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lundi, 07 mars 2011

Kampf um das "Weisse Gold"

Kampf um das »Weiße Gold«

Michael Grandt

Rohstoffe werden immer begehrter und sowohl wirtschaftlich als auch strategisch immer wichtiger. Ausgerechnet Bolivien, das ärmste Land Südamerikas, sitzt auf einem riesigen Lithium-Schatz und könnte durch den Abbau zu ungeahntem Reichtum kommen. Doch die Regierung will sich von internationalen Multis nicht übers Ohr hauen lassen.

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Von der Weltöffentlichkeit beinahe unbemerkt vollzieht sich in Südamerika, genauer gesagt in Bolivien, ein Kampf um das »Weiße Gold«. Gemeint ist das seltene Alkalimetall namens Lithium. Dieses wird vor allem für den Bau von Lithium-Ionen-Akkumulatoren für viele elektronische und elektrische Geräte verwendet. Auch wegen seiner Energiedichte und hohen Zellspannung ist Lithium ein wertvoller Rohstoff für die Automobilproduktion.

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mercredi, 16 février 2011

Geocultura: il potere della lingua

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Geocultura: Il potere della lingua

 

Uno strumento internazionale
che può fare a meno delle politiche di Stato

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

I nordamericani, ovvero, quegli esseri umani che quantificano tutto, dove il gigantismo è il dio monocorde di una sinfonia noiosa come lo può essere quella di misurare tutto ciò che si fa, non lasciando posto al fare o smettere di fare “perché così lo voglio”, come accade con noi del “piccolo mondo”. Gli americani hanno appena eseguito una nuova indagine sull’uso e l’apprendistato del castigliano negli Stati Uniti (loro preferiscono chiamarlo spagnolo).
Le cifre sono le seguenti: 850.000 studenti universitari stanno imparando lo spagnolo, mentre che il francese lo seguono solo in 210.000; tedesco 198.000, giapponese 74.000 e cinese mandarino 74.000. Inoltre, circa 40 milioni di individui parlano con fluidità la lingua di Cervantes e 4 milioni di nordamericani Wasp (White anglosaxon protestant [Bianchi anglosassoni protestanti]) che non sono di origine ispana parlano correttamente lo spagnolo.

Continuando sempre con le cifre, questa nuova indagine mostra che l’89% dei giovani ispanici nati negli USA parlano inglese e spagnolo, contro il 50% delle generazioni precedenti. Si calcola che per il 2050 gli ispanici, vista la crescita della loro popolazione che supera in figli la media degli americani e dei neri, costituirà il 30% della popolazione. L’indice di natalità degli americani è del 1,5%, quello dei neri del 2% e quello degli ispani del 3,5%.

Nel mondo ispanico degli Stati Uniti è avvenuto un cambio di mentalità ed è che i genitori considerano come un vantaggio il bilinguismo dei loro figli, contrariamente a quanto accadeva un paio di generazioni fa. Così, qualche decennio fa i genitori chiedevano ai loro figli di non parlare lo spagnolo perché pensavano che il loro inserimento e progresso negli Stati Uniti sarebbe stato più veloce, mentre che adesso stimano che la pratica del bilinguismo offre loro maggiori possibilità di lavoro e d’integrazione sociale.

Questo cambio di paradigma ha dato luogo a un boom negli studi ispanici in America con il consueto effetto moltiplicatore che produce nelle società che gli sono periferiche come può esserlo il suo cortile posteriore: l’America ispanica.

D’altra parte, lo sviluppo delle nuove tecnologie della comunicazione come Internet ha contribuito a questa forte espansione della pratica del castigliano in Nord America. Gli immigranti ispanici sono in contatto quotidiano con la loro cultura di origine, con le loro pratiche quotidiane, con i loro usi e costumi.
Com’è politicamente giudicato questo fenomeno dagli Stati Uniti? Dagli Stati Uniti un analista politico e strategico come Samuel Huntigton in un recente studio che ha per titolo La sfida ispana, afferma: «Il costante flusso d’immigranti ispani verso gli Stati Uniti minaccia di dividere questo paese in due popoli, due culture e due lingue. Diversamente dai precedenti gruppi d’immigranti, i messicani e gli altri ispani non si sono integrati nella cultura americana dominante, bensì hanno formato le proprie enclave politiche e linguistiche – da Los Angeles fino a Miami – e rifiutano i valori anglo protestanti che edificarono il suolo americano. Gli USA corrono un rischio se ignorano questa sfida. »
Da parte sua il politologo della Boston College, Peter Skerry, sostiene: «Diversamente dagli altri immigranti i messicani provengono da una nazione vicina che soffrì una sconfitta militare da parte degli Stati Uniti e si stabiliscono, soprattutto, in una regione che, in un altro tempo, formava parte del loro paese (…) Gli abitanti di origine messicana hanno la sensazione di stare in casa propria, fatto che gli altri immigranti non possono condividere.» Cosicché, quasi tutto il Texas, il Nuovo Messico, l’Arizona, la California, il Nevada e l’Utah formavano parte del Messico fino a che questo paese li ha persi come conseguenza della guerra d’indipendenza del Texas, nel 1835-1836, e la guerra tra il Messico e gli Stati Uniti, nel 1846-1848.

E, cosa si fa da parte del mondo ispano americano? In sostanza non si fa nulla, questo fenomeno lo si lascia muovere in una specie di forza delle cose per cui ciò che bisogna dare, si darà e ciò che bisogna cambiare, si cambierà. Non esiste, per quanto ne sappiamo, nemmeno una sola politica di Stato, di nessuno dei ventidue Stati iberoamericani sull’argomento dell’espansione, consolidazione e trasmissione del castigliano tra gli immigranti negli Stati Uniti. Questi sono lasciati alla loro sorte e arbitrio e non ricevono nessun aiuto né appoggio per consolidare la pratica di questa lingua.

Il fatto è che la dirigenza politica iberoamericana (eccetto lo straordinario caso di Lula) non vede nell’esercizio e nella pratica dello spagnolo una molla di potere internazionale, che in un universo di 550 milioni di parlanti la fa diventare la lingua più parlata al mondo. Non vedono nemmeno il prodotto lordo che abbiamo appena esposto.

Il caso Lula si pone di là della consuetudine, come lo è la dirigenza politica iberoamericana nel suo insieme, poiché lui da buon discepolo di Gilberto Freyre ha potuto affermare: «La cultura ispanica è alla base delle nostre strutture nazionali argentine e brasiliane, come vincolo transnazionale, vivo e germinale nella sua capacità di avvicinare le nazioni ». Nel mese di settembre 2008 firmò il decreto legge sull’”Accordo ortografico della lingua portoghese” che semplifica e unifica la forma di scrivere il portoghese tra gli otto Stati che lo utilizzano come lingua ufficiale (Portogallo, Brasile, Angola, Mozambico, Capo verde, Guinea Bissau, São Tomé e Príncipe e Timor Orientale). Un accordo che egli ha qualificato strategico. Attualmente, in Brasile sono 12 milioni gli studenti che praticano correttamente lo spagnolo, il fatto è che l’uomo ispano capisce e, con un minimo di sforzo, parla con naturalità quattro lingue: il gallego, il catalano, il portoghese e lo spagnolo.
Il multi o polilinguismo con il quale il castigliano convive da sempre – la vita in Spagna e l’avventura dell’America sono state prove definitive – ci sta indicando che oggi, laddove il bilinguismo diventa così indispensabile come l’acqua, la nostra lingua si trova nelle migliori delle condizioni di qualsiasi altra per servire l’umanità nel suo complesso. E la loro cecità non gli consente di apprezzare che hanno fra le mani, senza avvalersene, lo strumento più prezioso per quanto concerne la politica internazionale.

Alberto Buela, UTN- Fed. del Papel, membro del Comitato scientifico di Eurasia. Rivista di studi geopolitici

(trad. di V. Paglione)

 

 

 

  

 

 

lundi, 31 janvier 2011

El pluralismo moral no implica un relativismo ético

relativitat-escher.jpgEl pluralismo moral no implica un relativismo ético

 

Alberto Buela (*)

 

Siempre recordaré como comenzó su primera lección de Ética en la Universidad de Buenos Aires, hace ya de esto cuarenta años, el entonces joven profesor Ricardo Maliandi, que venía de Alemania de sostener su tesis con Nicolai Hartamann: “Señores, morales hay muchas, ética una, que es la que vamos a estudiar nosotros acá guiados por el sano uso de la razón”.

Es sabido que el mundo fue caracterizado por la modernidad como un universo cuando en realidad el mundo es un pluriverso, pues no es una, sino muchas las versiones y visiones que tenemos de él.  Es que nuestro mundo está compuesto, para beneficio de los hombres, de muchas y variadas culturas. Así, se hablan alrededor de 6900 lenguas aunque el 95% de la población se concentra en unas pocas (mandarín, castellano, inglés, hindi, árabe, portugués [1] y otras pocas).

Está compuesto, además, por varias ecúmenes culturales: la anglosajona, la eslava, la iberoamericana, la arábiga, la europea, la oriental con sus variantes, pero al mismo tiempo infinidad de culturas conviven en ellas. Lo que muestra que el hombre, en general, no forma parte de una sola cultura como pretende el multiculturalismo,  sino que es un ser intercultural. Varias culturas viven en él mismo.

 

Las morales tienen que ver y están vinculadas a los culturas, así la moral anglosajona va a ser diferente de la moral arábiga y la iberoamericana de la oriental, pero además las morales están vinculadas a los credos, y así puede afirmarse, por ejemplo, que existe una moral cristiana, otra judía y otra musulmana.

Las morales son el piso axiológico donde los hombres caen cuando llegan a la existencia, nadie elige nacer donde nació. Nace aquí o allá y listo el pollo. Ellas constituyen el núcleo de la tradición cultural donde nacimos y nos criamos. Y esto viene a explicar la cierta relatividad de las morales que si las alzamos como absolutos nos transformamos de facto en totalitarios. Lo cual no invalida que nosotros para vivir prefiramos una y pospongamos el resto, dado que nadie puede vivir al margen de una tradición cultural.

Se plantea entonces el tema eterno de cómo vivir unos con otros en paz, evitando la guerra, la destrucción y la violencia de unos contra otros.

Quienes se dieron cuenta y nos hicieron dar cuenta de una vez y para siempre fueron los antiguos griegos cuando produjeron el paso del mito al logos e intentaron ordenar la vida de los hombres a través de la polis y las leyes, que ellos definieron como “la razón sin pasión”. Y allí aparece la ética en tanto disciplina racional que intenta dar universalidad a sus proposiciones. Esto quiere decir que ofrece argumentos sobre problemas del obrar, dignos de ser tenidos en cuenta por cualquier persona razonable en cualquier contexto o latitud mundial.

 

De alguna manera la ética sobrevuela las particularidades morales de los hombres para anclarse en aquello que tiene de específico del género humano, en tanto zoon logon ejon (animal que posee razón).

El problema surge cuando los filósofos y pensadores enamorados de la razón calculadora de la racionalidad moderna confunden género humano con humanidad y pretenden escribir una “ética mundial” como intenta desde hace años Hans Küng, o una “ética mínima” como la española Adela Cortina o una “ética de los derechos humanos” como otro ibérico Rubio Carracedo.

Es que la universalidad que busca e intenta la ética, que dicho sea de paso siempre es filosófica, no es por la universalización del hombre en “humanidad”, sino por la validez universal de sus respuestas. Esta es la madre del borrego. Quien resuelva esto resuelve, a su manera se entiende, el problema ético.

Si nosotros pretendemos como los autores citados más arriba escribir una ética mínima para evitar chocar con las múltiples soluciones morales o unos derechos humanos para la humanidad en lugar de para las personas que son las reales existentes, estamos poniendo el carro delante del caballo, pues estamos subordinado la ética a la ideología.

Es decir, buscamos justificar un conjunto de ideas preconcebidas (la paz perpetua, la ciudadanía mundial, etc.) en lugar de explicar los conflictos reales y existentes que plantea a diario y siempre en forma novedosa el obrar humano.

Si la tarea de la ética queda reducida a justificar la ideología del progreso o la de los derechos humanos del neoliberalismo y la socialdemocracia, entonces no hacemos ética, hacemos ideología.

La diferencia entre ambas actitudes se presenta  mínima pero es sustancial, pues cuando la ética pretende hacer una ética, sea mínima, transcultural, de la liberación, del oprimido, de los negocios y tantas otras que se pueden plantear, hace ideología. Mientras que la ética cuando encara los problemas del obrar hace ética sin más. Es que a esta difícil disciplina filosófica se le aplica a ella misma su máxima deontológica: El valor moral de la acción va a las espaldas de la acción. Es decir, no hacemos ética porque nos propongamos hacer ética, sino que hacemos ética cuando hacemos ética.

Los juicios éticos llevan siempre un pretensión de universalidad que si nosotros no la tenemos no estamos haciendo filosofía  sino más bien “filodoxa” o charla de café.

Hay que tener en claro que si bien las morales y la ética se mueven en el mismo dominio como lo es el del obrar humano, al mismo tiempo se manejan en diferentes planos tanto lógicos como gnoseológicos. Las morales se manejan con preceptos la ética con argumentos. Las morales como las creencias nos tienen, decía Ortega, los argumentos los tenemos y los elaboramos nosotros.

Lo que hay que rechazar de una vez y para siempre es el mito ilustrado de la inconmensurabilidad de las culturas. Mito inaugurado por Montaigne, seguido por Herder, luego Spengler y más acá el norteamericano Rorty y los antropólogos multiculturalistas según los cuales cada cultura sería un dominio autónomo de significaciones y una autoidentidad insuperable.

Por el contrario, cada cultura no es un todo clausurado como suponen los relativistas culturales voceros del multiculturalismo que no permite mensurar unas con otras, sino que cada cultura permanece abierta a las otras y en mutua influencia. Además existen criterios objetivos para mensurar una cultura como es la mayor o menor perfección de sus productos culturales. No tiene la misma jerarquía cultural tocar el bombo en una murga que hacerlo en medio de una sinfonía.

Existe, por otra parte, un criterio intrínseco de jerarquía cultural que está vinculado a la expresión de la parte más elevada del hombre como lo es la vida del espíritu, que siempre es superior a la del dominio de lo agradable o de lo útil.

Hay que tener en cuenta que una cultura no es superior a otra in totum  sino solo en aquellos aspectos en que ella florece,[2] cuando desarrolla en plenitud los productos y características que le pertenecen.

 

En cuanto a la ética en sí misma, ésta  plantea tres problemas fundamentales: el problema del bien y la naturaleza de lo bueno, el del deber y la naturaleza de las normas y el de las virtudes o excelencias que nos llevan al logro del bien y a la realización de lo debido. Así las virtudes van a formar el carácter del hombre que como decía Heráclito: el hombre es su carácter=ethos anthropos daimon. El ejercicio de la norma funda la autoridad, donde el hombre muestra que “sabe y puede”, y el bien como  aquello que todo hombre apetece de suyo y por sí mismo y entendido universalmente como felicidad.

Y acá no existe relativismo ético. Se pueden, eso sí, tener destintas opiniones al respecto, pero eso no implica ningún relativismo ético sino mas bien respuestas diferentes. Es por ello que la ética se puede caracterizar como aquella disciplina filosófica que intenta resolver los problemas atingentes al obrar humano con la pretensión de universalidad pero sin proponer recetas universales.

 

Los argumentos de los relativistas éticos se reducen a tres: 1) que la verdad ética no es objetiva sino socio-cultural. 2) que los argumentos éticos no tienen el rigor de los lógicos- científicos y 3) que toda ética es una ética de situación y por lo tanto no puede universalizarse.

Al primero de los argumentos respondemos que el bien como felicidad por todos apetecida no depende de las condiciones socio-culturales sino de la naturaleza misma del hombre. Sobre el segundo ya afirmó Aristóteles hace ya 2500 años que no puede exigírsele a la ética el mismo rigor que a la matemática, pues ésta trata sobre lo necesario y aquella sobre lo verosímil. Y sobre el tercero de los argumentos respondemos, que la ética de la situación, en Iberoamérica encarnada por la filosofía de la liberación, no invalida la pretensión de universalidad de la ética sino que solo limita su alcance. En realidad la ética situacionista esconde un gran simulacro pues disimula en la limitación de la ética a tal o cual situación, su pretensión de universalidad: que todo es relativo.

Es que la pretensión de universalidad de la ética despierta enseguida la necesidad y la mirada sobre lo local, sobre las circunstancias, que es quien presenta el problema al filósofo

En definitiva, todo este difícil planteo entre la relación de particularidad –universalidad, identidad –uniformidad, unidad y diversidad, requiere el empleo de la categoría metafísica de participación, la sola que nos permite encontrar una explicación filosófica con fundamento in re.

 

 

(*) alberto.buela@gmail.com – filósofo, mejor arkegueta, eterno comenzante.

UTN (Universidad Tecnológica Nacional)

CeeS (Centro de estudios estratégicos suramericanos)

Casilla 3198

(1000) Buenos Aires

 



[1] Lenguas habladas por más de 200 millones de personas

[2] El filósofo escocés Alasdair MacIntayre desarrolla el concepto de florecimiento( flourishing) en su libro Animales racionales y dependientes, Paidós, Barcelona, 1999

samedi, 04 décembre 2010

Une biographie d'Evita Peron

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VIVA EVITA !

Jean-Claude Rolinat présente sa biographie d'Eva Peron...

 

Evita Peron quadri.jpgJean-Claude Rolinat a publié dernièrement, aux éditions Dualpha, une remarquable biographie d'Eva Peron.
 
Evita, comme l'appelaient affectueusement les "descamisados", principaux soutiens du régime nationaliste populaire instauré par son mari, Juan Domingo Peron, en Argentine de 1945 à 1954, est un personnage historique qui mérite d'être étudié. Le livre de Jean-Claude Rolinat a le mérite d'aborder la vie de la "Sainte argentine" à la fois avec passion et objectivité.
 
Un livre à lire absolument et un cadeau idéal pour ceux qui veulent faire plaisir à un camarade à l'approche des fêtes.
 
Afin d'assurer la promotion et la diffusion de cette belle biographie d'Evita Peron :
 
Dimanche 5 décembre, l'auteur sera au Salon du livre d'histoire, à la Maison de la chimie, 28  rue  Saint-Dominique, Paris 7ème,
 
Mercredi 8 décembre, à partir de 19 h 00, il est invité par Martial Bild dans son libre journal sur Radio Courtoisie, 95.6 mgz à Paris et RP, 
 
Samedi 11 décembre, l'après-midi, il sera à la Librairie Primatice, 10, rue Primatice à Paris 13ème (métro Place d'Italie),  
 
et le jeudi 13 janvier 2011, à 19 h 00, il sera reçu par Serge Ayoub pour une conférence au  "Local", 92  rue de Javel, Paris 15ème.
 
Evita Perón, la reine sans couronne des Descamisados, par Jean-Claude Rolinat, Editions Dualpha, 244 pages, 29,00 €

 

samedi, 20 novembre 2010

La drogue sud-américaine part à l'assaut de l'Europe via l'Afrique

La drogue sud américaine part à l'assaut de l'Europe via l'Afrique

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

La drogue traverse l’Atlantique par Boeings entiers vers l’Afrique de l’Ouest, avant de finir en Europe et, particulièrement, en Grande Bretagne.

Le Washington Times publie un article sans ambiguïté sur le trafic de drogue : des gangs sud-américains achètent des jets afin de faire passer des stupéfiants en Afrique puis en Europe.

Les autorités fédérales recoupent des informations étonnantes sur les nouvelles méthodes des gangs sud-américains pour faire pénétrer de la drogue en Europe via l’Afrique : leur faire franchir l’Atlantique dans des jets vétustes remplis de cocaïne.

Au moins 3 gangs opèrent de cette façon, dont un se targue de disposer de 6 avions. Un autre en aurait lui aussi 5. Ces avions de taille importante ne sont pas détectés par les radars qui ne couvrent pas les zones de l’Océan Atlantique survolées.

Les services spécialisés de l’ONU (U.N. Office on Drugs and Crime) ont alerté les autorités sur les voyages transatlantiques des avions de la drogue, quand un Boeing 727 carbonisé a été découvert dans le désert du Mali, le 22 novembre 2009. Les trafiquants l’ont convoyé du Venezuela en Afrique, l’ont déchargé puis l’ont incendié.


Ces méthodes aériennes sont surprenantes, tant en raison de la distance couverte que de la complexité du pilotage de tels appareils, explique Scott Decker, professeur de criminologie étudiant la contrebande à l’Arizona State University. Un vol du Venezuela à l’Afrique de l’Ouest (3400 miles) est trois fois plus long que vers la Floride.

La crise économique mondiale a mit au rancard des centaines de cargos jets négociables à très bon marché.

Le site Planemart.com propose par exemple sur son site un DC-8s pour la somme de 275 000 dollars.

Les trafiquants mettent en oeuvre des techniques très poussées pour exploiter les routes aériennes. Le gang de Valencia-Arbelaez utilise des méthodes lui permettant de calculer ses coûts de vols et de camoufler ses plans de vol.

Les réunions de préparation peuvent se tenir dans des endroits aussi divers que le Danemark, l’Espagne, la Roumanie ou un hôtel Best Western à Manhattan. Lors d’une de ces réunions, le chef de gang Jesus Eduardo Valencia-Arbalaez a dessiné une carte de l’Afrique, en indiquant les points où la drogue devait être livrée.

Le kérosène et les pilotes sont payés par virement ou valises de billets, comme l’a montré la découverte de 356 000 dollars dans le bar d’un hôtel. Certains gangs utilisent par exemple un équipage russe, pour acheminer en Roumanie, puis en Guinée, un avion récemment acheté en Moldavie.

La quasi-totalité de la cocaïne est destinée à l’Europe, mais une partie de chaque cargaison est censée arriver à New-York. Un gang envisage de construire un laboratoire de méthamphétamine au Liberia et d’en exporter la production au Japon et aux États Unis.

Il a accès à un terrain d’aviation privé en Guinée, mais pourrait acheter son propre aéroport. D’ailleurs, une équipe étudie la possibilité de faire des vols directs Bolivie – Afrique de l’Ouest. Un avion de ce gang a été saisi en juillet 2008 au Sierra Leone, avec 600 kilogrammes de cocaïne à bord.

Le journal britannique The Telegraph indique quant à lui que la Grande-Bretagne est la capitale européenne de la drogue chez les jeunes adultes. Les régions du centre («England») et du pays de  Galles («Wales») ont, en pourcentage, plus de consommateurs que partout ailleurs sur le continent et la consomation est içi supérieure à celle des USA, dans la tranche d’âges des 15-34 ans.

Les agences spécialisées s’inquiètent du fait que les gens voient la cocaïne comme une drogue sans danger, alors qu’elle a causé 325 morts en 2008, contre 161 cinq ans avant. De même, plus la consommation augmente et se banalise, plus l’impact sur la santé public est visible.

En Grande Bretagne, 6,2% de cette classe d’âge a pris de la cocaïne cette année, contre 4% aux USA et 2,3% en Europe.

Washington Times

(Traduction-synthèse par fortune.fdesouche.com)

vendredi, 12 novembre 2010

Consecuencias politicas de la muerte de Kirchner

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Consecuencias políticas de la muerte de Kirchner (*)

Por Alberto Buela

Ex: http://www.tribunadeeuropa.com/

El objetivo de ese breve artículo no es valorar el gobierno de K del 2003 al 2007, aunque si nos apuran sostenemos que fue mucho mejor para el pueblo en su conjunto que el de Alfonsín (1983-1989), de Menem (1989-1999) y el De la Rúa (1999-2001).

La muerte repentina sorprendió a todo el universo político, social y económico de Argentina, pues se perdió “la centralidad del poder” en nuestro país, de modo que no sólo los kirchneristas perdieron su conducción sino que Argentina “perdió poder”, dado que al troncharse la centralidad del poder reducido a uno (reductio ad unum), en este caso K, el poder corre hacia o vuelve a distribuirse entre poderes menores ya constituidos (grupos de presión, lobbies, poderes indirectos, etc.).

Desde la designación a dedo por Duhalde en el 2003 como candidato a presidente hasta su muerte ejerció el poder en forma omnímoda. Así fue, habiendo otros nombrados, ministro de economía, interior, bienestar social, obras públicas, defensa, justicia, canciller, etc. Todos sus ministros (y los de su mujer) fueron simples colaboradores sin opinión ni voto. Designó, también a dedo, a su mujer como candidato a presidente para quedar, como un moderno Rasputín, detrás del trono y dejar a Cristina jugando el papel de títere. En definitiva, su poder llegó hasta donde llegó el capricho de su voluntad. Pero esta voluntad tuvo dos límites que K, astutamente, no transgredió, sino hubiera sido catalogado como tirano por el pensamiento políticamente correcto (vgr. Carta Abierta, Sarlo o Feinmann): a) no se meditó en política internacional o mejor aun no tuvo ninguna, aunque con él perdimos el contacto logístico con la Antártida(el atentado al rompehielos Irizar); entramos en conflicto con Uruguay por Botnia y rompimos relaciones con Irán por el supuesto atentado de la Amia y b) no se opuso a los grupos económicos concentrados (Eltzain, Werthein, Midlin, Grobocopatel, Ezkenazi, etc.) sino que trabajó con ellos y para ellos y para sí mismo, de ahí que su fortuna personal se multiplicara por diez en siete años de poder absoluto.

Su discurso político en contra de los grupos concentrados como el diario Clarín, rascaba pero no donde picaba realmente.

Se manejó como lo hacen todas las personalidades autoritarias: fue duro con los débiles (la Iglesia y el Ejercito que están capa caída en Argentina y los funcionarios públicos: jueces, ministros y secretarios de Estado) y débil con los fuertes (grupos financieros, lobbies comunitarios poderosos en Argentina). Recuerdo un cartel emblemático pintado en el paredón del Policlínico Bancario: “Kirchner se pelea siempre con la Iglesia, nunca con los judíos”.

El vacío de poder que crea su muerte es significativo, pues ninguno de sus ministros (y los de su mujer) ha hecho política en estos últimos siete años, eso estaba reservado solo a él, que ejerció en ese sentido una implacable hegemonía personal. Cristina, a quien la CGT rápida en reflejos, se apresuró a nombrar la heredera, no hereda nada, pues no maneja la centralidad del poder como K. Ella era su principal interlocutora (compartían el lecho), su reemplazante en “la chicana” de ser presidenta para que él lo fuera luego en un segundo período, sin tener que modificar la Constitución. Pero no su heredera, pues a K no lo hereda nadie dado que su ejercicio del poder fue excluyente. El no tuvo discípulos sino ciegos obedientes de sus ocurrencias más arbitrarias (candidaturas testimoniales para luego de votados por el pueblo, no asumir; ruptura con el mundo productivo del campo argentino, principal fuente de riquezas genuinas del país; desobediencia a la orden expresa de la Corte Suprema de Justicia de restituir en su puesto al fiscal general de Patagonia, etc.).

Seguramente el Frente para la Victoria se partirá en cien pedazos y se intentará crear un Frente Progresista de izquierda (De un tipo de gobierno jacobino que gobernó con y en beneficio de algunos grupos -montoneros, CGT-Moyano, madres de Plaza de Mayo, piqueteros, etc.- postergando el interés de las mayorías nacionales, lo lógico es que sus más cercanos colaboradores sigan profundizando ese modelo de resentimiento, con lo cual se apartarán aun más de la sociedad argentina generando un “gorilismo” creciente). Y, por otro lado, reaparecerán los viejos políticos peronistas con sus remanidos discursos, que K pareció sepultar o casi logra sepultar (Duhalde, Saa, Romero, Reuteman, Puerta, Busti, etc.). Pero el problema del antikichnerismo es que existen muchos opositores pero no existe una oposición con un proyecto de nación.

Esta pérdida de “la centralidad política” con la muerte de K arrastra un sin número de cuestiones vitales que van a afectar negativamente, primero al kirchnerismo , luego al peronismo y por último a la nación en su conjunto, pues entramos de lleno en la categoría de “Estados con soberanía limitada”.

Nosotros no pedimos la resurrección de K sino que intentamos describir, dada la manera en como éste construyó y ejecutó el poder, las consecuencias políticas que se derivan de su muerte.

Si para algunos la muerte nos liberó del presidente más rico, voraz y avaro de la historia argentina, para otros esa misma muerte produjo un vacío de poder nacional que con todas sus fallas creó K y que tardará mucho en restaurarse.

No hay que esperar nada nuevo en la política argentina de los próximos años, no hay nada nuevo a la vista sino eadem semper idem (más de lo mismo). Si triunfan unos u otros ya sabemos a qué atenernos y qué esperar.

(*) Muchos amigos y compañeros me han conminado a que escriba sobre la reciente muerte de Kirchner pero me he resistido hasta ahora porque no quiero ganarme más enemigos de los que ya tengo. Es un asunto complicado pues si hablo bien van a decir que soy kirchnerista, cuando no lo soy, y si hablo mal van a decir que soy un gorila, cuando no lo soy. Además ha pasado muy poco tiempo y como dice el dicho francés il faut que le sucre attend (es necesario que la azúcar llegue al fondo de la taza de café y se detenga, antes de beberlo). Teniendo en cuenta estos reparos escribí este breve artículo.

mercredi, 10 novembre 2010

L'alba dell'Era Rousseff

L’alba dell’Era Rousseff

Nil Nikandrov

Ex; http://www.rivista-eurasia.org/

L’alba dell’Era Rousseff

La maggior parte dei sondaggi indicavano Dilma Rousseff i vantaggio alla vigilia del ballottaggio presidenziale in Brasile. Il presidente uscente del Brasile, Luiz Inacio “Lula” da Silva, leader iper-popolare il cui rating nella fase finale del mandato, ha superato l’80%, ha rafforzato la posizione della Rousseff alla presidenza, ribadendo che il voto per Dilma è nei fatti, uno votare per lui. Le espressioni di sostegno del presidente da Silva, ovviamente, hanno contribuito a influenzare l’elettorato brasiliano, e il 31 ottobre Dilma Rousseff è stata votata come primo presidente donna del Brasile, con un voto del 56%, 11% in più rispetto al suo rivale José Serra.
Tra le altre cose, Lula deve essere accreditato della soluzione del problema della continuità politica: il suo ex braccio destro, donna, Dilma Rousseff è sicura di prendere in consegna la lista delle priorità strategiche del suo predecessore, che comporta armonizzazione sociale, sviluppo economico sostenibile, sovranità nazionale e fare del Brasile un centro di potere nel mondo d’oggi. Senza dubbio, Rousseff ha le credenziali necessarie per guidare il paese emergente come peso massimo globale. Economista di formazione, è stata presidente di Petrobras, gigante energetico statale brasiliano e ha già ricoperto incarichi nell’amministrazione da Silva. Tra i successi della Rousseff vi è la realizzazione di un programma di costruzione di alloggi a prezzi accessibili, cosa che ha premiato la sua posizione politica. Inoltre, la nuova presidentessa del Brasile gode della reputazione di una persona generalmente aperta al dialogo, ma assolutamente intransigente quando si tratta di questioni di principio.
Il presidente da Silva ha spazzato via il mito dei media che un “posto ombra” lo attendeva nell’amministrazione Rousseff, e che avrebbe mantenuto un ruolo decisionale sotto la nuova presidenza. Ha sottolineato l’indipendenza politica do Dilma e ha detto che avrebbe formato il governo da politica autonoma.
Nel suo primo discorso da presidentessa, Rousseff ha dichiarato che la sua priorità sarò quella di elevare il tenore di vita brasiliano, raggiungendo il livello comune tra i paesi industrializzati. Ha chiamato la comunità brasiliana del business a sostenere le prossime iniziative del governo, in particolare quelle volte a eliminare la povertà e la fame dal paese, e ha invocato la parità di genere, la libertà di parola, i diritti umani e la libertà di religione come elementi essenziali del suo programma. Rousseff, inoltre, ha sottolineato che non ci dovrebbero essere bambini abbandonati in Brasile.
Rousseff promette di perseguire politiche economiche e finanziarie indipendenti, allargando i mercati per la produzione industriale e agraria del Brasile, prevenire il ripetersi dell’inflazione e combattere la speculazione. Nella sua agenda nei i prossimi quattro anni, figurano in una posizione forte la sicurezza nazionale, la lotta contro il narcotraffico, la corruzione e altri tipi di reato. Ammettendo che il ruolo di successore di Lula – “il genio Lula“, come dice Rousseff – ha imposto un ulteriore misura di responsabilità, la neoeletta presidentessa del Brasile s’è impegnata a fare del suo meglio per vincere la sfida.
Il leader venezuelano Hugo Chavez è stato il primo a congratularsi con la Rousseff. Aveva detto nel suo discorso settimanale televisivo, nel periodo che precedeva il voto in Brasile, che la vittoria di Rousseff era imminente e aveva anche generosamente previsto che avrebbe raccolto il 60% dei voti. Chavez non sta tentando di nascondere la sua contentezza: il risultato delle elezioni in Brasile ha segnato la fine della rimonta della destra in America Latina. I soldi di Washington, il sostegno dei media e, occasionalmente, le operazioni sotto copertura per sostenere i candidati pro-USA nelle presidenze in Messico, Honduras, Panama, Cile e Costa Rica, spingendo i commentatori a far circolare previsioni secondo cui la marcia populista in America Latina era finita, o anche che la scomparsa dei regimi sfidanti in Venezuela, Bolivia, Nicaragua, Ecuador si profilava all’orizzonte. L’avvento della Rousseff, almeno ripristina lo status quo, garantendo che i regimi orientati verso il socialismo del XXI secolo continueranno a beneficiare del sostegno del Brasile.
In diplomazia, ci si può aspettare che la Rousseff si attenga alla strategia pragmatica di da Silva, nel selezionare i partner sulla base degli interessi del Brasile, a prescindere da come Washington definisca quei paesi. Ci sono informazioni che la squadra dei consulenti che da Silva ha usato per aiutarsi a tracciare il futuro corso della politica estera del Brasile, sono rimasti per la maggior parte, e che la nuova amministrazione si concentrerà sul rafforzamento del BRIC, il gruppo dei paesi dalle economie in continua espansione che comprende Brasile, Russia India e la Cina. Il Brasile inviterà le imprese russe ad assumere un ruolo più importante nel suo settore energetico, soprattutto per esplorare e sviluppare congiuntamente con Petrobras, i campi scoperti di recente sul fondale oceanico del Paese. Impressionanti opportunità esistono anche nel settore della costruzione di oleodotti. Il presidente da Silva ha fatto seri sforzi per espandere il commercio di armi tra il Brasile e la Russia e, considerando che il Brasile sta attivamente modernizzando le sue forze armate, i piani per il futuro non sono così lontano dall’essere ancora più ambiziosi. L’esperienza del Brasile nella cooperazione tecnico-militare con la Russia è positivo. Nel marzo scorso il paese ha ricevuto i primi 3 dei 12 elicotteri Mi-35 russi, del valore di 150m di dollari. L’accordo prevede, inoltre, la corrispondente formazione dei piloti brasiliani, la manutenzione e il trasferimento tecnologico. L’azienda aerospaziale brasiliana Embraer, una società annoverata tra i leader mondiali nel settore, prevede di fare investimenti congiuntamente con la Russia, nel settore delle tecnologie aerospaziali di prossima generazione. L’industria e la ricerca aerospaziale sono i settori in cui la cooperazione tra il Brasile e la Russia sarà probabilmente più feconda.
I piani per il partenariato strategico Russia-Brasile si completerà nei decenni futuri, il che significa che molto deve essere fatto nel “era Rousseff“.

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Traduzione di Alessandro Lattanzio
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jeudi, 04 novembre 2010

Argentine 1976: Est et Ouest unis contre les péronistes

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Argentine 1976 : Est et Ouest unis contre les péronistes

 

Paul Lecomte

Ex: http://www.voxnr.com/

 

A l’heure où Jorge Videla est poursuivi en raison de son implication dans la mort de 32 détenus politiques durant les mois qui suivirent le coup d’Etat, il est de notoriété commune que le Département d’Etat américain soutint la junte qui renversa le régime péroniste d’Isabel Perón. Un événement surprenant est néanmoins peu connu dans l’histoire argentine : l’attitude amicale de l’URSS et du Parti communiste d’Argentine (PCA) à l’égard du régime militaire.

En raison de liens commerciaux anciens avec l’Argentine et de la faiblesse du parti communiste local, l’URSS vit d’un bon œil l’apparition d’une dictature militaire qui concentrait la répression sur les péronistes de gauche des Montoneros et les trotskistes de l’Ejército revolucionario del pueblo. Contrairement à ce qui se produisit au Chili sous Pinochet, l’ambassade soviétique ne fut pas fermée, même chose pour celle de Cuba. Plus surprenant encore alors que les escadrons de la mort se déchainaient contre les militants de gauche, les activités du parti communiste ne furent que suspendues et son appareil apporta un soutien officiel à la junte du général Videla, considérée comme démocratique par rapport aux secteurs « pinochétistes » de l’armée argentine.

La lune de miel entre communistes pro-soviétiques se poursuivit sous la présidence Carter où le PCA dénonça les critiques du président américain à l’encontre des militaires comme une atteinte des USA contre la souveraineté nationale argentine. L’URSS, Cuba et leurs alliés empêchèrent l’administration Carter de faire condamner l’Argentine par la Commission des droits de l’homme des Nations unies. En 1979 l’Argentine fut un des deux seuls pays à ne pas suivre l’embargo sur les céréales visant l’Union soviétique après l’invasion de l’Afghanistan. L’URSS achetait les deux tiers de la production argentine de céréales juste avant que commencent les hostilités entre la Grande Bretagne et l’Argentine.

Lors de la Guerre des Malouines, l’URSS s’abstint de condamner l’invasion des iles par l’armée argentine et offrit des images satellites aux militaires sud-américains, comme l’ont déclaré des anciens officiers de haut rang du KGB et de l’armée rouge récemment au journaliste russe Sergei Brilev. Cuba offrit même d’envoyer des troupes contre les Britanniques au nom de l’anticolonialisme. L’aide soviétique ne permit pas à la junte de vaincre les forces armées britanniques et le régime militaire ne survécu pas à la débâcle suivant la défaite argentine.

Au-delà de la realpolitik, l’alliance objective des deux super-grands dans le soutien à une dictature d’extrême droite qui écrasa les restes du péronisme (seul mouvement d’importance de troisième voie en Amérique latine) oblige à modifier notre vision de la Guerre froide. De Yalta jusqu’à la disparition de l’Union soviétique, tous les Etats adeptes du « ni Est ni Ouest » furent impitoyablement attaqués par les deux superpuissances lorsqu’ils menaçaient leurs prés carrés respectifs, depuis l’Argentine péroniste jusqu’à l’Iran révolutionnaire. Seule la Chine en raison de son poids démographique et de son immensité parvint un temps à impulser une troisième voie avant de devenir l’allié objectif des USA contre l’URSS.

dimanche, 31 octobre 2010

Il mito antartico di Miguel Serrano

Il mito antartico di Miguel Serrano

Autore: Francesco Lamendola

Ex: http://www.centrostudila runa.it/

serrano.jpgQualcosa o qualcuno si agita nelle bianche distese del continente antartico; una presenza non umana, prigioniera di sogni indicibili. Ciò che scrivevano Edgar Allan Poe nel Gordon Pym e Howard Phillips Lovecraft ne Le Montagne della Follia non era semplice creazione letteraria; i Grandi Antichi vissero davvero nell’Antartide. Né sono fantasia i racconti degli indigeni Ona della Terra Fuoco sugli straordinari poteri dei loro stregoni o “kon”, capaci di ibernarsi nei ghiacci, e sfidare – praticamente – l’immortalità.

Ne è convinto lo scrittore ed esoterista cileno Miguel Serrano (nato nel 1917), improbabile figura di fanatico nazista eppure poeta affascinante, convinto che Hitler sia stato l’ultimo avatar o incarnazione del dio Vishnu, e che abbia lasciato il suo corpo fisico per trasfigurarsi in un corpo immateriale, rifugiandosi – appunto – tra i ghiacci del Polo Sud…

Nato nel 1917, diplomatico in pensione, il novantenne Miguel Serrano è senza dubbio una figura tra le più discusse della cultura del suo paese, il Cile, e dell’intera letteratura mondiale. Personaggio politicamente scorretto quant’altri mai (basti dire che è, ed è sempre stato, un fanatico sostenitore di Hitler e del nazismo), ha subìto una sorta di censura da parte dell’editoria europea, tanto che vi è tuttora pochissimo conosciuto, nonostante il suo valore artistico non sia di molto inferiore a quello del celebratissimo Pablo Neruda e senz’altro non da meno di quello di un altro scrittore cileno contemporaneo, molto tradotto all’estero negli ultimi anni, Francisco Coloane. Tuttavia le sue posizioni ideologiche sono difficilmente separabili dalla sua opera puramente letteraria e ciò spiega in parte l’ostracismo di cui è stato vittima. Per la stessa ragione, ossia l’estrema difficoltà di separare la dimensione politico-filosofica da quella artistico-letteraria, non è senza imbarazzo che ci accostiamo alla figura e all’opera controversa e discutibile di questo autore, imbarazzo dovuto al fatto che si potrebbe leggere il nostro interesse per lui, impropriamente, in chiave di riabilitazione ideologica. Al contrario, riteniamo doveroso confrontarci con la sua opera letteraria per il semplice fatto che, tra quanti scrittori si sono occupati dei Poli nella letteratura occidentale, egli occupa un posto in sommo grado eminente; vorremmo anzi dire che occupa, in un certo senso, il posto più notevole, poiché lui solo non ha visto nei Poli (anzi, nel Polo Sud: poiché solo di esso si è occupato) un mero pretesto scenografico per sviluppare una trama narrativa o una creazione poetica, bensì il centro e la ragione stessa della sua arte e della sua concezione poetica.

Miguel Serrano, Il Cordone doratoDa giovane Serrano abbraccia il marxismo; poi, deluso dal comunismo, alla vigilia della seconda guerra mondiale, aderisce al Partito nazionalsocialista cileno di Jorge Gonzalez von Marées, collaborando al giornale Trabajo (Il lavoro) e poi fondando la rivista letteraria La Nueva Edad, dalle cui colonne fiancheggia la politica dell’Asse e passa in seguito a una decisa propaganda antisemita. Egli sostiene, riprendendo l’antica concezione gnostica e catara, che Yahweh incarna il principio del male, è il Demiurgo che ha creato il mondo e che regna sui pianeti caduti, sul mondo delle tenebre; e che esiste un complotto sionista il cui obiettivo ultimo è quello di instaurare il dominio mondiale del giudaismo. Fra il 1941 e il 1942 avviene la svolta più importante nell’itinerario di Serrano: l’ingresso in un circolo esoterico capeggiato da un cileno-tedesco, il quale è convinto che Hitler sia un avatar, una incarnazione del dio Vishnu la cui missione è combattere una lotta eroica – non solo sul piano fisico e materiale, ma anche e soprattutto sul piano mentale – contro le nere forze dissolvitrici del Kali-Yuga, e che è possibile mettersi telepaticamenrte in contatto con centri iniziatici dell’Himalaia e con lo stesso Hitler. A guerra finita, tra parentesi, Serrano sostiene che Hitler ha rinunciato al suo corpo fisico ma si è alchemicamente costruito un corpo di luce con il quale si è trasferito nell’Antartide, donde aspetta il momento di ritornare per riprendere la lotta contro le forze delle tenebre. In quest’ultima parte del suo pensiero, Serrano coniuga miti e leggende degli Araucani e soprattutto degli Ona, il ramo dei Tehulche stabilito nella Terra del Fuoco, circa l’esistenza di un qualcosa, di un grande spirito che ha le fattezze di un gigante (la figura biancovestita del finale di Gordon Pym?), laggiù nelle bianche soltudini del Sud, fra i ghiacci eterni e le nebbie di un mondo intatto e misterioso, con la fede in una missione divina di Hitler – posizione che lo accomuna a quella strana figura di esoterista che fu Savitri Devi.

Nel 1947-48 Serrano prende parte, come giornalista, alle spedizioni antartiche della marina da guerra cilena e ne riporta la convinzione che i nazisti, negli anni precedenti, vi abbiano costruito delle basi segerete (1) e che il corpo di Hitler – trasfigurato, come quello di Cristo dopo la resurrezione – si è portato laggiù dopo la caduta di Berlino in mano ai Sovietici.

Più tardi compie dei viaggi in Europa e stringe amicizia con lo psichiatra Carl Gustav Jung e lo scrittore Hermann Hesse; inoltre fa conoscenza con il poeta Ezra Pound e il filosofo Julius Evola, oltre che con Otto Skorzeny, l’ex paracadutista tedesco che aveva liberato Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso. Nel 1953 entra nel corpo diplomatico e svolge funzioni di ambasciatore in India (fino al 1962), Jugoslavia, Romania, Bulgaria, Austria. Rimosso da ogni incarico dal presidente Salvador Allende nel 1970, si ritira in esilio in Svizzera, a Montagnola nel Canton Ticino, abitando nella stessa casa che era stata di Hermann Hesse. Nel 1973, dopo il colpo di stato del generale Augusto Pinochet, Serrano rientra in Cile, dove si segnala per la clamorosa partecipazione a convegni e commemorazioni di personaggi come Rudolf Hess o come i sessantadue giovani nazisti cileni che furono uccisi, nella loro patria, nel 1938. Ha svolto inoltre un’intensa attività di conferenziere e di scrittore, dando alle stampe un numero considerevole di libri di filosofia, esoterismo, poesia, narrativa, memorie. Tra i titoli più importanti ricordiamo La Antàrtica y otros Mitos (1948), Quien llama en los Hielos (1957), Las visitas de la Reina de Saba, con prefazione di C. G. Jung (1960); El circulo hermético, de Hesse a Jung, tradotto in lingua inglese con il titolo Jung and Hesse: A Record of Two Friendships (1965); El Cordòn Dorado: Hitlerismo Esotérico (1974); Adolf Hitler, el Ultimo Avatara (1984); No Celebraremos la Muerte de los Dioses Blancos (1992), e le Memorias de El y Yo, ossia Hitler e lui stesso, in quattro volumi (1996-1999). Instancabile, il terribile vegliardo continua a scrivere e a far parlare di sé, rilasciando interviste anche su temi di attualità; come quella del gennaio 2004 in cui accusa gli Stati Uniti di volersi impadronire della Patagonia mediante il cavallo di Troia delle organizzazioni ecologiste.

Tutto ciò crediamo che basti per delineare la figura di un personaggio scomodissimo e francamente indifendibile, non solo sul piano politico ma anche su quello strettamente culturale; e tuttavia non privo, come poeta e come cultore di antichissimi miti amerindi, di un suo fascino strano, oltre che di una indubbia tenacia nel remare controcorrente, che si esita se qualificare come franchezza brutale o come sfrontatezza e autentico vaneggiamento. Comunque, in questa sede ci limiteremo ad approfondire l’interesse di Miguel Serrano per la dimensione mitica e poetica dell’Antartide, caratterizzata da potenti squarci visionari che ne fanno un legittimo continuatore, e anzi un originale rielaboratore, del Poe di Gordon Pym e del Lovecraft de Le Montagne della Follia. I due testi più notevoli, in questo senso, dello scrittore cileno sono La Antàrtica y otros Mitos, (L’Antartide e altri miti), pubblicato a Santiago nel 1948, e Quien llama en los Hielos (Chi chiama nei ghiacci), pubblicato a Santiago (e, più tardi, a Barcellona), nel 1957; nessuno dei due è stato finora tradotto in lingua italiana, né in inglese. (2) Nel secondo, Serrano racconta di un sogno nel quale una creatura misteriosa gli rivela che l’immortalità si raggiunge fra i ghiacci e si consegue a patto di ibernarsi, in vista del supremo combattimento con l’Angelo delle Ombre. Tuttavia, noi concentreremo ora la nostra attenzione sul primo di questi due libri, che ci pare più significativo nel senso della tradizione esoterica relativa al continente antartico e più “in linea”, idealmente, con quelli già esaminati di Poe e di Lovecraft.

La Antàrtica y otros Mitos è la trascrizione di una serie di conferenze tenute dall’autore nella sua patria. Fin dalla copertina, il libro tributa un omaggio esplicito al Gordon Pym e alla sua dimensione esoterica: vi campeggia la figura spaventosa di un gigante alato, bicorne, che impugnando un tridente si staglia al di sopra di un candido paesaggio ghiacciato. Del resto, come osserva Erwin Robertson, l’Antartide in se stessa è un mito (3); dunque il “mito antartico” di Serrano non è che una variante di un mito preesistente alla tradizione esoterica occidentale, già presente – secondo lui – nelle credenze del popolo che da migliaia d’anni vive più vicino a quel mistero: gli Ona della Terra del Fuoco.

Ma lasciamo la parola a Sergio Fitz Roa, uno dei più noti studiosi di Serrano nei paesi di lingua spagnola:

“Serrano riporterà numerose leggende intorno al tema che ci interessa: le cronache delle guerre degli Onas (antichi abitanti della Terra del Fuoco), la leggenda della vergine dei Ghiacci, il continente Lemuria, il gigante di Poe e, ancora, la sfacciata idea che Adolf Hitler vive nel freddo antartico. E anche se a prima vista ci sembra non esistere alcuna relazione tra ciascuna di esse, vi è, dato che tutte queste leggende fanno riferimento ai misteriosi dimoratori dell’Antartide. Vi è qui un altro punto nel quale confluisce il pensiero di questi tre autori [cioè Poe, Serrano e Lovecraft]. Serrano conosce il racconto di Poe e riguardo al Gigante Bianco annota: ‘Poe conosceva la leggenda dei Selknam sugli Jon che abitano l’Isola Bianca. O sapeva anche del Prigioniero dell’Antartide, che vive nel suo nero fondo, e che per questo stesso motivo appare bianco?

“Per capire chi sono gli Jon e a che cosa si riferisca Serrano quando parla dell’Isola Bianca, si raccomanda di leggere la pagina 25 de La antàrtica y otros Mitos, dove si spiega che gli antichi Onas (i Selknam erano solo una delle tribù Onas) credevano nell’esistenza degli Jon: uomini di una casta aristocratica dotati di facoltà sovrannaturali e possessori dei Misteri. ‘Furono gli Jon, maghi Selknam della Terra del Fuoco, coloro che conservano i segreti insegnati da Queno e che ancora si immortalizzavano imbalsamandosi entro i ghiacci del sud, per resuscitare rinnovati nel più lontano futuro. Dicono anche i Selknam che è nel Sud, lì, in quell’Isola Bianca che sta nel Cielo dove dimorano gli spiriti dei loro antenati, conducendo una vita libera da preoccupazioni’ (4).

“Saranno questi spiriti ancestrali gli Antichi menzionati da Lovecraft? Sarà l’Antartide quella Isola Bianca della quale parlano le vecchie leggende onas?

“Serrano, che fu uno dei primi cileni a visitare la regione antartica, ci parla della relazione esistente fra questo luogo e la follia e segnaliamo, da parte nostra, che il titolo dell’indimenticabile racconto di Lovecraft Alle Montagne della Follia non è dovuto a un capriccio o a una trovata ingegnosa per richiamare l’attenzione di alcuni lettori febbricitanti.

“Serrano dirà che l’unica via per comprendere questa realtà del Sud o, meglio, per salvarsi dalla follia che lì è in agguato, è il Sogno; ed il mondo dei sogni è un elemento classico nella narrativa di H. P. Lovecraft.

“L’inquietante possibilità che esista una entità non-umana nell’Antartide si registra anche nelle pagine del testo dell’autore cileno. Il sincronismo tra questi due scrittori ci lascia stupefatti, soprattutto per il fatto che Miguel Serrano non conosceva l’opera di Lovecraft, quando scrisse La Antàrtica y otros Mitos. Citiamo, allora, Serrano, che con la sua arte ci ricorda i vecchi alchimisti: ‘Senza dubbio, in quel continente del riposo e della morte vive qualcuno. Un prigioniero si agita, avendo come mezzo di sopravvivenza il fuoco ardente ed eterno. Questa idea di Serrano si plasma anche in un altro testo del medesimo autore: Quien llama en los Hielos.

“In esso vi è un paragrafo di una bellezza terribile: ‘Io ho visto questo essere, questo Angelo nero: lì, nel suo recinto del Polo Sud. È in una immensa cavità oscura che egli risiede… Spazi enormi, senza limiti, lievi e deprimenti allo stesso tempo, che si estendono, sicuramente, nell’interiorità psichica della Terra, al di sotto dei ghiacci eterni. E così si muove il Zinoc… Ascende o discende fino all’estremo di quell’apertura e, da lì, si lancia ad una velocità vertiginosa in cerca del suo altro estremo, della sua fine irraggiungibile… Tutta l’eternità l’ha trascorsa in questo sforzo, cadendo a testa in giù, cercando di raggiungere il luogo antipodico dal quale è stato proscritto dall’inizio stesso della creazione. Il nord è il suo sogno, il suo profondo anelito e la sua maggior sofferenza’. Lovecraft, da parte sua, nel suo racconto scriverà qualcosa di rivelatore: ‘Fondarono nuove città terrestri, le più importanti di esse nell’Antartico, perché quella regione, scenario del loro arrivo, era sacra. A partire da allora, l’Antartico fu come prima il centro della Civiltà degli Antichi, e tutte le città costruite lì dalla prole di Chtulhu furono distrutte’. Più innanzi il narratore del racconto di Lovecraft indicherà che le mappe incontrate nella vecchia città polare mostrano che le città degli Antichi nell’epoca pliocenica si trovavano, nella loro totalità, al di sotto del 50° parallelo di latitudine Sud. Queste referenze di entrambi gli autori sono fondamentali, perché ci indicano l’opposizione simbolica tra il Polo Nord (o la mitica Iperborea) ed il Polo Sud, sede degli Antichi. Qusta opposizione non risponde solamente a una differenza di carattere geografico ma, prima di tutto, a delle differenze spirituali. In effetti, il Polo Nord è il polo positivo – in termini cristiani, il Bene – ed il Polo Sud, secondo la stessa prospettiva, il Male. Senza dubbio, questi opposti, conformi ai princìpi della filosofia manichea, sono complementari. Entrambi i Poli mantengono l’Ordine della Terra, regolano il buon funzionamento energetico del nostro mondo. L’unica possibile differenza ha relazione col tipo di energia che irradiano detti luoghi, dacché in verità sono dei centri energetici. Questa conoscenza che si esprime attraverso la letteratura moderna (Lovecraft e Serrano), che differenzia i centri volitivi terrestri, concorda punto per punto col pensiero antico o tradizionale che insegnarono i maestri indoeuropei, per i quali le parole che danno il nome ai distinti luoghi sacri sono: Cielo, Terra o Mondo, Centro e Inferno. Il Cielo, per essi, è la dimora degli eroi, coloro che vissero la vita come si deve, e corrisponde ad Iperborea o al nostro Polo Nord; la Terra è il luogo abitato o il terreno di spedizioni e viaggi, essi la identificavano con l’Asia e l’Europa. L’Inferno , che era la casa dei dèmoni – gli Antichi e gli shoggots - sembra non essere mai stata descritta e ubicata con maggior dettaglio dagli antichi saggi indoeuropei. Questo Inferno è per noi il Polo Sud” (5).

È appena il caso di notare che, negli ultimi decenni, alcuni autori hanno incominciato a ventilare la possibilità che sia esistita effettivamente un’antica civiltà nel continente antartico, che poi l’avanzata dei ghiacci avrebbe lentamente soffocato e le cui rovine giacerebbero, quindi, a migliaia di metri sotto la calotta glaciale del Polo Sud. Il primo ad avanzare questa ipotesi, a quanto ne sappiamo, è stato proprio uno studioso italiano, Flavio Barbiero, col suo libro Una civiltà sotto il ghiaccio che, negli anni Settanta, è passato praticamente inosservato; anche se, poi, le sue tesi sono state riprese in gran parte da due scrittori canadesi di successo, Rand e Rose Flem-Ath. (6) Il libro di Barbiero recava una presentazione di Silio Zavatti, il quale confermava la sua straordinaria capacità di pensare in maniera indipendente rispetto ai dogmi dell’archeologia e della scienza accademica, mantenendo un’apertura epistemologica di trecentosessanta gradi pur essendo abituato, lui uomo di scienza, a muoversi sul solido terreno dei fatti. Il nucleo delle tesi dell’autore era che esistette un’antichissima civiltà primordiale, erede diretta di quella di Atlantide, che svolse il ruolo di centro di diffusione per le successive culture a noi note dell’antichità.

“Continuando a credere nella teoria diffusionista – scriveva Zavatti nella sua prefazione – […] bisognerebbe ammettere che nonostante millenni di lenta maturazione, popoli profondamente diversi abbiano inventato simultaneamente l’agricoltura, l’architettura, gli usi, gli ordinamenti sociali ecc. che presentano un fondo comune senza che vi fossero stati dei contatti di qualsiasi ordine.

“Sarebbe voler credere nell’impossibile e infatti nessuno più vi presta fede.

“Bisogna allora ritornare a un’origine comune della civiltà e non c’è altra strada che riprendere il creduto mito di Atlantide. Non s’inventa nulla perché in tutte le civiltà antiche se ne parla, dai Maya agli Egizi, dai Sumeri agli Indiani, pur sotto nomi diversi.

“Ecco, dunque, che il quadro si completa; le navi atlantidi superstiti della tragedia approdarono in terre diverse e i loro occupanti, in misura più o meno sensibile, influenzarono le culture delle popolazioni incontrate, quando addirittura non le formarono. Solo così si spiega il fondo comune di tutte le civiltà e la spiegazione non ha bisogno di funambolismi per apparire logica. […]

“La prova per eccellenza che la teoria del Barbiero è esatta si può avere soltanto da uno scavo sistematico da farsi in un determinato punto dell’isola Berkner ma, come si è detto, gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione del progetto sono molteplici e di varia natura.” […]

“Al principio del 1976 l’ing. Barbiero ebbe la possibilità di aggregarsi a una spedizione alpinistica e un po’ scientifica, organizzata alla garibaldina, che per una ventina di giorni operò nell’area della Penisola Antartica, una regione, cioè, molto lontana dal Mare di Weddell e dall’isola Berkner, ma che poteva riservare pur sempre delle sorprese. Infatti fu nell’isola Seymour che il capitano norvegese C. A. Larsen trovò, nel 1893, una cinquantina di palline di sabbia e ‘cemento’ messe su colonnette dello stesso materiale. Larsen scrisse che quegli oggetti sembravano ‘fatti da una mano umana’. Un’espressione generica per dire che erano oggetti fatti molto bene? Forse, e infatti non li fece mai studiare e analizzare ed oggi, putroppo, non li possediamo più perché andarono distrutti nell’incendio della sua casa a Grytviken (Georgia Australe).

“Nel corso della spedizione del 1976 l’ing Barbiero scoprì nell’isola Re Giorgio (una del gruppo delle Shetland Australi), una grande quantità di tronchi semifossilizzati che potrebbero risalire a 10-12.000 anni fa. Purtroppo gli istituti scientifici ai quali erano stati inviati i campioni di questi tronchi per la datazione col metodo del C14 non hanno fatto conoscere ancora la loro risposta. In Antartide sono stati trovati, a più riprese, dei fossili di alberi e altre piante (Robert Falcon Scott stesso ne riportò moltissimi), ma se i tronchi semifossilizzati trovati da Barbiero risalgono veramente a un massimo di 12.000 ani fa, si ha la prova che fino a quell’epoca l’Antartide poteva essere abitata e molti fatto coinciderebbero con le affermazioni contenute nei dialoghi di Platone e, di conseguenza, con l’ipotesi avanzata da Barbiero in questo volume” (7).

Anche studiosi anglosassoni, come il professor Charles Hapgood, erano giunti a conclusioni analoghe, studiando il problema di alcune antiche carte geografiche che rivelano conoscenza “impossibili”, a meno di ammettere l’esistenza di una evoluta civiltà antidiluviana, padrona dei mari all’epoca in cui la morsa dei ghiacci con aveva ancora stretto l’Antartide, e dalla quale sarebbero derivate le conoscenze cartografiche e marittime altrimenti inspiegabili; si veda, per tutte, la celebre carta nautica dell’ammiraglio turco Piri Reis (8). Fantasie? Certo è che Miguel Serrano, così come Lovecraft e, forse, Poe, hanno dato voce poetica a una ipotesi che ora alcuni studiosi di formazione scientifica hanno ripreso con la massima serietà: che quanto oggi sappiamo sul continente antartico è solo una piccola parte della sua storia antichissima, misteriosa e affascinante; che forse vi fiorirono, prima dell’ultima glaciazione, le imponenti città di una razza evoluta; che forse qualcosa o qualcuno ancora vi si trova, in attesa di essere rivelato all’umanità.

Note

1) Cfr. ROBERT, James, La guerra segreta della Gran Bretagna in Antartide, su Nexus, nr. 61 e 62 del 2006; Temolo, Luca, I dischi volanti di Hitler, su Xché, nr. 3 del 2003; TROMBETTI, Pierluigi, Una base nazista in Antartide, su Hera Magazine; BACCARINI, Enrico, Dal nazismo occulto al fascismo esoterico, su Archeomisteri, nr. 20 e 21 del 2004.

2) Ci serviremo, pertanto, della traduzione italiana di alcuni passi dell’opera eseguita dal sito Internet Alchemica (www.alchemica.it/antartidemito.html).

3) ROBERTSON, Erwin, Por el Hombre que Vendrà, in Ciudad de los Césares, nr. 18, 1990.

4) Il missionario-esploratore De Agostini, uno dei massimi conoscitori della Terra del Fuoco, che conobbe diversi sciamani e potè osservarli da vicino nelle loro attività occulte, li chiama non Jon, ma Kon, e afferma che “il potere dei Kon si estendeva fin dopo morti e per questo i Kon venivano seppelliti con la faccia rivolta all’ingiù, affinché non potessero inviare malattie ai vivi”: DE AGOSTINI, A. M., Trent’anni nella Terra del Fuoco, Torino, S. E. I., 1955, p. 302.

5) FRITZ ROA, Sergio, La Antártica y el mito lovecraftiano, originariamente in Ciudad de los Césares, nr. 47, 1997.

6) FLEM-ATH, Rand e Rose, La fine di Atlantide, Casale Monferrato, Piemme ed., 1997.

7) BARBIERO, Flavio, Una civiltà sotto ghiaccio, Milano, Ed. Nord, Milano, 1974, pp. XII-XV.

8) HAPGOOD, Charles P., Maps of Ancient Sea King, Adventure Unilimited Press, 1996; HANCOCK, Graham, Impronte degli Dèi, Milano, Corbaccio, 1996; Id., Civiltà sommerse, Milano, TEA, 2005.

lundi, 20 septembre 2010

Teheran, Damasco e Caracas: il triangolo strategico

Teheran, Damasco e Caracas: il triangolo strategico

di Pamela Schirru

Fonte: eurasia [scheda fonte]

Teheran, Damasco e Caracas: il triangolo strategico

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Che l’Iran annoveri tra le sue “amicizie di lungo corso” anche il Venezuela non è una novità. Oltre al Brasile e alla Bolivia, nella lista dei partners politici latino-americani un posto di rilievo è occupato proprio dal Venezuela di Hugo Chavez. Un’amicizia lunga all’incirca un decennio quella che lega il leader maximo al presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, rinnovata da frequenti incontri ufficiali. Nel 2004, in occasione di una visita ufficiale del presidente venezuelano in Iran, l’allora sindaco di Teheran Ahmadinejad (non ancora eletto alla carica presidenziale) rese omaggio al leader con l’inaugurazione di una statua raffigurante l’eroe nazionale Simon Bolivar, all’interno del parco Goft-o-Gou nei pressi della capitale iraniana. Nel 2006, Ahmadinejad e Chavez si rincontrano. Il primo da un anno è il presidente della Repubblica Islamica dell’Iran, il secondo, invece da due anni è di nuovo alla guida della Repubblica Bolivariana del Venezuela. Il luogo dell’incontro stavolta è Caracas. È qui che i due leader rinnovano la loro “amicizia politica ed economica”. Un’alleanza, quest’ultima, incoraggiata nel 2005 proprio dal neo eletto presidente iraniano, deciso ad avviare una stretta collaborazione con i Paesi dell’America Latina. E il governo venezuelano non si è tirato indietro, accettando la sfida lanciata dal presidente iraniano. In cinque anni, le visite ufficiali del presidente venezuelano a Teheran si sono intensificate, segno di una buona intesa tra i due Paesi. In un solo anno (2007), Chavez ha raggiunto il suo omologo iraniano per ben due volte. Al centro dei loro incontri, la tutela dei reciproci vantaggi economici. Non c’è dubbio che Venezuela e Iran sono legati l’una all’altra da un doppio filo. Lo sono dal punto di vista politico, quando Chavez sostiene il diritto dell’Iran a sfruttare il nucleare per scopi essenzialmente civili; lo sono dal punto di vista economico, quando stringono accordi. A tal proposito, è opportuno ricordare il viaggio di Chavez in Iran del 2008. In questo frangente, il leader venezuelano ha avanzato una proposta al presidente iraniano: sostenere alcuni progetti industriali entro i confini nazionali bolivariani, attraverso il coinvolgimento di enti e società private iraniane. Un esempio perfetto di cooperazione “sud-sud”: l’Iran fornirebbe al Venezuela gli strumenti necessari, ovvero servizi tecnici e adeguata manodopera affinché questa concretizzi i numerosi progetti di espansione urbanistica e di sostegno all’edilizia locale. Un sistema di scambi e favori reciproci, quello messo in piedi dal governo di Caracas e favorito da quello iraniano, fondato essenzialmente sul rapporto qualità – prezzo.

L’Iran vede come prioritario – al fine di dare impulso alla sua economia interna – l’esportazione di servizi tecnici verso altri Paesi e in qualsiasi mercato che li richieda. Sull’altro versante, la parte venezuelana necessita di rinverdire il mercato interno attraverso buoni investimenti e mediante progetti frutto di una cooperazione sostenuta da costi ragionevoli e qualità di servizi. E l’Iran sembra volerglieli offrire. Sempre nel 2008, il governo iraniano ha firmato 150 accordi commerciali del valore di 20 miliardi con il Venezuela e si è classificato terzo tra i Paesi investitori. Alla luce di ciò, l’intesa tra i due è andata ben oltre, fino a toccare altri settori dell’economia: dall’elettricità all’ambiente, dall’agricoltura all’industria automobilistica. Compagnie miste venezuelano – iraniane fabbricano mattoni, producono latte e lanciano sul mercato auto e biciclette.

I due Paesi, in quanto membri OPEC, cooperano anche nel settore energetico – petrolifero. Un’intesa, la loro, sancita nel 1960 con la creazione dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio alla quale aderirono in origine, oltre all’Iran e al Venezuela, anche Arabia Saudita, Iraq e Kuwait. Attualmente, l’organizzazione si è ampliata fino a contare 11 membri permanenti. Tuttavia, l’idillio tra OPEC e Iran-Venezuela ha iniziato a scricchiolare nel 2008, quando l’asse Teheran/ Caracas ha inferto un duro colpo al cartello che controlla le esportazioni di greggio sul mercato globale. Al centro della disputa la valuta di scambio: meglio il dollaro o l’euro? Una diatriba culminata con una profonda frattura interna: l’Iran ha modificato il suo listino prezzi in euro, nonostante i restanti membri Opec abbiano mantenuto inalterata la valuta di scambio in dollari. Mentre Caracas ha optato per una politica monetaria ad hoc, da applicare al settore import-export. La misura è stata varata dal governo venezuelano ai primi di gennaio 2010 e consiste non tanto in una svalutazione, bensì in un adeguamento del valore della sua moneta, il bolivar in base alle necessità dettate dal mercato. In poche parole, il Venezuela può scegliere su una valuta debole e forte. Che cosa significa questo? Che la moneta nazionale si conforma alle diverse condizioni economiche, soprattutto nel settore delle esportazioni. L’economia bolivariana è strettamente legata alla produzione di materie prime, in particolare al petrolio, di cui possiede la quarta  più grande riserva certificata al mondo, dopo Iraq e Arabia Saudita, dopo le recenti scoperte nei pressi della Faglia di Orinoco: 314 milioni di barili estraibili, un terzo di tutte le riserve petrolifere mondiali. Fino al 2008, le entrate derivanti dal petrolio avevano raggiunto picchi elevatissimi, grazie all’ingente produzione di barili (stimati in oltre 3 milioni di barili al giorno) e al loro costo, altrettanto elevato: ciascun barile di “oro nero” costava intorno ai 100/150 dollari. Ma nell’ultimo trimestre dello stesso anno qualcosa inizia a cambiare, soprattutto a causa della crisi economica globale. Il prezzo del petrolio inizia a calare, fino a raggiungere la soglia dei 30 dollari a barile nel 2009. Per far fronte alla drastica caduta dei prezzi, l’OPEC opera un taglio altrettanto drastico della produzione pari al 25% al fine di ripristinare un certo equilibrio. Come ha reagito il Venezuela? Adeguando il prezzo della sua moneta alle sue individuali necessità. A partire dal 7 gennaio 2010, infatti, il governo di Caracas ha dato avvio al processo di “svalutazione-adeguamento” della moneta nazionale, dapprima per i prodotti di prima necessità per poi estendersi al settore petrolifero.

Una linea retta ideale unisce Teheran a Caracas passando per Damasco. E se i punti di questa linea si unissero, essi formerebbero un triangolo imperfetto. Iran, Siria e Venezuela che cosa hanno in comune queste tre realtà? Ad esempio, una rotta aerea percorsa due volte al mese da un vettore dell’Iran Air, la compagnia aerea iraniana. Per due sabati al mese, un Boieng 747SP decolla dall’aeroporto internazionale di Teheran e opera uno scalo di 90 minuti in terra siriana, prima di ripartire alla volta del Maiquetia International Airport di Caracas. Nata dall’intesa tra la società di trasporti venezuelano Conviasa e la compagnia di bandiera persiana Iran Air e inaugurata il 2 febbraio 2007, la rotta ha fin da subito generato sospetti sul versante occidentale. Dubbi e ipotesi hanno fatto da cornice in questi tre anni al volo 744 dell’Iran Air: che cosa trasporterà? Chi volerà a bordo dei suoi vettori? Domande rimaste senza risposta, se non fosse per alcune indiscrezioni filtrate dalle pagine di un “memorandum” risalente al 2008 e compilato da funzionari dei servizi segreti israeliani. Dietro il volo 744 dell’Iran Air si ritiene ci sia uno scambio di favori militari per via aerea. In poche parole, Chavez consentirebbe al leader iraniano di adoperare liberamente i propri aerei di linea in cambio di aiuti di varia natura: dal trasferimento di materiale scientifico verso i laboratori del Centro di studi e ricerca siriano a Damasco, agli aiuti militari diretti a Caracas. In particolare, si tratterebbe di spedizioni di macchine CNC, computer per il controllo di missili e di materiale per lo sviluppo di vettori. Le spedizioni verso “la zona franca” siriana sarebbero state fatte da una società iraniana – la “Shaid Bakeri” – nonostante i veti internazionali. Infatti, l’azienda è stata inclusa nel dicembre 2006 nella lista degli enti sanzionati dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (ris.1737), in ragione del ruolo svolto dall’Iran nello sviluppo del suo programma missilistico. Sanzioni ratificate lo scorso 18 giugno dall’Unione Europea. Nonostante i divieti imposti dalla comunità internazionale, la Siria avrebbe pertanto ricoperto il ruolo di corridoio di passaggio per gli scambi tra Teheran e Caracas.

Al di là di ipotesi e di supposizioni, le relazioni tra Caracas/Damasco e Iran/Damasco sembrano godere di buona salute. Nel primo caso, Chavez ha promesso al presidente siriano, Bashar al Asad, un supporto economico nella realizzazione di infrastrutture in terra siriana. In particolare, il governo venezuelano investirà nella costruzione di una raffineria che dovrà essere pronta entro il 2013. La struttura avrà la capacità di lavorare 140 mila barili al giorno. Mentre Caracas in veste di promotore finanziario, deterrà almeno il 30% delle azioni: la restante percentuale sarà ripartita tra Siria e Iran. Il progetto verrà portato avanti da un’impresa mista creata nel 2009, di cui fanno parte anche Iran, Malesia, Siria e appunto Venezuela e secondo stime approssimative, costerà circa 4,7 miliardi. Un piano ambizioso, ma nel contempo un segnale positivo nel settore dell’economia nazionale siriana nonché una prova di apertura nei confronti del mercato sud-americano. Le intenzioni di Caracas verso la Siria si sono spinte oltre: il 28 luglio 2010 nel corso della visita di Stato del presidente Asad a Caracas, il leader bolivariano ha esteso l’invito alla Siria a prendere parte all’ALBA, ovvero all’Alleanza Bolivariana per i Popoli di Nuestra America, in veste di osservatore del prossimo vertice del gruppo. L’intesa tra i due presidenti è sfociata poi nella firma di quattro accordi di collaborazione, in materia agricola e scientifica, che riguardano il trasferimento di tecnologie indispensabili per l’installazione di una fabbrica di olio d’oliva in territorio siriano.

Solidissimo il sodalizio tra Iran e Siria. Un’intesa strategica rafforzata nel corso delle due guerre del Golfo e cementata dal comune obiettivo di contrastare l’influsso israeliano nella Regione: dal 1967 la Siria rivendica le Alture del Golan occupate da Israele. Negli ultimi trent’anni, la vicinanza con l’Iran ha inoltre permesso alla Siria di uscire dal suo isolamento internazionale, durato troppo a lungo: dal 1963 al 2000. Cioè dall’ultimo colpo di Stato inferto alla già fragile struttura politica siriana dal partito baath, fino all’ascesa di Bashar al Asad, attuale presidente siriano e principale promotore di una politica distensiva in campo economico, favorevole ad un’apertura del mercato siriano verso l’esterno. Ma non solo. Entrambe sorreggono il movimento sciita libanese Hezbollah e la fazione radicale palestinese, Hamas. Infine, la Siria (come il Venezuela di Chavez) appoggia il diritto dell’Iran a proseguire lungo la strada dell’arricchimento dell’uranio, al fine di completare il suo programma nucleare per scopi essenzialmente civili. Come hanno più volte ribadito i presidenti dell’Asse Sud Americano-Asiatico, non è illegale fornire aiuti all’Iran e alla sua economia,martellata dalle pesanti sanzioni inflitte dalle Nazioni Unite e ratificate puntualmente dall’Unione Europea.

* Pamela Schirru è laureanda in Filosofia Politica (Università di Cagliari)

samedi, 18 septembre 2010

La Colombie dénonce les accords militaires qui la lient aux Etats-Unis

La Colombie dénonce les accords militaires qui la lient aux Etats-Unis

 

COLOMBIE-I-_Converti_-2.jpgC’est une fin de non recevoir claire et nette que le tribunal constitutionnel colombien a adressé aux Etats-Unis. L’objet de cette décision était un accord militaire contesté, qui aurait permis à l’armée américaine d’utiliser sept bases militaires sur territoire colombien. Le tribunal suprême de ce pays latino-américain vient de décider que le traité signé à la fin de l’année dernière entre Bogota et Washington doit être déclaré nul et non avenu.

 

Les prédécesseurs du gouvernement du nouveau président Juan Manuel Santos avaient réglé l’affaire sans en référer au Congrès colombien. Après le prononcé des juges, la décision est désormais entre les mains du Parlement, qui pourra accepter ou refuser les accords et les couler éventuellement en un traité international.  Washington et l’ancien gouvernement colombien avaient justifié la signature de ce pacte en prétextant la lutte contre les cartels de la drogue. Un document émanant du Pentagone laisse entrevoir que les intentions réelles étaient autres. Ce document, en effet, révèle que les Etats-Unis ont l’intention d’étendre leur contrôle à d’autres régions de l’Amérique du Sud. Par conséquent, explique le document, l’autorisation d’utiliser notamment la base aérienne de Palanquero, située au centre du territoire colombien, offrirait « la possibilité unique, de mener des opérations dans une région ‘critique’ sur laquelle des ‘gouvernements anti-américains’ exercent leur influence ».

 

En utilisant ces bases colombiennes, les forces armées américaines pourraient effectivement contrôler l’ensemble de la région amazonienne, le Pérou et la Bolivie. La base de Palanquero offrirait, explicite encore le document stratégique de l’US Air Force, « une mobilité aérienne suffisante » sur le continent sud-américain. Actuellement, plus de 300 soldats américains sont stationnés en Colombie.

 

Cette coopération militaire avec les Etats-Unis a isolé la Colombie et fait de tous ses voisins des adversaires. C’est bien entendu le Venezuela qui se sent visé en premier lieu. A ce propos, l’historien colombien Gonzalo Sanchez a écrit : « Les Etats-Unis veulent surtout obtenir le contrôle de l’espace amazonien, avec toutes les ressources qu’il recèle, et surveiller le Brésil, puissance mondiale en pleine ascension ».

 

H.W.

(article paru dans DNZ, Munich – n°35/2010).

mercredi, 15 septembre 2010

Brasile e Venezuela, due processi elettorali cruciali per questo autunno

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Brasile e Venezuela, due processi elettorali cruciali per questo autunno

 

Introduzione

 

 

Quest’autunno, l’America Latina sarà protagonista di due importanti processi elettorali, decisivi nel designare la direzione della politica estera ed economica della regione per il prossimo decennio.

Le elezioni legislative venezuelane del 26 ottobre determineranno se il presidente Chávez sarà capace di ottenere la maggioranza dei 2/3, necessaria per la continuazione del suo programma social-democratico, senza che questo subisca, durante il percorso, i blocchi continui imposti da una destra sempre più forte.
Il Brasile, ovvero, l’economia industriale ed esportatrice di prodotti agrari più forte e dinamica della regione, affronterà le elezioni presidenziali il 3 di ottobre.
In entrambi i Paesi l’elettorato è molto polarizzato, sebbene nel secondo caso non si strutturi intorno l’asse socialismo-capitalismo.
In Venezuela, la destra mira a frenare nuovi processi di nazionalizzazione di industrie strategiche, a fomentare la destabilizzazione promuovendo la disobbedienza e il sabotaggio delle iniziative politiche di base delle comunità locali, ed imporre restrizioni al budget di spesa dei programmi sociali e dei finanziamenti pubblici. L’obiettivo strategico della destra venezuelana è quello di incrementare la penetrazione istituzionale dell’esercito, i servizi di intelligence e le agenzie di aiuti statunitensi, col fine di ridurre le iniziative della politica estera indipendente promossa dal presidente Chávez e far pressione sul suo governo affinché svolga concessioni alla Casa Bianca, soprattutto, indebolendo i rapporti con l’Iran, la Palestina, e specialmente i rapporti con le organizzazioni politico-economiche indipendenti dell’America Latina che escludono la presenza di Washington (MERCOSUR, ALBA, UNASUR).

Elezioni presidenziali: Brasile

In Brasile, il confronto si gioca fra la candidata del Partito dei Lavoratori, Dilma Rousseff, sostenuta dal presidente uscente Lula Da Silva, e l’ex governatore dello Stato di San Paolo, leader del Partito Socialdemocratico Brasiliano, José Serra.
Le etichette del partito sono irrilevanti dato che ambo i candidati hanno promosso e stanno proponendo di continuare con una politica di sviluppo agro-minerale, di libero commercio esortato dalle esportazioni, ed entrambi sono spalleggiati dalle élite imprenditoriali e finanziarie. Nonostante, però, i legami con queste ultime, ed evitando ogni tipo di trasformazione radicale (o anche solo moderata) ad un sistema di distribuzione di ricchezza e proprietà delle terre, enormemente disuguale, sono presenti alcune differenze di pensiero, primarie, che determineranno il risultato: 1) l’equilibro di forze del continente americano, 2) la capacità di movimenti sociali brasiliani di articolare liberamente le loro richieste, 3) il futuro dei regimi di centro-sinistra dei Paesi vicini (in particolar modo Bolivia, Venezuela e Argentina), 4)i consorzi di capitale pubblico e privato riservati ai campi petroliferi appena scoperti, di fronte ai suoi costi.Serra sposterà la politica estera verso un maggiore adeguamento agli Stati Uniti, indebolendo o rompendo i rapporti con l’Iran e riducendo o addirittura eliminando i programmi di investimento congiunti a Bolivia e Venezuela; tuttavia, non modificherà le politiche commerciali e di investimento verso l’estero per quel che riguarda l’Asia.
Proseguirà con le politiche di libero commercio di Lula con l’intenzione di diversificare i mercati (salvo riguardo ciò che gli Stati Uniti definiscono “minacce” geopolitiche o in cui ripongono interessi militari) e promuoverà le esportazioni del settore agrario ed energetico-minerario; manterrà la politica di Lula di surplus di bilancio e di risanamento dei conti pubblici e di reddito.
In ambito sociale è probabile che le politiche di Serra approfondiranno e amplieranno i tagli alle pensioni pubbliche e continueranno con un criterio di restrizione salariale, in modo da ridurre la spesa pubblica, specialmente nell’educazione, nella sanità e nella lotta contro la povertà.
Per la questione fondamentale dello sfruttamento dei nuovi giacimenti di gas e petrolio, Serra ridurrà il ruolo dello Stato (e la sua partecipazione nell’entrata, nei benefici e nelle proprietà) a favore delle imprese petrolifere estere private; è meno probabile che promuova accordi con i dirigenti sindacali e che ricorra ad una maggiore repressione “legale” degli scioperi o alla criminalizzazione dei movimenti sociali rurali, soprattutto quelli di occupazione di terre del Movimento dei Senza Terra (MST).
In ambito diplomatico si avvicinerà maggiormente agli Stati Uniti e alle sue politiche militari, senza mostrare sostegno evidente negli interventi militari diretti; un segnale, da parte di Serra, di condivisione al programma di Washington, già si aveva avuto nel momento in cui l’ex governatore di San Paolo indicò il governo riformista della Bolivia come uno “Stato narcotrafficante”, facendosi eco della retorica Hillary Clinton, in forte contrasto con i rapporti amichevoli fra Brasile e Bolivia durante il mandato di Lula.
Di sicuro Serra respingerà ogni tipo di iniziativa diplomatica indipendente che sia in conflitto con le aspirazioni militari statunitensi.La campagna elettorale della Rousseff, in sostanza, promette di mantenere le politiche economiche e diplomatiche di Lula, includendo l’attuazione di una proprietà pubblica maggioritaria dei nuovi giacimenti di petrolio e gas, lo sviluppo di programmi di lotta contro la povertà e alcuni margini di tolleranza (non sostegno) ai movimenti sociali come l’MST o i sindacati.In altre parole, le alternative sono: compiere un passo indietro e regredire alle politiche repressive e conformiste degli anni ’90, o mantenere lo status quo del libero mercato, di una politica estera indipendente, dei programmi di lotta contro la povertà e di una maggiore integrazione con l’America Latina.
Se vince Serra, l’equilibrio di forze in America Latina si sposterà verso destra e, con esso, si riaffermerà l’influenza e la capacità di azione verso tutti gli Stati vicini di centro-sinistra.
In politica interna continuerà a percorrere, grossomodo, i passi di Lula, amministrando programmi di lotta contro la povertà, tramite i suoi funzionari,e assicurandosi di indebolire il sostegno a Lula da parte dei movimenti sociali.
Con opzioni così limitate, Serra gode dell’appoggio delle principali associazioni impresarie di San Paolo(anche se alcuni protagonisti del mercato economico promuovono entrambi i candidati), mentre nell’orbita della Rousseff sono presenti tutti i principali sindacati; inoltre, i principali movimenti sociali come l’MST, seppur sentendosi traditi dal mancato compimento della riforma agraria promessa da Lula, stanno svolgendo una campagna anti-Serra, appoggiando indirettamente la Rousseff.
Il detto, secondo il quale “l’America Latina va dove va il Brasile” ha qualcosa in più di un pizzico di verità, soprattutto se analizziamo il futuro e le prospettive economiche di maggiore integrazione della regione.Elezioni legislative: Venezuela

Il Venezuela di Chávez è la chiave per le prospettive di cambiamento sociale progressista in America Latina. Il governo social-democratico sostiene i regimi riformisti dell’America Latina e dei Caraibi, e con la sua spesa pubblica ha consolidato evoluzioni pionieristiche nell’ambito della salute dell’educazione e nella distribuzione di sussidi alimentari, distribuiti per il 60% dei settori più poveri della popolazione. Nonostante, l’immensa popolarità di Chávez durante l’intero decennio di governo, i programmi innovatori di ridistribuzione e i cambi strutturali progressisti, esiste il rischio evidente e imminente che la destra realizzi progressi significativi nelle prossime elezioni legislative.

Il Partito Socialista Unito del Venezuela ( PSUV), guidato dal presidente Chávez, ha dalla sua parte sei anni di attività chiusi con: un tasso di crescita elevato, un aumento delle entrate e un declino del tasso di disoccupazione. Di contro giocano, invece, i 18 mesi di recessione in corso,un tasso d’inflazione e criminalità molto alto ed una restrizione di fondi a disposizioni che limitano l’avvio di nuovi programmi.

Secondo i documenti dell’agenzia ufficiale di aiuti esteri statunitense, durante il periodo precedente la campagna elettorale venezuelana, Washington avrebbe depositato più di 50 milioni di dollari nelle casse di un’opposizione controllata da “fronti” politici e ONG – promotori degli interessi statunitensi – concentrandosi nell’unificazione delle fazioni oppositrici, sovvenzionando il 70% dei mezzi di comunicazioni privati e finanziando organizzazioni comunitarie controllate dall’opposizione, situate nei quartieri di classe media e bassa. A differenza degli Stati Uniti, il Venezuela non esige che i destinatari dei fondi provenienti dall’estero, operanti in nome di una potenza straniera, siano registrati come agenti stranieri.

La campagna della destra si focalizza sulla corruzione del governo e nel traffico di droga, orientamento ispirato dalla Casa Bianca e dal New York Times, dimenticando di segnalare che il pubblico ministero generale del Venezuela ha annunciato l’apertura di processi giudiziari contro 2700 casi di corruzione e 17000 casi di traffico di droga. L’opposizione e il Washington Post indicano che il sistema di distribuzione statale (PDVAL) ha fallito nella consegna di diverse migliaia di tonnellate di cibo, causandone il marciume e lo scarto, non contando, però, che tre dei precedenti direttori sono attualmente in carcere e che il Ministero dell’Alimentazione somministra nel paese 1/3 degli alimenti base per il consumo, ad un prezzo del 50% inferiore ai prezzi imposti dai supermercati privati.
Senza dubbio, la destra realizzerà progressi significativi alle prossime elezioni legislative, semplicemente perché parte da una situazione esigua, il suo minimo, dovuta anche al fatto di aver boicottato le ultime elezioni. Non è comunque probabile che la campagna contro la corruzione prevarichi la maggioranza di Chávez, vista anche la condanna, inflitta al suo ultimo leader, l’ex presidente Carlos Andrés Perez, per frode di migliaia di milioni di dollari a causa di appropriazioni illecita di fondi pubblici. Allo stesso modo, i governatori e i sindaci oppositori sono stati accusati di frode e malversazione di fondi, rifugiandosi a Miami.
Tuttavia, anche se la maggior parte degli elettori considera Chávez onesto e pulito, la stessa cosa non può essere detta per alcune cariche pubbliche del suo governo.
La domanda, quindi, è se i votanti siano disposti a rieleggerli, pur di sostenere Chávez ,nonostante i loro precedenti, o se preferiranno astenersi. E proprio un’astensione nata dal disincanto, e non da un giro elettorale a destra, rappresenta la minaccia maggiore ad una vittoria decisiva del PSUV.

Nella corsa verso le elezioni legislative, il PSUV ha festeggiato la vittoria alle primarie, in cui molti consigli comunitari hanno eletto candidati locali e popolari, sopraffacendo quelli scelti “dall’alto”. Di certo, una vittoria dei primi rafforzerebbe i settori socialisti del PSUV in contrapposizione ai moderati.
Il processo elettorale è molto polarizzato lungo quelle che sono le principali demarcazioni delle classi sociali, in base alle quali la maggioranza delle classi più basse sostengono il PSUV, mentre le classi medie e alte appoggiano quasi uniformemente la destra politica.
Esiste, comunque, un settore significativo fra le classi più povere e i sindacati, che si trova in una posizione di indecisione, poco motivata ad esprimere il proprio voto. Magari saranno loro stessi a decidere il risultato finale in distretti elettorali importanti, ed è proprio in questo campo che la campagna elettorale si fa più dura.
Per la vittoria del PSUV, oltre ai sindacati, è fondamentale che i comitati delle fabbriche gestiti dai lavoratori e i consigli comunitari si sforzino seriamente affinché gli elettori più reticenti votino per i candidati di centro-sinistra. Perfino i sindacalisti militanti e le organizzazioni di base di lavoratori si sono visibilmente concentrati a discolpare (questioni salariali) “locali” e “economicisti” o a ignorare le questioni politiche più generali.
Il loro voto e la loro attività come leader di opinione, incaricati di mostrare “il panorama globale”, sono fondamentali per vincere l’inerzia politica, oltre che la delusione verso alcuni candidati del PSUV.Conclusione

Le prossime elezioni in Brasile e Venezuela eserciteranno un impatto decisivo nella politica di Stato, nella politica economica e nelle relazioni dell’America Latina con gli Stati Uniti, per tutta la seconda decade di questo secolo. Se il Brasile “gira a destra”, rafforzerà enormemente l’influenza statunitense nella regione, mettendo a tacere una voce indipendente. Anche se nessun candidato compierà grandi passi verso una migliore giustizia sociale, se a essere eletta sarà la candidata Dilma Rousseff, si procederà comunque verso una maggiore integrazione latinoamericana e internazionale, relativamente indipendente. Vincere non aprirà, quindi, la porta a nessun cambiamento strutturale con grandi conseguenze.

Una vittoria dei socialisti venezuelani rafforzerà la determinazione di Chávez e la sua capacità di proseguire con le sue politiche di benessere sociale, contro l’imperialismo, e di sostegno all’integrazione. La posizione ferma del presidente venezuelano nell’opporsi alla militarizzazione statunitense, incluso il colpo di Stato in Honduras e le basi militari USA in Colombia, animano i regimi di centro-sinistra ad adottare un atteggiamento moderato, ma allo stesso tempo stabile contro la presenza militare degli Stati Uniti. Le riforme di Chávez in Venezuela esercitano pressione affinché i regimi di centro-sinistra introducano mezzi legislativi di riforma sociale e promuovono programmi di lotta contro la povertà e la creazione di consorzi pubblico-privati, invece di seguire i mezzi neo liberali della destra pro statunitense più dura.
Mentre in Brasile si tratta di votare per il male minore, in Venezuela l’indecisione è sul votare il bene maggiore.

fonte: http://www.lahaine.org/index.php?p=47578

Traduzione di Stefano Pistore (Università dell’Aquila. Contribuisce frequentemente al sito di Eurasia)


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di James Petras

Fonte: eurasia [scheda fonte]

Le prossime elezioni eserciteranno, per tutta il secondo decennio di questo secolo, un impatto decisivo nella politica, nell’economia e nelle relazioni dell’America Latina con gli Stati Uniti.

 

 

vendredi, 03 septembre 2010

El filosofo come intelectual pùblico

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El filósofo como intelectual público

 

Alberto Buela (*)

Le ha pasado a muchos, y nos ha pasado también a nosotros, que después de dictar clase durante años en la universidad, dejaron la enseñanza para limitarse a la investigación propia, a pensar sin ataduras, programas ni horarios.

 

 

 

Pero, por qué se toma este tipo de decisión tan vital: a) Por la íntima y subjetiva convicción del filósofo (ocurre con otras disciplinas también), que si bien la práctica filosófica requiere como condición el ejercicio académico, al menos durante un tiempo, esa práctica filosófica no se agota en ejercicio académico. Y b) porque son  muy pocos los que pueden soportar la presión del ejercicio simultáneo de la filosofía en dos escenarios tan diferentes como el público y la academia. No sólo porque existen dos juegos de lenguajes: el propio de la academia con sus tecnicismos, cuanto más mejor, que circula en el interior de las facultades de filosofía y se expresa en las publicaciones especializadas. Esa verborrea bizantina que hizo exclamar a Nietzsche: “ciertos profesores de filosofía oscurecen las aguas para que parezcan más profundas” .

Y el propio de lo público, vinculado a las formas de opinión pública (TV, radio, diarios, conferencias abiertas) y al uso del lenguaje cotidiano. Y en este campo vale el apotegma de Ortega: “la claridad es la cortesía del filósofo”.

A esto hay que agregar que, quien decide intervenir sobre lo público corre el riesgo de perder el empleo público como profesor universitario o investigador. La reticencia de los académicos a pegar el salto es más bien por este último motivo que por el anterior.

Además desde el lado académico se lo comienza a considerar en una categoría menor como la de “ensayista”.  Dice Owe Wikstrom en Elogio de la lentitud  que el ensayo es un intento, ese es su sentido etimológico, donde el autor mezcla lo pequeño y lo grande de manera personal [1]. Y agregamos nosotros, El ensayo llega a conclusiones, enumera las pruebas más que detenerse en el método que convalida las pruebas. Por otra parte el ensayo fue durante muchos años un producto típicamente hispanoamericano, tenido por un género menor por los autores de manuales académicos al estilo europeo.

 

Es interesante notar que la figura del intelectual público es tan vieja como el ejercicio de la filosofía, el ejemplo clásico es Sócrates. En cuanto al intelectual académico recién aparece con cierta regularidad a partir de la década del cuarenta del siglo XX. El caso argentino es emblemático, antes del 40 todos los filósofos, no había tantos, eran intelectuales públicos y es a partir de esos años que son incorporados a sueldo mensual en las plantillas universitarias. Esto produce un enriquecimiento de la Universidad que luce con las mejores ropas de toda su historia durante 15 años hasta que en 1955 es intervenida por el poder político de turno. Las consecuencias fueron nefastas pues la Universidad se encerró en sí misma y ya no produjo filósofos[2] sino, a lo sumo, buenos investigadores.

En estos últimos veinte años ha aparecido una variante del intelectual público, la del “yeite o curro filosófico”, para decirlo en lunfardo. La de aquellos profesores de filosofía que le han buscado la vuelta a tan noble disciplina para ganar dinero con ella. Así aparecieron los filósofos terapeutas como Lou Marinoff (Más Platón y menos Prozac), los filósofos de la vida que dictan seminarios en su casa, los filósofos mundanos como nuestro Sebrelli que dicta seminarios de verano en las playas de Punta del Este, los filósofos críticos de la sociedad que dictan sus clases en algún organismo internacional bien pagos, los filósofos que dictan ética empresaria, a empresarios ricos con empleados pobres, etc., etc.

 

La figura del intelectual público no es ni la de un académico erudito ni la de un experto “chanta o farabute” como los que acabamos de mencionar. Él posee una cultura general y se interesa en poner ideas nuevas o viejas, pero siempre diferentes en debate. Deja de lado las interpretaciones especializadas que los académicos discuten entre pares y busca o intenta la interpretación sencilla y general. Es que él, como buen filósofo, es un maestro en generalidades. Piensa a partir del disenso frente a lo políticamente correcto y al pensamiento único. Es no conformista y rechaza la especialización siempre vinculada a una pequeña elite. Es que la universidad moderna ha legitimado un saber de eruditos y ha terminado minando la cultura intelectual común de los pueblos. Su saber no es un saber ilustrado, un saber sólo de libros, sino que intenta un saber sobre las cosas que son y suceden en la vida pública, que no es otra cosa, reiteramos, que la vida de los pueblos.

El filósofo como intelectual público pierde mucho tiempo de su vida hablando con unos y con otros, en reuniones infinitas y en conferencias multitudinarias en donde no se sabe bien qué es lo que llega a entender el receptor. De ahí su exigencia de claridad expositiva. Se le va gran parte de su vida tratando de construir una opinión distinta a la dada en o sobre personajes que puede llegar a tener alguna ingerencia política o social. Trabaja sobre “lo que es” pero con vistas “al deber ser”, pues para él, el ser es lo que es más lo que puede ser. Ningún profesor de filosofía de los miles de cagatintas que existen puede llegar a pensar así, pues sólo recitará al respecto las lecciones de Aristóteles o Heidegger.

 

Hace unos años apareció un libro de Richard Posner Intelectual público, un estudio de su decadencia [3] en donde sostiene que “el intelectual público es un no especialista y eso mismo era, tradicionalmente, el filósofo” [4], y a reglón seguido nombra todos “paisanos” como él (¡qué vocación de autobombo que tienen!) Nussbaum, Habermas, Dworkin, Nagel, Singer, Putman, etc., cuando en realidad son otros los genuinos intelectuales públicos en el mundo: los Franco Cardini, Massimo Cacciari, Marco Tarchi, Pietro Barcelona, Giacomo Marramao, Marcello Veneziani, Gustavo Bueno, Fernández de la Mora, Aquilino Duque, Sánchez Dragó, Javier Ruiz  Portella, Javier Esparza, Claude Rousseau, Alain de Benoist, Julián Freund, Michel Maffesoli, Jean Cau, Tomislav Sunic, Günter Maschke, Ernst Nolte, Alexander Dugin et alli. Y aquí en nuestro medio se destacan Silvio Maresca, Máximo Chaparro, Luís María Bandieri, Jorge Bolivar, Alberto Caturelli, Oscar del Barco, González Arzac y tantos otros.

Tenemos también nosotros, hoy como moda, otros intelectuales mucho más promocionados y publicitados por los mass media como Feimann, Forster, Aguinis, Kovaldoff, T. Abraham, Rotzitchner, pero no pueden ser considerados “intelectuales públicos” porque son intelectuales orgánicos del gobierno de turno o del régimen político. O peor aún están al servido del lobby  explotador del pobrerío más poderoso de Argentina.

Es que el intelectual público tiene como método el disenso sobre el orden constituido que siempre le parece un poco injusto. La premisa que guía su pensamiento es aquella de Platón: “la filosofía es ruptura con la opinión”, y sobre todo con la “opinión publicada”. Y este el es criterio para juzgar adecuadamente a un intelectual público.

 

Es apropiado distinguir que lo público está constituido por el ámbito de interés compartido de las fuerzas de una sociedad. Cuando a partir de los años 80 se limitó lo público al espacio se le castró su sentido, su finalidad y al ser reducido solo a espacio (el gravísimo error de Habermas) pasó a ser entendido como de nadie y por lo tanto lo puedo tomar. Claro está, esto no pasa en Alemania que son todos ilustrados, pero sucede a diario en todo el mundo bolita que es el nuestro.

Lo público debe de ser pensado como función (vgr.: la empresa pública, la tierra pública, la televisión pública) no puede ni debe quedar reducido a espacio público donde la práctica deliberativa de la democracia discursiva (sic Habermas) tiene lugar. El espacio público como lugar de la asamblea. Esto es una estupidez, un engaña pichanga, un gatopardismo para que todo siga igual[5].

 

De modo que el intelectual público no es un simple discutidor, un charlatán, un hablador por hablar sino que antes que nada y sobre todo tiene que tener en cuenta la función o finalidad de lo público y de aquellas cosas que se presentan como problemas públicos-políticos.

De modo tal que si juntamos ruptura con la opinión publicada, práctica del disenso y producción de sentido obtendremos un genuino intelectual público

 

(*) alberto.buela@gmail.com – Univ.Tec. Nac. (UTN)



[1] Owe Wikstrom: Elogio de la lentitud, Ed. Norma, Bs.As. 2005

[2] Nunca más filósofos de la talla de un Luís Juan Guerrero, Saúl Taborda, Nimio de Anquín, Miguel Ángel Virasoro, Alberto Rougés. Una de las grandes mentiras es que la decadencia de la universidad de Buenos Aires se produjo en 1966 durante el gobierno de Onganía. Eso es lo que nos ha hecho creer el pensamiento políticamente correcto de los marxistas, los liberales, los democristianos y los progresistas, el golpe de gracia a la Universidad se lo dio la intervención de la revolución “entregadora” de 1955.

[3] Postner, Richard: Public intellectuals. A study of decline, Cambridge, Harvard University Pres, 2001

[4] Ibídem, p. 323

[5] Cfr. Nuestro artículo en Internet 

 

 

 

 

 

 

 

Algo sobre lo público

 

 

 

vendredi, 02 juillet 2010

Le basi militari della NATO in Sudamerica: un'invasione coordinata

Le basi militari della NATO in Sudamerica: un’invasione coordinata

di Hugo Rodríguez

Fonte: eurasia [scheda fonte]

 

Le basi militari della NATO in Sudamerica: un’invasione coordinata

Il presente articolo espone uno sguardo più comprensivo del coordinamento militare degli USA e del Regno Unito nella regione sudamericana. Negli ultimi due anni gli analisti locali hanno molto insistito sulla presenza americana senza mai menzionare una delle basi militari più grandi del mondo appartenente agli USA (Comando Sud) e, men che meno, senza riconoscere il ruolo e la complementarità che le stesse hanno da un punto di vista storico e fattuale nei riguardi della presenza militare del Regno Unito nella nostra terra e nelle nostre acque.

In questo primo lavoro che vi presentiamo, vogliamo solo evidenziare la localizzazione di tutte le basi (attuali e storiche); lasciando per successive illustrazioni la specifica analisi del Consiglio di Sicurezza dell’UNASUR, le analisi dei Ministeri della Difesa della regione, i loro principali successi e insuccessi.

Prendendo come spunto la ricerca effettuata dall’équipe giornalistica di TeleSur e con l’informazione ufficiale del Regno Unito e del Comando Sud degli Stati Uniti, ho sviluppato il seguente schema che evidenzia tutte le basi militari della NATO attualmente presenti in Sudamerica.


 

Base Militare

Localizzazione

Invasore

Organo Militare Superiore

Malvine

Argentina

GB

NATO

George

Argentina

GB

NATO

Sandwich

Argentina

GB

NATO

Tristán de Cuña

Oceano Atlantico

GB

NATO

Santa Helena

Oceano Atlantico

GB

NATO

Ascensión

Oceano Atlantico

GB

NATO

Estigarribia

Paraguay

USA

NATO

Iquitos e Nanay

Perù

USA

NATO

Tres Esquinas Colombia

USA

NATO

Larandia

Colombia

USA

NATO

Aplay

Colombia

USA

NATO

Arauca

Colombia

USA

NATO

Tolemaida

Colombia

USA

NATO

Palanquero

Colombia

USA

NATO

Malambo

Colombia

USA

NATO

Aruba

Antillas

USA

NATO

Curaçao

Antillas

USA

NATO

Roosevelt

Puerto Rico

USA

NATO

Liberia

Costa Rica

USA

NATO

Guantánamo

Cuba

USA

NATO

Comalapa

El Salvador

USA

NATO

Soto Cano

Honduras

USA

NATO

IV flotta

Oceano Atlantico y Pacifico

USA

NATO


 

La NATO è un trattato degli armamenti per la protezione e la cooperazione bellico-politico-economico tra gli stati membri. Fu costituito nel clima della Guerra Fredda e il suo omologo orientale è il trattato di Varsavia. La NATO è integrata dai paesi dell’Ovest europeo e dagli Stati Uniti e Canada. Questa organizzazione militare multilaterale negli ultimi anni si è dedicata a effettuare incursioni militari nei paesi che non sono membri della stessa. Ricordiamo che l’appoggio americano al Regno Unito, nel 1982, si articolò da qui.

È importante osservare con attenzione lo schema sulle basi della NATO, perché la sua parziale visione taglia di sbieco l’analisi, il fuoco dell’attenzione e anche, poiché costituisce la cosa più importante, taglia nella direzione non corretta le raccomandazioni sulle politiche di difesa regionale. Ad esempio, coloro che mettono a fuoco le nuove basi americane in Colombia, osservano a chiare lettere che, insieme alla politica mediatica dell’America del Nord, quelle basi hanno come obiettivo il Venezuela. Altri, cioè coloro che complementano questa analisi con la localizzazione della IV flotta, osservano, invece, che il centro è il Brasile. In ogni caso, tanto la dirigenza venezuelana quanto quella brasiliana si stanno dando da fare per incrementare e aggiornare il loro equipaggiamento, navi e spesa militare per essere all’altezza delle circostanze e delle basi che li circondano. Ma gli altri paesi della regione non dovrebbero cullarsi con questa analisi, in particolare, la nostra repubblica Argentina, pensando che solo quelli citati costituiscono il bersaglio di un eventuale attacco. Come osserva Lacolla (Dall’Afganistan alle Malvine), loro vengono per sfruttare le nostre risorse, principalmente il petrolio, successivamente punteranno la mira sull’acqua. Ma attualmente, la maggioranza delle analisi geopolitiche, comprese quelle del Consiglio di Difesa dell’UNASUR, hanno ignorato nei loro studi sulla regione le basi militari del Regno Unito.

Il tipo di configurazione che questo fatto impone non serve solo per prenderle in considerazione, ma anche per conoscere quale è il coordinamento storico e fattuale delle basi del Regno Unito insieme a quelle degli Stati Uniti. Per questa regione, un’analisi corretta non si deve soffermare alle sole basi stanziate in Colombia, bensì procedere e osservare con gli stessi occhi tutte le basi militari della NATO che, evidentemente, hanno un bersaglio, il quale non è così piccolo come lo possono essere due paesi e alcune isole con petrolio. L’obiettivo è il Sudamerica (e le sue risorse) ; tuttavia, la miopia di quei dirigenti o settori presuntamente rappresentativi della nostra società che ignorano e persino deridono gli avvertimenti che gli sono rivolti, potrà diventare molto dispendiosa nel breve termine.

Dal canto suo, il Comando Sud, meglio conosciuto come IV flotta, complementa le precedenti enclave imperialiste ed è una sorta di mega base militare mobile, è congiuntamente un complesso di portaerei e navi da guerra che circondano il Sudamerica. Nella cartina concernente le basi, si trova sovrapposta un’altra cartina con la dicitura « Souther Command. Area Focus », quella è la cartina ufficiale del Senato degli Stati Uniti, è il luogo dove navigano (in acque internazionali, ma non sempre), le imbarcazioni belliche del paese di Obama. La IV flotta ebbe la sua origine durante la Guerra Fredda per arrestare l’ideologia antimperialista che fiorisce come l’eritrina nelle nostre terre, in quanto naturale reazione di autodifesa da parte di qualsiasi società aggredita. Vale a dire che, stando al margine da ogni presentazione diplomatica, quelle navi compiono la funzione di reprimere ogni manifestazione antimperialista nella regione.

Ciò che deve rimanerci ben chiaro è che sono pochi i paesi dell’America latina che stanno adottando misure per salvaguardare non solo le proprie risorse ma anche per proteggere sé stessi. La nostra amata Argentina non appartiene a quella compagine.


 

Fonti :

Comando Sur : http://www.southcom.mil

TeleSur : http://www.telesurtv.net

Foreign and Commonwealth Office : http://www.fco.gov.uk/en


 

 

(trad. Vincenzo Paglione)

 

 

* Hugo Rodríguez è direttore del Grupo de Estudios Estratégicos Argentinos.

Fonte : http://geopoliticaargentina.wordpress.com/2010/06/21/la-otan-en-suramerica/


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jeudi, 01 juillet 2010

La "Damnatio memoriae" fruto de la memoria historica

La Damnatio memoriae fruto de la memoria histórica

Alberto Buela (*)

Cuando el historiador Ernst Nolte demostró allá por los años ochenta del siglo pasado que la historia reciente de Alemania, especialmente la de la segunda guerra mundial, se había transformado en un pasado que no pasa, el mundo académico y los voceros de la policía del pensamiento saltaron como leche hervida. Es que Nolte puso en evidencia el mecanismo por el cual la memoria histórica había reemplazado a la historia como ciencia, con lo que quedó en evidencia la incapacidad histórica de los famosos académicos y los presupuestos ideológicos-políticos que guiaban sus investigaciones.

Es sabido que la memoria es siempre la memoria de un sujeto individual o si se quiere de una persona, singular y concreta. La memoria no existe más que como memoria de alguien. Su naturaleza estriba en otorgarle al sujeto el principio de identidad. Yo soy yo y me reconozco como tal a lo largo del tiempo de mi vida por la memoria que tengo de mi mismo desde que existo hasta el presente. Si existe o no una “memoria colectiva” esta es una cuestión que no está resuelta. El gran historiador alemán  Reinhart Koselleck (1923-2006) sostuvo que no. Así, en su última  entrevista en Madrid, publicada póstumamente el 24/4/2007, afirma:

Y mi posición personal en este tema es muy estricta en contra de la memoria colectiva, puesto que estuve sometido a la memoria colectiva de la época nazi durante doce años de mi vida. Me desagrada cualquier memoria colectiva porque sé que la memoria real es independiente de la llamada "memoria colectiva", y mi posición al respecto es que mi memoria depende de mis experiencias, y nada más. Y se diga lo que se diga, sé cuáles son mis experiencias personales y no renuncio a ninguna de ellas. Tengo derecho a mantener mi experiencia personal según la he memorizado, y los acontecimientos que guardo en mi memoria constituyen mi identidad personal. Lo de la "identidad colectiva" vino de las famosas siete pes alemanas: los profesores, los sacerdotes (en el inglés original de la entrevista: priests), los políticos, los poetas, la prensa..., en fin, personas que se supone que son los guardianes de la memoria colectiva, que la pagan, que la producen, que la usan, muchas veces con el objetivo de infundir seguridad o confianza en la gente... Para mí todo eso no es más que ideología. Y en mi caso concreto, no es fácil que me convenza ninguna experiencia que no sea la mía propia. Yo contesto: "Si no les importa, me quedo con mi posición personal e individual, en la que confío". Así pues, la memoria colectiva es siempre una ideología, que en el caso de Francia fue suministrada por Durkheim y Halbwachs, quienes, en lugar de encabezar una Iglesia nacional francesa, inventaron para la nación republicana una memoria colectiva que, en torno a 1900, proporcionó a la República francesa una forma de autoidentificación adecuada en una Europa mayoritariamente monárquica, en la que Francia constituía una excepción. De ese modo, en aquel mundo de monarquías, la Francia republicana tenía su propia identidad basada en la memoria colectiva. Pero todo esto no dejaba de ser una invención académica, asunto de profesores.”

En concordancia con esto ya había reaccionado cuando el gobierno alemán decidió erigir un símil de la estatua de La Piedad en la Neue Wache para venerar a las víctimas de las guerras producidas por Alemania. Koselleck levantó su voz crítica para advertir que un monumento de connotación cristiana resultaba una "aporía de la memoria" frente a los millones de judíos caídos en ese trance. Pero también en 1997, cuando el ayuntamiento de Berlín decidió erigir un monumento para recordar el Holocausto judío, volvió a la palestra para recordar que los alemanes habían matado por igual a católicos, comunistas, soviéticos, gitanos y gays. Nadie como él, entre los historiadores, hizo tanto para desembarazar a la escritura y a las representaciones de la historia del brete a que la someten los ideólogos de la “memoria histórica”.

El reemplazo de la historia como ciencia, como conocimiento por las causas, con el manejo metodológico que exige el trabajo sobre los testimonios y materiales del pasado, por parte de la memoria histórica siempre parcial e interesada (la ideología es un conjunto de ideas que enmascara los intereses de un grupo, clase o sector) ha desembocado en la moderna damnatio memoriae o condena de la memoria.

La damnatio memoriae era una condena judicial que practicaba el senado romano con los emperadores muertos por la cual se eliminaba todo aquello que lo recordaba. Desde Augusto en el 27 a.C. hasta Julio Nepote en el 480 d.C. fueron 34 los emperadores condenados. Se llegaba incluso hasta la abolitio nominis, borrando su nombre de todo documento e inscripción. Se buscaba la destrucción de todo recuerdo. Se destruían sus bustos y estatuas. Suetonio cuenta que los senadores lanzaban sobre el emperador muerto las más ultrajantes y crueles invectivas. La intención era borrar del pasado todo vestigio que recordara su presencia.

Las damnationes se realizaban a partir del poder constituido y su presupuesto ideológico era: de aquello que no se habla no existe. Arturo Jauretche, ese gran pensador popular argentino en su necrológica de nuestro maestro, José Luís Torres, nos habla de la confabulación del silencio como mejor mecanismo de los grupos de poder.  Es una manifestación de prepotencia del poder establecido, con lo que busca eliminar el recuerdo del adversario, quedando así el poder actual como único dueño del pasado  colectivo.

No es necesario ser un sutil pensador para comparar estas destrucciones de la memoria y eliminaciones de  todo recuerdo con lo que sucede con nuestros gobiernos de hoy. En España una vez muerto Franco comenzó una campaña de difamación contra su persona y sus obras que llegó hasta cambiarle el nombre al pueblo donde nació. En Argentina cuando cayó Perón en 1955 se prohibió hasta su nombre (por dictador), reapareció la vieja abolitio nominis. Hace poco tiempo el gobierno de Kirchner hizo bajar el cuadro del ex presidente Videla (por antidemócrata). Al General Roca que llevó la guerra contra el indio le quieren voltear la estatua (por genocida). Se le quitó el nombre del popular escritor Hugo Wast a un salón de la biblioteca nacional (por antijudío). Y así suma y sigue.

Cuando la historia de un pueblo cae en manos de la memoria colectiva o de la memoria histórica lo que se produce habitualmente es la tergiversación de dicha historia, cuya consecuencia es la perplejidad de ese pueblo, pues se conmueven los elementos que conforman su identidad.

Es que la memoria lleva, por su subjetividad, necesariamente a valorar de manera interesada lo qué sucedió y cómo sucedió. Así para seguir con los ejemplos puestos, objetivamente considerados, Franco fue un gobernante austero y eficaz, Perón no fue un dictador, Videla fue un liberal cruel, Roca no fue un genocida y Wast fue un novelista católico. Vemos que aquello que deja la memoria histórica es un relato mentiroso que extraña al hombre del pueblo sobre sí mismo.

La memoria histórica es un producto de la mentalidad y los gobiernos jacobinos, aquellos que gobiernan a favor de unos grupos y en contra de otros. Aquellos que utilizan los aparatos del Estado no en función de la concordia interior sino como ejercicio del resentimiento, esto es, del rencor retenido, dando a los amigos y quitando a los enemigos. La sana tolerancia de la visión y versión del otro acerca de los acontecimientos históricos es algo que la memoria histórica no puede soportar, la rechaza de plano. La consecuencia lógica es la dammnatio memoriae, la condena de la memoria del otro.

 

(*) arkegueta, eterno comenzante- Univ. Tecnológica Nacional

alberto.buela@gmail.com

  

lundi, 21 juin 2010

I processi di integrazione nell'America Indiolatina

I processi di integrazione nell’America Indiolatina

di Sergio Barone

Fonte: eurasia [scheda fonte] 
 

I processi di integrazione nell’America Indiolatina

In America Latina dalla fine della Guerra Fredda sono in corso processi di integrazione regionale che vanno nel senso dell’autodeterminazione economica e politica, lontani dall’influenza del modello neoliberale e dal dollaro.

Il Mercosur stesso, che ha le sue fondamenta nella Dichiarazione di Foz Iguazù del 1985  (integrazione tra Brasile e Argentina), ha parzialmente cambiato nel corso del tempo la sua impostazione iniziale, dando maggiore importanza ai temi del lavoro, oltre che del commercio.

Il progetto di integrazione più originale e significativo dal punto di vista geopolitico è l’Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América – Tratado de Comercio de los Pueblos (ALBA-TCP), che si contrappone ai progetti neoliberisti nordamaricani dell’ALCA nell’area, per uno sviluppo ed un’integrazione che parta da principi antagonisti rispetto a quelli liberisti: ovvero sovranità, autodeterminazione, cooperazione, solidarietà.

L’ALBA mostra così di essere, oltre che uno strumento di integrazione fra Paesi della stessa area, un altro modello di società e sviluppo possibile rispetto al capitalismo globalizzato dai cui binari non sembra possibile staccarsi.

MERCOSUR

L’embrione di quello che oggi conosciamo come MERCOSUR (Mercato Comune del Sud) fu il Trattato di Asunción, firmato il 26 luglio 1991 da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay.

Gli organismi decisionali del Mercosur sono:

Il Consiglio del Mercato Comune, organo supremo (Decisioni);

il Gruppo del Mercato Comune, che si occupa delle questioni socio-lavorative (Risoluzioni);

la Commissione del Commercio del Mercosur (Direttive).

Esiste anche un Parlamento che non ha poteri decisionali, ma emette un parere per ogni direttiva, decisione o risoluzione degli organi decisionali e ha il compito di presentare un documento annuale circa la situazione dei diritti umani nei Paesi membri, oltre ad avere il ruolo di interlocutore privilegiato per ogni organo dell’Organizzazione.

I propositi iniziali del Mercosur erano: raggiungere

la libera circolazione di merci, servizi e fattori produttivi entro i Paesi membri;

l’adozione di una tassa comune con l’esterno  e di una politica commerciale comune;

la coordinazione tra le politiche macroeconomiche degli Stati membri;

l’armonizzazione delle legislazioni interne per avanzare nell’integrazione regionale;

Attualmente il raggiungimento di questi obiettivi soffre le molte eccezioni che ogni Paese applica alla lista di prodotti a cui non vuole applicare l’imposta comune e per questi motivi sono in molti a ritenere il MERCOSUR una unione doganiera incompleta o parziale.

Quello che è da rilevare invece è che, nonostante il Trattato di Asunción non prevedesse nessuno spazio  per i temi del lavoro, fin da subito i sindacati rappresentati nella Coordinadora de Centrales Sindicales del Cono del Sur (CCSCS), assieme ai Ministeri del Lavoro dei vari Paesi hanno spinto per discutere e prendere le adeguate misure a riguardo dell’impatto che l’integrazione avrebbe avuto sulle condizioni socio-lavorative nei Paesi membri.

Così, a un anno dalla nascita del Mercosur, nacque il Sotto Gruppo sulle Questioni socio-lavorative, dipendente dal GMC (Gruppo del Mercato Comune) e organizzato come un vertice tripartito tra sindacati, imprenditori e Ministeri del Lavoro, che ha generato un fruttuoso dialogo interregionale a partire dal quale il Mercato Comune si è dotato di organismi e strumenti per affrontare le tematiche del lavoro.

Nel 1997 si firmò la prima norma di contenuto socio-lavorativo del Mercosur (Acuerdo Multilateral de Seguridad Social del Mercado Común del Sur, ratificato solo dopo anni) e l’anno seguente con la Dichiarazione Sociolavorativa del Mercosur si stabilirono le basi per l’emanazione di risoluzioni di diretta applicazione (senza necessità di ratifica) nei Paesi membri, sempre con lo schema delle riunioni tripartitiche, che riuniscono gli interessi del mondo del lavoro, dell’impresa e i Ministeri del lavoro.

Dopo le associazioni nel Mercosur da parte del Cile e della Bolivia nel 1996, del Perù nel 2004 e di Colombia ed Ecuador nel 2006, si aspetta la ratifica dell’adesione venezuelana da parte del Paraguay.

Il Venezuela firmò gli accordi pre-adesione assieme alla Colombia ed all’Ecuador, ma ancora il Congresso paraguayense non ha dato il suo nullaosta per l’opposizione ideologica al presidente venezuelano Chavez.

Tuttavia le cose si dovrebbero sbloccare presto visto che lo stesso Presidente del Paraguay, Lugo, ha esortato di recente il proprio Congresso affinchè acceleri il processo di ratifica, in quanto l’ingresso venezuelano e’ considerato importante per gli interessi di integrazione di tutti i Paesi della regione.

ALBA

L’ALBA, nata il 14 dicembre 2004 a l’Havana su iniziativa del Presidente venezuelano Hugo Chavez, è oggi composta da otto Paesi (dopo l’espulsione dell’Honduras a seguito del golpe del giugno 2009), Venezuela, Cuba, Ecuador, Bolivia, Nicaragua, Rep.Dominicana, Granada, Antigua e Barbuda.

Se il Mercosur è la gamba economico-commerciale dell’integrazione dell’america indiolatina (non per niente i due Paesi cardine nella sua costruzione furono Brasile e Argentina, storicamente i più floridi della zona), l’ALBA è la sua gamba politica.

L’iniziativa per la nascita di questo nuovo organismo di integrazione regionale è portata avanti principalmente da Cuba e Venezuela e pretende di abbracciare tutte le nazioni che si trovano tra il Rio Bravo e la Patagonia, realizzando così l’ideale panamericano di Bolìvar.

L’obiettivo è quello di superare i nazionalismi egoistici di ogni Paese al fine di integrarsi secondo i principi di solidarietà e cooperazione, in modo da contrastare il modello neoliberale imposto dagli Stati Uniti tramite l’Accordo di Libero Commercio delle Americhe (ALCA).

La massima autorità è il Consiglio dei Presidenti dell’ALBA, allo stesso livello si trova il Consiglio dei Movimenti Sociali, che si propone di rappresentare appunto i movimenti sociali e i popoli dei Paesi membri, ma che è ancora in via di definizione.

Le principali forme di integrazione dell’ALBA sono i Trattati di Commercio dei Popoli, i cosiddetti progetti “Gran Nazionali” e le imprese Gran Nazionali, che si oppongono per struttura e obiettivi alle note imprese Trans-nazionali.

Queste forme di integrazione hanno come caratteristica primaria il rigetto di qualsiasi principio neoliberista, visto solo come uno strumento di colonizzazione del Nord America.

I Trattati di Commercio dei Popoli sono accordi di interscambio di beni e servizi per soddisfare le esigenze delle persone, al di là della logica del mero profitto.

Si sostentano sui principi di solidarietà, reciprocità, trasferimento tecnologico, utilizzo dei vantaggi che offre ogni Paese per il bene collettivo, risparmio di risorse e includono anche facilitazioni creditizie per facilitare i pagamenti.

Essi nascono per opporsi ai Trattati di Libero Commercio proposti dagli Stati Uniti, che portano verso la distruzione delle economie nazionali, incapaci di competere, senza l’adeguata protezione, con il grande capitale privato straniero.

I progetti Gran Nazionali danno concretezza ai principi solidaristici e antiliberisti espressi dall’ALBA, nonchè ai processi economici e sociali dell’integrazione americana.

Tali progetti sono a differenti stati di sviluppo e quelli che fino ad ora hanno avuto più successo sono il progetto della Banca dell’ALBA e quello di Alfabetizzazione e Post-alfabetizzazione (che ha fatto della zona dell’ALBA il primo spazio regionale libero da analfabetismo), ma esistono progetti Gran Nazionali in ogni settore, dalla scienza all’alimentazione, passando per salute e commercio.

Le imprese Gran Nacional nascono sempre da un progetto e possono essere composte dalla collaborazione fra due o più Stati aderenti all’ALBA.

Il concetto che le muove si oppone allo strapotere dei grandi gruppi privati (Corporations Transnazionali) e del mercato, a favore di una partecipazione dello Stato nell’economia affinchè si ottenga una produzione ed un’allocazione di risorse più razionale, che tenga conto innanzitutto dei reali bisogni della popolazione, a spese della logica del profitto, come fine ultimo dell’impresa.

Esistono imprese Gran Nazionali in molti settori: pesca (Transalba), trasporti, agricoltura e telecomunicazioni (Albatel), settore petrolifero (Albanisa, società mista venezuelo-nicaraguense) , costruzione di porti (Puertos de Alba, nata dalla collaborazione tra Cuba e Venezuela).

Il progetto forse più ambizioso dell’ALBA è la creazione di una moneta comune (SUCRE) da usare negli scambi commerciali fra Paesi dell’area  per sostituire il dollaro, che è già in piena fase di realizzazione.

Dapprima si è utilizzato esclusivamente come unità di misura comune (Sistema Unitario de Compensaciòn Regional, SUCRE), mentre il 27 gennaio è entrata in funzione come moneta commerciale a tutti gli effetti e il 4 febbraio vi è stata la prima transazione commerciale in SUCRE, con l’esportazione di diverse tonnellate di riso venezuelano verso Cuba.

Conclusioni

Oggi in America Latina ci sono degli attori che, dopo due secoli di subalternità alla dottrina Monroe, vogliono giocare il proprio ruolo nello scacchiere internazionale e nello scegliere il proprio modello economico.

Vi è una potenza regionale, il Brasile, che proprio di recente ha dimostrato come sia capace di giocare un ruolo indipendente nel mondo delle relazioni internazionali (si veda l’accordo con la Turchia e Iran sul nucleare) e che è la locomotiva economica trainante del Mercosur.

Proprio il Brasile si è espresso a più riprese per l’ingresso del Venezuela nel MERcado COmune del SUR, poichè, anche per le sue risorse energetiche, è un Paese fondamentale per l’integrazione sudamericana e ormai la ratifica da parte del Paraguay dovrebbe avvenire presto.

Il Venezuela è anche il motore dell’ALBA (organizzazione composta oggi da otto Paesi, ma con l’obiettivo di aumentarne il numero), organizzazione di ispirazione socialista e pan-americana che si propone di disegnare un altro modello di società, antagonista al modello neoliberale americano. Difatti la pressione statunitense nella regione è cresciuta parecchio negli ultimi anni, con la costruzione di sette nuove basi militari in Colombia, la riattivazione della IV Flotta (ottobre 2008) destinata a operare nel Sud Atlantico (inattiva da 52 anni) e attraverso il colpo di Stato contro il Presidente dell’Honduras Zelaya, che ha portato il Paese centroamericano fuori dall’organizzazione Bolivariana.

Il successo di queste iniziative di integrazione regionale dipenderà molto dai concreti risultati che si otterranno nel migliorare le condizioni materiali delle popolazioni sudamericane, poichè, specialmente nel caso dell’ALBA, un cambio nelle preferenze politiche da parte dei cittadini potrebbe interrompere o azzoppare tutto il processo, facendo ritornare preponderante l’influenza statunitense nel decidere le politiche economiche nell’area.

Nonostante i Paesi dell’area siano differenti fra loro (come composizione etnica, popolazione, estensione, sviluppo industriale) e dunque abbiano in parte interessi differenti, finora ha prevalso il rispetto per l’autonomia di ogni Paese e la consapevolezza che una maggiore integrazione può portare solo vantaggi ai Paesi dell’area, al di là delle loro priorità specifiche.

* Sergio Barone è dottore in Relazioni Internazionali (Università di Bologna)


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mardi, 08 juin 2010

El acuerdo Iràn-Brasil-Turquia: un desafio a la prepotencia de EE.UU e Israel

El acuerdo Irán-Brasil-Turquía: Un desafío a la prepotencia de EE.UU. e Israel

Consortium News/ICH
BRASIL DICE QUE EL ACUERDO CIERRA EL CAMINO A NUEVAS SANCIONES PARA IRÁN
Puede que los tiempos estén cambiando –por lo menos un poco– y que EE.UU. e Israel ya no puedan dictar al resto del mundo cómo hay que manejar las crisis en Oriente Próximo, aunque la secretaria de Estado Hillary Clinton y sus amigos neoconservadores en el Congreso y en los medios estadounidenses han tardado en darse cuenta. Tal vez piensan que siguen controlando la situación, que siguen siendo los listos que menosprecian a advenedizos como los dirigentes de Turquía y Brasil que tuvieron la audacia de ignorar las advertencias de EE.UU. y siguieron recurriendo a la diplomacia para prevenir una posible nueva guerra, ésta respecto a Irán.

 

El lunes, el primer ministro turco Recep Tayyip Erdogan y el presidente brasileño Luiz Inacio Lula da Silva anunciaron su éxito al persuadir a Irán para que envíe aproximadamente un 50% de su uranio poco enriquecido a Turquía a cambio de uranio más enriquecido para su utilización en aplicaciones médicas pacíficas.

El acuerdo tripartito es análogo a otro planteado a Irán por países occidentales el 1 de octubre de 2009, que obtuvo la aprobación iraní en principio pero que luego fracasó.

El que el anuncio conjunto del lunes haya sorprendido a los funcionarios estadounidenses denota una actitud pretenciosa propia de una torre de marfil frente a un mundo que cambia rápidamente a su alrededor, como los antiguos imperialistas británicos desconcertados por una oleada de anticolonialismo en el Raj [administración colonial de India, N. del T.] o algún otro dominio del Imperio.

Significativamente, los funcionarios de EE.UU. y sus acólitos en los Medios Corporativos Aduladores (o MCA) no pudieron creer que Brasil y Turquía se atreverían a impulsar un acuerdo con Irán al que se opusieran Clinton y el presidente Barack Obama.

Sin embargo existían señales de que esos poderes regionales ascendentes ya no estaban dispuestos a comportarse como niños obedientes mientras EE.UU. e Israel tratan de tomarle el pelo al mundo para conducirlo a una nueva confrontación en Oriente Próximo.

Hacer frente a Israel

En marzo, el primer ministro israelí Benjamin Netanyahu se sintió tan molesto con la defensa del diálogo con Irán por parte del presidente Lula da Silva que dio un severo sermón al recién llegado de Sudamérica. Pero el presidente brasileño no cedió.

Lula da Silva se mostró crecientemente preocupado de que, a falta de una diplomacia rápida y ágil, Israel probablemente seguiría la escalada de sanciones con un ataque contra Irán. Sin andarse con rodeos, Lula da Silva dijo:

“No podemos permitir que suceda en Irán lo que pasó en Iraq. Antes de cualquier sanción, debemos realizar todos los esfuerzos posibles para tratar de lograr la paz en Oriente Próximo.”

Erdogan de Turquía tuvo su propia confrontación con un dirigente israelí poco después del ataque contra Gaza desde el 17 de diciembre de 2008 hasta el 18 de enero de 2009, en el que murieron unos 1.400 habitantes de Gaza y 14 israelíes.

El 29 de enero de 2009, el presidente turco participó con el presidente israelí Shimon Peres en un pequeño panel moderado por David Ignatius del Washington Post en el Foro Económico Mundial en Davos, Suiza.

Erdogan no pudo tolerar la resonante y apasionada defensa de la ofensiva de Gaza de Peres. Erdogan describió Gaza como “prisión al aire libre” y acusó a Peres de hablar fuerte para ocultar su “culpa”. Después de que Ignatius otorgó a Peres el doble del tiempo que a Erdogan, este último se enfureció, e insistió en responder al discurso de Peres.

El minuto y medio final, capturado por la cámara de la BBC, muestra a Erdogan apartando el brazo estirado de Ignatius, mientras éste trata de interrumpirlo con ruegos como: “Realmente tenemos que llevar a la gente a la cena”. Erdogan continúa, se refiere al “Sexto Mandamiento –no matarás-”, y agrega: “Estamos hablando de asesinatos” en Gaza. Luego alude a una barbarie “que va mucho más allá de lo aceptable,” y abandona la sala anunciando que no volverá a ir a Davos.

El gobierno brasileño también condenó el bombardeo de Gaza por Israel como “una reacción desproporcionada”. Expresó su preocupación de que la violencia en la región había afectado sobre todo a la población civil.

La declaración de Brasil se hizo el 24 de enero de 2009, sólo cinco días antes de la enérgica crítica de Erdogan ante el intento del presidente israelí de defender el ataque. Tal vez fue el momento en el que se plantó la semilla que germinó y creció en un esfuerzo decidido de actuar enérgicamente para impedir otro sangriento estallido de hostilidades.

Es lo que Erdogan hizo, con la colaboración de Lula da Silva. Los dos dirigentes regionales insistieron en un nuevo enfoque multilateral para impedir una potencial crisis en Oriente Próximo, en lugar de simplemente aceptar la toma de decisiones en Washington, guiado por los intereses de Israel.

Así que pónganse al día, muchachos y muchachas en la Casa Blanca y en Foggy Bottom [Barrio de Washington en el que se encuentra la sede del Departamento de Estado, N. del T.]. El mundo ha cambiado; ya no tenéis la última palabra.

En última instancia podríais incluso agradecer que hayan aparecido algunos adultos prescientes, que se colocaron a la altura de las circunstancias, y desactivaron una situación muy volátil de la que nadie –repito, nadie– habría sacado provecho.

Argumentos falaces para un cambio de régimen

Incluso se podría haber pensado que la idea de que Irán entregue cerca de la mitad de su uranio poco enriquecido se vería como algo bueno para Israel, disminuyendo posiblemente los temores israelíes de que Irán podría obtener la bomba en un futuro previsible.

Desde todo punto de vista, la entrega de la mitad del uranio de Irán debería reducir esas preocupaciones, pero NO parece que la bomba sea la preocupación primordial de Israel. Evidentemente, a pesar de la retórica, Israel y sus partidarios en Washington no ven la actual disputa por el programa nuclear de Irán como una “amenaza existencial”.

Más bien la ven como otra excelente oportunidad para imponer un “cambio de régimen” a un país considerado uno de los adversarios de Israel, como Iraq bajo Sadam Hussein. Como en el caso de Iraq, el argumento para la intervención es la acusación de que Irán quiere un arma nuclear, un arma de destrucción masiva que podría compartir con terroristas.

El hecho de que Irán, como Iraq, ha desmentido que esté construyendo una bomba nuclear –o que no haya información verosímil que pruebe que Irán esté mintiendo (un Cálculo Nacional de Inteligencia de EE.UU. expresó en 2007 su confianza en que Irán había detenido tales empeños cuatro años antes)– es normalmente descartado por EE.UU. y sus MCA.

En su lugar se vuelve a utilizar la aterradora noción de que Irán con armas nucleares podría de alguna manera compartirlas con al-Qaida o algún otro grupo terrorista para volver a atemorizar al público estadounidense. (Se hace caso omiso del hecho de que Irán no tiene vínculos con al-Qaida, que es suní mientras Irán es chií, tal como el secular Sadam Hussein desdeñaba al grupo terrorista.)

No obstante, antes en este año, la secretaria de Estado Clinton, al responder a una pregunta después de un discurso en Doha, Qatar, dejó escapar una parte de esa realidad: que Irán “no amenaza directamente a EE.UU., pero amenaza directamente a muchos de nuestros amigos, aliados, y socios” –léase Israel, como el primero y principal de los amigos.

A Clinton también le gustaría que usáramos la gimnasia mental requerida para aceptar el argumento israelí de que si Irán construyera de alguna manera una sola bomba con el resto de su uranio (presumiblemente después de refinarlo al nivel de 90% requerido para un arma nuclear cuando Irán ha tenido problemas tecnológicos a niveles mucho más bajos), se plantearía una amenaza inaceptable para Israel, que posee entre 200 y 300 armas nucleares junto con los misiles y bombarderos necesarios para lanzarlas.

Pero si no se trata realmente de la remota posibilidad de que Irán construya una bomba nuclear y quiera cometer un suicidio nacional al utilizarla, ¿qué está verdaderamente en juego? La conclusión obvia es que el intento de infundir miedo respecto a armas nucleares iraníes es la última justificación para imponer un “cambio de régimen” en Irán.

Los orígenes de ese objetivo se remontan por lo menos al discurso del “eje del mal” del presidente George W. Bush en 2002, pero tiene un precedente anterior. En 1996, destacados neoconservadores estadounidenses, incluyendo a Richard Perle y Douglas Feith, prepararon un documento radical de estrategia para Netanyahu que planteaba un nuevo enfoque para garantizar la seguridad de Israel, mediante la eliminación o neutralización de regímenes musulmanes hostiles en la región.

Llamado “Cortar por lo sano: Una nueva estrategia para asegurar el país [Israel]”, el plan preveía abandonar las negociaciones de “tierra por paz” y en su lugar “restablecer el principio de la acción preventiva”, comenzando por el derrocamiento de Sadam Hussein y enfrentando a continuación a otros enemigos regionales en Siria, el Líbano e Irán.

Sin embargo, para lograr un objetivo tan ambicioso –con la ayuda necesaria del dinero y el poderío militar estadounidenses– había que presentar como insensatas o imposibles las negociaciones tradicionales de paz y exacerbar las tensiones.

Obviamente, con el presidente Bush en la Casa Blanca y con el público en EE.UU. indignado por los ataques del 11-S, se abrieron nuevas posibilidades –y Sadam Hussein, el primer objetivo para “asegurar el área”, fue eliminado por la invasión de Iraq dirigida por EE.UU-

Pero la Guerra de Iraq no se desarrolló con la facilidad esperada, y las intenciones del presidente Obama de revivir el proceso de paz de Oriente Próximo y de entablar negociaciones con Irán emergieron como nuevos obstáculos para el plan. Se hizo importante mostrar lo ingenuo que era el joven presidente ante la imposibilidad de negociar con Irán.

Saboteando un acuerdo

Muchas personas influyentes en Washington se espantaron el 1 de octubre pasado cuando Teherán aceptó enviar al extranjero 1.200 kilos (entonces cerca de un 75% del total en Irán) de uranio poco enriquecido para convertirlos en combustible para un pequeño reactor que realiza investigación médica.

El negociador nuclear jefe de Irán, Saeed Jalili, presentó el acuerdo “en principio” de Teherán en una reunión en Ginebra de miembros del Consejo de Seguridad de la ONU, más Alemania, presidida por Javier Solana de la Unión Europea.

Incluso el New York Times reconoció que esto, “si sucede, representaría un logro importante para Occidente, reduciendo la capacidad de Irán de producir rápidamente un arma nuclear, y logrando más tiempo para que fructifiquen las negociaciones”.

La sabiduría convencional presentada actualmente en los MCA pretende que Teherán echó marcha atrás respecto al acuerdo. Es verdad; pero es sólo la mitad de la historia, un caso que destaca cómo, en el conjunto de prioridades de Israel, lo más importante es el cambio de régimen en Irán.

El intercambio de uranio tuvo el apoyo inicial del presidente de Irán Mahmud Ahmadineyad. Y una reunión de seguimiento se programó para el 19 de octubre en el Organismo Internacional de Energía Atómica (OIEA) en Viena.

Sin embargo el acuerdo fue rápidamente criticado por grupos de la oposición de Irán, incluido el “Movimiento Verde” dirigido por el candidato presidencial derrotado Mir Hossein Mousavi, quien ha tenido vínculos con los neoconservadores estadounidenses y con Israel desde los días de Irán-Contra en los años ochenta, cuando era el primer ministro y colaboró en los acuerdos secretos de armas.

Sorprendentemente fue la oposición política de Mousavi, favorecida por EE.UU., la que dirigió el ataque contra el acuerdo nuclear, calificándolo de afrenta a la soberanía de Irán y sugiriendo que Ahmadineyad no era suficientemente duro.

Luego, el 18 de octubre, un grupo terrorista llamado Jundallah, actuando con información extraordinariamente exacta, detonó un coche bomba en una reunión de altos comandantes de los Guardias Revolucionarios iraquíes y de dirigentes tribales en la provincia de Sistan-Baluchistán en el sudeste de Irán. Un coche repleto de Guardias también fue atacado.

Un brigadier general que era comandante adjunto de las fuerzas terrestres de los Guardias Revolucionarios, el brigadier que comandaba el área fronteriza de Sistan-Baluchistán y otros tres comandantes de brigada resultaron muertos en el ataque; docenas de oficiales militares y civiles resultaron muertos o heridos.

Jundallah reivindicó los atentados, que tuvieron lugar después de años de ataques contra Guardias Revolucionarios y policías iraníes, incluyendo un intento de emboscada de la caravana de automóviles del presidente Ahmadineyad en 2005.

Teherán afirma que Jundallah está apoyado por EE.UU., Gran Bretaña e Israel, y el agente en retiro de operaciones de la CIA en Oriente Próximo, Robert Baer, ha identificado a Jundallah como uno de los grupos “terroristas buenos” que gozan de ayuda de EE.UU.

Creo que no es coincidencia que el ataque del 18 de octubre –el más sangriento en Irán desde la guerra de 1980 hasta 1988 con Iraq– haya tenido lugar un día antes de que las conversaciones nucleares debían reanudarse en la OIEA en Viena para dar seguimiento al logro del 1 de octubre. Era seguro que los asesinatos aumentarían las sospechas de Irán sobre la sinceridad de EE.UU.

Era de esperar que los Guardias Revolucionarios fueran directamente a su jefe, el Supremo Líder Ali Jamenei y argumentaran que el atentado y el ataque en la ruta demostraban que no se podía confiar en Occidente.

Jamenei publicó una declaración el 19 de octubre condenando a los terroristas, a los que acusó de estar “apoyados por las agencias de espionaje de ciertas potencias arrogantes.”

El comandante de las fuerzas terrestres de los Guardias, quien perdió a su adjunto en el ataque, dijo que los terroristas fueron “entrenados por EE.UU. y Gran Bretaña en algunos países vecinos”, y el comandante en jefe de los Guardias Revolucionarios amenazó con represalias.

El ataque fue una noticia importante en Irán, pero no en EE.UU., donde los MCA relegaron rápidamente el incidente al gran agujero negro de la memoria estadounidense. Los MCA también comenzaron a tratar la cólera resultante de Irán por lo que consideraba como actos de terrorismo, y su creciente sensibilidad ante el cruce de sus fronteras por extranjeros, como un esfuerzo por intimidar a grupos “pro democracia” apoyados por Occidente.

A pesar de todo, Irán envía una delegación

A pesar del ataque de Jundallah y de las críticas de los grupos opositores, una delegación técnica iraní de bajo nivel fue a Viena a la reunión del 19 de octubre, pero el principal negociador nuclear de Irán, Saeed Jalili, no participó.

Los iraníes cuestionaron la fiabilidad de las potencias occidentales y presentaron objeciones a algunos detalles, como dónde tendría lugar la transferencia. Los iraníes plantearon propuestas alternativas que parecían dignas de consideración, como que se hiciera la transferencia del uranio en territorio iraní o en algún otro sitio neutral.

El gobierno de Obama, bajo creciente presión interior sobre la necesidad de mostrarse más duro con Irán, descartó directamente las contrapropuestas de Irán, al parecer por instigación del jefe de gabinete de la Casa Blanca, Rahm Emanuel, y del emisario regional neoconservador Dennis Ross.

Ambos funcionarios parecieron opuestos a emprender cualquier paso que pudiera disminuir entre los estadounidenses la impresión de que Ahmadineyad fuera otra cosa que un perro rabioso que debía sacrificarse, el nuevo sujeto más detestado (reemplazando al difunto Sadam Hussein, ahorcado por el gobierno instalado por EE.UU. en Iraq).

Ante todo eso, Lula da Silva y Erdogan vieron la semejanza entre el afán de Washington de una escalada de la confrontación con Irán y el modo en que EE.UU. había conducido al mundo, paso a paso, hacia la invasión de Iraq (completada con la misma cobertura ampliamente sesgada de los principales medios noticiosos estadounidenses.)

Con la esperanza de impedir un resultado semejante, los dos dirigentes recuperaron la iniciativa de transferencia de uranio del 1 de octubre y lograron que Teherán aceptara condiciones similares el lunes pasado. Especificaban el envío de 1.200 kilos de uranio poco enriquecido de Irán al extranjero a cambio de barras nucleares que no servirían para producir un arma.

Sin embargo, en lugar de apoyar la concesión iraní al menos como un paso en la dirección adecuada, los responsables de EE.UU. trataron de sabotearla, presionando en su lugar por más sanciones. Los MCA hicieron su parte al insistir en que el acuerdo no era más que otro truco iraní que dejaría a Irán con suficiente uranio para crear en teoría una bomba nuclear.

Un editorial en el Washington Post del martes, con el título “Mal acuerdo,” concluyó triste e ilusionadamente: “Es posible que Teherán eche marcha atrás incluso respecto a los términos que ofreció a Brasil y Turquía –caso en el cual esos países se verían obligados a apoyar sanciones de la ONU.”

El miércoles, un editorial del New York Times dio retóricamente unas palmaditas en la cabeza a los dirigentes de Brasil y Turquía, como si fueran campesinos perdidos en el mundo urbano de la diplomacia dura. El Times escribió: “Brasil y Turquía… están ansiosos de tener mayores roles internacionales. Y están ansiosos de evitar un conflicto con Irán. Respetamos esos deseos. Pero como tantos otros, fueron engañados por Teherán”.

En lugar de seguir adelante con el acuerdo de transferencia de uranio, Brasil y Turquía deberían “sumarse a los otros protagonistas importantes y votar por la resolución del Consejo de Seguridad”, dijo el Times. “Incluso, antes de eso, debieran volver a Teherán y presionar a los mulás para que lleguen a un compromiso creíble y comiencen negociaciones serias.”

Centro en sanciones

Tanto el Times como el Post han aplaudido la actual búsqueda por el gobierno de Obama de sanciones económicas más duras contra Irán –y el martes, consiguieron algo que provocó su entusiasmo.

“Hemos llegado a acuerdo sobre un borrador contundente [resolución de sanciones] con la cooperación tanto de Rusia como de China,” dijo la secretaria Clinton al Comité de Relaciones Exteriores del Senado, dejando claro que veía la oportunidad de las sanciones como una respuesta al acuerdo Irán-Brasil-Turquía.

“Este anuncio es una respuesta tan convincente a los esfuerzos emprendidos en Teherán durante los últimos días como cualquier otra que pudiésemos suministrar,” declaró.

A su portavoz, Philip J. Crowley, le quedó la tarea de explicar la implicación obvia de que Washington estaba utilizando las nuevas sanciones para sabotear el plan de transferir fuera del país la mitad del uranio enriquecido de Irán.

Pregunta: “¿Pero usted dice que apoya y aprecia [el acuerdo Irán-Brasil-Turquía], pero no piensa que lo obstaculiza de alguna manera? Quiero decir que, ahora, al introducir la resolución el día después del acuerdo, usted prácticamente asegura una reacción negativa de Irán.”

Otra pregunta: “¿Por qué, en realidad, si usted piensa que este acuerdo Brasil-Turquía-Irán no es serio y no tiene mucho optimismo en que vaya a progresar y que Irán seguirá mostrando que no es serio en cuanto a sus ambiciones nucleares, por qué no espera simplemente que sea así y entonces obtendría una resolución más dura e incluso Brasil y Turquía votarían por ella porque Irán los habría humillado y avergonzado? ¿Por qué no espera simplemente para ver cómo resulta?”

Una pregunta más: “La impresión que queda, sin embargo, es que el mensaje –seguro que es un mensaje para Irán, pero hay también un mensaje para Turquía y Brasil, y es básicamente: salgan de la arena, hay muchachos y muchachas grandes en el juego y no necesitamos que se metan. ¿No aceptan eso?”

Casi me da pena el pobre P.J. Crowley, que hizo todo lo posible por hacer la cuadratura de éste y otros círculos. Sus respuestas carecían de candor, pero reflejaban una extraña capacidad de adherirse a un punto clave; es decir, que la “verdadera clave”, el “tema primordial” es el continuo enriquecimiento de uranio por Irán. Lo dijo, en palabras idénticas o similares al menos 17 veces.

Es algo curioso, en el mejor de los casos, que en este momento el Departamento de Estado haya decidido citar ese único punto como algo espectacular. El acuerdo ofrecido a Teherán el 1 de octubre pasado tampoco requería que renunciara al enriquecimiento.

Y el énfasis actual en la no observación de resoluciones del Consejo de Seguridad –que habían sido exigidas por EE.UU. y sus aliados– recuerda misteriosamente la estrategia para llevar al mundo hacia la invasión de Iraq en 2003.

Crowley dijo que el gobierno no piensa en “un itinerario en particular” para someter a votación una resolución, y dijo que “tardará lo que sea”. Agregó que el presidente Obama “presentó un objetivo de que esto se termine a finales de esta primavera” –aproximadamente dentro de un mes.

Contrainiciativa

A pesar de los esfuerzos de los círculos oficiales de Washington y los formadores de opinión neoconservadores para desbaratar el plan Irán-Brasil-Turquía, todavía parece mantenerse vivo, por lo menos de momento.

Funcionarios iraníes han dicho que enviarán una carta confirmando el acuerdo a la OIEA dentro de una semana. Dentro de un mes, Irán podría embarcar 1.200 kilos de su uranio poco enriquecido a Turquía.

Dentro de un año, Rusia y Francia producirían 120 kilos de uranio enriquecido a 20% para utilizarlo en la reposición de combustible para un reactor de investigación en Teherán que produce isótopos con el fin de tratar a pacientes de cáncer.

En cuanto a la afirmación de Clinton de que China, así como Rusia, forma parte de un consenso sobre el borrador de resolución del Consejo de Seguridad, el tiempo lo dirá.

Se duda en particular de la firmeza de la participación china. El lunes, responsables chinos saludaron la propuesta Irán-Brasil-Turquía y dijeron que debe explorarse a fondo. Funcionarios rusos también sugirieron que se debería dar una oportunidad al nuevo plan de transferencia.

Las propuestas de nuevas sanciones tampoco van tan lejos como deseaban algunos partidarios de la línea dura en EE.UU. e Israel. Por ejemplo, no incluyen un embargo de gasolina y otros productos refinados del petróleo, un paso duro que algunos neoconservadores esperaban que llevara a Irán al caos económico y político como preludio para un “cambio de régimen”.

En su lugar, la propuesta de nuevas sanciones especifica inspecciones de barcos iraníes sospechosos de entrar a puertos internacionales con tecnología o armas relacionadas con el tema nuclear. Algunos analistas dudan de que esta provisión tenga mucho efecto práctico sobre Irán.

Israel consultará con Washington antes de emitir una respuesta oficial, pero funcionarios israelíes han dicho a la prensa que el acuerdo de transferencia es un “truco” y que Irán ha “manipulado” a Turquía y Brasil.

Existen todos los motivos del mundo para creer que Israel buscará exhaustivamente una manera de sabotear el acuerdo, pero no está claro que los instrumentos diplomáticos usuales funcionen en esta etapa. Queda, claro está, la posibilidad de que Israel se juegue el todo por el todo y lance un ataque militar preventivo contra las instalaciones nucleares de Irán.

Mientras tanto es seguro que el primer ministro israelí Netanyahu aplicará toda la presión que pueda sobre Obama.

Como antiguo analista de la CIA, espero que Obama tenga la sangre fría necesaria para ordenar un Cálculo Nacional de Inteligencia especial por la vía rápida sobre las implicaciones del acuerdo Irán-Brasil-Turquía para los intereses nacionales de EE.UU. y los de los países de Oriente Próximo.

Obama necesita una evaluación sin adornos de las posibles ventajas del acuerdo (y sus potenciales aspectos negativos) como contrapeso para el cabildeo favorable a Israel que inevitablemente influye en la Casa Blanca y el Departamento de Estado.

* * *

Ray McGovern trabaja con Tell the Word, el brazo editor de la ecuménica Iglesia del Salvador en Washington, DC. Fue analista de la CIA durante 27 años y ahora sirve en el Grupo de Dirección de Profesionales Veteranos de la Inteligencia por la Cordura (VIPS).

Este artículo fue publicado primero en ConsortiumNews.com

Fuente: http://www.informationclearinghouse.info/article25492.htm

Iberoamerica y Europa

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES

Amerique-Latine_Ar.jpgIberoamérica y Europa: Tensiones y acuerdos

 

Alberto Buela

           

 

         La metapolítica como saber pluridisciplinario, nos permite tanto, una aproximación adecuada a las grandes categorías que condicionan la acción política de los gobiernos del orbe, como el acceso al conocimiento de las razones profundas que explican esas acciones.

         El asunto que vamos a tratar, aun sabiendo que Europa et Occidente convertuntur, cuál sea la relación entre Iberoamérica y Europa, mucho tiene que ver con nuestra posición filosófica ante el hombre, el mundo y sus problemas. En una palabra, según sea la concepción del ser del ente - nominalista, idealista, realista -así será, en definitiva, la explicación de esta relación.

         Si nosotros sostuviéramos junto con Ludwig Wittgenstein que "el significado de una palabra(concepto) está dado por su uso" no tendría razón de ser nuestro esfuerzo intelectual porque el problema no existe.

         Por el contrario, si pensamos con Heidegger, Zubiri o nuestro Wagner de Reyna que " el significado de una palabra (concepto) está dado por su sentido prístino u originario" la relación entre Iberoamérica y Europa es un asunto a resolver.

         Existen al menos dos visiones de Europa: La actual y la histórico-onto-teológica.

         a) La actual nace con la modernidad, donde  se destacan tres marcadas etapas. La primera que va desde el final del siglo XV hasta finales del siglo XVIII. Para señalarla con hitos significativos podríamos hacerlo diciendo que va desde el descubrimiento de América(1492) hasta la revolución francesa(1789).

La segunda etapa abarca desde finales del siglo XVIII hasta la primera década del siglo XX. O sea, desde la mencionada revolución francesa hasta la Primera Guerra Mundial(1914). Finalmente la tercera etapa se inicia con la Primera Guerra y llega hasta nuestros días.

         En la primera etapa el hombre aun no se da cuenta que se ha producido un cambio sustancial en las relaciones interpersonales. Ya no es más la Iglesia católica, la monarquía y la cristiandad su marco de referencia sino que comienza a referenciarse en otras pautas. La Reforma protestante(1516) no sólo cuestionó el poder de la Iglesia sino que quebró la relación armónica entre revelación, conocimiento y tradición, para exaltar la validez del conocimiento racional en sí mismo y dejar, el dato revelado, a la libre interpretación de cada uno, desligándolo de toda tradición interpretativa anterior. En cuanto a la Cristiandad quedó partida en los múltiples  Estados-Nación que conforman la Europa moderna.

         La monarquía, revolución francesa mediante, va a ser cuestionada en la segunda etapa de la modernidad, aquella que puede caracterizarse como la etapa revolucionaria. Se producen las revoluciones políticas y las revoluciones técnico-industriales. Aparecen las repúblicas junto con las máquinas a vapor, y los movimientos de masas junto con las zonas industriales.

         Finalmente en la tercera etapa se produce la universalización de la modernidad. La técnica en su simbiosis con la ciencia se transforma en tecnología, la que a su vez deviene la ideología incuestionada de nuestros días. Los pueblos son transformados, sobretodo a través de la tecnología massmediática, en público consumidor. Los estados nacionales son superados en poder por algunas megaempresas transnacionales. Hoy asistimos a la homogeneización del mundo, donde el dinero electrónico, el dinero casino, es cincuenta veces mayor que el dinero comercial. Donde los grandes relatos de la modernidad como a) la idea de progreso, b)la democracia como forma de vida, c)la subjetivización de los valores d)el espíritu de lucro y e) y la manipulación de la naturaleza por la técnica, quebraron, perdieron validez, no tanto por la mayor o menor crítica aguda que se les hiciera, sino por las consecuencias contradictorias a que llegaron sus principios cuando se plasmaron en los hechos. Hoy Europa está mal, no por "no proseguir el proyecto de la modernidad" como sostiene Habermas y la Escuela de Frankfurt sino porque los principios sustentados por la modernidad (Reforma, Ilustración y Revolución),llevados hasta sus últimas consecuencias, son contradictorios con la naturaleza humana y el orden entitativo de las cosas. 

 

b) En cuanto a la visión histórico-onto-teológica de Europa algunos de sus rasgos más significtivos son:

1)el indo-europeo como substrato lingüístico fundamental irrecusable.

2) la noción de ser aportada por la filosofía griega, que como se ha podido afirmar con justeza "el problema del ser, en el sentido ¿ Qué es el ser? es el menos natural de todos los problemas...  aquel que las tradiciones no occidentales jamás presintieron ni barruntaron "(Cfr.Le probleme de l`etre, Pierre Aubenque, Paris, 1977,p.13).

3) la concepción del ser humano como persona vinculada a la propiedad privada como espacio de expresión de la voluntad libre son el núcleo de una antropología que nos ha llegado directamente del Imperio Romano a través de su concepción jurídica.

4) El Dios trascendente, uno y trino, personal y redentor en donde la fe sin obras nada vale, como el aporte más propio del cristianismo católico.

5) La instrumentación de la razón humana como poder científico y tecnológico sobre el mundo y la naturaleza que ha dado hasta el presente la primacía a Occidente sobre Oriente.

         Vemos pues, como una concepción lingüística, una de ser, una de Dios, una del hombre, de las cosas que lo rodean y de su poder para transformarlas es lo que conformó la base común histórico-onto-teológica de Europa.

        

c) Conclusión

        

          Viene entonces la pregunta ¿y Nuestra América qué tiene de común y qué de diferente respecto de estas dos Europas?. Con la Europa premoderna, (visión histórico-onto. teológica) de común, casi todo, con la moderna casi nada.

         Nuestra conciencia, nuestro mundo de valores, nuestro genius loci (suelo y paisaje), nuestra representación comunitaria, todo ello es premoderno. Pero nuestra representación política en una veintena de republiquetas bananeras es moderna. Es mala copia de la democracia parlamentaria franco-norteamericana que hicieron nuestros Ilustrados. Y esta es la gran contradicción que venimos soportando desde hace casi doscientos años. Somos entitativamente una cosa pero la representamos falsamente. Somos sustancialmente premodernos, nos relacionamos con el medio y nos organizamos familiar y comunitariamente como premodernos, pero nos representamos políticamente como modernos. Vivimos así, una contradicción no resuelta. Nuestros contratos los cumplimos de "otra manera", para desazón y perplejidad de europeos y norteamericanos, porque tenemos otro tiempo. No es el time is money sino "sólo tardanza de lo que está por venir" como dice Martín Fierro. Nuestro tiempo es un madurar con las cosas. Eso, que tanto ellos como nuestra intelligentsia local han caracterizado como indolencia nativa o gaucha.

         Claro está hoy ya no existen los arquetipos que han definido a nuestros pueblos, ya no está el gaucho, ni el llanero, ni el huaso, ni el charro ni el jíbaro, ni el borinqueño, ni el montubio, etc. etc.

         Hoy también nosotros tendemos, casi todos, al homo consumans, al hombre light, el hombre homogeneizado del supermercado, el hombre desarraigado, el hombre urbano para quien el campo es aquel lugar horrible donde los pollos caminan crudos. Pero si bien es indubitable la desaparición del criollo bajo la forma del gaucho, el llanero, el charro, el huaso, el jíbaro, el montubio o el borinqueño, ello no nos permite afirmar la desaparición de los valores que alentaron a este tipo de hombre. En una palabra, que desaparezca la forma, en tanto que apariencia, no nos autoriza a colegir que murió su contenido, esto es, "el alma gaucha". Muy por el contrario, lo que se tiene que intentar es plasmar bajo nuevas apariencias o empaques los valores que sustentaron a este arquetipo de hombre, como son: a) el sentido de la libertad. b)el valor de la palabra empeñada. c)el sentido de jerarquía y d) la preferencia de sí mismo. Estos son los principios fundamentales del "alma hispanoamericana". Renunciar a cualquiera de ellos es renunciar a nosotros mismos. Es suicidarnos.

         Se ha dicho con acierto que Nuestra América es una cultura en busca de una política y esa política la tenemos que inventar pues si no inventamos morimos como Simón Rodríguez le enseñara a Bolivar.

         Tenemos que crear una nueva representatividad política y un nuevo espacio político bioceánico, autocentrado y confederado en el cono sur de América. Las cifras son terribles, tenemos en Iberoamérica 290 millones de hombres debajo de la línea de pobreza y el ALCA se nos viene encima en el 2005 para imponernos el dios monoteísta del libre mercado de Alaska a Tierra del Fuego. Los datos son escalofriantes si el Mercosur se asociara al ALCA, según el Instituto Brasileño de Economía, crecería apenas 0,68%, mientras que si la asociación fuera con la Unión Europea el producto bruto de nuestro mercado crecería en un 67%. Pues nuestras economías son complementarias con las europeas y competimos con la norteamericana. Desde siempre se ha dicho que para la acción eficaz se necesitan tres cosas: hombres, medios y acontecimientos. Los acontecimientos nos son favorables según las cifras que vimos, los medios los tenemos, todo estriba entonces en la voluntad política de nuestros hombres públicos en llevar a cabo este puente beneficioso con la Europa para establecer, al menos un impedimento, un katejón en común, que mejor resista la embestida de la potencia talasocrática mundial.

 

 

Prognosis sobre Europa

 

Hablar de Europa sin ser europeo es un raro privilegio pues en general sobre el tema solo escriben ellos.

Sucede en este dominio como en la filosofía, el monopolio es casi exclusivamente europeo con alguna excepción norteamericana, el resto sólo llegamos a la categoría menor de pensadores o ensayistas.

 

La cuestión es saber que significa el Viejo Continente para nosotros los suramericanos hoy, para terminar con una breve prognosis acerca de Europa.

 

En primer lugar Europa se nos presenta como una cierta unidad, la Comunidad europea, la moneda común, nos están indicando la idea de un cierto bloque o conjunto de países que han decidido hacer cosas en conjunto.

 

En este sentido en Suramérica somos siempre arkagueutas (eternos comenzantes, como decía Platón de sí mismo) no hemos podido crear ninguna institución que nos unifique que durara más de una generación, aun cuando desde nuestras guerras por la independencia (circa 1800) nuestros próceres- Bolivar, San Martín- las propusieran por todos los medios a su alcance.

 

Europa representa hoy la culminación del Estado de bienestar. Así el confort, la seguridad, cierta justicia y el goce de la vida forman parte de lo que los massmedia se encargan de mostrar a diario. Claro, que la contrapartida de ellos son los miles de inmigrantes ilegales que desde Africa, Asia y América  la asaltan por los cuatro costados.

 

Vemos también la americanización de Europa, de que nos hablo el pensador Guillaume Faye pero al mismo tiempo tenemos una cierta esperanza que el Viejo Continente colabore en la desnorteamericanización  de Suramérica. Para nosotros el peso de yanquilandia es abrumador, y ello nos viene justificado por la Doctrina Monroe de 1823, un año antes de la batalla de Ayacucho la última de nuestra aparente independencia.

 

Europa para nosotros, a pesar de quinientos años de tira y afloje, tiene algo de común, es algo de lo que formamos parte. Ni  tan español ni tan indio afirmaba Bolivar para definirse a sí mismo y con ello a todos los iberoamericanos. Y en el español involucraba a todos los europeos.

Qué interesante relación existe entre Europa y Nuestra América. Ni una ni la otra fueron las mismas luego del descubrimiento-encuentro de 1492. Así ante la nueva idea de orbe Europa comenzó a verse  como parte del mundo y no ya como “todo el mundo”, en tanto que América pudo mostrarse a la totalidad del mundo. Sin embargo Europa no perdió su centralidad y siguió por cuatrocientos años llevando la batuta del mundo hasta que luego de la Primera Guerra Mundial lo cedió a la parte norte de América. Y así desde hace casi cien años son los Estados Unidos los que se reservan y ejercen el derecho a la conducción del mundo.

 

Pero los Estados Unidos no son otra cosa que la Europa limitada a la razón calculadora y a la técnica. Ellos son un producto exclusivo de la modernidad, nosotros, en todo caso, de la tardomodernidad. No son otra cosa que europeos transterrados cuya expresión es el gigantismo. Salvo raras excepciones su gente está  desprovista de vida interior y se parecen a la criaturas de los juegos de video que ellos fabrican. Lo grave es que intentan exportar la vaciedad de su estilo de vida al mundo entero. Un gran pensador de ellos como Allan Bloom  dice:“La religión en USA es como un gran naranjal público en donde cada uno pasa y se sirve el fruto que más le agrada”

Ante esto, la vieja Europa calla y acepta, en tanto que Suramérica padece el más profundo de los extrañamientos por obra y gracia del dios monoteísta del libre mercado. Sobre 346 millones de habitantes hay 290 millones de pobres, producto de la política y la economía practicada por el Gran Hermano del Norte.

 

Qué podemos esperar de Europa, sería la tercera y última de las cuestiones.

 

Es sabido que la prognosis, que no la esperanza, es aquello que quedó encerrado en la Caja de Pandora , la mujer de Epimeteo,  cuando éste pudo al fin cerrarla. Y eso es lo que no nos está permitido a los mortales. No podemos conocer el futuro. Y es mejor que así sea. Pero de todas maneras siempre es bueno hacer algún ejercicio como para pergeñarlo.

 

Europa si sigue así, no sólo se va a extrañar en orden al tipo humano que rápidamente va a ser reemplazado- la inmigración africano-oriental es envolvente-  sino también en el orden cultural, se va a producir su alienación, a causa de la colonización de Europa por parte del mundo musulmán.Se va a transformar en otra cosa. Las consecuencias de este cambio sustancial son imprevisibles, sobretodo cuando no aparecen en el horizonte ninguno de los mecanismo de defensa bio-cultural que le permitan permanecer en su ser íntimo. La estulticia de los eurodirigentes ha llegado a colmo de plantearse, si Turquía debe formar parte de la Comunidad Europea.  Pareciera que su índole estuviera atacada mortalmente. En ese sentido conviene recordar a Martín Heidegger, último gran filósofo europeo, cuando afirmó: Sólo un Dios puede salvarnos.  

 

Pero Europa puede cambiar y retornar a aquella vieja idea de Charles de Gaulle quien en una conferencia de prensa el 29 de marzo de 1949 afirmó: “Sostengo que hay que hacer la Europa a partir de un acuerdo entre franceses y alemanes. Una vez la Europa hecha sobre estas bases incorporar a Rusia”. La misma idea pero a través de una metáfora fue expuesta, cuarenta años después,  por Juan Pablo II cuando al recibir al presidente ruso Gorbachov, sostuvo: “No olvide Ud. que Europa para vivir en plenitud necesita de los dos pulmones”(la Europa oriental y la occidental).

 

El pensamiento de estos dos grandes hombres públicos europeos, que vienen a representar la quintaesencia del pensamiento europeo en la materia, no solo por quienes lo expresan- el Papa y el Gral.de Gaulle, sino por la perdurabilidad e invariación del mismo por más de medio siglo, nos está indicando sin ambages que Europa para constituirse en un polo de poder alternativo al Anglo-Americano debe constituir un gran espacio europeo, que incluya indubitablemente a Rusia. Ese triángulo estaría dado por la unión de París- Moscú –Berlín. Ello  se puede completar con un irregular cuadrilátero suplementario cuyos vértices serían Berlín, Teherán, Nueva Delhi, Moscú y construir así un verdadero espacio euroasiático, idea sostenida en nuestro días por el pensador ruso Alexander Dougin.

 

 

Europa en este momento está en tensión, por un lado ya constituyó el eje París-Berlín que se opuso a la guerra de Iraq y el presidente Putin de Rusia habla de integrarse a “la casa Europa”, pero por otro lado tenemos, a Inglaterra, que ni siquiera se sumó al uso de la moneda común, a la que siguen como alumnos aplicados España, Italia, Holanda y Polonia sumándose a la estrategia de la potencia mundial talasocrática y entrando en una guerra que no les pertenece.

 

En cuanto al debate político-cultural también Europa está tensionada. Por un lado aquellos que como el ex presidente de Francia Giscard d´Estaing pretenden imponer una constitución no-cristiana a la Comunidad Europea de Naciones y así poder incorporar a Turquía sin objeciones y por otro, aquellos que pretenden una definición onto-histórico-teológica del Viejo Continente.

 

El despeje de estas tensiones y sus diferentes  modos de resolución afectaran la vida de Iberoamérica en el siglo que comienza.

 

Para terminar vayan dos ideas circunscriptas exclusivamente a Suramérica. Somos un espacio bioceánico de 18 millones de kilómetros cuadrados- el doble que los Estados Unidos- y  poblado por 326 millones de habitantes, que poseemos el 30 % de las reservas de agua dulce del planeta(Amazonia-Hielos continentales). Nosotros limitamos estratégicamente al naciente no con el océano Atlántico, como se nos enseña,  sino con Africa y al poniente con Asia. Como el Pacífico va a ser el “océano político” del siglo XXI, que los espumadores de mares, al decir de Carl Schmitt, van a controlar con uñas y dientes, porque por ahí va a pasar el cúmulo de sus transacciones. Nuestro espacio de maniobra allí va a ser nulo, por lo tanto debemos volcarnos al Atlántico, en donde podemos establecer una alianza con naciones emergentes de Africa como Nigeria o Sudáfrica y naciones culturalmente afines como Angola, Mozambique, Guinea Ecuatorial o Camerún, entre otras. Y tender un puente a Europa, que nos permita navegar y experimentar el Atlántico como un Mare Nostrum suramericano. Ello nos daría además una proyección sobre la Antártida de gran peso propio.

vendredi, 04 juin 2010

La Tara hispanica

La Tara hispánica

(a propósito del Príncipe de Asturias)

                                                                                               

Alberto Buela (*)

 

Una vez más, el más importante premio a “las humanidades”, el Príncipe de Asturias, ha sido otorgado a afamados ensayistas que no tienen nada que ver con España, la lengua de los hispanos y su particular tradición cultural.

Hace varias décadas atrás un muy buen pensador español, Gonzalo Fernández de la Mora, en un libro memorable, La envidia igualitaria, sostuvo que “la envida es el vicio capital de los hispanos y la causa decisiva de sus caídas históricas. La inferioridad de los españoles no sería intelectual sino emotiva”.

Nosotros, remedando a de la Mora, vamos a sostener que la imitación, el remedo, la mala copia, sobretodo del mundo centro europeo – Alemania, Inglaterra y Francia- es la tara hispánica. Y la frutilla del postre es este Premio Príncipe de Asturias a Alain Touraine y Zygmunt Barman, dos personajes que en el mundo del pensamiento más profundo y serio, no significan absolutamente nada, el primero por oportunista (se ha acomodado toda su vida a las más variadas circunstancias políticas para quedar al calor del poder) y el otro, por sionista y loobista pro hebreo.

 

Cómo será el carácter acomodaticio de Touraine que inmediatamente declaró: “Este premio aumenta aun más mi conciencia de ser un intelectual latino”.  Una vez más la apelación a la latinité, cuando les conviene. Este llamado a “lo latino” nos recuerda a Chevalier, el canciller de Napoleón III, que inventó el concepto de “latinidad” para poder justificar su intervención en Méjico con motivo de la aventura un príncipe europeo, Maximiliano, para Méjico.

Ya lo dijo Jorge Luís Borges: no ve venga a vender eso de la latinidad que yo solo veo argentinos, colombianos, españoles o italianos. Es un invento francés para curarse en salud en tierras americanas. Y Borges sería conservador y antiperonista, pero era un parapeto a la mediocridad.

En cuanto a Bauman respondió con el típico argumento hebreo de que ellos son “maestros de humanidad”, sobre todo cuando son laicos y agnósticos, y así dijo: “el Premio es un reconocimiento a mi modesta contribución a la autoconciencia de la humanidad”.

Pero si la humanidad no tiene manos ni pies, decía Kierkeggard, a lo que agregaba don Miguel de Unamuno: el adjetivo humanus me es tan sospechoso como su sustantivo abstracto humanitas. Ni uno ni otro, sino el sustantivo concreto: el hombre”. Y Proudhon más tajante aún sostenía por doquier: “cada vez que escucho humanidad, sé que quieren engañar”.

 

Habiendo tantos y tan buenos ensayistas, sociólogos, filósofos, historiadores, politólogos de lengua española van a buscar a dos intelectuales más mediáticos que sustanciales, más frívolos que serios, a dos intelectuales que están reñidos con lo mejor de la tradición cultural de los pueblos hispánicos.

 

Es que la tara hispánica es la imitación. La imitación al estilo de un espejo opaco como es este caso, que imita y encima imita mal, en forma desdibujada.

 

Nosotros por nuestra profesión lo vemos en la filosofía y más específicamente en la filosofía antigua donde los estudiosos de lengua castellana se desesperan por citar autores ingleses, franceses y alemanes dejando de lado la citación de nosotros mismos. Todas las traducciones del griego al castellano hecha por, generalmente buenos investigadores de origen hispano, comentan traducen e interpretan al modo los scholars ingleses o franceses o alemanes, y cuando citan algún trabajo en lengua castellana es el de ellos mismos y de nadie más. Esto último no hace más que confirmar la envidia señalada por de la Mora.

Los investigadores de origen hispano han cedido ante “los especialistas de lo mínimo” la interpretación de la filosofía, al menos de la antigua, y han postergado aquello que fue signo de la inteligencia hispana durante siglos: “la visión del todo de lo estudiado”. Esa buena herencia de Grecia y Roma expresada por Platón: “dialéctico es el que ve el todo y el que no, no lo es” (Rep 537 c 14-15).

La diferencia entre el análisis moderno y el clásico es que el primero descompone hasta lo mínimo y allí se queda, mientras que el clásico, descompone hasta lo mínimo para luego sintetizar en “un todo” de sentido.

Esta carrera de ciegos para ver la nada ha que se ha sometido el pensamiento de lengua y raíz hispana en los últimos cincuenta años ha producido en filosofía, además de los especialistas de lo mínimo, lo que podemos llamar “la viaraza gallega”. Esto es, la reacción intempestiva y arbitraria al estilo de del Valle Inclán.

El mejor ejemplo que conozco, obviamente, es la de los traductores al castellano de las obras de filosofía, y ello se nota especialmente en los tecnicismos filosóficos, cuyo mayor productor ha sido Aristóteles.

Así las palabras técnicas de uso universal en filosofía como sustancia, accidente, acto, potencia, ser, ente, felicidad, virtud, etc., que son fundamentales para entenderse entre los filósofos, han sido traducidas de las maneras más arbitrarios y caprichosas que se nos puedan ocurrir, por los investigadores desde hace unos cincuenta años para acá.

Vayan algunos ejemplos: a) García Yebra traduce en su Metafísica el término griego ousia por “esencia”, en lugar de sustancia como se lo tradujo durante dos mil años. b) Hernán Zucchi (argentino) se “le ocurre” traducir ousia por “entidad”, provocando un galimatías ininteligible en su traducción de la Metafìsica de Aristóteles. c) También “se le ocurre” a Pallí Bonet (que debe ser catalán, pero la viaraza gallega lo alcanza) al traducir la Ética Nicomaquea el término técnico héxis que se traduce históricamente por hábito, por la expresión “modo de ser”, con lo cual no se entiende nada. d) Eduardo Sinnott (argentino) realiza la mejor traducción anotada de la Ética Nicomaquea, pero la echa a perder cuando “se le ocurre” dejar de traducir el término eudaimonía  por felicidad, para traducirlo por “dicha”. Esto es, gozo individualista del hombre vulgar o dicharachero. d) Quintín Racionero que “se le ocurre” en su anotada traducción de la Retórica, no traducir un término fundamental como “antístrofa”, y luego cuando tiene que traducir otra palabra fundamental como phornimós, en lugar de hacerlo por “prudente”, por un prejuicio anticristiano, lo traduce por el término burgués “sensato”. f) Dejo para el final el caso de Mengino Rodríguez quien en su reciente traducción del Protréptico (2007) ignoró supinamente la nuestra (1983) y se atribuyó a sí mismo la primera traducción del texto aristotélico.[1]

 

Esta tara “gallega” es la que marca la capitis diminucio con la cual estos se aproximan a los estudios clásicos. Sin ir más lejos el año pasado fue rechazado un proyecto presentado por la muy buena filósofa catalana Margarita Mauri de investigación sobre la filosofía práctica de Aristóteles  porque,”el grupo solicitante no acredita publicaciones en espacios internacionales reconocidos “(léase: revistas inglesas, francesas o alemanas) en torno a los estudios aristotélicos…..los participantes en el proyecto no han optado por los espacios de discusión aristotélica más consolidados (revistas internacionales, etc).” afirmó el Comité de selección del Ministerio de ciencia e innovación de España. Tuvo que aparecer una carta del profesor norteamericano de la insignificante Northwestern University para que “los gallegos” del comité de selección aceptaran el proyecto.

 

Hoy el más encumbrado tribunal en estudios humanísticos del mundo hispano acaba de otorgarle el premio más importante en euros (son 50.000) a dos personajes, que con su obra y su prédica denostan al mundo que los premia. En el fondo, este encumbrado tribunal hispánico se ha portado como un cabrón, ha gastado los dineros de los españoles en premiar a aquellos cuya producción y verba ha ido siempre contra España y aquello que lo hispano representa en el mundo.

 

(*) arkegueta, aprendiz constante, eterno comenzante.

alberto.buela  gmail.com

 

 



[1] Confrontar nuestro artículo A propósito del Protréptico de Aristóteles, en Internet.

mercredi, 02 juin 2010

Lula à Téhéran: trouver une solution diplomatique

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Ferdinando CALDA:

 

Lula à Téhéran: trouver une solution diplomatique

 

A la mi-mai 2010, le Président brésilien Luiz Inacio Lula da Silva a réalisé la tâche la plus délicate de sa tournée diplomatique en Europe et au Proche Orient. Après s’être rendu à Moscou et à Doha (au Qatar), Lula est arrivé à Téhéran pour discuter avec le Président iranien Mahmoud Ahmadinedjad du programme nucléaire iranien et pour trouver un accord sur le traitement de l’uranium, afin d’éviter l’application de nouvelles sanctions.

 

C’est là un projet ambitieux qui, apparemment, bénéficie de l’approbation des autres pays impliqués dans les tractations. Quelques jours auparavant, le Président français Nicolas Sarkozy avait téléphoné à son homologue de Brasilia pour lui exprimer son “appui total”; le président russe, lui aussi, a exprimé l’espoir de voir la mission de Lula “couronnée de succès”. Toutefois, il a ajouté que la possibilité d’un succès “ne dépassait pas 30%”. Le Président russe a encore précisé que la visite de Lula à Téhéran risque bien d’être “l’ultime possibilité pour l’Iran” d’éviter les sanctions.

 

A Washington aussi, on a parlé de la “dernière opportunité”. Medvedev, lors d’une longue conversation avec Barack Obama, a expliqué à son collègue américain, “qu’il faut donner une chance au président du Brésil afin qu’il puisse expliciter toutes les raisons de la communauté internationale pour convaincre l’Iran à coopérer”; au contraire, la secrétaire d’Etat Hillary Clinton a appelé le ministre turc des affaires étrangères (la Turquie, avec le Brésil, cherche à jouer un rôle d’intermédiaire entre l’Iran et les pays occidentaux) pour lui rappeler le “manque de sérieux” de Téhéran et pour souligner la nécessité “d’intensifier les efforts pour exercer une pression majeure sur l’Iran”. En outre, des fonctionnaires du gouvernement américain ont fait savoir qu’un message similaire a été adressé au ministre brésilien des affaires étrangères.

 

Pour sa part, le Président Lula a toujours défendu le “droit sacro-saint” de l’Iran (et du Brésil) à développer un programme nucléaire civil. Cette position est évidemment mal vue aux Etats-Unis et chez leurs alliés, qui digèrent mal la rencontre entre Lula et Ahmadinedjad (tout en sachant, bien entendu, que le Brésil et la Turquie sont membres non permanents du Conseil de sécurité de l’ONU). “J’ai parlé à Obama, à Sarkozy, à Berlusconi, à Merkel et à Brown”, a rappelé le Président brésilien, “et aucun d’entre eux n’a jamais appelé Ahmadinedjad. Ils font de la politique au nom d’autres”.

 

En payant de sa propre personne dans les négociations délicates sur le nucléaire iranien, Lula cherche à gagner du prestige au niveau international (on parle même d’une prochaine candidature au poste de secrétaire général de l’ONU). Toutefois, si l’on ne parvenait pas à un accord, le Président brésilien risque fort bien de s’exposer aux attaques de ceux qui, comme le ministre français des affaires étrangères Kouchner, accusent le Brésil d’être “abusé” par Téhéran.

 

Ferdinando CALDA.

( f.calda@rinascita.eu ).

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 15/16 mai 2010, http://www.rinascita.eu/ ).

lundi, 24 mai 2010

Omar Torrijos, een Panamees solidarist

Omar Torrijos, een Panamees solidarist

Aan het begin van de 20ste eeuw was Panama nog een gewone Colombiaanse provincie. Nadat Frankrijk in de jaren 1880 met ingenieur Ferdinand de Lesseps tevergeefs gepoogd had om een kanaal door de Panamese landengte te graven, eiste de VS in de eerste jaren van de 20ste eeuw dat Colombia deze landengte zou overdragen aan een Amerikaans consortium, zodat een kanaal kon gegraven worden om de Atlantische en Stille Oceaan te verbinden. Toen Colombia dit weigerde, stuurde de Amerikaanse president Theodore Roosevelt in 1903 oorlogschepen, die troepen aan land zetten in Panama. Hierdoor werd deze Colombiaanse provincie in november 1903 tegen haar wil ‘onafhankelijk’ gemaakt en installeerde de VS een marionettenregime van oligarchen.

Amper 2 weken later werd in het Witte Huis te Washington een verdrag ondertekend tussen Amerikaans Minister van Buitenlandse Zaken John Hay en de Franse ingenieur Philippe-Jean Bunau-Varilla, die betrokken was bij de mislukte Franse poging om een kanaal te graven én tevens een van de aanstichters van de afscheiding was geweest. Bij dat verdrag waren géén vertegenwoordigers van Panama betrokken en werd een zone van 8,1 km breed aan weerszijden van het kanaal – 1432 km² – “voor eeuwig” tot Amerikaans eigendom verklaard. Dit werd de Panamakanaalzone, waarvan Balboa de hoofdstad was. Verder stipuleerde dit verdrag dat de VS ten allen tijde militair mochten interveniëren in Panama. Aldus kon de VS starten met de bouw van het met Amerikaans kapitaal gefinancierde Panamakanaal, dat in 1914 klaar was.

 

Tot 1968 werd Panama geregeerd door een oligarchie van rijke families met nauwe banden met Washington. Dit waren liberaal-kapitalistische dictators die er op toezagen dat hun land de belangen van de VS bleef dienen. Voorts ondersteunden ze ook de CIA en de NSA, evenals grote Amerikaanse multinationals zoals Standard Oil van Rockefeller en United Fruit Company van George Bush sr. (die toen Amerikaans ambassadeur bij de VN was). United Fruit Company was één van de grootste en meest onderdrukkende landeigenaren in Centraal-Amerika en had een nauwelijks verhuld bondgenootschap met de CIA en de Centraal-Amerikaanse legers. Deze bananenmultinational werd vanwege zijn onaantastbare politieke en economische invloed in Centraal-Amerika ‘El Pulpo’ (de octopus) genoemd. Na diverse fusies en naamsveranderingen heet het bedrijf sinds 1984 Chiquita Brands International. Markant is ook nog dat deze multinational in 2007 in de VS veroordeeld werd tot een boete van 25 miljoen dollar wegens het financieel ondersteunen van een terroristische organisatie in Colombia …

 

Het kwam bij de Panamese oligarchen niet op om het lot van de gewone Panamezen te verbeteren, die in schrijnende armoede leefden of de facto slavenarbeid moesten doen op de grote Amerikaanse plantages en bedrijven in Panama. Als dank intervenieerde de VS een tiental keer in Panama om hen aan de macht te houden. Met het afzetten van Arnulfo Arias, Panama’s laatste dictator, en het aan de macht komen van Torrijos in 1968 nam Panama’s triestige geschiedenis plots een radicaal andere wending.

Omar Torrijos (1929-1981) was president van Panama van 1968 tot zijn dood bij een mysterieus vliegtuigongeval in 1981. Hij werd geboren als zesde in een gezin van 12 kinderen in de plattelandsstad Santiago, waar zijn ouders leerkracht waren op een school. De jonge Omar bemachtigde tijdens zijn secundair onderwijs een studiebeurs voor de militaire academie in El Salvador, waar hij het tot luitenant bracht. In 1952 trad Torrijos toe tot de Nationale Garde, de elite-eenheid van het Panamese leger, en promoveerde in 1956 tot kapitein. Hij mocht verder studeren aan de School of the Americas (cfr. infra) in de Panamakanaalzone. In 1966 werd Torrijos tot luitenant-kolonel benoemd. De Nationale Garde verwierf in de jaren 1960 steeds meer steun onder de arme Panamezen.

 

Door de militaire coup van 1968 werd dictator Arnulfo Arias in ballingschap naar Miami gestuurd en werd Omar Torrijos president, hoewel hij niet actief deelgenomen had aan de coup. Na zijn overwinning in de interne machtsstrijd met kolonel Boris Martinez en het overleven van een mislukte staatsgreep door andere officieren vestigde Torrijos zijn macht door het opheffen van alle politieke partijen, het uitschakelen van progressieve amokmakers en het verslaan van de guerrilla’s in West-Panama.

President Omar Torrijos tussen zijn volk.

De Panamezen beschouwden Torrijos als de eerste Panamese president die effectief het arme, Spaanssprekende volk vertegenwoordigde, want net zoals nu bij ons was ook de Panamese politieke en economische elite volledig vervreemd van het volk. Deze oligarchie sprak zelfs Engels in plaats van Spaans. President Torrijos luisterde daarentegen naar de berooiden, liep door hun sloppenwijken, hield bijeenkomsten in achterbuurten waar de ‘democratische’ politici niet durfden komen, hielp werklozen aan werk en gaf ondanks zijn beperkte financiële middelen vaak geld aan door ziekte of onheil getroffen gezinnen.

 

President Torrijos introduceerde een reeks sociaal-economische hervormingen om de armoede terug te dringen en focuste verder in het bijzonder op het strategische Panamakanaal. Hij was een fel verdediger van Panama’s soevereiniteit en van Panama’s aanspraken op het Panamakanaal en was tevens vastbesloten om de smadelijke valkuilen, waarin zijn land voordien getrapt was, te vermijden. Tot Torrijos’ machtsovername kampte de Amerikaanse satellietsstaat Panama immers met politieke instabiliteit.

 

Torrijos’ medeleven met zijn volk verspreidde zich tot ver buiten Panama. Hij wou van Panama een toevluchtsoord voor politiek vervolgden van beide politieke zijden maken. Daarnaast spande hij zich in om een eind te maken aan de verdeeldheid die veel Latijns-Amerikaanse landen verscheurde. Heel Latijns-Amerika beschouwde Torrijos als een voorvechter van vrede en zwaaide hem daarvoor lof toe. Zijn kleine volk van 2 miljoen mensen diende als model van sociale hervormingen en als een inspirerend voorbeeld voor veel wereldleiders, zoals Moammar Kadhafi van Libië.

 

De charismatische en moedige Torrijos stónd voor zijn ideeën: Panama was voor de eerste keer in zijn geschiedenis geen marionet van Washington en ook de verleidelijke aanbiedingen van Moskou en Peking sloeg hij af. Hij geloofde immers wel in sociale hervormingen en het bieden van hulp aan de armen, maar zag géén heil in het communisme. In tegenstelling tot Fidel Castro wou Torrijos zijn land bevrijden van de VS zonder allianties aan te gaan met de vijanden van de VS. Dat moest overigens ook wel, want rondom het strategisch zeer belangrijke Panamakanaal zou het Amerikaanse wereldrijk nooit een ‘tweede Cuba’ hebben laten tot stand komen.

 

De arrogante houding van de VS tegenover de rest van de wereld gaat terug op de Monroe-leer, die in 1823 geproclameerd werd door president James Monroe. In de jaren 1840 bouwde het Manifest Destiny daarop verder: de verovering van Noord-Amerika, de daarbijhorende vernietiging van de Indianen, bizons, bossen, … en de ontwikkeling van een economie die gebaseerd is op permanente uitbuiting van arbeiders en natuurlijke hulpbronnen zou Gods wil geweest zijn. Op basis hiervan werd de volgende 2 decennia verklaard dat de VS bijzondere rechten hadden op het héle Amerikaanse continent, waaronder het recht om militair tussen te komen in Latijns-Amerikaanse landen die weigerden zich te schikken naar de Amerikaanse wil. President Theodore Roosevelt beriep zich hier dan ook op om zijn militaire interventies in Caraïbische eilandstaten en Venezuela en de ‘bevrijding’ van Panama te rechtvaardigen. Ook zijn opvolgers Taft, Wilson en Franklin Roosevelt steunden er zich op om de macht der VS in heel Latijns-Amerika uit te breiden. Na de Tweede Wereldoorlog zwaaiden de Amerikanen met een – meestal vermeende – ‘communistische dreiging’ om dit interventieconcept uit te breiden tot álle landen in de wereld.

 

President Torrijos was na Castro en Allende de derde Latijns-Amerikaanse leider om de Amerikaanse langetermijnoverheersing om te buigen, doch hij was de enige van hen die zich níet aansloot bij een communistische ideologie én die tevens zijn beweging niet als revolutionair promootte. Hij stelde simpelweg dat Panama eigen rechten had op soevereiniteit over zijn volk, zijn grondgebied én op het Panamakanaal, evenals dat deze rechten net zo van God gegeven waren als die van de VS. Verder kantte hij zich sterk tegen de School of the Americas en het Amerikaanse opleidingscentrum voor tropische oorlogsvoering in de Kanaalzone. De VS leidde daar immers jarenlang Latijns-Amerikaanse militairen en bestuurders op in verhoortechnieken, het uitvoeren van geheime operaties en militaire tactieken om tegen guerrilla’s te strijden en om hun bezittingen en die van multinationals te beschermen. Daarnaast konden zij daar ook relaties opbouwen met hoge Amerikaanse militairen. De Amerikanen trainden er dus de liberaal-totalitaire doodseskaders en de beulen die in veel Latijns-Amerikaanse landen pro-Amerikaanse kapitalistische regimes in het zadel hielden. Torrijos maakte de VS duidelijk dat hij deze opleidingscentra weg wou uit de Kanaalzone én dat hij die Kanaalzone als Panamees grondgebied beschouwde.

 

Tot aan Torrios’ aantreden telde Panama meer internationale banken dan gelijk welk ander Latijns-Amerikaans land, waardoor Panama het ‘Zwitserland van Amerika’ werd genoemd. Klanten werden er niet veel vragen gesteld. De Kanaalzone stond vol met enorme gebouwen, keurige gazons, prachtige huizen, golfbanen, winkels, rechtbanken, scholen en bedrijven, die allemaal Amerikaans bezit waren en vrijgesteld waren van de Panamese wetgeving en fiscaliteit. Net daarbuiten crepeerden de arme Panamezen in hun krottenwijken. De Kanaalzone was met andere woorden een (rijk) land in een (arm) land.

 

Belangrijk was dat Torrijos zich nadrukkelijk bleef distantiëren van de USSR, China en Cuba en een eigen, zelfstandige, Panamese weg wou bewandelen. Eén die de rechten der armen wou garanderen. Uiteraard wist hij ook dat de aangeboden Amerikaanse ontwikkelingshulp een schijnvertoning was: de bedoeling was hém rijk te maken en zijn land op te zadelen met enorme schulden, zodat Panama voor eeuwig in de greep van de VS, Wall Street en de multinationals zou blijven. Torrijos besefte dat zijn weigering om zijn volk te verkopen aan deze buitenlandse machten zou gezien worden als een bedreiging, omdat dit tot de teloorgang van het corrupte systeem van ontwikkelingshulp zou leiden.

 

In 1977 slaagde Torrijos er na jarenlange onderhandelingen met de Amerikaanse president Carter over het Panamakanaal in om het Torrijos-Carterverdrag te sluiten. Heel de wereld had met grote belangstelling naar deze onderhandelingen gekeken: zou de VS doen wat de rest van de wereld als rechtvaardig beschouwde en dus het kanaal overdragen aan Panama óf zou de VS zijn mondiaal interventieconcept proberen herstellen? Torrijos’ daden hadden immers gevolgen die veel verder reikten dan Panama en de geschiedenis van Latijns-Amerika wemelt van de dode helden: een systeem dat gebaseerd is op het omkopen van politieke leiders heeft immers een hekel aan politieke leiders die weigeren zich te laten omkopen. De Panamese president had daarom de druk op de VS opgevoerd door publiekelijk te suggeren dat de Amerikaanse geheime diensten van plan waren om hoge Panamese militairen om te kopen om de onderhandelingen te saboteren. En Torrijos kreeg het Panamakanaal inderdaad terug: met het Torrijos-Carterverdrag verkreeg Panama dat in 1979 de Panamakanaalzone gezamenlijk eigendom werd van de VS en Panama. Tevens zou Panama in 2000 de volledige eigendom in handen zou krijgen. De VS mocht echter wel het Panamakanaal blijven ‘beschermen’.

 

In zijn in 1997 verschenen boek ‘America’s Prisoner’ onthulde Torrijos’ opvolger Manuel Noriega, die toen door de Amerikanen gevangen gehouden werd na de illegale Amerikaanse bezetting van Panama in 1989, dat Torrijos het militaire plan ‘Huele a quemado’ – Vrij vertaald: ‘Het ruikt hier aangebrand’ – klaar had om het Panamakanaal te saboteren indien het Torrijo-Carterverdrag niet geratificeerd werd door het Amerikaanse parlement, zodat het kanaal voor de Amerikanen voor lange tijd onbruikbaar zou zijn. Torrijos had in de jaren 1970 inderdaad steeds gewezen op de mogelijkheid van ‘een’ – zonder te specifiëren dat deze van Panamese zijde kon uitgaan – aanslag op het kanaal om de VS te tonen dat het hem menens was. Daartoe waren Panamese militairen, explosievenexperts en duikers enkele maanden vermomd als boeren en vissers geïnfiltreerd in de Kanaalzone om de aanval op het kanaal en op de Panama-Colón-spoorweg voor te bereiden. Zij zouden tot actie overgaan na een geheime melding in code in een radioprogramma. Toen bekend raakte dat het Amerikaans parlement het verdrag had goedgekeurd, werd de operatie afgeslast.

 

In de jaren 1970 vatte Torrijos het plan op om een nieuw Panamakanaal aan te leggen, op zeeniveau en zonder sluizen (in tegenstelling tot het bestaande Panamakanaal), dat grotere schepen zou aankunnen. Aangezien Japanse bedrijven de belangrijkste klanten van het Panamakanaal waren, had Torrijos Japanse investeerders bereid gevonden om dit project te financieren. Dit hield uiteraard ook in dat het nieuwe kanaal door Japanse bedrijven zou gebouwd worden, waardoor dan weer het dan in Panama actieve Amerikaanse bouwbedrijf Bechtel buiten spel zou komen te staan. Dit was één van de grootste bouwondernemingen ter wereld én het wemelde er van de vriendjes van Nixon, Ford en George Bush sr., waardoor de nauwe band van Bechtel met de Republikeinse Partij buiten kijf stond. Daarnaast betekende dit project voor een nieuw Panamakanaal tevens dat de VS nog vóór het jaar 2000 zouden zijn uitgespeeld in Panama. Het hoeft geen betoog dat dit uiteraard zeer slecht werd onthaald in de VS.

 

Het vliegtuigongeluk in 1981 waarbij Torrijos omkwam, rook dan ook bijzonder sterk naar een moordaanslag door de Amerikaanse geheime diensten en leidde in 1991 tot een rechtszaak in Miami. Torrijos’ opvolger Noriega, kon met documenten aantonen dat er Amerikaanse pogingen geweest waren om én president Torrijos én zijn opvolger Noriega te vermoorden, doch de Amerikaanse overheid slaagde er met juridische trucs in om dit bewijsmateriaal niet toe te laten in de rechtszaak. Ex-NSA-agent John Perkins schreef in zijn in 2004 verschenen boek ‘Bekentenissen van een economische huurmoordenaar’ dat de CIA Torrijos’ vliegtuig opblies met een bom die in een bandrecorder aan boord gebracht was. En de reden was inderdaad Torrijos’ verregaande contacten met Japanse zakenlui die een nieuw en groter Panamakanaal wilden financieren én aanleggen.

De les die we uit Torrijos’ solidaristische beleid kunnen trekken, is dat het mogelijk is om ons te ontworstelen aan de greep van grootmachten, multinationals en internationale bankiers en om te doen wat er moet gedaan worden voor ons volk: het voeren van een rechtvaardig en sociaal beleid.

 

Dit artikel verscheen in Confiteor!, jg.1, nr.2, Lente 2010

mercredi, 19 mai 2010

Breve sobre indios e indigenistas

Jes3.jpgBreve sobre indios e indigenistas

 

Alberto Buela(*)

 

Ya empezamos mal hablando de indios cuando lo políticamente correcto es hablar de aborígenes, término que viene del sufijo latino ab que indica procedencia, más el sustantivo origo-inis que significa origen, nacimiento. Cuando decimos aborigen nos queremos referir a alguien originario del suelo donde vive.

Aparece aquí la primera contradicción los indigenistas que se auto titulan con un término del latín como aborigen, en lugar del indio que es mucho más genuino y originario. Es verdad que nació de un error de Colón, pero eso es todo, no existió una manipulación ex profesa del término, como ocurrió y ocurre con el de aborigen.

Ahora bien en el caso de los aborígenes de la Patagonia y de la Pampa argentina no son originarios para nada, eso no es cierto, es una falsedad de toda falsedad. Los que hoy se denominan mapuches son un cuento, son un bluff, lo decimos en inglés porque la oficina política de estos “indios” está en Londres. Ellos llegan a La Pampa a partir de 1770 y eran pehuenches de Ranquil (hoy Chile) y se instalan en pleno cladenar (montes del Caldén) de la Pampa central, llamada también Mamil Mapu (país del monte). Vemos como estos indios son menos originarios que los criollos viejos de la Pampa. Y en la Patagonia, cuando invadieron por esa misma época, mataron a los tehuelches sus verdaderos habitantes originarios.

Sobre este tema se puede consultar el excelente artículo de Fredy Carbano Julio Argentino Roca y la gran mentira mapuche que está en Internet.

 

Es sabido que hoy día uno de los temas y asuntos más aprovechados políticamente por el progresismo, tanto de izquierda como liberal, es el del indigenismo.

No existe prácticamente ningún gobernante- nacional o provincial- de Nuestra América que no cante loas al mundo precolombino, a los indios, a los autóctonos, a los pueblos originarios.

Ni que decir de los militantes políticos del progresismo  y los intelectuales del pensamiento único, el tema está comprado en bloque. Es como si una voz de orden venida del imperialismo yanqui dijera: “Así como para nosotros el único indio que vale es el indio muerto, para Uds. lo único valioso es: que todos sean o se declaren indios”.

 

Para apoyar este principio de dominación política y cultural nos han vendido, y nuestra intelligensia  ha comparado, la teoría del multiculturalismo que hace pedazos la poca unidad nacional que hemos logrado luego de 500 años de existencia. Esta teoría ruin se expresa en el apotegma: la minorías tienen derechos por el sólo hecho de ser minorías, tenga o no algún valor lo suyo.

¿y la voluntad de las mayorías? Solo sirve para convalidar en el momento de votar a la élite ilustrada que gobernará para las minorías, llámense grupos concentrados de la economía (Etztain, Grobocopatel, Mildin, Werthein), de la cultura (gays, lesbianas, bisexuales, homosexuales), de la farándula mediática (Leuco, Eliaschev, Sofovich, Gelblung), del pensamiento (Feimann, Forster, Kovaldof, Abraham). Gringos de la peor laya que viven esquilmando a nuestros pueblos bajo la mascarada democrática de servirlos.

Y así como es políticamente correcto criticar a los fumadores y a los cazadores de ciervos, por el contrario, es políticamente incorrecto criticar a cualquiera de las mil variantes del indigenismo americano.

La crítica al indigenismo inmediatamente nos demoniza, porque el indigenismo es un mecanismo más de dominación del imperialismo y como tal funciona. Su verborrea criminaliza a quien se opone. Su lenguaje busca despertar sentimientos primarios a dos puntas: se presentan como víctimas y criminaliza a quienes se le oponen o ponen simplemente reparos.

Lo grave del indigenismo es que en nombre de las falsas razones de origen que dan ellos, nos quitan, al menos a los criollos americanos, nuestro lugar de origen. Y nosotros los criollos bajo la firma de gauchos, huasos, cholos, montuvios, jíbaros, ladinos, gaúchos, borinqueños, charros o llaneros somos lo mejor, el producto más original que dio América al mundo. Ya lo decía Bolivar sobre él mismo: ni tan español ni tan indio.

Es este mundo criollo que dio el barroco americano y que peleó por la independencia y libertad de nuestros pueblos. Este mundo criollo que tuvo sus mejores frutos intelectuales en la universidad de Chiquisaca, llamada La Plata, Charcas y hoy Sucre. ¿O por qué se piensan que Bolivia, así pobre y desmantelada como la vemos, ha sido la que mayor cantidad de pensadores nacionales hispanoamericanos ha dado en el siglo XX? Porque funciona sobre una matriz de pensamiento que tiene medio milenio.

Qué es ser criollo sino la mejor forma de sentir lo nuestro, lo propio, lo auténtico. No es necesario andar vestido de gaucho, huaso o llanero, ni tener diez generaciones de americanos. Criollo puede ser un bancario, y un plomero, un cura o un médico, un rico o un pobre, el inmigrante italiano o alemán, el turco o el judío. Lo criollo es la captación del valor de lo genuino en nosotros. La valoración del modo gaucho de vida con sus costumbres y tradiciones. No porque nos vistamos de gauchos vamos a ser más criollos, yo conozco tantos gauchos de tienda. Hace muchos años, Juan Carlos Neyra, el padre del Colorado Neyra, escribió: Criollo es aquel que interpreta al gaucho y lo criollo es un modo de sentir, una aproximación afectiva a lo gaucho. Es por  eso que lo gaucho es necesariamente criollo pero un criollo puede no ser gaucho. De allí que esos viejos camperos de antes decían: Nunca digas que sos gaucho, que los otros lo digan de vos.[1]

 

Hace unos días escribió Solíz Rada desde Bolivia un brillante artículo El canciller y las hormigas donde el canciller de su país afirma: “para nosotros los indios están primero las mariposas y las hormigas y en último lugar está el hombre. A lo que comenta Solíz: Lo inaceptable es separar la preservación de la Madre Tierra de la defensa del género humano. Recuérdese que los nazis también pensaban que judíos y gitanos valían menos que hormigas y bacterias.” Lo postulado por su canciller viene a coincidir con los planes de John Rokeffeller III de control de la natalidad de los países del tercer mundo.

El historiador y amigo chileno Pedro Godoy nos dice: “Chile no escapa del plan desmembrador. Modas primermundistas nos contaminan: tatuajes, grafitis, piercing, swingers, punkies… Ahora adquiere fuerza otra: los indigenista bajo el grito “cada etnia una nación” ¡Inquietante!. Los asesores rubios de esta campaña motorizan, hoy como ayer, la leyenda negra. Aportan así a acentuar nuestra crisis de identidad”

La instrumentación política que está detrás del indigenismo la hace notar muy bien Félix Rodríguez Trelles cuando afirma: “Los mal llamados "originarios" son el brazo de la quinta columna interior. El experimento imperial ha logrado un éxito notable al controlar Bolivia con el cocalero manejado desde atrás por García Linera (el Cohn-Bendit boliviano), y acechan con fuerza en Ecuador (no es casual que a Correa los "originarios" lo ataquen cuando repudia la deuda externa)” (cfr. En Internet su artículo Los pueblos originarios: una operación de pizas).

Tanto Andrés Solíz Rada como Pedro Godoy, dos hombres de la izquierda nacional suramericana, como Trelles un hombre del peronismo genuino, quieren poner el acento y distinguir entre la existencia y primacía de la identidad de la comunidad política de origen (aquella que nos da el Estado-nación al que pertenecemos)  y una identidad adquirida o secundaria que es la que cada uno puede darse o crearse por estudio o convicciones (comunidad mapuche, gaucha, gringa, judía o árabe). Si no tenemos en cuenta esta distinción política fundamental caemos en el error todos los separatismos.

 

Y así todo suma y sigue, y podríamos poner mil ejemplos.

 

De este indigenismo se desprende la primera mentira mayúscula: la matanza de indios que realizaron los españoles fue de 120 millones según Escarrá Malavé, presidente de la comisión de relaciones exteriores del Congreso de Venezuela, de ahí que Chávez hable equivocadamente de “holocausto aborigen”. De 70 millones según el sociólogo brasileño Darcy Ribeiro y así siguen los números más inverosímiles.  Pero estas cifras son solo suposiciones artificiosas teñidas por el odio a España y lo español producto de la “leyenda negra” creada por las oficinas políticas de Holanda e Inglaterra.

El filósofo e historiador mejicano José Vasconcelos, nada hispanista, hace constar en su Breve historia de México que no había más de seis millones de indios en todo el norte de América, tesis que años después convalidarían las investigaciones del antropólogo W. Denevan.  Mientras que don Angel Rosemblat, profesor de historia de América colonial y nada sospechoso de prohispanismo, estimó una población a la llegada de Colón de trece millones y medio para toda América. La que disminuyó en gran parte no por las matanzas, que ciertamente las hubo sobre todo en los primeros treinta años de la conquista,  pero ni por asomo con la magnitud que se les otorga, sino por las epidemias que los españoles trajeron: gripe, viruela, sífilis, etc.

Angel Rosemblat nació en Polonia en 1902 en el seno de una familia judía y llegó a Buenos Aires a los seis años, realizó sus estudios en la Universidad de Buenos Aires, se perfeccionó en Europa y en 1946 se afincó en Venezuela contratado por ese gran pensador venezolano que fue Mariano Picón Salas, y allí murió en 1984.Este filólogo y antropólogo cultural se destacó por su continuado trabajo de treinta años sobre el tema de la población originaria de América a la llegada de Colón y en un libro memorable que tiene muchas ediciones La población de América en 1492. Viejos y nuevos cálculos, FCE, México, 1967.

Afirma Pierre Chaunu, historiador francés y protestante, el mayor revisionista de la Revolución Francesa junto con Francois  Furet, escribe: “La leyenda antihispánica en su versión norteamericana (la europea hace hincapié sobre todo en la Inquisición) ha desempeñado el saludable papel de válvula de escape. La pretendida matanza de los indios por parte de los españoles en el siglo XVI encubrió la matanza norteamericana de la frontera Oeste, que tuvo lugar en el siglo XIX. La América protestante logró librarse de este modo de su crimen lanzándolo de nuevo sobre la América católica.

La tenaz y reiterativa acusación de genocidio a los españoles por parte de los indigenistas contrasta con el silencio sobre uno de los episodios más terribles y duraderos, la matanza y explotación de indios y negros por parte de las oligarquías americanas ilustradas luego de la independencia. Así durante casi todo el siglo XIX las oligarquías locales masónicas y liberales bajo régimen de esclavitud  hicieron desaparecer pueblos enteros como los charrúas en Uruguay, los mayas en México y varias etnias en el Brasil amazónico.

 

Nosotros al no ser antropólogos culturales, sólo conocemos tres trabajos serios sobre el tema en Argentina: a) los de Ernesto Sánchez Ance para el área norte del país. b) el libro del antropólogo  Jorge Fernández C., fallecido hace unos años, titulado Historia de los indios ranqueles, Bs.As. Ed. Inst.Nac.Antropología y Pensamiento Americano, 1998, en donde con lujo de detalles desarma el mito de los indios pampas o ranqueles como originarios, sino que llegaron a La Pampa en 1770 corridos de Chile por los españoles y vivieron allí, gracias a la industria sin chimeneas –el malón y el cautivaje -  hasta 1879, cuando cae Baigorrita, su último cacique. c) el libro de P. Meinrado Hux: Memorias de un ex cautivo Santiago Avendaño, Bs.As. Ed. Elefante Blanco, 1999. En donde se muestra palmariamente cómo era la tan mentada cultura indígena, con sus sacrificios humanos y el desollar viva a la gente.

 

Invitamos a los que quieran profundizar, a leer estos trabajos que están al alcance de todos.

 

 

 

(*) alberto.buela@gmail.com

Arkegueta, apendiz constante, mejor que filósofo

 



[1] Neyra, JC: Introducción criolla al Martín Fierro, Huemul. BsAs., 1979

mardi, 18 mai 2010

Lo scontro delle civiltà in America

Lo scontro delle civiltà in America

di Carlos Pereyra Mele

Fonte: eurasia [scheda fonte]


 
Lo scontro delle civiltà in America

La crisi finanziaria ed economica scoppiata nel 2008 come conseguenza delle bolle finanziarie americane e che si è diffusa a livello planetario grazie alla propria dinamica globalizzatrice, ha contagiato e assestato un duro colpo alle economie degli affiliati storici della triade (USA, UE e Giappone), la sua ultima manifestazione è quella rappresentata dal quasi default della Grecia nella cosiddetta Eurozona. Inoltre, si può confermare, che le potenze emergenti del cosiddetto gruppo BRIC (Brasile, Russia, Cina e India) non solo hanno superato la crisi, ma detengono forti tassi di crescita se comparati con quelli della triade summenzionata.

Sebbene sia prematuro determinare se in un futuro ravvicinato il BRIC si consoliderà in un blocco contrapposto a quello della triade, la sola crescita della Cina ha già determinato nell’attuale politica internazionale un forte cambio nei rapporti di potere come si sono conosciuti fino ad ora. Il BRIC approfondisce i suoi rapporti e lentamente sta stabilendo un’agenda comune i cui esiti si sono visti nel recente summit svoltosi in Brasilia (1).

Questa nuova realtà si presenta in termini politici e strategici globali con un evidente declino di quella che fu la superpotenza assoluta, gli USA, che, con la scomparsa dell’ex URSS, cercò di instaurare un mondo unipolare con gli alleati minori della Triade in funzione di soci. La realtà dimostra che la sua strategia, fondata su un gigantesco apparato militare dalle proporzioni mai viste nella storia dell’umanità, e per il quale non ha lesinato risorse finanziarie, economiche e tecnologiche, non ha raggiunto gli obiettivi prospettati dai governi americani, da Reagan fino a oggi. Anzi, si ammette che questo sistema è in crisi dottrinale e che cerca di rinnovare le sue strategie di fronte al rinvigorimento delle potenze continentali emergenti con le quali si confronta.

Per ottenere appoggio ideologico e dottrinale, i gruppi di potere degli USA hanno fatto ricorso a diverse dottrine e una di queste è stata quella dello Scontro delle Civiltà, concepita dal professor Samuel P. Huntington dell’Università di Eaton e direttore del John M. Olin Institute for Strategic Studies dell’Università di Harvard. Per mezzo di questa teoria l’autore ha predetto che i principali attori politici del secolo XXI saranno le civiltà al posto degli stati-nazione. Questa teoria è servita per individuare un nuovo “nemico”, poiché quello della guerra fredda, ossia l’URSS, era scomparso negli ultimi anni, identificato su misura con quello del “fondamentalismo islamico”, il quale è passato a rimpiazzare il comunismo internazionale.

Ma questo cerchio pericoloso non si è chiuso così e il già scomparso Samuel P. Huntington riformulò la sua idea dello scontro delle civiltà in un altro libro: Chi siamo: le sfide all’identità nazionale americana, apparso nel 2004, nel quale s’individuava un nuovo “pericolo” per gli Stati Uniti, poiché, secondo lui, era in gioco: “L’identità nazionale americana e la possibile minaccia rappresentata dall’immigrazione latinoamericana su grande scala, la quale dividerà gli Stati Uniti in due popoli, due culture e due lingue”, giacché Huntington afferma che gli Stati Uniti storicamente sono stati un paese di cultura protestante anglosassone. E che l’arrivo in massa degli immigranti latini negli USA attentano contro il sogno americano, il quale, secondo le sue parole, è il “sogno creato da una società anglo-protestante”, e aggiunge che i messicani-americani possono “partecipare a questo sogno e a questa società solo se sognano in inglese”. Queste idee si sono intrise in profondità e in maniera molto notevole nei settori più reazionari della destra americana, soprattutto adesso quando gli ispano parlanti formano il segmento della popolazione che negli ultimi anni più si è sviluppato negli USA, secondo i dati resi noti dall’Ufficio del Censimento americano. E questo nuovo “pericolo” offre argomento, in epoche di crisi, allo spuntare negli USA di movimenti politici di estrema destra conservatrice come è il caso del cosiddetto Tea Party, “espressione ultraconservatrice che si è formata un anno fa in protesta al progetto di stimolo economico e che, in termini di visibilità, si è sviluppato nella campagna contro la riforma della salute voluta dal governo di Barack Obama. Questo movimento nella sua maggioranza è conformato da uomini bianchi repubblicani maggiori di 45 anni, i quali si considerano arrabbiati o furiosi nei confronti di Washington”. E sono anche causa: “Di manifestazioni d’ira popolare di destra che si registrano quando s’informa della presenza di maggiori crimini per odio razziale o per l’aumento dei gruppi xenofobi di estrema destra (2). I gruppi di civili armati sono cresciuti esponenzialmente (denominati milizie “patriottiche”, formate da uomini bianchi, anglosassoni e protestanti), secondo quanto comunicano all’opinione pubblica le agenzie federali sulla sicurezza negli USA. E che nella frontiera con il Messico si dedicano a “cacciare” immigranti privi di documenti, ad esempio, i fine settimana. È la rinascita del nazionalismo conflittuale.

Per questa ragione, con un altro giro di vite, e facendo riferimento a questa idea forza, lo stato dell’Arizona ha emanato la legge di Immigrazione, applicazione della legge e popolazione sicura, che costituisce un affronto alla dignità umana e che dimostra che non è per tutti “l’era della globalizzazione” e, in particolare, per gli immigranti latini che si trovano negli USA.

Evidentemente, le notizie quotidiane sul fenomeno del narcotraffico e la violenza in Messico sono alla base di questa legge, ma dobbiamo mettere in chiaro alcuni punti: Messico è socio degli USA, insieme a Canada, del NAFTA (stramba società questa, solo pensata in termini di affari, ma non per il libero movimento dei suoi cittadini all’interno del blocco), un altro aspetto è quello che il fenomeno del narcotraffico è una conseguenza del fatto che gli USA sono il principale mercato mondiale del consumo di droghe, il quale non è riuscito a combattere con efficacia le mafie operanti sul suo territorio, facendo ricadere al Messico la causa del problema ( così come anche alla Colombia, la Bolivia e il Perù ), attualmente il Messico si trova in una gravissima situazione di violenza senza precedenti e che nei circoli di potere americani ha sollevato il problema di intervenire sul suo territorio militarmente. L’ex presidente Clinton ha pubblicamente preso in considerazione che, per quanto concerne il Messico, si devono gettare le basi di un accordo simile a quello del “Plan Colombia” (il che trasformerà questo paese in uno stato fallito); e un dettaglio da non tralasciare è quello rappresentato dalle gravi conseguenze economiche e sociali cagionate dall’incorporazione di questo paese nell’accordo di libero commercio con gli USA (NAFTA). Per questa serie di ragioni, la teoria dello scontro delle civiltà rappresenta un argomento fallace e crudele nei confronti del popolo messicano.

Iberoamerica e, in particolare, l’America meridionale deve continuare con l’approfondimento di un proprio modello d’integrazione e di sviluppo, di fronte al nuovo ordine mondiale che si sta conformando, partendo da un processo strategico autonomo e diverso da quello che cerca d’imporre la superpotenza declinante e che, diciamocelo di una buona volta, nei nostri paesi conta ancora con l’appoggio di numerosi settori di potere vincolati a quel tipo di dipendenza, giacché se vediamo di là dei discorsi e delle buone intenzioni come quella di Obama nell’ultimo summit con i paesi del continente, la veduta e la strategia di Washington non si è modificata nei confronti del continente. Concretamente, si continua a scommettere sulla militarizzazione e la segregazione dei popoli latinoamericani, stabilendo una specie di diplomazia di “vicini lontani”, poiché ciò che solo interessa è preservare i propri privilegi conquistati durante la guerra fredda e impedire l’entrata di paesi extracontinentali concorrenti. Per questo motivo il fatto di irrobustire strutture come l’UNASUR o il MERCOSUR, la creazione di un organismo regionale che soppianti l’OEA e che escluda la partecipazione americana, rilanciare la Banca Sudamericana, un proprio sistema difensivo e avere come orizzonte la costruzione di uno stato continentale industrializzato, rappresentano i mezzi concreti e reali per consentirci di uscire dalla nuova dipendenza che si cerca di mettere in pratica nel secolo XXI e, in questo modo, consolidare i propri percorsi che sono diversi da quelli della potenza del Nord. Perché nella pratica concreta un rapporto asimmetrico e individuale nei confronti degli USA da parte di ogni singolo paese solo impedisce la nostra crescita e sviluppo e ci introduce in conflitti che questo ha generato, dei quali non abbiamo nulla da spartire, poiché sono diversi e distanti dai problemi reali che i latinoamericani dobbiamo affrontare in questo nuovo secolo. Così come anche il fatto di denunciare la xenofoba teoria dello scontro delle civiltà deve impedire che la stessa si applichi su scala globale.

* Carlos Pereyra Mele, politologo argentino e membro del Centro de Estudios Estratégicos Suramericanos, collabora con la rivista “Eurasia”.

Fonti:

  1. Hu Tsintao, El viaje al occidente de Washington hasta Brasilia por Roman Tomberg,

http://licpereyramele.blogspot.com/china-y-el-nuevo-orden-mundial.html

  1. Noam Chomsky, Alerta sobre el auge de la ultraderecha en EE.UU

http://licpereyramele.blogspot.com/2010/04/la-crisis-en-usa.html

Ultime notizie:

Los hispanos marchan contra la xenofobia

http://www.elpais.com/articulo/internacional/hispanos/marchan/xenofobia/elpepuint/20100501elpepuint_9/Tes

(trad. di V. Paglione)
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

mercredi, 12 mai 2010

Lateinamerika-Strategie

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Lateinamerika-Strategie

Rede von Andreas Mölzer im Plenum am 20. April 2010 zur Strategie der EU für die Beziehungen zu Lateinamerika

Ex: http://www.andreas-moelzer.at/

Herr Präsident!

Nachdem über 300 Jahre Kolonialherrschaft Lateinamerika geprägt haben, nachdem der Kontinent zu einem Schauplatz des Kalten Krieges geworden war, hat sich Lateinamerika nunmehr zu einer aufstrebenden Weltregion entwickelt. Dass etwa Russlands Präsident Medwedjew Mittel- und Südamerika bereist hat, beweist, dass er versucht, die Wirtschaftsbeziehungen zu Südamerika zu stärken. Und es zeigt auch, wie richtig die EU mit ihrem Kurs liegt, die Beziehungen zu diesem Kontinent, der ja mehr Einwohner hat als die EU 27, zu stärken.

Dabei gilt es nicht nur, Verhandlungen mit dem wirtschaftspolitischen Block Mercosur aufzunehmen, sondern auch an all jene kleineren Staaten zu denken, die nicht dieser Wirtschaftsregion oder der Andengemeinschaft angehören. Die EU ist ja nicht nur Hauptinvestor oder wichtigster bzw. zweitwichtigster Handelspartner, sondern auch der wichtigste Geber von Entwicklungshilfe. Wir sind bereits aus finanzieller Sicht ein wichtiger Faktor, und es gilt meines Erachtens, diese Poleposition im europäisch-lateinamerikanischen Sinne zu nutzen.

mardi, 11 mai 2010

Medvedev à Buenos Aires - Nucléaire et multiculturalisme

medvedev-argentina-2.jpgAlessia LAI:

Medvedev à Buenos Aires

 

Nucléaire et multilatéralisme

 

Revenant du sommet sur la sécurité nucléaire qui s’était tenu à Washington, le président russe Dmitri Medvedev s’est rendu le 14 avril 2010 à Buenos Aires, capitale de l’Argentine. Son objectif? Renforcer les relations entre la Russie et ce pays d’Amérique latine. Il est ainsi le premier chef d’Etat russe à rendre visite à l’Argentine depuis les 125 ans que les deux pays entretiennent des relations bilatérales. Medvedev a offert à l’Argentine “l’occasion de coopérer dans le secteur énergétique”. Outre la signature d’accords portant sur la coopération culturelle ou sur les domaines de la recherche spatiale, de l’exploitation forestière, du sport, des hydrocarbures et des transports, les pourparlers russo-argentins ont surtout mis l’accent sur la coopération nucléaire à des fins pacifiques.

 

Le directeur général du consortium d’Etat russe pour l’énergie atomique “Rosatom”, Sergueï Kirienko, au cours d’une rencontre entre Medvedev, d’autres représentants du gouvernement russe et des entrepreneurs argentins, a eu l’occasion d’annoncer l’offre russe à l’Argentine de construire “une troisième centrale nucléaire”, tout en ajoutant que le gouvernement de Cristina Fernandez “décidera l’année prochaine comment répondre” à cette offre. Il faut savoir que déjà “un quart de l’énergie argentine est générée à l’aide de turbines russes”, a rappelé Medvedev. Russes et Argentins ont profité de l’occasion pour renforcer quelques liens politiques et stratégiques, ce qui a certes troublé le sommeil des anciens patrons du pays, liés aux Etats-Unis. Cristina Fernandez a souligné, pour sa part, que “le monde a changé, que la tension Est-Ouest appartient désormais au passé; outre de nouveaux acteurs globaux, nous avons de nouveaux dirigeants en Amérique du Sud qui sont animés par une vision différente de ce que doivent être les relations internationales, c’est-à-dire être axées justement sur ce multilatéralisme que cherche à promouvoir l’actuel gouvernement argentin”.  

 

Nous avons donc affaire à un nouvel élément clef dans la construction du futur monde multipolaire: le processus d’intégration latino-américain qui a généré des institutions comme l’UNASUR, l’ALBA, Pétrocaribe, qui agissent et interagissent pour mener à l’union de toutes les nations latino-américaines, lesquelles veulent devenir actrices à part entière sur la scène internationale et non plus être exclues des décisions qui affectent le sort de la planète ou reléguées au rang d’actrices de seconde zone.

 

“Nous ne sommes l’arrière-cour de personne, nous voulons des relations sérieuses et normales avec tous les pays du monde”, a souligné la Présidente d’Argentine.

 

Alessia LAI,

a.lai@rinascita.eu

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 16  avril 2010; trad. franç.: Robert Steuckers; http://www.rinascita.eu/ ).