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vendredi, 18 décembre 2015

Il sole e gli Dei

 

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Il sole e gli Dei
di Ass. Cultural "Uomini Liberi Uomini Dei"
Ex: http://www.insorgente.com 

Nel sincretismo delle religioni del passato, il concetto di Dio unico prese una forma così generalizzata, tale da disconoscere talvolta il suo nome e la sua reale identità. In altre parole oggi crediamo, almeno nella maggioranza dell'umanità, in un unico Dio solamente perché tutti gli altri sono semplicemente scomparsi dalla scena divina, per ragioni di una cruenta realtà storica che vinse sulla ragione e la razionalità dell'uomo.

Amon Ra, il Dio supremo. Semplicemente Ra, divinità creatrice, custode di un pantheon egizio di Dei ognuno dei quali aveva un suo compito preciso, quello di educare ed accompagnare la spiritualità della civiltà egiziana a considerare l'importanza della vita, della natura e degli astri che influenzavano nell'uomo ogni sensazione di contatto divino tra cielo e terra.

Dopo qualche migliaio di anni, Ra e tutti gli altri Dei lentamente scomparvero dalla scena religiosa, ed emerse Aton, la proposta di un Dio che manifestava tutta la sua sacralità nella materia stessa. Aton, l'adorazione del disco solare stesso proposto dal faraone Akenaton quasi ad enfatizzare un concetto di divinità monoteista che verrà assorbita secoli più tardi dalle principali religioni abramitiche che conosciamo, ognuna delle quali con una propria teologia personalizzata.

Quello che non comprendiamo, è la presunzione delle tre principali religioni monoteiste e cioè che il loro Dio esiste, tutti gli altri no. Per il cristianesimo, l'ebraismo e l'islam, tutti gli altri Dei e le loro antiche tradizioni, i loro culti, sono da considerarsi semplicemente idoli di un passato remoto non solo dimenticato, ma sciocco da ricordare. Per la maggioranza del mondo che presume l'esistenza di un solo Dio, tutto è scontato. L'unica verità marcia a favore di un'ottusità a senso unico e chi la pensa al contrario è subdolo e sacrilego. Chi marcia al contrario è il solito “pagano” rozzo, intorpidito dalla realtà e da chissà quali sciocche e superate credenze popolari. Ma quale realtà? Nel medioevo, la maggioranza delle persone credevano che la terra fosse piatta. Si sbagliavano tremendamente di grosso.

Alle soglie del terzo millennio è inutile continuare a nascondere che il cristianesimo nella rappresentazione della propria immagine divina quale Gesù Cristo abbia attinto per molti aspetti da millenarie tradizioni religiose già esistenti, reinventando l'immagine di culti presenti da migliaia di anni sulla scena politica e religiosa di popolazioni antiche. Se un Dio supremo esiste, dategli pure un nome e un'identità, ma ricordatevi che anche gli Dei esistono anche se a un certo punto della storia vennero semplicemente sommersi e rinnegati dal buon senso e dalla ragione. Almeno un centinaio di passaggi senza equivoco o allegoria possibile dimostrano la loro esistenza nella bibbia stessa.. Per esempio eccone tre:

Giosuè 24,2 “Giosuè disse a tutto il popolo: «Dice il Signore, Dio d'Israele: I vostri padri, come Terach padre di Abramo e padre di Nacor, abitarono dai tempi antichi oltre il fiume e servirono altri Dei”.

Giosuè 24,15 “...Se vi dispiace di servire il Signore, scegliete oggi chi volete servire; Se gli Dei che i vostri padri servirono oltre il fiume oppure gli Dei degli Amorrei, nel paese dei quali abitate”.

I lettera ai Corinzi 8,5-6 “In realtà, anche se vi sono cosiddetti Dei sia nel cielo che sulla terra e difatti ci sono molti Dei e molti signori, per noi c’è un solo Dio...”

E' inutile continuare a rinnegare la storia, l'archeologia e una dottrina biblica veicolata che a volte racconta di più di ciò che si vuole far credere. Subdolo sarebbe continuare a nascondere che la data della nascita divina del Cristo è puramente simbolica e mitologica, collegata al concetto di resurrezione del sole di ogni popolazione antica da nord a sud, da est a ovest del mondo che muterà in un definitivo concetto di resurrezione dell'anima, quando in qualche modo il Dio del sole e della luce o la suprema identità comunicativa diventa un tutt'uno con il faraone, (l'uomo) l'incarnazione del Dio disceso sulla terra, il soter (salvatore) di Platone della Grecia antica.

La resurrezione del sole o solstizio invernale fu e dovrebbe esserlo ancora, semplicemente una festa di luce maggiore, che assieme all'equinozio di primavera annunciava ad ogni popolo della nascita per volere divino della natura e della vita e venne in un secondo momento assoggettata alla nascita simbolica di molti Dei dell'antichità. Per comprendere cosa rappresentasse il solstizio invernale per gli antichi,vi rimandiamo all'articolo che trovate nella sezione cultura del nostro sito datato 21-12-2012 : “Ma cosa è il Solstizio?”

Per capire invece meglio quanto la misticità del sole emergesse dai principali culti egiziani, europei, orientali, greco romani, basterebbe soltanto accertarsi come il sole nascente venisse rappresentato sempre alla sommità o dietro il capo di ogni Dio o Dea maggiore che prometteva luce e verità es. Ra, Hathor, Iside (la vergine col bambino), Krishna, Mitra e molti altri. Per rimarcare come il sole venisse associato per ovvie ragioni alla sacralità degli Dei, troviamo uno dei mille esempi di coniugazione nel monolito di Commagene in Turchia (ex provincia romana) dove gli Dei Apollo, Elio e Demetrio sono scolpiti nella pietra e il sole viene evidenziato, raffigurato sovrastante di essi.

La classica immagine dello stesso Gesù, se ci fate caso, è spesso rappresentata con un sole splendente alle spalle. I santi più importanti per il cristianesimo vengono rappresentati sempre con un'aureola solare alla nuca. Come potete constatare nella foto in anteprima, (mitra o mitria papale medioevale museo di Salisburgo) la sacralità del sole nacque associata al cristianesimo stesso e nel medioevo era ancora molto viva la sua rappresentazione attraverso e non solo le vesti papali. Il sole “cristiano” veniva solitamente raffigurato da uno o più soli d'oro sulle facciate del sacro cappello mentre tutta la sua misticità ritornava a tradizioni lontanissime, quando fu tempo che correnti filosofiche religiose e rituali Esseni si fondessero nel nascente cristianesimo. Così in un passo ci ricorda lo storico Giuseppe Flavio di alcuni rituali Esseni precursori del cristianesimo:

Libro II:128

“Verso la divinità sono di una pietà particolare; prima che si levi il sole non dicono una sola parola su argomenti profani, ma soltanto gli rivolgono certe tradizionali preghiere, come supplicandolo di risorgere.”

Il culto del sole racconta il suo massimo splendore fin dalla nascita del mondo. Il sole, sia esso di creazione divina o naturale possibile, si propone omaggio dell'universo alla vita dell'uomo, della terra e del nostro sistema solare. Ogni occasione era buona per un ringraziamento alla natura che collegava una cultura universale alla luce solare, alla sua quotidiana nascita o resurrezione e che, in qualunque modo possibile, ogni civiltà trovò motivo di personale lode.

A questo punto due riflessioni per le conclusioni. Innanzitutto quando si parla di culto solare o solstizio, sarebbe ora di finirla di tacciarlo come evento “pagano”. Ma che vuol dire pagano? Oggi nella società manca l'informazione corretta del “sacrilego” significato. Il termine viene forgiato con l'avvento del cristianesimo e si diffonde come una sorta di suffisso denigratorio nel generalizzare religioni praticate in precedenza al culto di Cristo.

Ma se nel cristianesimo, come abbiamo visto, il culto del sole o meglio dire in questo caso la nascita del sole viene simbolicamente assimilata e associata alla nascita del Cristo, tra l'altro ripreso per ragioni storiche dalla nascita di Mitra il 25 dicembre, è giusto secondo voi considerare il solstizio un evento volgarmente ancora detto e denigrato di natura pagana? Non sarebbe forse meglio dire semmai, di natura divina?

Il centro dell'universo spirituale dell'uomo è inconfutabilmente iniziato per ovvie ragioni dall'adorazione del sole e le religioni lo “adottarono” come naturale, fondamentale simbologia di vita e di rinascita. Non comprendere il significato, l'importanza della nostra unica fonte di salvezza che rimane ancora oggi innegabilmente il sole, è per noi semplicemente una questione di superficialità e stupidità umana.

Buon solstizio a tutti, quest'anno astronomicamente parlando, sarà il 21 dicembre alle ore 23,03.

Ass. Culturale “Uomini Liberi Uomini Dei”

La forme politique Du Saint Empire Romain Germanique

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La forme politique du Saint Empire Romain Germanique

Extrait de l'ouvrage de Gaëlle Demelemestre, Les deux souverainetés et leur destin, Le tournant Bodin-Althusius, éd. Cerf, 2011, pp. 134-142

Ex: http://www.in-limine.eu

gaelle9782204095174.jpgNous ne sommes pas familiers de la forme impériale développée par le Saint Empire romain germanique réunissant les territoires italiens, bourguignon et germanique à l'origine, émancipant par la suite les deux premiers. Elle s'étend pourtant sur près de neuf siècles, et constitue le grand modèle institutionnel duquel se démarqua l'État souverain. Si Pufendorf a pu le qualifier de « monstre politique », « irregulare aliquod corpus et montro simile », il n'en reste pas moins que sa longévité nous incline à considérer sérieusement la forme institutionnelle de ce pouvoir. Nous en rappellerons brièvement les éléments essentiels, d'un point de vue normatif plus qu'historique. Le titre de Saint Empire romain germanique, das Heilige Römische Reich deutscher Nation, ne commence à être utilisé qu'à la fin du XVe siècle. Mais il n'est encore ni une appellation officielle, ni une seule utilisée pour décrire la situation politique de l'Empire germanique. L'ambition de cette désignation consiste à trouver un critère discriminant d'appartenance des différents peuples germaniques à une structure politique commune.

Son but premier sera donc de distinguer ceux qui appartiennent à la nation allemande de ceux qui sont liés à l'empire sans faire partie de la nation germanique. Il est forgé en réaction à la situation politique contemporaine des territoires germaniques, dont l'appartenance à la structure impériale n'est pas clairement fixée. « La peur de perdre la liberté », suscitée par les incursions nombreuses de souverains non germaniques au sein des territoires germaniques, provoque, à l'origine, un besoin de savoir distinguer les Germains des autres nations.

Une sorte de fièvre obsidionale s'empara d'elle (l'Allemagne). Le vocabulaire des documents officiels reflète cette émotion patriotique. On y trouve de plus en plus souvent après 1430 les mots de deutsche Lande, les « pays allemands ». Ces terres étaient occupées par le peuple allemand, la nation. Une précision était indispensable car au concile, la « nation germanique » englobait les Scandinaves, les Hongrois et les Polonais[...]1

Se caractérisant par la multiplicité des peuples mis en présence, l'Empire germanique court le risque d'un éclatement de sa pertinence s'il ne parvient à trouver un principe d'identification, discriminant ceux qui sont germains et ceux qui ne le sont pas.

Mais lequel trouver si l'Empire se caractérise, par nature, par sa diversité ethnique ?

Le trait qui déterminant l'appartenance à cette nation, c'était la langue, deutsche Zunge. L'Allemagne est donc la patrie de ceux dont l'allemand est la langue maternelle, mais la vocation politique de cette nation s'étend au-delà des frontières de l'Allemagne ; la direction de l'Empire lui appartient. La titulature l'affirme avec de plus en plus de netteté, accolant d'abord en 1441 sacrum imperium et germanica natio, puis utilisant le génitif qui marque la possession, heilig römisches Reich der deutschen Nation ; enfin, en 1486, apparaît la formulation définitive, Heiliges Römisches Reich deutscher Nation. Ces mots ne désignent pas la partie de l'empire peuplée d'allemands ; ils proclament haut et fort que l'Empire appartient aux Allemands.2

Ainsi fut trouvé le critère d'identification des peuples allemands – leur langue -, et avancée la spécificité de leur nature – l'aspiration vers la forme politique de l'empire qu'ils revendiquent comme composante de leur identité.

La signification politique de cette appellation emprunte à l'histoire un cadre de référence très connoté. Si elle recouvre une forme d'organisation politique tout à fait particulière, elle se revendique de la plus grande figure institutionnelle qui soit : l'empire. Le terme de Reich, Imperium, décrit « une puissance de commandement (Herrschaftsgewalt) supérieure3 » qui, par son appellation même, transcende quelque chose – ce dont le génitif « nation allemande » ne rend pas compte. Cette expression à première vue tautologique de Herrschaftsgewalt – Herr-schaft pouvant signifier « pouvoir », ou « domination », et Gewalt « autorité » - décrit pourtant assez bien la nature de l'empire : il repose en effet sur une forme d'autorité pouvant œuvrer par l'utilisation du pouvoir. L'expression mêle deux natures d'obligation différentes. L'autorité n'a en effet pas besoin du pouvoir pour s'exercer ; elle échoue si elle doit utiliser le pouvoir de contraindre. L'obligation commandée par une relation de pouvoir, à l'inverse, use de la capacité à contraindre. Le descriptif d'une autorité disposant en plus d'un pouvoir serait alors contradictoire. En fait, la figure impériale conjugue la forme de l'autorité qui légitime l'usage du pouvoir, et la capacité à en user. Ceci lui confère deux ordres de réalité différents : l'autorité ressort de la légitimité qui lui est reconnue d'avoir des actions positives, tandis que la catégorie du pouvoir traduit son mode d'action. Il s'agit d'une forme de pouvoir légitimée par sa nature impériale. Cette duplicité situe le domaine d'exercice du principe impérial au-delà des autres formes de pouvoir existantes, puisqu'il est celui qui les permet, qui les valide, qui les reconnaît. La réalité impériale se constitue donc en regard d'un ordre de réalité qu'elle dépasse, d'une diversité qu'elle subsume. Nanti de ces deux dimensions, le pouvoir impérial est donc par nature supérieur à toutes les autres formes de pouvoir, qu'il n'est pas chargé de nier, mais de reconnaître en les dépassant.

La première caractéristique de l'Empire est de distinguer et d'héberger trois natures d'obligation : celle engendrée par l'autorité de l'empereur, celle découlant de son pouvoir de contraindre, et celle qu'il fait exister en la reconnaissant, incarnée par le pouvoir des membres de l'Empire. Les schèmes de la forme impériale ne pourront en conséquence pas coïncider avec ceux d'une collectivité structurée par un pouvoir souverain. Dès ce début de définition, nous voyons qu'il n'y aura pas dans l'Empire un seul pouvoir homogène s'exerçant sur un territoire défini, mais à l'inverse une multiplicité de pouvoirs coexistant par l'intermédiaire de leur reconnaissance commune de l'autorité impériale. La réalité impériale ne se caractérise donc pas par la cristallisation unitaire du pouvoir politique, mais à l'inverse comme une transversalité, un principe embrassant par nature un divers dont l'autonomie sera plus ou moins respectée, et qu'il aura comme caractéristique d'unir. D'où sa nature paradoxale, et l'émergence d'une gageure prometteuse : l'empire entend rassembler du différent sans l'unifier, en l'unissant par le biais d'un principe subsumant commun, à l'opposé du mouvement premier de la souveraineté d'homogénéisation de la population. La réalité impériale n'a pas besoin de requérir l'homogénéité de ses territoires parce qu'elle incarne l'universel réalisé pratiquement par la diversité particulière des populations ; concernant le Saint Empire germanique sur lequel nous travaillons ici, « il s'agissait bien plus d'un pouvoir universel, transpersonnel, qui se concevait comme détaché d'un territoire particulier ou d'un peuple4 ».

L'Empire germanique est une réalité transversale, qui regroupe dans la période du Moyen Age des territoires italiens, bourguignons et allemands. Il ne recouvre pas un espace précis parce que les membres de l'Empire y sont rattachés par des traités différents, et peuvent en être soustraits. Ainsi, les cantons suisses prendront leur autonomie de l'Empire, en 1389, sans que cela le déstructure. L'Empire n'a ni frontières naturelles, ni frontières conventionnelles. S'il ne se laisse pas définir par une certaine géographie, l'homogénéité de sa population lui fait encore plus défaut, puisqu'il n'a pas comme condition la nécessité de renvoyer à une population homogène de mœurs, de langage ou de coutumes. L'hétérogénéité de ses territoires et de ses populations fait partir de sa réalité. Si le Saint Empire romain germanique reprend une référence à l'Empire romain, c'est justement parce qu'il entend s'inscrire, comme lui, au-delà de frontières et de populations particulières ; il y a dans la forme de l'Empire une aspiration à l'universel, la tentative de dépasser le particulier par quelque chose de plus englobant, de plus universel, supérieur aux simples déterminations phénoménales. La diversité en son sein n'est pas comprise comme un obstacle à la possibilité de l'exercice du pouvoir, mais à l'inverse comme une de ses composantes.

ottonen.jpgMais l'Empire romain auquel on est renvoyé n'est pas celui de César et d'Auguste ; c'est celui de Constantin. Charlemagne inaugure cette Renovatio Imperii en se faisant couronner par le pape en 800 : l'onction papale seule pouvait assurer la mission sacrée remplie par l'empereur. Par ce geste, Charlemagne entendait reprendre le modèle romain d'une union politique de peuples divers, usant de l'autorité spirituelle pour valider ses décisions. Ce qui réinscrit le mouvement de l'Empire germanique dans la forme de l'Empire romain, et permet à l'empereur de distinguer son pouvoir de celui des autres princes allemands, de le placer dans un rapport de transcendance repris de la référence à l'Empire romain. Il permet de fonder la supériorité du pouvoir de l'empereur et inscrit par là la forme impériale dans le mouvement d'un devenir historique précis, en reprenant le critère de l'universalité et en y adjoignant le critère de protection que son pouvoir devra prendre comme fil conducteur, assumé par l'adjectif heilig.

La Heiligkeit de l'Empire signale en effet la liaison que le pouvoir impériale entretiendrait comme par nature avec le pouvoir divin. Cette désignation inscrit la forme d'organisation politique, par lesquelles les territoires germaniques seront unis, dans des registres très différents. La référence à l'Empire romain renvoie à la volonté de gouverner une multitude de peuples sous un même principe ; la caractérisation de ce pouvoir subsumant comme heilig inscrit la quantité de cette fonction dans le cadre de l'universalité, comme principe rassembleur, sacré. Il signale aussi que le pouvoir d'Empire n'est pas compris dans le seul cadre des réalités terrestres, mais qu'il les oriente vers leur destination spirituelle. Cette appellation n'inscrit cependant pas la réalité impériale dans une dépendance envers le pouvoir ecclésiastique. Otton Ier parvient à allier l'autorité spirituel au pouvoir temporel, mais très vite les revendications du pape se font plus précises. La querelle des Investitures de 1074 à 1123, puis le grand interrègne de 1257 à 1273 et la volonté de se séparer de la logique du pouvoir terrestre provoquent sa sécularisation ; mais c'était alors pour mieux légitimer la nécessaire dépendance de ce pouvoir à l'égard de l'autorité pontificale.

Frédéric Hohenstaufen parvient, à la fin du XIIéme siècle, à asseoir sa légitimité en s'appuyant sur les ducs et les princes, cherchant par là à émanciper le pouvoir impérial de l'autorité papale. Les relations entre le pape et l'empereur seront très conflictuelles, mais assez rapidement l'empereur recevra sa légitimité de son élection, et non de son couronnement. La charge impériale ne sera plus alors dépendante de l'onction, mais du choix effectué par les princes électeurs :

Charles Quint fut le dernier – après qu'il fut choisi roi en 1519 et couronné à Aix-la-Chapelle – à se laisser encore oindre Empereur en 1530 à Bologne par le pape. Par la suite, les empereurs prétendront à ce titre par l'élection de la Diète d'empire5.

ottonIIouIII.jpgMais les deux autorités se heurtent encore violemment. Il était fait usage du célèbre faux de Constantin – la « Donation de Constantin » - pour légitimer les revendications ecclésiastiques6. Frédéric II en inversait déjà la signification, lorsqu'il en déduisait que la compétence impériale ne pouvait être mesurée à l'aune des références spirituelles. Le pouvoir impérial gagnera ensuite rapidement assez de légitimité par l'appui de son mode de désignation – l'élection – pour pouvoir se passer de sa validation par l'autorité papale. Cette évolution se fait cependant progressivement et ne rend pas compte des conflits que les deux pouvoirs, impérial et ecclésiastique, vont nourrir tout au long du Moyen Âge7.

Le titre de Saint Empire romain germanique propose donc un projet d'union, ainsi que les moyens pour y parvenir. C'est l'universalité à laquelle prétendaient ces deux formes de gouvernement sous la même appellation d'empire qui sera retenue : unir dans la différence, trouver un « gouvernement de nations diverses par les mœurs, la vie et la langue8 ». Ce qui permet de retenir comme caractéristique essentielle de l'Empire germanique son aspiration à un gouvernement tendant vers la recherche de l'universalité9. Il faut remarquer que l'agir impérial ne peut pas être comparé à celui du pouvoir divin, comme le fait Bodin ; l'empereur n'est pas le lieutenant de Dieu sur terre. Par contre, c'est l'universalité de l'aspiration divine, le dépassement de la diversité contingente vers une forme de transcendance que la référence au heilig entend signaler. Elle confère la suprématie au pouvoir impérial par rapport à n'importe quel autre monarchie, avant de caractériser la spécificité de ce gouvernement. Il y gagne d'être qualitativement distingué de toutes les autres formes empiriques de pouvoir, ce qui pose son autorité, sa légitimité, et qui constituera la puissance sur laquelle il pourra compter pour être reconnu, quelles que soient les forces qui s'opposeront à ses volontés.[...]

Notes:

1 Francis Rapp, Le Saint Empire romain germanique, Paris, Tallandier, 2000, p. 299

2Ibid

3Barbara Stollberg-Rilinger, Das Heilige Reich Deutscher Nation, Vom ende des Mittelalters bis 1806, Munich, C. H. Beck, 2006, p. 10.

4B. Stollberg-Rilinger, Das Heilige Reich Deutscher Nation, p. 10.

5B. Stollberg-Rilinger, Das Heilige Reich Deutscher Nation, p. 11.

6« Il [Constantin] lui avait en effet paru indigne de posséder la puissance comme empereur terrestre là où trônait le chef de la foi chrétienne, investi par l'empereur du ciel. Sans rien retrancher à la substance de la juridicature, le Siège apostolique avait finalement transmis la dignité impériale aux Germains, à Charlemagne et avait accordé la puissance du glaive à ce dernier par le Couronnement et l'Onction », Ernst Kantorowicz, L'Empereur Frédéric II, Œuvres, Paris, Gallimard, 2000, p. 403.

7Si la caractérisation de l'autorité impériale comme sacrée perd peu à peu sa dépendance à l'égard de l'autorité pontificale, un autre événement provoquera la mise sur le devant de la scène de la religion : la révolution théologique introduite, au XVIéme siècle, par Luther. En justifiant le pouvoir temporel, sans reconnaître de légitimité à une autorité positionnée entre Dieu et les hommes, Luther disqualifie la capacité des pouvoirs ecclésiastiques à exercer une quelconque pression sur les hommes : « Un bon théologien enseigne de la sorte : le vulgaire doit être contraint par la force extérieure du glaive, lorsqu'il a mal agit […], mais les consciences des gens du peuple ne doivent pas être prises au filet de fausses lois […]. Car les consciences ne sont liées que par le précepte venant de Dieu seul, afin que cette tyrannie intermédiaire des pontifes, qui terrorise à faux, tue à l'intérieur des âmes et à l'extérieur fatigue en vain le corps soit tout à fait abolie », Martin Luther, Du serf arbitre, Paris, Gallimard, 2001, p. 104. Cependant, la constitution de l'Empire se caractérise, dès ses origines, par un étroit entrelacement entre les formes spirituelles et temporelle. L'autorité spirituelle avait d'abord son importance pour démarquer l'autorité impériale des autres formes de pouvoir ; même s'il ne fut plus, par la suite, sacré par le pape, l'empereur devait pouvoir incarner l'universalité, telle qu'elle caractérisait analogiquement l'Être divin. Ensuite, s'il fallait retirer aux instances ecclésiastiques les droits qu'elles possédaient et les fonctions qu'elles remplissaient, la question se posait de savoir qui allait les remplacer. Il faudra attendre le traité d'Augsbourg de 1555 pour que le protestantisme soit reconnu comme loi d'empire, au même titre que le catholicisme. Ce traité instaure la loi du cujus regio, ejus religio ; mais les conflits entre les deux religions ne seront réglés pour autant, puisque la Diète elle-même restera bloquée par cette bipartition. Le schisme religieux introduit par Luther permet de prendre la mesure de l'interdépendance entre la politique et la religion de cette époque. Comme le souligne H. Arendt, « Ce fut l'erreur de Luther de penser que son défi lancé à l'autorité temporelle de l'Église et son appel à un jugement individuel sans guide laisserait intactes la tradition et la religion », La crise de la culture, Paris, Gallimard, 1972, p. 168. En brisant l'un des trois piliers sur lesquels reposait implicitement l'autorité impériale, Luther fragilisait l'ensemble de la structure de l'Empire ; c'était la source de l'autorité impériale qu'il attaquait en contestant les pouvoirs de l'autorité ecclésiastique.

8Charles IV, Bulle d'or, 1356.

9« À cette époque [de Frédéric II], la Germanie en tant qu'imperium symbolisa réellement la grande idée de l'Empire romain, unification de toutes les nations et de toutes les races de l'univers. Elle fut le reflet du grand Empire chrétien universel. Elle fut les deux à la fois et devait le rester, la faveur ou la malignité des choses ayant voulu qu'en Germanie fût préservée cette pluralité des peuples et des races, qui correspond en fait à l'idéal d'une grande communauté des rois et des nations d'Europe. Au contraire de ses voisins de l'Ouest, habiles politiques, l'Allemagne demeura toujours l' ''Empire'' », E. Kantorowicz, L'Empereur Frédéric II, p. 364.

samedi, 12 décembre 2015

La senda del samurai

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La senda del samurai

por José Luis Muñoz Azpiri 

Ex: http://culturatransversal.wordpress.com

A la memoria de Moisés Mauricio Prelooker. “Es mejor prender una vela que maldecir las tinieblas” (Confucio).

Desde hace ya muchos años constituye un lugar común entre los “analistas de café” el célebre apotegma de un premio Nóbel de economía que sentenció: “Existen cuatro clases de países en el mundo: Desarrollados, subdesarrollados, Japón y la Argentina”, dando a entender que un país pródigo en recursos materiales y humanos no tiene nada y que otro, sometido a las adversidades del medio geográfico y a las trágicas vicisitudes de su historia lo tiene todo.

Dicha frase a pasado a integrar la larga lista de sentencias autodenigratorias con las cuales la “intelligentzia” y sus voceros que, pontifican respecto a la “nociva” experiencia histórica de los protagonismos populares y nos estigmatizan como representantes del pensamiento arcaico o resabios de ideologías perimidas y arrasadas por los vientos de una discutible globalización. Omiten destacar que el Japón pudo convertirse en un país moderno porque fue atípico, porque se aferró a sus instituciones tradicionales, porque mantuvo en forma inquebrantable su propia personalidad nacional.

El desarrollo japonés se caracterizó por un elevadísimo ritmo de acumulación, sobre todo de capital productivo. La reinversión llegó a la tercera parte del producto en el largo período de prosperidad que siguió a la Segunda Guerra Mundial. El capitalismo japonés fue fundamentalmente austero, no solo en los estratos superiores, sino en toda la población

Los gastos militares, que antes constituían el 7% del producto, se redujeron a niveles insignificantes a partir del gobierno del general Mc Arthur. Por otra parte, el mismo gobierno japonés impuso una reforma agraria más avanzada que la que habían deseado algunos reformadores. El desmantelamiento de las fuerzas armadas liberó a muchos técnicos, que iniciaron modestas empresas que después alcanzaron dimensiones gigantescas. El gobierno y la iniciativa privada incorporaron masivamente la tecnología de Occidente, sobre todo por el envío sistemático de gente a formarse en el exterior. Pero no renegó de sus propios valores ni abjuró de su historia y su tradición. Solo se admitieron las trasnacionales cuando el Japón pudo tenerlas y competir con ellas.

Ahora bien, ¿A qué se debe la austeridad del capitalismo japonés? ¿Algunos pueblos están predestinados a la acumulación previsora y otros al derroche por su carácter nacional o por un determinismo genético? ¿Existe algún fatalismo histórico que lleva a algunas naciones a la prosperidad y a otras a la pobreza y a la dependencia?

Indagando el pasado

En 1543, un barco comercial portugués que iba rumbo a China naufragó en alta mar y después de varias semanas de estar a la deriva encalló en la isla Tanegashima en el extremo sur de Kyushu. Los tripulantes fueron rescatados por los isleños, quienes repararon el buque portugués para que pudieran volver a su patria. Los portugueses, muy agradecidos, hicieron una demostración de “tubos negros que lanzaban fuego estruendosos y simultáneamente dan al blanco con una distancia de más de setenta metros”. El señor feudal de Tanegashima se asombró por la precisión con que alcanzaron el blanco las balas y compró dos ejemplares a cambio de una cuantiosa cantidad de plata. Fueron los primeros fusiles que se conocieron en Japón.

Unos años después, los portugueses volvieron a Japón trayendo muchos fusiles tratando de venderlos bien; pero el precio que lograron no llegaba al nivel esperado. Después de varios días de frustración, los portugueses descubrieron que ya en el mercado japonés estaban en venta gran cantidad de fusiles fabricados por los japoneses. Resultó que el señor de Tanegashima (Tokitaka, 1528–1579), al comprar los dos fusiles, ordenó a su súbdito, Kinbei Yaita, encontrar la manera efectiva de reproducirlos. Kinbei desarmó los fusiles y con la ayuda profesional de los herreros de espadas logró dominar la metodología para fabricarlos.

sam2.jpgLa técnica de manufactura de fusiles fue transmitida a Sakai (en aquella época era el centro comercial “industrial” de Japón; se ubica al lado de Osaka). Los herreros especializados en producir las famosas espadas japonesas dominaban los secretos de cómo forjar el acero y dar tratamiento térmico más adecuado para aumentar la resistencia del metal. Tenían sus talleres alrededor de Sakai y empezaron a manufacturar los fusiles con mejores resultados que los originales en cuanto a la calidad de la puntería y resistencia al calor.

Al principio, los tradicionales señores feudales no reconocieron el verdadero valor de los fusiles. Los consideraban armas cobardes e indignas de un samurai y rechazaron darles un lugar merecido en la estrategia militar. Pero la historia de Japón fue drásticamente modificada a partir de la batalla de Nagashino en 1575, cuyos protagonistas no fueron famosos caballeros con armaduras, lanzas y espadas, sino desconocidos fusileros.

Este episodio, y posteriores, se encuentra en el encantador e imprescindible libro de Kanji Kikuchi: “El origen del poder. Historia de una nación llamada Japón” (Sudamericana, 1993) de obligatoria lectura para quien quiera aproximarse al espíritu nipón. Con este incidente, se inicia una lucha de cuatro siglos contra las tentativas de los “bárbaros del este”, es decir, los occidentales.

Una sociedad jerárquica

Hasta 1867 existía en Japón una estructura de poder dual. El emperador, con residencia en Kyoto, resumía la autoridad religiosa y la santificación de la jerarquía social, pues otorgaba títulos y poderes nobiliarios, pero carecía de funciones políticas reales. El verdadero poder estaba en manos de los grandes señores feudales, los daimyos, entre los cuales descolló Tokugawa, quien dio su nombre a todo este período. El emperador era un personaje sin poder real, relegado a un papel simbólico, de carácter esencialmente religioso. El verdadero jefe de gobierno era el shogun, equivalente al chambelán de palacio de los francos, que ejercía un cargo igualmente hereditario.

Al servicio de los daimyos estaba la casta militar de los samurai y, en la base, los labradores (no), los artesanos (ko), los comerciantes (sho) y los desclasados (hinin, “no humanos”); todos despreciados y oprimidos al no ejercer la actividad guerrera, y sujetos a disposiciones rigurosas sobre vestimenta, prohibición de montar a caballo, etcétera.

Los daimyos y sus guerreros profesionales, los samurai, combinaban una difusa lealtad al emperador y a las antiguas instituciones con una despiadada explotación de los campesinos, cuya situación era tan desesperante que los inducía con frecuencia al mabiki (infanticidio) con el objeto de los niños sobrevivientes pudieran seguir alimentándose.

Los occidentales intentaron repetidas veces poner el pie en el Japón, aunque los shogun, en un intento desesperado de cortar todo lazo con Occidente – llegaron a prohibir la construcción de barcos oceánicos y a castigar con la pena de muerte el arribo de extranjeros. Pero todo cambió con la penetración imperialista: en 1853, cuatro barcos pintados de negro dirigidos por el Comodoro norteamericano M.C.Perry (1794-1858) aparecieron el la bahía de Tokio (Edo de entonces) y exigieron la apertura del Japón. ¿La razón?, aunque parezca increíble: las ballenas.

En aquel entonces, los puertos japoneses se necesitaban como bases de reabastecimiento para los buques balleneros norteamericanos. Los estadounidenses, conquistando la frontera oeste, llegaron a California. La población norteamericana estaba en franca expansión y la demanda de la grasa de ballena, una suerte de petróleo de la época, como aceite para las lámparas y la materia prima para fabricar alimentos y jabones, crecía cada vez más. Al principio, los norteamericanos cazaban ballenas en el Océano Atlántico, pero al exterminarlas (los cachalotes del Atlántico), se trasladaron al Pacifico y pronto se convirtieron en los dueños del Océano Pacífico del Norte. Los buques balleneros salían de su base en California y tomaban a las islas Hawai como base de reabastecimiento. Según la estadística del año 1846, los buques balleneros norteamericanos en el Océano Pacífico sumaban 736 y la producción anual de aceite de ballena llegó a 27.000 toneladas.

Estos buques balleneros persiguiendo cachalotes navegaron desde el mar de Behring hasta la costa norte del Japón. Entrando al siglo XIX, los buques balleneros norteamericanos aparecieron varias veces en la costa japonesa, pidiendo suministros de agua y comida, además de combustible. Porque la autonomía de esos balleneros que navegaban a vapor no era suficiente para un viaje que demandara más de cinco meses. Conseguir la base de reabastecimiento en Japón, o no, era de vital importancia para mejorar la productividad de estos buques factorías. Sin embargo, las autoridades locales de las pequeñas aldeas de pescadores del Japón automáticamente rechazaron a los buques balleneros y ni siquiera les permitieron desembarcar. Para ellos no hubo ningún motivo de discusión al cumplir la orden de la Carta Magna celosamente respetada durante siglos por sus antepasados. A nadie le importaba el por qué del aislamiento. No tratar con los extranjeros era simplemente una regla de juego que había que cumplir so pena de muerte, y punto. La ley de aislamiento ya formaba parte del ser japonés.

El Comodoro Perry volvió a la bahía de Edo en el año siguiente (1854), esta vez con siete negros buques de guerra, y llegó hasta la distancia adecuada para el alcance de sus modernos cañones que apuntaban al castillo y a la ciudad de Edo, y exigió de nuevo la apertura. El Shogunato de Tokugawa, completamente asustado, firmó el acuerdo de amistad con Norteamérica, concediendo dos puertos como base de reabastecimiento para sus barcos: Shimeda y Hakodate.

De esta manera, el aislamiento en que el Japón vivía desde el comienzo del siglo XVII fue levantado a la fuerza por la escuadra de Perry. Ese año arribó al Japón el primer Cónsul General de Norteamérica, Mr. Harris (1804-78). La misión del señor Harris era lograr la firma del Tratado de Libre Comercio bilateral con el Gobierno del Japón. Inmediatamente lograron concesiones similares Inglaterra, Holanda, Francia y Rusia.

Esto contribuyó a desprestigiar al Shogun, y el Emperador, apoyado por una parte de la nobleza, de los samurai que controlaban la flota y el ejército, y de algunas poderosas familias de banqueros, depuso al Shogun, destruyó el poder territorial de la nobleza feudal e impuso un régimen centralizado: un ministerio de quince miembros, fuerzas armadas unificadas, impuestos, administración y justicia nacionales.

El grito que surgió en Japón, sin embargo, fue Isshin: volvamos al pasado, recobremos lo perdido. Era lo opuesto a una actitud revolucionaria. Ni siquiera era progresiva. Unida al grito de “Restauremos al Emperador”, surgió el de “Arrojemos a los bárbaros”, igualmente popular. La nación apoyaba el programa de volver a la edad dorada del aislamiento, y los pocos dirigentes que vieron cuán imposible era seguir semejante camino fueron asesinados por sus esfuerzos de renovación.

Con la misma terca determinación con que se habían negado durante cuatro siglos a todo contacto con los extranjeros (salvo la curiosa excepción de los holandeses, que eran tolerados, pero confinados en una isla artificial) los japoneses se lanzaron a la aventura de vencer a los occidentales con sus propias armas. Se acusó al shogun – uno de cuyos títulos era el de “generalísimo dominador de los bárbaros” – de ser incapaz de impedir la humillación nacional, se le obligó a renunciar y se desencadenó un tsunami bautizado como “Restauración Meiji”.

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La Restauración Meiji

Desde 1867 ocupaba el trono imperial un muchacho de quince años, Mutsuhito, quien adoptó en 1868 para designar su reinado el nombre del año en curso, Meiji (“gobierno ilustrado”). Los eruditos del culto nacional (Shinto) habían ganado mucho apoyo para su concepción de que el Japón era un país superior, por contar con una casa imperial fundada por la Diosa del Sol. Estas enseñanzas – que constituían en realidad la doctrina nacional japonesa – fueron rescatadas por los grandes señores feudales del sudoeste del Japón, que querían debilitar la institución del Shogunato para imponer su propia autoridad.

Cuando el Estado se configura como tal, a partir de la acumulación mercantil, elementos como la religión (transformación cultural del animismo, según algunos antropólogos), queda incorporado al orden estatal como regulador del consenso.

Se levantó así la bandera del “retorno a lo antiguo” (fukkó) y los jóvenes samurai, violentamente antiextranjeros – que se habían vinculado extensamente entre si a través de años de entrenamiento en las academias de la espada, y que a menudo eran pobres – se plegaron al bando de los daimyos del sur, y derrocaron al último shogun, entregando el poder al emperador adolescente, en cuyo nombre se había realizado todo el movimiento.

En 1868 los principales señores feudales fueron convocados al palacio imperial de Kyoto, donde se proclamó la restauración del poder imperial. Al año siguiente la capital fue trasladada a Tokio, y se inició la construcción del Japón moderno.

Para 1889 se había creado una monarquía constitucional fuertemente oligárquica, con dos cámaras: la de los pares, vitalicios, designados por el emperador y elegidos por los grandes propietarios, y la de diputados, elegida por los habitantes que pagan censo (500.000 sobre 50 millones que componían la población total. El apoyo directo del régimen lo constituía la casta militar.

Tales cambios no modificaron la situación del jornalero agrícola, ferozmente explotado, y fueron acompañados por el empobrecimiento brutal de los pequeños campesinos propietarios, que debieron vender e hipotecar sus tierras. Tampoco se evitaron totalmente las tensiones entre la casta militar y la nueva burguesía. Pero la estructura samurai, actuando sobre el capitalismo existente y el poder fuertemente centralizado, dio origen a un desarrollo aceleradísimo, que se benefició del éxodo de los campesinos arruinados y de los obreros agrícolas, empujados por la miseria hacia las ciudades, donde formaron un enorme ejército de mano de obra barata.

La centralización del poder permitió que, en lugar del tradicional laissez-faire de los capitalismos occidentales, se instituyera un fuerte capitalismo de Estado, que mediante la asociación con la nueva oligarquía, dio origen a una rápida trustificación, tanto en la banca como en la industria. El Estado creó y modernizó la industria del hierro, del acero y las empresas textiles, cediéndolas luego a los particulares. Se crearon instituciones bancarias a imitación de las de Estados Unidos, y los comerciantes japoneses, apoyados por el Estado, desplazaron a los extranjeros.

El período llamado Meiji significó así la estructuración en pocos años de una sociedad capitalista centralizada, monopólica, militarista, que producía a muy bajos costos debido a lo económico de la mano de obra. Estaban dadas todas las condiciones para que Japón se lanzara a la expansión imperialista y territorial, en conflicto con las otras potencias, y en primer término con Rusia, con la que debía dirimir la hegemonía sobre la costa asiática del Pacífico.

Pilares de la transformación

Los líderes revolucionario-tradicionalistas estaban convencidos que la fuerza de los países occidentales provenía de tres factores:

– El constitucionalismo, que originaba la unidad nacional
– La industrialización, que proporcionaba fuerza material
– Un ejército bien preparado. La nueva consigna fue: “país rico, armas fuertes” (fukoku-kyohei).

Basados en estas premisas pusieron en marcha drásticas reformas que significaron en poco tiempo la liquidación de toda la estructura de la sociedad feudal. En primer término se obligó a los grandes daimyos a revertir sus propiedades al trono, que era considerado titular de toda la tierra japonesa. Los señores feudales, en una primera etapa, fueron nombrados gobernadores de sus antiguos feudos.

Pero eso duró poco. En 1871 los gobernadores-daimyos fueron convocados a Tokio, se les entregó un título de nobleza, a la usanza occidental, y se les quitaron sus cargos, al mismo tiempo que se declaraba abolido oficialmente el feudalismo. Los 300 feudos fueron convertidos en 72 prefecturas y tres distritos metropolitanos.

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No menos decidida fue la campaña contra la estratificación social que había predominado durante la época feudal. Era fácil otorgar títulos y generosas pensiones a los grandes señores feudales, pero resultaba mucho más difícil reubicar a más de dos millones de samurai y demás dependientes, sin dinero y sin tierras. A éstos se les concedió una pensión igual a una parte de su antiguo estipendio, y cuando la erogación resultó una carga demasiado pesada para el erario, se los sustituyó por bonos del tesoro, inconvertibles y de bajo interés. Se les prohibió también portar espada y seguir exhibiendo su característica coleta.

Pronto las pensiones y bonos se esfumaron, pues la inflación devoró gran parte de su valor. Por otra parte, los samurai carecían de capacidad para adaptarse a las nuevas condiciones imperantes. En 1873, el mazazo final: se instituyó la conscripción obligatoria, con lo cual los samurai perdieron su tradicional monopolio del servicio militar. Hubo motines, por supuesto, pero fueron sofocados. El más célebre fue el de Saigo.

Caballos desbocados

Después de la Restauración Meiji, los samurai que pelearon para derrocar el régimen feudal, advirtieron que habían sido utilizados y que su premio había sido la desocupación y la pérdida de todos sus privilegios. Al hecho de no poder portar katana ni la indumentaria que los había caracterizado durante siglos se sumaba la obligación de tener que trasladarse a Tokio (ex Edo) con el consiguiente abandono de sus castillos tradicionales y la separación de sus súbditos. Era el precio a pagar por la modernización a la que consideraban una traición a los valores tradicionales y nacionales y una imitación servil de todo lo extranjero.

Takamori Saigo, quien fuera Comandante Supremo de las Fuerzas Unidas Reales que derrotaron al Shogunato, surgió por propia gravitación como líder de los descontentos.
Por esa época, al igual que la actual, Rusia porfiaba en lograr puertos cálidos en el sur, que no se congelaran en el invierno (Tal fue una de las principales causas, sino la principal, de la invasión a Afganistán), en algún lugar en la Bahía del Mar Amarillo o en la costa coreana. Por ello el Imperio Ruso se interesaba tanto en Manchuria o en la Península Coreana a las que Japón consideraba vitales para su defensa. Saigo intentó resolver militarmente los dos frentes aprovechando la energía latente de los samurai ora desempleados y planeó la invasión de Corea. El rechazo a sus planes detonó la rebelión de Satsuma de 1877.

Fue la última de las grandes protestas armadas contra las reformas del nuevo gobierno Meiji, y sobre todo contra aquellas que representaban una amenaza para la clase samurai al acabar con sus privilegios sociales, reducir sus ingresos y obstaculizar su tradicional estilo de vida. Son muchos los samurai de Satsuma que en 1873 abandonaron el gobierno junto a Saigo, resentidos por el rechazo a la propuesta de éste de invadir Corea y por el proceso de reforma, que parecía hacer caso omiso a sus intereses. La rebelión surgirá por fin en enero de 1877, acabando con el suicidio de Saigo. Cuenta la tradición que se quitó la vida cometiendo el tradicional seppuku (harakiri) junto con trescientos de sus últimos seguidores.

Junto con Saigo, murieron los samurai como fuerza política vigente. Pero la imagen que dejaron, idealizada y embellecida, renació inmediatamente después de la muerte como símbolo de la ética del pueblo. El espíritu honorable de los samurai y sus almas nobles empezaron a buscar un lugar en el corazón de los ciudadanos comunes de Japón. Hoy se venera su memoria junto a las leyendas de los Marinos de Tsushima, el general Kuribayashi de Iwo Jima o los más de 300 pilotos Kamikaze de la Segunda Guerra Mundial.

Con ligeras variantes, este episodio fue narrado en las novelas de Yukio Mishima, las películas de Kurosawa o en la versión hollywoodense de “El último samurai”.

Cómo generar capital sin endeudarse

La abolición de los señores feudales y la expropiación de sus feudos hizo posible desechar el viejo sistema de tenencia de la tierra e instituir un sistema impositivo regular y confiable. Los líderes del Japón moderno estaban convencidos de que sólo podían y debían depender de sus propios recursos. Para obtenerlos no vacilaron en decretar un impuesto en dinero del 3% sobre los valores inmobiliarios, para lo cual se realizó previamente, en 1873, un censo agrario, determinando sus tasaciones sobre la base de los rendimientos medios en los años anteriores. Este censo permitió también otorgar títulos de propiedad a los campesinos, a quienes se liberó de todas las tabas feudales, dándoles entera libertad para escoger sus propias siembras.

Todas estas medidas requirieron cierto tiempo, y como implicaban cambios fundamentales, hubo momentos de gran confusión y frecuentes desajustes, que provocaron levantamientos y manifestaciones de campesinos. Sin embargo, la entrega en propiedad a los campesinos, junto con las enérgicas medidas adoptadas por el nuevo régimen para promover los adelantos tecnológicos y adoptar nuevos fertilizantes y semillas seleccionadas, produjeron finalmente un enorme incremento en la producción agraria. Sobre esas bases se construyó el Japón moderno, que en tres décadas pasó de sus inofensivos barcos de guerra de madera a una poderosa flota, con la cual el almirante Togo hundió en el estrecho de Tsushima (1905) a toda la flota rusa del Báltico, que acudía a Extremo Oriente para tratar de levantar el bloqueo japonés.

El impuesto a la tierra y la emisión de papel moneda avalado por los valores inmobiliarios se convirtieron durante varias décadas en la principal fuente de recursos del Estado japonés.

En toda su historia, el Japón sólo ha hecho uso de un préstamo inglés de un millón y medio de libras esterlinas.

Así, en el plazo de una generación y contando solamente con sus propias fuerzas, el Japón se convirtió en una gran potencia. Téngase en cuenta para valorar lo realizado, la extrema pobreza del territorio japonés, que obliga a depender tanto del mar como de la tierra para alimentarse. La alternativa consistía en convertirse en una colonia europea o norteamericana, a lo cual Japón parecía predestinado por su carencia de recursos materiales y su falta de tradición tecnológica. Eligió otro camino.

Japón probó que un pueblo asiático era capaz de desarrollar los adelantos técnico-industriales ostentados por los occidentales, y luego enfrentar militarmente a estos, aún derrotándolos, como sucedió con Rusia. El Japón, como ejemplo que demostraba la mentira occidental de una superioridad basada en la raza o en recónditas cualidades espirituales, contó con las simpatía del naciente movimiento nacionalista, tanto chino como indio, indonesio, vietnamita, birmano, malayo o filipino.

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¿Imitación o creatividad endógena?

La autogestión y la imitación, ¿son en realidad dos polos opuestos? Un país que desee acelerar su industrialización debe ser capaz de reconciliar ambos aspectos, como lo demuestra la experiencia japonesa.

En 1875 el gobierno Meiji inició la primera fábrica moderna de manufactura de hierro, en Kamaishi, bajo la supervisión de un ingeniero británico. Durante veinte años habían operado allí pequeños hornos, construidos también conforme a un diseño extranjero, pero sin ingenieros extranjeros. Los hornos habían tenido dificultades financieras, pero técnicamente habían tenido éxito. Con todo, el gobierno ignoró esta tecnología tradicional y prefirió los métodos británicos. Los resultados fueron desastrosos. Al cabo de cien días se acabó en carbón. Después de un tiempo se reanudó la producción utilizando coque. Pero esto dio por resultado la congelación del hierro y el coque en el horno y, así, hubo de clausurarse toda la planta.

La investigación tecnológica e histórica señala las tres causas siguientes del fracaso: había una amplia brecha entre la modernidad de la tecnología en que se basaba el nuevo horno y la forma anticuada de producir carbón: la ubicación de los hornos y el sistema total de transporte no eran adecuados para proporcionar rápidamente materia prima, y el diseño del horno mismo era fundamentalmente defectuoso. Además, la operación era dirigida por extranjeros, quienes no tomaron en consideración las características del mineral de hierro y el carbón japoneses. Debe añadirse una cuarta causa, a saber, la veneración por Occidente que sentía el gobierno. Este fracaso inicial de establecer la industria moderna del hierro en Japón demuestra claramente los peligros de importar tecnología sin prestar atención a las condiciones locales, y también demuestra la ventaja de la tecnología doméstica, es decir, su integración prioritaria con las condiciones locales.

Si deseamos examinar intentos anteriores de crear un moderno sector de la manufactura de hierro, podemos volvernos a la historia de la fundición de cañones. Aquí encontramos lo que se puede designar como el “modelo de la autogestión /imitación”, que podría demostrar ser un ejemplo valiosos para los países actualmente en desarrollo. Los hornos de reverbero en Saga, Kagoshima, Nirayama, Tottori y Hagi se basaban todos en un libro en idioma holandés. Hubo un prolongado proceso de prueba y error: tan solo la mitad del hierro se fundía, los cañones estallaban al primer disparo, etc… Pero no debe pasarse por alto el hecho de que, en medio de innumerables fracasos tuvieron un progreso constante. En efecto, en solo unos cuantos años todos los problemas iniciales habían sido superados y para fines del período Edo (1600 –1868) habían construido alrededor de doscientos cañones, incluyendo tres con rayado en espiral, que eran el último avance en la Europa contemporánea. Pese a innumerables fracasos, la velocidad con que asimilaban la nueva técnica exógena nos parece sorprendente. Ha habido muchos debates acerca de las razones de esta velocidad, pero aquí es de interés especial la posición adoptada por el profesor Shuji Ohashi: Usando sus estudios detallados sobre la metalurgia del hierro en las postrimerías del período Edo, el profesor Ohashi ha mostrado tres etapas diferentes en el proceso de formación de la tecnología del fundido de cañones en Saga. Cada una de estas etapas tuvo su propia contraparte en el desarrollo europeo.

La primera etapa fue el fundido de cañones de bronce. En Japón, este período duró de 1842 a 1859, mientras que la misma tecnología en Europa había permanecido en la etapa del bronce hasta mediados del siglo XVII. En ambos lugares, constituyó la base histórica para el fundido de cañones posterior. En Japón, esta segunda etapa de fundir cañones de hierro tuvo lugar entre 1851 y 1859 y correspondió a un avance que tuvo lugar en Europa desde mediados del siglo XVII a la década de 1850. La tercera etapa, que data de 1863, se centró en la capacidad de hacer cañones rayados de acero fundido. Esta etapa correspondió al desarrollo europeo desde la década de 1840. Debe observarse que, aunque cada etapa cubrió solo un breve período de tiempo, Saga había pasado exactamente por las mismas etapas y en el mismo orden que Europa.

En este desarrollo, confiaron no sólo en su propia experiencia en el fundido de cañones de bronce, sino también en muchos otros logros de la ciencia y la tecnología locales, tales como la elaboración de ladrillo refractarios, la utilización de la energía hidráulica, la aritmética japonesa local y, sobre todo, la totalidad de la tecnología doméstica de manufactura de hierro. Los artesanos desde hacía tiempo habían hecho armas, tales como espadas y pistolas, e implementos agrícolas tales como rastrillos y hoces de hierro en bruto y acero. Las temperaturas de sus horno eran comparables a la de los altos hornos. Así, los artesanos tenían un nivel notablemente alto en el arte del forjado y la fundición, y estaban bien informados acerca del comportamiento del hierro fundido y otros materiales diversos en altas temperaturas.

Sin el apoyo sólido de la tecnología local y de sus propias experiencias en las tecnologías precedentes, no puede esperarse que tenga éxito cualquier intento de imitación. Esto está fuera de toda dudad. Pero ¿podrían haber alcanzado los mismos resultado sin imitación alguna?. Sin duda, pero posiblemente con mucha lentitud. El intento de imitar un modelo occidental sin duda los alentó.

Exactamente debido a que sus intentos de fundir cañones fueron una imitación de tecnología exógena, estos intentos fueron acompañados por problemas nuevos, previamente desconocidos. La resolución de éstos requería de un nivel de destreza tecnológica más alto que el que realmente habían logrado los ingenieros.

Afortunadamente, las brechas que se encontraban cada vez eran lo suficientemente pequeñas como para superarlas. Pero, debido a la presencia de estas brechas, el incremento de sus habilidades puede describirse mejor como una serie de “saltos” en vez de cómo un simple progreso.

sam6.jpgEl desarrollo tecnológico japonés ha conocido muchos saltos así, uno de los cuales, por lo general, se considera como la fecha de nacimiento de la moderna industria del hierro de Japón: el primero de diciembre de 1857 vio encenderse el primer fuego en el alto horno de Kamaishi, un horno de carbón que una vez más se basó en el libro único mencionado arriba. Claro está que, fuera de estos saltos, hubo fracasos, pero también éstos fueron importantes, ya que prepararon a los ingenieros japoneses para su siguiente salto. Esta característica (es decir, una serie de saltos pequeños) del desarrollo tecnológico japonés es extremadamente importante para los países actualmente en desarrollo. En la medida que los países emergentes pretenden alcanzar el mismo nivel tecnológico que los países desarrollados en un período de tiempo más corto, sus planes de desarrollo necesariamente deben diseñarse como una serie de saltos.

Los problemas sociales relacionados con los saltos tecnológicos también deben ser interesantes para los países que inician su propio desarrollo. Los saltos técnicos deben ser vistos en sus contextos sociales e históricos. Pues, aunque en sí es un logro tecnológico, cada salto siempre fue parte inseparable de algún movimiento social histórico. El primer salto surgió de la agitación que comenzó con el choque social ocasionado por la Guerra del Opio y la aparición de buques de guerra occidentales y que terminó con la caída del gobierno Edo. Muchos cañones fundidos durante esa época fueron disparados contra el gobierno de Tokuwaga así como contra escuadrones occidentales. El segundo salto, claro está, estuvo asociado con el gran cambio social después de la Revolución Meiji, y el tercero con la tensión internacional entre la guerra ruso-japonesa. Mas tarde, también, los acontecimientos históricos siguieron siendo el incentivo de los saltos.

Hablando de manera general, en siempre que Japón tuvo siempre éxito en utilizar la pasión nacionalista creada por los períodos de agitación, y emplearla como fuerza motriz para un salto tecnológico. Esto sigue siendo verdad. Por ejemplo, los dirigentes japoneses hicieron uso pleno de la crisis del petróleo en 1973 a fin de crear un sentimiento de urgencia que pudieron aprovechar para el desarrollo integral de tecnología economizadora de energía.

Respecto a los sentimientos nacionalistas como ayuda para crear un salto tecnológico, un período especialmente interesante de la ciencia y tecnología japonesas es el período entre las dos guerras mundiales. La Primera Guerra Mundial impresionó mucho a los japoneses con las virtudes de la ciencia. Mas concretamente, habían sufrido varios tipos de carencias porque hubo que detener ciertas importaciones, y admiraban a los alemanes por haber inventado materiales sustitutos, bajo circunstancias similares, gracias a su ingenio científico. La tendencia que comenzó con esta guerra fue la “ciencia de los recursos”, que significaba la ciencia para asegurarse los recursos y para la invención de sustitutos, así como la ciencia de los “materiales de los recursos”. El problema que Japón había afrontado durante la guerra fue una especie de “dependencia tecnológica” parecida a la que puede verse ahora en los países periféricos. En consecuencia, más tarde se recalcó la independencia respecto de la tecnología occidental.

El respeto a la propia cultura, clave del éxito japonés

¿Cómo puede una sociedad reaccionar a las influencias exógenas y desarrollar capacidades potenciales endógenas? El hecho de que ambas van de la mano se ha demostrado repetidamente a lo largo de la historia. Como hemos visto, la experiencia japonesa misma lo comprueba: Japón fracasó cuando trató sencillamente de importar el conocimiento, sin tener en cuenta las condiciones propias. E incluso Europa lo había tomado en préstamo y lo había integrado, ya que en la temprana edad de este milenio Europa aprendió mucho de la ciencia y técnica altamente avanzadas de las zonas culturales árabe, hindú y china. Este proceso incluyó abundantes ejemplos de imitación y préstamo. Pero, una vez arraigados en la cultura europea, estos elementos exógenos permitieron que surgiera la energía latente en las condiciones domésticas europeas. Y Europa comenzó a desarrollarse rápidamente.

Sobre la industrialización del Japón existen los excelentes estudios del profesor Kazuko Tsurumi, que rechaza la opinión que considera la ciencia y la tecnología como entidades independientes de la cultura de cualquier sociedad en particular. Cada cultura tiene sus propias formas tradicionales de conocer y hacer. Esto significa que habrá un conflicto entre toda la tecnología prestada y la cultura local del país que la pide en préstamo, conflicto que no puede resolverse sino en el momento en que la tecnología se haya integrado a la cultura. El profesor Tsurumi investigó los conflictos en la tecnología local de la manufactura del hierro en el período Meiji en Japón. Este enfoque se recomienda a sí mismo como un método tecnosociológico. Si comparamos los diversos conflictos ocasionados por la importación de tecnología en algunos países, podemos encontrar muchas claves para la comprensión de la relación entre tecnología y cultura social. No obstante, al comparar China y Japón, el profesor Tsurumi siempre parece considerar la autogestión de manera favorable y positiva, refiriéndose a la imitación en términos negativos. Pero sería imposible para los países en desarrollo alcanzar la industrialización sin imitar o tomar a préstamo tecnología. Tal el caso de nuestra industria metalmetalúrgica de aplicación agrícola.

Un país capitalista atípico

Como Rusia, el Japón llegó tarde al desarrollo capitalista. Pero a diferencia de aquella, a partir de la Revolución Meiji de 1867, el sistema feudal fue superado en forma muy acelerada, por un lado; por el otro, también a diferencia de la burguesía rusa, la japonesa, apoyada en un fuerte capitalismo de Estado, logró controlar férreamente el proceso excluyendo del mismo la presencia y penetración del capital extranjero.

La modernización del Japón, ocurrida de este modo, prácticamente se salteó el período del capitalismo de libre competencia, pasando en forma casi directa del feudalismo al capitalismo monopolista. La Restauración Meiji (1868) convirtió al Japón en un país moderno, aunque atípico. En realidad, tendríamos que señalar que pudo convertirse en un país moderno porque fue atípico, porque se aferró a sus instituciones tradicionales, porque mantuvo en forma inquebrantable su propia personalidad nacional.

Ese espíritu independiente se puso de manifiesto en todos los terrenos. En lo referente al desarrollo industrial japonés, este fue totalmente autofinanciado, y los nipones no pidieron el más mínimo crédito a Occidente. Los bancos controlados por el Estado y ampliamente provistos de fondos provenientes de la recaudación del impuesto a la tierra, suministraron todos los capitales necesarios para crear la industria pesada y la liviana. Una vez que se consolidaron las grandes familias (zaibatzu), dotadas de enorme poder económico y político, e integradas en algunos casos por parientes y amigos de los líderes Meiji, se les fueron entregando las plantas industriales. El desarrollo tuvo un ritmo impresionante, pero gracias al bajísimo nivel de vida de la población.

Al mismo tiempo, se producía una profunda revolución político – religiosa. Un decreto imperial de 1890, que amalgamaba elementos confucianos y shintoístas, estableció la política educacional del nuevo régimen. Las lealtades feudales fueron reemplazadas por la lealtad a la Nación, encarnada en la figura mítica del Emperador, como un deber patriótico ineludible. Se inculcó en todos los estratos sociales el ideal samurai del honor y la lealtad, que de este modo se convirtió en la herencia legada por los antiguos clanes dominantes. También quedó claramente en vigencia la veneración por los ancianos – rasgo típico de toda cultura arcaica – y los estadistas de mayor edad, después de abandonar la función pública, integraban una especie de gerontocracia, formando un consejo asesor que mantuvo en forma inflexible la continuidad y la coherencia de la política japonesa.

No se podría comprender nada de lo que ocurrió en Japón en estos cien largos años sin tener presente esta mezcla inextricable de lo antiguo y lo moderno. Y digámoslo con claridad: para que un país se realice debe asumir plenamente su destino y su tradición nacional, es decir, debe de tener como punto de referencia su futuro y su pasado.

En estos términos es posible comprender lo que ocurrió en Japón. En ese país se mantenía totalmente viva, apenas recubierta por un débil estrato feudal, la cultura arcaica, que liga al hombre con su tierra y consigo mismo, esa sociedad que el mundo occidental niega, porque lo toca demasiado de cerca, o que lo relega a los pueblos que llama “primitivos” (Véase al respecto las obras de Pierre Clastres). La Restauración Meiji rescató y permitió el afloramiento de dos aspectos básicos de esta sociedad, en las condiciones históricas muy especiales de ese aislado país insular:

1. la lealtad a la institución imperial, en la cual habían quedado sintetizados y simbolizados todos los valores espirituales de la aldea arcaica, y
2. el odio a los bárbaros es decir, hacia la civilización occidental, en lo cual no se equivocaban en absoluto, porque esa civilización representaba una amenaza clara de destrucción de todos sus valores esenciales.

Civilización y Barbarie

¿Por qué pudieron los japoneses afianzar su existencia como nación ante las presiones de todas las potenciales coloniales?

Disentimos en un todo con las explicaciones reduccionistas de ciertos “analistas” que atribuyen el desarrollo nipón a su espíritu imitativo y pragmático. Esta explicación, elemental por cierto, que atribuye a una civilización milenaria un supuesto deslumbramiento por la técnica y la cultura de Occidente, se da, como hemos visto, de bruces con la realidad, con la historia del Japón. No es otra cosa, que una de las tantas manifestaciones de etnocentrismo occidental.

El Japón evitó ser aplastado e impuso su presencia como nación porque se replegó sobre sus propias tradiciones, que se apoyan en el basamento inconmovible de la cultura arcaica, cimiento insustituible de una comunidad bien organizada.

De este modo se constituyó, como hemos dicho, en el heraldo de las reivindicaciones nacionales de otras naciones asiáticas. Lo logró porque a partir de sus propios valores, plenamente vigentes, antepuso ante todo lo demás su reconstrucción nacional, tras ser el único pueblo del planeta en sufrir una agresión atómica, aceptó una total austeridad, desechó todo lo superfluo y contando solamente con sus propias fuerzas se colocó en dos décadas a la vanguardia de las potencias industriales.

Comprendieron que en el dilema “civilización o barbarie” tan caro al pensamiento de nuestros liberales; que llegaron a importar maestras norteamericanas que ni siquiera sabían el castellano y esgrimieron la consigna para realizar una salvaje campaña de “limpieza étnica” con las montoneras del interior, que civilización es lo propio y barbarie lo extraño. Y los países que lo advierten tienen defensas más eficaces ante el intento la imposición del pensamiento único, mediante el bombardeo masivo de los medios de comunicación donde se ofrece un supuesto mundo racionalista y eficiente. “Un infierno climatizado que nos quieren vender como felicidad” decía Julio Cortázar. Un racionalismo que ha realizado un asalto despiadado e irracional contra el hombre y la naturaleza y una eficacia que se traduce en crisis y guerras eternas.

Al igual que el Japón, debemos afirmar que nuestro propios valores y nuestras propias esencias son más trascendentes, porque hacemos propio el certero axioma de Le Corbusier: “Lo que permanece, en las empresas humanas, no es lo que sirve, sino lo que conmueve”.

Fuente: Una Mirada Austral.

dimanche, 06 décembre 2015

Mantenersi fermi nella notte del mondo. Appunti solstiziali

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Mantenersi fermi nella notte del mondo. Appunti solstiziali

Ex: http://www.ilprimatonazionale.it 

Dicembre. Ultimo mese dell’anno, il mese dei riepiloghi, delle chiusure, delle attese per i nuovi inizi. Il mese di Natale, come è stato in epoca cristiana e ancor più, ancor prima, in tutto il mondo indoeuropeo con le feste collegate al Solstizio d’Inverno, la Porta degli Dei, il momento sacro più importante.

A Roma le festività che si accavallavano in occasione del Solstizio invernale erano addirittura tre: i Saturnalia, dal 17 al 24 dicembre; gli Angeronalia, il 21 dicembre – giorno del Solstizio vero e proprio, quando Terra e Sole sono allineati nel perielio sull’asse maggiore dell’orbita di rivoluzione; infine il 25 dicembre, divenuto il Dies Natalis Solis Invicti sotto Aureliano, il giorno in cui il Sole rende visibile la sua rinascita grazie dell’apparente inversione del suo moto.

Prima che nel periodo imperiale il Sol Invictus divenisse il protagonista indiscusso di queste festività, nel mondo arcaico erano tre le divinità che entravano in gioco in queste feste: Saturno, Angerona e Giano. Angerona è forse la meno conosciuta, una dea rappresentata con il capo velato e soprattutto con un dito sulle labbra chiuse, ad indicare il silenzio. Ma il suo essere meno conosciuta di altre divinità non indica un’importanza minore, anzi. Angerona era la dea che proteggeva i Misteri – si dice anche che proteggesse il Nome Segreto di Roma affinché i nemici non potessero mai scoprirlo e quindi non potessero mai conquistare l’Urbe – era la dea che accompagnava il Mystes, l’iniziato, nel suo percorso.


Era la dea dei segreti sacri più profondi e importanti, la dea dei segreti inaccessibili e non rivelabili, sia perché “pericolosi” per i profani ma anche perché non comprensibili se non attraverso la partecipazione attiva ad essi, essendo sovra-sensibili e soprattutto sovra-razionali. Nel giorno degli Angeronalia, nel giorno in cui il Sole effettua astronomicamente il passaggio, i pontefici osservavano un profondo silenzio e officiavano i loro sacrifici mantenendo una tranquillità polare e immutabile mentre il caos dei Saturnalia dilagava tutto intorno a loro.

Diventavano così incarnazione di quel principio di assialità cosmica e luminosa che regge il mondo rimanendo immutato di fronte all’incessante movimento dei cicli cosmici. Lo stesso principio che, mutuato dal mondo germanico attraverso un sempreverde illuminato, sarebbe diventato l’Albero di Natale, emblema dell’Albero Cosmico.

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Giano, conosciuto dai profani come il “dio bifronte” o “dio degli inizi”, condivideva con Angerona la potestà degli stati di passaggio. Giano ha la stessa radice di “ianua”, ovvero “porta”. Suo simbolo era la nave, l’emblema del viaggio iniziatico in tutte le civiltà, da Odisseo e Argo fino alla Barca Solare dei misteri di Iside e Osiride. Giano è colui che custodisce l’universo e ha il potere di volgerlo sui cardini, come ci dice Ovidio. È colui che ha le chiavi che aprono e chiudono, che legano e slegano, il dio che unisce e dissolve, colui che controlla i due movimenti contrastanti del cosmo attraverso il suo terzo volto, quello nascosto, quello che sintetizza l’unità degli opposti e che di Due fa Uno.

Infine Saturno. La figura di Saturno è sicuramente più nota rispetto alle altre due. Ma paradossalmente il suo essere “più famoso” lo ha reso anche il più sensibile a clamorosi fraintendimenti. Saturno per la maggior parte delle persone è il malvagio titano Kronos che mangia i suoi stessi figli, il dio nero con un carro trainato da draghi che rappresenta le forze divoranti e dissolventi a cui gli dei olimpici si devono opporre. Tutto ciò è parziale e impreciso. Giano e Saturno erano divinità molto legate, quasi inscindibili. Si dice che fu Giano ad accogliere Saturno nel Lazio, divenuto appunto la Saturnia Tellus, dopo che questi fu esiliato dal suo regno dell’Età dell’Oro. Saturno era infatti il sovrano dell’Era che fu prima di ogni inizio, l’Era in cui il tempo non esisteva, l’Era di felicità in cui ogni cosa dava frutto perché ogni potenza diveniva atto – per questo nel Lazio Saturno fu anche divinità agricola che proteggeva il seme nella sua fioritura – l’Era in cui l’uomo era in armonia e unità con il Divino.

Eppure Saturno si addormenta, il suo regno si sospende. E il tempo inizia a fluire, a far invecchiare, a divorare nel suo ciclo di morte e rinascita. Diventa il Kronos dell’immaginario comune, il drago che divora incessantemente, che non riesce mai a sfamarsi, come l’ego che incatena ogni ascesi o come il pensiero associativo che con il suo continuo fluire non permette di fermarsi e passare. Saturno è dunque tanto l’Oro quanto il piombo alchemico. Ma come insegna la stessa Arte Regale, è nel piombo che vi è l’Oro, è dal piombo che si fa l’Oro ed è solo rettificando il piombo che si realizza l’Oro.

Le feste dei Saturnalia che precedevano il Solstizio sono un rituale che realizza esattamente questo processo. Nelle notti più oscure, in cui il Sole-Oro è sempre più avvolto dall’oscurità plumbea della notte invernale, il mondo viene sconvolto dal caos. Ogni ordine sociale costruito tramite una gerarchia evocata dal piano divino viene sovvertito. Gli schiavi comandano sugli uomini liberi, la dissonanza e la perdita delle forme prende il sopravvento nelle città. Viene portata per le strade l’effige di un re vecchio, malato, infermo, un re che divorato dal tempo ha perso l’assialità e quindi diventa preda delle forze caotiche. Ma c’è chi mantiene la calma, il silenzio e la gerarchia, c’è chi conserva i segreti che neanche le forze più vulcaniche e infere del caos possono intaccare. C’è chi mantiene l’assialità quando tutto intorno è caos, ci sono le Angeronalia durante i Saturnalia. Ma chi in silenzio segue i misteri di Angerona non lo fa solamente per “mantenere” i segreti, per “conservare” ciò che è sacro in attesa che il caos finisca e che torni il Saturno dell’Età dell’Oro.

Chi segue Angerona agisce, il Mystes è un soldato, un milite. Egli sa che ciò che è senza tempo non può avere inizio o fine, sa che attendere nel tempo l’inizio di qualcosa che è a-temporale è pura follia. Sa che Saturno celato va risvegliato e che per raggiungerlo c’è bisogno di Giano, il dio sia degli inizi che della fine e che quindi è hic et nunc, in ogni momento e in ogni luogo, in ogni punto di contatto tra ciò che è qui e ciò che è Sopra, tra ciò che è tempo e ciò che è Eternità, proprio come l’Urbe che è anche Orbe fondata nel cuore della Saturnia Tellus in cui regnano tanto Giano quanto Saturno e in cui si può incarnare l’azione sacra che permetta di mantenersi immutabile nel caos e attraversare la porta del guardiano cosmico che veglia sul sonno del dio celato. Solo così la follia che vede al vertice gli schiavi e i loro principi degradanti che rendono schiavi anche gli uomini liberi può aver fine, preannunciando una nuova Era in cui il re vecchio, malato e malfermo può morire e rinascere nel Fuoco per tornare ad essere Re, il Re Saturno che torna al suo splendore a-temporale.

Carlomanno Adinolfi

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jeudi, 12 novembre 2015

LOUIS DUMONT, O QUANDO L’INDUISMO INCONTRA L’OCCIDENTE (E VINCE)

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LOUIS DUMONT, O QUANDO L’INDUISMO INCONTRA L’OCCIDENTE (E VINCE)

Quando un indù aggredisce un unno, non vale perché è indù contro unno

Nel pantheon degli autori di riferimento del panorama comunitarista, spicca certamente il sociologo ed antropologo Louis Dumont (1911-1998): studioso al confine tra l’interesse per le scienze sociali e gli studi legati alla Tradizione, in particolare nel contesto induista ed in parte buddhista.

Perché Il Talebano ha deciso di interessarsi a questo intellettuale? Anzitutto perché il pensiero di Dumont mette in discussione l’intero impianto culturale della postmodernità, attaccando in particolare la visione progressista che vorrebbe interpretare la storia come un lungo cammino di affinamento delle possibilità umane: al contrario, la contemporaneità viene vista come solo una fra le diverse possibilità della società e, anzi, per molti versi rappresenta un’eccezione assoluta rispetto alle civiltà tradizionali. In secondo luogo la conoscenza approfondita dello spirito indiano da parte di Dumont ci consente di dare uno sguardo lontano dagli stereotipi occidentali sulla società indù, una realtà ricca di contraddizioni che però rappresenta ancora oggi uno dei pochi esempi rimasti di civiltà in cui ancora vivono le vestigia della tradizione indoeuropea.

Louis-Dumont_7567.jpegDumont, nato a Salonicco nel 1911, si trasfersce successivamente in Francia, dove negli anni giovanili militerà nel Partito Comunista Francese, occupandosi delle varie sollecitazioni innovatrici della vivace realtà politica parigina. Presto si interessa di etnologia al punto di frequentare i corsi di Marcel Mauss al College de France, contro la volontà dei suoi genitori che lo avrebbero voluto ingegnere. Arruolato nell’esercito francese durante il secondo conflitto mondiale e finito prigioniero in un campo di detenzione tedesco, Dumont nel dopoguerra continua ad approfondire i suoi studi. Nel 1949 fa il suo primo viaggio in India, dove tornerà periodicamente per tutto il corso della sua vita. A partire dal confronto con l’India, comincia a sviluppare la dicotomia fondamentale tra l’Homo Aequalis, tipico dell’Occidente moderno, e l’Homo Hierarchicus. Proprio attorno a questa tematica, Dumont struttura alcuni dei suoi saggi più importanti e riconosciuti (si segnalano in particolare “La civiltà indiana e noi” del 1964 e “Homo Hierarchicus, saggio sul sistema delle caste” del 1966). Svincolando la sua analisi dal pregiudizio secondo il quale la società individualistica rappresenterebbe l’apice di un progresso (da leggere in contrapposizione alla barbarie di un sistema arcaico come quello delle caste), Dumont concentra la sua attenzione su uno dei testi più importanti della tradizione induista: il Sanathana Dharma.

Sarebbe veramente impossibile descrivere in un articolo la potenza del concetto di Dharma, ma approssimando in poche righe per darne un’idea al profano, qui basti sapere che con Dharma si intende l’equilibrio cosmico ispirato alle verità contenute nei Veda, un ordine trascendente che, se rispettato, è garante del Bene. La civiltà indiana ha alimentato per secoli la sua spiritualità di questa sacra legge universale, stratificando attorno ad essa una comunità organica fatta di ruoli e responsabilità, dal cui rispetto è sempre dipeso l’equilibrio della società. In questa totalità ognuno trova un posto correlato alla sua natura: il vertice della gerarchia è rappresentato dai Brahamini, una tipologia umana che vuole dedicare la sua esistenza alla ricerca del vero e del divino, viene poi la casta dei guerrieri (a cui apparteneva lo stesso Gautama Buddha) ovvero i guardiani della comunità, infine troviamo i commercianti. All’interno di questa piramide sociale che a noi occidentali ricorda così da vicino – non casualmente – la Repubblica platonica, è importante sottolineare come ad ogni ruolo corrisponda un determinato carico di responsabilità/doveri: se è vero che il brahamino riveste una posizione di grande prestigio e rispetto da parte delle altre caste, è anche vero che egli sottopone la sua intera esistenza al rispetto di una disciplina rigidissima che governa con codici di comportamento ogni aspetto della sua vita. Al contrario alla base della piramide incontriamo ruoli sicuramente più umili, ma – al di là del rispetto dello spirito comunitario – maggiore libertà di azione individuale.

A questo Homo Hierarchicus Dumont contrappone l’Homo Aequalis, punto di arrivo di un percorso le cui radici affondano forse nella rottura del cristianesimo col mondo antico; uno strappo che si rinsaldò almeno parzialmente col medioevo, ma da cui successivamente si sviluppò l’eresia protestante e tutto ciò che ne è derivato. Facendo riferimento agli studi di Karl Polany, Dumont analizza il percorso di progressivo svincolamento della sfera economica da quella comunitaria, fino alla trasformazione in realtà autoreferenziale ed autonoma tipica della modernità. In questo senso il pensiero espresso da Adam Smith nel suo saggio sulla “Ricerca sulla natura e cause della ricchezza delle nazioni” è forse l’esempio più sintetico della visione propria alla nascente scienza economica: questa nuova scienza si traduce nell’esaltazione del comportamento egoistico dell’individuo, un agire cieco nei riguardi del prossimo e senza riguardi per le ripercussioni sociali, ma che – nel sistema di Smith – è garante di un equilibrio provvidenziale in cui i vizi privati diventano sostanzialmente benefici pubblici.

homo70286492FS.gifSi comprende bene come un tale individualismo si ponga agli antipodi con la concezione olistica/tradizionale: questo non vuol banalmente significare che in passato la totalità delle persone fosse altruista, ma che la comunità viveva coesa attorno a dei valori universalmente riconosciuti. Nell’induismo, per esempio, non esiste l’idea che per essere felici bisogna gratificare il proprio ego, ma vige, piuttosto, il pensiero per cui ognuno debba scoprire il ruolo assegnatogli dal destino e vivere in armonia con esso e ciò che si ha intorno: ciò che gratifica veramente l’esistenza della persona è insomma trovare il proprio posto all’interno della comunità, non emanciparsi da essa. L’individuo induista si concepisce infatti come parte del cosmo e non come un atomo portatore di valori naturali, privo di interdipendenza. Lo stesso asceta che si allontana dalla società non lo fa in nome di un ripiegamento individualista: si tratta piuttosto dell’aspirazione ad una realizzazione metafisico-cosmica superiore a quella basata su una vita comunitaria, ma in cui trionfa sempre lo stesso spirito olistico (non si mette in discussione il valore della comunità in quanto tale), distinto sia dall’individualismo extramondano sia da quello mondano.

Louis Dumont è stato un grande studioso, capace di mostrare come l’Occidente contemporaneo non sia il culmine dell’evoluzione umana, quanto, invece, un’anomalia rispetto alle altre società. Per quanto esso voglia porsi come civiltà universale, in realtà, il suo sapere è “provinciale” ed incapace di comprendere altri orizzonti. Nel rapporto con l’India vediamo, per esempio, due tipi di reazione: da un lato c’è chi è vittima di un complesso di superiorità e non perde occasione di far notare quanta strada la barbara società indiana debba ancora fare sulla grande scala del progresso, di cui noi naturalmente rappresentiamo l’apice; dall’altro osserviamo improbabili fascinazioni new age in cui la grande sapienza indiana si svilisce in una serie di letture maldigerite e pallide imitazioni rituali. La tradizione indù invece, seppur sbiadita, rappresenta di fatto ancora oggi un sistema alternativo in cui si possono udire gli echi di un passato che infondo appartiene a tutte le civiltà indoeuropee, compresa la nostra.

Daniele Frisio

mercredi, 11 novembre 2015

Jean Haudry: Aux sources de notre identité

Jean Haudry:

"Aux sources de notre identité : les racines Indo-Européennes"

Conférence de Jean Haudry "Aux sources de notre identité : les racines Indo-Européennes", organisée par le Cercle Afl Okkat le 07 octobre 2015 à Strasbourg.

Présentation :

L’Europe, confrontée à des défis sans précédent qui menacent de bouleverser irrévocablement son paysage ethnique et culturel, se cherche un destin et s’interroge sur son identité.

L’Europe, ce n’est ni Lampedusa, ni Bruxelles : il ne s’agit ni d’un espace aux frontières fluctuantes, ouvert à tous vents et porteur d’un système de valeurs abstraites et universelles, ni d’un espace économique voué à s’étendre au-delà de l’Atlantique, au mépris des réalités géopolitiques.

L’Europe, c’est d’abord un ensemble de peuples héritiers d’une très ancienne culture commune, vieille de plusieurs millénaires, qui s’est déployée à partir de son foyer originel jusqu’aux confins de l’Asie. De cette matrice, à laquelle les spécialistes ont donné le nom de culture « indo-européenne », sont notamment issues les langues et les civilisations grecques, latines, celtiques, germaniques, baltes et slaves.

Prendre conscience de la richesse de cet héritage commun constitue plus que jamais pour les Européens enracinés un enjeu majeur : « qui contrôle le passé, contrôle le présent », affirmait George Orwell. C’est aussi la raison pour laquelle certains idéologues, s’appuyant sur une argumentation pseudo-scientifique pour promouvoir l’idée de culture « métisse », prétendent littéralement « déconstruire » notre passé en refusant à notre civilisation toute origine spécifiquement européenne.

Ces attaques en règle contre notre « longue mémoire », récemment renouvelées avec l’appui des media, ne résistent cependant pas à un examen scientifique sérieux, prenant en compte les données de la linguistique, de la mythologie comparée, de l’archéologie et de la génétique des populations.

Soucieux de contribuer à la nécessaire ré-information sur ce sujet essentiel, le cercle Afl Okkat fait appel à un éminent spécialiste, le professeur Jean Haudry.

Normalien, agrégé de grammaire, professeur émérite de l'Université Lyon III, ancien doyen de la faculté des lettres, ancien directeur d’étude à l'École Pratique des Hautes Etudes, Jean Haudry est l’auteur de nombreuses études sur la linguistique et la civilisation indo-européennes (notamment deux manuels parus dans la collection « Que sais-je ? »). Il prépare actuellement un « Dictionnaire de la tradition européenne ».

mardi, 10 novembre 2015

Evola e la critica dell’americanismo

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Evola e la critica dell’americanismo

Ex: http://www.centrostudilaruna.it

  evola-oltre-il-muro-del-tempo   Dalla casa editrice romana Pagine sono stati pubblicati recentemente (giugno 2015) gli atti di un convegno tenutosi nel 2014 nella capitale e dedicato al tema “Julius Evola oltre il muro del tempo. Ciò che è vivo a quarant’anni dalla morte”. Il volume, dal medesimo titolo, comprende tutte le relazioni presentate all’epoca, cioè quelle di de Turris, Veneziani, Malgieri, Fusaro e Scarabelli. Qui mi occuperò soltanto del testo di Fusaro, avente come oggetto “Evola e Heidegger critici dell’americanismo”, ed esclusivamente della parte riguardante Evola.

     L’impostazione metodologica di Fusaro è indubbiamente condivisibile: “in filosofia il solo modo di rendere onore a un autore consiste nel discuterne criticamente le tesi, a distanza di sicurezza dai due atteggiamenti – apparentemente opposti e, in verità, segretamente complementari – dell’elogio agiografico e della demonizzazione preventiva” (p. 27). Altrettanto condivisibile, anche se per nulla originale, è l’approccio di Fusaro all’esame evoliano dell’americanismo, in quanto prende giustamente le mosse dal celebre scritto del 1929, Americanismo e bolscevismo, uscito sulla rivista “Nuova Antologia”. Ulteriore aspetto da sottolineare è l’insistenza, corretta, sul ‘maggior pericolo’ rappresentato, agli occhi di Evola, dall’America rispetto all’Unione Sovietica. Ma con ciò si esauriscono, a parere di chi scrive, gli spunti positivi presenti nel testo di Fusaro.

     Questo perché, innanzitutto, va criticata l’impostazione generale dello scritto, dato che Fusaro, insistendo sempre e solo sul parallelismo americanismo/bolscevismo, finisce col perdere completamente di vista le analisi ben più ricche e articolate riservate da Evola alla ‘civiltà americana’. Detto altrimenti, dallo scritto di Fusaro vien fuori un Evola che praticamente dagli anni Venti sino alla sua morte avrebbe letto l’americanismo servendosi di un’unica chiave interpretativa, quella appunto della sua equipollenza con il bolscevismo, con l’ovvia conseguenza di dar vita a una lettura in fondo astorica e iperschematica, del tutto avulsa dai cambiamenti economici, politici, sociali, culturali, nel frattempo intervenuti. Fusaro infatti passa sistematicamente sotto silenzio, non si comprende se per scarsa conoscenza delle fonti o per superficialità analitica, tutti gli scritti in cui Evola non solo rivede, seppur parzialmente, il suo giudizio negativo sull’America, ma dimostra anche di seguire con attenzione i nuovi fenomeni che nello scorrere del tempo prendevano piede oltreoceano, dalla Beat Generation alle tesi di Burnham, dalle posizioni politiche di Barry Goldwater e George Wallace ai testi di Kuehnelt-Leddhin, e così via.

     Non solo, perché anche le critiche rivolte a Evola da Fusaro si rivelano, a mio parere, inconsistenti. Nel dettaglio: Fusaro accusa Evola di incoerenza per aver giustificato la scelta del MSI di votare a favore del Patto Atlantico, pur sottolineando, a ragione, che l’accettazione evoliana del Patto non dipendeva da “un mal celato filoatlantismo” (p. 45) ma si spiegava “unicamente in ragione antisovietica” (p. 45). L’incoerenza consisterebbe nel fatto che essendo, per esplicita ammissione dello stesso Evola, più pericoloso e insidioso l’americanismo, sarebbe in ogni caso contraddittorio schierarsi con quest’ultimo contro il bolscevismo. Qui a me pare che Fusaro non tenga minimamente conto del contesto ‘geopolitico’, pur accusando, al contempo, Evola di essere caduto in contraddizione proprio per aver trascurato il medesimo fattore. La posizione evoliana, infatti, se pure criticabile in astratto, assume forza e coerenza una volta inserita nel concreto contesto di quegli anni, quando la minaccia comunista era avvertita non solo come imminente ma soprattutto capace di condurre all’annientamento persino fisico dello schieramento ‘nazionale’. Basti il rimando ad un importante scritto evoliano apparso nel luglio del 1960 su “L’Italiano”, intitolato C’è un “democratico” con una spina dorsale?, in cui si chiedeva la messa al bando del partito comunista e si auspicava un diretto intervento delle “forze sane” del paese in difesa dello Stato minacciato dal comunismo.

     La seconda obiezione mi sembra ancora più infondata. Fusaro (p. 46) cita estesamente un passo evoliano tratto da un articolo del ’57, Difendersi dall’America, apparso su “Il Popolo italiano”[1], dove viene lucidamente adombrata la progressiva americanizzazione cui stava soggiacendo l’intero continente europeo, aggiungendo subito dopo che, alla luce di questa consapevolezza, suonerebbe decisamente contraddittorio l’appellarsi, da parte di Evola, a una possibile reazione ‘antiamericana’ avente l’Italia come centro propulsivo. A sostegno della sua tesi, Fusaro (p. 47) cita due passi evoliani, uno in cui viene detto che la nazione italiana “più di ogni altra è l’anti-Russia e l’anti-America”, l’altro in cui tale ruolo dell’Italia si spiegherebbe grazie alla sua eroica “tradizione mediterranea, ed in ispecie classica e romana”. Per la fonte di entrambe le citazioni, Fusaro rimanda alla pagina 30 della silloge Civiltà americana, ma il punto è che sarebbe fatica sprecata cercarvi tali citazioni e per la semplice ragione che non ci sono. Lo scritto da cui infatti sono tratte le due frasi di Evola è il già ricordato Americanismo e bolscevismo del 1929[2]. Mi sembra pertanto evidente che pensare nel 1929 ad una realistica contrapposizione nei confronti dell’America non avrebbe nulla di contraddittorio rispetto a quanto sostenuto nel 1957, e questo già solo per l’abissale differenza di contesto storico. Non concordo con Fusaro neanche quando afferma che Evola a tale necessaria reazione in senso antiamericano “rimarrà sempre legato” (p. 47), visto che l’idea di tradizione mediterranea verrà abbandonata dallo stesso Evola già nei primissimi anni Trenta, ragion per cui non si comprende davvero come potesse essere ancora considerata, a distanza di decenni, un credibile argine all’americanismo.

     Per chiudere: Fusaro afferma che l’antiamericanismo di Evola andrebbe epurato “dalle inaccettabili sfumature razziste” (p. 48). Però Fusaro dovrebbe sapere che l’indignazione morale avrà pure molti pregi ma di sicuro non quello di accrescere la comprensione di ciò che è oggetto di riprovazione. Pertanto, piuttosto che usare la solita ‘clava morale’ antirazzista, sarebbe stato molto più proficuo, a mio modo di vedere, chiedersi se l’avvento anche in Europa della società multirazziale di stampo statunitense abbia contribuito o meno, e in che eventuale misura, alla sempre più pervasiva americanizzazione del nostro continente.

* * *

ottobre 2015

[1] Fusaro cita dalla silloge evoliana, Civiltà americana. Scritti sugli Stati Uniti 1930-1968, pubblicata, a cura di Alberto Lombardo per i tipi di Controcorrente nel 2010. Lo stesso articolo si può leggere nella raccolta completa dei contributi evoliani usciti su Il Popolo italiano, curata da Giovanni Sessa per la Pagine Editrice nel 2014.

[2] Saggio volutamente non inserito nella silloge Civiltà americana. Per la corretta individuazione delle due citazioni si veda J. Evola, “Americanismo e bolscevismo”, in Id., I saggi della Nuova Antologia, Edizioni di Ar, Padova 1982, p. 53, ora anche in Id., Il ciclo si chiude. Americanismo e bolscevismo 1929-1969, a cura di G. de Turris, Fondazione Evola, Roma 1991.

lundi, 09 novembre 2015

Une spiritualité de la Forme

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Une spiritualité de la Forme

Pourquoi l’Antiquité gréco-romaine a-t-elle toujours exercé une attraction si forte sur l’homme européen ? L’attribuer tout entière à la fascination que procure l’art antique serait superficiel, car l’art grec tire précisément son prestige du fait qu’il rend visible la nostalgie métaphysique pour un modèle tout à la fois corporel et spirituel. L’art grec, en somme, est lui-même une partie de la religiosité grecque, comme le comprirent déjà Goethe et Winckelmann, puis, à notre époque, un Schefold [archéologue allemand] et un Walter F. Otto. Mais même quand on met l’accent sur la “rationalité” de la Grèce antique — en l’opposant, le cas échéant, à “l’irrationalité” du Moyen Âge —, on ne fait qu’interpréter banalement cette rationalité, on perd de vue sa dimension la plus profonde, où la clarté devient symbole, dans le credo apollinien et olympien, d’une très haute forme de maîtrise de soi.

Dans le monde grec, c’est la préhistoire indo-européenne qui se met à parler. Le premier “verbe” articulé de la civilisation grecque est la religion olympienne. Toutes les obscures luttes préhistoriques du principe diurne contre le principe nocturne, du principe paternel contre le principe maternel, s’y donnent à voir, mais sous une forme qui atteste la victoire de la claire lumière du jour. Apollon a déjà tué Python, Thésée est déjà venu à bout du Minotaure et, sur la colline sacrée d’Arès, Oreste a été acquitté de la faute d’avoir tué “la mère”. Il s’agit là d’une “sagesse poétique”, pour reprendre l’expression de Vico, où s’exprime une conscience nouvelle, une conscience qui fit dire à Plutarque : « Rien sans Thésée. »

Les Olympiens

Un jour nouveau se lève sur les cimes boisées du plus ancien paysage européen, répandant une clarté aurorale identique à la lumière de l’Olympe chantée par Homère :

« À ces mots, l’Athéna aux yeux pers disparut, regardant cet Olympe où l’on dit que les dieux, loin de toute secousse, ont leur siège éternel : ni les vents ne le battent, ni les pluies ne l’inondent ; là-haut, jamais de neige ; mais en tout temps l’éther, déployé sans nuages, couronne le sommet d’une blanche clarté […] ». [Odyssée, chant VI, trad. V. Bérard].

Le jour olympien est le jour de l’Ordre. Zeus incarne avec la spontanéité la plus puissante et la plus digne qui soit l’idée de l’ordre comme autorité. C’est une idée qui, à travers le Deus-pater (Iuppiter) romain, répand sa lumière bien au-delà des débuts du monde antique. Il suffit pour s’en convaincre de comparer la figure de Dieu le Père dans sa version la plus humble et patriarcale du paysan chrétien avec la notion, autrement abstraite et tyrannique, de Yahvé.

Apollon, lui, incarne un autre aspect de l’Ordre : l’Ordre comme lumière intellectuelle et formation artistique, mais aussi comme transparence solaire qui est santé et purification. Il se peut que le nom d’Apollon ne soit pas d’origine indo-européenne, même si la chose n’est pas établie, car l’illyrien Aplo, Aplus (cf. le vieil islandais afl, “force”), va à l’encontre de cette hypothèse, d’autant plus qu’Apollon est le dieu dorien par excellence et que la migration dorienne et la migration illyrienne ne font qu’un. Mais surtout, quand on traite d’histoire des religions, il ne faut jamais oublier que c’est le contenu qui importe, non le contenant.

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L’Artémis dorienne, représentée comme une jeune fille dure, sportive et nordique, n’est pas l’Artémis d’Éphèse aux cent mamelles. Sous un nom préexistant prend forme une figure religieuse profondément nordique et indo-européenne, qui exprime sa nature farouche, athlétique et septentrionale. Une même désignation recouvre donc deux “expériences” religieuses bien différentes. De même, Marie — entendue comme la “Grande Mère”, par ex. dans le cas de la Madone de Pompéi — est différente de la Vierge Marie de Bernard de Clairvaux et du catholicisme gothique. Ce n’est pas seulement la différence existant entre la jeune fille blonde des miniatures gothiques et la “Mère de Dieu” des terres du Sud. C’est la même diversité de vision que celle qui sépare l’Artémis d’Éphèse de l’Artémis Orthia spartiate apparue avec la migration dorienne.

Comme toujours, l’essence de la conception religieuse réside dans la spécificité de sa vision du divin. Une vision non pas subjective ou, mieux, une vision subjective en tant que l’absolu, en se manifestant, se particularise et se fait image pour le sujet. Apollon et Artémis, le Christ et la Vierge sont avant tout des “visions”, des présences saisies par l’intuition intellectuelle, là où “les dieux”, degrés se manifestant à partir de l’Être, sont vraiment. Goethe écrivait à Jacobi : « Tu parles de foi, moi, j’attache beaucoup d’importance à la contemplation » (Du sprichst von Glaube, ich halte viel auf Schauen).

Dans les divinités olympiennes, l’âme nordique de la race blanche a contemplé sa plus pure profondeur métaphysique. L’eusébeia, la vénération éclairée par la sagesse du jugement ; l’aidos, la retenue pudique face au divin ; la sophrosyné, la vertu faite d’équilibre et d’intrépidité : telles sont les attitudes à travers lesquelles la religion olympienne s’exprime comme un phénomène typiquement européen. Et le panthéon olympien est le miroir de cette mesure. De manière significative, même ses composantes féminines tendent à participer des valeurs viriles : comme Héra, en tant que symbole du coniugium, comme Artémis, en raison de sa juvénilité réservée et sportive, comme Athéna, la déesse de l’intelligence aguerrie et de la réflexion audacieuse, sortie tout armée de la tête de Zeus. C’est pourquoi Walter F. Otto a pu parler de la religion grecque comme de l’« idée religieuse de l’esprit européen » :

« Dans le culte des anciens Grecs se manifeste l’une des plus hautes idées religieuses de l’humanité. Disons-le : l’idée religieuse de l’esprit européen. Elle est très différente des idées religieuses des autres cultures, surtout de celles qui, pour notre histoire et notre philosophie des religions, passent pour fournir le modèle de toute religion. Mais elle est essentiellement apparentée à toutes les formes de la pensée et des créations authentiquement grecques, et recueillie dans le même esprit qu’elles. Parmi les autres œuvres éternelles des Grecs, elle se dresse, majeure et impérissable, devant l’humanité. […] Les figures dans lesquelles ce monde s’est divinement ouvert aux Grecs n’attestent-elles pas leur vérité par la vie qui est encore la leur aujourd’hui, par la permanence où nous pouvons encore les rencontrer, pourvu que nous nous arrachions aux emprises de la mesquinerie et que nous recouvrions un regard libre ? Zeus, Apollon, Athéna, Artémis, Dionysos, Aphrodite… là où l’on rend hommage aux idées de l’esprit grec, il n’est jamais permis d’oublier que c’en est le sommet et, d’une certaine manière, la substance même. Ces figures demeureront tant que l’esprit européen, qui a trouvé en elles son objectivation la plus riche, ne succombera pas totalement à l’esprit de l’Orient ou à celui du calcul pragmatique » [Les Dieux de la Grèce, Payot, 1981, p. 31]

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Le monde grec

De même que le monde olympien est toujours resté vivant pour l’Européen cultivé, ainsi la civilisation grecque est demeurée exemplaire pour la civilisation européenne. Il importe cependant de comprendre correctement le sens de cette exemplarité. Si celle-ci devait valoir comme synonyme de scientificité, au sens banalement laïque du terme, alors il faudrait rappeler que l’attitude éminemment rationnelle de l’esprit hellénique n’a jamais été séparée de la foi dans le mythe comme archétype d’une raison plus haute. La rationalité de ce qui est naturel est étudiée et admirée précisément parce qu’elle renvoie à un équilibre supérieur. Chez Aristote, on trouve encore, au début de son traité de zoologie, cette citation d’Héraclite : « Entrez, ici aussi habitent les dieux » Quant à Goethe, il dira que « le beau est un phénomène originel » (Das Schöne ist ein Urphanomen). Mais c’est surtout Platon qui nous communique le sens le plus authentique de la “scientificité” de la pensée grecque, lorsqu’il compare la rationalité d’ici-bas (la “chose”) à la rationalité de là-haut (“l’idée”) et mesure la réalité empirique avec le mètre d’une réalité éternelle. Il est celui qui dans le mythe de la caverne (République, VII, 514-517) illustre la logique ultime de la connaissance : par-delà les ombres projetées par le feu, il y a la réalité supérieure de la lumière solaire. En effet, l’Être, qui est le fond obligatoire de la spéculation hellénique, est aussi ce qui l’empêche de tomber dans l’intellectualisme.

Cette myopie caractéristique qui a confondu le rationalisme des Grecs avec le rationalisme des modernes a également créé l’équivoque d’un hellénisme “adorateur du corps”. Ici aussi, la gymnastique et l’athlétisme grecs ont été saisis avec superficialité. En fait, les Grecs ont exalté l’éducation du corps comme une partie de l’éducation de l’esprit. C’est le sens hellénique de la forme qui exige que le corps également reçoive une discipline formatrice. Le kosmos est l’infiniment grand et l’infiniment petit, l’ordre de l’univers et celui du corps humain. L’instance ultime du monde des corps et de la société est l’Ordre, tout comme l’instance ultime de la connaissance est l’Être.

Mais il va de soi que l’aveuglement principal est celui qui concerne le caractère prétendument “démocratique” de l’esprit grec. Si l’on excepte une brève période de l’histoire d’Athènes, la liberté des cités grecques a toujours été la liberté pour les meilleurs. Les partis aristocratiques et les partis démocratiques ne se séparaient que sur le nombre, plus ou moins grand, de ces “meilleurs”. Mais la masse et les esclaves restèrent toujours en dehors de l’organisation politique de la cité. C’est pourquoi toute la civilisation grecque resplendit encore de cet idéal de la sélection — l’ekloghé — qui a exercé une si grande fascination sur les élites de l’Occident. Julius Evola a résumé comme suit les valeurs exprimées par la Grèce antique à son apogée :

« […] le culte apollinien, la conception de l’univers comme kosmos, c’est-à-dire comme une unité, comme un tout harmonieusement ordonné […] l’importance conférée à tout ce qui est limite, nombre, proportion et forme, l’éthique de l’unification harmonieuse des différentes puissances de l’âme, un style empreint d’une dignité calme et mesurée, le principe de l’eurythmie, l’appréciation du corps et la culture du corps […] la méthode expérimentale dans les applications scientifiques en tant qu’amour de la clarté par opposition aux nébulosités pseudo-métaphysiques et mystiques, la valeur accordée aussi à la beauté plastique, la conception aristocratique et dorienne du gouvernement politique et l’idée hiérarchique affirmée dans la conception de la vraie connaissance » [I Versi d’oro pitagorei, Atanor, Rome, 1959, p. 30].

Ce sont des valeurs qui suffisent à attribuer à l’expérience grecque une place de premier plan dans le cadre d’une tradition européenne.

* * *

La Question d’une tradition européenne, Akribeia, 2014. Tr. fr.: Philippe Baillet.

mardi, 27 octobre 2015

Osaragi Jirö et les 47 ronins

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Osaragi Jirö et les 47 ronins

Rémy Valat
Ex: http://metamag.fr

Nojiri Haruhiko (4 octobre 1897-30 avril 1973), plus connu sous son nom de plume, Osaragi Jirō est un célèbre écrivain de la culture populaire japonaise qui a signé de nombreux romans parus en feuilletons dans la presse. Fils de charpentier, il est le fruit de la méritocratie : excellent élève, il entrera à l’université impériale de Tôkyô (département de science politique) et incorporera le ministère des Affaires étrangères, institution qu’il quittera rapidement pour se consacrer totalement à l’écriture (1924). Il deviendra ultérieurement le conseiller du prince Higashikuni Naruhiko, premier ministre du Japon de l’immédiat après-guerre. Son nom de plume, Osaragi, est une prononciation différente du terme « daibutsu » (大仏) qui signifie le « Grand Bouddha », c’est-à-dire une statue du Bouddha, comme celle sise à Kamakura (Nojiri Haruhiko habitait à proximité de celle-ci). En outre ce pseudonyme est en lien avec l’histoire du lieu puisque les Osaragi étaient des membres du clan Hôjô mentionné dans la chronique Taiheiki qui traite de la fin du shôgunat de Kamakura (1185-1333). 


aaaaajiro.jpgAuteur de fictions de cape et d’épées, de romans contemporains et de politique française (affaire dreyfus, boulangisme, Commune de Paris), l’écrivain est aussi connu pour son adaptation de l’histoire des 47 rônins. Osaragi Jirô publie cette histoire intitulée Akô Rôshi, sous forme de feuilletons paru dans le quotidien Tôkyô Nichinichi Shimbun en 1927. L’oeuvre sera réalisée pour le cinéma par Matsuda Sadatsugu en 1961.

 
Le roman connaît un grand succès, et pour cause, outre les qualités littéraires de son auteur, l’histoire des 47 rônins est un fait d’armes héroïque enraciné dans la culture populaire . En outre, en cette période de nationalisme ardent, la bravoure, l’indéfectible fidélité et l’esprit de sacrifice de ces 47 samouraïs (ou serviteurs) est mise en avant par la propagande ; chaque citoyen-samouraï-soldat ne pesait alors guère plus lourd qu’une pétale de cerisier en fleurs... Ce roman, dans l’esprit d’un Emile Zola ou d’un Alexandre Dumas, et une oeuvre remarquablement documentée, qui nous plonge dans le Japon d’Edo et mêle petites et grandes intrigues, celles des courtisans et des malandrins. Il existe une version aussi tranchante qu’une lame de katana, celle de George Soulié de Morant : je préfère celle-ci à la première pour sa sobriété, et aussi parce qu’elle va et touche l’essentiel, mais ceci est question de goûts. Une excellente traduction de ce monument de la littérature nippone est parue aux éditions Picquier en 2007 (Osaragi Jirō, Les 47 rônins, éditions Picquier, 2007). Le roman a été traduit en français par Jacques Lalloz, et ce dernier a été récompensé du prix de la Fondation Konishi le 14 décembre 2009. Un texte savoureux sans comparaison aucune avec la pitrerie cinématographique d’Hollywood, que l’âme d’Ôishi la maudisse.... 


Osaragi Jirō, Les 47 rônins, traduction par Jacques Lalloz, éditions Picquier, 2007, 896 pages, 27 €

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Comment oublier Halloween avec Chrétien de Troyes

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Comment oublier Halloween avec Chrétien de Troyes
 
Je reprends un sujet qui nous tient à cœur, celui du Graal, qui montrait au Moyen âge le mystère fragile de la civilisation française.
 
Ecrivain
Ex: http://www.bvoltaire.fr

Oublions Halloween sans même polémiquer avec la Bête…

Je reprends un sujet qui nous tient à cœur, celui du Graal, qui montrait au Moyen âge le mystère fragile de la civilisation française. Nous en sommes loin mais ce n’est pas une raison pour ne pas rappeler un aspect méconnu de l’œuvre de Chrétien de Troyes : son noble hellénisme.

Cligès est un splendide roman ignoré. Il tente de réconcilier l’orient byzantin et l’occident après le schisme en montrant la grande unité culturelle de la civilisation européenne. Dès le début Chrétien nous donne ses sources. Car tout le monde enfin oublie de qui Chrétien se réclame : « Celui qui traita d’Erec et Enide, mit les commandements d’Ovide et l’Art d’aimer en français, fit le Morsure de l’épaule, traita du roi Marc et d’Yseult la Blonde… se remet à un nouveau conte, d’un jeune homme qui vivait en Grèce et qui vivait sous le règne du roi Arthur ».

chtr331452-gf.jpgChrétien, venu à la cour de l’empereur Barberousse vers 1180, y avait rencontré l’ambassadeur byzantin. Les chansons de geste byzantines étaient proches des nôtres, et Chrétien explique les liens entre cette littérature et nos prédécesseurs.

Voici ce que nous ont appris nos livres ; la Grèce fut, en chevalerie et en savoir, renommée la première, puis la vaillance vint à Rome avec la somme de la science, qui maintenant est venue en France.

La France avait pris un relais de vaillance et de science. Tout cela s’est fait par une transmission monastique des textes venus des grands auteurs grecs, d’Ovide et de Virgile. Au Moyen âge on fait aussi des « remakes » et des copies bien mimétiques ; ainsi Eneas, ainsi Troie, ainsi Alexandre. Et l’on comprend alors l’omniprésence de l’alchimie grecque dans nos textes bien étudiés par Fulcanelli.

Edmond Faral publia en 1913 un livre magnifique sur Les sources latines et grecques de nos romans de chevalerie. On peut le lire sur archive.org. Il explique que ces sources ont été négligées et que ce n’est hélas pas fortuit.
Il donne même les raisons de cet oubli : le préjugé de la Renaissance qui voit l’opinion publique rendue inculte par son école considérer le Moyen âge comme une ère de Zabulon et le seizième siècle de notre bonne vieille Renaissance comme l’âge de la perfection ultime. Or Victor Hugo souligne au début de Notre-Dame l’effondrement (sic) de l’architecture à la Renaissance.

Edmond Faral :

Affirmer que les romanciers du XIIème siècle étaient nourris de la lecture de Virgile, d’Ovide et de la plupart des bons poètes de l’ancienne Rome, c’est s’en prendre, à coup sûr, quoique indirectement, aux théories qui expliquent la Renaissance poétique française du XVIème siècle par la découverte de l’Antiquité.
Le moyen âge a connu l’Antiquité beaucoup mieux qu’on ne le dit d’ordinaire et, au moins sur la poésie des Latins, on n’était guère moins bien renseigné en 1150 qu’en 1550.

Nous évoquerons avec plaisir les sources celtiques chez Chrétien de Troyes ; mais passé leur Halloween…

jeudi, 22 octobre 2015

Las raíces religiosas del pacifismo

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Las raíces religiosas del pacifismo

por Manuel Fernández Espinosa

Ex: http://culturatransversal.wordpress.com

La insustancialidad del pacifismo rebañego

El pacifismo viene definido por el diccionario de la RAE como: “Conjunto de doctrinas encaminadas a mantener la paz entre las naciones”. Pero esas doctrinas de las que se nutre el pacifismo son muy variadas y es por ello que me propongo hacer una inspección sobre este asunto.

Aunque se pueden traer a colación muchos antecedentes del pacifismo diremos que el pacifismo tiene una médula religiosa, como vamos a tener ocasión de ver abajo. Sin embargo, en un occidente desacralizado, el pacifismo que se estila prescinde de esta dimensión religiosa, ofreciéndose una versión apta para todos los públicos, sin que comporte mayor compromiso que la escenificación más o menos patética de un deseo de paz evanescente.

A falta de un compromiso real que sí puede encontrarse de forma plena en lo religioso hasta el “heroísmo pacifista” (sea la religión que sea), el “pacifismo” occidentalista no deja de ser una ideología que sirve como instrumento de dominio de masas. Su funcionalidad está desnaturalizada y no deja de ser un recurso que el poder económico y político emplea a su conveniencia. Y el mecanismo que este “pacifismo rebañego” sigue es tan simple como lo podemos ver en no pocas de sus manifestaciones de la historia más reciente.

Image: Gandhi en Italie dans les années 20, conversant avec des jeunes garçons du mouvement "Balilla"

BalillaGandhi1931-30b19.jpgUn suceso trágico de índole bélica impacta en la opinión pública, mediante los medios de intoxicación de masas (llamarle “medios de comunicación” sería convertirse en cómplices de las conspiraciones del poder), inmediatamente se desencadena un efecto sobre las masas, recogiéndose lo que se había calculado recoger: lo mismo la adhesión masiva a una intervención militar que la recepción de “refugiados”. El pacifismo fue empleado magistralmente por el comunismo soviético que, durante la Guerra Fría, lo exportó a sus sucursales en todos los países que permanecían bajo la férula estadounidense: se minaba así la combatividad de la opinión pública de los países capitalistas y se neutralizaba cualquier esfuerzo bélico procedente de los gobiernos. Dábase el caso paradójico de que, mientras en occidente los comunistas reclamaban la “paz”, los países comunistas seguían rearmándose. La lección ha sido aprendida por las demás potencias, independientemente de su signo político.

El pacifismo de las religiones de extremo oriente

Prevalece una enorme ignorancia en cuanto a las religiones y no parece que nadie quiera remediarla. Es por ello que se tiende a generalizaciones totalmente equivocadas. Se ha llegado a admitir una clasificación de las religiones en:

Religiones violentas.

Religiones pacifistas.

Entre las religiones violentas, el Islam y el Cristianismo cargan con la peor de las famas: el Islam por su “yihad” y el Cristianismo por sus “Cruzadas” de antaño. Y esto se hace con el máximo desdén intelectual hacia la complejidad que podemos hallar tanto en el Islam (sunnitas y chiítas) como en el cristianismo (protestantes, ortodoxos y católicos). Por ser enormente problemático, este tema lo dejamos a un lado, para centrarnos en el “pacifismo religioso” que es el que nutre al “pacifismo rebañego”. Éste, el rebañego, tiene una imagen parcial de la realidad de las religiones consideradas como “pacifistas”, las de Extremo Oriente y, como es de esperar, no actúa en consecuencia como sí que actuaron los grandes ejemplos del “pacifismo religioso”, el mismo ejemplo que -sin “religión” y degradado a icono o eslogan publicitario- reclama para sí.

Las religiones del Extremo Oriente son conceptuadas como “pacifistas”, lo que muestra el abrumador desconocimiento que el occidental tiene de las mismas.

He dicho más arriba que el pacifismo, en efecto, es de índole religiosa. Puede verse en sus dos figuras mundialmente más representativas: Lev Tolstoi y Mahatma Gandhi. Gandhi ha sido convertido en un icono del pacifismo rebañego, prescindiéndose de sus motivaciones y, por supuesto, sin animar a nadie a reproducir el ejemplo de su determinación.

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Gandhi y la “Ahimsa”

Mahatma Gandhi (1869-1948) empleó el pacifismo por razones estrictamente religiosas, sin dejar por ello de perseguir una finalidad política: luchar incruentamente por expulsar a Gran Bretaña de la India y alcanzar la independencia de su nación. Y este pacifismo gandhiano nunca fue obstáculo para que Gandhi admirara a Benito Mussolini y al fascismo italiano (algo que ignora la mayoría de pacifistas de rebaño). Es cierto que Tolstoi ejerció una formidable influencia sobre el pensamiento de Gandhi, pero la inspiración de Gandhi no hay que encontrarla en el “El Reino de Dios está en Vosotros” de Tolstoi, sino en el concepto religioso y filosófico de la tradición india: la “Ahimsa”. Y aquí debemos aclarar un poco la procedencia de este término sánscrito.

La “Ahimsa” suele traducirse como “no-violencia”, pero sería más apropiado traducirlo como “no hacer daño”. Puede encontrarse en los textos de la “Upanishads”, pero la “Ahimsa” fue asimilada por algunas modalidades del hinduísmo, del budismo y del jainismo. Sin embargo, es tal el desconocimiento de las diversas tradiciones de Extremo Oriente que se considera que todo el hinduísmo, todo el budismo y todo el jainismo la acepta con el mismo rigor. Eso ha dado una imagen de “benevolencia” (muy buen rollo) a estas religiones que está muy lejos de hacerles justicia.

Ahimsa en el hinduísmo

Estas tres religiones son tan antiguas como para haberse ido complicando en su despliegue y su complejidad es más de la que puede sospechar el necio occidental, ese que se apresura a identificar hinduísmo y budismo con la “no-violencia”.

El hinduísmo fue el suelo sobre el que surgieron tanto el budismo como el jainismo. Pero en el hinduísmo la “Ahimsa” no puede entenderse como un concepto permanente en el tiempo ni tampoco generalizado socialmente, dado que la doctrina de las “varnas” (las castas) establece con claridad meridiana que la sociedad hindú se halla estratificada en cuatro órdenes sociales con obligaciones y derechos muy distintos: los brahmanes, los ksatryas (guerreros), los vaisyas (mercaderes) y los siervos (sudras). Atendiendo a la segunda de las castas hindúes vemos que esta religión antiquísima admite la función militar como algo necesario para la defensa de la sociedad. A lo largo de su historia, el hinduísmo ha manifestado que, si bien es cierto que existe una tendencia por el “no hacer daño”, la violencia es algo necesario. Lo vemos clamorosamente en el “Bhagavad Gita” (perteneciente al Mahabharata, aproximadamente siglo III a. C.) En el “Bhagavad Gita”, Krisna (avatar de Visnú) le dice a Arjuna (que duda si combatir a sus parientes):

“¿De dónde este decaimiento
te ha invadido en el riesgo,
impropio de un noble, que aleja del cielo,
que no trae gloria, oh Arjuna?

No vayas a caer en cobardía, hijo de Prtha.
Es algo que no es propio de ti.
La vil debilidad del corazón
arrojando lejos, yérguete, Destructor de enemigos”.

Krisna termina convenciendo a Arjuna de la necesidad de entrar en batalla y aniquilar físicamente a sus adversarios mediante la guerra, en la persuasión de que los muertos que siembre sobre el campo de batalla, bien mirado por encima del mundo de las apariencias, no mueren, puesto que se reencarnarán.

Según el cómputo de las edades que rigen para el hinduísmo, estamos (en nuestros presentes días) en el llamado “Kali Yuga” (la edad oscura) en que abunda la contienda, la ignorancia, la irreligión y el vicio y se vaticina en el hinduísmo que para dar fin al colmo de este exceso del mal vendrá otro avatar de Visnú, Kalki, que destruirá a los demonios para abrir la siguiente edad llamada “Satya Yuga”. Es interesante reparar en el asombroso parecido que muestra la iconografía del Kalki hindú con nuestro Santiago Matamoros.

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Ahimsa en el budismo

El budismo que goza en occidente de tantas simpatías y una proyección considerable no puede tampoco decirse que sea pacifista en bloque. Si bien es cierto que la “Ahimsa” es el primero de los diez preceptos y el primer elemento de la disciplina moral, sería imposible comprender el fenómeno de los samuráis japoneses (budistas) si la “Ahimsa” fuese un precepto practicado en toda su radicalidad. Esto se debe al mismo despliegue del budismo que tan diversos frutos ha dado dependiendo del terreno sobre el que ha florecido, hasta tal punto que no puede decirse que el budismo zen o el budismo tibetano sean lo mismo, por mucho que participen de una base común. La tendencia occidental de considerar el budismo como algo “puro” es un error de enfoque. El budismo tuvo sus propios sincretismos allí donde aterrizó, como ocurrió con el Bön (chamanismo prebudista) tibetano y el shintoísmo japonés.

Ahimsa en el jainismo

Si hinduísmo y budismo son bastante desconocidos en occidente (ver una fotografía del Dalai Lama no es comprender el budismo tibetano, p. ej.), mucho más se ignora el jainismo, cuyo fundador Mahavira (llamado Jina, el Conquistador) fue contemporáneo de Buda. Los jainas están divididos desde el año 79 d. C. en “svetambaras” (tradición más relajada) y los “dighambaras” ´(los más estrictos) que practican el nudismo. Los jainas tienen, a modo de mandamientos, los Grandes Votos (mahavratas) para los religiosos y los Pequeños Votos (anuvratas) para los laicos y aquí la “Ahimsa” se estipula para ambos.

Gandhi encontró en su propia tradición la inspiración para su “Ahimsa”, elemento fundamental del “pacifismo” religioso de Extremo Oriente, pero -como podemos ver- se trata de una de las muchas vías que se proponen en el abigarrado y complejo mundo donde tienen arraigo aquellas religiones. Y, lejos de ser una actitud ampliamente generalizada, el pacifismo religioso es una vía muy particular, abrazada por algunos singulares personajes, no por la sociedad en su conjunto; lo que nunca se les ha ocurrido a los hindúes y budistas es practicar a rajatabla el “pacifisimo religioso”, pues ello, ante la amenaza de un enemigo violento, significaría el exterminio de sus feligresías.

Conclusión

El pacifismo puede dividirse, a nuestro juicio, en dos grandes clases:

-El Pacifismo religioso que nos merece todo el respeto en sus grandes figuras, algunas veces heroicas, pero que es un fenómeno bastante extraño incluso en las religiones que son consideradas como sustancialmente “pacifistas”.

-El Pacifismo rebañego que no es más que la occidentalización del pacifismo religioso, desustanciado y convertido en ideología que sirve a intereses políticos, sobre todo para dominar y debilitar a las masas. Y que no nos merece ningún respeto, como no nos lo merece cualquier cosa que ha dado esa perversión de la Cristiandad que se llama “occidente”.

Fuente: Raigambre

lundi, 19 octobre 2015

Albion’s Hidden Numina - The Land of the Green Man

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Albion’s Hidden Numina
The Land of the Green Man

Carolyne Larrington
The Land of the Green Man: A Journey Through the Supernatural Landscapes of the British Isles
London: I. B. Tauris, 2015

Is Britain the most mystical of all countries? It certainly seems that way to me, but then I’m irreparably biased. Whilst every human culture has its own folklore, the magic seems more potent, more alive, when it’s our own. “The myth is not my own, I had it from my mother,” as Coomaraswamy (quoting Euripides) would have it. Carolyne Larrington’s new book, The Land of the Green Man, will appeal to anyone who, like me, has an unquenchable thirst for tales of the supernatural inhabitants of the isles of Albion.

Perhaps my only reservations about this book are its cover and title. Stumbling across it in a bookshop, the serious student of folklore might assume that it’s just another new age effort seeking to stitch together a few disparate tales into an overarching and unwarranted key to all mythologies. This would be a great shame as The Land of the Green Man is a fascinating discussion of a living tradition of folklore which is based on sound scholarship. As a scholar of Medieval Literature, Larrington is well placed to bring an academic perspective to these matters. In fact, I was previously aware of Caroline Larrington from her English translation of the Poetic Edda although I have always found that translation to be too academic for my tastes. It certainly doesn’t stand up to reading aloud as well as Henry Bellows’ old-fashioned but rhetorically fine-tuned translation. But it does demonstrate Larrington’s immersion in the sort of mythological matrix that often underlies folk traditions. Her ear for the rhythms and structures embedded in folklore is finely attuned and it lends an authoritative depth of understanding to her various interpretations of ballads, fairy tales, and local stories.

The book is divided into six chapters, each of which deals with a particular thematic concern: “The Land Over Time,” “Lust and Love,” “Death and Loss,” “Gain and Lack,” “The Beast and the Human,” and “Continuity and Change.” Often, books that attempt to compile together folkloric material will group it together by county or town, like Westwood and Simpson’s The Lore of the Land. Steve Roud’s The English Year structures the material according to its place in the calendar. Inevitably, I always end up consulting The Lore of the Land for the areas that I am familiar with and I always read The English Year during the first few days of January when I remember that I own it. By eschewing the gazateer/ritual year approach Larrington has written a book that benefits from a coherent narrative flow.

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The approach throughout is to introduce a topic through a few relevant stories and then to tease out those aspects that are relevant to the chapter’s subject. Other examples of similar motifs are then brought to the discussion. So, in the chapter on “Lust and Love,” the ballads of “Thomas the Rhymer,” “Tam Lin,” and “The Elfin-Knight” are recounted and discussed and the threads discovered there are traced through Hayao Miyazaki’s animation, Spirited Away, Christina Rossetti, Harry Potter, and Susanna Clarke’s novel Jonathan Strange and Mr Norrell.

Larrington’s interpretations of the inner meanings of folkloric material do tend to veer towards what we might call the materialistic. That is, she approaches each chapter looking for a sociological or ideological understanding of the material at hand (as the chapter titles indicate). But there are two things that prevent this from being a dull, reductionist reading of the folklore.

The first is that she has a terrific understanding of the inner meanings of folk tales. For instance, she discusses the multiple occasions when the elfish denizens of the Otherworld distort what people see by applying magical ointment to their eyes, or by other methods. Typically, this is to hide their true nature as Otherworldly creatures and to make them appear as human. Inevitably, at some point the magic stops working, and the elf is seen for what he really is. When Larrington then says that the restoration of correct vision is, “a proxy for a loss of innocence, a fall into knowledge and desire which has irreversible consequences,” this does not feel like a forced interpretation of the texts. Instead, it comes across as something that emerges naturally from multiple stories; it is not distorted or over-emphasized in order to support a pre-existing ideological position. The conclusions are allowed to arise from the material.

The second thing that elevates the book is Larrington’s consistent understanding that folklore is a living and evolving tradition, not simply a matter for archiving. This leads to some very interesting connections being made between the archaic material and contemporary culture. Perhaps unsurprisingly, Larrington discusses Alan Garner and Susan Cooper’s use of myth and folklore in their novels, and the work of J. R. R. Tolkien, but some of the other references are less expected. In the chapter on “Death and Loss,” she discusses not only the BBC’s Sherlock, but also Nick Drake and the glam rock band The Darkness. Lest it be thought that these references are casually thrown in to widen the appeal of the book, it is worth emphasizing that Larrington always relates them to specific folkloric material (the three examples above are all to do with black dogs: Baskerville, Black-Eyed Dog, and Black Shuck respectively).

This approach leads to some really lively discussions and throws up a few surprising notions. In a section on house-elves, Larrington discusses Dobby, the house-elf from J. K. Rowling’s Harry Potter books. In these books, the house-elves work as slaves, without any payment, just as traditional house-elves do. But in Harry Potter, Hermione decides that they need to be liberated. They are, “classic victims of false consciousness, as Marx might have put it” (p. 147). Hermione’s efforts are apparently unsuccessful because the house-elves have no desire to change their ways. “Hermione’s idealism is that of the liberal do-gooder. In failing to consult the house-elf constituency she alienates those whom she is trying to help: the classic dilemma of the intelligentsia trying to persuade the workers of what’s good for them . . . Dobby’s failure to engage his fellow elves in revolutionary struggle . . . hints at Rowling’s cynicism about the politics of the left” (p. 148). This is not the sort of thing I was expecting from Land of the Green Man, but it’s a wonderful analysis, and it gives a good sense of the work’s scope.

At the end of the book, Larrington discusses the history of the Green Man himself, pointing out that he has no real folkloric associations. But, she argues, this does not necessarily matter, because the twentieth century “creation” of the Green Man as an ancient vegetation god answers some of that century’s anxieties: “It’s hard to read the expression in his face; if he’s smiling it’s an enigmatic smile, hidden among the foliage. Neither kindly nor welcoming, his stare suggests a countryside that has become deeply alienated from the modern human” (p. 232). And it’s in this understanding that Land of the Green Man differs from many other books on folklore. Larrington is too much of a scholar to try to pretend that the Green Man is an authentically ancient symbol of the woodland but she is also too receptive to the power of living symbols to deny that he is, in some sense, “real.” Unlike most other writers on the subject, Larrington seems to understand that new gods can, and must, be born.

The Land of the Green Man is an essential read for anyone interested in the wyrd history of Albion. Carolyne Larrington does an admirable and convincing job of demonstrating that whilst this story has had a varied and strange past, it is continuing to progress towards a numinous future.

Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2015/10/the-land-of-the-green-man/

URLs in this post:

[1] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2015/10/GreenMan.jpg

[2] The Land of the Green Man: A Journey Through the Supernatural Landscapes of the British Isles: http://www.amazon.com/gp/product/1780769911/ref=as_li_tl?ie=UTF8&camp=1789&creative=390957&creativeASIN=1780769911&linkCode=as2&tag=thesavdevarc-20&linkId=ODNF6ULM7TBG6VIH

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jeudi, 15 octobre 2015

El viejo arte de morir

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El viejo arte de morir

7.95€

¿Buscamos realmente vínculos entre nuestro entorno y nuestra propia identidad? 
¿Existe un hilo conductor entre lo escrito y nuestro Yo?
¿Qué hay de trascendente en “El viejo arte de morir”?

¡¡UN LIBRO QUE TE TRANSPORTARÁ A LO MÁS PROFUNDO… !!

http://editorialeas.com

Descripción del Producto

¿Qué buscamos exactamente en la poesía?

Me atrevo a afirmar que el lector trata de encontrar primero, en los libros de poemas, algo con lo que identificarse: una experiencia común, un malestar general, un vínculo que pueda establecer la conexión entre quien lee y su entorno mediante los hilos que traza el poeta en forma de versos. Ésa es la razón por la que algunas composiciones se convierten en emblemas: en palabras pintadas en una camiseta, en un tweet, en un grafiti, incluso en la puerta de un baño público o en la carpeta de una adolescente.

David Vázquez, en su nuevo poemario, logra eso tan difícil: que hagamos nuestras sus emociones. Que nos sintamos afectados por lo que al poeta le va pasando y notifica en estas páginas: desamores, pérdidas, días de luto, nostalgias y esa antigua herida del pasado que sigue sin cerrarse. El viejo arte de morir es en realidad el viejo arte de vivir, porque uno se va muriendo mientras vive, porque David Vázquez sabe que hay una línea demasiado delgada entre los miedos y los compromisos, en cómo necesitamos, a diario, una gran dosis de lucha y un esfuerzo inconmensurable para afrontar lo que nos arrastra al pozo. Lo sabe, y lo ha transmitido en estos poemas.

José Ángel Barrueco

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mardi, 29 septembre 2015

Archerie et arts martiaux japonais

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ARCHERIE ET ARTS MARTIAUX JAPONAIS

Le paradis perdu

Rémy Valat
Ex: http://metamag.fr 

Le Sentier, la Voie « n’est rien d’autre que le méridien central sis au cœur de la moelle épinière à travers lequel le pratiquant au cours de sa vie cherche à s’élever de l’obscurité (l’ego) vers la lumière (le Soi). » Michel Coquet, "Le Kyûdô".


L’histoire des guerriers japonais, leurs techniques de combat et leur éthique fascinent le public occidental. Études, romans, films, animations et mangas nous offrent une image souvent trompeuse sur ces hommes dépeints comme des fanatiques, des serviteurs zélés, fidèles jusqu’à la mort, le drame de la Grande Guerre en Asie, venant pour beaucoup, confirmer cette interprétation des guerriers japonais. La guerre terminée, le Japon pacifié et placé sous tutelle nord-américaine, s’efforce d’oublier ce passé violent et militariste et de forger une nouvelle image, que l’on appelle depuis peu, le Cool Japan. La soif du public européen et nord-américain pour une spiritualité exotique, et par conséquent plus vrai, plus authentique, a favorisé le développement en Occident des arts martiaux modernes, exportés du Japon.

Le budô, apparu au début de l’ère Meiji, représente aujourd’hui l’image que le Japon et les Japonais souhaiteraient se donner d’eux-mêmes au monde. Un grand écart donc entre le Hagakure de Yamamoto Tsunetomo (et son apologie contemporaine, Le Japon moderne et l’éthique samouraï de Mishima Yukio) et les publications contemporaines sur les arts martiaux mettant en avant le développement personnel masquant en réalité, dans le cas du kendô par exemple, une activité sportive occidentalisée. Le livre de Michel Coquet, « Le kyûdô, art sacré de l’éveil », paru cette année aux éditions du Chariot d’Or (groupe éditorial Piktos) apporte un éclairage « objectif », reposant sur une longue et sincère "expérience" de la méditation, des arts martiaux en général et du kyûdô en particulier. Il existe une multitude d’ouvrages sur un sujet vendeur qui fait le bonheur des auteurs et éditeurs spécialisés, dont il ne faut pas diminuer l’importance et le rôle dans la connaissance- et bien souvent la méconnaissance - de la culture martiale japonaise. Il est préférable de jeter un voile pudique sur le manque de fondement (et de profondeur) de certains de leur propos (tel ce grand maître de ïaïdô japonais au « keikogi » bariolé, qui nous laisse découvrir non seulement des techniques prétendument avancées, apprises dès la première année au Japon avec un professeur digne de ce nom, mais aussi son beau caleçon bleu...).


kyudo82360470525.jpgLoin du tape-à-l’oeil, Michel Coquet, né en 1944, a sincèrement voué sa vie à l’apprentissage des arts martiaux japonais (karaté, kenjutsu, ïaïdô, kyûdô, aïkidô, etc.), un apprentissage spirituel, car le budô, la voie du guerrier, ne peut être assimilée à un sport ou à une discipline olympique (tel le judô, et comme une partie de la fédération internationale de kendô le souhaiterait). Au Japon, une grande compagnie de sécurité sponsorise des lutteurs, des kendôkas, et les "matches de sumo" flairent bon le business... Actuellement le budô inclut de multiples disciplines, comme le judô, le kyudô, sumô, l’aïkidô, shôrinji kempô, naginata, jukendô : le guerrier de jadis est aujourd’hui éclaté en de multiples disciplines édulcorées. En somme, « budô » désigne les « arts martiaux » depuis l’ère Meiji (1868-1912). Avant cette date, on employait les termes de « bugei » et de « bujutsu », et même « l’ancienne voie du guerrier », ou « kobudô » est un néologisme. Bugei, ou l’ « art du guerrier » est une appellation caractéristique de la période d’Edô, où l’art militaire s’inspirait des autres domaines artistiques, comme le noh (pour les déplacements et les postures) ou la cérémonie du thé (les katas), ce qui manifestait une volonté d’esthétiser les techniques de combat. 


Les auteurs contemporains rappellent non sans raison que l’idéophonogramme désignant le guerrier « bu » (武) se décompose en « hoko », partie supérieure du tracé ressemblant à deux lances entrecroisées signifiant « lance, hallebarde » et, dans sa partie inférieure « tomeru » (止arrêter), soit une idée défensive, proche de l’idéal de la shinkage-ryu, le « sabre de vie ». L’interprétation la plus satisfaisante, car la plus ancienne, rappelle que le radical « tomeru » serait dérivé d’un idéogramme d’une graphie proche signifiant « pied » ce qui désignerait l’homme portant les armes pour la bataille ou le fantassin. Une autre, toute aussi pertinente et en relation avec l’objet du livre de Michel Coquet, serait que l’ensemble du kanji « bu » serait un dérivé d’un autre idéogramme homophone désignant la « danse », en particulier dans sa dimension religieuse, ce qui souligne la place de la spiritualité dans les arts martiaux depuis leur origine. 


La « Voie » (道) est un terme polysémantique signifiant prosaïquement « point de passage », « voie », « distance », un terme qui se réfère aussi à des concepts philosophico-religieux, comme une manière d’agir, un domaine de la connaissance, une discipline, un état, une essence, un secret... Dans la Chine antique, et en particulier le taoïsme, il était employé en référence aux grands principes de l’univers. Dans son acception contemporaine, « dô » insiste sur l’importance spirituelle, et non uniquement sportive ou physique, de l’individu. La « Voie » est un moyen de développement et d’accomplissement personnels. Le kyûdô est celle de l’arc, un chemin comme tant autre susceptible de conduire à l’éveil (au sens bouddhique du terme).


Après l’invention du propulseur, l’arc est la première machine issue de l’imagination humaine, une machine autonome permettant de dépasser les limites de l’anatomie, une machine permettant de tuer aussi bien pour se nourrir que pour assurer la défense du groupe. Elle était l’arme de prédilection des communautés de chasseurs-cueilleurs, et pour tous ces motifs cette arme faisait l’objet de vénération (lire Michel Otte, À l’aube spirituelle de l’humanité, Odile Jacob, 2012). Dans son ouvrage, Michel Coquet se concentre sur l’aire culturelle asiatique, et en particulier l’antiquité du sous-continent indien, la Chine et le Japon. L’arc tient une place importante dans les mythologies et les traditions asiatiques (et indo-européennes, il suffit de se rappeler les épreuves infligées par Pénélope à ses prétendants...): l’auteur consacre un beau chapitre à la lecture et à la compréhension du « joyau spirituel » qu’est la Bhagavad Gîtâ", mythe mettant en scène l’archer Arjuna, engagé dans une bataille plus spirituelle que militaire, la bataille pour la réalisation de soi. 


D’un point de vue historique et technique, les premières écoles d’archerie nippones seraient, selon la tradition, apparues au tournant des VIe et VIIe siècles au moment de l’introduction du bouddhisme dans l’archipel nippon. L’arc était utilisé monté et il était primordial pour un guerrier de savoir tirer à cheval, et diverses formes d’entraînement ont été mises au point : le tir sur un cheval lancé au galop, une chasse à courre ayant pour cible des chiens, ou bien encore le tir à longue distance à l’aide d’un arc spécifique, le tôya. L’arc était la pierre-angulaire des stratégies développées sur le champ de bataille, et les archers les plus habiles, capturés par l’ennemi, étaient parfois mutilés pour les empêcher de reprendre du service (pendant la Guerre de Cent Ans en Europe, on amputait un ou plusieurs doigts des archers faits prisonniers (souvent l’index et-ou- le majeur, pratique à l’origine du doigt d’honneur).

L’introduction des armes à feu par des marins portugais, en 1543, changera la donne, comme en Europe l’archerie est alors condamnée : d’habiles forgerons parvinrent à imiter et à améliorer les prototypes originaux et bon nombre de fusils de fabrication japonaise seront exportés de par l’Asie. Toutefois, le fusil restera une arme sans valeur spirituelle, car dans le fond, les Japonais appréciaient les duels ou les moyens de mettre en valeur leur habileté et leur courage, ce qui était le cas des tireurs à l’arc monté et des fantassins combattant à l’arme blanche. Lors de son séjour au Japon (1969-1973), Michel Coquet s’initia au kyûdô, et son dernier livre revient sur cette expérience, car dans les arts martiaux, la seule réalité c’est l’Expérience. Les katas que l’on répète inlassablement et avec sincérité pour maîtriser une technique martiale font partie de l’enseignement traditionnel, comme jadis l’apprentissage par la répétition et les moyens mnémotechniques ( il suffit de relire l’Odyssée ou l’Illiade pour s’en rendre compte). La posture du corps, la manière de marcher, la respiration, participent à cette quête de la « non-pensée » ou du « temps éclaté » (le terme est de Kenji Tokitsu), toutes ces petites choses « oubliées », broyées par la conscience (et la modernité) et pourtant fondamentale et caractéristiques de notre espèce. À l’exception de quelques erreurs historiques mineures (concernant surtout la protohistoire), qui tiennent à mon avis à la difficulté d’accès à une documentation récente, le livre de Michel Coquet pose les bases de la philosophie et de la pratique de l’arc traditionnel japonais ; même si ce livre complète (et est sur bien des points plus accessible) le livre de Eugen Herrigel, « le zen dans l’art chevaleresque du tir à l’arc », rien ne vaut, comme le souligne Michel Coquet, la pratique avec un bon « sensei »... Une pratique sans esprit de compétition ou de recherche de résultat : au kendô deux adversaires qui se frappent en même temps marquent des points, dans la réalité brute, ils seraient morts... Ici, l’ennemi s’est surtout soi-même...


La pratique des arts martiaux contient intrinsèquement un rapport avec la mort, et cette relation aide au détachement et à mieux vivre... Le kyûdô répond à ce besoin d’union avec le réel, ce paradis perdu, peut-être le « Sacré éladien » tapi au fond de chacun d’entre-nous. Cette quête du paradis perdu, que d’aucuns compensent, une bière à la main, en regardant Games of the Trone, c’est aussi un phénomène de société : le grand malheur de l’Occident est d’avoir « oublié », d’avoir dénigré notre culture et nos valeurs martiales et spirituelles : il y a quelque chose à puiser dans l’esprit de la chevalerie et les valeurs martiales, sans pour autant y voir l’ombre du fascisme. Les arts martiaux traditionnels créent du sens et sont vraiment un moyen de réenchanter le monde. 


Michel Coquet, «Le KYÛDÔ - Art sacré de l’éveil» aux éditions Chariot d'Or, Format : 15,5 x 24, pages : 320, 25 €

Lo zen delle vette

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Lo zen delle vette

La sacralità della montagna, il rito dell’ascesa, la trasfigurazione interiore. Dino Buzzati intuì una luce, Luigi Mario la trovò in quota

di Giulia Pompili

Ex: http://www.ilfoglio.it

Nel centro di Zermatt, la cittadina di tradizione walser che ospita il versante svizzero dell’inconfondibile Cervino, c’è un piccolo cimitero dedicato agli alpinisti. Ognuno di loro ha un nome e cognome. Chi non ce l’ha, viene ricordato con una lapide dedicata all’alpinista ignoto. Poco più in là c’è una targa che ricorda il gemellaggio di Zermatt con la città di Myoko, uno dei posti più particolari del Giappone perché protetto da cinque vette, il luogo di ritiro invernale della famiglia imperiale. Il Cervino, più di altre montagne, è legato alla vita e alla morte. Quest’anno ricorre il centocinquantesimo anniversario della conquista della vetta, e fu l’inglese Edward Whymper a riuscirci, dopo anni di vani tentativi. Ogni volta che una spedizione partiva e falliva, si avvalorava l’idea che il Cervino fosse inaccessibile, che il dèmone della montagna rifiutasse la presenza umana. Improfanabile. Si dice che molte guide esperte non accettassero cospicue somme di denaro pur di non sfidare quel dèmone. Poi, il 14 luglio del 1865, Whymper raggiunse la vetta. Era il primo di una cordata composta dalla guida alpina Michel Croz di Chamonix, dal reverendo Charles Hudson, dagli inglesi Lord Francis Douglas, Douglas Robert Hadow e dalle due guide alpine di Zermatt Peter Taugwalder padre e Peter Taugwalder figlio. Ma durante la discesa, ecco la tragedia. Croz, Hadow, Hudson e Douglas, i primi quattro della cordata, caddero. La corda si ruppe. I corpi dei tre furono ritrovati nei giorni successivi, quello di Lord Francis Douglas riposa ancora sul Cervino. Si salvò Whymper, che continuò a fare l’alpinista ma venne divorato dai fantasmi dei morti sul Cervino, e morì alcolista nel 1911, a Chamonix. Gli altri due che si salvarono erano due guide alpine.

“Adesso, che sono ormai quasi vecchio e i fortissimi amici di un tempo si sono dispersi chi qua chi là oppure hanno smesso la montagna, adesso che io ritorno da solo, di quando in quando, alle mie corde, ma ben assicurato alla corda di una paziente guida brevettata, vivo e amaro è il rimpianto di non essere stato all’altezza dei miei sogni, di non avere avuto abbastanza coraggio, di non aver saputo lottare da solo, di non essermi impegnato a fondo così da poter essere, o per lo meno assomigliare, a uno di loro. Ormai, purtroppo, è troppo tardi. Ma, guardandomi malinconicamente indietro, ora capisco come soltanto a loro, ai capicordata, alle guide, e soprattutto agli accademici e a quelli che, senza avere la formale laurea, appartengono tuttavia alla loro intrepida famiglia, ora capisco come unicamente a loro la grande montagna abbia rivelato i suoi più gelosi e potenti segreti. E non ai poveretti come me, che hanno avuto paura”. Quando scrive queste righe per il centenario del Cai, il Club alpino italiano, Dino Buzzati ha cinquantasette anni. E’ l’anno in cui il Corriere della Sera lo manda a Tokyo per un mese intero, a seguire lo stato di avanzamento dei lavori per l’Olimpiade giapponese del 1964. Ed è pure l’anno della morte di Arturo Brambilla, l’amico più caro di Buzzati. Dallo scambio epistolare tra i due, che durò quarant’anni, verrà fuori il primo ritratto del Buzzati alpinista, e di quell’“ossessione d’amore” che ebbe inizio quando aveva quindici anni con la vetta della Croda da Lago, la cima di 2.701 metri tra le Dolomiti di Cortina. Buzzati tornò sulla Croda da Lago nel 1966, insieme con il collega Rolly Marchi. A guidarli in quell’occasione c’era Lino Lacedelli, il celebre alpinista che scalò il K2 nel 1954 con la spedizione organizzata da Ardito Desio. L’impresa storica costò a Lacedelli il pollice di una mano, congelato. Quando si aprì il “caso K2” – che durò cinquant’anni – sul ruolo dell’altra figura chiave della letteratura alpinistica italiana, quella di Walter Bonatti, Lacedelli fu l’unico a riconoscere che senza Bonatti gli italiani non ce l’avrebbero fatta. Fu un’ammissione sincera, dopo anni di menzogne. E questo perché la storia dell’alpinismo è una storia di imprese eroiche e di tritacarne mediatici, di arditismo, di bugie che finiscono per sbattere contro con la nuda verità della roccia. Quella stessa roccia i cui colori sono indicibili – le Dolomiti, di che colore sono? si chiede Buzzati – i cui strapiombi sono indescrivibili (“La gente che si accontenta di guardare le montagne dal basso non li conosce, gli strapiombi, e non sa neppure bene cosa siano”, scrive il giornalista e alpinista sulla Lettura nel 1933).

Poco prima di morire, il 28 gennaio del 1972, il giornalista bellunese domandò alla moglie Almerina Antoniazzi di poter tornare, pure da morto, sulla vetta della Croda da Lago. E così si fece, nel 2010, non appena la Regione Veneto si è dotata della legge che rende possibile disperdere in natura le ceneri. Buzzati riconosce di non essere mai andato oltre un quarto grado di difficoltà, nel suo scalare, eppure parla delle guide, di quegli alpinisti coraggiosi, quei “fuorilegge” – così li definisce, e “I fuorilegge della montagna” è anche il titolo di una imponente raccolta dei sui articoli sulle alte vette pubblicato nel 2010 da Mondadori – che lo aiutarono a scalare. Quelli sempre primi in una cordata. La vetta non avrebbe mai potuto raggiungerla senza di loro. La montagna è anche questo, spiega Buzzati: riconoscere i propri limiti. Oppure superarli, nel caso di alcuni uomini straordinari. E’ così che – forse inconsapevolmente – il giornalista bellunese incontra uno dei più grandi misteri dell’alpinismo, che lega indissolubilmente la montagna alla cultura e alla spiritualità orientale.

Nell’anno in cui morì Buzzati, Luigi Mario aveva appena ricevuto il suo nuovo nome, Engaku Taino, quello da monaco buddista, nel monastero Shofukuji di Kobe diretto da Yamada Mumon roshi. Nato da una famiglia di operai romani il 7 maggio del 1938, Luigi Mario è stato il primo romano a diventare guida alpina. A dire la verità, Mario è stato il primo in molte cose: la prima guida di Roma, il primo gestore del rifugio Gran Sasso, il primo italiano a essere ordinato monaco in un monastero zen giapponese. E poi quel luogo da lui fondato, Scaramuccia, un podere nella campagna umbra di Orvieto, che dal 1975 in poi inizia a essere chiamato monastero. Il primo luogo residenziale del buddismo in Italia e soprattutto la prima scuola al mondo dove l’arte della montagna – che comprende l’arrampicata e lo scivolamento – viene insegnata insieme con il taichi, lo yoga, la meditazione, lo zazen. E’ lo stesso maestro Engaku a raccontare la sua storia nel libro “Lo zen e l’arte di arrampicare le montagne”, appena pubblicato dalle edizioni Monte Rosa. Anche lui, come succede ai grandi della montagna, ha iniziato giovanissimo, intorno ai sedici anni: “Ufficialmente sono entrato nel mondo della montagna iscrivendomi al Cai nel ’54 influenzato da due avvenimenti. Il primo si può far risalire alla gita scolastica sul lago di Como, mentre la spedizione italiana scalava il K2. Frequentavo il secondo anno della scuola professionale, dopo la licenza di avviamento al lavoro, come si chiamavano i tre anni successivi alle elementari quando non c’era ancora la scuola media unificata. Facevamo il giro del lago e nel vedere tutte quelle rocce, così importanti poi per la mia crescita alpinistica, pensai ad alta voce che sarebbe stato bello montarci sopra. […] L’altro episodio importante fu il raduno nazionale degli alpini. Per la prima volta potevo vedere dei veri scalatori: si arrampicavano in cima al Colosseo e scendevano saltellando e scorrendo lungo le corde!”. L’autore prosegue raccontando che qualche giorno dopo volle raggiungere in bicicletta il Colosseo per andare a toccare quei chiodi da roccia che erano stati piantati dagli alpini.

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Quando era salito di sette, otto metri, un pizzardone romano lo avvertì a modo suo: a regazzi’, scenni giù che qui sotto mica ce sta er buro. Una frase che Luigi Mario fu costretto a ripetersi spesso, nel corso degli anni successivi. La carriera alpinistica inizia con la montagna degli arrampicatori romani: il monte Morra, sui Lucretili laziali. Poi apre la Via dei Camini sulla montagna Spaccata di Gaeta, poi le scalate sul Terminillo, con base a Pietracamela. Sempre più a lungo, sempre più professionalmente. Alla fine Luigi Mario lascia il lavoro sicuro in banca e inizia a viaggiare di continuo, su e giù tra le Alpi e gli Appennini, a Cervinia con Dino Buzzati, a Pescasseroli con Pier Paolo Pasolini, gli esami con Cesare Maestri. Ma ogni volta che superava se stesso, scalando una montagna, c’era qualcosa che mancava: “La cima della montagna, questa punta estrema, questo punto supremo al quale si sacrifica tanto della propria vita, non rappresentava affatto quello che si diceva e le scalate più difficili davano certo sensazioni più forti delle altre ma rimanevano sul piano della sensazione, richiedendone altre più forti ancora e anche, vanitosamente, maggiori consensi nel gruppo. Ciò che dico ora l’ho capito dopo, poco per volta, perché altrimenti avrei cercato qualcosa di diverso come poi ho fatto”. Luigi Mario ha una scrittura schietta, decisa. Come quando un maestro giapponese insegna le do (le vie di ascesi, di cui fanno parte anche le arti marziali) che per un occidentale sono artistiche in quanto poetiche. Ma non è nient’altro che tecnica, ripetizione, il gesto fine a se stesso. Nella parte del libro in cui parla del suo metodo d’insegnamento questo è ancora più chiaro. Niente fronzoli: “Nelle do giapponesi il maestro è il depositario dell’arte che si vuole apprendere e in lui si ripone completamente la propria fiducia. Egli ha ricevuto dal proprio maestro la trasmissione dell’arte e al suo maestro ha promesso di trasmetterla con sincera fede ai discepoli che avrà”. In principio fu il filosofo tedesco Eugen Herrigel, che studiò il Kyudo (l’arte del tirare con l’arco) durante il suo quinquennio d’insegnamento in Giappone. Basandosi su ciò che aveva imparato, nel 1953 pubblicò il famoso libro “Lo zen e l’arte del tirare con l’arco”, che non era affatto una guida all’insegnamento religioso. Piuttosto, nel libro si esplicitava per la prima volta agli occhi di un occidentale la possibilità di riconoscere l’esperienza spirituale orientale in quelli che da noi erano considerati né più né meno che degli sport.

E’ un po’ quello che ha fatto Marie Kondo, l’autrice giapponese di un best seller sul “magico potere del riordino. Il metodo giapponese che trasforma i vostri spazi e la vostra vita”. Il libro promette di organizzare gli spazi domestici e di ridare serenità ove prima regnava il caos, “perché nella filosofia zen il riordino fisico è un rito che produce incommensurabili vantaggi spirituali”, dice la quarta di copertina. Sai che scoperta. Ogni volta che sento parlare di lei, e del suo straordinario successo, mi viene in mente lo zaino per la montagna. La sua preparazione è un rito. E il nemico, l’ossessione del trekking alpino di più giorni, è il peso. Preparare lo zaino per la montagna rende tangibile l’idea di essenziale, perché non esiste cosa che non abbia un peso e guadagnare anche solo cento grammi può dare un significativo vantaggio. Chi conosce la montagna conosce il peso di ogni parte dell’“equipaggiamento” e – sembrerà ingenuo dirlo – il valore di ogni cosa che viene portata fino in cima. Per ore si cammina in silenzio, perché ogni respiro è dedicato all’unico scopo di salire. Come nelle discipline orientali, la respirazione è il fondamento di ogni “ascesa”. Il filosofo Julius Evola, conoscitore del mondo buddista tibetano, la chiama l’ascesa d’assalto: “Negli speciali riguardi delle ascese alpine (s’intende: là dove non si tratta di salti, di pareti da scalata – là dove l’ascensione, per quanto aspra, presenta sempre un certo andamento continuo), per tal via si può distunguere dal comune metodo, un metodo che potremmo chiamare d’assalto. Il potere che il fattore psichico morale può avere sul fisico è sufficientemente noto, perché qui vi si debba insistere: per via di disposizione interne, di esaltazione o di entusiasmo, corpi anche deboli o stremati in innumerevoli casi si sono dimostrati capaci di affrontare inaspettatamente e vittoriosamente le difficoltà e gli sforzi più incredibili […] Per tal via, bisogna riconoscere che oltre alla ‘forza vitale’ abitualmente in azione nelle membra e negli organi e legata a questi, ve ne è, per così dire, una riserva profonda e ben più vasta, la quale non si manifesta che eccezionalmente, essendovi costretta, e quasi sempre sotto l’azione di un fattore psichico o emotivo. Il tutto sta perciò nel trovare un ‘metodo’ per l’evocazione di questa sorgente sotterranea di energia”. Per Evola si tratta di esaurire sin da subito le energie normali, ed entrare nello stato di ritmo e di “instancabilità”, mantenendo il controllo sul passo e – soprattutto – sul respiro. Arrivati in cima, poi, ogni sforzo effettuato per raggiungere la vetta scompare, in pochi minuti. E di nuovo viene in aiuto Evola, per spiegare cosa succede in quell’attimo. E’ quello che il filosofo chiama “il momento della contemplazione”.

Tutto si lega alla tradizione della “sacralità della montagna” presente in tutte le culture antiche, sia occidentali sia orientali. La montagna è un simbolo naturale “direttamente offerto ai sensi”, scrive Evola, ma la sua spiritualità risponde soprattutto a un simbolismo dottrinale e tradizionale, basti pensare all’Olimpo ellenico, al tempio Walhalla di Ratisbona, al buddista “monte degli eroi”. “Meditazioni delle Vette” (Mediterranee, 2003) è una raccolta di scritti che il filosofo dedicò alla montagna. “Non le cime, non le difficoltà, non il record mi interessano, ma quello che succede all’uomo quando si avvicina alla montagna. Questo libro ci dà la risposta”, aveva detto uno dei più grandi alpinisti italiani, Reinhold Messner, leggendo gli scritti di Evola. E non è un caso se Messner è uno di quegli alpinisti che mai si sono fermati alla pura vicenda atletica dello scalare le montagne. Ricorda infine Evola: “A proposito del decadere dell’alpinismo in sport, ci sembra interessante rilevare che a fondatore dell’alpinismo in Italia – quasi più di mezzo secolo fa – non stette uno sportman, ma un uomo di alta mente e di nobile cuore: Quintino Sella, il quale volle che a simbolo del nuovo impulso stesse la parola latinissima: Excelsior, ‘Più in alto!’. In questa idea, le grandi ascensioni dovevano essere esse stesse un simbolo e quasi un rito: simbolo e rito di un’ascensione interna, di un impulso alla liberazione e alla vita ‘in un più spirabil aere’”.

 

samedi, 26 septembre 2015

The Powerful Bear In The Northern Tradition

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The Powerful Bear In The Northern Tradition

by Arith Härger

Ex: http://artihharger.wordpress.com

As the other day i wrote about the Boar as a very powerful symbol in the old European Traditions, i wouldn’t want to left another powerful animal behind, which is the Bear, strongly worshiped by both Europeans and the indigenous inhabitants of northern America and Alaska.
For many cultures, Bears were the kings and queens of beasts, the rulers of the wild, the animal on the top of the food chain, for animals such as lions or other fearsome large felines didn’t exist in these areas, well in truth they did but it was so long ago and for a short period of time in the early human lives, that people gave more importance to the Bear, for that animal accompanied the lives of human beingsfor much longer The Bear was also considered to be the old, wise and wild brother of us humans, as Bears can stand upright like we do and walk if only for short periods. For this reason, the Bear was thought to be the mediator between us humans with the spirits, and there was much respect for this animal, caves were found, containing arranged Bear skulls, in honor to these creatures, as altars from the Paleolithic era, a cult to the Bear that dates from at least twenty thousand years ago (20.000).
Bears used to be all over Europe, from the far shores of the Mediterranean Iberian Peninsula, all the way up to the North of Scotland, to Scandinavia and the Eastern regions of Siberia, unfortunately nowadays we can only find these creatures in the cold north regions, and the tales about bears from the people living in those regions are many especially from the Finns, Saami and the Siberian tribes.

The bear wasn’t just a sacred animal to these people, it was also the source of food, even to the Saami before they had learnt to have reindeer herds, but the respect for this animal wasn’t less just because of that, as a matter of fact most animals that were sacred were also eaten and there was always respect for these creatures and there was always special rituals to hunt an animal, to honor the spirit, the life and to thank them for their purpose. In the case of hunting a bear, it was always done during the hibernation of the animal but it was always awakened first, because killing a bear during their sleep, was considered to be dishonorable for both the hunters and the bear, and cowardice for the hunters, after the successful killing of the animal, the hunter or the hunters had to pass through many rituals in order to be safe for the hunters to get in the village, so people could be saved from the spirit of whom the hunters had killed, to keep the spirit from having its revenge upon the tribe, or to keep the spirit of the Bear King or Queen from having its revenge for killing one of its children. During the time of the rituals, no one could look the hunters in the eyes nor talk to them, only the hunters could butcher and cook the body and no one else could come near it before it was ready to be eaten. Before the feast began, a speech of apology and thankfulness was given to the bear, and afterwards the bonés of the animal were buried in a sacred place. These king of acts are still very common amoung shamanic tribes that still exist today, the so called taboos among the shamans and their families, and everyone must respect that and the spirit of the animals in order to safeguard the families and have prosperity and happiness.

ours_25.jpgTo the Norse people the Bear was also a very powerful symbol very much attached to their beliefs and their warrior cults. People believed in many gods but there was always a group of people, a cult, dedicated to just one specific god, and in the Norse culture the warriors dedicated to Odin were called Berserkers, whose name comes from the word Bersark which means literally bearskin, which they wore for magical purposes and to honor the strength of the bear and become like him, fierce, strong, ferocious, violent in battle. These warriors would enter in an altered state of mind and call upon the spirit of the bear, becoming a bear themselves so they would not feel any pain during the battle, in order to keep the fight longer, roaring, putting fear upon their enemies. There are many accounts of this, of these warriors taking the amanita muscaria mushrooms, to enter in trance, and go completely crazy, becoming beasts ( this is from where and why the English word Berserker, or to go Berserker, came from ) wearing bear skins and nothing else, and sometimes even totally naked while going to battle and use their own hands and teeths to kill the enemies and tear off their armour and break their shields.

Note: If you have any questions for me or if you want to see my artistic works, check out my Facebook page and make a Like if you can by following this link –> http://www.facebook.com/ArithHarger

mardi, 22 septembre 2015

Patriarchy: The Natural Foundation of Eurasian Society

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Patriarchy: The Natural Foundation of Eurasian Society
 
By C. J. Borsella

Ex: http://katehon.com

Like race and ethnicity, gender is not a “social construct.” Gender is real. Thus gender differences are real.

 
The differing societal and family roles performed by men and women approximate the self-evident physical differences that exist between them – the two equally important masculine and feminine halves of the human species. Far from arbitrary, the specialized gender-specific roles performed by men and women in traditional Eurasian societies were developed out of patriarchal – which is to say organic – necessity and maintained for countless millennia stretching far back into the murky epoch of prehistory, i.e. the earliest history of Homo sapiens.

Just a smattering of the great past and present Eurasian cultures that have adopted strict forms of patriarchy include: the Indo-Aryans, Persians, Chinese, Greeks, Romans, Arabs, Turks, and Russians. If we let History be our guide, it is quite clear: Patriarchy is the only structural form of hierarchy strong enough to sustain traditional Eurasian cultures on all levels (socially, culturally, politically, etc.).

For the patriarchal system to function properly, as an outgrowth of organic law, it must be firmly rooted in society, from the basic family unit all the way up to the highest echelons of a society’s political leadership. The ancient Roman institution of the paterfamilias epitomizes the patriarchal paradigm in all its splendor. Of course the societies generated by the great Eurasian cultures of the past stand in stark contrast to the postmodern ahistorical “global society” we see unfolding all around us – from Hollywood to Hong Kong.

In only a couple of generations’ time the people of the West (i.e. those inhabiting “ground zero” of all global decay) have witnessed the ill effects of anti-patriarchal norms, namely forced feminization, in virtually every aspect of their collective existence. In education, politics, business, culture, art, the military, even in the softening physical forms and increasingly effeminate speech patterns of their young men. On all fronts, Western men are being turned into mere women with male genitalia to the point where they have to continuously feel guilty and apologetic for being men. Is it any real wonder why so many American cultural trendsetters (the so-called “celebrities”) are lining up in droves to become transgender freaks of nature?!

Needless to say, this forced feminization has inflicted an enormous amount of mental, emotional and cultural damage on Western people as a whole – to both men and women. Moreover, the “soft-totalitarianism” of the liberal democratic State has only caused this problem to fester, since it is liberal democracy itself which is so appealing to the fairer sex, and to the “feminine side” of men as well. Actions like voting (a popularity contest), demonstrating/boycotting (passive-aggressive behavior), lobbying, punditry (i.e. gossip) – all these are essentially feminine attributes.

Now, it must be stressed, Neo-Eurasianism (or what is also referred to simply as Eurasianism) is not against femininity when it is properly balanced by its masculine counterpart. Indeed, we Eurasianists fundamentally believe that a woman is equal to a man in human dignity just as much as we categorically reject misogyny. And just like men, women have their own unique rights to enjoy as well as duties to perform. Women are the great nurturers of the human species. This is not some abstract ideal which needs to be enshrined in law, but a fact of both Nature and History. Eurasianists only oppose the wholesale emasculation of a people which inevitably occurs when the corrupt anti-patriarchal concept of feminism is permitted to infect an otherwise healthy society. We believe that feminism is co-equal in its destructive value with the homosexual agenda, and is therefore one of the greatest crimes that can be perpetrated against a people.

jupiter_vatican.jpgThus, the concept – or rather, the ideology! – of so-called feminism is totally foreign to and incompatible with our own Eurasian morality. Moreover, the liberal roots of feminism are easy to uncover when one studies the topic for any small length of time. As an idea, feminism (like its liberal progenitor) is totally antithetical to the laws of Nature. For where exactly can it be seen in the animal kingdom that the female sex is equal to the male in terms of physical strength and sheer hardness? Perhaps a better question would be: where in all of Nature, and among all species, do you find female animals performing the same exact roles as their male counterparts? The answer: among human beings in the asinine Western World. That is, in the politically liberal, economically Capitalist, culturally degenerate, and American-controlled Western World.

As Francis P. Yockey stressed years ago in his magnum opus Imperium, Liberalism “puts a uniform on [a woman] and calls her a ‘soldier.’” Such absurdity only confirms (Yockey continued) that “fundamental realities cannot be renounced, even, by the most elaborate make-believe.” Quite illogically, therefore, feminists promote their agenda as some kind of distorted mirror-image of masculinity, to the detriment of true femininity. Julius Evola described this development, which has appeared cyclically throughout history, as Amazonism – an appropriate term if there ever was one!

Over the course of the past century Westerners have zealously attempted to convince themselves that women are: (1) the physical equals of men, and (2) well-suited to perform traditionally masculine roles. Far from truly advancing the emotional stability and quality of life of “career women,” these obvious lies have led to one of the greatest crimes in recorded history: the breakdown of the family unit. Statistics have shown that as the number of women in the workforce has increased, so too have the number of divorced households, which in turn has led to an increase in neglected, abused and delinquent children.

Truly, since the 1960s, when super-feminists like Gloria Steinem, Betty Friedan and Bella Abzug were campaigning for their distorted version of “women’s rights” (which meant giving everything masculine to women except the male anatomy), the number of broken homes and psychotic children has skyrocketed! The simple masses have been hoodwinked by the feminist agenda and other sinister materialist dogmas. In fact the Western masses have been so bamboozled that, in many ways, they have only themselves to blame. Although a vast amount of enemy propaganda has been circulating continuously for the past several decades, the simple truth is, people do not have to buy into it. It is an unfortunate truth that many families have willfully given up on instilling their children with even a semblance of traditional, patriarchal values. In so doing, they willfully slap each and every one of their ancestors in the face.

The all too withered fruits of extreme egocentrism, first seeded during the Enlightenment, have finally been plucked for all to see, and what a horrible and truly tragic sight it is! Today in the United States, almost every other child is afflicted with “attention deficit disorder” and autism, among other maladies. Of course drug use is also rampant among American youths, along with gang violence and all other forms of degeneration. Meanwhile true parents – i.e. mothers and fathers who have instilled traditional values in their offspring – are becoming fewer and fewer in number.

Now let us turn our attention to feminism’s ideological twin: the homosexual agenda and the part it plays in destroying the traditional heterosexual family unit. It is certainly no accident that this specific form of sexual perversion has, for many decades, been consistently forced down the throats of straight people all over the Western World (no pun intended). This psychotic realm of pornocratic degeneracy, alongside feminism and liberalism, is one of the more blatantly American fronts of counter-culturalism or anti-Tradition.

When one looks into the subject of homosexual activism, one will find a superabundance of liberal Americans among the “alternative lifestyle’s” fiercest proponents. The following are just some of the names one might come across: Harvey Milk, Mark Segal, Mary Bernstein, Brenda Howard, Paul Goodman, Andy Thayer, Larry Kramer and too many others to list here. By and large, left-wing liberal Americans have “cornered the market” (so to speak) on the homosexual agenda in their ongoing effort to pervert the minds of the herd-like, pop-culture guzzling masses both domestically and abroad. Naturally then, American pop-culture “icons” who support so-called “gay rights” are indispensable to the promotion of the homosexual agenda all over the world.

Nevertheless, in these times of abject degeneracy, in these times of Kali Yuga (as the Hindus would say), it does not matter whether or not an outspoken homosexual or feminist happens to be an American. There are plenty of other homosexual and feminist activists worldwide. What does matter, however, is that an overwhelming majority of these activists are liberals. In fact, it would appear, ontologically, that in order to become either a homosexual or a feminist, one must first be baptized a brazenfaced liberal!

Regardless of whether or not this last observance of the author is true, it is an absolute fact that all three of these moral degenerates – the homosexual, the feminist and the liberal – are identical when it comes to having no sense of honor. Just as the homosexual betrays the honor of nature, the feminist betrays the honor of her gender. As for the liberal, he or she betrays the honor of all human beings. As culture-distorters this depraved Anti-Trinity revels in its shared advocacy for total erotic anarchy. As culture-destroyers, the Anti-Trinity is driven by a deep sense of hatred for all aspects of patriarchy and any form of socio-cultural traditionalism. Hence the depraved antics of pro-homosexual/pro-feminist groups like Femen and “Pussy Riot.”

Specifically regarding homosexuality, the concept of honor does not even remotely register anywhere inside the homosexual’s brain. The homosexual is someone who is defined by sex; his/her same-sex lust is incorporated into the homosexual’s very being. This is easily noticeable whenever one has the misfortune of crossing paths with the “openly gay” male. This poor wretched soul, who often has his “boyfriend” gleefully striding beside him, will never cease in brazenly attempting eye contact with every mildly attractive male he passes on the street. This pathetic creature is obviously never satisfied sexually, and so he attempts to make “contact” with as many other men as possible, even to his partner’s delight! Such overtly promiscuous behavior on the part of a heterosexual male would promptly force his wife or girlfriend out of his life for good. Not so with the homosexual; for his (or hers) is a life of vampirism – a ceaseless and tireless quest to convert as many fellow degenerates to the queer perversion as possible. Often the conversion is made in exchange for monetary gain, as is the case in Hollywood where “young talent” is continually “discovered” and then expeditiously tossed aside, merely to satisfy the momentary cravings of the Sodomite studio heads.

Same-sex lust is the overt side to the homosexual agenda. However there is a covert reason behind it as well… and that is: the destruction of the family. More specifically: the destruction of the traditional family. For every person who is gay or lesbian, there is the end of that person’s family line. In some cases lesbians do bear children through artificial insemination, however adoption is much more common. And of course all feminist special interest groups zealously support both abortion and alternative lifestyles – especially for single women.

Before we close, let us say something about abortion. Due to the increasingly high rates of this miscarriage of Natural Justice among biologically fit parents, the number of fit offspring is rapidly declining. At the same time, and as a consequence, the number of physically-challenged and emotionally unstable children is growing. This is the mission of abortion: to convince fit would-be parents (especially women) that it is natural and even necessary for them to engage in sexual activity without the desire to produce children. And so the liberal mission of abortion is the total extinction of the human race – a totally anti-Natural process which relies on the conscious and voluntary self-annihilation of an entire species. Again, if one is to look to the animal kingdom, where will one find a comparable parallel? Where does the intentional mass-killing of offspring occur? When has one ever observed a she-wolf intentionally banging her belly against a tree in order to kill the unborn? Answer: Never. It does not happen. Yet this is exactly what is happening today en masse among the human species.

Therefore, the Eurasianist worldview stands resolutely against the atrocity of abortion – against the Steinem-Friedan-Abzug inspired genocide which is occurring at this very moment. The Eurasianist understands better than anyone that his children represent the most precious, sacred future of his people. He understands that his progeny deserve the right to grow physically, mentally and emotionally for their own glory, as well as for the glory of their family, culture and folk. Indeed, children are the greatest investment any human being can or ever will make.

So it must be that the future Eurasian State shall stand firmly opposed to the crime of abortion in all cases except if the fetus is the product of rape, incest, or if it can be medically proven that the fetus is a threat to the mother’s own survival or is somehow unhealthy, i.e. deformed. To permit life to be born after these latter crimes is itself criminal and irrational to civilized human beings. (Incidentally, this is a perfect example of how Eurasianist moral philosophy is at odds with the hypocritical values of organized religion.)

To conclude, it is the role of the International Eurasian Movement to correct and reverse the current cataclysmic course we are on as a species. Furthermore, it is the role of said Movement to defend and uphold patriarchal norms globally, and especially within the Eurasian culture.

When the Global-Atlanticist Beast is finally defeated alongside its decadent liberal ideology, and once the Central Committee of the Eurasian Movement secures a lasting political power, patriarchal norms shall be reinforced within the Eurasian society and so traditionalism will (at last!) be safeguarded. The replenishment of patriarchy and traditionalism shall even sprout new roots and become an inspiration to people all over the world.

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mardi, 15 septembre 2015

L'Atlantide contre l'Atlantisme

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L'Atlantide contre l'Atlantisme

par Laurent James

Voici le texte de mon intervention aux Rencontres Eurasistes de Bordeaux, le 5 septembre dernier

Le but de mon intervention est de montrer les principes de l’Atlantide et de l’atlantisme afin d’éviter toute confusion entre les deux. La confusion contemporaine entre l’eurasisme et le mondialisme est fondamentalement basée sur les mêmes erreurs, et j’expliciterai les raisons pour lesquelles ce sont, précisément, le nationalisme, le marxisme et le complotisme (tous regroupés sous le terme générique de « dissidence » qui la propagent.
 
On peut trouver sur le site de VoxNR un texte inédit de Douguine. Il s’agit du chapitre 3 d’un livre titré « Misterii Evrazii » (Les Mystères de l’Eurasie »), un ouvrage paru en Russie en 1996, puis traduit en espagnol et en italien mais pas encore en français. Douguine y développe les motivations ésotéristes du combat eurasiste, lesquelles ne sont pas tellement connues.
 
A ce sujet, on peut noter que c’était précisément pour présenter ces aspects, que nous l’avions invité à Rennes-le-Château le 18 janvier de cette année pour une journée de conférences avec, entre autres, André Douzet, Erik Sablé, Walid Nazim, Tony Baillargeat et Constantin Parvulesco. Ce dernier devait présenter à cette occasion des « Interprétations alchimiques du Saint-Suaire ». J’en profite pour insister sur un point évoqué dans mon dernier texte paru sur le blog de Parousia, à propos de Paul-Eric Blanrue. Selon la tradition, le Suaire est le Linceul, cité par les Evangiles, qui servit à envelopper le corps du Christ au tombeau. Il renvoie directement à la réalité de la Passion, et c’est pour cette raison que Jean-Paul II l'a défini comme étant le « miroir de l'Evangile ». Tous les révisionnistes du Saint-Suaire sont nos ennemis absolus, à nous autres catholiques intégraux et soldats du Christ. Que cela soit bien clair !
 
Excusez-moi de parler de ça cinq minutes encore, même si ça semble hors sujet. Ça ne l’est pas, en réalité. Certains me reprochent de parler parfois de sujets subalternes, comme la querelle entre Yann Moix et Paul-Eric Blanrue. Je trouve au contraire qu’il est très intéressant d’insister sur le fait que ce n’est pas parce que le premier est un atroce écrivain béhachélien que le second a forcément raison. Voici ce que Blanrue a écrit dans le n°141 de « L’Homme libre, fils de la terre (Recherche d’une psychologie libératrice) », en octobre 1994 :
 
"J’aimerais aborder tranquillement les questions de l’historicité du Christ (rien ne prouve que Jésus soit autre chose qu’un mythe syncrétiste judéo-païen), de la mystification de la Salette (une des rares « apparitions » à avoir été jugée comme arnaque), des problèmes archéologiques liés à la découverte un peu trop providentielle du Saint Sépulcre (trois siècles après les prétendus événements)".
 
C’est le problème principal du révisionnisme, ça ne s’arrête pas aux portes des chambres à gaz. Dans le même texte, il parle de « la vieille Eglise catholique en pleine phase déliquescente ».
 
Lorsqu’on passe des années à saper les fondements du catholicisme en usant d’une arme aussi profane qu’est le zététisme voltairien (il faut savoir que Voltaire est la référence majeure de Blanrue), et que l’on se convertit ensuite à l’islam après avoir constaté qu’il n’y avait plus de valeurs dans le catholicisme, je pense qu’on est inconséquent, c’est le moins que l’on puisse dire. Pourquoi Blanrue ne continue-t-il pas sur sa lancée voltairienne, et ne démontre-t-il pas maintenant, par exemple, que la Kaaba n’a jamais été construite par Abraham ? Il publierait son étude sous le titre « Le secret de la Kaaba : autopsie d’une escroquerie », et là, il aurait une certaine cohérence !
 
On peut se convertir à l’islam pour de très bonnes raisons, mais on peut aussi le faire pour de très mauvaises. De manière générale, le mot conversion est banni de mon vocabulaire. La seule conversion légitime est le retour à la foi de ses parents, ou de ses grands-parents. A condition que celle-ci soit légitime et justifiée, bien sûr ! Pour rester dans le monde chrétien : la fidélité à ses parents quand ils sont évangélistes ou Témoins de Jéhovah est, en réalité, une trahison complète envers la Tradition. Un de mes amis a trahi la foi protestante helvétique de sa famille, en venant se faire déprotestantiser à Marseille par le Père Zanotti-Sorkine. Voilà un bel exemple de fidélité absolue !
 
Revenons à Rennes-le-Château. Douguine connait parfaitement l’importance métahistorique de la région du Razès. Il désirait établir avec nous une connexion solide entre le Royaume d’Araucanie et la Sainte-Russie sur une des places fortes de la Gaule surnaturelle et enchantée. Ainsi que je l’ai dit, sa conférence devait porter sur les racines ésotéristes de l’eurasisme.
 
AtlantideScience.jpgComme vous le savez peut-être, une poignée de très sombres individus a réussi à faire capoter le projet cinq jours avant qu’il n’ait lieu. La version officielle réside dans la lâcheté de l’organisateur, qui en trahissant Alexandre Douguine, a également trahitoute la famille Parvulesco : le grand-père Jean, le père Constantin (qui avait immédiatement décidé d'annuler sa venue en apprenant la censure de Douguine), et le fils Stanislas. Mais nous sommes aussi parfaitement au courant des manipulations effectuées dans l’ombre par d’autres personnages, ésotéristes de troisième zone et guénolâtres stériles. Certains d’entre eux se sont d’ailleurs publiquement réjouis de l’annulation de cette conférence, assurés de leur impunité. Qu’ils sachent que nous les avons tout à fait identifiés, et que la riposte sera à la hauteur de leur lâcheté.
 
Je reviens à ce chapitre écrit par Douguine, diffusé sous forme de samizdat en 1988, portant sur « L’Amérique, ou la Terre verte ». Il y examine les « dessous mythologiques de l’Amérique », disant que (je cite) « si une telle idée de l’Amérique a pu s’enraciner dans la conscience géopolitique universelle et devenir quelque chose de néo-sacral, il doit y avoir à cela des raisons très sérieuses associées à l’inconscient collectif de l’humanité, et à cette géographie secrète continentale qui plonge ses racines dans les millénaires mais dont le souvenir continue à vivre comme archétypes psychiques ».
 
Il commence par noter que le continent américain était connu, « longtemps avant le voyage de Christophe Colomb », notamment par les Vikings. Ceci est aujourd’hui validé par presque tout le monde, et l’arrivée de Leif Erikson à Terre-Neuve, par exemple, est une chose établie. Sans parler du grand voyage de saint Brendan de Clonfert et saint Malo jusqu’au Québec au VIè siècle. Sur la question des Vikings en Amérique, je ne saurais trop conseiller de lire les ouvrages de Jacques de Mahieu (dont le fils Xavier Marie se livre aujourd’hui à des activités politiques intéressantes en Argentine). Jacques de Mahieu, professeur et directeur de l'Institut des Sciences de l'Homme de Buenos Aires dans les années 70 et 80, a étudié de nombreuses cartes géographiques précolombiennes, dont la célèbre carte de l’amiral ottoman Piri Reis, dérobée à un compagnon de Colomb après un combat naval. Cette carte représente de manière très précise l’Amérique du nord et du sud, ainsi que le Groenland et l’Antarctique. Pour Jacques de Mahieu, ces connaissances géographiques remontent au moins jusqu’aux Vikings, qui se seraient implantés au Pérou pour y fonder l’empire de Tiahanacu, ancêtre des Incas, et qui seraient à l’origine de la production métallurgique dans ce pays (mines d’or et d’argent). Il pensait même que la richesse des Templiers, qui financèrent la construction de 80 cathédrales gothiques en moins de cent ans, provenait de l’exploitation industrielle de ces mines et de leur réception au « port secret du Temple », celui de la Rochelle.
 
Cependant, la connaissance du continent américain est peut-être bien antérieure encore. L’amiral Piri Reis affirmait que, parmi les documents ayant permis à Colomb d’entreprendre son expédition, se trouvait également « un livre datant de l’époque d’Alexandre le Grand ». Mais est-ce bien de l’Amérique dont il s’agit ?
 
1)      L’Atlantide
 
Rappelons brièvement que l’Atlantide tenait elle-même ses principes civilisationnels de la Tula hyperboréenne, l’île polaire sacrée placée sous la protection de la constellation de la Grande Ourse. Lorsque l’on évalue les dates principales de notre cycle en se basant sur les ères précessionnelles de 2160 ans, la Chute, soit le passage de l’Age d’Or à l’Age d’Argent, ou encore la naissance du mal dans l’histoire humaine, s’est produite il y a environ 39 000 ans. Ce qui correspond à l’irruption de l’Homme de Cro-Magnon en Europe, mais ceci est un autre sujet.
 
L’Age d’Argent dura ensuite près de 20 000 ans, puis l’Age de Bronze débuta en – 17000 (ce que l’on appelle historiquement le magdalénien). Il se manifesta notamment par l’irruption de ce cataclysme spirituel irrévocable qu’est l’œuvre d’art plastique (art pariétal), et par la naissance de l’Atlantide sous le signe de la Balance.
 
Rappelons que tous les cyclologues, de Platon à Gaston Georgel, en passant par Guénon, situent la fin de l’Atlantide dix mille ans avant notre ère, soit en plein milieu de l’Âge de Bronze. – 10000 : c’est la fin de la glaciation de Würm II, avec une élévation importante du niveau des eaux, et le tout début de l’avènement du néolithique. Six mille ans plus tard, en – 4300, l’Age de Bronze se termine brutalement et débouche sur l’Age de Fer avec le Déluge de Noé, que Platon nomme le Deucalion.
 
Attention à ne pas confondre le Déluge de Noé avec le Déluge de l’Atlantide, 6500 ans les séparent.
 
Une fois, Douguine me demanda de lui dire en quelques mots ce que représentait pour moi l’eurasisme. Je lui répondis : c’est la meilleure manière de guérir du traumatisme du néolithique. Guérir notre continent d’une plaie infiniment douloureuse et lancinante, le traumatisme infligé par la submersion de l’Atlantide, la perte du dernier foyer de connaissance qui nous liait à l’Hyperborée primordiale, ce qui signa la fin du nomadisme métaphysique des peuples européens par leur sédentarisation agricole de plus en plus stérile et dissolvante : c’est donc ce que l’on nomme historiquement le néolithique, advenu durant les ères successives du Cancer et des Gémeaux, qui ont précédé le Déluge de Noé en – 4320.
 
On considère généralement qu’il y a eu deux récepteurs de la civilisation atlantéenne, deux filles de l’Atlantide : l’Egypte et la Chaldée, toutes deux émergeant durant l’ère précessionnelle du Cancer (8640/6480 av. J.-C.), soit deux mille ans avant la fin de l’Age de Bronze.
 
Le cas de l’Egypte est, de loin, le plus étudié. Voir, par exemple, les travaux de Schwaller de Lubicz sur la très haute civilisation de la « théocratie pharaonique » originelle. De nombreux auteurs ont mentionné que les pyramides étaient des images de l’axe polaire hyperboréen, dont les proportions arithmosophiques provenaient d’un enseignement atlantéen, et qu’elles avaient certainement été construites à une époque antédiluvienne.
 
Quant à la Chaldée, de nombreux auteurs l’ont en partie associé à la Celtide.
 
Jean Phaure relevait « l’identité sémantique de la terre celte et de la Chaldée (keltoï désignant en grec la caste sacerdotale) ». Il est possible que les celtes originels constituaient la caste sacerdotale de la société chaldéenne.
 
Je cite René Guénon, dans « Symboles fondamentaux de la science sacrée » : « La tradition celtique pourrait vraisemblablement être regardée comme constituant un des points de jonction de la tradition atlante avec la tradition hyperboréenne, après la fin de la période secondaire où cette tradition atlante représenta la forme prédominante et comme le substitut du centre originel déjà inaccessible à l’humanité ordinaire ».
 
Notons par ailleurs que la Chaldée et l’Egypte furent également deux étapes successives de l’histoire du peuple juif, avec les figures d’Abraham et de Moïse. Sem vécut d’abord chez Japhet avant de se rendre chez Cham. Cela explique la présence de la tradition atlantéenne dans l’Ancien Testament, comme l’avait étudié Guénon.
 
Alexandre Douguine «  La Terre verte – l’Amérique » [partiel]
 
« L’Atlantide est ce paléocontinent dont parlèrent Solon, Platon et beaucoup d’autres après eux. L’Atlantide est le continent sacré occidental, où prospéra une grande civilisation spirituelle, qui périt à la suite d’un terrible cataclysme et d’une inondation. La destruction du continent est le plus souvent décrite comme un événement graduel : après l’abaissement de sa partie continentale, de sa partie principale, située à l’ouest de l’Europe et de l’Afrique, survécurent pendant un certain temps quelques îles dans l’Atlantique Nord, où se concentrèrent les dernières souches atlantes, dépositaires de la tradition ancienne. L’une de ces terres, d’après Hermann Wirth, fur Mo-Uru, qui fut à son tour submergée beaucoup plus tard, plusieurs millénaires après le cataclysme principal. »
 
« Dans l’image sacrée (et par conséquent dans le nom) de l’Amérique doit d’abord se refléter l’idée de son origine ‘extrême-occidentale’. Selon les travaux du professeur Wirth, le plus ancien centre sacré de l’Occident était la terre de Mo-Uru, l’île de Mo-Uru, située dans l’Atlantique du Nord-Ouest. Ce nom est mentionné dans le Bundahishn (un texte sacré zoroastrien), où il vient en troisième position après l’Aryanam-Vaejo des grands ancêtres aryens (l’Aryanam-Vaejo se trouvait directement au Pôle Nord, sur le continent arctique ‘Arctogaïa’, disparu il a déjà de nombreux millénaires) ».
 
C’est probablement ce que les Grecs nommaient l’Hyperborée.
 
« C’est justement avec l’aide de ce mot-clé Mo-Uru, et en se fondant sur le déchiffrement des runes et des symboles proto-runiques que le professeur Wirth parvint à pénétrer les secrets de plusieurs cataclysmes ethniques et raciaux de la préhistoire ».
 

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« Il existe une doctrine sacrée mentionnée par Guénon, affirmant que la tradition judaïque est ‘occidentale’ par son origine symbolique et préhistorique. Ur en Chaldée, d’où Abraham partit vers la terre promise, apparaît comme un substitut de Mo-Uru, de la ‘Ur nord-atlantique’, puisque même le Zohar affirme que Ur, où résidait initialement Abraham, symbolise ‘l’état spirituel supérieur’, dont Abraham, par nécessité providentielle, ‘descendit’ vers le bas (il est intéressant de remarquer que les juifs partagent assez souvent ce point de vue concernant l’origine occidentale de leur tradition, comme cela apparaît à travers les premiers projets sionistes de l’organisation d’un ‘Etat juif’ en Amérique ou dans les livres de Simon Wiesenthal sur la préhistoire juive de l’Amérique et de Edmund Weizmann sur ‘L’Amérique, Nouvelle Jérusalem’). De cette manière, l’énigmatique nom Mo-Uru désigne précisément le continent sacré extra-européen, situé à l’Ouest, dans l’Atlantique ».
 
« Cependant le continent Amérique, selon nous, n’est pas le contient le plus occidental de la géographie sacrée (l’Atlantide), mais sa ‘continuation’ vers l’Occident. En d’autres mots, l’Amérique est une ‘Outre-Atlantide’, c’est-à-dire une terre située ‘de ce côté, vers l’Ouest’. Il est possible que ce déplacement sacralement symbolique de l’Amérique explique l’inquiétant secret associé à celle-ci dans le contexte de la géographie sacrée des civilisations traditionnelles de l’Eurasie.
 
 En accord avec cette géographie sacrée, à l’Occident se trouve la ‘Terre Verte’, la ‘Terre des morts’, une sorte de monde semi-matériel, qui rappelle l’Hadès ou le Shéol. C’est le pays du Crépuscule et du Coucher, d’où la sortie est impossible pour les simples mortels, et auquel peut accéder seulement un prédestiné. On pense que le nom du Groenland (littéralement, le ‘Pays Vert’) se réfère justement à ce lieu symbolique. Le ‘Pays Vert’ n’est pas l’Atlantide (et Mo-Uru non plus !), mais quelque chose se trouvant plus à l’Occident de celle-ci, le ‘monde de la mort’, le ‘royaume des ténèbres’. Et cet aspect ultra-mondain du continent américain se révèle d’une manière surprenante dès le premier regard sur une chose aussi banale que le symbole du dollar. René Guénon a remarqué un jour que le symbole $ sur la monnaie américaine est une simplification graphique de l’emblème sacré qui se rencontre sur les monnaies anciennes de la région méditerranéenne. Initialement les deux lignes verticales étaient des représentations des ‘colonnes d’Hercule’ qui, selon la tradition, se trouvaient à l’extrême-occident, après le détroit de Gibraltar. Sur ce symbole apparaissait initialement l’inscription symbolique ‘nec plus ultra’, qui signifiait littéralement ‘rien au-delà’. Ces deux symboles désignaient une frontière, la limite occidentale de la géographie sacrée humaine, au-delà de laquelle se trouvaient les ‘mondes non-humains’. Et ce symbole ‘frontalier’, indiquant qu’on ne peut pas aller au-delà de Gibraltar, est devenu d’une manière paradoxale le symbole financier de l’Amérique, d’un pays qui se trouve ‘au-delà de la frontière’, ‘là où on ne peut pas aller’, là où l’inscription sur le prototype du dollar interdisait justement d’aller ».
 
« Dans une telle perspective, la redécouverte du continent américain par Colomb porte en elle-même une signification assez funeste, puisqu’elle indique l’apparition à l’horizon de l’histoire de ‘l’Atlantide submergée’, et même pas de l’Atlantide, mais de son ‘ombre’, de sa continuation négative dans l’Occident symbolique, dans le ‘monde des morts’. Et la coïncidence chronologique de cette ‘redécouverte’ avec le début du brusque déclin de la civilisation européenne (et eurasienne en général), qui commença dès ce moment à perdre rapidement ses principes spirituels, religieux, qualitatifs et sacrés, est assez significative à cet égard »
 
« Sur le plan purement culturel-philosophique, l’Amérique devient dès lors le lieu de projection idéal de toutes les utopies profanes, athées ou semi-athées. On peut comparer le cycle historique de l’Amérique à celui d’une ‘Nouvelle Atlantide’, sortie de la profondeur des eaux, mais il ne s’agit pas de la vraie Atlantide ressuscitée, mais d’une autre, chimérique, contrefaite, fantomatique, qui s’est consacrée à faire revenir ‘l’âge d’or’, mais de laquelle émane l’odeur du continent-tombe ».
 
« L’eschatologisme pénètre la conception même d’un ‘Nouvel Ordre Mondial’ qui répète et développe les projets idéologiques américains, et cette conception présuppose l’expansion du modèle américain sur tous les territoires restants de la planète. Ainsi, émergeant des profondeurs d’un inquiétant mystère ésotérique, le ‘Nouveau Monde’ tente de se présenter comme la ‘nouvelle terre’ spirituelle dont parle l’Apocalypse et qui doit apparaître après la Fin des Temps. Mais pour le continent américain l’époque post-apocalyptique est déjà arrivée : la victoire des armées alliées dans la seconde guerre mondiale – qui a conduit les Etats-Uns à la domination mondiale – ainsi que la signification symbolique des vicissitudes des Juifs (de cette nation mystique si importante dans l’histoire) en Allemagne, tout cela a fusionné dans la théorie de ‘l’Holocauste’, de ‘l’ultime sacrifice de l’histoire’, après lequel l’Outre-Atlantide, unie au ‘Nouvel Israël’, est entrée dans la période du ‘Grand Sabbat’, de ‘l’époque heureuse’, de ‘l’ère d’abondance’. L’attente des temps messianiques a commencé, et la conscience continentale américaine archaïque, ‘l’esprit’ inquiet du continent ‘ré-émergé’, donne aux tendances messianiques et eschatologiques une force mystique enracinée dans la perception symbolique du monde d’une humanité qui conserve la conscience du lien et des correspondances de l’espace et du temps au cours des longs millénaires ».
 
On pourrait résumer cette prodigieuse analyse de cette manière :
 
L’atlantisme outrepasse l’Atlantide et contrefait la Jérusalem Céleste.
 
Il double l’origine et parodie la fin.
 
Parmi des milliers de citations, en voici une de  George Washington : « Les Etats-Unis sont la Nouvelle Jérusalem, établie par la Providence dans un territoire où l’homme doit atteindre son plein développement, où la science, la liberté, le bonheur et la gloire doivent se répandre en paix ».
 
Je reprends un paragraphe du texte de Douguine, «  La Terre verte – l’Amérique », portant sur l’Age d’Or.
 
« Si l’on ne tient pas compte du rôle symbolique de l’Outre-Atlantide dans son ensemble supra-temporel et méta-historique, ce pathos messianique restera incompréhensible et toute la dimension de fausse spiritualité qui se trouve derrière lui ne pourra pas être comprise et évaluée. Comme dans toutes les eschatologies ‘parodiques’, nous avons affaire ici à la confusion de ‘l’âge d’or spirituel, qui arrivera immédiatement après la Fin de l’histoire, avec la période temporelle précédent cette Fin ».
 
L’atlantisme est une eschatologie parodique, prétendant établir directement sur terre le nouvel Age d’Or (exactement comme l’a été le bolchevisme). L’eurasisme, quant à lui, propose l’établissement d’un rapport entre civilisations qui précéderait ce nouvel Age d’Or. Il s’agit de préparer les Temps de la Fin, et en aucun cas de faire advenir la Fin des Temps dont saint Matthieu nous dit bien «  Pour ce qui est du jour et de l’heure, personne ne le sait, ni les anges des cieux, ni le Fils, mais le Père seul » (XXIV.36). Tout en rajoutant au verset suivant quelque chose de fondamental « Ce qui arriva du temps de Noé arrivera de même à l’avènement du Fils de l’homme » (XXIV.37).
 
Et le déluge de Noé, c’est justement l’éradication de toutes les colonies atlantes, à l’exception – comme je le disais tout à l’heure – de la Chaldée (Japhet), de l’Egypte (Cham) et des juifs faisant la jonction entre les deux (Sem). C’est aussi, à cette occasion, le début de l’écriture. J’y reviendrai à la fin de mon intervention.
 
L’eurasisme n’a donc aucune prétention à établir un nouvel Age d’Or terrestre. L’Empire Eurasiatique ne constitue en aucun cas un pendant, un succédané ou une prolongation de l’empire américain. Penser et écrire cela, c’est justement ne rien comprendre à l’opposition radicale entre Atlantide et atlantisme. Ces sempiternelles accusations de contre-initiation à l’égard de Douguine et de l’eurasisme proviennent toujours de ces mêmes milieux de guénolâtres sectaires et dogmatiques, qui dressent une barrière autour de leur Idole (ils se défendent tous de ce terme, mais il est ici usité dans son acception la plus exacte) afin de la conserver dans sa pureté d’ivoire. Ces guénolâtres sont obsédés par les derniers chapitres de « Le Règne de la Quantité et les Signes des Temps », attachés à traquer derrière la moindre parole ou le moindre geste de ceux qu’ils n’aiment pas (c’est-à-dire tous ceux qui tentent d’agir concrètement pour la beauté et la justice) les indices de « contre-initiation », de « contre-tradition », ou tout simplement de satanisme. Ces guénolâtres tentent de faire passer leur pauvreté ontologique, humorale et physique pour le résultat d’un grand travail guénonien de dépersonnalisation. On ne sera pas étonné d’apprendre, d’ailleurs, que certains d’entre eux font justement partie du groupe d’individus dont je parlais tout à l’heure, qui ont tout tenté pour faire capoter la venue de Douguine à Rennes-le-Château.
 

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Pour ces gens-là, Léon Bloy est également un contre-initié de première classe. J’ai justement retrouvé un texte extraordinaire de Léon Bloy : c’est la conclusion de son Exégèse des Lieux Communs. Je vais vous le lire partiellement, et vous verrez à quel point les visions du catholique intégral sont proches des nôtres, notamment sur cette opposition fondamentale entre atlantisme et Atlantide.
 
Léon Bloy Conclusion de « L’Exégèse des Lieux Communs » [partielle]
 
« On a souvent demandé où pouvait bien être situé le Paradis terrestre. Platon et mon savant ami de l’Institut, Pierre Termier, m’ont donné les moyens de l’identifier.
 
Le Paradis terrestre, le lumineux Eden d’où furent expulsés nos premiers Parents n’était et ne pouvait être que l’Atlantide.
 
Je sais que cela a été dit déjà par j’ignore quels Américains qui voudraient faire croire que ce continent disparu depuis tant de siècles fut autrefois une partie considérable de leur continent et que l’Amérique actuelle prolonge, en cette manière, à travers les âges, le biblique Jardin de Volupté. Il suffit d’avoir vu, ne fût-ce qu’en passant, le soi-disant béatifique empire du Dollar, pour savoir ce qu’il faut penser de cette prétention. Mais ils ajoutent sottement et lourdement que le Déluge qu’on croyait universel est assez expliqué par la submersion de la seule Atlantide et l’anéantissement simultané du premier Eden. Je cesse alors d’écouter ces protestants spécieux et je reviens au divin Platon qui ne savait rien du Paradis terrestre, mais qui paraît avoir été l’irrécusable témoin d’une tradition archi-séculaire.
 
En son admirable conférence à l’Institut océanographique, le 30 novembre 1912, Pierre Termier a supérieurement démontré, par les plus récentes acquisitions de la science géologique, la véracité du grand philosophe qui raconte, imperturbablement, depuis vingt-quatre siècles, l’histoire de l’Atlantide en ses Dialogues ».
 
2)      L’Atlantisme historique
 
Sur le plan strictement historique, Robert Steuckers nous explique dans son texte fondamental titré « Eurasisme et atlantisme : quelques réflexions intemporelles et impertinentes », que l’atlantisme est d’abord une alliance européenne et chrétienne contre l’islam.
 
« L’atlantisme naît évidemment de la découverte des Amériques par Christophe Colomb en 1492. Mais l’objectif premier des puissances européennes, surtout ibériques, sera d’exploiter les richesses du Nouveau Monde pour parfaire un grand dessein romain et “alexandrin”, revenir en Méditerranée orientale, reprendre pied en Afrique du Nord, libérer Constantinople et ramener l’Anatolie actuelle dans le giron de la “Romania”. Le premier atlantisme ibérique n’est donc que l’auxiliaire d’un eurasisme “croisé” ibérique et catholique, allié à la première offensive de l’eurasisme russe, et portée par un dessein “alexandrin”, qui espère une alliance euro-perse. Une telle alliance aurait reconstitué le barrage des empires contre la steppe turco-hunnique, alors que les empires antérieurs, ceux de l’antiquité, se nourrissaient de l’énergie des cavaliers de la steppe quand ceux-ci étaient indo-européens. »
 
La naissance de l’atlantisme correspond donc historiquement à celle de la modernité. Il est identitaire et non-traditionaliste, puisqu’il est profondément ancré dans une époque qui se détourne radicalement du monde tri-fonctionnel médiéval.
 
Mais l’atlantisme se détache ensuite de notre continent, puis se constitue objectivement contre celui-ci. Son caractère anti-traditionaliste se renforce contre l’identité de l’Europe.
 
« L’atlantisme proprement dit, détaché dans un premier temps de tout projet continentaliste eurasien, nait avec l’avènement de la Reine Elisabeth I d’Angleterre (1558-1603). […] Le décès prématuré de Marie Tudor amène Elisabeth I sur le trône en 1558; elle y restera jusqu’en 1603: motivée partiellement par l’ardent désir de venger sa mère (Anne Boleyn), la nouvelle reine enclenche une réaction anti-catholique extrêmement violente, entraînant une cassure avec le continent qui ne peut être compensée que par une orientation nouvelle, anglicane et protestante, et par une maîtrise de l’Atlantique-Nord, avec la colonisation progressive de la côte atlantique, prenant appui sur la réhabilitation de la piraterie anglaise, hissée au rang de nouvelle noblesse après la disparition de l’ancienne aristocratie et chevalerie anglo-normandes suite à la Guerre des Deux Roses, à la fin du XV° siècle.
 
C’est donc une vendetta familiale, un schisme religieux et une réhabilitation de la piraterie qui créeront l’atlantisme, assorti d’une volonté de créer une culture ésotérique différente de l’humanisme continental et catholique. Elle influence toujours, dans la continuité, les linéaments ésotériques de la pensée des élites anglo-saxonnes, notamment ceux qui, en sus du puritanisme proprement dit, sous-tendent la théologie politique américaine. »
 
« Le terme d’atlantisme apparaît lors des accords entre Churchill et Roosevelt, scellés au beau milieu de l’Océan en 1941. En 1945, l’Amérique du Nord et l’Europe occidentale forment un ensemble, qui deviendra l’OTAN, une alliance centrée sur l’Atlantique-Nord, que l’on qualifiera rapidement, dans les écrits polémiques, d’ “atlantisme”. »
 
Parler d’atlantisme pour évoquer le pouvoir judéo-anglo-saxon est certes réducteur, comme l’écrit Steuckers, parce que l’Empire est tri-océanique (Atlantique, Pacifique et Indien). Le vocable « atlantisme » n’est donc pas véritablement géographique, tout comme le vocable Occident, par ailleurs : c’est le monde entier qui est occidentalisé, d’Est en Ouest et du Nord au Sud. C’est la raison pour laquelle l’Occident – tout comme l’atlantisme, dont il est rigoureusement synonyme - est aujourd’hui une notion absolument délocalisée. Cela pourrait même constituer une véritable définition de l’Occident, tout à fait paradoxale mais juste : l’Occident est le terme qui désigne une zone du monde géographiquement délocalisée. Tout ce qui est géographiquement délocalisé est occidental. C’est-à-dire qu’il est tout à fait logique que la zone du monde qui se soit accaparé toutes les autres soit justement celle dénuée de toute racine, c’est-à-dire de toute valeur ontologiquement spirituelle. On reproche souvent son prosélytisme à la religion quelle qu’elle soit, mais en réalité, la laïcité, l’athéisme franc-maçon et le matérialisme libéral sont infiniment plus prosélytes que n’importe quel jésuite ou salafiste.
 
On peut donc parler d’Empire du non-être, puisque c’est un Empire qui ne possède aucun contour physique, aucune armature idéologique et aucune transcendance spirituelle.
 
3)      Nationalisme
 
En ce qui concerne l’eurasisme, le premier véritable changement de paradigme a eu lieu avec Konstantin Leontiev, diplomate, écrivain et philosophe russe de la seconde moitié du dix-neuvième siècle.
 
L'eurasisme russe était majoritairement pro-occidental (indo-européanisant) et anti-musulman jusqu'à l'avènement de la guerre de Crimée de 1853. Or, Konstantin Leontiev, à cette époque, a complètement changé les perspectives en proposant (je cite Robert Steuckers)."une alliance anti-moderne des chrétiens orthodoxes et des musulmans contre le libéralisme et le démocratisme modernes, diffusés par les puissances occidentales. Leontiev suggéra dès lors une alliance entre Russes et Ottomans, qui constituerait un bloc de Tradition contre le modernisme occidental" Il se trouve que l'eurasisme "douguinien" promeut très activement cette vision des choses.
 
C'est une des raisons principales pour laquelle la plupart des extrême-droites européennes sont anti-douguiniennes, ce dernier étant islamophile et se revendiquant d'une "race" russe (mélange de slaves, de scandinaves et de mongols). Douguine intègre l'épopée du khanat et de la Horde d'Or dans l'histoire de la Russie, et la revendique pleinement. Ce qui agace particulièrement les nationaux-socialistes racialistes, tous favorables à l'Ukraine pro-Otan (et racialement slave, non "contaminée" par les mongols).
 
Je pense personnellement que la guerre du Donbass est également motivée par des critères raciaux, surtout du côté ukrainien où l’on considère généralement que les russes sont des faux slaves. J’ai rencontré l’ukrainien Andriy Voloshyn à Zvenigorod en octobre 2011, lors du congrès « Against Post-Modern World ». C’est un homme très intéressant, bon poète et connaisseur de la littérature française. C’est en discutant avec lui et ses amis que j’ai découvert pour la première fois l’existence d’une animosité raciale ukrainienne contre le « faux slavisme » russe. Voloshyn est aujourd’hui chef adjoint des relations internationales pour Svoboda.
 
Je cite un exemple précis.
 
2906785185_1_3.jpgLe site nationaliste Breiz Atao a mis en ligne en août 2014 un texte titré « Alexandre Douguine ou la subversion de la Russie orthodoxe », très violemment opposé au penseur de l’eurasisme. Le texte cite un entretien de Douguine de 2002 donné au journal russe Kommersant-Vlast : « La Russie est seulement sauvée par le fait que nous ne sommes pas de purs Blancs. Les corporations multinationales prédatrices, oppressantes et détruisant tous les autres, sans parler de MTV, des gays et des lesbiennes – c’est le fruit de la civilisation blanche, dont il est nécessaire de se débarrasser. Donc je suis pour les rouges, les jaunes, les verts, les noirs, mais pas pour les blancs. » On imagine ce que ce trait d’humour peut provoquer chez des racialistes un peu crispés.
 
Le même article reproche à Douguine le fait d’estimer que la Russie ne soit pas un pays européen, contrairement à Poutine qui a déclaré “Les valeurs russes ne diffèrent pas des valeurs européennes”. Or, les principes premiers de l’eurasisme excluent d’autorité toute valeur commune entre l’Europe et la Russie, puisque les principes premiers de l’eurasisme relèvent de la spiritualité, et que l’Europe est (ou devrait être) catholique et protestante (malheureusement) et la Russie est orthodoxe. On peut travailler au rapprochement entre le catholicisme et l’orthodoxie, et c’est même la plus grande tâche à accomplir aujourd’hui, mais la Russie et l’Europe ne peuvent pas être confondues ni mises sur le même plan.
 
Rappelons que l’eurasisme politique, dont les bases intellectuelles se trouvent dans le concept de multipolarité civilisationnelle, promeut le rejet de toute norme internationale dans quelque domaine que ce soit et la promotion de la coexistence des civilisations au niveau mondial.
 
Je vais dire à nouveau ce que j’ai dit à Bruxelles en octobre dernier, parce que l’eurasisme politique est quelque chose d’absolument fondamental, et qu’il n’est pas vain ni inutile de rappeler ce paragraphe qui est en opposition frontale avec tous les schémas de pensée nationaliste, que l’on trouve notamment dans la fameuse dissidence française nationalisto-marxisto-complotiste.
 
Les civilisations sont les pôles du monde multipolaire, et leur définition repose sur le substrat de ce qu’est une civilisation au sens traditionnel, c’est-à-dire sa spiritualité ; ces civilisations sont (je cite Douguine dans son ouvrage "Pour une théorie du monde multipolaire") : la civilisation orthodoxe (« Son guide est l’union eurasienne, dont les étapes sont l’intensification de la coopération militaro-stratégique au sein de l’Organisation du Traité de Sécurité Collective, le partenariat économique au sein de la Communauté économique eurasienne, l’Union entre la Biélorussie et la Russie, le projet de l’espace économique commun, incluant l’Ukraine en partie, ainsi que les structures de la CEI ») ; la civilisation islamique (« recouvrant la Conférence islamique, la Banque islamique de développement, l’espace chiite commun incluant l’Iran, l’Irak et le Liban, ainsi que les projets fondamentalistes du nouveau califat »)
 
ce point est particulièrement important, dans la mesure où la dissidence nationalisto-marxisto-complotiste voit systématiquement derrière tout mouvement "islamiste radical" un complot américano-sioniste. Ces conceptions se retrouvent également dans son ouvrage "La Quatrième Théorie Politique". Voir, notamment, son chapitre "L'empire islamique (le califat mondial)" où il écrit clairement : "Le fait que les islamistes radicaux aient désigné les Etats-Unis comme leur principal ennemi constitue une preuve suffisante du fait que nous avons affaire à un projet sérieux et responsable". Bien sûr, le terme de califat utilisé par Douguine n’a rien à voir avec l’actualité, ses ouvrages étant antérieurs à 2013. Ce qui compte véritablement, c’est que puisse surgir «un Etat musulman supranational qui serait parvenu à unifier et restructurer le monde musulman» (je cite Soleiman Al-Kaabi, spécialiste de la temporalité coranique, et qui nous fait l’honneur d’être présent dans cette salle).
 
; la civilisation hindoue (« renforcement de l’influence indienne en Asie du Sud, sur le sous-continent indien, au Népal et dans certains pays du bassin du Pacifique, proches de l’Inde géopolitiquement et culturellement ») ; la civilisation chinoise (confucianiste) incluant la Chine, Taiwan, l’émergence de la zone du yuan or ; la civilisation japonaise ; la civilisation catholique (Europe d’un côté et Amérique latine de l’autre) ; la civilisation bouddhiste (Asie du sud-est) et la civilisation africaine (« Organisation de l’unité africaine, les Etats-Unis d’Afrique »).
 
Je répète, donc, ce que j’ai dit en octobre dernier à Bruxelles : Comprendre l’Empire Eurasien, c’est favoriser la gouvernance globale civilisationnelle contre la révolte des nations bourgeoises. La révolte des nations bourgeoises, comme par exemple la révolte de l’Ukraine atlantiste et occidentale contre l’Empire civilisationnel russe, contre la Novorossiya et ses hommes encadrés par Igor Strelkov, tous prêts à donner leur vie pour Jésus-Christ. Alors qu’en face, chez Svoboda ou le bataillon Azov, on se bat pour l’Ukraine indépendante.
 
Le texte de Breiz Atao cité tout à l’heure continue en ces termes :
 
« On comprend dès lors que Douguine ne souscrive absolument pas au principe de vérité révélée seule détenue par l’Eglise, orthodoxe ou catholique, et qu’en conséquence son approche géopolitique consiste à défendre un strict cosmopolitisme spirituel. Acquis à l’idée gnostique que la connaissance éclaire l’homme et le sauve et que la vérité est partout, pour qui sait la voir, Douguine veut donc dresser l’ensemble des civilisations non-occidentales, contre l’Ouest démocratique paradoxalement né dans les mêmes cercles.
 
Cette approche hérétique du point de vue orthodoxe comme catholique sert pourtant de base idéologique à l’intellectuel “eurasiste” afin de se faire passer comme le tenant d’une Russie orthodoxe intransigeante.
 
Ce confusionnisme spirituel, il le partage avec celui qui est de mise aux USA où les sectes et groupes religieux de toute nature sont particulièrement puissants, de l’Eglise de Scientologie à la maçonnerie, en passant par les églises évangélistes, les organisations musulmanes ou bouddhistes. »
 
Une confusion maximale est encore atteinte ici entre l’atlantisme et la Tradition héritée de l’Alantide. La proposition de Douguine en matière de religion consiste à éviter toute notion de conversion ou de mission religieuse : les conceptions politiques de la multipolarité s’étendent à la sphère spirituelle. C’est-à-dire que l’on condamne toute propagande religieuse. Par exemple, il est normal qu’un orthodoxe prétende que sa religion possède un caractère universel, et que tout le monde devrait être orthodoxe. Mais le principe de la multipolarité veut qu’il s’occupe d’abord de sa propre civilisation orthodoxe, qu’il la bâtisse correctement afin qu’elle soit belle, juste et cohérente. S’il convainc d’autres personnes de devenir orthodoxe, ce sera grâce à la perfection de l’exemple qu’il pourra donner. L’eurasisme est radicalement anti-colonialiste sur tous les plans, y compris – et peut-être même surtout – sur le plan religieux. Le traditionalisme pratiqué par Douguine sert surtout à comprendre que, si chaque religion est la seule valable pour la personne qui la pratique, le fait que toutes les religions justifiées procèdent d’une même substance permet de ne pas voir le croyant d’une autre religion comme un ennemi mais comme un allié face à l’athéisme marchand. Chacun sait qu’il a raison dans son for intérieur de posséder sa propre foi, mais chacun sait également qu’il a raison de ne pas vouloir convaincre l’autre par tous les moyens d’abandonner sa foi pour rejoindre la sienne. C’est justement cela, la multipolarité, et c’est la meilleure politique possible au XXIIè siècle. Et cela n’a strictement rien à voir avec ce « cosmopolitisme spirituel » dont parle le site Breiz Tao. Toujours cette confusion entre atlantisme et Atlantide. Par ailleurs, j’ai bien parlé de religions justifiées, telle que celles citées précédemment : orthodoxie, islam, hindouisme, confucianisme, shinto, catholicisme et bouddhisme. Les spiritualités modernes (Scientologie, maçonnerie ou Témoins de Jéhovah) n’ont pas leur place dans un monde eurasiste. Il n’y a aucune tolérance ni aucun confusionnisme spirituel dans les principes eurasistes.
 

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J’ai assisté il y a peu à une conférence de Mgr Williamson à Marseille. Il affirme que, lorsque l’on discute avec un orthodoxe comme M. Poutine par exemple, le but premier de la conversation est de pouvoir amener par tous les moyens son interlocuteur au catholicisme. Je pense, personnellement, qu’il y a d’autres urgences que de vouloir convertir à tout prix les masses russes à la foi catholique, et que, par ailleurs, il n’est pas tout à fait certain que l’on puisse y parvenir aussi facilement que cela.
 
Dans la perspective eurasiste, ce sont donc les alliances de civilisations, et conséquemment des spiritualités authentiques, qui renverseront la matrice du non-Etre. En tant que construction bourgeoise élaborée par la classe marchande pour élargir ses intérêts socio-économiques, la nation est la première ennemie du monde traditionnel, surtout dans notre patrie où, comme je l’ai déjà expliqué dans d’autres conférences, la France s’est construite de manière particulièrement visible contre la Gaule au bénéfice intégral de ses fausses élites, à tel point que la centralisation française et la destruction concomitante de nos terres enchantées sont devenues le modèle structurel et archétypal de l’occidentalisation du monde.
 
Pour des raisons historiques liées à leur anti-atlantisme originel, la plupart des mouvements nationalistes en Europe faisaient partie des dernières forces politiques à n’avoir pas succombé aux sirènes états-uniennes. Mais cette époque est bel et bien terminée, et la guerre du Donbass les a presque tous fait tomber dans le piège.
 
Je pense notamment à Zentropa ou Casapound. Je sais bien qu’il existe de nombreux courants de pensée en interne vis-à-vis de ces questions-là, mais enfin, il est quand même évident qu’ils relaient essentiellement des messages anti-NovoRossiya.
 
Ceux qui écoutent de la musique industrielle ou neofolk (ou autres) le savent aussi bien que moi : presque tous ces groupes musicaux sont passés du côté de Svoboda. Je pense notamment à la dernière série de concerts de Death In June, cette année en France, et à leur nouvelle version de « Liberté c’est un rêve ». Après l’incantation « Où est Klaus Barbie », Douglas Pearce rajoute « Où est Ben Laden, où est Poutine ? ». Ils appellent même ça le « Bin Putin mix ». Ce qui signifie bien, par ailleurs, qu’il n’y a jamais eu aucune ambiguïté depuis le début avec ce titre, Barbie étant considéré comme un méchant absolu au même titre que Ben Laden et Poutine, exactement comme le pense n’importe quel journaliste du Nouvel Observateur. Le groupe a également joué à Kiev, à Odessa, même à Marioupol, sur la mer d’Azov, « en hommage à leurs frères d’armes » ont-ils proclamé. De manière plus anecdotique, mais tout aussi révélatrice, un type comme Claus Larsen (de Leatherstrip) qui nous soulevait d’enthousiasme en 1992 avec son titre « Anti US », chante aujourd’hui « The evil in Putin’s Eyes ».
 
En réalité, ce n’est pas la première fois que les nationalistes tombent dans ce type de piège tendu par l’atlantisme.
 
J’ai relu cet été « Les Décombres » de Lucien Rebatet. J’ai été frappé par de nombreuses analogies avec notre époque. La volonté de guerre de l’Occident face à l’invasion des Sudètes par Hitler (en septembre 1938) fait songer à la propagande belliciste face au rattachement de la Crimée par Poutine. 1938 : les allemands des Sudètes, minorité ethnico-linguistique en danger au sein d’un pays fictif comme la Tchécoslovaquie. 2015 : les Russes de Crimée et du Donbass, minorité ethnico-linguistique en danger au sein d’un pays fictif comme l’Ukraine. Et, à l’époque, comme aujourd’hui, les nationalistes qui poussent à la guerre aux côtés de l’Occident. Rebatet, lui, faisait partie du camp de la paix.

Lucien Rebatet « Les Décombres – Ch. III Pour l’amour des Tchèques » [partiel]

« A une volonté de guerre aussi extravagante et frénétique, il fallait certainement des ressorts considérables. A Je Suis Partout et à l’Action Française, on les avait décrits sans répit depuis des mois. Le clan de la guerre tchèque était le même qui avait livré Mayence, remis Strasbourg sous le feu des canons allemands, vomi l’insulte contre Dollfuss, reçu Schussnigg à Paris dans une gare de marchandises, traité en hors la loi Mussolini, le garde du Brenner. La sécurité territoriale, la suprématie et la prospérité de la France lui importaient fort peu. Encore moins l’Autriche. Il l’avait condamnée e 1919. Il avait sournoisement précipité sa fin en lâchant et vilipendant ses défenseurs.
 
Mais la Tchécoslovaquie était sa chose, sa création de choix. J’hésitais souvent devant les explications un peu grosses et populaires d’un événement politique. Mais cette fois, l’erreur eût été de subtiliser. Hitler eût pu exiger sans courir le moindre risque le retour de plusieurs millions d’autres Allemands dans le giron nazi. Il réclamait ses Sudètes, Allemands de la tête aux pieds, en vertu d’un droit des peuples codifié et contresigné par les démocrates eux-mêmes. Mais le droit genevois variait selon les hommes et l’heure autant que la liberté et la justice des républicains. Il n’y avait pas plus de droit des peuples pour les Sudètes que de droits de l’homme pour Maurras en prison.
 
Nos boutefeux eussent peut-être bien livré sans coup férir deux millions d’Alsaciens authentiques. Mais le dessein de Hitler portait atteinte à un fief élu de la grande maçonnerie. Il menaçait de forcer la porte d’une Loge illustre entre toutes les loges.
 
La construction tchécoslovaque était manifestement ridicule et branlante. Mais c’était justement la meilleure raison pour que les hommes de toutes les expériences idiotes, des faillites socialistes, des pactes lunaires, des finances de cirque, des avions contre Franco, des sanctions contre le Duce, des tendresses à Staline, des ambassades de Guignol, l’adoptassent comme leur rejeton amoureusement couvé. Il avait fallu un collage laborieux et des spoliations indignes pour donner consistance à cet Etat chimérique. Mais nos hommes le caressaient comme le chef-d’œuvre de leur traité. Sur leurs cartes, les Allemands le coloriaient du vermillon dévolu aux pays contaminés par le bolchevisme. C’était bien en effet sa nature et sa fonction : au cœur de l’Europe, un instrument choisi du despotisme marxiste, des intrigues, des capitaux, des vetos et des haines du Triangle et d’Israël. Hitler menaçait là quelque chose d’infiniment plus essentiel aux yeux de bien des gens que la plaine d’Alsace ou la vie d’un million de nos fantassins. M. Benès avait fait le grand signe de détresse. Il ne s’agissait plus d’une des mésaventures ministérielles qu’on résout avec quelques pelotons de gardes mobiles et deux ou trois assassinats. Le grand branle-bas de combat répondait à l’appel de Frère ».
 
Rebatet confortera ensuite dans Je suis Partout sa position pacifiste, fasciste et grand-continentale. Un an après, la même histoire recommençait avec la Pologne. Et la guerre totale s’enclencha…
 
L’hitlérisme était un eurasisme par bien des côtés, et la lecture de Drieu La Rochelle nous le confirme, lui qui disait que la seule chose qui le gênait au début dans le fascisme, c’était le nationalisme, et qu’il avait définitivement rejoint le fascisme après qu’il se soit débarrassé de cette erreur. La victoire concomitante du libéralisme et du communisme en 1945 ont plongé l’Europe, et même le monde, dans une nuit profonde. L’intensité de l’oppression démocratique, médiatique et financière augmente chaque jour en France depuis 70 ans, tant et si bien que l’on est aujourd’hui persuadé qu’il est impossible que la libération ne provienne de forces internes à notre pays. Revenons à l’hitlérisme : c’était bien sûr un eurasisme partiellement dévoyé, car non ancré dans une authentique spiritualité justifiée et bien établie. Jean Parvulesco en dresse un court bilan dans Un retour en Colchide, son dernier ouvrage – son dernier roman – publié en 2010. Vous allez voir qu’on est très loin du discours « dissident » actuel.
 

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Jean Parvulesco « Un Retour en Colchide » [partiel]
 
« Si ce matin, au réveil, je ‘écrie Acqua Alta, c’est que je sens que nous entrons en des temps de très hautes marées. Des puissances immenses, tout à fait insoupçonnées jusqu’à présent, s’apprêtent à être de retour en force ; des choses se passeront que nous n’avions jamais encore vues, et cela d’un instant à l’autre. D’autre part il est certain que, malgré l’état authentiquement révolutionnaire de ses débuts, le Troisième Reich hitlérien a dû assumer, jusqu’à la fin et même au-delà, quatre grandes erreurs fondamentales, erreurs qu’il a dû payer de sa totale destitution politico-historique, de son évacuation irrévocable de la réalité de ce monde, comme s’il n’avait jamais existé. Ces quatre erreurs sont les suivantes – c’est le moment de les rappeler.
 
(1)   L’inconcevable imbécillité criminelle de la Shoah, de la conception et de la mise en œuvre dans les conditions que maintenant l’on sait du projet visant l’anéantissement du peuple juif dans toutes ses dispersions européennes ».
 
Afin de couper court aux critiques qui pourraient immédiatement fuser de la part des milieux « dissidents » actuels, je précise que Parvulesco n’écrivait pas ceci dans le but de passer à la télévision, d’entrer à l’Académie française ou d’avoir son siège au comité directeur du Groupe Bilderberg : il avait 81 ans, était rongé par la maladie et ne pouvait plus sortir de son lit. Mais Parvulesco, en tant qu’authentique ésotériste traditionaliste, a toujours proclamé sa passion pour la véritable mystique juive et pour la Kabbale (tout comme Guénon, d’ailleurs, je le signale aux guénolâtres antisémites qui courent un peu partout).
 
Je reprends.
 
« (2) Le mépris paranoïaque de toutes les nations slaves, et de la Russie en premier lieu, dans la perspective finale d’une vaste entreprise de colonisation des espaces continentaux de l’Est européen ».
 
On peut d’ailleurs penser que l’antisémitisme hitlérien n’était rien d’autre qu’un sous-produit de son anti-slavisme irréductible.
 
« (3) L’hostilité à l’égard de l’Eglise catholique, dont la partie la plus ardente eût dû constituer le substrat eucharistique de la grande révolution continentale européenne que menait le IIIè Reich.
 
(4) Ne pas avoir su reconnaître et encore moins utiliser, sur son front de combat intérieur, des penseurs de la taille d’un Martin Heidegger, ou de Karl Haushofer, ce dernier idéologue du rapprochement continental germano-russe, et avoir préféré à leur place les services d’un crétin subalterne comme Alfred Rosenberg et tous les débiles de la même classe d’indigence mentale (exception faite, peut-être, pour les niveaux supérieurs, ‘ultimes’, de certaines hiérarchies intérieures secrètes de la SS). 
 
Derrière ces terribles erreurs – derrière ces malédictions indélébiles – il y eut cependant une partie incomparable de grandeur réalisée, de surpuissance visionnaire et d’engagement irrationnel, abyssal, d’exploitation symbolique, révolutionnaire, de l’histoire européenne en marche, une part qui ne lui sera jamais enlevée ».
 
Pierre-Antoine Cousteau, dans son Dialogue des Vaincus avec Rebatet, publié en 1950, lâche cette stupéfiante prophétie : « L ’Amérique a mis le doigt dans un drôle d’engrenage. Ca se terminera peut-être très bien, par l’établissement sur cette planète d’une sorte de pax americana, à base de Coca-Cola, de bulletins de vote et de télévision. Ou ça se terminera très mal par un étripage général et des effondrements de gratte-ciel ».
 
4)      Marxisme
 
Les marxistes considèrent que le conflit entre Russie et Occident est une dispute intra-capitaliste, un combat entre deux entreprises multinationales, une lutte économique entre deux entités atlantistes. C’est assez similaire au discours des complotistes « catholiques » comme Pierre Hillard, qui considèrent que le conflit ukrainien n’est qu’une guerre entre deux sectes juives. On retrouve aussi ce discours chez des ésotéristes anti-chrétiens obsessionnellement anti-eurasistes, qui voient dans tout ceci un combat obscur entre deux forces concurrentes de la contre-initiation, Poutine étant issu du KGB et donc de la contre-initiation absolue, évidemment.
 
En fait, personne n’a avalé la désoviétisation de la Russie, effectuée entre autres sous l’impulsion de Jean-Paul II. Il est vrai que ce dernier a pu mener cette opération avec, en partie, le financement de Ronald Reagan. Mais Jean-Paul II l’a fait au nom de la Vierge Marie.
 
Les premiers à regretter la désoviétisation de la Russie sont les marxistes, bien sûr. Certains d’entre eux regrettent que la Russie n’en ait pas profité pour adopter le « véritable communisme » au lieu de se jeter la gueule ouverte dans le Christ ou Mahomet. Dès qu’ils en ont eu la possibilité, les 150 millions de Russes ont choisi de se jeter à corps perdu dans la foi vivante de leur religion retrouvée. Les 120 millions d’orthodoxes ont renoué avec le Christ dont ils avaient soif depuis plus de soixante ans, les 20 millions de musulmans ont retrouvé le chemin de leur mosquée, et les autres ont pu ré-embrasser Bouddha, la Torah ou la main de leur chamane.
 
Il n’y a pas que l’économie dans la vie. Pratiquer la religion ardente de ses ancêtres, avec les valeurs qui l’accompagnent, c’est aussi une façon de résister à l’Occident.
 
La structure économique russe est aujourd’hui faite de capitalisme et de corruption, parce que le caractère totalitaire du capitalisme financier est d’une puissance phénoménale. Mais, contrairement à l’Europe de l’ouest qui a choisi en 1945 de se faire coloniser par l’Amérique, le peuple russe a choisi au début des années 2000 des valeurs fondamentalement anti-occidentales, toutes basées sur l’orthodoxie ou bien l’islam.
 
Contrairement à ce que tentent de nous faire croire les nationalistes engagés du côté de Kiev, tous les partis communistes européens sont aujourd’hui délibérément anti-russes. Et le PCF en tout premier lieu.
 
Exemple n°1, communiqué du 27 novembre 2014. "Le régime de Poutine continue l’œuvre de la restauration capitaliste en ex-URSS, la liquidation des acquis sociaux, de pans entiers de l’appareil de production, l’accaparement des richesses par quelques oligarques. Il s’appuie sur les forces les plus réactionnaires, religieuses, nationalistes, souvent racistes. Il ne tolère les organisations syndicales et politiques, y compris celles dénommées « communistes », que lorsqu’elles lui restent docilement soumises. Le régime est répressif, policier, militariste."
 
Exemple n°2 : communiqué du 20 août 2012, relayé par « L’Humanité ».
 
 « A Moscou, la condamnation à 2 ans d'incarcération des Pussy Riot suscite de multiples protestations dans le monde au nom de la liberté d'expression et pour la défense d'une jeunesse russe qui supporte de moins en moins un système Poutine fermé et répressif.
 
Le Parti communiste français condamne ce qui apparait comme un procès politique qui a du mal à se cacher derrière les accusations de "blasphème" et "d'incitation à la haine religieuse". Il exprime sa consternation devant une peine aussi lourde dont la vocation manifeste est de chercher à freiner un mouvement de protestation populaire et d'aspirations démocratiques qui grandit en Russie.
 
Ce qui aurait pu rester comme une exhibition contestataire et insolente est devenu une affaire nationale qui pose la question des principes et des pratiques d'un Etat de droit, du respect des libertés et des conditions de la laicité et de la démocratie en Russie.  
 
Signé : Parti communiste français »
 
Exemple n°3. Communiqué du 1 mars 2015 : Le Parti communiste français a jugé ce dimanche 1er mars que l'assassinat de l'opposant russe Boris Nemtsov à Moscou avait un "mobile politique évident". Il "condamne avec la plus grande fermeté l'assassinat de Boris Nemtsov et souhaite que l'enquête puisse aboutir dans les plus brefs délais sur l'arrestation des responsables de ce crime, des hommes de main jusqu'aux donneurs d'ordre, et sur des poursuites judiciaires". "C'est un dû à l'ensemble de la société russe qui souffre déjà trop de carences et dénis démocratiques", ajoute le parti dirigé par le sénateur Pierre Laurent.
 
Etc., etc.
 
Il n’y a aucun « rangement délibéré et permanent du PCF derrière l’empire des terres », comme on veut parfois nous le faire croire.
 
Etre marxiste, c’est considérer qu’une Russie soviétique vaut toujours mieux qu’une Russie orthodoxe, quelle que soit la réalité du soviétisme vécu.
 
Etre catholique, c’est considérer qu’une Russie redevenue orthodoxe grâce à l’action de Jean-Paul II est un miracle historique qui devrait être célébré chaque jour avec joie. Bien que polonais, il est notoire que Jean-Paul II aimait la Russie : il avait lu Vladimir Soloviev et Nicolas Berdiaev, ce même Berdiaev qui avait écrit : « La culture occidentale est une culture de progrès. Le peuple russe, quant à lui, est le peuple de la fin ». La doctrine de la « toute-unité » de Soloviev, concernant la question de l’unité chrétienne, était : unité maximale dans la multiplicité maximale. En l’an 2000, pour le centenaire de la mort de Soloviev, Jean-Paul II avait déclaré : « En faisant mémoire de cette personnalité russe d’une profondeur extraordinaire, qui avait très bien perçu le drame de la division des chrétiens et le besoin urgent d’unité, je voudrais inviter le monde à prier pour que les chrétiens d’Orient et d’Occident [de Russie et d’Europe] retrouvent au plus vite la pleine communion ».
 

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Etre catholique, c’est étudier la pneumatologie orthodoxe, avec Saint Grégoire Palamas par exemple, ce saint du XIVè siècle né à Constantinople, qui fit son éducation monastique au Mont Athos, et qui recommanda la méthode d’oraison hésychaste (purification de l’intelligence et maîtrise du souffle) comme expérience directe avec Dieu. Saint Grégoire Palamas a passé sa vie à développer cette idée fondamentale : « Dieu s'est fait homme, pour que l'homme devienne Dieu ».
 
Etre catholique, c’est appeler à une unité retrouvée entre catholicisme et orthodoxie. Non pas dans un sens œcuménique, comme le dira l’orthodoxe Constantin Parvulesco tout à l’heure, c’est-à-dire que le but n’est pas de convertir les orthodoxes au catholicisme. Le but, comme l’écrivait Jean Parvulesco le catholique, c’est de parvenir à trouver le secret de la suprême jonction entre l’orthodoxie et le catholicisme, et ce secret réside dans le dogme du couronnement de la Vierge Marie associé à l’amour intransigeant du Paraclet.
 
Jean Parvulesco parlait de « l’immense bataille théologique et métahistorique en train de constituer actuellement les fondements du renouveau révolutionnaire grand-continental européen du troisième millénaire, qui verra la nativité dogmatique d’une nouvelle religion impériale grand-continentale axée sur la figure de Marie couronnée, de Marie souveraine maîtresse des cieux et de la terre ».
 
Etre catholique, c’est vénérer la Royauté Absolue et Cosmique de la Sainte Vierge, comme dans les visions de Joachim de Flore, comme la décrit saint Jean au chapitre XII de son Apocalypse.
 
Après deux millénaires de représentations picturales et sculpturales du Couronnement de la Vierge, de très nombreux courants chrétiens demandent aujourd’hui la reconnaissance dogmatique de la titulature de la Vierge comme co-médiatrice, co-rédemptrice, Mère de l’Eglise, Reine du monde… Comme l’écrit le Père Zanotti-Sorkine : « En reconnaissant que Marie a sauvé le monde avec son fils, l’église permettrait à sa royauté d’apparaître sous un jour unique, jamais atteinte par aucune tête couronnée de la terre. »
 
Enfin, être catholique, c’est être définitivement anti-marxiste, anti-démocrate, et anti-républicain.

 

 

5)      Complotisme
 
Au début de mon exposé, je rappelais que l’écriture est supposée être née vers – 3500, durant l’ère précessionnelle du Taureau, la première ère de l’Age de Fer qui débuta par le déluge de Noé.
 
Et le déluge de Noé, c’est justement l’éradication de toutes les colonies atlantes, à l’exception – comme je le disais tout à l’heure – de la Chaldée (Japhet), de l’Egypte (Cham) et des juifs faisant la jonction historique entre les deux (Sem).
 
J’aimerais insister sur le lien structurel et signifiant entre l’écriture et son support, et également entre la lecture et son support.
 
Contrairement à ce que proclament les évolutionnistes, toute irruption dans l’histoire d’une nouvelle technologie est un signe direct de l’affaiblissement des connaissances humaines. Plus l’homme est intelligent, et moins il connaît. Et c’est même parce qu’il connaît de moins en moins, du fait de l’éloignement progressif et historique des origines de sa création, que son intelligence analytique se complexifie afin de pouvoir reproduire des phénomènes qu’il savait contrôler auparavant par d’autres moyens que technologiques : des moyens cognitifs et spirituels. L’invention de la roue - et de la charrette – ne prouve rien d’autre le fait que l’homme était alors devenu suffisamment moderne pour ne plus savoir se déplacer autrement que par des moyens matériels.
 
L’écriture est née en même temps que la roue, et au même endroit : en Mésopotamie vers 3600 avant Jésus-Christ. La première écriture montre le besoin de fixer des connaissances sous forme de traits gravés dans l’argile, c’est l’écriture cunéiforme. Puis, quelques centaines d’années plus tard, on trouve les premiers hiéroglyphes en Egypte sur la palette de Narmer. Comme je le disais tout à l’heure, on trouve la présence des trois fils de Noé : deux sont sédentaires, Japhet et Cham, et le troisième, Sem, est nomade. Dans la cité de Japhet (la Chaldée), Sem s’appelle Abraham avant de se rendre dans la cité de Cham (l’Egypte), où il s’appellera Moïse. La vision philosémite des événements consiste à dire que les Juifs récupèrent à chaque fois l’écriture, c’est-à-dire les traces visibles de la religion – d’abord Gilgamesh puis Amon – afin de sauver l’essentiel de chaque civilisation avant qu’elle ne s’écroule. L’Arche d’Alliance pourrait alors être le cœur non-écrit de l’écrit, le centre vide du rouleau, la part interne et non divulgable réservée à la caste sacerdotale La vision antisémite consiste, au contraire, à dire que ce sont les Juifs qui provoquent à chaque fois l’écroulement de la civilisation, d’abord chaldéenne puis égyptienne, afin de pouvoir lui dérober son trésor spirituel. Ce n’est pas mon sujet.
 
Je veux insister sur le fait qu’avec l’écriture se révèle désormais à tout homme une partie des principes spirituels, alors que toutes les religions pratiquées depuis l’expulsion du Paradis étaient jusqu’alors basées sur des principes transmis de manière exclusivement orale et réservés à la connaissance des hommes en mesure de les comprendre.
 
L’invention de l’écriture correspond ainsi à une divulgation partielle des principes. C’est ce qui fait dire à un ami que Moïse, avec ses Tables de la Loi, a été le premier démocrate de l’histoire. Les grandes étapes de l’écriture ont ensuite été les suivantes : l’imprimerie, seconde moitié du XVè siècle (si l’on met de côté la xylographie pratiquée en Asie depuis 700 ans) ; les lettres sont désormais isolées les unes des autres, ce qui segmente la phrase. C’est à cette époque que surgissent à la fois l’humanisme et le protestantisme, deux pensées modernes et hérétiques qui se basent sur une version lettriste du monde, c’est-à-dire qui analysent les choses au pied de la lettre. Notons qu’en même temps, et comme par un effet de contre-réaction, on trouve Rabelais, Marsile Ficin, tous ces écrivains qui tentent d’utiliser la nouvelle technologie en la contournant, afin de retourner le plus efficacement possible aux sources du savoir.
 
Pour François Rabelais, et c'est indiqué très nettement dans le Pantagruel, Platon est le prince des philosophes. Il y fait beaucoup référence dans ses cinq livres. 
 
Il est souvent représenté, à tort, comme un humaniste.
 
Mais Rabelais était un excellent catholique, il voulait revenir aux sources de sa religion. Il disait qu'il fallait parler la langue arabe pour lire le Coran, ainsi que maîtriser l'hébreu et le grec. Rabelais nous parle de la Sibylle de Cumes qui annonça la venue du Christ et nous rappelle par là les origines helléniques (et donc égyptiennes), et non pas seulement juives, du christianisme. Il évoque la cyclologie, il situe la "création du monde" (entrée dans l'âge de fer) quatre mille ans avant Jésus Christ. Rabelais insiste sur la double origine du judaïsme, par l'analogie des épouses d'Abraham, l'une chaldéenne et l'autre égyptienne. Rabelais insiste également sur le rôle apocalyptique de la Vierge Marie. En bref, ce corpus est celui d'une pensée traditionaliste en totale opposition avec la pensée humaniste des lumières, de la naissance de la modernité. 
 
Par ailleurs, ce n’est certainement pas un hasard si l’invention de l’imprimerie en Europe correspond à la création, pour la première fois, de sociétés ésotériques profanes, laïques, telle que la Société Angélique à Lyon.
 
La rupture technologique suivante dans l’histoire de l’écriture, après l’imprimerie, est l’ordinateur. Après que la phrase ait été fragmentée par le système de l’imprimerie, c’est la lettre elle-même qui se fragmente sous l’effet de la pixellisation numérique. Comme l’avait très bien vu Abellio dans son roman La Fosse de Babel publié en 1962.
 
Au chapitre VI, le policier Pirenne exhibe sa gigantesque machine automatique de gestion d’informations sur les individus : c’est une « trieuse d’âmes ». « Vous êtes ici en présence du premier chef-d’œuvre de la police quantitative », explique Pirenne. « On raconte l’histoire de ce fantassin de l’armée Vlassov qui, étant ivre, en juin 44, à Sotteville, près de Rouen, coupa le doigt d’une jeune fille pour lui voler sa bague. On le retrouva en trois jours, à Strasbourg, un an et demi après, en sachant seulement qu’il était blond, mesurait environ 1 m 80 et avait une fossette au menton… Un jour, chaque homme aura sa fiche et on pourra, en un point quelconque du monde, à des milliers de kilomètres de chez lui, remonter instantanément dans son passé. Il n’y aura plus de distance et plus de passé ».
 
Raymond Abellio prophétise en ce roman en 62 le règne totalitaire de l’ordinateur qui abolit le temps et l’espace.
 
On retrouve ainsi une parfaite similarité entre l’évolution de l’écriture et les phases principales de la modernité chez l’homme décrites par Guénon : la lettre et l’être connaissent la même régression spirituelle : d’abord la coupure du lien transcendantal (invention de l’écriture), puis la coupure des liens horizontaux et la naissance de l’individualisme (isolement des lettres par l’imprimerie), et enfin la dissolution de l’être (pixellisation de la lettre). On ne lit pas un texte sur ordinateur, on le regarde, c’est tout à fait différent.
 
Enfin, voici la phase ultime. Avec internet, tous les ordinateurs du monde sont reliés les uns aux autres, et chaque pixel est instantanément délocalisé et mis en réseau. Le protestantisme est né avec l’isolement de la lettre ; le flicage généralisé des uns par les autres (la police parfaite) est né avec l’ordinateur ; avec la mise en réseau des pixels, est née la pensée en toile d’araignée : le complotisme.
 
J’ai suffisamment écrit sur le complotisme pour ne pas avoir à m’étendre sur le sujet. Lisez mondernier texte sur le sujet, mis en ligne sur le blog de Parousia le 16 février 2014, et titré « Le complotisme, cet anaconda dont nous écraserons la tête à coups de talon ». Je rajouterais simplement que cette pensée spécifiquement infantile produit des dégâts considérables en matière de religion et de politique.
 
Le versant religieux du complotisme se voit dans le succès grandissant du sédévacantisme, cette hérésie typiquement moderne où chacun prétend avec sa propre science infuse que le Vatican n’est plus le Vatican. Même Mgr Lefèvre n’a jamais été sédévacantiste ! On voit des traces de satanisme partout, sur le moindre cheveu du moindre curé de campagne.
 
Mais les ravages du complotisme en matière de politique sont tout aussi ahurissants.
 
On peut trouver sur internet une vidéo titrée « Incroyable : Poutine est juif et veut le nouvel ordre mondial ! », toujours relayée par les mêmes ahuris. En voici quelques commentaires.
 
7mn40 : On voit Poutine serrer la main du Pape François. « Tout le côté pseudo chrétien et anti-corruption de Poutine, c’est du théâtre ». Il est vrai que dans l’ombre des extra-terrestres, les illuminati à la tête du Vatican mettent la Cabale au sein de la prochaine société antéchristique…
 
9mn15 : « Il faut savoir que Poutine est juif, par sa mère qui s’appelle Maria Ivanovna Shalomova ». Il faut savoir que je suis moi-même juif, mon véritable nom est Laurent Jamesovitch, et je suis un ashkénaze infiltré dans les milieux eurasistes pour tout balancer aux flics. Je vous assure que c’est ce que l’on raconte dans certains milieux !
 
12mn50 : « Il faut savoir que Poutine a du sang sur les mains : Boris Nemtsov, Anna Politkovskaya ». La source ? Bloomberg News !
 
13mn42 : « Illuminati Puppets »
 
33mn : A propos de l’eurasisme : « Ca permet de brouiller les cartes des nations, et de faire croire que les nations, c’est dépassé ». Pour les complotistes, l’eurasisme est un mondialisme. Toujours cette confusion sempiternelle, ancrée – comme je l’ai montré – dans la confusion entre Atlantide et atlantisme.
 
34 mn : « Douguine, c’est un Brzezinsky russe »
 
« Ca me rappelle la deuxième guerre mondiale, où on avait d’un côté un camp inspiré par Marx (les russes), et de l’autre par Nietzsche (les allemands). A chaque fois, c’est des faux théoriciens qui viennent donner une idéologie pour permettre aux gouvernants d’être suivis par la foule ».
 
41mn30 : « Forcément, nos élites ne vont pas nous montrer le mauvais côté de la Russie, si c’est la Russie qui doit diriger le nouvel ordre mondial. C’est logique. Il faut forcément que le nouvel ordre mondial donne envie aux gens. Donc c’est pour ça que l’ancien ordre mondial, donc l’occident, qui se fait détruire parce qu’il est chrétien et que c’est l’ennemi des juifs, est déprécié. Donc en fait on montre une Russie complètement forte et largement supérieure à l’occident, parce que justement le but c’est d’écraser l’occident. Voilà, j’espère que vous avez compris la stratégie ». « Le but est l’instauration d’un nouvel ordre mondial communiste ».
 
Le complotisme est une pensée extrémiste fabriquée par internet pour lutter frontalement contre la pensée radicale.
 
Le complotisme est une force structurellement démotivante (puisque les Etats-Unis, les illuminati et les lézards contrôlent tout, y compris Douguine et le Vatican), mise en avant pour détruire de l’intérieur la révolution eurasiste.
 
Le complotisme est la maladie infantile de l’eurasisme.
 
Je termine avec le dernier paragraphe du texte de Douguine « La Terre verte – l’Amérique ».
 
« En premier lieu, les archétypes inconscients associés à la structure spatiale et temporelle du cosmos doivent être examinés à la lumière d’une tradition métaphysique véritable et orthodoxe, qui seule peut remettre les chose à leur juste place à l’intérieur de l’ordre divin. Au contraire, s’ils restent au niveau inconscient, ces archétypes, étant efficaces et puissants, pourront toujours attirer non seulement des individus particuliers, mais aussi des nations entières, des races et des civilisations vers les conséquences les plus imprévisibles et les plus destructrices. Mais pour atteindre la tradition métaphysique capable d’illuminer par le rayon de l’intelligence divine la profondeur abyssale du psychisme, il faut faire un effort intellectuel et spirituel presque incroyable dans les circonstances actuelles, afin de s’arracher aux ‘dogmes’ infondés de la pensée profane et matérialiste qui s’est emparée de la plupart de nos contemporains, mais sans pour cela tomber dans l’occultisme chaotique, le néo-mysticisme ou le néo-spiritualisme. La meilleure voie pour cela, et même la seule, est d’accepter une religion traditionnelle et, par la pratique spirituelle, rituelle et intellectuelle de cette religion, de pénétrer dans ses aspects ésotériques et secrets, dans ses mystères.
 
Deuxièmement, seules deux traditions religieuses sont moins exposées à l’influence de la ‘Terre verte’, à savoir le christianisme orthodoxe […] et l’islam orthodoxe. En tout cas, l’orientation verticale et métaphysique de ces religions, à conditions qu’elles soient épurées à la fois de toutes leurs stratifications modernes et de leurs associations archaïques, apparaît comme une garantie suffisante d’authenticité et d’efficacité spirituelle.
 
Et enfin, il est nécessaire de former un concept purement géopolitique et non-religieux de ‘bloc eurasien’ (‘Kontinentalblock’, comme on disait autrefois), qui unirait tous les peuples et tous les Etats eurasiens dans un seul complexe autonome et soustrait au paradigme parodique-eschatologique qui opprime le monde traditionnel. Aujourd’hui, après le démantèlement du système socialiste, il n’est pas vraiment important de savoir sous quelle forme politique et étatique cela surviendra. Au niveau mondial, il est maintenant beaucoup plus important qu’un seul peuple et qu’un seul Etat affrontent ‘l’Atlantide réémergeante’ et sa mission. C’est pourquoi l’idée d’une ‘Eurasie des peuples’ ou d’une ‘maison commune’ qui aurait une forte orientation anti-atlantique et qui ferait appel aux ressources intérieures, spirituelles, religieuses, économiques et matérielles, n’est aujourd’hui pas aussi abstraite et utopique qu’elle peut le sembler à première vue. La foi dans les ‘ancêtres morts’, dans les fabricants de coca-cola, est-elle plus réaliste et plus objective ?
 
Quant au continent Amérique, la période de son expansion, selon les correspondances cycliques précises, probablement, sera tendue, orageuse, pleine d’événements inquiétants, mais aussi extrêmement brève, puisque le ‘New Age’ dont l’arrivée a été annoncée par les partisans mystiques de la ‘Nouvelle Jérusalem’, mais qui n’a pas encore commencé, finira par arriver. Son arrivée sera signalée par un grand cataclysme géographique. Et qui sait si l’Amérique, la ‘Terre Verte’, ne connaîtra pas le même destin que celui qui frappa jadis un autre continent situé dans l’Atlantique ? »

 

Contre le triptyque Nationalisme, Marxisme et Complotisme :
Eurasiste, Catholique et Révolutionnaire ! 


Laurent James, Sainte-Foy-la-Grande, 5 septembre 2015

lundi, 14 septembre 2015

Zarathoestra beleeft revival in Noord-Irak

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Door: Dirk Rochtus - Ex: http://www.doorbraak.be

Zarathoestra beleeft revival in Noord-Irak

Koerden in Noord-Irak herontdekken de oude religie van Zarathoestra als een wapen in de strijd tegen het door IS belichaamde Kwaad.

Een golf van politiek, religieus en sektarisch geweld overspoelt het Midden-Oosten. In Syrië woedt de soennitische terreurorganisatie Islamitische Staat (IS) in alle hevigheid tegen andersdenkenden en aanhangers van andere geloofsstrekkingen. In Turkije escaleert de strijd tussen het Turkse leger en de milities van de Koerdische Arbeiderspartij PKK. Iran en Saoedi-Arabië wedijveren met elkaar om de macht in de regio. Sjiieten en soennieten bestrijden elkaar om de juiste uitlegging van de islam.

Ware cultuur

De chaos drijft niet alleen vele mensen op de vlucht, maar doet ook velen onder de thuisblijvers snakken naar zekerheid en geborgenheid. Zo komt het bijvoorbeeld dat meer en meer Koerden een oude religie herontdekken. In de provincie Suleiman, in de Koerdische deelstaat van Noord-Irak, vond in de maand mei een merkwaardige ceremonie plaats. Honderden Koerden deden er een gewijde gordel, de 'koeshti', om. Ze betoonden zo hun gehechtheid aan het zoroastrisme, de religie van de Perzische profeet Zarathoestra (ook Zarathustra of Zoroaster genaamd). Ook dienden ze bij de overheid van de Kurdistan Regional Government (KRG) een aanvraag in voor de bouw van twaalf zoroastrische tempels en voor de erkenning van het zoroastrisme als officiële godsdienst. Volgens Luqman al Hadsch Karim van de zoroastrische organisatie Zand zouden met de revival van het zoroastrisme de 'ware cultuur en religie van de Koerden' weer in ere worden hersteld.

De 'betere Bijbel'

Over het leven van Zarathustra is niet veel geweten. Hij zou rond 1200 voor Christus geleefd hebben in Perzië, het huidige Iran. Hij predikte als eerste het geloof in 'één God' - Ahura Mazda, de 'Wijze Heer' of de god van het goede die strijdt tegen de duivel Ahriman -, het bestaan van engelen, van hemel en hel en het Laatste Oordeel. Al deze geloofsbeelden zouden via de Joden in ballingschap in Babylon binnengeslopen zijn in de latere monotheïstische religies. Voor de publicist Paul Moonen schreef Zarathustra daarom ook de 'betere Bijbel'. Maar juist omdat Zarathoestra als de 'vader' van het monotheïsme geldt, gebruikte de godloochenende Duitse filosoof Friedrich Nietzsche hem in een ironische omkering in zijn poëtisch meesterwerk 'Also sprach Zarathustra' om de 'dood van God' te verkondigen.

zor520-9-8df4d.jpgVuur

De zoroastriërs vereren in hun vuurtempels het eeuwig brandende vuur als afbeeld van Ahura Mazda. Het zoroastrisme groeide later uit tot de staatsgodsdienst van het Perzische Rijk. Toen de islam in de zevende eeuw Perzië veroverde, vluchtten vele zoroastriërs naar het naburige India. Vandaag de dag leven er vooral nog in Bombay een paar tienduizend 'parsi's' die vasthouden aan het zoroastrische geloof. In Iran zelf telt de zoroastrische gemeenschap een dertigduizend leden. Ze wordt in de Islamitische Republiek van Iran erkend als een minderheid. Net zoals de Armeense en de Joodse gemeenschap heeft ze recht op één zetel in de Majlis, het Iraanse parlement. Toch moet ze nog heel wat onderdrukking en discriminatie doorstaan. Ook de Jezidi's, de aanhangers van een door IS vervolgde Koerdische 'volksreligie', zouden door het zoroastrisme beïnvloed zijn. Zijzelf wijzen elke band met de leer van Zarathoestra af.

Strijdtoneel

Het zoroastrisme leek de laatste jaren op de terugweg. Het aantal gelovigen in Iran en India was aan het slinken ten gevolge van lagere geboortecijfers, vervolging en discriminatie. Merkwaardig is het dan ook dat Koerden in Noord-Irak de Oud-Perzische religie van Zarathoestra herontdekken. Sowieso zijn er culturele verbanden. De Koerden spreken een met het Farsi (Perzisch) verwante taal en in Newroz, hun nieuwjaarsfeest, speelt het vuur een grote rol. Volgens analisten zou de onzekerheid over wat nu de ware islam is nationalistische en liberaal denkende Koerden in de armen van een tolerante religie als het zoroastrisme drijven. Zarathoestra zag in de wereld het strijdtoneel van het Goede en het Kwade en riep de mensen op om de zijde van de goede god Ahura Mazda te kiezen. In zulk een wereldbeeld past voor vele Koerden ook de strijd tegen IS als de belichaming van het Kwade.

 

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dimanche, 23 août 2015

De la tradition

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De la tradition

par Patrice-Hans Perrier

Ex: http://www.dedefensa.org

La tradition, à toutes les époques, représente la « substantifique moelle » de l’ethos collectif. On parle de la durée historique sur le « long terme », de la « mémoire collective » ou du rôle métahistorique des archétypes qui tiennent le rôle d’agrégateurs des mythes fondateurs de la cité. La cité représente l’ordre consensuel qui cimente les libertés individuelles dans un contexte où toute citoyenneté qui se respecte ne peut agir qu’à travers le consensus civique. La Charte de la cité est comparable à une forme de « pacte républicain » qui ordonnance un « vivre ensemble » qui, autrement, ne serait qu’une chimère en l’espèce. Toutefois, c’est la tradition, comme force dépositaire de la mémoire collective, qui donne sa raison d’être à la vie citoyenne. Privée de tradition, la cité est condamnée à se transformer en univers concentrationnaire.

La mémoire collective et ses enjeux

« Si cette volonté, cette injonction d’être moderne, ne cesse de bouleverser les conditions de la vie commune, de faire se succéder les révolutions aux révolutions, sans jamais parvenir à se satisfaire, sans jamais parvenir à un point où nous puissions nous reposer en disant : « voici enfin le terme de notre entreprise », si cette volonté ou cette injonction ne se saisit jamais de son objet, qu’est-ce que cela veut dire ? »

- Pierre Manent, in « Les Métamorphoses de la cité – Essai sur la dynamique de l’Occident »

Cette perte des repères de la mémoire collective qui affecte nos sociétés occidentales postmodernes s’apparente, manifestement, à une fuite en avant mortifère. Et, nous l’observons tous les jours, cette fuite semble nous entraîner vers le gouffre abyssal d’une « antimatière historique », pour reprendre une catégorie conceptuelle mise de l’avant par Philippe Grasset. Nous serions entrés, d’après certains historiens, dans l’ère de la postmodernité à la suite de la Seconde Guerre mondiale. C’est donc dire que ceux qui ont le pouvoir d’écrire l’histoire ont décrété la fin de la modernité, c’est-à-dire le délitement de cette « époque des lumières » à l’intérieur de laquelle le « mythe du progrès » jouait un rôle d’agrégation et de consentement essentiel. Mais, vers où sommes-nous donc entraînés ?

Qu’il nous soit permis de reprendre une intervention d’Éric Basillais, un commentateur particulièrement actif sur le site Dedefensa.org. Ce dernier soulignait, à la suite d’un article intitulé « Vertigo », que « si subversion il y a, elle tient à un habitus Marchand (l'échange, la monnaie,...) dans un premier sens historique; et à une subversion du COSMOS (en CHAOS au final) si l'on songe (et croit) aux Eschatologies de la TRADITION (Hindoue, Germanique, Celtique...) ». À l’instar d’Éric Basillais, nous estimons que la tradition constitue, bel et bien, un processus métahistorique d’agrégation des cultures et des cultes, dans un sens fondateur. Ainsi donc, la TRADITION, peu importe les enjeux idéologiques ou spirituels, est le lit sur lequel prendra forme une nouvelle société, une nouvelle cité.

C’est par la médiation de la mémoire traditionnelle que s’accompliront la dissolution d’une cité et sa refondation dans un nouvel espace de représentation. La tradition est immémoriale, a-historique, indépendante des lectures orientées de l’histoire humaine et dépositaire d’une mémoire collective qui permet aux générations de se succéder en espérant pouvoir approfondir le legs de leurs géniteurs. La tradition, au sens universel, représente la mémoire de l’humanité, non pas un ensemble de prescriptions se rattachant à une culture en particulier.

C’est ce qui a poussé Mircea Eliade à professer que les rituels qui se répètent in illo tempore, en dehors de la contemporanéité, à une autre époque, permettent aux archétypes de survivre et d’irriguer la mémoire collective. Une mémoire collective correctement irriguée fera en sorte que les citoyens puissent approfondir leur passage en cette vie, donner un sens à leur existence. Pour paraphraser Eliade, on pourrait souligner que les places sacrées de la cité le deviennent parce qu’une collectivité y a accompli, sur le long terme, « des rites qui répètent symboliquement l’acte de la Création ». La tradition, si l’on approfondit cette vision des choses, est manifestement indépendante de l’« habitus Marchand », pour reprendre l’expression d’Éric Basillais. Voilà pourquoi l’« ordre marchand » tente de « liquéfier » nos sociétés postmodernes, pour que rien ne vienne entraver la libre circulation des commodités. Les commodités sont des valences qui permettent au pouvoir de dominer l’espace et le temps, d’acheter l’ « humaine condition » et de transformer la cité en univers concentrationnaire.

La TRADITION représente, pour l’imperium, l’ennemi numéro 1 à abattre, vaille que vaille.

Nous avons pris le parti de lancer un débat herméneutique qui portera sur le rôle de la TRADITION au cœur de la cité humaine. Ce mortier spirituel aura permis aux sociétés de s’ériger sur le mode d’une cité symbolique favorisant l’épanouissement de l’humanité en définitive. Toute société qui se coupe de la tradition est condamnée, à brève échéance, à se muer en univers concentrationnaire, à devenir l’« agora du chaos » [dixit PHP]. Loin de nous l’idée de perpétuer une vision nostalgique, pittoresque, de l’histoire. Il nous importe, a contrario, de partager avec nos lecteurs notre appréhension viscérale du délitement d’une tradition menacée par la vision luciférienne d’un « progrès illimité », véritable deus ex machina au service de la « volonté de puissance » de nos maîtres réels. En espérant qu’un authentique débat puisse naître à la suite de notre analyse.

Les fondations de la cité

« La cité, la polis, est la première forme politique. Elle est la condition de production ou la matrice d’une forme de vie nouvelle, la vie politique, la vie dans laquelle les hommes se gouvernent eux-mêmes et savent qu’ils se gouvernent eux-mêmes. Cette forme de vie peut prendre des formes diverses, car il y a différentes manières de se gouverner. »

- Pierre Manent, in « Les Métamorphoses de la cité – Essai sur la dynamique de l’Occident »

Nous tenterons, malgré l’étendue du sujet, de cerner l’importance de la tradition comme source immémoriale. La cité grecque représentant l’apex de la médiation (politique) des rapports citoyens, elle nous sert de représentation symbolique d’un stade de gouvernance qui semble indépassable au moment de composer notre analyse. Mais, outre le fait qu’elle permette d’organiser la collectivité, qu’est-ce qui fonde la cité ?

Pierre Manent, chercheur en sciences sociales, nous rappelle que « les auteurs grecs (Aristote et consorts) n’ignoraient pas l’existence d’autres formes politiques que la cité, s’ils montraient peu d’intérêt pour elles. Ils connaissaient fort bien deux autres formes politiques au moins, à savoir la tribu – ethnos – et l’empire (en particulier l’empire perse qui s’imposa plus d’une fois à leur attention !). On pourrait ajouter une quatrième forme, celle des monarchies tribales… ». La nation, pour sa part, est une structure politique forgée tout au long d’une modernité qui allait tenter de fédérer des ensembles de cités qui, autrement, seraient condamnées à se faire la guerre. Les nations de la postmodernité tiendraient-elles le rôle des antiques cités ? Les nouvelles formes d’unions fédérales devenant le mortier de cette gouvernance mondiale tant abhorrée par ce qu’il est convenu d’appeler la « dissidence ».

Certains anarchistes, pour leur part, professent que la polis génère un état d’enfermement qui brime les droits fondamentaux de ses sujets au profit d’une concentration de pouvoir entre les mains d’une élite prédatrice. Leur vision d’une autogestion fédérée par une constellation de syndicats en interrelation dynamique nous fait penser au monde tribal des anciennes nations amérindiennes. Cette vision idyllique d’un univers tribal « non-concentrationnaire » ne semble pas tenir compte du fait que la guerre ait toujours été une condition naturelle de cet état d’organisation politique primitive.

La guerre permanente était, aussi, une condition naturelle inhérente au rayonnement de la cité grecque. Toutefois, comme le souligne Pierre Manent, «… le politique ancien est un éducateur inséparablement politique et moral qui s’efforce de susciter dans l’âme des citoyens les dispositions morales « les plus nobles et plus justes » ». Si la cité moderne a pacifié nos ardeurs guerrières, c’est l’appât du gain qui est devenu le modus operandi d’une politique qui revêt toute les apparences d’une médiation entre des intérêts financiers qui menacent la pax republicana. Pour simplifier, on pourrait dire que les philosophes étaient les politiques (politiciens) de l’antiquité, alors que les épiciers (pris dans un sens négatif) sont les politiques de la postmodernité.

Qu’est-ce qui fonde la cité ? C’est la famille; le récit de l’Iliade est sans équivoque sur la question. Lorsque le troyen Paris enlève la belle Hélène, il provoque la colère des Grecs et, de fil en aiguille, le siège de la ville de Troie se met en place sur la base d’une saga familiale. Ce sont les liens filiaux, en dépit des rançons exigées, qui sont en jeu et non pas une volonté de puissance automotrice. Toutefois, les héros de cette tragédie épique sont emportés par la folie de l’hubris et sont les auteurs de forfaits impardonnables. Un retournement de la destinée fera en sorte qu’Achille (le champion des grecs) finisse par céder aux supplications du roi Priam traversant les lignes ennemies pour réclamer la dépouille de son fils Hector. Il s’agit d’un moment-clef du récit construit par Homère. L’auteur y démontre que c’est en raison du respect de la filiation que les vainqueurs finiront par se montrer cléments.

Athena..jpgOn pourrait, facilement, opposer l’idéal de la cité (le rayonnement des familles patriciennes) à celui de l’imperium (le nivellement des citoyens afin qu’ils deviennent des sujets consentants). Que s’est-il passé, en Occident, pour que l’idéal de la cité finisse par imploser sous la pression d’un imperium protéiforme et « multicartes »?

Dominique Venner, historien français décédé en 2013, déplore, comme tant d’autres, cette perte de mémoire qui afflige nos élites intellectuelles (…) et il ne se gène pas pour pointer du doigt cette « métaphysique de l’illimitée » qui semble avoir fourni à l’imperium ses meilleurs munitions. Venner admire la sagesse antique des stoïciens qui s’appuyait, entre autres, sur le respect des limites qui sont imparties à la nature environnante. Il souligne, à l’intérieur de son dernier essai (*), que « la limite n’est pas seulement la frontière où quelque chose s’arrête. La limite signifie ce par quoi quelque chose se rassemble, manifestant sa plénitude ». Cette notion de borne, ou de limite, recoupe toute la question, combien controversée, des frontières, de l’identité et de la filiation. Dominique Venner rend justice à la contribution du philosophe Martin Heidegger, notamment pour son essai intitulé « Être et Temps », qui a su définir « le monde contemporain par la disparition de la mesure et de la limite ».

Le rituel de la consommation

Mais, comment sommes-nous passés d’une civilisation agraire, à l’écoute des rythmes de la nature, à cet espèce de VORTEX du commerce qui désintègre tous nos habitus, nos lieux communs? La mémoire collective se déploie sur le cours d’une histoire longue, elle consiste en une agrégation de rites qui fondent leurs pratiques sur des cités pérennes. Le commerce, a contrario, nécessite une fluidité constante, des flux tendus qui permettent de produire, écouler, échanger, retourner, recycler, détruire et recommencer le cycle de la production-consommation de manière quasi instantanée. Consommer c’est oublier qui nous sommes, puisque la marchandise impose son langage propre au sein de nos agoras qui sont devenues des places marchandes. Le commerce ne constitue pas un problème en soi; c’est son développement sans limites et son instrumentalisation au profil de la sphère financière qui blessent. Guy Debord, nous le répétons, n’aurait pas hésité à affirmer que « c’est la marchandise qui nous consomme » en définitive.

La consommation demeure le seul rituel toléré par l’ordre marchand. À l’instar de la marchandise qui se déplace, suivant les flux monétaires, nos habitudes de consommation sont instables, elles induisent des rituels qui ne sont fondés que sur des concepts arbitraires. Dans de telles conditions, la cité se dissout et, invariablement, les rapports citoyens se distendent. Curieusement, plusieurs grandes « marques » commerciales se sont glissées, tels des parasites, sous la dépouille de termes empruntés à la mythologie. Ainsi, les chaussures Nike ont été affublées du nom de la déesse grecque de la VICTOIRE (Niké). Idem pour les voitures Mazda, empruntant au dieu perse Ahura Mazdâ la prérogative d’être un « Seigneur de la Sagesse ». Les commodités du monde marchand se sont infiltrées à travers tous les pores de la cité, au point de permettre à la caste aux manettes d’investir nos repères symboliques afin de les récupérer.

Wall Street représente l’Acropole, ou cité des dieux. Les centres commerciaux tiennent la place de temples de la consommation. Les vendeurs ressemblent, à s’y méprendre, à des prêtres officiant au culte de l’achat compulsif et salutaire. Les marques affichées sur les bannières servent à nommer les divinités tutélaires de la cité marchande. Et, in fine, les logos commerciaux se sont substitués au logos, c’est-à-dire le discours de la raison des antiques philosophes. Les logos commerciaux nous propulsent en arrière, à l’époque des hiéroglyphes, en s’imposant comme « signes moteurs » de la communication. Il n’y a qu’à observer les nouvelles formes d’écriture tronquée utilisées pour transmettre des message-textes via nos téléphones « intelligents » pour comprendre l’étendu des dommages. De facto, on pourrait parler de « troubles moteurs » de la communication. Ainsi donc, c’est toute la syntaxe des rapports langagiers qui est déconstruite, déstructurée, au gré d’une communication humaine calquée sur celle des échanges marchands.

Le Léviathan de la sphère marchande

Qu’est-ce qui nous prouve que les fondations de la cité aient été pulvérisées par l’ordre marchand en fin de parcours ? Le fait qu’un ancien cimetière soit converti en centre d’achat, ou qu’une église désaffectée se métamorphose en édifice à condominiums, tout cela nous interpelle. Il n’est pas surprenant, dans un tel contexte, d’assister à la multiplication de profanations qui visent les cimetières, et autres nécropoles (cités des morts), où ont été enterrés nos ancêtres. Ceux et celles qui profanent et souillent les sites sacrées de nos cités dévoyées agissent au profit de l’ordre marchand. Il s’agit de banaliser, de néantiser, tous les lieux de la mémoire collectives qui conservent (pour combien de temps?) une part inviolable de cette tradition immémoriale. Lorsque certaines églises étaient érigées sur les décombres d’anciens sites de rituels païens, il ne s’agissait pas de souiller la mémoire collective en abrogeant la symbolique initiale des lieux. La tradition avait, donc, été respectée dans une certaine mesure. Le Genius loci (Esprit du lieu) n’avait pas été transgressé.

À l’heure du néolibéralisme, dans un contexte où de puissants intérêts privés investissent les espaces de la cité, tous nos rites immémoriaux sont menacés d’extermination. Enterrer ses morts constitue une pratique universelle qui aura contribué à façonner nos espaces collectifs. De nos jours, par soucis d’économie et au nom de la protection de l’environnement, nous utilisons la crémation (ici, nous ne remettons pas cette pratique en question) afin de faire disparaître toute trace du défunt et l’urne funéraire, posée tel un bibelot sur une console, a définitivement pris la place de la pierre tombale. Les morts n’ont plus droit de cité, ils sont devenus des itinérants, sans domicile fixe, qui, passant d’une main à l’autre, ne peuvent même plus reposer en paix ! Tout doit circuler dans le monde marchand. Même les morts …

Pierre Manent souligne, dans son essai intitulé « Les métamorphoses de la cité », que la caste des guerriers dans le monde de l’ancienne Grèce constituait le « petit nombre » des citoyens aux commandes de la polis. Outre leurs prérogatives guerrières, les patriciens s’adonnaient, aussi, au commerce qui permettait à la cité de s’épanouir en tissant des liens avec d’autres cités concurrentes. Maîtres du commerce, les patriciens ne possédaient pas de grandes richesses, hormis des propriétés terriennes et des titres se rapportant aux tombeaux des ancêtres. Il ajuste le tir en précisant que « le petit nombre était surtout propriétaire de rites – rites funéraires, rites de mariage –, tandis que le grand nombre n’avait que la nudité de sa nature animale. Le grand nombre était extérieur au genos, ou à l’ordre des « familles », comme plus tard l’étranger (métèque) « proprement dit » sera étranger à la cité ». L’auteur cerne, avec précision, la notion capiton de filiation, dans le sens d’une passation de prérogatives qui n’ont rien à voir avec une quelconque fortune personnelle. Nul de besoin, ici, de discuter (ou de nous disputer) des limites objectives de cette démocratie primitive limitée aux descendants (patriciens) d’une haute lignée. Le point de cette observation portant sur l’importance des rites funéraires dans le cadre d’une transmission de la mémoire collective, sorte de « génome » de la cité.

Les puissantes guildes marchandes de la Renaissance permettront au grand capital de circuler et de concurrencer le pouvoir tutélaire des patriciens. L’auteur Thomas Hobbes, dans son célèbre traité intitulé « Le Léviathan », oppose le droit naturel à un contrat social qui représenterait les fondations politiques de toute société évoluée. Une société où tout un chacun tire sur la couverture peut se désagréger sous l’effet délétère de la guerre civile et dégénérer en chaos. Rappelons que le terme Léviathan représentait le monstre du chaos primitif dans la mythologie phénicienne. C’est précisément la figure symbolique du chaos qui semble menacer une tradition par laquelle se fondent les « rapports citoyens durables ». Et, c’est la notion moderne de progrès illimité qui conforte toute la politique d’une sphère marchande emportée par un hubris sans vergogne. Pierre Hadot, un spécialiste cité par Dominique Venner, nous prévient que « le « oui » stoïcien est un consentement à la rationalité du monde, l’affirmation dionysiaque de l’existence dont parle Nietzsche est un « oui » donné à l’irrationalité, à la cruauté aveugle de la vie, à la volonté de puissance par-delà le bien et le mal ».

L’hubris au service d’une volonté de puissance démoniaque

Nous sommes rendus au terme de notre analyse critique et nous devons conclure, faute de temps et d’énergie. Qu’il nous soit permis de revenir sur cette notion d’« affirmation dionysiaque de l’existence » afin d’expliciter le rôle de la « contre-culture » au sortir de la Seconde Guerre mondiale. Prétextant une étape inévitable, au cœur d’un fallacieux processus de libération, les activistes à l’œuvre dans les coulisses de Mai 68 ont moussé l’« affirmation dionysiaque de l’existence » dans un contexte où l’« état profond » souhaitait accélérer le cours des choses. « Il est interdit d’interdire » deviendra l’antienne d’une communication au service de la dissolution des repères identitaires qui auraient dû, normalement, guider l’éclosion des forces vives du « baby boom » de l’après-guerre.

Jim Morrison, chantre emporté par un hubris débridé, déclame vouloir « faire l’amour à sa mère et tuer son père ». Brisant le tabou fondateur de la famille, unité de base de la cité, Morrison inaugure, tel un prophète de malheur, une nouvelle ère. Cette ultime provocation agira comme le « geste fondateur » d’une « rébellion sans cause ». La jeunesse paumée de l’Amérique se mettra à danser en solitaire dans les discothèques, en répétant, pour paraphraser le philosophe Michel Clouscard, la gestuelle d’une rébellion supposément révolutionnaire. Il s’agissait, pour dire vrai, de se mouler aux exigences de la nouvelle « société de consommation » afin d’épouser les gestes d’un automate programmé dans ses moindres affects par les « sorciers » de la « contre-culture ». Et, à coup de drogues de plus en plus dures, il sera possible de rendre amnésique la jeunesse pour qu’elle ne soit plus JAMAIS capable de renouer avec ses racines.

 

Patrice-Hans Perrier

Petite bibliographie

(*) Un samouraï d’Occident – Le Bréviaire des insoumis, une source de références incontournable achevée en 2013. Écrit par Dominique Venner, 316 pages – ISBN : 978-2-36371-073-4. Édité par Pierre-Guillaume de Roux, 2013.

(*) Les Métamorphoses de la cité – Essai sur la dynamique de l’Occident, une étude synoptique de l’histoire politique de l’Occident achevée en 2010. Écrit par Pierre Manent, 424 pages – ISBN : 978-2-0812-7092-3. Édité par Flammarion, 2010.

samedi, 22 août 2015

Impersonalità metafisica e assenza dell’illusione dell’Io

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Impersonalità metafisica e assenza dell’illusione dell’Io

 

di Giandomenico Casalino

Ex: http://www.ereticamente.net

Perché, nel mondo indoeuropeo, non vi è la presenza della “personalità” nel senso di Io come Soggetto, ma vi è solo il Sé che è il Principio Ordinatore del Mondo che è nel Mondo ed è l’Intelletto attivo-divino di Aristotele? Per la ragione che, se la “parte” superiore dell’uomo, quella divina, non è “personale”, nel senso che non è del soggetto né si identifica con esso, è vero invece che la “persona”, il Soggetto, l’Io, uccidendosi come tale, deve salire (Ascesi) verso il Nous, lo Spirito ed identificarsi con esso, con la “parte” superiore; deve ricordare, prendere coscienza e quindi Sapere che egli nella sua vera realtà è il Pensiero Cosmico, l’Oggettivo, l’Eterno, e che non è mai stato “io” (coscienza, intelletto – nel senso hegeliano – sentimenti, passioni…); che tale fantasma (io storico-sociale, soggetto alla coscienza di veglia) non solo scompare e si dilegua ogni volta che l’uomo si avvicina al processo di dissociazione, che è la morte, in un itinerario che è poi alquanto simile a quello del sonno (Eraclito); ma è “qualcosa” di tanto labile, transeunte e fallace che, in sostanza, non è alcunché di stabile, di epistemico. Allora “anche” lo stesso Principio cosmico, il Divino, to Thèion, è impersonale, nel senso che supera, va oltre il concetto di “persona”, di soggetto, di Io, e, quindi, per causalità filosofica, la sapienza indoeuropea è oltre la “dialettica” teismo-ateismo, in quanto, poiché il Divino non ha alcuna natura “personale”, non può sussistere il Dio-persona, al quale si attribuiscono conseguenzialmente le potenze dell’animo della persona: volontà, amore, gelosia…; al quale si può contrapporre solo la negazione di esso con l’atteggiamento spirituale dell’ateismo.

Da ciò  discende che in  tale visione del  Mondo,  il  “problema” della “immortalità” dell’anima, nel mondo indoeuropeo, non sussiste come tale per la semplice ragione che il Principio Divino, intelletto attivo in termini aristotelici, pur presente nell’uomo in genere, in guisa però incosciente, è presente in senso attivo e cosciente solo in colui il quale si identifìca consapevolmente con esso, in colui il quale vive il bios theoretikòs e, anche per un Istante, esperimenta nella pura Contemplazione, ciò che gli Dei sono sempre! Pertanto non vi può essere, nel mondo indoeuropeo, concezione di una “immortalità”, che poi scade e si rivela pura e semplice “speranza” di sopravvivenza personale dell’anima, poiché il soggetto come individuo non è assolutamente pensato e ciò che è nobile ed eterno in esso in tanto lo è in quanto nulla ha a che fare con l’individualità soggettiva ma bensì con l’Oggettività dello Spirito, essendo questo, peraltro, il “riflesso” del Principio Divino cosmico che è impersonale. Nel mondo arcaico omerico e romano vale, pertanto, il discorso relativo alla virtus eroica: è la Gloria dell’Eroe, in quanto il migliore (àristos) tra gli uomini, che viene cantata dalle Muse attraverso il Cantore, tale è l’immortalità genuinamente indoeuropea: quella dell’eroe; solo Eracle giunge alla divinificazione ed all’accoglimento nell’Olimpo. E qui si deve riflettere sullo “strano” destino del semantema della parola greca dòxa: nel mondo omerico essa ha il significato dell’apparire della Luce, della Gloria, è l’onore che avvolge e distingue l’Eroe quando si presenta agli occhi della comunità dei guerrieri ed è quindi l’apparenza di ciò che appare, nel senso che ciò che l’Eroe è nell’ “interno” (di cui come tale l’Eroe comunque non ha coscienza…), nell’animo, è identico a ciò che è nell’ “esterno”, nella forma in cui appare come esistenza della sua essenza, poiché, come abbiamo già detto, è uomo trasparente ed aperto al Mondo.

La stessa parola, dopo l’avvento della decadenza della spiritualità greca che conduce all’oscurarsi della trasparenza in un’opacità spessa ed impenetrabile, l’apparenza, la dòxa, non è più la Luce “interna”-”esterna”, ma la coltre di nebbia della non-conoscenza, è ciò che nasconde e cela “qualcosa” che forse c’è ma che potrebbe anche non esserci e, pertanto, è opinione e quindi fallibile. Essa ormai come apparenza che inganna, che nasconde, può essere cacciata via solo dal suo “contrario”: dalla Verità che in greco si chiama proprio Alètheia e cioè quella “forza” che elimina, annulla (a privativo) il Lanthàno che è il nascondimento e che è come dire il “nuovo” significato di dòxa. Infatti in Platone tale processo è già completo, e la dòxa-opinione non è conoscenza proprio perché è frutto dell’inganno dell’apparenza che è la serie di ombre (vedi il mito della Caverna…) che oscurano e ingannano la vista; l’apparire non è più l’Essere, l’esistenza non coincide più con l’essenza (ed è straordinario che tale recuperata identità sia invece proprio l’oggetto di cui tratta Hegel nella Scienza della Logica - Logica oggettiva – che è il Sapere dell’Assoluto…) e quindi la falsità dell’apparenza, il suo inganno, devono essere superate mediante l’Ascesi sapienziale per giungere all’ “interno”, poiché esso, lo Spirito, non è più visibile, “esterno” nel mondo, non è più apparente, nel senso che non appare più come forma intelligibile, se non agli occhi dello Spirito di colui che è iniziato al logos filosofico; e siamo già nella lotta per lo Spirito che ingaggiò Platone e nella differenza (tragica…), da lui tematizzata, tra dòxa (opinione) ed epistème (Sapere incontrovertibile poiché anipotetico).

*****

augbef6yo9.jpgÈ in Agostino e nei suoi dialoghi interiori con il suo Dio che nasce l’Io moderno come soggetto-singolo; Agostino dice per la prima volta: “Ego”, anticipando Cartesio e tutto il soggettivismo moderno. Pertanto effettuale all’assenza di qualsiasi personalismo o soggettivismo, in quanto non vi è, nel mondo indoeuropeo, alcuna presenza dell’Io, come si è accennato sopra, è l’inesistenza culturale della tematica “teismo-ateismo” che è processo dialettico paralizzante interno alla cultura astratta del monoteismo creazionistico e potenzialmente ateo, in quanto concepisce Dio come persona (personalizzazione del Divino) dotata di volontà e “progetto”  creativo,  d’  “amore”  e  di  “compassione”,  il  tutto  in  una “umanizzazione” del Divino a cui, giustamente, W.F.Otto contrapponeva la elevazione greca ed indoeuropea dell’uomo verso il Divino e cioè la “divinizzazione” dell’umano (omòiosis theò). Nel mondo spirituale indoeuropeo in tanto non vi è dualismo religioso, in tanto il Divino è nel Mondo, in quanto esso (il Divino) non è nulla di personale, di “umano”, e quindi di “staccato” dal mondo; esso è, invece, il Principio del Mondo, il suo Arché ed è presente “in esso” impersonalmente poiché Potenza Divina nel Mondo medesimo; essendo (il Divino) il Mondo stesso però nella sua essenza: come Idea dell’Unità; in caso contrario non avrebbe avuto senso la sapienza ellenica che insegna (da Talete a Proclo…) che il mondo è ricolmo di Dei! L’assenza del concetto teistico di persona fa cadere nel nulla dell’inesistenza l’altro polo ad esso connesso: l’ateismo, il quale sorge inesorabilmente quando quella “persona” viene meno perché scompare la fede (secolarizzazione… modernità).

La spiritualità religiosa greco-romana è fuori, è estranea a tali tematiche, poiché non conoscendo il teismo non conosce nemmeno l’ateismo, se non come atto mentale (ýbris) di un folle che nega il Mondo, la phýsis e cioè l’evidente che è il Divino.

La  consapevolezza  fondata  sul  sapere  che  è  assente  qualsiasi  realtà “individuale”, (1) “personale”, “mia” nella “componente” immateriale dell’umano è ulteriore segno che evidenzia la tradizionale ed oggettiva spiritualità del mondo indoeuropeo. Se il Principio, il Nous, l’intelletto attivo, l’anima razionale è principio divino e immortale, nell’uomo Esso non è dell’uomo ma è bensì tutt’altro che individuale o “mio” o “suo”; è infatti universale ed ecco la ragione per cui è l’unica “parte” immortale nella realtà che abbiamo convenuto di chiamare “immateriale”. Quest’ultima è anche la “parte” che appare personale, individuale, che inerisce “quel” carattere, “quella” persona ed è il “suo” genio che, in termini biologici, è il corredo genetico; anche questo è, sulla superficie, l’Io storico-sociale, qualcosa che appartiene a quella persona e non ad altri, ma, al di là delle personali differenze, il carattere, la natura in senso sovrapersonale è quella realtà che è costante nella sua lineare tipicità come Demone della razza; ed anche questo non ha, nel profondo, nulla di personale, anche se così appare. La forma vitale pura che, quasi come “terzo” elemento o strato, è alla base del vivente, anzi è il vivente dal punto di vista della stessa, è anch’essa assolutamente oggettiva ma subpersonale, nello stesso (simile) modo in cui l’Intelletto divino è oggettivo ma superpersonale. Plotino, infatti, insegna che all’Uno che è oltre la Forma, “corrisponde”, nell’oscurità degli “abissi”, (dove, se pur fioca, giunge la Luce…) “qualcosa” che è sotto la Forma e ciò nel macrocosmo; se alla parola “forma” si sostituiscono le parole: personalità, carattere formato, allora nel microcosmo vale il medesimo discorso così come afferma anche la cultura egizia, dove la “tripartizione”, che è trifunzionalità dell’unità “immateriale”, è definita AKH, BA e KA. Si può affermare che l’uomo indoeuropeo, in quanto, come si è più volte ribadito, “uomo aperto al Mondo”, uomo cosmico, è attraversato dalle Potenze Cosmiche, che non sono e non possono essere “sue” quasi quanto il “carattere”, la “personalità” lo sono in apparenza e nel modo in cui si è detto.

Lo Spirito, dunque, è relazione, è unione, è organicità funzionale, è armonia, è Ordine, è Forma, e quindi è intelligibile dallo Spirito stesso ed ecco il Circolo: l’esperienza dello Spirito è l’esperienza (sua) dello Spirito ma è simultaneamente, dall’eternità, esperienza dello Spirito (come “oggetto” di essa…). La Vita è la potenza ribollente che è alla base, da essa, essendo in essa come potenza, proviene l’Anima che è la sottilizzazione e la sensibilizzazione della Vita, è la sua Verità, è ciò a cui deve pervenire e perviene da sempre, anzi è sempre pervenuta, come “accade” allo Spirito che è la potenza luminosa che proviene dall’Anima.

II termine “potenza” non ha alcun semantema quantitativo o irrazionale come “parti” o “facoltà” dell’Anima, ma è adottato con lo stesso significato che dýnamis ha nel lessico plotiniano. Se lo Spirito, provenendo dall’Anima, è lo Svegliarsi dell’Anima, allora comprendiamo la ragione per cui l’Anima è il «sonno dello Spirito» (Hegel); ciò significa che, come sapeva Eraclito, il sonno è simile alla morte, come processi del distacco, e quindi l’Anima, il sottile sensibile che giace nella Vita, staccata dal sostegno del corpo cioè dallo Spirito pietrificato (che dovrà essere sciolto dai legami e Svegliato) vaga nel “vuoto” e la sua “conoscenza” non sarà vera, né formale ed intelligibile, né cosmica né armonica, ma approssimativa e minacciosa, irrazionale nel senso di irreale, simbolica; l’anima “libera” dai legami che la tengono “unita” sia al corpo che allo Spirito, viaggia sulla barca della Vita (che è la base, la sua base, come il “mare”) nelle Acque del Sogno per parlare un linguaggio simile a quello del Mito, poiché il Mito nei Popoli è “vicenda” analoga a quella che “accade”  all’uomo.  Con  il  distacco  (nel  sogno)  l’Anima  giunge  nel “mondo dei morti” (Ade), tali sono i viaggi dell’Anima.

Note

1 J.M. RIST, Eros e psyche. Studi sulla Filosofia di Platone. Plotino e Origene, Milano 1995, p. 136 e ss..

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mardi, 11 août 2015

Asatru: A Native European Spirituality

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Stephen A. McNallen’s Asatru: A Native European Spirituality

Mcnallen-200x300.jpgStephen A. McNallen
Asatru: A Native European Spirituality
Runestone Press, 2015

The Good Preacher

Steve McNallen is a serious character. A former U.S. Army Ranger, he has hitchhiked across the Sahara Desert and traveled to such exotic locales as Tibet and Burma, usually to report on military conflicts. His articles have appeared in Soldier of Fortune magazine (a periodical that fascinated me when I was a teenager, especially the classified ads in the back). McNallen has also worked as a jailer, a juvenile corrections officer, and has served in the National Guard (he was witness to the Rodney King riots back in 1992). Oh, and he taught math and science for six years in an American high school, using his summer vacations like Indiana Jones, setting off on foreign adventures.

Steve McNallen is also the man principally responsible for the revival of Asatru in North America. He gives us a brief overview of his life, written with typical modesty and understatement, in this wonderful new book, several years in the making. McNallen tells us that he decided to follow the gods of his ancestors while he was in college “in either 1968 or 1969” (p. 61).

I like the honesty of this. A lot of men, if they were uncertain which year it was, would have just picked one, perhaps even giving a specific date: e.g., “Walpurgisnacht 1969!” But McNallen is not concerned to make an impression, or create an image for himself. His sincerity, earnestness, and lack of pretension have a great deal to do with why he has become a genuine religious leader.

Steve_McNallenWhen I first met McNallen I thought “this man is a born preacher.” I come from a long line of Methodists, and some of my ancestors were clergy. One was a “circuit rider,” a preacher assigned to travel around the countryside (usually on horseback) ministering to settlers and establishing congregations. My use of the term “preacher” is not pejorative. I share the faith of my very distant ancestors, not the more recent ones — but I honor them all. And being a preacher is an honorable profession.

A good preacher has the ability to form people into a genuine community through appealing to their better nature. No easy task. And a good preacher establishes his authority not through his book learning or some seal of approval from a Council of Elders, but rather through the force of his personality. Just what that consists in is a complex issue. Partly, it’s a simple matter of “good character.” Aristotle said that one of the necessary conditions of being an effective speaker is that the audience must perceive the speaker as having good character. Otherwise they will not be convinced by what he says, no matter how cogent his arguments are.

However, “force of personality” also involves strength of conviction. A good preacher is someone whose faith is so strong that others believe because he believes. Privately, they may suffer doubts. But just being in the presence of a good preacher, a man with real strength of conviction, is often enough to bolster them. And I do not necessarily mean listening to him preach. A good preacher communicates his faith and sincerity in his every act, even in the way he moves across a room or eats a meal.

I experienced McNallen’s force of personality for the first time one evening several years ago on a beach in California. I was one of about 25 people who gathered together around a bonfire to participate in a blot led by McNallen. It was truly a mixed crowd, running the gamut from university professors to skinheads. I had driven there with McNallen and his wife Sheila, on the way picking up a cake at a local supermarket. My job was to ride shotgun and serve as navigator, directing McNallen to the beach. He was in an extraordinarily good mood and as I gave him each direction (“turn left here . . .” etc.) he responded in crisp military fashion: “Roger that!”

I wasn’t sure how this was going to play out. I am a lone wolf by nature, and Asatru for me has always been a pretty solitary affair. On those occasions when I participated in rituals with others it usually felt like we were LARPing (Live Action Role Playing). In other words, I felt a bit silly. But on the beach something strange and uncanny happened. It was a constellation of factors. One was the natural setting: fall on a northern California beach, nighttime, waves crashing, bonfire crackling and roaring. But the key factor was McNallen. As he spoke, mead horn in his hand, Asatru came alive for me (and, I think, everyone else) in a way it never had before.

I am a philosopher, and that means that my life is mostly about theory. And this is true of my relation to Asatru: theory, to the neglect of practice (though, to be clear, not the total neglect). A few hours prior to heading for the beach, McNallen had asked me what rituals I perform. I confessed to him that I performed few rituals, and very seldom. He seemed disappointed, and I felt slightly ashamed. Such is the power of a good preacher! I had encountered the same disappointment with others on revealing to them my neglect of ritual, and my standard response had been to quip “I’m a Protestant” (i.e., as opposed to a “Catholic” follower of Asatru, who needs rituals and candles and incense). But I knew I couldn’t be so glib with McNallen.

When he led that blot on the beach I felt a real sense of connection to my ancestors, and to the gods. It was a transformative experience. However, it wasn’t a “mystical experience”: I didn’t feel suddenly at one with all things, or that the Being of beings had been revealed to me. No, it was something more basic than this: it was a religious experience. And a key part of this was the presence of others. As I said, it was a constellation of factors. There was the natural setting, and McNallen’s charisma, and the truth that came through his words. But in addition there was an absolutely essential component, without which this religious experience would not have been possible: others — others like me.

A few years ago I wrote a controversial article titled “Asatru and the Political” (it’s included in my recent book What is a Rune? And Other Essays). The major point of the piece was that since Asatru is a folk religion, born of the spirit of European people, we followers of Asatru must take an interest in the survival and flourishing of the race that gave rise to it. In short, I argued that commitment to Asatru entails what is sometimes called today “white nationalism” (not the same thing, as I explain in the essay, as “white supremacism”). In Asatru: A Native European Spirituality, McNallen makes essentially the same point (without using the term “white nationalism”). I hasten to add that McNallen was making such arguments long before I was — a point to which I will return later.

Midsummer-in-the-Sierras-crowd

In any case, in that same essay I argued that every religion is really a way in which a people confronts itself, for every religion is an expression of a people’s spirit, born of the encounter between a distinct ethnic group, with its own inherent (i.e., genetic) characteristics and a place. What I did not emphasize is a corollary point: that religion is inherently communal. It is often asserted that the word “religion” comes from a root meaning “to bind,” and on this basis it has been speculated that “religion” means “to bind together.” If this is correct (and no one really knows), two interpretations are possible. The first is that religion binds or connects individuals to the divine (sort of like the literal meaning of “yoga,” as that which yokes us to the divine). The second is that religion binds us together in a community.

Anthropologists and sociologists favor the latter interpretation, with some going so far as to suggest that the “purpose” of religion is really nothing more than making communities cohesive. This is a vulgar, flat-souled notion that I discuss elsewhere (see my essay “The Stones Cry Out,” also in What is a Rune?). The truth is that religion binds together a community, through binding it to the divine. Both of the interpretations just mentioned are correct. Through religion, I achieve connection with the gods — but that is only possible through connection with others who have the same aim, and worship the same gods.

Religion is not the only way of making some “connection” to the divine. Mysticism is another way. So are philosophy and theology. Even art and poetry are means. But these can all be solitary activities. We may want an audience for our poetry (or our philosophy), but we don’t need one in order for poetry (or philosophy) to occur.

For religion to “occur” we need others. There can be no such thing as a private religion. Elsewhere I have discussed at length my commitment to Odinism (see “What is Odinism?” in Tyr Volume 4). Odinism is the path of one who follows Odin — really of one who seeks to become him. It is not about “worshipping” Odin, and it is not a religion. It would be accurate to call Odinism (as I define it[1]) a cult within Asatru. Though by its very nature it is a cult arguably best suited for lone individuals (at least, that’s how it is for me): a cult whose “cells” consist of isolated individuals. Until that night on the beach in California, Odinism really was Asatru for me. It was when the blot had ended that I realized my error.

What happened when the blot ended? There was silence. We ate our cake and sat around the bonfire, speaking in hushed tones. There was a kind of electricity in the air, and I think I speak for everyone there when I say that I felt lifted out of myself. I felt connected. Connected to the divine but also — and this is very unusual for me — connected to the others. I felt part of a religious community. It was then that I realized that my Odinism, while entirely legitimate, was not enough.

Imagine the absurdity of a Christian theologian who said that the practice of theology was sufficient unto itself and that he had no need of belonging to a church. But this was exactly my own position: an Odinist, a Germanic neo-pagan philosopher who never practiced his neo-paganism. And by “practice” here I mean practice with others. I was an irreligious neo-pagan. A Protestant indeed.

Of course, there’s an Odinic response to this — or one that seems plausibly Odinic: “Odin is the lone wanderer, he does not need others. If you aspire to be Odin, you do not need blots and such.” But there are two problems here. First, Odin clearly needed the company of the other gods: he returned to them from his wanderings again and again. The second problem is that while there is a part of me that is Odin, and my Odinism is the cultivation of this (again, see my essay in Tyr #4), it is only a part of me. I am still a man, and man is a social animal. And the supreme, most elevated and sublime aspect of his sociability is his religiosity. My experience on the beach didn’t teach me that I ought to come together with others and practice Asatru; it taught me that I needed to, but hadn’t been aware of the need.

Of course, the blot on the beach and the important realization I had there was more than three years ago. And I am still a lone Odinist, keeping an eye on Asatru from the periphery but seldom ever joining with others. Old habits die hard. There are many people who have a much stronger desire to come together with others than I do, but simply cannot because they don’t live near anyone. In one way I am not alone: many of us have been solitary cultists, for a great many years. Then there’s that other big problem: sometimes when you meet others who claim to follow Asatru you are very, very disappointed.

The Rise and Fall and Rise of the AFA

But all of this seems to be changing. And primarily we have Steve McNallen to thank for it. McNallen is well aware that Asatru must be about community; that the solitary practice of Asatru is ultimately insufficient. In recent years, there have been more and more occasions for people who follow the ancestral gods to come together. More people — serious, sincere, and sane people — are being drawn to Asatru and forming local kindreds, or assemblies. McNallen’s organization, the Asatru Folk Assembly (AFA) has organized several events each year for a number of years now. The most successful of these have been “Winter Nights in the Poconos,” held in the fall at a camp in Pennsylvania. And, of course, the internet is helping people to find each other.

McNallen’s own experience of Asatru — which he narrates in this new book — is one that also began in isolation. As noted earlier, McNallen decided to follow the gods of his ancestors when he was in college in the late sixties, serving in the ROTC. This was the Age of Aquarius, and I was in diapers. But I was nonetheless very much aware of the “Occult Revival” when I was a small child in the early seventies. I still remember the weird shop in the strip mall, down the block from Rose’s Department Store, where (at the age of eight or so) I bought my copies of The Sorcerers Handbook and Illustrated Anthology of Sorcery, Magic and Alchemy. (However, once my mother figured out that it was also a head shop she stopped letting me go in there.) Wicca was certainly on the scene, but Asatru was nowhere to be found.

McNallen thought that he was totally alone. In desperation, he took out ads in magazines like Fate, looking for others like himself. Slowly, he formed a small group which he called the Viking Brotherhood: the first Asatru organization in the U.S. McNallen began publishing his own periodical, The Runestone, in 1971, and by the following year the Viking Brotherhood had become a tax-exempt religious organization. He told me once that at the time he and his comrades were making Thor’s hammers out of the keys from sardine cans. (Today, of course, Thor’s hammers are available with two-day Prime shipping from Amazon — largely thanks to McNallen spreading the faith.)

But almost as soon as he had launched the Viking Brotherhood, McNallen had to report for active duty as an officer in the Army. Needless to say, this severely restricted his work on behalf of Asatru. At the time, by the way, Asatru was not Asatru. McNallen did not begin using that term until 1976, after reading it in a book by Magnus Magnusson. Up until then, he had called his religion “Norse Paganism,” or sometimes “Odinism.” It is important to note that our ancestors did not have a name for their religion at all. (“Asatru” which means “true to the Aesir,” is a term coined in the 19th century.)

Names for religions have come into use as a result of the rise of universalist faiths like Christianity, Islam, and Buddhism. These religions needed to call themselves something because they imparted an ideology, and sought to convert people away from their folk religions: they needed to be able to approach people and say “we represent x.” As to the names traditionally given to folk or ethic religions, typically they do not distinguish a member of the ethnic group from an adherent to the religion. The term “Hinduism” is derived from the Persian word “Hindu,” which actually just denotes the Indian people. The etymology of “Judaism” is similar, derived from a word that simply means “Jew.”

By all rights, Asatru — which is an ethnic religion — ought to be called “Germanism,” or “Teutonism,” or something like that. Though both of these are problematic choices, for a number of reasons. But “Asatru” is problematic as well (though it looks like we are stuck with it — which is fine). Imagine if Judaism changed its name to “Yahwism,” the religion of those who worship Yahweh.[2] Inevitably, along would come a gentile who felt entitled to describe himself as a “Yahwist,” because he has decided to worship Yahweh. But if “Yahwist” had the same denotation as “Jewish,” he would have to be taken aside and politely told that the Yahwists are a people, a tribe, not just a collection of believers in a particular theology. And so he cannot be a Yahwist. (Wisely, the Jews — like most Hindus — have remained aware of the ethnic identity of their religion, and are not particularly eager to embrace converts.)

Our term “Asatru” invites a similar problem. If the religion is literally being “true to the Aesir” (“true” as in being loyal to or believing in) well then why can’t a man whose ancestors came from Niger decide that he wants to be true to Odin, Freya, and Thor? McNallen came to face this problem squarely in the seventies:

It was in about 1974 that I began to realize that there was an innate connection between Germanic paganism and the Germanic people. I had resisted the idea as being somehow racist, but I could not ignore the evidence. Within a year or two I had shifted from a “universalist” to a “folkish” position — even though neither of those terms would enter our vocabulary for many years. (pp. 62-63)

It was around the time that McNallen adopted the term “Asatru,” after his discharge from the Army, that he formed the Asatru Free Assembly as successor to the Viking Brotherhood. This is not to be confused with the Asatru Folk Assembly, his present organization. As the above quotation implies, the folkishness of the “first AFA” was largely implicit, for the simple reason that McNallen was surrounded by like-minded people. The Asatru Free Assembly went from being a small group meeting in the back of an insurance agency in Berkeley, California, to a national organization. It published booklets and audio tapes, and beginning in 1980 held an annual summit, the Althing. “Guilds” formed within the first AFA, each with its own newsletter.

There was no other Asatru organization in North America until the mid-1980s. The AFA was it. But by the mid-’80s it was dying. McNallen and his wife were both holding down full-time jobs, and trying to run the AFA on the side. The ideal situation, of course, would have been if they could have turned the AFA into their full-time work. But when they tried that, soliciting financial support from AFA members, they were accused of being “money hungry.” Some people just expect something for nothing. (A problem with which the editor of this website is all too familiar.) It was an impossible situation, and eventually McNallen had to close the AFA, the remains of which morphed (with his blessing) into Valgard Murray’s Asatru Alliance.

Then came McNallen’s years of wandering, writing for Soldier of Fortune, interviewing Tibetan resistance fighters, serving in the National Guard. With characteristic frankness, he admits that while he never wavered from being true to the Aesir during this period, the collapse of the first AFA left him quite bitter. For a long time, he simply gave up on being involved (at least in a leadership capacity) with organized Asatru. What drew him back in was precisely the realization that circumstances had forced those true to the Aesir to make explicit what had been the movement’s implicit folkishness. McNallen writes:

In 1994, I saw signs that a corrupt faction was making inroads into the Germanic religious movement in the United States. Individuals and groups had emerged which denied the innate connection of Germanic religion and Germanic people, saying in effect that ancestral heritage did not matter. This error could not be allowed to become dominant. I decided to reenter the fray and throw my influence behind Asatru as it had been practiced in America since the founding of the Viking Brotherhood back in the 1970s. I formed the Asatru Folk Assembly. (pp. 65-66)

The change from “Free” to “Folk” made things pretty explicit. (And, I will add, has the further advantage of disabusing those who thought that commitment to Asatru cost nothing.) McNallen is too much of a gentleman to name names here, but the “corrupt faction” he is referring to is typified by folks (and I use the term loosely) like the ultra-PC “Ring of Troth,” who are truer to the Frankfurt School than to the Aesir. I won’t say anything else about such people here, as their attempt to turn Asatru into a universalist creed is unworthy of serious discussion.

Article Two of the Declaration of Purpose of the Asatru Folk Assembly states:

Ours is an ancestral religion, one passed down to us from our forebears from ancient times and thus tailored to our unique makeup. Its spirit is inherent in us as a people. If the People of the North ceased to exist, Asatru would likewise no longer exist. It is our will that we not only survive, but thrive, and continue our upward evolution in the direction of the Infinite. All native religions spring from the unique collective soul of a particular people. Religions are not arbitrary or accidental; body, mind and spirit are all shaped by the evolutionary history of the group and are thus interrelated. Asatru is not just what we believe, it is what we are. Therefore, the survival and welfare of the Northern European peoples as a cultural and biological group is a religious imperative for the AFA.

As always, the cunning of reason — or the hand of the gods — has been at work: as I noted earlier, the new AFA has wings the old AFA never possessed. If the old organization had never fallen apart, and McNallen had not lived his wilderness years, we would never have seen the birth of the Asatru Folk Assembly, and the Asatru Renaissance that it has helped bring about.

There is more to the tale of the new AFA — such as the saga of its involvement in the “Kennewick Man” controversy — but for the rest you will have to read the book.

Asatru: A Native European Spirituality fills a void. It is intended to introduce readers to Asatru — readers with no prior acquaintance. As such, it is written in a highly-accessible style. And yet there is much here that will be of interest to those already well acquainted with Asatru: the fruits of almost 50 years not just of McNallen’s experience as a leader and exponent of Asatru, but of his deep reflection upon the meaning of the religion, and its integral relation to the Northern European peoples and their spirit. There is no other book I know of that is as comprehensive and illuminating an introduction to folkish Asatru.

Why Asatru?

Before I close this review there is one more issue that I need to address. There is a tendency among those in the New Right to either embrace Asatru, or simply to tolerate it (usually on the basis that it might — repeat, might — be a useful political tool). Those who tolerate it typically think it’s a bit silly — or at least not something for them. And so a lot of my readers may find this review interesting, but conclude that McNallen’s book and the AFA are for those already converted. I’d like to encourage those folks to think about things differently.

McNallen actually takes no position on whether or not the gods “really exist.” In the AFA, one can be a “hard polytheist,” who actually believes there’s an Odin riding around out there on Sleipner, or a “soft polytheist” who thinks the gods are inflections of some ultimate Brahman-like principle — or even that they are just poetic constructs that hold up a mirror to our Northern souls. There are tricky issues here, and my own position doesn’t readily fall into any of these categories. But one thing is certain: whether or not the gods “really exist,” the gods and the myths about them most certainly do poetically mirror our Northern souls. This is the first thing I’d like New Right “sceptics” about Asatru to consider. Asatru is us.

As I put it in my essay “Asatru and the Political”:

Ásatrú is an expression of the unique spirit of the Germanic peoples. And one could also plausibly claim that the spirit of the Germanic peoples just is Ásatrú, understanding its myth and lore simply as a way in which the people projects its spirit before itself, in concrete form. And this leads me back to where I began, to the “political” point of this essay: to value Ásatrú is to value the people of Ásatrú; to value their survival, their distinctness, and their flourishing. For one cannot have the one without the other.

Here I was enjoining followers of Asatru to defend the interests of people of European ancestry. But now I am enjoining those who already believe in that cause to value Asatru. Because, you see, valuing “the people of Asatru” — European (or Northern European) people — must mean, at its most basic level, coming together with them in a community.

What Asatru offers to the New Right is a community of people of European ancestry focused around the celebration of that ancestry, and common culture. I have already discussed the progress the AFA has made in building this community — in genuinely bringing people together. McNallen writes:

We console each other in times of death, and celebrate the birth of new children. We share favorite books, career tips, and recipes. We make plans to meet down at a local pub, or to attend an event the next state over. Locally, we gather for rituals and for birthday parties, or to load a truck for someone moving to a new home. (p. 69)

The Fourth Article of the AFA’s Declaration of Purpose states that it is devoted to “The restoration of community, the banishment of alienation, and the establishment of natural and just relations among our people.” The banishment of alienation — the condition so many of us on the Right suffer from. And often it is our own doing. The idea of a community of people of European ancestry celebrating that ancestry sounds really good — but there’s all that stuff about Odin . . .

Well, I mentioned earlier that I come from a long line of Methodists. And my mother attended the local Methodist church all her life. But here’s something that will surprise you: she wasn’t particularly “religious.” Yes, she believed in God and in Heaven in some sense, and she thought that the Bible was mostly a good influence on people (though I think she never read it). But my mother thought it unbecoming to carry things to extremes. In particular she looked down on people who talked about Jesus all the time: “Jesus loves you” made her flesh crawl. She thought that people who talked that way were a bit “touched” (in the bad sense), and a bit low class.

For my mother, church was about community. It was a place where you met what she called “decent people,” and often had the satisfaction of helping each other. It was a place where people were brought together by a shared desire, to one degree or another, to orient their lives to an ideal (or at least to be seen to be doing so). And it was a place where people were brought together by common ancestry — for my mother’s church was implicitly white (a fact she would have readily admitted). Yes, some of the people there were, in her eyes, a little too “Jesusy.” And others not enough. Some took the Bible just a little too seriously, and said and did peculiar things. They were cranks. But in my mother’s eyes they were “our cranks.” She derived enormous satisfaction and comfort from her participation in that community. This was something I didn’t understand until much later in life.

So, if you are skeptical about Asatru just start here — I mean just with the kind of tentative, minimalist recommendation I’ve made in the last few paragraphs. Asatru as a community of people like you. This is actually quite a lot. More may come later. Or perhaps not. Perhaps you’ll always think that people who talk about Odin are a bit “touched.” But you’ll be with your people; with people who are aware that they are your people. As Steve McNallen says in this book, “Asatru is about roots. It’s about connections. It’s about coming home.”

You can access the AFA’s splendid new website here.

Postscript: I have just learned that the AFA is raising money to buy its own hall. You can read more about it, and donate, here.

Notes

1. I derive my understanding of Odinism from Edred Thorsson. See Edred Thorsson, Runelore: A Handbook of Esoteric Runology (York Beach, Maine: Samuel Weiser, 1987), 179.

2. This term actually is used by scholars, to denote the cult of Yahweh among the ancient Hebrews — the cult that eventually became Judaism.

samedi, 27 juin 2015

Guénon y Drieu

Guénon y Drieu

por José Luis Ontiveros

Ex: http://culturatransversal.wordpress.com

drieu&&&&&.pngHay un reclamo persistente en Drieu: “Voces falsarias y hueras me han acusado de que mi posición surge de un adaptarme a las formas políticas que se proyectan como victoriosas, en este momento de la guerra y que serían las dominantes en el futuro, todo ello es falso”

“Las guerras —prosigue— como la vida fluyen y cambian su rumbo, nada es seguro, no se percibe el sentido oculto de mi actitud; cada vez soy más escéptico en cuanto Alemania aliente el futuro o si la barbarie rusa, creadora de instintos poderosos lo perfile”.

Estas palabras epifánicas de sus escritos depositados en el México profundo y vestigial hacen una clara referencia en clave a la influencia determinante —en Drieu— de las reflexiones sobre la Tradición primordial, la historia de los símbolos de las religiones y su confluencia sagrada que marcan la obra de René Guénon, en particular de su libro axial La crisis del mundo moderno, que tiene como corolario El reino de la cantidad y los signos de los tiempos, el primero publicado en 1927, y el segundo, en el fatídico año de 1945.

En un círculo pitagórico que cumple en Drieu la bitácora de cuáles fueron las causas metafísicas de que continuara hasta el final en una situación límite y en el filo de la navaja, llegando a consumar el ritual de su propia muerte consagratoria.

En cuanto Guénon dice: “Lamentablemente mi lectura de Guénon fue un tanto tardía, ya pasando del comunismo al fascismo revolucionario, más el haberlo encontrado fue para mí más definitivo, quizá, que mi conocimiento de Nietzsche, de Maurice Barrés y de Charles Maurras, al punto que puedo considerarlo una fuente decisiva para mi ruptura con el mundo moderno y su civilización materialista”.

“He de referirme al propio Guénon —continúa— en cuanto los puntos esenciales que legitiman, por el sentido de las ciencias sagradas, lo que puede parecer puramente contingente, superficial y aún meramente ‘político’.

“Por ello destaco lo que toca el centro de mi corazón y la profundidad del espíritu luminoso que guarda el alma”.

Y Drieu retoma a Guénon como la verdadera doctrina: “Hay algunos que vislumbran —de manera algo difusa y confusa— que la civilización occidental, en lugar de seguir evolucionando siempre en el mismo sentido, bien podría un día llegar a punto muerto o hasta perecer por completo en algún sombrío cataclismo”.

Recopila citas que vuelve suyas en comunión con la sacralidad de la Tradición unánime identificándose sin saberlo con el símbolo heroico de Julius Evola y su Doctrina aria de lucha y victoria, en que lo esencial es el valor de la acción en sí y no sus resultados.

Da especial atención el juicio de René Guénon: “Lograr concebir que esta civilización, de la cual los modernos se sienten tan ufanos, no ocupa un sitio de privilegio en la historia del mundo”.

En tal sentido estima en una misma caída espiritual a la civilización demoliberal y a la marxista, fusionándose con Guénon: “Es inminente una transformación más o menor profunda, (en que) inevitablemente tendrá que producirse un cambio de orientación a breve plazo, de buen o mal grado, de manera más o menos brusca, con catástrofe o sin ella”.

guénoniiii.jpgSobre el particular apunta Drieu: “Me he convencido de que Guénon anuncia, con el lenguaje cifrado propio de la Tradición sagrada de los pueblos, que se aproxima un cambio drástico en la valoración de los hombres y en el sentido de la vida; en ello he visto a las nuevas fuerzas que se alzan contra los dogmas, al parecer inamovibles, de una civilización basada en el dinero, el materialismo y en formas políticas caducas”.

“Ello me ha sido confirmado —señala— al leer en Guénon”: “El estado de malestar general que vivimos en la actualidad me da el oscuro presentimiento de que, en efecto, algo está por terminar”.

“Y esta creencia —agrega— se tornó ya indeclinable cuando Guénon se refiere al cierre de un ciclo y el principio de uno nuevo”: “Los elementos que luego deberán intervenir en el ‘juicio’ futuro, a partir del cual se iniciará un nuevo periodo de la historia de la humanidad en la Tierra”.

Drieu interioriza en su vida la lectura de Guénon: “Y si lo que debe terminar es la civilización occidental en su forma actual (considerada como la ‘civilización sin epítetos’), (hay quienes) se sienten dispuestos a creer que al desaparecer vendrá el fin del mundo”.

“El fin del mundo —acota— es para mí el escenario de esta guerra en la que combato por la Idea y en la que sé moriré y eso está claro”, manifiesta.

La lectura que Drieu hizo de Guénon es la verdadera explicación de su sacrificio visionario.

Fuente: Vértigo Político

dimanche, 21 juin 2015

El Imperium a la luz de la Tradición

por Eduard Alcántara

Ex: http://paginatransversal.wordpress.com

El Mundo Tradicional siempre se caracterizó por tener las miras puestas hacia lo Alto. El hecho Espiritual impregnaba su discurrir (1). En lo Alto oteaba orden: el Orden del Cosmos, los siete Cielos enunciados y descritos por cierta metafísica,… Y si en lo Alto oteaba un orden que se había impuesto a la nada (2) o al caos previos, quiso -dicho Mundo de la Tradición- instaurarlo aquí abajo como si se tratase de un reflejo del imperante allá arriba. Pretendió hacer de la Tierra un espejo de lo que veía en el Cielo, pues siempre concibió que el microcosmos debía de asemejarse al macrocosmos o, lo que es lo mismo, lo de abajo a lo de arriba (3). Y para que ese Orden cósmico imperase en la Tierra debería de existir –aquí abajo- una fuerza centrípeta que evitase la disgregación de los diferentes elementos que debían acabar tomando parte de él –de ese nuevo orden- y que debían acabar haciéndolo realidad. Y esa fuerza centrípeta aglutinadora no podía revestir otra naturaleza que la espiritual.

La Idea (en el sentido Trascendente) sería el eje alrededor del cual giraría todo un entramado armónico. Una Idea que a lo largo de la historia de la humanidad ha ido revistiéndose de diferentes maneras. Una Idea que -rastreando la historia- toma, por ejemplo, cuerpo en lo que simbolizaba la antigua Roma. Y Roma representará a dicha Idea de forma muy fidedigna. La Idea encarnada por Roma aglutinará a su alrededor multitud de pueblos diversos (4) que, conservando sus especificidades, participarán de un proyecto común e irán dando cuerpo a este concepto de orden en el microcosmos representado por la Tierra. Estos pueblos dejarán de remar aisladamente y hacia rumbos opuestos para, por contra, dirigir sus andaduras hacia la misma dirección: la dirección que oteará el engrandecimiento de Roma y, en consecuencia, de la Idea por ella representada. De esta manera Roma se convertirá en una especie de microcosmos sagrado en el que las diferentes fuerzas que lo componen actuarán de manera armoniosa al socaire del prestigio representado por su carácter sacro (por el carácter sacro de Roma). Así, el grito del “Roma Vincis” coreado en las batallas será proferido por los legionarios con el pensamiento puesto en la victoria de las fuerzas de lo Alto; de aquellas fuerzas que han hecho posible que a su alrededor se hayan unido y ordenado todos los pueblos que forman el mundo romano, como atraídos por ellas cual si de un imán se tratase.

Roma aparece, se constituye y se desarrolla en el seno de lo que multitud de textos Tradicionales definieron como Edad de Hierro, Edad del Lobo o Kali-yuga. Edad caracterizada por el mayor grado de caída espiritual posible al que pueda arribar el hombre: por el mayor nivel de oscurecimiento de la Realidad Trascendente. Roma representa un intento heroico y solar por restablecer la Edad Áurea en una época nada propicia para ello. Roma nada contracorriente de los tiempos de dominio de lo bajo que son propios de la Edad de Hierro. Es por ello que, tras el transcurrir de su andadura histórica, cada vez le resultará más difícil que la generalidad de sus ciudadanos sean capaces de percibir su esencia y la razón metafísica de su existencia (las de Roma). Por ello -para facilitar estas percepciones sacras- tendrá que encarnarlas en la figura del Emperador; el carácter sagrado del cual -como sublimación de la naturaleza sacra de Roma- ayudará al hombre romano a no olvidar cuál es la esencia de la romanidad: la del Hecho Trascendente. Una esencia que conlleva a la sacralización -a través de ritos y ceremonias- de cualquier aspecto de la vida cotidiana, de cualquier quehacer y, a nivel estatal, de las instituciones romanas y hasta de todo el ejercicio de su política.

Con la aparición de la figura del Emperador Roma traspasa el umbral que separa su etapa republicana de la imperial. Este cambio fue, como ya se ha señalado, necesario, pero ya antes de dicho cambio (en el período de la República) Roma representaba la idea de Imperium, por cuanto la principal connotación que, desde el punto de vista Tradicional, reviste este término es de carácter Trascendente y la definición que del mismo podría realizarse sería la de una “unidad de gentes alrededor de un ideal sacro”. Por todo lo cual, tanto la República como el Imperio romanos quedan incluidos dentro de la noción que la Tradición le ha dado al vocablo “Imperium“.

Así las cosas la figura del Emperador no podía no estar impregnada de un carácter sagrado que la colocase al nivel de lo divino. Por esto, el César o Emperador estuvo siempre considerado como un dios que, debido a su papel en la cúspide piramidal del Imperio, ejercía la función de ´puente´ o nexo de unión entre los dioses y los hombres. Este papel de ´puente´ entre lo divino y lo humano se hace más nítido si se detiene uno a observar cuál era uno de los atributos o títulos que atesoraba: el de Pontifex; cuya etimología se concreta en ´el hacedor de puentes´. De esta manera el común de los romanos acortaba distancias con un mundo del Espíritu al que ahora veía más cercano en la persona del Emperador y al que, hasta el momento de la irrupción de la misma -de la figura del Emperador-, empezaba a ver cada vez más alejado de sí: empezaba a verlo más difuso debido al proceso de caída al que lo había ido arrastrando el deletéreo kali-yuga por el que transitaba.

Los atributos divinos del Emperador respondían, por otro lado, al logro interno que la persona que encarnaba dicha función había experimentado. Respondían a la realidad de que dicha persona había transmutado su íntima naturaleza gracias a un metódico y arduo trabajo interior que se conoce con el nombre de Iniciación. Este proceso puede llevar (si así lo permiten las actitudes y aptitudes del sujeto que se adentra en su recorrido) desde el camino del desapego o descondicionamiento con respecto a todo aquello que mediatiza y esclaviza al hombre, hasta el Conocimiento de la Realidad que se halla más allá del mundo manifestado (o Cosmos) y la Identificación del Iniciado con dicha Realidad. Son bastantes los casos, que se conocen, de emperadores de la Roma antigua que fueron Iniciados en algunos de los diferentes Misterios que en ella prevalecían: de Eleusis, mitraicos,… Así podríamos citar a un Octavio Augusto, a un Tiberio, a un Marco Aurelio o a un Juliano.

La transustanciación interna que habían experimentado se reflejaba no sólo en las cualidades del alma potenciadas o conseguidas sino también en el mismo aspecto externo: el rostro era fiel expresión de esa templanza, de ese autodominio y de ese equilibrio que habían obtenido y/o desarrollado. Así, el rostro exhumaba gravitas y toda la compostura del emperador desprendía una majestuosidad que lo revestían de un hálito carismático capaz de aglutinar entorno suyo a todo el entramado social que conformaba el orbe romano. Asimismo, el aura espiritual que lo impregnaba hacía posible que el común de los ciudadanos del Imperio se sintiese cerca de lo divino. Esa mayoría de gentes, que no tenía las cualidades innatas necesarias para emprender las vías iniciáticas que podían hacer posible la Visión de lo metafísico, se tenía que conformar con la contemplación de la manifestación de lo Trascendente más próxima y visible que tenían “a su alcance”, que no era otra que aquélla representada por la figura del Emperador. El servicio, la lealtad y la fides de esas gentes hacia el Emperador las acercaba al mundo del Espíritu en un modo que la Tradición ha definido como de ´por participación´.

Hecho este recorrido por la antigua Roma -como buen modelo para adentrarse en el conocimiento del significado de la noción de Imperium-, no deberíamos obviar alguna otra de las cristalizaciones que dicha noción ha visto en etapas posteriores a la romana. Y nos referimos, con especial atención, a la que se concretó, en el Medievo, con la formación de un Sacro Imperio Romano Germánico que nació con la vocación de reeditar al fenecido, siglos antes, Imperio Romano y convertirse en su legítimo continuador.

El título de ´Sacro´ ya nos dice mucho acerca de su fundamento principal. También, en la misma línea, es clarificador el hecho de que el emperador se erigiera en cabeza de la Iglesia; unificando además, de esta manera, en su cargo las atribuciones o funciones política y espiritual.

De esta guisa el carisma que le confiere su autoridad espiritual (amén de la política) concita que a su alrededor se vayan uniendo reinos y principados que irán conformando esta idea de un Orden, dentro de la Cristiandad, que será el equivalente del Orden y la armonía que rigen en el mundo celestial y que aquí, en la Tierra, será representado por el Imperium.

La legitimidad que su carácter sagrado le confiere, al Sacro Imperio Romano Germánico, es rápidamente reconocida por órdenes religioso-militares que, como es el caso de la del Temple, son dirigidas por una jerarquía (visible u oculta) que conoce de la Iniciación como camino a seguir para experimentar el ´Segundo Nacimiento´, o palingénesis, que no es otro que el nacimiento al mundo del Espíritu. Jerarquía, por tanto, que tiene la aptitud necesaria para poder reconocer dónde se halla representada la verdadera legitimidad en la esfera espiritual: para reconocer que ella se halla representada en la figura del emperador; esto sin soslayar que la jerarquía templaria defiende la necesidad de la unión del principio espiritual y la vía de la acción –la vía guerrera- (complementariedad connatural a toda orden religioso-militar) y no puede por menos que reconocer esta unión en la figura de un emperador que aúna su función espiritual con la político-militar (5).

Para comprender aún mejor el sentido Superior o sagrado que revistió el Sacro Imperio Romano Germánico se puede reflexionar acerca de la repercusión que tuvo el ciclo del Santo Grial en los momentos de mayor auge y consolidación de dicho Imperio. Una repercusión que no debe sorprender a nadie si nos atenemos a los importantes trazos iniciáticos que recorren la saga griálica y a cómo se aúnan en ella lo guerrero y lo sacro en las figuras de unos caballeros que consagran sus vidas a la búsqueda de una autorrealización espiritual simbolizada en el afán mantenido por hallar el Grial.

Aclarados, hasta aquí, en qué principios y sobre qué base se sustenta la noción Tradicional del Imperium no estaría de más aclarar qué es lo que se hallaría en sus antípodas, como antítesis total del mismo y como exabrupto y excreción antitradicional propios de la etapa más sombría y crepuscular que pueda acontecer en el seno de la Edad de Hierro; etapa por la que estamos, actualmente, transitando y a la que cabe denominar como ´mundo moderno´, en su máxima expresión. Un mundo moderno caracterizado por el impulso hacia lo bajo –hacia lo que degrada al hombre- y por el domino de la materia, en general, y de la economía (como paradigma de la anterior), en particular.

Pues bien, en tal contexto los Estados (6) ya han defenestrado cualquier aspiración a constituir unidades políticas que los sobrepasen y que tengan la mira enfocada en un objetivo Elevado, pues, por contra, ya no aspiran a restaurar el Imperium. Sus finalidades, ahora, no son otras que las que entienden de mercado (de economía).

En este afán concentran sus energías y a través de la fuerza militar o de la colonización financiera (a través de préstamos imposibles de devolver por los intereses abusivos que llevan implícitos) someten (7) a gobiernos y/o países a los dictados que marcan sus intereses económicos; intereses económicos que, por otro lado, son siempre los de una minoría que convierte a los gobiernos de los estados colonizadores en auténticas plutocracias.

Por estas “artes” estos estados ejercen un imperialismo que no es más que la antítesis de lo que siempre representó la idea de Imperium y lo más opuesto a éste que pueda imaginarse.

Notas

(1) Un ´discurrir´ que, en el contexto expresado, no hay que confundir con el concepto de ´devenir´, de ´fluir´, de lo ´pasajero´, de lo ´caduco´, de lo ´perecedero´,…

(2) Aquí la expresión ´la nada´ debe ser asimilada a la del ´caos´ previo a la configuración del mundo manifestado (del Cosmos) y no debe de confundirse con el concepto de No-Ser que determinada metafísica -o que un Réné Guénon- refería al Principio Supremo que se halla en el origen y más allá de la manifestación.

(3) Como curiosidad podríamos detenernos en el conocido como “Parque del Laberinto de Horta”, en la ciudad de Barcelona, y observar de qué manera su autor quiso reflejar estas dos ideas de ´caos´ y de ´orden´ cósmicos… Lo hizo construyendo el parque en medio de una zona boscosa que representaría el caos previo en el que, a modo de símil, los árboles crecen de manera silvestre y sin ningún tipo de alineamiento. Por contra, el parque implica poner orden dentro de este desorden: construir a partir de una materia prima caótica y darle forma, medida y proporción. Edificar el Cielo en la Tierra.

(4) Estos pueblos diversos que se agruparán alrededor de la empresa  romana no serán pueblos de culturas, costumbres o   religiosidades antagónicas, ya que, en caso contrario hubiera  sido muy difícil imaginarse la integración de los mismos en la Romanidad. Sus usos, costumbres y leyes consuetudinarias en ningún caso chocaron con el Derecho Romano. Sus divinidades fueron, en unos casos, incluidas en el Panteón romano y, en otros, asimiladas a sus equivalentes romanas. Sus ceremonias y ritos sagrados fueron perviviendo en el seno del orbe romano o fueron, también, asimilados a sus semejantes romanos. La extracción, casi exclusivamente, indoeuropea de dichos pueblos explica las semejanzas y concordancias existentes entre los mismos (no debe olvidarse que remontándose a épocas remotas,  que rozan con el mito, todos estos pueblos constituían uno solo; de origen hiperbóreo, según muchas tradiciones  sapienciales).

(5) Hay que tener presente que el mismo vocablo ´emperador´ deriva del latín Imperator, cuya etimología es la de ´jefe del ejército´.

(6) A caballo entre finales de la Edad Media y principios de la Edad Moderna se van debilitando los ideales Superiores supranacionales y van siendo suplantados por otros impregnados por un egoísmo que redundará en favor de la aparición de los Estados nacionales.

Bueno es también recordar que el Emperador Carlos (I de España y V de Alemania) fue, allá por la primera mitad del  siglo XVI, el último que intentó recuperar las esencias y el espíritu, ya mortecinos, del Sacro Imperio Romano Germánico. Al igual que no está de más reconocer en el imperio que España construye -arrancando de fines del siglo XV- a lo largo del s. XVI, el último con pretensiones espirituales (al margen de que, en ocasiones, pudiesen coexistir con otras de carácter económico) de entre los que Occidente ha conocido. Y esto se afirma en base a los principales impulsos que se hallan en la base de su política exterior, como los son, en primer lugar, su empeño en evitar la división de una Cristiandad que se veía seriamente amenazada por el crecimiento del protestantismo o, en segundo lugar, sus esfuerzos por contener los embates del Islam protagonizados por turcos y berberiscos o, en tercer lugar, su decisión de evangelizar a la población nativa de los territorios americanos incorporados a la Corona (aparte de la de otros territorios; como las Filipinas,…). Estos parámetros de la política exterior de España seguirán, claramente, en vigencia también durante el siglo XVII.

A medio camino entre el imperio español y otros de corte eminentemente antitradicional (por lo mercantilista de los mismos), como el caso del imperio británico (que alcanzó su máxima expresión en el s. XIX) o del conocido como imperialismo ´yanqui´ (tan vigente en nuestros días), podríamos situar al de la Francia napoleónica. Y no sólo lo situamos a medio camino por una evidente razón cronológica, sino que también lo hacemos porque a pesar de haber perdido cualquier orientación de carácter espiritual (el laicismo consecuente con la Ilustración y la Revolución Francesa fue una de las banderas que enarboló), a pesar de ello, decíamos, más que motivaciones de naturaleza económica (como es el caso de los citados imperialismos británico y estadounidense), fueron metas políticas las que  ejercieron el papel de motor de su impulso conquistador. Metas políticas que no fueron otras que las de exportar, a los países  que fue ocupando, las ideas (eso sí, deletéreas y antitradicionales) triunfantes en la Revolución Francesa.

Percíbanse los métodos agresivos y coercitivos de que se vale el imperialismo antitradicional (como caracterización que es de  un nacionalismo expansivo) y compárense con la libre decisión (Sacro Imperio Romano Germánico) de participar en el proyecto común del Imperium que, a menudo, adoptaron reinos y principados. Compárense dichos métodos con la rápida decisión de integrarse en la Romanidad a la que optaron (tras su  derrota militar) aquellos pueblos que se enfrentaron a las legiones romanas.

Fuente: Septentrionis Lux

Sobre imperio e imperialismo

por Francisco Núñez Proaño

Ex: http://paginatransversal.wordpress.com

Si un día fuimos grandes, ¿Cómo no hemos de volver a serlo cuando sirvamos en plenitud a nuestros no igualados destinos? (…) Os decía que como imperialismo, no. Imperialismo es el sentido hegemónico de un pueblo sobre otro pueblo, que salta sobre las cuestiones de derecho, que salta por encima de la justicia. Esto no es de nosotros. Debemos ir a una reintegración de los pueblos hispánicos” (Jorge Luna Yepes)

En el estudio de los sistemas políticos comparados, que decepcionantemente la mayoría de veces se reduce a las distintas formas de democracia, Imperio e imperialismo parecerían sinónimos, sin embargo, a la luz de la concepción tradicionalista de Julius Evola por un lado, y nacionalrevolucionaria o de tercera posición de Jorge Luna Yepes por el otro, son antítesis “lo más opuesto” que pueda concebirse.

En la historia de las ideas, en particular de las ideas políticas ecuatorianas, pocos pensadores han alcanzado un grado de claridad y penetración sobre las causas de la decadencia de la idea política y su expresión plasmada en la realidad: el Estado. Jorge Luna Yepes, prácticamente un desconocido en nuestros días, fue un líder político ecuatoriano, así como historiador, y figura máxima del movimiento de tercera posición Acción Revolucionaria Nacionalista Ecuatoriana durante la segunda mitad del siglo XX.

En el caso particular de este artículo nos interesan sus ideas políticas desarrolladas y expuestas en sus escritos a lo largo de las décadas, específicamente la de Imperio y la de imperialismo; Luna entendía a ambos conceptos como enfrentados entre sí, y así nos lo señala claramente, definiendo al Imperio de la siguiente forma:

“Vosotros sabéis que una vez fuimos tan grandes que en nuestras lindes el sol no se ponía. Y siendo esto una verdad en el campo físico, lo era más profundamente en el campo del espíritu… (el) Imperio español de la decadencia, fue quedar confiadamente en el campo de la inactividad. Nosotros tenemos que reaccionar contra algo que se hizo vicio nuestro, pero que no fue de nuestros mayores. Esta inactividad después del éxito no es consustancial con el genio hispano… Si un día fuimos grandes, ¿Cómo no hemos de volver a serlo cuando sirvamos en plenitud a nuestros no igualados destinos?… tenemos que lanzarnos a la reconquista de lo que fue nuestro. ¿Qué fue nuestro? Nuestra fe, nuestra grandeza imperial. El Imperio. ¿Imperialismo? Imperialismo, no…” [1].

En cambio, imperialismo para él significa lo siguiente:

“¿Y cómo no vamos nosotros a volver por lo que antes fuimos? ¿Cómo vamos a rehacer este Imperio? Os decía que como imperialismo, no. Imperialismo es el sentido hegemónico de un pueblo sobre otro pueblo, que salta sobre las cuestiones de derecho, que salta por encima de la justicia. Esto no es de nosotros. Debemos ir a una reintegración de los pueblos hispánicos. ¿Qué se llame Imperio? Es discutible. El nombre es menos importante…. Afirmación imperial, no… imperialista” [2].

A su vez, históricamente concebía un orden específico dentro de la estructura cultural de la colonia, describiendo una vida que “discurre sencillamente, sin ostentación… la vida hogareña y ciudadana de Quito en la unidad del Imperio” [3], y cuando se refiere a al quiteño Miguel Jijón y León (nacido en Cayambe), primer Conde de Casa Jijón, acentúa sus “grandes trabajos a favor de la Patria y del Imperio” [4]. Queda entonces asentado por Jorge Luna Yepes que el Imperio es una unidad física y sobre todo espiritual, que debe ser recuperada, y además; el imperialismo no equivale a Imperio, sino que es su adversario de alguna manera al ser un sistema político hegemónico de un pueblo sobre otro, es decir, un sistema de opresión y explotación del centro hacia la periferia, contrario al sentido de unidad trascendente y en función del bien común explícita e implícita del Imperio.

PAVIA escudo imperial.jpgDe por sí son destacables los conceptos de las ideas políticas de Imperio e imperialismo que presenta Jorge Luna Yepes, con una visión desprejuiciada y nada común en el Ecuador, por aportar con estas a un mejor y más pleno entendimiento de nuestra realidad política-histórica en el continente americano; donde la palabra Imperio se volvió sinónimo de la explotación capitalista estadounidense, siendo usual escuchar a los sectores ideológicos de izquierda –sobre todo- referirse despectivamente a Estados Unidos como “el imperio”, e incluso haciendo alusiones similares –en el sentido de explotación capitalista- a otros países, en particular a España por su claro pasado imperial en América.

Por su parte el pensador tradicionalista italiano Julius Evola, también desarrolló no solo la contraposición de Imperio e imperialismo, sino que dota al Imperio de un sistema relacionado de aplicación para estos tiempos, basado en la experiencia y el desarrollo histórico de los imperios a lo largo de la historia universal [5]. “El fundamento de todo Estado verdadero es la trascendencia de su principio de la soberanía, de la autoridad y de la legitimidad” [6]. Evola pudo definir el Imperio de esta manera:

En épocas precedentes se pudo hablar de un carácter sagrado del principio de la soberanía y del poder, o sea del Estado [7]… idealmente, una única línea conduce de la idea tradicional de ley y de Estado a la de Imperio [8]… Un ordenamiento político, económico y social creado en todo y por todo para la sola vida temporal es cosa propia exclusivamente del mundo moderno, es decir, del mundo de la anti tradición. El Estado tradicionalmente, tenía en vez un significado y una finalidad en un cierto modos trascendentes, no inferiores a los mismos que la Iglesia católica reivindicó para sí en Occidente: él era una aparición del ‘supramundo’ y una vía hacia el ‘supramundo’ [9]… Después, los Imperios serán suplantados por los ‘imperialismos’ y no se sabrá más nada del Estado a no ser que como organización temporal particular, nacional y luego social y plebeya[10].

Marcos Ghio, el principal traductor de la obra de Julius Evola al castellano y uno de sus principales estudiosos, detalla ejemplificando históricamente estas diferencias entre Imperio e imperialismo:

Por una parte “el romano buscaba el Imperio, más que para poder vender sus productos y comerciar mejor, más que para enriquecerse, tal como acontece con los actuales ‘imperialismos’, para plasmar en la existencia de una idea de justicia y de sacralidad; y era dentro de tal contexto místico como Roma se erguía a sí misma como el centro espiritual del universo, en la cual los distintos pueblos de la tierra hallaban un orden superior a su mera inmediatez y a sus apetitos materiales, consiste en un equilibrio dador de sentido último a sus acciones. Así como el alma es el centro ordenador de un cuerpo evitando por su acción que sus partes se desintegren en una lucha incesante entre sí y en un flujo espontáneo hacia la nada, el Imperio es ese mismo orden superior en el seno de los pueblos y partes diferentes en que se compone una civilización, o aun la humanidad en su conjunto, de arribarse a la idea última de Imperio universal”. [11] Y por otra “la idea moderna de imperialismo, el que no representa otra cosa que una extensión de la economía, queriendo significarse con ello además el otro dogma moderno de que los hombres en última instancia solo se movilizan en la vida en función de satisfacer apetitos materiales y que por lo tanto la política y el imperio no serían sino la consecuencia o ‘superestructura’ de dicha disciplina” [12].

A todo lo expuesto, me ha llamado poderosamente la atención; y considero este mi aporte particularísimo al estudio de las ideas políticas comparadas (en el Ecuador y el mundo); la coincidencia que se genera entre los postulados del pensador y político ecuatoriano Jorge Luna Yepes y los del pensador de la Tradición italiano Julius Evola, y no solo eso, además el hecho de que se generaron estas ideas casi simultáneamente en ambos. Siendo conceptos políticos inéditos hasta entonces tanto en América como en Europa: la dicotomía entre Imperio: unidad política con un fin común trascedente y espiritual (descontando de por sí el bien común); e imperialismo: función de explotación económica internacional [13] y sus definiciones detalladas más arriba. Surgiéndome esta interrogante: ¿Cómo es posible que dos personas, al parecer del todo inconexas [14], llegaron a coincidir en sus tesis? La respuesta que puedo darle a esta es que existe algo llamado la verdad.

Addendum:

Jorge Luna Yepes desde su particular visión histórica -alguien incluso la calificó de historicista-, así como Julius Evola desde la suya -desde la Tradición-, mantuvo la idea del retorno a la unidad perdida fundamentada en el Imperio hasta el final de su vida, en el caso específico de la América hispana, en torno al Imperio Hispano:

“La guerra de la Independencia crearon odio contra España, porque la guerra fue brutal: de parte y parte. Las autoridades españolas aplicaban la ley vigente de pena de muerte para los sublevados con armas; y frente a eso, Bolívar decretó la guerra a muerte: nada de prisioneros: todos fusilados. Cuanto odio y desolación, y de inmediato, la insurgencia dentro de las mismas filas patriotas, las conspiraciones contra Bolívar; la destrucción de sus sueños que le hicieron exclamar: ‘América es ingobernable… los que han servido a la Revolución han arado en el mar… A cambio de libertad hemos perdido todos los demás bienes. Estos pueblos caerán indefectiblemente en manos de la multitud desenfrenada, para después pasar a las de tiranuelos imperceptibles de todos los colores y razas, devorados por todos los crímenes’. Y vino la anarquía a nuestro país y vino la decadencia de España. Muchos grupos se olvidaron que España había hecho la unidad de América, con una lengua; una religión, una raza mestiza, una concepción especial de la vida. Pero, ahora, tenemos que pensar en la reacción racional. Tenemos que formar un frente común de Hispanoamérica y España: y, más aún, de Iberoamérica y España y Portugal… Desde California y Nueva York, hasta Madrid y Filipinas, y la Guinea que habla español, podremos hacer fe de inteligencia… ” [15]. Estas palabras fueron escritas en 1991.

Notas

[1] Luna Yepes, Jorge, Mensaje a las juventudes de España, Ediciones para el bolsillo de la camisa azul, Madrid, 1949. Las cursivas son mías.

[2] Ibídem. Las cursivas son mías.

[3] Luna Yepes, Jorge, Síntesis histórica y geográfica del Ecuador, 2da Edición, Ediciones de Cultura Hispánica, Madrid, 1951, pp. 297.

[4] Ibídem, pp. 309.

[5]Ver: Evola, Julius, Los Hombres y las Ruinas, Ediciones Heracles, Buenos Aires, 1994

[6]Ibídem pp. 33

[7] Ibídem. Las cursivas son mías.

[8] Evola, Julius, Rebelión contra el mundo moderno, Ediciones Heracles, Buenos Aires, 1994, pp. 59

[9] Ibídem, pp. 55 y 56. La cursivas son mías.

[10] Ibídem, pp. 62. La cursivas son mías.

[11] Ghio, Marcos, en la Introducción a la obra de Evola: Imperialismo pagano,Ediciones Heracles, Buenos Aires, 2001, pp. 8 y 9.

[12] Ibídem

[13] Eduard Alcántara, estudioso de la metafísica y la metapolítica, señala: “A medio camino entre el imperio español y otros de corte eminentemente antitradicional (por lo mercantilista de los mismos), como el caso del imperio británico (que alcanzó su máxima expresión en el s. XIX) o del conocido como imperialismo ´yanqui´ (tan vigente en nuestros días), podríamos situar al de la Francia napoleónica. Y no sólo lo situamos a medio camino por una evidente razón cronológica, sino que también lo hacemos porque a pesar de haber perdido cualquier orientación de carácter espiritual (el laicismo consecuente con la Ilustración y la Revolución Francesa fue una de las banderas que enarboló), a pesar de ello, decíamos, más que motivaciones de naturaleza económica (como es el caso de los citados imperialismos británico y estadounidense), fueron metas políticas las que ejercieron el papel de motor de su impulso conquistador. Metas políticas que no fueron otras que las de exportar, a los países que fue ocupando, las ideas (eso sí, deletéreas y antitradicionales) triunfantes en la Revolución Francesa. Percíbanse los métodos agresivos y coercitivos de que se vale el imperialismo antitradicional (como caracterización que es de un nacionalismo expansivo) y compárense con la libre decisión (Sacro Imperio Romano Germánico) de participar en el proyecto común del Imperium que, a menudo, adoptaron reinos y principados. Compárense dichos métodos con la rápida decisión de integrarse en la Romanidad a la que optaron (tras su derrota militar) aquellos pueblos que se enfrentaron a las legiones romanas.” En su artículo “El Imperium a la luz de la Tradición”: http://septentrionis.wordpress.com/2009/02/08/el-imperium-a-la-luz-de-la-tradicion/ consultado a 27 de septiembre de 2011.

[14] No poseo ningún tipo de registro que avalen el conocimiento de Luna Yepes sobre Evola o viceversa.

[15] Luna Yepes, Jorge, “LA ANTIHISTORIA EN EL ECUADOR” -discurso de incorporación a la Academia Nacional de Historia del Ecuador- aparecido en Boletín de la Academia Nacional de Historia del Ecuador, Vol. 74, N° 157-158, Quito, ene-dic. 1991, pp.160 y siguientes.

Fuente: Hispanoamérica unida