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mercredi, 02 mai 2012

Nazionalizzazioni: Dall’Argentina arriva un vento di libertà

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Nazionalizzazioni: Dall’Argentina arriva un vento di libertà

di Federico Dal Cortivo

Ex: http://www.italiasociale.net/

Inaspettata è arrivata nell’Europa del “libero mercato” la notizia che il governo argentino ha deciso di nazionalizzare la compagnia petrolifera YPF e del gas YPf Gas, di proprietà della spagnola Repsol dal 1999 la prima e di Repsol Butano SA la seconda.

Per chi segue da qualche tempo le vicende politiche dell’America Latina invece, la cosa non è giunta inaspettata, ma fa parte oramai di un processo di decolonizzazione economica intrapreso dai principali Stati del continente e teso a porre sotto il controllo dello stato, le fonti energetiche che rivestono come ben sappiamo una grande importanza strategica e che danno la misura oggi della libertà di un popolo.

La mossa del governo di Buenos Aires ha così posto sotto il controllo dello Stato YPF e delle Provincie il 51% del capitale, nell’interesse della nazione Argentina , come ha sottolineato il Vice Ministro dell’Economia Kicillof nel suo intervento parlamentare: “Quando una società si discosta dagli interessi del popolo argentino, deve chiudere prima in modo amichevole e poi se necessario in modo meno amichevole”.

“L’Argentina" ha proseguito Kicillof "non può permettere che un elemento così importante come il prezzo del petrolio dipenda da fattori esterni a ciò che avviene in Argentina”.

Il riferimento alla speculazione internazionale è chiaro.

La Repsol è accusata di non avere investito nell’esplorazione e nel miglioramento della produzione, e inoltre erano in corso trattative segrete tra la Respsol e il gigante petrolifero cinese Sinopec per cedere la YPF per un valore di 15 milioni di dollari.

Ora si potrebbe invece aprire un nuovo scenario con una partnership tra Sinopec e Ypf nazionalizzata, come ha annunciato il Ministro per la Pianificazione Julio De Vido, che ha citato come possibili alleati il Brasile e il Messico.

I cinesi dal canto loro per bocca di Zhou Dadi della Cina Energy Research Society, in maniera molto pragmatica hanno dichiarato che “non importa il cambio di proprietà di YPF, ma solo la convenienza economica dell’operazione”.

La Cina si sta muovendo da tempo sulla scena mondiale alla ricerca di fonti energetiche per la sua affamata economia, caratterizzandosi per la non influenza negli affari interni degli Stati produttori e per questo i cinesi sono visti positivamente.

Non sono tardate le reazioni Occidentali, la Spagna attraverso il segretario di Stato al Commercio ha chiesto l’intervento dell’Unione Europea, mentre il presidente della Banca Mondiale, lo statunitense Robert Bruce Zoellick ha condannato il ”protezionismo e il populismo” di Buenos Aires, affermando che ”è stato un errore nazionalizzare YPF”, stessa musica dall’altro ente usurocratico mondiale il FMI, dove il Direttore del Research Departement Thomas Helbing a margine della presentazione del rapporto “Global Economic Prospects” ha dichiarato che “gli interventi del governo argentino peggiorano il clima per gli investimenti stranieri“.

Sulla stessa linea gli Stati Uniti, il portavoce del Dipartimento di Stato Mark Toner ha posto l’accento sulla preoccupazione del suo governo per queste azioni che rischiano di frenare gli investitori stranieri e danneggiare l’economia del Paese latino americano.

Le dichiarazioni, o meglio sarebbe dire, le intromissioni della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale erano prevedibili e sintomatici della paura che la finanza mondialista ha quando uno Stato sovrano, com’è l’Argentina, decide di gestire in proprio le fonti energetiche e la propria economia senza sottostare a diktat e ricatti da parte di organismi internazionali che rispondono a logiche neocolonialiste e di sfruttamento.

L’America Latina non è più quella di anni fa, il cosiddetto “cortile di casa degli Stati Uniti”, non è più disponibile a ogni saccheggio, in nome di un “libero mercato” a senso unico dove gli Usa usano ogni sorta di barriera doganale, ma invocano la libera circolazione delle merci in senso inverso, lo stesso sistema usato dalla Gran Bretagna quando un tempo dominava i mari.

La storia del continente Sud Americano è la storia di un saccheggio programmato e attuato nei minimi dettagli, fino ad arrivare in tempi più recenti agli inglesi e agli statunitensi, dove questi ultimi hanno favorito colpi di stato, omicidi mirati, operazioni sotto copertura per destabilizzare qualsiasi governo nazionale che osasse porre degli ostacoli alla presenza delle loro multinazionali.

Inglesi e americani sono stati maestri nel predicare l’apertura dei mercati ai loro manufatti e ai loro capitali, mentre nel frattempo imponevano un ferreo protezionismo per tutelare la propria manodopera e prodotti.

Scrive in modo inequivocabile l’uruguaiano Edoardo Galeano nel suo saggio “Le vene aperte dell’America Latina”: “Come l’Inghilterra, anche gli Stati Uniti esporteranno dopo al Seconda Guerra Mondiale, la dottrina del libero scambio, libero commercio e libera concorrenza, ma per uso e consumo altrui. Il FMI e la Banca Mondiale sorgeranno proprio per negare ai paesi sottosviluppati il diritto di proteggere le industrie nazionali e per fiaccare al loro interno l’azione dello Stato. Saranno attribuite proprietà terapeutiche infallibili all’iniziativa privata. Tuttavia gli Stati Uniti non abbandoneranno una politica economica che continua a essere ancora oggi protezionistica e che indubbiamente si ricollega all’esperienza e alle voci della propria storia, al Nord non hanno mai confuso la malattia con il rimedio.”

E le direttive del FMI e Banca Mondiale, fatte a colpi di privatizzazioni, svendita dei settori strategici, taglio dei salari, distruzione dello Stato Sociale non posso che peggiorare le condizioni degli Stati che cadono nei loro tentacoli.

L’Argentina in questi ultimi anni ha ripreso la strada già intrapresa da Juan Domingo Peron, ha cacciato gli ispettori del FMI con il presidente Nestor Carlos Kirchenr, nazionalizzato i fondi pensione e la compagnia aerea di bandiera Aerolineas Argentinas.

Ha varato vasti programmi economici e di tutela dei lavoratori e ha collaborato attivamente all’UNASUR, Union de Naciones Suramericanas e stretto buoni rapporti con i Paesi dell’ALBA, l’Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra America che ha nel Venezuela di Hugo Chavez l’ispiratore.

Nell’Europa asservita agli Stati Uniti e all’usura internazionale tutto questo è sprezzantemente definito “populismo”, come se essere con il popolo e per il popolo fosse un peccato capitale e in effetti lo è per coloro che hanno fatto del profitto, dell’usura, dello sfruttamento dei popoli la loro religione.

Le scomposte reazioni di questi giorni denotano solo il nervosismo dei “camerieri dell’alta finanza”, dove anche un Monti qualsiasi si permette di criticare l’azione del Governo argentino, del resto in Italia sta avvenendo l’esatto contrario, si è intenti da tempo a svendere al miglior offerente il patrimonio economico nazionale, dalle banche, all’industria, dal settore alimentare, a quello della grande distribuzione e con quest’ultimo governo tale prassi verrà accelerata e consolidata.

Tutto ciò condurrà l’Italia a breve a essere nient’altro che una colonia delle grandi multinazionali, in questo imitando in peggio l’Argentina di un tempo.

 

europeanphoenix

dimanche, 29 avril 2012

“Sortir du mondialisme, c’est possible : l’exemple de l’Argentine”

Aymeric Chauprade :
“Sortir du mondialisme, c’est possible : l’exemple de l’Argentine”
Libre reprise d’un article daté du 21 avril 2012 du géopolitologue Aymeric Chauprade, initialement publié sur blog.realpolitik.tv et realpolitik.tv

cristina-fernandez2.jpgLe Fonds monétaire international a déploré cette semaine que l’Argentine soit “imprévisible après l’expropriation partielle de la compagnie pétrolière argentine YPF, contrôlée à majorité, jusqu’au 16 avril, par le groupe espagnol Repsol”.

Imprévisible ? Non, simplement souveraine ! Le FMI, instrument politico-économique des États-Unis, tout comme Washington et Bruxelles ont de plus en plus de mal à se faire à la souveraineté des États. Lorsque quelque chose leur échappe, ils appellent cela de l’imprévisibilité.

J’étais en Argentine entre le 24 mars et le 2 avril, date anniversaire des 30 ans de la Guerre des Malouines. Cela m’a permis de me faire mon propre avis sur un pays tant décrié par le FMI et les donneurs de leçon occidentaux. Et j’ai compris pourquoi ce pays était la cible d’une désinformation si forte, qui veut ternir son image et ainsi dissuader les investisseurs de s’y intéresser.

Ce pays est pourtant la seule véritable Europe jamais réussie. L’Argentine c’est même la véritable Europe qui a survécu des ruines de la nôtre. Une nation faite d’Européens avec une culture d’Européens et dont le modèle identitaire n’a rien à voir avec le modèle brésilien que Bruxelles et Washington ont érigé en exemple. Buenos Aires, malgré son immigration andine, reste une ville européenne pour des Européens. L’Argentine est une grande nation, et l’a montré en mettant dehors, seule, le FMI et ses recettes qui n’ont toujours mené qu’à la faillite et à l’asservissement des peuples. Comme la Russie, l’Argentine est tout simplement en train de reconstruire son industrie, de reprendre le contrôle de ses ressources énergétiques et les résultats sont là pour prouver qu’elle suit une voie juste et raisonnable. La seule voie raisonnable même quand on voit où le mondialisme a mené les peuples occidentaux.

La croissance est évidente (le FMI lui concède quand même un taux de croissance de 4,2% pour 2012, mais du bout des lèvres) et il faut être aveugle ou d’une grande mauvaise foi pour ne pas reconnaître que depuis que l’Argentine suit une voie protectionniste et nationaliste (comme la Russie et la Chine), elle va mille fois mieux que lorsqu’elle suivait les recettes libérales et pro-américaines du libano-argentin Menem.

Mais revenons à cet événement capital qu’est la renationalisation d’une grande compagnie d’énergie argentine. Lundi 16 avril, la présidente Cristina Kirchner, une autre dame de fer, sans être le moins du monde impressionnée par les menaces de Madrid, a décidé d’exproprier l’espagnol Repsol de sa filiale argentine YPF qu’il contrôlait à hauteur de 57,4%. Désormais l’État argentin et les provinces (en Argentine, État fédéral, l’autonomie des provinces est très forte) détiendront 51%. Jeudi 19 avril, soit 3 jours plus tard, l’expropriation à hauteur de 51% était élargie à la compagnie YPF Gas également contrôlée par Repsol

La main mise de Repsol datait d’une époque où l’Argentine a été vendue par des dirigeants libéraux sans scrupules à l’étranger et a rompu, sous Menem, avec ses fondamentaux d’indépendance nationale en se tournant vers les États-Unis. Cette politique, suivie de concert avec le FMI, a abouti à la ruine du pays. Seul le retour aux fondamentaux du péronisme, une politique nationale et sociale, a permis d’entamer le redressement du pays, et c’est exactement cette ligne que suit Cristina Kirchner.

Cela faisait plusieurs années que les Kirchner ont demandé de manière insistante à Repsol de faire les investissements nécessaires pour préparer l’avenir énergétique de l’Argentine. Rien n’a été fait. Le groupe espagnol s’est vu donner de nombreuses chances de conserver sa part. Il n’est pas exproprié (il sera compensé de toutes façons) comme cela brutalement, mais au terme de mois de d’avertissements et de discussions. Ces grands groupes mondialistes ont malheureusement une vision de court-terme qui tranche avec la vision de long-terme d’un Poutine en Russie. Celui-ci a repris en main le secteur énergétique précisément pour rendre à la Russie ses ressources et son avenir énergétique.

L’Argentine (comme la Russie évidemment) apporte au monde une preuve supplémentaire que la voie du redressement et de la liberté des peuples passe par l’indépendance nationale et la rupture avec toute l’architecture du mondialisme (FMI, Banque mondiale, Union européenne, OTAN…).

Cette politique est non seulement possible mais elle montre ses fruits dans de nombreux pays du monde. Demain dimanche 22 avril, je voterai pour cet espoir français de sortie du mondialisme. Je voterai Argentine !

Lire la suite : http://blog.realpolitik.tv/2012/04/samedi-21-avril-2012-a-demain/

samedi, 28 avril 2012

Pour les jeunes des Brics, «le monde bipolaire est fini»

Pour les jeunes des Brics, «le monde bipolaire est fini»

 

Les cercles de réflexion (think-tanks) regroupant des jeunes entrepreneurs se multiplient. Le phénomène grandit au sein des pays émergents où les leaders «de demain» veulent désormais s’inviter au partage de la croissance mondiale.

Ils sont jeunes, fourmillent d’idées, promis à un bel avenir professionnel et – surtout – refusent de se voir léguer un monde en ruine. La crise qui balaie les économies occidentales depuis quatre ans et bouleverse les équilibres mondiaux entraîne une résurgence de l’activisme chez les jeunes entrepreneurs. Aux côtés des think-tanks institutionnels – Davos ou autres Cercles d’économistes – les forums regroupant les jeunes leaders «de demain» se multiplient sur la planète. Et, fait nouveau, ces jeunes veulent désormais se faire entendre de leurs aînés.L’un des plus anciens forums, le Symposium de St Gallen se réunira pour la 42e fois, en Suisse, les 3 et 4 mai prochain. 200 jeunes entrepreneurs, enseignants ou élèves confronteront leurs idées pour «faire face aux risques» menaçant la planète, sous le regard de 600 responsables d’entreprise ou hauts fonctionnaires, parmi lesquels quelques «guest stars» – Josef Ackermann (Deutsche Bank) ou Jean-Claude Trichet (ex président de la BCE).

Mais à l’Est aussi, surgissent de nouveaux think-tanks voulant prouver que leurs jeunes entrepreneurs sont tout autant capables de s’inviter au partage de la croissance. Créé à Rhodes en 2010, le Youth Forum, émanation du think-tank Youth Time basé en République tchèque, est l’un d’entre eux. Son objectif, volontiers idéaliste, est «de rapprocher les points de vue de nations émergentes» pour «poser les pierres d’un futur meilleur».

300 jeunes de 70 pays, activistes, écologistes, industriels mais aussi spécialistes des nouvelles technologies se réunissent une fois par an, pour apprendre à se connaître et «créer le monde de leur rêves», aidés en cela par des économistes ou des experts des phénomènes sociétaux. Le tout sous l’aile protectrice du «World Global forum of civilization».

Ce forum qui promeut les valeurs traditionalistes entend «renforcer les échanges culturels sur une base égale», explique celui qui le dirige, Vladimir Yakounine, le président des chemins de fer russes et proche de Vladimir Poutine. «Il est évident, aujourd’hui, que nous ne pouvons pas concevoir de monde unilatéral». Un exemple nourri sur celui de la Russie : «Nous comptons dans notre pays 190 nationalités et 80 confessions différentes cohabitant ensemble, et le seul moyen d’y parvenir consiste à laisser se côtoyer nos histoires et nos traditions sur un pied d’égalité, sans que l’une ne prenne le pas sur l’autre», assure le dirigeant russe.

Un discours qui recueille un fort écho auprès des jeunes activistes issus du monde en développement, qui veulent s’inviter à la table des pays développés. «Le monde bipolaire est fini», a expliqué l’homme d’affaires et responsable politique indien, Sam Pitroda, lors du dernier Youth Forum qui s’est tenu à New Delhi, fin mars. «Le modèle américain basé sur la consommation ne peut convenir aux trois milliards de pauvres qui n’ont accès à rien», a-t-il ajouté. Pour ce dernier, qui pourrait concourir au poste de président de l’Inde, en 2013, «il faut bâtir un nouveau monde, un nouveau modèle, basé sur la connectivité».

Anecdotique, voire idéaliste, vu de France, ces forums de jeunes traduisent, en réalité, un mouvement de fond, en parallèle à l’émergence des Brics, d’où ressort un désir de faire entendre sa voix à l’échelle planétaire, pour les économies en forte croissance. Et lorsque l’on s’étonne de voir pour le moment peu de jeunes européens y participer on répond, du côté du Youth Time, que «le but ultime est évidemment d’attirer davantage de jeunes entrepreneurs occidentaux, pour renforcer le dialogue et les échanges».

Le Figaro

vendredi, 27 avril 2012

L’empire du capitalisme criminel

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L'Empire du mal a étendu ses tentacules jusqu'aux Etats même. La maffia impériale domine l'Occident capitaliste et tient solidement sous sa coupe les institutions communautaires.

L’empire du capitalisme criminel

Sergueï Gouk

Ex: http://mbm.hautetfort.com/               

L’ONU s’intéresse enfin au problème des revenus de la criminalité. Rien qu’en 2009, le chiffre d’affaire du crime aurait atteint dans le monde 2,1 trillions de dollars, une somme comparable au PIB de la Grande-Bretagne. Le commentateur de la Voix de la Russie, Serguei Gouk, poursuit sur ce thème.


Les origines des revenus de la criminalité sont connues de tous : drogues, armes, trafic d’êtres humains, rackets, vols, etc. Selon les données de Youri Fédotov, qui est à la tête du bureau de l’ONU de lutte contre les délits économiques, le seul trafic d’esclaves rapporte annuellement 32 milliards de dollars aux barons du crime. La population subit aussi un vol d’un autre genre, plus secret. Selon l’ONU, la corruption coûte aux habitants des seuls pays riches le tribut annuel de 40 milliards de dollars. L’ONU se limite au rôle de chroniqueur des évènements. Le député Boris Reznik, membre de la commission pour la sécurité et la lutte contre la corruption donne son point de vue :


« Je pense qu’il n’y a presque pas de mécanismes de lobby au sein de l’ONU. Ce sont les Etats qui doivent lutter contre la corruption, ils possèdent les instruments pour lutter contre la corruption sous toutes ses formes. Malheureusement, dans notre patrie nous ne faisons souvent qu’imiter la lutte contre la corruption ».


« Souvent les schémas de corruption impliquent plusieurs pays. Ces états doivent coordonner leurs efforts pour lutter contre la corruption, mais ils le font très mal. Tout le monde sait qu’il existe des clans entiers corrompus. Ils sont en Italie, en Espagne, en Russie, aux Amériques. Mais je ne sais pas si ces mafieux seront traduits en justice », continue Boris Reznik. Les pourris représentent une menace toute particulière. Ce n’est pas un secret qu’il existe tout un tas de filous qui sont des mandataires des structures d’Etat. Certaines personnes craignent que les criminels commencent à parler devant le juge et dévoilent quelques affaires sensibles.


Les criminels essaient d’investir leurs butins le plus loin et le plus sûrement du lieu du crime. Les dictateurs qui spolient leur population agissent aussi ainsi. La différence entre les premiers et les seconds n’est pas très grande. La Suisse est la planque de toutes les personnes louches. Ses banquiers ont volontiers accepté l’argent et les bijoux des Nazis. Ils ne dédaignent pas aujourd’hui les milliards des criminels. Les bandits sont aussi acceptés par les banquiers luxembourgeois, américains, saoudiens et même allemands. L’argent sale se déplace d’un compte à l’autre, avant de s’évanouir définitivement dans la nature.

mardi, 24 avril 2012

Le règne du dollar en tant que monnaie internationale touche à sa fin

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Pourquoi le règne du dollar en tant que monnaie internationale touche à sa fin

Ex: http://www.latribune.fr/

 

latribune.fr (The Economic Collapse)

Le blog "The Economic Collapse" a recensé les dix principales raisons qui laissent présager la fin prochaine du dollar en tant que monnaie internationale de premier plan.

Depuis la fin de la Seconde Guerrre mondiale et les accords de Bretton Woods, les Etats-Unis ont bénéficié du rôle de réserve internationale du dollar sur le plan politique mais aussi et bien sûr économique. Cependant, le règne du dollar sur l'économie mondiale touchera bientôt à sa fin. C'est en tout cas l'avis du site "The Economic Collapse" qui évoque dans un article les dix principaux signaux annonciateurs d'un nouveau système, dans lequel le billet vert perdrait son statut. Les médias grand public américains sont, au passage, critiqués pour éluder complètement les accords bilatéraux entre des pays qui abandonnent le dollar pour leurs échanges.


1. La Chine et le Japon se passent du dollar pour leur commerce bilatéral

Il y a quelques mois, la deuxième économie du monde (la Chine) et la troisième (le Japon) ont conclu un accord qui va promouvoir l'utilisation des monnaies nationales (yuan et yen ndlr) dans le commerce bilatéral entre les deux pays.

2. Les BRICS (Brésil, Russie, Inde, Chine, Afrique du Sud) envisagent d'utiliser leurs propres monnaies pour leurs échanges bilatéraux

3. L'accord monétaire entre la Russie et la Chine

4. L'utilisation croissante de la monnaie chinoise en Afrique
En 2009, la Chine est devenue le premier partenaire commercial de l'Afrique àchercher et promouvoir l'utilisation du yuan par ce continent.

5. Vers la fin des pétrodollars ?
La Chine et les Emirats arabes unis ont convenu d'abandonner le dollar pour leurs transactions pétrolières. Bien que les montants sont pour le moment limités, si d'autres pays du Moyen-Orient venaient à prendre pareille initiative, cela marquerait le début de la fin pour les pétrodollars.

6. L'Iran
Compte tenu des tensions avec les Etats-Unis, la monnaie de l'Oncle Sam n'est pas la bienvenue en Iran. En exigeant de certains pays qu'ils règlent leurs achats de pétrole en or plutôt qu'en dollar, Téhéran contribue à l'affaiblissement du billet vert sur la scène internationale.

7. Les relations entre la Chine et l'Arabie Saoudite
Qui est aujourd'hui le plus gros importateur de pétrole saoudien ? La Chine bien sûr... Les deux pays se sont d'ailleurs regroupés pour financer la construction d'une raffinerie géante dans le port de Yanbu sur les côtes de la mer rouge. Combien de temps le dollar sera-t-il conservé comme monnaie d'échange avec Riyad alors que l'ex-empire du Milieu est devenu son principal client ?

8. Les Nations Unies poussent à l'adoption d'une nouvelle monnaie de réserve
Des rapports des Nations Unies appellent ouvertement à mettre fin à la domination du dollar en tant que monnaie de réserve internationale.

9. Le FMI redonne un coup de jeune au « Bancor »
Le Fonds monétaire internationale (FMI) a également abordé dans certains rapports la nécessité de réformer le système monétaire international. Est évoqué en particulier la mise en place d'une monnaie supranationale, le « Bancor », à laquelle les autres monnaies seraient rattachées. Ce système a été proposé par John Maynard Keynes lors du sommet de Bretton Woods en 1944 mais fut finalement abandonné au profit du dollar.

10. La plupart des autres pays que ceux précédemment évoqués... détestent les Etats-Unis
En quelques décennies, la cote de popularité des Etats-Unis a connu une chute vertigineuse. Même en Europe, les touristes américains sont contraints à se faire passer pour des Canadiens pour ne pas subir les critiques incessantes des populations locales. Ce ressentiment à l'encontre des Etats-Unis incite les pays à réfléchir à l'abandon du dollar en tant que monnaie internationale.

jeudi, 12 avril 2012

Le nouveau plan d’austérité de Rajoy, le coup de grâce pour l’Espagne

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Le nouveau plan d’austérité de Rajoy, le coup de grâce pour l’Espagne
 
L'Espagne est défunte, décapitée par la crise. Le nouveau premier ministre vient de lui trancher la tête, par les nouvelles mesures d'austérité qui tueront ce qui restait d'activité économique dans le pays. Vaya con Dios!
 
Ex: http://mbm.hautetfort.com/
                               
Le 6 avril 2012 (Nouvelle Solidarité) – Un journaliste d’investigation domicilié à Madrid nous a confié que les dernières mesures d’austérité annoncées par le Premier ministre Mariano Rajoy signifient que « l’Espagne est morte, et c’est ce que toute la presse affirme ici, ce qui veut dire que les choses vont tourner au vinaigre ».

Les coupes budgétaires totalisant 27,3 milliards d’euros pour l’année 2012 se concentreront principalement dans les dépenses publiques d’investissement, qui seront réduites de 36%, et ce dans un pays où le taux de chômage atteint près de 23%.

Les indemnités pour les chômeurs seront quand à elles coupées de 5,5%, même s’il est prévu que le nombre de sans-emploi s’accroîtra de 630 000 au cours de cette année, poussant le taux de chômage jusqu’à 26% de la population active.

Ces coupes sont imposées dans un contexte où les taux d’intérêt à moyen et à long terme sur la dette espagnole repartent à la hausse, atteignant hier la barre des 400 points de base de différence avec les taux allemands. Une grande partie des 27 milliards d’euros d’économies annoncées sont déjà alloués au remboursement de la dette, et il est clair que ces coupes vont tuer ce qui restait d’activité économique dans le pays.

Même l’oligarchie commence à reconnaître que la fin de la partie s’annonce. Un éditorial de Bloomberg avertissait hier que « l’Espagne, et non pas la Grèce, sera le véritable test pour l’Union européenne », et se plaint déjà que les décisions de Rajoy « ne sont simplement pas crédibles », et que l’approche de l’UE dans son ensemble commence à faillir.

La solution ? Dans un grand éclair de génie, Bloomberg suggère à la BCE d’imprimer plus d’argent pour renflouer l’Espagne et l’Europe. en réalité, il s’agit une fois de plus de renflouer les banques britanniques qui sont les plus impliquées en Espagne. Ce qui est nécessaire donc, c’est « une politique monétaire plus souple de la part de la BCE. Ceci signifie des transferts fiscaux nets mais temporaires vers l’Espagne. Par dessus tout, cela signifie que la BCE agira comme prêteur de dernier ressort vis-à-vis des gouvernements d’une zone euro en détresse. »

Soulignons que depuis 2008 la BCE n’a pas cessé d’accepter comme collatéral les obligations poubelles détenues par les banques européennes en Espagne, sans compter l’achat de bons grecs de toute sorte, ce qui n’a fait qu’aggraver la menace de faillite systémique de d’hyperinflation.

samedi, 07 avril 2012

Opleving Amerikaanse economie?

Opleving Amerikaanse economie?

Ex: http://voxop.org/

Nu de Dow Jones boven de 13.000 punten lijkt te komen, ondanks het feit dat ze meer dan de helft van hun echte waarde kwijt zijn geraakt, hoort men vaker wel dan niet dat de Amerikaanse economie er bovenop lijkt te komen. De realiteit is echter verre van waar.

In dit kort stuk wens ik even in te gaan op twee grafieken die een heel ander beeld laten zien.

Het eerste feit dat deze grafiek toont is de enorme olieverslaving die de VSA nog steeds vertoont. Iets dat in 2008 een zeer ernstig gevolg had, gecombineerd met de eerste zware schokken van de financiële crisis. Men ziet dat de olieprijs een direct gevolg heeft op de evolutie van de economie. Hoge olieprijs + hoge gezinsschulden, terwijl lonen stagneren of afnen beteken een directe val in de economische evolutie.

Deze olieverslaving, die men trouwens ook in de Europese economieën kan terugvinden, toont ook aan dat het overschakelen naar een diensteneconomie een markt niet veel minder gevoelig maakt voor olieprijzen. De redenering van bepaalde economen dat een postindustriële economie (“financialisatie” en “deindustrialisatie” van de economie) zou leiden tot een veel kleiner effect van olieprijsschommelingen op de economie krijgt hierdoor een grote klap.

Tevens toont deze grafiek aan dat wij helemaal geen economisch herstel meemaken. Onze economie zit nu terug op het niveau van 2008, wat algemeen als een recessie werd beschouwd. Koppel daar het feit aan dat tegenover 2008 onze economie de in Dow/Gold-ratio zelfs met 50%, ondertussen nog meer, gekrompen is, dan zijn dit ronduit akelige vooruitzichten. Wie dit economisch en maatschappelijk doemdenken vindt, dient enkel maar naar de volgende grafiek te kijken.

Ondertussen zijn 46,5 miljoen Amerikanen afhankelijk van voedselbonnen om te overleven.  En zelfs dat cijfer is ondertussen gestegen, de grafiek hiernaast dateert van december 2011. Tussen november 2011 en december 2011 was er een stijging van 384.000 mensen. 2011 zelf was goed voor een toename van 2,4 miljoen mensen. Sinds het aantreden van Obama in totaal 14,3 miljoen.

Niet dat men enorm zal profiteren hiervan, aangezien de stijging van het aantal afhankelijken omgekeerd evenredig is aan het bedrag en de hoeveelheid middelen dat zij krijgen als uitkering, momenteel zit het op 280$.

00:05 Publié dans Actualité, Economie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : économie, actualité, etats-unis, crise | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

vendredi, 06 avril 2012

Pétrole : Pourquoi une telle hausse des prix ? Pic pétrolier ou spéculation de Wall Street ?

W. Engdahl. Les variations de prix du baril brut à la hausse ne sont pas l'effet de la crainte qu'une guerre imminente entre l'Iran et Israël ou/et USA s'enclenche mais bien le fruit d'une spéculation criminelle à Wall Street, notamment de Goldman Sachs.

Pétrole : Pourquoi une telle hausse des prix ? Pic pétrolier ou spéculation de Wall Street ?

Mondialisation.ca, Le 2 avril 2012

Les actuelles fluctuations du prix du pétrole sont-elles d’ordre structurel ou bien sont-elles dues à la spéculation de quelques grands acteurs ? Quelle est la part de responsabilité des banques et des sociétés pétrolières et celle de ce que l’on appelle le "pic pétrolier" ? Et surtout, quels sont les garde-fous mis en place au niveau international et aux États-Unis par le Congrès US pour se prémunir contre d’éventuelles hausses "artificielles" des cours du brut ? Pour William Engdahl, auteur de l’article ci-dessous, la réponse est claire.

 

 

ICE Brent Crude [indice d'échange intercontinental du brut]
Clôture quotidienne des 12 mois précédents

Source: oilnergy.com

Depuis octobre l’an dernier, le prix du brut sur le marché mondial des contrats à terme a véritablement explosé. Chacun avance sa propre explication. La plus commune est la croyance, parmi les marchés financiers, qu’une guerre est imminente entre Israël et l’Iran, ou entre les USA et l’Iran, ou entre ces trois pays. Une autre explication veut que le prix augmente irrémédiablement du fait que l’on aurait dépassé ce qu’on appelle le « pic pétrolier » – le point sur une courbe de Gauss imaginaire (voir le graphique ci-dessous) où la moitié de toutes les réserves mondiales connues de pétrole ont été épuisées et où l’exploitation de ce qui reste va diminuer en quantité mais à un rythme et à des prix croissants.

 

 

Les justifications par le risque de guerre et par le pic pétrolier sont toutes les deux à côté de la plaque. Comme lors de l’escalade vertigineuse des prix au cours de l’été 2008 lorsque le pétrole avait brièvement atteint 147 $ le baril sur les marchés de contrats à terme, le prix actuel du pétrole augmente en raison d’actions spéculatives conduites sur les marchés par des Hedge Funds [fonds spéculatifs] et certains grandes banques comme Citigroup, JP Morgan Chase et surtout, Goldman Sachs, que l’on retrouve chaque fois qu’il y a des gros sous à se faire sans trop d’efforts, et en pariant sur quelque chose de sûr à 100%. Elles bénéficient en cela de l’aide généreuse de l’agence du gouvernement états-unien chargée de réguler les produits financiers dérivés, la Commodity Futures Trading Corporation (CFTC).

Depuis le début octobre 2011, il y a six mois, le prix des contrats à terme du Brent Crude lors des échanges de contrats à terme ICE est passé d’un peu moins de 100 $ le baril à plus de 126 $, une augmentation de plus de 25%. En 2009 le baril était à 30 $.

 

Source : LeMonde.fr

Pourtant la demande mondiale de brut n’augmente pas, au contraire, elle décroit pendant cette même période. L’Agence Internationale de l’Énergie (AIE) rapporte que l’offre mondiale de pétrole a augmenté de 1,3 million de barils quotidiens les trois derniers mois de 2011, alors que pour la m6eme période, la demande mondiale n’a augmenté que de la moitié de cette valeur. L’utilisation de l’essence a décru de 8% aux États-Unis, de 22% en Europe, et même chose en Chine. La récession dans une grande partie des pays de l’Union européenne, la récession/dépression croissante aux États-Unis, accompagné par le ralentissement [de l'économie] au Japon ont réduit la demande mondiale de pétrole, tandis que de nouvelles découvertes sont faites quotidiennement et que des pays comme l’Irak augmentent leur offre après plusieurs années de guerre. Le bref pic d’achats de pétrole par la Chine en janvier et février 2012 était lié à la décision prise en décembre dernier de constituer une réserve stratégique de pétrole, un retour à un niveau d’importation plus normal est attendu pour la fin de ce mois.

Alors pourquoi cet énorme pic dans les prix du pétrole ?

En jouant avec du « pétrole papier ».

Un rapide coup d’œil sur le fonctionnement actuel des marchés de « pétrole papier » aide à y voir plus clair. Depuis le rachat par Goldman Sachs dans les années 1980 de la société J. Aron & Co, un opportuniste négociant en matières premières, le commerce du brut est passé d’un domaine d’acheteurs et de revendeurs ponctuels de pétrole réel à un marché où ce ne sont pas l’offre et la demande courante de pétrole réel qui déterminent les prix journaliers, mais la spéculation non régulée dans les contrats pétroliers à terme, et les paris sur les prix d’un brut donné à une date donnée, ordinairement à 30, 60 ou 90 jours.

Depuis quelques années, un Congrès US accommodant pour Wall Street (et financé par lui) a voté plusieurs lois pour aider les banques intéressées par le négoce de contrats pétroliers à terme, dont un établissement en particulier qui a, en 2001, permis à Enron qui était alors en faillite de s’en tirer avec une combine "à la Ponzi" pour plusieurs milliards, et ce, avant qu’elle ne fasse faillite.

La loi de 2000 sur la modernisation des contrats à terme sur les matières premières (CFMA) a été ébauchée par l’actuel Secrétaire au Trésor du président Obama, Tim Geithner. La CFMA a en réalité donné carte blanche au commerce en vente libre (entre les institutions financières) de dérivés de contrats à terme sur l’énergie, sans aucune supervision du gouvernement des États-Unis, en raison de la pression financièrement influente du lobby des banques de Wall Street.

Le pétrole et d’autres matières énergétiques furent exemptés sous ce que l’on appela « l’échappatoire Enron ».

En 2008, alors que l’implication des banques de Wall Street dans la crise financière faisait scandale, le Congrès a dû voter une loi permettant d’outrepasser le veto du président George Bush, et de mettre fin à « l’échappatoire Enron ». À partir de janvier 2011, en vertu de la loi Dodd-Frank réformant Wall Street, la CFTC a reçu le pouvoir d’imposer immédiatement un plafonnement aux négociants de pétrole.

Étrangement, ces limitations n’ont pas encore été implémentées par la CFTC. Lors d’une récente interview, le sénateur Bernie Sanders du Vermont a déclaré que la CFTC n’avait pas « la volonté » d’appliquer ces plafonds mais qu’elle « devait se conformer à la loi ». Il a ajouté, « Ce que nous devons faire… c’est limiter la quantité de pétrole qu’une compagnie peut détenir sur le marché des contrats pétroliers à terme. En réalité, ces spéculateurs n’utilisent pas le pétrole, ils ne font que tirer profit de la spéculation, en faisant grimper les prix de vente. »[1] Alors qu’il affirmait haut et fort vouloir remédier à ces lacunes, le président de la CFTC Gary Gensler n’a toujours rien fait dans ce sens.

Notons au passage que Gensler est un ancien cadre de – vous l’aviez deviné – Goldman Sachs. Et la mise en application [de cette loi] par la CFTC n’est toujours pas faite.

Plusieurs sources ont relevé, l’automne dernier, le rôle central de certaines banques ou grandes sociétés pétrolières, comme BP, dans la constitution d’une nouvelle bulle des prix pétroliers qui se sont détachés de la réalité physique des calculs basés sur l’offre et la demande de barils.

Un « casino de jeux… »

Une estimation courante veut que les spéculateurs, c’est-à-dire les négociants de contrats à terme comme les banques ou les Hedge Funds, qui n’ont nullement l’intention de se faire livrer du pétrole, mais veulent seulement réaliser un profit sur le papier, contrôlent aujourd’hui près de 80% du marché des contrats pétroliers à terme, contre 30% il y a 10 ans.

L’an dernier, le président de la CFTC, Gary Gensler, peut-être pour conserver un semblant de crédibilité au moment où son agence ignorait encore le mandat légal du Congrès, a affirmé que « d’énormes apports d’argent spéculatif créent une prophétie auto-réalisatrice qui fait monter les prix des matières premières »[2], en référence aux marchés pétroliers. Début mars, le ministre koweïtien du pétrole, Hani Hussein, a déclaré lors d’une interview à la télévision d’État que « selon la théorie de l’offre et de la demande, les prix actuels du pétrole ne sont pas justifiés. »[3]

Michael Greenberger, professeur à l’Université de droit du Maryland, et ancien régulateur de la CFTC, qui avait essayé d’attirer l’attention du public sur les conséquences de la décision du Gouvernement états-unien de permettre une spéculation débridée et la manipulation des prix de l’énergie par les grandes banques et les fonds spéculatifs, a noté récemment qu’ « il y a 50 études montrant que la spéculation fait monter les prix du pétrole de façon incroyable, mais d’une manière ou d’une autre, cela n’a pas été intégré par les peuples. » Greenberger disait, « Une fois que le marché est dominé par les spéculateurs, ce que vous avez vraiment, c’est un immense casino de jeux. »[4]

Le résultat d’une régulation permissive des marchés pétroliers par le gouvernement états-unien a créé les conditions idéales par lesquelles une poignée de grandes banques et d’institutions financières – qui sont d’ailleurs, chose intéressante, les mêmes qui dominent le commerce mondial des contrats pétroliers à terme, et qui détiennent les actions du principal négociant pétrolier à Londres, ICE Futures – sont capables d’orchestrer d’énormes variations à court terme des prix que nous payons pour le gazole, l’essence et d’innombrables autres produits dérivés du pétrole.

Nous sommes maintenant au beau milieu d’une de ces variations, amplifiées par la rhétorique guerrière d’Israël sur le programme nucléaire iranien. Laissez-moi déclarer catégoriquement ma ferme conviction qu’Israël ne va pas s’engager directement dans une guerre avec l’Iran, et Washington non plus. Mais l’effet de la rhétorique guerrière est de créer la toile de fond idéale pour un pic spéculatif massif du pétrole. Certains spécialistes parlent du baril à 150 $ cet été.

Hillary Clinton s’est récemment assurée que le prix du pétrole continuerait de se maintenir à un niveau élevé pendant plusieurs mois grâce à la peur d’une guerre contre l’Iran, en lui lançant un nouvel ultimatum concernant son programme nucléaire lors de débats avec Sergeï Lavrov, le ministre russe des Affaires étrangères : « À la fin de l’année, ou sinon… »[5]

Curieusement, un des vrais moteurs de la bulle financière pétrolière provient des sanctions économiques imposées par l’Administration Obama sur les transactions pétrolières de la Banque Centrale d’Iran. En faisant pression ces dernières semaines à la fois sur le Japon, la Corée du Sud et l’Union Européenne pour qu’ils n’importent plus de pétrole iranien sous peine de sanctions, Washington a déclenché une énorme chute de l’offre de pétrole par l’Iran vers les marchés mondiaux, et a ainsi considérablement favorisé le jeu des contrats pétroliers à terme à Wall Street. Dans un récent article d’opinion paru dans le Financial Times de Londres, Ian Bremmer et David Gordon du groupe Eurasia écrivaient, « … même si cela cause effectivement quelques dégâts financiers à l’Iran, enlever trop de pétrole Iranien de l’offre mondiale d’énergie pourrait causer un pic du prix du pétrole et bloquerait la reprise. Pour la première fois peut-être, des sanctions ont le potentiel "de trop bien marcher", impactant autant ceux qui les subissent que ceux qui les appliquent. »

Selon Bloomberg, l’Iran exporte 300 000 à 400 000 barils de moins par jour que ses 2,5 millions habituels. La semaine dernière, l’Administration états-unienne de l’Information sur l’Énergie indiquait dans son rapport que la majeure partie de ce pétrole iranien n’était plus exporté parce que les assureurs refusent d’assurer les cargaisons.[6]

Pour les produits financiers dérivés du marché pétrolier, le problème de la spéculation illimitée et non réglementée, par une poignée de grandes banques n’est pas chose nouvelle. Un rapport datant de juin 2006 du sous-comité états-unien permanent d’Enquête sur « le rôle de la spéculation des marchés dans l’augmentation des prix du pétrole et du gaz » faisait remarquer : « …il existe des preuves solides permettant de conclure qu’une forte spéculation sur les marchés courants a considérablement augmenté les prix. »

Le rapport relevait que la CFTC avait été mandatée par le Congrès US pour garantir que les prix sur les marchés de contrats à terme reflétaient l’offre et la demande, et n’étaient pas victime des pratiques de manipulation ou des excès de la spéculation. La loi états-unienne sur l’Échange des Matières premières (Commodity Exchange Act, ou CEA) stipule que « toute spéculation excessive sur les matières premières sous contrat de vente faisant l’objet d’une livraison différée… qui cause des fluctuations soudaines ou déraisonnables, ou des changements infondés du prix de ces matières premières, est une charge indue et non nécessaire pour le commerce inter-États d’une de ces matières premières. » De plus la Commodity Exchange Act a ordonné à la CFTC d’établir des limites au commerce « que la Commission juge nécessaire pour diminuer, éliminer ou prévenir une telle charge. »[7]

Où en est la CFTC maintenant que nous avons besoin de ces plafonds ? Comme le sénateur Sanders l’a très justement fait remarquer, la CFTC semble ignorer la loi, et préférer les intérêts de Goldman Sachs et de ses amis de Wall Street qui dominent le commerce des contrats pétroliers à terme.

Au moment où il apparaîtra clairement que l’Administration Obama a agi pour prévenir une guerre avec l’Iran en utilisant différents moyens diplomatiques détournés, et que Netanyahu a simplement essayé de consolider sa position tactique pour marchander âprement avec une administration Obama qu’il méprise, le prix du pétrole est assuré dans les jours qui suivent de connaître une véritable chute libre. A ce jour, les principaux protagonistes de ces manipulations de produits financiers dérivés du marché pétrolier se frottent les mains et engraissent leurs comptes en banque, et l’effet de cette envolée des prix du pétrole sur la croissance de notre économie mondiale déjà fragilisée, surtout dans des pays comme la Chine, est également très préjudiciable.

William Engdahl

Article original en anglais :

 

Why The Huge Spike in Oil Prices? "Peak Oil" or Wall Street Speculation?
- by F. William Engdahl - 2012-03-16
 

 


Traduction Perry pour ReOpenNews

Notes :

  1. Oil Speculators Must Be Stopped and the CFTC “Needs to Obey the Law”: Sen. Bernie Sanders par Morgan Korn, pour le Daily Ticker, le 7 mars 2012
  2. Ibid.
  3. Kuwait’s oil minister believes current world oil prices are not justified, adding that the Gulf state’s current production rate will not affect its level of strategic reserves sur UpstreamOnline, le 12 mars 2012
  4. Behind Gas Price Increases, Obama’s Failure To Crack Down On Speculators par Peter S. Goodman, pour The Huffington Post, le 15 mars 2012
  5. US tells Russia to warn Iran of last chance par Tom Parfitt, sur The Telegraph, le 14 mars 2012
  6. Obama administration brushes off oil price impact of Iran sanctions, par Steve Levine, dans le Foreign Policy, le 8 mars 2012
  7. Perhaps 60% of today’s oil price is pure speculation’, par F. William Engdahl, pour Global Research, le 2 mai 2008

dimanche, 01 avril 2012

Les pays BRICS préparent un « coup d'Etat » financier

 

Le BRICS se rebiffe. Les cinq pays qui prennent de plus en plus de poids économique et financier de sorte à faire la balance avec les locomotives occidentales, veulent réaliser un putsch au sein du FMI et de la Banque Mondiale.

 

Les pays BRICS préparent un « coup d'Etat » financier

 

 

 

BRICS préparent un « coup d'Etat » financier

 

Photo: EPA
 
     

 

La Russie et les autres pays du groupe BRICS – Brésil, Inde, Chine et Afrique du Sud – veut que le FMI et la Banque mondiale modifient les règles du jeu. C'est ce qui ressort de la déclaration finale du sommet de New Delhi jeudi dernier.

 

Les leaders des cinq pays de BRICS sont mécontents : la répartition des quotas du FMI prend beaucoup trop de temps. Ils ont exigé d'avoir plus de voix dès l'année en cours. Selon l'expert russe Maxime Braterskiy, les pays de BRICS ne veulent plus accepter ce que l'Occident ne respecte pas des accords trouvés en ce qui concerne la répartition des voix a la faveur des pays émergents. La part de ces derniers dans l'économie mondiale est, d'ailleurs, en progression rapide, fait remarquer l'expert.

« Cette question ne date pas d'hier. Il y a deux ou trois ans, en marge d'un sommet du G20, les pays du groupe BRICS ont dit que leur poids au sein du FMI ne correspondait pas à l'importance de leurs économies. Ils ont pris une position commune en ce qui concerne la répartition des quotas, cela a produit de l’effet, les choses ont bougé et la Chine et l'Inde ont eu plusieurs voix supplémentaires. La Russie, elle n'a pratiquement rien gagné. Ce processus est vraiment très lent. Les pays de BRICS ont peut-être raison de vouloir donner un coup de fouet à la redistribution des quotas ».

De la même façon la réforme de la Banque mondiale qui peine à s'avancer, préoccupent les leaders des pays du groupe. On pourrait lancer les réformes visant à transformer la Banque mondiale en une institution polyvalente dès l'élection du nouveau président de l'organisation prévue pour avril prochain.

C'est la politique menée par les pays riches qui a eu des effets dévastateurs sur l'économie mondiale en engendrant la crise économique globale, ont affirmé les participants du sommet de New Delhi.

De façon plus générale, le sommet a démontré que les pays de BRICS était déterminés à lancer la réforme du système financier du monde ce qui témoigne de leur poids politique plus grand et du renforcement de leurs positions sur la scène internationale.

dimanche, 25 mars 2012

Pourquoi le protectionnisme progresse dans le monde

Pourquoi le protectionnisme progresse dans le monde

Alors que le protectionnisme revient au cœur des discours politiques en France depuis l’entrée en campagne des candidats à la présidentielle, l’Organisation mondiale du commerce (OMC) s’est inquiétée, lors de sa dernière conférence interministérielle à la mi-décembre, de la montée des barrières douanières depuis le début de la crise financière en 2008.

Nos élites font du ski... (caricature anglaise, 2009)

Selon l’OMC, le nombre de mesures protectionnistes initiées en 2011 s’élève à 340, contre 220 en 2010.

De son côté, l’organisme suisse Global trade alert (GTA) – qui recense l’ensemble des mesures commerciales dans le monde – avertissait, dans un rapport publié en novembre 2011, que trois mesures protectionnistes sont prises pour une mesure libéralisante depuis juillet 2011, et que les tensions commerciales ont atteint leur plus haut niveau depuis le « pic » de 2009.

UNE PERTE POTENTIELLE DE 800 MILLIARDS DE DOLLARS

Il n’en fallait pas plus pour que le directeur général de l’OMC, Pascal Lamy, appelle les membres de l’organisation à « restaurer un climat de confiance », qui est selon lui « une partie de la solution à la crise actuelle ». Reprenant l’inusable métaphore de la tempête protectionniste, il prévenait que si d’« importantes mesures protectionnistes » étaient mises en place, elles pourraient coûter 800 milliards de dollars à l’économie mondiale.

Il s’agit pour l’OMC d’éviter une redite de la Grande Dépression des années 1930, qui avait vu le commerce mondial se contracter dangereusement sous l’effet des barrières douanières, jusqu’à dissoudre les liens économiques entre des pays repliés sur eux-mêmes. Or cette dissolution n’est pas étrangère à l’entrée en guerre de 1939.

D’où l’idée, en 1947, de négocier un accord international sur les tarifs douaniers et le commerce (General agreement on tariffs and trade, GATT), qui a abouti en 1995 à la création de l’OMC, dont le rôle est d’arbitrer les relations commerciales tout en limitant le protectionnisme. Mais la libéralisation des échanges est loin d’être un processus linéaire, et quand un pays se trouve en difficulté économique, les acquis sont la plupart du temps remis en cause.  

L’ARGENTINE, GRANDE CHAMPIONNE

Les pays émergents sont, de loin, les plus friands de dispositifs protectionnistes. L’Argentine se taille la part du lion, avec 192 mesures, selon GTA. Si celles-ci ont fleuri après la crise qu’a traversé le pays en 2002, elles se font plus nombreuses encore depuis le début de la crise financière de 2008.

Dans le viseur de la présidente, Cristina Kirchner : le contrôle des importations. Sa dernière victime ? Le Royaume-Uni, qui a vu, à l’occasion du 30e anniversaire du conflit des Malouines, en février, ses exportations limitées.

Critiquées par les autres pays du Mercosur (Paraguay, Brésil et Uruguay) – qui représentent 25% des exportations et 31% des importations argentines -, ces mesures s’inscrivent pourtant dans un mouvement initié fin 2011 par l’alliance sud-américaine elle-même, qui a décidé en décembre d’augmenter temporairement ses taxes d’importation pour les produits provenant de l’extérieur du bloc. De son côté, le Brésil – qui compte 81 mesures protectionnistes – a augmenté sa taxation sur les véhicules importés, surtout ceux qui viennent de pays extérieurs au Mercosur.

Au nom de l’intérêt national, les autres pays émergents cherchent également à se protéger : la Russie (172 mesures recensées) se concentre elle aussi sur son industrie automobile, puisqu’un tiers des véhicules devront être équipés d’un moteur ou d’une transmission fabriqués localement jusqu’en 2020.

La Chine (95 mesures recensées) annonçait quant à elle en décembre la mise en place, pour deux ans, de nouvelles taxes douanières sur certains véhicules américains. D’ailleurs, l’OMC dénonçait en décembre la prolifération des aides « régionales » en faveur de l’automobile, qui atteignent désormais 48 milliards de dollars en cumulé, soit 37 milliards d’euros.

L’Inde (101 mesures recensées) n’est pas en reste puisque, sous la pression populaire, elle a pour le moment renoncé à ouvrir le secteur de la distribution. Début mars, elle a décrété un embargo sur ses exportations de coton, avant de revenir sur sa décision en raison de l’envolée des cours.

DE LA NÉGOCIATION AU CHANTAGE

Si le protectionnisme reprend de la vigueur avec la crise, les différends commerciaux ont de leur côté diminué… depuis 2008, et ce, contrairement aux précédentes périodes de ralentissement économique. Pascal Lamy indiquait fin février que le nombre d’enquêtes sur les cas de dumping s’est établi à 153 en 2011, contre 213 en 2008.

Tout un symbole, après plus de vingt ans, la « guerre des hormones » entre les Etats-Unis et l’Union européenne vient de prendre fin. Une autre s’apprête toutefois à prendre le relais autour des « terres rares », métaux précieux sur lesquels la Chine a le quasi-monopole, puisqu’elle possède un tiers des réserves accessibles, et plus de 95% du marché. Les États-Unis, l’Union européenne et le Japon ont d’ores et déjà porté plainte auprès de l’OMC.

Moins nombreux donc, les contentieux n’en sont pas moins durs, et ils frôlent parfois le chantage, comme quand la Chine décide de conditionner son aide à l’Union européenne à l’abandon de deux enquêtes anti-dumping et anti-subventions lancées par cette dernière. Ou prend d’importantes mesures de rétorsion en gelant la commande de 45 Airbus en riposte à la taxe carbone, mise en place par l’Union européenne – et ce, même si celle-ci est bien conforme aux règles édictées par l’OMC.

LES ÉMERGENTS EN LIGNE DE MIRE

Pour autant, malgré la pression nouvelle que les pays émergents mettent sur les pays développés, « le problème du protectionnisme n’est pas uniquement lié à ces pays. C’est particulièrement vrai dans le cas de l’Europe, puisque l’essentiel des échanges commerciaux des pays membres se font au sein de l’Union européenne », explique Mathieu Plane, économiste à l’OFCE.

« Avec la division internationale du travail, nous ne produisons pratiquement plus dans les secteurs à faible valeur ajoutée, comme le textile, qui demande beaucoup de main-d’œuvre à bas coûts. Nous n’avons donc pas intérêt à prendre des mesures protectionnistes contre la Chine dans le secteur textile, puisque tout ce qu’on y gagnerait, c’est l’augmentation des prix des produits importés que nous n’avons pas intérêt à produire », argumente-t-il.

Avant de relativiser la menace du géant asiatique. « La Chine ne représente que 8% des importations françaises. De fait, les principaux concurrents et partenaires de la France, ce sont les autres pays de l’UE, qui représentent environ 60% de nos échanges commerciaux – Allemagne en tête, avec 17%. »

C’est pourquoi, pour M. Plane, « plutôt que d’envisager des barrières douanières aux frontières de l’UE » – comme propose de le faire notamment Nicolas Sarkozy avec un « Buy European Act » calqué sur le modèle américain -, « il serait préférable d’éviter les comportements non-coopératifs existant au sein de l’UE, comme la mise en place de la TVA sociale en France ou la compression des coûts salariaux en Allemagne, mesures qui ont pour objectif de gagner des parts de marché au détriment de ses voisins européens ».

Le Monde

mardi, 20 mars 2012

La leçon de capitalisme de l’Islande

La leçon de capitalisme de l’Islande

Par deux fois, les Islandais ont refusé de rembourser la dette de leurs banques. Un bel exemple de résistance au capitalisme financier et un modèle pour la Grèce? Pas du tout. Les créanciers commencent à être remboursés et les règles du jeu libéral respectées jusqu’au bout.

Par deux fois, les Islandais ont refusé de rembourser la dette de leurs banques. Un bel exemple de résistance au capitalisme financier et un modèle pour la Grèce? Pas du tout. Les créanciers commencent à être remboursés et les règles du jeu libéral respectées jusqu’au bout.

Devenue célèbre pour avoir dit non par deux fois à un référendum sur le remboursement de sa dette vis à vis du Royaume-Uni et des Pays-Bas, l’Islande est devenu l’élève modèle des Indignés et de certains économistes: dire « non » au capitalisme financier, voilà la voie à suivre pour la Grèce, piégée par une dette faramineuse. Mais les deux pays sont dans des situations incomparables.

Différence majeure avec la Grèce, la dette de l’Islande n’est pas lié à une mauvaise gestions des comptes publiques, mais à ses banques. Avant 2008, les établissements islandais pratiquaient le ‘carry trade‘, une technique de spéculation qui consiste à emprunter de l’argent dans une devise peu chère (tel que le dollar ou le yen) pour effectuer des placements dans une devise offrant des taux d’intérêts plus élevés, en l’occurrence la couronne islandaise.

50 milliards partis en fumée

 

Par ailleurs, les banques islandaises proposaient à leurs clients étrangers des taux d’intérêts très avantageux, leur permettant de drainer des milliards d’euros et de livres de dépôts, diminuant ainsi leurs coûts de financement.

Mais patatras, la crise des subprimes passe par là, et rapidement, elles se retrouvent étouffées par la défiance généralisée des marchés interbancaires, ainsi que la chute des prix de leurs actifs financiers. Environ 50 milliards de dollars partiront ainsi en fumée, provoquant l’effondrement immédiat du système bancaire islandais. Début octobre 2008, les trois principales banques du pays sont nationalisées.

Parmi elles, la banque Landsbanki – via sa banque en ligne Icesave – laissa ses 340.000 clients britanniques et néerlandais sur le carreau, en leur bloquant l’accès à leurs comptes en ligne le 8 octobre 2008.

Reculer pour mieux faire sauter la banque

Mais en Europe comme en Islande (qui fait partie de l’Association Européenne de Libre Echange – AELE), les banques sont tenues de garantir les dépôts des clients jusqu’à un certain montant. Or, en tant que branche, et non filiale, la banque Icesave relevait du système de garantie islandais, quant bien même ses clients résidaient à Londres ou Amsterdam.

C’est donc à Rekjavik qu’il incombait de rembourser au moins 20.000 euros par client, soit près de 4 milliards d’euros au total, tandis que les créances totales reconnues par Landsbanki s’élèvent à plus de 7 milliards d’euros.

Au moment de l’effondrement bancaire, le gouvernement islandais, soucieux de préserver son économie nationale, est incapable de garantir le remboursement des clients étrangers de ses banques. Les autorités financières britanniques et néerlandaises décident alors de rembourser elles-mêmes les clients d’Icesave à hauteur de la garantie des dépôts de leur pays, avant, bien sûr, de demander à l’Islande de les rembourser.

Les Islandais disent deux fois « non » 

Quelques mois plus tard, à la faveur d’une accalmie des marchés, un long processus de négociations commença entre les trois gouvernements britanniques, néerlandais et islandais, afin de trouver un accord sur le remboursement des créances étrangères de Landsbanki.

Mais c’était sans compter la réaction du peuple islandais, qui demanda par pétition un référendum sur cet accord – reférendum que leur président de la République accorda. La suite de l’Histoire est désormais bien connue: les Islandais rejetèrent par deux fois ce texte.

Mais, si le « non » des islandais lors du second référendum a été très médiatisé, l’évolution de l’affaire a, depuis, été largement ignorée par la presse. Contrainte légalement de respecter la garantie des dépôts bancaires, l’Islande s’est fait réprimandée par l’autorité de surveillance de l’AELE.

Réponse de Rekjavik: le gouvernement n’a qu’une obligation de moyen vis à vis de du mécanisme de compensation des déposants et se devait protéger son économie nationale avant tout. De plus, quand bien même une obligation de résultat lui incomberait, l’Islande fait valoir que, pour faciliter le remboursement de leurs épargnants lésés, les gouvernements britanniques et néerlandais auraient fait « obstruction » à la réorganisation et au démantèlement de Landsbanki.

L’Islande paiera quand même

Rekjavik reproche notamment des pression subies, via le FMI, l’Union Européenne, ou encore l’usage de la loi anti-terroriste par Londres (!), afin de geler les actifs de la branche de Landsbanki en Angleterre.

Mais surtout, l’Islande fait valoir que la banque Landsbanki sera de toute façon en mesure de rembourser directement les autorités financières britanniques et néerlandaises, une fois que la liquidation de ses actifs aura été achevée. La banque aurait, en effet, près de 7 milliards d’euros d’actifs financiers. Largement de quoi payer ses créances les plus prioritaires.

Cette information semble échapper à certains responsables politiques, comme Phillip Davies. Ce député britannique trouve « inacceptable qu’un pays qui refuse de rembourser des milliards de livres touche un seul centime d’aide internationale ».

Il est bien mal informé. Landsbanki a effectué un premier paiement, le 7 décembre dernier, d’environ 2 milliards d’euros, soit environ un tiers des créances totales de la Grande-Bretagne et des Pays-Bas. Le reste suivra à mesure que Landsbanki liquide ses actifs, comme le montre le schéma suivant, tiré du dernier rapport trimestriel de la banque islandaise, aujourd’hui en processus de démantèlement.


Le déclenchement des premiers paiements n’a, en revanche, pas dissuadé l’autorité de surveillance de l’AELE de continuer sa procédure contre l’Islande. Le 14 décembre, elle décidé de l’assigner en justice pour son non respect de la directive européenne sur la garantie des dépôts qui exigeait que l’Islande rembourse les Pays-Bas et le Royaume Uni au plus tard un an après la faillite d’Icesave.

Mais cette procédure a bien peu de chance de changer la donne. Dans le pire des cas, l’Islande sera simplement obligée d’accélérer les remboursements, l’autorité de surveillance n’étant pas habilitée condamner les États membres à payer des pénalités.

« L’Islande n’avait pas le choix »

Finalement, le cas de l’Islande n’est pas un pied de nez au capitalisme, mais relève plutôt de la logique de base du capitalisme dans lequel les investisseurs qui ont pris des risques perdent parfois, tandis que les clients à qui l’on avait promis des garanties seront remboursés.

Pendant ce temps, l’Europe, elle, fait l’inverse. La BCE empêche, par exemple, que l’on inflige des pertes aux créanciers de la Banque irlandaise en faillite, Anglo, préférant prêter 1.000 milliards d’euros à trois ans aux banques pour les aider à se refinancer. En Grèce, le dernier plan de sauvetage prévoit 30 milliards d’euros d’aide en contrepartie des pertes subies « volontairement » sur la dette souveraine grecque. Bref, on fait tout pour éviter que les banques ne soient trop en difficultés.

L’Islande serait-elle un modèle à suivre pour l’Europe ? Le ministre des finances islandais, Steingrimur J. Sigfusson, interrogé en 2011 par Bloomberg, se gardait de donner des leçons: « Ce qui s’est passé en Islande, c’est une situation d’urgence qui ne pouvait être évitée. Ce que nous avons fait en 2008 n’était pas de notre libre choix. C’était ça où l’effondrement complet de l’économie islandaise ».

Faut-il que le pire arrive pour que les règles du capitalisme soient appliquées ? C’est semble-t-il la leçon que l’Islande nous livre aujourd’hui.

myeurop.info

jeudi, 15 mars 2012

Euro-obligaties: tussen populisme en demagogie

Euro-obligaties: tussen populisme en demagogie

Geschreven door 

Ex: http://www.solidarisme.be/

Op 30 januari, dag van de algemene staking, begaven de leiders van de drie grote vakbonden zich naar het Brusselse Schumanplein, waar de instellingen van de Europese Unie gevestigd zijn, om er voor de tv-camera’s van de verzamelde internationale pers te pleiten voor de invoering van euro-obligaties. Toevallig? Nee, niet als men weet dat het Europese Vakverbond waar ze lid van zijn voor 80% gefinancierd wordt met geld van de Europese Commissie (1). Het is nota bene diezelfde Europese Commissie die de Belgische en andere Europese regeringen tot zware besparingsoefeningen veroordeelt. Zo kopen de sluwe commissarissen van de EU als het ware hun eigen tegenstanders. Schijndemocratie, het is niet alleen een euvel dat in het verre buitenland voorkomt.

Euro-obligaties zijn intussen een belangrijk strijdpunt geworden, onder meer naar aanleiding van de sociale verkiezingen in eigen land en de presidentsverkiezingen in Frankrijk. Toch is het een dom idee. “Crisisbestrijding” door oude schulden met nieuwe schulden af te betalen, grootbankiers zouden niets liever hebben dan in onzekere tijden tegen (hoge) rentes aan staten te lenen. De rentebetaling is verzekerd. Belastingen, maar ook de natuurlijke rijkdommen en het menselijke kapitaal (veelzeggend eigentijds begrip!) van een land sluiten een staatsbankroet immers zo goed als uit. Schulden maken lijkt dus een aantrekkelijke kortetermijnoplossing. En het lijkt wel de enige oplossing die vakbonden (en sociaaldemocraten) nog uit hun oude hoed kunnen toveren. Het pleidooi voor euro-obligaties is echter vooral ook een heel politiek of, liever gezegd, financieel correct idee.  Pleisters op een houten been zijnde, zouden Europese schulden, bovenop de nationale schulden van de lidstaten, hooguit de doodsstrijd van de eurozone nog wat kunnen rekken. Meer ook niet. Als ze de situatie al niet zouden verergeren.

Het pleidooi voor euro-obligaties past in een ruimer pleidooi van vakbonden en sociaaldemocratie voor een New Deal. Euro-obligaties worden dikwijls in één adem genoemd met een financiële transactietaks op speculatief kapitaalverkeer. Zo'n taks zou de staat dan voor enkele procenten laten meegraaien in de winsten van beleggingsfondsen en andere speculanten, terwijl de beursspeculatie op zich ongemoeid wordt gelaten. Algemeen secretaris van het ABVV Rudy De Leeuw haalde de New Deal nog eens van stal in zijn nieuwjaarstoespraak. Alleen: de historische metafoor was slecht gekozen voor een relanceplan. Wat hij er immers niet bij vertelde, was dat de New Deal van Franklin Delano Roosevelt nooit gewerkt heeft. De VS hebben hun recessie niet opgelost door de binnenlandse koopkracht te verhogen, maar door de Tweede Wereldoorlog te voeren (met alle naoorlogse gevolgen van dien). Een beleid dat grote openbare werken of andere bijkomende overheidsbestedingen financiert door te lenen op de binnen- of buitenlandse kapitaalmarkt verhoogt uiteindelijk enkel de staatsschuld en bijgevolg de belastingdruk. Als het al niet door de vergrote geldvraag de rentes omhoog duwt en zo de private investeringen verdringt. De Leeuw had beter, indien hij ten minste de moed en het verstand had gehad, het taboe doorbroken dat nog altijd (onterecht) rust op het eerste Duitse Wirtschaftswunder, namelijk dat van het nationaalsocialistische Duitsland (2). Jean-Pierre Van Rossem is tot dusver de enige geweest die dat op verschillende nationale fora heeft gedaan. Onbegrip en stilzwijgen waren zijn deel. Bank- en beurswezen heten een wereldje voor ingewijden. Niet voor leken en al zeker niet voor avonturiers.

Nu, dat nationaalsocialistische Wirtschaftswunder is enkel mogelijk geweest door een unieke vorm van monetaire financiering. Dus: geen financiering door de stupide uitgifte van staatsobligaties, wel door de schepping van echt, nieuw staatsgeld: de Öffa- en de MeFo-Wechsel. Wisselbrieven wordt gezegd, maar ook wettelijke betaalmiddelen en dus geld. Het is dat beleid ook geweest dat John Maynard Keynes inspireerde tot het schrijven van zijn General Theory in 1936. Keynes speelde dus leentjebuur bij Adolf Hitler en diens minister van Financiën, Hjalmar Schacht. Maar het moet gezegd: de man die al vóór de jaren '30 ijverde voor een dergelijk beleid was de ideoloog van de NSDAP, Gottfried Feder. Hem komt in feite het geestelijke vaderschap toe. Een “detail” in de Duitse geschiedenis blijkbaar, want het wordt tegenwoordig maar al te graag verdonkeremaand. Het moet ook gezegd dat Keynes vooral de revolutionaire angel uit dat beleid haalde. Het verschil tussen het keynesianisme en het nationaalsocialisme ligt immers niet in het uitgangspunt, de bescherming van koopkracht door bijkomende staatsuitgaven, maar in de manier waarop die laatste moeten worden gefinancierd. In een keynesiaans beleid (zoals dat van Roosevelt) wordt hetzij geleend, hetzij belast, wat het monopolie van het bankwezen op de geldschepping onaangeroerd laat. Daardoor leek het keynesianisme vanaf het Interbellum een aanvaardbare optie voor een (ondertussen) geïnstitutionaliseerde, parlementaire linkerzijde. De sociaaldemocratie, dus. Na de Tweede Wereldoorlog bestond er zelfs een nationale consensus over onder alle burgerlijke partijen. Sindsdien heet het dat een beetje schulden maken geen kwaad kan (altijd goed voor de banken, houders van die staatsschuld).

De liberale staat is geen staat als hij geen staatsschuld heeft. En voor een liberale superstaat, zoals de EU of de VS, moet dat dan ook een (navenante) superstaatsschuld zijn. Die vaststelling is niet sarcastisch bedoeld, maar gewoon de bittere realiteit. Er is geen beter middel om een (liberale) staat te stichten dan een gegeven bevolking op te zadelen met een staatsschuld, en voor de houders van die staatsschuld liefst een zo groot mogelijke natuurlijk. Voor wie nog redenen zoekt waarom het in België nog niet tot een Vlaams-Waalse boedelscheiding is gekomen (en de kans klein is dat zulks zal gebeuren). Welnu, de Belgische staatsschuld is er alvast een van. Daarom zijn de voorstanders van het Europese federalisme (versie post-'45, Euro-Atlantisch welteverstaan) natuurlijk erg te vinden voor het idee van euro-obligaties. Hun doel is dan ook de vorming, koste wat het kost, van een liberale Europese superstaat die in een wereld waar de handel (volledig) geliberaliseerd is het hoofd zou moeten bieden aan de groep van zogenaamde nieuwe groeilanden of BRICS (Brazilië, Rusland, India, China, Zuid-Afrika). Het is echter een illusie van hen te denken dat de VS en hun EU-vazal in de 21ste eeuw een (westerse) wereldorde zouden kunnen handhaven die nog altijd voortbouwt op dezelfde verhoudingen en dezelfde eurocentrische arrogantie en navelstaarderij als in de hoogdagen van het imperialisme en het kolonialisme. Maar goed, het neemt niet weg dat ze de Europese eenmaking door euro-obligaties hopen te betonneren. Zadel de Europeanen eerst op met “een beetje” schuld, dan Europese belastingen erbovenop (of wat had u gedacht?) en de superstaat zal willens nillens een feit zijn.

Euro-obligaties zijn de “nieuwe” mantra van de stervende West-Europese sociaaldemocratie, gewurgd als ze wordt door een internationale context die de laatste drie decennia neoliberaal is geworden. Een internationale context waar de sociaaldemocraten als internationalisten overigens zelf ijverig aan hebben meegewerkt (en nóg meewerken). Iemand die zich de grote Europese roerganger Jacques Delors herinnert, de sociaaldemocraat die Europa herschiep tot een eengemaakte (d.w.z. volledig geliberaliseerde) markt? Roerganger van de sociaaldemocratie dan wel van het neoliberalisme, niemand die het nog goed weet. Maar “democraat”, dat zeker. En met hun pleidooi voor euro-obligaties bevinden de sociaaldemocraten zich opnieuw in het kamp van de notoire Europese federalisten. Langs rechts gedekt door Guy Verhofstadt (Open VLD), langs links door Daniel Cohn-Bendit (Les Verts). Verhofstadt, de liberaal die ooit als “Baby Thatcher” in zijn Burgermanifesten pleitte voor het “recht om uit de staat te stappen” en dus exact nul frank/euro belastingen te betalen, iets wat multinationale ondernemingen in België overigens nu al doen, pleit nu voor een Europese superstaat en Europese belastingen. Verhofstadts kompaan, Cohn-Bendit, ooit “Dany le Rouge” voor zijn vrienden mei-’68’ers, mag als hij Jean-Marie Le Pen niet aan het uitschelden is, de Hongaarse eerste minister Viktor Orban de mantel uitvegen. Orban, die aan het hoofd staat van een conservatief-nationalistische regering, wordt nu uitgerekend door Rooie Danny, vergeleken met Fidel Castro en Hugo Chávez. Meer dan veertig jaar geleden werd deze “bandiet” door zijn vijanden al uitgemaakt voor “anarchiste allemand”, “faux révolutionnaire” en “fils de grands bourgeois”. En, kijk, wie had er gelijk?

Hoe is het zover gekomen dat een conservatief-nationalistische politicus de “Chávez van Europa” wordt genoemd? Wel, het Hongaarse parlement heeft onlangs een nieuwe grondwet aangenomen in wat het begin lijkt van een politieke revolutie. Aan de zogenaamde christelijke inspiratie van die grondwet zal de vergelijking met Chávez wellicht niet liggen. Hoewel, het moet gezegd dat in Chávez' politiek toch een soort nieuwe bevrijdingstheologie doorschemert. Nee, dé steen des aanstoots is het feit dat Orban de eerste schuchtere stappen heeft gezet om de centrale bank van zijn land te nationaliseren. Een nationalisering die, zo vrezen de meeste economen, hogepriesters van het mammonisme (de afgoderij van het geld), de deur zou openzetten voor monetaire financiering en dus – nog steeds in hun logica – hyperinflatie. Monetaire financiering zou voor Hongarije echter ook in één klap een einde kunnen maken aan de afhankelijkheid van noodleningen, verstrekt door het EU-Noodfonds en het IMF. Aan de afhankelijkheid van het Leihkapital en zijn eeuwige renteslavernij, dus. Wie zou denken dat zulks per se zou moeten leiden tot hyperinflatie moet zich gewoon maar eens de vraag stellen waarom dat wél het geval was in het Duitsland van de jaren ’20, maar niet in het Duitsland van de jaren ’30. Maar goed, zover gaat de nieuwe Hongaarse grondwet niet eens. Het enige wat in feite verandert, is dat de Hongaarse minister van Financiën voortaan belangrijke vergaderingen bijwoont van de centrale bank van zijn land. Een groot schandaal, dat spreekt. De beruchte reductio ad Hitlerum is Orban vooralsnog bespaard gebleven, maar hoelang zal dat nog duren? Voor wie van historische vergelijkingen houdt dit keer geen Roosevelt of Hitler meer, maar Heinrich Brüning. De laatste rijkskanselier van de Weimarrepubliek, onder wiens regering het Hoover-moratorium (eenjarige stopzetting van de Duitse herstelbetalingen) tot stand kwam en de eerste Öffa-Wechsel werden uitgegeven.

Orbans hervormingen kunnen, zoals alles, eigenlijk slechts beoordeeld worden in het licht van hun finaliteit en die laatste kennen we vooralsnog niet. “Autocratie” en “dictatuur” roept het democratenkoor nu naar Orban, maar als Italië door buitenlandse ratingagentschappen en een stijgende schuldgraad wordt gedwongen (door wie?) een zakenkabinet in het zadel te hijsen, dan zwijgen ze natuurlijk. De Italiaanse regering heeft volmachten bovendien en is dus een dictatuur. En dan nog een zonder verkozen politici en met als enig mandaat: het uitvoeren van een internationale strafexpeditie tegen het eigen land en tegen de eigen natie. Griekenland bevindt zich met zijn regering van nationale eenheid in een vergelijkbare situatie. En de Belgische regeringsonderhandelingen hadden niet veel langer moeten aanslepen of België zat vandaag ook opgezadeld met een zakenkabinet. Om nog te zwijgen over de onverkozen wetgevingsmachinerie die de Europese Commissie is. Volmachtenwetten zijn echter een mes dat aan twee kanten snijdt: enerzijds zal men ze ooit nodig hebben om de dictatuur van het geld – de plutocratie – te kunnen breken, anderzijds kan de dictatuur van het geld ze evengoed gebruiken om een volk uit te persen en de weerstand ervan te breken, zoals nu gebeurt in landen waarvan wordt gezegd dat ze op de rand staan van het “staatsbankroet”. In dat geval dienen de volmachtenwetten om de dictaten van het internationale leenkapitaal door te drukken. Dat zijn dan de zogenaamde “onpopulaire maatregelen” waar de immer eufemistische en politiek-correcte media het over hebben, alsof de politici die ze uitvoeren dappere helden zijn en niet de zetbazen van het internationale leenkapitaal. Waarom hebben de Hongarije-criticasters geen moeite met de regeringen die die “onpopulaire maatregelen” nemen? Cru gesteld: dictatuur en hiërarchie heten bij het democratenkoor enkel “slecht” als ze niet plutocratisch, maar bijvoorbeeld politiek, militair of religieus van aard zijn.

Als Orban het herstel van de nationale soevereiniteit in Hongarije nastreeft, dan moet de enige relevante vraag zijn: met welk doel voor ogen? Eigenbelang of algemeen belang? Waakzaamheid is echter altijd geboden. En hoewel de Hongaarse regering stappen in de goede richting heeft gezet, is het duidelijk dat, als het Orban menens is met de nationale soevereiniteit, een breuk met de EU onvermijdelijk zal zijn. Een beetje soevereiniteit is géén soevereiniteit. Ook voor vakbonden en sociaaldemocraten geldt dat, als het ze menens is met de strijd voor het behoud van de sociale zekerheid, de koopkracht, de loon- en arbeidsvoorwaarden, ze het EU-lidmaatschap zouden moeten opzeggen. Ze zouden een voorbeeld moeten nemen aan een van hun illustere voorgangers, de voormalige BWP-voorzitter Hendrik de Man in 1940 (3). Diens fameuze Plan van de Arbeid was, net zoals Roosevelts New Deal, onuitvoerbaar gebleken in het toenmalige institutionele raamwerk. Zelfs met een regering van nationale eenheid, de regering Van Zeeland I, bleek zulks onmogelijk. Voordien had België overigens, net zoals Italië vandaag, al de bankiersregering Theunis II gehad. Zonder soelaas. Iets zegt mij echter ook dat de sociaaldemocratie in West-Europa al te lang en te veel verkankerd is door filosofisch liberalisme, anglofilie en vrijmetselarij, waardoor ze heel dicht aanschurkt tegen het politieke liberalisme. Niettemin worden Elio Di Rupo en – godbetert – François Hollande als nieuwe Jan Klaassens van de sociaaldemocratie in de steigers gezet. Sommige media willen ons zelfs doen geloven dat die laatste zinnens zou zijn een offensief tegen de almachtige haute finance te ontketenen. Jaja, tegen dat deel van de haute finance waaraan hij geen – u raadt het al? – euro-obligaties zal kunnen slijten waarschijnlijk. “Hollande wil het kapitalisme te lijf gaan met een loodjesgeweer”, zegt Marine Le Pen van het Front National (FN). Men hoeft geen sympathie te hebben voor de centrumrechtse partijen die in de meeste Europese landen aan de macht zijn (nog even toch) om te beseffen dat het altijd nóg slechter kan dan bijvoorbeeld een Sarkozy, een tegenstander van de euro-obligaties overigens. Zo scheelde het geen haar of PS'er Dominique Strauss-Kahn, de voormalige voorzitter van het Internationaal Muntfonds (IMF), was de “linkse” uitdager van “Sarko” geworden. Een beetje lenen bij het IMF kan allicht ook wel geen kwaad voor de “keynesiaanse” sociaaldemocraten, zolang zij daar zelf aan het roer staan. Ook Mario Monti en diens Goldman Sachs-regering in Italië tonen hoe een land van de regen in de drop kan belanden. Tevens levert investeringsbank Goldman Sachs nog de nieuwe eerste minister van Griekenland, de voorzitter van Europese Centrale Bank (ECB) en was het de belangrijkste campagnedonor van de huidige VS-president.

Interessanter dan Hongarije is overigens het programma van het Front National in Frankrijk. Het FN neemt bijvoorbeeld, anders dan vakbonden en sociaaldemocraten, stelling in tegen de wereldwijde vrijhandelsdictatuur. Een vrijhandelsdictatuur waarvan de EU niet meer dan het Europese smaldeel is en die de belangrijkste oorzaak is van de delokaliseringen naar nieuwe groeilanden (lageloonlanden). Op zich is vrijhandel niets nieuws. Toch is het in zijn huidige (multilaterale) vorm tamelijk recent en desastreuzer dan ooit tevoren. De impact ervan is te verklaren door de oprichting in 1995 van de Wereldhandelsorganisatie (WHO). Vrijhandel is een gesel voor veel ontwikkelingslanden, maar ook voor wat nog rest van de Europese landbouw en industrie, in het bijzonder de sectoren die nog een kleinschalig en relatief arbeidsintensief karakter hebben. Verder was de toetreding van China tot de WHO in 2000 een mokerslag voor Europa, dat na Chinees textiel nu ook meer en meer door Chinese elektronica wordt overspoeld. Er woedt dus op wereldvlak een economische oorlog waarvan velen dagelijks wel de gevolgen ondervinden, maar slechts weinigen de oorzaken en de schaal beseffen. Sociale bloedbaden komen niet uit de lucht gevallen, ze komen voort uit bewust genomen strategische beleidskeuzes. Die keuzes worden meestal genomen jaren vooraleer de gevolgen ervan merkbaar worden. En politici dragen daarbij de eindverantwoordelijkheid. Daarnaast zijn er natuurlijk de medeplichtigen, zoals liberale economen, die afdankingen en delokaliseringen in het omfloerste koeterwaals van hun ivoren torens de “comparatieve voordelen” van de vrijhandel plegen te noemen.

Maar wat is het grote voordeel van die vrijhandel? Een wereld waarin slaven moeten produceren voor werklozen die niet kunnen consumeren? Voorstanders beweren nochtans dat goedkope import de levensduurte hier kan drukken. Een redenering die men nog kan verwachten van China-dwepers als een Paul Buysse, een Jean-Marie Dedecker of een Chris Morel, maar toch niet iets waarmee een vakbond die haar leden wil verdedigen akkoord kan gaan? En toch zijn de grote vakbonden schuldig door verzuim. De syndicalisten hebben hun stek gekregen in het “parlement” van de Internationale Arbeidsorganisatie en dat moet maar volstaan om vrijhandel en arbeidersbelangen te verzoenen. Met andere woorden, geen enkele vakbond of partij kan vanuit die positie dus nog geloofwaardig de binnenlandse tewerkstelling verdedigen (en dat in de meest uiteenlopende sectoren). Vrijhandel staat haaks op eerlijke wereldhandel en is de ideologie waarmee het internationale financierskapitaal, multinationale ondernemingen en grootbanken de wereld(markt) verovert. Reken niet op de “sociale” internationalisten of andersglobalisten voor verzet, want zij zijn gewoon mooipraters zijn van wat spuuglelijk is; hun naïeve oppositie is altijd wel af te kopen met een postje hier of daar in een van de vele internationale instellingen/praatclubs (men moet verliefd zijn op de democratie om stekeblind te blijven voor de realiteit ervan). Er is vandaag de dag geen enkel protectionisme mogelijk in Europa en dat is, ironisch genoeg, in de eerste plaats een gevolg van de EU zelf. Zij is immers met handen en voeten gebonden aan de WHO-verdragen en een hele resem andere internationale verplichtingen. Er zal pas een slim protectionisme mogelijk zijn na een heronderhandeling van alle vrijhandelsverdragen en de uiteindelijke vervanging van de vrijhandelszones door nieuwe samenwerkingsverbanden van soevereine staten (zoals Chavez’ Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América – ALBA). Daarmee is meteen ook de karikatuur de wereld uit geholpen als zou nationale politieke onafhankelijkheid internationale samenwerking uitsluiten, dat soevereiniteit synoniem zou staan voor een Zwitserse of, godbetert, Noord-Koreaanse Alleingang.

Gevraagd naar haar eerste presidentiële beleidsmaatregel, antwoordt Marine Le Pen: de oprichting van een Ministerie van Soevereiniteit. Dat zou dan belast worden met de heronderhandeling van ALLE internationale verdragen. Het NAVO-lidmaatschap wordt onmiddellijk opgezegd, waarna onder meer een strategisch (militair en energetisch) bondgenootschap zou worden voorgesteld aan Duitsland en Rusland, de zogenaamde as Parijs-Berlijn-Moskou. Parallel met die as Parijs-Berlijn-Moskou zal de Europese landen voorgesteld worden een “Pan-Europese Unie” van soevereine staten te vormen. Verder wordt het voortbestaan van de Wereldhandelsorganisatie, het Internationaal Muntfonds en de Wereldbank in vraag gesteld (4). Die laatste twee worden (terecht) “verouderd” genoemd, aangezien ze – opgericht in 1944 – nog steeds beheerst worden door de overwinnaars van de Tweede Wereldoorlog. En daar zijn ook de BRIC-landen niet bepaald tevreden mee. Tevens moeten de Europese verdragen (onder meer inzake vrij personenverkeer) herzien worden om het hoofd te bieden aan de asiel- en immigratiecrisis. De economische partnerschapsakkoorden met de landen waar de immigratie vandaan komt, moeten worden heronderhandeld om de instroom te stoppen. Tot slot – en bij wijze van eigen bedenking – zouden ook de Conventies van Genève herzien moeten worden. De conventie die vandaag de status van alle vluchtelingen regelt dateert van 1967 en is niet meer aangepast aan de noden van deze tijd. Het gaat om een uitbreiding van een eerdere conventie uit 1951, die enkel de rechten van Europese vluchtelingen regelde in de nasleep van de Tweede Wereldoorlog. Schaf die conventie(s) af en geen enkel Europees land zal nog internationaal “verplicht” zijn asiel te verlenen aan vluchtelingen van buiten Europa. De keerzijde van zo'n asielstop moet dan echter wel de ethische verplichting zijn dat geen enkel Europees land nog langer diplomatiek en militair betrokken is bij oorlogen die precies vluchtelingenstromen naar Europa veroorzaken. Zolang dat niet het geval is, is het dom en vals om alle aandacht op de vluchtelingen te richten (de “rechtse” demagogen hebben daar hun specialiteit van gemaakt).

Een laatste belangrijk programmapunt van het FN is dat het pleit voor het herstel van de Franse monetaire soevereiniteit. Niet enkel door een terugkeer naar de frank, maar vooral door de afschaffing van de infame wet-Pompidou-Giscard (ook wet-Rothschild genoemd). Een standpunt dat het onder meer deelt met nationaal-revolutionaire organisaties als Egalité et Réconciliation (van Alain Soral) en Troisième Voie (van Serge Ayoub). Die wet uit 1973 legde de (renteloze) monetaire financiering van de Franse staat aan banden en dwingt hem tegen hogere rentes op de kapitaalmarkten te lenen. Gelddeskundige Bernard Lietaer, een van de weinige dissidente stemmen onder het economengebroed, becijferde onlangs dat Frankrijk zonder die bewuste wet – door het wegvallen van de rentelasten op de staatsschuld – een staatsschuld van ongeveer 8% van het BBP had kunnen hebben in plaats van de meer dan 80% vandaag (Frankrijk had in '73 een staatsschuld van “maar” 21% van het BBP). Toch een opzienbarend feit, niet? Voor de massamedia heeft het blijkbaar amper nieuwswaarde. Zelfs de vakbonden, die zogenaamde voortrekkers van de sociale strijd, geven er geen ruchtbaarheid aan. De internationalistische vakbondstop verkiest euro-obligaties. Er rust geen taboe op de heilige huisjes van de internationale plutocratie. Nee, er heerst een ware omerta. Zoals bij elke maffia. Is het domheid of is er meer aan de hand? Eén ding is zeker: de wet-Rothschild, die monetaire financiering verbiedt, is via de artikelen van het Verdrag van Maastricht (1992) veralgemeend naar heel de Europese Unie. Het beleid dat de ECB nu voert slaat dan ook nergens op: ze leent geld tegen lage rentes in de hoop dat de banken daarmee staatsobligaties zouden kopen. En dat is wérkelijk een beleid dat aanstuurt op (hyper)inflatie; het democratenkoor, dat nu nog steeds de zegeningen van de euro bezingt, is vastgeroest in zijn eigen waandenkbeelden.

In de race naar het Elysée lijkt Marine Le Pen alvast quantité négligeable. Media en opiniemakers spitsen alle aandacht toe op het (schijn)gevecht tussen Hollande en Sarkozy. Het FN wordt zonder enige nuance als extreemrechts afgeschilderd, zoals dat al bijna veertig jaar lang wordt gedaan. Al wie zich een beetje zou informeren (en hoe is het nog mogelijk niet of slecht geïnformeerd te zijn in tijden van Internet?) zou moeten inzien dat het FN in heel wat opzichten een links-nationalistisch of nationaal-revolutionair programma heeft. Of toch alleszins een programma dat vanuit die optiek kan worden gesteund. De invloeden van onder meer de ecologist Laurent Ozon, van sociologen als Alain Soral of zelfs Emmanuel Todd maar ook die van niet-liberale economen als (wijlen) Maurice Allais en Jean-Claude Martinez zijn onmiskenbaar. Althans voor wie (ook) de politieke cultuur heeft om het in te zien en de intellectuele eerlijkheid om het te erkennen. Het is een programma dat met recht en rede populistisch kan worden genoemd, maar dan zonder de zweem van dwaze en hatelijke demagogie die de verzuurde islamvreters van (liberaal-zionistisch) “extreemrechts” kenmerkt. Mede daardoor is populisme de laatste jaren (helaas) onterecht synoniem geworden voor demagogie of volksverlakkerij, terwijl er vandaag meer dan ooit nood is aan een revolutionair populisme (waarvan enkele speerpunten hierboven al geformuleerd zijn). En wat populisme betreft, is het programma van het FN niet eens zo nieuw als het lijkt. Het is gewoon een actualisering van de lijn die stichter Jean-Marie Le Pen al meer dan een halve eeuw volgt, en wel toen hij nog in het parlement zetelde voor de de défense des commerçants et des artisans (UDCA) van Pierre Poujade (6). Die partij kwam voort uit een anti-etatistische én antikapitalistische tegenbeweging van kleine zelfstandigen (met tot op vandaag de wet-Royer, die de inplanting van de grootdistributie in kleine gemeenten aan banden legt, als een van haar politieke erfenissen). Aangezien de liberale staat in handen is van de houders van de staatsschuld is er geen kritiek op de staat mogelijk zonder een kritiek op het kapitalisme. De anti-etatistische kant van het poujadisme is doorgaans bekend, de antikapitalistische niet. Poujade zelf was in de jaren '30 overigens lid geweest van de Parti populaire français (PPF) van Jacques Doriot, een voormalige communist. De PPF was de enige fascistische massa-partij die Frankrijk ooit gekend heeft.

Poujadisme is tegenwoordig een synoniem voor populisme, maar het eigenlijke populisme dankt zijn naam dan weer aan de People’s Party die op het einde van de 19de eeuw furore maakte in de VS. Een kleine toelichting van het populisme is hier wel op zijn plaats, want het populisme verenigt in zich enkele anti-oligarchische tendensen die ook vandaag nog bijzonder actueel zijn. Het oorspronkelijke populisme kan worden gerekend tot de antifederalistische onderstroom in de Amerikaanse samenleving en was in menig opzicht verwant met de Democratisch-Republikeinse Partij (voorloper van de huidige Democratische Partij). Net zoals de Populisten waren de oude Democraten de partij van de vrije boeren in een gebied dat zich uitstrekte van het Zuiden tot de Grote Vlakten in het Midwesten. Hun grote rivaal was de toenmalige Federalistische Partij, de partij van de Amerikaanse oligarchie, zeg maar de burgerij van de Oostkust (vandaag nog altijd het centrum van de politieke en de financiële macht in de VS). Democratisch-Republikeinse presidenten als Thomas Jefferson en Andrew Jackson zijn dan ook – niet onbelangrijk in het licht van dit artikel – legendarisch geworden vanwege hun strijd tegen het (centrale) bankwezen in de VS (5). De oprichting van een centrale bank is altijd een van de voornaamste strijdpunten van de Federalisten geweest (ook toen ze allang niet meer onder die naam bestonden). Bemerk hier de gelijkenis met “onze” EU-federalisten, die overigens niet op toeval berust. De Populisten waren tegen de beurs van Wall Street (doorgeefluik voor reusachtige investeringen van Europees, overwegend Britse leenkapitaal), het stelsel van de National Banks (voorlopers van de huidige Federal Reserve) en de vorming van de eerste trusts (economische kartels), maar zij waren ook voor de nationalisering van bijvoorbeeld spoorwegen en telegrafie; tegen de goudstandaard en de werking van het gehele bankwezen en voor “overvloedig” geld (schuldvrij papiergeld of zilver-certificaten). Verder waren ze voor de invoering van de achturendag en een progressief belastingstelsel. Veel van die Populisten en hun ideeën kwamen op hun beurt voort uit de Greenback Party, een partij die na de Amerikaanse burgeroorlog ijverde voor het in omloop houden van het door de oorlogsregering van Abraham Lincoln gedrukte papiergeld. Het programma van de Greenbackers en de Populisten was dus een pleidooi voor een munt die ten dienste stond van de “kleine man” en niet van het bankwezen van de Amerikaanse Oostkust.

Het populisme was (en is) dus de ideologie van een anti-establishmentbeweging die haar wortels niet in het establishment zelf had. Het grote verschil tussen het populisme en de historische arbeidersbewegingen was immers dat die laatste meestal niet werden geleid door arbeiders, maar door marxistisch geïnspireerde burgerlijke – niet zelden Joodse – intellectuelen, wat de internationalistische gezindheid van het socialisme in de hand werkte. Het populisme had dus geen echte “linkse” oorsprong, hoewel het een uitgesproken antikapitalistische beweging was. Het was het politieke verzet van de beroepsgroepen die vreesden geproletariseerd te worden door de opkomende wereld van banken, fabrieken en groothandel. Een verzet gedragen door relatief vrije mensen – burgerij noch proletariaat – die echter in de steek werden gelaten door de sociaaldemocratie, waardoor ze in het Interbellum ook massaal gehoor zouden geven aan de lokroep van het fascisme, het nationaalsocialisme en aanverwanten (zie o.a. Doriot/Poujade).

Wat massamedia en opiniemakers tegenwoordig “rechts-populisme” noemen is evenwel geen populisme, maar liberale demagogie in een volkse verpakking. Een pseudo-populisme, dat hooguit enkele oppervlakkige raakpunten heeft met het historische populisme. Dat laatste was veel meer dan  datgene waarvoor het nu doorgaat: een antibelastingsideologie. De Tea Party-beweging in de VS bevestigt haar domme tax revolt-karakter expliciet door haar naamkeuze en zelfs de libertarische presidentskandidaat Ron Paul, bekend om zijn snedige kritieken op de Federal Reserve en het VS-imperialisme, staat nog altijd mijlenver van het oorspronkelijke populisme. De reden waarom er niet zoiets als een “liberaal-populisme” kan bestaan is dat er gewoon geen vergelijk mogelijk is tussen liberalisme en populisme. Handelsliberalisering (vrijhandel) staat bijvoorbeeld haaks op de verdediging van zowel arbeiders als kleine zelfstandigen en zelfs delen van het bedrijfsleven (7). Deze korte analyse van het populisme toont ten slotte ook de valsheid aan van de marxistische klassenstrijdanalyse, gebaseerd op een duale voorstelling van “arbeid” en “kapitaal”. Communisten en kapitalisten zien zichzelf in hun (gedeelde) deterministische, dialectische opvatting van dé Geschiedenis graag als de grote protagonisten van dé Vooruitgang, maar elke keer opnieuw botsen ze op het voluntarisme van dissidenten die niet tot hun (moderne) links/rechts-logica te herleiden zijn. “Er zijn niet twee, maar véél meer klassen”, was dan ook een van de opvattingen waarmee Benito Mussolini, zelf een afvallige van de sociaaldemocratie en volgens Lenin de enige man in Italië die een revolutie kon leiden, tegen het marxisme inging. En met een bont allegaartje revolutionairen en oorlogsveteranen zou hij later, ironisch genoeg, Lenins gelijk bewijzen.

Sinds enkele jaren is er ook heel wat te doen om het “links-populisme” in Latijns-Amerika. De naamkeuze verraadt al dat het een linkse stroming is die afwijkt van het marxisme, vandaar haar “populaire” en niet “doctrinaire” karakter. De benaming is echter ook, al dan niet bewust, misleidend. Ze verdoezelt immers dat het links-populisme ook en vooral een links-nationalisme is. Het kan een combinatie worden genoemd van niet-marxistisch gezindheidssocialisme (cf. Hendrik de Man) en revolutionair bevrijdingsnationalisme. Dat is een nationalisme dat de “natie” ziet als de zaak van het ganse volk en niet als het voorrecht van een burgerij. Zoiets kan in de beperkte denkwereld van de liberale (linkse én rechtse) opiniemakers echter niet bestaan, tenzij het een marxistisch, communistisch of op zijn minst “links” karakter heeft. Zodoende worden de linkse nationalisten in Latijns-Amerika vandaag linkse populisten genoemd, zoals ze vroeger werden verketterd tot communisten, zeker als ze ook nog eens frontaal ingingen tegen de belangen van de VS in Latijns-Amerika. Denk maar aan Jacobo Arbenz in Guatemala, de jonge Fidel Castro in Cuba of Omar Torrijos in Panama. Zij waren (en zijn) slechts enkele voorbeelden van de vele linkse nationalisten in Latijns-Amerika. Wie verder wil teruggaan in de tijd kan ook nog de minder politiek-correcte, semi-fascistische regimes van een Lázaro Cárdenas in Mexico, een Getúlio Vargas in Brazilië (“Estado Novo”) en een Juan Perón in Argentinië aan het rijtje toevoegen. Zij kunnen zeker beschouwd worden als voorlopers van de huidige linkse golf: Hugo Chavez in Venezuela, Rafael Correa in Ecuador, Evo Morales in Bolivië en Ollanta Humala in Peru. In Bolivië en Peru, landen waar de indiaanse bevolking zich het sterkst heeft kunnen handhaven, gaat links-nationalisme gepaard met indiaans nationalisme of indigenisme.

Het links-nationalisme in Latijns-Amerika heeft zijn wortels in de 19de eeuw, meer bepaald toen de VS en het VK elkaar vonden in een gezamenlijke strijd om de Spanjaarden van het continent te verdrijven (zoals ze elkaar later ook zouden vinden tijdens de Eerste én Tweede Wereldoorlog om de Duitsers “uit Europa” te verdrijven). Zodoende spraken de VS, geruggensteund door het VK, met de Monroe-doctrine hun perfide “steun” uit aan de onafhankelijk geworden Spaanse (en Portugese) kolonies in Latijns-Amerika. De toenmalige Britse minister van Buitenlandse Zaken verried echter zijn ware bedoelingen, toen hij later schreef: “Spanish America is free; and if we do not mismanage our affairs sadly, she is English.” Latijns-Amerika is na zijn (schijn)onafhankelijkheid gewoon als een rijpe vrucht in de schoot van het Anglo-Amerikaanse neokolonialisme gevallen en tot op vandaag verwikkeld in een onafhankelijkheidsstrijd. In een ruimer opzicht zou men die onafhankelijkheidsstrijd zelfs een “botsing van beschavingen” kunnen noemen, namelijk een botsing tussen de Angelsaksische en van oorsprong joods-puriteinse beschaving en de Latijnse, katholieke beschaving met een inheems-heidens element.

Het neokolonialisme uit zich niet alleen door de vele militaire interventies van de VS, de vele door de VS gesteunde militaire staatsgrepen of de zogenaamde “war on drugs” (die niets anders is dan een voorwendsel voor de VS om militair aanwezig te zijn). Er is ook een sluipende economische oorlog aan de gang waarbij vrijhandel de strategie is van de Amerikaanse oligarchie om haar economische monopolies in Latijns-Amerika te vestigen. Zo heeft de Mexicaanse landbouw sinds de toetreding van het land tot het NAFTA (North American Free Trade Agreement) geen enkel verweer meer tegen de Amerikaanse agro-industrie en daardoor voert het land dat de bakermat van de maïs is, en bijgevolg de grootste soortenrijkdom herbergt, nu (goedkoper) maïs in uit de VS. Bovendien worden de inheemse soorten bedreigd door genetisch gemanipuleerde varianten uit de VS, want ook de “Frankensteins” die genetisch gemanipuleerde zaden verpatsen willen een graantje meepikken van de verovering van de Mexicaanse landbouw. De ondertekening van het NAFTA door Mexico in 1994 was ook het startsignaal voor een opstand van inheemse boeren in de Mexicaanse provincie Chiapas. Werkloosheid in de landbouw is het gevolg van de vrijhandel en vele boeren schakelen over op de cocateelt of wijken uit naar de VS.

De situatie in Latijns-Amerika, met politieke elites in de rol van neokoloniale zetbazen of compradores, verschilt in wezen niet zoveel van die in het “Oude Europa”, dat na twee wereldoorlogen ten slotte ook in het gareel werd gedwongen van diezelfde westerse, Anglo-Amerikaanse wereldorde. Na de Tweede Wereldoorlog werd het nationaalsocialistische, Duits-Europese autarkie-streven, zowel op vlak van internationale handel als van staatsfinanciën, definitief genekt. De opdeling van Europa in een westelijke en een oostelijke helft was het resultaat. En door de gedwongen politieke en economische integratie van die westelijke helft, zowel Europese landen onderling als met de VS, ontstond een gecombineerd westers “super-imperialisme”. Een imperialisme, dat in periodes van acute crisis weleens vlug opnieuw in onderlinge rivaliteiten kan vervallen. De Irak-oorlog van 2003 is één voorbeeld van onderlinge verdeeldheid, de huidige eurocrisis een ander. En als het historische momentum zich voordoet, zullen ook in Europa (opnieuw) links-nationalistische, nationaal-revolutionaire kaders klaar moeten staan om aansluiting te vinden bij die delen van de burgerlijke elite die zich – om welke redenen dan ook – “nationalistisch” zullen opstellen, want de politieke vazalliteit en de economische plundering hebben lang genoeg geduurd. Het naoorlogse Duitsland mag als Bondsrepubliek, een economische reus maar een politieke dwerg, vandaag de hoofdopzichter van het imperialisme in Europa spelen.

Nationale soevereiniteit is de eerste voorwaarde om een einde te maken aan de dictatuur van het internationale leenkapitaal en zijn krediet- en speculatie-economie. Soevereiniteit (in formeel-juridische zin) is de eerste stap naar een volwaardige soevereiniteit, die natuurlijk pas kan voortkomen uit een grondige sanering van de staatsfinanciën. Zo niet, blijven staten via staatsschuld en eeuwige rentedienst gewoon in de klauwen van het leenkapitaal. Dat is de werkelijkheid van de liberale staat, de moderne democratie. Alle belastings- en besparingsmaatregelen zijn in hetzelfde bedje ziek, omdat ze de wortel van het kwaad niet uitroeien. Dat is inderdaad een populistische, maar geen demagogische belastingskritiek. Demagogie is bijvoorbeeld de roep om Europese “solidariteit” met landen als Griekenland. Of de eis nu uit linkse dan wel uit rechtse hoek komt, hij komt altijd op hetzelfde neer: “solidariteit” in de vorm van een kredietinfuus, dat dubbel en dik terugbetaald zal moeten worden door de Griekse staat en dus het Griekse volk. Wie die logica volgt, is medeplichtig aan de brandschatting van Grieks staatseigendom en de uitpersing van het Griekse volk.

De Griekse bankiersregering heeft enkele maanden geleden, om zich de algehele vernedering van een door de EU georganiseerde uitverkoop te besparen, zelf raadgevers ingehuurd bij Deutsche Bank alsook BNP Paribas, Citigroup, Crédit Suisse, Ernst & Young, HSBC en uiteraard het alomtegenwoordige, maar immer onopvallende Rothschild & Sons. Voor de grootbankiers die jarenlang krediet gezaaid hebben, is de oogsttijd nu aangebroken. Om nog te zwijgen over de rol die de bank Goldman-Sachs jarenlang heeft gespeeld in het vervalsen van de Griekse begrotingen (en de EU die meer dan één oogje toekneep). En terwijl in Griekenland nu alles wat beweegt wordt belast, alles wat los- of vastzit wordt verpatst en al wie werkt moet inleveren, slaapt de rest van Europa rustig verder. Het geweten gesust door het fabeltje van de “solidariteit” en het verstand door de prietpraat van de “specialisten”. Is het overigens niet frappant hoe men over eender welk belangrijk onderwerp van kindsbeen af wordt aangemoedigd tot mondigheid, tot vrijdenkerij en vrije meningsuiting (meestal niet wordt gehinderd door enige kennis van zaken), terwijl het geld nog steeds iets voor ingewijden blijft? Alles wordt gebanaliseerd, geprofaniseerd en gevulgariseerd, maar de wereld van het geld blijft wel gehuld in een waas van mysterie.

De Griekse jeugd wordt intussen meer en meer gedwongen haar vaderland te verlaten, omdat dat laatste als EU-lidstaat de beleidsinstrumenten ontbeert om een eigen herstelbeleid te voeren (zoals een eigen munt). Het is altijd een van de bedoelingen van de eurozone geweest dat een lidstaat getroffen door een crisis, maar gehandicapt in zijn bevoegdheden, zijn problemen gewoon zou uitvoeren naar de rest van de eurozone in plaats van ze op te lossen. Met andere woorden, dat de werklozen zouden emigreren en samen met hen de mogelijke sociale strijd in die lidstaat. Arbeidsmobiliteit heet zoiets in het economenjargon. De Europese arbeidsmarkt als een moderne slavenmarkt. Niettemin is het een ferme misrekening gebleken: niet alleen wordt de sociale strijd in Zuid-Europa steeds grimmiger, jonge werklozen in de zwaarst getroffen “PIIGS”-landen (Portugal, Ierland, Italië, Griekenland, Spanje) kiezen steeds meer voor emigratie naar landen als Australië en Nieuw-Zeeland of, in het geval van de Portugezen, Angola en Brazilië. Kortom, allesbehalve de gehate en zelf achteruit boerende EU. Die gebrekkige arbeidsmobiliteit is overigens niet van vandaag en is maar een van de vele redenen waarom de Europese eenheidsmarkt en -munt nooit behoorlijk hebben gewerkt. Ook de pogingen om het beleid van de onderling sterk verschillende lidstaten koste wat het kost te nivelleren zijn mislukt. De euro zou als gemeenschappelijke munt, niet als eenheidsmunt een meerwaarde voor Europa gehad hebben. Een euro naast vele andere Europese munten: nationale en zelfs regionale of lokale munten, die evenzoveel middelen zijn om een beleid op (mensen)maat te voeren. En een onderlinge koppeling van die verschillende munten, binnen een bepaalde bandbreedte, zoals die ook al bestond voor de komst van de ecu/euro met de Europese muntslang, zou dan het geheel kunnen beschermen tegen muntspeculatie.

Mensenrechtenhuichelaars in het media-wereldje blijven opvallend stil over de Griekse tragedie die zich voor hun ogen afspeelt. De farce van de “Arabische Lente”, daar hadden en hebben ze oog voor. Vooral in ongebonden landen als Libië en Syrië. Minder in Egypte en Tunesië, waar kleptocraten uit de sociaaldemocratische Internationale decennialang – en onder het goedkeurende oog van de VS en Israël – de dienst uitmaakten. Nee, de zelfverklaarde vrije media zouden het niet op hun geweten willen hebben dat de protestbeweging in Griekenland, door hun toedoen, van een “Griekse Lente” tot een “Europese Lente” worden. Dan zouden ze uit hun rol vallen. Een hofhouding pleegt immers geen koningsmoord. Dat hoort niet. En wat met die andere huichelaars, de humanitaire interventionisten van de NAVO, die zich vorig jaar ontpopt hebben tot logistieke medewerkers van de Libische protestbeweging? Ach, wat een overbodige vraag. De ene kant van de Middellandse Zee is de natuurlijk de andere niet. En toch, de echte revoluties voltrekken zich zelden op straat en al zeker niet door ongeorganiseerde, diffuse menigtes. Het straatgeweld van protestbetogingen is de karikatuur van een revolutie. En contra-productief. Er komt geen tweede, spreekwoordelijke bestorming van de Bastille (waarvan de symbolische betekenis voor de Franse Revolutie overigens groter was dan haar reële historische bijdrage). Het geeft een vertekend beeld van de werkelijkheid, want zijn de echte revolutionairen eigenlijk niet de bonzen die op internationale conferenties (en in de schaduw daarvan) beslissingen nemen, die ze vervolgens in verdragen en binnenlandse wetten gieten? En wat vermogen betogingen, stakingen, verkiezingen en volksraadplegingen tegenover genomen beslissingen en voldongen feiten?

De revolutie die de geldadel pijn kan doen is geen pseudo-revolutie van het geweld, maar een revolutie van de wet. Een die de internationale leenkapitaal het monopolie op de geldschepping betwist en uiteindelijk ontneemt. Een revolutie van het geld of, liever, van het geld als wettelijk betaalmiddel. Alleen zo kan er een einde komen aan de uitzichtloze neerwaartse spiraal waarin landen als Griekenland nu verkeren en straks ook de rest van Europa zal verkeren. Jawel, straks. “Krediet” is namelijk iets wat men niet voelt, zolang er genoeg economische groei is. Dan is de economie een goede melkkoe voor de “kredietverstrekkers” die als bloedzuigers op haar lijf kleven. Geldschepping door krediet, dus schuld, is de belangrijkste bron van sociale controle in een kapitalistische maatschappij en net datgene wat steeds onder de radar blijft (en moet blijven). Sociaaldemocraten en marxisten eisen geen hervorming van het geldwezen, maar willen het privé-eigendom aan banden leggen of zelfs afschaffen: hetzij door belastingen, hetzij door nationaliseringen. Daarmee gaat het in feite nog verder dan het kapitalisme, dat de privé-eigendom en het bedrijfsleven in handen van weinigen concentreert. Beide zijn dus anomalieën van dezelfde sociale stoornis. Sociaaldemocraten en marxisten begrijpen niet dat privé-eigendom en eigendomsverwerving juist het tegendeel zijn van kapitalistische renteslavernij, die vrije mensen onteigent en proletariseert. Pas als de staat uit de greep van het leenkapitaal bevrijd is, zal hij ophouden een bron van  niet-aflatende “klassenstrijd” te zijn, een krabbenmand waarin verschillende belangengroepen belastingen en besparingen op elkaar proberen af te wentelen. Maar het juk afwerpen? Dat komt zelfs niet in hun stoutste gedachten op. En gebeurt dat niet, dan is de kans groot dat de geschiedenis zich herhaalt en de Europese landen zich, al dan niet onder NAVO-vlag, opnieuw in een (wereld)oorlog storten om uit de recessie te komen en hun tanende macht te redden.

Is in Hongarije zo'n revolutie begonnen? Volgens de Cohn-Bendits en de Verhofstadts heeft het land een probleem met de democratie; hun collega Annemie Neyts-Uyttebroeck suggereerde zelfs dat dat probleem opgelost zou kunnen worden door het overlijden van Orban (8). Voor de rest: veel pathos, geen argumenten. Hoe kunnen ze ook? Argumenten aanvoeren voor een “onafhankelijke” centrale bank – onafhankelijk van regering en volksvertegenwoordiging, niet van het bankwezen zelf? Ach, maak toch geen slapende honden wakker! Verpak een aanval op de “vrije” centrale bank in Hongarije als een aanval op de “vrije” media, moeten de eurocraten gedacht hebben. “Vrije” media zijn volgens liberalen en democraten immers media die grotendeels in handen zijn van dezelfde kliek die ook het bankwezen in handen heeft. Maar de rebelse Hongaren storen zich niet aan de bombast van hun criticasters en ze gaan de straat op om hun eerste minister te steunen. Waar elders in Europa ziet men dezer dagen betogingen vóór een zetelende regering? Nergens. En aldus weerklinkt in de straten van Boedapest de luide roep: “Wij willen geen kolonie zijn”. De Hongaren lijken het begrepen te hebben!

Noten:

1) Van Cauwelaert, R. (2011, 9 februari), Eutopia.
2) Brown, E. (2007, 9 augustus), Thinking Outside the Box: How a Bankrupt Germany solved its Infrastructure Problems.
3) “De oorlog is uitgelopen op de ineenstorting van het parlementaire stelsel en van de kapitalistische geldheerschappij in de zogenaamde democratische landen. Verre van een ramp te zijn, is deze ineenstorting van een vermolmde wereld voor de werkende klassen en voor het socialisme een verlossing (…) De vrede kon niet ontstaan uit een regime dat zich democratisch noemde, maar waar in werkelijkheid de geldmachten en de beroepspolitici regeerden, een regime dat meer en meer onmachtig bleek tot elk gedurfd initiatief, tot elke ernstige hervorming.” (Hendrik de Man, geciteerd in: Manifest van 28 juni 1940)
4) AFP/Le Point (2011, 25 mei), Marine Le Pen : “Il faut supprimer purement et simplement le FMI”.
5) “I believe that banking institutions are more dangerous to our liberties than standing armies. If the American people ever allow private banks to control the issue of their currency, first by inflation, then by deflation, the banks and corporations that will grow up around [the banks] will deprive the people of all property until their children wake-up homeless on the continent their fathers conquered. The issuing power should be taken from the banks and restored to the people, to whom it properly belongs.” (Thomas Jefferson)
6) YouTube (2009, 19 mei), Pierre Poujade contre le juif Mendès-France.
7) Terzake (2011, 11 mei), Vlaams beleid tegenover de industrie is nul, nul, nul.
8) RechtsActueel (2012, 17 januari), Radio 1: Oostenrijkse democratie gered door overlijden Jörg Haider….

mercredi, 14 mars 2012

La crisi dell'Europa è la crisi del modello economico fondato sul debito

La crisi dell'Europa è la crisi del modello economico fondato sul debito

di Virendra Parekh

Fonte: geopolitica-rivista

La crisi dell’Europa è la crisi del modello economico fondato sul debito

C’è un aspetto dell’attuale crisi economica in Europa e Nordamerica che è stato completamente sorvolato: l’attuale condizione di queste potenti economie convalida la tradizionale saggezza indiana riguardo alle questioni economiche e finanziarie, ponendo degli interrogativi su modelli economici (e stili di vita) basati sul debito. Considerati i probabili scenari futuri in Grecia e nell’Unione Europea, tutto ciò diventerà chiaro come il sole.

Dopo lunghi negoziati, i leader europei, i creditori privati e il FMI sono riusciti a predisporre il secondo pacchetto di salvataggio per la Grecia, il quale è ritenuto politicamente accettabile per i creditori, fornendo ad Atene un sostegno che si calcola possa essere sostenibile. Saranno garantiti alla Grecia 130 miliardi di euro (173 miliardi di dollari) di finanziamenti addizionali per i prossimi due anni. Le banche private hanno accettato una riduzione del 53,5% del valore nominale delle obbligazioni greche in loro possesso, unitamente a una riduzione del tasso d’interesse sui nuovi titoli, partendo dal 2% e salendo al 4.3% dal 2020. Tutto ciò equivale a una perdita dell’attuale valore netto di circa il 75% (una perdita maggiorata al 21% rispetto agli accordi del luglio dello scorso anno). Inoltre, i tassi d’interesse applicati dai membri dell’eurozona sui loro prestiti di salvataggio per la Grecia saranno ridotti dello 0,50%.

L’accordo dovrebbe comportare un abbassamento del rapporto tra debito e PIL della Grecia al 120,5% nel 2020.
Tuttavia, l’elargizione del prestito è condizionata dall’attuazione da parte della Grecia di determinate misure entro la fine del mese – ad esempio, ridurre il salario minimo per rendere il mercato del lavoro più flessibile – e sarà sottoposta a un “rafforzato e permanente” monitoraggio da parte dei funzionari della Commissione Europea in Grecia.
La Grecia dovrà depositare il valore di un trimestre del pagamento del servizio di debito in un “conto separato”, il quale sarà monitorato dalla troika composta da Commissione Europea, Banca Centrale Europea e FMI.

Nel corso dei prossimi due mesi, la Grecia promulgherà una legge “garante che la priorità sarà concessa ai pagamenti del servizio del debito”, sancendolo nella Costituzione “il più presto possibile”. Il pacchetto, se sarà attuato (si tratta di un grosso se), consentirà alla Grecia di evitare un default disordinato nel prossimo mese con 14,5 miliardi di euro (19 miliardi di dollari) di obbligazioni in scadenza. Tuttavia, la tregua è destinata ad essere temporanea ed è improbabile che possa offrire delle soluzioni ai problemi di base della Grecia o, più importante, delle economie dell’eurozona.

Questo perché la pazienza e la fiducia si stanno esaurendo su tutti i fronti. Gli istituti di credito esercitano delle pressioni, richiedendo una maggiore austerità e forti impegni, i titolari di mutuo stanno diventando sempre più risentiti per le condizioni che si stanno cercando di imporre loro, e la gente nei paesi prestatori è irritata di fronte alla prospettiva di compiere dei sacrifici per salvare i loro dissoluti vicini. Ci sono state violente manifestazioni e proteste ad Atene e altrove contro il pacchetto d’austerità. Per i greci, i quali hanno avuto a lungo vita facile come parte integrante della più ampia eurozona, i sacrifici richiesti, in particolare la riduzione delle pensioni, rappresentano una pillola amara da ingoiare. La sensazione di essere costretti a subire delle privazioni in base alle insistenze degli stranieri, soprattutto tedeschi, li rende ancor più risentiti. Con la disoccupazione in crescita attorno al 20% per il quarto anno consecutivo, la rabbia dell’opinione pubblica contro la classe politica ha comportato settimane di proteste.

Quasi con lo stampino, la rabbia sta montando in altri paesi dell’eurozona per la prospettiva di dover salvare i greci, piuttosto che lasciarli cuocere nel loro brodo. I pessimisti sottolineano che la Grecia è nota per le promesse non mantenute. Nonostante gli impegni presi più di un anno fa volti alla massiccia privatizzazione e alla riduzione dell’amministrazione pubblica, non un singolo significativo settore greco è stato privatizzato, né un funzionario licenziato. Dopo aver speso miliardi per più di un decennio per l’integrazione della Germania, i tedeschi non vogliono spendere grandi somme supplementari a favore di coloro che considerano pigri, nonché fannulloni spendaccioni dell’Europa meridionale. Altri Stati creditori come la Finlandia e i Paesi Bassi sono altrettanto stufi di dover distribuire denaro, e meno della Germania si sentono costretti a svolgere la parte dei buoni europei.

In questo modo, l’agonia della Grecia non è affatto conclusa. Per prima cosa, le regolari e incessanti valutazioni della troika, così come le accese polemiche per gli eccessi di esborsi continueranno. E se l’Italia e la Spagna saranno in grado di fare evidenti progressi nella sistemazione delle proprie finanze pubbliche, il resto dell’eurozona si sentirà più al sicuro nel chiudere il rubinetto greco. Dunque la Grecia potrà solo ritardare un default disordinato, che alla fine avverrà comunque.

Sotto molti aspetti la Grecia rappresenta la debolezza dell’Unione Europea. Come sostenuto da Martin Wolf sul Financial Times, il fatto che questo piccolo paese, economicamente debole e cronicamente mal gestito abbia causato tali difficoltà, indica la fragilità strutturale dell’UE. Le mancanze greche sono estreme, ma non uniche. La sua situazione dimostra che l’eurozona necessita ancora di una più praticabile miscela di flessibilità, disciplina e solidarietà.

Politicamente l’eurozona è una costruzione incompleta. Dispone di un’unione monetaria senza un’unione fiscale. Non è né così profondamente integrata dal ritenere una rottura inconcepibile, né così poco unita dal rendere la sua implosione tollerabile. Alcuni politologi sostengono che se l’eurozona sopravviverà, deve trasformarsi in un’unione fiscale come l’India, dove sono assicurati trasferimenti dagli Stati con surplus a quelli con disavanzi (come succede tra il Gujarat e l’Orissa). Ma i tedeschi e gli elettori del nord Europa non considerano seriamente una simile prospettiva. Infatti, oggi la garanzia più potente per la sopravvivenza dell’UE è il costo rappresentato dalla sua rottura. Ma questo aspetto non basta. Nel lungo periodo, l’unità europea deve essere costruita su qualcosa di più positivo rispetto a questo principio. Si tratta comunque di un compito titanico, date le divergenze economiche e gli attriti politici emersi così chiaramente da questa crisi.

Economicamente l’eurozona è un matrimonio fra diseguali. Membri ad alta produttività (Germania, Paesi Bassi e Finlandia) e Paesi del sud a bassa produttività (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna – PIIGS) sono legati da un’unica moneta, l’euro. L’euro è molto sottovalutato per la produttività della Germania, che quindi ha espanso le proprie esportazioni. Ma la stessa moneta è troppo forte per i PIIGS, che hanno aggravato i disavanzi commerciali. In questo modo, la crisi dell’eurozona è fondamentalmente una crisi della bilancia dei pagamenti. Poiché tutti i membri usano l’euro, gli squilibri commerciali tra loro non sono evidenziati. Ma essi sono enormi, per un totale di circa 500 miliardi di euro. Un tasso di cambio non competitivo ha gravato i PIIGS, i quali hanno una crescita del PIL molto lenta o negativa, causando una riduzione del gettito fiscale e, di conseguenza, un aumento del deficit di bilancio. Dunque, un problema commerciale si è trasformato in un problema fiscale.

Risolvere queste questioni non è facile. Inoltre, vi è preoccupazione per il deteriorarsi dell’economia dell’eurozona, che probabilmente si trova in recessione. I piani d’austerità varati da alcuni governi ritarderebbero solamente la crescita economica, riducendo le entrate governative e aggravando lo squilibrio fiscale. Tutto ciò, a sua volta, farà ulteriormente calare la fiducia, mettendo in discussione la capacità di diversi Stati sovrani di sostenere le proprie spese. E’ un circolo vizioso.

Le banche europee sono sotto forte pressione. Hanno massicce dosi di obbligazioni, non solo della Grecia, ma anche di altri paesi che si ritiene siano in una situazione critica. Il pacchetto di salvataggio greco comporterà per loro delle pesanti perdite. Se il contagio greco si diffonderà in altri paesi, l’intero sistema finanziario potrebbe essere in pericolo. Non c’è da stupirsi che la maggior parte delle banche stiano ottenendo prestiti dalla BCE per le loro obbligazioni in scadenza, piuttosto che per emettere capitali nell’economia attraverso prestiti commerciali.
I Paesi e le aziende dell’Asia sono particolarmente colpiti da questa stretta creditizia da parte delle banche europee, che sono state le loro grandi finanziatrici. La riduzione dei crediti da parte di queste banche, unitamente al rallentamento dell’economia in Europa potrebbe comportare delle conseguenze negative per le esportazioni asiatiche.

Cosa causeranno questi sviluppi per l’India? L’UE è il principale partner commerciale dell’India, acquistando circa un quinto del totale delle esportazioni indiane. Con un rallentamento delle esportazioni dovuto a un calo della domanda da parte dell’UE, aggravata dai tagli governativi del bilancio e dalla riduzione dei finanziamenti bancari, potrebbe ampliarsi il disavanzo del conto delle partite correnti dell’India. Dal momento che più di tre quarti delle esportazioni indiane verso l’UE provengono dal settore manifatturiero, questo prevedibile calo della domanda di esportazioni potrebbe esercitare delle pressioni sulla produzione industriale nazionale. Infine, mentre i mercati di tutto il mondo restano nervosi, il commercio e i flussi d’investimenti futuri dipenderanno da come verrà risolta la crisi del debito dell’eurozona. Gli afflussi di capitali verso l’India potrebbero essere influenzati nel caso in cui le banche europee continuassero ad ottenere prestiti per soddisfare le loro obbligazioni non ancora scadute, piuttosto che per espandere il credito al fine di favorire nuovi investimenti.

Non vi è alcuna certezza su come, quando e in che modo l’eurozona uscirà dalla complicata situazione in cui versa. Dal momento che l’eurozona fatica a trovare una via d’uscita alla propria multiforme crisi, l’India non può pretendere di rimanerne non influenzata. Necessita di una strategia globale per affrontare tutte le eventualità e gli scenari. Tutto ciò che attualmente osserviamo è istintiva reazione del mercato a specifici sviluppi. Chiaramente, questo non è sufficiente.

La situazione dei paesi europei così come quella degli Stati Uniti offre alcune lezioni di base per l’India. Il loro passaggio da una crisi all’altra dimostra i pericoli rappresentati da modelli economici basati sul debito. Seguendo l’economia keynesiana, i governi di questi paesi hanno invocato pesanti spese pubbliche al fine di creare domanda aggiuntiva e stimolare la crescita. Gli individui e le famiglie di questi paesi hanno accumulato debito su debito in modo tale da ricercare un modello di esistenza che pensavano fosse il modo corretto di vivere. Una cultura basata sulle carte di credito e prestiti sub-prime ha creato un’illusione di opulenza.

Stanno ora riscoprendo le virtù della buona vecchia prudenza. Le loro stravaganze sono ora delle ossessioni. I loro governi sono “in tensione”. I loro sistemi di sicurezza sociale stanno diventando sempre più insostenibili e inadeguati. Si tratta di un risultato inevitabile in una società in cui la specializzazione esclusiva della gente maggiormente pagata è ideare nuovi e più complessi prodotti finanziari. Stanno imparando nel modo più duro che non si può influenzare il percorso verso la prosperità.

Prima guadagna, poi spendi, questo ci hanno insegnato i nostri antenati. Spendi sempre meno di quello che guadagni, ci hanno detto. I nostri shastra e i saggi disapprovavano il comportamento dei re che indulgevano in dissolutezza e sperperavano le tasse pagate dai loro sudditi. Sotto l’influenza delle economie occidentali, i governi dell’India indipendente hanno dimenticato queste lezioni, ricorrendo al finanziamento del deficit su larga scala e spingendo al rialzo i prezzi di tutto centinaia di volte nel corso degli ultimi anni.

Oggi, l’abitudine di vivere al di là di ogni mezzo, che si riflette in giganteschi deficit fiscali, è diventata una macina attorno al collo dell’economia. La stampa di banconote, prendendo in prestito da chiunque è disposto a dare in prestito, è una strada angosciosa che non porta allo sviluppo. Le nazioni sono costruite sul duro lavoro, la diligenza e l’onestà. Questa è la lezione che dovremmo imparare dalla crisi in Occidente.

(Traduzione di Francesco Brunello Zanitti)


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jeudi, 16 février 2012

La valeur travail dissoute
 dans le néolibéralisme

La valeur travail dissoute
 dans le néolibéralisme

En 2007, Nicolas Sarkozy avait fait de la « valeur travail » un argument central d’une campagne électorale victorieuse. Cinq ans plus tard, cette dernière est plutôt en lambeaux. Car ce discours, dont l’efficacité reposait à la fois sur les faiblesses de la gauche en ce domaine et sur une certaine confusion sémantique, s’est brisé sur les effets délétères des orientations économiques néolibérales que le gouvernement a impulsées contre vents et marées.

Promouvoir la « valeur travail »… En fait c’est avant tout le slogan « travailler plus pour gagner plus » qui a incarné cette démarche, explicitement hostile aux trente-cinq heures, parées de tous les défauts : étouffoir mis sur le pouvoir d’achat, encouragement à la paresse, carcan posé contre la nécessaire flexibilité et compétitivité de nos entreprises. Or les trente-cinq heures ne justifiaient pas cette diabolisation, même si on pouvait en critiquer nombre de limites. Si elles se sont traduites par une certaine modération salariale, elles ont tout de même aidé à la création de plusieurs centaines de milliers d’emplois et n’ont guère freiné – on peut même le regretter – la tendance au développement de la flexibilité du temps de travail à l’initiative des directions d’entreprise. Leur faiblesse tenait plutôt dans l’intensification et la dégradation du sens du travail qu’elles ont accompagnées, notamment dans les secteurs les moins qualifiés et les moins organisés syndicalement du monde du travail. Pouvoir faire un travail de qualité, conforme aux valeurs que l’on investit dans son activité professionnelle, est devenu encore un peu plus difficile.

 

C’est sans doute pour avoir été insuffisamment attentive ou trop défensive à propos de cette dimension essentielle de la « valeur travail » – enjeu de sens et de reconnaissance, y compris bien entendu dans la dimension du salaire, mais aussi du pouvoir d’agir et de dire son mot sur le lieu de travail – que la gauche a été sévèrement battue il y a cinq ans.

Cinq ans plus tard, la preuve a été faite des impasses du néolibéralisme en matière de revalorisation du travail. Ce n’est pas sans raison qu’au cours des manifestations d’opposition aux décisions gouvernementales des dernières années le slogan initial a pu être retourné en « travailler plus pour gagner moins ». Car en quoi consiste la « valeur travail » dans notre société ? D’abord en la possibilité de travailler régulièrement : le nombre de chômeurs et de précaires atteint des records. Ensuite dans une rémunération décente : huit millions de personnes sont en dessous du seuil de pauvreté et le bilan du RSA en matière de réinsertion est dérisoire. Enfin, en la possibilité de se reconnaître dans un travail de qualité, réalisé dans des conditions décentes : la souffrance au travail, qui trouve son expression extrême dans des suicides au travail, fait des ravages. Ajoutons un travail qui ne dégrade ni la santé ni l’environnement : les catastrophes alimentaires et sanitaires font la une de l’actualité.

Mais la victoire possible de la gauche dans quelques semaines se fera-t-elle simplement « par défaut », sur la base du bilan négatif de Nicolas Sarkozy en ce domaine comme en bien d’autres ? Où la revalorisation du travail trouvera-t-elle toute la place qu’elle mérite dans la campagne électorale ?

L’Humanité

jeudi, 02 février 2012

Against the Gold Standard

 

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Against the Gold Standard

By Brooks Adams

Ex: http://www.counter-currents.com/

Editor’s Note:

What follows is chapter 11, “Modern Centralization,” from Brooks Adams, The Law of Civilization and Decay, second ed. (1895). This chapter is long, but well worth reading.

Here Adams explains, with a wealth of historical detail, the economic evil wrought by gold and silver currency, particularly a single gold standard. Currency is the life blood of economic progress. Gold and silver, however, are scarce and subject to hoarding. Thus they lead to the economic equivalent of anemia.

Adams argues that the technological groundwork of the Industrial Revolution existed long before the middle of the 18th century. What stood in the way of putting that technology to work was lack of capital, for money consisted of gold and silver, which are scarce commodities subject to hoarding.

The gold supply also fluctuates wildly based on highly arbitrary factors, such as gold strikes, speculative bubbles and panics, and the plunder of vast gold rich peoples like the Aztecs, Inca, and the various principalities of India.

Adams argues that one of the necessary conditions for the Industrial Revolution in England was the immense influx of gold and silver seized in India beginning in the 1750s. This loosened the money supply enough to allow industrial pioneers like James Watt and Matthew Boulton to capitalize their visions and revolutionize production. (Of course, a Social Credit economy armed with fiat currency, could have expedited the Industrial Revolution without the necessity of wholesale plunder to seize gold and silver.)

Gold and silver money are also deflationary. This means that as economic production grows, money becomes scarcer and more costly. This means that borrowers are ruined, for to pay back debts denominated in increasingly scarce gold or silver, they must work harder and harder with each passing year until their debts consume the whole of their production. 

When gold is plentiful due to a random event like the California gold rush, the economy is stimulated. But if the economy is particularly productive, the supply of precious metals can never keep pace with economic growth, which thus leads to a deflationary contraction, causing people to lose farms and businesses to their creditors. Thus gold and silver currency are a cause of economic booms and busts. With gold and silver currency, producers are ruined by their very productivity. But nothing is more destructive than a pure gold standard, because gold is scarcer than silver and thus even more subject to hoarding.

brooks-adams.jpgIn discussing the phenomena of the highly centralized society in which he lived, Mill defined capital “as the accumulated stock of human labor.” In other words, capital may be considered as stored energy; but most of this energy flows in fixed channels, money alone is capable of being transmuted immediately into any form of activity. Therefore the influx of the Indian treasure, by adding considerably to the nation’s cash capital, not only increased its stock of energy, but added much to its flexibility and the rapidity of its movement.

Very soon after Plassey the Bengal plunder began to arrive in London, and the effect appears to have been instantaneous, for all authorities agree that the “industrial revolution,” the event which has divided the nineteenth century from all antecedent time, began with the year 1760. Prior to 1760, according to Baines, the machinery used for spinning cotton in Lancashire was almost as simple as in India;[1] while about 1750 the English iron industry was in full decline because of the destruction of the forests for fuel. At that time four-fifths of the iron in use in the kingdom came from Sweden.

Plassey was fought in 1757, and probably nothing has ever equaled the rapidity of the change which followed. In 1760 the flying-shuttle appeared, and coal began to replace wood in smelting. In 1764 Hargreaves invented the spinning-jenny, in 1779 Crompton contrived the mule, in 1785 Cartwright patented the power-loom, and, chief of all, in 1768 Watt matured the steam-engine, the most perfect of all vents of centralizing energy. But though these machines served as outlets for the accelerating movement of the time, they did not cause that acceleration. In themselves inventions are passive, many of the most important having lain dormant for centuries, waiting for a sufficient store of force to have accumulated to set them working. That store must always take the shape of money, and money not hoarded, but in motion.

Thus printing had been known for ages in China before it came to Europe; the Romans probably were acquainted with gunpowder; revolvers and breech-loading cannon existed in the fifteenth and sixteenth centuries, and steam had been experimented upon long before the birth of Watt. The least part of Watt’s labor lay in conceiving his idea; he consumed his life in marketing it. Before the influx of the Indian treasure, and the expansion of credit which followed, no force sufficient for this purpose existed; and had Watt lived fifty years earlier, he and his invention must have perished together. Considering the difficulties under which Matthew Boulton, the ablest and most energetic manufacturer of his time, nearly succumbed, no one can doubt that without Boulton’s works at Birmingham the engine could not have been produced, and yet before 1760 such works could not have been organized. The factory system was the child of the “industrial revolution,” and until capital had accumulated in masses capable of giving solidity to large bodies of labor, manufactures were necessarily carried on by scattered individuals, who combined a handicraft with agriculture. Defoe’s charming description of Halifax about the time Boulton learned his trade, is well known:

The nearer we came to Halifax, we found the houses thicker, and the villages greater, in every bottom; . . . for the land being divided into small enclosures, from two acres to six or seven each, seldom more, every three or four pieces of land had an house belonging to them.

In short, after we had mounted the third hill, we found the country one continued village, tho’ every way mountainous, hardly an house standing out of a speaking distance from another; and, as the day cleared up, we could see at every house a tenter, and on almost every tenter a piece of cloth, kersie, or shalloon; which are the three articles of this countries labor. . . .

This place then seems to have been designed by providence for the very purposes to which it is now allotted. . . . Nor is the industry of the people wanting to second these advantages. Tho’ we met few people without doors, yet within we saw the houses full of lusty fellows, some at the dye vat, some at the loom, others dressing the cloths; the women and children carding, or spinning; all employed from the youngest to the oldest; scarce anything above four years old, but its hands were sufficient for its own support. Not a beggar to be seen, nor an idle person, except here and there in an alms-house, built for those that are antient, and past working. The people in general live long; they enjoy a good air; and under such circumstances hard labor is naturally attended with the blessing of health, if not riches.[2]

To the capitalist, then, rather than to the inventor, civilization owes the steam engine as a part of daily life, and Matthew Boulton was one of the most remarkable of the race of producers whose reign lasted down to Waterloo. As far back as tradition runs the Boultons appear to have been Northamptonshire farmers, but Matthew’s grandfather met with misfortunes under William, and sent his son to Birmingham to seek his fortune in trade. There the adventurer established himself as a silver stamper, and there, in 1728, Matthew was born. Young Boulton early showed both energy and ingenuity, and on coming of age became his father’s partner, thenceforward managing the business. In 1759, two years after the conquest of Bengal, the father died, and Matthew, having married in 1760, might have retired on his wife’s property, but he chose rather to plunge more deeply into trade. Extending his works, he built the famous shops at Soho, which he finished in 1762 at an outlay of £20,000, a debt which probably clung to him to the end of his life.

Boulton formed his partnership with Watt in 1774, and then began to manufacture the steam-engine, but he met with formidable difficulties. Before the sales yielded any return, the outlay reduced him to the brink of insolvency; nor did he achieve success until he had exhausted his own and his friends’ resources.

He mortgaged his lands to the last farthing; borrowed from his personal friends; raised money by annuities; obtained advances from bankers; and had invested upwards of forty thousand pounds in the enterprise before it began to pay.[3]

Agriculture, as well as industry, felt the impulsion of the new force. Arthur Young remarked in 1770, that within ten years there had been “more experiments, more discoveries, and more general good sense displayed in the walk of agriculture than in an hundred preceding ones”; and the reason why such a movement should have occurred seems obvious. After 1760 a complex system of credit sprang up, based on a metallic treasure, and those who could borrow had the means at their disposal of importing breeds of cattle, and of improving tillage, as well as of organizing factories like Soho. The effect was to cause rapid centralization. The spread of high farming certainly raised the value of land, but it also made the position of the yeomanry untenable, and nothing better reveals the magnitude of the social revolution wrought by Plassey, than the manner in which the wastes were enclosed after the middle of the century.

Between 1710 and 1760 only 335,000 acres of the commons were absorbed; between 1760 and 1843, nearly 7,000,000. In eighty years the yeomanry became extinct. Many of these small farmers migrated to the towns, where the stronger, like the ancestor of Sir Robert Peel, accumulated wealth in industry, the weaker sinking into factory hands. Those who lingered on the land, toiled as day laborers. Possibly since the world began, no investment has ever yielded the profit reaped from the Indian plunder, because for nearly fifty years Great Britain stood without a competitor. That she should have so long enjoyed a monopoly seems at first mysterious, but perhaps the condition of the Continent may suggest an explanation. Since Italy had been ruined by the loss of the Eastern trade, she had ceased to breed the economic mind; consequently no class of her population could suddenly and violently accelerate their movements. In Spain the priest and soldier had so thoroughly exterminated the skeptic, that far from centralizing during the seventeenth century, as England and France had done, her empire was in full decline at the revolution of 1688. In France something similar had happened, though in a much less degree. After a struggle of a century and a half, the Church so far prevailed in 1685 as to secure the revocation of the Edict of Nantes. At the revocation many Huguenots went into exile, and thus no small proportion of the economic class, who should have pressed England hardest, were driven across the Channel, to add their energy to the energy of the natives. Germany lacked capital. Hemmed in by enemies, and without a seacoast, she had been at a disadvantage in predatory warfare; accordingly she did not accumulate money, and failed to consolidate until, in 1870, she extorted a treasure from France. Thus, in 1760, Holland alone remained as a competitor, rich, maritime, and peopled by Protestants. But Holland lacked the mass possessed by her great antagonist, besides being without minerals; and accordingly, far from accelerating her progress, she proved unable to maintain her relative rate of advance.

Thus isolated, and favored by mines of coal and iron, England not only commanded the European and American markets, at a time when production was strained to the utmost by war, but even undersold Hindu labor at Calcutta. In some imperfect way her gains may be estimated by the growth of her debt, which must represent savings. In 1756, when Clive went to India, the nation owed £74,575,000, on which it paid an interest of £2,753,000. In 1815 this debt had swelled to £861,000,000, with an annual interest charge of £32,645,000. In 1761 the Duke of Bridgewater finished the first of the canals which were afterward to form an inland water-way costing £50,000,000, or more than two-thirds of the amount of the public debt at the outbreak of the Seven Years’ War. Meanwhile, also, steam had been introduced, factories built, turnpikes improved, and bridges erected, and all this had been done through a system of credit extending throughout the land. Credit is the chosen vehicle of energy in centralized societies, and no sooner had treasure enough accumulated in London to offer it a foundation, than it shot up with marvelous rapidity.

From 1694 to Plassey, the growth had been relatively slow. For more than sixty years after the foundation of the Bank of England, its smallest note had been for £20, a note too large to circulate freely, and which rarely traveled far from Lombard Street. Writing in 1790, Burke mentioned that when he came to England in 1750 there were not “twelve bankers’ shops” in the provinces, though then, he said, they were in every market town.[4] Thus the arrival of the Bengal silver not only increased the mass of money, but stimulated its movement; for at once, in 1759, the bank issued £10 and £15 notes, and, in the country, private firms poured forth a flood of paper. At the outbreak of the Napoleonic wars, there were not far from four hundred provincial houses, many of more than doubtful solvency. Macleod, who usually does not exaggerate such matters, has said, that grocers, tailors, and drapers inundated the country with their miserable rags.[5]

The cause of this inferiority of the country bankers was the avarice of the Bank of England, which prevented the formation of joint stock companies, who might act as competitors; and, as the period was one of great industrial and commercial expansion, when the adventurous and producing classes controlled society, enough currency of some kind was kept in circulation to prevent the prices of commodities from depreciating relatively to coin. The purchasing power of a currency is, other things being equal, in proportion to its quantity. Or, to put the proposition in the words of Locke, “the value of money, in general, is the quantity of all the money in the world in proportion to all the trade.”[6] At the close of the eighteenth century, many causes combined to make money plentiful, and therefore to cheapen it. Not only was the stock of bullion in England increased by importations from India, but, for nearly a generation, exports of silver to Asia fell off. From an average of £600,000 annually between 1740 and 1760, the shipments of specie by the East India Company fell to £97,500 between 1760 and 1780; nor did they rise to their old level until after the close of the administration of Hastings, when trade returned to normal channels. After 1800 the stream gathered volume, and between 1810 and 1820 the yearly consignment amounted to £2, 827,000, or to nearly one-half of the precious metals yielded by the mines.

From the crusades to Waterloo, the producers dominated Europe, the money-lenders often faring hardly, as is proved by the treatment of the Jews. From the highest to the lowest, all had wares to sell; the farmer his crop, the weaver his cloth, the grocer his goods, and all were interested in maintaining the value of their merchandise relatively to coin, for they lost when selling on a falling market. By degrees, as competition sharpened after the Reformation, a type was developed which, perhaps, may be called the merchant adventurer; men like Child and Boulton, bold, energetic, audacious. Gradually energy vented itself more and more freely through these merchants, until they became the ruling power in England, their government lasting from 1688 to 1815. At length they fell through the very brilliancy of their genius. The wealth they amassed so rapidly, accumulated, until it prevailed over all other forms of force, and by so doing raised another variety of man to power. These last were the modern bankers.

With the advent of the bankers, a profound change came over civilization, for contraction began. Self-interest had from the outset taught the producer that, to prosper, he should deal in wares which tended rather to rise than fall in value, relatively to coin. The opposite instinct possessed the usurer; he found that he grew rich when money appreciated, or when the borrower had to part with more property to pay his debt when it fell due, than the cash lent him would have bought on the day the obligation was contracted. As, toward the close of the eighteenth century, the great hoards of London passed into the possession of men of the latter type, the third and most redoubtable variety of the economic intellect arose to prominence, a variety of which perhaps the most conspicuous example is the family of Rothschild.

In one of the mean and dirty houses of the Jewish quarter of Frankfort, Mayer Amschel was born in the year 1743. The house was numbered 152 in the Judengasse, but was better known as the house of the Red Shield, and gave its name to the Amschel family. Mayer was educated by his parents for a rabbi; but, judging himself better fitted for finance, he entered the service of a Hanoverian banker named Oppenheim, and remained with him until he had saved enough to set up for himself. Then for some years he dealt in old coins, curiosities and bullion, married in 1770, returned to Frankfort, established himself in the house of the Red Shield, and rapidly advanced toward opulence. Soon after he gave up his trade in curiosities, confining himself to banking, and his great step in life was made when he became “Court Jew” to the Landgrave of Hesse. By 1804 he was already so prosperous that he contracted with the Danish Government for a loan of four millions of thalers.

Mayer had five sons, to whom he left his business and his wealth. In 18 12 he died, and, as he lay upon his death-bed, his last words were, “You will soon be rich among the richest, and the world will belong to you.”[7] His prophecy came true. These five sons conceived and executed an original and daring scheme. While the eldest remained at Frankfort, and conducted the parent house, the four others migrated to four different capitals, Naples, Vienna, Paris, and London, and, acting continually in consort, they succeeded in obtaining a control over the money market of Europe, as unprecedented as it was lucrative to themselves.

Of the five brothers, the third, Nathan, had commanding ability. In 1798 he settled in London, married in 1806 the daughter of one of the wealthiest of the English Jews, and by 1815 had become the despot of the Stock Exchange; “peers and princes of the blood sat at his table, clergymen and laymen bowed before him.” He had no tastes, either literary, social, or artistic; “in his manners and address he seemed to delight in displaying his thorough disregard of all the courtesies and amenities of civilized life”; and when asked about the future of his children he said, “I wish them to give mind, soul, and heart, and body—everything to business. That is the way to be happy.”[8] Extremely ostentatious, though without delicacy or appreciation, “his mansions were crowded with works of art, and the most gorgeous appointments.” His benevolence was capricious; to quote his own words, “Sometimes to amuse myself I give a beggar a guinea. He thinks it is a mistake, and for fear I shall find it out off he runs as hard as he can. I advise you to give a beggar a guinea sometimes. It is very amusing.”[9]

Though an astonishingly bold and unscrupulous speculator, Nathan probably won his chief successes by skill in lending, and, in this branch of financiering, he was favored by the times in which he lived. During the long wars Europe plunged into debt, contracting loans in depreciated paper, or in coin which was unprecedentedly cheap because of the abundance of the precious metals.

In the year 1809, prices reached the greatest altitude they ever attained in modern, or even, perhaps, in all history. There is something marvelously impressive in this moment of time, as the world stood poised upon the brink of a new era. To the contemporary eye Napoleon had reached his zenith. Everywhere victorious, he had defeated the English in Spain, and forced the army of Moore to embark at Corunna; while at Wagram he had brought Austria to the dust. He seemed about to rival Caesar, and establish a military empire which should consolidate the nations of the mainland of Europe. Yet in reality one of those vast and subtle changes was impending, which, by modifying the conditions under which men compete, alter the complexion of civilizations, and which has led in the course of the nineteenth century to the decisive rejection of the martial and imaginative mind.

In April 1810 Bolivar obtained control at Caracas, and, with the outbreak of the South American revolutions, the gigantic but imaginative empire of Spain passed into the acute stage of disintegration. On December 19 of the same year, the Emperor Alexander opened the ports of Russia to neutral trade. By so doing Alexander repudiated the “continental system” of Napoleon, made a breach with him inevitable, and thus brought on the campaign of Moscow, the destruction of the Grand Army, and the close of French military triumphs on the hill of Waterloo. From the year 1810, nature has favored the usurious mind, even as she favored it in Rome, from the death of Augustus.

Moreover, both in ancient and modern life, the first symptom of this profound economic and intellectual revolution was identical. Tacitus has described the panic which was the immediate forerunner of the rise of the precious metals in the first century; and in 1810 a similar panic occurred in London, when prices suddenly fell fifteen per cent,[10] and when the most famous magnate of the Stock Exchange was ruined and killed. The great houses of Baring and of Goldsmid had undertaken the negotiation of a government loan of £14,000,000. To the surprise of these eminent financiers values slowly receded, and, in September, the death of Sir Francis Baring precipitated a crisis; Abraham Goldsmid, reduced to insolvency, in despair committed suicide; the acutest intellects rose instantaneously upon the corpses of the weaker, and the Rothschilds remained the dictators of the markets of the world. From that day to this the slow contraction has continued, with only the break of little more than twenty years, when the gold of California and Australia came in an overwhelming flood; and, from that day to this, the same series of phenomena have succeeded one another, which eighteen hundred years ago marked the emasculation of Rome.

At the peace, many causes converged to make specie rise; the exports of bullion to the East nearly doubled; America grew vigorously, and mining was interrupted by the revolt of the Spanish colonies. Yet favorable as the position of the creditor class might be, it could be improved by legislation, and probably no financial policy has ever been so ably conceived, or so adroitly executed, as that masterpiece of state-craft which gave Lombard Street control of the currency of Great Britain.

Under the reign of the producers, values had generally been equalized by cheapening the currency when prices fell. In the fourteenth, fifteenth, and sixteenth centuries, the penny had been systematically degraded, to keep pace with the growing dearth of silver. When the flood of the Peruvian bullion had reached its height in 1561, the currency regained its fineness; but in 1601 the penny lost another half-grain of weight, and, though not again adulterated at the mint, the whole coinage suffered so severely from hard usage that, under the Stuarts, it fell to about two-thirds of its nominal value. A re-coinage took place under William, but then paper came in to give relief, and the money in circulation continued to degenerate, as there was no provision for the withdrawal of light pieces. By 1774, the loss upon even the guinea had become so great that Parliament intervened, and Lord North recommended “that all the deficient gold coin should be called in, and re-coined” and also that the “currency of the gold coin should, in future, be regulated by weight as well as by tale . . . and that the several pieces should not be legal tender, if they were diminished, by wearing or otherwise, below a certain weight, to be determined by proclamation.”[11]

By such means as this, the integrity of the metallic money was at length secured; but the emission of paper remained unlimited, and in 1797 even the Bank of England suspended cash payments. Then prices advanced as they had never advanced before, and, during the first ten years of the nineteenth century, ‘the commercial adventurers reached their meridian. From 1810 they declined in power; but for several preceding generations they had formed a true aristocracy, shaping the laws and customs of their country. They needed an abundant currency, and they obtained it through the Bank. On their side the directors recognized this duty to be their chief function, and laid it down as a principle that all legitimate commercial paper should always be discounted. If interest rose, the rise proved a dearth of money, and they relieved that dearth with notes. Lord Overstone has thus explained the system of banking which was accepted, without question, until 1810: “A supposed obligation to meet the real wants of commerce, and to discount all commercial bills arising out of legitimate transactions, appears to have been considered as the principle upon which the amount of the circulation was to be regulated.”[12]

And yet, strangely enough, even the adversaries of this system admitted that it worked well. A man as fixed in his opinions as Tooke, could not contain his astonishment that “under the guidance of maxims and principles so unsound and of such apparently mischievous tendency, as those professed by the governors and some of the directors of the Bank in 1810, such moderation and . . . such regularity of issue should, under chances and changes in politics and trade, unprecedented in violence and extent, have been preserved, as that a spontaneous readjustment between the value of the gold and the paper should have taken place, as it did, without any reduction of their circulation.”[13]

With such a system the currency tended to fall rather than to rise in value, in comparison with commodities, and for this reason the owners of the great hoards were at a disadvantage. What powerful usurers, like Rothschild, wanted, was a legal tender fixed in quantity, which, being unable to expand to meet an increased demand, would rise in price. Moreover, they needed a circulating medium sufficiently compact to be controlled by a comparatively small number of capitalists, who would thus, under favorable conditions, hold the whole debtor community at their mercy.

If the year 1810 be taken as the point at which the energy stored in accumulations of money began to predominate in England, the revolution which ended in the overthrow of the producers, advanced, with hardly a check, to its completion by the “Bank Act” of 1844. The first symptom of approaching change was the famous “Bullion Committee,” appointed on the motion of Francis Horner in 1810. This report is most interesting, for it marks an epoch, and in it the struggle for supremacy between the lender and the borrower is brought out in full relief.

To the producer, the commodity was the measure of value; to the banker, coin. The producer sought a currency which should retain a certain ratio to all commodities, of which gold was but one. The banker insisted on making a fixed weight of the metal he controlled, the standard from which there was no appeal.

A distinguished merchant, named Chambers, in his evidence before the Committee, put the issue in a nutshell:

Q. At the Mint price of standard gold in this country, how much gold does a Bank of England note for one pound represent?
A. 5 dwts. 3 grs.
Q. At the present market price of standard gold of £4 12. per ounce, how much gold do you get for a Bank of England note for one pound?
A. 4 dwts. 8 grs.
Q. Do you consider that a Bank of England note for one pound, under these present circumstances, is exchangeable in gold for what it represents of that metal?
A. I do not conceive gold to be a fairer standard for Bank of England notes than indigo or broadcloth.

Although the bankers controlled the “Bullion Committee,” the mercantile interest still maintained itself in Parliament, and the resolutions proposed by the chairman in his report were rejected in the Commons by a majority of about two to one. The tide, however, had turned, and perhaps the best index of the moment at which the balance of power shifted, may be the course of Peel. Of all the public men of his generation. Peel had the surest instinct for the strongest force. Rarely, if ever, did this instinct fail him, and after 1812 his intuition led him to separate from his father; as, later in life, it led him to desert his party in the crisis of 1845. The first Sir Robert Peel, the great manufacturer, who made the fortune of the family, had the producer’s instinct and utterly opposed contraction. In 1811 he voted against the report of the Bullion Committee, and then his son voted with him. After 1816, however, the younger Peel became the spokesman of Lombard Street, and the story is told that when the bill providing for cash payments passed in July, 1819, the old man, after listening to his son’s great speech, said with bitterness: “Robert has doubled his fortune, but ruined his country.”[14]

Probably Waterloo marked the opening of the new era, for after Waterloo the bankers met with no serious defeat. At first they hardly encountered opposition. They began by discarding silver. In 1817 the government made 123 and 274/1000 grs. of gold the unit of value, the coin representing this weight of metal ceasing to be a legal tender when deficient by about half a grain. The standard having thus been determined, it remained to enforce it. By this time Peel had been chosen by the creditor class as their mouthpiece, and in 1819 he introduced a bill to provide for cash payments. He found little resistance to his measure, and proposed 1823 as the time for the return; as it happened, the date was anticipated, and notes were redeemed in gold from May 1, 1821. As far as the coinage was concerned, this legislation completed the work, but the task of limiting discounts remained untouched, a task of even more importance, for, as long as the Bank continued discounting bills, and thus emitting an unlimited quantity of notes whenever the rate of interest rose, debtors not only might always be able to face their obligations, but the worth of money could not be materially enhanced. This question was decided by the issue of the panic of 1825, brought on by the Resumption Act.

At the suspension of 1797, paper in small denominations had been authorized to replace the coin which disappeared, but this act expired two years after the return to specie payments. Therefore, as time elapsed, the small issues began to be called in, and, according to Macleod, the country circulation, by 1823, had contracted about twelve per cent. The Bank of England also withdrew a large body of notes in denominations less than five pounds, and, to fill the gap, hoarded some twelve million sovereigns, a mass of gold about equal to the yield of the mines for the preceding seven or eight years. This gold had to be taken from the currency of Europe, and the sudden contraction caused a shock which vibrated throughout the West.

In France gold coinage almost ceased, and prices dropped heavily, declining twenty-four per cent between 1819 and 1822. Yet perhaps the most vivid picture of the distress caused by this absorption of gold, is given in a passage written by Macleod, to prove that Peel’s act had nothing to do with the catastrophe:

There was one perfectly satisfactory argument to show that the low prices of that year had nothing to do with the Act of 1819, namely, that prices of all sorts of agricultural produce were equally depressed all over the continent of Europe from the same cause. The fluctuations, indeed, on the continent were much more violent than even in England. . . . The same phenomena were observed in Italy. A similar fall, but not to so great an extent, took place at Lisbon. What could the Act of 1819 have to do with these places?[15]

The severe and protracted depression, while affecting all producers, bore with peculiar severity upon the gentry, whose estates were burdened with mortgages and all kinds of settlements, so much so that frequently properties sank below their encumbrances, and the owners were beggared. At the opening of Parliament, both Houses were overwhelmed with petitions for aid. Among these petitions, one of the best known was presented to the Commons in May, 1822, by Charles Andrew Thompson, of Chiswick, which serves to show the keenness of the distress among debtors owning land.

Thompson stated, in substance, that in 1811 he and his father, being wealthy merchants, purchased an estate in Hertfordshire for £62,000, and afterward laid out £10,000 more in improvements. That in 1812 they entered into a contract for another estate, whose price was £60,000, but, a question having arisen as to the title, a lawsuit intervened, and, before judgment, the petitioner and his father had experienced such losses that they could not pay the sum adjudged due by the court. Thereupon, to raise money, they mortgaged both estates for £65,000. In July, 1821, both estates were offered for sale, but they failed to bring the amount for which they were mortgaged. Estates in other counties which cost £33,166, had been sold for £12,000, and through the depression of trade the petitioners had become bankrupt. In 1822 the petitioner’s father died of a broken heart; and he himself remained a ruined man, with seven children of his own, ten of his brother’s, and seven of his sister’s all depending on him.[16]

The nation seemed upon the brink of some convulsion, for the gentry hardly cared to disguise their design of effecting a readjustment of both public and private debts. Passions ran high, and in June, 1822, a long debate followed upon a motion, made by Mr. Western, to inquire into the effects produced by the resumption of cash payments. The motion was indeed defeated, but defeated by a concession which entailed a catastrophe up to that time unequalled in the experience of Great Britain. To save the “Resumption Act” the ministry in July brought in a bill to respite the small notes until 1833, a measure which at once quieted the agitation, but which produced the most far-reaching and unexpected results.

According to Francis, the country banks augmented their issues fifty per cent between 1822 and 1825,[17] nor was this increase of paper the only or the most serious form taken by the inflation. The great hoard of sovereigns, accumulated by the Bank to replace its small notes, was made superfluous; and, in a memorandum delivered by the directors to the House of Commons, no less than £14,200,000 were stated to have been thrown on their hands in 1824 by this change of policy.[18] The effect was to create a veritable glut of gold in the United Kingdom; prices rose abnormally—fifteen per cent—between 1824 and 1825.

As values tended upward, a frenzy of speculation seized upon a people who had long suffered from the grinding of contraction, and meanwhile the Bank, adhering to its old policy, freely discounted all the sound bills brought them. In 1824 prices rose above the Continental level, and gold, being cheaper in London than in Paris, began to flow thither. The Bank reserve steadily fell. In March, 1825, the fever reached its height, and a decline set in, while the directors, anxious at the condition of their reserve in May, attempted to restrict their issues. The consequence was sharp contraction, and in November the crash came. Mr. Huskisson stated, in the House of Commons, that for forty-eight hours it was impossible to convert even government securities into cash. Exchequer bills, bank stock, and East India stock were alike unsalable, and many of the richest merchants of London walked the streets, not knowing whether on the morrow they might not be insolvent. “It is said” the Bank itself “must have stopped payment, and that we should have been reduced to a state of barter, but for a boxful of old one and two-pound notes which was discovered by accident.”[19] What happened in the Bank parlor during those days is unknown. Probably the pressure of the mercantile classes became too sharp to be withstood, perhaps even the strongest bankers were alarmed; but, at all events, the financial policy changed completely. Contraction was abandoned, the Bank reverted to the system of 18 10, and in an instant relief came. “We lent by every possible means, and in modes we had never adopted before; . . . we not only discounted outright, but we made advances on deposit of bills of exchange to an immense amount.” The Bank emitted five millions in notes in four days, and “this audacious policy was crowned with the most complete success, the panic was stayed almost immediately.”[20]

With an expansion of the currency sufficient to furnish the means of paying debts, the panic passed away, but the disaster gave the bankers their opportunity; they seized it, and thenceforward their hold upon the community never, even for an instant, relaxed. The administration fell into discredit, and turned for assistance to the only men who promised to give them effective support: these were the capitalists of Lombard Street, whose first care was to obtain a statute prohibiting the small notes, which, they alleged, were the cause of the misfortune of 1825. The act they demanded passed in 1826, and about this time Samuel Loyd rose into prominence, who was, perhaps, the greatest financier of modern times. Cautious and sagacious, though resolute and bold, gifted with an amazing penetration into the complex causes which control the competition of modern life, he swayed successive administrations, and crushed down the fiercest opposition. Apparently he never faltered in his course, and down to the day of his death he sneered at the panic-stricken directors, who only saved themselves from bankruptcy by accidentally remembering and issuing a “parcel of old discarded one-pound notes . . . drawn forth from a refuse cellar in 1825.”[21]

Loyd’s father began life somewhat humbly as a dissenting minister in Wales, but, after his marriage, he entered a Manchester firm, and subsequently founded in London the house of Jones, Loyd and Co., afterward merged in the London and Westminster Bank, one of the largest concerns in the world. Samuel did not actually succeed his father until 1844, but much earlier he had grown to be the recognized chief of the moneyed interest, and Sir Robert Peel long served as his lieutenant. Loyd was the man who conceived the Bank Act of 1844, who succeeded in laying his grasp upon the currency of the kingdom, and in whose words, therefore, the policy of the new governing class is best stated:

A paper-circulation is the substitution of paper . . . in the place of the precious metals. The amount of it ought therefore to be equal to what would have been the amount of a metallic circulation; and of this the best measure is the influx or efflux of bullion.[22]

By the provisions of that Act [the Bank Act of 1844] it is permitted to issue notes to the amount of £14,000,000 as before—that is, with no security for the redemption of the notes on demand beyond the legal obligation so to redeem them. But all fluctuations in the amount of notes issued beyond this £14,000,000 must have direct reference to corresponding fluctuations in the amount of gold.[23]

Thus Loyd’s principle, which he embodied in his statute, was the rigid limitation of the currency to the weight of gold available for money. “When . . . notes are permitted to be issued, the number in circulation should always be exactly equal to the coin which would be in circulation if they did not exist.”[24] In 1845 the Bank Act was extended to Scotland, except that there small notes were still tolerated; the expansion of provincial paper was prohibited, and England reverted to the economic condition of Byzantium—a condition of contraction in which the debtor class lies prostrate, for, the legal tender being absolutely limited, when creditors choose to withdraw their loans, payment becomes impossible.

Perhaps no financier has ever lived abler than Samuel Loyd. Certainly he understood as few men, even of later generations, have understood the mighty engine of the single standard. He comprehended that, with expanding trade, an inelastic currency must rise in value; he saw that, with sufficient resources at command, his class might be able to establish such a rise, almost at pleasure; certainly that they could manipulate it when it came, by taking advantage of foreign exchanges. He perceived moreover that, once established, a contraction of the currency might be forced to an extreme, and that when money rose beyond price, as in 1825, debtors would have to surrender their property on such terms as creditors might dictate.

Furthermore, he reasoned that under pressure prices must fall to a point lower than in other nations, that then money would flow from abroad, and relief would ultimately be given, even if the government did not interfere; that this influx of gold would increase the quantity of money, by so doing would again raise prices, and that, when prices rose, pledges forfeited in the panic might be resold at an advance. He explained the principle of this rise and fall of values, with his usual lucidity, to a committee of the House of Lords, which investigated the panic of 1847:

Monetary distress tends to produce fall of prices; that fall of prices encourages exports and diminishes imports; consequently it tends to promote an influx of bullion. I can quote a fact of rather a striking character, which tends to show that a contracting operation upon the circulation tends to cheapen the cost of our manufactured productions, and therefore to increase our exports.[25]

He then stated that during the panic he had received a letter “from a person of great importance in Lancashire,” begging him to use his influence with the ministry “to be firm in maintaining the act,—to be firm in resisting these applications for relaxation,” because in Lancashire the manufacturers were struggling to “resist the improperly high price of the raw material of cotton.” “That letter reached me the very morning that the letter of the government was issued [suspending the act], and almost immediately the raw cotton rose in price.”

Q. The writer of that letter was probably a man of considerable substance, a very wealthy man, with abundant capital to carry on his business?
A. He had recently retired from business. I can state another circumstance that occurred in London corroborative of the same results. Within half an hour of the time that the notes summoning the Court of Directors . . . were issued, parties, inferring probably . . . that a relaxation was about to take place, sent orders to withdraw goods from a sale which was then going on.[26]

The history of half a century has justified the diagnosis of this eminent financier. As followed out by his successors, Loyd’s policy has not only forced down prices throughout the West, but has changed the aspect of civilization. In England the catastrophe began with the passage of the Bank Act.

No sooner had this statute taken effect than it necessarily caused a contraction of the currency at a time when gold was rising because of commercial expansion. Between 1839 and 1849 there was a fall in prices of twenty-eight per cent, and, severe as may have been the decline, it seems moderate considering the conditions which then prevailed. The yield of the mines was scanty, and of this yield India absorbed annually an average of £2,308,000, or somewhat more than one-sixth.

America was growing with unprecedented vigor, industrial competition sharpened as prices fell, and the year of the “Bank Act “ was the year in which railway building began to take the form of a mania. The peasantry are always the weakest part of every population, and therefore agricultural prices are the most sensitive. But the resources of a peasantry are seldom large, and, as the value of their crops shrinks, the margin of profit on which they live dwindles, until they are left with only a bare subsistence in good years, and with famine facing them in bad. The Irish peasants were the weakest portion of the population of Great Britain when Lord Overstone became supreme, and when the potato crop failed in 1845 they starved.

Although the landlords had lost their command over the nation in 1688, they yet, down to the last administration of Peel, had kept strength enough to secure protection from Parliament against foreign competition. By 1815 the yeomanry had almost disappeared, the soil belonged to a few rich families whose revenue depended on rents, and the value of rents turned on the price of the cereals. To sustain the market for wheat became therefore all-important to the aristocracy, and when, with the peace, prices collapsed, they obtained a statute which prohibited imports until the bushel should fetch ten shillings at home.

This statute, though frequently amended to make it more effective, partially failed of its purpose. A contracting currency did its resistless work, prices dropped, tenants went bankrupt, and, as the value of money rose, encumbered estates passed more frequently into the hands of creditors. Thus when Peel took office in 1841, the Corn Laws were regarded by the gentry as their only hope, and Peel as their chosen champion; but only a few years elapsed before it became evident that the policy of Lombard Street must precipitate a struggle for life between the manufacturers and the landlords. In the famine of 1846 the decisive moment came, and when Sir Robert sided, as was his wont, with the strongest, and abandoned his followers to their fate, he only yielded to the impulsion of a resistless force.

As a class both landlords and manufacturers were debtors, and, by 1844, cheap bread appeared to be as vital to the one as dear corn was to the other. With a steadily falling market the manufacturers saw their margin of profit shrink, and at last Manchester and Birmingham believed themselves to be confronted with ruin unless wages fell proportionately, or they could broaden the market for their wares by means of international exchanges. The Corn Laws closed both avenues of relief; therefore there was war to the death between the manufacturers and the aristocracy. The savageness of the attack can be judged by Cobden’s jeers at gentlemen who admitted that free corn meant insolvency:

Sir Edward Knatchbull could not have made a better speech for the League than that which he made lately, even if he were paid for it. I roared so with laughter that he called me specially to order, and I begged his pardon, for he is the last man in the world I would offend, we are all so much obliged to him. He said they could not do without this Corn Law, because, if it were repealed, they could not pay the jointures, charged on their estates. Lord Mountcashel, too (he’s not over-sharp) said that one half the land was mortgaged, and they could not pay the interest unless they had a tax upon bread. In Lancashire, when a man gets into debt and can’t pay, he goes into the Gazette, and what is good for a manufacturer is, I think, good for a landlord.[27]

In such a contest the gentry were overmatched, for they were but nature’s first effort toward creating the economic type, and they were pitted against later forms which had long distanced them in the competition of life. Bright and Cobden, as well as Loyd and Peel, belonged to a race which had been driven into trade, by the loss of their freeholds to the fortunate ancestors of the men who lay at their mercy in 1846. Peel himself was the son of a cotton-spinner, and the grandson of a yeoman, who, only in middle life, had quitted his hand-loom to make his fortune in the “industrial revolution.”

In modern England, as in ancient Italy, the weakest sank first, and the landed gentry succumbed, almost without resistance, to the combination which Lombard Street made against them. Yet, though the manufacturers seemed to triumph, their exultation was short, for the fate impended over them, even in the hour of their victory, which always overhangs the debtor when the currency has been seized by the creditor class. By the “Bank Act” the usurers became supreme, and in 1846 the potato crop failed even more completely than in 1845. Credit always is more sensitive in England than in France, because it rests upon a narrower basis, and at that moment it happened to be strained by excessive railway loans. With free trade in corn, large imports of wheat were made, which were paid for with gold. A drain set in upon the Bank, the reserve was depleted, and by October 2, 1847, the directors denied all further advances. Within three years of the passage of his statute, the event Loyd had foreseen arrived. “Monetary distress” began to force down prices. The decision of the directors to refuse discounts created “a great excitement on the Stock Exchange. The town and country bankers hastened to sell their public securities, to convert them into money. The difference between the price of consols for ready money and for the account of the 14th of October showed a rate of interest equivalent to 50 per cent per annum. Exchequer bills were sold at 35s. discount.” . . . “A complete cessation of private discounts followed. No one would part with the money or notes in his possession. The most exorbitant sums were offered to and refused by merchants for their acceptances.”[28]

Additional gold could only be looked for from abroad, and as a considerable time must elapse before specie could arrive in sufficient quantity to give relief, the currency actually in use offered the only means of obtaining legal tender for the payment of debts. Consequently hoarding became general, and, as the chancellor of the exchequer afterward observed, “an amount of circulation which, under ordinary circumstances, would have been adequate, became insufficient for the wants of the community.” Boxes of gold and bank-notes in “thousands and tens of thousands of pounds” were “deposited with bankers.” The merchants, the chancellor said, begged for notes: “Let us have notes; . . . we don’t care what the rate of interest is. . . . Only tell us that we can get them, and this will at once restore confidence.”[29]

But, after October 2, no notes were to be had, money was a commodity without price, and had the policy of the “Bank Act” been rigorously maintained, English debtors, whose obligations then matured, must have forfeited their property, since credit had ceased to exist and currency could not be obtained wherewith to redeem their pledges.

The instinct of the usurer has, however, never been to ruin suddenly the community in which he has lived: only by degrees does he exhaust human vitality. Therefore, when the great capitalists had satisfied their appetites, they gave relief. From the 2d to the 25th of October, contraction was allowed to do its work; then Overstone intervened, the government was instructed to suspend the “act,” and the community was promised all the currency it might require.

The effect was instantaneous. The letter from the cabinet, signed by Lord John Russell, which recommended the directors of the Bank to increase their discounts, “was made public about one o’clock on Monday, the 25th, and no sooner was it done so than the panic vanished like a dream! Mr. Gurney stated that it produced its effect in ten minutes! No sooner was it known that notes might be had, than the want of them ceased!”[30] Large parcels of notes were “returned to the Bank of England cut into halves, as they had been sent down into the country.”

The story of this crisis demonstrates that, by 1844, the money-lenders had become autocratic in London. The ministry were naturally unwilling to suspend a statute which had just been enacted, and the blow to Sir Robert peculiarly severe; but the position of the government admitted of no alternative. At the time it was said that the private bankers of London intimated to the chancellor of the exchequer that, unless he interfered forthwith, they would withdraw their balances from the Bank of England. This meant insolvency, and to such an argument there was no reply. But whether matters actually went so far or not, there can be no question that the cabinet acted under the dictation of Lombard Street, for the chancellor of the exchequer defended his policy by declaring that the “act” had not been suspended until “those conversant with commercial affairs, and least likely to decide in favor of the course which we ultimately adopted,” unanimously advised that relief should be given to the mercantile community.[31]

There was extreme suffering throughout the country, which manifested itself in all the well-known ways. The revenue fell off, emigration increased, wheat brought but about five shillings the bushel, while in England and Wales alone there were upwards of nine hundred thousand paupers. Discontent took the form of Chartism, and a revolution seemed imminent. Nor was it Great Britain only which was convulsed: all Europe was shaken to its center, and everything portended some dire convulsion, when nature intervened and poured upon the world a stream of treasure too bountiful to be at once controlled.

In 1849 the first Californian gold reached Liverpool. In four years the supply of the precious metals trebled, prices rose, crops sold again at a profit. As the farmers grew rich, the demand for manufactures quickened, wages advanced, discontent vanished, and though values never again reached the altitude of 1809, they at least attained that level of substantial prosperity which preceded the French Revolution. Nevertheless, the fall in the purchasing power of money, and the consequent ability of debtors to meet their obligations, did not excite that universal joy which had thrilled Europe at the discovery of Potosi, for a profound change had passed over society since the buccaneers laid the foundations of England’s fortune by the plunder of the Peruvian galleons.

To the type of mind which predominated after 1810, the permanent rise of commodities relatively to money was unwelcome, and, almost from the opening of the gold discoveries, a subtle but resistless force was working for contraction—a force which first showed itself in the movement for an uniform gold coinage, and afterwards in general gold monometallism. The great change came with the conquest of France by Germany. Until after the middle of the nineteenth century, Germany held only a secondary position in the economic system of Europe, because of her poverty. With few harbors, she had reaped little advantage from the plunder of America and India, exchanges had never centered within her borders, and her accumulated capital had not sufficed to stimulate high consolidation. The conquest of France suddenly transformed these conditions. In 1871 she acquired an enormous booty, and the effect upon her was akin to the effect on England of the confiscations in Bengal; the chief difference being that, unlike England, Germany passed almost immediately into the period of contraction.

The spoliation of India went on for twenty years, that of France was finished in a few months, and, while in England the “industrial revolution” intervened between Plassey and the adoption of the gold standard, in Germany the bankers dominated from the outset. The government belonged to the class which desired an appreciating currency, and in 1873 the new empire followed in the steps of Lombard Street, and demonetized silver.

Germany’s action was decisive. Restrictions were placed on the mints of the Latin Union and of the United States, and thus, by degrees, the whole stress of the trade of the West was transferred from the old composite currency to gold alone. In this way, not only was the basis of credit in the chief commercial states cut in half, but the annual supply of metal for coinage was diminished. In 1893 the gold mined fell nearly nine per cent short of the value of the gold and silver produced in 1865, and yet, during those twenty-eight years, the demand for money must have increased enormously, if it in any degree corresponded with the growth of trade.

The phenomena which followed the adoption of the gold standard by Western countries were precisely those which had been anticipated by Loyd. Lord Overstone had explained them to an earlier generation. In one of his letters on the “Bank Charter,” as early as 1855, he developed the whole policy of the usurers:

If a country increases in population, in wealth, in enterprise, and activity, more circulating medium will probably be required to conduct its extended transactions. This demand for increased circulation will raise the value of the existing circulation; it will become more scarce and more valuable, . . . in other words—gold will rise. . . .[32]

By the action of Germany, Overstone’s policy was extended to the whole Western world, with the results he had foreseen. Gold appreciated, until it acquired a purchasing power unequalled since the Middle Ages, and while in the silver-using countries prices remained substantially unchanged and the producers accordingly prospered, prostration supervened in Europe, the United States, and Australia. As usual the rural population suffered most, and the English aristocracy, who had been respited by the gold discoveries, were the first to succumb. They not only drew their revenues from farming land, but, standing at the focus of competition, they were exposed to the pressure of Asia and America alike. The harvest of 1879 was one of the worst of the century, land depreciated hopelessly, and that year may probably be taken as marking the downfall of a class which had maintained itself in opulence for nearly three hundred and fifty years.

This Tudor aristocracy, which sprang up at the Reformation, was one of the first effects of the quickened movement which transferred the center of exchanges from Italy to the North Sea. They represented sharpening economic competition, and they prospered because of an intellectual gift, an aptitude they enjoyed, of absorbing the lands of the priests and soldiers amidst whom they dwelt. These soldiers were the yeomen who, when evicted, became pirates, slavers, commercial adventurers, religious colonists, and conquerors, and who together poured the flood of treasure into London which, transmuted into movement, made the “industrial revolution.” When by their efforts, toward the beginning of the nineteenth century, sufficiently vast reservoirs of energy in the shape of money had accumulated, a new race rose to prominence, fitted to give vent to this force—men like Nathan Rothschild and Samuel Loyd, probably endowed with a subtler intellect and a keener vision than any who had preceded them, financiers beside whom the usurers of Byzantium, or the nobles of Henry VIII, were pigmies.

These bankers conceived a policy unrivaled in brilliancy, which made them masters of all commerce, industry, and trade. They engrossed the gold of the world, and then, by legislation, made it the sole measure of values. What Samuel Loyd and his followers did to England, in 1847, became possible for his successors to do to all the gold standard nations, after 1873. When the mints had been closed to silver, the currency being inelastic, the value of money could be manipulated like that of any article limited in quantity, and thus the human race became the subjects of the new aristocracy, which represented the stored energy of mankind.

From the moment this aristocracy has determined on a policy, as, for example the “Bank Act” or monometallism, resistance by producers becomes most difficult. Being debtors, producers are destroyed when credit is withdrawn, and, at the first signs of insubordination, the bankers draw in their gold, contract their loans, and precipitate a panic. Then, to escape immediate ruin, the debtor yields.

Since 1873 prices have generally fallen, and the mortgage has tended to engulf the pledge; but, from time to time the creditor class feels the need of turning the property it has acquired from bankrupts into gold, and then the rise explained by Overstone takes place. The hoards are opened, credit is freely given, the quantity of currency is increased, values rise, sales are made, and new adventurers contract fresh obligations. Then this expansion is followed by a fresh contraction, and liquidation is repeated on an ever-descending scale.

For many years farming land has fallen throughout the West, as it fell in Italy in the time of Pliny. Everywhere, as under Trajan, the peasantry are distressed; everywhere they migrate to the cities, as they did when Rome repudiated the denarius. By the census of the United Kingdom taken in 1891, not only did it appear that over seventy-one per cent of the inhabitants of England and Wales lived in towns, but that, while the urban districts had increased above fifteen per cent since the last census, the population of the purely agricultural counties had diminished.[33]

Moreover, within a generation, there has been a marked loss of fecundity among the more costly races. The rate of increase of the population has diminished. In the United States it is generally believed that the old native American blood is hardly reproducing itself; but, in all social phenomena, France precedes other nations by at least a quarter of a century, and it is, therefore, in France that the failure of vitality is most plainly seen. In 1789 the average French family consisted of 4.2 children. In 1891 it had fallen to 2.1,[34] and, since 1890, the deaths seem to have equaled the births.[35] In 1889 legislation was attempted to encourage productiveness, and parents of seven children were exempted from certain classes of taxes, but the experiment failed. Levasseur, in his great work on the population of France, has expressed himself almost in the words of Tacitus: “It can be laid down as a general law that, if in such a social condition as that of the French of the nineteenth century, the number of children is small, it is because the majority of parents wish it should be small.”[36]

Such signs point to the climax of consolidation. And yet, even the rise of the bankers is not the only or the surest indication that centralization is culminating. The destruction, wrought by accelerated movement, of the less tenacious organisms, is more evident below than above, is more striking in the advance of cheap labor, than in the evolution of the financier.

Notes

1. History of the Cotton Manufacture, 115.

2. A Tour Thro’ the whole Island of Great Britain, ed. 1753, iii, 136, 137.

3. Lives of Boulton and Watt, Smiles, 484.

4. First Letter on a Regicide Peace.

5. Theory and Practice of Banking, i, 507.

6. Considerations of the Lowering of Interests, Works, ed. 1823, v, 49.<

7. The Rothschilds, Reeves, 51.

8. The Rothschilds, Reeves, 192, 199.

9. Ibid., 200.

10. Wherever reference is made to comparative prices of commodities, the authority used has been the tables published by W. S. Jevons in Investigations in Currency and Finance, 144.

11. Ruding, Annals of the Coinage, iv, 37.

12. Overstone Tracts, 49.

13. History of Prices, i, 158.

14. Political Life of Sir Robert Peel, Doubleday, i, 218, note.

15. Theory and Practice of Banking, Macleod, ed. 1893, ii, 103.

16. See Hansard, New Series, viii, 189.

17. History of the Bank of England, i, 348.

18. Ibid., 347.

19. History of the Currency, MacLaren, 161.

20. Theory and Practice of Banking, Macleod, ii, 117, 118.

21. Overstone Tracts, 325.

22. Ibid., 191.

23. Ibid., 318.

24. Theory and Practice of Banking, ii, 147.

25. Overstone Tracts, 573.

26. Overstone Tracts, 574.

27. Cobden and the League, Ashworth, 174.

28. Theory and Practice of Banking, Macleod, ii, 169, 170.

29. Hansard, Third Series, xcv, 399.

30. Theory and Practice of Banking, ii, 170.

31. Hansard, Third Series, xcv, 398.

32. Overstone Tracts, 319.

33. See Journal of the Royal Statistical Society, liv, 464.

34. Dénombrement de 1891, 261.

35. Annuaire de L’Economie Politique, 1894, Block, 18.

36. La Population Française, ii, 214.

 


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mardi, 31 janvier 2012

Halte à l'immigration des Renault marocaines

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Halte à l'immigration des Renault marocaines

Que font Eric Besson et Claude Guéant pour nous protéger?

Marc Rousset
Ex: http://www.metamag.fr/

Alors que la production automobile de Renault recule dans l’hexagone, l’usine géante de Melloussa, au Maroc, dans la zone franche du port de Tanger, commence à produire des voitures  "low-cost" sous la marque Dacia avec une capacité de 340 000 véhicules par an. Le site a pour vocation d’exporter 85% de la production vers le vieux continent. Cette usine marocaine vient s’ajouter au site roumain de Pitesti, qui produit 813 000 voitures par an. Renault et les équipementiers de la région de Tanger pourraient créer 40 000 emplois !

Le salaire net mensuel d’un ouvrier marocain est de 250€/mois, contre 446€ en Roumanie. Le coût salarial horaire d’un ouvrier dans les usines Renault est de 30€/heure en France, 8 €/heure en Turquie, 6 €/heure en Roumanie et, surprise, 4,5 €/heure au Maroc, à deux jours de bateau des côtes françaises!

C’est la raison pour laquelle le monospace « Lodgy 5 ou 7 places » (10 000€), fabriqué à Melloussa, sera deux fois moins cher que le Renault Grand Scenic (24 300€), assemblé à Douai. Il ne fait donc aucun doute qu’à terme , suite au rapport qualité/prix et en faisant abstraction de quelques gadgets marketing et des dénégations du Groupe Renault,  les consommateurs français, s’ils ne sont pas trop bêtes, achèteront des  Lodgy fabriquées au Maroc. En lieu et place des Grand Scenic fabriquées à Douai ! Bref, une délocalisation élégante supplémentaire, avec  les miracles et les mensonges de la pub et du marketing comme paravent.


Usine Renault à Tanger

Que faire ? Qui incriminer ? Certainement pas Carlos Ghosn et les dirigeants de Renault, qui font parfaitement leur travail ,avec les règles du jeu actuel. Ils doivent rendre compte à leurs actionnaires et affronter une concurrence terrible, la survie du Groupe  Renault étant même en jeu s’ils ne délocalisent pas.

Non, les responsables sont les citoyens, nous qui acceptons cette règle économique du jeu. Les principaux coupables sont nos hommes politiques incapables, gestionnaires à la petite semaine avec un mandat de 5 ans, subissant les pressions du MEDEF et des médias, à la solde des entreprises multinationales, et les clubs de réflexion, tout comme le lobby des affaires à Washington et à Bruxelles.

Mise en place d'une préférence communautaire

Les hommes politiques des démocraties occidentales ne sont pas des hommes d’Etat, mais des gagneurs d’élection. Ils ne s’intéressent en aucune façon aux intérêts  économiques à long terme de la France et de l’Europe. Ils attendent tout simplement la catastrophe du chômage structurel inacceptable et la révolte des citoyens pour réagir, comme cela a été le cas en Argentine et avec la crise des dettes souveraines.

Voilà ceux qui sont à l’origine du mal et nous injectent délibérément  car conforme à leurs intérêts  financiers, le virus, le venin destructeur malfaisant du libre-échange mondial! Celui-ci doit laisser sa place, d’une façon urgente, à un libre-échange strictement européen ! Il faut changer le modèle, sans attendre la disparition totale de notre industrie, mais en mettant en place des droits de douane au niveau européen, selon le principe de la préférence communautaire formulé par notre prix Nobel d'économie, Maurice Allais.

Même l’Allemagne ne réussira pas, à terme, à s’en sortir avec le libre-échange mondial. Elle résiste encore, car elle  n’a pas fait les mêmes bêtises que les autres pays européens mais, à terme, elle sera également  laminée par la montée en puissance de l’éducation et le trop bas coût de la main d’œuvre dans les  pays émergents. Aux Européens de savoir préserver les débouchés de leur marché domestique suffisamment grand pour assurer un minimum d’économies d’échelle! La « théorie des débouchés »  va très vite revenir à l’ordre du jour.

La théorie des avantages comparatifs est morte

La vieille théorie des «avantages comparatifs», de Ricardo, n’a plus grand-chose à voir avec la réalité. Pour la première fois dans l’histoire du monde, des Etats (la Chine, l’Inde et le Brésil) vont en effet posséder une population immense ainsi qu’une recherche et une technologie excellentes. L’égalisation par le haut des salaires, selon la théorie de Ricardo, n’ira nullement de soi, du fait de « l’armée de réserve » -rien qu’en Chine de 750 millions de ruraux, soit 58% de l’ensemble de la population- capable de mettre toute l’Europe et les Etats-Unis au chômage. 300 millions d’exclus vivent, selon la Banque asiatique du développement, dans l’Empire du milieu, avec moins d’un 1€ par jour. La Chine ne se classe qu’au 110e rang mondial du PIB par habitant.

Ce ne sont pas quelques succès épars européens mis en avant par les médias, dans la mode ou le luxe, qui doivent nous faire oublier le tsunami du déclin des industries traditionnelles en Europe: quasi disparition des groupes Boussac, DMC et de l’industrie textile dans le Nord de la France, de l’industrie de la chaussure à Romans, de l’industrie navale, des espadrilles basques... Les pays émergents produiront inéluctablement, de plus en plus et à bas coût, des biens et des services aussi performants qu’en Europe ou aux Etats-Unis. Les délocalisations deviennent donc structurelles et non plus marginales !

Le problème de fond du déficit commercial de la France n’est pas lié au taux de change de l’euro, mais au coût du travail. Le coût horaire moyen de la main d’œuvre dans l’industrie manufacturière est de l’ordre de vingt dollars en Occident contre 1 dollar en Chine ! Un ouvrier en Chine travaille quatorze heures par jour, sept jours sur sept. 

Les mensonges du MEDEF et de Bruxelles

La mise en garde contre le protectionnisme avancée par les lobbys du MEDEF et des multinationales -25% des Français travailleraient pour l’exportation- est un mensonge d’Etat parfaitement réfuté par Gilles Ardinat dans le Monde Diplomatique de ce mois . Il y a une confusion délibérée entre valeur ajoutée et chiffre d’affaires des produits exportés. En vérité, 1 salarié français sur 14 vit pour l’exportation en France !

Dans un système de préférence communautaire, l’Europe produirait davantage de biens industriels et ce que perdraient les consommateurs européens dans un premier temps, en achetant plus cher les produits  anciennement « made in China », serait plus que compensé par les valeurs ajoutées industrielles supplémentaires créées en Europe. Ces dernières augmenteraient le PIB et le pouvoir d’achat, tout en créant des emplois stables et moins précaires, système que la CEE a connu et qui fonctionnait très bien. Alors, au lieu de s’en tenir au diktat idéologique de Bruxelles et au terrorisme intellectuel anglo-saxon, remettons en place le système de la préférence communautaire.


Il importe de faire la distinction entre marché domestique européen intérieur et marché d’exportation. Il faut, par une politique douanière de préférence communautaire, se fermer aux pays émergents qui détruisent les emplois européens avec des produits consommés sur le marché intérieur européen. Et refuser le dogme simpliste d'une délocalisation de la production physique de biens, même quand elle ne représente qu’une infime partie de la valeur. Les seuls investissements justifiés géopolitiquement le sont pour capter des parts du marché domestique chinois, des autres pays d’Asie et de tous les pays émergents.

Comment la réindustrialisation 

Les Européens ne peuvent se contenter d’une économie composée essentiellement de services. Seule façon de réagir: réduire d’une façon drastique fonctionnaires et dépenses publiques, diminuer la pression fiscale sur les entreprises et les particuliers, mettre en place une politique industrielle inexistante à l’échelle de l’Europe, développer la recherche et l’innovation, encourager les jeunes pousses, favoriser les entreprises moyennes et restaurer la préférence communautaire, avec des droits de douane plus élevés ou des quotas compensant les bas salaires des pays émergents !


 Selon Algérie-Focus.com l'usine Renault de Tanger
sera inaugurée en février 2012 en présence du patron
de Renault Carlos Ghosn et du Président français Nicolas Sarkozy


Il ne faut pas "acheter français", ce qui ne veut plus rien dire, mais acheter « fabriqué en France »,  en se méfiant des noms francisés et des usines tournevis ou d’assemblage, dont la valeur ajoutée industrielle viendrait, en fait, des pays émergents. Seule une politique de droits de douane défendra l’emploi du travailleur européen et combattra efficacement  d’une façon implacable le recours excessif aux sous-traitants  étrangers.

Tout cela est simple. Il ne manque que le courage. De changer le système. Mais sans tomber, pour autant, dans le Sylla du refus de l’effort, de l’innovation, du dépassement de soi, de l'ouverture au monde et d'une exportation équilibrée. L’introduction de la TVA sociale est une excellente décision, mais elle est totalement incapable de compenser les bas salaires de l’usine marocaine Renault de Mélissa et ne vaut que pour améliorer la compétitivité de la Maison France par rapport aux autres pays européens.

vendredi, 27 janvier 2012

Plaidoyer pour un protectionnisme européen

Plaidoyer pour un protectionnisme européen

« L’UE, avec ses 495 millions d’habitants, reste à ce jour le plus vaste et le plus riche marché du monde. Face à la menace de rétorsions commerciales, elle a des arguments à faire valoir pour négocier les conditions auxquelles elle consent à acheter les produits et services du monde. » affirme Gaël Giraud, chercheur au CNRS.

Sans attendre que les circonstances nous l’imposent, il nous serait possible de développer un « protectionnisme européen raisonné ». De quoi s’agirait-il ? D’imposer des barrières douanières autour de l’Union européenne (UE), qui pénalisent les biens, services et capitaux importés des pays : qui ne respectent pas les conditions de travail « décentes » préconisées par l’Organisation internationale du travail ; qui ne respectent pas les accords internationaux de Kyoto ; qui tolèrent les sociétés écrans et permettent de contourner l’impôt dû ailleurs (non pas les paradis fiscaux au sens de la liste « grise » de l’OCDE, vidée de toute substance, mais au sens, par exemple, de l’indice d’opacité financière établi par le Tax Justice Network.

Ces conditions peuvent paraître insuffisantes : elles laissent de côté, notamment, les accords multilatéraux sur l’environnement, ainsi que tout ce qui pourrait concerner la lutte contre le dumping salarial. Elles n’en constitueraient pas moins une première étape. Quant à établir une taxe sur les biens produits dans des conditions salariales « déloyales », elle suppose une révision intellectuelle en profondeur du concept même de concurrence, qui n’est guère à la portée, aujourd’hui, de la Commission européenne ou encore de l’Organisation mondiale du commerce (OMC).

Quoi qu’il en soit, cette étape devrait s’accompagner d’un plan de transition verte de la zone euro (si cette dernière survit). La protection de notre industrie et de notre agriculture pour leur « mue » est une condition sine qua non de succès : le climat et l’énergie exigent des investissements de long terme pharaoniques (600 milliards d’euros selon la Fondation Nicolas Hulot), dans les infrastructures ferroviaires, la capture du CO2, l’isolation de l’habitat… La pression de la concurrence internationale rend difficilement envisageables de tels investissements. Il nous faut une nouvelle révolution industrielle, non moins phénoménale que celles des XVIIIe et XIXe siècles. Ni l’Angleterre, ni l’Allemagne, ni la France, les États-Unis ou le Japon n’ont eu recours aux débouchés extérieurs pour leur décollage économique.

En un sens, la taxe écologique, abandonnée par le président Sarkozy, eût été un premier pas dans cette direction. Et le Système monétaire européen, de 1979 à 1993, constituait une version tout à fait réussie, dans son principe, d’une forme de protectionnisme régional tempéré. Sans doute conviendrait-il d’édifier de telles barrières par étapes, en ménageant, au moins dans un premier temps, les relations de l’UE avec l’Amérique du Nord, la Norvège ou la Suisse, par exemple. Nous devrons également faire des exceptions pour ce qui concerne les matières premières importées, certains produits agricoles et les biens d’équipement sans lesquels les entreprises européennes ne peuvent plus tourner. Mais ces exceptions devraient être débattues à l’échelon politique européen. Quel usage, surtout, faudra-t-il faire des recettes induites par ces nouveaux droits de douane ? Elles pourraient abonder un fonds d’aide au développement des pays du Sud (destiné à les aider à améliorer les conditions de travail de leurs salariés et à diminuer, chez eux, la facture écologique) ou encore un fonds souverain européen pour accélérer la transition vers une industrie verte.

Loin de constituer un renoncement à toute forme de concurrence sur le territoire européen, un cordon sanitaire permettrait, au contraire, l’organisation d’une concurrence loyale, les entreprises qui s’installeraient en Europe ayant à travailler dans les mêmes conditions que les nôtres. Bien sûr, nous devrions nous appliquer les critères imposés au reste du monde : en particulier une harmonisation fiscale européenne (l’UE compte de nombreux paradis fiscaux, à commencer par le Royaume-Uni, le Luxembourg, l’Autriche, l’Irlande ou Malte)

À qui ce protectionnisme ferait-il mal ?

Ce protectionnisme provoquerait-il une hausse du coût de la vie (en renchérissant les produits importés) ? Rien n’est moins sûr. Il rendrait enfin possible le rattrapage salarial qui nous fait cruellement défaut, en Allemagne comme dans le reste de l’Europe – condition nécessaire pour rendre une transition verte économiquement rentable. Car aujourd’hui, ce que nous gagnons comme consommateurs en achetant des biens bon marché produits hors d’Europe, nous le perdons, comme salariés, du fait de la compression des salaires.

Bien sûr, des mesures de protection commerciale n’inciteront pas seulement certains de nos partenaires à produire davantage pour leurs marchés internes (à l’instar de la Chine) : elles induiront aussi des rétorsions de leur part. Les PME françaises qui exportent à l’étranger en souffriraient-elles ? Avec raison, les médias relayent volontiers la réussite de certaines d’entre elles. Ainsi, les 600 producteurs de la coopérative d’Isigny-Sainte-Mère, dans le Calvados, exportent leur lait depuis trente ans. Mais c’est une exception. En 2008, environ 100 000 entreprises françaises exportaient des biens, d’après les Douanes, soit une entreprise sur 20. L’essentiel des exportations est assuré par un très petit nombre d’entreprises : mille assurent 70 % du chiffre d’affaires à l’export. Ce sont les grands groupes français et les entreprises de groupes étrangers implantés en France. La part des PME indépendantes reste limitée. Les années 2000, très « libre-échangistes » dans le discours, ont connu une baisse du nombre d’entreprises exportatrices françaises.

Et la moitié des PME qui exportent ont pour débouché un pays d’Europe de l’Ouest et ne seraient pas concernées par un cordon commercial européen. Un quart seulement exportent vers un pays émergent. On peut imaginer que les recettes des droits de douane servent aussi à soutenir le petit nombre de PME qui auraient à souffrir d’une telle politique. Enfin, la baisse de productivité qu’exigera notre transition verte, tout comme le transfert de nombreuses activités à la campagne, le réaménagement du territoire, etc., pourront être source de créations d’emplois et compenser le manque à gagner des PME concernées par d’éventuelles pertes de marchés extérieurs.

Qui, en Europe, serait donc pénalisé ? Le secteur financier. La déflation salariale et le maintien d’un chômage de masse en Europe (qui ne sont pas étrangers aux politiques de libre-échange exigent, pour être socialement supportables, une inflation faible. Celle-ci favorise l’explosion du rendement des placements financiers malgré une croissance molle depuis vingt ans. Mais l’insuffisance du pouvoir d’achat des ménages occidentaux a conduit à un recours massif au crédit à la consommation, à l’origine de la crise initiée en 2007. Le relâchement de la contrainte salariale des pays du Sud lèverait un obstacle majeur à une revalorisation des salaires et des prestations sociales au Nord pour répondre à l’inflation (due au pic du pétrole). Les revenus financiers s’en trouveraient mécaniquement rognés. Est-ce un mal ?

Si l’Europe voulait…

Lorsqu’en février 2009, la commissaire européenne en charge de la concurrence, Neelie Kroes, fait des remontrances à la France parce qu’elle conditionne son aide publique au secteur automobile à des engagements de non-délocalisation et de protection des emplois nationaux, deux remarques s’imposent. Tout d’abord, la conditionnalité d’une telle aide devrait porter en priorité sur l’accélération de la transition vers la production d’automobiles électriques. Subventionner l’automobile à essence, compte-tenu de la contrainte environnementale et énergétique, est un non-sens. Bruxelles a eu raison de tancer Paris… mais pour de mauvais motifs ! C’est au niveau européen qu’une aide publique à l’industrie européenne (verte), conditionnée à des clauses de non-délocalisation, devrait être organisée. Car la délocalisation (celle des usines que l’on ferme, mais aussi celle, invisible, de toutes les décisions d’investissement qui ne sont pas prises sur le sol européen n’est rendue intéressante que grâce au dumping salarial des pays émergents et au coût relatif très faible jusque-là, du pétrole.

La seconde étape de cette politique commerciale, destinée à contrebalancer le dumping salarial des pays émergents (mais aussi du Japon et de l’Allemagne), ferait-elle tort aux pays exportateurs ? Elle contrarierait une dynamique au terme de laquelle les pays émergents, la Russie et l’Opep (Organisation des pays exportateurs de pétrole) réalisent à eux seuls 50 % de la valeur des exportations mondiales en 2010 (contre 27 % en 1998). Mais elle les inviterait à revaloriser leur demande interne. La consommation des ménages représente moins de 35 % du volume du Pib chinois en 2010, contre 50 % en 1998. Et la part de la masse salariale, 48 % du Pib chinois en 2010, contre 52 % en 2001. Les bénéfices que la Chine retire de la mondialisation ne sont donc pas distribués au profit des salariés. C’est cette logique qu’un protectionnisme européen viendrait entraver. La Chine centralisée d’avant « l’ouverture » connaissait une assurance maladie, supprimée depuis lors pour augmenter son avantage compétitif.

L’UE, avec ses 495 millions d’habitants, reste à ce jour le plus vaste et le plus riche marché du monde. Face à la menace de rétorsions commerciales, elle a des arguments à faire valoir pour négocier les conditions auxquelles elle consent à acheter les produits et services du monde. D’ailleurs, les représailles existent déjà : les contrats chinois passés avec Airbus ou Boeing prévoient que les futurs avions soient sous-traités en Chine, dans le cadre de co-investissements avec des entreprises chinoises. Pékin a choisi, au début des années 2000, d’instituer une taxe de 23 % sur les importations d’avions régionaux, en vue de protéger sa production. Et nous devrions nous refuser à adopter ce type de politique commerciale bien comprise par crainte de rétorsions que nous subissons déjà ?

Des mesures protectionnistes vont-elles à contre-sens de ce que préconisent Bruxelles et l’OMC ? Les articles du Traité de Lisbonne ont été allègrement bafoués lors des grandes opérations de consolidation du secteur bancaire menées à la faveur de la crise. Serait-ce que l’extraordinaire concentration du secteur, qui accroît le risque systémique lié aux banques « too big to fail », ne contrevient pas aux règles de la saine concurrence ? La Commission sait faire des exceptions à ses principes. C’est donc qu’ils ne sont pas inviolables et doivent pouvoir faire l’objet d’un véritable débat démocratique. Sans cela, les deux revirements stratégiques évoqués supra auxquels nous serons sans doute contraints à plus ou moins brève échéance – le renoncement, pour cause de « dé-globalisation », au pari allemand des exportations extra-européennes comme principal moteur de la croissance ; la fermeture du capital des entreprises européennes aux investisseurs orientaux – seront pratiqués dans une forme de déni schizophrène.

À l’aube d’une âpre négociation ?

Pour mettre des barrières douanières, il faut l’accord unanime des Vingt-Sept. La Pologne, l’Espagne, l’Estonie ont des secteurs industriels très différents de ceux de la France et de l’Allemagne. Les négociations promettent d’être complexes ! L’Angleterre y sera hostile par tradition et par souci de conserver ses relations transatlantiques. L’Allemagne, grisée par le succès de ses exportations de biens d’équipement, se pense comme une grande bénéficiaire du libre-échange (alors que le pouvoir d’achat de ses classes moyennes a diminué depuis quinze ans). Elle ne consentira à une déchirante révision que lorsqu’il deviendra clair que sa stratégie d’exportation sur les marchés émergents est vouée à l’échec par le pétrole très cher et la réorientation de l’industrie chinoise vers son propre marché domestique. La percée que le Parti vert allemand est en train de réaliser outre-Rhin, aux dépens de la très libérale FDP (Parti libéral-démocrate) et de la CDU (Union chrétienne démocrate), pourrait augurer un changement d’attitude à l’égard d’un possible protectionnisme écologique. En France, une telle volonté politique emporterait l’assentiment de 55 % des Français. Mais c’est à l’échelle européenne qu’une telle politique devrait être menée.

ContreInfo.info

mercredi, 25 janvier 2012

Le “Peak Everything”

Le “Peak Everything” (ou la fin des haricots)

Je vous bassine depuis cinq ans avec le Peak Oil, qui devait entraîner à court ou moyen terme la chute de l’économie mondiale et la fin de la doctrine croissanciste.

Vision post-apocalyptique de New York (cliquer sur l'image pour l'agrandir)

Mais à y regarder de plus près, ce n’est pas la seule pénurie qui nous guette. Conséquence directe de la croissance mondiale infernale, d’autres ressources vont rapidement venir à manquer. Oh, pas forcément en même temps. Mais en l’espace de 2 ou 3 décennies, nombre de ressources indispensables à la conservation de notre niveau de vie vont devenir plus rares, et ne pourront plus être exploitées en quantité suffisante.

Pour ceux qui auraient pris le train en marche, deux notions de base, niveau maternelle moyenne section. On remarquera au passage que 99.9% de nos politiciens, dont certains ont pourtant fait toutes les études que l’on peut faire (Normale Sup, l’ENA, Polytechnique…) n’ont toujours pas compris ces notions.

1) Il n’y a pas de croissance infinie dans un monde fini. (les seuls à penser le contraires sont les fous, les économistes, mais aussi les politiciens et les médias qui leur servent la soupe). En maths, une exponentielle monte jusqu’au ciel. Sur terre, il y a un plafond avant, sur lequel la croissance est déjà en train de se fracasser.

2) (C’est un peu plus dur, mettons niveau CE2). Toute consommation d’une ressource finie passe par un maximum, après lequel elle ne peut que décroître pour finalement tomber à 0. Dans un ancien billet, je prenais l’exemple de quelqu’un qui fait pipi : la capacité de sa vessie étant finie, il pourra s’efforcer tant qu’il peut d’augmenter le débit, à un moment le jet se mettra à décroître avant de s’arrêter inexorablement. Le maximum du débit, c’est ce qu’on appelle le “Pic”. En rosbif “Peak”.
Le pic ne signifie évidemment pas la fin de la production. Simplement, les prix montent, et puisque toute la demande ne peut plus être honorée, toute croissance devient impossible.

Les estimations des pics ne sont certes pas précises à la minute. Et elles varient en fonction des sources. Là encore, la malhonnêteté, la corruption et la propagande jouent un grand rôle. Une grande compagnie pétrolière ne va évidemment pas avouer que son business va décliner et s’arrêter dans quelques années : pour protéger ses actionnaires, elle va surestimer ses réserves et soudoyer des experts véreux pour accréditer ses bobards.

Pour éviter ce piège, je me suis basé sur les travaux d’un groupe indépendant allemand, l’Energy Watch Group.

Le Pic pétrolier (Peak Oil)
J’en ai déjà beaucoup parlé, alors je vais faire bref. Selon les spécialistes indépendants, le pic a déjà été atteint, et nous sommes dans la phase de plateau qui précède la chute. La production mondiale plafonne à 82 millions de barils par jour. On a commencé à taper dans les stocks pour faire descendre un prix qui a repris le chemin inexorable de la hausse. Le pétrole le plus facile à pomper l’a déjà été. En 2030, la production mondiale devrait avoir diminué de moitié…
En ce début d’année, on nous annonce que le record du prix de l’essence a été battu en France. Et ce n’est que le début…

Le pic gazier (Peak Gas)
Le gaz, auquel la pub de GDF-SUEZ accole systématiquement l’adjectif “naturel” pour lui donner une image dans l’air du temps, est, exactement comme le pétrole, une ressource fossile non renouvelable, qui a mis des millions d’années à se former, et que nous allons bouffer en l’espace de 200 ans. La consommation mondiale de gaz a doublé depuis 30 ans, et la courbe reste résolument à la hausse. Les corrompus des pays producteurs (Russie, Qatar…) s’en mettent actuellement plein les fouilles, étalant leur richesse écœurante dans le monde entier.
Le gaz est notamment présenté comme la meilleure solution pour prendre la relève du nucléaire discrédité. C’est ce qui se passe par exemple au Japon, où la quasi-totalité des centrales nucléaire ont fermé depuis FuckUshima, et où le gaz importé a pris la relève.
Aujourd’hui, les estimations de la date du “Peak gas” sont entre 2020 et 2030. Demain, donc.

Le pic de charbon (Peak Coal)
Là c’est la surprise. On croyait en avoir encore pour 100 ou 200 ans, mais selon l’Energy Watch Group, c’est vers 2025 que l’extraction de charbon atteindra son pic, 30% au-dessus de la situation actuelle…

Le pic d’uranium (Peak Uranium)
Bien sûr la cata de FuckUshima a provisoirement calmé les ardeurs atomiques. Mais ne vous y trompez pas : les affaires vont reprendre. Les centrales françaises ont été déclarées “sûres”, malgré la démonstration de Greenpeace qu’un groupe de piétons même pas armé pouvait s’y introduire comme dans un moulin. Il est probable que toutes les autres affirmations (concernant par exemple une chute d’avion ou un tremblement de terre) soient tout aussi pipeautées, et qu’il faudra hélas attendre un accident majeur pour sortir les idéologues incapables et corrompus qui nous gouvernent (et ceux qui vont leur succéder dans quelques mois) de leur aveuglement.
Selon le “Energy Watch Group” le pic d’uranium est prévu vers 2035. Une énergie d’avenir, assurément…

Le Pic métallique (Peak Metal)
Là aussi j’en ai déjà parlé. La “croissance” implique une consommation toujours plus forte de métaux. On croit qu’il s’agit là de ressources infinies. Comme pour le pétrole, on a commencé par extraire ce qui était le plus facile. La teneur en métal du minerai diminue irrémédiablement.
Et pour bon nombre d’entre eux, y compris parmi les plus usuels (cuivre,nickel, zinc, plomb, étain…), le pic est tout proche proche. Vingt ans, trente ans. Demain, quoi. Même si le recyclage permet de réutiliser au lieu d’extraire, il est loin d’être total. Lire à ce sujet le livre très documenté de Philippe Bihouix et Benoît de Guillebon : “Quel futur pour les métaux”.

Le pic électrique (Peak Electricity)
C’est tout simplement la conséquence des pics précédents. L’électricité n’est pas une énergie primaire, et il faut la produire. Or les quatre principaux moyens de production actuels (charbon, gaz, pétrole, uranium) vont commencer à manquer. Même si un jour peut-être on arrivera à produire suffisamment d’électricité avec d’autres sources, cela prendra un temps énorme, et le mal sera fait.
D’autant que certains misent sur l’électricité pour remplacer les autres énergies… Pour les voitures, par exemple. Ce qui là encore ne se fera probablement pas. À court terme, elles ne sont pas au point. À moyen terme, les capacités de production de lithium feront un goulot d’étranglement. Et à long terme il n’y aura plus assez d’électricité…
Autre “détail” : le pétrole sert aussi à fabriquer une foule de choses, comme du plastique et des engrais, que l’électricité ne remplacera jamais.

Le pic du sol (Peak Dirt)
J’observe tous les jours avec effarement l’avancée de l’urbanisme stupide (garages, centres commerciaux) dans l’est de Metz. Et s’il n’y avait qu’à Metz… C’est partout pareil. On nous parle de récession, de chômage, mais de nouvelles surfaces commerciales continuent à s’installer à un rythme démentiel. Sans négliger les lotissements. On estime que tous les 10 ans, c’est l’équivalent de la surface d’un département qui disparaît en France.
Saturés d’engrais, de pesticides, les sols s’appauvrissent. Alors on met plus d’engrais… Sauf que l’engrais est principalement dérivé du pétrole. On ne s’en sortira pas… Alors les pays qui disposent de pognon vont jusqu’à acheter des terres à l’étranger, notamment en Afrique, où l’on crève pourtant déjà de faim.

Le pic de l’eau (Peak Water)
Ah, de l’eau il y en a. Le problème, c’est qu’il va être de plus en plus difficile de trouver de l’eau en général, et de l’eau potable en particulier.
La première conséquence de la “croissance” est d’augmenter les besoins en eau. Une autre est la quantité phénoménale de saloperies disséminées dans l’air et dans l’eau. Engrais, pesticides, médicaments, rejets industriels, métaux lourds…
À titre d’exemple, le seul rejet dans le Rhône de quantités infimes de PCB (substance plus connue sous le nom de “Pyralène”, entrant dans la composition de vieux transformateurs électriques) a suffi pour rendre les poissons qui y vivent impropres à la consommation, et pour une durée indéterminée !
Des phénomènes similaires guettent toutes les sources d’eau. On connaît le phénomène des algues vertes en Bretagne, mais ce qu’on sait moins, c’est que dans de nombreux cas, l’eau du robinet est tellement chargée en nitrates qu’elle n’est plus potable. Et depuis longtemps. Alors les Bretons boivent de l’eau en bouteille. Dont les taux de nitrates augmentent aussi…
Enfin, conséquence du réchauffement climatique, des zones de plus en plus étendues, qui sont déjà parmi les plus déshéritées, vont souffrir de sécheresse. Avec son cortège d’enfants morts et d’émigration forcée.
1.8 milliard de personnes souffriront en 2025 d’une insuffisance d’approvisionnement en eau.

Le pic du maïs (Peak Corn) et le pic du riz (Peak Rice)
Là encore ce sont d’abord des conséquences des pics précédents. Moins de terres cultivables, moins d’eau = moins de céréales, c’est mathématique.
Autre problème, la tendance néfaste à utiliser des denrées alimentaires pour faire du carburant. On préfère gaspiller du maïs ou du blé pour faire de l’éthanol (avec un rendement minable) tout en sachant que des gens vont en crever.
Autre effet pervers, on préfère désormais remplacer les cultures de céréales par du palmier à huile. Cette saleté ne sert pas seulement à créer la “matière grasse végétale”, produit bon marché qui bouche les artères et qui est présent dans la quasi-totalité de la bouffe industrielle, base de l’alimentation occidentale, c’est aussi un “bio-carburant”…

On pourrait faire des centaines de pages sur le sujet. Mais j’ai fait court, ce n’est qu’un billet de blog.

Je suppose que comme moi vous écoutez d’un oreille consternée le simulacre désolant de “campagne électorale” que nous vivons actuellement. Un combat de coqs arrogants et ridicules, aussi ambitieux qu’incompétents. Avec la complicité des médias dominants, ils n’ont pas leur pareil pour mettre en lumière des problèmes ineptes, sans intérêt, ou parfaitement mineurs. Un “sommet social” grotesque, la suppression du quotient familial, le mariage homosexuel, la taxe sur le coca… J’en passe et des bien pires.

Tous les candidats dits “principaux” sont d’accord sur tout, à commencer par deux choses : “La croissance®”, et l’obligation de rembourser une dette indue contractée à taux usuraires, quitte à sacrifier les finances publiques et la vie de leurs électeurs. Des larbins.

Enfermés avec nous dans la cage des financiers, n’envisageant à aucun moment d’en sortir, mais prétendant que, à condition de diminuer de moitié notre consommation de grain et de doubler notre production d’œufs, nous courrons bientôt libres dans les champs.

Elle est où, l’écologie dans cette campagne de merde ? Nulle part ! Disparue ! La finance a tout bouffé. Le peu qui reste sera consacré à l’insécurité, aux promesses à crédibilité nulle sur “l’emploi” ou le “pouvoir d’achat”.

Oh, il y a bien une candidate “écologiste” officielle, Eva Joly. Sauf que tout ce qu’elle pourrait dire est tourné en ridicule. D’ailleurs elle ne dit rien, où alors sur des sujets… euh… hors sujet. Des jours fériés pour d’autres religions… Passionnant… Il semble qu’on tente actuellement de la “ramener à la raison” et abandonner purement et simplement sa candidature, pour ne pas risquer la déroute financière pour le cas de plus en plus probable où elle ne dépasserait pas les 5%…
Les électeurs “zécolos” seraient alors priés de voter Mimolette dès le premier tour, et de valider, outre la soumission absolue aux banksters, la poursuite dans la voie sans issue de la “croissance”, le tout-nucléaire, sans oublier d’avaler la pilule de l’Ayraultport, symbole de la bêtise et de l’incompréhension de l’avenir du monde.

Il y a aussi Mélenchon. Sauf que ses convictions écologiques sont à géométrie variable. Et je ne parle même pas du nucléaire… Il est bien entouré, mais qui écoute-t-il ?
L’écologie, il en parle en meetings, ou en petit comité. Par contre, dans les grands médias, l’écologie disparaît. Pas un mot tout au long des deux heures de son émission sur France 2. Ce n’est pas un sujet porteur. Mélenchon, son truc, c’est le social. On dirait un peu un mélange de Mitterrand et de Marchais en 1980. Changer la vie, prendre aux riches pour donner aux pauvres, aux patrons pour donner aux ouvriers… On a vu le résultat. Des décennies de protestation dans le vide ont fait le lit du libéralisme et assuré son triomphe absolu.
Mais expliquer que le “pouvoir d’achat” a lui aussi atteint son pic, et qu’il vaudrait mieux s’adapter au monde qui vient en reprenant une vie plus sobre, c’est un coup à perdre des élections…

Pas plus tard que l’an dernier, Sarkozy, ce dangereux guignol, avait bien résumé la situation : l’environnement, ça commence à bien faire 

Pourtant, le tableau est apocalyptique : il est désormais certain que les problèmes dus au tarissement de l’approvisionnement en pétrole se feront sentir bien avant la fin de cette décennie. Que de nouvelles guerres sont à prévoir pour se disputer les dernières gouttes. Que des tentatives désespérées pour pallier ce manque en tirant davantage sur le gaz ou le charbon auront pour résultat une nouvelle pénurie moins de 10 ans plus tard.
En même temps que la terre ne pourra plus nourrir les 8 milliards d’humains, dont un quart manquera d’eau. Le manque de métaux sera alors une cerise sur le gâteau de la catastrophe intégrale.

Il est hélas certain que d’ici là, l’économie, entièrement bâtie sur la possibilité de disposer d’énergie abondante et bon marché, et déjà mise à genoux par le racket de la finance, sera totalement par terre.

Qui s’en préoccupe ? Personne ! Pourtant, des politiciens surdiplômés, entourés d’une armée de conseillers, n’auraient aucun mal à être mieux informés qu’un petit blogueur armé de sa seule jugeotte et de sa curiosité à farfouiller sur Internet…

Nos (ir)responsables nous bassinent avec leur propagande libérale, réclament des “baisses de charges”, la suppression du code du travail… Ne parlent que de concurrence et de productivité. Nous poussent à con-sommer. Toujours plus. N’importe quoi. Continuent à implorer un chimérique “dieu croissance”.

Des fous, des aveugles, des drogués.

SuperNo

La crise de l’euro sera-t-elle au libéralisme ce que la chute du mur fut au communisme ?

La crise de l’euro sera-t-elle au libéralisme ce que la chute du mur fut au communisme ?

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/

Mais pourquoi l’Europe s’est-elle donc rendue objectivement complice des attaques contre son modèle social et ses institutions politiques et financières ?

Dernier numéro de notre série consacrée aux 40 ans qui ont permis à l’industrie de la finance de prendre le contrôle du monde réel.

" L’Europe est rentrée en récession parce que tous les pays ont diminué leur marché intérieur..."

” L’Europe est rentrée en récession parce que tous les pays ont diminué leur marché intérieur…”

Suite à la crise des subprimes, l’Europe s’est retrouvée piégée par les institutions financières. Mais le piège n’a pu se refermer sur elle qu’en raison de la nature de ses propres institutions dont la faiblesse est devenue éclatante, leur faisant perdre ainsi toute légitimité. Que les autres puissances, à commencer par les États-Unis jouent le jeu de leurs intérêts et de leurs pouvoirs oligarchiques est parfaitement logique. Ce qui ne l’est pas du tout, c’est que l’Europe se rende objectivement complice des autres puissances qui l’attaquent !

Depuis le déclenchement de la crise financière, l’Europe et ses dirigeants, n’ont cessé d’accumuler les erreurs.

Tout d’abord, l’Europe est rentrée en récession parce que tous les pays ont diminué leur marché intérieur en copiant le « modèle » allemand qui était un modèle de passager clandestin européen, puisque les excédents germaniques se nourrissent essentiellement des déficits consentis par les autres pays européens pour soutenir la demande. L’Allemagne fait 85% de ses excédents commerciaux en Europe. Elle fait ainsi deux fois moins d’excédents commerciaux aux États-Unis qu’en France (près de 14 milliards d’euros pour les États-Unis pour un peu plus de 27 milliards en France), ce qui est quand même étrange pour un compétiteur qui se prétend global.

Ensuite, par la régulation sur les assurances et les banques, les institutions européennes ont demandé l’impossible. En effet, avec le « mark to market » (principe qui veut  que les actifs soient valorisés à leur valeur de marché et subissent ainsi les fluctuations spéculatives de marché), les fonds propres des institutions financières en même temps qu’ils augmentaient – essentiellement par les profits de la spéculation – diminuaient par la valeur de marché des dettes d’État que demandait le régulateur pour la liquidité. De surcroît, en considérant l’investissement dans l’économie réelle comme demandant plus de fonds propres, le régulateur a aggravé la récession en générant un phénomène de crédit crunch (risque de pénurie de crédit), c’est à dire un gel des financements de l’économie par des banques étranglées par les contraintes imposées sur leurs bilans. Or, sans risque, il n’y a plus d’économie : la liquidité des actifs aurait pu tout à fait se réaliser en élargissant les effets acceptés en contrepartie du financement à la Banque centrale dans les opérations de refinancement. Solution d’autant moins contestable qu’elle a été mise en œuvre pour des actifs subprimes.

Enfin, en refusant la monétisation pour les Etats, qui ferait que quoi qu’il advienne il y ait toujours un acheteur en dernier ressort de la dette publique, mais aussi en refusant de refinancer les dettes des Etats au bord de la banqueroute (Grèce, Portugal) à des taux quasi nul, et donc en réservant de fait ces facilités de création monétaire aux banques, les institutions européennes se sont enfermées elle-même dans un engrenage menant inéluctablement à l’éclatement de la zone euro, sans engager pour autant les réformes structurelles indispensables pour résorber les déficits du Sud. Les solutions existent pourtant : elles passent par une politique de relance par l’investissement rentable dans les pays structurellement déficitaires, avec la création de fonds européens d’investissement; elles passent aussi par le rétablissement d’une véritable concurrence à la place de l’actuelle concurrence non libre et faussée avec les pays émergents qui détruit les bases industrielles dans tous les pays occidentaux – Allemagne comprise.

Autre grave erreur, très politique celle là : les responsables européens se sont montrés coupables d’un véritable déni de justice envers les contribuables européens, lourdement mis à contribution pour éponger les pertes bancaires. En refusant la mise en accusation – par un tribunal pénal européen à juridiction universelle constitué à cette fin (proposition du CAPEC reprise par Jacques Attali) – des institutions financières (y compris les agences de notation) à l’origine du montage frauduleux et délibéré des subprimes, les principaux chefs d’État ou de gouvernement de l’Union ont gravement entamé leur légitimité déjà vacillante aux yeux de bien des électeurs européens.

Ce procès reste à faire pour demander des dommages et intérêts proportionnels aux pertes de nos économies, et des manques à gagner de nos États. L’arrêt immédiat du fonctionnement des banques, institutions financières et agences de notations impliquées dans ces délits, la réquisition conservatoire de tous leurs comptes et biens en Europe, reste à faire et devra se faire tôt ou tard !

L'indépendance de la BCE empêche les Etats de la zone euro de desserrer la contrainte de la dette en créant de la monnaie

Cette initiative judiciaire peut sembler extrêmement vigoureuse. Elle représente en réalité une riposte proportionnelle à l’attaque lancée contre l’Europe par des institutions financières anglo-saxonnes qui n’ont jamais accepté que l’Union Européenne puisse incarner et porter un modèle alternatif à celui qu’elles ont instauré à leur profit. La seule Europe qui trouve grâce à leurs yeux est une Europe fantôme, sans colonne vertébrale et sans ambition, une Europe uniquement commerciale, affaiblie, dans laquelle on rachète les actifs les plus intéressants (comme cela se fait actuellement ou est en cours de négociation pour des grands fonds d’investissement des banques et assurances françaises tel Axa Private Equity) et, bien sûr, sans l’euro, du moins sans l’euro comme monnaie susceptible de contrebalancer le pouvoir exorbitant du dollar.

Il ne faut en effet pas s’y tromper : même si la gestion de l’euro doit être réformée, la disparition de la monnaie unique représenterait, en effet, pour eux une victoire stratégique considérable. Elle entraînerait en effet mécaniquement une ruée sur le dollar permettant de monétiser encore plus la dette américaine (les banques achètent à zéro et revendent à 3 à l’État américain), et au dollar de survivre comme unique monnaie internationale… Pis ! L’éclatement de l’euro rendrait possible une juteuse spéculation sur les nouvelles monnaies européennes… et le partage de nos actifs bradés entre Américains, les Chinois et le reste du monde !

Tout système a sa logique. Comme le collectivisme conduisait – derrière les meilleures intentions du monde – au goulag, le libéralisme dénaturé par une trop grande dérégulation et par la démission des États sensés en fixer les limites conduit – derrières les meilleures intentions du monde – à la prise de contrôle des États, de la politique et demain directement des peuples et de la société par les puissantes institutions de l’industrie financière. Certes, beaucoup de fidèles serviteurs sont inconscients des logiques profondes du système… mais ils n’en sont pas moins de fidèles serviteurs. Ils constituent en somme une version capitaliste des fameux « idiots utiles » chers à Lénine !

Toutefois, au même titre que le communisme jadis, ce système liberticide peut être combattu et vaincu. Pour cela, il suffit, en réalité de clarifier le projet européen et de répondre coup pour coup. Par une initiative d’États européens, il s’agit d’abord de retrouver notre souveraineté monétaire en procédant à des avances au Trésor public par nos propres banques centrales nationales pour un montant de 10 % de nos PIB nationaux. Ce qui situerait l’émission monétaire de la zone euro dans la moyenne mondiale. De la sorte, nous n’aurons pas seulement gagné du temps face aux attaques des marchés, tout en restant dans la zone euro. Nous serons aussi en mesure de procéder simultanément à une relance par l’investissement rentable, orientée prioritairement vers les pays du Sud structurellement déficitaires, dont la France. L’heure est au choix : soit nous redonnons de la cohérence à la zone euro par un nouvel usage de notre monnaie, soit la zone euro éclatera…

Mais la portée d’une telle initiative dépasse le seul cadre de la crise actuelle. En effet, en retrouvant notre souveraineté monétaire au service du bien commun, nous accomplirons aussi une œuvre de plus grande portée : nous remettrons la finance au service de l’économie, et l’économie au service des besoins des peuples, de nos populations.

La mise sous contrôle des institutions financières internationales n’est donc pas seulement une nécessité économique. C’est aussi un impératif démocratique. Au-delà des dérives d’un libéralisme dévoyé par une vision uniquement financière et court-termiste, tout un système économique est à sauver pour ne pas prendre le risque d’aventures politiques hasardeuses voulant faire table rase de la liberté d’entreprendre.

Par son avidité mortifère, le système financier actuel et ses promoteurs anglo-saxons nous obligent à retrouver le projet fondateur de l’Europe, qui est un projet politique de culture et de civilisation humaniste, avec sa version d’économie sociale de marché qui s’opposera toujours à l’actuel projet libéral anglo-saxon.

Rien n’est encore joué : si nous le voulons, de mortelle, la crise actuelle peut devenir salutaire !

Jean-Luc Schaffhauser

dimanche, 22 janvier 2012

Flambée Du Prix de L’Essence Conséquence Directe Des Sanctions Contre L’Iran

Flambée du prix de l’essence: conséquence directe des sanctions contre l’Iran

En France le prix de l’essence à la pompe a atteint un record historique. Ni les US ni Israël n’importent de pétrole iranien et par conséquent ne subissent de plein fouet les conséquences. En plus les US ont un accord avec Israël pour leur fournir du pétrole en cas de pénurie (pendant une guerre un embargo par exemple) et Israël dispose également dans le Sud d’importants réservoirs souterrains.

Flambée  Du Prix de L'Essence Conséquence Directe Des Sanctions Contre L’Iran
Le prix du carburant a atteint un niveau historique en France vendredi, selon des données hebdomadaires compilées par la Direction générale de l’énergie et du climat. De plus, enlevez la facture pétrolière, et la France devient tout de suite excédentaire sur la balance de ses exportations donc si le prix du pétrole flambe le déséquilibre de sa balance commerciale va s’accentuer.Autre facteur de flambée du Brut la chute de l’Euro face au dollar provoquant une augmentation de la facture pétrolière.

Le prix du Brut flambe à cause des spéculations portant à la fois sur les sanctions unilatérales contre l’Iran déjà prises et que va renforcer l’UE imitant en cela les US sous pression du Lobby Juif Sioniste, et sur les rumeurs d’attaques militaires par les US et ou Israël contre les installations nucléaires iraniennes.

Les compagnies pétrolières – dont Total qui ne paie pas d’impôt en France et l’Etat français via ses taxes – premières bénéficiaires de cette envolée du Brut la répercutent immédiatement à la pompe bien sûr.Le PDG de Total, Christophe de Margerie estime que “les chances que le baril descende en dessous de 100 dollars sont faibles” et qu’il devrait “rester dans la zone des 100-120 dollars” des chiffres qui pourraient être revus à la hausse si la situation au Moyen Orient se dégrade à cause des velléités colonialistes belliqueuses des US Israël et leurs ingérences continuelles par des actions clandestines terroristes en Syrie et en Iran.Total a bénéficié des cours élevés du pétrole au 3e trimestre 2011 avec un bénéfice net en hausse de 17 % à 3,31 milliards d’euros. Pour 2012, le PDG de Total prévoit des résultats “en hausse” pour la compagnie pétrolière et ce qu’il ne dit pas bien sûr pour les dividendes de ses actionnaires. Les Français qui font le plein pour aller bosser – et les autres notamment ceux qui vivent en périphérie des villes et à la campagne – apprécierons.

Les US ISRAEL viennent de mener une vaste campagne de propagande sur des exercices militaires conjoints – finalement repoussés- que s’est empressé de relayer avec de nombreux détails le site affilié aux services de renseignements militaires et de propagande israélienne Devka Files. L’objectif de cette campagne c’est de faire pression sur l’UE pour qu’elle adopte des sanctions contre l’importation de pétrole iranien et boycotte la Banque Centrale d’Iran.

Pour se faire, et avec la complicité de l’administration Obama qui feint de vouloir « restreindre » les velléités guerrières de l’entité coloniale sioniste, les Juifs israéliens utilisent leur méthode favorite le chantage à une intervention militaire d’où récemment le battage médiatique international intensif sur une possible guerre Iran US Israël.

Ce qui est passé sous silence par contre lorsqu’on parle de sanctions unilatérales des US de l’UE et consorts contre l’Iran c’est que les deux principaux instigateurs de ces sanctions les US et Israël n’importent pas de pétrole de l’Iran et par conséquent leurs économies et leurs populations respectives sont beaucoup moins touchées que celles des membres de l’UE dont la France même si ces deux pays subissent également les contre coups de la flambée des cours du Pétrole.

En effet les US importent majoritairement leur pétrole – par ordre d’importance – du Canada de l’Arabie Saoudite leur allié whahhabite et protégé du Golfe, du Mexique, du Venezuela et du Nigéria ces pays couvrant à eux seuls 69% des importations américaines de Brut. Autre pays exportateur de Brut vers les US par ordre décroissant de barils exportés : La Colombie, l’Irak, L’Equateur, l’Angola, La Russie, Le Brésil, Le Koweït, L’Algérie, Oman.

Par contre les US seraient directement touchés pour leurs importations de pétrole des pays du Golfe par une réglementation et un contrôle astreignants mis en place par l’Iran pour emprunter ses eaux territoriales au niveau du passage d’Hormuz – tankers pétroliers transportant le pétrole d’Arabie Saoudite, d’Irak, du Koweït, d’Oman… et autres navires de guerre dont ceux de la Vème Flotte US stationnée à Bahreïn dans un cul de sac – ce que le parlement iranien pourrait décidé en toute légalité conformément au droit de la mer international ce d’autant plus qu’un embargo unilatéral sans résolution du CSONU sur les exportations de pétrole iranien constitue un acte de guerre. L’Iran serait en droit de prendre les mesures nécessaires pour assurer sa sécurité Terre Mer Air inclus limiter drastiquement la circulation des navires étrangers dans ses eaux territoriales aux alentours du Détroit D’Hormuz.

L’administration Obama sous la pression des Républicains néocons alliés des Juifs sionistes américains a ratifié cet embargo pétrolier et les sanctions qui l’accompagnent pour les sociétés étrangères faisant affaire avec l’Iran notamment via la Banque Centrale d’Iran risque à terme d’en payer chèrement les conséquences économiquement dans un climat de Grande Récession qui pourrait se transformer en Méga Récession.

Les Juifs sionistes et leurs alliés néo cons américains n’ont aucun problème à promouvoir agressivement -inclus en corrompant les élus du Congrès américains – cet embargo sur les importations de pétrole iranien.

Le régime colonial sioniste auto proclamé Israël, lui aussi n’importe pas de pétrole de l’Iran sauf à l’époque du Shah à partir de 1968 jusqu’en 1979 utilisant pour se faire un pipeline le «TIPline». Israël importe des milliers de barils par jour et occupe la 42ème place sur la liste des 211 pays importateurs de pétrole et 35ème place per capita en matière de consommation.

Israël dépend à 99% du marché mondial du pétrole pour ses importations et si les Israéliens subissent aussi par ricochet les conséquences de la flambée du Brut elles sont bien moindre que celles subies dans les pays membres de l’UE dont la France.

Pour ce qui est de conséquences éventuelles de la réduction du trafic ou de la fermeture du Détroit D’Hormuz par l’Iran Israël n’est pas concerné et n’en subirait pas les conséquences à la différence des pays membres de l’UE dont la France et des US.

Bien que ce soit plus difficile de répertorier les pays producteurs de pétrole qui exportent vers Israël car certains pays du Golfe le font clandestinement ce ne sont pas eux qui approvisionnent majoritairement le régime sioniste en Brut.

90% des importations pétrolières d’Israël viennent de la Mer Caspienne. Deux importants pipelines sont impliqués dans cet approvisionnement Le Caspian Consortium Pipeline qui transporte du pétrole provenant du Khazakstan et de Russie à Novorossiysk un port russe sur la mer Noire qui est ensuite transporté par tankers jusqu’au port de Haïfa qui avec le port d’Askelon plus au Sud sont les deux terminaux pétroliers gérés respectivement par Oil Refineries Ltd à Haïfa et Paz Oil Company Ltd à Ashdod à côté d’Ashkelon.

Un nouveau pipeline a été mis en service le BTC pipeline -Baku-Tbilisi-Ceyhan- qui transporte du pétrole de l’Azerbaïdjan via la Georgie et la Turquie jusqu’au port méditerranéen turc de Ceyhan puis par voie maritime jusqu’à Ashkelon mais Israël la Turquie et les compagnies pétrolières à qui appartiennent le BTC dont BP ont des projets de construction de pipelines – 400Km- sous la mer le long de la côte Est de la Méditerranée pour le transport non seulement de pétrole mais aussi de gaz naturel d’électricité et d’eau qui d’Ashkelon seraient ensuite acheminés par pipelines à Eilat sur la Mer Rouge et de là vers l’Asie.

La Russie qui exporte du pétrole en Israël utilise déjà discrètement ces voies d’acheminement pour envoyer son pétrole en Asie notamment en Inde et en Chine.

L’Azerbaïdjan – pays à majorité musulmane – est donc le plus important fournisseur de pétrole d’Israël et ce n’est pas sans raison que des sites d’institutions étatiques de ce pays viennent de subir des attaques internet par des hackers qui dénoncent cette collaboration avec le régime colonial sioniste.

Israël bénéficie également d’un accord avec l’Egypte concernant sa production de pétrole et de gaz dans le Sinaï restitué lors de la signature du Traité de paix de Camp David en 1979 afin de bénéficier d’un approvisionnement prioritaire en pétrole en cas de pénurie mais compte tenue des besoins grandissant de l’Egypte et des changements politiques survenus ces derniers mois il est peu probable que cet accord soit respecté si la situation se détériorait en matière d’approvisionnement pétrolier pour Israël.

Bien que les relations entre la Turquie et Israël semblent – nul ne sait ce qui se passe en coulisses le gouvernement turc d’Erdogan joue l’anti sioniste surtout pour son opinion publique turque – s’être détériorées ces derniers mois pas question qu’Ankara coupe le robinet d’approvisionnement en pétrole d’Israël tout simplement parce que le BTC appartient à des multinationales et que la Turquie est liée par des engagements vis-à-vis de la libre circulation du pétrole provenant de la Caspienne sur son territoire et à travers le Bosphore qu’elle contrôle et par où transitent des tankers provenant de la Mer noire transportant du pétrole à destination d’Israël.

Concernant le Bosphore, le Traité de Montreaux de 1936 garantit la libre circulation en temps de paix des navires à travers le Détroit du Bosphore et des Dardanelles en contre partie de quoi la Turquie en a le contrôle. O0bligée de respecter ce traité la Turquie ne peut donc pas empêcher des tankers de circuler à travers le Bosphore notamment pour approvisionner Israël.

D’autre part suite aux conclusions de la Commission israélienne Agranat chargée d’enquêter sur les erreurs commises lors de la Guerre de Kippour en 1973 – Israël avait alors du faire appel d’urgence aux Américains pour lui livrer du pétrole surtout du kérosène pour ses avions de combat- l’amiral Moshe Shahal à l’époque ministre de l’énergie dans les années 90 a fait construire des réservoirs de pétrole souterrains dans le Sud soit disant protégés d’attaques conventionnelles et nucléaires.

Ces réservoirs contiennent une réserve stratégique de pétrole en cas de pénurie d’approvisionnement sur le marché mondial à cause d’une guerre ou d’un embargo par exemple. Cette réserve de pétrole a été utilisée pour la dernière fois lors de la guerre de l’été 2006 au cours de laquelle le Hezbollah a pilonné de ses roquettes artisanales le port de Haïfa et ses alentours empêchant les tankers pétroliers étrangers de s’approcher des côtes israéliennes et donc de décharger leur précieuse cargaison d’or noir.

En clair les deux pays les US et Israël – mais surtout Israël via son réseau d’influence de Juifs sionistes infiltrés au plus au niveau de l’administration américaine et leurs soutiens indéfectibles chez les néo cons US – qui poussent agressivement les états membres de l’Union Européenne à imposer un embargo sur l’importation de pétrole iranien sont à l’abri des conséquences incontrôlables notamment les effets dévastateurs sur les économies des pays de la zone euro d’un tel embargo.

Les sanctions unilatérales prises contre l’Iran par les US et l’UE – auxquelles s’opposent d’ailleurs la Russie et la Chine – notamment cet embargo contre l’importation de pétrole iranien et toute opération financière avec la Banque Centrale d’Iran sont non seulement illégales un casus belli en droit international régissant les lois de la guerre – un tel embargo ne peut être décidé que par le CSONU comme cela a été le cas de l’Irak de Saddam Hussein avec les conséquences désastreuses sur la population civile irakienne dont la morts de nombreux enfants – mais elles sont de plus basées sur le dernier rapport mensonger de l’AIEA de Yukiya Amano (au service des US comme lui-même l’a affirmé selon un câble révélé par Wikileaks) accusant sournoisement l’Iran d’avoir un programme nucléaire militaire.

Ces accusations ont été portées depuis plusieurs années donc rien de nouveau sur la base de documents – les fameux documents du pc portable – que l’ancien secrétaire général de l’AIEA Mohamed El Baradei avait rejetés parce qu’ils les considéraient comme non fiables autrement dit des faux.

Depuis plusieurs experts en nucléaire militaire de même que d’anciens inspecteurs de l’AIEA ont confirmé ces affirmations et allant plus loin même ont déclaré pour certains d’entre eux après enquête et examen minutieux qu’ils avaient été fabriqués par le Mossad et transmis à l’AIEA via le MEK le groupe terroriste de la secte MEK (MKO et ses Gourous Maryam et Massoud Rajavi ) protégée par la France de Sarkozy et consorts et utilisée pour fournir des supplétifs en Iran aux services d’espionnage israéliens et commettre des attentats et assassinats contre des scientifiques iraniens.

Quant à ceux qui comme le ministre des affaires étrangères français Alain Juppé – roue de secours de l’UMP pour la présidentielle 2012 et candidat chouchou des Américano Sionistes au cas ou Sarkozy rattrapé par ses affaires de malversations Karachi, Bettencourt etc… ne pourrait pas se présenter – affirment que les Pays du Golfe pourront palier à la réduction de production de pétrole iranien, ils mentent.

En effet l’ex président de l’OPEP, Chakib Khalil, a mis en garde les pays européens concernant l’incapacité pour l’Arabie saoudite et les autres pays arabes producteurs de pétrole dans le Golfe Persique d’assurer leurs besoins en pétrole.

M.Khalil a fait remarquer que les plus gros importateurs du pétrole iranien, comme le Japon – qui s’est montré réservé quant à l’application de l’embargo sur le pétrole iranien et trouvera certainement un moyen de le contourner – et surtout l’Union européenne devront assurer leur besoin en pétrole auprès de l’Arabie Saoudite, du Qatar et des Émirats Arabes Unis.

Il a ajouté que ces pays ne pourraient combler les besoins des pays membres de l’UE que pendant une très courte période en gros 1 mois seulement. Ensuite ils (dont la France) seront obligés de taper dans leurs réserves de pétrole.

Cela provoquera une nouvelle envolée du prix du pétrole par ricochet en France – et ailleurs aussi – celle du prix de l’essence à la pompe et par ricochet encore un plus grand déséquilibre de la balance commerciale française donc un endettement encore plus grand.

Une Méga Récession pour l’ensemble de l’UE.

De là à penser que les Américano Sionistes ont concocté un plan de guerre économique – avec le concours de l’Allemagne et de certains dirigeants dont Sarkozy qui font passer les intérêts des US Israël avant ceux de la France et des Français – pour affaiblir durablement l’Europe afin de l’asservir à son dictat notamment en matière de politique étrangère surtout en ce qui concerne le Grand Moyen Orient il n’y a qu’un pas facile à franchir les faits ci-dessus parlant d’eux-mêmes réfutant d’avance toute accusation fascisante de «théorie du complot» pour quiconque dénonce Israël et son parrain les US de vouloir à terme provoquer une IIIème Guerre Mondiale.

Mercredi 18 Janvier 2012

EuroBRICS. Un basculement dans l'équilibre du monde

EuroBRICS. Un basculement dans l'équilibre du monde

Ex: http://www.europesolidaire.eu/

Un certain nombre d'experts, dont le politologue franco-européen Franck Biancheri 1), prévoient pour les prochaines décennies d'importants changements dans l'ordre du monde. Il ne s'agit pas d'annoncer des évènements encore inattendus, mais de mettre en perspective un certain nombre de changements en profondeurs (dits aussi systémiques) que la plupart des observateurs constatent mais dont ils ne tirent pas encore de conclusions significatives.

Ces changements vont du plus attendu au plus inattendu. Parmi les premiers se situe la montée en puissance d'un bloc asiatique comprenant évidemment la Chine mais aussi les autres puissances  régionales, Corée du Sud et Japon en premier lieu. Même si un accord politique parfait ne règne pas encore entre elles, inévitablement, leurs compétitions et échanges croisées feront de l'Asie un des principal pôle de restructuration du monde de demain. Il y a tout lieu de penser que l'Inde en fera partie. Le phénomène ne surprendra personne, puisque désormais le concept de BRICS pour désigner ces pays fraichement émergés ou réémergés mais en pleine croissance s'est imposé dans le langage diplomatique. Le Brésil et la Russie en constituent des cas particuliers sur lesquels nous reviendrons. Mais leur spécificité ne justifie pas de leur attribuer un rôle à part. L'avenir n'est pas uniformément rose pour les Etats constituants le BRICS. Ils sont directement confrontés à une détérioration rapide de leur environnement, comme à une croissance encore excessive de leur population. Ceci limitera nécessairement leurs ambitions géopolitiques

Un changement peu attendu encore par les observateurs, malgré des signaux concordants, sera le déclin sinon l'effondrement de la puissance américaine. Il vaudrait mieux parler de la puissance atlantique pour y inclure la Grande Bretagne. Celle-ci ne semble pas en voie de se désolidariser de la puissance américaine et risquera donc de la suivre dans sa chute.  Cet effondrement sera militaire, politique (avec sans doute l'éclatement de l'Union sous la pression des Etats fédérés), culturel (avec un retour en force des intégrismes religieux évangéliques, et la fin corrélative du « rêve américain » proposé au reste du monde). Les Etats Unis conserveront longtemps une avance scientifique, technologique et industrielle considérable, mais celle-ci se fragilisera de l'intérieur par son incapacité à maitriser un développement anthropotechnique suicidaire 2) et le fait, contradictoire et rarement évoqué, que cette avance repose en partie sur des chercheurs d'origine asiatique qui pourront changer de camp d'une année à l'autre si l'opportunité leur en était offerte.

Mais selon les experts cités en introduction, le changement le plus inattendu  et qui de ce fait sera le plus significatif sera l'apparition d'un véritable puissance européenne. Sous la pression de la crise et des contraintes globales, les Européens abandonneront leurs conflits internes, dépasseront leurs rivalités et s'uniront pour valoriser des atouts humains, géopolitiques et de connaissances dont ils sont les seuls à disposer. Le probable rassemblement dans les prochaines années autour d'un pôle franco-allemand social démocrate de toutes les forces de progrès européennes jouera un rôle essentiel dans l'émergence d'une véritable puissance géopolitique et civilisationnelle européenne.

Cette puissance sera attractive, reprenant à cet égard le rôle de la puissance américaine déchue. Elle sera dans un premier temps attractive pour la Russie et le Brésil, membres du BRICS auxquels nous venons de faire allusion. De par leurs liens divers avec l'Europe, ces pays se tourneront tout naturellement vers l'Europe rénovée tout autant que vers les pays asiatiques, afin de conclure des alliances stratégiques conjuguant leurs atouts divers.

Par ailleurs, du fait de leurs accointances avec les puissances asiatiques du BRICS, la Russie et le Brésil pourront avantageusement favoriser les rapprochements des stratégies asiatiques et européennes. Certes, les Européens ne pourront pas se permettre d'être naïfs, notamment à l'égard de la Chine. Mais ils ne devront pas faire de celle-ci comme tend à le faire l' Amérique un substitut de l'URSS dans une relance de la guerre froide qui serait bien utile à Washington mais désastreuse pour l'Europe.

Que conclure de cette présentation rapide? Si les changement évoqués ici se concrétisent, on verrait effectivement se préciser un nouvel ordre du monde autour d'un axe euroasiatique (euroBRICS) qui se substituerait à l'axe euroatlantique actuel. Il pourrait bénéficier des atouts respectifs et possiblement convergents dont disposent les vieilles civilisations de l'euroBRICS, notamment pour mieux contrôler qu'actuellement les différentes menaces économiques et environnementales qui mettent en danger la planète toute entière.


1)Voir notamment son ouvrage "Crise mondiale: En route vers le Monde d'après", Franck Biancheri, Editions Anticipolis . Nous présenterons prochainement ce livre.
* http://fr.wikipedia.org/wiki/Franck_Biancheri
* http://www.franck-biancheri.info/fr/accueil.htm
* Franck Biancheri anime le think-tank LEAB E2020 qui publie régulièrement la  lettre d'information confidentielle (sur souscription GEAB Global European Anticipation  Bulletin  http://www.leap2020.eu/GEAB-N-61-is-available-Global-Systemic-Crisis-2012-The-year-of-the-world-s-great-geopolitical-swing_a8770.html
2)Nous faisons par exemple allusion à la prolifération de l'usage des drones aux mains de mercenaires privés qui prive dorénavant l'US Air Force et le Département d'Etat de leurs capacités décisionnelles.

19/01/2012

dimanche, 15 janvier 2012

Ciel, mon triple AAA ou "L Frnce perdu son Triple ".

Ciel, mon triple AAA ou "L Frnce perdu son Triple ".

Les 4 conséquences majeures de cette perte

http://mediabenews.wordpress.com/

Ça y est, c’est fait : Standard & Poor’s vient donc de dégrader la note souveraine de la France d’un cran : de AAA à AA+. On ne peut pas vraiment dire que ce soit une surprise : depuis 1975 et le plan de relance budgétaire infructueux de Jacques Chirac, aucun des gouvernements qui ont présidé aux destinées de notre pays n’a voté un budget à l’équilibre. Les dettes, logiquement, se sont donc accumulées de telle sorte qu’à la fin du troisième trimestre 2011, la dette publique française1 atteignait 1,7 trillions2 d’euros – soit 85,3 % du PIB.

Si la perte de ce fameux triple A peut avoir une vertu, c’est bien de nous rappeler quelques réalités. Le fait est que nous nous sommes considérablement endettés en demandant à nos gouvernements de dépenser plus qu’ils ne prélevaient d’impôts. Nous avons fait preuve, pendant 37 années consécutives, d’une irresponsabilité digne d’enfants de six ans ; aussi, les discours qui cherchent à faire porter le chapeau à la mondialisation, aux banquiers, à Georges Pompidou ou aux paradis fiscaux relèvent au mieux de la démagogie et au pire de la mauvaise farce.

Pour en arriver à ce point, l’État français est allé chercher des créanciers sur les marchés financiers en émettant des obligations. Ces dernières représentaient, toujours à la fin du troisième trimestre 2011, la bagatelle de 1,3 trillions d’euros3 – soit la quasi-totalité (98 %) de la dette de l’État et 77,4 % de la dette publique totale. Nos créanciers sont, pour une bonne moitié d’entre eux, des résidents français parmi lesquels on compte principalement des compagnies d’assurance, des fonds d’investissement ou des caisses de retraite ; c’est-à-dire, indirectement, vous et moi. Si vous pensiez qu’il suffisait d’envoyer paître les marchés financiers, repensez-y à deux fois.

Voilà pour l’état des lieux.

Standard & Poor’s considère donc désormais que l’État français ne présente plus de garanties suffisantes pour mériter la meilleures des notes possibles : le fameux AAA. Sincèrement, au regard de l’état des lieux évoqué ci-dessus et du discours des candidats aux présidentielles, on peut difficilement leur donner tort. Entre les irresponsables de l’UMPS et les fous-furieux des deux fronts, on imagine sans peine que la capacité de l’État français à honorer ses engagements soit pour le moins sujette à caution.

Il y a cependant une bonne nouvelle dans cet océan de noirceurs : la dégradation de notre note souveraine est un non-événement absolu. Contrairement à ce qu’affirmaient, il y a encore quelques mois, les dépensiers compulsifs qui nous gouvernent, la perte du AAA4 n’aura vraisemblablement aucune conséquence, ou presque. Il suffit, pour s’en convaincre, d’observer la réaction des marchés alors que la rumeur se propageait : le moins que l’on puisse dire c’est que pour une apocalypse nucléaire, ce fut finalement assez calme. Il y a deux raisons à cela.

La première, c’est que, depuis au moins trois décennies, plus personne ne fait confiance aux agences de notation. De fait, cela fait au bas mot six mois que les marchés avaient déjà pleinement intégré que la France n’était plus AAA que dans les rêves de François Baroin, comme en témoigne l’évolution de l’écart de taux entre les obligations souveraines françaises et allemandes. Et si plus personne ne fait confiance aux agences, ce n’est pas dû à un doute quant à leurs capacités d’analyse mais plutôt au fait que tout le monde sait, depuis ces trois mêmes décennies, que les agences ne travaillent plus pour les investisseurs mais pour les pouvoirs publics.

Cette sinistre affaire commence au cours des années 1970, lorsque le gouvernement des États-Unis cherche à durcir la réglementation bancaires pour mieux contrôler les risques que prennent les banques. L’idée du législateur consistait alors à imposer aux banques de constituer des réserves de sécurité en fonction du risque qu’elles portaient dans leurs portefeuilles de crédit. Pour ce faire, encore fallait-il disposer d’une mesure desdits risques. C’est là que les agences sont entrées en jeu : le gouvernement des États-Unis, puis la plupart des pays occidentaux ont alors donné un caractère légal à leurs notes.

Ce type de réglementation s’insinuant peu à peu dans les rouages de nos économies5, il devint rapidement quasi impossible d’obtenir le moindre crédit ou de vendre la moindre obligation sans être noté par l’une des agences officielles. C’est d’ailleurs ce qui a permis aux agences de faire payer leurs honoraires non plus aux seuls utilisateurs – les investisseurs – mais aux emprunteurs. Désormais incontournables, elles ont gagné énormément d’argent, mais leurs notes ayant le pouvoir de priver n’importe quel emprunteur de ses sources de financement, elles ont dû se montrer d’une extrême prudence. Comme la cavalerie, les agences de notation n’arrivent qu’après la bataille.

Or, la plupart des réglementations n’imposent pas aux investisseurs de vendre leurs obligations lorsqu’elles ne sont dégradées que de AAA à AA+. Là où de nombreux investisseurs ont été règlementairement forcés de se débarrasser de leurs obligations grecques à tout prix – provoquant ainsi l’effondrement des cours et donc la hausse des taux – la décision de Standard & Poor’s ne devrait pas avoir plus d’impact que la dégradation des États-Unis l’année dernière.

La perte de notre AAA n’est pas une catastrophe : c’est un symbole. Un symbole triste. Le symbole d’un pays à la dérive.

  1. Source : Insee. Par “dette publique”, on entend la dette consolidée des administrations publiques (administration publique centrale, administrations publiques locales et administrations de sécurité sociale) au sens de Maastricht.
  2. Il va falloir rajouter ce mot à notre vocabulaire : un trillion d’euros est égal à 10^12 euros ou, si vous préférez, mille milliards d’euros.
  3. Source : Agence France Trésor à la fin septembre 2001. Exactement 1.307.504.808.589 euros avec une durée de vie moyenne de 7 ans et 64 jours.
  4. Ou plutôt “d’un de nos AAA” puisque Moody’s et Fitch n’ont pas (encore) dégradé l’État français.
  5. Par exemple, le règlement financier Agirc / Arrco (article 16) stipule que les caisses de retraites complémentaires françaises ne sont autorisées à détenir directement que des titres notées A- au minimum.

Les quatre conséquences de la perte du AAA français

• Le Fonds d’aide européen (FESF) menacé

C’est sans doute la conséquence la plus grave déclenchée par la perte du AAA: le Fonds européen de stabilité financière, dont la note AAA dépend de celle des pays qui le soutiennent, devrait également être revue à la baisse. Conséquence, le taux d’intérêt alors exigé par les investisseurs grimperait. Cela renchérirait le coût des plans d’aide à la Grèce, au Portugal et à l’Irlande sous la perfusion du mécanisme européen. Et mettrait en péril le fragile mur anti-crise de la zone euro.

Effet domino sur les collectivités locales

La sanction de Standard & Poor’s provoquerait un effet domino, explique Norbert Gaillard, spécialiste des agences de notation: «La note du pays sert de référence nationale. Si elle est abaissée, toutes celles des entreprises, des banques et surtout des collectivités locales seront remises en cause. Parmi ces dernières, celles dotées d’un AAA, comme la ville de Paris ou la région Ile-de-France, seront automatiquement dégradées.»

Les collectivités dépendant en grande partie des transferts financiers de l’État (via l’allocation globale de fonctionnement), elles ne peuvent pas bénéficier d’une meilleure note que lui. Or, une fois leur note dégradée, elles devraient faire face à des créanciers plus méfiants, qui leur réclameraient des taux d’intérêt plus élevés. Cela alourdirait le coût de leur dette et, en bout de chaîne, «pourrait provoquer une hausse de la fiscalité locale», en déduit Norbert Gaillard.

Une hausse possible du coût du crédit

La perte du AAA pourrait également dégrader les relations entre les ménages et leurs banques. Les établissements pourraient en effet durcir l’accès au crédit et augmenter les taux d’intérêt. «La banque empruntant plus cher sur les marchés, on peut supposer qu’elle répercute cette hausse sur ses clients», reconnaît l’économiste d’une grande banque française. «Toutefois, au vu de la concurrence actuelle, elles pourraient choisir de réduire plutôt leur marge pour conserver leurs parts de marché.» D’autre part, «dans le contexte actuel de resserrement du crédit par les banques, l’impact supplémentaire d’une baisse de la note pourrait passer presque inaperçue», relativise l’économiste Alexandre Delaigue.

Le coût de la dette de l’État

Les conséquences d’une perte du AAA de la France dépendent aussi et surtout de la réaction des marchés. S’ils continuent à imposer à la France des taux d’intérêt toujours plus élevés, alors des répercussions en chaîne sont à redouter, des finances de l’État jusqu’au porte-monnaie du consommateur. Mais si, comme beaucoup le suggèrent, les taux pratiqués actuellement sous-entendent déjà une France dotée de la note inférieure, alors il faut s’attendre à peu de changement. La Nouvelle-Zélande, par exemple, a perdu son AAA le 30 septembre. En réaction, le coût du crédit a flambé. Avant de retomber à des niveaux plus bas qu’avant la sanction des agences de notation.

Sources : Causeur, Le Figaro

vendredi, 13 janvier 2012

La Nouvelle Usine Renault au Maroc, symbole de notre suicide économique !

 

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La Nouvelle Usine Renault au Maroc, symbole de notre suicide économique !

Par Marc Rousset

 

Chômage des travailleurs européens ou profits des multinationales dans les pays émergents fournissant des produits manufacturés à l’Europe : il va falloir choisir ! Sinon la révolte éclatera d’une façon inéluctable  lorsque le taux de chômage sera tellement insupportable que la folie libre échangiste mondialiste  apparaitra comme un nez au milieu de la figure ! Pour l’instant nous sommes seulement  à mi-chemin de la gigantesque entreprise de désindustrialisation initiée dans les années 1950 aux Etats-Unis pour favoriser les grandes entreprises américaines, et dont le flambeau a été  depuis repris par toutes les sociétés multinationales de la planète ! Pendant ces 30 dernières années, la France a perdu 3 millions d’emplois industriels, l’une des principales raisons de la crise de notre dette souveraine ! Si un protectionnisme douanier ne se met pas en place d’une façon urgente, les choses vont encore aller en s’accélérant ! L’oligarchie mondiale managériale, actionnariale et financière a des intérêts en  totale contradiction et en opposition frontale avec le désir des peuples européens de garder leur « savoir faire » et leur emploi !

 

L’usine géante  Renault de Melloussa au Maroc

 

Alors que la production automobile de Renault recule dans l’hexagone, l’usine géante de Melloussa au Maroc dans la zone franche du port de Tanger, avec une capacité de 340 000 véhicules par an, commence à produire des voitures « low-cost » sous la marque Dacia. Le site a pour vocation d’exporter à 85% vers le Vieux Continent. Cette usine marocaine vient s’ajouter au site roumain de Pitesti qui produit  813 000 voitures par an. Renault et les équipementiers de la région de Tanger pourraient créer 40 000 emplois ! Le salaire net mensuel d’un ouvrier marocain est de 250 euros par mois, contre 446 euros par mois en Roumanie. Le coût salarial horaire d’un ouvrier dans les usines Renault est de  30 euros /heure en France, 8 euros par heure en Turquie, 6 euros par heure en Roumanie et ô surprise 4,5 euros par heure au Maroc, à deux jours de bateau des côtes françaises, Algésiras en Espagne étant seulement à 14km ! C’est la raison pour laquelle le monospace « Lodgy 5 ou 7 places » (10 000 euros) fabriqué à Melloussa sera deux fois moins cher que le Renault Grand Scenic (24 300 euros) assemblé à Douai. Il ne fait donc aucun doute qu’à terme, suite au rapport qualité/ prix et en faisant abstraction de quelques gadgets Marketing et des dénégations du Groupe Renault, les consommateurs  français, s’ils ne sont pas trop bêtes, achèteront des Lodgy fabriquées au Maroc en lieu et place des Grand Scenic fabriquées à Douai ! Bref, une délocalisation élégante supplémentaire avec  les miracles et les mensonges de la Pub et du  Marketing comme paravent !

 

Alors que faire ? Qui incriminer ? Certainement pas Carlos Ghosn et les dirigeants de Renault qui font parfaitement leur travail  avec les règles du jeu actuel, car ils  rendent compte à leurs actionnaires et  doivent affronter une concurrence terrible, la survie du Groupe Renault  étant même en jeu s’ils ne délocalisent pas ! Non, les responsables, ce sont nous les citoyens, nous  les électeurs, qui acceptons cette règle économique du jeu ;les  principaux coupables, ce sont nos hommes politiques incapables, gestionnaires à la petite semaine avec un mandat de 5 ans, subissant les pressions du MEDEF et des médias à la solde des entreprises multinationales. Les dirigeants d’entreprise et les clubs de réflexion qui mentent comme ils respirent, le MEDEF, tout comme le lobby des affaires à Washington et à Bruxelles, voilà ceux qui sont à l’origine du mal et nous injectent délibérément car conforme à leurs intérêts financiers, le virus, le venin destructeur malfaisant du libre échangisme mondialiste dans nos veines ! Le mondialisme  doit laisser sa place d’une façon urgente à un libre échangisme strictement européen ! Les hommes politiques des démocraties occidentales ne sont pas des hommes d’Etat, mais des gagneurs d’élection et ne voient pas plus loin que le bout de leur nez ; ils ne s’intéressent en aucune façon aux intérêts économiques à long terme de la France et de l’Europe ! Ils attendent tout simplement la catastrophe du chômage structurel inacceptable et la révolte des citoyens pour réagir, comme cela a été le cas en Argentine et comme c’est le cas actuellement avec la crise des dettes souveraines.

 

Les idées de la préférence communautaire et du Prix Nobel Maurice Allais triompheront

 

Les  idées  de Maurice Allais triompheront car elles sont justes et correspondent aux tristes réalités que nous vivons ! On ne peut pas arrêter une idée lorsqu’elle est juste ! L’idéologie économique libre échangiste mondialiste s’écroulera totalement devant les réalités du chômage, comme le Mur de Berlin en raison de l’inefficacité du système soviétique, comme l’idéologie droit de l’hommiste devant les réalités néfastes de l’immigration extra-européenne avec à terme les perspectives d’une guerre civile ! Il est clair qu’il faut changer le Système, non pas en attendant la disparition totale de notre industrie, mais dès maintenant en mettant en place tout simplement des droits de douane au niveau européen! Même l’Allemagne ne réussira pas à terme à s’en sortir avec le libre échange mondialiste. Elle résiste encore aujourd’hui car elle n’a pas fait les mêmes bêtises que les autres pays européens, mais à terme elle sera également  laminée par la montée en puissance de l’éducation  et le trop  bas coût de la main d’œuvre dans les pays émergents. Aux Européens de savoir préserver les débouchés de leur marché  domestique suffisamment grand pour assurer un minimum d’économies d’échelle! La « théorie des débouchés » va très vite revenir à l’ordre du jour !

 

La vieille théorie des « avantages comparatifs »de Ricardo n’a plus grand-chose à voir avec la réalité. Pour la première fois dans l’histoire du monde, des Etats (la Chine, l’Inde et le Brésil) vont en effet posséder une population immense ainsi qu’une recherche et une technologie excellentes. L’égalisation par le haut des salaires, selon la théorie  de Ricardo, n’ira nullement de soi du fait de « l’armée de réserve » rien qu’en Chine  de 750  millions de ruraux, soit 58% de l’ensemble de la population, capables de mettre toute l’Europe et les Etats-Unis au chômage.  300 millions d’exclus vivent, selon la Banque asiatique du développement, dans l’Empire du milieu, avec moins d’un euro par jour. La Chine ne se classe qu’au 110e rang mondial du PIB par habitant. Ce ne  sont pas quelques succès épars européens  mis en avant par les médias, suite à des effets de mode ou de luxe, qui doivent nous faire oublier le tsunami du déclin des industries traditionnelles en Europe (quasi disparition des groupes Boussac, DMC et de l’industrie textile dans le Nord de la France, de l’industrie de la chaussure à Romans, de l’industrie navale, des espadrilles basques...). Les pays émergents  produiront inéluctablement de plus en plus, à bas coût,  des biens et des services aussi performants qu’en Europe ou aux Etats-Unis. Les délocalisations deviennent  donc  structurelles et non plus  marginales !

 

L’épouvantail contre le protectionnisme mis en avant par les lobbys du MEDEF et des multinationales comme quoi  25% des Français  travaillent pour l’exportation est un mensonge d’Etat parfaitement mis en avant par Gilles Ardinat d’une façon indiscutable dans le dernier Monde Diplomatique. Les multinationales,  le MEDEF confondent délibérément valeur ajoutée et chiffre d’affaires des produits exportés, ce qu’il fait qu’ils arrivent  au ratio fallacieux de 25%. La Vérité est qu’un salarié français sur 14 seulement vit pour l’exportation en France ! (1)

 

Dans un système de préférence communautaire, l’Europe produirait davantage  de biens industriels et ce que perdraient les consommateurs européens dans un premier temps en achetant plus cher les produits  anciennement « made in China », serait plus que compensé par les valeurs ajoutées industrielles supplémentaires créées en Europe . Ces dernières  augmenteraient le PIB et  le pouvoir d’achat, tout en créant des emplois stables et moins précaires, système que la CEE a  connu et qui fonctionnait très bien.  Alors, au lieu de s’en tenir au diktat idéologique de Bruxelles et au terrorisme intellectuel anglo-saxon du libre échange, remettons en place le système de la préférence communautaire !

 

Les investissements occidentaux  et les délocalisations

 

Il importe  de faire la distinction entre marché domestique européen  intérieur et marché d’exportation. Ce qu’il faut, c’est, grâce à une politique douanière de préférence communautaire fermer l’accès aux pays émergents qui détruisent les emplois européens  pour des produits consommés sur le marché intérieur européen.

 

 Il n’est pas réaliste d’accepter le dogme stupide que délocaliser la production physique d’un bien ne représente qu’une infime partie de sa valeur, même s’il est inéluctable que le poids relatif de l’Occident continue à décliner au profit de l’Asie. Intégristes du tout marché et théoriciens d’un libéralisme de laboratoire se délectent du déclin de la France et des Etats-Nations ; complices ou naïfs, ces inconscients nous emmènent à la guerre économique comme les officiers tsaristes poussaient à la bataille de Tannenberg des moujiks armés de bâtons. Les Européens ne peuvent se contenter d’une économie composée essentiellement de services. La seule façon de s’en sortir  pour tous les pays européens, et plus particulièrement la France, est de réduire d’une façon drastique le nombre des fonctionnaires et les dépenses publiques, diminuer la pression fiscale sur les entreprises et les particuliers, mettre en place une politique industrielle inexistante à l’échelle de l’Europe, développer la recherche et l’innovation, encourager le développement des jeunes pousses, favoriser le développement des entreprises moyennes, et enfin  restaurer la préférence communautaire avec des droits de douane plus élevés ou des quotas afin de compenser les bas salaires des pays émergents !

 

Le problème de fond du déficit commercial de la France n’est pas lié au taux de change de l’euro, mais au coût du travail. Le coût horaire moyen de la main d’œuvre dans l’industrie manufacturière est de l’ordre de vingt dollars en Occident contre 1 dollar en Chine ! Un ouvrier en Chine travaille quatorze heures par jour, sept jours sur sept. 800 millions de paysans chinois dont deux cents millions de ruraux errants forment une réserve de main d’œuvre inépuisable capable de mettre les Etats-Unis et toute l’Europe au chômage, nonobstant la main d’œuvre tout aussi nombreuse d’autres pays émergents !

 

Attirés par les bas salaires, les investissements étrangers en Chine s’élèvent à plus de 100 milliards de dollars par an, soit davantage qu’aux Etats-Unis. Le fait que les exportations chinoises soient réalisées à 65% par des entreprises détenues totalement ou partiellement par des Occidentaux n’est qu’un argument de plus pour nous endormir et une étape intermédiaire dans le déclin programmé du continent paneuropéen et de l’Occident. Les seuls investissements justifiés géopolitiquement  sont les implantations  pour s’intéresser au marché domestique chinois, des autres pays d’Asie et de tous les  pays émergents. Ce qu’il faut bien évidemment combattre, ce sont avant tout les investissements européens en Chine ou ailleurs pour alimenter le marché européen qui sont suicidaires mais justifiés pour les chefs d’entreprise,  tant que les Européens et la Commission de Bruxelles  n’auront pas rétabli la préférence communautaire et des droits de douane afin de compenser les bas coûts de main d’œuvre chinois, source première  du chômage et de la précarité en Europe. 

 

Conclusion

 

Il ne faut pas acheter français, ce qui ne veut plus rien dire, mais acheter « fabriqué en France »  en se méfiant des noms francisés et des   petits malins avec des usines tournevis  ou d’assemblage dont toute la valeur ajoutée industrielle viendrait en fait des pays émergents ! Seule une politique de droits de douane défendra l’emploi du travailleur européen et combattra efficacement d’une façon implacable le recours démesuré aux sous-traitants  étrangers ! Tout cela est si simple, si clair, si évident qu’il nous manque qu’une  seule chose, comme d’habitude, dans notre société décadente : le courage ! Le courage de changer le Système, le courage de combattre les lobbys des entreprises multinationales avec les clubs de réflexion à leur botte, le courage de mettre en place une protection tarifaire, mais sans tomber pour autant dans le Sylla du refus de l’effort, de l’innovation, du dépassement de soi, du refus de s’ouvrir au monde et de tenter d’exporter autant que possible, le Sylla de l’inefficacité et des rêveries socialistes utopistes qui refusent la concurrence et l’efficacité intra-communautaire. L’introduction de la TVA sociale est une excellente décision, mais elle est totalement incapable de compenser les bas salaires de l’usine marocaine Renault  de Mélissa et ne vaut que pour améliorer la compétitivité de la Maison France par rapport aux autres pays européens !

 

Note

 

(1)   Gilles Ardinat, Chiffres tronqués pour idée interdite, p12, Le Monde Diplomatique, Janvier 2012.

vendredi, 06 janvier 2012

Le jeu de l’hyperclasse pour 2012

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Le jeu de l’hyperclasse pour 2012

par Georges FELTIN-TRACOL

Il ne fait guère de doute que 2012 sera une année décisive. Non pas parce qu’elle marquerait la « fin du monde » selon une prédiction du calendrier maya, mais plus sûrement parce que cette année connaîtra des élections présidentielles en Chine, aux États-Unis, en Russie, au Venezuela, au Mexique et en France. Du fait de ces échéances cruciales et des effets durables d’une crise économique féroce, l’hyperclasse se montre attentive à l’évolution politique de ces pays, Hexagone compris…


L’« hyperclasse » : un ensemble composite

 

Désignée d’abord par Christopher Lasch en tant que « Nouvelle Classe » (1), puis définie comme une « Oligarchie » transnationale, l’hyperclasse est un ensemble mondialiste fortuné, richissime même, qui veut imposer sa domination sur les États au moyen des médias, des marchés et de la dette souveraine (bel oxymore !). Rapportant les conclusions d’une étude de trois chercheurs suisses mise en ligne sur Plos One, Emmanuel Ratier évoque dans son excellente lettre confidentielle « une “ super-entité économique dans le réseau global des grandes sociétés ” […]. Sur ces 147 firmes, les trois quarts appartiennent au secteur financier. Il existe donc un véritable “ syndicat caché ”, un “ État profond ” de la finance apatride et cosmopolite, qui contrôle l’essentiel de l’économie […]. Les liens entre ces dirigeants, ces “ traders ” vedettes et les gouvernements font qu’il s’agit d’un petit milieu très étroit, où les modes, les erreurs, les alliances font qu’une seule décision (en particulier une mésestimation ou une erreur) peut avoir des conséquences colossales sur l’ensemble du système (2) ». Dans L’oligarchie au pouvoir, Yvan Blot examine son pendant hexagonal qui « comporte les dirigeants des intérêts économiques les plus divers, grand patronat, grands syndicats, associations diverses souvent prétendument à but non lucratif mais à activités souvent affairistes, lobbies ethniques poussant leurs avantages, etc. Ce socle est très important car il sert souvent de base financière aux autres parties de l’oligarchie (3) ». Il y intègre aussi sous ce terme générique la « caste » médiatique, les « autorités morales », les politiciens et les appareils bureaucratiques.

 

Unie par des valeurs communes, les mêmes codes culturels et des endroits identiques (Davos), l’hyperclasse n’en demeure pas moins un groupe hétérogène parcouru par des antagonismes parfois vifs en raison des sensibilités nationales, des contentieux économiques, des inimités personnelles. Nul n’ignore que deux des plus grandes fortunes françaises, François Pinault et Bernard Arnault, ne s’apprécient guère… « On croit que le libre-échange globalisé a engendré une oligarchie transnationale, prévient Emmanuel Todd. Parce qu’on fait abstraction des facteurs culturels, on ne voit pas qu’il existe plusieurs oligarchies dont les relations sont structurées par d’implacables rapports de forces. La spécificité de l’oligarchie française, c’est sa proximité avec la haute administration. Les membres ont souvent étudiés dans de grandes écoles – sans forcément être des héritiers -, parlent en général très mal l’anglais, sont incroyablement français dans leurs mœurs et n’en finissent pas de se faire rouler par les vrais patrons, l’oligarchie américaine. La soumission à Standard & Poor’s et Moody’s est une soumission à l’oligarchie américaine. Quant à l’oligarchie allemande, nouvelle venue dans le système de domination, elle s’habitue ces jours-ci à traiter les Français comme de simples vassaux. Le charme singulier de l’oligarchie chinoise est son étroite intrication avec le Parti communiste. La plupart des analystes passent à côté de cette hétérogénéité (4). »

 

L’hyperclasse, pour le moins la part qui s’intéresse à l’Europe,  s’inquiète de la montée du « populisme », en particulier en France, vieille terre de jacqueries, d’émeutes et de révolutions. Elle craint qu’une éventuelle vague populiste n’affecte durablement son ascendance. Elle s’emploie à conjurer ce risque en s’assurant d’une maîtrise certaine des événements. Longtemps, son champion à la course élyséenne destiné à remplacer l’actuel locataire déconsidéré et dévalorisé, fut Dominique Strauss-Kahn. Au printemps 2011, quelques sondages mettaient Marine Le Pen en tête du premier tour. Cette véritable manœuvre de guerre « psychologique et médiatique » prévoyait d’écarter du second tour Nicolas Sarközy et d’assurer ainsi une large victoire « républicaine » et pseudo-consensuelle à D.S.K. Cependant, un regrettable événement hôtelier survenu à New York ruina la belle mécanique. Dépitée et résignée, la « ploutocratie » a réparti son soutien entre Sarközy, François Hollande et François Bayrou qui assume sans complexes sa foi envers la présente politogénèse européenne mondialiste.

 

Dans Le Point, Emmanuel Todd relève que « l’oligarchie se comporte comme une classe sociale, mais en même temps on sent en elle de l’irrationalité et même un vent de folie collective (5) ». Il estime par ailleurs que « le monde de l’oligarchie est un monde de pouvoir et de complots (6) ». Sans verser dans le délire conspirationniste, on peut néanmoins supposer qu’une faction de l’hyperclasse, redoutant un déchaînement incontrôlable de colères populaires suite aux méfaits de la crise, choisirait par défaut… Marine Le Pen !

 

La ploutocratie contre les élections

 

Soyons précis. La présidente du Front national n’est pas la candidate de l’hyperclasse, mais il est envisageable qu’une tendance, minoritaire, des « élites mondialisées » parie sur son hypothétique élection dans le dessein machiavélique de montrer aux peuples récalcitrants, aux Français d’abord, qu’il n’y a aucune alternative possible hors de la voie qu’elles ont préparée.

 

Certes, la plus grande majorité des oligarques espèrent un second tour entre François Hollande et Nicolas Sarközy. Toutefois, le grain de sable n’est pas à exclure. Les électeurs français réfractaires aux injonctions médiatiques risqueraient de bouleverser le bel ordonnancement prévu, ce que les « pseudo-élites » détestent. Pour éviter toute perspective de nouveau « 21 avril 2002 » (à l’endroit ou à l’envers, peu importe), le plus simple serait d’empêcher la candidature de Marine Le Pen, perçue comme l’avocat radical du « petit peuple ». On sait que Jean-Marie Le Pen a toujours eu de très grandes difficultés pour récolter les cinq cents parrainages obligatoires. L’intercommunalité, le poids financier du département et de la région, l’influence de la partitocratie et le rôle délétère des médias mettent une incroyable pression sur les maires des communes rurales et des petits bourgs urbains. Incapable de réunir les signatures nécessaires, Marine Le Pen ne pourrait pas postuler à la magistrature suprême sans que les règles démocratiques ne soient formellement violées. Autre supposition : Marine Le Pen parvient à rassembler les parrainages indispensables. Sa candidature est cependant invalidée par le Conseil constitutionnel. Les hiérarques du Palais royal reviendraient sur leur jurisprudence de 1974 quand leurs prédécesseurs entérinèrent après débat la candidature du royaliste de gauche Bertrand Renouvin. Ils se justifieraient au nom du respect des traités européens et de l’abolition constitutionnelle de la peine de mort alors que Marine Le Pen prône la sortie de l’euro et propose un référendum sur le rétablissement de la peine capitale. Une décision pareille provoquerait en retour le mécontentement des électeurs et, peut-être, le début d’un « printemps tricolore » en écho aux révolutions arabes de 2011…

 

Si ces entraves ne se produisent pas, une infime minorité de l’hyperclasse estime vraisemblable que Marine Le Pen arrive au soir du 22 avril 2012 première ou seconde, puis remporte – à la surprise générale – l’élection. Mieux, dans la foulée et dans la logique institutionnelle de la Ve République, une nouvelle majorité présidentielle – frontiste ou lepéniste – gagnerait une confortable majorité à l’Assemblée nationale. Commencerait alors le subtil et pernicieux travail d’étouffement des oligarques.

 

En effet, quand bien même une large majorité de députés suivrait la nouvelle présidente de la République, celle-ci se retrouverait cernée. Au-dessus d’elle la surplomberaient des « surveillants supranationaux » : l’O.N.U., l’O.M.C., l’O.T.A.N., l’Union européenne, la Cour européenne des droits de l’homme et le Conseil constitutionnel. Son gouvernement devrait composer avec un Sénat de gauche, la totalité des collectivités territoriales aux mains de l’opposition U.M.P.S. et l’hostilité des syndicats, de la magistrature et du Conseil d’État. Le pays serait en proie à des grèves générales pénalisantes pour la population. Par ailleurs, tout le système médiatique contesterait les moindres faits et gestes des membres de la nouvelle majorité (la campagne de presse contre les vacances tunisiennes de Michèle Alliot-Marie passerait alors pour une aimable réprimande…) et pratiquerait une large désinformation contre le pouvoir. Enfin, la haute-administration, gangrenée par des réseaux enchevêtrés d’intérêts catégoriels discrets, freinerait, retarderait, bloquerait les décisions précises au point de gripper l’appareil d’État. Dans les ministères, ce sont les fonctionnaires qui dirigent, pas les ministres. Yves Blot mentionne une anecdote révélatrice quand il était député R.P.R. du Pas-de-Calais lors de la Ire Cohabitation (1986 – 1988). Invité avec d’autres collègues de la majorité au ministère du Budget détenu par Alain Juppé pour suggérer des réformes, « on fait le tour de table et Juppé se tourne vers son conseiller fiscal, un haut fonctionnaire venant de la direction générale des impôts du ministère des Finances. “ Alors ? Que pouvons-nous réformer ? ” Réponse : “ Rien, Monsieur le Ministre. Toutes les propositions des députés sont en contradiction avec la doctrine de la direction ”. Là-dessus Juppé nous quitte et lance à son conseiller : “ Réfléchissez, vous changerez peut-être d’avis pour faire certaine réforme ”. Réponse du conseiller : “ Certainement pas, Monsieur le MInistre ! ” Je vais voir Juppé et je lui dis : “ Ton conseiller est    arrogant ! Tu ne vas pas le suivre ? ” “ Écoute, me répond-il : tu connais l’administration. Si je ne lui obéis pas, je ne contrôlerai plus aucune manette dans ce ministère ! ” (7) ». En 1995, Alain Madelin dut batailler ferme pour enfin savoir la rémunération des responsables des services de Bercy ! On les lui remit avec maintes précautions sur du papier spécial non photocopiable…

 

Médias, fonctionnaires, juges, syndicats et politiciens profiteraient de cette chienlit pour dénoncer l’incompétence et l’amateurisme des nouveaux dirigeants. Des pénuries de carburant, d’énergie, de produits de première nécessité surgiraient alors. Des violences (émeutes dans les banlieues, sécession de certaines collectivités au nom de l’« anti-fascisme » réactivé), fomentées par des officines clandestines spécialisées liées à des services spéciaux étrangers (étatsuniens, britanniques, allemands, algériens, chinois, israéliens…), plongeraient la France dans une subversion généralisée. Au bout de quelques mois ou années (mais pas cinq ans !), Marine Le Pen, désavouée, se verrait obligée de démissionner.

 

Un pari oligarque risqué

 

Une dernière hypothèse serait aussi plausible. Supputant sur le pragmatisme intéressé et l’attrait des palais officiels, l’Oligarchie pourrait tabler sur les précédents péruviens d’Alberto Fujimori entre 1990 et 2000 et d’Ollanta Humala en 2011, ou équatorien de Lucio Gutierrez en 2002 – 2005 et espérer un ralliement – contraint et forcé ? – de la nouvelle élue au Diktat du F.M.I., de la Banque mondiale et de l’hyperclasse.  Il en résulterait un immense désarroi des Français et une grande désaffection au profit de l’abstention, neutralisant ainsi des suffrages potentiellement contestataires.

 

Ravie par cette élection, génératrice de désordres, et le travail de sape inhérent, l’hyperclasse pourrait favoriser un gouvernement de techniciens et d’« union républicaine » comme en Grèce avec Lukas Papadémos et en Italie avec Mario Monti. François Fillon, Martine Aubry ou même Jean-Claude Trichet s’installerait à l’Élysée ou à Matignon. L’hypothèse populiste française serait enfin levée pour le plus grand bonheur des ploutocrates et le grand malheur des Français désespérés.

 

Mais ces circonstances dramatiques peuvent au contraire renforcer la ténacité de l’équipe dirigeante. Détentrice de la légitimité et seule capable de déterminer la situation d’exception, elle pourrait contrarier leurs projets par le recours à l’article 16 de la Constitution de 1958 ou la réalisation d’un coup d’État. La France n’est pas une terre de putschs. Seuls ceux organisés par l’exécutif ou des membres éminents de l’exécutif ont été des succès : Maupeou sous Louis XV en 1771, Napoléon Bonaparte les 18 et 19 brumaire an VIII, le Prince-Président Louis-Napoléon Bonaparte le 2 décembre 1851. Avalisé ensuite par une consultation populaire, le coup de force salutaire serait une prompte réponse aux menées oligarchiques. Quant aux pressions extérieures, la France dispose encore du droit de veto au Conseil de sécurité de l’O.N.U. et de la force nucléaire…

 

Tous ces scenari appartiennent pour l’instant à de la politique-fiction. Rien ne présume que la France s’achemine à quatre mois de l’échéance présidentielle vers les tempêtes ainsi décrites. Tout annonce plutôt un duel Sarközy – Hollande. N’oublions pas toutefois que les présidentielles françaises ont toujours été propices à l’inattendu.

 

Georges Feltin-Tracol

 

Notes

 

1 : En lançant cette expression de « Nouvelle Classe », Christopher Lasch avait peut-être à l’esprit les écrits dissidents du Yougoslave Milovan Djilas et du Soviétique Mikhaïl Voslenski qui disséquait la Nomenklatura communiste. L’hyperclasse est aujourd’hui la Nomenklatura de l’Occident mondialisé.

 

2 : Emmanuel Ratier, dans Faits & Documents, n° 327, du 15 décembre 2011 au 15 janvier 2012, p. 8.

 

3 : Yvan Blot, L’oligarchie au pouvoir, Paris, Économica, 2011, pp. 81 – 82.

 

4 : Emmanuel Todd, « Annulons la dette du Vieux Monde ! », entretien, Le Point, du 1er décembre 2011.

 

5 : Idem.

 

6 : Id.

 

7 : Yvan Blot, op. cit., p. 89.

 


 

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dimanche, 01 janvier 2012

De la germanophobie au FMI, la bêtise européenne dans toute sa splendeur !

De la germanophobie au FMI, la bêtise européenne dans toute sa splendeur !

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Depuis le début de la crise, on a entendu monter en crescendo un petit refrain : « l’Allemagne payera ! ». On se serait cru revenu à Versailles en 1919. Certes, il aura fallu du temps pour que la sauce prenne, car on ne savait pas bien quoi leurs reprocher aux braves Allemands. Élève modèle de la zone euro, le succès économique de l’Allemagne a certes de quoi exaspérer, il faut bien l’admettre :  4ème économie mondiale, 1ère européenne, elle est aujourd’hui le plus grand exportateur mondial de biens devant les États-Unis et la Chine et enregistrait en 2010 un excédent commercial de 150 milliards d’euros.

Après des reformes draconiennes entreprises  sous le mandat de Gerhard Schröder, les Allemands ont vu, comparativement à leur voisins européens, leur niveau de vie baisser de 20 à 30% en 10 ans. Coupes claires dans les budgets sociaux, retraite à 67 ans et introduction d’une dose de capitalisation, gèle drastique des salaires… Jamais des réformes aussi dures n’avaient étaient mises en œuvre dans un pays afin de restaurer ainsi sa compétitivité.

Mais comme toujours en Europe dès qu’une nation prend l’ascendant, la réaction des voisins ne se pas fait attendre. Lorsque la Grèce a trébuché alors qu’on apprenait qu’aucun de ses citoyens ne s’acquittait de ses impôts,  des voix se sont fait entendre pour réclamer que l’Allemagne paie ! Leur argument était un peu simpliste, puisqu’il reposait sur le postulat que, quels que soient les torts grecs, il n’était que justice que les pays riches payent. Et ce sans se poser la question de savoir si les Allemands n’avaient pas déjà durement, à leur façon, payé cette richesse relative qu’on leur reprocherait presque. Pendant ce temps, d’autres voix, plus grinçantes celles-là, aiguisaient  des arguments plus habiles qui faisaient jouer à l’Allemagne un rôle trouble.

De prime abord, cet argument se tient. Il avance notamment l’idée que l’Allemagne aurait mené une sournoise politique déflationniste, dopant ainsi sa productivité, contre ses partenaires européens en siphonnant leurs plans de relance. Il est vrai que pratiquer la déflation compétitive n’est jamais en soi une bonne solution. Cela écrase les classes populaires et s’avère toujours dangereux à terme, car baisser les salaires étrangle la consommation. C’est d’ailleurs ce qui menace l’Allemagne, maintenant que tous les États se plient à la rigueur. Le seul souci est que ce qui est présenté comme des plans de relance ne sont au fond que des incuries budgétaires affligeantes. L’aberrante loi des 35 heures peut-elle décemment être considérée comme un plan de relance ? La réalité est que l’Allemagne s’appliquait à réarmer son économie pendant que le reste de l’Europe, pays latins en tête, se la coulait douce en profitant des crédits à bas taux que leur offrait un mark miraculeusement transformé en euro pour tous.

Qu’importe ! Vu de France, l’Allemagne reste inexcusable ! Un vent de germanophobie, passablement rance, s’est mis à souffler sur l’hexagone. Tous les chroniqueurs ont repris ce crédo en chœur : « c’est la faute à l’Allemagne ! ». Récemment encore, lorsque Merkel refusa de transformer la BCE en « bad bank », déclinant ainsi l’option de la voir racheter les dettes des Etats, tout le monde lui est tombé dessus. L’Allemagne craignait légitimement de voir la BCE devenir un faux-monnayeur et l’euro, une monnaie de singe. Rien n’y faisait ! Preuve était faite que la rigidité allemande était bien à la source de la crise. Il est pourtant facile de comprendre qu’une Allemagne qui comptera 22 millions de retraités en 2020 ne peut décemment accepter une logique inflationniste dont personne ne saurait prédire l’issue.

Car contrairement au dollar, l’euro n’est pas une monnaie d’échange internationale. Faire tourner la planche à billet aboutira fatalement à une explosion inflationniste. Si trop d’euro étaient imprimés pour financer les dettes (on parle ici de plusieurs centaines de milliards), les fonds souverains russe, chinois ou saoudiens se débarrasseraient immédiatement de leur réserve en devise européenne pour se prémunir des effets de la  dévaluation qui s’ensuivrait. Tout cet afflux soudain de monnaie provoquerait en retour, d’abord une chute vertigineuse de l’euro, ensuite une violente poussée inflationniste. Dévaluation et inflation peuvent être des solutions en soi, mais avec 22 millions de retraités-rentiers (1/4 de la population), une politique exclusivement inflationniste pour l’Allemagne tiendrait lieu d’un suicide collectif.

Les Européens seraient donc mieux inspirés de reconnaitre leurs torts partagés pour se mettre d’accord autour d’une solution offensive contre la prédation des marchés.  Une solution qui pourrait par exemple mélanger un savant dosage de restructuration, d’effacement partiel et de monétarisation de la dette ; le tout dans le cadre d’une politique protectionniste garantie par une dévaluation monétaire maitrisée. Bien évidemment, cette solution mettrait sur la paille un certain nombre de banques qu’il faudrait alors nationaliser.

Mais les grandes banques ne l’entendent pas de cette oreille. Elles veulent qu’on leur rembourse tout sans que le système spéculatif, tel qu’il ne tourne pas rond, ne soit trop bousculé. Plutôt que d’affronter les grands argentiers de la finance transnationale, les dirigeants européens préfèrent s’accuser les uns les autres, en s’apprêtant à abandonner aux plans de coupe budgétaire du FMI les nations les plus faibles.  La veulerie des gouvernants européens est totale et leur égoïsme, coupable.

Car que penser d’autre de l’option, évoquée lors du dernier sommet européen, qui autoriserait la BCE à avancer des fonds au FMI pour que celle-ci prête en retour aux Etats européens en difficulté ? Cette solution, envisagée comme un moyen de contourner rapidement les traités européens et de neutraliser un emballement inflationniste, fait froid dans le dos. Elle reviendrait de facto à abdiquer toute souveraineté européenne. L’Europe ne serait plus alors qu’un spectre politique diaphane, sans consistance, qui exécuterait servilement les consignes des experts anglo-saxons du FMI. La bêtise européenne prendrait alors toute sa splendeur !

Olrik