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jeudi, 26 février 2015

Mithra e l'iniziazione ermetico-solare

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Mithra e l'iniziazione ermetico-solare

Luca Valentini

Ex: http://www.ereticamente.net

Storia di un Culto

Le prime notizie circa il Dio Mithra pervengono dall’arcaica tradizione dei Veda indù e precisamente dal più antico, il Rig-veda, risalente ad un epoca di diverse migliaia di anni fa più remota dalla nascita dell’età volgare, che inquadrano la divinità in questione come reggente di un mondo perfetto delle origini ormai dimenticato, protettore dell’Ordine Universale insieme al dio Varuna.

Ritroviamo Mithra, poi, in un’altra tradizione di origine indoeuropea, precisamente in quella iranica, ove, oltre che nell’antico Iran, anche in zone come la Cappadocia, Commagene, del Ponto e le terra dei Mitanni-hurriti, assume la valenza del Numen tutelare del Patto, del Giuramento: tale caratteristica, non solo valse l’acquisizione di un crisma prettamente guerriero, ma anche, nell’antica Persia, permise che il suo culto diventasse la base del sistema feudale dell’impero. Il contatto con il mondo occidentale e quindi con la Romanità avvenne, con l’espandersi della stessa, ad opera dei legionari, anche se Plutarco nella “Vita di Pompeo” narra di “strani riti” celebrati dai pirati della Licia; il culto entrerà ufficialmente a Roma, poi, solo nel 66 d.C., portatovi da Tiridate, re dell’Armenia, in visita a Nerone.
 
Il contatto con il mondo greco-romano, con le sue istituzioni misteriche (molte sono le similitudini con i Misteri di Eleusi) e con la filosofia neoplatonica – come dimostrano varie opere di Porfirio -, forgiarono una vera e propria via iniziatica ermetica, riservata a pochi eletti, sempre al riparo nei suoi mitrei, nelle sue grotte sotterranee riservate al culto, che simbolicamente possiamo associare al mito platonico della caverna: Mithra nasce alchemicamente dalla pietra, come la vera Luce cova e si manifesta nell’oscurità della notte. Solo una tarda volgarizzazione potè assimilargli il ruolo di Soter, Salvatore, spesso confuso erroneamente col Cristo, e una statalizzazione , voluta da Diocleziano, Galerio e Licino lo proclamò “Deo Soli Invicto Mithrae fautori imperii sui”, assimilando il culto a quello ufficiale ed imperiale di Helios, introdotto a Roma, da Emesa, da Aureliano.
 
Una breve introduzione storica si è rilevata necessaria per inquadrare le radici del Culto, che pian piano è andato completandosi, arricchendosi, sicuramente per meglio manifestare tutta la propria potenzialità spirituale, che è di natura ermetica, quindi di origine primordiale, regale ed iniziatica. Il mito e la tradizione fanno ricordare Mithra per due momenti salienti del suo decorso esoterico, cioè per la sua nascita dalla roccia e per l’uccisione del toro sacrificale, che non assume il solo valore rinnovatore del cosmo, ma possiede una ben più alta e precisa valenza spirituale. Tutto si inquadra in una visione del mondo prettamente solare, concepita tradizionalmente, militando, l’iniziato o il neofita, per lo schieramento avversario irriducibile delle Tenebre, di Arimanne, di Tifone-Seth, di Vediovis, ma anche di tutta la spiritualità lunare delle madri come Iside, Demetra e Astarte, quindi per lo schieramento di Eracle, del Marte romano, di Horus…naturalmente di Mithra. Poco o nulla si potrà comprendere di tale culto misterico se non si farà propria tale prospettiva polare, tale atteggiamento guerriero, di superamento magico, quindi di superamento attivo.
 
Le corrispondenze astrali e metalliche
 
Il termine ermetico adoperato in tale contesto va inteso nel più profondo del proprio significato, non solo nella più considerata e generale accezione alchemica, ma quale simbolo unitario (dal verbo greco sùmballo), sintesi di domini diversi ma correlati, che attraverso i diversi gradi di iniziazione al Numen della Luce, del Patto e del Fuoco, ci permetteranno di cum-prendere l’essenza più alta che la Tradizione abbia mai espresso: in merito ci riferiamo a quanto evidenziato da Giandomenico Casalino nel suo Il Nome Segreto di Roma (p. 75, Edizioni Mediterranee), , nel quale  si precisa come “…la corrispondenza magica Astro-Dio-Metallo, realtà alla quale ci si deve accostare…cogliendone la dimensione simbolica per effetto dell’assimilazione del principio anagogico della Trascendenza Immanente (il Metallo) e/o della Immanenza Trascendente (l’Astro), dove quella è una manifestazione spirituale della materia corporea e questa è una manifestazione corporea dello spirito”
 
Seguendo tale traccia, ritroviamo le indicazioni di Celso (Origene, Contra Celsum, VI, 22), secondo il quale nel culto mithriaco, e ne danno evidenza anche le testimonianze parietali nei diversi mitrei ritrovati come quelli di Capua, di Ostia, vi fosse una strettissima connessione tra una gerarchia di pianeti e di metalli, oltre al settenario musicale. Ad ogni grado di iniziazione che sarà successivamente esaminato, sarà possibile associare un Astro-Nume di riferimento ed un metallo, che ne caratterizzano, ancor più esotericamente, la funzione anagogica. Tutto ci ricondurrà alle sette operazione dell’Arte, le sette porte di Mithra, che sono le sette purificazione del Mercurio Filosofale:”Bisogna purificare il Mercurio almeno sette volte. Allora il bagno per il Re è pronto”(Filalete, Epistola di Ripley, cap. LI) ).
 
I sette gradi di trasmutazione
 
mithrazer.jpgLa testimonianza archeologica che più può essere d’aiuto per comprendere il complesso sistema iniziatico del culto di Mithra è sicuramente il mosaico pavimentale presente nel mitreo di Felicissimo ad Ostia, denominato Scala delle Sette Porte. Sia Celso sia Porfirio ci parlano di un’iniziazone con sette diversi e gerarchici gradi di conoscenza e, come rappresentato nelle sette porte di Ostia, ognuno rappresentato dall’animale simbolico e dall’Astro/Nume di riferimento. Il primo grado è rappresentato dal Corax (Corvo), egli è la base del culto mithriaco, il neofita che affronta le prime prove di umiltà, di controllo dell’ego, di mantenimento del segreto. Simboleggiato appunto da un corvo, è il messaggero degli Dei che risvegliano Mithra, avendo in Hermes-Mercurio la propria divinità tutelare. Il risveglio è l’inizio della rettificazione del myste, il risveglio della propria essenza solare: ogni rettificazione la si può riconnettere ai centri di luce, chakra nella tradizione indù o sephira in quella cabalistica, lungo il canale verticale che corre lungo la colonna vertebrale, espressione proprio di un Caduceo Ermetico che ritroviamo tra i simboli di Hermes e del Corax, ove si intrecciano le energie lunari e solari, mercuriali e sulfuree, lungo quello che viene denominato il “canale di Brahma”.
 
Al primo grado è possibile connettere il chakra Muladhara, in corrispondenza dell’osso sacro, sede di Kundalini dormiente o il decimo sephira Malkut, il livello più basso e oscuro dell’Albero Sephiretico. Non si dimentichi, inoltre, come al nero corvo ed alla prima purificazione del Mercurio sia legata la prima operazione alchemica, quella della calcinazione:”con la calcinazione tutte le cose corporee divengono carbone e cenere”(Paracelso, De natura rerum libri novem, Edizioni Phoenix). Il secondo grado è rappresentato dal Nymphus (Crisalide), concernente la presa di consapevolezza dell’iniziato, del processo ascensionale che lo attende, come attesta la rappresentazione di Eros e Psyche nel mitreo di Capua, una nuova luce che sorge e viene condotta dall’Amore verso il cielo delle stelle fisse: non casualmente, infatti, la divinità tutelare del Nymphus è Venere.
 
Nel microcosmo, nei centri di vita sottile il secondo grado si identifica con il secondo chakra Swadhistana, localizzabile nella zone del pube, o con il  nono sephira Yesod, entrambi espressi da simboli che si rifanno al mondo delle acque, della luna, come espressione dell’inconscio e della dimensione astrale. Giustamente, infatti, Stefano Arcella nel suo studio (I Misteri del Sole, Edizioni Controcorrente, p. 117) sottolinea come “le ninfe sono le forze mistiche, le intelligenze spirituali che esercitano il loro dominio sulle acque”. Alchemicamente si passa alla seconda operazione, denominata putrefazione:”tutto ciò che è vivo in essa muore, tutto ciò che è morto in essa acquista la vita”(Paracelso).
 
mithra5267362_3d49fbce75.jpg Il terzo grado è quello del Miles (Soldato), simboleggiato dallo scorpione, rappresenta, tramite la consacrazione a Mithra ed il rifiuto dell’incoronazione umana (“Mithra è la mia corona!”), l’ingresso dell’iniziato nella Milizia Celeste, coloro che combattono per il Fuoco e la Luce, avendo in Marte il proprio nume tutelare. E’ il chakra Manipura  dove ha sede il fuoco, in corrispondenza con il plesso solare, o l’ottavo sephira Hod, la sapienza e la collettività, quindi Mithra che esce armato dalla grotta platonica per combattere, con la lancia di Marte, per affrontare un cammino oscuro che non conosce, è l’elemento ferreo che si attiva, l’irrazionale che cerca di purificarsi, la forza guerriera cieca, istintiva, che intraprende la via per la propria purificazione: alchemicamente si arriva alla terza operazione, quella della soluzione, ove si produce l’unione progressiva e non violenta del fisso col volatile…il Fuoco deve essere ancor tenuto basso!
 
Il quarto grado è rappresentato dal Leone ed ha come divinità planetaria protettrice Giove: è la visione dell’essenza solare e cardiaca, di Apollo, tramite il quale continua la purificazione del fuoco interiore, ora manifesto in senso eminentemente filosofico e vittorioso, che si accinge al viaggio iniziatico: non è casuale la funzione che i Leones avevamo all’interno della comunità mithriaca, come custodi, appunto, del fuoco e dell’ara sacrificale. Alchemicamente si è passati all’operazione della distillazione, ove numerose purificazioni dei “residui” tendono a far volatilizzare gli spiriti: siamo al quarto chakra Anahata o al settimo sephira, in corrispondenza della zona cardiaca, ove inizia la spirale ermetica  di J.G. Gichtel, sede della Vittoria, della Sapienza e del Divino interiore, concludendosi la Nigredo per “la manifestazione del bianco”.
 
Il quinto grado è quello del Perses (Persiano), il guerriero indoeuropeo che entra nella porta degli Inferi, simboleggiata da Cautopates, il dadoforo con la torcia rivolta verso il basso, non a caso assimilato a Hesperus, la stella della sera, e sotto la tutela astrale e numinosa della Luna. Inizia il processo di ricapitolarizzazione del proprio microcosmo, degli stati sublunari e psichici: qui il guerriero attraverso la notte dell’anima, con la valenza già di uno svegliato, di colui che ha già superato la prova eleusina del sonno iniziatico, quindi presente a se stesso, ricettivo verso gli insegnamenti della Grande Madre, della Luna, del Femminile che percorre simultaneamente la Natura e la sua interiorità. Stefano Arcella ed il Merkelbach fanno notare opportunamente come a tale grado fosse associato il simbolo della chiave, di un permesso per varcare il mondo lunare: metallicamente questa chiave non può che essere di argento! Il quinto chakra è quello denominato Vishudda, localizzato all’altezza della gola, o il quinto sephira (l’ordine sephiretico risulta solo apparentemente anomalo, essendo sulla scala del dieci e non del sette) Geburah, appunto il guerriero, la separazione da ciò che è materiale, propriamente umano: la sublimazione, la quinta operazione alchemica, separa, mediante il fuoco, lo spirituale dal corporale (Alberto Samonà, La Tradizione del Sé, Edizioni Atanor).  
 
La notte non può essere eterna ed Hesperus si trasforma in Lucifero, la stella del mattino, come Cautes sostituisce Cautopetes, la fiaccola si innalza al Cielo, essendo giunto l’iniziato al sesto grado, quello di Heliodromos (Corriere del Sole), la Porta dei Cieli, ove, sotto la tutela astrale e divina del Sole, si riunisce ciò che si è precedentemente purificato: qui vi è Ianus della tradizione romana, qui la chiave d’argento del Perses diviene chiave d’oro, è la composizione del Rebis, del maschile e del femminile, del solare e del lunare, è la realizzazione dell’Albedo, l’accesso agli stadi sovraindividuali, è l’Argento filosofale che si manifesta e che inizia la sua trasmutazione in Oro. Non a caso ciò si riconnette al sesto chakra, Ajna, sede del Terzo Occhio di Shiva, tra le sopracciglie, ove il dio interiore incontra, come già notato, la sua controparte femminile, la Shakti; cabalisticamente ci si può riferire al secondo sephira, Chokma, sede della Sapienza.
 
La Tauromachia
mithra-orion2.jpgL’esame del settimo grado dell’iniziazione mithriaca, quello del Pater, comporta necessariamente un approfondimento del mito centrale e fondante del culto in questione, cioè il sacrificio cosmogonico ed esoterico del toro: tale mito, insieme alla tutela mithriaca dei patti e dei giuramenti, è sicuramente presente sin dall’origini indoiraniche della divinità e ne rappresenta simbolicamente la più alta valenza metafisica. Mithra nato dalla roccia il giorno del Solstizio d’Inverno e uscito dalla caverna nel grado di Miles, sa di dover immolare il toro, per ordine degli Dei su mandato del loro messaggero, il corvo Hermes-Mercurio.
 
Egli salta sul dorso del toro, ma non lo uccide subito, resiste attendendo che il toro si stanchi e lo immola, dolorosamente, solo quando questo sarà entrato nella grotta. Il significato macrocosmico del rito è di rinnovamento del cosmo, della sua manifestazione: il sangue che sgorga dalla ferita dell’animale è la linfa che fa rinascere la vita: Porfirio lo definisce padre del mondo e del Tutto. Ma vi è un significato più profondo del rito, che va oltre la dimensione mitica, per ascendere alla più pura spiritualità indoeuropea, alla più cristallina ascesi interiore. L’immolazione del toro viene compiuta dal Pater, il capo sacerdotale della comunità mithriaca, colui che sovrintende la trasmissione della Sapienza Arcana, colui che possiede lo scettro del Mago, come Saturno, suo Nume tutelare. Se in Heliodromos si è avuto la congiunzione del Re e della Regina, del maschile e del femminile, del solare e del lunare, il Pater deve attuare l’ultima operazione, l’ultima fissazione, l’ultima purificazione dagli elementi terrestri e lunari. Stefano Arcella (op.cit., p. 85-6) ha reso perfettamente tale senso esoterico:”il sacrificio del toro è il superamento, da parte dell’adepto ai Misteri, della sua componente tellurico-lunare, se è vero che il toro, nella sua possanza, allude alla incoercibilità delle forze istintive e passionali, al tumulto delle spinte della natura inferiore dell’uomo, simboleggiate dalla Terra”.  
 
Nel sistema dei chakra ciò corrisponde al settimo, Sahasrara, o al primo sephira cabalistico, Keter, situato sulla testa, luogo di congiunzione della Sushumna con il Divino, realizzazione degli stadi sovraindividuali e completo risveglio della Kundalini. Nel settimo grado del Pater, Saturno si illumina e ritorna reggitore del mondo e del tempo, dio della Tradizione Primordiale, Piombo che si purifica e si trasmuta in Oro. In quest’ottica si può maggiormente comprende la corrispondenza dell’iniziazione mithriaca con lo sviluppo dell’Arte Metallica. Abbiamo già accennato alla spirale ermetica  di J.G. Gichtel: in essa il principio è rappresentato da Sole-Oro nella zona cardiaca, il quale, tramite un movimento centripeto dissolve gli elementi superiori in quelli inferiori tramite la cottura col Fuoco e poi, con un movimento centrifugo, li riconduce alla loro reale essenza. Ci si trova, quindi, innanzi ad un simbolo in cui il plumbeo Saturno della regione coronale si dissolve nella Luna-Argento della regione sacrale per ridiventare, come detto, aureo, Giove-Stagno della regione frontale si dissolve in Mercurio della regione ombelicale, Marte-Ferro della regione laringea si dissolve in Venere-Rame della regione lombare:”Di là dalla settima sfera, l’eccesso: ciò in cui non vi è più né un qui, né un non-qui, che è calma ed illuminazione e solitudine come in un oceano infinito. E’ il grado di Padre di là da quello dell’Aquila, il vertice, il substrato del mondo voraginoso, scatenato, fiammeggiante delle potenze”(Julius Evola, La via della realizzazione di sé secondo i misteri di Mithra, Fondazione Evola, p. 14)).
 
La realizzazione dell’Uno
 
Mithras-Born-from-a-rock.jpgMolti sono stati gli scritti, gli articoli, i testi che profondamente hanno indagato la simbolica e l’essenza tradizionale e spirituale dell’iniziazione mithriaca, ma, purtroppo, pochi hanno ben evidenziato come il settimo grado di tale culto misterico, quello del Pater, non rappresentasse l’ultima tappa dell’ascensione al Divino. Se profanamente si provasse a schematizzare il processo iniziatico di cui si è scritto, sarebbe possibile confrontarlo, riducendo il settenario in forma quaternaria, alle varie fasi dell’Opera Alchemica ed alla suddivisione microcosmica operata dal Kremmerz e dalla sua Schola. Infatti, le prime quattro figure che partono dal Corax ed arrivano al Leone è possibile paragonarle alle quattro operazioni dell’Opera al Nero, la Nigredo (calcinazione, putrefazione, soluzione, distillazione ), mentre la figura del Pherses, sotto l’egida astrale della Luna, e quella di Heliodromos, portatore del Sole ma non il Sole, configurano la dimensione numinosa della nuda Diana, dell’immortalità virtuale, quindi della realizzazione dell’Opera al Bianco, Albedo.
 
Lo stato di Pater, pertanto, non costituisce, come molti potranno azzardare, la fissazione aurea della Rubedo, ma solo la sua parte iniziale, il Solve, che necessita di un ulteriore sviluppo, di un Coagula: anche simbolicamente, molto spesso, la figura di Mithra vincitore è stata accostata all’Aquila, unico animale a fissare da vicino il Sole…ma non ancora identificatosi con esso. Tali accostamenti potranno risultare più puntuali se ci si rifà, come anticipato, alla dottrina interna di Giuliano Kremmerz e di tutta la Tradizione Occidentale. In essa vi sono quattro corpi che caratterizzano l’uomo: il corpo saturnio (nel senso oscuro e duale che ha tale riferimento numinoso), quindi materiale e transuente; il corpo lunare, quindi la sfera acquatica, della passioni, dei sentimenti, goccia di Anima Mundi; il corpo mercuriale, quindi la sfera dell’Intelletto, del Demiurgo, dell’Essere, simboleggiato non casualmente dall’Aquila; infine, il corpo solare, cioè la sfera dell’Infinito, che in matematica si esprime come un otto posto orizzontalmente (∞), cioè coincidenza di due mondi (Cielo e Terra, Essere e Divenire,…) che prima con l’otto posto verticalmente (8) mediava e gerarchizzava la manifestazione, dell’Identità Suprema, ove non vi è differenza tra Essere e non-Essere, ove l’essenza solare è in sé, quindi non manifesta, quindi “essenza polare”.  Come riporta il Merkelbach nel suo studio (Mitra, il Signore delle Grotte, Edizioni ECIG, p. 87), sempre nel citato mitreo di Felicissimo a Ostia nel mosaico pavimentale, vi è un ottavo riquadro con l’iscrizione del committente, ma avente anche un diverso e supremo significato: come ci riporta sempre il Merkelbach “quest’ultimo riquadro simboleggia le regioni oltre il cielo delle stelle fisse, alle quali, dopo la morte, ascenderà l’anima dell’iniziato”.
 
Se Saturno/Zervan è il Signore del Tempo, se è la compiutezza di ciò che nella dottrina ermetico-alchemica viene denominata Opera al Giallo, cioè l’ultimo Solve, Egli è, secondo quanto riporta Porfirio, nella sua opera Sulla filosofia degli oracoli, Aiòn, l’Eternità, il Bene Supremo di Platone (non erroneamente alcuni studiosi ed autori, come Platone nel Timeo, hanno identificato Saturno e Aiòn, essendo le due facce della medesima operazione), l’Essenza Originaria, da cui si sono emanate le varie divinità della tradizione greco-romana: qui si attua la Realizzazione Ultima, al di là delle statue dell’Anima e del Nous, come si “procedeva” ad Eleusi, la compiutezza dell’ultimo Coagula, della Rubedo. Se il Pater è la trasmutazione del corpo in spirito e dello spirito in corpo sulla terra, Aiòn è il volo e l’identificazione verso le stelle,  è l’uomo divino, è Mithra che abbandona definitivamente l’umano ed il terrestre per divenire egli stesso l’essenza arcana di Helios:”Egli entra in intimo rapporto col Divino…egli si vede diventato il Divino stesso…vita degli Dei e degli uomini divini e perfettamente felici: lungi dagli altri che sono quaggiù, superiore ai piacieri di questo mondo, fuga dell’Uno verso l’Uno”(Plotino, Enneadi, VI, 9, 11).
 
Luca Valentini
 
(saggio pubblicato sul n. 5, Ottobre 2011, della rivista Betile, Cagliari)

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mercredi, 25 février 2015

Kairós, the brief moment in which things are possible…

Kairós, the brief moment in which things are possible…

Ex: http://hellenismo.wordpress.com

“Running swiftly, balancing on the razor’s edge, bald but with a lock of hair on his forehead, He wears no clothes; if you grasp him from the front, you might be able to hold him, but once He has moved on not even Zeus Himself can pull him back: this is a symbol of Kairós, the brief moment in which things are possible.”

 

 

10) Know opportunity (Καιρον γνωθι)

“Kairós” is a very important and interesting word, that has a plurality of meanings. First, it means “the right measure, what is convenient, what is suitable and right”, as in the expression “kairós charitos”, right measure in honoring. It has also a strong temporal value,  and as such, it means often “the right/appropriate moment, the good occasion, the propitious moment”. Thus the expression “kairòn echei” is “it is the propitious time/moment”, “kairoŷ tycheîn” means “meet the favorable occasion, to succeed at the right time”. In a extensive way, it means generally the occasion, the circumstance, as in “ho paròn kairós”, present time or present occasion- “hoi kairoí” are the present circumstances. It has a positive character, because it can indicate all that is useful, helpful and convenient. The two Hellenic words to indicate time are chronos and kairós: the first has a quantitative nature, while the second has a qualitative nature and is employed when something special happens. Kairós is indeed a God, the youngest child of Zeus, and He brings about what is convenient, appropriate, and comes in the right moment. He is  represented as a young and beautiful God; there was a bronze statue of Him in Sikyon on which a epigram was carved:

“Who and whence was the sculptor? From Sikyon.

And his name? Lysippo.

And who are you? Time who subdues all things.

Why do you stand on tip-toe? I am ever running.

And why you have a pair of wings on your feet? I fly with the wind.

And why do you hold a razor in your right hand? As a sign to men that I am sharper than any sharp edge.

And why does your hair hang over your face? For him who meets me to take me by the forelock.

And why, in Heaven’s name, is the back of your head bald? Because none whom I have once raced by on my winged feet will now, though he wishes it sore, take hold of me from behind.

Why did the artist fashion you? For your sake, stranger, and he set me up in the porch as a lesson.”

About this statue, here follows the description of Callistratus, Descriptions 6:

“Kairos was represented in a statue of bronze, in which art vied with nature. Kairos was a youth, from head to foot resplendent with the bloom of youth. He was beautiful to look upon as he waved his downy beard and left his hair unconfined for the south wind to toss wherever it would; and he had a blooming complexion, showing by its brilliancy the bloom of his body. He closely resembled Dionysos; for his forehead glistened with graces and his cheeks, reddening to youthful bloom, were radiantly beautiful, conveying to the beholder’s eye a delicate blush. And he stood poised on the tips of his toes on a sphere, and his feet were winged. His hair did not grow in the customary way, but its locks, creeping down over the eyebrows, let the curl fall upon his cheeks, while the back of the head of Kairos was without tresses, showing only the first indications of sprouting hair.


We stood speechless at the sight when we saw the bronze accomplishing the deeds of nature and departing from its own proper province. For though it was bronze it blushed; and though it was hard by nature, it melted into softness, yielding to all the purposes of art; and though it was void of living sensation, it inspired the belief that it had sensation dwelling within it; and it really was stationary, resting its foot firmly on the ground, but though it was standing, it nevertheless gave evidence of possessing the power of rapid motion; and it deceived your eyes into thinking that it not only was capable of advancing forward, but that it had received from the artist even the power to cleave with its winged, if it so wished, the aerial domain.


Such was the marvel, as it seemed to us; but a man who was skilled in the arts and who, with a deeper perception of art, knew how to track down the marvels of craftsmen, applied reasoning to the artist’s creation, explaining the significance of Kairos as faithfully portrayed in the statue: the wings on his feet, he told us, suggested his swiftness, and that, borne by the seasons, he goes rolling on through all eternity; and as to his youthful beauty, that beauty is always opportune and that Kairos is the only artificer of beauty, whereas that of which the beauty has withered has no part in the nature of Kairos; he also explained that the lock of hair on his forehead indicated that while he is easy to catch as he approaches, yet, when he has passed by, the moment of action has likewise expired, and that, if opportunity is neglected, it cannot be recovered.”

mardi, 24 février 2015

Contra el Islam en defensa de nuestra “identidad”: sí, pero ¿cuál?

por Stefano Di Ludovico

Ex: http://paginatransversal.wordpress.com

Entre las ideas fuerza que Matteo Salvini presenta como esenciales para el nuevo curso de la Liga Norte continúa estando el “no a las mezquitas”, o el rechazo a la construcción de lugares de culto islámicos en nuestras ciudades. Decimos “continúa” porque si en otras áreas Salvini parece haber dado un giro importante e innovador a la política de su partido (véase, por ejemplo, a nivel interno, la atención a la dimensión nacional o, a nivel internacional, el apoyo a la Rusia de Putin), sobre tal punto no hubo novedades sustanciales respecto a las tradicionales posiciones anti islámicas propias del movimiento liguista, en el que el “tema de la inmigración” y la “cuestión islámica” siempre se han visto como las dos caras de la misma moneda. Y a partir de esta identificación parece surgir una serie de problemas cuyo enfoque creemos será útil para aclarar los límites y las contradicciones en las que incluso la nueva Liga de Salvini continúa moviéndose, y con ella los diferentes partidos y movimientos europeos considerados “identitarios” -etiquetados como “populistas” o de “extrema derecha” – con los cuales la Liga está hoy más estrechamente aliada, límites y contradicciones que van a invertir la naturaleza, los valores de referencia y la misma visión del mundo que son la base de toda esa área política.

Como se sabe, el “no a las mezquitas” es parte de una batalla política general encaminada a obstruir y detener la propagación en Italia de las prácticas, usos y costumbres islámicas, consideradas incompatibles, si no hostiles, a las de nuestro propio país y las a de Occidente en general. El “no a las mezquitas” va de la mano con el no al velo para las mujeres, el no al kebab, el no a la comida islámica en los comedores escolares y así sucesivamente. La cuestión decisiva es por consiguiente la de la llamada “amenaza islámica”, y por lo tanto ligada a la de la “invasión extracomunitaria” que pondría en riesgo, más allá de los costos materiales y sociales que implica inevitablemente la inmigración sin reglas, la identidad y, por lo tanto, la propia supervivencia de nuestra civilización. Si no fuera por esto, sería difícil de entender cómo se podría justificar la negativa a reconocer el derecho fundamental de los fieles musulmanes a rezar en los lugares adecuados (¿o los quieren dejar quizá en sótanos y garajes?), derecho que no nos parece que los liguistas, como los partidos afines a ella antes mencionados, quieran negar a los representantes de otros cultos no cristianos. No nos consta, de hecho, que estos se movilicen cada vez que temen la construcción de un templo judío, budista o de la nueva era, sin tener en cuenta el hecho de que entre los musulmanes también se cuentan en la actualidad decenas de miles de ciudadanos italianos convertidos (por lo tanto, no ciertamente “extracomunitarios”): en este caso encontrar alguna razón que pueda justificar la denegación del derecho de culto reconocido a los italianos cristianos, judíos o budistas sería aún más difícil y un tanto paradójico. Así que, más que una cuestión de elementales cuanto descontados derechos subjetivos, el problema parece ser aquello mucho más importante de la defensa de nuestra “civilización”, dado que ésta, al decir de estas fuerzas políticas, se pondría en riesgo principalmente por el Islam, no constituyendo en este sentido otras religiones ningún peligro, tanto por el número limitado de sus miembros, como porque principalmente estos, más allá del Dios particular en el que creen o del culto específico que le reservan, aparecen para el resto perfectamente integrados en la sociedad occidental, reconociéndose plenamente en sus costumbres y en sus valores subyacentes.

Uno se pregunta, entonces, cuál sería esta  “civilización” occidental, cuáles sus costumbres y valores, en nombre de los cuales la Liga y otras fuerzas identitarias europeas llevan a cabo su lucha anti islámica. Que se sepa, la única “civilización” que caracteriza a Occidente hoy es la llamada civilización “moderna”, o civilización laica materialista y consumista, que nació precisamente en Occidente hace unos dos siglos, se ha ido gradualmente ampliando gracias al predominio de éste al resto del mundo, mundo casi por completo “occidentalizado”: como tal civilización fue construida aquí, con nosotros haciendo tabla rasa de todas las civilizaciones y culturas “otras”, civilizaciones y culturas de tipo esencialmente “tradicional” que caracterizaron en origen al Occidente mismo, y del mismo modo se va imponiendo a nivel global, barriendo la civilizaciones locales tradicionales, algunas de las cuales no han sido totalmente erradicadas, en algunas zonas todavía están tratando de resistir en nombre de la defensa de su propia identidad. El Islam, aunque también profundamente distorsionado por la modernidad, es una de ellas, más allá de las diferentes articulaciones y corrientes, a menudo en una amarga lucha entre ellas, lo que inevitablemente caracteriza cualquier gran tradición (si hay una cosa que une a los sunitas del Isis o de la Hermandad Musulmana, y los chiítas de Irán o de la libanesa Hezbolá es la ‘hostilidad hacia las costumbres y estilo de vida occidentales). Cuando la Liga y los partidos “identitarios” dicen que luchan por la “identidad” occidental contra la amenaza islámica, entonces es de esta identidad de la que esencialmente están hablando, dado que en Occidente, desde hace varias décadas, no se ve otra. Hablar incluso de defensa de la “identidad cristiana”, como estos movimientos hacen, como si el Occidente todavía se identificara con esta su última, en un sentido temporal, tradición, parece más un mero pleonasmo, visto que los cristianos de Occidente y sus respectivas iglesias están desde hace mucho tiempo completamente homologados a la cultura “moderna” que, en contra de su propia “tradición”, fue construida. Ni en este sentido puede hacer escuela la exigua y por lo tanto completamente irrelevante minoría de “tradicionalistas” que aún permanece dentro de las Iglesias cristianas: si los partidos identitarios fueran la expresión de tales instancias minoritarias, sin duda no serían esos partidos de masas que son hoy o que, al menos, aspiran a ser.

sm94be2079.jpgEl Islam, en cambio, incluso en nuestras sociedades, a menudo trae elementos y valores realmente incompatibles con la modernidad y, por lo tanto, difícilmente “integrables”. Y es eso lo que las fuerzas identitarias le reprochan, viendo a sus miembros como sujetos extraños y alógenos respecto a nuestro mundo, a diferencia, como se ha dicho, de los seguidores de otras religiones que, al igual que los cristianos, más allá de las formas externas que aún permanezcan en las prácticas del culto, por lo demás están totalmente homologados a las costumbres y al estilo de vida materialista y consumista propio de nuestra civilización. Así, una mujer musulmana que viste su ropa tradicional, como por ejemplo el velo, genera protestas y casi un sentimiento de repulsión que está en conformidad con nuestra “tradición”, los atuendos con los cuales se engalanan nuestras chicas respetando la última moda lanzada por la etiqueta del momento. Del mismo modo, la apertura de un kebab o de una carnicería musulmana irían a desfigurar, para los lugareños “identitarios”, la decoración urbana de nuestras calles, mientras que un McDonalds o un local de moda y tendencias no. Los ejemplos podrían multiplicarse: hace años, en Suiza, los partidos identitarios organizaron un referéndum contra la construcción de minaretes porque éstos implicarían la ruptura de la arquitectura típica de las ciudades suizas: no consta que tales partidos, en Suiza como en otros lugares, se hayan levantado alguna vez, al menos con el mismo ardor, en contra de la excéntrica arquitectura moderna que desfigura habitualmente nuestros centros históricos, como en general nuestros barrios, por no hablar de los eco-monstruos de nuestros suburbios, donde ahora todo el sentido de la proporción, la armonía, y por lo tanto de lo “bello” está completamente perdido, y no ciertamente por culpa de los minaretes o de quién sabe qué otro exótico edificio.

El hecho es que ahora también los representantes de los movimientos y partidos que intentan, a menudo de buena fe, denunciar la crisis y la decadencia de nuestra civilización, y presentarse como los defensores del “localismo” y del “pluralismo” en contra de la homologación y la globalización provocada por la modernidad, son hasta tal punto adictos y están tan comprometidos con su estilo de vida y sus valores, que terminan por sentir como una amenaza y un peligro cada realidad que se presenta como efectivamente “otra” y diferente. Si cavamos a fondo, detrás del “no a las mezquitas” se esconde justamente la desconfianza, si no la verdadera y propia “fobia” del hombre moderno hacia una civilización, como el Islam, todavía atada, como toda civilización digna de ese nombre, a los fundamentos religiosos, “sagrados”, por lo que la presencia de personas que acuden a un lugar de culto genera malestar a la mera visión y estaría perturbando la vida del barrio, mientras que no se tendría nada que decir si esas mismas multitudes fueran a invadir, en día de fiesta, un centro comercial o un centro deportivo. Hace años en Milán se montó un escándalo, justo por parte de la Liga y otros partidos de la derecha, debido a que un grupo de musulmanes, durante una manifestación, se detuvo a orar en la plaza de la catedral: se habló hasta de una “profanación” del principal lugar sagrado de los milaneses. No nos consta que aquellos mismos partidos hayan montado nunca un escándalo frente a la profanación permanente a la que aquel lugar es sometido a causa de las más variadas y extravagantes iniciativas mundanas y consumistas que tienen lugar allí, a menudo promovidas y financiadas por aquellos que, como ellos, han administrado la ciudad de Milán. ¿Pero qué debería ofender principalmente a un espíritu religioso: gente, a pesar de ser de otra fe, orando, o la campaña publicitaria para lanzar el último producto de consumo, tal y como se hace cada día en la Plaza del Duomo? Volviendo a los ejemplos del velo o de los locales musulmanes, el problema es que en Occidente no se puede dar razón de personas tan tenazmente vinculadas a los dictados religiosos incluso en la ropa y en la alimentación (cosa que es perfectamente normal en todas las civilizaciones tradicionales, donde todos los aspectos de la vida son una expresión de lo “sagrado”), mientras que ser determinado por la lógica consumista incluso en los ámbitos más intelectuales y espirituales, como ocurre en Occidente, se considera “normal” y por lo tanto es tolerado. E incluso las campañas que los partidos identitarios emprenden a menudo a favor de los símbolos y costumbres propios de nuestra tradición religiosa (véase la defensa del crucifijo o del presepe [Nacimiento, Belén. N.t.] en lugares públicos) cuando estos son prohibidos por celosos representantes institucionales en respeto a la “laicidad” del Estado, son hechas sobre todo en el nombre de una tradición entendida como mero folklore (folklore que del consumismo es sólo una variante) y por políticos que en general han perdido completamente el verdadero espíritu religioso y tradicional, y que no siguen ya ciertas costumbres siquiera al nivel de una sola adhesión formal.

Queriendo negar a los musulmanes la oportunidad de seguir sus propias costumbres y valores, a los cuales deberían renunciar para aceptar los nuestros, los partidos identitarios se ponen así, sustancialmente y más allá de las diferencias aparentes, en el mismo plano que los partidos de izquierda que, en nombre de la “integración” y de la “sociedad multiétnica” que van pregonando como alternativas a aquellas del “rechazo” y de la “intolerancia” que reprochan a la derecha, persiguen en realidad el mismo fin de “asimilación” de los musulmanes, como de cualquier otra diversidad, al único modelo de civilización considerado legítimo, el occidental moderno. Y la equívoca mezcla entre la “cuestión de la inmigración” y la “cuestión islámica”, que lleva erróneamente a los partidos identitarios a acusar a la izquierda de “filoislamismo” como consecuencia de su “immigracionismo”, cuando en realidad la izquierda puede ser todo excepto “filoislámica”, ya que los valores y costumbres propios de la tradición islámica, como los de cualquier “tradición”, son incompatibles con los valores y las costumbres de la modernidad, de la que la izquierda es la representante por excelencia. ¿O los liguistas creen que las mujeres progresistas italianas desean la adopción en nuestro país de la sharia en lo que respecta a, por ejemplo, las relaciones hombre-mujer? En realidad, ellas quieren lo que básicamente quieren también ellos: que los musulmanes renuncien a tales “bárbaras” y “atrasadas” tradiciones y se conviertan a la magníficas y progresivas suertes de la modernidad, al ritmo del tan cacareado multiculturalismo que para la izquierda no se reduce más que, también desde su punto de vista, a la preservación de las aspectos “folklóricos” de las otras tradiciones dentro del único modelo de civilización tolerado y reconocido.

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La Liga y los partidos identitarios europeos se encuentran así frente a una encrucijada: o bien definen claramente cuál sería la ‘identidad’, o el modelo de civilización al cual se adhieren y que quieren salvaguardar contra la presunta “amenaza islámica”, o se arriesgan a servir ellos también, en última instancia, de simples “perros guardianes” del sistema, alternativos sólo en apariencia, en los detalles de los métodos y de las estrategias políticas, a las fuerzas del centro o de la izquierda que tal sistema gobiernan y en el que se reconocen plenamente. Además, algunos de estos partidos -especialmente aquellos del área protestante o nórdica – no ocultan en erigirse en los paladines más intransigentes y rígidos justo del modelo de desarrollo occidental, contra un Islam no asimilable en él: el LPF holandés por ejemplo, del difunto Pim Fortuyn, siempre ha rechazado claramente la etiqueta de partido “reaccionario”, de “extrema derecha”, declarando varias veces querer defender contra el tradicionalismo musulmán los valores laicos y seculares propios del Occidente moderno, como la igualdad entre hombres y mujeres y los derechos gays (Fortuyn fue efectivamente homosexual declarado), y posiciones similares adoptaron partidos “populistas” de países como Dinamarca, Suecia o Noruega, que ven en su propio modelo de desarrollo “escandinavo” la punta de lanza de la modernidad, en su opinión cuestionada por la cada vez mayor presencia de inmigrantes musulmanes. En la práctica la ideología en la que tales partidos se basan es aquella que, con un término en boga hoy en día, se llama “fallacismo”, la violenta polémica anti-islámica de la conocida periodista italiana, debido precisamente a su plena participación de los valores occidentales modernos que el Islam se obstina en no reconocer; “fallacismo” que, como es bien conocido, continúa asomando la cabeza también en la Liga salviniana. La persistencia de parecidos horizontes ideológicos encuentra su confirmación también en ciertas posiciones de política exterior que tales partidos expresan, y que van a chirriar con las al tiempo interesantes innovaciones – tales como la proximidad a la Rusia de Putin en clave antiatlantista y antieuropeísta -, antes mencionadas: véase, por ejemplo, el filosionismo, el estado de Israel visto como el “baluarte de Occidente” en el mar islámico de Medio Oriente, o el apoyo a los regímenes y movimientos árabes considerados “laicos” o “moderados”, terminando con hacer propias las categorías interpretativas occidentalistas totalmente fantasiosas y espurias, tendentes únicamente a reiterar que el único Islam que Occidente tolera es un Islam hecho a su imagen y semejanza, un Islam que ya no es tal y que acepta ser “asimilado” en todo y para todo al estilo de vida occidental (por cierto, el filosionismo parece realmente paradójico en fuerzas declaradamente antinmigracionistas, ya que el propio Israel es un estado fundado sobre la inmigración “ilegal” y la expulsión y guetización de los nativos).

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Si en lugar de un modelo de sociedad diferente, de un modelo diferente de civilización, la Liga y los partidos de la destra identitaria desean hacerse portavoces contra la decadencia y la anonimia del mundo moderno y globalizado al que incluso dicen oponerse, entonces su invectiva y sus flechas deberían ser dirigidas a otro lugar, contra un “enemigo” que no es, como el Islam, externo y exótico, sino interno y endógeno, en cuanto que lo que ha destruido e impide el florecimiento de una civilización “otra”, y que realmente pueda considerarse tal, se encuentra en la historia y en las decisiones tomadas por Occidente a lo largo de su historia reciente, y en la actualidad tiene sus bastiones en las instituciones y en los centros de poder de nuestros propios países. Así, en lugar de despotricar contra la presunta cuanto misteriosa “invasión islámica”, es contra la invasión “americana”, sea por sus bases militares como especialmente por sus costumbres de vida – el estilo de vida americano -, contra lo que cualquiera que se presente como defensor de la identidad y de la civilización europea debería despotricar; en vez de protestar contra la construcción de mezquitas o por el uso del velo islámico, es contra la construcción de hipermercados, de sedes de multinacionales, de todos los centros y los símbolos de la industria del consumo contra lo que deberíamos revolvernos, porque son éstos los que perturban, humillan y degradan cotidianamente y a sabiendas nuestras ciudades y nuestras propias vidas. La historia enseña que ninguna gran civilización, si se ha mantenido firme y fuerte en sus tradiciones, ha sido borrada por el contacto y la colisión con una civilización extranjera, la decadencia y la crisis siempre han sido principalmente debido a factores internos. Del mismo modo sería completamente ilusorio pensar en salvaguardar nuestras tradiciones obligando a los demás a abandonar las propias; de hecho, la obstinación con la que los musulmanes siguen teniendo fe en sus costumbres frente a un mundo que va hacia otro lugar, debería ser para nosotros una fuente de admiración y de ejemplo. Siempre que se sepa salir de la equivocación de intercambiar nuestra tradición por aquello que en su lugar la ha destruido, y se comprenda de una vez por todas cuál es ahora la verdadera batalla, el verdadero reto para todos aquellos que realmente tienen en el corazón el destino de cada identidad y de cada civilización: como escribió Guénon, “desde diferentes partes se habla mucho hoy de “defensa de Occidente”; pero por desgracia, no parece entenderse que es, sobre todo, contra sí mismo que Occidente necesita ser defendido”.

(Traducción Página Transversal)

Fuente: Krisis

jeudi, 12 février 2015

Miyamoto Musashi: un esprit sans entraves

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Miyamoto Musashi

Un esprit sans entraves

Rémy Valat
Ex: http://metamag.fr
Si il existe une personnalité japonaise à la renommée mondiale, c'est bien Miyamoto Musashi (1584-1645), ce rônin, maître-escrimeur hors-pair, artiste et philosophe, auteur des Écrits sur les Cinq Éléments, couramment et improprement appelé Traité des Cinq Roues.  Sa postérité est telle que ce que nous connaissons réellement de sa vie fraye avec le romanesque et le légendaire, et bien sûr ce personnage atypique a ses adulateurs et détracteurs chez les amoureux de la culture japonaise et des arts martiaux. Ce qui est certain, à la lecture des Écrits sur les Cinq Éléments, c'est que Musashi était un esprit libre en phase avec la vie. Ces cinq rouleaux rédigés à l'extrême fin de sa vie étaient destinés à transmettre l'essence de son art à ses élèves.

Toutefois, cet enseignement dépasse le simple cadre des techniques du combat au sabre et de la stratégie, ceux-ci ne sont que des voies parmi tant d'autres menant à l'accomplissement de soi. Mais, les Écrits sur les Cinq Éléments, sont teintés d'amertume : Musashi règle ses comptes. Il aspirait  à devenir l'instructeur d'un puissant seigneur voire du shôgun, mais comme bon nombre de japonais du XVIIe siècle, ses perspectives réelles d'ascension sociales se sont éteintes sur le champ de bataille de Sekigahara (20-21 octobre 1600). Il était du mauvais côté, celui des perdants : les Toyotomi et leurs alliés seront tenus éloignés des postes honorifiques ou les plus importants. Musashi s’est battu sous la bannière du seigneur Ukita, suzerain du seigneur Shinmen Sôkan. Ce clivage pèsera lourd ; les haines se raviveront au moment des guerres civiles qui précèdent et succèdent l’instauration de l'ère Meiji en 1868. 
 
Il sera l’invité du clan Ogasawara (1616-1617), puis du Hosokawa, famille apparentée au Tokugawa, mais n’aura ni le titre ni les émoluments d’un maître-d’armes de son niveau. Le clan Hosakawa l’a recruté en 1611 pour régler un différend polititique : il tue Sasaki Kojiro en combat singulier sur l’île de Funajima (avril 1612). Il sera un satellite du clan jusqu’à sa mort. Musashi participe comme soldat ou comme conseiller militaire aux guerres conduites par le shôgun contre les derniers partisans des Toyotomi (sièges d’Osaka, 1614-1615) et les Chrétiens de l’île de Shimabara conduits par Shirō Amakusa (1637-1638). Surtout, il mène à partir de 1618 (ou 1620) une politique d’adoption, certainement mêlé à un sincère désir de paternité, lui servant à placer des soutiens politiques. 
 

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miyllivre.jpgMiyamoto Mikinosuke deviendra un vassal de la seigneurie de Himeji (1622), mais le jeune homme suivra son seigneur dans la mort en pratiquant le suicide rituel (1626). Miyamoto Iori, qui serait peut-être un sien neveu, entrera au service du seigneur Ogasawara (1626). Surtout, en 1624, il séjourne à Edo, la capitale, et noue d’étroites relations avec Hayashi Razan, un célèbre savant confucéen, ce dernier proche du Shôgun l’aurait proposé comme maître de sabre, mais le Shôgun disposant déjà de deux maîtres d’armes de renom, Yagyû Munenori (école shinkage ryû) et Ono Jiroemon (Ono-ha Ittō-ryū),  déclinera l’offre. 

Nous savons peu de choses authentiques sur les duels de Miyamoto Musashi, le premier se serait déroulé au village de Hirafuku-mura en 1596, contre un élève de l’école Shînto-ryû. Musashi n’avait que 12 ans. En 1604, il gagne une série de duels contre le clan Yoshioka dans la banlieue de Kyôtô. Il aurait ensuite formé Tada Hanzaburô, un moine du temple d’Enkôji, qu’il autorisa à enseigner à la fin de son apprentissage. En 1607, il gagne un duel contre Shishido Baiken, un expert en kusari-gama (une faucille liée à une chaîne se terminant par un poids en acier). De passage dans la capitale, il vainc deux adeptes de la shinkage-ryu, mais surtout échange avec Musô Gonnosuke, un expert du combat au bâton, celui-ci fera évoluer son art au contact de Musashi et créé une école (Shintô-Muso-ryû).

Que pouvons-nous avancer sur cet homme ? 

Son art est tout d’abord un héritage familial. Son père biologique (ou adoptif, selon d’autres hypothèses), Miyamoto Munisai, était un maître d’arme pratiquant le sabre et le jitte

Le jitte est une arme de neutralisation, sa lame est non-tranchante et effilée avec une griffe latérale au niveau de la garde. Le jitte était une arme d’appoint complétant le sabre. Toutefois, selon d’autres sources le jitte manipulé par Musashi aurait été un modèle à dix griffes. Le jitte et le sabre court (wakizashi) servaient à immobiliser ou à parer la lame de l’adversaire offrant une ouverture pour une frappe au sabre long (katana). Toutefois, pour Musashi, l’emploi des deux sabres est circonstancielle comme l’affirme les Écrits sur les Cinq Éléments, mais cette technique fait l’originalité de son école. C’était peut-être, outre les aspects techniques, un moyen de se différencier et de « séduire » un seigneur en quête d’instructeur. L’école de Musashi, la Hyōhō Niten Ichi ryū (“l’École de la stratégie des deux Ciels comme une Terre”) existe encore de nos jours, mais l’usage des deux sabres n’était guère prisé pendant l’époque d’Edo. La manipulation de deux armes nécessite un entraînement particulier et le dégainé n’est pas aisé, surtout en espace clos (De même, le retour des deux lames dans leurs fourreaux nécessite que l’on se dessaisisse de l’une d’entre-elle). Les samouraïs préféreront de loin, l’usage du katana ou du wakizashi et rarement les deux en même temps.
  
miy2020861069_1_75.jpgCe qui reste de Musashi : l’empreinte spirituelle d’un homme, qui n’était probablement pas le meilleur artiste martial du Japon (la vie se réduit-elle aux arts martiaux ? Musashi était par ailleurs artiste et philosophe), mais d’un homme libre (ou pour le moins qui a pu se construire une marge d’autonomie plus importante que la moyenne au regard de sa situation sociale) qui se contentait d’être pleinement, de transmettre et de construire. Ayant atteint la maturité spirituelle et technique, Miyamoto Musashi vainquait sans tuer.  Les Écrits sur les Cinq Éléments respirent la vie, c’est un modèle de pensée aux antipodes du caractère morbide et étriqué du hagakure de Yamamoto Tsunetomo. Le livre de Musashi est important car, il révèle les techniques gardées généralement secrètes par les autres écoles, à savoir les techniques corporelles (respiration, distance, postures, etc.). Pour une lecture approfondie, il est vivement recommandé de lire la traduction des Écrits sur les Cinq Éléments et la biographie de Miyamoto Musashi par Kenji Tokitsu (Miyamoto Musashi. Maître de sabre japonais du XVIIe siècle, Points Sagesse, 1998). Le texte est analysé en profondeur et les cinq formules techniques (utilisant les deux sabres) sont complétées par une présentation des katas tels qu’ils sont encore pratiqués de nos jours (Imai Masayuki, 10e successeur de la branche principale de l’école de Musashi). 

Ces techniques sont visibles sur le site de la branche française de l’école

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mardi, 10 février 2015

Esquilino in maschera!

Evola? Né eccentrico, né "guru"

Evola? Né eccentrico, né "guru": de Turris racconta gli incontri col filosofo

Ex: http://www.secoloditalia.it

ev1396243984-ipad-416-0.jpg«Julius Evola aveva una personalità multiforme, o almeno un carattere variabile, umorale, o era addirittura lunatico come anche è stato detto? E’ quel che si potrebbe pensare ascoltando le testimonianze di quanti hanno avuto la possibilità di conoscerlo e frequentarlo, dato che ne offrono rappresentazioni diverse, spesso assai diverse e quasi contrastanti fra loro al punto di sembrare o invenzioni o descrizioni di persone differenti. E’ quel che mi è venuto di pensare – scrive Gianfranco de Turris sul Barbadillo.it – ascoltando amici o estranei che mi hanno raccontato i loro incontri con il filosofo e chiedendomi sempre quale fosse invece la mia personale impressione: pur facendo la tara sul tempo trascorso, erano immagini troppo distanti per non cercare una spiegazione. Come ripeto a tutti coloro che mi interpellano a questo proposito, soprattutto chi per l’età non ha potuto conoscere di persona Evola, io l’ho sempre trovato una persona “normale”, senza eccentricità, bizzarrie, a parte il vezzo di prendere dal cassetto della scrivania il monocolo e inforcarlo alla presenza di signore e signorine; nessun atteggiamento di superiorità o da “maestro”, nessuna saccenteria, e questo sin da quando andai a trovarlo per la prima volta accompagnato da Adriano Romualdi, come avveniva per chi era giovane tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta del Novecento. Di  certo avvenne dopo il 1968 quando avevo parlato di lui sul mensile L’Italiano fondato e diretto da Pino Romualdi e sul quale Adriano mi aveva invitato a collaborare (ed ero anche retribuito!). Con lui si parlava pacatamente di tutto, purtroppo non di alcune questioni cruciali di cui soltanto dopo, approfondendone vita e pensiero, avrei voluto parlare col senno di poi. Questioni un po’ più “profonde” si affrontarono solo verso la fine della sua vita, a dicembre 1973, quando andai a trovarlo con Sebastiano Fusco ed avemmo una lunga conversazione registrata che pubblicai però postuma, dodici anni dopo, in appendice alla seconda edizione di Testimonianze su Evola (Mediterranee, 1985)».

La “scandalosa” intervista concessa a Playmen

«Evidentemente si fece di me una opinione positiva – continua de Turris – anche se non mi disse mai nulla in proposito, ma sta di fatto che acconsentì a rispondere alle mie domande per una serie di interviste (almeno quattro) su vari giornali e riviste, preso ormai dalla mia mania “giornalistica” di divulgarne le opinioni rimaste sempre in ambiti ristretti,  più di quante sino a quel momento gli erano state fatte da altri, e ora raccolte in Omaggio a Julius Evola (Volpe, 1973) pubblicato per i suoi 75 anni. E, sempre per quella mia mania, ne propiziai diverse tra cui quella, clamorosa, che apparve su Playmen (con grande scandalo dei bacchettoni di destra e di sinistra) effettuata nel 1970 da Enrico de Boccard che soltanto molto dopo appresi essere stato uno dei “giovani” vicini a lui negli anni Cinquanta. Opinione positiva sua e di Adriano che ho conosciuto soltanto abbastanza di recente quando furono pubblicati una parte del suo epistolario italiano (Lettere di Julius Evola, a cura di Renato Del Ponte, Arktos, 2005) e le lettere di Adriano al comune e sfortunato amico Emilio Carbone (Lettere ad un amico, a cura di Renato Del Ponte, Arya, 2013), tanto che il filosofo mi propose come collaboratore della rivista che voleva pubblicare il compianto Gaspare Cannizzo nonostante lui lo avesse sconsigliato e che uscì nel 1971 come Vie della Tradizione, e al Cahier de l’Herne dedicato a Gustav Meyrink uscito dopo la sua morte».

 

Appassionato di Tex
 

 

 

julius evola,italie,tradition,traditionalisme«Una persona che parlava di tutto e di tutti, sino al limite del pettegolezzo e raccontando barzellette, come un vecchio amico, senza prosopopea e saccenteria o atteggiamenti da ”guru”. Almeno con me non aveva alcuna cadenza o inflessione “alla romana”, pur essendo nato e cresciuto  nella capitale con qualche viaggio da ragazzino a Cinisi, il paese di origine dei suoi dove ancora esiste la casa avita. Al massimo arrotava “alla siciliana”  la “r” iniziale delle parole essendo vissuto in una famiglia di quelle origini. Insomma, tutt’altro che  il personaggio che emerge da altri ricordi. Ad esempio, un amico, che “evoliano” non è, mi ha raccontato che andando a trovarlo insieme ad un devoto del suo pensiero, questi, entrato nella sua stanza, si prosternò al suolo e quindi assorbì in silenzio i precetti un po’ assurdi e fuori del tempo che Evola gli dettava! Non posso pensare che questo amico si sia inventato tutto. Viceversa, una volta ad altri che erano recati da lui con spirito troppo superficiale, alla fine li congedò, come ha ricordato Renato Del Ponte, regalando oro una copia di Tex, il fumetto western allora (e oggi) il più longevo e diffuso, come dire, secondo me: siete più adatti a questo genere di  letture. A buon intenditor…».

La “Metafisica del sesso”

«Tutto ciò però  si collega a quanto lo stesso Adriano Romualdi mi raccontava allora. Ad esempio, che di fronte a certi che gli si erano presentati dicendo: “Maestro, noi il lunedì ci riuniamo per leggere Cavalcare la tigre, martedì Gli uomini e le rovine, mercoledì Rivolta contro il mondo moderno….”, Evola li interruppe e chiese: “E quando vi decidete a leggere Metafisica del sesso?”. Ad altri infervorati consigliò, per far soldi, di darsi al traffico di armi o, meglio, alla “tratta delle bianche”, come allora si diceva. In una delle sue ultime interviste, mi sembra a Panorama o in quella pubblicata postuma da Il Messaggero, disse che “il popolo bisogna trattarlo con la frusta”…. Cosa vogliano dire queste singolari affermazioni rispetto alla personalità “normale” che io ho conosciuto, ed hanno conosciuto anche altri? Dopo tanto tempo ho tratto alcune conclusioni».

Incontrava tutti, amici e nemici

«Il filosofo accettava di vedere, di parlare con tutti, senza preclusioni pur non conoscendo i suoi interlocutori, magari giovani e meno giovani di altre città che venivano appositamente a Roma per conoscerlo dopo aver letto i suoi libri. Prendevano un appuntamento e si recavano da lui, e quando non era in casa la domestica/governante altoatesina con cui parlava in tedesco, questa andandosene lasciava la chiave dell’ingresso sotto lo stuoino e chi arrivava, preavvertito, la prendeva e apriva la porta (e in teoria avrebbe potuto farlo anche qualche malintenzionato). Nel suo studio Evola accoglieva i visitatori o a letto o seduto alla sua sedia di fronte alla macchina da scrivere. Qui, io penso, si faceva una idea dei nuovi venuti grazie al suo acume psicologico ma soprattutto al suo intuito “sottile”, e si comportava di conseguenza, e quindi usava atteggiamenti, argomenti e soprattutto parole adatte alla bisogna. Oppure non ne usava affatto: come racconta Gaspare Cannizzo in un articolo,  certi suoi incontri consistevano in lunghi silenzi. Ecco il motivo per cui appariva “diverso” o singolare a chi lo andava a trovare, magari soltanto per una volta. Si comportava come un maestro zen o sufi,  un po’ come faceva anche Pio Filippani-Ronconi: diceva cose assurde, usava espressioni paradossali, provocatorie, estreme, quasi, così provocando, voler sondare le reazioni di chi aveva davanti, come a a volerlo saggiare, sondare, osservare le reazioni esteriori, ma anche interiori. I devoti, gli “evolomani” come lui stesso li aveva definiti, prendevano magari alla lettera quanto diceva e se ne facevano una impressione sbagliata. Lo stesso vale per chi andava da lui con atteggiamento troppo superficiale, o per i  facinorosi, che pensavano di essere “uomini di azione” e avevano dopo l’incontro impressioni pessime definendolo addirittura un “frocio”, come si può leggere nel libro-intervista ad un ergastolano “fascista” (Io, l’uomo nero, Marsilio, 2008). Il guaio, se così si può dire, è che il filosofo faceva lo stesso anche con chi non lo conosceva affatto oppure era già prevenuto nei suoi confronti, ad esempio con giornalisti per  nulla amichevoli i quali, anch’essi prendendo le sue parole ed espressioni alla lettera le riportavano pari pari e ne tratteggiavano un profilo oscuro e “maledetto”, quello del “barone nero” appunto, a conferma dei loro teoremi mentali (ricordiamoci che si era in piena “contestazione” e violenza, anche se il vero terrorismo non era ancora nato). Non era, dunque, una personalità multiforme, un carattere variabile, ma il suo essere così aveva un senso perché faceva da riscontro alla personalità e all’animo dei suoi interlocutori, seri o meno seri, preparati o meno preparati, colti o meno colti, ingenui o meno, amici o nemici. Il suo atteggiamento e linguaggio – conclude de Turris – servivano per capire chi fossero quei tanti che volevano vederlo, incontrarlo, parlargli, magari anche per prenderli sottilmente in giro per le loro esagerazioni, pur se non se rendevano conto. Da qui, ma a lui ovviamente non importava, la nascita di alcune leggende metropolitane nei suoi confronti che non sempre gli hanno giovato».

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lundi, 09 février 2015

The Magical World of the Heroes

The Magical World of the Heroes
 
Ex: http://www.lumineboreali.net
 
mmh61npIUW.jpgI discovered this fascinating little article by Alexander Dugin. I found it particularly interesting because this intriguing and mystical Hermetic work from Renaissance Italy, Il mondo magico de gli heroi – or The Magical World of the Heroes , authored by Cesare della Riviera – is referred to extensively in a couple of books I have had the pleasure to read recently, one for entertainment, the other for serious study: the esoteric author Joscelyn Godwin's curious little novel The Forbidden Book (certainly recommended, despite the portrayal of the radical traditionalist right as villains), and Julius Evola's The Hermetic Tradition. I assume that the latter work would be known to anyone on here claiming an interest in Evola's esotericism.

Let this thread be dedicated to Cesare della Riviera and Il mondo magico de gli heroi. Do not hesitate to share material concerning this, or overlapping topics, such as Evola's The Hermetic Tradition.

Now keep in mind that the article below is worded quite obscurely in symbolic language. As I have not come far in my study of the Hermetic Tradition yet, I cannot comment with great certainty upon the precision or correctness of the following commentary. But it is interesting and brief reading that might inspire the public to investigate this subject further.

There are even some questionable political statements of Dugin in there that are not very central to the subject that is della Riviera's esoteric lineage.


1. An Open Entrance to the Occult text of Cesare della Riviera

"The Magical World of the Heroes" (Il mondo magico de gli heroi), the book by Cesare della Riviera, was published in 1605. Later, in the 20th century, Julius Evola republished it with his comments, asserting that in this hermetic treatise can be found the most open and clear statement of the principles of spiritual alchemy and hermetic art. Rene Guenon notes in his review, however, that the work of della Riviera is far from being as transparent as asserted in Evola's commentary.
And indeed, "The Magical World of the Heroes" is enigmatic to the limit - first, by its literary form, and second, because the concepts with which the author deals are something extremely mysterious in themselves, not clear, and having no equivalent in concrete reality.
But, maybe the difficulties in understanding the given theme arise because the very "heroic principle", the figure of the Hero, is far from the sphere of what is surrounding us today? Perhaps this difficult text is crystal clear for the true heroes and does not require any further decoding?
It is crystal clear and transparent as ice...

2. Cosmogony of Ice

In Evola's books, devoted to the differing problems of tradition and politics, there is always an appeal to the principle of Cold. The theme of Cold emerges here and there, irrespective of if the matter concerns tantra or the existential position of the "solitary man", Zen-Buddhism or knightly mysteries of medieval Europe, modern art or autobiographical notes. "Cold" and "distance" are the two words which, perhaps, are found most often in the "Black Baron's" lexicon.
The hero, by very definition, should be cold. If he will not separate himself from those around him, if he will not freeze the warm energy of daily humanness within himself, he will not be at a level of performing the Impossible, i.e. at the level that marks a hero from the merely human. The hero should leave the people and travel beyond the limit of social cosiness, where penetrating winds of an objective reality, severe and nonhuman, roar. The soil and stones rise against the animal and vegetal worlds. The aggressive vegetation corrodes minerals, and wild animals ruthlessly trample down the obstinate herbs. The elements outside the society show no mercy. The world in itself is a triumphal banquet of substance, whose bottom level merges with the lumps of cosmic ice. The hero is cold, because he is objective, because he accepts the relay race of spontaneous force, furious and unkind, from the world.
The character of all heroes - from Hercules through to Hitler - are identical: they are deeply natural, elemental, abysmally cold and distanced from social compromise. They are the carriers of the abyss of objectivity.
In his strange, hermetic manner Cesare della Riviera thus interprets the word "Angelo" ("angel"):
ANGELO = ANtico GELO, i.e. the "Angel = Ancient Ice".
This is connected with the next phase of the heroic deed, not a voyage toward reality, but an escape from its limits - escape from the ice bonds.
The Alchemy and Cabbala know much about the secret of the "ice stronghold". It is a border separating the "lower waters" of life from the "upper waters" of Spirit. The phrase of della Riviera has a strict theological sense: leaving the sphere of emotional life, the hero becomes a small crystal of ice, a luminous angel, in the glassy sea of Spirit, on which a heavenly throne of Kings is founded. The Snow Queen from Andersen's fairytale has forced the boy Kai to shape pieces of ice into a mysterious angelical word - 'Ewigkeit', but the warm forces of Earth ("Gerda" means 'Earth' in old German) have returned the unfortunate hero to a poor and hopeless life. Instead of an angel, he subsequently becomes a red-faced Scandinavian burger with beer and sausages. Cold is an attribute of a corpse and the initiated one. The bodies of yogi freeze in the process of awakening the sacred snake energy - the higher the Kundalini rises, the more lifeless the corresponding body parts become, until the initiated one turns into a statue of ice, an axis of spiritual constancy.
Each hero necessarily travels to the Pole, into the heart of midnight. There he learns to love that dark and obscure substance, which is called "our Earth" by the alchemists or the "philosophers' magnesia". The urn holding the ashes of Baron Evola is buried in the thickness of an Alpine glacier, on Monte Rosa peak. The mountain was probably named so in honor of the sacral beloved of Friedrich II Hohenstauffen, the one who has not died. La Rosa di Soria. The polar rose.

3. The Voyage of the Polar Nymph

Cyliani, a mysterious 19th century alchemist whose pseudonym was determined only with the help of Pierre Dujols (Magaphon), friend of Fulcanelli and... a secret Valois, wrote that his heroic travel into the "magical world of the heroes" began with a strange visit from the "nymph of the polar star"...
Where do her footsteps lead?
They lead inside. Inside the earth, where a fantastic matter named "sulfuric acid of the
philosophers" is hiding. Visitabis interiora terrae rectificando invenies occultum lapidem. The stone is completely black, as a soul, shrouded in "antimimon pneuma" of the Gnostics. There, from the blackness of personal uncertainty, from undifferentiated "I", slipping away from any name, the magic feat begins. If the hero will not question that which constitutes his apparent essence, he is doomed. Even the divine parents do not give the answer to a problem of an origin of "I".

4. The Secret of the Heavenly Dragon

The search for the nymph is connected to an original problem of the definition of the pole star. The heavenly pole spins around, like "Atalanta fugiens". Once a slender creature was hiding in Ursa Major's fur near Arcturus. She calls herself "Shemol". In 12 thousand years she will say of herself - "I am Vega". But what is this Axis, that the dance of millenia goes round?
Black dot in the northern sky. Dragon coils around it, tempting the steadfast observer, offering doubtful fruits of knowledge. The polar nymph has given to Cyliani the key to victory over this Dragon. Hermeticists consider it a question of the primal matter. Heavenly Dragon, the true north of the ecliptic. He is guarding the boreal heart of black expanses, as a spiral outlining the absent centre.

5. The Second of Betelgeuse

Orion is the most mysterious of all constellations. Time is hiding on his right shoulder. He is the main hero of the subterranean (and not only subterranean!) world. "Betelgeuse" means "hero's shoulder" in Arabic. It is on that very shoulder that is kept the secret of a book which Fulcanelli at first gave to Canseliet, and later withdrew, forbiding its publishing. The matter concerns the "Finis Gloria Mundi", third book by the adept. When Virgo's milk touches the brawny shoulder of the "black god", and he thus loses his hands under ruthless executors' knives, a world fire is coming, the sphere is overturning. The sky falls. It is made of stone, as everybody knows. The heroes are secretly preparing terrible shocks to society. A society which consoles itself with the fact it has banished them from history, but where is the precise border between literary and nuclear range, between a dark corner for meditations and carpet bombardments?
To our information, the agents of Betelgeuse, inhabitants of the "magical world of the heroes", disguised as state officials, have made their way to the engine-room of authority. There is only the certainty of heavenly sequence and processional cycles in their minds. A nuclear fire of the Northern Hemisphere is a way to Olympus, the fire of Hercules for them.
Besides the external Evola had a secret mission...

6. The Forest of Rambouillet

"The forest of Rambouillet is a forest of blood" - Jean Parvulesco hypnotically repeats in his novel. A white deer with its throat cut is found there, then a corpse of a naked woman with identical wounds. The magic wood in which Dante has lost his way. "Philosophers' Forest". On a certain engraving, illustrating the "Tabula Smaragdina" of Hermes Trismegistus, the man with an elk's head is giving the Moon to Eve. Later, if we'll believe Parvulesco, they will meet again in a garden of Rambouillet.
A joyless rendezvous.
"One day Apollo will return, and this time for ever", - says the last prophecy of a Delphian pythoness in IV century A.D.

/Alexander Dugin
Translation: Andrey Bogdanov
 
"One day Apollo will return, and this time for ever",
- says the last prophecy of a Delphian pythoness in IV century A.D.
Apollo is a Hyperborean god, which associates him with the memory of a Golden Age.

dimanche, 08 février 2015

La crisis de la civilización occidental según Julius Evola

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La crisis de la civilización occidental según Julius Evola

Ex: http://www.kosmos-polis.com

En un ensayo sobre el tantrismo la escritora Marguerite Yourcenar[i] reseñaba una de las obras monumentales de Julius Evola titulada Lo Yoga della Potenza. La académica francesa catalogaba al filósofo y orientalista italiano, profesor de las universidades de Florencia y de Milán, como "un erudito genial" ateniéndose a sus obras más ponderadas. Pero aunque el barón Evola fue un erudito genial, ciertamente no fue un erudito inmaculado. Evola tuvo un pasado fascista y fue "uno de esos italianos germanizados con no sé sabe qué clase de obsesiones gibelinas", un hombre "mucho más fascinado por el poder que por el conocimiento o el amor" que estaba poseído por un "titanismo prometeico más o menos espiritualizado"[ii]. Su Rivolta contro il mondo moderno (el título de otro de sus libros), por muy justificada que esa rebelión en parte esté, "acabó arrastrándolo a unos parajes aún más peligrosos que aquellos que creía abandonar". En sus libros asoman un puñado de vicios intelectuales, esperables en alguien con semejante orientación, que enturbian una y otra vez incluso sus trabajos más brillantes. La propia Yourcenar señaló casi todos esos vicios: "el concepto de raza elegida que en la práctica conduce al nazismo"; "una avidez enfermiza por los poderes supranormales, que lo lleva a aceptar sin control los aspectos más materiales de la aventura espiritual"; "el paso lamentable de la noción de poderes intelectuales y místicos a la de poder puro y simple"; "un sueño de dominación aristocrática y sacerdotal que no sabemos si correspondió a una edad de oro del pasado, pero del que en nuestro tiempo hemos visto caricaturas grotescas y atroces"; a lo que habría que añadir un desprecio sumario hacia lo femenino que lo lleva a proclamar la deficiencia interior de la mujer y la incapacidad femenina para la vida humana superior. No obstante, y a pesar de todo esto -que no debe olvidarse nunca cuando uno se acerca a la obra de Evola– también es cierto que sus mejores libros, tomados con las debidas cautelas, aportan abundante materia para la reflexión. Huellas de ellos pueden encontrarse en las obras de no pocos autores contemporáneos que, sin embargo, omiten cuidadosamente la fuente por considerarla innombrable y maldita. Adolfo Morganti, en el ámbito del orientalismo, y Alain de Benoist, en el de la filosofía, fueron los primeros que se atrevieron a remitir a las obras de Evola abiertamente. Como señaló Morganti, "después de años de que el pensamiento evoliano hubiera sido o demonizado grotescamente o ensalzado como un improbable evangelio, había que romper son el muro de las ideologías y proceder al debate de las ideas y a un análisis crítico digno de ese nombre"[iii].

En este sentido Cavalgar el tigre ha sido una de sus obras más interesantes e influyentes[iv]. Su punto de partida es la ciclología de las tradiciones culturales indoeuropeas, que observa un descenso progresivo de la civilización desde una 'edad de oro' primordial hasta una 'edad de hierro' donde se liberan todos los mecanismos disolutorios para dar paso a la liquidación del ciclo. Para esa concepción del tiempo –propia de nuestra cultura clásica y presente todavía hoy en el pensamiento hindú- nuestra época, lejos de ser la culminación de un tiempo lineal de progreso continuo, es el momento final de una era de disolución. En tal contexto temporal Evola señala que hay un cierto tipo humano "que, aun estando comprometido con el mundo actual, no pertenece interiormente a él, no contempla la posibilidad de ceder ante él y se siente, por su esencia, de una clase diferente a la mayor parte de sus contemporáneos". El lugar natural de este tipo humano sería "el mundo de la Tradición", entendiendo por tal cosa las civilizaciones y sociedades regidas por principios transcendentes. Puesto que lo que ha terminado por prevalecer en el mundo actual es la exacta antítesis de eso, Evola observa que los Hombres diferenciados a los que se refiere se hallan "de pie en medio de las ruinas". Para ellos hace una radiografía del mundo actual tan detallada como demoledora.

Evola empieza analizando la disolución del orden moral. El primer capítulo –titulado "En un mundo donde Dios ha muerto"- hace referencia al nihilismo hoy reinante en Occidente y ya anunciado por Nietzsche. "La muerte de Dios", dice Evola, "es una imagen que sirve para caracterizar todo un proceso histórico. Expresa el descreimiento hecho realidad cotidiana", la ruptura con la Tradición que en el Occidente actual tiene el carácter de un hecho consumado y tal vez irreversible. Evola observa que en este proceso de desacralización el hecho primario es una ruptura ontológica: las referencias reales a la Transcendencia han desaparecido de la vida humana. Todos los desarrollos del nihilismo están virtualmente contenidos en este hecho. Primero fue la aparición de la llamada 'moral autónoma', fundada sobre la mera autoridad de la razón independiente de todo criterio transcendente. Al haber perdido sus raíces –el lazo efectivo y original del Hombre con una dimensión supramaterial- esta moral ya no tiene una base invulnerable y la crítica puede destruirla fácilmente. Tras ella aparece, en un segundo momento, la ética utilitaria o social. "Al haber renunciado a todo fundamento absoluto e intrínseco del bien y del mal, se pretende justificar lo que queda de norma moral por lo que recomiendan al individuo su interés y la búsqueda de su tranquilidad material en la vida social". Esta ética ya no tiene carácter interiormente normativo o imperativo y todo se reduce a amoldarse a los códigos de la sociedad, que reemplazan a la ley transcendente derribada. Es un conformismo fundado "sobre el interés, la cobardía, la hipocresía y la inercia". Además, como ya no existe ningún lazo interior, "cualquier acto o comportamiento se vuelven lícitos cuando puede evitarse la sanción exterior, jurídico-social, o cuando uno es indiferente a ella". Hay, por tanto, dos fases. La primera es una rebelión metafísica que tiene consecuencias morales. En la segunda fase "hasta los motivos que habían justificado y alentado la rebelión desaparecen, volviéndose ilusorios para un nuevo tipo de Hombre. Aquí estamos ya en la fase específicamente nihilista, cuyo tema dominante es el sentido de lo absurdo y de la irracionalidad de la condición humana". Es lo que Nietzsche llamó "la miseria del Hombre sin Dios": la existencia parece perder todo significado y toda meta.

Todos los imperativos, todos los valores morales, todos los lazos y los apoyos se desmoronan. "La existencia es abandonada a sí misma en su realidad desnuda sin ningún punto de referencia fuera de ella que pueda darle sentido a los ojos del Hombre".

evola_upright_ll.jpgEvola hace notar que existe una corriente de pensamiento y una historiografía cuya característica es presentar el proceso anterior, al menos en sus primeras fases, como una conquista positiva. "Desde el siglo de las luces y cierto liberalismo", dice, "hasta el historicismo inmanentista, primero idealista, luego materialista y marxista, estas fases de disolución han sido interpretadas y exaltadas como una emancipación del Hombre, un progreso y un verdadero humanismo". En los tiempos en que nosotros vivimos, señala Evola, la ruptura metafísica y moral ha pasado ya al plano existencial. Hoy "una buena parte de la humanidad occidental encuentra normal que la existencia esté desprovista de todo verdadero significado y que no deba ser ligada a ningún principio superior, aunque se las ha arreglado para vivirla de la forma más soportable y menos desagradable posible. Sin embargo, esto tiene como contrapartida inevitable una vida interior cada vez más reducida, inestable y huidiza, así como la desaparición de toda rectitud y fuerza moral". Un sistema de anestésicos y compensaciones (el sexo banalizado, el alcohol, las drogas, las diversiones, el consumismo, los medios de masas) trata de suplir y tapar la falta de significado y de valor de una vida abandonada a sí misma. Sin embargo, cuando dicho entramado se tambalea por alguna razón aparece "la náusea, el asco, el vacío y el absurdo de toda esta nueva civilización materialista impuesta por toda la Tierra". En aquellos cuya sensibilidad es más aguda se constatan diversas formas de traumatismo interior y se ven aparecer estados de degradación y alineación existenciales. Especialmente significativa por lo que tiene de signo de los tiempos es la situación de la juventud 'perdida' o 'quemada' de hoy.

Señala Evola que una de las principales coberturas evasivas, uno de los anestésicos más eficaces del nihilismo occidental es el mito económico-social en sus dos vertientes: el bienestar consumista y el funcionarismo marxista. Capitalismo y marxismo participan del mismo espejismo: "creer en serio que la miseria existencial se reduce a sufrir indigencia material y que, en consecuencia, la primera debe desaparecer automáticamente si se elevan las condiciones materiales de la existencia". Evola considera que la verdad es más bien la opuesta: miseria espiritual y pobreza material carecen de relación y la felicidad y la plenitud humana tienen poco que ver con la abundancia material. Es un hecho que las vidas más profundas son a menudo, si no pobres, sí desde luego austeras (incluso en medio de la riqueza), porque un clima de facilidad debilita la virtud más alta e impide que el Hombre se pruebe y se discipline a sí mismo. "El verdadero significado del mito económico-social, sea cual fuere su variedad", dice Evola, "es el de un medio de anestesia interior tendente no sólo a eludir el problema de una existencia privada de todo sentido, sino a consolidar todas las formas de esta fundamental ausencia de sentido en la vida del Hombre moderno". Para Evola el marxismo y sus derivados 'progresistas' son "el estupefaciente más mortífero de todos los administrados hasta ahora a una humanidad desarraigada", estupefaciente que va acompañado de "una lobotomía psíquica tendente a neutralizar metódicamente, desde la infancia, toda forma de sensibilidad y de intereses superiores y cualquier modo de pensar que no se exprese en términos económico-sociales". En cuanto al sistema consumista, Evola dice que "destruye todo valor superior de la vida y de la personalidad", porque el individuo consumista acaba por considerar absurda cualquier renuncia al bienestar en nombre de valores más altos y se pliega gustoso a los condicionamientos anestesiantes del sistema. Puesto que en Occidente la 'clase obrera' ha entrado con gran fruición en el sistema consumista y en el modo de vida burgués, los derivados marxistas abandonan la revolución anticapitalista y llaman ahora a una suerte de "contestación global", irracional, anarquizante y privada de referentes superiores, en nombre del Tercer Mundo o de toda clase de minorías marginales.

Tanto el sistema como sus antagonistas tienen un carácter nihilista que no hace sino confirmar el nihilismo general de nuestra época.

Dos son los tipos humanos que ha producido el nihilismo contemporáneo. Evola los llama "el Hombre objeto" y el "nihilista activo". El primero -el tipo más frecuente- se pliega a los procesos de disolución en marcha de modo pasivo. O bien se adapta a una vida desprovista de sentido con anestésicos y sucedáneos, agarrándose a las formas supervivientes de convención y seguridad burguesas, o bien se entrega a formas de vida desordenadas y de revuelta anarcoide. El nihilista activo de corte nietzscheano, tipo mucho más restringido, está convencido, sin embargo, de que la actual rebelión contra la Transcendencia es el camino correcto, hace apología de ella y considera que el desastre actual es sólo el resultado de no haber sabido estar a la altura de las nuevas circunstancias sin Dios. Evola analiza entonces el tema de 'la muerte de Dios': para él no es la Divinidad metafísica, es el Dios teísta, lo que ha muerto, el Dios que es una proyección de los valores sociales dominantes o un apoyo para las debilidades humanas. Es el conjunto de conceptos que el cristianismo oficial ha considerado como esenciales e indispensables de toda religión 'verdadera' lo que ha muerto: "el Dios personal del teísmo, cierta ley moral con paraísos e infiernos, la concepción restringida de un orden providencial y de un finalismo moral del mundo y la fe que reposa sobre una base principalmente emotiva, dogmática y anti-intelectual. No es más que el Dios concebido como centro de gravedad de todo este sistema quien ha sido golpeado, un Dios que había terminado por servir de opio o contrapartida a la pequeña moral con que el mundo burgués sustituyó a la gran moral antigua. Pero el núcleo esencial, representado por las doctrinas metafísicas, permanece intacto para quien sepa comprenderlas y vivirlas, inaccesible a todos los procesos nihilistas, a toda disolución". Evola considera que el cristianismo ha facilitado la acción de las fuerzas de disolución en Occidente por haber liquidado todos los intentos metafísicos que dentro de él se han hecho. La irracionalidad de sus dogmas y la falta de un corpus sapiencial superior capaz de contener el derrumbamiento han hecho al cristianismo particularmente vulnerable a los embates de la crítica racional y del libre pensamiento.

Cuando la disolución se ha asentado en el orden moral, la enfermedad sigue con la infección de la persona. Evola distingue entre 'persona' e 'individuo'. La persona es "lo que el Hombre representa concreta y sensiblemente en el mundo y en su circunstancia, pero siempre como una forma de expresión y manifestación de un principio superior que debe ser reconocido como el verdadero centro del ser y sobre el que se sitúa el yo. El Hombre en tanto que persona tiene forma, es él mismo y se pertenece a sí mismo, y en esto se diferencia del individuo". En esto y en que la persona "no está cerrada hacia lo Alto". "La noción de individuo", por contra, "es la de una unidad abstracta, informe, numérica, sin cualidades propias y nada que lo diferencie verdaderamente". El individuo pertenece al reino de la cantidad y es un ego disociado de todo principio transcendente.

Evola vaticina que la crisis de los valores del individuo en el mundo moderno está destinada a ser general e irreversible. El materialismo, el mundo de las masas, las megaurbes modernas, la técnica, la mecanización, las fuerzas elementales despertadas y controladas por procesos objetivos, los efectos existenciales de catástrofes colectivas (las guerras totales o el megaterrorismo con sus frías destrucciones, por ejemplo), todo esto golpea mortalmente al individuo y reduce cada vez más la validez de los valores burgueses. Del individuo se desemboca así en algo todavía más bajo, el tipo de Hombre vacío, repetido en serie, producto multiplicable e insignificante, que corresponde a la vida uniformada actual. Con este tipo de Hombre vacío y serial llega "una nueva barbarie" y un "ideal animal" de vida. Un ideal basado en "el bienestar biológico, la comodidad y la euforia optimista que enfatiza lo que no es más que lozanía, juventud, fuerza física, seguridad y éxito materiales, satisfacción primitiva de los apetitos del vientre y del sexo, vida deportiva... y cuya contrapartida es una atrofia de todas las formas superiores de sensibilidad y de interés intelectual". En esta nueva barbarie y en este ideal animal se incluyen también todos los contestatarios primitivistas que reclaman una 'vuelta a la naturaleza', a la 'Madre Tierra'. Esta supuesta contestación no es sino una forma de regresión. Evola defiende que el Hombre ni es un animal ni ha tenido nunca un estado natural. El Hombre, desde el principio, "ha sido situado en un estado por encima de la naturaleza del que a continuación ha caído", de modo que cuando pretende volverse 'natural' (esto es, animal) en realidad se desnaturaliza.

Disuelta la moral y disuelto el individuo, también se disuelve el conocimiento. Evola se ocupa por extenso de la ciencia positiva y matemático-experimental propia de la modernidad. Esta ciencia no tiene para él valor de conocimiento en el sentido verdadero de ese término, pues se reduce a "una voluntad de poder aplicada a las cosas y a la naturaleza". Para Evola "la ciencia moderna, por una parte conduce a una prodigiosa extensión cuantitativa de los datos relativos a dominios antes inexplorados u olvidados, pero por otra parte no hace penetrar al Hombre en el fondo de la realidad, sino que incluso lo aleja de ella, lo vuelve aún más ajeno a ella". La naturaleza, en su profundidad, permanece cerrada al Hombre y es aún más misteriosa que antes: sus misterios simplemente han sido recubiertos y la mirada humana se ha distraído con las realizaciones espectaculares de los dominios técnicos industriales, dominios "donde no se trata de conocer el mundo, sino de transformarlo conforme al interés de una humanidad convertida exclusivamente en terrestre, como quería Marx". Simultáneamente el conocimiento directo y viviente, la penetración de la intuición intelectual o de la visión mística, "el único conocimiento que importaba a la humanidad no bastardeada", se rechaza hoy por 'no científico'.

Para Evola la concepción del mundo que tiene la ciencia moderna es esencialmente profanadora y ese mundo desacralizado por el saber científico se ha convertido en un elemento existencial constitutivo del Hombre moderno. A través de la instrucción obligatoria se le ha llenado la cabeza de nociones científicas positivistas "no pudiendo adquirir para todo lo que le rodea más que una mirada sin alma que se convierte desde entonces en destructora". El trasfondo efectivo del progreso científico-técnico actual, convertido en la nueva religión de la modernidad, es para el autor el estancamiento y la barbarie interiores. Evola señala que ese progreso "no le reporta nada al Hombre como tal": no le otorga ni conocimiento transcendente, ni potencia interior, ni una norma de acción de más altura moral. En el plano de la acción la ciencia moderna "pone a disposición del Hombre un conjunto prodigioso de medios sin resolver en absoluto el problema de los fines". Además, la ciencia se ha convertido en un proceso autónomo y fragmentado en cada vez más estrechas especializaciones al que "ninguna instancia superior es capaz de imponer un límite y de imprimir dirección, control o freno". Por ello "a menudo se tiene la impresión de que el desarrollo técnico-científico desborda al Hombre y le impone frecuentemente situaciones inesperadas, difíciles y llenas de incógnitas". Las formas de potencia exterior y mecánica de sus bombas, sus cohetes o su revolución tecnológica dejan, en cualquier caso, invariable al Hombre en sí, que sigue tan preso o más que antes de sus debilidades, sus bajas pasiones, su confusión y sus miedos. El Hombre actual no eleva su estatura moral, intelectual o espiritual por ser capaz de ir en cohete hasta la Luna, de producir seres humanos en laboratorio o de matar a miles de criaturas en cinco minutos gracias a la técnica.

La misma degradación que afecta al conocimiento se encuentra hoy, según Evola, en la cultura. La cultura occidental está neutralizada en su influjo, dividida en dominios particulares sin unidad orgánica y se halla privada de todo carácter objetivo, participando de esta forma en los procesos disolutorios de la época. Evola considera que la antítesis decretada entre cultura y política es "una de las manifestaciones más típicas de esa neutralización de la cultura". El contrario normal y fecundo de esta situación no es, para Evola, una cultura al servicio del poder y de la ideología en el sentido degradado de hoy, sino la existencia de una idea axial, de un símbolo elemental y central de una civilización dada, "que manifiesta su fuerza y ejerce una acción paralela y a menudo invisible tanto sobre el plano político (con todos los valores, no sólo materiales, que deberían referirse a un verdadero Estado), como sobre el plano del pensamiento, de la cultura y de las artes". Para Evola esa vieja idea axial hoy perdida es en el caso de la civilización occidental el "ideal del Imperio", ideal que se forjó en el mundo antiguo y medieval y que países como España contribuyeron a mantener en los Siglos de Oro. Evola entiende por tal cosa una gran organización política más allá de particularismos etnicistas y territoriales, organizada con criterios de excelencia y vertebrada por los valores transcendentes característicos de nuestra civilización.

evolaDADA-Evolagross.pngAl analizar la situación del arte moderno, Evola subraya sus tendencias morbosas e intimistas, que dan la espalda al plano sobre el que actúan las grandes fuerzas históricas y políticas y se retiran al mundo de la subjetividad privada del artista no dando valor más que a lo psicológico y a lo formalmente 'interesante'. Joyce, Proust o Gide son, en la literatura, ejemplos acabados de esta tendencia. En ocasiones a esta orientación se asocia la idea del 'arte puro', esto es, del mero formalismo rodeando a un contenido más o menos insignificante. Las innumerables vanguardias e ismos no tienen mucho más valor, afirmación que resulta significativa en la pluma de alguien como Evola, que fue una de las figuras señeras del dadaísmo pictórico italiano. El significado de estas vanguardias "se reduce a una revuelta estéril, reflejo del proceso general de disolución. Reflejan el estado de crisis, pero no aportan nada constructivo, estable o duradero". Su recorrido, además, es corto. Pronto acaban convertidas en un nuevo 'academicismo', una nueva convención, y entran como un producto de consumo más en los circuitos comerciales. En el fondo el arte de hoy, separado de todo contexto orgánico y necesario, se ve reducido al absurdo, convertido en un artículo de lujo para parásitos ociosos. "Si se consideran objetivamente los procesos en curso", observa Evola, "se siente nítidamente que el arte ya no tiene porvenir, que su posición es cada vez más marginal con respecto a la existencia y que su valor se reduce al de un artículo de gran lujo". Al asomarse a la literatura, el panorama no es mejor. "Su fondo constante es el fetichismo de las relaciones humanas, de los problemas sentimentales, sexuales o sociales de individuos sin importancia". Se ha impuesto un realismo inferior, corrosivo y derrotista, denuncia Evola, en el que "directa o indirectamente se mina todo ideal, se hace mofa de todo principio y se reducen los valores estéticos, lo justo, lo verdaderamente noble y digno a simples palabras; y todo ello sin obedecer siquiera a una tendencia declarada". Frente a este realismo inferior Evola postula un realismo positivo que afirma la existencia de valores "que para el tipo humano diferenciado no se reducen a ficciones ni fantasías, sino que tienen el valor de realidades absolutas. Entre éstas figuran el coraje espiritual, el honor, la rectitud, la veracidad o la fidelidad. Una existencia humana que ignora esto no es plenamente real, es infrarreal. Para el Hombre diferenciado, a pesar de la disolución presente, estos valores siguen siendo intocables".

La música tampoco escapa al clima imperante. En el terreno de la música culta la disolución ha seguido dos vías: la tecnicidad fría y cerebral del dodecafonismo y la música serial y una inmersión en lo físico que toma a las cosas y los impulsos elementales como temas inspiradores (iniciada con el impresionismo francés y la música nacionalista). Últimamente se ha llegado ya a una especie de "música glaciar" con composiciones "cuya extrema abstracción formal es análoga a las puras entidades algebraicas de la física más reciente o, en otro terreno, a cierto surrealismo. Son fuerzas sonoras liberadas de las estructuras tradicionales que empujan hacia un meandro tecnicista que sólo el álgebra pura de la composición preserva de una completa disolución en lo amorfo, por ejemplo en la intensidad de los timbres descarnados y atómicamente disociados". Fuera de la música culta, que por otra parte tiene un alcance cada vez más minoritario, la música folclórica ha desaparecido y lo que domina la esfera cotidiana son las diferentes variantes del pop, músicas elementales de diversión o distracción, a menudo vehículos idóneos para la transmisión de toda clase de influencias psíquicas negativas.

Disuelta la moral y el individuo, disueltos el conocimiento, la cultura y las artes, el dominio socio-político estalla igualmente. Entre todos los dominios de la vida moderna es el socio-político "aquel en el cual, por efecto de los procesos generales de disolución, aparece de una manera más manifiesta la ausencia de una estructura que posea el carisma de una verdadera legitimidad para ligarse a significados superiores". Señala Evola que en la época actual "no existe un Estado que pueda, por su propia naturaleza, reivindicar un principio de autoridad verdadera e inalienable" ni que pueda considerarse ajustado a una concepción transcendente de la política. Hoy sólo existen aparatos representativos y administrativos, no Estados que sean la encarnación de un ideal superior. No hay tampoco verdaderos estadistas, la clase dirigente actual no tiene ningún carisma, ninguna virtud superior. "Del mismo modo que ya no existe un verdadero Estado, tampoco existe un partido o un movimiento que se presente como defensor de ideales superiores por los que valga la pena luchar". "A pesar de la variedad de etiquetas", observa Evola, "el mundo actual de los partidos se reduce a un régimen de politicastros que juegan a menudo el papel de hombres de paja al servicio de intereses financieros, industriales o sindicales. Por lo demás la situación general es tal que incluso si existieran partidos o movimientos de otro tipo ya no tendrían ninguna audiencia en las masas desarraigadas, dado que estas masas sólo reaccionan positivamente a favor de quienes le prometen ventajas materiales y 'conquistas sociales'. Hoy en día en política sólo puede actuarse en el plano de las fuerzas pasionales y subintelectuales, fuerzas que por su misma naturaleza carecen de toda estabilidad. Sobre estas fuerzas se apoyan los demagogos, los dirigentes de masas, los fabricantes de mitos y los manipuladores de la opinión pública". Es por esto por lo que aunque hoy aparecieran líderes dignos de ese nombre –personas que apelasen "a fuerzas e intereses de otro tipo, que no prometieran ventajas materiales, que no consintieran en prostituirse o degradarse para asegurarse un poder efímero, precario e informe"-, estos líderes muy probablemente no tendrían ninguna influencia en la situación actual.

Pasando del dominio político al propiamente social, Evola observa que todas las unidades orgánicas de la sociedad se han disuelto o están en vías de hacerlo y lo que existe es esencialmente una masa inestable de individuos aislados contenidos por estructuras exteriores o movida por corrientes colectivas amorfas. Las 'jerarquías' existentes son meramente dinerarias y la excelencia no tiene ya ningún valor en el ordenamiento social. La institución familiar también está en manifiesta crisis, zarandeada entre los intentos de sabotaje por un lado y las reacciones moralizantes vacías y el conformismo burgués, por otro. Desde el punto de vista de Evola todo esto no es de extrañar: "la familia ha cesado desde hace tiempo de tener un significado superior y de estar cimentada por valores vivos de orden transcendente". El carácter orgánico y en cierto sentido heroico que ofrecía su unidad en otros tiempos se ha perdido, al igual que se ha desvanecido el último barniz residual de sacralidad. La familia moderna es para Evola una institución pequeño-burguesa, determinada por valores naturalistas, utilitarios, rutinarios, vulgares y en el mejor de los casos, sentimentales. La función fundamental de la familia, la procreación, se reduce hoy sencilla y groseramente a una continuidad de la sangre, no a la continuidad más esencial de un depósito espiritual e histórico y de una herencia de valores e ideales. "Por otra parte", se pregunta Evola, "¿cómo podría ser de otra forma si su jefe natural, el padre, es hoy en día casi un extraño, incluso físicamente, al estar preso del engranaje de la vida material de esta sociedad absurda? ¿Qué autoridad moral o espiritual puede revestir el padre si hoy es sólo una máquina de fabricar dinero?". Para colmo ahora esto mismo se puede decir también de la madre, convertida en otra máquina de fabricar dinero o en un individuo de vida frívola y mundana, incapaz en ambos casos de mejorar el clima interior de la familia y de ejercer sobre ella una influencia positiva. A la pérdida del prestigio paterno le sigue el distanciamiento o la rebeldía de los hijos y la ruptura, "cada día más nítida y brutal", entre las generaciones mayores y las jóvenes. Este corte de la continuidad espiritual entre las generaciones se ve agravado, además, por un ritmo de vida cada vez más rápido y desordenado.

La misma situación de derrumbamiento que se ve en la institución familiar afecta a la unión de hombre y mujer. Hoy se han hecho frecuentes en Occidente la sucesión frívola y atropellada de emparejamientos y de rupturas hasta el punto de que parece "una especie de prostitución o ayuntamiento libre legalizado". El matrimonio burgués –que tomaba sus bases de la concepción católica y puritana protestante del matrimonio– se ha venido abajo. Desde hace unas décadas esta convención burguesa "se ha estrellado contra la práctica corriente y contestataria del sexo libre" que reivindica la promiscuidad y "la superación de las inhibiciones y los tabúes represivos". Dentro de un marco igualmente naturalista y profano (el Occidente cristiano carece de modelos de matrimonio genuinamente sagrado) el péndulo se ha ido de un extremo a otro: de una visión del sexo pacata y atormentada a otra promiscua y burdelesca. El resultado es una de las características más llamativas de nuestro tiempo: el poder obsesivo y desequilibrado de los asuntos venéreos hasta el punto de que el sexo y cierto de tipo falsificado de mujer son los dos motivos dominantes de la sociedad actual. Como dice Evola, existe una especie de "intoxicación sexual crónica manifestada de mil maneras en la vida pública y las costumbres a través de un erotismo abstracto que lo impregna todo". En este clima se comercializan "espejismos de la sexualidad de masas" en forma de ídolos femeninos que son alimentados por la televisión, el cine, la prensa, las revistas ilustradas y el mundo del espectáculo y la moda. "La mayoría de estas mujeres 'fatales' de rasgos supuestamente fascinantes", señala Evola, "en realidad como personas tienen cualidades sexuales muy mediocres y decadentes, siendo su fondo existencial el de mujeres vulgares y neuróticas".

La pretendida 'liberación' sexual de nuestra época es, para el autor, una vulgar inversión. Señala Evola que habría verdadera liberación si se tomara conciencia de los aspectos auténticamente importantes del sexo, si se reaccionara contra las vulgaridades que obturan sus posibilidades más elevadas y si se tomara posición contra la fetichización de las relaciones interpersonales. Pero eso, evidentemente, no ocurre. Las verdaderas implicaciones de la presente 'liberación sexual' son para el autor muy otras: la entronización del "sexo disociado" que conduce "a una banalización y a un naturalismo de las relaciones entre hombre y mujer, a un materialismo y un inmoralismo expeditivo y fácil en un régimen donde faltan las condiciones más elementales para realizar experiencias sexuales de verdadero valor e intensidad". El sexo se convierte así en un sucedáneo más de los muchos que produce la vida moderna, usado como las drogas "para conseguir sensaciones exasperadas que ayuden a llenar el vacío de la existencia". Y esta conversión del sexo en sucedáneo dentro de una atmósfera de venerización abstracta y colectiva provoca una aguda despolarización de los sexos que convierte a la virilidad y la feminidad en sucedáneos también, descargándolas de la fuerza transcendente de la que cada una de ellas es portadora.

Como es lógico, en este clima general de disolución, la situación de las religiones es considerada igualmente lamentable. Para Evola un fenómeno típico de las fases terminales de una civilización es que "las religiones pierden su dimensión superior, se adormecen, se secularizan y dejan de cumplir su función original". Refiriéndose a la rama católica del cristianismo Evola señalaba en Gli uomini e le rovine, otro de sus libros, la lamentable falta de nivel de la que hoy se puede ser testigo: "el peso de las preocupaciones de carácter social y moralista es mucho mayor que el concedido a la vía sapiencial, la contemplación y la ascesis, puntos clave de toda forma superior de religiosidad. De hecho hoy las principales preocupaciones del catolicismo son un moralismo sexual pequeño-burgués y un paternalismo asistencial". Es entonces, con esta situación decadente de la religión regular, cuando aparece "un neo-espiritualismo evasivo, alienante, de compensación difusa, desarrollado fuera de las tradiciones regulares (incluso contra ellas) y sin la menor repercusión seria sobre la realidad". El uso bastardo que este neo-espiritualismo hace de ciertas doctrinas tradicionales de carácter interno lleva al descrédito de las mismas por la manera "deformada e ilegítima" en que por él son presentadas y propagadas.

Ante este clima general, todo esfuerzo de oposición frontal a las tendencias de la época es considerado inútil. Evola rechaza resueltamente la opción que consistiría en "apoyarse sobre lo que sobrevive del mundo burgués y defenderlo y tomarlo como base frente a las corrientes actuales de disolución y subversión más violentas, tras haber intentado reanimar esos restos con la ayuda de algunos valores más altos". Los valores burgueses, en realidad, son productos decadentes que para Evola no tienen mayor valor. La actitud existencial que preconiza será esa que el viejo adagio oriental denomina cabalgar el tigre. "Cuando un ciclo de civilización toca a su fin", escribe Evola, "es difícil obtener un resultado positivo oponiéndose directamente a las fuerzas en movimiento. La corriente es demasiado fuerte y uno sería arrastrado por ella. Lo esencial es no dejarse impresionar por la aparente omnipotencia de las fuerzas disolutorias de la época. Privadas de lazo con todo principio superior, estas fuerzas tienen, en realidad, un campo de acción limitado. Es preciso, pues, no dejarse hipnotizar por el presente ni por lo que nos rodea y contemplar las condiciones susceptibles de aparecer más tarde. La regla a seguir consistirá en dejar libre curso a las fuerzas de la época, permaneciendo firmes y dispuestos a actuar cuando el tigre, que no puede abalanzarse sobre quien lo cabalga, esté fatigado de correr". Se abandona, por tanto, la acción directa y se retira uno hacia posiciones más interiores.

Frente a la situación actual, sin embargo, no caben para Evola ni la desesperación ni el derrotismo. El Hombre diferenciado sabe que "cuando un ciclo termina, otro comienza, y el punto culminante del proceso disolutorio es también aquel en el cual se origina el enderezamiento en la dirección opuesta". Para un Hombre amante de la Transcendencia, dice Evola, el mundo actual resulta amargo y problemático, pero él sabe que no está aquí ni por un azar despiadado al que ha de resignarse con fe o con fatalismo, ni para librar una carrera de resistencia a fondo perdido. A ese tipo humano le corresponde la misión de velar en medio de la noche, en medio de las ruinas, y conservar la memoria de toda una herencia civilizatoria para que la continuidad con el pasado no se rompa. La vida es para él, en consecuencia, una aventura de importancia capital, cargada de sentido.

Evola señala, en fin, la esterilidad del 'mito de Oriente' en nuestras presentes circunstancias. "Entre quienes han reconocido la crisis del mundo moderno y han renunciado también a considerar a la civilización moderna como la civilización por excelencia, como el apogeo y la medida de cualquier otra, hay quienes han vuelto su mirada a Oriente, ya que allí ven subsistir una orientación tradicional y espiritual que desde hace tiempo ha dejado de ser en Occidente la base de organización efectiva de los diversos dominios de la existencia. Se han preguntado incluso si no podrían encontrar en Oriente puntos de referencia útiles para la reintegración de Occidente". Evola considera que si la mirada occidental al Oriente persigue contactos intelectuales y doctrinales esa búsqueda es legítima, aunque "al menos en parte podríamos encontrar ejemplos y referencias claras en nuestro propio pasado sin necesidad de recurrir a una civilización no occidental". Pero si lo que se persigue es la adopción de un marco existencial oriental "uno no puede hacerse ilusiones: Oriente sigue ahora la senda de degradación que nosotros hemos tardado varios siglos en recorrer. El 'mito de Oriente', fuera de los círculos minoritarios y aislados de quienes cultivan las disciplinas metafísicas, es por tanto falaz. El desierto crece y no hay ninguna otra civilización que pueda servirnos de apoyo. Debemos afrontar solos nuestros problemas".

En realidad, el autor insiste en una posibilidad que justifica el esfuerzo de mantener una perspectiva netamente occidental. Es el hecho de que si la fase final de la edad oscura ha arrancado antes entre nosotros, también podemos ser nosotros los primeros en superarla. Las demás civilizaciones han entrado en esta corriente más tardíamente y podrían hallarse en lo más agudo del proceso disolutorio cuando Occidente rebase el límite negativo y empiece a remontar. Nuestra civilización estaría, en ese caso, "cualificada para una nueva función de guía, muy diferente de la que ha realizado en el pasado con la civilización tecno-industrial y materialista, entonces ya periclitada, y cuyo único resultado ha sido la decadencia espiritual generalizada".

NOTAS
[i] Marguerite Yourcenar: El Tiempo, gran escultor, Madrid, Alfaguara, 1989.
[ii] César Martínez: "Metafísica del sexo de Julius Evola", Axis Mundi II, nº5, 1998.
[iii] Adolfo Morganti: "Julius Evola y el mundo budista italiano", en Julius Evola: La doctrina del despertar. El budismo y su finalidad práctica, Grijalbo, México DF, 1998.
[iv] Julius Evola: Cabalgar el tigre, Barcelona, Nuevo Arte Thor, 1987.

vendredi, 30 janvier 2015

La tradición creadora

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La tradición creadora

por Dalmacio Negro

Ex: http://culturatransversal.wordpress.com

El progreso de una civilización depende de la tradición. Al margen de la tradición no hay verdadero progreso; ni a la especie humana ni al hombre particular le es posible progresar a saltos, ocasionalmente. El progreso moral sólo raramente se puede deber a una «conversión» o el progreso material a la fortuna. Sólo se progresa partiendo de una tradición, como ocurre en el ámbito en el que se suele creer que, aparentemente, se progresa de esa manera, en el de la ciencia. Mas, paradójicamente, apenas sólo en este campo de la actividad humana se considera hoy la tradición – en este caso la específica tradición científica, aunque ésta se extiende más allá de lo estrictamente cientí- fico – como una condición para el progreso del conocimiento. A la verdad, el hecho de la existencia continuada de la ciencia demuestra que los científicos están de acuerdo en aceptar una tradición; y no sólo esto sino que, añadía M. Polanyi, «toda la confianza de los científicos entre sí ha de estar informada por esta tradición».

La auténtica tradición, que no es la «tradición» anquilosada, romántica, que se vive como tradicionalismo sin fe viva, es siempre creadora, como indica la misma etimología de la palabra (tradere en latín, entregar). La tradición no es conservadora: al entregar la realidad da la posibilidad de cambiar sin perder el contacto con ella. Pues la realidad es lo que el hombre cree que es real, cuyo sentido y significación se debe a la tradición. Y lo que hace la ciencia es repensar la tradición a fin de conocer mejor la realidad, de por sí inagotable.

Fuera de ahí, está de moda ser antitradicional en todo. Un ejemplo obvio es el de la literatura y el arte, en los que la tradición debiera ser por puro sentido común ineludible. Sin embargo, se prescinde de ella buscando la originalidad – «pour épater le bourgeois» (para asombrar al burgués) – como si ser original equivaliese a creador; original es a su manera un orate. Los griegos llamaban idiota (idiotés) al que se comportaba de una manera muy particular, tan individual que parece privada de sentido común. Este último es como un sexto sentido – lo que también Polanyi llamaba «la dimensión tácita» del conocer – que da, entrega, al ser humano la tradición. Es evidente, con palabras del filósofo alemán N. Hartmann, que nadie empieza con sus propias ideas.

Sin embargo, se ha extendido la idea romántica de que la única forma tolerable de «tradición» consiste en adoptar posturas antitradicionales aprovechando cualquier ocasión (la acción por «ocasión» es una acción sin causa) para apartarse de la norma. Es hoy la actitud que describía el humanista suizo H. Zbinden como el inconformismo de los conformistas. Actitud que ha convertido en un lugar común, en una pose dogmática, desprestigiar o atacar lo que de cualquier forma pueda parecer tradicional en la religión, en el arte, en la literatura, en la política, en la moral, en el derecho, en la pedagogía, en las formas de vida, hasta en la moda; es reaccionario simplemente lo que es tradicional. En el fondo, se trata, en cuanto hábito social, es decir, si no hay una causa psicológica o francamente psiquiátrica, de una manifestación del ocasionalismo romántico reforzado por lo que se ha llamado el «titanismo técnico» aunque también pretenda presentarse como una suerte de juvenilismo. Todo ello va unido a la pérdida del sentido de la realidad, lo que además facilita un público no menos perdido que opina sin causa, para asombrarse a sí mismo, sobre lo divino y lo humano.

Y es que, justamente, lo que aproxima al hombre a la realidad y lo inserta en ella alejándole del ocasionalismo es la tradición, cuyo rechazo le aleja en cambio de lo real. Y sin sentido de la realidad no hay libertad porque en el atenerse a la realidad estriba la responsabilidad del hombre libre. El argumento más contundente y eficaz de la demagogia totalitaria es el de que la libertad consiste en la evasión de la realidad hacia lo abstracto, en la transgresión del ethos y las formas de tradición. Lo decía Rousseau: «No hay sujeción más perfecta que la que conserva la apariencia de libertad».

Fuente: Conoze.com

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mercredi, 28 janvier 2015

To celebrate Imbolc

Song: Imbolc (Candlemas)
Artist: Lisa Thiel
Album: Circle Of The Seasons
# song: 03

Lyrics

Blessed Bridget comest thou in
Bless this house and all of our kin
Bless this house, and all of our kin
Protect this house and all within

Blessed Bridget come into thy bed
With a gem at thy heart and a crown on thy head
Awaken the fire within our souls
Awaken the fire that makes us whole

Blessed Bridget, queen of the fire
Help us to manifest our desire
May we bring forth all thats good and fine
May we give birth to our dreams in time

Blessed Bridget comest thou in
Bless this house and all of our kin
From the source of Infinite Light
Kindle the flame of our spirits tonight

Blessed Bridget come into thy bed
With a gem at thy heart and a crown on thy head
Awaken the fire within our souls
Awaken the fire that makes us whole

Blessed Bridget, queen of the fire
Help us to manifest our desire
May we bring forth all thats good and fine
May we give birth to our dreams in time

Blessed Bridget comest thou in
Bless this house and all of our kin
From the source of Infinite Light
Kindle the flame of our spirits tonight

Lisa Thiel - Imbolc (Candlemas)

 

Reclaiming - Welcome Brigid - sung by Beverly Frederick

 

 

jeudi, 22 janvier 2015

De la culture grecque aux appels à moderniser le Coran

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LETTRE A MES AMIS MUSULMANS
 
De la culture grecque aux appels à moderniser le Coran

Michel Lhomme*
Ex: http://metamag.fr

Le Coran européen ? Pour discuter avec l'Islam, il faut d'abord reconnaître la nature sacrée de son texte. Nous le reconnaissons. Pour discuter maintenant de manière critique le Coran, faudrait-il reconnaître que le texte coranique a été simplement inspiré au Prophète (PSL-la Paix sur Lui, comme la Tradition l'impose) et que ce n’est pas Dieu qui a donné le texte mais que ce sont les hommes qui ont donné le texte. Nous ne le croyons pas nécessaire. Néanmoins, si le Coran est d’essence divine, en revanche, sa formulation, son interprétation est l’œuvre d’humains marqués par toutes sortes d'influences mais surtout et avant tout par l’influence de la culture grecque. Le Coran à ce titre est aussi européen.


Le Coran est-il divin ?


On connaît la flèche empoisonnée qui, vous est souvent adressé, ô mes amis ! Le Prophète n'était qu'un illettré, il ne pouvait pas rédiger un texte d’une telle facture. Ne vous sentez pas obligés de batailler sur le même terrain et de reconnaître que le Prophète n’était pas un illettré, argumentant qu’en outre, il était entouré d’hommes de science et d’historiens qui auraient contribué à la composition du texte. Nous posons ici indirectement la question du problème de la traduction théologique commune de « nabiyumummiyum » par « prophète illettré » au lieu de « prophète de la communauté », de la  « Oumma » comme le sens pourtant y invite.


Au cœur de la question de la modernisation du Coran


La question est celle de savoir si le Coran a été révélé au Prophète (PSL) dans sa formulation actuelle sans que ce dernier n’ait eu à ajouter ou à retrancher  le moindre mot ou si le Coran est plutôt le récit humain d’un message divin. Autrement dit, si le Coran est la Révélation ou un texte inspiré de Dieu mais composé par des hommes. Avant de nous prononcer sur cette question en soi difficile, il nous semble nécessaire de nous pencher sur quelques problèmes et justement celui des similitudes entre le Coran et la culture grecque.


Les similitudes de ce que dit Mahomet (PSL) avec un certain platonisme nous ont toujours frappés. Elles pourraient signifier que le texte sacré a été rédigé par des hommes et la communauté exilée et authentifiée des platoniciens de Médine. Or, il nous faut partir du principe que le Coran est la parole de Dieu, révélée dans son sens comme dans son libellé exact par l’intermédiaire de l’ange Gabriel. Dès lors, comment son intégrité a-t-elle pu être préservée jusqu’à nos jours ? Retournons à la lettre du texte coranique puisqu'il nous prescrit que «Si vous divergez sur quelque chose entre vous, revenez à Allah et à Son Messager, si vous croyez en Allah et au Jour Dernier. Cela est meilleur et plus convenable comme résolution finale" (Sourate 4, verset 59). Depuis l’aube des temps, on peut admettre que Dieu  s’est  toujours adressé aux peuples  à travers leur  langue. Dans la sourate 41 (versets 2 et 3), il dit ceci à propos du Coran : « C’est une révélation descendue de la part du Tout Miséricordieux, du Très Miséricordieux  (...)  Un livre dont les versets sont détaillés et clairement exposés, un Coran arabe pour des gens qui savent ». La langue est un moyen de communication autant qu’un support culturel, il est tout à fait compréhensible que, du message transmis, transparaissent des traits culturels du peuple qui l’a reçu en premier lieu. Certes, le message coranique est destiné à l’univers tout entier, mais Dieu a choisi de s’adresser directement au peuple arabe du 7ème siècle  en utilisant sa langue et  donc quelques aspects de ses fondements socio-culturels. C’était pour lui le meilleur moyen de faire comprendre le message à un peuple qui devait ensuite s’acquitter de la délicate mission de le diffuser à travers le monde. Les similitudes entre le Coran et la culture grecque ne signifient donc pas que le texte coranique porte l’empreinte de l’homme. C’est d’ailleurs pour donner des gages de l’origine divine des versets du Coran que  Dieu a délibérément choisi, pour porter son message, un homme qui, jusque-là, ne savait ni lire, ni écrire. Ainsi, à notre question première de savoir si le message coranique puisse être porté par un illettré, le Coran nous apprend que c’était précisément le meilleur moyen d’écarter les doutes sur l’identité de l’auteur des versets. A la sourate 29 (verset 48), il est dit en effet que « Avant cela, tu ne lisais pas de livre, ni n’écrivais de ta main droite, car autrement, ceux qui nient la vérité auraient émis des doutes ». 


Dans le rapport critique que certains ont à l'égard de l'Islam, ils ne prennent jamais en compte l’exacte mesure de la dimension divine dans le processus de la révélation. En s’interrogeant sur la pertinence du choix porté sur un illettré pour accomplir une mission prophétique, les critiques modernes de l'Islam brandissent un argument qui ressemble étrangement à celui que les notables mecquois opposaient au Prophète (PSL) lorsqu’ils lui disaient : « Pourquoi n’a-t-on pas fait descendre le Coran sur une haute personnalité de l’une des deux villes [La Mecque et Taîf]? » (Sourate 43 verset 31). En vérité, l’aptitude à recevoir  un message de cette nature, à l’assimiler et à mener à bien la mission prophétique ne tient absolument pas au statut d’intellectuel ou à celui de supposé « inculte ». Celui qui, du néant, a créé les Cieux et la Terre, qui « fait sortir le vivant du mort et le mort du vivant » (Sourate 3 verset 27) n’est-il pas en mesure de faire d’un illettré, le dirigeant, le meneur d’hommes à la dimension exceptionnelle que fut le prophète Muhammad (PSL) ? Comme nous le rappelle le Coran, il  est important de garder à l’esprit qu’en définitive, Dieu « sait mieux que quiconque où placer son message » (sourate 6 verset 124) et  quand IL décide de porter  son choix sur quelqu’un, IL  le dote des qualités et vertus  requises  pour être à la hauteur de la mission. En témoigne le verset suivant par lequel Allah apaise les  inquiétudes du Prophète (PSL) sur sa capacité à retenir le message. « Nous te ferons réciter le Coran de sorte que tu n’oublieras pas – sauf ce qu’Allah aura voulu » (Sourate 87 versets 6et 7). 


Il est donc clair que, pas plus que l’un quelconque de ses compagnons, le Prophète (PSL) ne pouvait composer le texte coranique. D’ailleurs, il faut relever que, dès le début de la Révélation, certains n’avaient pas manqué d’attribuer à des savants tapis dans l’ombre, le mérite d’avoir composé le texte coranique au profit du Prophète (PSL). La réponse  était alors venue d'Allah lui-même : « Si vous avez des doutes sur ce que nous avons révélé à notre serviteur, tâchez donc de produire une sourate semblable et appelez vos témoins que vous adorez en dehors d’Allah, si vous êtes véridiques. Si vous n’y parvenez pas, et à coup sûr, vous n’y parviendrez jamais, prenez garde au feu qu’alimenteront les hommes et les pierres, lequel est réservé aux infidèles ». (Sourate 2 verset 23). Au regard de ces considérations, il ne fait aucun doute que le Coran est, dans son essence comme dans sa formulation, une œuvre exclusivement divine. Mais s’il en est ainsi, comment un texte aussi long (plus de 6 000 versets) a-t-il pu être préservé jusqu’à nos jours ? 

Comment l’intégrité du texte coranique a-t-elle pu être préservée ? 


Pour préserver l’intégrité du texte que lui dictait l’ange Gabriel, le Prophète (PSL) devait le mémoriser avant de le  faire transcrire par ses scribes. C’est précisément pour s’acquitter convenablement de cette noble tâche qu’il  se montrait particulièrement pressé de retenir les passages qui lui étaient révélés. Dieu a  tenu à le rassurer  en lui disant ceci : « Ne remue pas ta langue dans ton impatience de réciter le Coran. C’est à Nous, en vérité, qu’incombent son assemblage et sa récitation. Quand Nous lirons, suis-en la lecture. A Nous, ensuite de l’exposer  clairement » (Sourate 75 versets 16 à 19). C’est cet exercice de mémorisation, auquel le Prophète (PSL) avait également astreint  bon nombre de ses compagnons, qui a permis de sauvegarder, aux premières  heures de la révélation, le texte coranique. Par ailleurs, il est  important de préciser que la révélation s’est poursuivie  sur une durée de 23 ans. Or, le Coran étant composé de 6600 versets environ, un simple calcul arithmétique permet de se rendre compte que,  grâce à ce caractère graduel de la révélation, le Prophète (PSL) et ses compagnons n’ont eu à mémoriser, en moyenne, qu’un verset par jour. En dotant le Prophète (PSL) d’une grande capacité de mémorisation et en procédant à  une révélation graduelle du Coran, Dieu avait ainsi réuni les conditions objectives de la préservation du texte sacré, comme il s’y est, du reste, engagé dans le verset 9 de la sourate 15 : « En vérité, c’est Nous qui avons fait descendre le Coran et c’est Nous qui en sommes le gardien ». C’est, incontestablement,  une marque de la Sagesse et de l’Omnipotence de Dieu que d’avoir ainsi permis de rendre  relativement facile une tâche qui pouvait paraître, à priori, insurmontable.


La valeur de l’islam 


Dans le monde d’aujourd’hui, l’islam est la religion mondiale qui résiste le plus activement à la force du mondialisme. Pour nous, l'Islam n'a donc pas du tout à s'illuminer, à s'éclairer, à se moderniser autrement dit à se séculariser, à s'individualiser. L'Islam est le front vivant, le cœur actif du traditionalisme. Dans son adresse à Marcel Gauchet, Coralie Delaume évoque l'islamo-fascisme, le ''fascisme vert''. Il importe de rappeler que cette réduction de l'Islam, reductio ad hitlerum classique contre toute pensée dissidente - et l'Islam est une pensée dissidente de la modernité -  a d'abord été professée par l’idéologue de la « Fin de l’Histoire » Francis Fukuyama. C'est lui qui, avec Huntington a tenté d’introduire ce terme d’ « islamo-fascisme » pour mieux discréditer la foi et la civilisation musulmane. Si l'Islam est maintenant au banc des accusés, c'est qu'il est avec l'orthodoxie le dernier champ de bataille de la modernité, de cette postmodernité que nous exécrons jusqu'aux tripes. Cela suffit pour déterminer pour nous la valeur et l’importance de l’Islam.


La question qu'on ne manquera pas de nous poser à nous, philosophes occidentaux est celle de savoir si l'on peut aborder le contenu du livre saint de la religion musulmane avec l'esprit critique dont on use depuis la Réforme dans le cadre  biblique ? Nous disons oui mais attention, il ne s'agit en aucune façon de moderniser l'Islam, de le séculariser. C'est le Coran à la lettre que nous exigeons car justement, c'est ce Coran à la lettre qui peut récuser le Coran des Purs (celui des salafistes, des wahabites, des tafkirites), ce Coran intégriste et fondamentaliste qui souhaiterait prendre la place de l'Islam traditionnel comme les évangélistes, les mouvements pentecôtistes ont dans l'Eglise catholique réussi à dénaturer le message évangélique communautariste pour n'en faire qu'un discours individualiste et moralisateur, libéral et économique.


Deux dangers vous menacent 


Le premier, c'est de vouloir céder à l'inclination « politiquement correcte » d'une époque tellement hantée par le choc des civilisations que certains islamologues et imams en viennent à vouloir étouffer la réalité traditionnelle du texte coranique pour masquer les divergences fondamentales non pas de l'Islam mais des Islams. Partant, même si la discussion des dogmes s'apparente à une démarche offensante, vous ne devez céder en rien. Ainsi, j'ai entendu un musulman qui, étant attaqué sur la question stupide de savoir si Mahomet (PSL) respectait vraiment les femmes, répondre « Oui, puisqu'il en a eu de nombreuses ! ». Ne commettez pas cette erreur. C'est le piège de l'empathie. Vous y perdrez votre Coran sacré.


Le deuxième danger, c'est l'islamophobie présente : dépeindre l'Islam sous des traits négatifs et politiques. La connaissance critique en vient alors à succomber sous une avalanche de discours nauséeux qui dénoncent à brûle pourpoint les effets sociaux pervers de la religion de Mahomet (PSL) (voir les positions du philosophe Rémy Brague ). Elle se nourrit des exactions politiques ou comme disait Baudrillard de l'exorcisme politique. C'est le prisme de la diatribe philosophique dite éclairée qui depuis 1789 n'a cherché qu'à dissoudre les liens communautaires pour établir le règne illimité du capital et du matérialisme. 


Certes, il serait évidemment grand temps de revenir à la Raison, à l'étude, à la réflexion au-dessus de l'opinion et de la passion anti cléricale et anti religieuse. Mais pour cela, il nous faudrait ensemble et philosophiquement dans l'exégèse restituer les concepts de consonance arabe à leur naissance, dans leur généalogie et leurs évolutions, ces concepts que quotidiennement on voit pourtant malmener, vilipender à la radio et même dans les derniers titres commerciaux de médiocre écrivain nihiliste. J'ai peu de place. Mais prenons par exemple le mot « sharia », terme si couramment évoqué et que nous traduisons par « loi religieuse ». La « sharia » occupe dans les sociétés arabo-musulmanes une place inversement proportionnelle à celle qu'elle tient dans le Coran. Vous savez comme moi que le livre sacré contient 500 versets normatifs sur un total de 6300. Ensuite, si on se penche d'un peu plus près sur ces versets normatifs, on découvre que ces normes représentent un ensemble hétéroclite, une voie pratique faite d'actes obligatoires, recommandés, permis, blâmables ou interdits. On est bien loin du code de châtiments ou de mutilations qui  ravageraient les Purs ou ses ennemis. La sharia n'intègre pas la totalité des actes humains.


Pour répondre par avance aux critiques


Ill est vrai qu'il y a dans le texte coranique une stratification de l'humanité au regard de la sharia. Au sommet de l'espèce humaine figurent les messagers et les prophètes, puis les « adamiens », entendez les hommes mâles et non femelles musulmans de condition libre, enfin les « adamiens » sans foi ni loi, c'est-à-dire, moi, le chrétien  et le païen. De droit, tuer un païen n'entraîne aucune poursuite judiciaire; réduire une païenne en esclavage n'est pas réprouvé. L'esclavagisme sans ces textes n'aurait en effet jamais pu connaître une telle fortune dans les sociétés musulmanes d'hier comme parfois d'aujourd'hui. C'est tout le Coran, alternance de paroles de tolérance et de propos d'une dureté inouïe. Mais reconnaissons que la Bible ne vaut pas mieux. On y massacre et mutile à tour de bras.


De plus, il n'y a pas un Islam mais des Islams. Il y a le chiisme, le sunnisme, le At-tassavuf et entre tout cela, une question qui me préoccupe personnellement le culte des saints, la question ésotérique, la pensée traditionnelle, l'eschatologie, le sens théologique de l'Histoire, la venue du Mahdi. Ne faites donc pas de l'Islam une grande parodie, un « Self Islam », un Islam de Self-Service, un Islam  anglicisé et indianisé. un Islam de l'autonomie du Sujet ou du Soi, l'Islam  d'Abdennour Bidar, membre de l'Observatoire de la laïcité. L'Islam ne peut se délier du Coran et de la commaunauté, de l'oumma.  Ne vous abaissez pas aux modernes mais au contraire soulignez les valeurs radicales de la Tradition, valeurs qui demeurent incompatibles avec la modernité et la postmodernité, avec la Gay Pride, les jupes courtes, avec l'athéisme d'Etat, l'immoralité et l'obscénité de leur matérialisme marchand. Si nous avions commencé au début par souligner dans le domaine intellectuel, les similarités de l'Islam avec un certain néo-platonisme, c'est que cela devrait nous conduire à approfondir ensemble la critique de la modernité car il va de soi et j'insiste que si vous êtes la Tradition, vous ne représentez pas la Tradition à vous tout seul. Vous savez comme moi qu'Allah lorsqu'il est en colère contre les mécréants, ne trouve rien de mieux que de leur lancer : « Soyez des singes abjects ! ». J'ai toujours savouré dans l'Islam cette hauteur comme la définition du Soleil qui est de genre féminin en arabe et qui forme couple avec la Lune, de genre masculin, deux astres fascinants que Mahomet (PSL) voyait « au service des Humains » mais interdisait de vénérer. C'est vrai nous n'avons pas les mêmes cultes mais nous avons les mêmes combats : redresser le champ de ruines spirituel et moral que nous a légué la modernité. Et pour le faire, il faut aussi vous dire - et la manipulation de masse Charlie en est une saisissante et terrifiante illustration - que cette modernisation que l'on vous enjoint d'adhérer a fini en réalité par tuer l’individu réellement libre, de l’Ancien Monde, du  monde des Grecs. En voulant émanciper l’individu, regardez comme ils l'ont asservi en le déracinant par l'anomie et la névrose sociale, le développement du marché et la dépendance à la consommation. Regardez vos quartiers difficiles ? Non seulement on vous a arraché à votre terre pour nous appauvrir mais on a voulu vous arracher ensuite par la laïcité à votre culture, à votre langue. Vous avez été les cobayes du grand remplacement et l'on ose aujourd'hui vous désigner comme les brebis expiatoires de leurs échecs. Sors tes papiers et sois Charlie !... Il est d’ailleurs amusant de constater que le plus grand grief que l'on vous fait, plus grave encore que les attentats que vous projetez ou commettez, c’est « le rejet du mode de vie occidental ». Horreur ! En effet, peut-on imaginer plus atroce blasphème ?


* Notre collaborateur, Michel Lhomme est enseignant, philosophe, ancien professeur de Théologie à la faculté de Théologie de Lima, diplômé d'arabe littéraire (Paris 3 - Censier). Il a vécu de nombreuses années en terres musulmanes. 

 

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mardi, 20 janvier 2015

Sinterklaasfeest wordt nationaal beschermde traditie

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Sinterklaasfeest wordt nationaal beschermde traditie

door
Ex: http://www.rechtsactueel.com

Het Sinterklaasfeest is op de Nationale Inventaris Immaterieel Cultureel Erfgoed in Nederland geplaatst. Dat heeft het Nederlands Centrum voor Volkscultuur en Immaterieel Erfgoed (VIE) deze week laten weten. Het is zover gekomen door de voordracht van de Sint & Pietengilde, een organisatie die zich eerder al hard maakte voor het behoud van Zwarte Piet binnen het eeuwenoude kinderfeest dat ons Sinterklaasfeest is.

Dit heugelijke gegeven is formeel geworden door het gezamenlijk ondertekenen van een certificaat en heeft als gevolg de plaatsing op de Nationale Inventaris. Wat dan weer inhoud dat er een actieve gemeenschap achter staat die deze traditie levensvatbaar wil houden en wil werken aan een duurzame toekomst voor deze traditie, die in de maatschappij breed wordt gedragen. Het ligt dus bij de Sint & Pietengilde, voor het maken van een erfgoedzorgplan, dat hoort bij de voordracht, een zware taak dus, om de traditie te borgen en te ontwikkelen.

De landelijke inventarisatie is het gevolg van de Nederlandse ondertekening van het Unesco-verdrag in het jaar 2012. Dit verdrag geeft aan dat de eerste stap dat een land moet zetten als nieuwe partij bij het bewuste verdrag, is het in kaart brengen welk immaterieel erfgoed op het eigen grondgebied aanwezig is. Hier is het VIE aldus voor verantwoordelijk. Een plek op de nationale lijst is de eerste stap naar een mogelijke plaats op de lijst van immaterieel erfgoed van Unesco.

Onder immaterieel erfgoed verstaat Unesco tradities en gebruiken – maar ook ambachten – die door gemeenschappen erkend worden als onderdeel van hun culturele erfgoed. Over de daadwerkelijke plaatsing van een erfgoed op deze lijst beslist dan weer een internationaal comité van Unesco -lidstaten.

De plaatsing op de inventarislijst lijkt een verdere stap vooruit in de bescherming van ons erfgoed, na de positieve uitspraak van de Raad van State op 16 oktober 2014, die toen een eerder vonnis van de Amsterdamse rechtbank vernietigde waarin werd gesteld dat Zwarte Piet een negatieve stereotypering van de zwarte medemens zou zijn. Deze procesgang werd mede ondersteund door de Pietengilde.

jeudi, 15 janvier 2015

La tradition indo-européenne chez les Germains

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La tradition indo-européenne chez les Germains

Autore:

Ex: http://www.centrostudilaruna.it

Les Germains du début de la période historique étaient assez proches des Gaulois, avec lesquels certains auteurs anciens les confondent, et l’appartenance ethnique de certaines tribus frontalières est incertaine. Pourtant, la forme de leurs sociétés diffère, et leur rapport à la tradition indo-européenne plus encore.

Contrairement aux Celtes, les Germains ont conservé une part non négligeable du formulaire hérité. La poésie germanique ancienne, notamment le Chant de Hildebrand allemand, le Beowulf anglais (dont la matière vient du Danemark et de Suède), les poèmes eddiques islandais et même, en dépit de son sujet chrétien, le Heliand saxon conservent nombre de formules traditionnelles héritées qui proviennent des «antiques poèmes» des anciens Germains, «la seule forme de tradition et d’histoire qu’ils connaissent», selon Tacite, La Germanie, 2,3. Ainsi la kenning de l’or «feu des eaux» et le personnage mythologique du Rejeton des eaux. L’expression anglaise frēo nama glosée cognomen «surnom» se superpose exactement à l’expression védique priyám nāma «nom propre». Un poème eddique, les Dits d’Alviss, est fondé sur la notion traditionnelle de «langue des dieux» représentée chez Homère et dans le monde indo-iranien, étendue aux autres classes d’êtres surnaturels, alfes, géants et nains: le soleil y est dit «belle roue», comme dans l’image védique et grecque de la «roue solaire»; la terre y est nommée «la large», comme dans son nom védique. La triade pensée, parole, action est bien représentée dans le monde germanique ancien. Si, dans Heliand, elle provient du Confiteor qui la tient lui-même de l’Avesta, ses attestations dans Beowulf et dans les poèmes eddiques semblent directement héritées. La triade des fonctions structure le panthéon: les principales divinités, dont le noms ont été conservés dans ceux de jours de la semaine, sont les deux dieux souverains *Wōdanaz «furieux» et *Teiwaz «divin», le dieu guerrier *Thunaraz «tonnerre» et le couple *Frawjaz *Frawjō «maître» et «maîtresse» qui préside à l’amour. La triade est directement attestée au temple de Vieil-Upsal. De plus, avec la guerre des Ases (les trois premiers) et des Vanes (les deux derniers) le monde germanique a l’équivalent de la guerre sabine de l’histoire légendaire de Rome: une «guerre de fondation» dans laquelle s’affrontent les représentants des deux premières fonctions et ceux de la troisième avant de se réconcilier pour former ici le panthéon, là un peuple. Innovation commune latino-germanique, ce mythe ne semble pas très ancien; il paraît lié à la dernière période de la tradition, celle où la société lignagère est ébranlée par l’émergence de la société héroïque, dans laquelle la notion de «corps social» est remise en cause par les conflits internes. Il en va de même pour sa contrepartie, la «guerre de dissolution» : la discorde familiale qui provoque une guerre mondiale et la fin de la société lignagère, sujet du Mahābhārata et de la bataille de Brávellir; mais cette concordance indo-scandinave suggère un point de départ plus ancien.

La société héroïque est clairement évoquée aux chapitres 13 et 14 de la Germanie de Tacite:

«Affaires publiques ou affaires privées, il ne font rien sans être en armes. Mais la coutume veut que nul ne prenne les armes avant que la cité ne l’en ait reconnu capable. Alors, dans l’assemblée même, un des chefs ou le père ou ses proches décorent le jeune homme du bouclier et de la framée: c’est là leur toge, ce sont là les premiers honneurs de leur jeunesse; auparavant ils sont censés appartenir à une maison, ensuite à l’État. Une insigne noblesse ou les grands mérites de leurs pères obtiennent la faveur d’un chef à de tout jeunes gens; ils s’agrègent aux autres plus forts et depuis long temps déjà éprouvés, et l’on ne rougit pas de figurer parmi les compagnons. Bien plus, ce compagnonnage lui-même comporte des degrés, à la discrétion de celui à qui on s’est attaché; il y a aussi une grande émulation entre les compagnons à qui aura la première place auprès du chef, et entre les chefs à qui aura les compagnons les plus nombreux et les plus ardents. C’est la grandeur, c’est la force d’être entouré toujours d’un groupe important de jeunes gens d’élite, ornement dans la paix, garde dans la guerre. Et ce n’est pas seulement dans sa nation, c’est encore auprès des cités voisines que la réputation, que la gloire est acquise à quiconque se distingue par le nombre et la valeur de ses compagnons: on les sollicite par des ambassades, on leur offre des présents et souvent leur nom seul décide de l’issue de la guerre. Sur le champ de bataille, il est honteux pour le chef d’être vaincu en courage, il est honteux pour les compagnons de ne pas égaler le courage du chef. Mais surtout c’est une flétrissure pour toute la vie et un opprobre d’être revenu d’un combat où son chef a péri; le défendre, le sauver, rapporter à sa gloire ses propres exploits, voilà l’essence de leur engagement: les chefs combattent pour la victoire, les compagnons pour leur chef. Si la cité où ils sont nés s’engourdit dans l’oisiveté d’une longue paix, la plupart des jeunes nobles s’en vont d’eux-mêmes chez des peuples voisins qui ont alors quelque guerre car cette nation déteste l’état de paix, puis il leur est plus facile de s’illustrer dans les hasards et l’on ne peut entretenir de nombreux compagnons que par la violence et la guerre; ils exigent en effet de la libéralité de leur chef ce cheval de bataille, cette sanglante et victorieuse framée; la table du chef avec ses apprêts grossiers, mais abondante, leur tient lieu de solde; la source de la munificence est dans la guerre et le pillage».

Quand le jeune noble quitte sa famille pour un compagnonnage qui peut être extérieur à sa «nation», son obligation de fidélité, trustem et fidelitatem, selon les termes de la Loi salique, change complètement: il ne la doit plus à sa famille, mais à son seigneur. En cas de conflit, c’est à lui qu’il doit être fidèle. Ce qui peut aboutir à ce que des proches parents combattent dans des camps opposés, et parfois s’affrontent: des cousins, comme dans un passage célèbre de la Chronique anglo-saxonne, à l’année 755, ou même un père et un fils comme dans le récit traditionnel typique de la société héroïque sur lequel se fonde le Chant de Hildebrand. Les premiers mots du chapitre, «affaires publiques ou affaires privées, ils ne font rien sans être en armes» souligne le lien entre la société héroïque et la fonction guerrière devenue prédominante à l’époque des migrations. Thucydide donne une indication similaire pour les Grecs de la période protohistorique, 1,6: «Car toute la Grèce portait les armes, faute d’habitations protégées et de communications sûres: vivre sous les armes était une habitude constante, comme chez les barbares». Il semble pourtant que cet usage ait été accepté et intégré par la société lignagère. Paul le diacre rapporte que le prince langobard Alboin n’avait été admis à la table de son père Audoin qu’après être entré pour un temps dans le compagnonnage d’un roi étranger. Il ne s’agit pas, dans ce cas, d’un engagement définitif, impliquant une rupture avec sa famille, mais d’un stage.

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De fait, la société lignagère traditionnelle est bien vivante dans le monde germanique décrit par Tacite. C’est une société tribale dont l’unité supérieure, qu’il nomme «cité», civitas, est la tribu, *thewdō, de *tewtā, dont le chef, *thewdanaz, est le roi. Vient ensuite le lignage, dont le nom, *kindiz, correspond exactement au latin gens. Sur les institutions du village, *thurpaz, Tacite nous rapporte les relations d’hospitalité entre voisins; sur la famille, *haimaz, les usages matrimoniaux, les règles successorales et l’obligation de solidarité: on est tenu d’embrasser les inimitiés soit d’un père, soit d’un proche, aussi bien que ses amitiés». Cette solidarité a pu s’étendre au lignage. La société comporte également trois statuts: noble, *erilaz, homme libre, *karlaz, serf, *thragilaz, *thrāhilaz. Comme chez les Grecs et les Romains, et contrairement aux Celtes et aux Indo-Iraniens, les castes ne sont pas fonctionnelles: le noble est plus guerrier que prêtre, l’homme libre a son culte domestique à côté de ses occupations pacifiques et guerrières. Mais elles ont conservé le lien traditionnel avec la triade des couleurs: dans le Chant de Ríg eddique, qui relate la genèse des trois castes de la société, le serf naît «noiraud», l’homme libre «roux, auteint vermeil», le noble a la chevelure blonde, les joues claires et les yeux vifs, «terrifiants comme ceux d’un jeune serpent»: une indication qui rappelle le qualificatif védique «au regard de maître».

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La société germanique conserve des vestiges de l’état le plus ancien de la société indo-européenne. L’un est l’importance de l’oncle maternel, que signale Tacite, La Germanie, 20,5: «Le fils d’une sœur ne trouve pas moins d’égards auprès de son oncle que chez son père; certains pensent que cette parenté du sang est plus sainte et plus étroite». Cette dernière indication donne à penser que la conception n’est pas empruntée à un peuple étranger, mais qu’elle représente une tradition antique et vénérable. Comme elle est en contradiction avec la patrilinéarité qui est la règle dans l’ensemble du monde indo-européen ancien, y compris chez les Germains, et avec l’image de la semence et du champ qui en est indissociable, ce doit être un archaïsme remontant à la période la plus ancienne. A cette même période se rattachent les nombreuses légendes de peuples migrants conduits par deux jumeaux accompagnés de leur mère. Ces légendes, comparables à celle de la fondation de Rome par une bande conduite par Romulus, Remus et leur mère Rhea Silvia, ne sont explicables que dans une culture où la femme qui donne naissance à des jumeaux est expulsée avec sa progéniture, en raison de la dangerosité qui s’attache aux naissances gémellaires, et où les jumeaux sont considérés comme doués d’une puissance surnaturelle. Ce qui n’est le cas chez aucun des peuples indo-européens connus. Ici encore, une innovation est exclue, et un archaïsme est plus vraisemblable qu’un emprunt. Apparentée à celle de la première destruction de Troie, la légende du géant bâtisseur dont on connaît de nombreuses variantes dans les contes populaires rappelle la crainte ancestrale d’une nuit hivernal e qui n’aurait pas de fin: le géant demande pour salaire le soleil, la lune et Freyja. Le personnage de l’Aurore annuelle, Ostara, est au centre de la mythologie du cycle annuel des régions circumpolaires; c’est surtout vrai de son pluriel représenté par le nom allemand de Pâques, Ostern, qui correspond aux Aurores plurielles des hymnes védiques. Le mythe de l’Aurore annuelle enlevée et ramenée pas ses frères les jumeaux divins est à la base de diverses légendes, dont celle de Hilde Gudrun et celle de Finnsburh. Rappelons aussi que les Jumeaux divins sont mentionnés dans la Germanie de Tacite, qui les identifie aux Dioscures. Mais leur nom, Alces, prouve leur haute antiquité: alors qu’ailleurs ils sont liés au cheval, comme les Aśvin védiques, Hengest et Horsa, etc., les Alces sont des élans, ce qui renvoie à une période antérieure à la domestication du cheval, et donc à la période commune des Indo-Européens.

* * 

De Les peuples indo-européens d’Europe.

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mercredi, 14 janvier 2015

Odin, Buddha, Pan & Darwin

Peter Bickenbach: Odin, Buddha, Pan & Darwin – eine Rezension

Ellen Kositza

Ex: http://www.sezession.de

(Rezension aus Sezession 63 / Dezember 2014)

peter-bickenbach_odin-buddha-pan-darwin_720x600.jpgPeter Bickenbach setzt sich aus christlicher Perspektive mit dem sogenannten Neuheidentum auseinander. Per aspera ad astra: Darum das Bedauerliche an diesem Buch zuerst. Aus christlicher Sicht ist der Neo-Paganismus (der in seinen modischsten Erscheinungsformen sich gern schwarzgewandet präsentiert) ein Obskurantentum, eine düster-magische Geschichte, auch wenn »Lichtgottheiten« dort als Rollenträger (unter anderen) fungieren. Nun kommt das Buch selbst reichlich verschleiert daher:

Der verrätselte Titel an sich (in Lila) verrät wenig, er verschwindet auch optisch im Braun des Untergrunds. Wir finden auch keinen Hinweis zum Autoren – ist er Sozialwissenschaftler, Theologe oder »interessierter Zeitgenosse«? Wir erfahren es nicht; und wenn eine Fußnote besonders interessant erscheint, finden wir über Strecken »Ebenda« und müssen blättern. Da ein Literaturverzeichnis fehlt, bleibt uns, gewissermaßen abgedunkelt zu lesen. Das macht dann nicht viel, wenn man erkennt: Es ist keine Publikation für eine breite Leserschaft, sondern für eine enger gefaßte »Szene«. Wir dürfen diese als jungkonservatives Milieu begreifen. In diesem Rahmen hat Bickenbachs Buch seine Meriten.

Bickenbach wendet sich implizit an ein »anti-modernes« Publikum, an Leser, die mit dem Fortschrittsglauben hadern, die sich auf einem Weg jenseits materialistischer Vorstellungen sehen, die ein Heil jenseits der sichtbaren Welt erahnen. »Anlaß dieses Buches waren Begegnungen und Gespräche mit Menschen, die kein lebendiges Christentum erfuhren und die Kirchengeschichte nur aus zeitgenössischen Darstellungen kennen«, schreibt Bickenbach. Nach seiner Einschätzung orientierten sich »auf der politisch rechten Seite« die meisten Anhänger an einem »Germanentum«, wobei sich esoterische und radikal-biologische Standpunkte unterscheiden ließen. In drei untergliederten Großkapiteln (»Geschichte und Selbstverständnis der Neuheiden«, »Die Deutung von Brauchtum und Überlieferung« und »Postmoderne Religiosität«) sortiert der Autor sein Arsenal gegen jene, die gegen die »orientalische Wüstenreligion«, die »seelische Verknechtung« und den »Identitätsraub« und den vorgeblichen »Völkermord« durch das Christentum polemisieren.

Erst die zeitgenössische verunklarende Verkündigungspraxis, die statt der eigentlichen Offenbarung die angeblichen Ansprüche »moderner Scheinwerte« in den Vordergrund gestellt habe, »konnte die Vorstellung nähren, das Christentum sei eine Religion der Schwachen, Zukurzgekommenen und Lebensuntüchtigen.« Bickenbach entlarvt – und er tut dies auch mit Hilfe »neo-paganer« Nenngrößen wie Julius Evola – das »lyrisch-subjektive Pathos«, das von Naturerscheinungen hervorgerufen werden kann; er hat auch seinen Nietzsche gründlich gelesen, wie er überhaupt neben gebotener Polarisierung eine Synthese anstrebt.

Das Christentum, das er meint, ist streitbar, tüchtig, kulturstiftend und heroisch. Nach Bickenbach verdankt die neuheidnische Kritik am Christentum dem liberalen Protestantismus ihre Beweggründe. Sie argumentiert selbst auf dem Boden einer relativistischen, individualistischen und eigentlich antitraditionellen Religionserfindung – es gibt keine »heidnische Überlieferung«. Der Autor zitiert aus umgedichtetem Liedgut: »O du fröhliche, o du ahnende / lichtverkündende Wintersonnwendzeit«, er verweist auf Parallelen linker und rechter Religionskritik. Die Neuheiden bekämpfen zugleich einen Pappkameraden, nämlich ein von langer Hand umgewertetes, verbogenes, »geupdatetes« Christentum.

Bickenbach begleitet beispielhaft den Glaubensweg des irrlichternden Gorch Fock, der als Sohn frommer Eltern erst Gott gegen Nietzsche verteidigte, dann zum »Germanengläubigen« wurde (»Mein Zion ist Walhall!«) und im Verlauf des Jahres 1915 bei seinen Einsätzen in Rußland, Serbien und Verdun Monate vor seinem Tod ringend zum Glauben seiner Väter zurückfand: »Den größten Segen des Krieges haben die erfahren, die sich von ihm zu Gott führen ließen.«

Peter Bickenbach: Odin, Buddha, Pan & Darwin, Neustadt a.d. Orla: Arnshaugk 2013. 274 S., 18 € – hier bestellen

mercredi, 07 janvier 2015

Les courants de la Tradition païenne romaine en Italie

Renato del Ponte:

Ex : http://www.archiveseroe.eu/romanitas-a114141076

 

mercredi, 24 décembre 2014

From Pagan Spirituality to Christian Consumerism

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Winter Solstice

From Pagan Spirituality to Christian Consumerism

by RUEL F. PEPA
Ex: http://www.counterpunch.org

Solstice: the sun stands still. In temperate countries of the northern and southern hemispheres, every year there are two: summer and winter. The northern hemisphere’s summer solstice, which occurs on a day in the middle of the year (June 20 to 22, depending on the year), is the southern hemisphere’s winter solstice. Conversely, the southern hemisphere’s summer solstice, which occurs on a day in the third week of December (December 20 to 23, depending on the year), just prior to the New Year, is the northern hemisphere’s winter solstice. In the tropics, these astronomical events are not physically felt, except for the holiday celebration called Christmas that is associated with the northern’s hemisphere winter solstice and was brought by European Christian religions to countries like the Philippines, where I was born.

Dies natalis Solis invicti: Birthday of the unconquered Sun

Though we are more familiar now with the so-called Christmas season, connected with the winter solstice, there has always been something religious or spiritual about this time of year that antedates the Christian era. The traditions of caroling and midnight service, and common symbols in the celebration of Christmas, like mistletoes, decorated trees, candles and lights, wreaths and hollies, among others, were present in European paganism long before the advent of Christianity. Christmas is therefore the “Christianization” of the winter solstice celebration, whose institutionalization over time has led to the theft of most, if not all, of the major highlights from the pagan world.

yulee096f.jpgIn the Hebrew scriptures of the Jewish religion, known as the Old Testament in the Christian Bible, there occurs a single instance of the word “solstice” that is not in any way associated with the annual summer and winter astronomical events. In the book of Joshua, chapter 10 and verses 12 to 14, it is reported that the tribal deity of ancient Israel, called YHWH, caused the sun to stand still in Gibeon to give the Israelites, known to be the people of the said tribal deity, the best opportunity to slaughter and annihilate, in broad daylight, an enemy tribe called the Amorites.

“Then Joshua spoke to the Lord in the day when the Lord delivered up the Amorites before the sons of Israel, and he said in the sight of Israel, ‘O sun, stand still at Gibeon, And O moon in the valley of Aijalon.’ So the sun stood still, and the moon stopped, Until the nation avenged themselves of their enemies. Is it not written in the book of Jashar? And the sun stopped in the middle of the sky and did not hasten to go down for about a whole day. There was no day like that before it or after it, when the Lord listened to the voice of a man; for the Lord fought for Israel.…”

This Lord, the sadistic tribal deity of ancient Israel, is a far cry from the god of love whose son, Jesus, is mythically believed by Christians to have been born sometime during the winter solstice and in whose honor Christians celebrate Christmas. By contrast to the murderous solstice of the Jewish story, the pagan winter solstice has always symbolized renewed hope, faith in the restorative cosmic forces and most of all, a love of life.

“In the depths of winter I finally learned there was in me an invincible summer.” – Albert Camus

The pagan winter solstice is an exaltation of the human spirit’s rebirth and revitalization, from “the dark nights of the soul” (“la noche oscura del alma”, with apologies to St. John of the Cross) into the energizing warmth of a radiant morning. It is the grandeur of this splendid background that the Christian religion stole for its prevailing celebration called Christmas, to the point of claiming: “It is not the birth of the Sun but rather that of the Son.”

Christianity, whose key figure, Jesus Christ, is a paragon of humility, should be humble enough not to monopolize the significance of the annual December 25 celebration. Deities from other religions whose births, in different periods, have been celebrated on the same date include: Attis and Dionysus, both of Greece; Mithra of Persia; Salivahana of Bermuda; Odin of Scandinavia; Crite of Chaldez; Thammuz of Syria; Addad of Assyria, and Beddru of Japan.

The winter solstice has influenced the lives of many generations of humanity, through the passing of different civilizations. Therefore the universalizing slogan “Jesus is the reason for the season,” is inaccurate. A more logically acceptable statement for Christians is: “Jesus is our reason for the season.” An all-encompassing claim that articulates ownership of the winter solstice celebration, by claiming that Jesus Christ is the season’s only source of meaning, is a blatant audacity of narrow-minded fundamentalist and evangelical Christians. Christians should be more sensitive not to monopolize the winter solstice celebration and should acknowledge the fact that most—if not all—material symbolisms in Christmas originate from the pagan realm. The legacy of the ancient pagans is still carried on by modern pagans who continue to use the ancient material symbolisms inherited from their precursors with comparable spiritual intensity and pomp.

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It is tragic that the originally spiritual celebration of the pagan winter solstice has been ruined by the materialism of modern nominal Christianity. The modern winter solstice celebration has become commercialized and has lost, not only the graciousness originally associated with ancient pagan spirituality, but also the magnanimity of Christian virtues exemplified by the teachings of Jesus Christ.

“The black moment is the moment when the real message of transformation is going to come. At the darkest moment comes the light.” – Joseph Campbell

Even Christianity has been made seasonal by Christmas, which has become the only time of the year when nominal Christians affirm their shallow Christianity through their superficial adoration of their so-called Lord. I think that Christians, to be true to their commitment, should draw their inspiration and get moved to action not only during the Christmas season but also on a daily basis by the words of wisdom and example of Jesus. A truer spirit of Christianity might well reside in the pagan spirituality that has animated the ancient winter solstice celebration with its promise of renewed hope, faith in the restorative cosmic forces and love of life.

Merry Yuletide Season to All!

RUEL F. PEPA writes for News Junkie Post.

samedi, 20 décembre 2014

La renaissance orientale

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LA RENAISSANCE ORIENTALE
 
Son apport à la philosophie et la spiritualité occidentale

Rémy Valat
Ex: http://metamag.fr

schw9782228910569.jpgLes éditions Payot viennent de rééditer La Renaissance Orientale de Raymond Schwab, le livre de référence sur les débuts et l’impact des études indiennes et orientales sur les sociétés européennes aux XVIIIe et XIXe siècles. Raymond  Schawb (1884-1956) était un authentique humaniste aux multiples facettes : il était traducteur (il pratiquait l'hébreu, le hongrois et l'anglais), romancier et poète. L’Orientalisme a été précédé par un mouvement précurseur, dit pré-indianiste, mouvement animé par des missionnaires ou des fonctionnaires portugais, italiens ou français (en particulier, Anquetil-Duperron, 1731-1805) puis par le pouvoir colonial britannique établi dans la péninsule indienne. Pour ce dernier, l’intérêt linguistique était considéré comme une arme politique pour asseoir sa domination sur le pays.

La société de Calcutta, créée par William Jones en 1784 rassemblait des hauts-fonctionnaires du pouvoir colonial, souvent des juristes, épris de culture indigènes. On leur doit les premières traductions des textes sacrés indiens, en particulier la Bhagavad-Gîtâ par Charles Wilkins (1784), mais aussi les premières parutions scientifiques sur la culture indienne et les premiers pas de l’archéologie, de la numismatique et de l’épigraphie dans le sous-continent. Guidés par des intérêts politiques, l’Angleterre se désintéresse rapidement des études orientales, l’Orientalisme sera essentiellement un mouvement français et allemand (en particulier le mouvement indo-germanique). 

En France, le Directoire fonde l’École des Langues Orientales Vivantes (actuel Institut National des Langues et Civilisations Orientales – INALCO) en 1795 ; cette création précéde de peu l’expédition de Bonaparte en Égypte qui donnera une impulsion significative aux études orientales et en particulier l’égyptologie. L’Orientalisme est en quelque sorte un avatar des guerres napoléoniennes puisque Alexandre Hamilton (1762-1824), officier de la Royal Navy et ancien membre de la Société Asiatique de Calcutta, s’est trouvé assigné à résidence à Paris au moment de la rupture de la paix d’Amiens. Cet officier, qui étudiait des textes indiens conservés au département des manuscrits bénéficia de la bienveillance et de la solidarité scientifique d’érudits de la Bibliothèque Nationale. Reconnaissant, Hamilton leur enseigna la langue sanskrite.

Parmi ces passionnés et privilégiés se trouvait le philosophe et écrivain allemand Friedrisch Schlegel, qui sera l’un des animateurs du « Cercle d'Iéna » et du romantisme allemand. La première chaire de sanskrit sera créée quelques années plus tard au Collège de France en 1814 : Eugène Burnouf, qui a fondé la Société asiatique en 1822, y professera à partir de 1832. Eugène Burnouf a contribué au développement des études bouddhiques en Occident, il a notamment traduit l’un des plus beau texte du bouddhisme : le Sutra du Lotus (1852). Des bancs des universités, l’orientalisme se répand dans les mouvements littéraires et philosophiques, les plus grands auteurs français y ont été sensibles (Alphonse de Lamartine, Victor Hugo, Honoré de Balzac, Edmond Michelet, Saint-Simon, Gérard de Nerval, Gustave Flaubert, les Parnassiens, les symbolistes....).


La Renaissance Orientale : un ouvrage capital pour saisir les représentations et les interprétations des cultures asiatiques par les Européens et leur apport à la philosophie et la spiritualité occidentale.
La Renaissance Orientale , de Raymond Schwab, Editions Payot ( réedition) , 688 pages, 32€.

La tradición como contracultura

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La tradición como contracultura

DALMACIO NEGRO

por Dalmacio Negro

Ex: http://culturatransversal.wordpress.com

Es un lugar común que no se puede hacer nada creador sin la tradición. Eugenio d Ors decía, refiriéndose a la literatura, «lo que no es tradición es plagio». Y en el plano individual, en frase del filósofo alemán Nicolai Hartmann «nadie empieza con sus propias ideas». Se podrían citar innumerables opiniones al respecto como la famosa del economista Keynes de que, a la larga, todos somos herederos de algún economista difunto, que alguien retocó cambiando la palabra economista por la palabra filósofo. Siendo esto cierto, hace mucho tiempo que sucede lo contrario en el campo de la cultura en general. En el arte y en la literatura el credo dominante es la oposición a la tradición, habiéndose impuesto el prurito de la originalidad consciente y de la innovación por la innovación, equivalente al del cambio por el cambio en lo social.

Puesto que en la cultura cada momento todo se interrelaciona, esa actitud se traduce en los demás ámbitos de la vida en sans cullotisme, en un adanismo muy escasamente o nada creador. Así no hay estilos sino, a lo sumo, modas, casi siempre tan fugaces que la mayoría de las veces ni siquiera son modas, sino ocurrencias más o menos extravagantes que buscan el éxito mediante el «escándalo» moral, intelectual o estético, equivalente a las «liberaciones» en la vida social. «La cultura de lo efímero». No es raro que la política actual adolezca escandalosamente de estilo y que en ella, generalmente en manos de gente joven, demasiado inexperta y advenediza, la confusión sea cada vez mayor. Lo cual es muy grave, porque en esta época la política ha desplazado a su par dialéctico que la delimita, la religión, privatizándola en el mejor de los casos y, si se mira bien a la misma cultura al convertirse la política en una de sus fuentes principales invirtiendo la relación natural, con lo que está en todas partes. La política determina incluso la conciencia, las ideas acerca del bien y del mal. Es lo que se llama politización. La politización es la degeneración totalitaria de la política y de la cultura. Se ha llegado a ella interpretando la democratización como racionalización, concediéndosele al Estado la autorización para entremeterse en todo. Y como el Estado es lo Político, politiza todos los ámbitos de la vida. Casi todos los días hace algo que se opone a la tradición, a los usos, a las formas y a las maneras, a las costumbres, en definitiva a las creencias que constituyen y configuran lo social, creando una nueva moralidad y una nueva cultura de cuño estatal. Se desintegran así las sociedades, un fenómeno bastante visible, pero el estatismo aparece como liberador. Sin embargo, opera en contra de la libertad. Esta no es una propiedad del Estado sino del hombre concreto, por lo que constituye una necesidad lo Político a fin de proteger las libertades, no para liberar a los hombres de sí mismos, de sus libertades, que enraízan en las tradiciones de la conducta.

Lo Político adoptó en la época moderna la figura del Estado. Y como el Estado es una forma política artificial, una máquina de poder, es antitradicional por definición. Su antitradicionalismo estuvo relativamente contenido hasta que la revolución francesa lo revolvió contra la Nación histórica politizando la Nación.

Hasta entonces, las naciones eran simplemente unidades diferenciadas que formaban parte de la tradición europea común, que incluye, por supuesto, una tradición de la política. Pero al politizarse fundiéndose con el Estado, que es de suyo particularista, para consolidar la unidad política y aumentar la potencia nacional, los Estados nacionales resultantes empezaron a pervertir las propias tradiciones, «las tradiciones patrias», al tratarlas como culturas separadas, particulares, inoculando en ellas el nacionalismo sirviéndose muy principalmente de la historia, ciencia desde entonces en auge. Se llegó así en el siglo XIX a la oposición entre las Grandes Potencias nacionales que constituye el origen próximo de los desastres del siglo XX y del estatismo de nuestros días.

Frente a la prevaleciente cultura estatista, que es por definición nihilista, la auténtica tradición europea puede ser todavía una poderosa contracultura.

Fuente: conoze.com

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vendredi, 19 décembre 2014

René Guénon, Roma, Convegno

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jeudi, 18 décembre 2014

La crèche et les petits dieux du peuple

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La crèche et les petits dieux du peuple

par Claude BOURRINET

Jean-Paul Brighelli, récemment (1), rappelait que l’institution des crèches, n’avait que peu de liens historiques et religieux avec le christianisme authentique. Le terme « institution » est employé ici pour évoquer le mortier des siècles, la lente et merveilleuse fabrication d’une coutume populaire, qui se sert des pierres laissées par les traditions ancestrales, de cette mémoire longue qui plonge parfois dans les temps proto-historiques, pour ériger des « monuments » (du latin monumentum, dérivé du verbe moneo « se remémorer »). Les crèches appartiennent à cet « art » de tous, œuvre artisanale dont on ne connaît pas l’auteur, car elle jaillit du génie communautaire, comme les contes, les légendes, les chansons de village et des danses dit « folkloriques », dont les volutes manifestent quelques chose des mythes éternels.

 

Les crèches, dont la création est redevable de récits bibliques apocryphes, signifient, d’une façon bon enfant, la revanche du paganisme sur une religion allogène, judaïque, violemment hostile aux « idoles ». Le christianisme primitif a eu du mal à se défaire de ces a priori anthropologiques, au point que sa réappropriation de l’art « païen » n’est devenue évidente que dans le temps même de sa résistible victoire sur les antiques croyances. L’art dit « chrétien », qui doit beaucoup à l’art impérial du IIIe siècle (2), s’est affirmé quand la nouvelle religion du Christ a senti qu’il n’existait plus guère de danger provenant de l’ancienne religion, c’est-à-dire après le putsch de Constantin, dit « le Grand », au début du IVe siècle.

 

Ce que l’on examine, de l’« art chrétien » du Moyen Âge, appartient à ce genre d’équivoques qui ne cessent d’agiter les spécialistes, l’équivalent des interrogations qui se posent lorsqu’on se demande s’il peut exister une philosophie chrétienne. De la même façon, on peut appréhender la foi galiléenne comme une acculturation du judaïsme, qui s’est fondu dans la Weltanschauung, la vision du monde hellénistique, avec, cependant, un noyaux monothéiste et iconoclaste persistant, qui se réactive par intermittence. D’autres apories peuvent aussi naître d’une analyse poussée des légendes issues de la « Matière de Bretagne ».

 

La République – du moins celle qui s’est illustrée en France – a eu pour ambition de restituer l’État romain, sa vertu, son sens de l’État, bref, la res publica. Or cette « chose publique » peut se confondre aisément avec la laïcité telle qu’elle s’est traduite lors des lois de séparation de l’Église et l’État, en 1905. C’est évidemment, si l’on cherche des sources référentielles à cette brisure entre le sceptre et le goupillon, une illusion de trouver des justifications dans l’Histoire, car jamais, dans les temps anciens, même à l’époque de la querelle entre l’Empire romain-germanique et la papauté, on a conçu une société qui ne fût pas façonnée de ces deux pans indissociables que sont le temporel et le spirituel, ce qu’exprime très bien le terme de « religion », qui induit un rapport de dépendance entre le haut et le bas, entre le terrestre et le supra-humain. Même saint Augustin, dans La Cité de Dieu, ne sépare pas, de facto, la cité des hommes de la cité de Dieu, qui sont inextricablement mêlées, dans la vie civique, et dans les cœurs. Le point nodal, où s’incarne cette rencontre entre les deux ordres, est, bien sûr, la morale, ou, plus précisément, la charité.

 

La décision de l’État de couper les deux réalités de l’être humain, entre, d’un côté, la chose publique, et, de l’autre, la chose privée, ne visait pas, au début du XXe siècle, à empêcher la seconde de s’exprimer librement. La République a, au demeurant, eu besoin de l’appui de l’Église durant la Guerre de 14-18, comme, plus tard, le bolchevique Staline a eu recours à l’Orthodoxie durant la Grande Guerre patriotique qu’a menée l’empire soviétique contre l’empire nazi. Les hommes n’aiment pas mourir pour des idées, il leur faut la chair et le sang de leur mémoire pour se sacrifier.

 

L’agressivité dont font preuve, actuellement, les tenant d’une laïcité « pure » délivrée de tout signe religieux, lorsqu’ils revendiquent une sorte d’épuration civique, de nettoyage des rues, des édifices officiels, des corps et des écrans virtuels, et, bientôt, pourquoi pas, comme dans les meilleurs récits contre-utopiques, rectifiant passé et futur, ne manque pas d’être assez singulière, si l’on s’en tient à la longue chaîne des siècles.

 

Il est certain que la volonté, récurrente, existe de niveler le catholicisme au rang de sensibilité religieuse comme une autre, niant de cette façon son rôle constituant de notre civilisation européenne et française. Penser, pour autant, que cette acrimonie éradicatrice relève d’un complot visant à substituer l’islam au christianisme pèche par excès. En effet, les « princes qui nous gouvernent », comme disait feu Michel Debré, n’usent des musulmans qu’en ce que ceux-ci servent d’instruments de démolition. Le multiculturalisme n’est pas, dans notre espace historique, l’expression d’une civilisation, mais une arme contre la civilisation. La présence de religions allogènes, dans la Rome antique, n’a été tolérée, voire encadrée, comme le judaïsme, qu’en tant qu’elles de constituaient pas un péril pour la sauvegarde  de l’« empire ». La notion de « tolérance », au sens que lui ont donné les Lumière, est, en ce qui concerne cette époque, tout à fait anachronique. Le passage du paganisme au christianisme n’a pas été un changement radical dans l’octroi plus ou moins grand de la « liberté d’opinion, ou d’expression » qui, là aussi, rapporté à l’ère contemporaine, risque de se révéler tout autant anachronique que la notion de tolérance. Car non seulement les débats philosophiques ne concernaient qu’une élite très réduite, mais on sait combien cyniques, stoïciens, épicuriens, ont pu être l’objet de désagréments de la part du pouvoir, et, surtout, quel a été la lente dérive structurelle, qui a formaté l’appréhension de l’univers, et, de syncrétismes en confusions, d’hénothéisme fondé sur un usage métaphorique des divinités, en synthèse entre aristotélisme, stoïcisme et platonisme, jusqu’au triomphe, dans les cercles cultivés de l’aristocratie, du néo-platonisme, et a préparé l’avènement de la théologie chrétienne et sa propension à caréner une orthodoxie pérenne (3).

 

Aussi bien serait-on avisé de ne pas interpréter l’évolution de ce que d’aucuns nomment « le système » comme un mode opératoire unique, reposant sur une vision stratégique homogène, d’où seraient tirées les ficelles qui manipulent des marionnettes. Non qu’il n’existe pas des officines plus ou moins occultes, mais les visées semblent parfois contradictoires. Comment concilier, en effet, la volonté de balayer tout signe ostentatoire de la religiosité – dont le fameux voile intégral – , et de promouvoir, dans le même temps, l’islam, en finançant, par exemple, des mosquées ? S’appuyer sur des populations étrangères, par leurs cultes, leur religion, leurs symboles civilisationnels, voire leurs mœurs, pour diminuer l’importance de la mémoire de l’Europe, et, parallèlement, se hérisser frénétiquement dès qu’apparaît toute allusion à la religion, voilà ce qu’on appelle un paradoxe. En vérité, le tableau est pour le moins complexe.

 

D’autant plus que le monde musulman s’inscrit dans le monde « traditionnel », conservateur (au sens propre : « qui conserve »). Toutefois, le processus libéral mondial le fait passer progressivement et sûrement, comme toute chose, dans une logique postmoderne; il se métamorphose, de réalité archaïque (de « archê », fondements originels) fortement ancrée, en expression d’une « opinion » comme une autre. Le vocable « religion » recouvre, sinon des acceptions différentes, du moins des degrés de pertes du sens inégaux. Car il s’en faut de beaucoup que toutes les sacralités se vaillent, tant synchroniquement que synchroniquement. Le christianisme de l’homme contemporain, si l’on prend la peine de sonder les cœurs et les intelligences, est sans commune mesure avec celui des temps anciens, et il est fort probable que le premier partagerait malaisément le sort du deuxième, qu’il appréhenderait à l’horreur pour les contraintes religieuses qu’éprouve tout hédoniste contemporain. De même, qu’y a-t-il de semblable entre la conception du sacré d’un paysan du Bengale, par exemple, et celle d’un évangéliste américain ?

 

La question essentielle est, non de ravaler toute sacralité à une dénominateur commun, par exemple la foi (aussi peu discernable que l’amour), ou bien, plus identifiable, les rites ou les bâtiments confessionnels, mais de savoir quel type de religiosité sied parfaitement au « système » libéral. Or, la logique de la « main invisible », du marché, est de déminer, de dédramatiser, de folkloriser, de dysneylandiser les patrimoines, les traditions, les appartenances, les identités. On se satisferait d’une multitude de communautés, à condition qu’elles se parent des attributs d’une mode, certes, un peu spéciale (comme les « identités sexuelles »), mais compatibles avec cet arc-en-ciel qu’on arbore comme le drapeau de la diversité. Autrement dit, pour la gloire et l’intérêt du doux commerce, il est nécessaire que se multiplient les appartenances, si possible interchangeables, mais sans les inconvénients ataviques de ces engagements, l’exclusivité, l’intolérance, la guerre, les bûchers, ou bien la permanence, la discipline, la règle, la rigueur de la doctrine.

 

La seule entité viable (si l’on ose dire) de l’ère postmoderne est une bulle vide, flexible, polycompatible, éthérée, irresponsable, vaguant à tous vents, surtout aux caprices du marché. La religion est un marché comme un autre. La gravité de la tradition authentique, comme celle de l’ensemble des sociétés qui ont disparu, diluées par les flux corrosifs de l’argent, cette pesanteur solennelle, digne, noble, que les Romains considéraient comme la marque de l’honnête homme, n’a pas sa place dans un monde liquéfié, qui n’est, aux dires de la « Dame de Fer », pas une société (4). Ne resterait in fine qu’un être évaporé, déraciné de la terre, sans laquelle aucune civilisation ne peut vivre d’une vraie vie, ne peut devenir la demeure du monde.

 

Faut-il parler, alors, de religion, de projet religieux conquérant, dominateur, tel que le serait l’islam, comme nous l’assurent les Identitaires ? Il semblerait plutôt que l’on assistât à l’un des derniers assauts contre l’esprit religieux. Les musulmans devraient porter attention aux effets dévastateurs de la modernité : on ne peut être véritablement adepte d’une tradition spirituelle, et drogué aux poisons de la société de consommation, de la sous-civilisation matérialiste, américanisée, bafouant toutes les valeurs qui ont été vénérées pendant des millénaires.

 

À cette aune, la censure des crèches apparaît comme l’aboutissement d’un processus de désenchantement commencé avec les religions judaïsantes. La société marchande est la fin et le triomphe d’un monothéisme délivré de ses oripeaux païens. L’Empire romano-chrétien a tenté, par la violence ou la propagande, l’intimidation ou la persuasion, d’extirper des cœurs, des consciences, et des paysages, les reliquats d’une religion haïe, que l’on dénonçait comme le suppôt du diable, comme le témoignage de la déchéance humaine (5). Le christianisme fut une religion nouvelle, une révolution. Son projet de nouvel homme se voulait radical. La nouvelle foi plongeait jusqu’au fond des êtres, et les sommait d’adhérer, d’aimer, de se sacrifier pour elle, ce que les traditions sacrales ancestrales n’exigeaient pas. Il fallait arracher les racines du mal, jusqu’au tréfonds de la terre humaine. La traque des derniers païens, la destruction ou la récupération des vestiges anciens, des chênes sacrés, des sources, des temples, des hauts lieux, furent, au Moyen Âge, un combat incessant. Et vain, comme l’on sait, puisque des legs païens restèrent vivaces, comme Noël, et, justement, nos fameuses crèches, avec leurs animaux sentant l’humus.

 

Pour la première fois, le libéralisme est en voie de réaliser ce qui avait été entrepris il y a deux mille ans : soustraire à la joie humaine la chair et la saveur des petits dieux populaires, ceux qui accompagnaient, jadis, les tribulations des humbles. Et l’on retrouve, dans cette volonté dévastatrice, cette rage rabbinique, ecclésiastique, qui s’en prenait autrefois aux héritages païens, même si cette haine est maintenant dirigée par des laïcistes, contre le christianisme même, comme chose du passé.

 

Claude Bourrinet

 

Notes

 

1 : Jean-Paul Brighelli, « Ce que cache l’interdiction des crèches de Noël », dans Le Point, le 10 décembre 2014.

 

2 : Bernard Andrae, L’art de l’ancienne Rome, Paris, Éditions Mazenod, 1988.

 

3 : Polymnia Athanassiadi, La lutte pour l’orthodoxie dans le platonisme tardif, Paris, Les Belles Lettres, 2006.

 

4 : Margaret Thatcher, « There is no such thing as society : there are individual men and women, and there are families », 1987.

 

5 : Ramsay MacMullen, Christianisme et paganisme du IVe au VIIIe siècle, Paris, Les Belles Lettres, 1998.

 


 

Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

 

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samedi, 13 décembre 2014

Rites païens du berceau à la tombe

 

Sortie aux Editions de la Fôret du premier tome d’une série de trois consacrée aux rites païens du berceau à la tombe.

Ce premier tome aborde les thèmes de la naissance et de l’enfance. Nombre de jeunes couples et parents identitaires pourront se reporter à ce livre, véritable bréviaire en la matière.

Prix: 16€ + frais de ports (2,10 € France uniquement et 4,15 € Europe)

Terre et Peuple - BP 38 - 04300 Forcalquier

lundi, 01 décembre 2014

Feronia e i culti femminili legati alle acque

Intervento di Renato Del Ponte al convegno "Feronia e i culti femminili legati alle acque" organizzato a Verona il 4 Maggio 2012

lundi, 24 novembre 2014

Sinterklaas en Zwarte Piet verschillend, maar vullen elkaar perfect aan

'Sinterklaas en Zwarte Piet verschillend, maar vullen elkaar perfect aan'

Een gesprek met literatuurwetenschapper Rita Ghesquiere

door Harry De Paepe
Ex: http://www.doorbraak.be

sintpiet.jpgIn 1989 verscheen bij het Davidsfonds het boek 'Van Nicolaas van Myra tot Sinterklaas. De kracht van een verhaal.' Het was een uitgebreide studie naar de oorsprong van het kinderfeest. Doorbraak vond het tijd - gezien het heersende debat over Zwarte Piet - om even met de auteur, professor Rita Ghesquiere, te praten.

Doorbraak: Sinds kort laait het in Nederland al oudere debat over het vermeende racistische karakter van Zwarte Piet ook in Vlaanderen op. Houdt het argument dat Zwarte Piet een veruiterlijking is van een koloniaal denken volgens u steek?

Rita Ghesquiere: 'Sinterklaas en Zwarte Piet zijn complexe figuren. Hun ontstaansgeschiedenis reikt veel verder dan de periode van de kolonisatie. Er zijn bovendien verschillende interpretaties en duidingen.  Allebei de figuren hebben een ambigu karakter waarin positieve en negatieve elementen verwerkt zijn. Reeds in de oudste legende 'Het verhaal van de drie veldheren' spreekt een toornige Nicolaas dreigende taal tegen de keizer. In de legende van Crux gebruikt Nicolaas de roede. Verschillende oude legenden voeren Nicolaas ook op als 'duivelbezweerder'.  Die gedachte wordt nog versterkt in het inculturatieproces waarbij het christendom oude bestaande mythen en rituelen opneemt. Nicolaas als winterheilige krijgt dan aspecten van de Germaanse god Wodan die zowel beschermend als bedreigend is. Guido Gezelle spreekt van 'Klaai den duvele' en verwijst naar de Engelse uitdrukking Old Nick een synoniem voor de duivel. Zwarte Piet is vanuit dat oogpunt de verslagen en bekeerde 'demon' die op zijn beurt positieve en negatieve elementen in zich draagt. De roede of gard is oorspronkelijk een positief symbool. Wie er door aangeraakt wordt, krijgt levenskracht en geluk. Die invulling van Sinterklaas als winterheilige en gever met schaduwfiguur of knecht vinden we alleen in Noord-Europa.

In de Nederlandse kinderliteratuur vanaf de negentiende eeuw worden beide figuren meer als tegenpolen voorgesteld, al vraagt ook dat nuancering. In het bekende boek van Schenkman Sint Nicolaas en zijn knecht zien we dat Sint Nicolaas zelf de zak in zijn hand houdt en de kinderen streng vermanend aankijkt. De tekst luidt:

Ei, ei die Sint Niklaas is lang toch niet mak!

Daar stopt hij twee knaapjes pardoes in zijn zak.

't is loon vast naar werken en rijklijk verdiend.

Hij straft niet graag kinderen, maar is hun vriend.

O bisschop, vergeef hun deez' enkele keer.

Schenk, schenk hun genade, zij doen het nooit meer!

In de uitgave van Bom van hetzelfde boek, rijden zowel de Sint als Piet op een paard over het dak. Ook toen al was er dus een vorm van gelijkwaardigheid. Beide figuren evolueren mee met de tijdgeest. Pedagogische bezwaren zorgden ervoor dat het bestraffende aspect verdween. De secularisatie ontnam Nicolaas zijn heiligheid, de knecht zijn duister verleden. De laatste decennia is de Sint eerder een lieve oude opa. 'Er zijn geen stoute kinderen' wordt jaar na jaar herhaald. Dat geldt evenzeer voor Zwarte Piet. Hij is niet langer de dreigende helper, maar de medeorganisator van het feest. Vaak krijgt hij zelfs de leidende rol, omdat de Sint als oud, ziek en moe voorgesteld wordt.

Zwarte Piet reduceren tot een veruiterlijking van het koloniale denken is dus een sterke vereenvoudiging, die ook na analyse niet helemaal klopt. De religieuze duiding biedt meer en beter houvast. maar er duiken nog andere denkpistes op. Arno Langeler verbindt in zijn boek Zwarte Piet uit 1994 de figuur van Zwarte Piet met Cristoforo Moro, een historische figuur uit een illustere familie die een dubbelzinnige rol speelde tijdens de strijd om Cyprus  in 1570-'71. Helemaal geen slaaf dus maar een machtige man met Afrikaanse roots van wie de stamboom teruggaat tot de Romeinse tijd.

Opvallend is ook dat dit duo Sinterklaas en Piet niet bekend is in de Zuiderse Europese landen zoals Spanje en Portugal, twee van oorsprong katholieke landen met een sterk koloniaal verleden. We vinden ze wel terug in ondermeer Nederland, Duitsland, Luxemburg, het Noorden van Frankrijk, Oostenrijk, Zwitserland en Tsjechië. Dat wijst erop dat elementen uit de Germaanse cultuur in de beeldvorming een belangrijke rol gespeeld hebben.'

Is Zwarte Piet dan niet ‘racistisch’?

'Racistisch staat voor de opvatting dat het ene ras superieur is aan het andere en uit de discriminatie die daarvan het gevolg is. Sinterklaas en Zwarte Piet zijn verschillend, maar vullen elkaar perfect aan.

Bovendien horen Sinterklaas en Zwarte Piet op de eerste plaats thuis in een mythisch denken, niet in het rationele zintuiglijke denken. Het rationele denken maakt immers een einde aan het geloof in sinterklaas. Het mythisch denken confronteert ons met een andere onzichtbare, transcendente werkelijkheid. Het onzichtbare, de nacht en het andere spelen daarin een rol omdat juist de Unheimlichkeit de grens tussen de werkelijkheid en de onwerkelijkheid opheft. Natuurlijk hebben verhalen ook een maatschappelijke relevantie omdat ze bijvoorbeeld morele waarden en pedagogische opvattingen bevatten.

Op zoek naar de wortels van beide figuren zien we hoe er op een bepaald moment een zekere polarisatie ontstaat, maar nauwkeurige analyse van teksten en prenten toont meer dubbelzinnigheid.

Tot in de jaren zestig werd Piet als de ondergeschikte van de Sint voorgesteld soms met negatieve trekken of dreigend. Analyse van de recente kinderliteratuur laat zeer duidelijk zien dat Zwarte Piet is geëvolueerd tot een uitgesproken positief personage, een spilfiguur die het feest mee draagt. Een grootschalig onderzoek in Nederland van Gábor Kozijn in 2014 toont aan dat meer dan 90 procent van de volwassenen en de kinderen Zwarte Piet niet als racistisch ervaart, maar de figuur inderdaad een positief imago toekent 'leuk', grappig' en 'slim'. Het oordeel van Amsterdammers verschilt in die zin dat daar een grote minderheid de figuur als discriminerend ervaart. Bij de tegenstanders zetten vooral Surinamers en Ghanezen  de toon. Opvallend is dat zij Zwarte Piet niet discriminerend vinden voor zichzelf maar voor andere. Het gaat dus veeleer om een principiële houding die niet steunt op kennis van de verhalen. Maar de confrontatie met de perceptie en/of de gevoelens is geen gemakkelijke zaak.

Geregeld duikt er ook kritiek op vanuit feministische hoek. Feministen vinden het discriminerend dat de wereld van Sinterklaas vooral een mannenzaak is. Dat soort ongenoegen wekt doorgaans weinig sympathie. Positiever is het pleidooi om alert te zijn bijvoorbeeld voor de stereotiepen in het speelgoed; Dat geldt ook voor racisme. Racistische voorstellingen van Zwarte Piet, zoals lui of dom, moeten terecht geweerd worden uit de kinderliteratuur en andere cultuurproducten.'

Staat de ‘roetveegpiet’ dichter bij het origineel dan onze huidige Zwarte Piet met de rode lippen en de zwarte krullen?

'De roetveegpiet die alleen maar zwart wordt door zijn werk in de schoorsteen sluit inderdaad nauwer aan bij wat we terugvinden in de Germaanse cultuur waar de schoorsteen als verbinding met de godenwereld een belangrijke rol speelt. In de haard laat men de gaven achter - de laatste schoof, de laatste vruchten van het veld - om de goden goed te stemmen.

In Nederland duikt de Zwarte Piet in pagekledij met zwarte krullen, rode lippen en soms oorbellen en witte kraag veel vroeger op dan in Vlaanderen. Felix Timmermans tekent Zwarte Piet bijvoorbeeld als een arme zwerver. Uitwisseling van kinderboeken en televisieprogramma's zorgden er echter voor dat de Nederlandse invulling van de knecht steeds dominanter werd ook in Vlaanderen. 'De kleren maken de man', geldt voor sinterklaas  - mijter, staf, rode mantel enz. -  en dat geldt ook steeds vaker voor Piet. Hier past evenwel een belangrijke kanttekening. In de recente kinderliteratuur is het beeld van Piet of de pieten overwegend positief, welk pak hij ook draagt.'

Heeft u weet van hoe men in Franstalig België omgaat met de knecht van de Sint?

'Niet echt; Ik merk op internet dat père fouettard zoals hij in Franstalig België genoemd wordt, veel minder prominent aanwezig is. Er is ook geen spoor van discussie of debat, met uitzondering van een krantenartikel over de rellen in Gouda. Sinterklaas woont volgens het postadres dat via internet verspreid wordt - Rue du Paradis, 0612 Ciel - nog steeds in de hemel en hij rijdt ook op een ezel. Vlaanderen leunt dus onder invloed van sinterklaasliedjes, -boeken en -films dichter aan bij Nederland.   

Wel herinner ik mij wel hoe de Franstalige studenten aan het einde van de jaren zestig in Leuven uitbundig het sinterklaasfeest vierden. Ze waren verkleed als Sint met lange witte labojassen, nepbaarden en papieren mijters, terwijl ze rondgereden werden op carnavalwagens en zich bezondigden aan overmatig drankgebruik. Een weinig verheffend beeld van de 'goedheiligman' vooral voor de kinderen die dit schouwspel moesten gadeslaan. Die vorm van Sinterklaasfeest is totaal onbekend in Vlaanderen. Later ontdekte ik dat deze invulling eveneens diepe wortels heeft. Vanaf de middeleeuwen was Nicolaas immers de patroon van de studenten en dat patroonsfeest werd en wordt nog steeds luidruchtig en op studentikoze wijze gevierd.'

Sommige gemeenten in Nederland schaffen hun intochten af uit schrik voor geweld. Heeft het sinterklaasfeest zoals we dat nu kennen nog een toekomst?

'Het grootschalig onderzoek in Nederland van Gábor Kozijn in 2014 laat zien dat er wel degelijk een toekomst is voor het feest. Toch vind ik persoonlijk dat een zekere soberheid het sinterklaasgebeuren ten goede zou komen. Als de geschenken wat bescheidener worden, dan kan de Sint misschien ook met minder helpers aan de slag, met minder grote sinthuizen, met minder op- en intochten... Een bescheidener feest zal minder aanstoot geven aan wie niet wil meevieren.'

U schreef uw boek in 1989, voor het televisieprogramma ‘Dag Sinterklaas’, dat toch wel betekenend is geweest voor het sinterklaasfeest in Vlaanderen. Merkt u vandaag een andere manier van Sinterklaas vieren op dan dertig jaar geleden?

'Mijn eerste indruk is dat er inderdaad wat meer luister en vertoon is in de publieke ruimte met bijvoorbeeld in verschillende steden intochten of een 'huis van de Sint'. In de gezinnen en de scholen is er niet zo veel veranderd. Het geloof is eerder toegenomen. Bij mijn kinderen, vooral jaren 1980, hield het slechts stand tot de eerste of tweede klas. In de volgende generatie zie ik oprecht en soms hardnekkig geloof ook bij oudere kinderen. De televisieserie Dag Sinterklaas enfilms als Het paard van Sinterklaas of hyperrealistische prentenboeken geven voeding aan dat geloof. De gezinnen vieren het sinterklaasfeest met dezelfde rituelen, bijvoorbeeld schoenzetten, samen de trap af, zingen.'

Klopt de stelling dat de Vlaamse Sint ‘katholieker’ is dan zijn Nederlandse versie?

'Dat was zeker zo tot in de jaren zestig en wellicht kleurt het ook nu nog onbewust de voorstelling. In Franstalig België is de Sint nog duidelijk 'katholieker'. Het protestantisme en de secularisatie hebben in Nederland veel eerder de religieuze aspecten van de sinterklaasfiguur uitgegomd. In Engeland verdween het sinterklaasfeest volledig.'

Is de tijd nu rijp voor een herwerkte versie van uw boek? Het lijkt actueler dan ooit.

'Misschien wel. Ik blijf de studies en de kinderliteratuur over Sint-Nicolaas aandachtig volgen. Een nieuwe uitgave is echter vooral een zaak van de uitgever en daar zie ik voorlopig geen belangstelling.'

Ten slotte: staat uw schoen al klaar?

'Mijn schoen staat niet klaar, maar ik verwacht de Sint en Piet wel voor een bezoek aan huis waar we samen met onze kinderen en kleinkinderen naar uitkijken.'

Mevrouw Ghesquiere gaf nog volgende bronnen mee:

Gábor Kozijn, Verkennend Onderzoek naar een toekomstbestendig Sinterklaasfeest. Den Haag, 2014.

Pieter van der Ree, Sinterklaas en het geheim van de nacht. Zeist, 2012.

Louis Janssen, Nicolaas, de duivel en de doden. Utrecht, 1993.

Arno Langeler, Zwarte Piet. Amsterdam, 1994.

Rita Ghesquiere, Van Nicolaas van Myra tot Sinterklaas. Leuven, 1989

Zwarte Piet….in Iran en whiteface in Afrika

Zwarte Piet….in Iran en whiteface in Afrika

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Volgens extremisten die het nodig vinden om een robbertje te gaan vechten met de politie terwijl zij zich eerst strategisch opgesteld hebben tussen kinderen van leeftijden 2 tot 10 jaar is Zwarte Piet racistisch. We krijgen een slechte kopie van de burgerrechtenbeweging uit de VSA die ons wenst te vertellen dat Zwarte Piet racistisch is. Over krak dezelfde traditie in Iran, daar zwijgt men uiteraard zedelijk over.

Net als in Europa stamt het Iraanse feest Hadji Firoez uit een heidense traditie. Net als in Europa is zijn huid zwart gebrand door kool en roet. Niet van door de schoorsteen te kruipen, maar omdat hij de oude dingen van mensen verbrandt die ze niet meer nodig hebben. Dit om het nieuwe jaar te symboliseren. Is hij dan zoveel politiek correcter dan Zwarte Piet? Beoordeel zelf even:

haji firoz 2

haji firoz 3

haji firoz

Zwarte Piet zou racistisch zijn vanwege het “blackface” waarbij een blanke man zich zwart schminkt en veel lippenstift gebruikt . Kijken we echter naar de ceremonie van de Xhosa in Afrika wanneer zij de volwassen leeftijd bereiken. Zij worden hierbij besneden, waarna zij met modder wit worden geverfd. In het wit lopen zij dan rond als wilden (ze zijn immers volwassen mannen die naar niets meer moeten omzien). Moet dit ook onderzocht worden door de VN? Het beeldt immers uit dat een blanke huidskleur daar wordt bezien als iets wild.

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whiteface2

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samedi, 22 novembre 2014

Nicodemus, de Pakkeman, Zwarte Piet: een boeiende geschiedenis

Nicodemus, de Pakkeman, Zwarte Piet: een boeiende geschiedenis

door Harry De Paepe

Ex: http://www.doorbraak.be

'Hij komt! Hij komt!' De pietendiscussie kwam blijkbaar mee. 'Zwarte Piet is een kolonialistisch cliché en een symbool voor slavernij!' Een mens krabt dan eens in zijn haar. Maar in plaats van me boos te maken, neem ik er een boek bij.

Dat de discussie zoveel emotie losmaakt is misschien op het eerste gezicht vreemd. Want, kom zeg, een fantastisch kinderfiguur, moet je je daar nu druk om maken? Het feest van de heilige Nicolaas is een voorbeeldproduct van de Europese cultuur, het is een Germaans gebruik overgoten met een christelijke saus. Het feest legt de ziel van onze voorouders bloot en is dus niet zomaar een verzonnen traditie uit de 19de eeuw.

Zwarte wortels

1989, in nog onverdachte tijden verscheen bij het Davidsfonds een wetenschappelijk boek ‘Van Nicolaas van Myra tot Sinterklaas’. Rita Ghesquiere, doctor in de Germaanse filologie en oud-professor aan de KU Leuven, schreef een nuchter en uitgebreid onderzoek naar de sinterklaaslegende. Het verhaal van Zwarte Piet wordt er ook klaar en duidelijk in uitgelegd en de auteur biedt ook inzicht in de Vlaamse variant van het volksfeest. Hugo Matthysen moest toen nog de prachtige kinderreeks ‘Dag Sinterklaas’ bedenken.

Ondertussen is het gemeenzaam bekend dat Sint en Piet Germaanse wortels hebben. Ghesquiere meldt: ‘Sommige mythologen verwijzen voor de interpretatie van de knecht naar Balder, de zoon van Wodan die met zijn vader meerijdt tijdens de nacht en kijkt of de oogstgaven bij de haard liggen. Van het gluren door het rookgat wordt hij zwart als roet.’  Met andere woorden de Germanen kenden al een roetzwarte begeleider van een vaderfiguur. Echter, andere wetenschappers zijn er niet zomaar van overtuigd dat dit klopt. ‘Voorlopers van de zwarte knecht zijn misschien Hoder (Hother) de wintergod, of nog de grimmige knecht van Thor: Loki. Hoder is de god van de duisternis en de tegenstrever van Balder. Loki heeft als attribuut een mispel- of maretak, terwijl Piet een roede draagt.’ Anderen zien dan weer Nörwi als voorloper, de winterreus en vader van de nacht, die Wodan op zijn tochten vergezeld. ‘Ook hij draagt de gard of levensroede en zou een voorloper van onze zwarte Piet kunnen zijn.’

Duivelse Nicodemus

Interessant is de uiteenzetting over de Duitse benaming Knecht Ruprecht. ‘Sommigen hebben (…) een verbastering gezien van Hruod Perath, een epitheton van Wodan, de roem stralende. Deze interpretatie steunt op het demoniseringsbeginsel en werpt een scherp licht op de ambiguïteit van de sinterklaasfiguur.’ Ghesquiere legt uit dat deze theorie ervan uitgaat dat de Sint en Piet eigenlijk dezelfde figuur zijn. ‘Nicolaas de ‘gekerstende’ geïntegreerde Wodan; de knecht: de gedemoniseerde, verworpen en geknechte Wodan’.  Dit sluit aan bij de Vlaamse variant van Zwarte Piet die, nog bekend bij heel wat vijftigers en zestigers, ook (Sinte) Nicodemus werd genoemd. Nicodemus is eigenlijk een verbastering van Nicolaas. Het betekent dus hetzelfde en in die zin zijn twee figuren dezelfde persoon. Die Nicodemus kon blank of zwart zijn en joeg vele kinderen angst aan met zijn roede en kettingen

Volgens de meer christelijke gerichte versies van het ontstaan van het feest zou Zwarte Piet oorspronkelijk gewoon de duivel geweest zijn. De andere Duitse benaming  Peltzenpock of Pelzenbock zou dan een verbastering zijn van Beëlzebub waardoor hij in Duitsland ook der Schwarze werd genoemd.

De reformatie heeft in vele landen  een einde betekend van de verering van Nicolaas. Nederland is een uitzondering, maar in de andere landen kwam de focus op Kerstmis te liggen, zo verschoof de dennenboom als symbool voor Nicolaas naar een boom voor het kerstekind (overigens, de Kerstman - Santa Claus - bracht in de VS zwart geblakerde kolen bij stoute kinderen). ‘De rekeningen van het gezin Luther vermelden anno 1535/36 nog uitgaven voor het sinterklaasfeest, maar tien jaar later is er sprake van het Kerstkind.’  In Nederland probeerde men tevergeefs het feest met allerlei 16de- en 17de-eeuwse varianten van GAS-boetes uit te roeien.

De variant van het rijke roomse leven

Velen vergeten, of ontkennen, dat Vlaanderen tot niet zo lang geleden een door en door rooms-katholiek land was. Het sinterklaasfeest had daarom veel langer dan in Nederland een religieuze connotatie. Niet zelden namen pastoors de rol op zich van de Sint, die in Vlaanderen in de Hemel woonde.  Een bekend geestelijke uit de 19de eeuw, Guido Gezelle, boog zich in zijn weekblad Rond den heerd  in 1868 over het sinterklaasfenomeen. Rita Ghesquiere citeert: ‘De oude Woensommegang wierd Sint Niklaais nachtprocessie; men zette den Bisschop te peerde, men gaf hem eenen zwarten knecht, met roede en asschenzak, en zei daartegen Sint Niklaai met den duivel.’  

In het Nederlandse boek ‘Het hele jaar rond’ uit 1973 wordt er een hoofdstuk besteed aan ‘Sinterklaas in Vlaanderen’. De knecht wordt hier ‘Croque-Mitaine’ genoemd, ook wel bekend als de ‘Pakkeman’. Wanneer in het geciteerde verhaal  de Pakkeman een kindje in de zak stopt, maant een nonnetje het kind aan ‘rap een kruiske’ te slaan. ‘Au nom du père et du Fils et du Saint-Ésprit’. Croque-Mitaine vlucht. Het doet denken aan de verhalen van mijn grootouders waarbij ze als kind in bed hoorden hoe vader vocht met Nicodemus die Frans sprak. Een zegenende sinterklaas was overigens voor onze niet zo verre voorouders geen vreemd fenomeen, wat mooi wordt uitgebeeld in een fragment uit de televisiereeks ‘De Paradijsvogels’ van begin jaren 1980.

Een goede ziel, geen slaaf

De Sint als hemelbewoner schijnt nog door in de briefjes van de kinderen gericht aan de ‘Hemelstraat’ in Spanje of de Hemel zelf. Felix Timmermans laat in 'De nood van Sinterklaas' uit 1942 Sint en Zwarte Piet uit de Hemel komen. Ernest Claes beschreef in 1947 in ‘Sinter-Klaas in de Hemel en op Aarde’ Zwarte Piet als een schoorsteenvegertje dat het eerste zwarte martelaartje was. Geen slaaf, maar een overtuigd christen die door Sint-Pieter toegewezen wordt aan 'Sinter-Klaas'. Een bron die verwijst naar het slavendom van Zwarte Piet is een theorie uit 1871 van de Nederlander Jan ter Gouw. Ghesquiere noteert: ‘Misschien, zo stelt Ter Gouw, waren er wel moren die werkten als matrozen op de Spaanse galeien en werd de heilige Nicolaas op die manier verbonden met een Spaanse knecht, die in elk geval een donkerder huid kreeg.’ Het is een veronderstelling, geen zekerheid. Het huidige Spaanse uiterlijk samen met de oorringen en het krulhaar zijn een vrij recent Nederlands bedenksel dat in Vlaanderen geleidelijk aan na de Tweede Wereldoorlog aanvaard geraakte.

Je kan dus besluiten dat over de ontstaansgeschiedenis discussie bestaat en ook dat het Spaanse uiterlijk niet echt oud is in ons land. Dat geldt ook voor zijn kindvriendelijkheid, een karaktertrek die hij pas vanaf de zestiger jaren ontwikkelde. Maar over één ding zijn de bronnen het volgens de studie van doctor Ghesquiere het quasi eens: Pieter, Nicodemus, Ruprecht,... hoe je hem ook noemt, is voornamelijk zwart. De verklaring van Matthysen en Bart Peeters dat Piet zwart is door het roet staat dichterbij de historische Germaans-christelijke verklaring dan de bewering dat de knecht een reminiscentie is aan het koloniale verleden.

Meer info? Rita Ghesquiere, Van Nicolaas van Myra tot Sinterklaas: de kracht van een verhaal (Keurreeks van het Davidsfonds, 180), Leuven: Davidsfonds, 1989, 240 p.

 

 

Foto kop: in Oostenrijk gaat de Sint op pad met Krampus, een duivel die stoute kinderen meeneemt en bestraft met de roe.

Foto slot: blz. 80 - 81 uit 'Van Nicolaas van Myra tot Sinterklaas'