weg kent'. Het Belgisch Staatsblad stortte vorig jaar 57.746 bladzijden wet- en regelgeving over onze hoofden uit,- een voor gewone burgers onverteerbaar abrakadabra, enkel toegankelijk voor een beperkte klasse juristen.

 

Het fenomeen fraude zal in belang toenemen: het is de postmoderne reproductievorm van de elites, niet enkel materieel maar ook symbolisch: het 'plukken van de vrucht' van het geheim, kenmerkend ritueel in een esoterische cultus...

 

Witteboordcriminelen als de hormonenmaffia ontsnappen aan vervolging via gesofisticeerde proceduretechnieken. Om dezelfde redenen zullen de miljoenenfraudeurs van KB-Lux en de textieldynastie De Clerck buiten schot blijven: hun advocaten kennen de achterpoortjes en de trucs om een dossier ad infinitum te rekken. Het fenomeen fraude zal in belang toenemen: het is de postmoderne reproductievorm van de elites, niet enkel materieel maar ook symbolisch. Het gaat m.n. niet alleen om illegale verrijking, maar ook om de ritualisering van het netwerkfenomeen. Men plukt a.h.w. de vruchten van het geheim,- iets wat een essentieel element is de esoterische cultus, zie bv. het Laatste Avondmaal, het Graalmysterie etc. Corruptie is de nuttiging van de hermetische code door de genootschap die het geheim intact houdt en daarin ook investeert. Discretie, solidariteit en geheimhouding worden des te belangrijker, naarmate de leden van het genootschap zich in de grijze zone bewegen. Men is verbrand, en men weet het van elkaar. Het klassieke “milieu” blijft daarin de rol vervullen van katalysator en objectief alibi voor het uitwoekeren van een gesofistikeerde regelgeving die evenzovele achterpoortjes bevat. Het kwade geeft een bestaansreden aan het goede, en corrumpeert het tegelijk.

 

Het is overigens opmerkelijk hoe bv. een assisenzaak, zogezegd de voortzetting van het volkstribunaal, gemanipuleerd wordt door de charades van magistratuur en advocatuur die onderling ‘dezelfde taal spreken’. Mediavedetten zoals Jef Vermassen vergroten nog dit theatraal niveau. Het is trouwens sowieso sterk af te raden om zonder advocaat voor de rechtbank te verschijnen –wat strikt genomen nochtans mag-: mensen die zichzelf verdedigen doen dat niét in het jargon en stellen zich op die manier de facto buiten het systeem dat nu net gebaseerd is op een hoge techniciteit van het discours.

 

De magische driehoek van de rechtsstaat komt nu langzamerhand uit de mist: elites, gerecht en onderwereld vormen een soort cirkulair ganzensspel waarin codex (het wetboek), politie-apparaat en fraude elk hun rol spelen in de objectivering van het geheim en de reproductie van het netwerk:

 

De media en de 'openbaarheid'

 

Desinformatie is de nieuwe strategie van de elites en de grondslag voor ongelijkheid. Macht is, in het post-Dutroux-tijdperk, subtiel, discreet, flou, minuscuul. Het fluisterschrift van de paragraaf, de uitzondering, de bijlage, de voetnoot, het glossarium, bevat vandaag de échte toverspreuken, de hefbomen die dingen in gang zetten en achter de schermen processen beïnvloeden. Kennis is macht, dus moet ze geheim blijven. De eeuwige paradox van de pedagoog ligt hieraan ten grondslag, we hebben het allemaal meegemaakt op de universiteit: de prof wordt betaald om zijn kennis door te geven; doch, moest hij daarin compleet slagen, dan zou zijn rol overbodig worden. Hij leeft dus van complexiteit,- de leraar geeft maar een deel van zijn kennis prijs, heel gedoseerd, net genoeg om leerlingen op te werken tot specialisten… die weerom het geheim kunnen bewaren.

 

Men zou kunnen replikeren dat het de kerntaak van de media is om dit obscurantisme te ontmaskeren. Inderdaad, maar dat veronderstelt een analytisch-filosofisch instrumentarium dat tegelijk verstaanbaar en subtiel is,- en daar hebben de massamedia duidelijk niet voor gekozen. Hun taal is onmiddellijk, krachtig en niet-reflexief,- waardoor ze eigenlijk complementair en medeplichtig worden aan de versluiering van de macht binnen de elites. Net door de nivellerende werking van de televisie, en haar ijver om een 'groot publiek' te bereiken, wordt 'universele toegankelijkheid' dé definitieve barrière om de complexe codes te kraken.

 

Het groeiende idee van de mediatieke ‘openbaarheid’, waarin alles getoond en ‘ontsluierd’ kan worden (Big Brother), is gebaseerd op de illusie dat de waarheid simpel is. Het netwerkverhaal wijst op het tegendeel. Hoe dit analyseren? Wie vindt de taal uit die zo rijk is dat ze de geheimen ontmaskert, en zo helder dat ze ook haar eigen code kraakt?

 

Er ontstaat zo een dubbele waarheid, een voor de buitenwereld en een voor ingewijden. Enerzijds is er de taal voor het klootjesvolk, van de commerciële slogans, de politieke on-liners, de vette mediakoppen. Direct, toegankelijk, evident: zeg maar de Stevaert-rethoriek. Daaronder zit een andere waarheid, bestemd voor zij die toegang hebben tot de netwerken: een complexe code, geformuleerd in een subtiel discours waar een leek in verdrinkt.

 

Het groeiende idee van de mediatieke ‘openbaarheid’, waarin alles getoond en ‘ontsluierd’ kan worden (Big Brother), analoog aan het populistisch, gemakkelijk aanslaand discours van politici genre J.M. De Decker, is gebaseerd op de illusie dat de waarheid simpel is. Het netwerkverhaal wijst op het tegendeel. Onder elke bodem zit weer een andere. Wie vindt de taal uit die zo rijk is dat ze de geheimen ontmaskert, en zo helder dat ze ook haar eigen code kraakt?

 

Politiek en magistratuur: de Wetstraat als geheime keuken

 

Op naar de hoogste regionen.

 

Een telling naar opleiding en beroep binnen de Belgische regeringen en parlementen levert opmerkelijke resultaten op: zowat  70 % van het politiek personeel mag zich jurist noemen. Een verontrustend percentage. Het aantal ‘menswetenschappers’ (sociologen, psychologen, filosofen…) of natuurwetenschappers is absoluut te verwaarlozen, zelfs de economisten zijn ver in de minderheid: de Wetstraat is het terrein van de advocatuur. De wetgevende macht is, ondanks alle schijnbewegingen zoals de Kafka-campagne, alleen al door haar juristenpopulatie een pure producent van raadsels, een Sybillijns orakel dat alleen door karkassen als Eliane Liekendael, bedenkster van het Spaghetti-arrest, juist kan geïnterpreteerd worden.

 

De sleutel van de hermeneutiek (‘interpretatiekunst’), voorbehouden aan een kaste van juristen en schriftgeleerden, ligt in de geheime keuken van de Wetstraat, waar de teksten worden gefabriceerd. Dat is een enorme kortsluiting in de klassieke dichotomie van subject (lezer) en object (tekst): de ontcijferaars en de bedenkers van de code zijn dezelfden. Dat is dus per definitie 'obscurantisme', het opzettelijk versluieren van teksten. De acteurs van het justitietheater komen elkaar terug tegen in het parlementair halfrond, ze zitten aan de bron en maken de wetten zelf, zo is het niet moeilijk. Rond deze keuken troept de cameraderie van juristen samen, die posten uitdelen of in ontvangst nemen,- de benoeming van rechters is bij ons sinds het ontstaan van België partijpolitiek. Wat sinds de Franse Revolutie ‘de scheiding der machten’ heet, stort hier traag in elkaar, tot een monocultuur van politici die magistraten benoemen, magistraten die met advocaten optrekken, advocaten die in de politiek gaan en… weerom magistraten benoemen, de cirkel is rond. Politiek trekt blijkbaar de verkeerde mensen aan, het is een fatale spiraal.

 

Wat sinds de Franse Revolutie ‘de scheiding der machten’ heet, stort hier traag in elkaar, tot een monocultuur van politici die magistraten benoemen, magistraten die met advocaten optrekken, advocaten die in de politiek gaan en… weerom magistraten benoemen, de cirkel is rond.

 

De typologie van de 'ambitieuze jurist/politicus' is alomtegenwoordig: carrières die beginnen bij de sloten bier verzettende, populaire praeses van de rechtsfaculteit, om daarna als advocaat snel door te stoten in de partijhiërarchie. Het zijn steevast haantje-de-voorsten die dikwijls ook uit de juiste familie komen en door papa op de goede weg zijn gezet, grote en kleine Cicero’s die vooral drijven op een mateloos ego, niet op interesse voor het algemeen belang. Deze inteelt levert exact op wat men zogezegd wil vermijden: het uiteendrijven van instituties en burgers. De rechtszaal wordt het testlaboratorium van het parlement, het parlement wordt het confectie-atelier van justitie,- de politiek maakt geen wetten vóór, maar tegen het volk. Zo is elke burger, van nature op zoek naar transparantie en billijkheid, een potentiële vijand van het systeem geworden. De frauduleuze verglossing van de tekst tot mistgordijn maakt een einde aan elke mogelijke vorm van kritiek via tekstanalyse, gewoonweg omdat een leek niet meer ‘in de tekst’ geraakt en een deskundige tot het gesloten universum behoort dat de teksten assembleert. Twee werelden: de 'kloof tussen overheid en burger' is syntactisch.

 

Terreur, vrijwillige excommunicatie en beroep op de natuurwet

 

De teksten zijn ondoorzichtig, de media reveleren niet maar maskeren. Naarmate de indigestie van de massa rond deze dubbele verdwijntruc toeneemt, lijkt verzet alleen nog mogelijk door zich helemaal buiten het discours te stellen. De buiknostalgie naar eenvoud zou dan wel eens gevaarlijk groot kunnen worden. Nu al wordt van onderuit geopperd dat een ‘archaisch’ gewoonterecht, minder gebaseerd op dikke boeken en meer op het ‘Gesundes Volksempfinden’, de democratie zou ten goed komen. De Angelsaksische landen huldigen trouwens dat principe, dat ingaat tegen de uitwassen van het Romeinse Recht en de Code Napoléon die de witteboordcriminaliteit en de procedureslagen hebben mogelijk gemaakt. Weg magistratuur en advocatuur, terug naar de vierschaar en de volksrechtspraak onder een oude eik, het is verleidelijk. Misschien ligt de rebellie van de heks Anja Hermans, met haar regimevijandig gekalk en haar strijd voor de tot hamburgers vermalen koeien, wel meer in deze vrouwelijk-matriarchale lijn die voor het leven gaat, en die instinct laat primeren op de kleine lettertjes. De fik erin als het niet deugt, dood aan de thanatocratie.

 

Zowel bij links als rechts breekt het inzicht door dat met de moderne macht niet te discussiëren valt,- het ongelijk van de dissidentie zit in de taal zelf ingebakken. Soms is het belangrijk om niét op de valstrik van de dialoog in te gaan, niét te praten. Wat zich nu aftekent als ‘terreur’, is de extreme consequentie van het verzet tegen elk elitair obscurantisme: het openbreken van alle codes en geheimtalen, waardoor politiek én justitie perplex de feiten achternalopen. Individuen en  los-geassocieerde groepjes zullen zich buiten het netwerk en zijn codes stellen,- een vrijwillige excommunicatie en zelfs nieuw analfabetisme, dat men van binnen het universum als ‘terreur’ zal omschrijven, of daar nu graffiti of fysiek geweld bij komen kijken of wat dan ook.

 

De term ‘terreur’ volgt uit de angst van het machtsdiscours voor externe kritiek. Interne kritiek is slechts smeersel voor de machine,- het is de prietpraat die we in TV-debatten te horen krijgen. De extra-parlementaire dissidentie draait rond rechtvaardigheidsgevoel en verlangen naar een taal zonder dubbele bodems, sociaal, cultureel, taalkundig en sexueel. Oeroude energieën komen het natuurrecht opeisen en herstellen ons intuïtief gevoel van rechtvaardigheid, dat verloren ging door het gebeuzel van sofistische beroepsgoochelaars. Het verdwenen paneel van de Rechtvaardige Rechters uit het ‘Lam Gods’ lijkt symbool te staan voor die degradatie én voor het verlangen naar herstel. Misschien eist de natuur wel zelf, zonder ons, haar rechten op, via rampen en catastrofes. Katrina, Tsunami, krachtig en spontaan, niet te recupereren. Is het nieuwe élan van de natuurwetenschap een verborgen zoektocht naar deze nultaal? Onvoorzienbare breuken in het discours terroriseren de perverse poëtica van de macht. Tiens, werd Madani Bouhouche niet geveld door een oude eik? Er is nog gerechtigheid.

 

Johan Sanctorum


Bron: Visionair België

(Artikel met de toestemming van de auteur overgenomen.)

"Afbeelding: Rechterluik van het schilderij ‘Het Oordeel van Cambyses’ door Gerard David, 1498. Cambyses, koning der Perzen, (6de eeuw voor Chr.) trad hard op tegen corruptie in rechtspraak. Zijn rechter Sisamnes had voor smeergeld een onrechtvaardig oordeel uitgesproken, koning Cambyses had hem betrapt en veroordeelde de rechter tot een gruwelijke straf, hij liet zijn rechter Sisamnes levend villen. Het schilderij vormt een waarschuwing tegen corruptie in justitie."

dimanche, 22 mars 2009

Over verlangen en wilskracht, de kleenex en de onthouding

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Over verlangen en wilskracht, de kleenex en de onthouding

jeudi, 15 janvier 2009

Kiezen tussen de Utopische Samenleving en de Naïeve Anarch

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Kiezen tussen de Utopische Samenleving en de Naïeve Anarch

dimanche, 02 novembre 2008

Misère des intellectuels de "droite"

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ARCHIVES DE SYNERGIES EUROPEENNES - 1997

Misère des intellectuels de “droite”

 

L'option métapolitique de la “nouvelle droite” est, dans l'espace culturel germanique, une importation française. La ND, regroupée autour d'Alain de Benoist, a tenté d'adapter à la droite la théorie du communiste italien Antonio Gramsci, à un moment de l'évolution de cette droite, moment où elle se demandait quels étaient les véritables ressorts de la société. Point de départ de Gramsci: la société n'est mue que partiellement par les groupes politiques visibles, c'est-à-dire les partis. Plus essentielle est la superstructure idéelle de la société, où sont façonnées valeurs, morale et idées. La tâche des “intellectuels organiques” serait alors de mener un combat culturel au sein même de cette superstructure, combat dont le but ultime ne peut être que la révolution. D'après Gramsci, on ne peut donc révolutionner une société que si l'hégémonie culturelle qui la régente est brisée, c'est-à-dire quand les tenants de cette hégémonie ne croient plus en eux-mêmes. C'est alors que les valeurs révolutionnaires prennent le pas sur les valeurs dominantes fragilisées et deviennent graduellement hégémoniques. Le combat culturel mené par les intellectuels devient dans une telle optique la stratégie principale du “révolutionnement” politique de la société.

 

Dieter Stein, le directeur de l'hebdomadaire néo-conservateur berlinois Junge Freiheit, a analysé très justement cette vision gramscienne de la révolution, qui ne survient que par le biais de la culture; au bout de son analyse, il lance un avertissement: une telle vision de la révolution culturelle pourrait déboucher sur une “political correctness” de droite (cf. JF n°8/97). Si je trouve la critique de Stein pertinente, cela ne veut pas dire que je juge le point de vue de Gramsci incorrect. C'est aujourd'hui précisément que nous constatons que la “superstructure intellectuelle”, c'est-à-dire les médias, a acquis une puissance bien trop considérable, tant et si bien que les hommes politiques ne sont plus que des figurants pour les émissions d'actualité. La puissance qu'ont acquises les émissions de “talkshows” est emblématique et révèle un phénomène inhabituel, soit la “pluralisation totale” de la société mais avec pour corollaire paradoxal la réduction de tout aux idéaux du plus grand nombre, du “brave quidam”, du “Gutmensch” (ndt: ce terme est ironique; il a été forgé par les critiques allemands de la “PC”). C'est cette contradiction qui produit la “political correctness” (PC), qui, lorsqu'elle aura atteint son stade idéal, sera une censure bien installée dans l'intériorité même des citoyens. Cette nouvelle intériorité auto-contrôlée produit un discours mortifère, un discours assassin, qui frapperait abruptement toute personne qui, pour une raison ou une autre, serait déclarée non “politiquement correcte”. Tous ceux qui entendent ignorer les gestes symboliques et rituels de la PC, tous ceux qui ne se sentiraient pas “concernés” par ses gestes et ses agitations, tous ceux qui avanceraient un certain type d'arguments non conventionnels seraient purement et simplement “morts”, du moins au sens figuré.

 

Pourtant, à droite, beaucoup de militants souhaiteraient, eux aussi, l'avènement d'une telle “censure intérieure”. Mais qui serait tout simplement de signe opposé. Ceux qui ne détiennent aucune puissance politique développent souvent des fantasmes de toute-puissance, mais d'une toute-puissance basée sur d'autres critères que ceux maniés par la toute-puissance en place. Quoi d'étonnant, dès lors, que le concept narcotique d'“hégémomie culturelle” ait été importé de France en Allemagne par des groupuscules qui ont voulu, dans un premier temps, divulguer les aspects intéressants de la nouvelle droite française, mais se sont enlisés, finalement, dans la prédication d'une “stratégie rédemptrice” et, pire, ont fini par aller faire de la formation dans des groupuscules néo-nazis interdits.

 

La trajectoire du néo-droitisme gramscien est triste, mais cette tristesse provient de plusieurs causes:

1. Il n'existe pas de “nouvelle droite” unitaire.

2. Si, au départ, les intellectuels de droite se voulant gramsciens ont souhaité l'émergence d'un débat, ils se sont rapidement enlisés dans la recherche d'une “Weltanschauung” idéale.

3. La “Révolution conservatrice” n'est pas pour eux une mine de concepts intéressants pour affronter le monde actuel, mais, plus prosaïquement, l'occasion de répéter à satiété un discours invariable, fait d'invocations stériles.

4. Ces intellectuels de droite se sont créé un petit monde, hermétiquement protégé de l'effervescence du réel.

 

Il n'existe pas “UNE” nouvelle droite. C'est pourtant clair: il suffit de comptabiliser tout ce que l'on vend au public sous cette appelation. Dans ce bric-à-brac, il y a toujours quelque chose de “plus neuf”. Dans les années 60, on disait des nationaux-révolutionnaires allemands qu'ils étaient la “nouvelle droite”. Mais, il n'est pratiquement rien resté de cette école nationale-révolutionnaire. Son espace idéologique était à l'intersection de la gauche et de la droite. Les nationaux-révolutionnaires affirmaient qu'ils n'étaient ni de droite ni de gauche: ils n'ont pas survécu sur la scène politique. Hennig Eichberg, qui, à cette époque, était la tête pensante de cette “nouvelle droite”, se considère aujourd'hui comme un homme de gauche. Beaucoup de nationaux-révolutionnaires de ces années 60 se retrouvent aujourd'hui chez les Republikaner.

 

Quant à la “nouvelle droite” la plus récente, elle a fini par démontrer qu'elle était au fond “conservatrice”, mais elle s'adresse à de plus larges catégories sociales que ses ancêtres de la nouvelle droite de 1968 qui tentaient d'apporter une réponse aux intellectuels de gauche et à la sottise de la vieille droite. Plus typés étaient les néo-droitistes  —quelques personnes et quelques journaux—  qui voulaient et veulent faire de leur nouvelle droite un projet de modernisation de l'extrême-droite. Cette catégorie de “néo-droitistes” reste la plus problématique, car, au fond, elle se borne à sortir de la naphtaline la “pensée anti-démocratique” de l'époque de Weimar (telle que l'a définie Kurt Sontheimer). Par cet exercice, elle veut hisser la pensée de l'extrême-droite à l'excellent niveau et à la belle forme, acquis par la “révolution conservatrice” sous Weimar.

 

A côté de ces “requinqueurs” de vieux corpus, s'est regroupée une autre “nouvelle droite”, composée pour l'essentiel de conservateurs (en Allemagne) ou de nationaux-libéraux et de conservateurs (en Allemagne et en Autriche). Ils ont abordé sans complexe la pensée moderne, ils ont, en ce sens, été conséquents, ont modulé leur action sur ce choix et ont investi les territoires politiques assignés par convention sociale à ces idéologies bourgeoises, bien ancrées et établies. Ces entristes, qui ont pénétré dans les rouages de la CDU, de la CSU ou de l'ÖVP, voire de la FDP ou de la FPÖ, sont de braves citoyens, ils sont tout simplement un petit peu à droite que les autres.

 

Si l'on mélange ces deux courants sous l'appelation commune de “nouvelle droite”, on débouche évidemment dans un beau désordre, sinon dans une aporie intellectuelle. Les “nouvelles droites” ancrées dans les diverses formes d'extrémismes droitiers confondent la volonté de débattre intellectuellement avec la proclamation impavide d'une Weltanschaunng ancienne, dont elles ont la nostalgie. Pour sortir de cette impasse, on recourt généralement à deux stratagèmes, dont on use et on abuse:

- soit on recommence à se référer directement aux racines théologiques du politique, en tentant de formuler un nouveau projet de “théologie politique”, dans le sens où l'entendait Carl Schmitt,

- soit on s'efforce de séculariser ce besoin d'absolu.

Dans ce cas, on se tourne vers d'autres certitudes, des certitudes immanentes, comme le “peuple” (Volk), des certitudes idéalistes, comme cette “science des citoyens d'Empire” de facture hégélienne, plus exactement mi-hégélienne-de-gauche, mi-hégélienne-de-droite, à l'usage de citoyens qui ne vivent plus dans un Reich et ne souhaitent certainement pas y revivre, les plages de Torremolinos ou des Baléares ayant pour eux plus d'attraits... Les multiples expressions de ces exercices para-théologiques ou “hégélisants” varient considérablement: les plus “sortables” ne sont “que” autoritaires, mais, dans la plupart des cas, le mode totalitaire est bien vite accepté, illustré et défendu...

 

C'est dans ces recherches et ces tâtonnements qu'il faut replacer l'engouement pour la “révolution conservatrice” de l'entre-deux-guerres. Soyons clairs et honnêtes: cette “révolution conservatrice” est une mine d'or, elle ne cesse de susciter les intérêts des philosophes et des politologues, à juste titre; il est intéressant d'en étudier tous les aspects si l'on veut connaître l'archéologie de certaines pensées aujourd'hui classées à “droite”, si l'on veut se plonger dans des corpus entièrement différents de l'idéologie dominante actuelle, si l'on veut lire de “mauvais livres” au regard des catégories politiques contemporaines. En pratiquant ainsi une forme de transversalité, indubitablement, on se forme l'esprit, on acquiert un sens critique, on aiguise ses intuitions. La “révolution conservatrice” nous apprend que les hommes de droite n'ont pas toujours été bêtes. Mais, en réceptionnant la “révolution conservatrice” de cette sorte, on ne doit pas non plus oublier qu'elle fut un échec. Ni oublier qu'elle fut, en bon nombre de ses aspects, antidémocratique et partiellement extrémiste. Aujourd'hui, notre regard doit se porter sur elle avec le même sens critique que sur les corpus de gauche de la même époque. Malheureusement, pour beaucoup d'hommes de droite actuels, de militants, cette “révolution conservatrice”, dans ses innombrables variantes, n'est que prétexte à répétitions, à dévotions naïves et bigotes, répétitions et dévotions qui remplacent toute intellectualité autonome ou permettent des exercices pénibles comme réitérer une attitude antidémocratique classique en citant des extraits d'auteurs “révolutionnaires-conservateurs”, pour faire intelligent ou pour donner le change.

 

Le résultat de tout cela est lamentable, car une telle nouvelle droite paraît toujours bien vieille, elle parait truffée de science, elle se gargarise de sa belle Weltanschauung  prête-à-porter, mais elle n'est quasi pas branchée sur la réalité. Car la belle Weltanschauung néo-droitiste n'est qu'une construction intellectuelle consolatrice pour tous ceux qui sont laissés-pour-compte dans la société réellement existante. Les plus lucides d'entre eux savent certes que le “peuple” (Volk) de leur idéologie n'est pas le peuple réel qui circule dans les rues d'Allemagne. Mais ce sont les “autres” qui sont coupables de cette inadéquation. Le peuple devrait correspondre à leur image du peuple: nous n'avons plus affaire là à de la nostalgie, à la nostalgie d'une “hégémonie culturelle” de droite, conservatrice, mais la rage de voir partout l'inadéquation génère subtilement une sorte de totalitarisme, camouflé derrière un verbiage conservateur, qui se veut apaisant, moral et “traditionnel”.

 

Au bout du compte, nos intellectuels de la “nouvelle droite” sont soit des modernisateurs de l'extrémisme, soit des bourgeois à un âge où il n'y a plus de bourgeois classiques, cultivés et conventionnels. Cette alternative, dont les deux termes sont également figés, est le résultat de la ghettoïsation des droites. Elles marinent dans leur jus. Alors que reste-t-il de la “nouvelle droite”?

 

Il reste sans doute quelques intellectuels de droite, qui se posent en anarchistes pour ne pas sombrer dans le dogmatisme, pour ne pas se laisser aveugler par les illusions. La réalité prosaïque, c'est qu'il n'y a dans le monde ni consolation ni rédemption. Mais, justement, ce n'est pas la tâche des intellectuels de droite de proposer de la consolation et d'annoncer une rédemption: au contraire, ils devraient se donner pour seule mission de déconstruire systématiquement toute idéologie de la consolation et de la rédemption. Travail difficile: en effet, c'est la meilleure façon de se faire mal aimer de tous; les uns détestent le “déconstructiviste” parce qu'il ne partage par leur illusion et n'apporte donc pas de quoi l'alimenter, de quoi entretenir la consolation; les autres le détestent tout autant parce qu'ils sont de gauche ou libéraux, qu'ils appartiennent à des espaces politico-philosophiques dans lesquels, forcément, le déconstructiviste n'aimera pas aller mariner: au contraire, il aimera les détricoter avec une égale délectation. Le véritable intellectuel de la nouvelle droite devrait être celui qui d'emblée se définit comme l'homme sans aucune illusion.

 

Nos sociétés souffrent d'une absence de créneau critique. Pourtant, aujourd'hui plus qu'auparavant, le terme “critique” est le vocable le plus prisé des hommes de gauche, au point qu'ils identifient les mots “gauche” et “critique”. L'école de Francfort, réservoir idéologique de la gauche, s'est effectivement auto-dénommée “critique”. Mais la gauche ne critique plus, elle accepte le statu quo et gère la crise. Automatiquement, dans un tel contexte, la pratique de la critique incombe alors à la droite. Pire, si un homme de gauche pratique encore la critique, il sera désormais traité de “fasciste” ou de “crypto-fasciste” par ses coreligionnaires (Botho Strauss, même Peter Handke, le cinéaste Fassbinder, le dramaturge Heiner Müller, héritier du théâtre de Brecht).

 

Pour nous, la démarche “critique”, c'est d'affronter les aléas du réel sans s'embarresser de tabous. L'actuelle “political correctness” instaure de nouveaux tabous et aboie son hostilité à l'égard de tout discours, de tout débat, et justifie ces tabous et ces aboiements au nom d'idées de gauche. Forcément, l'homme de droite sera celui qui s'opposera avec énergie à ces tabous et à ces aboiements: il se dira de droite parce que ces tabous et ces aboiements se disent de gauche. Il rejettera la “political correctness” parce qu'elle refuse tout discours et tout débat. Il restaurera le débat par le simple fait de prendre la parole de force, en avançant des arguments de signes nouveaux ou de signes contraires. Cet acte de prise de parole constitue une pluralisation volontaire du discours et place l'homme de droite  —nouveau contestataire radical—  au centre même de la vie sociale en danger de rigidification définitive. Il reconnaît alors que la confrontation des idées n'est possible que dans une société marquée du sceau du pluriel. L'intellectuel de droite prend dès lors position pour un ordre social où règne la liberté et où s'épanouit la diversité. Il défend cette liberté précisément parce que ses idées sont bannies et ostracisées dans une société qui devient de moins en moins plurielle et différenciée. Sa tâche consiste à réfléchir et à chercher. Car celui qui connaît les réponses avant de formuler ses questions, tombe dans le piège du totalitarisme.

 

Que reste-t-il de la “nouvelle droite”? Sans doute un homme de droite qui n'est plus un homme de droite au sens conventionnel du terme. Un homme qui part à l'aventure dans la vie ou dans les épaisses forêts de la pensée, car il sait que rien n'est définitivement sûr, que ce savoir de l'incertitude universelle fait de lui le meilleur critique des conventions figées de la société, mais d'une société dont il connaît les ressorts (organiques), parce qu'il en est issu.

 

Jürgen HATZENBICHLER.

(Correspondant de “Synergies Européennes” en Carinthie, responsable de la chronique politique de Junge Freiheit/Autriche; article paru dans Junge Freiheit, n°16/97; traduction et adaptation françaises de Robert Steuckers).

mercredi, 15 octobre 2008

Chers imposteurs...

Chers imposteurs... Onfray, Lévy, Sollers, Sarkozy et les autres...

Présentation de l'éditeur

" Pourquoi avoir titré ce pamphlet Chers imposteurs ? Tout simplement parce que je connais bien, parfois même très bien, mes principales "cibles", qu'il s'agisse de Michel Onfray, Bernard-Henri Lévy, Philippe Sollers ou Nicolas Sarkozy. Ils ont en commun - chacun à sa manière et à son niveau - d'incarner d'une part le déclin des intellectuels, d'autre part un phénomène de plus en plus aveuglant: la déculturation galopante de notre société. Certes, ils n'en sont pas les seuls symboles. L'étonnante médiocrité de la production dite romanesque, comme l'affaissement de la critique littéraire, en sont d'autres signes tout aussi inquiétants. Confrontés à des "intellectuels " starisés, nous ne savons plus si nous nous trouvons face à des bonimenteurs, des héros de la Star Academy ou des dandys du show-biz. Quant à Nicolas Sarkozy, notre premier président de la République totalement formé et formaté par le médium audiovisuel, il est également notre premier président "dé-culturé" ou "a-culturé", comme on voudra. "

Jean Bothorel, Chers imposteurs, Fayard, 2008.

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dimanche, 20 juillet 2008

Guy Hermet: l'hiver de la démocratie

Guy Hermet
 

L’hiver de la démocratie ou le nouveau régime

Armand Colin, 2007. 230 p, compte rendu Bruno Modica

Bruno Modica est chargé de cours en relations internationales à la prépa-ENA ( IEP de Lille)

 

Trouvé sur: www.clionautes.org/spip.php?article1703

Ancien directeur du Centre d’études et de recherches internationales (CERI) de Sciences Po, Guy Hermet publie un tableau pessimiste du fonctionnement des pays démocratiques où se sont développés des formes de contrôle des esprits mais aussi des logiques de « correction » allant du politiquement ou au pédagogiquement correct.

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L’auteur dénonce ici une liberté faussée, soumise à une censure qui n’est pas extérieure, mais intériorisée. Il rappelle par exemple que certains mots sont devenus tabous comme souveraineté du peuple consubstantielle à l’idée de démocratie. Cela laisse place d’ailleurs aux populismes qui apparaissent comme des substituts de cette crise des démocraties.

Langage citoyen

On trouve également dans ces séries de substituts le nationalisme démocratique ou le wilsonisme botté. version finale. Guy Hermet dénonce aussi avec une certaine vigueur les abus de langage sur certains termes qui font partie du parcours obligé : « citoyen » ou « républicain », ou encore « citoyenneté » sont devenus des étiquettes indispensables dont on use et abuse. L’auteur utilise d’ailleurs la jolie formule de « préservatif lexical » garantissant la « bonne » pensée.

Le bilan que fait Guy Hermet de nos démocraties est en effet assez pessimiste. On parlera d’usure de la démocratie en France du fait des cohabitations successives et du poids de la rue rendant les réformes nécessaires difficiles. Le bilan aux Etats-Unis est de même nature avec la baisse de la mobilité sociale et surtout la montée en puissance de l’idéologie de la peur. De façon globale on assistera à une baisse de l’éthique de responsabilité des élites et aussi à une sorte de fuite en avant. Guy Hermet traduit en effet les évolutions que l’on peut constater dans des élites qui n’ont plus d’entrepreneurial que le nom, et dans une fuite en avant en matière de luxe ostentatoire. On est bien loin en effet du compteur électrique séparé que le Général de Gaulle avait fait installer à l’Élysée !

et éloge de l’gnorance

De ce fait, et pour pallier ce désenchantement du politique on se voit opposer une sorte d’absolutisme démocratique reposant sur le culte du consensus national mâtiné de politiquement correct le tout consolidé par une mémoire officielle estampillée par la Loi. En France, depuis la loi Gayssot (1990), qui sanctionne la négation des crimes contre l’humanité commis durant la seconde guerre mondiale, on a adopté d’autres lois qui prétendent dire ce qu’est la vérité historique, sur l’esclavage ou le génocide arménien. La notion de « vérité officielle » n’est pas loin ! Mais dans le même temps, et c’est quand même ce qui différencie les démocraties mêmes usées et les régimes autoritaires, la vérité ne vient pas seulement de l’État, même si la tendance en France avec lecture officielle de textes, (cf. lettre de Guy Môcquet), a pu être réactualisée. Les instances qui dispensent le « politiquement correct » sont diverses : les hommes politiques, les hauts fonctionnaires, les syndicats, les Eglises, les intellectuels, les journalistes... C’est donc à une prolifération de « prêt-à-penser. » que l’on assiste. A défaut d’être providence, ce qu’il n’a plus les moyens, d’être, faute de volonté politique, l’État se fait thérapeute et donc apaise à défaut de réparer. De ce fait , en entretenant la confusion dans les mots, on « désinstruit » les gens, l’esprit critique s’efface au profit de la recherche d’un consensus qui évacue les différences. L’auteur revient notamment sur ce mot fourre-tout, appau insidieusement de « gouvernance » qui remplace celui de « gouvernement ». Cela va sans doute plus loin que la terminaison du mot, mais montre bien une volonté de dilution du concept d’autorité et donc de ce fait d’identification de la responsabilité politique.

Préservatif lexical

Guy Hermet va mêm jusqu’à qualifier cette évolution de nouveau régime, en reliant cela à la cyber-démocratie qui aurait tendance à se substituer aux forme désormais « dépassées » de la vielle démocratie représentative. On connaît cette tendance à substituer à l’exposé d’un programme et d’objectifs précis la démocratie participative et le blog. Pourtant, et la participation électorale en France en 2007 semble avoir été une divine surprise mais peut-être éphémère, le désenchantement du politique ne parait pas menaçant à court terme pour la démocratie. Les limites à la démocratie se trouvent peut-être dans le tout cathodique et dans les effets spéciaux que les politiques mettent en œuvre pour se faire élire. Une fois élus, c’est la gouvernance qui s’applique, une forme de pouvoir qui se passe de l’élection mais qui s’appuie sur des cercles d’experts supposés compétents. De ce point de vue, le gouvernement Sarkozy, (on n’ose plus dire Fillon, de peut d’être obligé de préciser de qui il s’agit), est parfaitement dans la norme de la gouvernance et donc d’un Nouveau Régime. Au final, ce livre de Guy Hermet est une véritable mine d’arguments limpides pour savoir où l’on va. La limite de l’exercice, mais faire autrement serait difficile, réside dans la difficulté à trouver un autre chemin que celui, tout balisé, auquel la paresse intellectuelle et l’absence de grandes utopies créatrices nous entraîne…

Bruno Modica

 

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samedi, 19 juillet 2008

E. Werner: "Ne vous approchez pas des fenêtres!"

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« Ne vous approchez pas des fenêtres/ Indiscrétions sur la nature réelle du régime »

Par Eric Werner

Depuis une quinzaine d’années, Eric Werner publie des ouvrages qui contrastent avec l’univers ouaté et pépère des idées creuses. Après les formidables « Avant-Guerre civile » et « Après-Démocratie » et une très surprenante « Maison de servitude », voici un nouvel essai dans la lignée des deux premiers : « Ne vous approchez pas des fenêtres/ Indiscrétions sur la nature réelle du régime ». Si le titre paraît énigmatique, son sous-titre en indique l’orientation générale. L’intitulé étrange provient d’une remarque (d’un avertissement ?) lancé au juge d’instruction spécialisé dans les affaires de corruption politico-mafieuse des années 1990, Eva Joly, par un très haut magistrat français.

Ce titre curieux se comprend de diverses façons. Il ne faut pas s’approcher des fenêtres car on risque d’être la cible d’un tireur embusqué ou bien, si on jette un regard dehors, la réalité risque de nous secouer car on découvrirait que l’Extérieur contredit les rêveries idéologiques de l’Intérieur si confortables… La mise en garde est à prendre au sérieux et on est prévenu : en ouvrant l’opuscule, on deviendra le complice – intellectuel et moral – du professeur Werner.

Celui-ci reprend, poursuit et affine les thématiques déjà abordées dans « L’Avant-Guerre civile » et « L’Après-Démocratie ». Toutefois, la formulation n’est là nullement universitaire. Eric Werner a choisi d’exposer ses réflexions en de très courtes discussions incisives, concises et intenses entre l’Avocat, l’Ethnologue, le Sceptique, le Philosophe, le Colonel, le Collégien, l’Auteur, le Double et d’autres « personnages ». Sont-ils des archétypes, des figures, des allégories quelque peu originales ? S’il est impossible de répondre à cette question, on sait toutefois que ce sont « des dissidents, littéralement des gens qui s’assoient en travers. En travers de quoi ? […] De l’opinion commune. Ils suivent leur voie propre qui n’est pas celle des autres ». Bref, ils appartiennent aux « 5% de rebelles […] qui lisent, réfléchissent, s’intéressent aux choses qui en valent la peine, pratiquent le doute méthodique, etc. ».

Ces « dissidents » expriment leurs propres avis qu’ils conservent néanmoins pour eux, cette restriction étant rendue nécessaire par la suspicion de l’époque. Ces « émigrés de l’intérieur » sont porteurs de « la pensée de derrière la tête [qui] est celle qu’on garde pour soi, éventuellement qu’on exprime en privé (en famille, dans un cercle d’amis sûrs, etc.). Mais en privé seulement. En public, jamais. En public elle reste derrière la tête ». Il se dégage, par conséquent, de « Ne vous approchez pas des fenêtres » une impression pesante, totalitaire, soviétoïde. Comme Alexandre Zinoviev le faisait pour « l’homo sovieticus », Eric Werner dissecte « l’homo occidentalis » sans pour autant se focaliser sur le seul angle sociologique puisqu’il aborde sans les précautions élémentaires d’usage de nombreux sujets. L’actuelle « soviétisation (occidentalisation ?) » des esprits fait qu’ « on ne cherche plus, en l’occurrence, à convaincre personne, on se contente de dire les choses telles qu’on les voit, dans un style forcément allusif, mais en même temps assez transparent pour qui sait lire entre les lignes ».

En dépit d’un éclectisme certain, l’unité du livre remet en cause les lieux communs contemporains. Le professeur Werner déroute, désoriente et dépasse tous les conformismes tant officiels qu’officieux. Aurait-il fait sienne ce que Vladimir Jankélévitch décriait : « De tous les conformismes, le conformisme du non-conformisme est le plus hypocrite et le plus répandu aujourd’hui. C’est cela le diable qui nous épie, nous surveille, et nous guette… » (1) ? Ainsi, affranchi de la posture anticonformiste, il donne une vision très particulière des Lumières et de la modernité. Si « les Lumières s’inscrivent en continuité directe avec le christianisme, d’une certaine manière, même, en marquent l’accomplissement (…) [elles] servent aujourd’hui souvent de prétexte à faire toutes sortes de choses n’ayant que des rapports avec les Lumières : entreprendre certaines guerres, par exemple, ou encore liquider les libertés publiques. On pourrait aussi parler d’alibi. Mais les Lumières elles-mêmes ne sont pas responsables du rôle qu’on leur fait jouer, ni en conséquence non plus des dérives qu’elles connaissent ». Or à quelles « Lumières » fait-il exactement référence ? Est-ce les « Lumières » d’expression française, l’ « Enlightment » anglo-saxon, l’ « Aufklärung » germanique, les « Illuminations » italiennes ? Chaque génie populaire réalisa son propre mode opératoire de réflexion « éclairée »… Ce sont les matrices du monde moderne. Certes, « la modernité se définit comme rupture avec la tradition (…). Mais si la modernité rompt avec la tradition, elle en conserve en même temps le regret, la nostalgie. Compterait-on autrement autant d’antimodernes parmi les modernes ? » Mieux, « si les Temps modernes s’inscrivent en rupture avec l’univers prémoderne, par ailleurs aussi ils en procèdent et ils ne sauraient donc se construire qu’à partir de lui. La bonne modernité, la modernité heureuse (car cette modernité-là, elle aussi, existe : il n’y a pas que la modernité malheureuse) n’est pas celle tournant le dos à la tradition ou encore l’ignorant, mais bien celle s’inscrivant en continuité avec elle, en assumant, bon gré mal gré, l’héritage (quitte, évidemment, à le réinterpréter) ». Ne s’agirait-il pas d’un appel en faveur d’un dépassement de la modernité, voire pour une « post-modernité » ?

« Ne vous approchez pas des fenêtres » ignore superbement les clivages politiciens et électoraux qui ne sont que des illusions délétères. Droite et gauche du régime participent au même cirque médiatique « sans le moindre enjeu majeur » pour le devenir des peuples et des personnes. En effet, « les dirigeants eux-mêmes (je parle ici des vrais, de ceux, élus ou non, qui prennent les vraies décisions, les décisions importantes) ne sont ni de droite ni de gauche : ils défendent leurs intérêts propres, leur intérêt de caste, leurs intérêts de dirigeants ». Cette « nouvelle classe » (Christopher Lasch reprenant la terminologie du dissident titiste Milovan Djilas) planétaire, ces nouvelles oligarchies transnationales ne s’intéressent qu’à leurs propres objectifs, ignorant et méprisant les aspirations du « commun peuple ». Or celui-ci montre ses réticences, ses refus, ses résistances à l’ « avenir radieux » promis par les multinationales et les Etats assujettis au Fric. Afin de briser ces oppositions populaires, nouvelle classe et structures étatiques misent alors sur le contrôle social de la population. Qu’est-ce donc ? « Le contrôle social n’est rien d’autre (…) qu’une prison à une plus vaste échelle, celle de la société dans son ensemble. On appelle ça la société de surveillance. »

On assiste par conséquent à l’édification d’une société cauchemardesque issue du croisement du « Meilleur des mondes » et de « 1984 » et dont le film « Brazil » fut une saisissante préfiguration. Nom actuel de Big Brother, la transparence (revendiquée, clamée, exigée) relève de ce processus, car « ils veulent tout voir, tout savoir. Ce qui les gêne, ce n’est pas exactement la drogue. Ce qui les gêne, c’est qu’elle circule sans autorisation : ça, c’est inacceptable. Donc ils l’autorisent ». Cette société de surveillance ne cherche pas à défendre les Etats ou à protéger les biens et les personnes ; elle n’entend qu’encadrer, canaliser la population avec le secret espoir d’en geler les passions, voire de les reléguer hors de l’histoire…

Comment ce contrôle social s’exerce-t-il concrètement ? Diversement. Est-ce fortuit si les autorités se montrent fort indulgentes envers les trafics de la pègre et l’économie clandestine ? Non, répond Eric Werner, parce que les activités interlopes soutiennent aussi in fine la croissance, le PNB et le PIB. Dans le même temps, les autorités, atteintes de schizophrénie, recourent plus régulièrement à l’emprisonnement : « en France, par exemple, entre 1975 et 1995, la population carcérale a carrément doublé. La durée moyenne de détention a également doublé au cours de la même période. Ce n’est donc pas ou bien… ou bien… : ou bien la prison, ou bien le contrôle social. On a aujourd’hui et la prison et le contrôle social ». Maints nouveaux délits ont été créés au cours des dernières décennies, judiciarisant sans cesse la vie publique et le domaine privé. L’accentuation de la répression policière et judiciaire se nourrit de l’insécurité environnante qui « ne se limite pas aujourd’hui aux seules incivilités. Parallèlement aussi il (…) faut prendre en compte une autre menace, celle liée aux activités mêmes des dirigeants : vidéo-caméras à tous les coins de rue, tests ADN pour un oui ou pour un non, constitution de mégafiches regroupant des dizaines de millions de personnes, instrumentalisation du terrorisme (…), développement de l’arbitraire policier, etc. »

La méfiance des oligarchies ne passe pourtant pas par une coercition brutale. Celle-ci s’exerce par la douceur, la mollesse et investit surtout des secteurs supposés secondaires. L’Ethnologue observe que si les autorités traitent souvent avec bien des égards les voyous (par crainte de campagnes médiatiques virulentes à la suite de prétendues « bavures » ?), elles n’appliquent pas le même traitement envers les honnêtes citoyens, surtout s’ils sont conducteurs ou défenseurs d’idées réfractaires… Et si ces braves gens osent contester, les policiers « deviennent menaçants, parlent d’outrage à agent, etc. ». Toute l’énergie des forces de l’ordre (sic) semble se concentrer sur les seuls méfaits routiers sur quatre ou deux roues, motorisées ou non. Les moutons de Panurge sont aujourd’hui en bagnole sinon pourquoi l’Etat soutiendrait-il le permis de conduire à un euro par jour ? « A contrario, les gens qui aiment la liberté font comme moi : lorsqu’ils se déplacent ils prennent l’autobus, le train, ou encore vont à pied. Là aussi ils te surveillent, mais moins. » Est-il dès lors si étonnant que les grèves récurrentes dans les transports en commun n’entraînent aucune réquisition ? Quant à la vétusté des lignes ferroviaires et métropolitaines, elle ne serait pas fortuite… On peut cependant trouver l’Ethnologue trop optimiste parce que depuis deux ans existent en Ile-de-France des cartes magnétiques (Navigo, par exemple) qui remplacent progressivement les anciens coupons d’abonnement et qui suivent à la trace leurs possesseurs (comme leurs téléphones portatifs qui constituent de remarquables mouchards).

La cause environnementale sert aussi de justification au flicage total. A propos de la réintroduction des ours et des loups dans les espaces sauvages des Pyrénées et des Alpes, Eric Werner estime que ces sympathiques animaux seraient aux campagnes ce que sont les dealers et la « racaille » dans les aires urbaines. Par ce très étrange « partage des tâches », l’objectif est d’empêcher quiconque de sortir de chez soi, car « moins tu bouges, mieux ils te contrôlent. Ils font donc en sorte que tu bouges le moins possible ». Tout n’est que suggestion et appel à un simili-bon sens : « on ne t’interdit pas exactement de sortir de chez toi, tu en as tout à fait le droit. Mais tu en prends seul la responsabilité ».

On doit malheureusement regretter que le professeur Werner n’analyse pas d’autres aspects sur lesquels s’exercent le contrôle et l’étatisation de l’intimité individuelle tels que la sexualité. Marcela Iacub, pour sa part, estime que « le sexe a été un formidable alibi pour que l’Etat casse les instances intermédiaires qui s’occupaient de gouverner la vie privée : la famille, l’école, les églises. C’est dorénavant le droit, et surtout le droit pénal, qui est devenu l’arbitre des conflits inter-personnels, au détriment d’autres normes morales, disciplinaires ou de politesse » (2). Outre la question sexuelle et l’hégémonie des médias, grands intoxicateurs d’opinion, existe un autre facteur qu’Eric Werner ne traite pas et qui explique en grande partie l’hébétement de la population : l’emprise considérable des banques. Comment le système bancaire est-il le Kapo du régime ? Au moyen de prêts, d’emprunts et d’hypothèques consentis aux ménages, on parvient à les surveiller puisqu’on les menace de les faire sombrer dans la marginalité, dans la clochardisation, s’ils ne remboursent pas. Or, en travaillant, en gagnant leur vie (fort chichement souvent), ils perdent la force de contester le régime. Frédéric Julien discerna fort bien la manœuvre insidieuse dans son opuscule « Pour une autre modernité. Relever le défi américain » : « Le Système marchand impose (…) aux candidats à l’emprunt une soumission complète à ses critères de choix et de décision. Il améliore de la sorte la “domestication” de l’individu » (3). En effet, « l’expérience enseigne que le citoyen endetté ne s’insurge plus, poursuit-il ; il revendique moins (cf. le repli du syndicalisme militant) et ses réclamations portent essentiellement sur des questions salariales et financières, dont certaines contribuent précisément à aggraver sa dépendance » (4).

Toujours aussi hostiles au cours déplaisant de leur temps, les protagonistes symboliques des conversations s’indignent de la partialité évidente de la pseudo-justice internationale et de l’effondrement du niveau culturel des Européens, perceptible à la seule lecture de la Une – sans cesse plus simpliste – des journaux si possible GRATUITS. Faut-il, après, être surpris de l’atrophie du raisonnement dans les jeunes générations gavées de séries télévisées débiles et de jeux vidéo émollients ? Ils critiquent aussi l’inégalité de traitement entre les gens respectueux des lois et les « sauvageons » qui ne paient jamais leur titre de transport, hurlent au téléphone, s’arrogent les places assises, écoutent à tue-tête une musique plus que stupide, forts d’une impunité construite sur des sommes de lâcheté et de lutte contre le « racisme » et les « discriminations »… Naguère, les Européens auraient sorti fourches et fusils contre les indésirables. Aujourd’hui, du fait des pressions du régime, les braves gens se mettent à « mal voter », à exprimer dans le respect des règles démocratiques leur ras-le-bol en apportant leurs suffrages à des formations protestataires.

Comment riposte alors le régime face à cette légitime colère populaire ? Il encourage les incivilités qui nuisent au quotidien des quidams et, si ceux-ci répliquent à leur tour, « on leur fait vite comprendre qu’ils ont intérêt à la boucler. Certains, pour avoir négligé cet avertissement, ont été condamnés en justice ». Et si cela ne suffit pas, on use alors des grands moyens, à savoir la « gestion de crise » et l’ « état d’exception », d’autant que « les crises les mieux gérées sont encore celles que l’on crée soi-même. (…) Comment s’y prend-on pour créer une crise ? Rien de plus simple, tu décrètes l’état d’exception. En décrétant l’état d’exception, tu crées par là même une situation de crise. Ensuite tu gères la crise ». Désormais, « l’état d’exception n’a plus rien aujourd’hui d’exceptionnel, il est devenu la norme. On le décrète pour un oui ou pour un non ». Ainsi, dans l’Hexagone, le plan Vigipirate est au niveau rouge en permanence ; des patrouilles de militaires en armes (non alimentées en munitions !) circulent dans les principales gares. Dans les trains, tant dans les TGV que dans les TER, des messages sonores récurrents invitent les voyageurs à étiqueter leurs bagages, ce qui terrifie – ô combien ! – les terroristes ! Les grandes messes sportives (les Jeux olympiques, l’Euro de football, le Mondial de rugby, etc.), les sommets européens, les réunions de l’OMC ou du G8, avec leurs gigantesques déploiements militaro-policiers, font s’habituer les peuples au contrôle social généralisé.

Les médias, enfin, relaient, diffusent et accentuent un climat anxiogène, une atmosphère angoissante, une ambiance de qui-vive permanent auprès des masses rendues inquiètes. Dans ce contexte de peur, le terrorisme (comme le combat contre la cyberpédocriminalité, d’ailleurs) est une belle aubaine puisqu’il motive la mise en œuvre des mesures inaccoutumées. « Quinze jours à peine déjà après les attentats du 11-Septembre, les premiers textes antiterroristes sortaient des tiroirs de l’administration. Evidemment ils étaient prêts depuis longtemps. (…) Le résultat ? Abolition de l’habeas corpus, carte nationale d’identité biométrique, contrôle à distance, mandat d’arrêt européen, fouilles préventives généralisées, écoutes électroniques, croisements de banques de données, etc. Merci, M. Ben Laden ! Au nom de la lutte contre le terrorisme, la police s’arroge aujourd’hui tous les droits. » Néanmoins, les groupes terroristes ne s’en formalisent guère puisque l’essentiel de cette législation spéciale atteint en priorité le grand public et, en particulier, tous les contestataires du modèle occidentiste, des faucheurs volontaires d’OGM aux érudits mal-pensants sur certains événements de l’histoire contemporaine. Le professeur Werner insiste sur l’instrumentalisation du maintien de l’ordre à des fins autres, voire contraires, à la concorde sociale : « Le but allégué de certaines opérations policières est une chose, leur but réel une autre (…). Considérons les contrôles routiers. Officiellement ces contrôles ont un but préventif : ils visent à limiter le nombre de morts sur les routes. (…) Mais on pourrait aussi dire l’inverse : les morts sur les routes sont un bon prétexte pour accroître à l’infini le nombre des contrôles routiers. Les accroître pourquoi ? Pour intimider les gens, leur montrer qu’on les a à l’œil, au bout du compte aussi le ficher, etc. En outre, ces contrôles ont une fonction d’alibi : ils assurent une certaine visibilité à la police, alors même que certains lui reprochent de n’être jamais là quand on a besoin d’elle. (…) Enfin, last but not the least, ils contribuent à renflouer les caisses de l’Etat. »

L’oppression pesant en premier lieu sur les consciences, la libre confrontation des idées s’en trouve empêchée ; le politique dépérit. Apeurés, les individus esquivent la réalité, se ferment au monde et se replient sur eux en écoutant dans les rues, dans les rames du métro ou dans les compartiments de train la musique de leurs baladeurs et autres I-pods. « Le repli sur la sphère privée doit s’entendre comme une conséquence logique de l’effacement actuel de l’espace public. En clair, c’est la contrepartie de la dictature. Lorsqu’il n’est plus possible de s’exprimer au plan public à cause des risques auxquels on s’expose en le faisant, on se replie tout naturellement sur la sphère privée. » Or l’hypertrophie du privé aux dépens du public est un symptôme du totalitarisme. « Il n’y a de liberté politique que dans un système qui respecte la distinction du public et du privé, observait Julien Freund. En effet, toute doctrine qui la nie ou tend à la supprimer (étant entendu qu’on la rejette aussi lorsqu’on prend exclusivement parti soit pour le public soit pour le privé) nie du même coup une catégorie de l’existence humaine. » (5) Le régime parie clairement sur la neutralisation du politique. Par conséquent, « il est absurde de penser qu’une socialisation et démocratisation ou bien une privatisation plus poussée des relations sociales rendraient, par leurs vertus propres, l’homme plus libre, comme si ce genre de processus pouvait amplifier une liberté qui ne serait pas donnée au départ, avertissait encore Julien Freund. En réalité, parce que le privé et le public sont des catégories animées chacune par une volonté autonome, il leur est possible d’étouffer toute liberté à l’intérieur de leur sphère respective » (6). Eric Werner pense que nous sommes entrés dans cette phase d’étouffement.

Cependant, et ce serait un paradoxe, le régime ne scierait-il pas son assise ? Neutralisé, le politique ne germerait-il pas ailleurs, sur des créneaux inattendus ? « Il n’est pas exclu (…) que le politique utilise aussi le détour du privé pour aboutir à ses propres fins » (7).

« Ne vous approchez pas des fenêtres » est finalement une invitation impérieuse à s’approcher des fenêtres, à scruter l’espace public et à guetter le grand retour du politique qui arrive toujours par des chemins détournés, mais à ses risques et périls ! Porter un gilet pare-balles se révèle indispensable pour examiner la nature exacte du régime.

Georges Feltin-Tracol

« Métapolitique - Le régime mis à nu »

EuropeMaxima.com - 22/06/08

Notes

1.   « Quelque part dans l’inachevé ». Entretien entre Vladimir Jankélévitch et Béatrice Berlowitz, Gallimard, coll. Folio-Essais, 1978, p. 13.

2.   Marcela Iacub, « Libération », 29 février 2008.

3.   Frédéric Julien, « Pour une autre modernité. Relever le défi américain », Etudes solidaristes, Cercle Louis Rossel, Editions du Trident, 1985, p. 51.

4.   Id., pp. 51-52, souligné par l’auteur.

5.   Julien Freund, « L’Essence du politique », Dalloz, 2004, p. 299.

6.   Id., p. 315.

7.   Id., p. 316.

Eric Werner, « Ne vous approchez pas des fenêtres/ Indiscrétions sur la nature réelle du régime », coll. Les Yeux ouverts , Editions Xénia, 2008, 140p ., 13,30 €.