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mardi, 03 janvier 2012

Mircea Eliade, il genio

Mircea Eliade, il genio

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Ex: http://wwww.centrostudilaruna.it/

Il 13 marzo di cent’anni fa nasceva a Bucarest Mircea Eliade. Fin dall’infanzia i genitori spostano il compleanno al 9 marzo. Al suo nome di battesimo non corrispondeva infatti alcun patrono nel calendario ortodosso, sicché la famiglia decise di festeggiare il giorno 9, che non era consacrato a nessun santo particolare bensì ai Quaranta Martiri uccisi a Sebaste durante le persecuzioni di Luciano.

Studioso del mito e delle religioni, esperto di yoga e sciamanesimo, di occultismo ed esoterismo, romanziere fecondo, saggista dall’erudizione prodigiosa e a suo agio in otto lingue, Eliade è stato tra le intelligenze più acute e versatili del Novecento. Ma l’intelligenza è un dono di dèi invidiosi, un dono avvelenato: il confine che la separa dall’ottusità è mobile.

«Che uomo straordinario sono!», annota il trentaquattrenne intellettuale nel suo Jurnalul din Portugalia, l’inedito diario dei cinque anni, dal 1941 al 1945, trascorsi come consigliere culturale all’ambasciata rumena di Lisbona (in Italia sarà pubblicato da Bollati Boringhieri). Il giovane Eliade, all’epoca ancora sconosciuto al grande pubblico europeo, passa parte delle sue giornate a rileggere alcune sue pagine e si paragona ai grandi della letteratura: «La mia capacità di comprendere e percepire tutto ciò che appartiene alla sfera culturale è illimitata … Comunque sia, i miei orizzonti intellettuali sono più vasti di quelli di Goethe». Il 15 luglio 1943 annota con ineffabile disinvoltura: «Mi rendo conto che dopo Eminescu [il poeta nazionale rumeno], la nostra razza non ha mai più conosciuto una personalità tanto (…) potente e tanto dotata quanto la mia».

I diari integrali saranno desecretati solo nel 2018, ma tutto fa pensare che l’autocritica non appartenesse al pur vastissimo repertorio di Eliade. Né che egli sia mai guarito dalla megalomania di cui evidentemente andava affetto. A quattordici anni aveva già pubblicato il suo primo racconto: Come ho scoperto la pietra filosofale. In un successivo Romanzo dell’adolescente miope (1923) elabora la quasi umiliante scoperta della propria sessualità. Qualche anno dopo, in Gaudeamus (1928), entrano in scena la femminilità e l’amore, e per converso il concetto di «virilità», mutuato dall’adorato Papini, autore di Maschilità. Il suo io è superalimentato dall’ambizione e da una «religione della volontà» fatta di astinenza e disciplina (dormiva cinque ore per non sottrarre tempo allo studio).

Iscrittosi nel 1925 a Lettere e Filosofia dell’università di Bucarest, emerge come leader della giovane «Generazione», un gruppo di intellettuali anticonformisti che aspira a rinnovare la tradizione rumena. Tra gli altri «latini d’Oriente» ci sono Cioran (che nel 1986 gli dedicherà uno dei suoi superbi Exercises d’admiration), Ionesco, Costantin Noica e Mihail Sebastian, un ebreo a lui molto caro.

Nel 1927 e 1928 visita l’Italia, avendo alle spalle una serie di letture rapaci che mettono le ali alla sua passione per nostra cultura (documentata esaurientemente da Roberto Scagno per Jaca Book). Su tutti Papini ed Evola, a proposito del quale scriverà un testo, Il fatto magico, andato perduto. Dopo la laurea su La filosofia italiana da Marsilio Ficino a Giordano Bruno, alla fine del 1928, parte alla volta dell’India per studiare la filosofia orientale con Surendranath Dasgupta. Vi rimane fino al dicembre del 1931, imparando il sanscrito e raccogliendo materiali, conoscenze ed esperienze che lo segnano profondamente. C´è anche una storia d’amore con Maitreyi, la figlia di Dasgupta, nella cui casa a Calcutta era andato ad abitare. La ragazza è la protagonista dell’omonimo romanzo, che Eliade pubblica in Romania nel 1933. Sarà un grande successo, che trasfigura Maitreyi in un simbolo dell’immaginario rumeno.

Incrinatisi i rapporti con Dasgupta, viaggia nellHimalaya occidentale soggiornando nell’ashram di Shivananda e facendosi iniziare allo yoga. Nel contempo lavora alla tesi di dottorato, che discute a Bucarest nel ‘33 e pubblica a Parigi nel ‘36 con il titolo Yoga, saggio sulle origini della mistica indiana. Un libro che lo lancerà come autore di culto quando lo yoga si diffonderà in Occidente.

Dal 1933 al 1940 è di nuovo a Bucarest come assistente di Nae Ionescu, il leggendario maestro della giovane Generazione. Ionescu lo avvicina alla Guardia di Ferro, l’organizzazione di estrema destra capeggiata da Codreanu. Costui era convinto, tra l’altro, che gli ebrei cospirassero per fondare una nuova Palestina tra il Mal Baltico e il Mar Nero, e il suo vice, Ion Mota, aveva tradotto in rumeno I protocolli dei Savi di Sion. Eliade non era antisemita, ma all’epoca si lasciò intruppare. Il diario che l’amico ebreo Sebastian tenne fra il 1935 e il 1944, pubblicato nel 1996, è un’accorato lamento per il comportamento ambiguo di Eliade. Che è tutto preso dalle sue carte: pubblica vari saggi (tra cui Oceanografia e Il mito della reintegrazione), romanzi (tra cui Ritorno dal Paradiso, La luce che si spegne, i due volumi Huliganii), un’importante rivista di studi mitologici, Zalmoxis, che richiamerà l’attenzione di Carl Schmitt ed Ernst Jünger.

Alla fine della guerra si trasferisce a Parigi dove, aiutato da Dumézil, insegna all’Ecole des Hautes Etudes. Il Trattato di storia delle religioni (1949) lo consacra come massimo studioso del fenomeno religioso su scala mondiale. Ostile al metodo positivistico e storicista, Eliade riprende la prospettiva aperta da Rudolf Otto e sviluppa uno studio comparativo del sacro e delle sue manifestazioni, le «ierofanie». La sua non è una storia bensì una morfologia del sacro, le cui forme appaiono e si ripetono nel tempo, con le feste, e nello spazio, con i «centri del mondo», riattualizzando miti primordiali. Per lui il mito non è affatto arcaico né fuori gioco. Si è piuttosto ritirato negli interstizi della modernità, dove si tratta di scovarlo. Contro la presunta superiorità dell’uomo moderno sui «primitivi».

Nel 1950 è invitato da C.G. Jung al primo incontro di «Eranos» ad Ascona. Nel 1956 passa a insegnare alla Divinity School di Chicago, dove rimarrà fino alla morte (avvenuta il 22 aprile 1986 per un ictus). Dal 1960 al 1972 dirige con Ernst Jünger una straordinaria rivista di storia delle religioni, Antaios. Intanto seguita a pubblicare a ritmo martellante un’infinità di lavori, culminati nella grande Storia delle credenze e delle idee religiose (1976-1983). È anche candidato al Nobel per la letteratura.

Purtroppo, un dettaglio ne stoppa l’apoteosi, e gli schizza addosso una macchia infamante. Un dettaglio biografico, sul quale la sua intelligenza si incaglia e si rovescia in ottusità.

Nel 1972 lo storico Theodor Lavi (pseudonimo di Lowenstein), in base al diario ancora inedito di Sebastian e ad altre testimonianze, rivela su Toladot, una piccola rivista dell’emigrazione rumena in Israele, che Eliade era stato vicino alla Guardia di ferro. Eliade fa finta di nulla, cerca di sbarazzarsi del suo passato come un serpente della sua pelle. Ma la notizia fa il giro del mondo, in Italia è ripresa da Furio Jesi. Un suo viaggio a Gerusalemme nella primavera del 1973 dev’essere annullato in extremis, tra lo sconcerto dell’amico Gershom Scholem. Nei suoi diari, silenzio.

Da quel momento Eliade adopera la sua intelligenza per dissimulare e insabbiare. Cerca coperture, si stringe ad amici insospettabili, come Paul Ricoeur e lo scrittore ebreo Saul Bellow. Quest’ultimo diventa suo intimo, ma nel romanzo Ravelstein inscena il dubbio che lo tormenta. Il protagonista, alias Allan Bloom, mette in guardia l’amico narratore da Radu Grielescu, alias Eliade: è stato «un seguace di Nae Ionescu che fondò la Guardia di Ferro», avverte, un jew-hater che denunciò «la sifilide ebraica che contagiava la raffinata civiltà balcanica», «ti strumentalizza» per «rifarsi una verginità». Il tarlo del sospetto non soffocherà la compassione, e ai funerali di Eliade Bellow prenderà la parola per dire il suo dolore e la sua compassione.

È difficile giudicare del caso Eliade. Come è difficile giudicare di Heidegger, Carl Schmitt o Céline. Certo, la loro opera non può più essere letta solo in chiave scientifica o letteraria, separandola dalla biografia. Eppure, la loro vita mediocre non basta a oscurare la grandezza dell’opera che ha generato. Ci chiediamo: perché intellettuali di tale statura si sono ostinati a tacere il loro passato? La verità è che gli uomini sono molto meno uguali di quello che dicono, e molto più di quello che pensano.

È probabilmente questa saggezza che ha indotto perfino il regista Francis Coppola a rendere omaggio a Eliade. Il suo nuovo film, Youth without Youth, prende spunto da un omonimo racconto di Eliade (Tinerete fara tinerete): un settantenne professore, colpito da un fulmine, diventa più giovane anziché più vecchio, attirando l’attenzione dei servizi segreti. Il professore deve scappare attraverso vari paesi fino in India… Anche questa singolare fortuna è un dettaglio in cui si nasconde il buon Dio, e ci avverte che l’opera di Eliade rimane un capitolo inevitabile della storia intellettuale del Novecento, un passaggio obbligato per capirne le convulsioni.

* * *

Tratto da Repubblica del 12 marzo 2007.

samedi, 31 décembre 2011

La metaphysique de la guerre

La métaphysique de la guerre

par Kerry Bolton

Ex: http://www.counter-currents.com/

medium_chevalier.jpgIl y a un fond commun à toutes les civilisations basées sur la tradition, remontant à des siècles dans le passé et incluant géographiquement les civilisations nées en Asie, en Europe, et même jusqu’en Amérique centrale et en Amérique du Sud. La base de la civilisation traditionnelle est la création de l’ordre à partir du chaos, comme manifestation cosmique et divine. C’est pourquoi la civilisation elle-même était un produit du cosmique, et tous ses aspects avaient une signification métaphysique. Le « droit divin » des rois plaçait la  souveraineté bien au-dessus de la simple politique au sens moderne : le souverain représentait le point central autour duquel gravitaient les parties les plus lointaines des empires. Une autre marque de la civilisation traditionnelle était l’institution des castes qui étaient également  ordonnées d’une manière divine et cosmique : car la caste de quelqu’un représentait sa condition spirituelle, qui avait été pré-ordonnée avant sa naissance physique. Franchir la limite de sa caste revenait à devenir littéralement un « hors caste » ou paria, inférieur même à l’esclave.

La caste guerrière était la plus estimée du point de vue cosmique, car le guerrier était davantage qu’un « soldat » au sens moderne du mot ; il était un guerrier cosmique dont le devoir dharmique (pour utiliser un mot hindou qui a sa contrepartie dans toutes les civilisations traditionnelles) reflétait l’action des dieux eux-mêmes puisque le guerrier  établissait l’ordre dans le royaume terrestre, de même que les dieux avaient triomphé des forces du chaos et établi l’« ordre » en créant le cosmos.

Guerre sainte

Avec cette analogie ésotérique entre le guerrier terrestre et le héros divin, la guerre devenait la guerre sainte, une action transcendant le terrestre et transformant magiquement le guerrier en un être spirituel. La guerre devenait ainsi « la voie du divin ». La caste guerrière avait ses propres rites religieux. Les samouraïs japonais, par exemple, étaient inspirés par le Zen. Les guerriers nordiques étaient dévoués à Odin, Thor ou Tyr. Les guerriers perses et plus tard romains étaient dévoués à Mithra. Krishna enseigna à Arjuna la doctrine guerrière de la violence détachée, qui transforme la bataille en guerre sainte et Arjuna en guerrier divin.

Pour le guerrier des civilisations traditionnelles, la spiritualité de la guerre garantissait la bénédiction de la divinité. Le guerrier qui était tué à la bataille atteignait souvent lui-même l’état divin, ou atteignait du moins la demeure des dieux, pour habiter parmi eux en tant que guerrier divin. Pour les Aztèques, le plus haut siège d’immortalité, la « Maison du Soleil », était le lieu de résidence non seulement des rois mais aussi des héros. Le guerrier hellénique atteignait l’Olympe en tant que héros divin, alors que les autres allaient dans la pénombre de l’Hadès. De même, les guerriers nordiques tués à la bataille continuaient à combattre et à festoyer avec les dieux Ases au Walhalla, pendant que les autres habitaient dans Hel. Le guerrier islamique dont l’âme était purifiée par le djihad habitait au paradis, de même que leurs homologues européens, les chevaliers des Croisades.

Chevalerie

A travers la guerre, les pulsions humaines et chaotiques du guerrier ainsi que son attachement aux choses matérielles étaient transcendés, et son âme était purifiée. C’est le thème commun de l’éthique spirituelle et guerrière de tous les ordres de chevalerie, dans toutes les civilisations traditionnelles. La guerre était la grande initiation, le rite sacré transcendant la condition humaine inférieure.

Le djihad était appelé le Sentier d’Allah. Le Coran dit : « Que ceux qui veulent échanger la vie contre l’Au-delà combattent pour la cause d’Allah ; qu’ils meurent ou qu’ils vainquent, Nous leur donnerons une riche récompense ». Et aussi : « Vous avez l’obligation de combattre, même si cela vous déplaît ». Le détachement personnel conseillé par le Coran est précisément celui que Krishna enseigne à Arjuna, le chef de la caste des kshatriyas : « Offre-moi toutes tes actions et repose ton esprit sur le Suprême ; libéré des vains espoirs et des pensées égoïstes, délivré du doute, jette-toi dans le combat ».

Deux formes de chevalerie se rencontrèrent au Moyen Orient, représentant la même éthique. Pour les Croisés, il ne s’agissait pas d’un combat politique mais d’une guerre sainte qui transcenda bientôt les résultats matériels et les rivalités nationales et politiques, unissant les Européens en un bloc unitaire que l’Occident n’avait pas connu depuis l’Empire romain. De nouveau, la guerre sacrée devenait un moyen d’initiation intérieure, de transcendance ésotérique. A l’époque, la Croisade était décrite en termes métaphysiques analogues à ceux de l’islam et de l’hindouisme : « Une purification qui est presque un feu du purgatoire, qu’on connaît avant la mort ». Saint Bernard fit l’éloge de la gloire de gagner sur le champ de bataille « une couronne immortelle ». Jérusalem était une cité céleste, un point central de la civilisation de l’Occident, de même que toutes les civilisations et tous les empires traditionnels avaient eu un centre. L’éthique spirituelle et guerrière des Croisades s’exprimait dans des maximes comme « Le paradis est à l’ombre des épées » ; et « le sang des guerriers est plus proche de Dieu que l’encre des savants et les prières des dévots ».

Eclipse de la chevalerie

Aujourd’hui, la civilisation occidentale est entrée dans sa phase de mort. Ce n’est pas une civilisation au sens traditionnel ; c’est pourquoi l’éthique spirituelle de la guerre a disparu. La Première Guerre Mondiale, en dépit de la mécanisation de masse et des motifs économiques bassement matérialistes, fut la dernière guerre à présenter des vestiges de chevalerie traditionnelle dans les deux camps ; ces vestiges se manifestèrent par la fraternisation entre combattants ennemis le Jour de Noël, et plus symboliquement par les honneurs rendus aux aviateurs ennemis tués au combat.

La Seconde Guerre Mondiale refléta la nature vile et non-chevaleresque de la guerre non-traditionnelle par excellence : les bombardements de saturation des Alliés sur des villes comme Dresde ; et une motivation purement basée sur une vengeance talmudique étrangère, se manifestant par l’exécution des chefs politiques et militaires des nations vaincues, à Nuremberg [1] et dans des procès similaires.

Dans une certaine mesure, la Waffen SS peut se comparer aux ordres de chevalerie des Croisades ; ce fut la seule formation militaire de la guerre dont l’éthique était fondée sur l’honneur (« Notre honneur s’appelle fidélité »), et en particulier sur le sens de la guerre « sainte » qui transcenda les frontières nationales et attira des volontaires venant de toute l’Europe, tout comme les Croisades l’avaient fait (on pourrait arguer que, dans un sens totalement différent, certains Juifs la considérèrent aussi comme une « guerre sainte »). Si la Waffen SS fut le dernier vestige de la caste guerrière traditionnelle à se manifester dans la civilisation occidentale [2], alors l’incarnation même de la décadence de l’Occident fut sûrement les GI’s américains paradant à travers l’Europe, pillant les trésors culturels [3], violant, détruisant au marteau les sculptures d’Arno Breker qui avaient décoré les jardins publics d’Allemagne, puis se retirant du Vietnam dans l’humiliation et la stupeur des drogués un demi-siècle plus tard.

Notes du traducteur

1. Les chefs nazis furent pendus en octobre 1946, pendant la période de la fête juive de Sukkot (Fête des Cabanes) ; en mars 1953, six ans et demi plus tard, Staline connut une mort suspecte (et opportune) pendant la fête juive de Pourim…

2. Deux réflexions à ce sujet : « Il ne resta aux survivants que la persécution et la répression. Mais on peut parler d’un échec très relatif, et celui qui connaît le sens de la Guerre Sainte sait à quoi nous faisons allusion… » (Ernesto Milà, Nazisme et ésotérisme, 1990). Et aussi : « C’était le prix à payer, le prix du passage » (Jean-Paul Bourre, Le Graal et l’Ordre Noir, Déterna 1999).

3. Plus récemment les GI’s firent la même chose, en pire, avec les trésors archéologiques de l’Irak. En outre ils passèrent au bulldozer la tombe de Michel Aflak, le fondateur (chrétien !) du parti Baas, et mirent à leur tableau de chasse un nombre exceptionnel de journalistes.

Article paru dans le magazine néo-zélandais The Nexus, n° 8, mai 1997.

Lectures conseillees

– Bhagavad-Gita (si possible la traduction d’Anna Kamensky, une des meilleures)

Métaphysique de la guerre (Julius Evola, brochure)

La doctrine aryenne du combat et de la victoire (Julius Evola, brochure)

 


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jeudi, 29 décembre 2011

L’appel aux dieux: la phénoménologie de la présence divine

L’appel aux dieux:
la phénoménologie de la présence divine

par Collin Cleary

Ex: http://www.counter-currents.com

1. Introduction

Le problème avec nos païens occidentaux modernes, c’est qu’ils ne croient pas vraiment en leurs dieux, ils croient seulement croire en eux.

Mes ancêtres croyaient, mais je ne sais pas de quelle manière ils croyaient. Je confesse que je ne sais pas à quoi cela ressemble de vivre dans un monde où il y a des dieux. De temps en temps j’aurai un aperçu de ce à quoi cela pourrait ressembler, mais dans la vie quotidienne je vis dans un monde qui semble complètement humain et complètement profane. Cela ne sert à rien de me dire que le monde m’apparaît ainsi parce que j’ai été imprégné de scientisme et de matérialisme modernes. Savoir que c’est le cas ne m’ouvre pas forcément le monde d’une manière différente. Il est également inutile de me dire à quel point je me sentirais mieux (ainsi que le monde) si nous croyions encore aux dieux. Ceci est une approche purement intellectuelle et même idéologique qui ne marchera simplement pas.

Ainsi pourquoi, pourrait-on se demander, suis-je donc préoccupé par le « problème » de ne pas croire aux dieux ? Parce que je sais qu’il est vraiment peu plausible de penser que mes ancêtres soient simplement restés assis et aient « inventé » leurs dieux1[1]. La pensée me tenaille qu’ils possédaient une sorte de conscience différente, ou un certain sens particulier qui s’est maintenant atrophié en nous, qui permettait aux dieux de se manifester à eux. Et ensuite il y a aussi ma conviction que quelque chose de très important a été perdu pour nous dans le monde « post-païen ». J’ai tenté de penser mon chemin de retour à la croyance aux dieux ; me convaincre moi-même, intellectuellement, de leur existence. Je sais que cela ne marche pas, et je ne pense pas que cela marchera pour quiconque d’autre. Quelles sont donc nos autres options ?

Dans mon essai « Connaître les dieux », j’ai dit quelque chose dans le genre-là. J’ai rejeté l’approche moderne tentant d’« expliquer » ce que sont les dieux en les réduisant à quelque chose d’autre (par ex. à des « forces »). J’ai dit que l’« ouverture aux dieux » implique une ouverture à l’Etre en soi. En disant cela, je m’inspire bien sûr de la pensée de Heidegger. Pour celui-ci, ce qui fait la différence entre les anciens et les modernes est que les modernes voient la nature somme une simple « matière première » à transformer d’après les projets et les idéaux humains. En d’autres mots, pour les modernes, la nature n’a essentiellement pas d’Etre : elle attend que les humains lui confèrent une identité. D’après Heidegger, l’attitude des anciens était tout à fait différente. Il serait probablement excessif de dire que les anciens regardaient la nature (physis, en grec) avec « respect ». Cela ressemble beaucoup trop à l’attitude des citadins retrouvant la nature par hasard, après en avoir été séparés pendant longtemps ; ce n’est pas l’attitude de ceux qui vivent quotidiennement avec la nature. Pour utiliser le langage de Kant, on pourrait dire que les anciens regardaient les objets naturels comme des fins-en-soi, pas simplement comme des moyens pour des fins humaines.

Pour expliquer cette idée, j’utiliserai une analogie très simple. Il n’est pas inhabituel de voir des mariages dans lesquels le mari est la figure dominante – à tel point que la femme semble à peine avoir une présence. Le mari fait des grands discours sur une question quelconque, en compagnie d’amis, et lance un regard en coin à la femme : « Tu penses la même chose, n’est-ce pas ma chérie ? ». Et avant qu’elle puisse répondre il recommence à discourir sur autre chose. Même s’il lui donnait le temps de répondre, elle n’oserait jamais s’opposer à lui. Un tel homme a tendance à être très surpris quand, des années après, il découvre d’une manière ou d’une autre que sa femme est très mécontente de cet arrangement. Il a généralement un choc quand il découvre qu’elle a une vie intérieure bien à elle, et qu’en interdisant à cette vie intérieure de s’exprimer il s’est fait un très mauvais mariage. Cette situation est exactement analogue à la relation entre l’homme moderne et la nature. La nature, si elle est traitée comme une simple chose à laquelle l’homme impose sa volonté, se ferme. Elle devient silencieuse et cesse de révéler sa vie intérieure et ses secrets à l’homme. Pendant ce temps, bien sûr, l’homme pense qu’il a sondé les profondeurs de la nature, et qu’elle n’a plus beaucoup de secrets à révéler. Mais, comme l’a dit Héraclite, « la nature aime se cacher ».

L’homme occidental chrétien avait jadis cru que le monde était un objet créé par un Dieu omnipotent. L’homme moderne a rejeté Dieu, mais a conservé l’idée que la terre est un objet. Nos scientifiques s’efforcent de découvrir comment les objets naturels sont « construits » ou « assemblés ». Ils décomposent les choses en « parties » ou en « composantes ». Avec un objet, bien sûr, on peut le détruire et utiliser sa « matière » pour construire quelque chose d’autre – peut-être quelque chose de meilleur que ce qui existait à l’origine. C’est ainsi que l’homme moderne voit la nature : simplement comme une chose à transformer en une autre chose meilleure. Et la chose que nous fabriquons continue à s’améliorer sans cesse. Ou c’est ce que nous nous imaginons. Face à une humanité qui n’accepte plus l’existence même de la nature, aucune existence par elle-même, les dieux, semble-t-il, nous ont quittés. Comme l’a dit Heidegger : « sur la terre, sur toute sa surface, se produit un obscurcissement du monde. Les événements essentiels de cet obscurcissement sont : la fuite des dieux, la destruction de la terre, la réduction des êtres humains à une masse, la prépondérance du médiocre » [2].

En nous fermant à l’être de la nature, nous nous fermons simultanément à l’être des dieux. Ceci est une partie majeure de ce que j’ai dit dans « Connaître les dieux ». Les dieux et ce que nous appelons nature appartiennent au même domaine : le domaine du « en soi ainsi ». En chinois, « Nature » est tzu-jan. Cela s’écrit en utilisant deux pictogrammes, dont l’un peut être traduit par « en soi » et l’autre « ainsi ». Qu’est-ce que cela signifie ? Le « en soi ainsi » est ce qui est, ou ce qui est arrivé, indépendamment de l’action ou de l’intervention humaine consciente[3]. Il a approximativement le même sens que le grec physis.

J’étais un jour à une conférence, et j’eus l’occasion de parler de la « nature » à une universitaire. Elle me demanda ce que je voulais dire par ce mot. J’exprimai ma surprise qu’elle ne connaisse pas cela, sur quoi elle m’informa que la nature était une « construction sociale ». Nous étions assis à une table et je lui demandai de tendre le bras et de découvrir son poignet. Je pris son poignet dans ma main, et quand j’eus trouvé son pouls je lui dis de mettre son autre main dessus et de le sentir. « Voilà », dis-je. « C’est la nature. La société n’a pas construit cela. Ce n’est pas venu non plus par votre propre choix ou intention. Cela arrive simplement, que ça vous plaise ou non ». C’est le « en soi ainsi ».

Les êtres humains ont le choix de s’ouvrir au « en soi ainsi » ou de s’y fermer. L’homme moderne a choisi de s’y fermer. Mais bien que le « en soi ainsi » soit traduit par « nature », c’est une catégorie beaucoup plus large. En se fermant au « en soi ainsi », l’homme s’est fermé à tout ce qui est autre : à ce que nous appelons nature, et à tout ce qui existe de soi-même, en-dehors de l’humanité – incluant tout ce qui pourrait être « surnaturel ».

Le but de cet essai, que j’ai conçu comme une suite à « Connaître les dieux », est de demander spécifiquement comment nous pouvons restaurer l’ouverture au « en soi ainsi ». C’est la question que l’autre essai avait laissé largement sans réponse. Au cas où ce ne soit pas clair, laissez-moi dire encore une fois que je prends l’ouverture au « en soi ainsi » comme supposition. Je la prends comme un moyen de conscience et d’acceptation de ce qui a une existence en soi. Je prends la « nature » comme faisant partie de ce « en soi ainsi », avec ce qui a été désigné comme le « surnaturel » : les dieux, ainsi que le dieu-sait-quoi.

Avant tout, il faut comprendre que ce qui est le « en soi ainsi » fait aussi partie de nous. Le pouls qui bat dans nos poignets en est un exemple. Ainsi que la faim que l’on ressent quand un repas met longtemps à venir, ou le désir sexuel qui monte, sans aucune permission de l’intellect. Quand je dis que l’homme moderne s’est fermé à ce qui est autre, je ne veux pas dire qu’il s’est fermé à tout ce qui est à l’extérieur de sa peau. L’homme moderne s’est identifié à son intellect conscient seul. Il traite son corps de la manière qu’il traite tout autre objet naturel : comme quelque chose qui lui « appartient », et qui doit être maîtrisé, et même, comme nous disons souvent aujourd’hui, « converti ». Nous n’avons pas besoin de « sortir de nous-mêmes » pour rencontrer la nature ou le « en soi ainsi », à condition d’avoir une conception du moi qui englobe davantage que l’intellect conscient.

L’ouverture doit donc impliquer le rejet de l’idée que l’esprit est la seule chose qui compte pour l’identité de quelqu’un. Elle doit impliquer la reconnaissance qu’une grande partie du « moi » n’est pas consciemment choisie ou contrôlée. L’ouverture devient alors non pas tant l’ouverture d’un espace qui se remplira par la suite qu’une sorte de communion avec un autre qui, en un sens, n’est maintenant plus aussi autre.

Dans un essai surtout consacré à Benjamin Franklin, D. H. Lawrence offre sa propre « croyance », par opposition à la croyance « sensible » des Lumières qui était celle de Franklin. Il écrit qu’il croit

« Que je suis moi ».

« Que mon âme est une forêt obscure ».

« Que mon moi connu ne sera jamais plus qu’une petite clairière dans la forêt ».

« Que les dieux, les dieux étranges, sortent de la forêt pour entrer dans la clairière de mon moi connu, et ensuite repartent ».

« Que je dois avoir le courage de les laisser aller et venir ».

« Que je ne laisserai jamais l’humanité mettre quelque chose au-dessus de moi, mais que je tenterai toujours de reconnaître les dieux en moi et de m’y soumettre ainsi que pour les dieux dans les autres hommes et femmes » [4].

L’âme est en effet une forêt obscure. Comme l’a dit Héraclite : « Vous ne découvririez pas les limites de l’âme même si vous fouliez chaque chemin : elle a un logos si profond » [5]. Mais l’homme moderne s’est identifié à la petite clairière du Moi connu. En-dehors de cette clairière il y a une grande forêt obscure, et au-delà se trouve la grande nature sauvage qui est le monde lui-même. L’homme l’éclaire avec sa lampe de poche et s’imagine qu’en-dehors de son rayon il n’y a que le vide. Et « petit bois » est le mot ingénieux qu’il utilise pour décrire la minuscule partie qu’il éclaire.

2. Comment appeler les dieux

Arrêtons-nous et examinons à quels moments – à quelles occasions – nous avons le sentiment de la réalité de ce qui est autre. Les meilleurs exemples sont quand les choses tombent en panne ou trompent nos attentes d’une façon ou d’une autre. C’est ainsi que Heidegger approche la question. Nous montons dans notre voiture pour commencer une journée chargée, faire des affaires et faire les courses – et nous découvrons qu’elle ne démarre pas. Mon expérience de telles situations est qu’il y a d’abord un sentiment de quasi « irréalité ». Nous avons envie de dire (et nous disons souvent) : « Je ne peux pas y croire ». Et soudain l’être de cette concaténation de métal et de plastique nous confronte à toute sa facticité frustrante. Une situation encore pire survient quand le corps tombe malade, quand soudain il ne fonctionne pas comme nous l’attendons. Le corps nous semble alors être un simple autre. Ces deux situations, et toutes les autres comme elles, sont des occasions où une chose qui a été prise comme allant de soi semble soudain s’affirmer toute seule. Ce qui avait été regardé comme un simple instrument, comme une extension de la volonté humaine, devient un être en soi. Le résultat est de la frustration, de l’étonnement, de la fureur, et quelque chose comme du respect.

Mais, en termes religieux, ce que nous voulons ce n’est pas d’être intimidé par ceci ou cela, mais plutôt de finir par trouver le monde lui-même respectable dans son étrangeté. Faut-il que le monde « tombe en panne », comme une voiture, pour que nous connaissions cela ? Bien sûr, la réponse est qu’il ne le peut pas. Ce qui arrive très souvent c’est que nous tombons en panne et que le monde nous apparaît comme quelque chose qui pourrait être perdu pour nous à jamais. J’ai à l’esprit des situations où les êtres humains ont un contact avec la mort ou la folie, ou se retrouvent face à leur propre mortalité ou fragilité. Et j’ai souvent pensé que certains hommes prennent délibérément des risques – précipitent délibérément un contact avec la mort – simplement pour pouvoir ressentir un sentiment renouvelé de respect ou d’émerveillement face à l’existence. De tels hommes développent très souvent un « sentiment » non seulement de la bizarre étrangeté du monde, mais aussi une intuition « mystique » de quelque chose comme la divine providence agissant derrière la scène[6].

Heureusement, nous n’avons pas besoin de sauter d’un avion ou de gravir une montagne pour parvenir à l’ouverture du genre qui m’intéresse. Il nous suffit de poser une seule question et d’y réfléchir : pourquoi donc y a-t-il des êtres, plutôt que rien ? Ici encore, j’emprunte à Heidegger, mais pour aller dans une direction que Heidegger n’a pas vraiment explorée[7].

En Inde, il y a un exercice de méditation très simple souvent accompli par les chercheurs de sagesse. Il consiste à prendre n’importe quel objet si banal soit-il – ce peut être un caillou, ou un mégot de cigarette –, à le placer sur le sol, et à tracer un cercle autour de lui dans la poussière. L’effet est de prendre un objet qui normalement est considéré comme allant de soi, qui figure dans la vie comme un simple instrument ou comme quelque chose d’à peine remarqué, et de nous rendre conscients de son être. Disons que c’est un mégot de cigarette. Quand nous traçons un cercle autour, il devient un objet de méditation approprié. Ce sur quoi nous méditions, ce n’est pas sa grossière nature de mégot de cigarette, mais le fait de son être – le fait même qu’il existe. C’est une manière de s’habituer à la merveille de l’être.

Poser la question pourquoi donc y a-t-il des êtres, plutôt que rien ?, c’est tracer un cercle autour ce qui est, tel quel. C’est une manière par laquelle, en un clin d’œil, le monde entier dans lequel nous nous trouvons peut devenir un objet de méditation – et de respect et d’émerveillement.

Quand nous rencontrons l’être-en-soi comme un miracle, il est naturel (et inévitable) que nous nous demandions d’où il vient. La version infantile de cette question est : « Qui l’a fait ? ». La version plus sophistiquée ne s’interroge pas sur l’existence physique de l’univers considéré comme une totalité, mais sur la source de l’abondance qui se présente à nous dans l’univers. Nous nous émerveillons de l’inépuisable richesse de l’univers, de l’infinie multiplicité des types de choses, et des variations de ces types, et de l’infinie complexité de chaque chose, si banale soit-elle. Nous nous émerveillons du continuel réapprovisionnement des êtres – la continuelle parade des types donnant naissance à d’autres semblables à eux, et de la faculté des êtres à se régénérer et à se guérir eux-mêmes. Il est naturel de s’émerveiller de la source de tout ceci. C’est la « source de l’être » que cette question fondamentale, pourquoi donc y a-t-il des êtres, plutôt que rien ?, rend thématique.

Pensez un moment à l’origine d’une source. Où se termine la source et où l’origine commence-t-elle (ou vice-versa) ? A son origine, la source disparaît dans le sol. L’origine est-elle le trou dans le sol ? Assurément non. L’origine est-elle une quantité d’eau distincte de la source ? A nouveau, sûrement pas. La source et son origine se mêlent. L’origine du courant est invisible. Mais nous comprenons que la source s’écoule à partir de cette origine invisible. C’est exactement ainsi que les Grecs concevaient la physis, comme surgissant continuellement  d’une origine ultime – archè, en grec. Cette compréhension est le sens des symboles anciens tels que la corne ou le chaudron d’abondance, et le Saint Graal. L’archè est le fondement infondé de toute l’abondance.

Le problème fondamental avec les êtres humains est qu’en fait ils veulent être eux-mêmes l’archè, la source de toutes choses. Toutes nos tentatives pour comprendre une chose quelconque impliquent de saisir comment l’être de la chose découle de certains principes que nous avons découverts. Nos tentatives pour comprendre sont des tentatives de comprendre du-dessous. Nous nous efforçons en effet de supprimer les bases d’un objet et d’en devenir le fondement en finissant par voir comment l’être de l’objet découle de nos idées. Quand le scientifique, par exemple, comprend les phénomènes, il souligne que les phénomènes découlent des principes qu’il instaure[8]. Mais quand nous tournons nos esprits vers l’archè ultime – dont nous venons nous-mêmes –, en dépit de toutes nos affirmations d’avoir conquis la nature, l’être se manifeste comme une donnée mystérieuse et miraculeuse. L’archè est le fond sur lequel la figure de l’être-en-soi se manifeste.

Cependant, comme l’indique l’exemple du cercle autour du mégot de cigarette, on peut trouver une merveille dans un être unique, aussi bien que dans l’être-en-soi. Et quand nous nous tournons, avec cette attitude d’émerveillement, vers les phénomènes individuels dans l’existence, une autre question fondamentale surgit. Nous pourrions nous demander à propos d’une chose quelconque, pourquoi cette chose particulière doit-elle être, et être de la manière qu’elle est ? Prenons le phénomène du sexe. Quand l’esprit tente de penser au sexe d’une manière dépassionnée, cela finit par ressembler à une activité plutôt absurde et grotesque. Pourquoi cela devrait-il être aussi fascinant ? Pourquoi cela devrait-il absorber autant de notre temps et être si important pour nous ? Et pourtant ça l’est. Et plus on tente d’y penser de cette manière, plus on craint de finir par tout gâcher ! Le résultat est que, intimidés par la pure et inexplicable réalité du sexe, nous continuons à nous en émerveiller et à le rechercher comme avant. En fait, c’est peut-être bien le seul domaine, dans la vie de beaucoup de gens, dans lequel le miracle arrive encore[9].

Mais tout le reste peut être approché avec cette attitude d’émerveillement. Un bel animal est aussi un objet d’émerveillement. Pourquoi cette chose particulière doit-elle être, et être de la manière qu’elle est ? Le fait du vent et de la pluie, du soleil et des étoiles, tout cela peut susciter l’émerveillement, et susciter ce questionnement. Et il n’y a pas besoin que ce soit une entité physique ou perceptible : ce peut être le fait de la naissance, ou de la mort, ou des cycles naturels, etc.

Maintenant, quand nous posons cette question, il peut sembler que nous demandons une sorte d’explication officielle et scientifique, mais ce n’est pas le cas. Aucun cours sur la sélection naturelle ne pourra supprimer mon émerveillement devant l’être de mon chat – mon émerveillement qu’une telle chose soit, et soit de la manière qu’elle est. Je n’ai aucune querelle avec l’explication scientifique. Mais l’explication scientifique ne peut pas supprimer cet émerveillement ultime et métaphysique devant la pure existence des choses. Je suis parfaitement prêt à accepter l’explication des scientifiques sur la manière dont les chats sont apparus – mais je regarde quand même mon chat et je me dis : « N’est-ce pas incroyable de vivre dans un monde où des choses aussi merveilleuses existent ? ».

Ma thèse est celle-ci : notre émerveillement devant l’être de choses particulières est l’intuition d’un dieu, ou d’un être divin.

Suis-je en train de dire que quand je regarde mon chat et que je connais ce sentiment d’émerveillement, j’ai l’intuition que mon chat est un dieu ? Oui et non. L’émerveillement que je connais vient de ce que des choses comme cela puissent simplement exister. Je peux tout aussi bien avoir cette expérience en contemplant le soleil, le vent, la pluie, l’océan, les montagnes, etc. Mon émerveillement devant l’être de ces choses est précisément une expérience de leur divinité. Ainsi, il y a des dieux du soleil, du vent, de la pluie, de l’océan, des montagnes, et aussi des chats (les Egyptiens comprenaient très bien cela). En vérité, toutes les choses rayonnent de divinité ; toutes les choses sont Dieu. Et il n’y a pas de contradiction entre cette affirmation et l’affirmation qu’il y a des dieux. Ce sont simplement deux manières différentes de regarder la même chose. Dans la mesure où la divinité des chats rayonne à travers mon chat, il est le dieu des chats.

Il y a un autre aspect dans cette expérience. Quand nous rencontrons les choses dans leur être, et que nous nous émerveillons que de telles choses puissent exister, notre perception du temps et de l’espace change. Quand une chose est regardée avec émerveillement, au sens que j’ai décrit, nous savons simultanément que son être s’étend au-delà du présent temporel. L’objet est donc devant nous, dans le présent, mais simultanément nous avons l’intuition d’un aspect d’éternité dans la chose. Quand je m’émerveille que des choses comme mon chat puissent simplement exister, ce dont je m’émerveille est en un sens le « fait de l’existence des chats » dans le monde. Comme Alan Watts l’a probablement dit, nous nous émerveillons devant le fait qu’il y ait production de chats, de chiens, de gens, de fleurs et de fruits dans ce monde. C’est l’aspect de la divinité qui rayonne à travers la chose, regardée d’une certaine manière.

Nous pourrions penser aux dieux comme à des « régions » de l’être. Il y a autant de dieux qu’il y a de régions de l’être[10]. Notre conscience des régions de l’être ne vient pas par l’analyse philosophique ou la construction de systèmes spéculatifs. Elle vient par l’expérience et l’intuition. Il y a autant de régions qu’il y a d’expériences d’émerveillement devant le fait que « des choses comme X » puissent exister. Et il y a des régions à l’intérieur des régions. C’est ainsi qu’avec un suprême bon sens les Indiens laissaient les choses dans le vague concernant le nombre de leurs dieux. Les récits hindous diffèrent. Certains disent qu’il y a 330.000.000 dieux. Un nombre aussi énorme n’est pas destiné à être un chiffre exact. Il est destiné à suggérer, en fait, l’infinité des dieux, une infinité fondée sur le fait qu’il y a d’infinies expériences possibles d’émerveillement devant les choses. Exactement de la même façon, les anciens auteurs chinois parlent des « dix mille choses », pas pour donner un chiffre précis, mais pour suggérer l’incompréhensible immensité de l’existence.

3. Objections et reponses

La position exposée ci-dessus est simple, mais susceptible de produire beaucoup de scepticisme. Et les sceptiques viendront de presque tous les « camps » établis : rationalistes, empiriques, théologiens, et même païens. Pour tenter de répondre à quelques-unes de leurs plaintes à l’avance, je présente la série suivante d’objections et de réponses, dans le style de St. Thomas d’Aquin.

Objection Un : J’ai dit que la question Pourquoi donc y a-t-il des êtres, plutôt que rien ? nous permet de « mettre en valeur » la totalité de l’existence et de la regarder avec émerveillement. J’ai dit ensuite que la question Pourquoi cette chose particulière doit-elle exister, et exister de la manière qu’elle est ? nous permet de connaître des objets de ce monde avec émerveillement, et que cet émerveillement devant le pur être des choses est une expérience du divin. Mais devons-nous croire que nos ancêtres se promenaient dans la forêt (ou ailleurs) en regardant les choses et en pensant, quel que soit la langue qui était la leur, « Pourquoi cette chose particulière doit-elle exister, et être de la manière qu’elle est ?

Réponse. Bien sûr que non. En fait, l’une de mes affirmations est que nos ancêtres avaient une capacité naturelle et spontanée à l’émerveillement, une capacité enfantine que nous les modernes (même les enfants modernes) avons en grande partie perdue. Les questions que je présente ici sont des tentatives pour formuler en mots l’attitude mentale tacite nécessaire pour permettre la manifestation de la divinité. Cependant, elles ne sont pas seulement descriptives, mais aussi prescriptives. Pour ceux d’entre nous qui ont perdu la capacité de l’émerveillement spontané, le fait de se poser consciemment ces questions peut être un chemin pour revenir à la mentalité de nos ancêtres.

Objection Deux : Une objection apparentée pourrait être exprimée ainsi : l’attitude mentale consistant à regarder les choses avec émerveillement est une sorte de réalisation de « second ordre » de la conscience. La plupart d’entre nous passent leur journée avec un but purement « terre-à-terre » : c’est-à-dire que nous nous intéressons aux choses elles-mêmes, pas à l’émerveillement devant leur « pur être ». De cela s’ensuivent deux problèmes. D’abord, il va sans dire que plus nous retournons loin en arrière dans le temps, plus le but de nos ancêtres devait être « terre-à-terre », étant donné la dureté de leurs conditions de vie. Ils devaient avoir peu d’occasions pour la « réflexion ». Et de ce problème découle un second : si je suis simplement en train de décrire « l’attitude mentale tacite nécessaire pour permettre la manifestation de la divinité », et si l’émerveillement n’est pas conscient ou délibéré, alors il doit être occasionné par certains événements. En d’autres mots, quelque chose devait « arriver » pour que l’homme se détourne d’un but terre-à-terre et passe à une attitude d’émerveillement. Qu’était-ce donc ?

Réponse : Concernant le premier problème, il se peut que la capacité de se détourner d’un but terre-à-terre pour passer à une attitude d’émerveillement soit ce qui rend les êtres humains uniques dans le royaume animal. A un certain moment de notre évolution, il devint possible de « changer d’attitude » envers le monde. Concernant ce qui occasionna ce saut extraordinaire dans les capacités mentales, je n’ai pas de théorie personnelle à proposer. Manifestement, cela n’a rien à voir avec l’établissement de l’agriculture, ou de la technologie, ou des villes, ou un accroissement du temps de loisir, puisque nous trouvons des expériences du divin dans les cultures d’agriculteurs aussi bien que dans les cultures de chasseurs, dans celles avec de la technologie et dans celles sans technologie, dans celles situées dans des villages et dans celles situées dans des villes. Mais un mot sur le loisir : les modernes tendent à exagérer le degré de « dureté » qui rendait la vie des anciens chaotique et périlleuse, avec peu de temps pour le repos, et encore moins pour la religion. En réalité les anciens, particulièrement dans les cultures de chasseurs-cueilleurs, avaient une formidable quantité de temps pour la réflexion, puisque la chasse implique surtout de s’assoir tranquillement et d’attendre (je tends aussi à penser que loin de nous libérer et de nous fournir plus de loisirs, la technologie a rendu la vie plus compliquée, et pénible). Ainsi, si nous supposons que la capacité de connaître l’émerveillement est apparue à un certain moment, il est raisonnable de supposer qu’il y avait largement assez de « temps libre » pour parvenir à cela.

Quant à la seconde objection – qu’est-ce qui a occasionné l’expérience de l’émerveillement ? –, je pense immédiatement à Vico, qui affirma dans La Science Nouvelle (1730/1744) que la conscience de la divinité commença au premier coup de tonnerre, quand nos ancêtres primitifs coururent se cacher dans leurs cavernes en criant « Jupiter ! » (le premier nom de Dieu). Il y a du vrai dans cette théorie, en dépit de sa naïveté. Comme je l’ai dit plus haut, ce qui nous détourne de l’approche terre-à-terre des choses et nous fait passer à une réflexion sur leur Etre doit être une sorte d’expérience saisissante. Il faut que les choses nous surprennent, nous frustrent, nous dépassent, d’une certaine manière (et cela ne doit pas forcément être un sentiment « négatif » de « dépassement » ou de « surprise »). Dans ma propre expérience, j’ai parfois un sentiment spontané d’émerveillement devant les choses, et très souvent je ne parviens pas à trouver ce qui l’a occasionné.

Objection Trois. Revenons un moment au mégot de cigarette mentionné plus haut. J’ai dit que l’on pouvait tracer un cercle (littéral ou figuratif) autour de n’importe quel objet et finir par s’émerveiller devant son être, même pour un caillou ou un mégot de cigarette. Existe-t-il un dieu des mégots de cigarette ? Y a-t-il des dieux des sacs poubelles, des tasses de café, des camions jouets, et des postes de TV ? Cela semble certainement absurde. Et si ma position nous oblige à déclarer, par besoin de cohérence, qu’il existe de tels dieux, alors cela en représente sûrement une simplification.

Réponse : Heureusement, ma position ne requiert pas cela. Avant tout, ce que j’ai dit avant tient toujours : il est parfaitement possible de s’émerveiller devant la pure existence de mégots de cigarettes et de postes TV. Ce sont des objets fabriqués : des objets créés par les êtres humains. Quand on s’émerveille devant des objets naturels, la racine de l’émerveillement, le sentiment de mystère qui ne peut pas être éliminé, se trouve dans la nature mystérieuse de la source ultime de leur être. Dans le cas des objets fabriqués, il n’y a aucun mystère concernant leur source : ce sont les êtres humains qui les ont créés[11]. Ainsi, quand nous nous émerveillons devant la facticité d’un objet fabriqué, ce dont nous nous émerveillons est l’être de l’homme lui-même, l’archè (ou architecte) de l’objet. L’homme est-il lui-même un dieu ? Bien sûr. Mais il n’y a pas de dieu de ses créations, pas de dieu de la machine[12]. C’est pourquoi l’idée même d’un dieu des mégots de cigarette nous semble immédiatement absurde, alors qu’il ne semble pas absurde du tout de s’émerveiller devant l’être de l’animal capable de créer de telles choses et, en particulier, toutes ces grandes choses comme les jets supersoniques, les symphonies, les ordinateurs, les poèmes épiques, les ponts suspendus, les navettes spatiales et les cathédrales. On pourrait dire que certaines de ces choses – peut-être même l’homme lui-même – sont un cancer pour la planète, mais l’on doit quand même être frappé de stupeur devant ce que l’homme peut accomplir, devant le fait qu’il existe un être possédant des pouvoirs aussi remarquables.

Mais si l’homme est un dieu, il est seulement un dieu parmi un nombre infini. Si les gens semblent aujourd’hui se comporter comme s’ils pensaient que l’homme est le seul dieu, c’est parfaitement explicable. Nous vivons dans un monde où ce sont les objets fabriqués, pas les objets naturels, qui sont les plus disponibles. Nous vivons en contact immédiat avec les mégots de cigarette, les sacs poubelle, les tasses de café, les postes TV, les jets supersoniques, les ordinateurs, les ponts suspendus et les navettes spatiales. Pour la plupart d’entre nous, notre contact avec des choses comme le vent, la pluie, l’océan, les montagnes, et la « nature » en général, se fait à travers des objets. Nos maisons et nos immeubles nous abritent du soleil, du vent, et de la pluie. La plupart d’entre nous, assez remarquablement, ont vu le monde entier : mais seulement à travers des livres de photographies, sur nos postes TV, et sur internet. Nos systèmes de climatisation nous protègent même des saisons : nous sommes agréablement au chaud en hiver et agréablement au frais en été. Certaines personnes vivent près de l’océan, mais très peu vivent de lui. Et leurs habitations les abritent de sa violence (la plupart du temps).

Si les objets fabriqués sont ce avec quoi nous entrons en contact de manière régulière, et si par et au moyen des objets le seul dieu dont nous avons l’intuition est nous-mêmes, est-ce vraiment surprenant que des « ismes » comme « humanisme », « scientisme » et « athéisme » règnent ? Est-ce vraiment surprenant que des gens modernes vivent leurs vies sur la supposition qu’ils sont les êtres les plus élevés de tous, et maîtres de tout ? Coupés du contact direct avec la nature, ils sont coupés de l’expérience de son prodige, qui est l’expérience de l’infinité des dieux. C’est la « fuite des dieux ». Les dieux ne se sont pas exactement enfuis. Nous sommes simplement devenus aveugles à eux, en érigeant un monde fabriqué qui a fait obstruction au monde réel.

Objection Quatre. Maintenant, on pourrait dire que la tentative ci-dessus pour rendre compte de l’expérience du divin constitue un abus de langage. J’ai dit que notre émerveillement devant l’être des choses est une intuition de la divinité. Ainsi, s’émerveiller qu’il existe une chose comme le vent est précisément l’expérience du « Dieu du vent ». Mais, peut dire le critique, ce n’est pas ce que nous avons à l’esprit quand nous pensons à un dieu. J’ai simplement substitué une compréhension entièrement différente de la divinité, qui n’a pas grand-chose à voir avec la compréhension traditionnelle (en tous cas c’est ce que dirait l’objection). Le dieu du vent est une personnalité. En Inde, c’est Vâyu. Il est décrit comme étant blanc, chevauchant un chevreuil, et portant un arc et des flèches. Les mythes impliquent les sentiments, les pensées, les discours et les actions de tels dieux. Bref, les dieux sont supposés être des êtres conscients qui se promènent aux alentours et font des choses.

Réponse : le problème avec cette manière de comprendre les choses est qu’elle confond les symboles avec leurs référents. Le dieu du vent est une personnalité parce que les êtres humains l’ont consciemment et délibérément personnifié. Et séparer le symbole personnifié de son référent est très difficile. Notez que j’ai parlé d’un dieu au masculin. J’aurais peut-être dû utiliser le genre neutre [= dans le texte anglais]. Mais quelque part cela sonne faux. Nous personnifions parce que nous avons besoin de personnifier pour garder le dieu à l’esprit. En fait, cela signifie que nous personnifions afin de garder à l’esprit le vent, pris non pas comme un « phénomène naturel » (comme le prendrait un scientifique) mais comme un noumenon, comme un être provoquant l’émerveillement. La tendance à personnifier est naturelle, et il se pourrait que certaines des manières concrètes par lesquelles nous personnifions soient aussi « construites » dans notre conscience. Les recherches de C.G. Jung et de ses étudiants semblent aussi confirmer cela. Mais il est difficile de savoir où placer la limite. Le fait que Ganesh soit décrit comme ayant la tête d’un éléphant est manifestement entièrement attribuable à l’accident historique qui fit que son symbolisme fut développé en Inde.

Le symbolisme d’un dieu, le sexe d’un dieu (mâle ou femelle), les attributs d’un dieu, et les mythes associés, servent tous à nous parler de la nature d’un certain phénomène pris dans son aspect numineux. Pour illustrer cela, il n’y a pas de meilleur symbolisme que celui de l’hindouisme. L’iconographie hindoue est extrêmement complexe, et chaque élément symbolise un certain pouvoir ou un certain aspect d’un dieu.

Dans toute religion, il y a des niveaux de compréhension. Il y a indubitablement des hindous dont la piété consiste en une confusion permanente entre le symbole et le référent. En d’autres mots, il y a indubitablement des hindous qui pensent que vraiment croire à Vâyu signifie croire qu’il est réellement un être entièrement blanc qui chevauche un chevreuil et porte un arc et des flèches. Nous tendons à supposer qu’une telle compréhension de « bas niveau » ou littérale est une caractéristique des « gens ordinaires », mais que les gens supérieurs (les prêtres, les brahmanes) comprennent mieux. Supposer cela est risqué, cependant. En Occident, par exemple, particulièrement en Amérique, confondre le symbole avec le référent n’est en aucune manière limité aux gens simples. C’est un trait de la croyance de la plupart des chrétiens, quel que soit leur niveau d’éducation. Les athées occidentaux confondent aussi le symbole et le référent, et pour cette raison ils déclarent que la religion est manifestement absurde. Les séminaristes comprennent qu’un symbole est un symbole, mais trouvent très difficile de croire en ce dont il est un symbole. C’est pourquoi ils déclarent que nous pouvons garder la religion, si nous comprenons qu’elle concerne en fait la « communauté religieuse », ou l’instruction morale, ou l’activisme social.

Il y a quelque temps j’ai regardé un documentaire britannique sur l’hindouisme, qui incluait le filmage d’un festival d’une durée d’une semaine en l’honneur d’une déesse (je crois que c’était Saraswati). La célébration impliquait de modeler et de peindre une figure d’argile élaborée de la déesse. Une nouvelle était créée chaque année, et à la fin du festival elle était joyeusement jetée dans le fleuve. Le visiteur britannique demanda à un brahmane si les gens adoraient la statue. Le brahmane sourit et dit qu’il doutait beaucoup qu’un seul des célébrants, même un simple d’esprit, pensait que la statue d’argile était réellement Saraswati. Après tout, ils devaient remarquer que chaque année il y avait une nouvelle statue ! En vérité, c’était ici le journaliste occidental qui était simple d’esprit. En fait, la manière typique dont nous Occidentaux comprenons le polythéisme (ou la religion soi-disant « primitive ») est, pour dire le moins, psychologiquement naïve.

Objection Cinq : En me référant à mon premier essai, « Connaître les dieux », je peux imaginer que quelqu’un critique le présent essai en disant : « Regardez, dans l’autre texte vous commencez par rejeter toute tentative d’expliquer ce que sont les dieux, ou d’expliquer l’expérience des dieux. Adopter un tel point de vue réfléchi, disiez-vous, c’est se distancer immédiatement du phénomène ; nous en couper d’une manière encore plus décisive. Mais dans ce texte vous faites précisément ce que vous dites qu’il ne faut pas faire : vous proposez une explication des dieux en disant que ‘les dieux’ sont ce qui se manifeste quand nous sommes frappés par l’être mystérieux d’un être ».

Réponse : En fait, je n’ai pas du tout expliqué les dieux, ou l’expérience des dieux. Expliquer un phénomène c’est le prendre comme un effet d’une cause quelconque, et ensuite découvrir la cause (par ex. l’explication de l’eau bouillante est qu’elle a été chauffée à la température de 212 degrés Fahrenheit). Mais ce n’est pas ce que j’ai fait. Ce que j’ai donné n’est pas une explication, mais une description phénoménologique. En d’autres mots, j’ai simplement décrit comment le divin « se manifeste » ou nous « apparaît ». J’ai décrit les circonstances dans lesquelles le divin se manifeste, l’attitude d’esprit nécessaire pour que l’homme « remarque » le divin, et comment il répond au divin dès que celui-ci se manifeste. Cela peut ressembler à une simplification excessive de ce que j’ai fait dans l’assez long texte qui précède, mais ça n’en est pas une. C’est simplement que dans ce cas, avec une matière aussi mystérieuse que celle-ci, une description phénoménologique est un peu plus difficile que, disons, celle de la manière dont une boîte aux lettres se manifeste à nous. Si le lecteur revient en arrière et repense à ce qui a été dit, il trouvera que la théorie que j’ai donnée concernant la manière dont le divin se manifeste est en fait très simple. Malheureusement, nous avons été conditionnés à penser au divin d’une manière tellement faussée que passer à la bonne description implique une grande quantité d’explications, d’exemples, de définitions de termes, d’étymologie (comme nous le verrons), et, d’une manière générale, de désapprentissage.

Finalement, Objection Six. C’est peut-être l’objection la plus grave de toutes. Mon discours ne « subjectivise »-t-il pas complètement les dieux ? Ne suis-je pas en train de dire que les dieux sont en quelque sorte des fonctions de la manière dont nous regardons les choses, et que sans nous, il n’y aurait pas de divin ? Toute l’approche phénoménologique néo-kantienne décrite ci-dessus semble suggérer cela très clairement.

Réponse : Je peux certainement comprendre pourquoi quelqu’un pourrait réagir de cette manière – spécialement étant donné mon appel à la phénoménologie, mais en fait l’objection représente une mauvaise compréhension de ma position (ainsi que de la phénoménologie et du kantisme, mais je ne peux pas approfondir ces points ici). Je n’ai rien dit qui approche même de l’idée que « le divin » serait une catégorie mentale subjective et que sans observateurs humains il n’y aurait pas de dieux. Je reconnais volontiers que sans une certaine « structure » cognitive (quoi qu’elle puisse être) nous ne pourrions pas être conscients des dieux, mais cela ne m’oblige pas au subjectivisme. Nous avons besoin d’oreilles pour remarquer les ondes sonores, mais personne ne pense que cela signifie que l’oreille « crée » les ondes sonores[13]. Encore une fois, pour citer ma première formulation, j’ai donné une description phénoménologique de « l’attitude d’esprit nécessaire pour que l’homme ‘remarque’ le divin ». Je n’ai pas dit « crée » le divin, j’ai dit remarque le divin. J’ai parlé de la manifestation du divin, pas de l’invention ou du « postulat » par les humains.

Cependant, quelqu’un pourrait dire ici : « Très bien, mais en-dehors de l’apparition des dieux pour nous, y a-t-il vraiment des dieux ici ? ». Exprimé en langage kantien, cela veut dire : à part l’apparition phénoménale des dieux, les dieux existent-ils par eux-mêmes ? Le mieux que je puisse faire pour répondre à cela est de paraphraser Kant lui-même : même si nous ne pouvons percevoir les choses comme elles sont par elles-mêmes (c.-à.-d. en dehors de la façon dont nous les percevons), nous devons au moins être capables de penser les mêmes objets comme des choses en soi, sinon nous tomberions dans la conséquence absurde de supposer qu’il peut y avoir apparence sans rien qui apparaît[14].

4. Précedents : Usener et Cassirer

La théorie précédente partage certains traits avec les idées de Hermann Usener, telles qu’exposées et développées par Ernst Cassirer. Dans Langage et mythe de Cassirer, celui-ci explique que Usener pensait que le plus ancien (et, dirais-je, le plus pur) stade d’expérience religieuse fut marqué par la « production » de ce qu’il appelait des déités momentanées[15].  Cassirer écrit :

Ces êtres ne personnifient aucune force de la nature, et ne représentent aucun aspect particulier de la vie humaine ; aucun trait ou valeur récurrent n’est conservé en eux et transformé en image mythico-religieuse ; c’est quelque chose de purement instantané, un contenu mental fugitif, émergeant et disparaissant, dont l’objectification et la projection extérieure produit l’image de la « déité momentanée ». Chaque impression que l’homme reçoit, chaque souhait qui naît en lui, chaque espoir qui le trompe, chaque danger qui le menace peut ainsi l’affecter religieusement. Que le sentiment spontané investisse l’objet devant lui, ou sa propre condition personnelle, ou quelque manifestation de puissance qui le surprend, avec un air de sainteté, et le dieu momentané a été connu et créé[16].

Or, comme je l’ai dit, cette théorie a certains traits en commun avec la mienne. Ce qui est vague dans l’exposé d’Usener-Cassirer, c’est qu’il prétend qu’un « sentiment spontané » investit un objet. Et qu’est-ce qu’un « air de sainteté » ? Ma propre théorie tente d’expliquer la manière spécifique dont un objet (ou une circonstance) pourrait être perçu d’une manière tellement inhabituelle qu’il pourrait produire en nous l’intuition d’un dieu. En d’autres mots, je tente de décrire spécifiquement ce que cela signifie de considérer une chose comme sainte.

De plus, je soutiens que si l’expérience de la « déité momentanée » n’est pas immédiatement celle d’un dieu personnifié, elle peut le devenir plus tard (sur ce point, je ne crois pas que Usener-Cassirer seraient d’un autre avis). Cassirer poursuit : « Usener a montré par des exemples de la littérature grecque combien ce sentiment religieux primitif était réel même chez les Grecs de la période classique, et combien il les motivait sans cesse »[17]. Et ensuite il cite Usener :

En raison de cette vivacité et de cette capacité de réaction de leur sentiment religieux, toute idée ou objet qui commande pendant un instant leur intérêt sans partage peut être élevé à un statut divin : Raison et Compréhension, Richesse, Chance, Apogée, Vin, Fête, ou le corps de la Bien-aimée. … Tout ce qui nous arrive soudainement comme un envoi du ciel, tout ce qui nous réjouit ou nous peine ou nous opprime, apparaît à la conscience religieuse comme un être divin. Aussi loin en arrière que nous pouvons rechercher chez les Grecs, ils subsument de telles expériences sous le nom générique de daimon.[18]

D’après Usener, après le stade des « dieux momentanés » vient le stade des « dieux particuliers ». Bien qu’Usener semble avoir ici à l’esprit, étroitement, des déités associées aux activités humaines (voir la note #12 à la page 35). Cependant, telles que rapportées par Cassirer, les idées d’Usener sont stimulantes, et recoupent les miennes :

Chaque département de l’activité humaine donne naissance à une déité particulière qui le représente. Ces déités aussi, qu’Usener appelle des « dieux particuliers » (Sondergötter), n’ont pas encore de fonction et de signification générales ; elles n’imprègnent pas l’existence dans toute sa profondeur et toute son ampleur, mais sont limitées à une simple section de celle-ci, un département étroitement circonscrit. Mais dans leurs sphères respectives elles ont atteint la permanence et un caractère déterminé, et avec cela une certaine généralité. Le dieu patron du hersage, par exemple, le dieu Occator, ne règne pas seulement sur le hersage d’une année, ou la culture d’un champ particulier, mais est aussi le dieu du hersage en général, qui est invoqué chaque année par toute la communauté comme son aide et protecteur pour la récurrence de cette pratique agricole. Il représente donc une activité rustique particulière et peut-être humble, mais il la représente dans sa généralité. [19]

Se basant sur l’œuvre d’Usener, Cassirer va jusqu’à affirmer dans Langage et mythe que le langage apparut essentiellement comme un moyen de fixer dans l’esprit ces déités momentanées (souvenez-vous qu’il les caractérise comme un « contenu mental fugitif, émergeant et disparaissant »). Ainsi sont nés des mots utilisés pour communiquer et retenir ces expériences (sur ce point, il y a un intéressant parallèle entre le lien fait par Cassirer entre « déités » et mots, et le lien, décrit plus loin, que je fais entre déités et Formes platoniques ; voir Section 6 plus loin). Les « dieux particuliers » sont des déités investies de noms particuliers. Finalement, ces noms se séparent de la divinité et restent seuls comme des « termes » désignant l’activité gouvernée par la divinité d’origine (ainsi, si dans une certaine langue le Mot X signifie « hersage », X peut avoir été à l’origine le nom approprié du dieu de cette activité).

Usener donne une multitude d’exemples de dieux « particuliers » et « fonctionnels », dont un grand nombre est tiré de l’ancienne religion romaine. La plus grande réalisation religieuse, d’après Usener, est le développement de « dieux personnels ». Cassirer écrit : « Les nombreux noms divins qui désignaient à l’origine un nombre équivalent de dieux particuliers fortement distingués fusionnent maintenant en une seule personnalité, qui est ainsi apparue ; ils deviennent les diverses appellations de cet Etre, exprimant des aspects divers de sa nature, de son pouvoir, et de sa portée » [20]. Il n’est pas très difficile de discerner un préjugé judéo-chrétien dans une telle théorie, qui interprète le monothéisme non seulement comme le telos de tout développement religieux, mais aussi comme son point culminant.

En vérité, il est possible, comme je l’ai suggéré précédemment, d’être à la fois monothéiste et polythéiste. Nous pouvons certainement regarder le monde comme l’expression d’une multiplicité de dieux individuels. Si nous voyons ces divinités comme étant, en un sens, des « régions de l’être », nous pouvons aussi les voir comme des manifestations ou des expressions différentes d’une unité sous-jacente. Ce sont simplement deux manières de voir la même chose. Il n’y a pas de contradiction à dire que le vrai Dieu est Brahman, et à dire simultanément qu’il y a 330.000.000 dieux. La plupart des religions ont totalisé l’une ou l’autre de ces approches, et la tendance historique, semble-t-il, va du polythéisme au monothéisme, et non l’inverse. La raison de cela est une question que je ne peux pas traiter ici[21].

5. Le langage du Divin

Si nous regardons l’étymologie des mots que nous utilisons pour parler du divin et y réfléchir, nous trouverons un autre appui à ma position. C’est important, car au plus profond de nous se trouve l’idée que le mot « dieu » doit simplement signifier un super-être personnel (en fait, je pense que c’est là-dessus que la première objection est fondée – celle disant que je ne parle pas du tout de ce que les gens ont voulu dire par « dieux »).

Le terme proto-indo-européen reconstruit pour divinité est *deiwos, et voici quelques-unes de ses formes :

Vieil-irlandais dîa

Vieux gallois duiu-tit

Latin deus

Vieux norrois Týr (pl. tívar, « dieux »)

Vieil-anglais Tîw

Vieux haut-allemand Zîo

Lithuanien dievas

Letton dìevs

Avestique daéva

Vieil-indien devá

Une source dit de *deiwos : « A l’origine un dérivatif thématique de *dyeu- ‘ciel, jour, soleil (dieu)’ signifiant lumineux, dieu (en général) »[22].

Or, si *deiwos ou Dieu signifie quelque chose comme « lumineux », il y a au moins deux ou trois manières très différentes pour expliquer cela. Puisque le mot est dérivé de *dyeu-, « ciel, jour, soleil », on suppose généralement que les dieux indo-européens originels (ou du moins l’échelon supérieur des dieux, par ex. les Aesir nordiques) sont des dieux du ciel. Ce phénomène consistant à rechercher la divinité dans les cieux n’est pas limité aux Indo-Européens, comme nous le savons tous depuis le catéchisme. Mais je me demande s’il n’y aurait pas un sens plus profond à l’idée que Dieu serait « le lumineux ». Comme je l’ai exposé ci-dessus, quand nous parvenons à la conscience de l’être merveilleux des choses individuelles, c’est comme si elles étaient soudain « éclairées ». Et je ne dis pas seulement cela au sens figuré. Très souvent l’expérience semble être littéralement un moment où les choses brillent d’une lumière nouvelle. Les descriptions d’expériences mystiques abondent de ce genre de langage. Nous disons que nous sommes « illuminés », ainsi que les choses. Pour revenir à un exemple précédent, quand je m’émerveille que des choses comme mon chat puissent exister, mon chat est « éclairé » pour moi d’une manière nouvelle, et la lumière qui rayonne à travers mon chat est la divinité, la divinité lumineuse.

Il est tout naturel que nos ancêtres aient associé l’expérience physique de l’impressionnant éclat du soleil à l’expérience psychique de l’impressionnante lumière de l’Etre rayonnant à travers les êtres. Ainsi, *deiwos signifiant « lumineux » est en fait une abstraction dérivée de tout ce qui est *dyeu-, ou de tout ce qui « brille », le « ciel », le « jour » et le « soleil » étant des exemples de brillance.

Si nous regardons en-dehors de la tradition indo-européenne, nous trouvons chez les Chinois ce qui semble être une conception similaire. Les plus anciens termes chinois pour désigner la divinité remontent à la Dynastie Tchang (vers 1751-1028 av. J.C.). Le dieu suprême est conçu comme céleste. Assez curieusement, il est appelé Ti (qui signifie simplement Seigneur) ou Tchang Ti (Seigneur d’en Haut) [23]. D’après Mircea Eliade, « Ti commande les rythmes cosmiques et les phénomènes naturels (pluie, vent, sécheresse, etc.) ; il accorde au roi la victoire et assure l’abondance des récoltes ou, au contraire, apporte les désastres et envoie les maladies et la mort » [24]. Il y a d’autres dieux (et les Chinois vénéraient aussi leurs ancêtres), mais ceux-ci sont subordonnés à Ti. Mais à la différence de Tyr dans la tradition germanique, Ti demeure quelque peu éloigné de la vie des croyants ordinaires, et devint finalement, en fait, un deus otiosus. Il serait fascinant de retracer l’étymologie de « Ti », mais je ne connais pas du tout le chinois, et je n’ai pas trouvé beaucoup de sources en anglais qui traitent de ce sujet.

Pour revenir aux Indo-Européens, examinons quelques autres termes désignant le divin. Dans un article originellement publié dans Rúna, Edred Thorsson analyse les termes germaniques désignant « le sacré » [25]. En proto-germanique, ce sont *wîhaz et *hailagaz, en vieil-anglais wîh et hâlig, en vieux haut-allemand wîh et heilig, en gothique weihs et hailags, en vieux norrois et heilagr. L’allemand moderne conserve les deux termes, dans weihen (consacrer) et heilig. L’anglais moderne conserve seulement le second, dans « holy ».

Comme Thorsson le remarque, *wîhaz dérive de la racine proto-indo-européenne *vîk, qui signifie « séparer ». L’idée de séparation implique un contexte religieux ou rituel. De *vîk vient le latin victima, animal sacrificiel[26]. Ainsi, ce qui dérive de *vîk signifie quelque chose de « séparé d’une manière ou d’une autre du quotidien » [27]. Le *wîhaz est ce qui a été  extrait, en quelque sorte, de ce qui est à portée de la main, et investi d’une signification d’un genre très particulier.

Ce que Thorsson ne mentionne pas, toutefois, c’est que *vîk (parfois écrit *wîk) peut aussi signifier « apparaître », aussi bien que séparer (ou « consacrer »). Nous avons ainsi le vieil-anglais wîg ~ wîh ~ wêoh, « image, idole ». Le lithuanien į-vŷkti, signifiant « arriver, survenir ; devenir vrai, s’accomplir », semble originellement avoir signifié « venir à la vue » [28]. Le grec eikōn, signifiant « image, apparence », vient de la même racine. Platon oppose l’eikon à l’eidos, la Forme (voir Section 6 plus loin). Mais comment la même forme linguistique peut-elle signifier « séparer », « consacrer », et « apparaître » simultanément ? La réponse est qu’une chose apparaît d’elle-même seulement quand elle est séparée. Toute apparition implique une opposition entre la « figure » et le « fond ». Pour apparaître, un objet doit être d’une manière ou d’une autre « distingué » de son arrière-plan. Les objets « sacrés » sont des objets qui ont été séparés de l’espace profane (c.-à.d. placés à part des activités et des objets ordinaires) et du temps profane (c.-à.d. liés à ce qui est éternel).

Thorsson donne les significations suivantes pour la racine germanique *wîh- :

1. « un site pour l’activité cultuelle, un terrain sacré »

2. « un tumulus [funéraire] »

3. « un site où siège le tribunal »

4. « une idole, ou une image divine »

5. « un étendard ou un drapeau »[29]

Ce qu’elles ont toutes en commun, c’est qu’elles sont ordinairement « banales » : un morceau de terrain, un monticule de terre, une clairière, un morceau de bois gravé, un morceau de tissu. Mais elles peuvent toutes être regardées d’une manière spéciale et investies, par association, d’une signification (de quelque chose comme ce que les anthropologues appellent le « mana »)[30]. Quand la banalité des choses est niée de cette façon, elles sont rendues « sacrées », et ensuite naît une séparation dans le monde entre ce qui est sacré et ce qui est profane[31]. Ainsi que l’explique Thorsson, en vieux norrois il y a même un verbe qui désigne l’action d’extraire des objets du domaine du profane et de les rendre sacrés : wîhian. De ce qui est *wîh- vient l’un des plus importants noms nordiques pour la divinité : Vé, qui est l’un des trois frères divins décrits dans la cosmogonie nordique, Odin, Vili, et Vé. Le terme veár, venant de Vé, est aussi utilisé pour désigner les « dieux » pluriels en général[32].

Quant à la racine proto-germanique *hail-, une analyse des mots qui en dérivent dans les diverses langues germaniques indique la série de significations suivante :

1. « sacré »

2. « entier, sain » (par ex., anglais « hale and hearty »)

3. « santé, bonheur » (par ex., anglais « health »)

4. « chance, bonne augure »

5. « guérir » (par ex., anglais « heal »)

6. « saluer » (par ex., anglais « hail ! » et allemand « heil ! »)

7. « observer les signes et les augures »

8. « invoquer les esprits, enchanter »[33]

Thorsson écrit que *hail- « est ce qui participe de la qualité numineuse qui est bénie et entière, et qui évoque le sentiment d’‘entièreté’ ou  d’‘unité’ dans le sujet religieux »[34].

Essentiellement, *hail- implique la participation du sujet humain au divin, alors que *wîh- désigne la présence divine elle-même. L’homme qui est « entier, sain » est l’homme qui est imprégné d’un état de justesse ou d’harmonie qui est considéré comme associé à l’être divin. Ceci est très proche du sens grec originel d’eudaimonia (assez mal rendu, dans les traductions d’Aristote, par « bonheur »), qui signifie littéralement quelque chose comme « bien pourvu en daimon » [35]. La « chance » est la faveur divine résidant dans un homme. « Guérir » signifie restaurer dans le corps ou l’esprit cette « justesse » d’orientation divine. Aujourd’hui, il est très rare d’entendre quelqu’un saluer en disant « hail ! » et on n’a jamais entendu (après la Seconde Guerre mondiale) de « heil ! ». Quand les gens se saluaient ainsi, saluaient-ils ou reconnaissaient-ils le divin dans l’autre personne ? Bref, « hail ! » était-il similaire au salut indien (toujours en usage aujourd’hui) namastē ?[36]. L’observation de signes et d’augures signifie être attentif à la manifestation du divin dans la vie quotidienne. Finalement, « enchanter » signifie placer quelqu’un sous l’influence d’un pouvoir divin.

Finalement, nous tournant vers le grec classique, on peut mentionner que le mot grec pour piété ou religion, eusebeia, vient du verbe sebein, signifiant « reculer devant quelque chose, par crainte respectueuse ».

6. Platon : Eidos vs. Theos

L’analyse précédente de l’expérience du divin jette une lumière spéciale sur la philosophie grecque, en particulier sur la relation entre la « doctrine des Formes » de Platon et la religion indo-européenne traditionnelle. Examiner ce lien semble aussi apporter un appui supplémentaire à la plausibilité de mon analyse. En fait, les lecteurs ont peut-être remarqué quelque chose de vaguement « platonique » dans ma description de l’expérience humaine de la divinité. J’affirme en effet que la philosophie de Platon a constitué une transformation de l’expérience religieuse grecque. Si j’ai raison, alors nous pourrions apprendre beaucoup de choses sur la nature de cette expérience en lisant Platon.

Je suis sûr que mes lecteurs ont une certaine connaissance des Formes de Platon. Platon pensait que le monde de l’expérience est, en un sens, irréel, et que ce qui est vraiment réel (ou, pourrait-on dire, ce qui est vraiment) ce sont les « Formes » ou les « natures » que les choses expriment. Ces formes sont non-physiques et, à la différence des individus qui les illustrent, elles durent. Le mot grec traduit par « Forme » est eidos (pluriel : eidē), et c’est pourquoi, un peu moins souvent, le terme est traduit par « idée » [37]. Mais la signification littérale d’eidos est « apparence ». L’eidos est l’« apparence » d’une chose. En allemand, le même concept est rendu par Schein, qui est bien sûr apparenté à l’anglais « shine ».

A première vue, il semble y avoir eu une complète transformation dans le sens de l’eidos grec. Ce qui signifiait originellement l’« apparence » d’une chose finit par signifier, chez Platon, sa nature intelligible, qui se manifeste non pas aux yeux mais à l’esprit. Mais après un examen plus attentif, un lien subtil entre les deux se révèle. Examinons d’abord comment Platon décrit la manière dont nous devenons conscients des Formes. Un exemple classique peut être trouvé dans le Symposium (210e). Dans un « flashback », Socrate se souvient de la manière dont il fut instruit de la nature du beau par la sage Diotime. Elle décrit une « échelle de beauté », et dit à Socrate qu’il parviendra à la conscience de la Beauté elle-même (la Forme de la Beauté) en examinant différentes choses considérées comme « belles » :

Tu vois, l’homme qui a été ainsi guidé loin dans les questions de l’Amour, qui a regardé les belles choses dans le bon ordre et correctement, parvient maintenant au but de l’Amour : d’un seul coup il apercevra quelque chose de merveilleusement beau dans sa nature [le « Beau lui-même »] ; cela, Socrate, est la raison de tous ses travaux précédents[38].

Un second exemple moins familier survient dans le dialogue ultérieur, le Parménide. Ici, Socrate, décrit comme un jeune homme, converse avec un autre de ses premiers maîtres, le philosophe Parménide. Au paragraphe 132a, son aîné met à l’épreuve la théorie des Formes (alors dans sa forme la plus précoce et la plus brute) de Socrate :

Je suppose que tu penses que chaque forme est une pour la raison suivante : dès qu’un certain nombre de choses te semble grand, peut-être semble-t-il y avoir quelque caractère commun, le même que tu vois à travers toutes, et de cela tu conclus que le tout est un. [39]

Ces deux descriptions phénoménologiques de la manière dont les Formes se manifestent à nous les décrivent comme apparaissant au penseur alors qu’il contemple les objets sensibles. Sans doute, ce n’est pas comme si la Forme surgit des choses et se présente comme un objet sensible séparé. On pourrait dire qu’elle apparait à l’« intellect », mais cela simplifie trop les choses. Ce qui semble se produire dans notre venue-à-la-conscience des Formes, c’est que les sens et l’intellect coopèrent d’une manière particulière et ineffable. Il semble y avoir une transformation littérale de l’expérience sensible quand la Forme « apparaît ». Nous voyons toujours la même chose sensible, mais nous en voyons maintenant une nouvelle dimension. Ce que je dis, c’est que si je parviens à la conscience de la « chatitude » en regardant mon chat, il semble juste de dire que l’« apparence » littérale du chat ne change pas – mais, dans un autre sens, l’apparence change vraiment. Je vois maintenant l’aspect atemporel du chat (sa nature, sa « chatitude ») à travers lui, et l’expérience sensible donne le sentiment qu’il a été transformé. Il est important de noter que le verbe eidenai (savoir), qui est apparenté à eidos, signifiait originellement « voir » ou « avoir un aperçu de ».

Je pense que c’est pour cette raison que Parménide semble forcer Socrate, dans la dernière partie du dialogue, à dépasser une conception où les Formes sont des choses « séparées » des choses sensibles, et à envisager l’idée que le sensible est précisément la Forme considérée dans son aspect immuable[40]. Dans les dialogues antérieurs, les choses sensibles sont traitées comme des « images » ou des « apparences » des Formes. Ceci est métaphorique, et n’est pas destiné à être pris à la lettre. Voir une peinture de quelqu’un que j’ai vu en personne est très différent de voir une peinture de quelqu’un que je n’ai jamais rencontré. Dans le premier cas, il y a une dimension additionnelle à l’expérience. Je vois la personne réelle dans, ou à travers la peinture. De la même manière, pour Platon, nous voyons la vraie nature d’une chose (par ex. la « chatitude ») rayonner à travers les choses individuelles (c.-à.-d. les chats).

Or, la même idée semble être exprimée, sous une forme plus sophistiquée, dans la dernière partie du Parménide, dans la série particulière des « déductions » qui y sont présentées. Les choses sensibles sont considérées comme des « apparences » des Formes. Le mot grec traduit par « apparences » est phainomena, qui n’a pas le sens de « simple apparence » ou d’« aspect » que notre mot « apparence » possède habituellement. Dans Etre et Temps, Heidegger tente de retrouver le sens grec originaire de phainomenon, qui survit dans notre langue, bien sûr, dans le mot « phénomène ». Heidegger écrit que phainomenon signifie ce qui se montre, le manifeste. … Ce qui se montre en soi-même, le manifeste. De même, les phainomena ou ‘phénomènes’ sont la totalité de ce qui se trouve dévoilé ou qui peut être dévoilé – ce que les Grecs identifiaient parfois simplement aux ta onta (êtres) »[41]. Heidegger continue en distinguant le « phénomène » de l’« apparence ». Par apparence, il veut dire quelque chose comme « image ». Une apparence peut être une illusion, une hallucination, ou une représentation, comme une peinture. Celles-ci ne sont aucunement des phenomena, au sens grec d’origine. Un phénomène n’est pas une image de quelque chose (et surtout pas une  « apparence » trompeuse), c’est la chose qui se montre elle-même. Même notre mot « apparence » peut signifier cela. Si quelqu’un me dit que la Reine a « fait une apparition » en Ecosse, je n’en déduis pas que quelqu’un a vu une image d’elle à cet endroit. J’en déduis qu’elle s’y est montrée en personne » [42].

Or je pense qu’on peut facilement voir qu’il y a un parallèle entre la façon dont j’ai décrit l’expérience des dieux, et la façon dont Platon décrit l’expérience des Formes. Les dieux tout comme les Formes sont des phénomènes : ils rayonnent eux-mêmes à partir des choses, dans notre expérience. Quand la « chatitude » rayonne du chat, d’une certaine manière c’est comme si quelque chose d’autre rayonnait du chat, et d’une autre manière ça ne l’est pas. Il est clair qu’en voyant la « chatitude » du chat nous avons dans un certain sens « vu au-delà » de ce chat particulier, mais d’une autre manière nous avons vu ce qui est fondamental en ce qui concerne ce chat[43]. Les deux choses sont vraies, et illustrent l’aspect dual des Formes qui sont simultanément transcendantes et immanentes. Voir la divinité dans le chat, comme j’en ai décrit l’expérience, est pratiquement identique à cela. Dans une attitude d’émerveillement, frappant par le fait que des êtres comme les chats puissent simplement exister, un aspect jusqu’alors caché du chat se manifeste à nous : l’être miraculeux du chat. Et simultanément, nous avons le sentiment que cet émerveillement a émergé d’une source également miraculeuse, ce que j’ai appelé l’archè. La « divinité » du chat, comme je l’ai dit plus haut, est à la fois le chat lui-même, et quelque chose d’autre qui transcende ce chat particulier.

Dans la fameuse « allégorie de la caverne » de la République, la montée de l’ignorance à la sagesse est figurée par la montée depuis une caverne jusqu’à la lumière du jour, où la vraie nature des choses est « illuminée » (cf. 516a–b). Dans le Parménide, le jeune Socrate utilise une comparaison pour expliquer la relation des choses sensibles avec leur Forme. La Forme, dit-il, est « comme une journée unique. Ce qui est dans de nombreux lieux en même temps et qui n’est absolument pas séparé de soi-même. S’il en est ainsi, chacune des formes pourrait être, en même temps, unique dans tout » (131b)[44].

En dépit des similarités, il y a en fait une énorme différence entre la conscience de la divinité et la conscience des Formes de Platon. Ce qui a été banni de l’exposé de Platon, c’est l’émerveillement et le mystère. La divinité du chat qui rayonne en lui n’est plus la divinité, c’est simplement la « nature intelligible » de la chose. Le sens dans lequel la conscience de l’eidos, l’« apparence » de la chose, englobe le sensible et l’intellectuel, le sens dans lequel la conscience de l’eidos transforme la véritable expérience sensuelle de la chose, a été en grande partie perdu. Sans doute cet eidos est-il encore « surnaturel », « au-dessus » de la nature, et en-dehors de l’espace et du temps. Mais il est traité comme un modèle ou paradeigma (voir Parménide, 132d) et il est vu sous l’angle des mathématiques. Sous l’influence du pythagorisme, Platon développa un enseignement secret complet qui est seulement discrètement évoqué dans les dialogues, impliquant une conception mathématique de la réalité, issue de deux « principes » ultimes, le « Un » et la « Dyade indéfinie »[45]. Le projet de Platon et de ses étudiants était alors de comprendre les Formes en accord avec ce système mathématique. Les Formes peuvent être « mystérieuses » en étant tout à fait différentes des objets sensibles banals, mais elles sont en relation avec ces choses de la même façon qu’un plan est en relation avec une maison, et il n’y a rien d’intrinsèquement mystérieux (et encore moins de religieux) là-dedans[46].

Ma thèse est que Platon reprend l’expérience du divin, ainsi que le concept de divinité, et les remanie sous une forme philosophique et même « scientifique ». L’expérience religieuse ou mystique devient l’« idée » philosophique ou scientifique, et les dieux deviennent des « Formes » ou des modèles dans la nature. Platon développe cette approche en utilisant la philosophie mathématique des pythagoriciens, tout en conservant certains aspects « mystiques » du pythagorisme (en particulier la doctrine de la réincarnation ; voir le Phédon). Platon rend possible pour un homme d’être religieux et de prendre grand soin de son âme, tout en ne croyant pas aux « dieux »[47]. Le christianisme, comme l’a dit Nietzsche, a peut-être été du platonisme pour le peuple, mais le platonisme lui-même était du polythéisme pour les athées. Et même si la doctrine de la réincarnation dans le Phédon est défendue pour des raisons pratiques (voir le Phédon, 114d–e), le platonisme est du mysticisme sans mystère[48].

Platon est ouvert aux descriptions métaphoriques de l’Etre des choses, mais tout ce qui ressemble au genre d’iconographie religieuse exposé antérieurement est rejeté entièrement. Une telle imagerie, comme je l’ai dit, aide à fixer dans l’esprit et à contempler le mystère et le miracle des choses. Mais le but de Platon est la compréhension : c’est-à-dire l’analyse des êtres. Ainsi, en dépit de sa reconnaissance du statut surnaturel de l’Etre des êtres, ses Formes sont des « banalisations » de l’être. Avec Aristote, la banalisation est poussée encore plus loin. Aristote déclare que toute philosophie « commence dans l’émerveillement », mais que la philosophie a pour tâche la suppression ou l’annulation de l’émerveillement au moyen de l’explication scientifique. Il reprend la doctrine des Formes mais la modifie, et oppose la Forme à la « matière » (une opposition que Platon n’emploie pas réellement). Toute la réalité est conçue par Aristote sur le modèle des objets de fabrication humaine : la combinaison d’une matière quelconque et d’un plan ou d’un modèle.

Maintenant, on pourrait objecter que j’ai été déloyal envers Platon en affirmant qu’il veut prendre le surnaturel qui rayonne à travers les choses et le dénuer de prodige et de mystère. Après tout, Platon ne suggère-t-il pas très clairement (et très fameusement dans la République) que nous ne pouvons jamais connaître les Formes telles qu’elles sont en elles-mêmes, qu’elles transcendent toujours nos pouvoirs de les comprendre ?[49]. Cela est vrai, mais cette doctrine n’est pas présentée comme une occasion d’émerveillement, ou de nous ramener à la religion, mais comme un idéal régulateur à la Kant, comme dans les Idées de la Raison. Si la pure ou totale connaissance des formes est impossible, le but de la connaissance totale est un but que nous approchons par une asymptote. Connaître les Formes devient ainsi une tâche infinie, et motive nos enquêtes (scientifiques) sur la nature des choses.

7. Conclusion

Un problème important demeure. Comment exactement pouvons-nous retrouver la capacité de faire se manifester le divin, d’invoquer les dieux ? Pour revenir au commencement, il semble que nos ancêtres faisaient cela sans effort, mais que ce pouvoir se soit atrophié en nous. La raison de cela est le sujet principal de « Connaître les dieux ». Mais que pouvons-nous faire dans notre situation ?

Dans « Connaître les dieux », j’ai fait quelques suggestions concrètes, qui revenaient essentiellement à dire « revenez à la nature, débarrassez-vous de tous vos gadgets, et ne faites pas confiance à la science moderne ». Certains lecteurs ont trouvé cela peu satisfaisant – et l’auteur aussi, pourrais-je ajouter. Ce n’était pas grand-chose, mais cela me semblait être, incontestablement, une bonne manière de commencer (un lecteur m’accusa d’hypocrisie, puisque je vis dans un appartement et que j’écris des articles sur un ordinateur ! A cela, je plaide : no lo contendere). Je m’en tiens à ces suggestions, et finalement j’ai l’intention de les suivre moi-même. Cependant, je pense que je peux maintenant offrir davantage.

Le lecteur aura peut-être remarqué que l’expérience du divin décrite ici attribue à l’homme antique quelque chose qui ressemble beaucoup à la capacité d’un enfant à l’émerveillement. Il n’y a là rien de nouveau, mais dans le passé l’« émerveillement enfantin » de l’homme antique était considéré comme une marque de sa nature « primitive ». Il est cependant impossible de retrouver la capacité de répondre à la divinité du monde sans réveiller cette capacité à l’émerveillement.

En discutant ce sujet, je me rappelle de trois textes. Je vais surprendre mes lecteurs d’abord en citant le Nouveau Testament (Mathieu, chapitre 18, verset 3) : « En vérité, je vous le dis, si vous ne redevenez pas comme des petits enfants, vous n’entrerez pas dans le royaume des Cieux ». Le second texte pourrait bien être considéré par certains comme l’antithèse du premier : il vient de du livre de Nietzsche, Ainsi parlait Zarathoustra. Dans « Sur les trois métamorphoses », Zarathoustra nous raconte « comment l’esprit devient un chameau ; et le chameau, un lion ; et le lion, finalement, un enfant » [50]. En tant que chameau, l’esprit est une bête de somme, chargée de « Tu feras ». Dans « Dans le désert solitaire » (un lieu de transformation spirituelle, comme le savaient Moïse, Jésus et Mahomet), l’esprit rejette les « Tu feras » et devient un lion. Mais le lion est purement réactif : il frappe les « Tu feras » et passe sa vie à se révolter contre eux. Il ne peut pas créer de nouvelles valeurs. Cela doit être laissé à la troisième métamorphose, l’enfant. « L’enfant est innocence et oubli, un nouveau commencement, un jeu, une roue se mouvant elle-même, un premier mouvement, un ‘Oui’ sacré » [51].

Le troisième texte est rarement cité, sinon jamais. Il vient d’une merveilleuse lettre que D.H. Lawrence écrivit de Cornouailles à Bertrand Russel, le 19 février 1916. Lawrence écrit :

Il faut être un hors-la-loi ces jours-ci, pas un enseignant ou un prédicateur. Il faut se retirer du troupeau et ensuite lui envoyer des bombes. … Coupez-la – coupez votre volonté et laissez votre vieux Moi derrière. Même vos mathématiques ne sont que vérité morte : et aussi finement que vous hachez la viande morte, vous ne la ramènerez pas à la vie. Cessez complètement de travailler et d’écrire et devenez une créature au lieu d’être un instrument mécanique. Purifiez-vous de toute discipline sociale. Pour votre fierté même devenez un simple rien, une taupe, une créature qui sent les choses à sa manière et ne pense pas. Pour l’amour du ciel soyez un bébé, et plus un savant. Ne faites plus rien – mais pour l’amour du ciel commencez à être – commencez par le commencement et soyez un bébé parfait : au nom du courage. [52]

Quelqu’un pourrait dire qu’il est facile pour un enfant de connaître l’émerveillement, puisque le monde est tout nouveau pour lui. Mais dès que l’on s’est habitué au monde, il est naturel que l’émerveillement cesse, et même que le cynisme et la lassitude s’installent. Nous devons rejeter cela. L’émerveillement de l’enfant ne cesse pas simplement parce que les choses lui deviennent familières, mais parce que les adultes autour de lui piétinent avec joie son émerveillement, en lui « expliquant » tout d’une manière réductrice sous la forme d’un « Oh, X ? Pourquoi, stupide garçon, c’est seulement Y » (voir mes commentaires précédents sur la science et la pornographie).

Retrouver l’émerveillement implique un changement dans le sujet. Aucun changement dans l’objet n’est requis. Il y a essentiellement deux « chemins » qu’on peut suivre pour rechercher le changement, et ils correspondent à la vieille distinction taoïste entre alchimie « interne » et « externe » (ou neidan et waidan, respectivement). (Je me hâte d’ajouter que les deux chemins ne sont pas mutuellement exclusifs et peuvent, et doivent, se confondre.)

L’alchimie externe, pour les taoïstes, impliquait l’usage d’élixirs spécialement préparés et conçus pour produire une transformation dans le sujet (par ex. le rendre immortel). Ce dont nous avons besoin, c’est d’un élixir qui modifierait notre conscience du monde et rendrait tout, y compris ce qui nous apparaissait complètement banal, nouveau et merveilleux. Un tel élixir rendrait le profane sacré. Je fais allusion, bien sûr, aux drogues psychédéliques, qui sont un adjuvant utile au réveil spirituel, si elles sont utilisées sagement et avec le plus grand sérieux. J’utilise la phrase « réveil spirituel » parce qu’il faut toujours garder à l’esprit que nous ne tentons pas d’acquérir quelque nouvelle aptitude, mais de réveiller une aptitude qui a été en sommeil.

Ce qui suit est une analogie intéressante, qui peut nous aider à mieux comprendre notre situation, et ce qui est requis pour nous. Dans les années 1880 et 90 les chemins de fer étaient en train d’être posés d’une côte à l’autre, à travers les grandes plaines de l’Amérique. Deux obstacles se présentaient : les bisons, et les Indiens qui les chassaient. En envoyant des hommes pour massacrer les bisons, le gouvernement et l’industrie faisaient d’une pierre deux coups. Avec la disparition des bisons, les Indiens des plaines furent privés de leur principale source de nourriture, et obligés de vivre dans des réserves gouvernementales. Mais pour les Indiens, la perte du bison signifiait bien plus que la perte de leur source de nourriture. Le bison était la figure centrale dans leur religion. Leur mythologie était basée sur la relation entre les hommes et les bisons, qui (croyait-on) s’offraient eux-mêmes pour être chassés et mangés. Le résultat dévastateur du massacre massif des bisons, par conséquent, fut la destruction de la religion des Indiens des plaines en quelques brèves années. La réponse à ce désastre, cependant, survint rapidement sous la forme de petits boutons comestibles qui vinrent du Mexique et parvinrent jusqu’aux Indiens. Les Indiens des plaines commencèrent à consommer du peyotl. Avec des rituels d’une grande solennité, ils se réunissaient dans des loges pour consommer le peyotl, recherchant en eux-mêmes de nouveaux mythes pour remplir le vide créé par la destruction du culte du bison par l’homme blanc. Ironiquement, c’est à peu près dans la même situation que l’homme blanc se trouve aujourd’hui[53]. Et consommer du peyotl (ou quelque chose dans le genre-là) pourrait aussi faire partie de la réponse pour nous.

Les drogues psychédéliques provoquent l’émerveillement d’une manière immédiate et  spectaculaire. Elles ne produisent pas des « hallucinations » ; elles ouvrent un canal par lequel nous pouvons voir le monde d’une manière entièrement différente. Mais faire de telles expériences de drogues au hasard est un sacrilège et peut se retourner contre l’utilisateur. Utilisées de manière appropriée, les drogues elles-mêmes peuvent produire une transformation personnelle immédiate et durable (comme les cas d’alcooliques qui furent guéris spontanément et complètement, après une seule dose de LSD). Cependant, je pense qu’elles sont largement sans valeur si l’on ne peut pas retenir ce que l’on a appris pendant le « trip », et traduire cela en une nouvelle manière de regarder les choses et, en général, d’être dans sa vie quotidienne.

Quant à cette vie quotidienne – par laquelle je veux surtout dire les longs intervalles entre les expériences psychédéliques – c’est là que l’« alchimie interne » a lieu. L’alchimie interne comprend toutes les activités dans lesquelles le moi s’engage (sans besoin d’élixirs) et qui ont pour but la transformation de la conscience. Lire cet article est un acte d’alchimie interne pour vous, tout autant que l’écrire l’a été pour moi. L’étude de soi, où l’illumination est le but, est de l’alchimie interne. Le yoga, avec là aussi pour but la transformation de la conscience, est de l’alchimie interne. Les chemins initiatiques, comme celui proposé par la Rune-Gild et d’autres organisations, sont une forme d’alchimie interne. Prendre la posture du zazen est de l’alchimie interne.

Le problème ici est de sélectionner une forme particulière d’alchimie interne, puisqu’on ne peut pas tout faire. Un premier pas est de poser réellement les questions que j’ai indiquées précédemment, comme des tentatives pour développer l’attitude pré-réflective de nos ancêtres : pourquoi donc y a-t-il des êtres, plutôt que rien ? Et pourquoi cette chose particulière devrait-elle être, et de la manière qu’elle est ? En d’autres mots, le premier pas est de commencer à connaître l’émerveillement dans la vie.

Mais laissez-moi dire brièvement quelque chose au sujet de la méditation et des pratiques yogiques. La description que j’ai donnée de l’expérience religieuse a beaucoup en commun avec les descriptions des expériences du satori dans le Zen. Le satori est généralement décrit comme une expérience d’« éveil », ou d’« illumination ». Le décrire est délicat, car aucune description ne peut vraiment exprimer à quoi cela ressemble de connaître le satori, mais il semble impliquer au moins deux composants. Le premier est l’intuition que ce qui est, est juste. Lorsqu’on connaît le satori, on sent que tout, exactement comme c’est maintenant, est fondamentalement juste, et que cela doit être de la manière que c’est. Le second, c’est que temps et espace semblent être annulés. L’expérience survient quand on a l’impression d’être dans une sorte d’« éternel présent ». Et le sentiment de séparation entre soi-même et l’objet est également supprimé. Ce n’est pas (ainsi qu’on le dit souvent) parce qu’on a le sentiment que le moi et l’objet sont le même. C’est plutôt parce que dans l’expérience du satori, l’ego disparaît, et l’on est complètement pris par l’expérience de l’autre. Mais, encore une fois, c’est une expérience très particulière de ce qui est « autre ». C’est l’autre connu d’une manière intemporelle, par laquelle nous l’acceptons, nous nous abandonnons à lui, et nous l’affirmons inconditionnellement.

Etant donné la relation étroite entre le satori et mon récit de l’expérience des dieux, il va sans dire que toute la tradition orientale des pratiques consacrées à atteindre le satori, le nirvana, ou tout ce que vous voulez, devrait être d’un grand intérêt pour nous. Mais cela ne restreint pas vraiment les choses, car l’Orient nous fournit autant de voies vers l’Illumination qu’il existe de types de personnes individuelles. Pour chacun, il y a son propre yoga. Ce que toutes ces méthodes ont en commun, cependant, c’est que ce sont des moyens de dépasser une attitude profane envers les choses. Les meilleures d’entre elles nous enseignent à reconnaître le sacré dans le profane, et ainsi à transformer le monde devant nos yeux.

Notes

Originellement publié dans TYR: Myth—Culture—Tradition, vol. 2, ed. Joshua Buckley and Michael Moynihan (Atlanta: Ultra, 2004), 25–64.

[1] Je suppose que mes lecteurs n’ont pas besoin que je les convainque de la naïveté de la vision du XIXe siècle, selon laquelle les mythes seraient des tentatives primitives d’explication scientifique. Lawrence J. Hatab traite cela très bien : « L’explication répond à la question pourquoi ou comment une chose est en découvrant une cause antérieure, en recherchant la cause d’une chose jusque dans une (autre) chose profane. Les mythes, d’autre part, doivent être vus pour dévoiler que quelque chose est, la première forme significative que prend un monde, et dont l’arrière-plan est caché. Le mythe n’est donc pas explication mais présentation de l’arrivée/retrait du sens existentiel. Le passage du dévoilement mythique à la pensée rationnelle et scientifique ne peut pas être vu comme une correction du mythe parce que ce fut un passage à une nouvelle intention – la réduction des êtres aux capacités explicatives de l’esprit humain ou des causes naturelles vérifiables. Voir le mythe comme une erreur (une explication fausse) est une incompréhension anachronique de la fonction du mythe ». Voir Lawrence J. Hatab, Myth and Philosophy: A Contest of Truths (LaSalle, Illinois: Open Court, 1990), 23. Voir aussi (en particulier) p. 26. Plus loin dans le même ouvrage, Hatab parle de la Théogonie d’Hésiode, remarquant qu’elle n’est pas, à proprement parler, une histoire de « création ». Les premiers dieux « simplement apparaissent ; on ne nous dit pas d’où [ils viennent] » (p. 64).

[2] Martin Heidegger, Introduction to Metaphysics, trans. Gregory Fried and Richard Polt (New Haven: Yale University Press, 2000), 47.

[3] Voir Alan W. Watts, Nature, Man and Woman (New York: Vintage Books, 1970), 10.

[4] D. H. Lawrence, Studies in Classic American Literature (New York: Penguin, 1991), 22. Italiques omises.

[5] Heraclitus, Fragment 104, trans. Richard D. McKirahan, in A Presocratics Reader, ed. Patricia Curd (Indianapolis, Indiana: Hackett Publishing, 1996), 40.

[6] C’est essentiellement pour cette raison que la voie du guerrier est aussi un chemin vers la sagesse.

[7] Je souligne que bien que je doive beaucoup à Heidegger, je ne suis pas un heideggérien, et que cet essai n’est pas non plus un essai sur la philosophie heideggérienne. En particulier, je dois avertir le lecteur que mon usage des termes « être », « êtres » et « existence » n’est pas strictement en accord avec l’usage de Heidegger.

[8] Hatab dit ce qui suit : « Le chemin de la philosophie se détourne de l’imagerie sacrée du mythe pour se tourner vers des modèles de pensée empiriques et conceptuels. Ceci entraîne un passage du monde vécu existentiel à des représentations abstraites du monde. Maintenant le monde est mesuré selon des principes d’unité, d’universalité, et de constance, et l’esprit recherche des fondements empiriques et conceptuels qui permettent une sorte de certitude. Ainsi le dévoilement du monde passe d’un processus de divulgation à une sorte de fondationalisme, où la pensée est réduite à une forme et une structure connaissable et déterminée » (Hatab, Myth and Philosophy, 13).

[9] La plus grande partie de ce qu’on appelle « pornographie » constitue un effort concerté pour démystifier le sexe et pour nier ou détruire son miracle. L’ironie et l’irrespect envahissants de la pornographie et sa présentation (qui n’est absolument pas « sexy ») sont en effet une tentative de « moquer » l’effrayant mystère qu’est le sexe, et de le rendre non-menaçant pour les hommes modernes, dont le but est la destruction du mystère, et la réalisation du contrôle et de la connaissance parfaits de la réalité. Ce qui est perçu par les féministes comme la « misogynie » du porno a aussi son origine dans ceci : la femme, en tant que source du mystère, est brutalisée et ridiculisée précisément pour nier son mystère. Une grande partie de ce qu’on appelle « science » est en fait de la pornographie. Un scientifique qui dit à des jeunes : « Il est stupide de croire qu’il y a quelque chose de mystérieux dans la foudre : c’est simplement une décharge électrique atmosphérique » n’est pas moins pornographe qu’un Larry Flynt, qui dit aux même jeunes : « Il est stupide de croire qu’il y a quelque chose de mystérieux dans le vagin :  c’est juste une chatte ».

[10] J’ai emprunté le terme de « région » à la phénoménologie d’Husserl, mais mon idée d’une région a peu en commun avec celle de Husserl. En réalité, le terme que Husserl utilise est « essences régionales ». Celles-ci représentent des divisions fondamentales dans la réalité elle-même. Leur caractère fondamental est démontré par le fait que les différences entre elles sont qualitatives, par opposition aux quantitatives (c’est-à-dire qu’elles diffèrent en genre, plutôt qu’en degré). Deux légumes – une laitue et un concombre, disons—ne diffèrent pas en genre, et appartiennent ainsi à la même « région ». Mais un chien et un concombre ne sont pas seulement très différents, elles sont d’un genre fondamentalement différent. Tout comme un concombre et un cristal de quartz. Ainsi, nous pouvons facilement identifier trois régions correspondant à une division traditionnelle, venant du sens commun : animal, végétal, et minéral. Mes régions sont aussi des « divisions » à l’intérieur de la réalité, mais mon concept d’une région est plus ouvert, comme cela deviendra rapidement apparent.

[11] Bien sûr, les matériels à partir desquels nous créons les objets sont, en fin de compte, naturels. Mais quand nous contemplons un objet en tant qu’objet, ce n’est pas la dimension de leur être qui nous est donnée.

[12] Cependant, il faut noter qu’il y a traditionnellement des dieux des activités humaines, par ex. des métiers humains. Il suffit de penser aux diverses divinités associées aux forgerons et au travail des métaux, comme le Goibniu irlandais, le Gofann gallois, le Vulcain latin, et le Héphaïstos grec. Dans la mythologie indienne nous rencontrons Tvástr et Vishvakaram (celui qui « accomplit tout »). Très souvent de telles divinités non seulement jouent un rôle dans la création, mais sont aussi les enseignants de savoir-faire à l’humanité. Le meilleur exemple d’une telle figure serait probablement l’Hermès grec. La « source » de ces déités semble donc être, du moins en partie, l’intuition du caractère merveilleux des arts par lesquels nous transformons la nature. Ils sont supposés requérir une origine transhumaine pour pouvoir être explicables.

[13] Cependant, comme je l’ai suggéré plus haut en mentionnant Jung, il peut y avoir certaines structures innées qui déterminent, à un degré quelconque, la manière dont nous personnifions ou  décrivons les dieux. N.B.: Dans la réalité nous pouvons « remarquer » les ondes sonores sans les entendre. Leurs vibrations peuvent être vaguement perçues par le sens tactile. S’il existe quelque chose comme un « sens » par lequel nous devenons conscients du divin, la présence du divin pourrait-elle aussi enregistrée par les autres sens, même vaguement ? Je pense que c’est une possibilité et, à nouveau, le sens tactile semble être impliqué. Je pense à des phénomènes comme quand on a la « chair de poule », ou quand on sent ses cheveux se dresser sur sa tête. De telles choses arrivent quand les individus ont un contact avec l’« étrange », et souvent elles arrivent même en l’absence de toute conscience cognitive  d’une présence surnaturelle.

[14] Cf. Immanuel Kant, Critique of Pure Reason, trans. Werner S. Pluhar (Indianapolis, Indiana: Hackett Publishing, 1996), 28 (Bxxvi–Bxxvii). Mon appel à Kant n’est pas destiné à suggérer qu’il aurait été en sympathie avec ma phénoménologie des dieux. Il ne l’aurait très certainement pas été.  Kant divise la connaissance humaine en sensibilité (perception) et compréhension (pensée), et affirme que les « phénomènes » sont des objets tels que perçus par les cinq sens. Cependant, l’expérience du divin décrite ici ne semble appartenir ni à la sensibilité ni à la compréhension, mais semble plutôt être à cheval sur les deux. Ainsi, mes « apparitions phénoménales » des dieux ne doivent pas être comprises au sens kantien des perceptions sensorielles (ce que Kant appelle Anschauungen).

[15] L’ouvrage d’Usener sur lequel Cassirer se base principalement est Götternamen. Versuch einer Lehre von der religiösen Begriffsbildung (Bonn, 1896).

[16] Ernst Cassirer, Language and Myth, trans. Susanne K. Langer (New York: Dover Books, 1953), 17–18.

[17] Cassirer, Language and Myth, 18.

[18] Usener, 290f. Cité dans Cassirer, Language and Myth, 18. La traduction est vraisemblablement celle de Langer. Notez le langage très problématique ici : « Tout ce qui nous arrive soudainement comme un envoi du ciel … apparaît à la conscience religieuse comme un être divin » (les italiques sont de moi). Je soutiens que tout ce qui est venu à l’homme de cette manière fut, pour lui, un être divin, un envoi du ciel. Usener parle comme s’il pensait que l’homme agit avec une idée déterminée de l’être divin, et regarde certains objets comme divins parce qu’ils lui ressemblent.

[19] Cassirer, Language and Myth, 19.

[20] Cassirer, Language and Myth, 21.

[21] Elle a été traitée, dans une certaine mesure, dans « Connaître les Dieux ».

[22] Encyclopedia of Indo-European Culture, ed. J. P. Mallory and D. Q. Adams (London: Fitzroy Dearborn Publishers, 1997), 230.

[23] Une autre chose curieuse est que le mot aztèque pour désigner dieu était Teo. Ces similarités linguistiques sont traitées par la plupart des spécialistes réputés comme une pure coïncidence, puisque l’aztèque et le chinois appartiennent à des groupes linguistiques qui se sont développés tout à fait indépendamment de l’indo-européen. Cependant, la coïncidence est frappante.

[24] Mircea Eliade, A History of Religious Ideas, Vol. II, trans. William R. Trask (Chicago: University of Chicago Press, 1982), 7.

[25] Edred Thorsson, “The Holy,” in Green Rûna (Smithville, Tex.: Rûna-Raven Press, 1996), 41–45. Toutes les références sont faites par rapport à ce texte d’anthologie.

[26] Aussi, vieux norrois vîgja, « consacrer », et vieil-anglais wicca, « sorcière ».

[27] Thorsson, 41. Thorsson poursuit en disant que cela signifie qu’elle est « complètement autre », et  s’inspire de Rudolf Otto qui dit que le mysterium tremendum est ce qui est totalement séparé du terrestre ou de l’existence humaine quotidienne. Je ne suis pas sûr de pouvoir le suivre dans cette identification, cependant, si j’ai bien compris la remarque de Thorsson. L’analyse d’Otto concernant l’expérience religieuse tend à avoir un fort préjugé en faveur de l’expérience judéo-chrétienne, dans laquelle le divin est en effet quelque chose de « complètement autre » au sens de transcendant absolument le monde.

[28] Encyclopedia of Indo-European Culture, 25. Cette définition doit être particulièrement excitante pour les heideggériens.

[29] Thorsson, Green Rûna, 42.

[30] La manière dont les objets associés aux divinités acquièrent cette propriété semblable au mana n’est pas une chose que je discute ici. Mon analyse concerne seulement la manière dont le divin est « remarqué » pour la première fois dans le monde. J’hésite à utiliser le terme « mana » à cause de son association avec la théorie anthropologique totalement laïque et réductrice, mais je ne connais pas de meilleur terme.

[31] Le latin profanum signifie littéralement « devant le sanctuaire ». Il désignait le sol ordinaire en-dehors de l’enclos d’un lieu sacré. Hatab écrit : « Pour l’esprit mythique . . . le profane est ce qui est dépourvu de signification, le sacré est ce qui possède une signification ». Hatab, 23.

[32] Thorsson, Green Rûna, 42.

[33] Thorsson, Green Rûna, 43.

[34] Thorsson, Green Rûna,  43.

[35] De la racine proto-indo-européenne *sakros (par ex., « sacré ») vient le tokharien A sâkär signifiant « merveilleux, heureux, de bon augure ». Le tokharien B sâkre signifie « merveilleux, heureux, béni, de bon augure ».

[36] Et, pourrais-je ajouter, le banal « hi ! » d’aujourd’hui ne vient-il pas de hail/heil ?

[37] La raison pour laquelle eidos est traduit par Forme plutôt que par le plus naturel « Idée » est simple. « Idée » suggère quelque chose de subjectif, alors que les Formes de Platon sont des entités objectives existant dans une dimension séparée, non-spatio-temporelle.

[38] Plato, Symposium, trans. Alexander Nehemas and Paul Woodruff, in Plato: Complete Works, ed. John M. Cooper (Indianapolis, Indiana: Hackett Publishing, 1997), 493.

[39] Plato, Parmenides, trans. Mary Louise Gill and Paul Ryan, in Plato: Complete Works, 366.

[40] Voir le livre de Mitchell H. Miller, Plato’s Parmenides: The Conversion of the Soul (University Park, Pennsylvania: Pennsylvania State University Press, 1991), dans lequel cette thèse est developpée  magistralement.

[41] Martin Heidegger, Being and Time, trans. John Macquarrie and Edward Robinson (New York: Harper and Row, 1961), 51.

[42] Le très récent usage de « phénomène » pour signifier « grosse affaire » (comme dans « le phénomène du hula hoop ») n’a évidemment pas grand-chose à voir avec le sens que je discute ici.

[43] Il y a fondamentalement quatre manières par lesquelles Platon décrit la relation entre les Formes et les sensibles : (a) mimesis ou imitation (les sensibles sont des « imitations » des Formes), (b) methexis ou « participation » (les sensibles « participent » des Formes), (c) koinonia ou communauté, et (d)  parousia ou présence. A et B représentent plutôt des interprétations naïves et littérales de la relation, qui se révèlent inadéquates à l’analyse (le Parménide est consacré, en partie, à démontrer cela). Mais la koinonia et la parousia sont beaucoup plus intéressantes et défendables. Koinonia signifie que le sensible  « communie avec » ou est « en communion avec » la Forme. Parousia indique que nous rencontrons la Forme comme « présente dans » le sensible ; ou, en jargon phénoménologique, la Forme « se rend présente » dans le sensible si le sensible est regardé d’une certaine manière.

[44] Plato, Parmenides, p. 365.

[45] Les principaux témoignages sur cela viennent d’Aristote. Voir la Physique (209b 13–6) et la   Métaphysique (I.6). Il y a aussi un certain nombre de livres récents par des spécialistes de Platon et traitant de ce sujet. Voir Hans Joachim Kramer, Plato and the Foundations of Metaphysics, trans. John R. Catan (Albany: State University of New York Press, 1990) ; et Giovanni Reale, Toward a New Interpretation of Plato, trans. John R. Catan (Washington, D.C.: Catholic University of America Press, 1997).

[46] La « divine figure » du Démiurge dans le Timée, qui crée le monde sur le modèle des Formes éternelles, était reconnue comme un simple procédé poétique, même par les membres de l’Académie de Platon.

[47] Et aussi, faut-il ajouter, en paraissant suffisamment religieux pour éviter le sort de Socrate. Celui-ci fut accusé de deux crimes : corrompre la jeunesse, et ne pas adorer les dieux de la cité.

[48] Néanmoins, il n’est pas sans mythe, comme le sait n’importe quel étudiant des dialogues. Platon interrompt très souvent la discussion dans un dialogue pour permettre à Socrate, ou à quelque autre personnage, de présenter un mythos. Mais les mythes de Platon cadrent tous avec la conception du XIXe siècle concernant la nature des mythes : c.-à.-d. qu’ils sont tous des « récits probables » qui ont une fonction explicative. Ce sont essentiellement des substituts à l’explication scientifique. Cela ne veut pas dire qu’ils n’expriment pas très souvent des vérités profondes, mais Platon emploie le mythe  quand aucune réponse « rationnelle » n’est disponible.

[49] En réalité, dans la République, Socrate déclare explicitement que les Formes sont connaissables. Mais ceci est un exemple de l’ironie socratique. Au paragraphe 516b, son évadé de la caverne fixe directement le Soleil, mais il est impossible de faire cela longtemps sans être aveuglé. L’implication est que la Forme du Bien (symbolisé par le Soleil), n’est pas non plus connaissable directement ou pleinement. Ceci s’applique probablement aux autres Formes, comme cela est suggéré par certains des autres dialogues.

[50] Friedrich Nietzsche, Thus Spoke Zarathustra, trans. Walter Kaufmann (New York: Penguin Books, 1978), 25.

[51] Nietzsche, Thus Spoke Zarathustra, 27.

[52] The Selected Letters of D. H. Lawrence, ed. Diana Trilling (New York: Farrar, Straus and Cudahy, 1958), 129.

[53] Je dois cette analogie à Joseph Campbell, qui l’exprima dans un cours public au début des années 1970. A ma connaissance, le cours n’a été publié que sous forme de CD : « Confrontation de l’Orient et de l’Occident dans la religion » (Joseph Campbell Foundation, 1996).


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lundi, 26 décembre 2011

Spiritualità cosmica nell’Ellade arcaica

Spiritualità cosmica nell’Ellade arcaica

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La religione ellenica si presenta come un insieme di culti e di riti che intendono trasmettere nella storia e nella vita quotidiana lo stesso impulso spirituale personificato dalla complessa varietà delle figurazioni divine. La sua rappresentazione religiosa è usualmente costituita dalla mitologia, ossia da un complesso di narrazioni di vicende divine che intendono “spiegare” in una prospettiva mito-poetica il significato del mondo o di singoli momenti di esso. I vari cicli mitologici non sono altro che proiezioni drammatizzate di quegli impulsi spirituali, una loro formulazione plastica che tende a restituire una visione “teologica” all’esperienza che i vari aedi, cantori, indovini o estatici hanno contemplato contemporaneamente come vita cosmica e ritmo divino.

 

Questo particolare carattere mitico-rituale ha comportato l’inesistenza di un qualsiasi Fondatore divino dal quale possa essersi originata la religione ellenica o che abbia in qualche modo “riformato” alcuni suoi caratteri fondamenti. Da ciò anche il fatto che la vasta rappresentazione mitologica e il complesso dei rituali non si trovano codificati in un insieme di testi sacri da cui poter sviluppare una dottrina religiosa o presso i quali tale dottrina potesse essere custodita e trasmessa senza alterazione. Tale assenza di libri rivelati ha poi permesso che si sviluppasse nell’Ellade la particolare funzione dei poeti i quali nelle loro opere hanno sostituito ciò che altrove veniva esplicato dagli scribi, esaltando particolarmente ciò che si potrebbe chiamare la “visione mitica” a detrimento di una qualsiasi rivelazione divina che potesse essere codificata e, appunto, “scritta”. Questo carattere fa sì che la religione ellenica si presenti non come un corpus dottrinale al quale aderire o al limite convertirsi, ma come una forma spirituale connaturata naturalmente a quel popolo, una “forma formante” che si invera nelle varie  espressioni di vita e dalla quale si può evadere non con un rifiuto, ma cambiando la stessa identità nazionale.

 

Come ulteriore conseguenza tutto ciò ha comportato il tipico atteggiamento di perpetuazione di usi, costumi e rituali ancestrali, di conservazione di un patrimonio religioso che viene trasmesso come elemento di identità e di custodia di un ordine la cui origine si confonde con quella stessa del popolo ellenico. Da ciò anche il carattere fondamentalmente conservatore di questa religione, presso cui l’aderenza alla tradizione esprimeva l’unico criterio di ortodossia e che rendeva “attuale” e “storica” la lotta per l’ordine tradizionale contro ogni forma di disordine. Questa storicità è una delle peculiarità della religione ellenica ed è determinata dallo stesso scenario mitologico tradizionale. Qui, infatti, la nascita del popolo ellenico va a confondersi con la stessa religione. Le origini nazionali non sono altro che un momento dello svolgimento della genealogia divina, una sua modalità di determinazione storica che ad un certo punto, come sembra indicare in modo specifico il mitologema di Hellenos sul quale torneremo, ha visto il “trapasso” del divino nell’umano di una particolare essenza divina, per di più tesa ad esplicitare la funzione di un ordine cosmico che il nuovo ciclo aperto da Deucalione dovrà realizzare.

 

La funzione del mito all’interno della spiritualità ellenica appare fondamentale. Il termine mythos si ritrova con significati vari all’interno della storia religiosa ellenica con utilizzazioni diverse e spesso persino opposte. Secondo molti esegeti diventa meno evidente rispetto a quanto ritenevano i classicisti dell’Ottocento una derivazione semantica di mythos da myēo, anche se ovviamente tale derivazione continua ad avere una sua forza dimostrativa di non poco rilievo e di forte persuasione. Ultimamente, però, alcuni studiosi appoggiandosi a diverse giustificazioni linguistico-formali, hanno pensato che si possa risalire ad un radicale indoeuropeo *mēudh-, *mudh- col significato speciale di “ricordarsi”, “aspirare a”, “riflettere”. Si avrebbe perciò il mythos quale “pensiero”, ma non riferito al pensare meramente cerebrale che si determina in un discorso logico-esplicativo, quanto piuttosto ad un “pensiero che si rivela”, che viene comunicato da una dimensione superiore a quella del tempo nella quale si consuma la vita umana. In particolare, sarà Omero che in entrambi i suoi poemi ci darà un “pensiero” (= mythos) che viene elaborato, un’idea, un “principio” che deve essere svelato.  Si entra così in un’area sacrale che vede il mito in rapporto strettissimo con il rito, con la dimensione “narrativo-esplicativa” di una condizione spirituale che è possibile esperire nell’atto rituale o nell’ispirazione estatica. E’ l’esperienza del veggente omerico che svela ciò che “ha visto con meraviglia”, quando lo spettatore, la cosa contemplata e l’atto del vedere diventano una thēoria, una “visione” la cui condizione l’aedo omerico esprime sì con la parola (è uno dei significato di mythos), ma con una parola che recita e “rappresenta” l’essere del mondo, tesa più ad incantare l’ascoltatore trasportandolo nel pieno dell’età eroica che a “raccontare” fatti, cosa che dà significato non transeunte all’uso ellenico di recitare brani di Omero durante alcune rappresentazioni rituali.

 

Fra i tanti mitologhemi più antichi dell’Ellade un interesse particolare può avere la constatazione che assieme ad Helios, quali figlie di Iperion e di Tia (“la divina”) troviamo anche Selene ed Eos, l’Aurora celeste. Va detto subito che i miti relativi ad Helios sono giunti in modo frammentario a tal punto che si è autorizzati a pensare che ci si trovi di fronte a cicli diversi intersecantisi e confusi l’un l’altro. Tale per es. la curiosa storia riportata da Ateneo che raccontava del viaggio di Helios fatto al tramonto in una coppa d’oro fino a raggiungere la mitica Etiopia. Quello che può interessare è che etimologicamente “etiopia” deriva dalla radice *aith- col significato di “bruciare” e di ”risplendere”, dato che qui tale radice include il senso di “fuoco che brucia” e perciò “risplende”. Si allude perciò ad una terra dove sì la luce risplende, ma di uno splendore di tipo vespertino, occidentale, evidenziato dal fatto che il viaggio di Helios si svolge al tramonto e che il popolo etiope era ritenuto essere non di razza nera, ma rossa, posta dal simbolismo tradizionale sempre ad occidente, al crepuscolo del percorso del sole.

 

Ancora più ricco di significati è il mito riportato da Omero nell’Odissea, là dove si fa menzione delle due figlie di Helios: Lampetia, “colei che illumina” e Faetusa, “colei che risplende”, le due divinità che custodiscono i 350 buoi del sole nell’isola di Trinacria. Secondo Bâl G. Tilak qui si ha una precisa allusione ad un antico anno di 350 giorni che verosimilmente doveva essere seguito da una notte cosmica di 10 giorni, ossia la durata dell’anno propria ad alcune regioni circumpolari, “là dove si compiono le rivoluzioni del sole”, ricorda ancora Omero (Od. XV, 403 e sgg.). E l’ipotesi acquista maggiore luce ove si consideri che queste due figlie di Helios presentate da Omero come le custodi dell’anno artico, personificano rispettivamente la luce che ne “illumina” l’inizio e la luce che “risplende” al suo compimento, ossia la luce dei due solstizi, quello estivo e quello invernale. Nel mitologhema le due sorelle si trovano ad esplicare la loro funzione di custodia nell’isola di Trinacria che è stata sempre concepita come la proiezione della mitica “terra del sole”. Persino lo stesso simbolo del triskel che graficamente la definisce, secondo le pittografie studiate da Dechélette, non esprime altro che lo stesso movimento del sole considerato nella prospettiva del suo rivelarsi secondo modalità cicliche che si srotolano attorno ad una divisione triadrica dell’anno che ha sostituito quella binaria risalente ad epoche molto più antiche, e ancora non si è stabilizzato nella divisione quaternaria, quella propria all’anno del periodo “classico” dell’Ellade. In un suo aspetto la Trinacria appare come il simbolo della potenza cosmica creativa che si dispiega nel tempo, la sua forza di manifestazione, perciò come uno dei simboli stessi che rivelano come tale potenza si sia inverata in una “terra primordiale”, una “terra originaria”, “solare”.

 

I miti relativi ad Eos, l”’Aurora” o la “luce aurorale”, sono molto più poveri e già risentono dell’influsso della leggenda eroica. Un altro nome della dèa dell’aurora fu Emera, “il Giorno”, che forse vuole esprimere l’idea di un’intera epoca umana. E sono note le storie di questa dèa della luce aurorale in connessione alla Syria, “la terra del sole” di Omero, oppure quelle relative ai suoi rapporti con Kephalonia, “la terra del centro” dove Kephalos, il Caput celeste, il “punto” cosmico di orientamento di una carta stellare molto antica (e comunque precedente  i rivolgimenti celesti cui accennava Aristotele per spiegare il passaggio del sole dal suo primordiale percorso sulla Via Lattea a quello attuale), si era “sposato” con l’Orsa celeste. Secondo questi miti alle origini gli sposi Kephalos e la Grande Orsa (con i suoi septem triones che trascinano il Grande Carro e lo fanno girare perpetuamente attorno al “perno” del cielo, il polo) si trovavano congiunti nello stesso quadrante cosmico secondo una direttrice che doveva risultare perpendicolare all’asse dell’osservatore allocato nella Kephalonia.

 

Dalle confraternite degli aedi itineranti, dei thēologoi e dei cosmologi arcaici, quelli che Aristotele radunava sotto la dizione di prōtoi thēologesantes (“i primordiali thēologoi”), probabilmente sono emerse tutti quei veggenti che si esprimevano attraverso il canto e la poesia sacra e, dunque, anche i due massimi cantori dell’antica Ellade, Omero ed Esiodo. Il caso di Esiodo è molto particolare. Non solo trasmette tutta una serie di elementi mitologici di un passato che rimanda ad epoche difficili da determinare, ma il personaggio appare pienamente consapevole del proprio ruolo di Aedo sacro, un cantore ispirato al quale era stato concesso il dono della poesia (= sapienza) che lo scettro d’oro donatogli dalle Muse sembra aver sanzionato in modo definitivo, dato che è detto che sono proprio loro che gli hanno insegnato “uno splendido canto, mentre pascolava gli agnelli ai piedi del sacro Elicona”, e addirittura in una gara poetica vince l’insegna dell’ispirazione apollinea, il sacro tripode che egli poi dedicherà alle Muse. E’ tutto un mondo che può essere ricondotto a forme di conoscenza ispirate che permettono di risalire oltre il transeunte, al “principio”, là dove le varie figurazioni divine hanno preso forma.

 

Lo stesso Omero può darci indicazioni importanti in questa direzione. Il suo nome, infatti, nel dialetto eolico cumano fu spesso interpretato come “il cieco” e rimanda più che ad un epiteto individuale, ad una attività più generale legata alle ispirazioni divine e alle estasi arcaiche. “Omero” personifica la funzione sacra dell’archegeta delle confraternite degli Aedi, colui che ha ricevuto la capacità di “vedere” oltre i limiti delle apparenze e, come gli indovini guardano al futuro, egli sotto l’ispirazione del dio canta il tempo passato, l’età eroica, “creandone” le espressioni, le gesta, lo scenario. La sua attività rimanda ad una funzione demiurgica tesa ad ordinare la visione ricevuta in uno stato di ispirazione divina e la rivela agli uomini, esattamente come hanno fatto gli Omeridi dell’isola di Chio, quella straordinaria confraternita di cantori la cui fisionomia rimanda agli aedi ispirati che hanno percorso la Grecia in ogni tempo e la cui qualificazione più importante era quella di essere “discendenti” di Omero, più esattamente gli eredi della tradizione dei veggenti omerici.

 

Esiodo ha conservato anche altri mitologhemi che possono essere fuorusciti da una cosmologia arcaica. Nell’enunciazione delle ère che descrivono il processo di impoverimento che dalla pienezza della spiritualità primordiale conclude nell’età del ferro, egli ci dà il senso di un loro rapporto non meramente cronologico, di successione temporale, ma quale espressione di “qualità” storiche, quali cicli che per la loro completezza, per il loro riflettere un determinato tipo di spiritualità rivelatasi in un tempo preciso, “storico”, in sé non sono legati ai cicli successivi. Questo fondamentale disegno unitario delle ère esiodee è rilevabile anche da un altro punto di vista che riconduce il mito riportato da Esiodo alle più arcaiche speculazioni indoeuropee sulle origini del cosmo. Se, infatti, si considera la successione delle età e delle varie razze che incarnano via via i valori spirituali delle singole ère, avremo il seguente quadro. Prima di tutto si avrà la razza aurea caratterizzata da una pienezza biologica propria al tipo di spiritualità di quel “tempo-fuori-del-tempo”, a-cronico, che in sé delinea la condizione di perfezione originaria cui devono tendere tutte le altre razze da lui individuate come specifiche dei diversi cicli temporali che si svilupperanno dopo la scomparsa della razza aurea. Questa razza primordiale appare perciò come una “totalità” all’interno della quale si realizza l’armonia e la giustizia, mentre la sua perfezione  in modo eminente consente l’espressione piena delle tre attribuzioni classificate da Georges Dumézil come funzioni cosmico-sociali [sacerdozio, forza guerriera e fecondità] che nella prospettiva esiodea sintetizzano ogni gerarchia sociale: gli uomini dell’età aurea saranno “buoni”, “guardiani giusti” e “dispensatori di ricchezza” (Erga, vv. 123-126).

 

Dopo la fine dell’età aurea e della razza che ne aveva incarnato l’essenza di luce, si succedono altre ère in una progressione che scivola sempre più verso il disordine e una onnipervadente empietà. Dall’età argentea a quella ferrea si ha perciò la delineazione di uno svolgimento progressivo che inizia da uno stato fanciullesco e puerile, poi diventa una dura e spietata giovinezza (gli uomini dell’età del bronzo nascevano “con una grande forza e mani invincibili spuntavano dagli omeri al loro corpo gagliardo”; Erga, vv. 143-149), si stabilizza per un po’ come l’equilibrata maturità degli Eroi e si conclude infine con l’età del ferro, l’èra della vecchiaia (“quando verranno al mondo gli uomini con le tempie candide fin dalla nascita”; v. 181), il crepuscolo del tempo cosmico ed umano. Dall’alba al tramonto dell’essere cosmico. La figura delineata appare quella di un Macrantropo, il prototipo mitico dell’esistenza che in sé contiene in principio le varie possibilità che si svilupperanno nel corso del tempo. Dal suo sacrificio rituale, ossia dalla sua “scomposizione” in ère cosmiche, si determina l’essere del mondo e degli uomini, mentre le razze che secondo Esiodo si susseguono l’una all’altra appaiono come le modalità diversificate di un tutto unitario, le “membra” dell’essere cosmico che si distende nel tempo e i suoi quattro stadi di esistenza.

 

La concezione di Esiodo non deve essere considerata una sua creazione originale ed individuale, ma va collocata all’interno di teorie cicliche di grande importanza e variamente articolate. La tradizione ellenica, infatti, ci parla di tre successivi cataclismi relativi alla sparizione di Ogygia, al diluvio di Deucalione e a quello di Dardano che avrebbero via via distrutto terre o continenti sui quali regnava l’empietà più profonda. Prescindendo da quelli di Ogygia e di Dardano sui quali ci siamo intrattenuti altrove, qui interessa soffermarci sul diluvio di Deucalione per gli accostamenti e gli sviluppi cui può dar luogo. Esso, infatti, ci riporta al ciclo dei titani per il semplice fatto che Deucalione risulta essere il figlio di Prometeo il quale, a sua volta, era stato concepito dal titano Giapeto e dall’oceanina Climene. Da questa unione era nato anche un secondo figlio di Giapeto, un fratello di Prometeo,  il famoso Atlante considerato il padre delle Esperidi, di Maia e della Plèiadi, ossia tutto un gruppo di esseri divini che si appoggiavano a precise costellazioni celesti poste sempre ad Occidente, mentre la tradizione ci dice che Zeus, a chiusura del ciclo spirituale precedente, pose entrambi i fratelli a presiedere i due poli opposti del mondo. Atlante presidiava l’Occidente e Prometeo l’Oriente, secondo un asse equinoziale che sostituisce il più antico asse solstiziale nord-sud e costituisce una precisa indicazione sull’esistenza nell’Ellade arcaica di dottrine sui cicli cosmici formulate secondo una narrazione che interpretava in termini mito-poetici un’antica tradizione sacra sulla strutturazione dei movimenti celesti.

 

Alla fine dell’età del bronzo, a causa della tracotanza ed empietà di quella razza Zeus volle un diluvio che ne cancellasse ogni traccia. Su consiglio del padre Deucalione e sua moglie Pirrha costruirono un’arca nella quale posero ciò che doveva essere salvato dal diluvio. Dopo nove giorni e nove notti durante i quali il diluvio distrusse la civiltà della razza bronzea, approdarono finalmente sul Parnaso dove finalmente sacrificarono a Zeus e così diedero inizio ad un nuovo ciclo. La titanessa Themis, la stessa che sarà soppiantata da Apollo a Delfi, enuncia in forma di enigma un oracolo che, avveratosi, costituirà l’origine stessa del genere umano. Gli elementi fondamentali del mito si possono considerare:

 

  1. L’arca che custodisce i germi della sapienza dei cicli spirituali precedenti;
  2. Deucalione e Pirrha che per la loro genealogia perpetuano in qualche modo anche aspetti importanti dell’età primordiale e perciò impediscono che ci sia una vera e propria rottura col mondo precedente;
  3. Il sacrificio a Zeus sul monte, l’axis mundi che diventa il luogo originario della nuova civiltà;
  4. L’oracolo di Themis, che permetterà la nascita del genere umano;
  5. La forma di enigma dell’oracolo.

 

Secondo la forma più conosciuta del mito, il figlio della coppia Deucalione-Pirrha (= il “Bianco” e la “Rossa”) scampata al diluvio sarà Hellenos il cui nome etimologicamente può essere ricondotto a “splendere”, “luce”, che secondo Jean Haudry darà come significato “colui che ha il viso solare” e perciò la sua discendenza, quella che formerà il nucleo essenziale delle diverse tribù greche, sarà propriamente il “popolo del sole”. Se ora poniamo mente al fatto che Helios è spesso rappresentato con sette raggi e che in India il settimo Aditya è Surya, il sole, ci si accorgerà che il parallelismo India-Ellade arcaica ha più di un punto di contatto e trova la sua ragione d’essere probabilmente nelle condizioni spirituali originarie dalle quale ha preso forma l’Ellade come noi la conosciamo in piena epoca del ferro.

 

Nell’ambito di questi cicli mitologici antichissimi può porsi anche l’orfismo la cui struttura misteriosofica ricalca forme di spiritualità cosmica del tipo che è possibile rinvenire per es. anche nell’India vedica o in certi aspetti della soteriologia tantrica. Le dottrine orfiche appaiono strutturate già a partire dal VII-VI sec., quando il bìos orphikòs costituirà un riferimento costante nel patrimonio speculativo dei filosofi e persino dei molti ciarlatani, ed è facile trovare quei thēologoi e quegli orfeotelesti accennati da Platone che ci documentano una massiccia presenza orfica nel mondo religioso e nella società dell’Ellade storica.

 

Una versione delle tante cosmogonie orfiche ci presenta quale entità primordiale la Notte dalla quale scaturiscono gli esseri divini, perciò in qualche modo una sorta di originaria scaturigine del tutto. E’ da questo principio che procede l’Uovo cosmico che, simile al Brahmanda indù, col suo scomporsi rende manifesti il cielo e la terra e, soprattutto, Phanes, l’Essere Primordiale “luminoso”, lo “splendente”, l’archetipo universale da cui promana ogni esistente, il Protogonos colui che contiene in sé la stesso i germi della manifestazione universale. Lo straordinario di questa struttura teo-cosmogonica estremamente arcaica è il fatto che tali concezioni furono concepite come supporti di una elaborata misteriosofia che affascinò personaggi come Platone e che appare piuttosto distante dalle usuali convinzioni elleniche sugli dèi olimpici e sulla relativa loro vita rituale. Ma c’è di più. Un’antica testimonianza riportata da Otto Kern (fr. 21a) e sviluppata nelle sue implicazioni escatologiche da Richard Reitzenstein, ci dice che secondo gli orfici l’universo era ritenuto il “corpo visibile” di Zeus, il quale perciò era ritenuto l’inizio, il mezzo e il fine del cosmo. Tale figurazione orfica di Zeus (che evidentemente non ha nulla dello Zeus olimpico) è contemporaneamente “uomo e donna”, un principio androginico dal quale si origina autonomamente per autogenesi il cielo, la terra e gli elementi fondamentali della vita cosmica, il vento, l’acqua, il fuoco, il sole, la luna. Come ha fatto notare Ugo Bianchi, questa concezione deve riflettere idee molto antiche se ancora nel VII sec. Terpandro testimonia la loro vitalità, forse come idee scaturite da forme rituali da riferirsi addirittura al passato indoeuropeo ove si accetti l’ipotesi di Anders Olerud, poi sviluppata da Geo Widengren nel capitolo sul panteismo del suo poderoso manuale di fenomenologia religiosa, sull’arcaicità dell’idea di microcosmo e di macrocosmo e sulla corrispondenza simbolica di queste due sfere in una struttura formale che abbia ben chiari i diversi stati molteplici dell’essere.

 

E’ la dottrina del Macrantropo dal cui sacrificio rituale si origina il cosmo, la stessa che abbiamo visto serpeggiare anche nella visione esiodea dei cicli cosmici e che, formulata in vario modo, si ritrova nelle cosmogonie e nelle dottrine sacrificali di molti popoli indoeuropei. Ma questo è un altro discorso che si intende riprendere in un apposito studio.

 

Per approfondire:

 

F. Vian, La guèrre des Geants. Le mythe avant l’èpoque hellènistique, Paris 1952.

 

N. D’Anna, Da Orfeo a Pitagora. Dalle estasi arcaiche all’armonia cosmica, Simmetria, Roma 2011.

 

N. D’Anna, Il Gioco cosmico. Tempo ed eternità nell’antica Grecia, Mediterranee, Roma 2006.

 

[Tratto, col gentile consenso dell’Autore, da “Atrium” 2/2011].

jeudi, 22 décembre 2011

Il ciclo dell’anno e l’avvento del solstizio d’inverno

Il ciclo dell’anno e l’avvento del solstizio d’inverno

I.

Il ciclo dell’anno dalla primavera al culmine dell’estate

Wintersonnenwende.JPGDopo la morte invernale della vegetazione, a primavera la Vita Universale risorge.

A Primavera una forza ascensionale pervade tutta la Natura:

la linfa vitale dalle radici sotterranee ha cominciato a circolare e a creare nuova vita verso l’alto,

dalla terra è spuntata nuova erba, i fiori si sono schiusi al Sole e si sono innalzati, gli alberi crescono, i rami si protendono: le foglie sopra i rami, i fiori sopra le foglie, i frutti sopra tutto.

Le forze tendono verso l’alto, verso la rinascita.

21 Marzo il Sole entra nell’Ariete. La forza di fuoco, che con slancio in avanti, produce una nuova messe primaverile.

A primavera, la Celebrazione del Dio che muore e risorge (Morte e resurrezione di Adone, di Attis, di Dioniso, di Baldur).

21 Aprile: il Sole entra nel Toro. La potenza della natura feconda.

Nei mesi successivi, la celebrazione dell’Ascensione: il Sole si innalza altissimo e rischiara il mondo (vedi anche l’interpretazione di Giuliano Augusto del solstizio d’estate: il Sole che quasi esorbita verso l’eccelso).

La Pentecoste: le fiamme dello Spirito di Fuoco che accende l’Aura degli uomini.

21 Luglio. Il Sole entra nella costellazione del Leone. Il Solleone dell’Estate.

L’Assunzione: innalzamento della Madre a Regina dei Cieli.

II.

Dalla caduta delle foglie alla neve d’inverno

Per tutta la Primavera la Natura è fiorita, si è ramificata, si è ricoperta di foglie, si è ramificata.

Per tutta l’Estate la Natura ha fruttificato. I frutti sono spuntati sui rami. Sono maturati al calore del Sole. Al termine dell’Estate  gli alberi offrono all’uomo i frutti più dolci, più succosi, quelli che più a lungo sono maturati al Calore del Sole.

Al termine dell’Estate la Terra si è impregnata di tutto il calore e il calore ha arso i frutti sugli alberi.

Un processo di combustione cosmica ha avvolto i frutti, ma anche gli animali e l’uomo, rendendo questo ultimo risplendente di luce astrale.

A conclusione di ogni combustione: la cenere.

La cenere cade dalla fiamma che arde e dalla materia della combustione.

La cenere cade a terra, estinguendo ogni vitalità.

In Autunno le forze in atto sono le forze discendenti.

I frutti maturi già pendono dagli alberi appesantiti dalla gravità.

Poi le foglie ingialliscono e cadono verso il basso.

Gli insetti smettono di ronzare, di volteggiare, quasi abbattuti a terra.

Cade la pioggia.

E cade la cenere del mondo, arsa dal processo di combustione dell’estate.

La coscienza umana all’approssimarsi dell’autunno avverte il senso della caducità dei fenomeni terreni.

Samsara, impermanenza.

15 settembre, Festa dell’Addolorata. Maria il cui cuore è raffigurato come trafitto da sette spade: i sette dolori. Naturalisticamente interpretati come i sette faticosi mesi freddi-invernali. Ma il Dolore della Madre è più arcaicamente il dolore di Demetra, che cerca sua figlia Kore rapita dal Dio degli Inferi e trasportata nel mondo sotterraneo, esattamente come sulla soglia di settembre la vita vegetativa della natura è rapita, sequestrata, sottratta alla luce del giorno e ricondotta al mondo degli Inferi, lungo la via discendente indicata dalle radici degli alberi.

La coscienza stessa dell’uomo avverte il senso della caducità della vita umana: è la cosiddetta malinconia dell’autunno, che si ricollega facilmente alla malinconia della vecchiaia.

E tuttavia la coscienza deve reagire a questo sentimento elementare, deve aver chiaro il fatto che laddove la Natura appassisce e decade, in quello stesso momento lo Spirito si innalza e si fortifica.

Quando le foglie in autunno cadono e l’aria diventa più fresca, proprio allora il pensiero si rischiara e la volontà si corrobora.

Il 29 settembre la Festa dell’Arcangelo guerriero. L’Arcangelo che con la sua spada di ferro abbatte le schiere degli angeli traditori e li respinge nelle profondità della terra.

La forza del Ferro di Michele, in autunno discende dall’alto verso il basso, dal cielo verso la terra per orientare le volontà degli uomini che agiscono in armonia col Divino.

La Cenere: simbolo di ciò che cade dopo essersi innalzato verso l’alto, di ciò che per il fatto stesso di esser nato sulla terra è destinato alla morte.

Il manto di neve che in inverno ricopre la Terra, le conferisce un candore immacolato.

La Terra acquista la purezza di una donna che sta per diventare Madre, che sta per partorire il Figlio.

 

La Terra sta per generare il Fanciullo Solare  e nello stesso tempo è purissima, ora è scevra da ogni sensualità: è Vergine e Madre.

V Ecloga di Virgilio.

La Neve è candida come la Luna: la Terra si ricopre di forze lunari, di forze che appartengono all’ambito della generazione, all’ambito di ciò che produce nuova nascita.

Il Solstizio d’Inverno è festa di Natale. Nasce il Sole Fanciullo, il nuovo Sole di Giustizia.

La lastra di ghiaccio, di purissima neve crea sulla Terra un immenso specchio che attira i raggi solari e li riflette.

La Luce Solare viene riflessa dalla Terra e si incarna in essa.

Il periodo invernale  è anche il periodo del forte pensiero.

Infatti la mente è lunare e riflette la Luce delle Idee. Come la Terra ricoperta di neve che riflette la Luce del Sole.

La mente concepisce il Pensiero, esattamente come la Madre concepisce il Figlio/Logos Universale.

L’immagine della Madre: purissima, lunare, coronata di dodici stelle.

L’immagine del Figlio Divino: essere solare irradiante luce, con la corona radiata solare sul capo.

III.

Le feste del calendario sacro

wintersonnenwende_suedbrandenburg.jpgL’immagine gradualmente sorge nel passaggio dall’autunno all’inverno, attraverso le date che scandiscono il calendario sacro.

21 Agosto, il Sole entra nella costellazione della Vergine. Cessa il Solleone, l’Estate più ardente gradualmente si ritrae, ma nello stesso tempo maturano i frutti più dolci. Ermeticamente la bilancia regge la regione dello stomaco, dove avviene il metabolismo (nella pancia della donna, si custodisce anche il frutto di una nuova nascita).

8 Settembre. Nel bel mezzo del periodo di congiunzione tra Sole e Vergine si celebra la festa della Natività della Vergine. La natura a questo punto si spoglia della sua sensualità, diventa più casta. Le foglie cadono e si rafforza il sentimento dello Spirito Eterno che si innalza al di sopra del ciclo delle stagioni.

21/29 settembre: equinozio d’autunno e festa di San Michele Arcangelo. Il Ferro siderale che respinge lo Zolfo estivo. La spada dell’arcangelo solare respinge le forze oscure legate alla incoscienza e dunque alla ottusa materia, a ciò che tende al tradimento dello Spirito.

Il Sole entra nella Bilancia: le due coppe del giorno e della notte si bilanciano perfettamente nel giorno dell’equinozio. Questo equilibrio tra luce e oscurità, diventa anche equilibrio psicologico, impulso alla calma dell’anima, al senso di giustizia (Bilancia = Giustizia) e di armonia. L’Arcangelo che nella mano destra ha la spada, nella sinistra ha la bilancia. Ermeticamente la Bilancia regge la regione dei fianchi che si bilanciano continuamente nel movimento del corpo.

21 ottobre: il Sole entra in Scorpione. Lo Scorpione segno freddo e liquido. Esso rimanda alla morte. Il pungiglione che colpisce  a morte (ma il pensiero va anche alla Forza Divina che vince la morte: “O morte, dove è il tuo pungiglione?”). Sotto il segno dello Scorpione un ciclo di vegetazione definitivamente muore: la natura vecchia va “al macero” così come le foglie ingiallite e cadute a terra marciscono una volta che sono inzuppate di acqua. Ma il momento estremo della morte è anche quello in cui si prepara la ri-generazione: si pongono nella terra feconda i semi di nuove nascite. In questo momento gli uomini si avvicinano alla regione dei Morti. Ermeticamente lo Scorpione regge la regione dei genitali.

30 ottobre/2 novembre: il Samain celtico, perpetuato nella attuale festa dei Santi e dei Morti. La morte della natura vegetante ci ricollega spontaneamente al mondo dei Morti, il ritrarsi della vita nelle radici sotterranee spontaneamente ci riconduce al Regno di Plutone, all’Ade. Che però è anche il Regno dell’Occulto, dunque di conoscenze invisibili e di ricchezze nascoste. In questi giorni è fortissima la comunione tra i Vivi e i Morti.

Il 21 di Novembre il Sole entra in Sagittario. Segno di Fuoco, legato al forte Volere.  Ermeticamente il Sagittario governa la regione delle cosce che spingono la mobilità dell’uomo.

Alla fine di Novembre l’Avvento del Sole Invitto si percepisce sempre più forte. Nel buio precoce che avvolge il giorno, si rafforza il sentimento del mistico Sole dell’Interiorità: Luce che splende nelle Tenebre, Sole che nasce a Mezzanotte. La ruota del mese, con i suoi quattro assi rotola verso la più sacre delle feste: il Solstizio d’Inverno, Natale del Sole Invincibile.

Due festività consacrate a figure femminili precedono l’evento:

8 Dicembre: festa dell’Immacolata (“Anahita”, l’Immacolata presso i Persiani). La Terra si ricopre del manto di neve, ogni sensualità si spegne, il pensiero si illumina nella interiorità. L’Astrale si predispone a generare l’Io, libero da ogni impulso animale. L’Anima Mundi si prepara a sciogliere la nascita dello Spirito Solare.

13 Dicembre: festa di Santa Lucia. Presso gli Svedesi è la festa della Luce. Si accendono nelle case le lampade. Una luce flebile ma inestinguibile illumina le giornate quasi completamente avvolte nelle Tenebre esteriori.

La Triade di Donne Divine nella Divina Commedia di Dante: Maria – Lucia – Beatrice.

Le forze cosmiche discendenti che caratterizzano l’Autunno e i mesi d’Inverno puntano alla incarnazione nel grembo della Madre del Fanciullo Divino (Dios-Nysos): il nuovo Sole.

Al Solstizio d’Inverno la nascita del Sole Fanciullo avviene nella Caverna del Mondo.

Dalla caverna del mondo si irradia il Fanciullo Solare.

samedi, 03 décembre 2011

Evola frente al fatalismo

Evola frente al fatalismo

Eduard Alcántara

Ex: http://septentrionis.wordpress.com/

 

INTRODUCCIÓN

Retrato de Julius Evola.jpgUna rígida interpretación de la Doctrina de las 4 Edades podría comportar predeterminismo atentatorio contra el principio Tradicional de la Libertad inalienable del Hombre Reintegrado a su esencia metafísica. Julius Evola mostró esa especial y añadida dosis de ´sensibilidad´ y de poder de interpretación que le posibilitaron el no estancarse en una visión rígida de los diferentes textos Sapienciales y Sagrados del mundo de la Tradición cuando éstos nos hablan de la doctrina de Las Cuatro Edades, pues el proceso de decadencia que ésta nos expone no es irreversible ni está impregnado de un fatalismo contra el que nada pueda oponer el Hombre. El maestro italiano le dio una especial relevancia a la idea de que la involución podía ser frenada e incluso eliminada antes de que aconteciera el final de un ciclo cósmico; esto es, antes del ocaso del kali-yuga. Y sostuvo firme y ocurrentemente esta idea porque creía en la libertad absoluta del Hombre. Porque creía que el Hombre -así en mayúscula-, aparte de tener la clara potestad necesaria para conseguir su total Despertar interior, también tenía en sus manos la posibilidad de devolver a sus escindidas y desacralizadas comunidades los atributos y la esencia que siempre fueron propios del Mundo Tradicional. Porque Evola creía, en definitiva, en el Hombre Superior o Absoluto, Señor de sí mismo. Igualmente creía que la pasividad fatalista del hombre podría prolongar el fin de una etapa. Para los tiempos crepusculares Evola barajaba la posibilidad de acelerar el fin del kali-yuga cabalgando el tigre: acelerando los procesos disolventes que se dan en estos tiempos deletéreos.

DESARROLLO

A la pregunta de ¿qué tipo de hombre es el que puede aspirar a su Reintegración interior y a encauzar a su comunidad por el camino de la Tradición?, se debe responder que no es otro que aquél que es capaz de dominarse a sí mismo, de autogobernarse y (echando mano del taoísmo) de ´ser señor de sí mismo´. Sólo el autarca, del que nos había hablado Evola durante los años ´20 del pasado siglo -durante la que ha sido definida como su etapa filosófica (que ya apuntaba claramente hacia su definitiva etapa Tradicionalista)-, sólo, decíamos, el autarca que no depende del otro, de lo otro, del exterior ni del tú porque no hay circunstancia, ni condicionamiento externo a él, que lo pueda mediatizar y hacer dependiente, sólo él puede, tras haber conseguido gobernarse a sí mismo, ser apto para gobernar a su comunidad. Hablamos, en definitiva, del Iniciado: de aquél que se empezó sometiendo a rigurosos, metódicos y arduos ejercicios/prácticas de autocontrol y descondicionamiento frente a lo exterior (acabamos de hacer alusión a ello) e interno (con respecto a emociones, sentimientos exacerbados, pulsiones e instintos primarios) y que, tras lo cual, ha preparado su alma/mente, en primera instancia, para que sea apta para captar otras realidades (sutiles) que se hallan más allá de las que pueden aprehender los sentidos y para que, más tarde (y tras este último y difícil logro) pueda, asimismo, llegar al Conocimiento de Aquello que se halla más allá, incluso, del mundo sutil y, en definitiva, de cualquier modo de manifestación y que se encuentra, además, en el origen del cosmos. Hablamos, pues, del Conocimiento del Principio Primero o Supremo Eterno, Incondicionado e Indefinible y, hablamos, por otro lado, de la Identificación ontológica del Iniciado con dicho Principio.

El iniciado o (echando mano del léxico budista) Despertado plasmará en sí la Imperturbabilidad del Principio Primero que ha desarrollado en su interior y dicha Imperturbabilidad e Identificación con lo Permanente y Eterno le hará inmune a cualquier tentación hacia lo caduco y superfluo y le hará, por ende, idóneo para dirigir a su comunidad hacia las metas que enfocan hacia lo Alto, Sacro, Estable y Permanente y le alejarán de cualquier veleidad que tienda hacia lo bajo, lo materialista, lo transitorio, lo inestable y lo perecedero.

¿Es posible que se afirme este tipo de Hombre Superior en medio del marasmo vermicular y disoluto por el que discurre el hombre del mundo moderno? ¿Es posible esto en el cenagal de la etapa crepuscular de la Edad oscura –Kali-yuga o Edad de Hierro- por la que atravesamos? El Tradicionalismo, especialmente en boca de Julius Evola, nos responde afirmativamente, aun consciente de lo enormemente complicado que puede resultar. Pero complicado no equivale a imposible. No existe nada imposible para el hombre que se lo proponga. El hombre que opta transitar por las vías de la Tradición no encuentra fatalismos: no encuentra determinismos que no pueda superar.

Para la Tradición el Hombre Absoluto e Integrado no es una quimera, sino, al contrario, una posibilidad que alberga el hombre y que ha pasado de potencia a acto. Si es posible Despertar la semilla de la Eternidad que anida en nuestro fuero es porque la Tradición concibe que somos portadores de ella. Si es posible Espiritualizar nuestra alma, psyché o mens es porque el Espíritu, atman o nous (eso sí, en forma aletargada) también se halla en nosotros gracias a que procedemos, por emanación, del Principio Primero cuya manifestación dio lugar a la formación del cosmos. Somos, pues, portadores de dicho Principio Superior e Imperecedero del que emanamos y tenemos la posibilidad de emprender la tarea heroica de Despertarlo en nuestro interior.

Si el emanacionismo o emanatismo como certidumbre defendida por la Tradición abre las puertas a la consecución del Hombre Reintegrado no ocurre lo mismo con las creencias propias de religiosidades que han de ser enmarcadas en la cuesta abajo propia del mundo moderno. Religiosidades de corte lunar que no conciben el que el hombre comparta esencia ( ni aunque sea en estado quasi larvario que deba ser activada) con el Principio Supremo sino que, por el contrario, afirman que el hombre fue creado (creacionismo) ex nihilo (de la nada) por Dios y que, al no emanar de Él, no comparte nada de Su divinidad. No admiten, por tanto, la Iniciación y la consecuente posibilidad del hombre de transmutarse interiormente (metanoia) y aspirar a Ser Más que hombre: a ser Hombre Trascendente.

Las religiosidades de tipo lunar están por el creacionismo, pues de la misma manera que la luna carece de luz propia y la luminosidad que de ella nos llega no es más que un reflejo de la solar, de la misma manera, decíamos, en este tipo de religiosidad no nos arriba de lo Alto más que un reflejo o aproximación mental que no es otro que el aportado por la única herramienta de encaro del hecho Trascendente que la religiosidad lunar pone al alcance del hombre: la simple fe, la creencia y la devoción. Por lo cual niega la posibilidad de la Gnosis de lo Absoluto y la posibilidad del hombre de llegar a Ser uno con la dicha Trascendencia. Y la niega, repetimos, aduciendo que el hombre no comparte esencia con lo Trascendente y no puede, pues, actualizarlo en sí; aduciéndolo, recuérdese, por sostener que no emana de Él y que en la naturaleza de dicho hombre no se esconde el Espíritu en potencia.

La convicción Tradicional del hombre como portador de Atman o Espíritu hace concebir la esperanza de su Despertar y del heroico cometido de aspirar a culminar la Restauración del Orden Tradicional mediante lo que, etimológicamente, comporta la auténtica Revolución, en el sentido de Re-volvere; esto es, de volver a recuperar la cosmovisión, los principios y los valores que siempre han caracterizado al Mundo Tradicional y que se hallan en las antípodas de la desacralización, del materialismo, del positivismo, del hedonismo, del consumismo y del gregarismo despersonalizado propios de este mundo moderno.

Por el contrario, el hombre concebido por las religiones lunares-creacionistas (aparte de no ser apto para emprender intentos de Restauración de la Tradición) será la antesala de posteriores procesos de decadencia aun mayores, pues al habérsele amputado su dimensión sacro-espiritual se le ha rebajado de nivel ontológico. Ya no podrá entender más sobre lo Trascendente, tal como en la Tradición sí le era posible gracias a lo que él poseía de más que humano; de Sobrehumano, diríamos. Sin Espíritu únicamente le queda el alma, la psyqué o mens para vivir “en orden” con su/s dios/es. Es decir, que ya sólo cuenta con medios meramente humanos para mirar a lo divino y que no son otros que aquéllos que su mente pone a su disposición, a través de la fe y la creencia. Por esto habrá de contentarse con no ser más que un fiel devoto de su/s divinidad/es. E irremediablemente cuando el hombre ha sido obligado a descender a este plano –sin más- humano, cuando la mente ocupa la cúpula en su jerarquía constitutiva, nadie podrá extrañarse que la facultad racional que en ella (en la mente) se halla inmersa se atrofie y pueda dudar de la existencia de cualquier realidad no sensible; como lo es una Realidad Trascendente (más que humana) que no podrá aprehender con sus tan solo humanas herramientas (el método discursivo, el especulativo,…). Nos hallaremos, pues, en los albores del racionalismo, del posterior relativismo para el que no existen Verdades Absolutas y todo plano de la realidad (aun el Superior) puede ser cuestionado y nos hallaremos asimismo, como consecución lógica posterior, en la antesala del agnosticismo y del materialismo.

Las religiosidades de carácter lunar, propias del mundo moderno, fueron segregando un tipo de hombre inclinado, irremisiblemente, a posturas evasionistas con respecto a la posibilidad de búsqueda del Espíritu y con respecto a la posibilidad de actuar sobre el medio circundante con la intención de modificarlo y, más aun, rectificarlo. Frente a ellas se alza un tipo de Espiritualidad Solar y activa (la Tradicional) para la que el fatalismo no existe y para la que el hombre debe trazar su camino (recordando una adecuada imagen aportada por el mismo Evola) tal cual el río circula por el cauce que él mismo ha socavado.

Si el creacionismo excreta un hiato ontológico insalvable entre Creador y criaturas no debe extrañar que de religiones que a esta convicción se adhieren (como las conocidas como religiones del Libro) surgiera un maniqueísmo que dejó, de manera extrema, sin solución de continuidad a Dios y al hombre y que estimó como creaciones del Mal todo el contenido de la manifestación cósmica. Tal aconteció con excrecencias como el catarismo que despreciaban al cuerpo en particular y al mundo físico en general por considerarlos obras del ángel rebelde y caído (Lucifer) y no, como sí consideró siempre la Tradición, como emanaciones del Principio Primero Inmanifestado. El Mundo Tradicional observó y trató siempre al cuerpo humano como el templo del Espíritu, mientras que, p. ej., el judeocristianismo lo contempló como la mazmorra que impedía la liberación del alma (entiéndase, del Espíritu); asimismo la vida terrenal en la que este encarcelamiento tenía lugar la definió como un valle de lágrimas.

Las también conocidas como Religiones del Desierto no conciben la posibilidad del Retorno de la Tradición gracias al accionar del Hombre, pues para ellas el hombre no atesora semilla divina que poder despertar y poderle, así, hacerle apto para revertir los procesos disolventes por los que pueda atravesar el mundo que le circunda, sino que estas Religiones del Desierto provocan una espera pasiva ante el fin de los tiempos, ante la venida de un Salvador o Mesías o ante la Parusía (la vuelta de Cristo) para que la humanidad pueda ser salvada, suba a los cielos, reciba el premio del Paraíso Terrenal (la Tierra Prometida) o para que acontezca la resurrección de la carne.

En la misma línea –y como fiel reflejo de estas Religiones del Libro- el protestantismo representa una vuelta de tuerca más y un intento de corrección de un catolicismo que había adoptado muchas improntas y posturas de espiritualidades precristianas que se situaban muy en la órbita de la Tradición. El protestantismo afirma que es la fe y no las obras las que permiten la Salvación. De este modo cierra las puertas a cualquier aspiración a la Transustanciación de la persona mediante la acción interior (Iniciación), pues accionar no es más que obrar.

El catolicismo o helenocristianismo (opuesto al judeocristianismo) se hallaría en una situación de superioridad frente a otra de las Religiones del Libro como lo es el islamismo, ya que el concepto trinitario defendido por el primero reconoce la posibilidad de divinización del hombre (su palingénesis o segundo nacimiento: a la Realidad del Espíritu) al considerar a la divinidad también en su expresión humana de Hijo. Nada de esto ocurre con (en palabras de Marcos Ghio) el árido monoteísmo semita postulado por un Islam en el que la diferencia de esencia entre Dios (Allah) y el hombre es abisal e insalvable y en la que, por este motivo, a éste se le cierran las puertas de su entronización Espiritual y, en consecuencia, de la posibilidad de ser señor de sí mismo y de trazar su destino y el de sus comunidades.

Quizás, también, no estaría de más realizar algún distingo entre los libros vestotestamentarios y los del Nuevo Testamento, pues hay quien afirma que evangelios como el de San Juan contienen vetas de esoterismo; y no hay que olvidar que este último se afana en la búsqueda y Conocimiento de la Verdad (de la Realidad Suprasensible) y en la consecución de un tipo de Hombre Descondicionado y Diferenciado apto, entre otras cosas, para no dejarse arrastrar por las corrientes disolutorias dominantes en el mundo moderno.

En la misma línea acorde con la Tradición se hallarían todas aquellas manifestaciones que en el entorno de la Cristiandad se reflejaron ya en la Saga Artúrica alrededor de un Ciclo del Grial que se prolongó en el Medievo asociado a órdenes ascético-militares como la de unos templarios que practicaban la Iniciación y cuya veta esotérica también fue consustancial a organizaciones como la de los Fieles de Amor (a la que, p. ej., perteneció un Dante) o la de los Rosacruces. Y en la misma línea Tradicional, dentro también del contexto del mundo cristiano, se hallaría el Sacro Imperio Romano Germánico, cuya cúspide jerárquica, en la figura del Emperador, aunaba las funciones sacra y temporal (política) como es propio de cualquier ordenamiento Tradicional en el que, por este motivo, el gobernante también ejerce de Pontifex o ´hacedor de puentes´ entre lo terrestre y lo celestial; entre sus súbditos y la Trascendencia.

Pero no en esta línea Tradicional se hallaría el misticismo cristiano, pues si la Iniciación prepara al adepto para descondicionarlo mediante prácticas y ejercicios metódicos y convertirlo en Hombre Diferenciado que pueda acceder al Conocimiento de lo Absoluto el misticismo, por contra, no lo prepara para ello sino que se detiene en el cumplimiento de la fe, la devoción y la piedad, siendo por ello que con estos medios mentales (y por ello humanos) no podrá acceder nunca a la Gnosis de lo Superior, sino que, a mucho estirar, se tendrá que conformar con recibir de lo Alto (como si se tratase de una especie de dádiva en agradecimiento por la devoción mostrada) una especie de fogonazo cegador que tan sólo le dará una idea poco aproximativa y muy difusa de lo que se halla más allá de la realidad sensitiva. Esto acontecerá en el mejor de los casos, ya que en muchos de ellos dicho fogonazo no será, en realidad, más que una especie de alucinación provocada en el místico por sus ayunos extremos enajenantes, por la repetición hasta la saciedad -extenuante- de letanías y/o por su actitud mental obsesiva hacia lo divino.

El árido monoteísmo semita al que citábamos más arriba encuentra también fiel reflejo en el judaísmo. Ya hemos hecho alusión párrafos atrás, al mito inmovilizante y fatalista de la resurrección de la carne y del Paraíso Terrenal que sólo acontecerá con la venida del Mesías, pero podríamos reforzar esta ausencia de posibilidad de transustanciación del hombre y de posibilidad de hacer frente a los procesos deletéreos con los que se encuentra, recordando cómo hay muchos judíos ultraortodoxos (como los de la organización Naturei Karta) que consideran al Estado de Israel actual como una impostura que atenta contra sus convicciones religiosas, por cuanto ellos creen que la Tierra Prometida que -más que aproximadamente desde el punto de vista geográfico- se halla en el territorio de dicho Estado sólo les pertenecerá legítimamente tras la venida del Mesías libertador; la cual, obviamente, todavía está por acontecer. No cabe aquí, pues, lucha que llevar a cabo sino la espera pasiva y resignada más absoluta que pueda caber.

Este pasivo dejarse llevar por un movimiento de inercia hacia adelante, esta ausencia de posibilidad de modificar este rumbo no supone más que una especie de caída libre en el vacío que no puede ser cortocircuitada por la acción del hombre y que responde a una cosmovisión de naturaleza lineal, ante la cual se levanta una totalmente disímil que es la propia de la Tradición y que es de orden circular o, como en ocasiones se la ha preferido denominar, de orden esférico.

En su momento hablamos con profundidad de estos dos tipos contrapuestos de manera de concebir la vida y la existencia: la lineal propia del mundo moderno y la circular propia del Tradicional (1). No vamos, pues, a extendernos en este capítulo ya por nosotros trabajado. Tan sólo vamos a apuntar que la cosmovisión lineal no sólo atañe al hecho religioso (de carácter lunar y pasivo) sino también a las excrecencias que ha originado su secularización. Así pues el liberalismo apunta a un camino marcado por una suerte de fatalismo, irremisible como tal y “superior” a las potencialidades del hombre, que está marcado por el progreso continuo (progresismo) y conducirá a una suerte de paraíso terreno atestado de bienes de consumo inacabables, de abundancia ilimitada y, por tanto, de total “felicidad” (vacuna, añadimos nosotros). Y en la misma línea el marxismo trazó otra línea inalterable que conduciría al ideal del comunismo y de su sociedad sin clases sociales y sin superestructuras de ningún tipo: ni Estados, ni ejércitos,…

Ya en su momento hemos apuntado el porqué en lugar de hablarse de cosmovisión cíclica, como propia de la Tradición, en ocasiones se ha preferido hablar de cosmovisión esférica, ya que en una esfera se pueden trazar infinidad de circunferencias que corresponderían a las diversas concretizaciones que el hombre (haciendo uso de su libertad y poder de trazar su destino) puede hacer de las cuatro edades de las que, según diferentes textos Sapienciales Tradicionales, consta un ciclo cósmico humano.

Igualmente en otras ocasiones (2) hemos señalado la posibilidad que tiene el hombre de provocar una especie de cortocircuito en la dinámica propia de la sucesión de las cuatro edades (de Oro, de Plata, de Bronce y de Hierro), poniendo freno al proceso involutivo en lo que la Tradición ha denominado como Ciclos Heroicos, que suponen la Restauración de la Tradición Primordial (Edad de Oro perdida).

De hecho el hombre, haciendo buen uso de la libertad que posee en el sentido de poder marcar su propio camino superando determinismos y condicionantes que pueden parecer fatalmente insalvables, el hombre, decíamos, tiene en sus manos el que el final de la etapa crepuscular del Kali-yuga o Edad de Hierro, porque atraviesa, acontezca antes y, dé, en consecuencia, paso, a una nueva Edad de Oro o Satya-yuga dentro de un nuevo ciclo humano o manvântara o, por el contrario, el que (como consecuencia de posturas pasivas, conformistas, alienadas o marcadas por determinismos varios) dicho final pueda prolongarse más allá de lo que las dinámicas cósmicas podrían hacer indicar.

Pocos como Evola nos han hecho con más nitidez ver cuál es el camino más apropiado para que el hombre sea capaz de llegar a su Integralidad y emprender, después, la tarea de Reconstrucción Tradicional de su derrumbadas sociedades. Este camino, nos dice el maestro italiano, no es otro que el de la vía de la acción, ya sea ésta interna, buscando el desapego y transformación interiores, o ya sea externa, luchando por intentar demoler el deletéreo edificio en ruinas en el que vivimos, con el objetivo de construir, en su lugar, un Orden cimentado en valores imperecederos y en principios inmutables.

Es acción interior lo que se precisa a lo largo de todos estos procesos conocidos con el nombre de Iniciación. El ascesis no es otra cosa que ejercicio interno. La necesaria e imprescindible práctica interior es, en definitiva, acción. Y es por todo esto por lo que la vía más apropiada para completar el arduo y metódico proceso iniciático es, repetimos, aquella conocida como ´vía de la acción´ o ´vía del guerrero´ o shatriya.

Las sociedades Tradicionales estaban constituidas, en su organización jerarquizada, por una élite sacro-guerrero-dirigente, bajo la cual se hallaba la casta guerrera y por debajo de la cual se situaban los estamentos cuya actividad vocacional tenía su eje en las actividades económico-productivas (comerciantes y maestros de talleres, por un lado, y mano de obra por el otro). Con la degradación sufrida en los estertores del Mundo Tradicional las funciones regia o dirigente y sacra se escinden y ya no estarán representadas por aquella élite; dándose paso, por ello, ya en el seno del mundo moderno, a sociedades divididas en las siguientes castas –no representativas del Mundo Tradicional-: brahmanes o sacerdotes, shatriyas o guerreros, viashias o mercaderes y sudras o mano de obra.

En tal estado de cosas la casta a la cual le resulta consustancial la vía de la acción es la más capacitada para emprender la gesta heroica de Restauración de la Tradición. Y así ocurrió a lo largo de las edades que sucedieron al Mundo de la Tradición Primordial o Edad de oro (Satya o Krita-yuga): así ocurrió, pues, en diferentes períodos -Ciclos Heroicos- de la Edad de Plata o Treta-yuga, de la Edad de Bronce o Dvâpara-yuga y de la Edad de Hierro o kali-yuga. Ciclos Heroicos como los protagonizados por héroes como aquéllos que nos refiere la mitología griega al hablarnos de unos Heracles, Aquiles, Ulises o Perseo que se elevan desde su condición de guerreros a la de la Inmortalidad (o, para hablar con más propiedad, Eternidad) a la que les ha llevado, sin duda, un proceso de transustanciación interior. Las polis en que ellos reinen recibirán la impronta sagrada de estos reyes sacros y volverán -aunque sea por un tiempo- a la Edad de Oro perdida: así en la Ítaca de Ulises o en la Atenas de Perseo.

Igual Ciclo Heroico ocurre en buena parte del discurrir de la Antigua Roma, muestra de lo cual es la unión en una misma persona de aquellas dos funciones o atributos que en el Mundo de la Tradición siempre había estado aunados, no sólo en una única persona sino también en la aristocracia a la que aquélla pertenecía; así, la función sagrada (Pontifex) y la función dirigente (como Imperator o jefe de los ejércitos y como Princeps o principal rector político) se unifican en la figura de los emperadores romanos. Su carácter sacro se hace patente por la condición de Iniciados en diferentes ritos -como los de Eleusis o de Mitra- que tuvieron muchos de los emperadores de la Antigua Roma, tales como Octavio Augusto, Tiberio, Marco Aurelio o Juliano.

También, con anterioridad a estos párrafos, hemos mencionado otros Ciclos Heroicos que igualmente se suceden en los momentos menos propicios (Edad de Hierro o, acorde con la ciclología mítica nórdica, Edad del Lobo) para enfrentar una tarea de Revolución (recuérdese: de re-volvere) Tradicional. Ciclos Heroicos como los que rodean la Saga Artúrica y el misterio del Grial o como el que representa el Sacro Imperio Romano Germánico en buena parte de la Edad Media. En este último caso el Emperador es un Ser Iniciado y así lo explicarían, entre otras evidencias, los poderes taumatúrgicos que poseía y que representarían una consecuencia sutil de su condición Sobrenatural. Además se trata de una figura que aúna el poder sacro y el temporal como sucedía en la Edad de Oro. El poder religioso del Papado, en esta etapa, se halla por debajo del sacro ostentado por el Emperador y así quedaba reflejado en la ceremonia de coronación de los Emperadores oficiada por los Papas y que sellaba el reconocimiento, por parte de éstos, de la superior competencia Espiritual del Emperador. En ocasiones algunos emperadores retrasaron en años dicha ceremonia o murieron sin que ella se hubiera realizado y esto aconteció como síntoma de que el Emperador no necesitaba de la acción papal para que su legitimidad fuera reconocida.

Cuando el Papado se negó a reconocer la superioridad Espiritual del Emperador se iniciaron, a raíz de las Querellas de las Investiduras, las guerras entre gibelinos y güelfos. Los primeros reconocían dicha Superior legitimidad del Emperador y los segundos eran partidarios de desposeer al Emperador de su competencia sacra y otorgársela en exclusiva al Papa. El que en una época poco propicia (avanzando el Kali-yuga) estas querellas se fueran decantando del lado güelfo-papal no resulta extraño. La consecuencia de ello es doble: por un lado se desacraliza paulatinamente el poder temporal (representado por el Emperador) y, por ende, poco a poco se desacraliza la misma sociedad y por otro lado se empieza a atomizar Europa en repúblicas (como las italianas) y en reinos que irán dando al traste con cualquier tipo de aspiración unitaria Transnacional (el Imperium) basada en principios Superiores y que tiene la función de representar en la Tierra (el microcosmos) el Ordo reinante en el macrocosmos. (3)

Los Ciclos Heroicos relacionados son un ejemplo más que representativo de la posibilidad real que el hombre posee de trazar su rumbo al margen de las adversidades que pueda encontrar en su periplo vital, destruyéndose, así, cualquier visión del mundo y de la existencia marcada por el fatalismo.

El Héroe, pues, no puede surgir -contrariamente a la opinión de algunos autores tradicionalistas- a partir de la casta sacerdotal o brahmana sino de la guerrera o shatriya, pues con la simple fe (actitud pasiva) del sacerdote es imposible operar transmutaciones en el interior del hombre, pero, en cambio, a través de la vía activa consustancial al guerrero sí es más factible pensar en procesos internos (que deben ser activos) de Liberación Espiritual del hombre.

La primera tarea (la interior) que debe, pues, emprender el hombre es la que puede llevarle a Ser Hombre Diferenciado y Absoluto gracias al Despertar, en su fuero interno, de esa Trascendencia pura e Imperecedera de la que la esencia humana no es ajena. Y para ese fin hay que empezar por derrotar a aquellas fuerzas (tamas, echando mano del tantrismo) que, desplegadas en el mundo manifestado, arrastran hacia lo bajo, hacia lo primario, lo pulsional y lo pasional.

Recalquemos que el Héroe es un Iniciado y que, por tanto, si en el terreno del hecho Trascendente se destierra la Iniciación sólo queda la perspectiva religiosa. Sólo quedan, pues, la fe y las creencias en que todos los píos, creyentes, devotos y cumplidores de una serie de dogmas y preceptos religioso-morales (establecidos pensando en las posibilidades de cumplimiento de la mayoría de los mortales) alcanzarán la salvación, en una suerte de democratismo espiritual marcado por la accesibilidad de la masa a la vida celestial, cuando, por el contrario, el Despertar al que va asociada la Iniciación es un logro que sólo una minoría apta y voluntariosa puede alcanzar. Según la perspectiva religiosa no cabe acción transfiguradora interior y la consecuencia de esto es la promoción de un evasionismo en el plano de lo interno que, por lógica consecuencia, acabará afectando al plano externo del individuo conduciéndole a la inacción exterior y a su pasividad ante la posibilidad de cambiar los signos deletéreos de los tiempos.

Hemos ya indicado el porqué, con Evola, sostenemos que debe ser a través del guerrero -y de su arquetipo- mediante quien se pueden operar los actos heroicos Reintegradores. Y lo hemos sostenido negándole esta posibilidad a la figura sacerdotal. Un signo más de esta no aptitud del brahmana para la transustanciación interna vendría dado por un dato básico que ilegitimiza su misma existencia social y que, sencillamente, es el de que esta casta no existía en el Mundo Tradicional sino que su aparición viene directamente ligada con los procesos involutivos que desembocaron en el mundo moderno, al separarse las funciones espiritual y temporal que antes estaban encarnadas por la aristocracia sacro-guerrera-dirigente. Podemos comprobar cómo en civilizaciones como la de la China o el Japón Tradicionales no existía casta sacerdotal o cómo en la antigua Roma tampoco. En ésta los ritos sacros eran oficiados por la élite de un patriciado cuya función dirigente y guerrera también le eran propias; así lo vemos, p. ej., en un Julio César como flamen dialis u oficiante de los ritos sacros consagrados al dios Júpiter. También “en la antigua India aparecen, como proceso involutivo, los brahmanes (a partir de los purohitas, que eran sacerdotes que dependían del rey sacro y cuyo origen hay que buscarlo en cultos dravídicos anteriores a las invasiones de pueblos indoeuropeos) y se convierten en casta dominante. Casta, por tanto, inexistente en el mundo Tradicional, en cuya pirámide social encontramos en primer lugar, en su cúspide, la casta regioguerrera y aristocrática de atributos sagrados, en segundo lugar, por debajo de ella, la guerrera propiamente dicha y en tercer puesto, en su base, la de todos aquellos que se dedican a actividades de tipo económico: comerciantes, artesanos, agricultores, campesinos,…” (4)

En la misma línea señalábamos en su día que “…Sin duda las formas espirituales precristianas –el mal llamado paganismo- habían entrado, desde hacía ya tiempo, en un proceso de decadencia que, por ejemplo, en buena parte del mundo celta había dado pie a la aparición y hegemonía de la casta sacerdotal de los druidas. La irrupción de esta casta coincide con una cierta deriva matriarcal en el seno de muchos pueblos celtas. Antes de darse este declive, el patriarcado del mundo celta corría paralelo al hecho de que los ritos sagrados eran ejercidos por la aristocracia dirigente.” (5)

Por estas razones si nos colocásemos en la problemática que se vivió en el Medievo y que llevó a los enfrentamientos entre gibelinos y güelfos o a la eliminación de la Orden del Temple (que se selló, definitivamente, con la quema en la hoguera de su último Gran Maestre Jacques de Molay, en 1.314, en la îlle des juifs del río Sena, en París) por decisión de unas jerarquías eclesiásticas (personificadas en la figura de Clemente V) que abominaban de todo lo que fuera esoterismo e Iniciación y por decisión, asimismo, de un Estado francés (en la figura de Felipe el hermoso) que quería asentar su poder en forma omnímoda y opuesta a cualquier ideal Imperial como el del Sacro Imperio Romano Germánico al cual los templarios siempre habían apoyado, si nos colocásemos, decíamos, en tal problemática y la enfocáramos desde el punto de vista Tradicional, aplicado a la estructuración social que debe tener cualquier sociedad Tradicional que se precie de ser tal, deberíamos situar en la legítima cúspide de la pirámide social al Emperador y a la élite sacroguerrera que representarían órdenes ascético-militares como la de los templarios. Bajo este primer estamento se hallaría el meramente guerrero y por último el económico-productivo. Siendo de esta manera no cabe, pues, el Papado en un ordenamiento Tradicional ni caben los eclesiásticos (cardenales, arzobispos, obispos, monjes, sacerdotes,…) por representar, todos ellos, un tipo de religiosidad lunar y pasiva.

La adecuada interpretación de la Tradición es la que debería llevar a las certidumbres que estamos sosteniendo. Y las sostenemos por haber visto en Evola el más adecuado intérprete de los parámetros esenciales en que sustenta el Mundo Tradición. Así, p. ej., lo supo también ver un encriptado grupo de personas que allá por los años ´70 de la pasada centuria redactaron una serie de interesantes escritos que bebían del legado Tradicional transmitido por Julius Evola. Se dieron a conocer como los dioscuros (así eran conocidos los hermanos Cástor y Pólux de los que nos habla la mitología griega) y nos dejaron sentencias y reflexiones muy ilustrativas al respecto de las ideas que pretendemos transmitir con el presente trabajo. Algunas de estas sentencias y reflexiones las relacionamos a continuación:

“…ni se llegue a un compromiso consigo mismos fingiendo encerrarse en una torre de marfil en la cual se espera el último derrumbe, el dicho justo sea en vez ´si cae el mundo un Nuevo Orden ya está listo´”.

“´Existe quien no tiene armas, pero el que las tiene que combata. No hay un Dios que combata por aquellos que no están en armas´. Tal es la invitación a la lucha dirigida por el maestro pagano Plotino”.

“Sólo del hombre y exclusivamente de él dependerán las elecciones futuras”.

“No hay justificación o comprensión, sino inexorable condena hacia aquellos que, teniendo las posibilidades no combaten y que por inercia se dejan abandonar en forma masoquista a un perezoso fatalismo”.

“Preparar silenciosamente las escuadras de los combatientes del espíritu para que, si y cuando los tiempos se tornen favorables, este tipo de civilización pueda ser destruida en sus raíces y ser sustituida con una civilización normal. Recordando siempre al respecto que los tiempos pueden ser convertidos en favorables y que el hombre es el artífice del propio destino”.

“No existe una condición externa en la cual no se pueda sin embargo estar activos por sí y para los otros”.

“Ha habido una indulgencia en femeninas perezas permaneciendo en la espera de lo que debe acontecer, casi como si se tratara de un buen espectáculo televisivo en el cual el espectador no está directamente implicado”.

“La espera pasiva y mesiánica no pertenece al alma occidental”.

“Verdad tradicional que justamente en la edad oscura son preparadas las semillas de las cuales surgirá el Árbol del ciclo áureo futuro, por lo que nunca, ni siquiera en la época férrea, la acción tradicional se perderá”

“El prejuicio materialista remite las causas de los acontecimientos únicamente a fenómenos de carácter natural. A tal obtusa concepción nosotros oponemos resueltamente la enseñanza según la cual cada pensamiento viviente es un mundo en preparación y cada acto real es un pensamiento manifestado”.

“Nosotros encendemos tal llama, en conformidad con el precepto ariya de que sea hecho lo que debe ser hecho, con espíritu clásico que no se abandona ni a vana esperanza ni a tétrico descorazonamiento.” (6)

El hombre de alma pasiva y mesiánica (del que hablaban los dioscuros) aceptará con bíblica resignación el destino que le ha impuesto su dios y, a diferencia del Héroe Solar, nunca pensará en rebelarse contra sistemas políticos antitradicionales, injustos, alienantes y explotadores.

El Hombre de la Tradición, por contra, más que amilanarse por la tremenda dificultad de encontrar el Norte que supone el vivir en la etapa crepuscular de la Edad Sombría o Kali-yuga, más que amilanarse verá en ello una oportunidad de arribar más Alto que, tal vez, donde hubiera podido llegar en otras edades no tan abisales del discurrir del hombre por la existencia terrena, pues al encontrarse en las ciénagas más espesas necesita de un mayor impulso para salir de ellas y este mayor impulso le puede catapultar mucho más Arriba: a la actualización del Principio Eterno que aletarga en su fuero interno.

La Tradición concibe que el Hombre Diferenciado puede entrar en las moradas celestiales dando una patada en las puertas del Cielo, sin complejos de inferioridad, mirando cara a cara a la divinidad, de tú a tú. Y, más aun, puede aspirar a superar la esencia de los mismos dioses o numens (como parte de la manifestación que éstos son) para pasar a Ser uno con el Principio Primero que se halla por encima y más allá del mundo manifestado.

En contraste con el Héroe Olímpico que nunca supo ni sabe de complejos de inferioridad ni de ineptitudes cuando miraba y mira a la Trascendencia encontramos al hombrecillo producto del mundo moderno alicorto e incapaz de arribar al Despertar a la Realidad Metafísica. Hombrecillo al que, p. ej., ya vemos cómo en la antigua Roma los Libros Sibilinos (7) obligan a practicar la genuflexión dentro del contexto representado por el alejamiento del mundo romano con respecto al Ciclo Heroico que le fue propio.

Hemos tratado en otro lugar de la Doctrina de las Cuatro Edades (8) y de la posibilidad heroica de ponerle freno a la espiral desintegradora e involutiva que ella nos explica. Autores como René Guénon nos han hablado (9), a partir del estudio de los textos Sapienciales del hinduismo, de la duración de cada una de las cuatro edades de que consta un Manvântara o ´ciclo de humanidad´, diciéndonos que la Edad de Oro, Satya-yuga o Krita-yuga tiene una duración de 25.920 años, la Edad de Plata o Trêta-yuga 19.920, la Edad de Bronce o Dvâpara-yuga 12.960 y la Edad de Hierro, del Lobo o kali-yuga 6.480. Igualmente afirma el Tradicionalista francés que nos hallamos en una fase avanzada del kali-yuga. Nótese que la duración de cada edad sigue una proporción de 4, 3, 2, 1, lo cual nos hace comprender que cada edad dura menos que la anterior en cuanto comporta un mayor nivel de decadencia, tal cual acontece con la bola de nieve que a medida que va bajando por la pendiente de la montaña se va haciendo mayor al igual que la velocidad que va tomando: su aceleración acaba resultando ciertamente vertiginosa. Si la Edad de Oro equivale al Mundo de la Tradición Primordial y puede ser calificada como la Edad del Ser y de la Estabilidad (de ahí su mayor duración) las restantes edades comportan la irrupción de un mundo moderno que puede, a su vez, ser denominado como mundo del devenir y del cambio (de ahí la cada vez menor duración de sus sucesivas edades). En verdad, no en balde, se puede constatar que en los últimos 50 años la vida y las costumbres han cambiado mucho más de lo que habían cambiado en los 500 años anteriores. Los traumáticos conflictos generacionales que se sufren, hoy en día, entre padres e hijos no se habían dado nunca en épocas anteriores (al menos con esta intensidad) debido a que los cambios en gustos, aficiones, hábitos y costumbres se sucedían con más lentitud. Los cambios bruscos, frenéticos y continuos propios de nuestros tiempos han dado lugar a lo que Evola definió como el hombre fugaz. Hombre fugaz que es el propio de la fase crepuscular por la que atraviesa la presente Edad de Hierro, caracterizada (esta fase) no ya por la hegemonía del Tercer ni del Cuarto Estado o casta (léase burguesía y proletariado) sino por la del que, con sagacidad premonitaria, Evola había previsto, pese a no haber vivido, como preponderancia del Quinto Estado o del financiero o especulador propio del presente mundo globalizado, gregario y sin referentes de ningún tipo. Este sujeto hegemónico en el Quinto Estado equivaldría al paria de las sociedades hindúes que no es más que aquél que ha sido infiel, innoble y disgresor para con su casta y ha sido expulsado del Sistema de Castas para convertirse en alguien descastado y sin tradición ni referentes. El hombre fugaz no se siente jamás satisfecho, vive en continua inquietud y convulsión. Su vacío existencial es inmenso y nada le llena. Intenta distraer dicho vacío con superficialidades, por ello su principal objetivo es poseer, tener y consumir compulsivamente. Cuando consigue poseer algo enseguida se siente insatisfecho porque ansía poseer otra cosa diferente, de más valor económico o de mayor apariencia para así poder impresionar a los demás. Y es que el mundo moderno es el mundo del tener y aparentar, en oposición del Mundo Tradicional que lo es del Ser. Este hombre fugaz se mueve por el aquí y ahora, pues lo que desea lo desea inmediatamente, no puede esperar. Su agitación no le permite pensar en el mañana.

El politólogo Samuel Huntington habló del fin de las ideologías (la llamada postmodernidad), bien que pensando que con el fin del comunismo en el poder, escenificado con la Caída del Muro de Berlín, se rendía el orbe a las excelencias del capitalismo liberal. Aunque más bien el mundo caía en manos de los caprichos del capitalismo financiero, alma de la globalización. Las ideologías que surgieron como consecuencia de los efectos nefastos que acarreó la Revolución Francesa habían quedado relegadas a un muy segundo lugar. Un cierto altruismo que aún conservaban los adalides del liberalismo y del marxismo cuando más que pensar en sus satisfacciones personales pensaban en un futuro (al que más que probablemente ellos no llegarían a conocer) de paraíso liberal (con provisión ilimitada de bienes de consumo) o comunista (con el triunfo definitivo del proletariado y la desaparición de cualquier superestructura), ese cierto altruismo, decíamos, quedaba defenestrado con el fin de las ideologías y el advenimiento del Quinto Estado con la hegemonía del hombre fugaz egoísta e individualista por antonomasia. (10)

Ante este desolador panorama actual sin duda resulta más difícil derrotar a los fantasmas del fatalismo e insuflar la convicción de que se puede voltear semejante emponzoñado estado de cosas.

Un cierto determinismo expele el posicionamiento de quienes interpretando los datos aportados por Guénon se han aventurado a datar los inicios y finales de cada una de las Cuatro Edades de que consta un manvântara. Así tenemos que se ha escrito que la Edad de Oro habría empezado el año 62.800 a. C. para acabar el 36.880 a. C. La Edad de Plata habría, lógicamente, comenzado con el fin de la anterior y se habría alargado hasta el año 17.440 a. C. Tras acabar ésta se habría dado paso a una Edad de Bronce que habría concluido en el 4.480 a C. Finalmente este último año sería cuando se habría iniciado la actual Edad de Hierro; la cual concluiría el año 2.000 d. C…

En otros sitios se puede observar cierta variación en cuanto a la datación de las Cuatro Edades, situando el comienzo del Kali-yuga el año 3.012 a. C., su mitad el año 582 a. C., el inicio de su crepúsculo el año 1.939 d. C. y en el 2.442 d. C. el final de la Edad de kali (esa especie de demonio de piel oscura de la que nos habla el Bhagavad Purana) o de la que ya los textos Sacros de la Tradición hinduista denominaron era de la riña y de la hipocresía.

Contrariamente a Guénon, Evola nunca habló de la duración de cada yuga o edad, porque para el gran intérprete romano (aunque siciliano de nacimiento) de la Tradición ello suponía un cierto tic fatalista de no poca consideración. Datar el año exacto de inicio y fin de una Edad comporta no creer en que el hombre, si se lo propone, puede convertirse en protagonista de su andadura existencial y de la andadura de sus comunidades. Pues el hombre es libre para Despertar al igual que lo es para condenarse. Sin duda la duración de cada yuga que hemos visto, párrafos atrás, en Guénon anda en relación directa con las dinámicas propias de las fuerzas sutiles que forman el entramado del Cosmos y que pueden adoptar un cariz disolvente para el hombre o, por contra, reintegrador de su Unidad perdida. De estas dinámicas nos habla el I Ching o Libro de las Mutaciones y entiende, asimismo, una deriva del mismo cual es el Tao-tê-king de Lao-tsé. Según estas enseñanzas aportadas por ambas fuentes Tradicionales de Ciencia Sagrada llega un momento en el que la expansión de ciertas fuerzas catagógicas o alienantes llega a tal punto que deberá detenerse, para después retroceder y dejar que el espacio que habían ocupado pase a ser enseñoreado por fuerzas de índole anagógica o Elevadora. Se habría, de esta manera, puesto punto y final al kali-yuga para dar paso a otro nuevo ciclo humano o manvântara con el inicio de una nueva Edad de Oro o Satya-yuga (Edad de Sat -Ser, en sánscrito). Sin duda en la mentalidad de Evola datar con exactitud cuándo estos cambios cósmicos acontecen significaba anular el protagonismo y la libertad del hombre a la hora de trazar el cauce de su andadura. Para el maestro italiano se trataba de aprovechar los estertores del predominio de las fuerzas catagógicas para ponerle fin a su hegemonía cuanto antes mejor. Y se trataba, asimismo, de acabar con la pasividad fatalista del hombre moderno con el objeto de que dichos estertores no se alargaran más allá de lo que los textos Tradicionales habían calculado (sin duda, de modo aproximativo). Por otro lado, volvemos a reincidir en el tema clave de este ensayo en el sentido de que incluso en pleno auge hegemónico de fuerzas disolventes el hombre no debe renunciar a la gesta Heroica de Reconstituir en sí mismo la Unidad perdida y de Restaurar el Ordo Tradicional (sea, eso es otro cantar, de manera más o menos duradera).

En una de las dataciones que hemos aportado hemos indicado que la mitad de la Edad de Hierro tendría lugar el año 582 a. C. Vamos a aprovechar esta fecha por tratarse de un s. VI a. C. sobre el que Guénon vertió una serie de reflexiones dignas de comentar. Para éste, no obstante, la mitad del kali-yuga había acaecido antes. Se queja el Tradicionalista francés (12) de las conclusiones vertidas por la historiografía al uso por haber catalogado como de oscurantista todo lo acontecido antes de ese siglo y porque dicha historiografía oficial hace comenzar en el transcurso de dicha centuria la etapa de “civilización” del mundo clásico cuando, en cambio, según su parecer (el de Guénon) existe una continuidad con los siglos anteriores y más concretamente con las vetas de Tradición que aún existían. Así pues, para él la aparición del pitagorismo en aquel siglo, en Grecia, no supone ningún punto de inflexión en ningún sentido sino que representa una readaptación del orfismo. La irrupción del segundo Zaratrusta (este nombre equivaldría más a una función que a una persona) en Persia también supondría una adecuación del mazdeísmo. La elaboración del Confucionismo (siempre durante el mismo siglo) en China sería el aporte ideal de códigos sociales y éticos destinados a una mayoría no apta para aprehender las Verdades Metafísicas que ofrecía el taoísmo para una minoría metafísicamente apta. Sí, como primera excepción a lo dicho, contempla Guénon un punto de inflexión en la aparición de la filosofía en Grecia, pues a su loable motivo de aparición (inscrito etimológicamente en el mismo vocablo filosofía: amor a la sabiduría) le sucede la problemática de la adopción de herramientas humanas (los métodos especulativo y discursivo) para intentar comprender Realidades Suprahumanas como lo son las Realidades Metafísicas (11); sin obviar la deriva posterior que, en cuanto a los fines de sus elucubraciones, protagonizaron muchos filósofos y muchas escuelas filosóficas (cada vez en mayor número a medida que discurría el tiempo). Y como segunda excepción considera Guénon que la aparición del budismo en el s. VI a. C. supone una caída con respecto al hinduismo imperante en la India, pues opina que el budismo estaría atentando contra la jerarquía consustancial a cualquier sociedad Tradicional al abrírsele la posibilidad de acceso a la Realidad Absoluta a cualquier hombre, independientemente de la casta a la que pertenezca, que tenga la aptitud y la voluntad para intentarlo; además de sopesar como de antitradicional el que quien sigue la vía del budismo abandona su pertenencia social a la casta en la que nació. Para Guénon, con toda seguridad, sólo el brahman o sacerdote podría aspirar al acceso al Plano de la Trascendencia. Para Guénon, tengámoslo en cuenta, sólo el brahman puede Restaurar la Tradición perdida.

Contrariamente a lo expuesto por Guénon, Evola no considera la aparición del budismo como un punto de involución con respecto al hinduismo sino como un punto de superación con respecto a un hinduismo que había caído en un ritualismo vacío y le había dado la espalda al esoterismo. El budismo, además, es fundado por Gautama Siddharta: un shatriya miembro de uno de los linajes guerreros más tradicionalmente valerosos de la India (Shankya). Para Evola, la formulación del budismo constituye, pues, un acto Heroico protagonizado por alguien perteneciente a la única casta capaz de emprender gestas de Reconstitución de la Tradición. Para Evola el budismo no atenta contra la jerarquización social Tradicional y no lo hace por dos motivos: uno, porque la estratificación social de la India de entonces no se puede definir como de Tradicional, ya que las funciones sacra y guerrero-dirigente se hallan divididas entre brahmanes (que profesan, además, un tipo de religiosidad lunar) y shatriyas y no se encuentran, como correspondería a un Ordenamiento Tradicional, encarnadas en una misma élite. Y el otro motivo por el que el budismo, en opinión de Evola, no atenta contra la jerarquización social del Mundo Tradicional es que para el Hombre Superior -y tan solo para este tipo de Hombre- no deben existir normas, morales ni reglamentos (entre ellos los que exige cumplir una casta para con sus miembros) que puedan ejercer el papel de cortapisas y obstáculos para aquél que pretende elevarse más allá de su condición humana con el fin de acceder a una de tipo Suprahumano. Sí, en cambio -como no podía ser de otro modo- en el parecer de Evola el resto de personas (que no tienen la capacidad y/o la voluntad de encarar la praxis de las Realidades Suprasensibles) debe someterse al sistema Tradicional estamental que ayudará a gobernar sus vidas, ya que estas personas no son capaces de llegar a autogobernarse; a ser señores de sí mismos.

Si el Hombre de la Tradición es un Hombre que no conoce de fatalismos paralizantes huelga comentar que tampoco concibe de la existencia de determinismos inmovilizantes con respecto a la aspiración de emprender cualquier empresa Superior:

-Ni determinismos de casta, por más que los miembros de unas (guerreros) sean más propicios para emprender actos Heroicos que los de las restantes o resulten más aptos para llegar a estados de conciencia más sutiles de la Realidad Suprasensible; o para llegar, incluso, más allá de cualquier Realidad sutil.

-Ni determinismos históricos (el determinismo histórico que, de acuerdo a los postulados del materialismo dialéctico, postula que la historia se hace a sí misma: tesis más antítesis= nueva tesis; o igual a cambios y nueva etapa histórica). El historicismo considera al hombre como sujeto pasivo, sin posibilidad de escribir la historia por sí mismo; sin posibilidad de hacer historia. Ésta última sería algo así como una entidad con vida autónoma cuyas nuevas manifestaciones no serían más que la consecuencia de su misma dinámica interna y en las cuales el ser humano no tendría ningún papel activo. La dinámica económica, social, cultural y política de un período dado serían la lógica, fatal, e inevitable, consecuencia de la que aconteció en la etapa anterior.

-Ni determinismos religiosos concretados en un dios omnipotente que hace y deshace a su antojo y sin que, fatalmente, el hombre-criaturilla pueda hacer nada para marcar su propio rumbo.

-Ni determinismos ambiental-educativos que condicionen totalmente el camino a elegir y a seguir por el hombre.

-Ni determinismos cósmicos en la forma de un Destino que todo lo tiene irremisiblemente programado de antemano.

Y que para el Hombre Verdadero no existen determinismos cósmicos se cerciora si se tiene presente el que todas las doctrinas Sapienciales nos hablan de fuerzas (o numens) que interactúan armónicamente en el Cosmos. La dinámica de estas fuerzas cósmicas influye en la existencia de los hombres y en el devenir de los acontecimientos, pero no de manera fatalista e insoslayable. El Mundo Tradicional ofició, siempre, ritos sagrados que hacían posible el conocimiento de cuáles eran las dinámicas que, en un momento determinado, seguían o seguirían dichas fuerzas cósmicas, pero también ofició sacrificios (oficios o ritos sacros) que tenían como objetivo el poder influir –a favor propio- sobre estos numens para hacerlos propicios en momentos en que podían no serlos para los intereses personales o de la comunidad. Es por lo cual que con estos sacrificios el hombre podía labrarse su propio destino operando sobre determinadas dinámicas cósmicas que, en ciertos momentos, no les eran favorables.

Evola sabía que dichas dinámicas influían en el hombre (que comparte fuerzas sutiles con el Cosmos), pero también era consciente de que influir no significa fijar ni significa determinar irremisiblemente. Además, hay siempre que tener presente que el que ha elegido con éxito la vía de la transustanciación interior vence todas estas influencias porque se encuentra por encima de cualquier numen o fuerza cósmica: se halla por encima de cualquier atisbo (por muy sutil que éste sea) del mundo manifestado porque ha realizado en sí la Gran Liberación y el total descondicionamiento.

El Héroe se niega a ser arrastrado por la corriente porque está convencido de que nada puede a su voluntad y de que, por tanto, puede sobreponerse al accionar de las leyes cósmicas. Está convencido de que la libertad que ha conseguido en su interior (su descondicionamiento con respecto a cualquier atadura y determinismo) le ha hecho invulnerable a estas leyes cósmicas, a estos numens; en definitiva, al Destino.

El mundo nouménico constituido por todo un entramado de fuerzas sutiles explica la armonía y el dinamismo del cosmos. Y en consonancia y en armonía con ese mundo nouménico es como deben estar dinamizadas las fuerzas sutiles del ser humano, ya que si éstas no están armonizadas con sus análogas del resto del cosmos discurrirán a tal fuerte contracorriente que acabarán por desarmonizarse también entre ellas mismas (en nuestro interior). De aquí, pues, la importancia que en el Mundo de la Tradición se le dio siempre a la realización y correcta ejecución de los ritos sagrados. Ritos que tenían o bien la finalidad de hacer conocer a sus oficiantes cuál era la concreta dinámica cósmica de un momento dado, bien con tal de no actuar aquí abajo contrariamente a dicha dinámica (en batallas, empresas arriesgadas, en la elección del momento de la concepción de la propia descendencia o del momento más idóneo para contraer matrimonio o para coronar a un rey,…) o bien con tal de poder adoptar las medidas apropiadas para actuar a sabiendas de que se hará a contracorriente de ese mundo Superior. O bien estos ritos se efectuaban con la intención de que fuesen operativos, esto es, de que tuviesen el poder de actuar sobre ese mundo Superior para (en la medida en que fuera posible) modificar su dinámica y hacerla favorable –o menos antagónica- a las actuaciones que se quisieran llevar a cabo aquí abajo.

Hay quien se pregunta por las razones por las cuales hombres como el de origen indoeuropeo, que tan adecuadamente conoció de este tipo de ritos operativos y los ejecutó y que protagonizó siempre tantos Ciclos Heroicos, ha podido hundirse en simas tan profundas como en las que se halla a día de hoy. Seguramente ha sido el que más aceleración le ha impreso a su caída; cierto es que en el actual estado de globalización, por el que atraviesa todo el planeta, prácticamente todos los pueblos del orbe se han igualado en niveles de sometimiento a los dictados de la materia y de lo infrahumano.

Seguramente para encarar la respuesta a esa pregunta habría que empezar resaltando la evidencia de que el hombre indoeuropeo (antes de la postración en la que caído) siempre fue muy dado a la libertad, tanto en lo social, como en lo político y en lo Espiritual. Por ello siempre conformó sociedades de tipo comunal y orgánico unidas a entes políticos superiores (el Regnum y, mejor aun, el Imperium) por el mero principio de la Fides y no por la fuerza ejercida desde las altas jerarquías. Por ello, también, aspiró siempre a la suprema libertad: la libertad interior que se obtiene tras un duro, riguroso y metódico ascesis que no es otra cosa que la Iniciación y en cuyos estadios iniciales pugna por el descondicionamiento del Iniciado con respecto de todo aquello que lo mediatiza y esclaviza.

Siempre, repetimos, fueron muy propias del mundo indoeuropeo el tipo de sociedades orgánicas (como corresponde a cualquier sociedad que se precie de Tradicional) que no basan, por tanto, su cohesión a través de la fuerza material ejercida por los que detentan el poder sino que basan su unidad en la libre elección hecha (a través de la fides juramentada al Regnum o al Imperium) por los entes sociales o políticos que armónica y orgánicamente las componen.

Este hombre mostró muy a menudo su capacidad de ser señor de sí mismo (de autogobernarse y autodominar su mundo psíquico), sin que, por tanto, necesitase que le reglamentaran todos los aspectos de su vida cotidiana hasta el más ínfimo detalle; como, por el contrario, aconteció siempre –y acontece- con otros pueblos –pelásgicos, semitas,…- cuyas religiones ordenaron –y/u ordenan- hasta el extremo, mediante normas y dogmas, toda la existencia de sus miembros. Para la élite Espiritual de ese hombre indoeuropeo cualquier ligadura social y moral hubiera representado un obstáculo en medio de la vía de descondicionamiento que estaba recorriendo.

Pero, cuando dicho hombre se aleja de la Tradición y rompe, por tanto, con lo Alto no halla en su caída ni férreas morales ni dogmas ni reglamentaciones omnipresentes que atenúen dicha caída; morales y dogmas que, al modo de ataduras, si bien le hubieran impedido Ascender también le hubieran evitado el estrellarse, de forma tan estrepitosa y categórica, contra los abismos.

Aquí podemos encontrar las razones de esa caída libre que este hombre viene protagonizando. Caída libre no fatal ya que, no lo olvidemos, siempre puede ser frenada en acto heroico que, de realizarse, le puede volver a catapultar desde lo más bajo hacia lo más Elevado.

Hemos señalado, a lo largo de este escrito, ciertas discrepancias de enfoque habidas entre Julius Evola y René Guénon. Se trata de unas discrepancias que no afectan a las coincidencias básicas que ambos Tradicionalistas mostraron en sus disecciones del Mundo Tradicional y sus denuncias del mundo moderno, pero no está carente de relevancia el que sigamos mostrando alguna otra divergencia, por cuanto está íntimamente relacionado con el tema del presente trabajo. Se trata de una divergencia que ambos autores estuvieron, a finales de los años ´20 del s. XX, dirimiendo en forma epistolar y que ha sido agrupada bajo la cabecera de “Polémica sobre la metafísica hindú”. Evola denuncia algunos ciertos contenidos del libro de Guénon “El hombre y su devenir según el Vedânta” en el sentido de los peligros evasionistas a los que puede conducir el vedântismo (sobre todo el vedântismo advâita) que tuvo a bien exponer Guénon en dicha obra (13). Es así como Evola lo percibe cuando opina sobre esta interpretación de los Vedas que es el Vedânta. En tal línea el maestro italiano afirma que “el punto de vista del Vedânta es que el mundo, procedente de estados no manifestados, vuelve a sumergirse en ellos al final de cierto período, y ello recurrentemente. Al final de tal período, todos los seres, bon gré mal gré, serán por tanto liberados, ´restituidos´.” Evola nos advierte del fatalismo que envuelve a estas creencias y nos advierte de que si el hombre, junto a toda la manifestación, volverá a Reintegrarse en el Principio Supremo del que procede y será, así, restituido a lo Eterno e Inmutable no se hace necesaria ninguna acción: ni interna tendente a la Liberación ni externa que apunte a la Restauración del Orden Tradicional, ya que, tarde o temprano, toda la humanidad (así como todo el mundo manifestado) acabará Liberada cuando haya sido reabsorbida por el Principio Primero. Ni que decir tiene la pasividad a la que dichas creencias pueden llevar.

Igualmente nos advertía Evola de que considerar, tal como hace el Vedânta, al mundo manifestado como mera ensoñación (Mâya) puede abocar a posturas evasionistas con respecto al plano de la inmanencia. Puede llevar al refugio en el Mundo de la Trascendencia y a dar la espalda a una realidad sensible sobre la que el Hombre Tradicional debe tener muy claro que debe actuar para sacralizarla y convertirla en un reflejo de lo Alto (recuérdese el Imperium, en el microcosmos, como reflejo del Ordo macrocósmico). De no actuar en este sentido nos olvidaríamos -empleando terminología del hermetismo alquímico- del coagula que debe seguir al solve en todo proceso de metanoia o transformación interna; nos olvidaríamos, pues, de la materialización del Espíritu que debe seguir a la fase de Espiritualización de la materia propia de los procesos Iniciáticos.

No es nuestra intención la de resaltar desavenencias doctrinales entre Evola y Guénon sino la de hacerlo sólo si tienen una incidencia directa en el tema que estamos trabajando en este escrito. Pocos años después de haberse producido esta discrepancia epistolar, el mismo Evola reconocía, en un artículo intitulado “René Guénon, un maestro de los tiempos nuestros”, la alta competencia Tradicionalista de Guénon y lo imprescindible de su obra; opinión que no podemos por menos que compartir.

Pensamos que a lo largo de todas estas líneas ha quedado bien aclarada la postura existencial que defiende Evola como aquélla que debe adoptar cualquier persona que vea en la Tradición Perenne el faro y la luz que debe guiar su existencia. Esta postura ha quedado claro que es la de la vía de la acción (que puede convertirse en heroica) y la del rechazo a concepciones deterministas, fatalistas, evasionistas, pasivas e inmovilizantes. La lucha (interna y externa) debe ser el arma utilizada por el hombre que aspire a Restaurar lo Permanente y Estable frente a lo caduco y corrosivo del mundo moderno. La lucha externa le hará siempre concebir, a Evola, la esperanza de acabar con las manifestaciones políticas, económicas, sociales y culturales combatiéndolas en lid directa con el fin de abatirlas y hacer triunfar un nuevo Ciclo Heroico en plena Edad del Lobo. Esta esperanza y este objetivo son los que transmiten libros suyos que no son precisamente de los primeros que escribió en su definitiva etapa Tradicionalista: obras tales como “Orientaciones” (1.950) y “Los hombres y las ruinas” (1.953). Más adelante se apercibió de que pese a la inconsistencia interna de que hacía gala la modernidad los aparatos políticos que le eran propios a ésta se habían dotado de una fuerza represiva tan fuerte que resultaba casi ilusorio el aspirar a acabar con ella, por lo cual Evola creyó que antes que enfrentarse directamente con el Sistema que abanderaba los antivalores propios del mundo moderno se hacía más conveniente emplear otra táctica también extraída de las enseñanzas del Mundo Tradicional; concretamente de las enseñanzas extremoorientales. Y esta táctica no era otra que la de “Cabalgar el tigre” (14) y que nos transmitió en una obra homónima escrita por él el año 1.961. Para Evola ´cabalgar el tigre´ es adoptar tácticas como la de fomentar las contradicciones de nuestro degradante mundo moderno y del Establishment que lo sustenta y que a la vez es su consecuencia. Se trata de fomentar sus contradicciones y ponerlas de manifiesto y en evidencia. El desarrollo de sus contradicciones debe provocar tales tensiones, fricciones, desajustes y desequilibrios que acabe en el estallido de todo el entramado plutocrático materialista de este orbe globalizado (que Evola definió como el de la hegemonía del Quinto Estado) y que dé, en consecuencia, paso a una nueva Edad Áurea. Sin la acción heroica del hombre el final de esta etapa terminal de la Edad de Hierro podría prolongarse más de lo que las dinámicas cósmicas podrían indicar. ´Cabalgar el tigre´ que representa el mundo moderno hasta que éste se agote y llegue a su fin, en lugar de enfrentarlo directamente, pues, de este modo, el tigre nos destrozaría.

Evola contempla los procesos disolventes por los que se atraviesa y piensa que el principio de ´Cabalgar el tigre´ se puede, también, aplicar en el plano interno en el sentido de utilizar los venenos (como el sexo, el alcohol, las drogas, ciertos bailes/ritmos frenéticos,…) -que, por su naturaleza o por su omnipresencia, embriagan a la modernidad crepuscular- como medio de alterar el estado de conciencia ordinario y hacer más accesible el paso a otros estados de conciencia superiores. Sobra señalar lo peligroso de esta vía de la mano izquierda (como la definió el tantrismo), vía húmeda (en términos hermético-alquímicos) o vía dionisíaca por cuanto aquél que se aventura por el camino de la Iniciación y elija el tránsito por esta vía sin la preparación ardua de descondicionamiento previo seguramente se verá desgarrado y devorado por el tigre de estos venenos y convertido en adicto y en esclavo de ellos. Es por ello que sólo unos pocos hombres cualificados son aptos para aventurarse por semejante peligrosa vía de acceso a planos Superiores de la realidad.

Por otro lado se precisa no dejar de señalar que los tipos de más alta prestación Espiritual no necesitan de ayudas externas, en la forma de estos venenos, para que su conciencia pueda penetrar en la esencia de otro tipo de planos suprasensibles de la realidad, sino que será por su propia preparación metódica encarada al dominio y eliminación de su submundo emocional, pulsional e instintivo como habrá dado los primeros pasos para -tras aplicar otro tipo de rigurosas técnicas y de estrictos ejercicios de concentración, visualización,…- iniciar el acceso al conocimiento de otras realidades de orden metafísico y para hacer efectiva su progresiva transformación interior (la del Iniciado). Estaríamos hablando, ahora, de la vía de la mano derecha, vía seca o apolínea.

De aquel Hombre que es capaz de ´convertir el veneno en remedio´ también se pueden aplicar expresiones como aquélla que afirma que ´la espada que le puede matar, también le puede salvar´ o la que asevera que ´el suelo que le puede hacer caer, también le puede servir para apoyarse y levantarse´. Sin duda se trata de otra vía heroica adoptada por un Hombre para el que no existen situaciones -por muy irreversibles y fatales que puedan parecer- ante las que no se pueda actuar, ya sea luchando de frente o, como en este caso acabamos de explicar, cabalgando el tigre.

Ha quedado claro a lo largo de todo este escrito el que para el Hombre de la Tradición no existe fatalismo ninguno que le relegue a un vegetar pasivo y ovino a la espera de cambios predeterminados que le vendrán de fuera y cuyo cumplimiento le será totalmente ajeno a su voluntad. Ha quedado diáfana la idea de que las potencialidades Espirituales que anidan aletargadas en su seno interno pueden actualizarse y Liberarlo. Y no querríamos concluir este trabajo sin recurrir a una imagen sugerente que nos llega del hinduismo y que nos presenta a la diosa Shakti (símbolo de la fuerza sutil que se conoce con el mismo nombre: shakti) bailando alrededor del dios Siva (o Shiva: representación del Principio Supremo y Primero) y habiendo finalmente logrado, con su danza erótica, que el miembro viril de él se vigorice. Vigorización que no representa otra cosa que la de actualización del Espíritu dormido que, en potencia, albergamos en nuestro interior. No otra, sino ésta, es el gran reto heroico que debe acometer el hombre que aspire a convertirse en Hombre Diferenciado, para el que las adversidades son retos y no obstáculos impregnados de un fatalismo insalvable.

NOTAS:

(1) Consúltese nuestro escrito “Cosmovisiones cíclicas y cosmovisiones lineales”: http://septentrionis.wordpress.com/2009/07/27/cosmovisiones-ciclicas-y-cosmovisiones-lineales/

(2) “Los ciclos heroicos. Las doctrinas de las cuatro edades y de la regresión de las castas y la libertad en Evola”: http://septentrionis.wordpress.com/2009/02/08/los-ciclos-heroicos/

(3) Esta idea del Imperium fue desarrollada en nuestro ensayo “El Imperium a la luz de la Tradición”: http://septentrionis.wordpress.com/2009/02/08/el-imperium-a-la-luz-de-la-tradicion/

(4) Aparecido en nuestro “Jerarquía y trifuncionalidad”: http://septentrionis.wordpress.com/2010/02/14/jerarquia-y-trifuncionalidad/

(5) Ídem.

(6) Pueden leerse estas reflexiones y sentencias, y otras más, en los volúmenes 1, 2 y 3 de “La magia como ciencia del Espíritu”, editados por Ediciones Heracles en 1.996.

(7) Para una profundización mayor en la problemática que la aparición de los Libros Sibilinos supuso en la antigua Roma se puede consultar el capítulo titulado “Los Libros Sibilinos” que forma parte de nuestro escrito “Evola y el judaísmo (Segunda parte)”: http://septentrionis.wordpress.com/2009/07/28/evola-y-el-judaismo-2%c2%aa-parte/

(8) “Los ciclos heroicos. Las doctrinas de las cuatro edades y de la regresión de las castas y la libertad en Evola”. Op. cit.

(9) “Algunas observaciones sobre la doctrina de los ciclos cósmicos”, artículo de René Guénon editado por Ediciones Obelisco en 1.984, junto a otros textos, dentro del volumen “Formas tradicionales y ciclos cósmicos”.

(10) Para un mejor entendimiento de la Doctrina de la Regresión de las Castas volvemos a remitirnos a nuestro artículo “Los ciclos heroicos. Las doctrinas de las cuatro edades y de la regresión de las castas y la libertad en Evola”.

(11) Este tema fue estudiado en nuestro redactado “Ciencia sacra y conocimiento”: http://septentrionis.wordpress.com/2009/07/05/ciencia-sacra-y-conocimiento/

(12) “La crisis del mundo moderno”. Capítulo I: “La Edad de sombra”. Editorial Obelisco. 1ª edición de 1.982 y 2ª edición de 1.988.

(13) Problemática tratada en nuestro “Críticas de Evola al Vedânta”: http://septentrionis.wordpress.com/2009/07/09/criticas-de-evola-al-vedanta/

(14) Se puede consultar nuestro escrito “Cabalgar el tigre”: http://septentrionis.wordpress.com/2009/07/28/cabalgar-el-tigre/

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mardi, 29 novembre 2011

El hombre de la Tradición

El hombre de la Tradición

EL HOMBRE DE LA TRADICIÓN
por
EDUARD ALCÁNTARA
 
Colección Hermética
Autor: Eduard Alcántara
Prólogo: Enrique Ravello
Páginas: 96
6 imágenes b/n
Tamaño: 20’5 x 13’5 cm
Edición en rústica (cosido) con solapas de 8 cm
P.V.P.:12 €
(Gastos de envío no incluidos)
Caja del Mediterraneo (CAM):
2090 3176 15 0100138381
 
INTRODUCCIÓN
(extracto)
 
En un mundo que ha llegado a las más altas cotas de disolución imaginables se hace imprescindible que el hombre que quiera sobrevivir en medio de tantas ruinas sepa qué actitudes existenciales debería seguir por tal de intentar no sucumbir en medio del marasmo envilecedor, desarraigante y desgarrador al que la modernidad y la postmodernidad lo quieren arrastrar. Sin duda son la actitudes propias del Hombre de la Tradición las que suponen el antídoto idóneo ante las dinámicas disolventes de los tiempos presentes.
Con esta convicción vamos a consagrar este libro a la aproximación a un retrato, lo más fiable posible, que plasme lo que representa este Hombre de la Tradición. Vamos, pues, a intentar caracterizarlo y lo haremos con la intención de que se erija en arquetipo en el que fijarse –y con el que orientarse– en esta era crepuscular. Si duda que el tenerlo siempre presente como patrón pulirá las cualidades internas de aquellos hombres que se niegan a caer en la sima profunda de la vulgaridad, de la ramplonería y del enfermizo apego a lo material de que es víctima el común de los mortales (el ‘hombre ordinario’).
En otras épocas no tan oscuras se hacía posible que un tipo de hombre diferenciado –portador, como tal, de una potencialidad espiritual especial y de una fuerza anímica tal de poder actualizar dicha potencialidad– pudiera hallar vías de transustanciación interna en el seno de organizaciones de carácter iniciático que remontaban su hilo dorado (sus orígenes) a illo tempore. Hoy en día esta posibilidad resulta muy remota, pues del proceso de embrutecimiento consustancial al mundo moderno tampoco se libra-ron dichas organizaciones y en caso de quedar alguna genuina y revestida de legitimidad Tradicional el dar con ella resultaría harto complicado; si no tarea casi imposible.
Ante esta constatación al hombre diferenciado sólo le queda la improbable (por resultar muy difícil) opción del tránsito autónomo por los caminos de la transformación interna. Y esta acentuada improbabilidad abocará a que el mirarse continuamente (hasta en las acciones más nimias, secundarias e intrascendentes) en el arquetipo configurado por el Hombre de la Tradición sea una de las pocas opciones de superación que le resten. De este modo irá forjando su carácter, cada vez más, en la templanza, en el control de sus acciones y pensamientos y en la prevalencia de objetivos alejados de la burda materialidad y de la instintividad más primaria y elemental que atenazan al hombre moderno. Y si no de una manera natural (como consecuencia de un descondicionamiento iniciático más que improbable a tiempos de hoy) sí como si de un automatismo se tratase (adquirido a base de rutina, hábito y práctica) podrá ser sujeto del recto obrar y podrá, seguramente, protagonizar su transustanciación en las experiencias que le siguen al post-mortem y/o a lo largo de otro tránsito terreno de su no vulgaris alma; posibilidades, éstas últimas, a las que no podrá acceder el ‘hombre común’ que en vida no haya hecho nada por dejar el lastre representado por su exagerado apego terrenal.

Eduard Alcántara

ÍNDICE
Prólogo de Enrique Ravello
Introducción
Capítulo I – Raíces
Capítulo II – La Naturaleza
Capítulo III – Intransigencia de la Idea
Capítulo IV – El Deber
Capítulo V – El Guerrero
Capítulo VI – El Silencio
Capítulo VII – La Raza del Alma
Capítulo VIII – El Descondicionamiento
Capítulo IX – La Muerte
Capítulo X – El Ariya
Capítulo XI – La Coagulación
Capítulo XII – El Asiento Peligroso
Epílogo
Bibliografía

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mardi, 22 novembre 2011

Il culto della Dea Feronia, tra storia e mistero

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Il culto della Dea Feronia, tra storia e mistero

Divinità dai molteplici aspetti, posta a tutela dei boschi e degli animali selvaggi, i malati ed addirittura gli schiavi liberati

Umberto Bianchi

Ex: http://rinascita.eu/

Passando per l’Autostrada del Sole in direzione Firenze, poco prima di arrivare al casello di uscita per la cittadina di Fiano romano, potrete notare delle indicazioni che vi avvisano della presenza di “Lucus Feroniae”, un sito archeologico la cui silenziosa presenza sembra lì stonare vistosamente con l’andirivieni di automobili e con il coacervo di fabbrichette, depositi e centri residenziali che puntellano la campagna lì intorno. Un sito interamente dedicato ad una figura, quella della Dea Feronia, tra le meno conosciute e pubblicizzate tra quelle del pantheon delle divinità italico-romane, ma non per questo, meno importante.
A lei era dedicato un importante santuario sul Monte Soratte oltre a quello di Trebula Mutuesca, Terracina, Praeneste, nella regione dell’Etruria e presso l’area sacra di Largo Argentina, in Roma. Una figura di non poco conto, quindi. Cominciamo con il dire che Feronia appartiene a quelle figure divine di transizione, a mezza strada tra il mondo pre-indoeuropeo e quello indoeuropeo, propriamente detto. Dea dai molteplici aspetti, è posta a tutela di quella natura selvaggia, di cui protegge i boschi, gli animali selvaggi (da cui “ferae”-“feronia”), le messi, i malati ed addirittura gli schiavi liberati. Un aspetto, quest’ultimo, che inconsueto nella sua apparenza è invece strettamente legato alla sua natura di divinità preposta ai mutamenti di stato. Infatti a Roma ed in Etruria, Feronia è anche dea del fuoco e della fecondità sia del suolo, che degli animali, che dell’uomo. Quanto fuoriesce dalla terra alla luce del sole, è posto sotto la sua protezione, in primis le acque sorgive, simbolo di quel perenne e spontaneo scorrere della vita di cui la dea è protettrice. Una divinità della vita e della natura, intese nella loro accezione più selvaggia.
Feronia, ci riporta all’immagine della “potnia tòn teròn”, divinità la cui natura non è unicamente preposta alla generazione, ma ad altrettanti variegati significati e funzioni e fa per questo il pari con dee come Diana, Artemide, Fortuna Primigenia, Angerona, Ops, Muta ed Ancaru o figure semi divine come Circe, Stige, Acca Larentia, Anna Perenna ed altre ancora, provenienti dall’ambito pre-indoeuropeo, legate all’idea di matriarcato ed al culto della Dea-madre. In un contesto simile, l’elemento femminile assumeva una decisiva preponderanza anche all’interno dei vari pantheon divini, grazie al proprio ruolo di fecondità e perpetuazione della specie. Divinità come Madre Terra, Demetra, Ecate, Cerere e via dicendo, anche se ridimensionate o addirittura accantonate nel ruolo di “dee otiosae”, stanno a testimoniare quanto sin qui detto. Fecondità, tutela della natura nei suoi aspetti più selvaggi, ma anche passaggio di stato, accostano dee come Feronia alla realtà dello sciamanesimo, pratica questa sulla cui esistenza nel mondo classico, esistono pareri discordi, proprio a partire da autori come Mircea Eliade. La figura dello sciamano possiede la facoltà di muoversi tra la dimensione dei vivi e quella dei morti, di quegli spiriti della vita e della morte con cui a volte deve intraprendere dei serrati combattimenti per addivenire alla guarigione del proprio miste. Lo schiavo può, in tal senso, esser visto ed interpretato come un morto vivente a cui viene fatto dono di una nuova vita, attraverso il passaggio allo stato di libero. Feronia riesce ad attribuire al proprio mostruoso figlio Erilo tre anime e tre corpi, (per piegare le quali, il mitico re Evandro dovrà impegnarsi in una lotta estenuante) ricalcando in questo quella tripartizione costitutiva, alla natura sciamanica tanto cara. A Feronia viene anche attribuito il controllo sugli elementi naturali. A Terracina dove Feronia ricopre il ruolo di madre e nutrice di Juppiter Anxurus, il bosco antistante al complesso templare è costantemente rinverdito dalla Dea. Il saccheggio del tempio del Lucus Feroniae, operato dalle truppe cartaginesi al seguito di Annibale, è ostacolato da piogge e fulmini. Non solo. Feronia è alter ego di quella Fortuna a cui è dedicato il tempio a Praeneste, fondata da Ceculo, concepito nel ventre di una vergine da una favilla di fuoco, elemento sacro anche a Vulcano, il dio-fabbro, ma del quale la stessa Feronia/Fortuna possiede una assoluta padronanza. Quello stesso fuoco che, sotto forma di fallo, feconderà Ocrisia, serva in casa di Tarquinio Prisco, e porterà alla nascita del penultimo re di Roma: Servio Tullio. Dunque il fuoco distruttore, sotto l’auspicio degli dei, figura anche come elemento portatore di fecondità nel caso di natali illustri, come per Ceculo e Servio Tullio ed il suo dominio rientra anche tra i poteri sciamanici, in un impressionante parallelismo con quanto si verifica nelle relazioni tra fabbri e sciamani nei mitologemi dell’Asia centrale. Ceculo nasce con un difetto agli occhi, è semi cieco al pari di Fortuna-Feronia che elargisce indifferentemente agli umani fato positivo e negativo, riportandoci in tal modo alla cecità (molte volte simbolica!) degli sciamani, riguardo alla lettura ed all’assegnazione della sorte. Ma quella di Feronia è anche la figura di una dea i cui poteri sono ai più sconosciuti e manifesti unicamente attraverso i propri paredri o gli animali sacri a lei dedicati. Primo paredro della dea è Marte, dio del primo mese dell’antico anno romuleo. Il Marte romano è un dio principalmente legato al ciclo delle messi; egli è difatti dio dei campi e del raccolto (exercitus) ed in quanto tale dio del cibo, oltrechè divinità guerriera, garante di quel ciclo di vita, morte e rinascita, impetuoso ed irruento come la forza degli elementi a cui sovrintende. Secondo paredro di Feronia è Apollo Sorano, dal santuario di questa divinità sul monte Soratte ed i cui sacerdoti, gli Hirpi Sorani erano i particolari rappresentanti. Vestiti di pelli di lupo, costoro correvano sul fuoco a piedi nudi, per simboleggiare la corsa dietro al sole dispensatore di vita e di calore. Apollo è qui inteso quindi nel suo lato solare, espressione di un ciclo tutto imperniato sulla ciclica ascesa e discesa del Sole verso le tenebre. Di conseguenza tutte le varie confraternite guerriere uomo-lupo/cane, presenti in gran numero nell’antichità italica e romana, sono legate alla solarità. Ritorna quindi con prepotenza il motivo di una ciclicità legata all’uno o all’altro fenomeno della natura, l’alternanza tra luce e tebre o tra le stagioni, per ribadire l’apparentamento tra Feronia/Fortuna a Diana, Ana Hita, Anna Perenna, sino alla cristiana Befana, tutte figure accomunate dalla desinenza “ana/cibo”, di cui la divinità italica si fa garante attraverso legami ed apparentamenti mitologici e linguistici inusitati. Una ciclicità, il cui doppio volto si evince da simboli archetipi come la “labrys” o ascia bipenne o attraverso festività come il Carnevale, legate al capovolgimento delle stagioni.
La vicenda di Feronia dea dai mille volti, ci riporta al tema fondamentale, cioè quello della natura di una religiosità le cui figure tendevano “motu proprio” ad un’intercambiabilità e ad un’interconnessione di ruoli e figure, quanto mai inusitate per la quadratura mentale di un contemporaneo occidentale. L’idea di un politeismo strettamente legato ad una rigida classificazione e suddivisione di ruoli è, in molti casi, fuorviante ed errata, poiché risente dell’impostazione classificatoria tipica di una scienza, molte volte attaccata a quanto mai ammuffiti parametri evoluzionistici. Il politeismo riuscì invece ad essere un sistema di rappresentazione concettuale “elastico”, cioè in grado di garantire e contemperare la molteplicità degli aspetti della realtà nella loro interconnessione ed il richiamo con il sovrannaturale. Qui la sostanza delle cose si manifesta nella propria immediatezza in miti, immagini e rituali, sottolineando la propria misteriosa complessità attraverso continui rimandi tra divinità o tra immagini mitiche a loro volta connesse con l’uomo. Le divinità più antiche sovente lasciavano spazio a quelle più recenti, rimanendo inattive/”otiosae”, senza però perdere la propria specificità divina. E’ il caso di Saturno, Gea, Quirino, solo per citare alcune tra le innumerevoli figure divine accomunate da questo singolare status.
Il sistema politeista tende quindi all’adorazione del divino, attraverso le sue trasfigurazioni o “ierofanie” negli infiniti aspetti di una realtà spesso ambivalente e contraddittoria, arrivando di conseguenza all’adorazione della realtà stessa. Alla base di questo stato di cose, sta l’immediatezza della percezione dell’essenza della realtà e della propria totale osmosi con essa che caratterizzava l’uomo dell’antichità, grazie al continuo dialogo con la dimensione del sovrannaturale, garantito dall’impostazione di pensiero tradizionale.
Tale percezione aumenta con il retrocedere nel tempo, come testimoniato da quelle forme di religiosità chiamate “animiste” e caratterizzate da una spontanea e multiforme presenza di spiriti o “anime”che, coincidenti con i vari aspetti della realtà presi in esame, finiscono con il conferire vita autonoma e divina a tali aspetti. Il mito stesso, con il proprio atemporale districarsi di vicende, ricopre la funzione di ricordare tale immediatezza nei rapporti uomo-sovrannaturale. La vetusta prospettiva evoluzionista che vedeva nelle forme di religiosità tribali e più arcaiche il frutto di involute modalità di pensiero, così come prospettato da Tylor, Frazer e con lo stesso tema freudiano del totemismo, risulta oggi per lo più superata. A partire dall’irrompere della prospettiva “culturalista” di Frobenius per l’antropologia, da una parte, della psicologia analitica junghiana e della filosofia esistenzialista degli Heidegger e degli Jaspers, dall’altra, vi è stato un autentico rivolgimento delle prospettive. La pretesa arcaicità di talune culture potrebbe invece esser rivelatrice di quella immediatezza di relazioni di cui abbiamo poc’anzi parlato, espressa da quel sentimento estatico di oceanica appartenenza ad un tutto. Potremmo addirittura affermare che lo stadio di primigenia animalità della razza umana nei suoi stadi precedenti all’ ominazione, sia invece il momento più completo di quanto sin qui descritto. E qui arriviamo al punto focale dell’intera questione.
Con l’andare del tempo, con lo svilupparsi della coscienza, si va perdendo quella immediatezza di rapporti con il divino e quindi con il senso più recondito della realtà. La cristallizzazione in un rituale, la rappresentazione mitica, prima orale poi scritta, rappresentano un primo, tangibile segnale di questa inarrestabile china. Se gli antichi avevano una maggior possibilità di relazionarsi direttamente con il sovrannaturale, tale prospettiva va completamente perduta con l’arrivo delle religioni rivelate e del monoteismo. Qui la manifestazione del divino è mediata da un uomo, la cui presenza sta lì a ricordare, rammemorare, l’esistenza di un dimensione “altra” attraverso la propria parola e sinanche azione, volta a rievocare ciò che è da secoli divenuto oramai invisibile e, per ciò stesso, opinabile e soggetto quindi alla corrosiva azione della “doxa/opinione”.
Una sola realtà un solo dio, ma anche un solo modello di sviluppo politico prima, economico dopo. E’ l’asfissiante globalizzazione che oggi tutto svilisce ed appiattisce, nel proprio impeto di universale mercificazione di uomini, cose e valori.
Ma la nostra splendida penisola, sebbene vilipesa da alluvioni, mondezza e cementificazioni, è ancora lì, con la sua natura, i suoi santuari, i suoi resti senza tempo, le sue dee, ad illuminarci ancora una volta la strada ed a mostrarci quelle radici, quell’eterno Archetipo da cui poter far ripartire il motore di una Storia, che non ha mai smesso e mai smetterà di stupire.


11 Novembre 2011 12:00:00 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=11458

jeudi, 27 octobre 2011

L'importance des études indo-européennes par Jean Haudry

L'importance des études indo-européennes par Jean Haudry

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mercredi, 26 octobre 2011

La notion de tradition indo-européenne par Jean Haudry

La notion de tradition indo-européenne par Jean Haudry


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dimanche, 23 octobre 2011

Les rites d'initiation germaniques

 

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Les rites d'initiation germaniques

L'une des pratiques créatrices de société, les rites d'initiation destinés à faire entrer les jeunes dans la société des adultes, eut une très longue postérité en Europe : la chevalerie.
Le Beowulf donne des exemples de jeunes guerriers, porte-main du héros, de jeunes garçons livrés au seigneur par leurs parents. Les garçons sont nourris au sein jusqu'à l'âge de 3 ans, puis sevrés et laissés aux soins des femmes jusqu'à l'âge de 7 ans. Ils sont alors confiés à un père adoptif (fosterfaeder, “père efforceur”). En général, il est de la parenté de la mère, souvent son frère aîné, donc l'oncle maternel comme nous l'avons dit. Le fosterage consiste à éduquer un jeune de 7 à 14 ans, ce qui ne devait pas aller sans peine ; sinon, pourquoi le père adoptif eût-il été qualifié d'efforceur ? Parfois le jeune part en voyage. Sa formation achevée, a lieu la cérémonie de la taille de la première barbe ou de la chevelure. Pépin le Bref se vit ainsi couper les cheveux par le roi Liutprand vers 730 (Paul Diacre, HL, I, 23-24 et VI, 53). Reste l'affrontement avec le père adoubeur pour être un guerrier parfait. Là aussi, à 14 ans, âge de la majorité chez tous les rois francs et leurs successeurs, le passage vers l'homme accompli, le guerrier, est capital.
 
Le cérémonial existait dès l'époque mérovingienne, mais nous n'en avons de preuve certaine qu'avec Louis le Pieux. En 792, âgé de 14 ans, il est “ceint par l'épée” à Ratisbonne par son père Charlemagne, car il est “devenu adolescent”. En septembre 838, Charles le Chauve, âgé de 15 ans, reçoit arma et corona, c'est-à-dire l'épée avec le ceinturon et le baudrier, insignes de sa fonction (militia). En 841, le samedi Saint, Charles, après avoir pris un bain avec ses compagnons, voit arriver ses émissaires venus d'Aquitaine avec des vêtements neufs, une couronne, etc. C'est le plus ancien exemple d'adoubement chevaleresque que nous connaissions. Il eut lieu symboliquement le jour de pâques. D'ailleurs, à partir de 850, le mot latin caballarius ne signifie pas seulement “homme à cheval”, mais désigne un homme de la suite de tel ou tel grand personnage et prend le sens de “chevalier”.
 
 
Raban Maur précise : “On peut faire un cavalier avec un jeune garçon mais rarement avec un plus âgé.” La cavalerie a pris alors une importance décisive. “Aujourd'hui, les jeunes sont élevés dans les maisons des grands, écrit-il encore. Sauter sur le dos d'un cheval est un exercice qui fleurit spécialement chez les peuples francs.” Cela est vrai aussi dans le Midi romain, puisque Géraud d'Aurillac fait de même dans sa jeunesse. Nithard, fils illégitime d'une fille de Charlemagne, Berthe, historien laïc de grande précision, introduit dans ses écrits des années 841-843 des allusions continuelles aux armes et aux chevaux, aux jeux d'entraînement entre cavaliers expérimentés de haute noblesse saxons, gascons, austrasiens et bretons. Il insiste sur l'enracinement régional de la noblesse et sur ses idéaux : mourir dignement plutôt que trahir, rester solidaires entre frères et fidèle au seigneur jusqu'à la mort. Notker de Saint-Gall raconte, vers 885, l'histoire d'un jeune évêque récemment ordonné qui, au lieu de monter à cheval avec des étriers, un progrès récent qui donnait plus de dignité au cavalier, préféra sauter sur la croupe du destrier… ce dont Charlemagne, heureux d'avoir dans sa suite un homme que n'embarrassait pas son statut clérical, le félicita.
 
 
Initiation laïque et germanique, l'adoubement allait dans la perspective d'une violence guerrière déchaînée. Dubban, en vieil-haut-allemand, qui a donné “adoubement”, signifie “frapper”. En effet, le “vieux”, parrain du pied tendre, le faisait mettre à genoux et lui flanquait un grand coup de poing dans l'épaule pour voir s'il tiendrait le choc. Mais la christianisation du rite était déjà en route. En droit canon, le coupable d'un meurtre est privé de ses armes et ne peut plus monter à cheval. Halitgaire, évêque de Cambrai, introduit une distinction entre tuer à la guerre, ce qui est un péché nécessitant trois semaines de jeûne, et tuer dans une bataille soit pour se défendre, soit pour défendre sa parentèle ; dans ce cas, tuer est un péché sans pénitence. Après la bataille de Fontenay en 841, les évêques se réunirent et proclamèrent un jeûne de trois jours pour expier les morts de ce terrible combat dû à une guerre fratricide. En sens inverse, des chevaliers deviennent des soldats du Christ contre les Sarrasins et les païens (chapitre VIII). L'épopée du Ludwigslied, rédigée à chaud en vieil-haut-allemand le soir de la victoire de Louis III à Saucourt-en-Vimeu, confirme cet idéal et contient une oratio super militantes, prière pour les soldats, qui constitue la première manifestation d'une liturgie chevaleresque. Ainsi, à la fin du IXe siècle, la chevalerie était déjà un statut social. Le guerrier à cheval faisait preuve d'un entraînement professionnel d'adulte confirmé et chrétiennement légitimé.
 
 
Michel ROUCHE

samedi, 15 octobre 2011

Tacitus’ Germania

Tacitus’ Germania

By Andrew Hamilton

Ex: http://www.counter-currents.com/

Tacitus’ Germania, a short monograph on German ethnography written c. 98 AD, is of great historical significance. The transmission of the text to the present day, and certain adventures and tensions surrounding it, make for an interesting story.

Roman historian and aristocrat Cornelius Tacitus (c. 55–c. 117 AD) was the author of several works, more than half of which have been lost. What remains of his writings are divided into the so-called “major [long] works,” the Histories [2] and the Annals [2], jointly covering the period 14–96 AD, and the “minor [short] works”: The Dialogue on Orators, Agricola, [3]and [3] Germania [3]. Tacitus, a senator, is believed to have held the offices of quaestor in 79, praetor in 88, consul in 97, and proconsul or governor of the Roman provinces in “Asia” (western Turkey), from 112–13.

The Germania is a short work, not really a “book.” My copy, “Germany and Its Tribes,” is a mere 23 pages long—albeit in moderately small wartime print on thin paper containing no notes, annotations, maps, illustrations, or other editorial aids. It was translated from the Latin by Alfred Church and William Brodribb in 1876 and published in The Complete Work of Tacitus by Random House’s Modern Library in 1942.

The Agricola, about Roman Britain, is roughly the same length. Agricola, the general primarily responsible for the Roman conquest of Britain and governor of Britannia from 77–85 AD, was Tacitus’ father-in-law.

The Germania has been the most influential source for the early Germanic peoples since the Renaissance. Its reliable account of their ethnography, culture, institutions, and geography is the most thorough that has survived from ancient times, and to this day remains the preeminent classical text on the subject. The book signifies the emergence of the northern Europeans from the obscurity of archaeology, philology, and prehistory into the light of history half a millennium after the emergence of the southern Europeans in Homer and Herodotus.

Though Tacitus at times writes critically of the Germans, he also stresses their simplicity, bravery, honor, fidelity, and other virtues in contrast to corrupt Roman imperial society, fallen from the vigor of the Republic. (It has been said that no one in Tacitus is good except Agricola and the Germans.)

Tacitus’ book is based upon contemporaneous oral and written accounts. During the period knowledge of northern Europe increased rapidly. Roman commanders produced unpublished memoirs of their campaigns along the lines of Caesar’s Commentaries, which circulated in Roman literary circles. Diplomatic exchanges between Rome and Germanic tribes brought German leaders to Rome and Roman emissaries to barbarian courts. And Roman traders expanded traffic with the barbarians, generating, perhaps, more knowledge than the military men.

According to Jewish classicist Moses Hadas, Tacitus “never consciously sacrifices historical truth. He consulted good sources, memoirs, biographies, and official records, and he frequently implies that he had more than one source before him. He requested information of those in a position to know” and “exercises critical judgment.”

Other Ancient Accounts of the Germans

Prior to Tacitus’ narrative, a Syrian-born Hellenistic Greek polymath of the first century BC, Poseidonius, may have been the first to distinguish clearly between the Germans and the Celts, but only fragments of his writings survive.

Julius Caesar did not penetrate very far east of the Rhine, so his knowledge of the Germans, expressed in De Bello Gallico (On the Gallic War, c. 50 BC), was limited.

The Roman Pliny the Elder’s Bella Germaniae (German Wars, c. 60s–70s AD) probably contained the fullest account of the people up to Tacitus’ time, but it has been lost.

Pliny, the foremost authority on science in ancient Europe, had served in the army in Germany. When Mount Vesuvius destroyed Herculaneum and Pompeii, he was stationed near present-day Naples, in command of the western Roman fleet. Eager to study the volcano’s destructive effects firsthand, he sailed across the bay, where he was suffocated by vapors caused by the eruption.

Following the Germania, the most important ancient work discussing northern Europe was Ptolemy’s Geography, written in the 2nd century AD. Ptolemy is the Alexandrian astronomer best-known for positing the Ptolemaic System. The Geography named 69 tribes and 95 places, many mentioned by no other source, as well as major rivers and other natural features.

From late antiquity, no extensive study of the Germanic peoples has survived, if one was ever written, and no single writer treated the migrations in a coherent way.

Loss and Rediscovery

At some point during the collapse of classical civilization and the migrations of late antiquity the text of the Germania was lost for more than a thousand years. It resurfaced only briefly, in Fulda, Germany in the 860s, where it and the other short works were probably copied. A monk at Fulda quoted from it verbatim at the time. Subsequently it was lost again.

In 1425 rumors reached Italy that manuscripts of Tacitus survived in the library of Hersfeld Abbey near Fulda. One of these contained the shorter works. In 1451 or 1455 (sources differ) an emissary of Pope Nicholas V obtained the manuscript containing the lesser works and brought it to Rome. It is known as the Codex Hersfeldensis.

In Rome, Enea Silvio Piccolomini, later Pope Pius II, examined and analyzed the Germania, sparking interest in the work among German humanists, including Conrad Celtes, Johannes Aventinus, and Ulrich von Hutten.

Its first publication in central Europe occurred at Nuremberg in 1473–74; the first commentary on the text was written by Renaissance humanist Beatus Rhenanus in 1519.

[4]

The first page of Germania, the Codex Aesinas

The Codex Hersfeldensis was then lost again for half a millennium. (This time, of course, the content survived in published form.) Then, in 1902, a portion of the Codex Hersfeldensis was rediscovered by priest-philologist Cesare Annibaldi in the possession of Italian Count Aurelio Balleani of Iesi (Italian: Jesi), a town located in the Marches of central Italy. The manuscript had been in the family’s possession since 1457. This single text, the oldest extant version, became known as the Codex Aesinas. (I.e., the Aesinas is believed to consist of portions of the lost manuscript from Hersfeld.

One scholar has summarized the tremendous impact the text’s rediscovery in 1455 has had on European history:

The rediscovery of the Germania in the late fifteenth century was a decisive event in the study of the ancient Germanic peoples. Renaissance scholarship endowed Roman literary texts with outstanding authority, as well as making them more widely available. At the same time, a rise in German national feeling led to heightened interest in ancient texts which illuminated the Germanic past. . . . The Germania . . . was used to cement a link between the Germans of Tacitus and the Germans of the early modern period. From about 1500 onward the Germania was rarely far from serious discussion of German national identity, German history and even German religion. Fresh impetus was given to it in the nineteenth century and, of course, the racial purity, valour and integrity of the Germans as portrayed by Tacitus had immense appeal to the National Socialist hierarchy in the 1920s and 1930s. (Malcolm Todd, The Early Germans, 2d ed., Oxford: Blackwell, 2004, p. 7)

Among others, the Germania influenced Frederick the Great, Johann Fichte, Johann Gottfried von Herder [5], and Jakob Grimm.

Key to the rediscovery, preservation, transmission, and social and racial influence of the Germania over the past 500 years have been Renaissance humanism, modern (pre-21st century) scholarship, the invention of printing, liberalism, nationalism, and racial science.

A Dangerous Book

Since the Renaissance, the Germania has provided the most significant historical evidence of the early Germanic peoples.

The inevitable identification of the ancient Germans with their descendants commenced soon after the book’s discovery. Historians, philologists, and archaeologists all added pieces to the mosaic, so that by the time unification occurred in 1871 the early history of the Germans was firmly grounded.

The Germania influenced at least one 20th century leader decisively. Young Heinrich Himmler in September 1924 read Tacitus during a train ride and was captivated. At the time he was personal assistant to Gregor Strasser, leader of the National Socialist Freedom Movement (Nationalsozialistische Freiheitsbewegung).

In contemporaneous notes, Himmler wrote that Tacitus captured “the glorious image of the loftiness, purity, and nobleness of our ancestors,” adding, “Thus shall we be again, or at least some among us.”

In 1936, the year of the Berlin Olympics, Hitler personally requested of Mussolini that possession of the Codex Aesinas be transferred to Germany. Mussolini agreed, but changed his mind when the proposition turned out to be unpopular among his people.

A facsimile copy was made for the Germans and Rudolph Till, chairman of the Department of Classical Philology and Historical Studies at the University of Munich, and a member of the Ahnenerbe (a racial think tank co-founded by Heinrich Himmler in 1935), studied the manuscript in Rome in the months prior to the war. The Ahnenerbe published Till’s findings as Palaeographical Studies of Tacitus’s Agricola and Germania Along with a Photocopy of the Codex Aesinas in 1943.

German ideologist Alfred Rosenberg [6] and SS chief Heinrich Himmler both retained intense interest in the Codex. Mussolini’s government fell in 1943. In July 1944 Himmler dispatched an SS commando team to rescue the manuscript. The unit searched three Balleani family residences in Italy without success.

The Codex was in fact stored in a wooden trunk bound with tin in the kitchen cellar of one of the residences, the Palazzo on the Piazza in Jesi. (There is a 1998 online newspaper account in German [7] about this affair that relies upon Jewish writer Simon Schama’s 1996 Landscape and Memory for its authority.)

[8]

Palazzo Balleani in Jesi

The upshot was that possession of the manuscript remained in the hands of the Baldeschi-Balleani [9] family. After the war the family stored the Codex Aesinas in a safe deposit box in the basement of the Banco di Sicilia in Florence, Italy. In November 1966, the River Arno experienced its worst flooding [10] since the 1550s, causing damage to the Codex. Monks at a monastery near Rome skilled in preserving manuscripts succeeded in saving it, though permanent water damage could not be eliminated.

The Codex was sold by the family to the Biblioteca Nazionale in Rome in 1994, where it is currently cataloged as the Codex Vittorio Emanuele 1631.

Suppress That Classic!

Since WWII, as ideological imperatives took precedence over dispassionate scholarship, the Germania‘s capacity to instill self-awareness and collective identity has deeply disturbed proponents of anti-white policies and ideologies. The historical record is problematic, too, in not depicting the Germans as irredeemably evil, possibly scheming, say, to vaporize the extensive Jewish populations of Rome and Persia in clay kilns.

One feint such ideologues employ is to insinuate that ancient Germans and modern northern Europeans possess no biological or historical kinship. Though nonsensical, it is as easy to argue as is the assertion that biological race does not exist, or dozens of other counter-factual dogmas.

But many would no doubt prefer to ban the book Communist-style, removing all copies from circulation and restricting access to unpulped copies to a handful of approved “scholars” on a carefully monitored basis.

As long ago as 1954 Jewish historian Arnaldo Momigliano declared before “an important international classical conference” that the Germania was one of the most dangerous books ever written. (In 1938 Momigliano lost his job as professor of Roman history at the University of Turin after passage of the Fascist racial law. He moved to England, where he taught for the rest of his life.)

Today, Harvard University’s Christopher Krebs, author of A Most Dangerous Book: Tacitus’s Germania From the Roman Empire to the Third Reich (2011), trumpets Momigliano’s view [11] of the ancient text’s “insidious” nature to the applause of academic peers, literary critics, and journalists.

Krebs’ insincere declaration—gambit, really—that “Tacitus did not write a most dangerous book, his readers made it so,” doesn’t fool anyone. In societies committed to the proposition that speech and ideas constitute “hate,” there is unanimous, or at least undissenting, agreement on how to treat “dangerous” books and ideas.

In an interview, Krebs says that he is half German and half Swedish. But “Krebs” can be a Jewish name—e.g., biochemist Hans Krebs, formulator of the Krebs cycle. Scanning random passages from the book, it is hard to think that the author is not Jewish or part Jewish. If white, he has mastered their psychology to great profit.

Adam Kirsch, a Jewish book reviewer for Slate, the Washington Post-owned online magazine, quotes Krebs approvingly: “‘Ideas are viruses. They depend on minds as their hosts . . . The Germania virus . . . after 350 years of incubation . . . progressed to a systemic infection culminating in the major crisis of the twentieth century.’” (Yes, he means the “Holocaust.”) The title of Kirsch’s article is “Ideas Are Viruses [12].”

This is a characteristically Jewish, and totalitarian, way of thinking.

[13]

Adam Kirsch

Kirsch, a child of privilege, is the son of author, attorney, and newspaper columnist Jonathan Kirsch. A 1997 graduate of Harvard, Adam Kirsch writes regularly for Slate, The New Yorker, The Times Literary Supplement, and other magazines.

Wishing that the Germania had been lost during the Middle Ages, Kirsch concludes, “If the last surviving manuscript had been eaten by rats in a monk’s library a thousand years ago, the world might have been better off.”

Ah, liberal enlightenment! The world can never get enough of it.

 


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vendredi, 14 octobre 2011

L’Europe transfigurée de Raymond Abellio

L’Europe transfigurée de Raymond Abellio

par Daniel COLOGNE

assEurope.jpgEn 1978, l’éditorialiste du Figaro-Magazine constate la désuétude du clivage idéologique Droite-Gauche. Louis Pauwels appelle de ses vœux une « redistribution des cartes », une recomposition des familles de pensée selon des critères « métapolitiques ». Un de ces critères est la vision de l’histoire.

La même année, dans le sillage de son exact contemporain Mircea Eliade (1907 – 1986), Georges Soulès alias Raymond Abellio (1) observe que « les anciennes conceptions linéaires et progressistes de l’histoire font place à des conceptions cycliques » (2).

La représentation circulaire du mouvement historique se réfère à la géométrie plane. Du point de vue de la géométrie dans l’espace, c’est en toute rigueur la « sphéricité » qu’il convient d’opposer à la « linéarité » (p. 64).

Dans la vision abellienne de l’écoulement du devenir s’enchevêtrent deux spirales, l’une montante, l’autre descendante : « la double torsion du temps » (p. 342).

La spirale ascendante se caractérise par un passage de l’ampleur à l’intensité. L’intensification est synonyme de transfiguration. Elle est notamment illustrée, au VIe siècle av. J.C., par le prophétisme juif, auquel la « Latinité » sert de relais ultérieur. Abellio désigne les Latins comme les « successeurs des Juifs à l’extrême pointe de la fonction d’analyse » (p. 105), tout en plongeant les racines de sa réflexion philosophique dans le riche terreau de la pensée germanique : Maître Eckhart, Spinoza, Nietzsche, Husserl (3).

La « Latinité de Marie » (p. 340) appelle quelques réserves, même si les hauts lieux de culte de la Vierge s’échelonnent de Fatima à Banneux en passant par Lourdes et de Garabandal à Beauraing en passant par San Damiano. Il ne faut pas oublier Medzugorje ni Chestokowa, ni surtout l’importance de la mariologie dans toute l’Église orthodoxe d’Europe orientale.

On peut aussi regretter l’inachèvement d’une cyclologie sacramentale limitée au baptême et à la communion. Abellio allèche le lecteur en prétendant « fonder une symbolique historique des sacrements » (p. 13), mais elle reste malheureusement à l’état d’esquisse. Elle ouvre pourtant d’intéressantes perspectives. La décadence d’une civilisation pourrait correspondre au sacrement de l’extrême-onction, l’apogée de sa caste sacerdotale à celui de l’ordination.

Un ouvrage d’une rare densité

Assomption de l’Europe renferme 352 pages d’une rare densité. Un quart de siècle sépare la première mouture de la seconde édition. Celle-ci ne comporte cependant qu’onze notes infra-paginales. Il y est peu question de l’Islam, dont le réveil sonne un an plus tard avec la révolution iranienne (1979). Il était difficile à l’auteur de prévoir la décomposition du marxisme, dont il proclame la « perpétuité » (p. 261), la chute du Mur de Berlin et la réunification de l’Allemagne. Aussi cette dernière est-elle jugée politiquement « morte » (p. 7), au mieux « épuisée » (p. 9).

Plus clairvoyante s’avère la critique abellienne de l’américanisme et du soviétisme. L’un et l’autre sont renvoyés dos à dos comme de pitoyables dérives de théories économiques initialement européennes. L’Europe exporte vers l’Est « le socialisme libertaire et égalitaire » (p. 171) qui se « dénature » en « communisme dictatorial et niveleur » (p. 172). Elle propage vers l’Ouest « le capitalisme libéral et hiérarchisant » (p. 171) qui dévie « en productivisme monopoliste et planifié » (p. 172).

« Aux limites extrêmes de l’Ouest et de l’Est », Raymond Abellio discerne des « lieux d’évasion » (p. 187). La Californie et le Tibet sont comme des digues où « la vague d’activisme venue d’Europe » atteint son « maximum d’ampleur » (p. 145), se brise et épouse in fine un mouvement de « reflux » : le New Age et les révoltes étudiantes des années 60. Le Mai 68 de Paris est précédé par la contestation universitaire de Berkeley (1964). L’Europe tombe sous le charme d’un courant où se mêlent l’apologie de l’élan vital et l’éloge du lamaïsme d’Extrême-Asie (Ibid., note infra-paginale).

sem nome2.jpgMais remontons avec l’auteur à l’une des principales sources de « l’activisme européen » : la conquista des Amériques du Sud et centrale. Elle a vidé ces régions « de toute sève et de toute richesse pour en gorger l’Europe du moment, en sorte que les nations ibériques faillirent en mourir de pléthore et de paresse et furent même de ce fait écartées pour longtemps de l’activisme européen » (p. 233). A présent mûre pour un « futur engrossement » (p. 234), disponible pour accueillir une « migration du germe occidental » (p. 230), l’Amérique dite « latine » peut former avec l’Europe un des grands axes géopolitiques de demain, une sorte d’empire transocéanique reposant sur une puissante symbolique.

La direction Sud-Ouest correspond en effet à des moments clefs du cycle annuel et du cycle journalier. « Trois heures de l’après-midi », moment présumé de la Crucifixion de Jésus, « indique exactement l’heure du Sud-Ouest » (p. 232). Au cœur de l’été de l’hémisphère Nord, à mi-chemin entre le solstice de juin (Sud) et l’équinoxe de septembre (Ouest), dans le signe de feu du Lion que la tradition astrologique tient pour le domicile du Soleil, le calendrier festif catholique situe la Transfiguration (6 août) et l’Assomption (15 août). C’est un 6 août qu’explose la bombe atomique sur Hiroshima. L’humanité reçoit alors un « sacrement de sang » (p. 197).

Le destin spirituel de l’Europe

Dans ce genre d’évocation, l’écriture d’Abellio est saisie d’un lyrisme somptueux. « J’essaie d’imaginer ce que pourront être ces heures de la transfiguration, quand les guerriers se feront prêtres, et, n’ayant plus rien à défendre qui ne soit détruit, se découvriront les hommes les plus riches du monde » (p. 348, c’est nous qui soulignons).

Les Européens sont « des hommes qu’un siècle et demi de guerres a rejetés d’une aventure géante et pathétique » (p. 10). Quel destin leur convient-il ? Certes pas celui de « confédérés juridiques, bâtards de l’histoire » (Ibid.). Encore moins celui d’un pseudo-redressement qui se réduirait « à la réorganisation d’une maison de commerce mal tenue » (p. 11). Même « de l’Europe politique, il nous faut sortir » (p. 12), si la politique n’est plus que « dévergondage sentimental » de « boutiquiers » accoudés à leur « comptoir de chimères et de prébendes » (p. 11).

L’État de droit et l’économie de marché ne sont certes pas les apsides de « l’axe du bien », pour reprendre le sous-titre d’un livre récent. Une « politique de puissance » est-elle pour autant une judicieuse alternative ? L’auteur de cet ouvrage pense que non et estime opportun de rappeler que, pour l’Europe, « prendre conscience de son rôle sur la scène internationale » ne sera jamais « synonyme de projection de force ». L’actuelle Union européenne « a été fondée pour surmonter le jeu désastreux des politiques de puissance des États-nations. Elle ne pourrait donc pas, sans préjudice pour sa propre intégrité et pour la paix, mener à l’extérieur une politique contraire à sa nature même » (4).

La « nature » de l’Europe n’est ni marchande ni guerrière. L’Europe porte en elle le germe d’une révolution spirituelle, à condition de ne pas confondre la spiritualité avec le religieux ou le sacré. La nouvelle prêtrise évoquée par Abellio n’est pas un clergé de type médiéval ou une caste chamanique de mages ensorceleurs. C’est une aristocratie de savants dont la « longue mémoire » garantit la maîtrise de l’avenir, pour paraphraser Nietzsche. C’est une élite analogue à ces cosmographes chaldéens qui prétendaient détenir « des archives astrales s’étendant sur les 300.000 années écoulées » (p. 293).

L’Occident, devenir de l’Europe

Raymond Abellio nomme « Occident » ce germe spirituel enfermé au cœur de l’Europe. Dans l’acception abellienne du terme, l’Occident n’est donc nullement l’ensemble transatlantique euraméricain. Il ne s’identifie pas davantage à des États-Unis imbus de leur cocktail mercantiliste-belliciste, dont l’Europe devrait se distancier au nom du droit international ou de la primauté du spirituel. Pour Abellio, l’Europe doit devenir Occident pour se transfigurer. L’Occident, c’est l’Europe sublimée.

L’auteur d’Assomption de l’Europe avertit d’emblée : « Nous distinguerons fondamentalement l’Europe et l’Occident » (p. 29). Il confirme un peu plus loin : « L’Europe vit en mode d’ampleur, l’Occident en mode d’intensité » (p. 32). « Soumise au temps, c’est-à-dire à l’histoire », paraissant « fixe dans l’espace, c’est-à-dire dans la géographie » : telle est l’Europe. En revanche, l’Occident échappe au temps et à l’espace, il est méta-historique et méta-géographique, il est « mobile » et il « déplace son épicentre terrestre selon le mouvement d’avant-gardes civilisées » (p. 33). « Un jour l’Europe sera effacée des cartes, l’Occident vivra toujours » (Ibid.).

De préférence aux vocables « Orient » et « Occident » les dénominations « Est » et « Ouest » sont réservées au bloc communiste et aux États-Unis. Se référant aux travaux de l’astrologue André Barbault (5), Raymond Abellio écrit que « le couple Est-Ouest des U.S.A. et de Russie apparaît comme livré à la dialectique Uranus-Neptune » (p. 195). Certes, « les astrologues rattachent symboliquement Uranus aux U.S.A. » (Ibid., note infra-paginale) et à l’individualisme. Dans leur esprit, Uranus – « je cultive ma différence » – s’oppose à Neptune – « j’approfondis ma communion ». Pourtant, « ce fut toujours l’Est, le premier levé, qui défendit son originalité contre l’Ouest par des murailles de Chine ou des rideaux de fer » (p. 128). Derrière cette apparente contradiction se cache le secret de la « structure absolue » et une des clefs de la vision abellienne de l’histoire.

sem nome1.jpgLa « structure absolue » est l’inversion d’inversion en tant que processus intensificateur. Les valeurs symboliques des découvertes d’Uranus (1781) et de Neptune (1846) résident dans leur respective coïncidence avec les révolutions libérales bourgeoises et l’éclosion des mouvements ouvriers. Invertissant l’Ancien Régime, l’individualisme uranien est à son tour inverti par le collectivisme neptunien. Mais ce dernier intensifie le facteur Uranus sous la forme du culte de la personnalité propre à tous les régimes totalitaires : Führer, « père des peuples », « grand timonier », autant de variétés de l’archétype du « chef oriental » (p. 154).

Le collectivisme neptunien englobe une part d’Uranus (le culte du chef) tout comme l’aspiration uranienne « à commencer orgueilleusement l’avenir sans passé » (p. 121) renferme une part de Neptune (dieu des océans), qui réside peut-être dans l’utopisme démocratique des thalassocraties de l’Ouest. A l’opposé de celui-ci, l’Est « n’aspire qu’à recommencer vainement le passé sans avenir » (Ibid.). Le « fatalisme » de l’Est entre ainsi en rapport dialectique avec l’« optimisme » de l’Ouest. L’optimisme de l’Ouest n’est toutefois que « méconnaissance de sa folie ». Chaque principe porte en lui son contraire, à la manière du vieux symbole chinois de la non-dualité où la moitié blanche du yang entoure un petit point noir et la moitié noire du yin un petit point blanc.

Décadence de l’astrologie

Raymond Abellio ne se fait aucune illusion quant à l’astrologie « banale » et « vulgaire » (p. 292), dont il stigmatise « la diffusion croissante et charlatanesque » (p. 293). Mais il n’est guère plus complaisant envers les « savants profanes » aux « conceptions causalistes » qui, ignorant « l’implication indéfinie des corrélations » (p. 193), isolent le drame humain du drame cosmique, avec lequel il est pourtant en constante interaction. Depuis l’édit de Colbert (1666) et le Diktat de Marie-Thérèse d’Autriche (1756) expulsant l’astrologie des universités européennes, il ne subsiste plus, de l’antique art de la Muse Uranie, qu’une dérisoire parodie (contre-tradition) tout aussi ridiculement vilipendée par une « science moderne » (anti-tradition) limitée « depuis trois siècles » à une « quantification des faits » (p. 59). Rejoignant le diagnostic de René Guénon (1886-1951), Raymond Abellio condamne les « sciences européennes en crise » à « l’apprentissage sans fin de la multiplicité » (p. 31). Il place dans l’Europe transfigurée, qu’il nomme « Occident », l’espoir de « l’expérience unique de l’infinité » (Ibid., c’est nous qui soulignons).

L’Europe transfigurée en Occident suppose une révolution au niveau de la vision du monde. À « la durée linéaire et univoque des causes et des fins particulières » doit se substituer « la permanence sphérique d’une interaction globale dépourvue de cause et de fin » (p. 31). Ainsi tout « problème géopolitique » devient « un problème des hauteurs célestes » (p. 192).

Mais ailleurs, Raymond Abellio confesse que « jamais les situations célestes ne sont répétitives » (p. 62). Chassée par le grand portail du palais de la pensée, la « ligne du temps » rentre subrepticement par la porte de service, et l’on comprend pourquoi elle hante l’inspiration des Prix Nobel (Ilya Prigogine) et des académiciens (Jean d’Ormesson). La vision abellienne du monde est in fine non-dualiste. Elle illustre le propos de Leibniz, cité par René Guénon (6) : « Tout système est vrai en ce qu’il affirme et faux en ce qu’il nie ». Ainsi se résume peut-être l’essence de l’esprit européen.

Daniel Cologne

Notes

1 : Né à Toulouse en 1907, mort à Nice en 1986, Raymond Abellio est principalement connu pour son essai La Structure absolue, Paris, Gallimard, 1965.

2 : Assomption de l’Europe, Paris, Flammarion, 1978, p. 176. Toutes les citations suivies d’un numéro de page sont extraites de ce livre.

3 : Le Je transcendantal d’Edmund Husserl (1859-1938) est l’exemple – type d’intensification abellienne par rapport au Moi ordinaire.

4 : Louis Michel, Horizons. L’axe du bien, Bruxelles, Éditions Luc Pire, 2004, p. 72.

5 : André Barbault (né en 1920) a publié récemment un ouvrage de synthèse : Introduction à l’astrologie mondiale, Monaco, Éditions du Rocher, 2004.

6 : Le Règne de la Quantité et les Signes des Temps, Paris, Gallimard, 1970.


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mardi, 11 octobre 2011

Julius Evola’s Concept of Race: A Racism of Three Degrees

Julius Evola’s Concept of Race: A Racism of Three Degrees

By Michael Bell

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COP_ORI_005.jpgSince the rise of physical anthropology, the definition of the term “race” has undergone several changes. In 1899, William Z. Ripley stated that, “Race, properly speaking, is responsible only for those peculiarities, mental or bodily, which are transmitted with constancy along the lines of direct physical descent.” 1 In 1916, Madison Grant described it as the “immutability of somatological or bodily characters, with which is closely associated the immutability of physical predispositions and impulses.”2 He was echoed a decade later by German anthropologist Hans F.K. Gunther, who in his Racial Elements of European History said, “A race shows itself in a human group which is marked off from every other human group through its own proper combination of bodily and mental characteristics, and in turn produces only its like.”3 According to the English-born Canadian evolutionary psychologist J. Philippe Rushton:

Each race (or variety) is characterized by a more or less distinct combination of inherited morphological, behavioral, physiological traits . . . Formation of a new race takes place when, over several generations, individuals in one group reproduce more frequently among themselves than they do with individuals in other groups. This process is most apparent when the individuals live in diverse geographic areas and therefore evolve unique, recognizable adaptations (such as skin color) that are advantageous in their specific environments.4

These examples indicate that, within the academic context (where those who still believe in “race” are fighting a losing battle with the hierophants of cultural anthropology), a race is simply a human group with distinct common physical and mental traits that are inherited.

Among white racialists, where race has more than a merely scientific importance, a deeper dimension was added to the concept: that of the spirit. In The Decline of the West, Oswald Spengler set forth the idea of the Apollinian, Faustian, and Magian “soul forms,” which can be understood as spiritual racial types.5 In this highly influential Spenglerian tome Imperium, Francis Parker Yockey elaborated this notion, asserting that while there are genetically related individuals within any particular human group, race itself is spiritual: it is a deeply felt sense of identity connected with a drive to perpetuate not just genes, but a whole way of life. “Race impels toward self-preservation, continuance of the cycle of generations, increase of power.”6 Spiritual race is a drive toward a collective destiny.

The spiritual side of race, however, was never systematically explained to the same extent as the physical. Its existence was, rather, merely suggested and taken for granted. It was only in the writings of the much overlooked Italian Radical Traditionalist and esotericist Julius Evola that the spiritual dimension was finally articulated in detail. One who has studied race from the biological, psychological, and social perspectives should turn to Evola’s writings for a culminating lesson on the subject. Evola’s writings provide a wealth of information that one cannot get elsewhere. Through a careful analysis of ancient literature and myths, along with anthropology, biology, history, and related subjects, Evola has pieced together a comprehensive explanation of the racial spirit.

My purpose here is simply to outline Evola’s doctrine of race. Since Evola’s life and career have been thoroughly examined elsewhere,7 the only biographical fact relevant here is that Evola’s thoughts on race were officially adopted as policy by Mussolini’s Fascist Party in 1942.8

Body and Mind

Evola’s precise definition of “race” is similar to Yockey’s: it is an inner essence that a person must “have”; this will be explained further below. In the meantime, a good starting point is Evola’s understanding of distinct human groups.

Evola agrees with the physical anthropologists that there are distinct groups with common physical traits produced by a common genotype: “the external form . . . which, from birth to birth, derives from the ‘gene’ . . . is called phenotype.”9 He refers to these groups as “races of the body,” and concurs with Gunther that suitable examples include the Nordic, Mediterranean, East Baltic, Orientalid, Negroid, and many others.10

Evola describes the “race of the soul” as the collective mental and behavioral traits of a human stock, and the outward “style” through which these are exhibited. Every race has essentially the same mental predispositions; all human peoples, for example, desire sexual satisfaction from a mate. However, each human stock manifests these inner instincts externally in a different way, and it is this “style,” as Evola terms it, which is the key component of the “race of the soul.”

To illustrate this point, compare the Spartan strategos (Nordic soul) to the Carthaginian shofet (Levantine soul)11: the Spartan considers it heroic to fight hand-to-hand with shield and spear and cowardly to attack from a distance with projectiles, whereas the Carthaginian finds it natural to employ elephants and grand siege equipment to utterly shock and scatter his enemies for an expedient victory.

The names of these races of the soul correspond to those of the body, hence a Nordic soul, a Mediterranean soul, Levantine soul, etc. Evola devotes an entire chapter in Men Among the Ruins to comparing the “Nordic” or “Aryo-Roman” soul to the “Mediterranean.” The Nordic soul is that of “‘the race of active man,’ of the man who feels that the world is presented to him as material for possession and attack.”12 It is the character of the quintessential “strong and silent type”:

Among them we should include self-control, an enlightened boldness, a concise speech and determined and coherent conduct, and a cold dominating attitude, exempt from personalism and vanity . . . The same style is characterized by deliberate actions, without grand gestures; a realism that is not materialism, but rather love for the essential . . . the readiness to unite, as free human beings and without losing one’s identity, in view of a higher goal or for an idea.13

Evola also quotes Helmuth Graf von Moltke (the Elder) on the Nordic ethos: “Talk little, do much, and be more than you appear to be.”14

The Mediterranean soul is the antithesis of the Nordic. This sort of person is a vain, noisy show-off who does things just to be noticed. Such a person might even do great deeds sometimes, but they are not done primarily for their positive value, but merely to draw attention. In addition, the Mediterranean makes sexuality the focal point of his existence.15 The resemblance of this picture to the average narcissistic, sex- and celebrity-obsessed American of today – whether genetically Nordic or Mediterranean – is striking. One need only watch American Idol or browse through the profiles of Myspace.com to see this.

Race of the Spirit

The deepest and therefore most complicated aspect of race for Evola is that of the “spirit.” He defines it as a human stock’s “varying attitude towards the spiritual, supra-human, and divine world, as expressed in the form of speculative systems, myths, and symbols, and the diversity of religious experience itself.”16 In other words, it is the manner in which different peoples interact with the gods as conveyed through their cultures; a “culture” would include rituals, temple architecture, the role of a priesthood (or complete lack thereof), social hierarchy, the status of women, religious symbolism, sexuality, art, etc. This culture, or worldview, is not simply the product of sociological causes, however. It is the product of something innate within a stock, a “meta-biological force, which conditions both the physical and the psychical structures” of its individual members.17

The “meta-biological force” in question has two different forms. The first corresponds to an id or a collective unconscious, a son of group mind-spirit that splinters off into individual spirits and enters a group member’s body upon birth. Evola describes it as “subpersonal” and belonging “to nature and the infernal world.”18 Most ancient peoples, as he explains, depicted this force symbolically in their myths and sagas; examples would include the animal totems of American aborigines, the ka of the Pharaonic Egyptians, or the lares of the Latin peoples. The “infernal” nature of the latter example was emphasized by the fact that the lares were believed to be ruled over by the underground deity named Mania.19 When a person died, this metaphysical element would be absorbed back into the collective from whence it came, only to be recycled into another body, but devoid of a recollection of its former life.

The second form, superior to the first, is one that does not exist in every stock naturally, or in every member of a given stock; it is an otherworldly force that must be drawn into the blood of a people through the practice of certain rites. This action corresponds to the Hindu notion of “realizing the Self,” or experiencing a oneness with the divine source of all existence and order (Brahman). Such a task can only be accomplished by a gifted few, who by making this divine connection undergo an inner transformation. They became aware of immutable principles, in the name of which they go on to forge their ethnic kin into holistic States – microcosmic versions of the transcendental principle of Order itself. Thus, the Brahmins and Kshatriyas of India, the patricians of Rome, and the samurai of Japan had a “race of the spirit,” which is essential to “having race” itself. Others may have the races of body and soul, but race of the spirit is race par excellence.

Transcendence is experienced differently by different ethnic groups. As a result, different understandings of the immutable arise across the world; from these differences emerge several “races of the spirit.” Evola focuses on two in particular. The first is the “telluric spirit” characterized by a deep “connection to the soul.” This race worships the Earth in its various cultural manifestations (Cybele, Gaia, Magna Mater, Ishtar, Inanna, etc.) and a consort of “demons.” Their view of the afterlife is fatalistic: the individual spirit is spawned from the Earth and the returns to the Earth, or to the infernal realm of Mania, upon death, with no possibility.20 Their society is matriarchal, with men often taking the last names of their mothers and familial descent being traced through the mother. In addition, women often serve as high priestesses. The priesthood, in fact, is given preeminence, whereas the aristocratic warrior element is subordinated, if it exists at all.

This race has had representatives in all the lands of Europe, Asia, and Africa that were first populated by pre-Aryans: the Iberians, Etruscans, Pelasgic-Minoans, Phoenicians, the Indus Valley peoples, and all others of Mediterranean, Oriental, and Negroid origin. The invasions of Aryan stock would introduce to these peoples a diametrically opposed racial spirit: the “Solar” or “Olympian” race.

The latter race worships the heavenly god of Order, manifested as Brahman, Ahura-Mazda, Tuisto (the antecedent of Odin), Chronos, Saturn, and the various sun deities from America to Japan. Its method of worship is not the self-prostration and humility practiced by Semites, or the ecstatic orgies of Mediterraneans, but heroic action (for the warriors) and meditative contemplation (for the priests), both of which establish a direct link with the divine. Olympian societies are hierarchical, with a priestly caste at the top, followed by a warrior caste, then a caste of tradesmen, and finally a laboring caste. The ruler himself assumes the dual role of priest and warrior, which demonstrates that the priesthood did not occupy the helm of society as they did among telluric peoples. Finally, the afterlife was not seen as an inescapable dissolution into nothingness, but as one of two potential conclusions of a test. Those who live according to the principles of their caste, without straying totally from the path, and who come to “realize the Self,” experience a oneness with God and enter a heavenly realm that is beyond death. Those who live a worthless, restless existence that places all emphasis on material and physical things, without ever realizing the presence of the divine Self within all life,, undergoes the “second death,”21 or the return to the collective racial mind-spirit mentioned earlier.

The Olympian race has appeared throughout history in the following forms: in America as the Incas; in Europe and Asia as the Indo-European speaking peoples; in Africa as the Egyptians, and in the Far East as the Japanese. Generally, this race of the spirit has been carried by waves of phenotypically Nordic peoples, which will be explained further below.

Racial Genesis

Of considerable importance to Evola’s racial worldview is his explanation of human history. Contrary to the views of most physical anthropologists and archaeologists, and even many intellectual white racialists, humanity did not evolve from a primitive, simian ancestor, and then branch off into different genetic populations. Evolution itself is a fallacy to Evola, who believed it to be rooted in the equally false ideology of progressivism: “We do not believe that man is derived from the ape by evolution. We belive that the ape is derived from man by involution. We agree with De Maistre that savage peoples are not primitive peoples, but rather the degenerating remnants of more ancient races that have disappeared.22

Evola argues in many of his works, like Bal Ganghadar Tilak and Rene Guenon before him, that the Aryan peoples of the world descend from a race that once inhabited the Arctic. In “distant prehistory” this land was the seat of a super-civilization – “super” not for its material attainments, but for its connection to the gods – that has been remembered by various peoples as Hyperborea, Airyana-Vaego, Mount Meru, Tullan, Eden, and other labels; Evola uses the Hellenic rendition “Hyperborea” more than the rest, probably to remain consistent and avoid confusion among his readers. The Hyperboreans themselves, as he explains, were the original bearers of the Olympian racial spirit.

Due to a horrific cataclysm, the primordial seat was destroyed, and the Hyperboreans were forced to migrate. A heavy concentration of refugees ended up at a now lost continent somewhere in the Atlantic, where they established a new civilization that corresponded to the “Atlantis” of Plato and the “Western land” of the Celts and other peoples. History repeated itself, and ultimately this seat was also destroyed, sending forth and Eastward-Westward wave of migrants. As Evola notes, this particular wave “[corresponded[ to Cro-Magnon man, who made his appearance toward the end of the glacial age in the Western part of Europe,"23 thus leading some historical evidence to his account. This "pure Aryan" stock would ultimately become the proto-Nordic race of Europe, which would then locally evolve into the multitude of Nordic stocks who traveled across the world and founded the grandest civilizations, from Incan Peru to Shintoist Japan.

Evola spends less time tracing the genesis of nonwhite peoples, which he consistently refers to as "autochthonous," "bestial," and "Southern" races." In his seminal work Revolt Against the Modern World, he says that the "proto-Mongoloid and Negroid races ... probably represented the last residues of the inhabitants of a second prehistoric continent, now lost, which was located in the South, and which some designated as Lemuria."24 In contrast to the superior Nordic-Olympians, these stocks were telluric worshippers of the Earth and its elemental demons. Semites and other mixed races, Evola asserts, are the products of miscegenation between Atlantean settlers and these Lemurian races. Civilizations such as those of the pre-Hellenes, Mohenjo-Daro, pre-dynastic Egyptians, and Phoenicians, among countless others, were founded by mixed peoples.

Racialism in Practice

Racialist movements from National Socialist Germany to contemporary America have tended to emphasize preserving physical racial types. While phenotypes were important to Evola, his foremost goal for racialism was to safeguard the Olympian racial spirit of European man. It was from this spirit that the greatest Indo-European civilizations received the source of their leadership, the principles around which they centered their lives, and thus the wellspring of their vitality. While de Gobineau, Grant, and Hitler argued that blood purity was the determining factor in the life of a civilization, Evola contended that "Only when a civilization's 'spiritual race' is worn out or broken does its decline set in."25 Any people who manages to maintain a physical racial ideal with no inner spiritual substance is a race of "very beautiful animals destined to work,"26 but not destined to produce a higher civilization.

The importance of phenotypes is described thusly: "The physical from is the instrument, expression, and symbol of the psychic form."27 Evola felt that it would only be possible to discover the desired spiritual type (Olympian) through a systematic examination of physical types. Even to Evola, a Sicilian born, the best place to look in this regard was the "Aryan or Nordic-Aryan body"; as he mentions on several occasions, it was, after all, this race that carried the Olympian Tradition across the world. He called this process of physical selection "racism of the first degree," which was the first of three stages.

Once the proper Nordic phenotype was identified, various "appropriate" tests comprising racism of the second and third degrees would be implemented to determine a person's racial soul and spirit.28 Evola never laid out a specific program for this, but makes allusions in his works to assessments in which a person's political and racial opinions would be taken into account. In his Elements of Racial Education, he asserts that "The one who says yes to racism is one in which race still lives," and that one who has race is intrinsically against democratic ideals. He also likens true racism to the "classical spirit," which is rooted in "exaltation of everything which has form, face, and individuation, as opposed to what is formless, vague, and undifferentiated."29 Keep in mind that for Evola, "having race" is synonymous with having the "Olympian race" of the spirit. Upon discovering a mentality that fits the criteria for soul and spirit, a subsequent education of "appropriate disciplines" would be carried out to ensure that the racial spirit within this person is "maintained and developed." Through such trials, conducted on a wide scale, a nation can determine those people within it who embody the racial ideal and the capacity for leadership.

Protecting and developing the Nordic-Olympians was primary for Evola, but his racialism had other goals. He sought to produce the "unified type," or a person in whom the races of body, soul, and spirit matched one another and worked together harmoniously. For example: "A soul which experiences the world as something before which it takes a stand actively, which regards the world as an object of attack and conquest, should have a face which reflects by determined and daring features this inner experience, a slim, tall, nervous, straight body - an Aryan or Nordic-Aryan body."30

This was because "it is not impossible that physical appearances peculiar to a given race may be accompanied by the psychic traits of a different race."31 To Evola, if people chose mates on the basis of physical features alone, there is a good chance that various mental and spiritual elements would become intermingled and generate a dangerous confusion; there would be Nordics with Semitic mental characteristics and Asiatic spiritual predispositions, Alpines with Nordic proclivities and fatalistic religious attitudes, and so on. Such a mixture was what Evola considered to be a mongrel type, in whom "cosmopolitan myths of equality" become manifested mentally, thus paving the way for the beasts of democracy and communism to permeate the nation and take hold.

Evola cared more about the aristocratic racial type, but he did not want the populace to become a bastardized mass: "We must commit ourselves to the task of applying to the nation as a whole the criteria of coherence and unity, of correspondence between outer and inner elements."32 If the aristocracy had as its subjects a blob of spiritless, internally broken people, the nation would have no hope. For the Fascist state, he promoted an educational campaign to ensure that the peoples of Italy selected their mates appropriately, looking for both appearances and behavior; non-Europeans would of course be excluded entirely. The school system would play its role, as would popular literature and films.33

Another way to develop the "inner race" is through combat. Not combat in the modern sense of pressing a button and instantly obliterating a hundred people, but combat as it unfolds in the trenches and on the battlefield, when it is man against man, as well as man against his inner demons. Evola writes, "the experience of war, and the instincts and currents of deep forces which emerge through such an experience, give the racial sense a right, fecund direction."34 Meanwhile, the comfortable bourgeois lifestyle and its pacifist worldview lead to the crippling of the inner race, which will ultimately become extinguished if external damage is thenceforth inflicted (via intermixing with inferior elements).

Conclusion

American racialists have much to gain from an introduction to Evola's thoughts on race. In the American context, racialism is virtually devoid of any higher, spiritual element; many racialists even take pride in this. There are, without a doubt, many racialists who consider themselves devout Catholics or Protestants, and they may even be so. However, the reality of race as a spiritual phenomenon is given little attention, if any at all. For whatever reason, American racialists are convinced that the greatness of Western civilization, evinced by its literature, architecture, discoveries, inventions, conquests, empires, political treatises, economic achievements, and the like, like solely in the mental characteristics of its people. For instance, the Romans erected the coliseum, the English invented capitalism, and the Greeks developed the Pythagorean theorem simply because they all had high IQs. When one compares the achievements of different Western peoples, and those of the West to the East, however, this explanation appears inadequate.

Intelligence alone cannot explain the different styles that are conveyed through the culture forms of different peoples; the Greeks' Corinthian order on the one hand, and the Arabs' mosques and minarets on the other, are not results of mere intellect. Sociological explanations do not work either; the Egyptians and Mayans lived in vastly different environments, yet both evoked their style through pyramids and hieroglyphs. The only explanation of these phenomena is that there is something deeper within a folk, something deeper and more powerful than bodily structures and mental predispositions. As Evola elucidates through his multitude of works - themselves the result of intense study of ancient and modern texts from every discipline imaginable - race has a "super-biological" aspect: a spiritual force. Ancient peoples understood this reality and conveyed it through their myths: the Romans used the lares; the Mayans used totemic animal symbols; the Persians used the fravashi, which were synonymous with the Nordic valkyries;35 the Egyptians used the ka; and the Hindus in the Bhagavad-Gita used Lord Krishna.

To better understand the spiritual side of race, the best place to look is Julius Evola. Through his works, which have greatly influenced the European New Right, Evola dissects and examines the concept of the Volksgeist, or racial spirit. It is the supernatural force that animates the bodies of a given race and stimulates the wiring in their brains. It is the substance from which cultures arise, and from which an aristocracy materializes to raise those cultures to higher civilizations. Without it, a race is simply a tribe of automatons that feed and copulate.

When the super biological element that is the center and the measure of true virility is lost, people can call themselves men, but in reality they are just eunuchs and their paternity simply reflects the quality of animals who, blinded by instinct, procreate randomly other animals, who in turn are mere vestiges of existence.36

Nowhere would Evola's racial ideas be more valuable than in the United States, a land in which the idea of transcendent realities is mocked, if not violently attacked. Even American racialists, who nostalgically look back to "better" times when people were more "traditional," are completely unaware of how the Aryan Tradition, in its purest form, understand the concept of race. Many of these people claim to be "Aryan" while simultaneously calling themselves "atheist" or "agnostic," although in ancient societies, one needed to practice the necessary religious rites and undergo certain trials before having the right to style oneself an Aryan. Hence the need for these "atheist Aryans" to become more familiar with Julius Evola.

Michael Bell writes about race and popular culture from a Radical Traditionalist point of view.

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[1] William Z. Ripley, The Races of Europe: A Sociological Study (New York: D. Appleton and Co., 1899), 1.
[2] Madison Grant, The Passing of the Great Race (North Stratford, NHL Ayer Company Publishers, Inc., 2000), xix.
[3] H.F.K. Gunther, The Racial Elements of European History, trans. G.C. Wheeler (Uckfield, Sussex, UK: Historical Review Press, 2007), 9.
[4] Philippe Rushton, “Statement on Race as a Biological Concept,” November 4, 1996, http://www.nationalistlibrary.com/index2.php?option=com_content&do_pdf=1&id=1354.
[5] Oswald Spengler, The Decline of the West, 2 vols, trans. Charles Francis Atkinson (New York: Knopf, 1926 & 1928), vol. 1, chs. 6 and 9; cf. vol. 2, ch. 5, “Cities and Peoples. (B) Peoples, races, Tongues.”
[6] Francis Parker Yockey, Imperium (Newport Beach, Cal.: Noontide Press, 2000), 293.
[7] See the Introduction to Julius Evola, Men Among the Ruins, trans. Guido Stucco, (Rochester, Vt.: Inner Traditions International, 2002).
[8] Evola, Men Among the Ruins, 48.
[9] Julius Evola, The Elements of Racial Education, trans. Thompkins and Cariou (Thompkins & Cariou, 2005), 11.
[10] Evola, Elements of a Racial Education, 34-35.
[11] For more on the Levantine “race of the soul” see Elements of Racial Education, 35.
[12] Evola, Elements of Racial Education, 35.
[13] Evola, Men Among the Ruins, 259.
[14] Evola, Men Among the Ruins, 262.
[15] Evola, Men Among the Ruins, 260. Evola’s descriptions of Nordic and Mediterranean proclivities show the strong influence of Gunthers’s The Racial Elements of European History.
[16] Evola, Elements of Racial Education, 29.
[17] Julius Evola, Metaphysics of War: Battle, Victory, & Death in the World of Tradition, ed. John Morgan and Patrick Boch (Aarhus, Denmark: Integral Tradition Publishing, 2007), 63.
[18] Julius Evola, Revolt Against the Modern World, trans. Guido Stucco (Rochester, Vt.: Inner Traditions International, 1995), 48.
[19] Evola, Revolt Against the Modern World, 48.
[20] Evola, Elements of Racial Education, 40.
[21] Evola, Revolt Against the Modern World, 48.
[22] Julius Evola, Eros and the Mysteries of Love, trans. anonymous (Rochester, Vt.: Inner Traditions International, 1991, 9.
[23] Evola, Revolt Against the Modern World, 195.
[24] Evola, Revolt Against the Modern World, 197.
[25] Evola, Revolt Against the Modern World, 58.
[26] Evola, Revolt Against the Modern World, 170.
[27] Evola, Elements of Racial Education, 30.
[28] Julius Evola, “Race as a Builder of Leaders,” trans. Thompkins and Cariou, http://thompkins_cariou.tripod.com/id7.html.
[29] Evola, The Elements of Racial Education, 14, 15.
[30] Evola, The Elements of Racial Education, 31.
[31] Evola, “Race as a Builder of Leaders.”
[32] Evola, Elements of Racial Education, 33.
[33] Evola, Elements of Racial Education, 25.
[34] Evola, Metaphysics of War, 69
[35] Evola, Metaphysics of War, 34.
[36] Evola, Revolt Against the Modern World, 170.

mercredi, 05 octobre 2011

Bretaña, megalitos y celtas

Bretaña, megalitos y celtas

Enrique Ravello

Ex: http://www.idpress.org/

Para quien lo ve desde lejos, el Mont Sant-Michel, aparece distante, inaccesible, como el reflejo de otra realidad superior, que desde aquí se puede tan sólo intuir. Las mareas hacen que a veces permanezca aislado, para posteriormente, cuando el mar se retira, volver a ofrecernos la posibilidad de penetrar en él, quizás como reflejo analógico de esa realidad superior que todos intuimos, pero que nuestras propias construcciones mentales, nuestras debilidades, nuestras pasiones –el mar- nos impidan identificarnos con ella. El hecho que desde épocas druídicas, éste haya sido un lugar de culto religioso, cuyas sucesivas construcciones han culminado en el impactante aspecto actual, refuerzan el significado especial del lugar, siendo sin duda un importante punto mágico.

Pero además de todo esto, el Mont Sant-Michel marca la frontera histórica entre los ducados de Bretaña y de Normandía, aunque siempre se ha considerado más normando que bretón, y hoy ha quedado administrativamente incluido en Normandía, los bretones incluso han versificado esta reivindicación:

«Le Couesnon a fait foile,.
Cy est le Mont en Normandie».


Entrar a Bretaña desde Normandía, supone en cambio mucho mayor de lo que la corta distancia que las separa podría hacer pensar, se deja atrás una región donde las huellas escandinavas son muy visibles, desde las construcciones hasta la antropología física de sus habitantes, para adentrarse en el no menos fascinante mundo celta de Bretaña, en la que más allá de cualquier intento de asimilación por parte del jacobinismo parisiense, la conciencia de su realidad étnica está muy presente.

La Bretaña se divide en dos zonas: la Armórica, conocida por los galos como Armor, que etimológicamente significa «región cercana al mar», y la zona interior, Argoat, o región interior. Otra división más típica, es la de Baja y Alta Bretaña, siendo la primera donde se conservan más arraigadas las costumbres bretonas, y, especialmente, el idioma.



BRETAÑA A TRAVÉS DEL TIEMPO.

La primera realidad con la que nos encontramos en Bretaña es el Megalitismo, una de las más tempranas expresiones culturales europeas, cuya explicación aún es un misterio para muchos autores, pero que como ha demostrado Colin Renfrew y el C 14, nace en el Atlántico norte para desde ahí descender hacia el sur y penetrar en el Mediterráneo.

Antes de la llegada de los bretones, esta península recibía el nombre de Armórica, y estaba habitada por pueblos celtas, que formaban parte del conjunto galo y que habían llegado a esta zona entorno al 500 aC. Estos galos serían, para entendernos, Asterix y sus amigos, que no son los ascendientes de los actuales bretones. A pesar de los que nos cuentan estos divertidos comics, la romanización llegó con fuerza hasta Armórica, hay vestigios suficientes que así lo atestiguan. La romanización supuso el abandono lento pero progresivo del galo, pues los habitantes comenzaron a acostumbrase a usar el latín como lengua oficial pero también cotidiana, de este latín vulgar es del que nacerá el actual francés. El hecho de que en Bretaña se hable hoy una lengua celta se debe a la «receltización» de la Armórica (después Bretaña) entre los siglos V y VI por los bretones venidos desde Gran Bretaña.

Ya hemos dicho que la instalación de los anglos y sajones en Gran Bretaña llevó a que los bretones, desposeídos de sus tierras, se refugiasen en Armónica, hecho que sirve como marco histórico a las leyendas artúricas. No sabemos mucho de la acogida que recibieron estas bandas de inmigrantes entre los años 400 y 600, seguramente se fueron instalando en gran número en las zonas despobladas del país, pero donde la población primitiva era suficientemente densa se produjeron enfrentamiento, como el que tuvo lugar en el siglo VI en la zona de los vénetos (tribu gala) donde el jefe bretón Waroch tuvo que imponerse a la fuerza, los armoricanos de Vannes pidieron ayuda a los francos para hacer frente a esta invasión bretona, pero no lograron pararla y Waroch extendió sus dominios hasta lo que hoy conocemos como Bretaña, esta expansión sólo fue frenada por Carlomagno, quien para ello instituyó la llamada Marca Bretona.

Los herederos de Carlomagno dejaron el dominio de la zona a un jefe bretón, Nominoé, quien termina por independizarse totalmente, instaurar la monarquía bretona y extender sus domino hasta Rennes y Nantes, antes de morir en 851. Su nieto Salaun extiende las fronteras de Bretaña hasta la máxima extensión que nunca han conocido y se afirma en el título de «Rey de los bretones». Pocos años después comienzan las incursiones vikingas, que son derrotados en una primera instancia por Alain el Grande, quizás el soberano más importante de la historia bretona, aunque a principios de siglo X vuelven a conocerse importantes incursiones vikingas hasta que son derrotados de nuevo por Alain Barbe-Torte, último rey de Bretaña muerto en 952, sucediéndole un periodo de anarquía interna y miseria que durará hasta el siglo XIV.


De 1341 a 1364 se desarrolla una guerra, que sumirá a Bretaña en la ruina, por la sucesión del ducado en la que Carlos de Blois, apoyado por los franceses es derrotado por Juan de Montfort, aliado de los ingleses. La casa de Montfort pasa a dominar Bretaña desde 1364 a 1468 vuelven a levantar el país, siendo éste el período más floreciente de su historia, los duques son auténticos soberanos, y sólo rinden un homenaje teórico a los reyes de Francia.

Ya en 1491, Ana de Bretaña se casa con Carlos VIII, rey de Francia, permaneciendo como duquesa de Francia. Carlos VIII muere accidentalmente, ella se convierte en reina de Francia, y se vuelve a casar con Luis XII. A su muerte, su hija Claudia de Francia, heredera del ducado, Claudia se casa con Francisco I quien hace la definitiva unión entre Francia y Bretaña.

Un hecho del que aún hoy están muy orgullosos los bretones, es que en 1534 Jacques Cartier descubra las costas de Canadá, dando inicio a una constante corriente de emigración de bretones hacia el nuevo territorio, siendo éste, junto a la emigración normanda, el origen de la actual población francófona de Québec.

Durante los siglos XVI, XVII y XVIII asistimos a algunos conatos de guerra de religión, revueltas populares y actividades corsarias, centradas estas últimas en la ciudad de Sant Malo.

La Revolución de 1789 es acogida de diferente forma por los bretones; mientras unos la apoyan con entusiasmo, otros organizan una gran revuelta lealista conocida como La Chouannerie. Pero es con el triunfo definitivo de la Revolución cuando se inicia el proceso de uniformización al que tanto se han opuesto el conjunto de los bretones.



EN LUCHA POR LA IDENTIDAD.

El movimiento bretón fue el más precoz en su aparición dentro de la escena política francesa, pues lo hizo antes de 1914. En la Francia revolucionaria y más tarde en la república burguesa del XIX, Bretaña se convirtió en uno de los bastiones de la resistencia contrarrevolucionaria de la nobleza apoyada por el clero, potando por una economía agraria lo más autárquica posible.

Durante la primera mitad del siglo XIX tuvo lugar un despertar cultural en el que se exaltó el pasado celta y las tradiciones culturales propias. La defensa de la fe católica y del idioma bretón se concebía también como una barrera infranqueable para el laicismo y el republicanismo. Ya en tiempos de la III República la aristocracia agraria bretona recurrió a la movilización del campesinado como estrategia de oposición al estado central, y fue en 1898 cuando se constituyó la Unión Regionalista Bretona (URB), de la que en 1911 se escindieron dos grupos: la Federación Regionalista Bretona y el Partido Nacional Bretón, que fue el primero en definir a Bretaña como una nación «oprimida como Polonia e Irlanda».

La Primera Guerra Mundial supuso una decadencia imparable de la preeminencia económica de la elite aristocrática agraria, acentuándose la emigración bretona hacia otras partes de Francia, especialmente París. Una nueva generación de estudiantes de Rennes y Alta Bretaña tomó el relevo en la dirección del movimiento bretón. En 1918 tres jóvenes monárquicos influidos por las teorías de Maurras y el vanguardismo cultural fundaron el Grupo Regionalista Bretón (GRB) y empezaron a editar una revista bilingüe en francés y bretón, Breiz Atao, referente histórico del nacionalismo bretón. En 1920 Olier Mordrel y otros dos activistas del GRB fundaron la Unión de la Juventud Bretona (Unvaniez Yaonakiz Vreiz), mostrando una mayor tendencia a la radicalización, siendo partidarios del vanguardismo cultural y del laicismo, y a partir de finales de la década de los veinte, experimentaron una paralela orientación hacia la derecha radical. El zeitgeist de la liberación de los pueblos, así como el influjo de los nacionalistas irlandeses y, en menor medida, galeses, considerados como hermanos por los jóvenes bretonnats, tuvo una gran influencia en este grupo. De hecho la componente celtista de Breiz Atao buscaba redefinir el lugar de Bretaña dentro de la comunidad supranacional de «naciones celtas», estrechando relaciones con los nacionalistas galeses desde 1922. Como objetivo inmediato el PNB proponía la transformación de Francia en un Estado federal y su incardinación en un proceso de unidad a escala europea.

Pero el fracaso electoral actuó de detonante en las divisiones internas del movimiento, dentro del que emergerían con claridad una tendencia de derecha radical e independentista, encabezada por Mordrel, y otra de izquierda liberal y federalista, encabezada por Duhamel y Marchal. El sector de Mordrel, el más importante, refundó el PNB en 1931 con claros contenidos fascista y corporativos combinados con la idealización de los métodos de la acción directa y el insurreccionalismo de inspiración en el Sinn Féin irlandés, si bien sólo se registraron acciones armadas esporádicas e incruentas por parte del grupo Gwenn ha Du (Blanco y Negro, en referencia a la bandera bretona). En el programa Por un partido bretón de los celtas redivivos publicado por Olier Mordrel en 1933, el PNB declara su aspiración a un Estado bretón que excluyese de los puestos públicos a extranjeros y razas latinas, respetase la pequeña y mediana propiedad pero socilaizase la gran propiedad y se fundase en una vía intermedia entre el capitalismo y el socialismo, basada en una comunidad nacional sin clases.

Dentro del PNB, el propio Mordrel encabezaba una tendencia más radical que editaba la revista Stur, donde los contenidos nacionalsocialistas se hicieron explícitos, combinándose con un racismo pancétlico y antisemita, en la que proponían una futura Europa dirigida por los pueblos célticos y germánicos. El
PNB logró controlar al grupo Gwenn ha Du e integrar el terrorismo en su estrategia política, al tiempo que creaba una pequeña milicia paramilitar. Ya existían algunos contactos con Alemania a través del Instituto Anhenerbe de la SS y de los círculos celtólogos de Munich, así como por vía indirecta de algunos autonomistas alsacianos, hacia 1939-1939 estas relaciones se intensificaron, Breiz Atao apoyará el expansionismo alemán y promoverá una campaña contra la entrada de Francia en la guerra contra Alemania.

El PNB rehusó a presentarse a las convocatorias electorales, prefiriendo actuar como un grupo de presión que apoyaba a los candidatos de partidos franceses en la medida en que juzgaban que apoyaban un programa de mínimos. En el congreso de Guingamp la tendencia nacionalsocialista e insurreccionista, dirigida a la extinción del Estado francés, se impuso claramente, se organizó una milicia dirigida por Célestine Lainé que recibió armas de Alemania a través del IRA. Como resultado de sus actividades el gobierno francés prohibió las actividades del partido y varios de sus líderes, entre ellos Mordrel, tuvieron que huir a Alemania, donde se relacionaron con ambientes nacionalistas radicales flamencos e irlandeses y con diversas instituciones alemanas.

La invasión de Francia por Alemania en 1940 fue vista por el nacionalismo bretón como la gran oportunidad para construir su Estado independiente, algo que contó con el apoyo total del régimen alemán, y especialmente de la SS. Incluso se propició una reunión entre los representantes bretones y Doriot, el líder fascista francés, en la que éste admitió la existencia de una nación bretona diferente a la francesa, y se estableció que en caso de una victoria final del Eje, Bretaña se independizaría de Francia. Mordrel volvió a Bretaña y siguió al frente del PNB, uniendo la causa bretona a la suerte de Alemania en la guerra, también se fundaron organizaciones como los Bagadoú Stourm (Grupos de combate), una organización paramilitar, cuya bandera está inspirada en los símbolos bretones y en la bandera alemana de guerra (como aparece en la ilustración del texto). E incluso hubo nacionalistas bretones más radicales que rechazaron la no entrada en acciones bélicas del PNB y crearon una unidad bretona dentro de las SS, compuesta por varias decenas de hombres, y conocida como el Bretonische Waffenverband der SS, que usó como bandera, la más antigua de Bretaña, una cruz negra sobre fondo blanca.

Tras la Segunda Guerra Mundial el estigma del colaboracionismo afectó a todos los intentos de refundar el movimiento bretón. Los esfuerzos de los militantes bretonistas, así como de las nuevas generaciones, tuvieron que concentrarse en las actividades culturales, para pasar en una segunda fase a la formulación de reivindicaciones socioeconómicas y, finalmente, articular un nuevo discurso político nacionalista de componentes diferentes, donde se haría fuerte el elemento democrático y, a veces, izquierdista, influido por el momento y los diversos movimientos de liberación nacional. Si bien también es cierto que muchos de los antiguos militantes bretones de inspiración nacionalsocialista, pasaron a formar parte de estos grupos izquierdistas, y que seguían siendo muy permeables a las influencias que sus antiguos camaradas fieles a las ideas anteriores ejercían desde diversas publicaciones, como fue el caso de Mordrel, quien siguió cantando las excelencias de la Europa de las etnias propugnada por el III Reich hasta su muerte, y de la revista La Bretagne Reéle. Destacable es también el hecho de que algunos nacionalistas bretones de este grupo pasarán a formar parte de las candidaturas del FN de Le Pen en las elecciones locales.


Como acabamos de decir después del 45 asistimos en un primer momento a la refundación de grupos culturales. En 1946 fue lanzada la Asociación de Gaiteros fundada inicialmente en 1943. A ella siguen círculos célticos locales y varias revistas y grupos de defensa del idioma bretón que organizaron marchas cívicas en defensa de la lengua en los primeros años sesenta.


Las demandas socioeconómicas empezaron a formularse a partir de la constitución en 1951 del Comité de Estudios y Vinculación de los Intereses Bretones que aspiraba a convertirse en el portavoz de todos los intereses corporativos, sociales y económicos de Bretaña y sus «fuerzas vivas».


Fue en 1956 cuando se comenzó a rearticular políticamente el movimiento bretón. En 1956 varios activistas fundaron el Projet d´Organisations de la Bretagne con objetivos regionalistas que al año siguiente se convirtió en el Movimiento por la Organización de Bretaña (MOB). Los sectores juveniles y estudiantiles, centrados en Rennes, contemplaban con simpatía el proceso de independencia de Argelia, mientras el ala conservadora proclamaba la solidaridad de los bretones con los colonos franceses, esta misma facción más juvenil se orientaba hacia la izquierda, posteriormente abandonó la organización y fundó la Unión Democrática Bretona (UDB), la principal fuerza nacionalista de postguerra. Después han surgido grupos más o menos radicales y particularmente organizaciones partidarias de la violencia como el Frente de Liberación de Bretaña (FLB) fundado en 1966 y autor de numerosos atentados incruentos, siendo desmantelado numerosas veces y reorganizado de nuevo. En 1982 surgieron el Partido Republicano Bretón (Strollad Pobl Breizh) y el Partido por la Organización de una Bretaña Libre (POBL) de carácter centrista y europeísta, con débil implantación electoral, con alguna fuerza política en las zonas rurales de Finisterre, y que en los últimos tiempos ha protagonizado varias campañas de apoyo al independentismo vasco.


Si bien durante los 70 y 80 hubo alguna tímida colaboración con la izquierda francesa, en especial con el PSF de Mitterrand, ésta se terminó en 1982 con la victoria electoral del socialismo francés, al esperar que cumpliesen su promesa de regionalización, y por el contrario, encontrarse con la desagradable sorpresa de que la trazar la región bretona dejaron a Nantes –la capital histórica- fuera e incluida en un fantasmagórico País del Loira.




EL BRETÓN, VESTIGIO CELTA.


Como las lenguas romances, germánicas y otras, las celtas forman parte de la gran familia indoeuropea. En el siglo III aC ocupaban dos tercios del continente europeo, y se hablaban desde el mar Negro hasta el Atlántico. Sólo cuatro de estas lenguas han sobrevivido hasta hoy, en el extremo occidental de Europa. Se clasifican en dos sub-grupos:


-El galés y el bretón, forman parte del grupo britónico, al que pertenecía también el córnico.


-El gaélico de Irlanda y el de Escocia, pertenecen al grupo goidélico, como el manx .


Cada una de estas lenguas han tenido una evolución propia, y su situación varía de un país a otro:


-En Irlanda, el gaélico es la primera lengua oficial del la República de Irlanda, el inglés teóricamente, es sólo la segunda, 1.000.000 de personas declaran hablarla actualmente, es decir un tercio de la población. Pero en el Gaeltacht –las zonas de práctica tradicional de la lengua- los que la hablan cotidianamente no son más que unos miles.

-En Escocia, menos de 70.000 personas (1,4% de la población) hablan hoy en gaélico, principalmente en las islas Hébridas y al noroeste de las Highlands.

-El galés, beneficiado por una política dinámica, es la lengua celta con la situación más favorable. El número total de hablantes había disminuido a la mitad en 1911; se estableció en 508.000 personas y hoy está creciendo.

-Otras dos lenguas celtas han desaparecido. En la isla de Man, el último habitante que tenía el manx como lengua materna murió en 1974. En Cornualles, hace más de dos siglos, en 1777, murió Dolly Pentreath, considerada la última hablante del córnico. Pero hoy diversas iniciativas de varias personas están intentado resucitar estas lenguas.


La zona bretonitzant, es decir donde se habla el bretón, se extiende al oeste de una línea que va de Saint- Brieuc a Saint-Nazaire. , y que comprende Finisterre y el oeste de las costas armoricanas, del Morbihan y del departamento del Loira-Atlántico. Esta frontera histórica se ve corroborada por la toponimia, es la zona con topónimos bretones: ker, loc, plou, lan, etc.

Hace ya tiempo que los bretonitzants eran los miembros de las familias rurales, y los pescadores. En las ciudades, el bretón se utilizaba por un número importante de antiguos campesinos y por sus hijos, como también por los notables que tenían relación con el mundo rural... o que eran respetuosos con los derechos del pueblo: políticos, clérigos, médicos, notarios, comerciantes, etc. Si la proporción de los niños para los que el bretón es la lengua materna ha disminuido fuertemente, esta amenaza ha provocado una favorable toma de conciencia en amplias y variadas capas de población. Esta toma de conciencia ha llevado, sobre todo a la creación unas escuelas infantiles llamadas, Diwan («creixença») en un principio financiadas por los padres y simpatizantes, que practicaban la inmersión lingüística. Después de catorce años de existencia, la organización Diwan es reconocida y casi totalmente financiada con fondos públicos. Impulsadas por esta corriente popular y por las reclamaciones de las instituciones europeas, el Ministerio de Educación ha hecho, finalmente, una excepción al sacrosanto monolingüismo y ha creado, finalmente, clases infantiles, primarias, e incluso secundarias, bilingües.

Pero el combate por mantener una lengua hablada desde hace milenios, no se circunscribe solamente a la enseñanza. Varias editoriales difunden revistas y obras en bretón –el 20 % de las publicadas en Bretaña- así como varios productores de cine, de radio y músicos crean en brezhoneg, por su parte hay televisiones y radios bilingües y el bretón se ha introducido en la señalización de las carreteras y en la circulación ciudadana.


El bretón fue implantado en Armórica a partir del siglo IV por inmigrantes originarios de Britannia (la Gran Bretaña actual). Presentados durante mucho tiempo como fugitivos de la presión anglo-sajona, se trataría en realidad de una inmigración concertada, según las recientes investigaciones del profesor L. Fleuriot basadas en textos y toponimia (Les origines de la Bretagne, Payot 1980).


El bretón armoricano es una lengua indo-europea de la rama britónica de las lenguas celtas, junto al galés y el córnico, antigua lengua del Cornualles inglés, de nuevo estudiada y hablada por algunos de sus habitantes. El galés y el bretón son relativamente próximos por su sintaxis y una parte importante del vocabulario, pero la intercomprensión no es posible sin estudio. Por el contrario, el córnico es extremadamente similar al bretón, especialmente a su dialecto del Tregor.

Para los curiosos, un saludo en bretón: demad d´an oll! (¡Hola a todos!).


La otra lengua céltica que se habló en la zona antes de la llegada de los bretones, el celta continental o galo, desapareció después de una larga agonía durante la ocupación romana, aunque sabemos que aún en el siglo V dC todavía se hablaba.



SÍMBOLOS: TIRISKELLE Y ARMIÑOS.

La bandera bretona, la famosa Gwenn ha du (blanco y negro) fue designada en 1923 por Morcan Marchal militante del Breizh Atao (Bretaña para siempre). Sus cinco bandas negras representan las cuatro zonas de habla bretona, bretonnant: Léon, Trégor, Cornuailles, Vannetais; las blancas las de habla frencesa; Rennais, Nantais, Dolois, Malouin, Penthièvre; y los arminos el antiguo ducado de Bretaña. En general esta bandera intenta sintetizar el tradicional escudo de armas bretón y la diversidad de sus regiones, su diseño definitivo estuvo influido por el modelo griego, referente obligado para todos los movimientos nacionalistas de la época.

Históricamente conocemos otros estandartes bretones. La primera de la que tenemos noticias es la Kroaz Du (cruz negra sobre fondo blanco) usada por los cruzados bretones en el siglo IX, problablemente fue la bandera nacional hasta 1532. En 1213 el rey de Francia dio el ducado de Bretaña al capeto Pierre de Dreux Mauclerc, por razones desconocidas cambió el anterior escudo bretón por otro con un fondo blanco y sobre él un campo de armiños, este fue el definitivo escudo y aún hoy se conserva parcialmente en la bandera. Se cuenta que se adoptó porque el un duque bretón en el siglo X vio cómo un pequeño armiño se volvió contra un zorro que le acosaba y, olvidando cualquier temor, atacó al animal más grande; esto simbolizaba, pensó el duque, la actitud que debían tener los bretones ante las constantes amenazas de invasión vikingas.

Otro símbolo que se puede ver por todos lados en Bretaña es el triskelle, sus tres brazos representan según unos, los tres elementos: tierra, agua y fuego, para otros la perfecta armonía entre los tres órdenes de la sociedad tradicional celta: druidas, guerreros y campesinos. Aunque en realidad su verdadero significado sea mucho más profundo y remita al simbolismo polar.



MÚSICA Y MESA.

Melodías mágicas salidas de instrumentos similares caracterizan toda la música celta: Bretaña, Cornualles, Escocia, Irlanda, Gales, Asturias y Galicia pertenecen al mismo mundo de los bellos sonidos de gaitas, violines y arpas. En Bretaña después de la Segunda Guerra Mundial se asiste a una recuperación y renovación del folklore propio con la creación de la Bodaged ar Sonérion, asamblea de músicos que recupera la bagad, la forma bretona de las bandas de gaiteros escocesas. Desde los años 70, Alan Stivell, funda escuelas para los nuevos músicos, en las que, entre otras cosas, se recupera la antigua arpa bretona, más recientemente ha sido Dan Ar Braz quien más ha hecho por el impulso de la música celta en Bretaña. Heredera de las más antiguas tradiciones, la música celta conjuga hoy esta herencia con un importante renovación interna. Música que está presente todo el año tanto por la presencia de numerosos grupos (Alan Stivell, Tri Yann Am Naoned, Gilles Servat, Clam´s, Denes Prigent) como por las reuniones anuales de gran importancia en todo el mundo celta (El Festival de Rennes, el de Corniuaille, el de Quimper y el intercéltico de Lorient). Aunque casi más interesantes son los festivales típicos de cada pueblo, como el que tuvimos la suerte de ver este verano. A media noche sin saber bien dónde ir decidimos dar una vuelta en coche, el destino nos guío hasta la pequeña localidad de St Pol de Léon (Kastell-Pol), donde se celebraban las fiestas locales, en la plaza del pueblo, un grupo tocaba en directo y la gente salía a bailar cada una de las canciones, todos sabían perfectamente cómo hacerlo, y mientras unas canciones se bailaban formando un gran círculo que iba dando vueltas sobre sí mismo, en otras se formaban varios círculos más pequeños, otras una especie de gran serpiente que avanzaba lentamente por toda la plaza, y otras en tríos, al fondo del pueblo había una hoguera de hacía de insuperable acompañamiento visual. Aunque la buena gente del pueblo nos animó a participar en la danza, preferimos no estropear con nuestra torpeza unos movimientos tan armoniosos y difíciles de ejecutar. Aunque como simples espectadores participamos plenamente de la intensidad del momento.


Como recomendación final aconsejaríamos leer este artículo saboreando el más famoso de los paltos bretones, un crêpe –o mejor dos, uno dulce otro salado- una buena sidra bretona –más parecida a la asturiana que a la irlandesa-, y para conciliar el sueños un poco del tradicional wiskhey local, muy poco conocido fuera porque no se destina a la exportación, pero que en su sabor y aroma recoge varios de los secretos de la mágica Bretaña.



Enrique Ravello

lundi, 03 octobre 2011

Il neopaganesimo di Otto Rahn

Il neopaganesimo di Otto Rahn

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Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Otto Rahn (Michelstadt, 18 febbraio 1904 – Söll, 13 marzo 1939)

Otto Rahn (Michelstadt, 18 febbraio 1904 – Söll, 13 marzo 1939)

Il caso di Otto Rahn è ormai noto: è la storia di un giovane romantico, che insegue un sogno. Un giorno entra in contatto con un potere sensibile al mito – il Terzo Reich -, che lo lancia e lo valorizza: ciò che presto lo porta a credersi una specie di nuovo cavaliere templare. Il mito del Graal, quello di una società di puri e di idealisti, di un regno dello spirito, popolava il suo immaginario. Certo del legame storico tra l’eresia dei Catari e la poesia dei trovatori medievali, l’una è l’altra viste come sopravvivenza pagana sotto la scorza del cristianesimo ufficiale, Rahn si convinse che il fulcro di questa cultura si fosse trovato un tempo nel castello provenzale di Montségur, alle pendici dei Pirenei. Proprio il luogo dove, nel 1244, avvenne il finale sterminio dei Catari da parte della Chiesa. In questa zona, intorno al 1929, Rahn svolse ricerce, percorse grotte e camminamenti, rintracciò graffiti e interpretò simboli arcani. Alla fine raccolse il tutto e scrisse il celebre libro Crociata contro il Graal, pubblicato nel 1933. L’incontro fatale con Himmler, anch’egli interessato alla storia delle eresie e all’universo dei simboli pre-cristiani, il pronto arruolamento e la rapida ascesa nelle SS, portarono però Rahn a inciampare nel suo piccolo-grande segreto. Sembra infatti che una mal vissuta omosessualità sia stata all’origine delle sue dimissioni dall’Ordine Nero nel 1938 e infine del suo suicidio, avvenuto per congelamento tra le montagne del Tirolo, nel marzo del 1939. Rahn rimase vittima di un trauma, per esser stato coinvolto in un piccolo scandalo omoerotico? Non resse il clima ideologico delle SS? Venne forse spinto a quel gesto? O ci arrivò da solo, per evitare l’isolamento sociale e magari la persecuzione?

A queste domande cerca di fornire riposta un testo molto buono, da poco tradotto in italiano dalle Edizioni Settimo Sigillo: Otto Rahn e la ricerca del Graal. Biografia e fonti, di Hans-Jürgen Lange. Diciamo subito che questo libro, a differenza di altri usciti anni fa sul medesimo argomento, si segnala per serietà e credibilità storiografica. Una volta tanto, la materia viene lavorata non dal dilettante, ma dallo studioso. E a parlare non sono le sparate a sensazione, ma i documenti. Lange infatti dedica un’intera sezione del suo libro all’interessante e in gran parte inedita documentazione rinvenuta in vari archivi tedeschi. Eloquente quella relativa alla corrispondenza tra Rahn e lo scrittore Albert Rausch prima del 1933, in cui, insieme alla passione per il santo Graal, traspaiono chiari cenni all’omosessualità del giovane intellettuale. Inoltre, viene presentato al lettore italiano un corpus di lettere, appunti, lavori radiofonici, comunicazioni di Rahn con lo studioso Antonin Gadal, con le SS, con Himmler in persona e con Wiligut, il bizzarro collaboratore austriaco del Reichsführer in materia di esoterismo.

L’idea centrale da cui Rahn era tutto pervaso sin giovane era che l’eresia catara fosse un giacimento culturale risalente all’epoca pagana e che nella sua teologia nascondesse rimandi ai saperi sacrali pre-cristiani. Questo assunto, per la verità, è stato da tempo smentito in sede storica e lo stesso Lange non mostra di tenerlo in gran conto. Il catarismo era un’eresia manichea tutta incentrata sul rifiuto del mondo, sul disprezzo del corpo, sulla negazione della fertilità del matrimonio: una teologia cupa, che metteva l’uomo nella disperante condizione di vivere la vita con un senso di ostilità, solo aspirando alla morte liberatrice, ricercata volontariamente nel suicidio rituale chiamato endura. Come si vede, si tratta dell’esatto contrario dell’antico paganesimo, sia il greco-romano che il nordico, che al contrario attribuiva alla bellezza del corpo, alla vita, alla figura umana e alla discendenza nobilitazioni di sacra potenza. Tuttavia, qualcosa di pagano certamente filtrò presso quegli eretici: la loro quasi sicura provenienza orientale – identificata con il “bogomilismo” – unitamente a tratti di neo-platonismo, si intrecciava alla concezione manichea di una costante lotta cosmica tra i principi luminosi del bene e quelli tenebrosi del male. E di queste speculazioni era ricolma l’antica mitologia europea. Tutto preso dall’idea di essere stato eletto dal destino per portare al mondo la sua rivelazione, Rahn si diceva un predestinato. E dall’aver frequentato da ragazzo la zona di Ketzerbach (il “torrente dei Catari”) nei pressi di Marburgo, egli traeva sicuri indizi della sua missione: doveva rivelare ciò che la Chiesa aveva occultato, cioè il legame tra i catari e il paganesimo e quello tra gli eretici e i poeti trovatori del medioevo.

Rahn vedeva in Wolfram von Eschenbach, il famoso poeta cortese autore del Parzival, il terminale di una tradizione che si sarebbe tramandata dai Catari sino in Germania, diventando il patrimonio della cultura europea duecentesca, incentrata sull’asse provenzale-germanico. La stessa etimologia di Wolfram – argomentava Rahn – rimandava a quella di Trencavel, nome di una nobile famiglia della Linguadoca. Attraverso questi sottili legami, insomma, sarebbe avvenuto quel transfert culturale che aveva costruito nel cuore dell’Europa cristiana un’enclave neopagana, alla fine distrutta dalla crociata albigese guidata dalla Chiesa. Non è tanto l’entrare nel merito della questione, che qui ci interessa. La stessa nascita della poesia italiana in Sicilia e in Toscana, del resto, è stata da più parti giudicata come il frutto di legami europei che avevano al loro centro la Provenza, i suoi miti cavallereschi, il perdurare di tradizioni pagane sub specie cristiana. Ciò che interessa è invece verificare che la figura storica di quel singolare ricercatore che fu Rahn ha un suo spessore. Troppo spesso affidato a ricostruzioni improvvisate, infatti, Rahn si presenta come un intellettuale impegnato nella lotta per l’identità europea, ricco di spunti e non di rado affascinante. La sua è piuttosto una metastoria, una cripto-teologia, e non importa molto che venga o meno confermata dai fatti. Egli si muove nell’ambito della cerca mitica. E il mito ha bisogno di un alone di mistero. Lo sforzo di Rahn era quello di uscire dal dogma e di agitare un mito europeo. Di qui la sua rielaborazione della figura di Lucifero, l’angelo caduto, rivalutato ad annunciatore di un mondo buono fatto di luce: «Che cos’è Graal? Graal è la terra della luce, della purezza. Graal è il sogno più profondo dell’anima umana, che dalle angustie terrene aspira alla perfezione immacolata», scrive Lange.

E lo stesso Lange ricorda come, secondo Rahn, il Graal non fosse una coppa, ma piuttosto la pietra lucente che Lucifero recava sulla fronte, simbolo di purezza, di una ricerca che in antico si era espressa con l’immagine del Vello d’oro: qualcosa che solo a pochi eletti toccava in sorte di raggiungere. Rahn sosteneva che fu il trovatore Guiot di Provins a passare a Wolfram il tema di Parzival e quindi a dare vita a questo complesso poetico che sfuggiva alla teologia cristiana, presentandosi come un sapere alternativo. Un sapere arcaicissimo. Lange scrive assai bene che l’origine iranica della saga di Parsifal, intuita da Rahn, è stata recentemente comprovata dagli studiosi: ecco che dunque un concatenamento con il catarismo diverrebbe più credibile, dato che anche a quest’ultimo si danno origini legate all’Oriente. Rahn lavorava dunque su materiali mitici, ma non irrealistici. Tanto bastò per far drizzare le antenne a Himmler, avido di qualunque cosa richiamasse l’idea di “purezza” e di “elezione”, e che come capo delle SS andava setacciando ovunque nel mondo ogni sorta di tradizione arcaica, per vedere se non celasse tracce di antica sapienza ariana. Il contatto fu presto stabilito. Nel marzo del 1936 Rahn viene arruolato nelle SS col grado di Unterscharführer e subito entra nell’entourage di Himmler, per il quale compie ricerche genealogiche. È da notare che Rahn, che oggi spesso viene presentato come “nazista per caso” o peggio niente affatto nazista, ci tenne a far sapere che, quando era in Francia negli anni Venti, aveva compiuto studi che andavano nel senso dell’ideologia nazionalsocialista, prima ancora di sapere che la NSDAP esistesse: presentava se stesso come un precursore. Rahn era amico di Hans Peter des Coudres, curatore della biblioteca del “santuario” nazista di Wewelsburg, era in rapporti stretti con Kurt Eggers, editorialista dello “Schwarze Korps”, la rivista ufficiale delle SS, riceveva favorevoli recensioni da parte di Hermann Keyserling, famoso intellettuale vicino al regime, lavorava fianco a fianco con Wiligut, lo studioso di runologia e ideologo radicale dell’esoterismo nordicista, e alla fine venne promosso a Untersturmführer. Si può dire dunque che fosse perfettamente inserito nel sistema ideologico e di potere del Terzo Reich. Nel 1937 venne degradato per una storia tra omosessuali e temporaneamente spedito a Dachau per “rieducarsi”: doveva semplicemente addestrare le reclute. Presto reintegrato nei ranghi, Rahn entrò in una spirale psicotica. Cominciò a riempirsi di paure e di dubbi, gli cedettero i nervi: «egli stesso sapeva di non essere adeguato alle alte esigenze morali di questo Ordine a causa della sua omosessualità», commenta Lange. Chiese e ottenne le dimissioni dalle SS nel febbraio 1939, e nel marzo fu trovato morto tra i monti tirolesi. Ma nella sua biografia rimangono zone grigie. Non sappiamo veramente come andò il finale.

Ciò che viene chiarito è invece il forte attaccamento di Rahn per il mondo delle SS, in cui vedeva una specie di Ordine neo-medievale che gli appariva ideale per assecondare il suo disegno ideologico. La riedizione del suo libro del 1937 La corte di Lucifero – una sorta di viaggio europeo alla ricerca di testimonianze pagane – venne sollecitata dalle SS ancora nel 1943 in quanto testo ideologicamente importante ed ebbe vasto successo negli ambienti del radicalismo nordicista. E il suo suicidio venne celebrato dalle SS come un esempio di fedeltà nibelungica al senso germanico dell’onore. Lo stesso Karl Wolff, braccio destro di Himmler, vergò l’annuncio mortuario. Lange riporta che qualcuno ha testimoniato, molti anni dopo, che a Rahn fu lasciata la decisione tra il suicidio con onore e il campo di concentramento. Può essere. Pare però discutibile che il regime si volesse sbarazzare di un valido intellettuale ben allineato, solo per una piccola storia omosessuale, facilmente tacitabile. A certi livelli, si sa, le cose si accomodano. Non sarebbe stata la prima volta. Fu lo stesso Ordine Nero a dare disposizione che non si parlasse più delle debolezze di Rahn, ma solo del suo valore di studioso… Per altro, crediamo che le SS avessero i mezzi per mettere a tacere lo scandalo, se mai scandalo ci fu. Probabilmente, si è più vicini al vero se si ipotizza un crollo caratteriale: Rahn era un emotivo, forse – almeno da quanto si legge nella sua corrispondenza – anche un po’ immaturo e insicuro… un carattere diciamo non proprio adattissimo a stare nei ranghi delle SS. Alle quali teneva molto. Lo scrisse lui stesso direttamente a Himmler nel 1937: «Farò di tutto, nello svolgimento dei miei doveri in modo impeccabile… per riscattare, almeno in parte, il mio comportamento lesivo dell’onore delle SS…». Questa frase è una spia: sarà stato proprio la delusione inferta a se stesso e all’Ordine Nero a farlo crollare. E dunque possiamo dirlo: Rahn cercò la morte perchè dovette sentirsi colpevole di aver macchiato la purezza del santo Graal.

* * *

Tratto da Linea del 25 ottobre 2009.

vendredi, 30 septembre 2011

Wulf Grimsson’s Loki’s Way

A Band Apart:
Wulf Grimsson’s Loki’s Way

By James J. O'Meara

ex: http://www.counter-currents.com/

 

Wulf Grimsson
Loki’s Way: The Path of the Sorcerer in the Age of Iron [2]
Second Edition
Lulu.com, 2011

A few weeks ago I was privileged to receive this unsolicited manuscript, “the result of over 30 years of research, study and practice,” by Wulf Grimsson. I’ve been trying to read, and then review, the contents ever since, but found it difficult. Not because of the writing — Wulf is admirably clear and free of both “scholarly” stodginess and “occult” rigmarole — but precisely because of its dense content of interesting and important ideas. Almost every page gives one something to think about, a source to look up and perhaps reconsider, a inspiration to a new connection made for one’s self.

Why I should have been selected for this privilege is plain from the contents. Loki’s Way covers the whole range of topics we’ve explored on this blog, outside of the more pedestrian political and economic ones, from the Männerbund to mystery traditions to runes, from Nietzsche to Evola to Colin Wilson. I am above all grateful for Wulf’s freeing me from the mild guilt I have felt about all the topics I haven’t done to adequate length, as well as my regret that the late Alisdair Clarke did not live to produce a similar treatise from his path breaking blog, Aryan Futurism [3]. Constant Readers of this blog will find Loki’s Way to be essential reading.

But first let Wulf define his subject:

Loki’s Way is an adaptation of the Left Hand Path or sorcery for the Kali Yuga. This tradition has taken many forms throughout the centuries, in the modern age it must be updated to deal with new discoveries in science and psychology. [62]

The last part there also brings up another reason I’ve had trouble writing about this book. I have grave reservations about much of the material in the first third, and thus, as Wulf expresses it here, in a sense his whole project. I would prefer that he take Guénon’s advice and forget about “reconciling” science and Tradition and especially “updating“ the latter by the former. Not only should the process be reversed, judging Science by the timeless principles of Tradition, but the process is necessarily unending, as Science by contrast is the realm of the amorphous and ever-changing, requiring the “synthesis” (really, as Guénon would point out, syncretism) to be redone over and over — although I’m sure the publishers appreciate that!

In particular, I think that Wulf’s claim that “the esoteric is the physiological,” i.e. the “discovery” that what esoteric Tradition has been talking about in guarded language can “now be revealed” (as the New Age publishers would shout) as being techniques for manipulating the endocrine and other bodily systems, is really just a misreading of what Evola among others has described as the starting point that remains when all dogmas and theories have been tested and abandoned, in the alchemical abyss:

But then the individual finds himself confronting his body, which is the fundamental nexus of all the conditions of his state. The consideration of the connection between the ego principle in its double form of thought and deed and corporeality . . . and the transformation of said connection by means of well-defined, practical, and necessary acts, even though they are essentially interior, constitutes the essential core of the Royal Art of the hermetic masters.

Evola adds:

The latter will be directed first of all to the conquest of the principle of immortality, and then to the total stable nature, no longer transitory or deteriorating . . . by which the human manifestation is established within the realm of becoming. (The Hermetic Tradition, pp. 98-99)

Immortality! Yes, indeed:

Loki’s Way gives us the opportunity for individual immortality. It means using the very structures that are in place to satisfy the replicators and which sustain collective immortality for our own benefit. We are literally making a u-turn; the very things that sustain the immortality of the collective must be used against the norm to achieve a permanent, discrete and individual self.

This, of course, is extremely difficult and confronting and accordingly the path to immortality is one that only a few will attempt and less will achieve. It is hard to conceptualize just how radical such a process must be. The best way is to seriously consider that absolutely everything you believe, feel and think could be wrong. Your tastes, choices, preferences, likes and dislikes are all conditioned. Nothing about your life is authentically real. It is as though you were conditioned as a government agent and everything you believe to be true about yourself, your life, your career even your family is simply brainwashing. The truth about the human condition is really that terrifying. Most will find such a scenario so frightening and so personally confronting that it is easier to look away and find fault with this book than to wake up and smell the coffee. (p. 58)

What Evola calls alchemy or The Royal Art Wulf calls . . . sorcery:

What is sorcery? Sorcery is a means by which an individual is able to wretch control of the evolutionary processes to become individually aware and immortal. He or she becomes a discrete, isolate intelligence which exists beyond the confines of the collective processes of eternal re-occurrence. . . . Within Loki’s Way this change is the transformation of human to post human through the focusing of the Will. (p. 61)

The bit about the Will reminds us that Evola was compelled to treat Crowley with some respect, despite his deplorable life and personality, as someone who Knew Things. Wulf goes Evola one better and brings in Crowley explicitly.

Another thing he brings in explicitly, and much to my heart, is the Männerbund, which Evola only relatively briefly discusses. Wulf connects the dots between the historical Männerbund and the esoteric path to individual immortality followed by the elite — in contrast to the common fate in store for the followers of the Vedic “path of the fathers,” Evola’s realm of society beneath the State, my own contrast of Family Values and Wild Boys. For Wulf it’s replicators versus Sorcerers.

The Männerbund or Warrior Band is the origin of the esoteric path, because the latter is, au fond, a battle; which Wulf explains, typically, in equal parts Sufism and Dawkins:

Memetic eugenics is the process whereby we weed out unworthy memes and replace them with memes which will help us evolve. This is what Loki’s Way is all about. We dissolve conditioning and replace it with memes which are conducive to our own process of godmaking. This book is a meme, bringing esoteric traditions in line with science and hopefully awakening the small number of people with the potential to become more than what they are.

Sorcery is found in many ancient traditions. In the Norse we can see that the warrior ethic was an expression of the battle against the flawed aspects of the emotions and psyche to achieve a true Self which would enter Valhalla. The berserker or warrior is a great “type” of the seeker for the Overman. An even more intriguing example is in Sufism where the concept of Jihad is interpreted in a unique way. The outer form of Jihad is a just war but the inner form of Jihad, the more significant, is against the false and flawed aspects of the personality. This model of the internal battle where we wage a sacred war against genes, memes and frames to achieve a Self is an expressive and poetic way to represent our sacred quest. (p. 66)

So, paradoxically, only the Warrior Band, the Group, can provide the context for true individuation:

This is one of the reasons cell, unit or Männerbund work is so significant, it keeps you grounded and stops the fragments of the ego from influencing your worldview. A good group of fellow working sorcerers can bring you to earth quicksmart! (p. 95)

This warrior elite, devoted to realizing a higher principle, is the origin of the Traditional Aryan State, which is oriented to a transcendent principle, in contrast to the common herd and its promiscuous “wants” and “needs” (think: peasant frivolity vs. the Templars) and thus also the social stratification characteristic of Aryan society (p. 72):

The sorcerer and warrior both have the potential to become Overman via different means or by combining paths. Loki’s Way is the modern equivalent of [Georges Dumézil‘s] first function combined with a warrior ethic. It can be applied via the mode of the lone wolf, with a blood brother or in a Männerbund. The teaching level of the sorcerer and warrior is esoteric and left hand path. (p. 74)

At this point, the story takes a turn that may give the average reader a turn himself, but not our Constant Readers:

As organic and social memes are dissolved new forms of sexuality and emotional bonding needs to be created. Every man has androphilic potential, it just has to be activated and directed. Since the transition to the Overman is unnatural and works against the normal evolutionary process which favours reproduction then the focus must be on same-sex bonding. (p. 112)

I am not suggesting that every screaming queen or muscle-mary is a spiritual warrior or engaged in Platonic love. I am suggesting that to cultivate a unique form of androphile friendship based on esoteric ideas is the highest form of relationship and for the Overman naught else will do. (p. 109)

Which leads to chapters discussing both historical traditions from India to the Norsemen, and modern theorists from Edward Carpenter to Hans Blüher to Jack Malebranche. Especially important are his careful dissection of the various “models” of homosexuality that have gone into creating the modern notions of “homosexual” and “gay,” and analyzing their usefulness for the Left Hand Path.

The [Uranian] model was popularised by both Ulrichs and Hirschfeld and ultimately proves wanting. It confuses intersex and transgenderism with homosexuality. While this is not surprising due to the early period of their work it is still a view popular today. It seems an ongoing slur in a culture which devalues women and sees them as “less than men” to associate men who take the passive sexual role as female. It could be argued that this identification has its roots in misogyny and was later fed by Judeo Christian thinking. Many also believe that the idea of seeing a homosexual as a woman in a man’s body led to the medicalization of homosexuality which continued right through to the 1960s.

The Intermediate Sex model [Carpenter] is significant as the shaman, priest and androphile warrior existing outside the normal structures of the society. At the same time I think we need to be careful using the term third or intermediate sex as it infers a state which is not quite one or the other, rather than as one which is both. The masculinist model of Brand and others (it is also found represented in the work of Jack Malebranche today, Androphilia) is appealing and certainly relevant.

Personally I we think we need to develop a new model for our sexuality hence terms like Androphilia and the Männerbund need to be understood in a new way. This is especially significant since we are talking about same-sex relations in terms of a unique goal not as an everyday preference. For the Männerbund androphilia is a special form of “sacred” bond which is expressed between warriors; it is also initiatory.

All comrades have a male and female side and clearly since they are working to transcend human restrictions would have no problems exploring passive or active sex roles. The genders within us, so to speak, represent a great source of power and we may use cross dressing or passive techniques for Seidr work but also have no issue with being warriors for Galdr (active runic sorcery) or even in battle. (p. 129)

I think Wulf is on to something important here. All of the existing ‘scientific’ and especially “historical” models seem skewed against the correct understanding of the telos of esotericism being to transcend by uniting male and female, active and passive, etc.

[P]rohibitions against same-sex relations hence the fear of homosexuality comes from an alien desert religion and has little to do with our traditions. . . . Many of these same phobias were passed down into Christianity and Islam. Many traditions had a very different attitude to same-sex relations prior to their infection by Christianity. Japanese Buddhism had a strong homoerotic element as did the Samurai, it was only Christian missionaries that did away with such traditions. Sadly many of the Eddic references to same-sex relations are negative but that is to be expected considering they have come down through the hands of Christian scribes! (p. 219)

One could add here Daniélou’s similar comments on the importation of Victorian and modernist prejudices into Hinduism, as we have frequently quoted on our own blog.

A careful reading of Guénon would lead one to infer that all “Traditions” are products of the Kali Yuga, early, to be sure, but still of the Dark Age. Therefore one might well find some misunderstandings of the wisdom that was being recompiled after the chaos of the last cyclical turn. Combined with the necessarily elite and secret nature of the esoteric path, it should be no surprise that there should be no adequate understanding of male bonding publicly available even in Traditional sources. Here, at least, we find ourselves agreeing with Wulf’s project to “make anew” Tradition.

Each form of the modern world represents a degeneration of the Perennial Tradition . . . (p. 168)

And quoting Crowley:

Behold! the rituals of the old time are black. Let the evil ones be cast away; let the good ones be purged by the prophet! Then shall this Knowledge go aright. — Liber AL vel Legis II:5

In this verse we are given clear instructions about how to deal with the old schools of magic, esotericism and their formulae. The “old time” are the Older Aeons. These rituals are black, that is they should not be used until reassessed by New Aeon formula. Since most are based on the sacrificial image of the Dying God they must be purified and cleansed.

Those which cannot be changed will be disposed of, those that can be purified can be adapted. As discussed throughout this book, Traditional forms of spirituality must be radically re-examined both in terms of Loki’s Way. Old age fertility rites must be cast away, let the blood brotherhood of Set and Horus Reign!

A close reading of the passages in Evola’s Hermetic Tradition mentioning ‘androgyne’ would show that the process involves the male becoming and then dominating, becoming so as to dominate, the feminine energies, a process he gives the provocative name “philosophical incest.”

Also useful would be a reading of the essay from UR, “Serpentine Wisdom” reprinted in his Introduction to Magic in which Evola, under a pseudonym, mocks those with a “muscle-bound” understanding of power, and advising them to take on the “power of the feminine” (yes, Evola!).

Later chapters feature a fascinating discussion, new to me, of occult warfare via Aeonic Magick and Time Sorcery and the attempts of Evola, Crowley, and even H. P. Lovecraft to tap into eternal principles in order to literally re-create the conditions of the primordial state in our modern age.

The reader may find himself feeling a bit overwhelmed with all this somewhat theoretical discussion. The last third of the book balances this out with several chapters of “Sorcery in Practice,” the “many forms of sorcery and many models for recognizing the associations between our own inner world and that which is beyond” (p. 205) ranging from runes to sexual sorcery.

The reader must have realized by now that no mere blog review could do justice to the contents of this rich and important book. I hope they will have also realized that the solution is to get their hands on this book for themselves. It is essential reading for those in the modern world who would “decide whether to be a nithing or coward or nothing, a member of the herd or crowd or a hero, a warrior, a comrade of the Männerbund” (p. 240).

Source: http://jamesjomeara.blogspot.com/ [4]


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mercredi, 28 septembre 2011

Absolute Woman: A Clarification of Evola’s Thoughts on Women

Absolute Woman:
A Clarification of Evola’s Thoughts on Women

By Amanda BRADLEY

Ex: http://www.counter-currents.com/

evola08.jpgOne of the central concepts of Julius Evola’s philosophy of gender is the distinction between absolute man and absolute woman. But he seldom gives explicit definitions of these terms. Absolute man and woman can be likened to Platonic Forms, thus defining them can be as difficult as defining Justice, Truth, or Love.

The term “absolute woman” inspires more controversy than “absolute man.” Since the male principle is associated with light, goodness, and activity, whereas the female principle is associated with darkness, evil, and passivity, feminists can easily claim that Evola’s views are inherently misogynist. Another point of controversy is Otto Weininger’s influence on Evola. Evola himself admits that Weininger must be read critically due to “his unconscious misogynous complex” (Julius Evola, Eros and the Mysteries of Love: The Metaphysics of Sex [Rochester, Vermont.: Inner Traditions, 1991], 157–58).

It is important to address Evola’s writings on women so that his views are correctly understood. Since he was opposed to the emerging feminism of his day, it would be easy for those unfamiliar with his ideas to infer that Evola also was anti-woman. By explaining his views and not glossing over any points that do in fact sound misogynistic (as is the case with some Evola devotees) the New Right can set the terms of discourse and accurately elucidate his position.

Evola on the Composition of Human Beings

The simplest definition of “absolute woman” is the female principle, the feminine force of the universe. Individual men and woman have varying degrees of the absolute man and woman, although the feminine principle usually is the underlying force in women.

In the modern world (the Kali Yuga) these forces appear in more degenerate forms and also do not always manifest properly. In fact, Evola said that “cases of full sexual development are seldom found. Almost every man bears some traces of femininity and every woman residues of masculinity . . . the traits that we deemed typical for the female psyche can be found in man as well as women, particularly in regressive phases of a civilization” (Eros, 169). In addition, these “manifest differently depending on the race and type of civilization” (Eros, 168).

To understand the influence of the “absolute woman,” it is first necessary to understand Evola’s conception of the human being. He held that humans are comprised of three parts:

  1. the outer individual (the personality, or ego).
  2. the level of profound being, the site of the principium individuationis. This is the true “face” of a person as opposed to the mask of the ego.
  3. the level of elementary forces that are “superior and prior to the individuation but acting as the ultimate seat of the individual.” (Eros, 36)

It is at the third level, that of elementary forces, where sexual attraction is aroused (Eros, 36). Thus it is here that the elementary forces that comprise the absolute man or woman are located. This matches Evola’s description of some modern women, who are able to develop “masculine” skills such as logic or intellectualism. He says they have done so “by way of a layer placed on top of [their] deepest nature” (Eros, 151–52). However, they have not succeeded in altering their fundamental nature, only their superficial personalities.

A Metaphysical Starting-Point for Male and Female

According to Traditional doctrines, the sexes were metaphysical forces before they manifested in the world. Absolute man and woman exist from the beginning of time, when the Universal One splits into a Dyad, which then causes the rest of creation. In most forms of Hinduism, Shiva, the male principle, is identified with pure Being. Shakti, the female principle, is identified with Becoming and Change. In a similar vein, Aristotle associated the male principle with form and the female with matter. According to Evola, form means “the power that determines and arouses the principle of motion, development, becoming” while matter means “the substance or power that, being devoid of form in itself, can take up any form, and which in itself is nothing but can become everything when it has been awakened and fecundated” (Eros, 118). In the Far Eastern tradition, yang (the male principle) is associates with heaven, while yin (the female principle) is associated with the earth (Julius Evola, Revolt Against the Modern World, trans. Guido Stucco [Rochester, Vermont: Inner Traditions: 1995], 157.).Thus, form and matter combined to create the manifested universe. And from the coitus of Shiva and Shakti “springs the world” (Eros, 122). (This is in contrast to Oswald Spengler, who believed that becoming was the essential element, rather than steadfast being.)

The male principle is associated with truth, light, the Sun, virility, activeness, and stability. Sometimes it is associated with the Universal One that existed before the Dyad. The female quality is associated with deception, changeability, the moon, the earth, darkness, wetness, passivity, and dependence on another. In Evola’s words:

What the Greeks called “heterity,” that is, being connected to another or being centered on someone other than oneself, is a characteristic proper to the cosmic female, whereas to have one’s own principle in oneself is proper to the pure male. . . . female life is almost always devoid of an individual value but is linked to someone else in her need, born of vanity, to be acknowledged, noticed, flattered, admired, and desired (this extroverted tendency is connected to that “looking outside” which on a metaphysical level has been attributed to Shakti). (Eros, 157)

These forces then manifest in actual men and women. But Evola is clear to maintain that absolute man and woman are not simply aspects of character. Instead, they are “objective elements working in individuals almost as impersonally as the chemical properties inherent in a particular substance” (Eros, 152). As Evola says:

before and besides existing in the body, sex exists in the soul and, to a certain extent, in the spirit itself. We are man or woman inwardly before being so externally; the primordial male or female quality penetrates and saturates the whole of our being visibly and invisibly . . . just as a color permeates a liquid. (Eros, 32)

As such, the absolute woman is not simply an idealized concept of woman. She is defined from the divine down to the human, and is not a human conception of something divine.

Evola’s Description of Absolute Woman

The absolute woman is the rod by which all women are to be measured. Evola writes, “the only thing we can do is establish the superiority or inferiority of a given woman on the basis of her being more of less close to the female type, to the pure and absolute woman, and the same thing applies to man as well” (Eros, 34). In addition, superiority is defined by how closely one realizes the absolute woman or man. “A woman who is perfectly woman is superior to a man who is imperfectly man, just as a farmer who is faithful to his land and performs his work perfectly is superior to a king who cannot do his own work,” says Evola (Eros, 34).

Many more characteristics are associated with the female principle than those described below; however, these are the primary ones highlighted by Evola in his writings on the subject.

The Waters and Changeability

The fundamental feminine characteristic is changeability. Thus, the female is associated with water, which is fluid, and adapts to whatever form it is put into, just as matter/Shakti is shaped by form/Shiva. Evola writes that woman “reflects the cosmic female according to its aspect as material receiving a form that is external to her and that she does not produce from within” (Eros, 153). This fits in with Carl Jung’s description of woman’s animus, which is not self-created, but instead is a subconscious collection of the thoughts of men.

This changeability is related to woman’s tendency to live for someone outside of herself, due to the fluidity and changeability of her nature. For Evola, this means following the path of a mother or lover, fixing herself to a virile force in order to obtain transcendence. In contrast, “modern woman in wanting to be for herself has destroyed herself” (Revolt, 165.). By believing that she is merely her personality, she loses her transcendent aspect.

This changeability is seen in the association of the female with water. According to Evola, water represents “undifferentiated life prior to and not yet fixed in form,” that “which runs or flows and is therefore unstable and changeable,” and “the principle of all fertility and growth according to the analogy of water’s fertilizing action on earth and soil” (Eros, 119).

Evola also describes the correct relationship between the principle of water and that of fire, associated with the male: “when the feminine principle, whose force is centrifugal, does no turn to fleeting objects but rather to a ‘virile’ stability in which she finds a limit to her ‘restlessness’” (Revolt, 158).

Evola assents that certain modern women may appear very unchangeable, but stresses that this is at an outer level of her being:

a possible rigidity may follow the reception of ideas due precisely to the passive way she has adopted them, which may appear under the guise of conformity and conservatism. In this way, we can explain the apparent contrast inherent in the fact that female nature is changeable, yet women mainly show conservative tendencies sociologically and a dislike for the new. This can be linked to their role in mythology as female figures of a Demeter or chthonic type who guard and avenge customs and the law—the law of blood and of the earth, but not the uranic law. (Eros, 153)

Thus, a woman may be quite unchanging in her beliefs about society, etiquette, and morality, but will lack an attachment to a transcendent truth. Many of women’s ideas regarding social truths such as honor and virtue are “not true ethics but mere habits,” Evola says (Eros, 155).

This changeability of women explains the notion that women are at the same time more compassionate and more cruel than men; as woman is associated with the earth, she expresses both the tenderness of the mother and the cruelty of nature. The best example of this duality is the Greek goddess Artemis, who was both the protector of wild animals and the huntress.

Woman’s Lack of Being or Soul

Perhaps the most controversial characteristic of Evola’s absolute woman, which he gets from Weininger, is a common conception throughout history: that woman has no soul, or being. Weininger states that woman has no ego, referring to the Transcendental Ego of Immanuel Kant, which Evola describes as “above the whole world of phenomena (in metaphysical terms one would say ‘above all manifestation,’ like the Hindu atman)” (Eros, 151). In some schools of Hinduism, the atman (or “higher self”) is identical with the Brahman, the infinite soul of the Universe. In other Hindu conceptions, the atman is the life-principle. As manifested existence would be impossible without the atman, this description of woman as lacking a Transcendental Ego should not be taken to mean that women are incapable of developing and solidifying this aspect, though they may be at a disadvantage to men. Also, in the Kali Yuga, all people are the furthest removed from the divine, so modern men and women are likely in the same starting position in terms of development of Being.

Evola expands on the notion, stating that if soul means “psyche” or “principle of life,” then “it should signify in fact that woman not only has a soul but is eminently ‘soul,’” whereas man is not a soul but a “spirit.” He continues: “the point we believe settled is that woman is a part of ‘nature’ (in a metaphysical sense she is a manifestation of the same principle as nature) and that she affirms nature, whereas man by virtue of birth in the masculine human form goes tendentially beyond nature” (Eros, 151).

Deception and a Connection to Truth

Another attribute of absolute woman is deceitfulness. In fact, Evola states that it is so essential that telling lies has been acknowledged as an essential characteristic in female nature “at all times and in all places by popular wisdom” (Eros, 155). According to Weininger, this tendency is due to her lack of being. With no fixed essence, most women (and modern men) are attached to no transcendent truth, and therefore there is nothing to lie against—Truth only exists when one has substance and values. In Evola’s words:

Weininger observed that nothing is more baffling for a man than a woman’s response when caught in a lie. When asked why she is lying, she is unable to understand the question, acts astonished, bursts out crying, or seeks to pacify him by smiling. She cannot understand the ethical and transcendent side of lying or the fact that a lie represents damage to being and, as was acknowledged in ancient Iran, constitutes a crime even worse than killing. . . . The truth, pure and simple, is that woman is prone to lie and to disguise her true self even when she has no need to do so; this is not a social trait acquired in the struggle for existence, but something linked to her deepest and most genuine nature. (Eros, 155)

This quality of deceitfulness, while springing from the fundamental makeup of women, should not imply that it must be accepted as a given trait of all women, as some of Weininger’s writings imply. For, just like man, the ultimate goal of a woman’s existence is to connect with and live by the transcendent, which requires a fixation that cannot accept deception.

Woman’s Intuition, Man’s Ethics and Logic

Another idea Evola gets from Weininger is the notion that absolute woman, since she lacks being, also lacks memory, logic, and ethics (Eros, 154). In order to explain this, Evola distinguishes between two kinds of logic: everyday logic, which women can use quite successfully (though sometimes like a “sophist”) and “logic as a love of pure truth and inward coherence” (Eros, 154). This distinction can most commonly be seen when women use logic in arguments as a means to personal ends, rather than to arrive at a truth beyond their desires. Evola writes that

woman, insofar as she is woman, will never know ethics in the categorical sense of pure inner law detached from every empirical, eudemonistic, sensitive, sentimental, and personal connection. Nothing in woman that may have an ethical character can be separated from instinct, sentiment, sexuality, of “life”; it can have no relationship with pure “being.”

Women’s primary tool of cognition is not logic but intuition and sensitivity (Eros, 154).

In explaining memory, Evola turns to Henri Bergson, who described two types of memory. One is more common in women: the memory connected to the subconscious, which may remember dreams, have premonitions, and unexpectedly recall forgotten experiences. The second type of memory, which women lack due to their fluid nature, is “determined, organized, and dominated by the intellect” (Eros, 154).

The Female Principle as Powerful, Sovereign, and Active

Generally the female principle is described as passive, and the male as active. According to Evola, this only is true on the outermost plane. On the subtle plane, he says, “it is the woman who is active and the man who is passive (the woman is ‘actively passive’ and the man ‘passively active’)” (Eros, 167–68). In Hindu terms the impassible spirit (purusa) is masculine, while the active matrix of every conditioned form (prakriti) is feminine (Revolt, 157). Thus, to use the creation of a child as an example, man gives his seed, but it is woman who actively creates and gives birth to the child.

Mythology supports the sovereign aspect of woman. Evola gives the examples of the Earth goddess Cybele drawn in a chariot led by two tame tigers, and the Hindu goddess Durga seated on a lion with reins in her hands (Eros, 167). Evola states that man knows of this sovereign quality in women, and “often owing to a neurotic unconscious overcompensation for his inferiority complex, he flaunts before woman an ostentatious manliness, indifference, or even brutality and disdain. But this secures him the advantage, on the contrary. The fact that woman often becomes a victim on an external, material, sentimental, or social level, giving rise to her instinctive ‘fear of loving,’ does not alter the fundamental structure of the situation” (Eros, 167).

 

Association with the Demonic and Aspiration

Another “negative” quality of the absolute woman is that of aspiration, in the sense of a sucking quality, which also is associated with the demonic. On a profane level, in a degenerate form, this could be the woman who is constantly demanding more from her husband and others—more time spent together, a better car, a bigger house, or more attention. Since she has no “soul” (as defined above), she must fill the void within herself by sucking the vital force from others in emotional, monetary, or temporal vampirism.

On a metaphysical level, this quality merely refers to the divine female, Shakti, pulling Shiva into the world of manifestation. Thus, it is not good or bad, except for Gnostics or other sects who believe the created world to be evil. As Evola states, woman “is oriented toward keeping that order which Gnosticism, in a dualistic background, called the ‘world of the Demiurge,’ the world of nature as opposed to that of the spirit” (Eros, 141). This demonic element is expressed in actual life when women draw men to the realm of earth, nature, and children. It is expressed in sex when man’s seed being draw into the woman, creating a child bound by nature. “Although ‘woman’ can give life,” Evola writes, “yet she shuts off or tends to shut off access to that which is beyond life” (Eros, 142).

In some Eastern thought, the man’s seed is thought to be the spiritual manhood—hence the formation of sects that teach men to retain this force to attain liberation rather than wasting it through ejaculation. Women properly trained are said to be able to capture this essence during sex, thus seducing the man into giving up his manhood.

The positive aspect of this trait lies in woman’s ability to overcome it, most often by following the path of the mother or lover. In the actions required by these paths (if following them in an attitude of self-sacrifice and not self-aggrandizement), she no longer drains others, but instead learns to build up a vital force within herself through renunciation of desires. By relinquishing the control of the ego/personality by instead being devoted to others, woman is able to fix herself to the transcendent.

Like the other qualities of absolute woman, that of aspiration also can be found in man, especially in the Kali Yuga. Evola refers to sexual practices found in Chinese Taoism, India, and Tibet, where the man sucks the vital female energy from a woman during sex, a technique he describes as bordering on “male ‘psychic’ vampirism” (Eros, 249).

 

The Value of Absolute Woman in the Modern World

In the Golden Age, we can imagine that the metaphysical elements comprising a person manifested in the proper way. In such a time, the highest classes gave birth to the highest people; race was indicative of a corresponding inner quality; beauty on the outside attested to an inner beauty; and physical gender aligned with the qualities of absolute man or woman.

But in the Kali Yuga, there are pariahs in the highest classes, men who act like women, and men of Aryan stock who do not embody any of the virtues attributed to their race. As Evola says, it is possible for a person to be a different sex in the body than they are in the soul. These cases are similar to those where individuals of one race “have the psychic and spiritual characteristics of another race”(Eros, 34).

Therefore, men today may not innately possess any virile seed, just as modern women do not necessarily express the absolute female principle. In reading Evola’s work, then, we must not mistakenly interpret what he says about absolute man or woman as corresponding with individual men and women of today. Modern men and women are almost completely removed from the deepest aspects of themselves, functioning only as personalities. Thus, a person’s sex or caste has little importance in determining vocations or social relations. What relevance, then, do Evola’s descriptions of absolute man and woman have in the modern world?

An answer is found in the existential Angst that defined the twentieth century. Martin Heidegger wrote of the inauthentic life, and Jean-Paul Sartre of bad faith; most people today still fit the description of mere personalities, lacking divine connections or the means to find them. In a world that has lost its values and connection to Tradition, discovering these principles in our innermost natures becomes even more important. By examining Evola’s work, and that of other Traditionalists, we can find our way back to our true selves, the true relation between the sexes, and a connection to the transcendent.


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lundi, 26 septembre 2011

Life Styles: Native and Imposed

Life Styles: Native and Imposed

By Kevin Beary

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For decades now, African American leaders have been calling for a formal United States apology for the American role in the slave trade, with some even demanding reparations. Indian tribes proclaim their tax-exempt status as something they are owed for a legacy of persecution by the United States. Mexican Americans in the southwest United States seek to incorporate this region, including California, into Mexico, or even to set up an independent nation, Aztlan, that will recreate the glories of the Aztec empire, destroyed centuries ago by the imperialistic Spaniards.

That we live in an age of grievance and victimhood is not news. But did these peoples — these Mexican-Americans, these Native Americans, these African-Americans — really lose more than they gained in their confrontation with the West? Were they robbed of nobility, and coarsened? Or did White subjugation force them to shed savagery and barbarousness, and bring them, however unwillingly, into civilized humanity?

Today our children our being taught that the people who lived in the pre-Columbian Western Hemisphere were not “merciless Indian savages” (as Jefferson calls them in the Declaration of Independence), many of whom delighted in torture and cannibalism, but rather spiritually enlightened “native Americans” whose wise and peaceful nobility was rudely destroyed by invading European barbarians; that the Aztecs were not practitioners of human sacrifice and cannibalism on a scale so vast that the mind of the 20th-century American can hardly comprehend it, but rather defenders of an advanced civilization that was destroyed by brutal Spanish conquistadores; and that Africans were not uncultured slave traders and cannibals, but unappreciated builders of great empires.

But just how did these peoples live before they came into contact with Europeans? Although historical myth is ever more rapidly replacing factual history, not only in popular culture but also in our schools and universities, we may still find accurate historical accounts buried in larger libraries or in used book stores.

Aztec Civilization

In his famous work, The Conquest of New Spain, Bernal Diaz del Castillo describes the march on Mexico with his captain, Hernan Cortés, in 1519. The Spanish forces set out from the Gulf of Mexico, and one of the first towns they visited was Cempoala, situated near the coast, where Cortés told the chiefs that “they would have to abandon their idols which they mistakenly believed in and worshipped, and sacrifice no more souls to them.” As Diaz relates:

Every day they sacrificed before our eyes three, four, or five Indians, whose hearts were offered to those idols, and whose blood was plastered on the walls. The feet, arms, and legs of their victims were cut off and eaten, just as we eat beef from the butcher’s in our country. I even believe that they sold it in the tianguez or markets.

Of their stay in Tenochtitlan, the present-day Mexico City and the heart of the Aztec empire, Diaz writes that Emperor Montezuma’s servants prepared for their master

more than thirty dishes cooked in their native style. . . . I have heard that they used to cook him the flesh of young boys. But as he had such a variety of dishes, made of so many different ingredients, we could not tell whether a dish was of human flesh or anything else. . . . I know for certain, however, that after our Captain spoke against the sacrifice of human beings and the eating of their flesh, Montezuma ordered that it should no longer be served to him.

In renouncing cannibalism, was Montezuma cooperating in the destruction of his Aztec “cultural roots,” or was he aiding a victory of civilized custom over barbaric?

A few pages later, Diaz provides a detailed description of

the manner of their [that is, the Aztecs'] sacrifices. They strike open the wretched Indian’s chest with flint knives and hastily tear out the palpitating heart which, with the blood, they present to the idols in whose name they have performed the sacrifice. Then they cut off the arms, thighs, and head, eating the arms and thighs at their ceremonial banquets. The head they hang up on a beam, and the body of the sacrificed man is not eaten but given to the beasts of prey.

Diaz also describes the great market of Tenochtitlan, and its

dealers in gold, silver, and precious stones, feather, cloaks, and embroidered goods, and male and female slaves who are also sold there. They bring as many slaves to be sold in that market as the Portuguese bring Negroes from Guinea. Some are brought there attached to long poles by means of collars round their necks to prevent them from escaping, but others are left loose.

Following the ceremony in which humans are sacrificed to their gods, high-ranking Aztecs eat the flesh of the victims. A Spanish witness commented:

This figure demonstrates the abominable thing that the Indians did on the day they sacrificed to their idols. After [the sacrifice] they placed many large earthen cooking jars of that human meat in front of their idol they called Mictlantecutli, which means lord of the place of the dead, as it is mentioned in other parts [of this book]. And they gave and distributed it to the notables and overseers, and to those who served in the temple of the demon, whom they called tlamacazqui [priests]. And these [persons] distributed among their friends and families that [flesh] and these [persons] which they had given [to the god as a human victim]. They say it tasted like pork meat tastes now. And for this reason pork is very desirable among them.

Plainly it was the Spanish who stamped out human sacrifice and cannibalism among the people of pre-Cortesian Mexico. As for slavery, it is as obvious that the Europeans did not introduce it to the New World as it is that they eradicated it, albeit not immediately. Moreover, the moral impulse to end slavery came from the West, specifically out of England. Had the Aztecs, Indians, and Africans been left to their own devices, slavery might well have endured in North and South America, as it does in parts of present-day Africa.

North American Natives

In his epic work France and England in North America, the great American historian Francis Parkman describes the early 17th-century recreational and culinary habits of the Iroquois Indians (also known as the Five Nations, from whom, some will have it, the United States derived elements of its Constitution). He tells that the Iroquois, along with other tribes of northeastern United States and Canada, “were undergoing that process of extermination, absorption, or expatriation, which, as there is reason to believe, had for many generations formed the gloomy and meaningless history of the greater part of this continent.” Parkman describes an attack by the Iroquois on an Algonquin hunting party, late in the autumn of 1641, and the Iroquois’ treatment of their prisoners and victims:

They bound the prisoners hand and foot, rekindled the fire, slung the kettles, cut the bodies of the slain to pieces, and boiled and devoured them before the eyes of the wretched survivors. “In a word,” says the narrator [that is, the Algonquin woman who escaped to tell the tale], “they ate men with as much appetite and more pleasure than hunters eat a boar or a stag . . .”

The conquerors feasted in the lodge till nearly daybreak . . . then began their march homeward with their prisoners. Among these were three women, of whom the narrator was one, who had each a child of a few weeks or months old. At the first halt, their captors took the infants from them, tied them to wooden spits, placed them to die slowly before a fire, and feasted on them before the eyes of the agonized mothers, whose shrieks, supplications, and frantic efforts to break the cords that bound them were met with mockery and laughter . . .

The Iroquois arrived at their village with their prisoners, whose torture was

designed to cause all possible suffering without touching life. It consisted in blows with sticks and cudgels, gashing their limbs with knives, cutting off their fingers with clam-shells, scorching them with firebrands, and other indescribable torments. The women were stripped naked, and forced to dance to the singing of the male prisoners, amid the applause and laughter of the crowd . . .

On the following morning, they were placed on a large scaffold, in sight of the whole population. It was a gala-day. Young and old were gathered from far and near. Some mounted the scaffold, and scorched them with torches and firebrands; while the children, standing beneath the bark platform, applied fire to the feet of the prisoners between the crevices. . . . The stoicism of one of the warriors enraged his captors beyond measure . . . they fell upon him with redoubled fury, till their knives and firebrands left in him no semblance of humanity. He was defiant to the last, and when death came to his relief, they tore out his heart and devoured it; then hacked him in pieces, and made their feast of triumph on his mangled limbs.

All the men and all the old women of the party were put to death in a similar manner, though but few displayed the same amazing fortitude. The younger women, of whom there were about thirty, after passing their ordeal of torture, were permitted to live; and, disfigured as they were, were distributed among the several villages, as concubines or slaves to the Iroquois warriors. Of this number were the narrator and her companion, who . . . escaped at night into the forest . . .

Of the above account, Parkman writes: “Revolting as it is, it is necessary to recount it. Suffice it to say, that it is sustained by the whole body of contemporary evidence in regard to the practices of the Iroquois and some of the neighboring tribes.”

The “large scaffold” on which the prisoners were placed, is elsewhere in his narrative referred to by Parkman as the Indians’ “torture-scaffolds of bark,” the Indian equivalent of the European theatrical stage, while the tortures performed by the Indians on their neighbors — and on the odd missionary who happened to fall their way — were the noble savages’ equivalent of the European stage play.

If the descendants of the New England tribes now devote their time to selling tax-free cigarettes, running roulette wheels, or dealing out black jack hands, rather than to the capture, torture, and consumption of their neighboring tribesmen, should we not give thanks to those brave Jesuits who sacrificed all to redeem these “native Americans”?

Native Africans

What kind of life did the African live in his native land, before he was brought to America and introduced to Western civilization? That slavery was widely practiced in Africa before the coming of the white man is beyond dispute. But what sort of indigenous civilization did the African enjoy?

In A Slaver’s Log Book, which chronicles the author’s experiences in Africa during the 1820s and 1830s, Captain Theophilus Conneau (or Canot) describes a tribal victory celebration in a town he visited after an attack by a neighboring tribe:

On invading the town, some of the warriors had found in the Chief’s house several jars of rum, and now the bottle went round with astonishing rapidity. The ferocious and savage dance was then suggested. The war bells and horns had sounded the arrival of the female warriors, who on the storming of a town generally make their entry in time to participate in the division of the human flesh; and as the dead and wounded were ready for the knife, in they came like furies and in the obscene perfect state of nakedness, performed the victorious dance which for its cruelties and barbarities has no parallel.

Some twenty-five in number made their appearance with their faces and naked bodies besmeared with chalk and red paint. Each one bore a trophy of their cannibal nature. The matron or leader . . . bore an infant babe newly torn from its mother’s womb and which she tossed high in the air, receiving it on the point of her knife. Other Medeas followed, all bearing some mutilated member of the human frame.

Rum, powder, and blood, a mixture drunk with avidity by these Bacchantes, had rendered them drunk, and the brutal dance had intoxicated them to madness. Each was armed also with some tormenting instrument, and not content with the butchering outside of the town of the fugitive women, they now surrounded the pile of the wounded prisoners, long kept in suspense for the coup de grâce. A ring was formed by the two-legged tigresses, and accompanied by hideous yells and encouraging cry of the men, the round dance began. The velocity of the whirling soon broke the hideous circle, when each one fell on his victims and the massacre began. Men and women fell to dispatching the groaning wounded with the most disgusting cruelties.

I have seen the tiger pounce on the inoffensive gazelle and in its natural propensity of love of blood, strangle its victim, satiate its thirst, and often abandon the dead animal. But not so with these female cannibals. The living and dying had to endure a tormenting and barbarous mutilation, the women showing more cannibal nature in the dissection of the dead than the stronger sex. The coup de grâce was given by the men, but in one instance the victim survived a few minutes when one of those female furies tormented the agony of the dying man by prostrating herself on his body and there acting the beast of double backs.

The matron, commander of these anthrophagies, with her fifty years and corpulous body, led the cruelties on by her example. The unborn babe had been put aside for a bonne bouche, and now adorned with a string of men’s genital parts, she was collecting into a gourd the brains of the decapitated bodies. While the disgusting operating went on, the men carved the solid flesh from the limbs of the dead, throwing the entrails aside.

About noon the butchering was at an end, and a general barbecuing took place. The smell of human flesh, so disgusting to civilized man, was to them the pleasing odor so peculiarly agreeable to a gastronomer …

The barbecuing over, an anthrophagous repast took place, when the superabundant preserved flesh was packed up in plantain leaves to be sent into the Interior for the warriors’ friends. I am silent on the further cruelties that were practiced this day on the unfortunate infirm and wounded that the different scouting parties brought in during the day, supposing the reader to be sick enough at heart at the above representation.

Vanishing History

This is the history that has been handed down to us by men who either were present when the recorded events took place — that is, Diaz and Conneau — or who had access to period documents — that is, Parkman. But this factual history has suffered greatly at the hands of politically correct myth-mongers. The books themselves are disappearing from the shelves: Conneau’s book has been out of print for nearly a generation; perhaps Diaz’s and Parkman’s will follow in the next 20 years. In its place, the most absurd historical fantasies are substituted. As the seemingly inexorable forces of political correctness grind on, we may be left with as much knowledge of our true history as Orwell’s Winston Smith had of his.

Were it not for their subjugation by Europeans, Mexicans would perhaps have continued to practice the Aztec traditions of slavery, human sacrifice, and cannibalism; many American Indians would probably still be living their sad and perilous life of nomadism, subsistence farming, and warfare; and Africans would likely be expiring in even greater numbers on the fields of mayhem and slaughter (as the world has noted to its horror in Rwanda, Liberia and Congo), when not being bought and sold as slaves (as still is done in Sudan and Mauritania).

In his 1965 work, The Course of Empire: The Arabs and their Successors, the sagacious Glubb Pasha wrote in defense of Western colonialism:

Foreign military conquest has not only enabled backward people to acquire the skills and the culture of the conquerors, but it has often administered a salutary shock to the lethargic mentality of the inhabitants, among whom the desire to rise to equality with the foreigners has roused a new spirit of energy. . . . Britain has permeated Asia and Africa with her ideas of government, of law and of ordered civilization. The men of races who less than a hundred years ago were naked are now lawyers, doctors and statesmen on the stage of the world.

But if the present trend of denigrating the West’s mission civilisatrice continues, the achievements of that great civilizing venture might well be squandered and lost forever. If we permit inhumane customs and mores to reassert themselves, the ultimate dissolution of the West itself is not an impossibility. In his famous poem “White Man’s Burden,” Rudyard Kipling eloquently spelled out the fate of a culture that loses faith in itself and its mission:

And when your goal is nearest
The end for others sought,
Watch Sloth and heathen Folly
Turn all your hope to naught.

Journal of Historical Review 17, no. 3 (May–June 1998), 7–11.

Online source: http://library.flawlesslogic.com/lifestyles.htm [2]


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

mardi, 20 septembre 2011

Pierre Vial: Pourquoi fêtons-nous le cochon?


Pierre Vial: Pourquoi fêtons-nous le cochon?

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dimanche, 18 septembre 2011

Ainu, il popolo dell'orso. Antica spiritualità giapponese

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Ainu, il popolo dell'orso. Antica spiritualità giapponese

di Italo Bertolasi


Fonte: enciclopediaolistica

Il genocidio. Mi hanno accolto nei loro "kotan", i villaggi fatti di baracchette coi tetti di latta e il nylon al posto delle finestre, mostrandomi le loro ferite: le terre rubate, i boschi tagliati. Ma anche la loro ricchezza: l' "Ainu Moshir", una terra ancora in gran parte selvaggia che venerano come Dio e Madre. Per cinque volte sono stato tra gli Ainu, aborigeni del Giappone, che una volta abitavano il nord del Tohoku, l'isola d'Hokkaido e l'isola di Sakhalin. Oggi di quest'antica e popolosa tribù non rimane che la minoranza discriminata di diecimila Ainu "full blooded". Purosangue.

La storia del loro genocidio ricorda quello degli Indiani d'America. Lo sterminio inizia cinque secoli fa per mano di sanguinari samurai. Dal 1822 al 1854 la popolazione Ainu si dimezza falcidiata dal colera, dalla sifilide e dalla tubercolosi importata dai "repunkun", gli odiati nemici che venivano dai mari del nord, e dai "shamo", i giapponesi. Alla fine dell'ottocento, nell'era Meji, decolla il capitalismo industriale e i sentimenti nazionalistici: la terra degli Ainu è confiscata come "terra di nessuno" e gran parte delle foreste è distrutta per il profitto dell'impero del Giappone. Nel 1899 è promulgato l' "Aborigenes Protection Act" e inizia una violenta campagna di acculturazione. Agli Ainu è proibito l'uso della lingua natale. E' stravolta la toponomastica. Si costruiscono strade militari costringendo i giovani Ainu ai lavori forzati. Una perfetta operazione di "pulizia etnica" conclusa solo pochi decenni fa. Nel 1955 solo 20 vecchi ricordano l' "Ainu itak" - l'antica lingua.

Un inatteso "rinascimento Ainu" esplode alla fine degli anni '60 quando in Giappone nasce l'arte moderna del gruppo "Gutai", la controcultura e la ribellione degli studenti di Tokyo e Osaka nel "magico 68". Finalmente una stampa libera e insolente mostra al mondo l'altra faccia del "civilissimo" Giappone. Paese del miracolo economico, dei ciliegi sempre in fiore e dello zen che nasconde però nei suoi "slum" di Kobe e Osaka tre milioni di fuoricasta. I "burakumin", eredi di una discriminazione feudale contro chi praticava mestieri "impuri", come macellai e conciatori di pelle. Invisibili e discriminati razzialmente sono anche quelle migliaia di "giapponesi" che appartengono alle minoranze degli Ainu e della popolazione d'Okinawa.

A difendere gli Ainu c'é lo scrittore Ryu Ota, "guru" del movimento dei verdi giapponesi. Nel suo libro "Ainu Kakomei Ron" incita apertamente gli Ainu alla rivolta per fondare una repubblica indipendente. Lo incontro la prima volta in una "scuola di selvaggità" che ad ogni estate si inaugura nel cuore segreto della foresta di Shizunai. Qui si ritrovano ecologi giapponesi, ambientalisti provenienti da ogni parte del mondo e giovani ainu guidati dai loro sciamani - i mitici Tusu Guru. Ryu Ota è ottimista: il messaggio degli Ainu è universale e straodinariamente moderno. Questo popolo conserva ancora la purezza e la forza dell'uomo selvaggio. "Ainu puri" - la "Via" degli Ainu - proclama quell' "egualitarismo biosferico" che è anche l'idea fissa dell'ecologia profonda, che afferma il diritto di ogni creatura a vivere secondo i propri fini. Per gli Ainu non c'é nessuna differenza tra uomini e animali e piante che diventano nostri "maestri" quando ci insegnano a vivere in modo più libero, spontaneo, estatico e armonico.

Ryu Ota è convinto che gli Ainu sono un "patrimonio dell'umanità " che il governo giapponese dovrebbe tutelare. Oggi il 70% degli Ainu è povero e l'altro 30%è indigente. Gli Ainu controllano solo lo 0,15% del territorio natale. Il reddito annuo di un capofamiglia Ainu è inferiore di duemila dollari a quello di un giapponese che lavora in Hokkaido. Per queste ingiustizie è nato negli anni '70 un "braccio armato" che si è scagliato contro i bersagli simbolici della colonizzazione giapponese. All'università di Sapporo salta in aria il dipartimento d'antropologia. Si accusano gli antropologi d'aver rapinato oggetti rituali, d'aver dissepolto nei cimiteri i crani degli avi per folli misurazioni. Gridano gli Ainu: "Siamo vivi e non finiremo imbalsamati nei vostri musei". Poi salta in aria il quartier generale della polizia e un tempio scinto. E a Asahikawa è distrutta la statua che raffigura un Ainu schiavizzato che si inginocchia ai piedi di un "eroe" giapponese.

Ryu Ota mi ricorda che proprio da Shizunai era partita una folla di ecologi e ainu per la prima "Marcia per la Sopravvivenza: Seizo E - No - Koshin". Un pellegrinaggio a piedi attraverso tutto il Giappone che riuniva simbolicamente due popoli "schiavi": gli Ainu e il popolo di Okinawa. Una svolta politica si ha solo nel 1994 con l'elezione al parlamento dell'ainu Shigeru Kayano, animatore del museo di Nibutani e autore del libro: "Our Land was a Forest". E finalmente nel 1997 viene proposto al parlamento giapponese il primo progetto legge per la tutela della "minoranza" Ainu.

 

A scuola di selvaggità

Nel bosco scuola incontro anche Pon Fuchi, attivista dell' "Ainu Culture Association" di Shizunai. Mi dice: "Questa gente ci insegna a vivere in modo meno consumista e distruttivo. Il patrimonio culturale degli Ainu, come quello delle altre popolazioni aborigene ha un valore tremendo per tutta l'umanità". Le chiedo di spiegarmi l'idea di questa scuola nella natura. Mi risponde che tutto è nato quando il bosco è stato restituito alla sciamana ainu Kohana, dopo una lunga battaglia legale finita su tutti i giornali giapponesi. Una vittoria simbolica, estremamente importante perché ha indicato a tutti gli Ainu la via legale per riacquistare la propria terra. Nel bosco si è voluto ricreare un "kotan" scuola, fatto di capanne di paglia tradizionali, per rieducare gli Ainu alla selvaggità, lontano da turisti e giornalisti che li fotografano come "animali da zoo". Un ritorno alla vita com'era una volta ma anche una nuovissima idea di ecologia esperenziale. L'uomo d'oggi - Ainu compresi -è disorientato: ha perso le sue radici e per curarsi ha bisogno di selvaggità. Ridiventando "non concimato, non potato, forte, elastico e ad ogni primavera fiorente di una bellezza selvaggia" come "canta" il poeta della natura Gary Schneider che ha avuto come compagni di viaggio "Budda Maratoneti" e asceti delle Alpi giapponesi.

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Prima di essere ammesso alla scuola dove si insegna il "galateo della selvaggità " vengo messo alla prova con un po' di sveglie all'alba e faticose giornate di lavoro. Finalmente vengo accettato dal "capo" Fukushima San, figlio adottivo della famosa sciamana Kohana. La mia giornata tipo inizia all'alba con un bagno ghiacciato di torrente. La colazione è servita alle sette: zuppa di erbe selvatiche condita con "miso" e un buon te' di "kumasasa" - l' "erba dell'orso" - un bambù nano che cresce in montagna. Lavoro con gli uomini che costruiscono una "ciset", la capanna tradizionale fatta di paglia e di bambù, mentre le donne gironzolano nel bosco a "caccia" di funghi e gustose radici selvatiche. A mezzogiorno ci si ritrova tutti assieme a tavola davanti a una tazza di brodo caldo in cui galleggiano dei gnocchi di farina integrale. Poi si fatica ancora fino al tramonto. Prima di cena si fa il canonico bagno caldo - l' "ofuru" - tutti nella stessa tinozza: prima le donne con i bambini. Il menù serale si arricchisce di riso, tofu e alghe. Poi davanti al fuoco inizia la "classe" di danza. Un vecchi Tusu Guru dalla barba bianca, uno sciamano, ci insegna a danzare e a "volare" come aironi, a saltare come orsi. La danza è un "viaggio", una metamorfosi sacra, un orgasmo del corpo e dell'anima; il ritmo è scandito dal canto di vecchie patriarche, le "fuchi". Qualcuna ha ancora i "baffi" tatuaggio attorno alla bocca e al collo indossa preziosi gioielli a specchio - gli antichi "tamasai". Le donne danzano scuotendo la testa e le lunghe chiome nere. Muovono le braccia come fossero ali, i loro corpi ondeggiano con eleganza e fluidità. La danza dell'orso è più energica: mima il " respiro della terra", il ritmo di vita e morte. Inspirando si espande il corpo che salta e "vola" verso il cielo, espirando invece ci si piega su sé stessi come embrioni, ritornando così nella culla accogliente della nostra "notte uterina" prenatale.

Per gli Ainu il bosco è vivo. Le betulle col loro tronco lucente sono corpi adolescenti di fate. Le rocce antropomorfe sono troni dei "Kamui" - le energie spirito che popolano l'universo. L'intera montagna è una madre: i suoi seni sono i suoi boschi gonfi di "Qi". Energia cosmica e "latte" verde, che si può "ciucciare" dai pini centenari con una "danza" di abbracci e strusciamenti che assomiglia a un "massaggio arboreo". Si avvicina il viso al tronco per ascoltarne il "respiro". Lo si accarezza con le mani e poi con il corpo. Con la sensualità di un amante.

Mi insegna Fukushima che tutte le creature del bosco sono "Kamui", sacre, perché "l'animale selvaggio è puro, intuitivo e ha una forza tremenda. L'orso non può essere che un Dio incarnato per sopportare il gelo degli inverni d'Hokkaido. E' Kimmun Kamui, il Dio della Montagna, che quando fa visita a noi mortali indossa una pelle d'orso trasformandosi nell'animale più forte della foresta". La caccia dell'orso è per gli Ainu un rito magico per conquistare carne e pelo che gli dei ci regalano in cambio di saké e dolci di riso. L'orso sacro sceglierà il suo killer tra gli uomini più generosi. Dopo l'uccisione rituale il dio dei monti può uscire dalla scomoda pelliccia per ubriacarsi e ritornare ai suoi cieli. Perciò la "festa" del sacrificio dell'orso è chiamata "Iyomande". Che vuol dire scambiarsi doni.

 

Monti sacri, monti "fallo" e "vagina"

Dopo due mesi di vita nei boschi sono pronto all'esame finale: la scalata del monte Horoshiridake, ombelico del "Kamui Moshir" - la terra degli Dei. Horoshiri, la Grande Montagna, svetta sola in mezzo a un oceano verde di foreste: per gli Ainu è un "paradiso" e il luogo archetipo di apprendimento e di sfida, dove si sprigionano vortici d'energia mistica. Ma prima del "Viaggio", Fukushima San ci prepara il nostro "tempio del sudore": una capanna di frasche che assomiglia a un "taipé" indiano con al centro un buco-cratere che verrà riempito con pietre roventi. E' così magicamente riprodotto l' "utero cosmico" e il fuoco al centro della terra. Il nostro bagno di vapore inizia con la svestizione rituale: nudi si entra nel "tempio" da una fessura "vulva" e quando si è dentro ci si dispone in cerchio. E' buio pesto. Si getta acqua ghiacciata sulle pietre roventi: l'aria satura di vapore bollente è irrespirabile. Osamu suona il tamburo:è un giramondo giapponese che ha vissuto con gli Apaches ed è considerato un mezzo sciamano. Nel suo zaino, che ha sempre con sé, nasconde un armamentario di pipe sacre, nastri colorati, foglie di tabacco e penne d'aquila. Il caldo diventa ben presto insopportabile: c'é chi grida dal dolore e chi invece "muore" e cade in trance. Una ad una cascano le nostre inibizioni:è il momento del coraggio e della verità. Il tamburo passa di mano in mano: ognuno si "confessa". C'é anche chi parla con voce angelica regalando le sue visioni. Poi si esce alla luce:è una vera rinascita. Puri, sensibili e più consapevoli siamo così pronti a scalare il monte sacro. Per raggiungere le falde di Horoshiridake risaliamo la valle del fiume Saru fino al villaggio di Nukibetsu e poi il corso del freddissimo rio Nukapia. Adesso non ci sono più sentieri. Si cammina nell'acqua gelida risalendo il fiume che taglia in due la foresta. E' una specie di alpinismo acquatico: anch'io calzo le "cikatabi", una pantofola a zampa d'anitra usate dai carpentieri giapponesi, con sopra un sandalo di paglia antisdrucciolo. Salgo vestito di bianco - il colore della purezza - e in digiuno. Dopo qualche ora di marcia siamo rimasti in tre: con me c'é Fukushima San e la fortissima Fusako Nogami, piccola e battagliera ecologa di Tokyo. Finalmente in cima a Horoshiri ammiro un oceano verde e infinito di foreste che ondeggia ai venti. Non si vedono case, strade: tutto è natura e silenzio. Fukushima mi dice che i laghi, i boschi che ci circondano sono occhi, peli e capelli e il corpo del Dio Madre e Terra. Poi accendiamo un fuoco e preghiamo in silenzio.

Dopo questo "bagno di foresta" voglio visitare l'Akan National Park con i suoi laghi: Akan-ko, Kusharo e Mashu-ko. Ho una lettera di presentazione per l' "Ekashi" Nukanno Akibe, capovillaggio dell'Akan Kotan. E' un omone barbuto che mi accoglie con gran sorrisi: mi invita alla festa del "Marimo Mazuri" per onorare l'alga sferica Marimo che cresce solo nelle acque limpidissime dell'Akanko. Poi mi invita a scalare i due "monti amanti" che si riflettono nel lago: uno di questi è il monte "maschio" e l'altro è il monte "femmina". Salgo allora in cima al virile e solitario "O - Akan". Un vulcano spento che si drizza in alto come un fallo. Poi scendo a valle, attraverso una bella foresta e risalgo il cratere profumato di zolfo della vulcanessa "Me - Akan". "Vagina" del mondo che sprigiona fuoco e calore fecondante. Mi spiega Nukanno che con quel mio salire, scendere e risalire ho creato un "sentiero vivente" e una magia d'amore che riunisce due monti "amanti", crea pace e armonizza l'energia del mondo.

 

 

Hokkaido: l'ultima terra degli Ainu.

Hokkaido, chiamata anticamente "Ezo" - la terra dei barbari -è l'isola più settentrionale del Giappone. E' una terra di frontiera, ricca di foreste e di wilderness montane, che occupa un quinto dell'intera superficie del Giappone, ma che ospita solo il 5% dell'intera popolazione giapponese. Qui vivono gli ultimi Ainu nei "kotan" di Asahikawa, Kamikawa, Shiraoi, Akanko e Kushiro. Dopo i disboscamenti e la trasformazione di migliaia di ettari di bosco in terreni agricoli Hokkaido e, frutta. L' "oro verde" è costituito dal legname pregiato e dai prodotti della pesca: tra questi i pregiatissimi salmoni e le alghe.

Hokkaido è la mecca del turismo "verde" giapponese che attrae ogni anno milioni di trekkisti e campeggiatori. I periodi migliori per visitare l'isola sono da giugno ad ottobre, e per gli amanti degli sports invernali da dicembre a gennaio. Per saperne di più del "Popolo dell'Orso" si può visitare l' "Ainu Materials Display Room" presso il giardino botanico di Sapporo, il "Kawamura Ainu Memorial Museum" di Asahikawa e gli "Ainu Kotan" di Shiraoi e di Akanko, dove di sera si può assistere a performance di danze tradizionali. Il turista occidentale è accolto dagli Ainu con gran simpatia e generosa ospitalità specialmente durante i festival che si celebrano nella stagione del "koyo" - delle metamorfosi - quando le foreste si tingono coi caldi colori autunnali. A fine settembre si celebra il "mazuri" per onorare Samkusayun, un capo ribelle che combattuto con gran coraggio contro le armate mercenarie di Matsumae nel 1669. E' un festival "politico" promosso dagli Ainu di Shizunai che si radunano davanti alla statua bronzea del loro eroe per danzare, ricordare i soprusi e il genocidio della loro tribù, e inviare doni e preghiere agli avi. All'inizio di ottobre all'Akan Kotan, che è anche un famoso centro termale, si celebra il "Marimo Mazuri". Questa volta tutti i clan Ainu d'Hokkaido si ritrovano per tre giorni di feste dedicati all'alga "marimo", che per loro è "Kamui" - dio - e un miracolo di Madre Natura.

 

 

 


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jeudi, 25 août 2011

I Quattro Pilastri dell'Anno

I Quattro Pilastri dell'Anno

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In prossimità dell'equinozio di Autunno, riteniamo opportuno pubblicare questo articolo estratto dalla rivista "Solstitium" Anno IV numero 3-4 del Dicembre 1979. Esso, consente un approccio ciclico al senso del tempo e una riflessione sui ritmi cosmici. Una lettura imprescindibile per l'uomo di milizia


I quattro pilastri dell'anno sono i solstizi e gli equinozi. Essi formano la grande croce dell'anno o zodiacale, la cui braccia delimitano le stagioni. In scala ridotta corrispondono al giorno ed alle quattro fasi solari. Le quattro braccia dividono il cerchio zodiacale in quattro gruppi di segni, tre per ciascuno, che danno le caratteristiche delle rispettive stagioni. Ogni data segna l'inizio di un nuovo periodo, diverso dal precedente, in cui la luce del sole assume diversa forma e significato. Le quattro fasi si succedono regolarmente e tutto assume il senso di una rotazione costante attorno a un centro che fa da perno a tutto il movimento. Le quattro fasi dell'anno corrispondono ai quattro elementi ed il sole alla luce che li comprende e li trasfigura. Ogni periodo ha un riflesso esterno e uno interno, creando il presupposto di una stagione interiore che è nostro compito analizzare.

Il primo pilastro è il Solstizio d'inverno, data significativa in ogni tradizione, che segna astronomicamente l'inizio dell'inverno. Corrisponde alla posizione del Sole nel punto più basso dell'orizzonte ed alla maggiore disuguaglianza tra giorno e notte: qui la notte è più lunga del giorno. Il 22 dicembre segna la data ufficiale del calendario "astronomico" dell'anno.1 Da questo momento prende inizio la serie ascendente che porterà in avanti il giorno fino al futuro solstizio estivo, in cui i rapporti si invertiranno. Astrologicamente questa data segna il passaggio del Sole nel Capricorno (segno di Terra), a cui seguiranno l'Acquario e i Pesci. Nel simbolismo del giorno corrisponde invece al punto in cui il sole tocca il culmine della sua discesa: la Mezzanotte, in cui è opposto allo zenith meridiano.

Nell'antico Egitto, veniva simbolizzato nella forma di Khephra, lo scarabeo, chiara immagine dei sole occulto e sotterraneo.

Esotericamente2 questo momento è uno dei più importanti e significativi. Segna il punto preciso in cui l'esterno tace nel freddo e nel silenzio e l'interno vive di luce propria. II sole della coscienza è ora rivolto all'interno di sé e nella mezzanotte dell'anima tutto è pronto per una nuova rilevazione. E' in questo istante senza tempo che venivano eseguite le antiche cerimonie di iniziazione ai misteri dell'lo, nel profondo di grotte e caverne, a Mezzanotte in punto. Tramite esse una luce virtuale, occulta, veniva accesa nell'animo dell'adepto, che ora attendeva la nascita del proprio seme. E' in Inverno infatti che il seme, giacendo sotto la neve ed il gelo, dorme e matura i suoi frutti futuri. Ritualmente il nuovo periodo è rivolto alle opere della Terra: alla creazione cioè di basi e realtà concrete che facciano da perno ad ogni futura attività e alla coagulazione di precedenti iniziative. I tre segni invernali del Capricorno, dell'Acquario e dei Pesci suggeriscono un clima di freddezza, di silenzio e umidità che deve essere sciolto prima che il calore del sole porti con sé la Primavera.

Questo avviene il 21 marzo, il secondo pilastro annuale, data dell'Equinozio di Primavera o ascendente, in cui ciò che era sepolto torna adesso alla luce. Nel simbolismo segna il punto in cui il giorno eguaglia la notte: da questo momento essa sarà sempre più breve del giorno. Il sole della Mezzanotte precedente è ora sorto sull'orizzonte e il giorno è in equilibrio con la notte: è il Ra egizio, il sole occulto che ora diventa visibile. Nel piano zodiacale il Sole passa in Ariete (segno di Fuoco), a cui seguiranno il Toro ed i Gemelli.
II significato esoterico della Primavera è tutto nella luce che ora sorge. L'occulto si fa manifesto, la Terra si apre sotto la spinta del Fuoco e dà inizio alla vita. La luce interiore diventa ora visibile anche all'esterno, che si anima di vita propria. Il seme nascosto sorge dalla terra e tutta la natura si ricopre di verde e di fiori. La luce interiore si proietta all'esterno e dà vita al mondo,che ora viene vissuto come dotato di una propria interiorità. La natura già morta è ora animata da misteriosi significati che divengono chiaramente visibili alla coscienza. E' in questo periodo che venivano eseguiti dei riti di apertura cosmica verso il Creato, con lo scopo di ridurre quello che prima era separato dall'Essere, ma che ora tendeva a fondersi con lui. Sacre orgie e riti di fertilità avevano questo scopo, perché anche il sesso è spirituale.

Lo scopo era quello di riconoscersi nell'universo esterno, considerato come divino: Questo sei tu, secondo l'antica saggezza orientale. L'esterno e l'interno sono due facce di un'identica realtà, che li sovrasta. Ritualmente questo è il periodo del Fuoco, in cui si dà il via a iniziative di ogni genere, dato che anche la creatività personale è stimolata da questa fiamma che ora arde visibile. Si è spinti in ogni caso ad agire, a muoversi, a crescere, a fiorire, in un continuo avvicendarsi di impulsi, idee e sensazioni. E' noto come la Primavera influenzi l'eros animale e umano svegliando e moltiplicando i desideri. Meno noto è come esso, invece, vada al di là della semplice pulsione istintuale. II sesso è la Vita stessa e nell'adepto ai misteri della Luce esso si manifesta in altre forme ignote all'uomo comune. Il sesso cioè si svincola dal tendere al basso e sale, portato dalla fiamma che sorge, verso l'alto investendo idee, volontà e sentimenti di una nuova luce e fecondità. L'adepto cioè è fecondo in alto anziché in basso e il sesso diventa una via per la propria liberazione dai legami umani. La fiamma che sale, alimentata dall'Aria (i Gemelli) e sostenuta dalla Terra (il Toro), si innalza fino allo zenith dando inizio all'Estate.

Questa inizia il 22 giugno, giorno del Solstizio d'Estate e terzo pilastro annuale. Qui il giorno è più lungo della notte e l'anno e la luce sono al culmine. E' una data trionfale che segna la vittoria della luce sull'oscurità e il pieno sole meridiano. Corrisponde infatti all'ora del Mezzogiorno, in cui il sole è allo zenith e irradia al massimo luce e calore. Nel simbolismo egizio è Hathoor, il dio della luce meridiana e pienamente manifesta opposta a quella del Sole di Mezzanotte. Nella volta celeste il sole occupa ora il punto più alto e i suoi raggi arrivano perpendicolari alla luce terrestre. L'arco di luce è massimo e ricaccia la notte nella sua dimora oscura: ora tutto è in pieno sole e chiede di essere completamente manifestato. Astronomicamente il Sole entra nel Cancro (segno dell'Acqua), seguito dal Leone e dalla Vergine. Esotericamente questo periodo segna il momento in cui esterno e interno, Essere e Natura, sono perfettamente uniti e armonizzati, esaltati fino al massimo grado. L'Estate è il trionfo del sesso, della vita e delle opere intraprese. E' il periodo in cui il grano imbiondisce e viene mietuto, in cui sotto l'ardore del sole assume una tinta aurea, segno di perfezione e completamento. L'Estate porta con sé una corona d'oro, che l'adepto assume come segno di Vittoria sulla propria natura inferiore. E' il periodo in cui la materia è al Rosso e in cui i frutti attendono di essere colti dalla sua mano. Negli antichi riti questo periodo era una testimonianza di vittoria forse formava il supporto adatto di ogni cerimonia di incoronazione. Ritualmente l'Estate è il periodo dell'Acqua, in cui si procede a diffondere nel mondo quanto si è percepito e compreso in Primavera. Ora ogni cosa deve prendere corpo in attività che coinvolgano il mondo esterno e lo portino in sintonia con quanto vibra all'interno. Simile in questo all'acqua che si dilata e tende a unirsi con quanto lo circonda, comprendendo tutto in sé. Questo riflette l'antica idea dell'Unità e dell'inesistenza di ogni altro fuori di sé. La realtà esterna è illusione appunto perché si è incapaci di viverla come facente parte di sé stessi. Nell'assunzione positiva del mondo il senso del corpo si dilata e viene a comprendere nel suo ambito tutta la natura esterna e gli esseri che la popolano. Al limite la coscienza individuale si amplia fino a dissolversi in uno stato di coscienza cosmica che rappresenta la perfezione dell'Opera. E il Fuoco del Sole allo zenith provvede a fornirgli un aspetto attivo.
Facendo seguito al periodo estivo, l'Autunno avanza come un lento ripensamento. La fiamma della passione si riduce dando luogo ad un periodo di intensa riflessione, in cui il mondo esterno è filtrato attraverso lo schermo dei propri pensieri e si giudica quanto si è fatto. E' il 23 settembre, data dell'Equinozio d'Autunno o discendente e quarto pilastro dell'anno. La notte è ora di nuovo uguale al giorno, ma in forma diversa che in Primavera. La vita ora si ritira lentamente in se stessa e medita sul passato. Astrologicamente il Sole entra nella Bilancia (segno d'Aria), seguita dallo Scorpione e dal Sagittario. Nel giorno corrisponde all'ora del Tramonto, l'egizio Tum, in cui la luce si bilancia con l'oscurità e tende lentamente verso la morte. E' un'ora malinconica in cui i fantasmi passati risorgono e antiche e nuove idee affollano la mente, in cui si fa il bilancio sul proprio passato immediato e se ne tirano le somme. E' il periodo in cui si raccolgono i frutti e si semina il grano che nascerà nel nuovo anno. Esotericamente la luce dell'Essere si ritrae dall'esterno e tende a coagularsi nella propria origine spirituale, dando l'impressione come di una lenta morte che prende la natura interna ed esterna. E' in questo periodo che venivano praticati riti di astinenza e di purificazione, per liberarsi di tutto e iniziare il nuovo anno rinnovati interiormente. Di solito il periodo di astinenza precedeva immediatamente la data del Solstizio d'Inverno. La sera che va verso la notte è un'ora di purificazione in cui più forte deve splendere il Sole interno, ora non più oscurato dalla luce del giorno, e il crepuscolo fa da silenzioso ingresso. Ritualmente questo è il periodo dell'Aria: intelligenza e comprensione per quanto si è fatto e quanto si farà. La luce ora splende limpida nella propria mente e permette un giudizio obiettivo sui propri fatti e misfatti. Si può anche sorridere di sé, con paziente tolleranza, ma tutto ormai è dietro se stessi e va lasciato da parte.

E così torniamo verso l'inverno. Il cerchio zodiacale ha compiuto un nuovo giro e si appresta ad accendere i fuochi di quello che sarà l'inizio di un nuovo anno.

Nemo.

NOTE
1: I Solstizi, come gli Equinozi, corrispondono ad un particolare evento astronomico. Per convenzione si situano in alcuni giorni specifici sul calendario. amerò, a causa delle sei ore di scarto tra un anno e l'altro (la giurata di un anno è di 365 giorni e sei ore), si determina ogni quattro anni il giorno 29 di febbraio (anno bisestìle); di conseguenza la data in cui cadono i Solstizi e gli Equinozi non è sempre la stessa
ed in ogni caso l'orario differirà comunque dall'anno precedente.

2: Per esoterico, si intende l'insegnamento a una "conoscenza" (esoterica) che, per la sua particolare Natura e Forza, non è data alla portata di tutti. L'insegnamento tradizionale, dottrinario, che viene rivolto indistintamente, rispetto alla qualificazione del singolo, è chiamato essoterico;
l'insegnamento, che si rivolge a persone più qualificate ed in grado di essere sensibili e recettive verso alcuni messaggi, si dice esoterico. Vi è oltremodo da sottolineare che l'insegnamento esoterico non può essere compreso da colui che non ha già in sé le condizioni per il suo apprendimento.
 

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dimanche, 21 août 2011

Il culto della dea madre in Nord Europa

Il culto della dea madre in Nord Europa

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Come già altrove osservato per quanto riguarda la civiltà romana, anche nelle civiltà nordiche, specificatamente quella celtica e quella norrena, si potrebbe pensare che, riflettendo quelle che, nell’immaginario collettivo, si strutturano come  società guerriere, il pantheon religioso finisse per escludere la presenza di figure femminili in posizioni di particolare rilievo.

In realtà, già l’idea di “società guerriere” per quanto riguarda le civiltà menzionate andrebbe ampiamente riveduta rispetto all’immaginario collettivo: se, infatti, in entrambe risulta presente, come in qualunque altro contesto del mondo antico, una componente guerriera legata a necessità espansive, predatorie o difensive, non è in alcun modo possibile paragonare né la società celtica né quella norrena a contesti come, ad esempio, quello spartano o quello di Roma alto-imperiale, in cui la funzione bellica risultava normalmente prevalente.

Per quanto i Celti, la componente guerriera era, in fin dei conti, ristretta alla scelta di un capo (“Ri”) di ogni clan (“Tauath”) tra le diverse famiglie componenti (“Fine”) capace di guidare gli uomini in una eventuale guerra e di stipulare alleanze con altri clan, ma, già all’interno del clan stesso, la nobiltà non era necessariamente dedita alle armi, essendo formata in buona parte da proprietari terrieri (le altre due classi sociali erano date da artisti e druidi e da contadini e artigiani)[1].

Il valore del singolo (il cosiddetto “prezzo d’onore” in base al quale si stabilivano punizioni e ammende) non veniva attribuito sulla base dei successi guerreschi quanto su elementi ben differenti, che andavano dalle capacità lavorative (in particolare per quanto riguardava il possesso di tecniche artigianali) alle conoscenze sacre (tanto che aedi e druidi erano esentati da qualunque attività militare), alle ricchezze materiali (misurate in termini di terre e capi di bestiame posseduti) fino alle doti estetiche (sia uomini che donne erano attentissimi al loro aspetto e alla loro forma fisica)[2]. Anche gli insediamenti non mostrano una particolare visione virile e marziale dell’esistenza: ogni “Fine” viveva per lo più in fattorie isolate e non in aree fortificate, che venivano utilizzate solo nel caso in cui un “Tauath” si trovasse in guerra, così come, a conti fatti, le tecniche agricole e zootecniche celtiche, che comprendevano la rotazione biennale e l’addomesticamento di pressoché ogni animale, ci appaiono oggi ben più sviluppate delle tecniche belliche, che includevano unicamente l’attacco frontale non protetto[3].

In più, anche le numerose “guerre tra clan” ci appaiono oggi più che altro dispute territoriali risolte da una prima “componente scenografica” in cui linee di guerrieri di entrambe le parti si fronteggiavano in assetto da guerra (cioè nudi, con spade e giavellotti e coperti di monili e colori di guerra) insultandosi lungamente ma poi tutto veniva deciso dallo scontro di due “campioni”[4]. Insomma, rispetto a certe immagini moderne, i Celti risultano molto più un popolo piuttosto pacifico di agricoltori, allevatori e abili mercanti (la loro rete commerciale era estesissima) con, in più, uno sviluppatissimo senso religioso che si differenziava tra una spiritualità popolare, con un ampio pantheon di divinità in gran parte legate ad ogni “tuath”, ed una religiosità alta, tipicamente druidica, che si concentrava su un culto delle forze naturali[5].

Sebbene con un diverso (ma non inferiore) livello di speculazione filosofico-religiosa, considerazioni non dissimili si adattano anche alla società norrena. Pur disegnati dalle cronache medievali come guerrieri feroci (come, in realtà, divenivano in caso di guerra) e predoni sanguinari (cosa anche questa veritiera, ma legata, più che altro, a necessità di sopravvivenza in momenti di estrema improduttività di zone già normalmente piuttosto sterili), i Vichinghi facevano parte di una società, così come descritta nel Rígsþula, eminentemente agricola e, a differenza di strutturazioni fortemente gerarchico-piramidali e rigide tipiche di popoli bellicosi, notevolmente fluida. La grande maggioranza dei norreni appartenevano alla classe media, la classe dei “Karls”, formata da artigiani e piccoli proprietari terrieri. Gli “Jarls”, i nobili (per altro non presenti in alcune zone particolari come l’Islanda), si distinguevano per la loro ricchezza, misurata in termini di seguaci, tesori, navi, e, soprattutto, tenute agricole e non per particolari doti guerriere, se non quelle legate alla difesa dei seguaci stessi. Il compito essenziale dello Jarl era, infatti, quello di sostenere la sicurezza, la prosperità, e l’onore dei suoi seguaci e per questo si serviva di un gruppo molto ristretto di “soldati professionisti”, per lo più giovani, detti “hirðmaðr”, ma nella sua carica le abilità di amministrazione agricola e di espressione oratoria erano molto più importanti che il saper maneggiare  le armi.

Sotto entrambe le classi vi erano i “þræll”, i servi e gli schiavi, più normalmente finiti in tali condizioni per debiti che per essere frutto di raid bellicosi.

Anche all’interno dei popoli norreni, così come tra i Celti, la cultura era tenuta in gran conto: i poeti, in uno status simile a quello reale e molto spesso i Godi, i capi locali che avevano compiti giuridici e amministrativi (in particolare in Islanda) venivano scelti tra i sacerdoti della religione odinica, considerati come esseri che avevano un rapporto speciale con gli dei. Di fatto, però, il vero potere si basava sul possesso di terra e sul numero di capi di bestiame allevati o, nel caso dei commercianti, sul valore delle loro ricchezze[6].

Insomma, anche in questo caso siamo di fronte ad una società eminentemente agricolo-commerciale e solo occasionalmente guerriera.

Per molti versi, le caratteristiche meno “marziali” di quanto certa epica hollywoodiana vorrebbe far credere su Celti e soprattutto Vichinghi, si riflettono sulla condizione della donna in entrambe le società.

Sebbene le fonti classiche (latine e greche) non ci dicano molto sulle donne nella società celtica, sia dalle saghe che dai reperti archeologici possiamo evincere che esse godessero, in paragone al mondo classico mediterraneo, di libertà notevoli e, in alcune occasioni, anche di grande potenza: certamente tutta la produzione alimentare e l’intera gamma della produzione artigianale (ceramica, vimini, lavorazione del cuoio, tessitura delle stoffe) erano, infatti, loro appannaggio, spesso portando a notevoli ricchezze e, come visto, la ricchezza portava a potere politico, così che non sono infrequenti i casi di capiclan donne o, addirittura, di regine (si pensi a Boudica) nel corso della storia celtica. Sebbene siano probabilmente erronee le idee di una poligamia sia maschile che femminile, anche il matrimonio ​​era visto più in forma di collaborazione paritaria rispetto al modello di proprietà dei Greci e dei Romani, una collaborazione consensuale che poteva essere interrotta in qualsiasi momento anche da parte della donna, che aveva la piena possibilità di lasciare un cattivo matrimonio portando con sé tutto quello che aveva portato in dote. e se è, altresì, falso dire che il mondo celtico fosse matriarcale, nondimeno la discendenza matrilineare era importante quanto e forse più di quella della linea maschile[7].

Il campo in cui l’alta considerazione delle donne si esprimeva più chiaramente era, però, quello religioso.

Come è noto, nell’antica società celtica i druidi e le druidesse formavano una élite intellettuale esperta, dopo uno studio ventennale, di letteratura, poesia, storia, legge, astronomia, erboristeria e medicina e, naturalmente di tutto quanto riguardasse la sfera del sacro.

Nei primi documenti romani riguardanti i Celti non si fa menzione, come giustamente osserva Jones[8], di figure sacerdotali femminili, probabilmente a causa dell’impossibilità per gli scrittori di  Roma di concepire una indifferenziazione sessuale nelle cariche pubbliche ma, finalmente, nel I secolo d.C., è Tacito che ci informa che “i Celti non facevano alcuna distinzione tra governanti maschi e femmine[9]. Essendo quella celtica una cultura orale, è difficile per noi oggi comprendere se tale governo fosse soprattutto spirituale o vi fosse una commistione tra potere religioso e temporale. Di fatto, alcune sepolture trovate a Vix e Reinham mostrano che le donne celtiche, in alcuni casi, potevano esercitare un forte potere politico, ma sono soprattutto le saghe come il Mito di Finn a dirci della presenza di druidesse e “donne sagge” nel mondo celtico: veggenti, incantattrici e persino addette a sacrifici sacrali sono comuni nelle leggende folkloristiche e ci dicono di una totale pariteticità di ruoli spirituali tra uomini e donne[10] .

La situazione non è esattamente identica nelle aree norrene. I ruoli di uomini e donne nella società norrena erano ben distinti ed erano i primi ad avere il dominio: le donne difficilmente partecipavano alle incursioni (anche se chiaramente parteciparono a viaggi di esplorazione e insediamento in posti come Islanda e Vinland) e alcuni comportamenti “mascolini” (indossare abiti maschili, tagliarsi i capelli corti, portare armi) erano loro severamente vietati dalla legge. Difficilmente partecipavano all’attività politica (non potevano essere Godi o giudici), di norma non potevano parlare nel “Thing” (assembla di clan) e, formalmente erano sottoposte all’autorità paterna. Ugualmente, però, è impossibile non vedere come le donne fossero molto rispettate nella società vichinga e avessero una grande libertà, soprattutto se paragonata ad altre società europee di quel periodo: gestivano le finanze della famiglia, dirigevano la fattoria in assenza del marito, in caso di vedovanza potevano diventare ricche e importanti proprietarie terriere ed erano ampiamente legalmente protette da una vasta gamma di attenzioni indesiderate. Significativo è che i personaggi femminili delle saghe siano lodati per la bellezza ma più spesso per la loro saggezza: in moltissimi casi emerge come siano le donne il potere neppure troppo occulto dietro le decisioni maschili e come la loro influenza sia quasi sempre positiva. Anche all’interno del nucleo familiare una donna poteva usare la minaccia di divorzio come un mezzo per stimolare il marito in azione: ottenere il divorzio era relativamente facile e poteva dar luogo a gravi oneri finanziari per il marito. Inoltre, le donne erano spesso viste come depositarie della magia “bianca” (e, come tali, erano spesso temute anche dai personaggi più importanti del “Thing” dei quali diventavano ascoltate consigliere) e delle conoscenze medico-erboristiche di origine divina[11].

In entrambe le società, dunque, è possibile notare come, nell’immaginario collettivo, l’elemento femminile avesse una sorta di “legame speciale” con il sacro. Da dove derivava questa diffusa credenza? Naturalmente, come in ogni altra società umana, lasciando da parte le caratteristiche tipicamente “lunari” di riflessività, “insight” e intuitività, dal potere femminile per eccellenza: quello generativo-creativo.

Non stupisce, allora, che, in un comune gioco di riflessi tra “supra” e “infra”, sia possibile reperire elementi chiaramente legati al femminino sacro in entrambe le culture.

All’interno del mondo celtico e della sua ricchissima strutturazione religiosa, al di là di rielaborazioni fantasiose e romanzesche su Avalon e le sue sacerdotesse e di teorie new e next age di stampo Wicca, due figure sacre rispecchiano più di tutte le altre (numerose) divinità femminili il femminino sacro declinato nel suo senso generativo-maternale, con tutto ciò che, in termini di creazione e alimentazione fisica e spirituale dell’essere umano ciò comporta: Rhiannon e Cerridwen.

La dea Rhiannon è una dea lunare gallese il cui nome significa Grande (o divina) Regina. Per molti versi è una figura di potere assoluto, sovrana degli dei e, a livello filosoficamente più alto, rappresentante simbolica della natura. All’interno della religiosità popolare la sua immagine è fortemente associata con gli equini: nella storia di Rhiannon, così come raccontata dalle saghe folkloristiche i cavalli svolgono un ruolo importante dal momento che essa prima cattura l’attenzione del suo futuro sposo mentre è cavallo, cavalcando con lui ne conquista l’amore e, allorché ingiustamente accusata (e poi riabilitata) della morte del figlio da lui concepito, sopporta il peso della punizione con grazia e dignità, mostrando, come sottolineato proprio dai testi mitologici,  una energia equina di resistenza[12]. Questo accostamento può apparire sconcertante, ma solo se decontestualizziamo il racconto dal suo background d’origine, rappresentato da allevatori di pony: come dea dei cavalli, infatti, Rhiannon viene a rappresentare sia la generatività naturale, che perpetua le mandrie di generazione in generazione, sia il sostentamento umano, che proprio su tale generatività si basa. Rhiannon è, comunque, una divinità multifunzionale, che racchiude in sé anche il senso dell’ordine naturale delle cose e della giustizia distributiva e retributiva maternale propria, appunto, della natura così come percepita dai Celti con la sua capacità di trascendere l’ingiustizia, avendo compassione e comprensione per coloro che falsamente l’accusano.

Ancora in sintonia con l’immagine della madre, la dea è nota per avere uccelli magici che cantano canzoni incantate che riportano sonni tranquilli agli esseri umani (i suoi figli) e, infine, ritornando al suo ruolo creativo anche sul piano simbolico, agisce come una Musa, portando l’energia illuminante di ispirazione per scrittori, poeti, musicisti e artisti[13].

Si è già altrove avuto modo di osservare come, però, la figura della “dea madre” non sia sempre positiva a tutto tondo, includendo, nella sua valenza simbolica di rappresentante della natura, anche tutti quegli aspetti violenti e pericolosi propri della natura stessa e incarnando il pericolo del potere femminile di stampo sessuale.

Ebbene, nella mitologia celtica, in particolare gallese, l’aspetto più oscuro della dea è rappresentato da Cerridwen, la vegliarda che ha poteri di profezia ed è custode del calderone della conoscenza e dell’ispirazione negli Inferi. Come è tipico delle dee celtiche, essa ha due figli: la figlia Crearwy è giusta e solare e il figlio Afagddu (chiamato anche Morfran) è scuro, brutto e malvagio, a voler simboleggiare la maternità incondizionata di tutto il genere umano e la dedizione maternale della dea verso chiunque[14].

Perché, dunque, si è parlato di “lato oscuro”?

Perché Cerridwen incarna il lato “stregonesco” e sessuale (quindi potenzialmente pericoloso rispetto a Rhiannon, nella quale questo aspetto viene “depotenziato” con l’affermazione di una sua mai completamente delineata verginità) della dea madre a partire dalla prima leggenda fondativa che la riguarda contenuta nel Mabinogion, il ciclo dei miti gallesi: in esso si racconta come la dea fermenti una pozione nel suo calderone magico per darla al figlio Afagddu e migliorarne le fattezze; avendo posto il giovane Gwion a custodia del calderone, tre gocce della sostanza in esso contenuta cadono su un dito del ragazzo, che diventa onnisciente e viene per questo perseguitato dalla dea attraverso un ciclo di stagioni fino a quando, sotto forma di una gallina, essa non riesce a catturalo e ingoiarlo mentre si nasconde tramutato in una spiga di grano, finendo nove mesi dopo, per partorire Taliesen, il più grande di tutti i poeti gallesi[15].

Come è facile notare, le istanze di trasformazione sono molto presenti lungo tutta la leggenda, con i due protagonisti che si mutano in un numero notevole di animali e piante, con un forte simbolismo legato alle trasformazioni cicliche della natura e del mondo, ma anche altri elementi rivestono un notevole interesse: in particolare, allorché, dopo la nascita di Taliesen la dea contempla l’uccisione del bambino, ma, cambiando idea, decide invece di gettarlo in mare, dove è salvato dal principe celtico Elffin, risulta evidente il rimando ai cicli cosmici di morte e rinascita, dei quali, tra l’altro, il calderone sacro della dea (che, secondo alcuni, sarà il primo nucleo del mito del Graal), risulta, con il suo potere rigenerativo, paradigma ultimativo[16].

Dunque, nella cultura celtica, la figura della dea madre, epitome del femminino sacro, risulta ben presente, ma anche  multiforme e sfaccettata, specchio di una società in cui la donna ha grande possibilità di movimento e, conseguentemente, di espressione di tutti gli aspetti del dominio lunare.

Nel mondo norreno, indubbiamente caratterizzato da aspetti meno filosofico-speculativi e più pratici, tutto si semplifica notevolmente e la figura della dea madre diviene più lineare e a tutto tondo, venendo incarnata da Frigga.

Frigga (noto anche come Frigg, “l’amata”) era la dea dell’amore coniugale, del matrimonio e del destino, la moglie del potente signore degli dei Odino. Responsabile della tessitura delle nuvole (e quindi, in un tipico attributo della dea madre, del sole e della pioggia, quindi della fertilità dei raccolti), e dei destini di tutti i viventi, Frigga era una veggente (sebbene non potesse cambiare gli eventi che vedeva) ed era, con palese riferimento lunare, la dea della notte, perché proprio di notte, in un richiamo sessuale “pacificato” (rispetto alla sessualità “pericolosa” e conturbante, che era appannaggio di Freya, dea della bellezza sensuale), dispensava la vita, tanto che la sua benedizione veniva invocata dalle partorienti.

Madre amorevole di tutto il creato, la  sua capacità di vedere nel futuro le avrebbe causato il più grande dolore, avendo previsto la morte del suo figlio prediletto Baldur: pur sapendo di non poter cambiare il suo destino, Frigga aveva fatto promettere a tutte le cose di non fare del male al figlio, ma purtroppo aveva trascurato una cosa, il vischio, che sembrava troppo insignificante per essere pericoloso e il malvagio Loki, scoperta questa dimenticanza, aveva collocato nelle mani di Hodor, fratello di Baldur, una freccia di vischio, facendogliela scagliare, durante una sessione di apprendimento di tiro con l’arco, nel cuore del “più perfetto tra gli dei”[17]. In alcune versioni del mito, a questo punto, interviene un’altra caratteristica della “dea madre” Frigga, quella rigenerativa (della natura, dei frutti della terra, etc.), che riesce a riportare Baldur in vita, mentre un’altra caratteristica è presente in tutte le saghe che la riguardano, quella di fornire nutrimento materno agli esseri umani, tanto che in Germania veniva venerata come la dea Holda o Bertha (la dea dell’allattamento e dei raccolti), in seguito modello per la favola di “Mamma Oca”.

Infine, all’apice dei suoi tratti simbolici, Frigga era anche dea della fertilità femminile e del matrimonio e, in quanto tale, era pregata dalle mogli sterili e dalle ragazze in età da marito[18].


[1] B. Cunliffe, The Ancient Celts, Penguin 2000, pp. 56 ss.

[2] Ivi, pp. 34-36

[3] K. Ralls-MacLeod, I. Robertson, The Quest for the Celtic Key, Luath Press Limited 2005, pp. 49 ss.

[4] [4] B. Cunliffe, Citato, pp. 79-87

[5] J. A. MacCulloch, The Religion of the Ancient Celts, General Books LLC 2010, pp.23-24

[6] H. Adams Bellows,  The Poetic Edda, CreateSpace 2011, pp. 61 ss.passim

[7] P. Berresford Ellis, Celtic Women: Women in Celtic Society & Literature, Trans-Atlantic Pub. 1996, passim

[8] L. Jones, Druid-Shaman-Priest: Metaphors of Celtic Paganism, Hisarlik Press 1998, pp. 45 ss.

[9] Citato ivi, p.48

[10] P. Berresford Ellis, Citato, p.77

[11] J. Jochens, Women in Old Norse Society, Cornell University Press 1998, passim

[12] M.J. Aldhouse-Green, Celtic Goddesses: Warriors, Virgins and Mothers, George Braziller 1996, pp. 107 ss.

[13] Ivi, pp. 121 ss.

[14]Ivi, pp. 172 ss.

[16] Ivi, pp. 111 ss.

[17] M. Pope Osborne, Favorite Norse Myths, Scholastic 2001, pp. 51-52

[18] J. Green, Gods and Goddesses in the Daily Life of the Vikings, Hodder Wayland 2003, pp. 31 ss


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samedi, 20 août 2011

Dioses del panteon Astur

Dioses del panteon Astur
 
Me he animado a escribir un pequeño artículo sobre los dioses astures, nuestros amados dioses, olvidados, (pero no del todo) durante mucho tiempo bajo el cristianismo que fue introducido en Asturias allá por el siglo VII. Lo cierto es que muchos historiadores, ( y no tan historiadores) se han dedicado a negar el pasado celta de esta tierrina nuestra, apoyándose en que no hay documentos fiables que lo demuestren... (es que nosotros, los astures, siempre fuimos vagos para escribir) Bromas aparte, es cierto que no existe una documentación tan sólida como la que se cuenta para las costumbres, Historia y religión de los antiguos galos, pero negar la tradición céltica de Asturias así sin más es un poco bestia. Existe en esta tierra una controvertida polémica sobre el "asturianismo": por un lado, el nacionalista trasnochado, que defiende la oficialidad de un bable que solo se habla en bares (porque el auténtico bable se ha perdido) y por otro el antinacionalista miedoso, que, ante cualquier posible amenaza separatista, echa por tierra todo el pasado celta astur.

Afortunadamente, algunos historiadores de los de verdad, han sido conscientes en las últimas décadas de que toda aquella rica tradición no se perdió en el olvido (por eso dije que "no del todo") sino que permaneció latente en el arte, la mitología (xanes, nuberus, trasgos...) y en los topónimos, por ejemplo.

Hoy en día ya se sabe que existió un firme culto a un panteón astur... el único problema radica en si ese culto estaba asentado en cada comunidad, gentilicio y región, o si bien cada zona de Asturias tenía sus propios dioses. Se sabe que el culto a muchos de nuestros dioses fue "general", como es el caso de Lugh, o Taranos... Otros no está tan claro.

También se mantiene en pie la hipótesis de una organización religiosa... No basada en el druidismo, como ocurría en algunas regiones del centro de la Galia, pero sí que existieron sacerdotes, tanto de uno como de otro sexo. Una de las principales dificultades que se tiene a la hora de estudiar la religión astur, es que, como todos bien sabéis, no había templos que dejaran su testimonio. El culto a los dioses se practicaba en lugares abiertos, sobretodo al lado de arroyos y manantiales, cuevas, árboles...
Existen numerosos estudios sobre las funciones del panteón indoeuropeo, origen de las creencias celtas (supongo que todos sabréis ya que los celtas no son un invento irlandés, sino que llegaron desde Bielorrusia) y ya se ha demostrado que existe concordancia entre los datos sobre la cultura castreña gallega y esta tesis. Estas eran las funciones en la jerarquía divina de los pueblos indoeuropeos (Dumézil, 1966):

- Dioses protectores del poder político y sacerdotal

- Dioses protectores de los guerreros

- Dioses de la tercera función, la productiva: protectores de agricultores, ganaderos, etc.

En resumen: No se ha desvelado por completo TODO el intrincado sistema de culto de nuestros lejanos abuelos, pero ya tenemos unas piezas muy valiosas. Aquí os pongo ahora unos datos sobre nuestros dioses.

LUGH. El culto a Lugh, protector de la autoridad política, está extendido por toda Europa. La mitología irlandesa se ha currado bastante la imagen de Lugh... Aquí los romanos, efectivamente, lo asimilaron con el dios Mercurio... Pero hoy en día sabemos que no tenía nada que ver el uno con el otro. Para todos aquellos que duden de la presencia de Lugh en nuestras tierras hispanas, que piensen en topónimos: Lugo, Lugo de Llanera, Lugones... Un pequeño paréntesis: La organización social astur se basaba en una agrupación de "gentilidades". Una gentilidad, (o tribu, más o menos) era la agrupación de los descendientes de un antepasado común; compartían entre ellos unas tierras, y contaba con la presencia de un jefe o consejo, que era electo. Un grupo de gentilidades se agrupaba en torno a un "pueblo", o grupo étnico en general. En el mapa se puede ver... un poquito. ¿A qué viene el rollo? Uno de esos grupos étnicos eran los Luggones y se consideraban descendientes de Lugh.

TARANOS. Estrabón lo equiparó a Ares. Su culto extiende también a las Galias y a Germania. Su nombre quedó impreso en algunos topónimos de Asturias: Taraño, Taraña, Taranes, Tárañu... El geógrafo griego explicó (no está muy clara la veracidad) que los cántabros y astures celebraban hecatombes en su honor. A él estaba consagrado el caballo, el famoso asturcón, presente en toda batalla.

ARAMO. ¿Hace falta buscar derivados? Tenemos la Sierra del Aramo. Se le creía vinculado a un significado muy interesante, pero no muy específico: El cruce de caminos, una bifurcación, una decisión... (?)

TILENUS. Para los de León, que conocéis mejor que yo el Monte Teleno... El dios protector de la agricultura y la economía.

VINDONIUS. También relacionado con la riqueza material, en la Galia fue asimilado con el dios Apolo.

CERNUNNOS. Harto conocido también, creo que sobran las explicaciones. Se ha asimilado con la Sierra del Cermoño y Cermuñu. Cuando comenzaron a aparecer las primeras representaciones gráficas de Cernunnos, este era siempre representado sosteniendo un torque en la mano derecha y una serpiente en la izquierda. El torque de oro es un símbolo de poder y riqueza, mientras que la serpiente representa la Abundancia y la fertilidad.

Este es el que a mí me resulta más interesante... Al contrario que los británicos, aún no se ha adscrito un panteón femenino propiamente dicho. No hay testimonios de nombres como Morrigan, Freya, etc. Sin embargo, sí está testimoniada la existencia de la divinidad femenina. Solamente conozco un nombre:

DEVA. La traducción más literal para esta voz celta es, según el filólogo de la Universidad de Oviedo Martín Sevilla, es Diosa. El nombre Deva se relaciona con diversas corrientes de agua en Asturias: los ríos Deva, en Gijón, Deva también en Cangas de Onís y Deva entre Asturias y Cantabria. La Deva es el nombre de un islote en la desembocadura del Nalón, también. Y por lo que he oído, el culto a una Virgen en Deva (Gijón) con su correspondiente iglesia, etc. se fundamenta en el antiguo culto a la diosa que se practicó en ese lugar... hace mucho, mucho tiempo...
Sylvia V. M.