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vendredi, 09 novembre 2012

La teoria dei cicli di Nikolai Kondratiev

La teoria dei cicli di Nikolai Kondratiev

Gli studi dell’economista russo vittima delle purghe nell’Urss di Stalin

Alexander Aivazov e Andrej Kobyakov

Ex: http://rinascita.eu/  

kondrqtiev.jpgLa crisi finanziaria che è scoppiata negli Stati Uniti e che dopo ha coinvolto tutto il mondo, richiede adeguate misure da parte della comunità globale. Ma quali azioni dovrebbero essere considerate adeguate in questo caso?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo prima identificare le vere ragioni sottostanti che hanno creato la crisi, e stimare la sua lunghezza e profondità. Gli economisti liberali dogmatici continuano a convincerci che in diversi mesi, o almeno in uno o due anni, tutto si “calmerà”, il mondo tornerà ad un progressivo sviluppo, mentre la Russia si sposterà verso un modello economico dell’innovazione.
È veramente così?
Più di 80 anni fa l’importante economista russo Prof. Nikolai D. Kondratiev descrisse e dimostrò teoricamente l’esistenza di grandi cicli di sviluppo economico (45-60 anni), all’interno dei quali le “riserve dei maggiori valori materiali” globali vengono nuovamente riempite, cioè in cui le forze produttive mondiali messe assieme a ogni ciclo trascendono verso un livello più alto.
Secondo Kondratiev, ogni ciclo ha una fase ascendente e una declinante. La dinamica interna di cicli (denominati cicli K in base al suo nome) e il principio della loro fluttuazione si basano sul meccanismo di accumulazione, concentrazione, dispersione e svalutazione del capitale come fattori chiave dello sviluppo dell’economia (capitalista) di mercato.
Inoltre Kondratiev indicò che questa regolarità ciclica esisterà finché persiste la modalità capitalista di produzione. “Ogni nuova fase del ciclo è predeterminata dall’accumulazione di fattori della fase precedente, ogni nuovo ciclo segue il ciclo precedente in modo tanto naturale quanto una fase di ciascun ciclo segue l’altra fase. Però bisogna capire che ogni nuovo ciclo emerge in nuove particolari condizioni storiche, su un nuovo livello di sviluppo delle forze produttive, e perciò non è una semplice reiterazione del ciclo precedente”. [Non una semplice reiterazione, ma di fatto una reiterazione, in base allo schema oggettivo di Kondratiev. Vero solo in un particolare sistema economico-finanziario].
Nikolai Kondratiev riuscì a studiare solo due grandi cicli e mezzo, terminando la sua ricerca sulla fase crescente del terzo ciclo. Egli pubblicò il suo rapporto quando si era già nella fase discendente del terzo ciclo, nel 1926, e quando la grandezza e lunghezza della fase discendente non poteva ancora essere stabilita (così egli predisse la grande depressione).
Purtroppo per la scienza economica internazionale Nikolai Kondratiev cadde in disgrazia: nel 1928 egli perse la sua posizione di direttore del suo istituto di ricerca; nel 1930 fu arrestato per “attività antisovietiche” infine condannato a morte. I marxisti ortodossi, comprendendo la stoNikolai ria come un processo lineare unidirezionale e prevedendo il crollo del capitalismo il “ giorno dopo”, percepirono la sua teoria del graduale miglioramento dell’ordine capitalista come un’eresia pericolosa. Altri critici videro nel regolare declino dell’economia che egli aveva descritto un sabotaggio dei piani economici quinquennali (sebbene Kondratiev avesse preso parte alla elaborazione del primo piano quinquennale). Come risultato l’eredità scientifica di Kondratiev fu occultata per quasi sessant’anni. Solo nel 1984 l’economista Stanislav Menshikov, uno scienziato di fama mondiale coinvolto nelle previsioni economiche per conto delle Nazioni Unite, amico e coautore di John Kenneth Galbraith, riabilitò il nome di Kondratiev in un articolo sulla rivista “Communist”.
Nel 1989 Menshikov e sua moglie pubblicarono col titolo “Long Waves in Economy: When the Society Changes its Skin” [“Le onde lunghe in economia: quando la società cambia la sua pelle”] la più profonda analisi della teoria di Kondratiev. Un altro prominente autore russo, Sergey Glazyev, contribuì alla teoria di Kondratiev, fornendo un’analisi strutturale dei sottostanti cambiamenti negli “schemi (modi) tecnologici”.
Il nome di Kondratiev era ben noto agli economisti occidentali. Però Stanislav Menshikov notò un fenomeno curioso: l’interesse alla teoria dei grandi cicli solitamente ringiovaniva durante le fasi declinanti, negli anni 20-30 e negli anni 70 e 80, mentre nelle fasi crescenti, quando l’economia globale si sviluppa progressivamente e le fluttuazioni, concordemente alla teoria di Kondratiev, non sono molto profonde, l’interesse scompare.

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Una Depressione prevista
 
Le previsioni di Nikolai Kondratiev furono pienamente confermate nel periodo della grande depressione che coincise con il punto più basso della fase declinante del terzo periodo. Una periodizzazione ulteriore è argomento di polemica. I ricercatori si dividono principalmente in due gruppi, applicando differenti approcci alla determinazione di cicli.
Il primo gruppo che basa le sue analisi principalmente sugli indici dell’economia reale—quantità della produzione, dinamica dell’impiego, attività di investimento e varie proporzioni strutturali—ritengono che la fase declinante del terzo ciclo terminò all’inizio della seconda guerra mondiale.
La fase crescente del quarto ciclo iniziò durante la guerra e continuò sino a metà degli anni 60. La crisi del dollaro Usa e il crollo sistema di Bretton Woods nel 1968-71 divenne il punto critico per la transizione alla fase declinante, che corrispose con la crisi petrolifera e la stagflazione degli anni 70. La “Reaganomics” negli Stati Uniti e la politica di Margaret Thatcher in Gran Bretagna segnarono la transizione al successivo quinto ciclo K, con la sua fase crescente che ha coperto la seconda metà degli anni 80 e gli anni 90.
Come al solito, alla fine della fase crescente, nella cosiddetta zona di saturazione, ci troviamo di fronte a fenomeni quali la diminuzione della percentuale di guadagno nel settore dell’economia reale e un imponente fuoriuscita di capitali verso la sfera della speculazione finanziaria che generò prima un surriscaldamento del mercato azionario (fine anni 90) e poi del mercato dei mutui (inizio anni 2000).
Il secondo gruppo di ricercatori, che si basa piuttosto sugli indici finanziari, cioè sulla dinamica del mercato azionario e sulla dinamica del tasso di guadagno sulle obbligazioni, estende la fase declinante del terzo ciclo per l’intero periodo della seconda guerra mondiale e la ricostruzione postbellica sino al 1949. In modo simile al primo gruppo, essi collocano il punto estremo della fase crescente a inizio anni 70, ma interpretano il declino di quel periodo come una “recessione primaria” seguita da un plateau che dura sino all’inizio del ventunesimo secolo. Essi indicano che un simile plateau è corrisposto agli andamenti crescenti del mercato azionario nei cicli precedenti, rispettivamente nel 1816-1835, 1864-1874, e 1921-1929. Il secondo gruppo di ricercatori stima la durata media di un ciclo in cinquant’anni, ma l’ultimo ciclo nella loro descrizione viene stranamente protratto oltre i sessant’anni.
Perciò, nonostante le significative differenze metodologiche degli approcci, entrambi i gruppi di analisti identificano negli anni 2000 l’inizio di un declino, cioè di una fase di depressione.
 
L’attuale crisi è all’inizio
 
Di fronte al declino ci aspettiamo un nuovo scoppio di interesse verso la teoria di Kondratiev. Nel frattempo i monetaristi liberali le cui idee hanno dominato la scienza economica negli ultimi 25 anni vengono screditate, i loro sforzi di interpretare l’attuale crisi come una fluttuazione temporanea nell’economia globale, rivela solo la loro ignoranza economica. L’esperienza dei precedenti cicli K indica che le misure tradizionali contro la crisi sono efficienti solo nella fase crescente del ciclo, nel periodo di fiorente crescita quando le recessioni sono leggere e transitorie sullo sfondo di uno sviluppo progressivo dell’economia globale.
Gerhard Mensch, uno scienziato che ha studiato simili processi durante la fase declinante degli anni 70, ha sottolineato che sotto le condizioni di deterioramento della congiuntura economica i metodi monetaristi per risolvere il problema sono inefficienti, dato che politiche restrittive del credito inevitabilmente colpiscono i prezzi al consumo, mentre politiche liberali pro-attive favoriscono operazioni di speculazione. E’ piuttosto naturale che l’approccio fortemente restrittivo scelto dalla Banca centrale europea risulti in una crescita dell’inflazione, sebbene cinque anni fa gli effetti della stessa politica risultarono opposti.
All’inizio della crisi l’inflazione in Europa non superava il 2%, ma ad oggi il potere d’acquisto è crollato, nonostante gli elevati livelli dei tassi di rifinanziamento introdotti dalla BCE. Nel frattempo la politica liberale, condotta sino a un periodo recente negli Stati Uniti, ha alimentato la speculazione sul mercato azionario e l’espansione di capitali fittizi (gonfiati), stimolando un incremento speculativo dei prezzi nei settori dei beni più commerciabili: mercato immobiliare, oro, petrolio e cibo. L’incremento dei prezzi non ha alcuna relazione con la quantità di produzione e con la saturazione della domanda.
Nonostante tutti gli sforzi intrapresi dal (l’ex) presidente della BCE Jean-Claude Trichet e dal presidente della Federal Reserve Ben Bernanke, cambiamenti positivi non vengono raggiunti. L’economia globale deve passare attraverso un periodo di “ ricarica” sbarazzandosi del capitale sovraccumulato tramite una sua massiccia svalutazione nel processo di una inevitabile e lunga recessione. La svalutazione del capitale monetario probabilmente procederà attraverso una catena di crack finanziari, che daranno inizio al terzo default del dollaro Usa (come già avvenne negli anni 20-30 e negli anni 70). Perciò, l’economia globale verrà scossa molte volte, l’attuale crisi è solo un colpettino alla cravatta segno di eventi più grandi che arriveranno nei prossimi anni. L’economia globale probabilmente raggiungerà il suo punto più basso alla fine della fase declinante del quinto ciclo K, tra il 2012 e il 2015.
Il crollo del sistema finanziario Usa può avvenire uno o due anni in anticipo nel caso che il nuovo presidente Usa scelga un approccio dogmatico agli attuali problemi.
 
Titolo originale: “Nikolai Kondratiev’s “Long Wave”: The Mirror of the Global Economic Crisis”
Alexander Aivazov
e Andrei Kobyakov
rpmonitor.ru/ - mlnews
 
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I TRE CICLI ANALIZZATI
 
I. Fase crescente: dalla fine degli anni 80 del 1700, inizio anni 90, sino al 1810-1817.
Fase declinante: dal 1810-1817 al 1844-1851.
II. Fase crescente: dal 1844-1851 al 1870-1875.
Fase declinante: dal 1870-1875 al 1890-1896.
III. Fase crescente: dal 1890-1896 al 1914-1920.
La nuova ricerca (primo gruppo)
I ricercatori del primo gruppo sono convinti che i cicli si comprimono con l’intensificazione del progresso scientifico-tecnologico: dagli anni 40 la lunghezza di un ciclo si è ridotta da 50-55 a 40-45 anni. La continuazione della regolarità di Kondratiev risulta in questo modo:
Fase declinante del terzo ciclo: dal 1914-1920 (negli Stati Uniti dalla fine degli anni 20) al 1936-1940.
IV. Fase crescente: dal 1936-1940 al 1966-1971.
Fase declinante: dal 1966-1971 al 1980-1985.
V. Fase crescente: dal 1980-1985 al 2000-2007.
Fase declinante: dal 2000-2007 sino approssimativamente al 2015-2025 (previsione).
VI. Fase crescente: dal 2015-2025 al 2035-2045 (previsione).
In base al secondo gruppo di analisti, la regolarità di Kondratiev prosegue in questo modo:
Fase declinante del terzo ciclo: dal 1914-1920 al 1949.
IV. Fase crescente: dagli anni 50-70, con una “recessione primaria” sino al 1982, seguita da un plateau sino agli anni 2000.
Fase declinante a partire da inizio, metà degli anni 2000.
 
 
LE ONDE DI KONDRATIEV
Quando si parla di onde, in natura si pensa a quelle marine o a quelle elettromagnetiche, mentre in Borsa si pensa a quelle di Elliot.
Oggi però voglio parlarvi delle onde di Kondratiev, una teoria risalente agli anni ’20. L’argomento è in realtà d’estrema attualità, visto che è strettamente legato all’andamento dell’economia e dei mercati finanziari in generale, e a quello delle materie prime (o commodities) in particolare.
Nel 1925 l’economista russo Nikolai Kondratiev (1892-1938) osservò che lo sviluppo delle economie di mercato è caratterizzato da onde o supercicli, lunghi 50-60 anni, ognuna delle quali suddivisibile di quattro fasi: espansione, recessione, depressione e ripresa.
Negli anni Trenta del ‘900 l’austriaco Joseph Schumpeter (1883-1950) riconsiderò la teoria e scoprì che queste onde K corrispondono agli sviluppi dei cicli di innovazione. Sono le nuove tecnologie, quindi, che caratterizzano questi supercicli e che permettono la creazione di nuove industrie e attività, spesso in nuove localizzazioni divenute più vantaggiose. Il primo ciclo di Kondratiev (1770-1825; Rivoluzione industriale) corrisponde ai primi sviluppi in Gran Bretagna della siderurgia basata sul carbon fossile e dell’industria tessile basata sul vapore. Queste nuove tecnologie causarono la concentrazione dell’attività industriali, fino a quel momento frammentate e disseminate in un numero sterminato di piccole officine e laboratori, in grandi fabbriche localizzate sul carbone.
L’applicazione del vapore ai trasporti ferroviari e marittimi sostenne il secondo ciclo (1825-1880; Era del vapore e delle ferrovie) creando, sempre in Inghilterra, nuovi impianti industriali non solo sui bacini carboniferi, ma anche in centri come Crewe, Derby o Swindon.
Il terzo ciclo (1880-1930; Era dell’acciaio, dell’elettricità e dell’ingegneria pesante)sostenuto dall’invenzione dell’elettricità, del telegrafo, del telefono e del motore a scoppio, nonché dallo sviluppo dell’industria petrolchimica, interessò soprattutto gli Stati Uniti, la Germania e la Francia, con conseguente passaggio del primato industriale dalla Gran Bretagna all’Europa continentale ed agli Stati Uniti.
Il quarto ciclo (1930-1980; Era del petrolio, dell’automobile e della produzione di massa) sostenuto, oltre che dall’ulteriore sviluppo della petrolchimica, da industrie ad alta tecnologia come quella televisiva e hi-fi, aerospaziale, delle fibre sintetiche e dell’elettronica, ha interessato soprattutto gli Stati Uniti, la Germania e ancora il Regno Unito.
Oggi viviamo in un quinto ciclo innovativo (Era dell’informatica e delle telecomunicazioni) che sta dando vita ad un’economia dell’informazione, che sfrutta l’energia immateriale del cervello umano per la ricerca e lo sviluppo (R&S) in campi come servizi per l’industria, creazione di software, biotecnologia e robotica, ecc, e che in modo sempre più diretto tende a legare la costosa R&S all’industria finale e ai servizi. In queste nuove attività gli Stati Uniti hanno un temibile rivale nelGiappone.
La recessione degli anni Settanta fu il risultato congiunto dell’aumento dei prezzi del greggio e della transizione dal quarto al quinto ciclo, che qualcuno ha individuato anche nel concetto di società post-industriale. Infatti, nei Paesi più sviluppati l’industria ha progressivamente ceduto il passo ai servizi, anche a causa della forte concorrenza dei nuovi paesi industrilizzati (o NIC) e dei produttori emergenti del Terzo Mondo.
Veniamo ai nostri giorni. Si legge ovunque dell’interesse per le commodities, prima fra tutte il petrolio, ma si teme, al contempo, che la lunga ascesa delle quotazioni, che dura ormai da circa un quinquennio, possa riservare brutte sorprese. Ci sono però economisti e investitori, (come Marc Faber, Shane Oliver ed altri – fra i quali mi annovero, nel mio piccolo), che ritengono che l’attuale fase storica rialzista delle commodities sia solo all’inizio.
Se si condivide la teoria delle onde K, infatti, il superciclo attuale è ancora in una fase di espansione, caratterizzata da un incremento degli investimenti capitali, da nuove tecnologie e da nuovi mercati. In questo contesto la domanda di materie prime soprattutto da parte di NIC quali Cina e India è, non solo forte, ma ancora in costante aumento, a fronte di un’offerta contenuta, sia nello stock che nella dinamica di crescita.
Kondratiev non beneficiò mai delle sue analisi: nel 1930 venne arrestato con l’accusa di appartenere ad un partito politico illegale nella Russia staliniana e dopo 8 anni di carcere, fu giustiziato. Le sue idee, però, sopravvissero e potrebbero trovare ulteriore conferma fra 15-20 anni.


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jeudi, 08 novembre 2012

Le bankstérisme

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Le bankstérisme

par Georges FELTIN-TRACOL

Dans Le Monde diplomatique de mai 2012, on apprend que « l’emploi du téléphone portable comme moyen de paiement sécurisé est une innovation venue du Kenya, où le m-banking (banque mobile) a des années d’avance, permettant aux plus pauvres de transférer et d’obtenir de l’argent même sans compte bancaire (1) ». Serait-ce la parade idoine d’échapper au joug bancaire français et occidental ? Difficile de l’affirmer tant ces établissements exercent dans le soi-disant « monde libre » une influence rarement atteinte dans l’histoire. Cette domination indirecte repose sur la détention par les particuliers, les entreprises et les personnes morales d’un compte en banque.

Or, contrairement à ce qu’on pourrait croire, la possession d’un tel compte n’est pas obligatoire dans l’Hexagone, mais de nombreuses restrictions le rendent indispensables (encaissement des chèques, interdiction faite à l’employeur de payer ses salariés en liquide, seulement par chèque ou par virement, idem pour les allocations sociales…). En revanche, l’article 6 de la loi du 22 octobre 1940 (tiens ! une loi encore en vigueur des « années noires » et on affirmera après l’illégitimité de l’État français du Maréchal Pétain…) oblige tout commerçant inscrit au registre du commerce et des sociétés d’ouvrir un compte. Une amende fiscale est même prévue si cette procédure n’est pas effectuée. Ces contraintes légales peuvent devenir des instruments de contrôle social.

La crise économique de 2008 a révélé aux plus lucides des observateurs que les gouvernements préfèrent sauver les groupes bancaires plutôt que leurs citoyens. Pourquoi ? Parce que les milieux financiers (banques et assurances), médiatiques et politicards constituent les facettes d’une même entité oligarchique. Le remplacement des convictions politiques par la communication politicienne et le coût croissant des campagnes électorales (malgré le plafonnement légal et une vigilance plus ou moins lâche des autorités) favorisent le financement massif des formations partisanes les plus aptes à conquérir le pouvoir. C’est ce qu’on appelle trivialement de la corruption et elle est très incrustée dans les mœurs de l’Amérique du Nord et de l’Europe de l’Ouest.

« La séparation des pouvoirs est institutionnelle, notent Monique Pinçon-Charlot et Michel Pinçon, mais reste en grande partie théorique. Dans la pratique, la classe dominante cumule toutes les formes de pouvoir. Ses membres, au cœur de l’État, des grandes entreprises, des banques, de l’armée, des arts et des lettres, entretiennent des relations assez proches pour que chacun, dans sa sphère d’influence puisse décider dans le sens des intérêts de la classe (2). » On découvre donc à l’échelle de l’Occident « une nouvelle nomenklatura, qui doit une bonne part de sa fortune soudaine à la privatisation des biens publics, use ainsi de la libéralisation des marchés pour s’exonérer du financement des systèmes de solidarité nationaux (3) ».

La tyrannie du credit score

La présente crise a aussi eu le mérite de divulguer au public l’existence des agences de notation et de leur implacable Diktat, consubstantiel à la société de consommation de masse puisque la crainte de la surproduction et les frais d’un stockage important poussent les acteurs économiques à valoriser l’achat compulsif créé par la publicité et à recourir à l’endettement. « De toutes les entraves qui ligotent le citoyen/consommateur à la société marchande, la chaîne des remboursements (des “ chaînes de billets ” matérialisent les crédits commerciaux) constitue certainement la plus efficace (4). » Frédéric Julien parle même de « l’aliénation bancaire (5) ».

La pire des situations demeure les États-Unis d’Amérique, ce pays de « cigales », car le système bancaire – bankstère – a besoin de ménages dépensiers qui se mettent sous la menace constante du crédit. Une famille étatsunienne, Deiedre et Willie Adams, fonctionnaire pour elle et employé chez Xerox pour lui, a longtemps refusé le moindre crédit jusqu’au jour où ils voulurent acheter une maison. Ils demandèrent alors un emprunt à leur banquier qui refusa et leur répondit que « pas de crédit courant, pas d’emprunt ! (6) ». Il leur conseilla « de commencer par prendre des cartes de crédit à la consommation, et de constituer [leur] historique (7) ». Les Adams acceptent d’entrer dans un cercle vicieux, car les Étatsuniens obéissent aux injonctions bancaires.

Interrogé par Natacha Tatu, l’économiste Sheldon Garon estime que « chez nous, dépenser et vivre à crédit est culturel. C’est presque une forme de patriotisme ! (8) ». « Emprunter, rembourser : c’est le moteur à deux temps de l’économie américaine (9) », explique la journaliste qui y voit une manifestation de l’esprit étatsunien d’origine anglo-saxonne. « L’aversion américaine à l’impôt donne la dimension sociale du choix et dicte sa traduction financière, souligne Hervé Juvin : fonder le levier de la dette sur la liquidité. Il suffit, pour que le marché finance tout et n’importe quoi, que les liquidités soient si abondantes que les banques en oublient la notion de risque : il y aura toujours quelqu’un pour financer votre risque (10). » Pas étonnant dès lors que s’applique l’équivalent électronique et ultra-moderne du livret ouvrier napoléonien, la note de crédit ou credit score. Celle-ci est « calculée par des agences spécialisées et censées prédire votre solvabilité, en fonction de la régularité de vos remboursements. Elle détermine le taux auquel vous allez emprunter. […] Un mauvais credit score ne vous fermera pas forcément les portes du crédit… Mais il peut vous coûter 100 000 dollars dans une vie ! (11) ».

Cette note de crédit place la vie privée sous l’attention continue des organismes financiers, voire d’autres institutions. En effet, « accolée au numéro de sécurité sociale, le credit score – consultable par le propriétaire de votre domicile, par votre opérateur de téléphonie et même par votre employeur – est un critère auquel il est impossible d’échapper. Pourtant, la manière, totalement opaque, dont cette note est calculée reste une énigme : elle peut évoluer alors que que le comportement du débiteur reste identique. Une même note vous qualifie pour un crédit une année, mais pas l’année suivante (12) ». Par ce jeu pervers, « l’avenir d’une génération d’Américains, d’Européens, de Japonais est écrit, avertit Hervé Juvin; c’est l’avenir de jeunes adultes qui s’endettent sur trente ans, sur cinquante ans au Japon, pour acquérir leur premier appartement, et qui, parvenus au seuil de la retraite, constatent qu’ils auront réussi une chose pendant toute une vie de travail : ils auront remboursé leur crédit. Et l’idéologie de l’avènement de l’individu, de sa liberté complète, de sa sortie de toutes les déterminations aboutit à cette réalité banale : le formatage le plus achevé des choix de vie et des comportements par la dette consentie à l’entrée dans la vie, et le crédit mensuel qui décide de l’emploi, de la dépendance au salaire, de la soumission à l’entreprise. La banque a remplacé l’usurier, l’esclavage de l’endettement à vie est le produit monstrueux de la réduction de l’individu au consommateur désirant (13) ». Aux États-Unis, le problème des prêts étudiants prend une ampleur considérable. On comprend mieux les étudiants québécois qui, français oblige, ont une tournure d’esprit différente des Anglo-Saxons et qui contestent la hausse des frais universitaires. Cette augmentation est-elle fortuite ? Certainement pas ! « Le Système trouve un avantage certain à entretenir la pente de facilité par le crédit, s’indigne Frédéric Julien. Il améliore ainsi son contrôle sur le citoyen/consommateur. En érigeant le crédit en supplétif du rêve publicitaire, la société de consommation forge, à partir de celui-là, la chaîne de la dépendance (14). » Pis, « une économie d’endettement change le rapport au futur, le lien intergénérationnel, s’inquiète Hervé Juvin, elle bouscule deux ou trois choses que nous croyions savoir de la politique (15) ». Celle-ci s’efface au profit de la stasis, de la discorde sociale, du conflit civil froid entre jeunes en minorité, actifs adultes fiscalement pressurés et retraités revendicatifs. Dans cette guerre des âges, l’État se plaît à jouer les arbitres alors qu’il attise sciemment les rivalités entre classes d’âge.

Vers la banque totalitaire

Tout ceci est inquiétant, mais concernerait en priorité le monde anglo-saxon. On objectera même que la note de crédit n’existe pas en France et que la crainte d’une telle surveillance bancaire des personnes s’apparente à de la paranoïa. Le système bancaire français tend pourtant à transformer ses clients en vaches à lait rentables. En 2009, l’Association française des usagers des banques (A.F.U.B.) avait enregistré cinq cents plaintes et témoignages. « Il y a eu une vague de clôtures autoritaires dans les années 1990 : les banques jetaient alors les personnes à risques, déclare Serge Maître, le secrétaire général de l’A.F.U.B. Désormais, elles sanctionnent les clients qui répondent pas à leurs sollicitations et refusent la vente forcenée de prestations bancaires. Il s’agit d’une nouvelle politique commerciale qui tourne le dos à l’engagement qu’elles ont pris en 1992 auprès des pouvoirs publics de ne plus procéder de manière brutale à des clôtures de comptes (16). »

Si l’Hexagone méconnaît encore la situation outre-Atlantique, la Finance s’intéresse déjà à nos vies par le biais de la monnaie électronique, le système Moneo par exemple. Pour l’heure, Moneo ne s’est guère développé du fait de la défiance des Français qui ne veulent pas payer pour pouvoir ensuite utiliser leur propre argent. Ces réticences amènent le remplacement du portefeuille électronique Moneo par les téléphones de poche et autres smartphones. « Il suffira d’approcher son appareil d’une borne de paiement, au supermarché ou au restaurant… et la transaction s’effectuera en un quart de seconde. Une technologie basée sur des nouvelles puces appelées N.F.C. (“ near field communications ”, ou “ en champs proche ”) (17). » Mais, outre le risque accru de géolocalisation permanente, le suivi instantané des opérations monétaires permettra de savoir immédiatement que vous êtes lecteur à Salut public, abonné à Réfléchir et Agir, que vous avez assisté à la dernière table ronde de Terre et Peuple et que vous cotisez à Radio Courtoisie (ça, l’administration le sait déjà puisque votre cotisation est déductible à 66 % de l’impôt sur le revenu). Ce traçage facilite avantageusement le fichage sur les réseaux sociaux et, par recoupement, de tous ceux qui refusent de les rejoindre ! Les listes numériques de proscription seront vite prêtes…

L’argument sécuritaire n’est toutefois pas le seul. Entrent aussi en ligne de compte des enjeux économiques au profit d’une infime minorité mondialisée. Monique Pinçon-Charlot et Michel Pinçon remarquent très justement que « malgré la mondialisation, l’oligarchie continue à coopter des dynasties. Les familles de l’aristocratie de l’argent gèrent leurs dynasties dans une forme de collectivisme pratique qui met ensemble les ressources de chacun pour décupler une force commune qui permet de maintenir et de développer un libéralisme économique toujours plus déréglementé (18) ». L’hyperclasse souhaite disposer d’un moyen, à la fois coercitif, efficace et presque invisible et/ou indolore, de maîtrise des populations sans qu’elles s’en aperçoivent. « À sa manière, l’idéologie mondialiste qui caractérise le néo-libéralisme a engagé une guerre contre la diversité des sociétés humaines, une guerre dont l’individualisme est le drapeau et les produits culturels l’artillerie lourde, une guerre contre les écarts, les surprises du monde, qui est à la fin une guerre contre le monde, sa diversité irréductible, ses antagonismes vitaux, affirme Hervé Juvin (19). »

Dans cette offensive contre les peuples, le crédit devient une arme redoutable, car « l’expérience enseigne que le citoyen endetté ne s’insurge plus; il revendique moins (cf. le repli du syndicalisme militant) et ses réclamations portent essentiellement sur des questions salariales et financières, dont certaines contribuent précisément à aggraver sa dépendance (20) ». Les Espagnols, les Étatsuniens, les Britanniques continuent à collaborer à une « démocratie falsifiée » avec des élections manipulées. Parce que l’Islande est une communauté politique insulaire où tout le monde est apparenté, ses habitants n’ont pas hésité à bouleverser leurs institutions et à contredire par référendum leur gouvernement. Malgré ce contre-exemple, les faits démontrent que « l’État au service du libéralisme financier est le plus farouche ennemi des peuples qui soit (21) ». Cependant, force est d’observer que la note de crédit, Moneo ou le téléphone – portefeuille n’assurent pas un contrôle total des individus et de leurs relations. Le Panopticon cybernétique nous prépare à la suppression de l’argent liquide !

Vers l’interdiction prochaine des billets ?

Un professeur en finance et assurance à l’École de management de Lyon, Olivier Le Courtois, estime que la résolution de la crise économique serait de supprimer « l’argent liquide, c’est-à-dire toutes les pièces de monnaie et les billets. Cela permettrait de débarrasser le pays de son économie noire, laquelle représente entre 3 et 3,3 % de notre P.I.B. selon l’I.N.S.E.E. […] À terme, on détruit une grande partie de la fraude, on économise des postes de fonctionnaires et on crée des emplois dans le privé (22) ». Le libéralisme le plus débridé rejoint l’hygiénisme sécuritaire… Il n’a pas compris que la pègre, la maffia, l’« économie criminelle » contribuent au fait humain sur un mode d’implication déviant. les éradiquer est une chimère, les contenir dans des limites définies est plus censé. La crise, insiste Hervé Juvin, « est née du dévoiement de systèmes fiscaux qui resserrent leur étreinte sur les contribuables ordinaires – personnes physiques, P.M.E. – au point de faire des banques des annexes du contrôleur d’impôts, en France comme aux États-Unis, mais tolèrent l’offshore comme le continent autonome de la grande entreprise (23) ». Plutôt que d’économiser sur les dépenses des élus et les subventions versées aux partis, aux syndicats et aux associations, notre docte enseignant lyonnais propose donc d’enchaîner ses concitoyens d’autant qu’il ajoute que cette mesure impliquerait « l’accès des services fiscaux aux comptes bancaires des particuliers et des entreprises (24) ». Un cauchemar total en partie réalisé ! « Qu’est-ce qui distingue une banque française d’une annexe des services fiscaux, et un employé de banque d’un contrôleur des impôts, s’interroge Hervé Juvin ? (25) »

Se doutant que sa demande ne fasse pas l’unanimité, Olivier Le Courtois pense qu’« on peut […] débuter en refusant de payer tout paiement en cash au-delà d’une somme de 5 ou 10 euros (26) ». Il sous-entend aussi qu’à terme, détenir sur soi ou à son domicile 50, 100, voire 200 euros en liquide sera considéré comme un délit… Irréaliste ? Déjà « au nom des plus louables objectifs, de la lutte contre les discriminations à la protection de l’enfance, l’État dispose de tous les réseaux sociaux pour enquêter sur le plus intime, le plus privé, de la politique de recrutement des entreprises au choix d’un locataire ou d’un partenaire d’une nuit (27) ». Par la mesure d’Olivier Le Courtois, l’intrusion étatique serait ainsi achevée avec une connaissance parfaite des revenus et du train de vie de tout un chacun. En outre, la numérisation de l’argent aurait une répercussion fiscale bénéfique pour les États en déficit chronique qui généraliserait la taxe Tobin défendue par les altermondialistes à toutes les transferts financiers possibles.

Ce processus a commencé depuis longtemps. En France, il est interdit d’effectuer des paiements supérieurs à 3 000 euros en liquide auprès des commerçants et d’autres organismes. Dans son excellente lettre confidentielle, Emmanuel Ratier signale qu’« en septembre 2009, dans l’indifférence totale des médias, la directive de L’Union européenne 2009/110/E.C. créait la “ monnaie électronique ”, une monnaie encore plus “ abstraite ” que les billets, puisqu’étant entièrement dématérialisée. L’objectif caché étant évidemment de renforcer le contrôle, pas seulement fiscal, des individus en limitant drastiquement la circulation de monnaie papier ou monnaie (au prétexte de supprimer l’« argent noir »). Le 4 décembre 2011, sous la pression du nouveau Premier ministre Mario Monti (Goldman Sachs + Bilderberg Group), l’Italie interdisait les paiements en espèces au-dessus de 1 000 euros. Dès le 1er août 2012, cette mesure sera appliquée par l’Allemagne (ce qui sera une vraie révolution, les cartes bancaires étant peu utilisées) et, sans doute, en 2013, par la Belgique (28) ». Le banquier social-démocrate-chrétien libéral Mario Monti, loué par Jacques Attali qui le plaça dans sa « Commission pour la croissance » voulue par Sarközy, veut maintenant empêcher « toute transaction en liquide d’un montant de plus de 50 euros. Au-delà, seul l’usage de la carte bancaire électronique serait accepté. Le gouvernement a annoncé qu’il souhaiterait que cette mesure soit appliquée dès 2013 (29) ». Faut-il en être surpris ? En effet, « pour certains observateurs, [cette mesure] représente également une étape vers la suppression pure et simple de l’argent liquide au profit des transactions uniquement électroniques (30) ». Il semble toutefois que ce projet de loi aurait finalement été retiré, car il contreviendrait à l’Union économique et monétaire et à la Zone euro. Rappelons que les commerçants qui acceptent les paiements par carte bancaire doivent accepter le prélèvement d’un certain pourcentage par leurs banques alors que la numérisation est promue au nom de la réduction des  coûts ! Il est évident que l’objectif n’est pas de faire des économies (31).

On sait depuis la fin du XVIIIe siècle que « l’enfer est pavé de bonnes intentions ». Sous couvert de satisfaire leurs clients, les banques inféodées à l’oligarchie mondialiste et à leurs larbins étatiques préparent le pire des mondes possibles d’ailleurs prévu par Jonathan Swift, Aldous Huxley et George Orwell. Guerre aux banques ! Et il importe dès à présent de s’extraire des rets du bankstérisme et de concevoir ce que ses oligarques craignent le plus : se détourner des réseaux financiers habituels et plutôt miser sur le développement, même informel, voire – le cas échéant – illégal, du troc, des S.E.L. (systèmes d’échanges locaux), de l’entr’aide mutuelle, créatrice de lien social proxémique, et de monnaies parallèles.

Proposition utopique ? Nullement ! Depuis quelques temps, les « Européens d’en-bas », confrontés à la violente crise économique, redécouvrent les vertus de la sobriété, les joies des « jardins ouvriers » ou « familiaux », prélude à l’inévitable autarcie, et la nécessité de détenir une monnaie libérée du joug de la Finance mondialiste. Ce sont les « monnaies complémentaires ».

Pour des monnaies libres !

Par « monnaie complémentaire », il faut entendre des monnaies libérées de la finance et des taux de change. S’apparentent à cette logique les bons de réduction dans la grande distribution, les fameux « miles » des entreprises de transports et les chèques-déjeuner. « Partout dans le monde, des communautés créent de nouvelles monnaies : les S.E.L. (système d’échange local) permettent aux individus d’échanger leurs compétences, comptées en unités de temps. Le SOL (abréviation de solidaire), expérimentés en France par une dizaine de communes, fonctionnent sur carte à puce comme une carte de fidélité dans un magasin – sauf que c’est tout un réseau de magasins et d’institutions qui participent au système (32). » On pourrait objecter que cette mode ne touche que l’Hexagone. Erreur ! « En Allemagne, plus d’une trentaine de monnaies régionales (appelées regio) ont cours. L’Argentine a passé le pire moment de sa financière, entre 1998 et 2002, avec des systèmes privés d’échange qui ont impliqué jusqu’à six millions de personnes. Au Brésil, dans un bidonville de Fortaleza, la Banco Palmas délivre depuis dix ans des micro-crédits avec le palma, sa monnaie, qui présente un taux d’intérêt très faible. Elle a ainsi créé 3200 emplois. D’autres villes brésiliennes commencent à imiter cette démarche (33). » Au Venezuela bolivarien du Commandante Hugo Chavez, « la banque centrale a publié un texte encadrant la création de “ monnaies communales ” qui seraient distribuées aux populations selon des critères “ d’égalité sociale ” (34) ». Ne sont-ce que des particularités sud-américaines ? Pas du tout ! Le maire de Naples, Luigi de Magistris, vient de demander le lancement du napo, la monnaie municipale napolitaine (35). Mieux encore, en juin 2013, l’agglomération de Nantes, ville dont le premier magistrat a été le Premier ministre, Jean-Marc Ayrault, va mettre en circulation une monnaie locale virtuelle en parité avec l’euro et non convertible. Il s’agit « de favoriser et accélérer les échanges économiques, en aidant les entreprises à se financer à moindre coût. […] Les entreprises adhérentes qui choisiront ce moyen d’échange ne seront pas obligées de puiser dans leur trésorerie en euros et risqueront donc moins d’agios. [En revanche], accepter un paiement en monnaie locale ne sera intéressant pour une entreprise que si elle est sûre de pouvoir rapidement le dépenser (36) ».

Ces exemples monétaires différenciés se réfèrent aux travaux de l’économiste Silvio Gesell qui théorisa l’obsolescence programmée de l’argent afin d’éviter la thésaurisation. Le Chiemgauer, une monnaie locale allemande, a des « billets (très colorés, de 1, 2, 5, 10, 20 et 30 Chiemgauer) [qui] ont une durée de vie de trois mois, au-delà desquels ils perdent 2 % de leur valeur par trimestre. Aucun billet ne dort au fond d’un tiroir (37) ».

Au-delà du cas allemand et des exemples précédents, signalons aussi le boon kut chum, monnaie du district de Kut Chum en Thaïlande (38) ou le Brixton pound ou le Stroud pound en Grande-Bretagne pour le quartier de Brixton au Sud de Londres et pour la ville de Stroud dans le Gloucestershire (39). Hervé Kempf pense que ce « mouvement est stimulé par l’affaissement du système financier capitaliste et va prendre une autre ampleur grâce aux nouvelles technologies. Les téléphones portables deviennent un moyen de paiement électronique (40) ». Il faut néanmoins faire attention à ne pas verser dans une technophilie, parfois béate, potentiellement dangereuse pour les libertés concrètes.

L’initiative de lancer une « devise alternative » est souvent prise parce que « le quartier entend ainsi se “ protéger ” de l’invasion des chaînes internationales (41) ». Ces monnaies locales non spéculatives, insiste la journaliste de Libération, « ont un objectif commun : soutenir l’économie régionale contre les méfaits de la globalisation (42) ». « On va déposséder les banques du pouvoir de faire la monnaie (43) », s’exclame Jean-François Noubel. Redoutons par conséquent la féroce réaction du Système. « Aux États-Unis, dans les années 1930, on comptait près de 5000 monnaies locales. Le président Roosevelt a fini par les interdire parce qu’il craignait qu’elles ne déstabilisent encore plus les banques (44). » Dans cette perspective probable de répression à venir, à nous de préparer les bases autonomes durables (B.A.D.) en Fort Chabrol offensifs !

Georges Feltin-Tracol

Notes

1 : Laurence Allard, « Une carte S.I.M. en guise de porte-monnaie », Le Monde diplomatique, mai 2012.

2 : Monique Pinçon-Charlot et Michel Pinçon, « Nous vivons sous le régime de l’oligarchie financière », Le Monde, 18 juin 2011. Il est piquant que les auteurs dénoncent l’hyperclasse hexagonale dans l’un de ses organes de presse…

3 : Alain Supiot, « Voilà “ l’économie communiste de marché ” », Le Monde, 25 janvier 2008.

4 : Frédéric Julien, Pour une autre modernité. Relever le défi américain, Éditions du Trident, coll. « Études solidaristes – Cercles Louis-Rossel », Paris, 1985, p. 54.

5 : Idem, p. 50.

6 : Natacha Tatu, « États-Unis, vies à crédit », Le Nouvel Observateur, 5 janvier 2012, p. 66.

7 : Id.

8 : Id., p. 67.

9 : Id.

10 : Hervé Juvin, Le renversement du monde. Politique de la crise, Gallimard, coll. « Le débat », Paris, 2010, p. 15.

11 : Natacha Tatu, art. cit., p. 68.

12 : Id.

13 : Hervé Juvin, op. cit., p. 62.

14 : Frédéric Julien, op. cit., p. 63.

15 : Hervé Juvin, op. cit., p. 83.

16 : cité par Rafaële Rivais, « Ces bons clients remerciés par leur banque », Le Monde, 5 janvier 2010.

17 : Édouard Ropiquet, « Les téléphones porte-monnaie trop faciles à pirater ? », Aujourd’hui en France, 30 juillet 2012.

18 : Monique Pinçon-Charlot et Michel Pinçon, art. cit.

19 : Hervé Juvin, op. cit., p. 8.

20 : Frédéric Julien, op. cit., pp. 51 – 52, souligné par l’auteur.

21 : Hervé Juvin, op. cit., p. 67.

22 : Entretien avec Olivier Le Courtois, La Tribune – Le Progrès, 8 juin 2011.

23 : Hervé Juvin, op. cit., pp. 16 – 17.

24 : Entretien avec Olivier Le Courtois, art. cit.

25 : Hervé Juvin, op. cit., p. 66.

26 : Entretien avec Olivier Le Courtois, art. cit.

27 : Hervé Juvin, op. cit., p. 75.

28 : Emmanuel Ratier, Faits et Documents, n° 331, du 1er au 15 mars 2012, p. 8.

29 : « Italie : vers l’interdiction des transactions en liquide de plus de 50 euros », mis en ligne sur Novopress, le 18 septembre 2012.

30 : Id.

31 : Dans le Nord de la France, des entreprises essaient un nouveau système de paiement avec une reconnaissance digitale ! On met sa main dans la machine et le compte est débité ! Bien entendu, on perd moins de temps à la caisse…

32 : Hervé Kempf, « Et si on essayait ? Créer des monnaies par millions », Le Monde, 19 août 2009.

33 : Id.

34 : Patrick Bèle, Le Figaro, 9 octobre 2012.

35 : cf. Libération, 26 septembre 2012.

36 : « Une monnaie locale virtuelle à Nantes », Libération, 12 octobre 2012.

37 : Nathalie Versieux, « Le Chiemgauer et autre Justus défient l’euro », Libération, 4 mars 2009.

38 : cf. Courrier international, n° 853, du 8 au 14 mars 2007.

39 : Virginie Malingre, « Mon quartier, ma monnaie », Le Monde, 18 septembre 2009.

40 : Hervé Kempf, art. cit.

41 : Nathalie Versieux, art. cit.

42 : Id.

43 : cité par Hervé Kempf, art. cit.

44 : Virginie Malingre, « Des devises qui riment avec crises », Le Monde, 18 septembre 2009.


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mercredi, 07 novembre 2012

De Tien Mythes van het Kapitalisme

De Tien Mythes van het Kapitalisme

 
Ex: http://vrijenationalisten.blogspot.com/

Het kapitalisme, in haar neoliberale versie heeft zichzelf uitgeput. Financiële uitbuiters willen hun winsten niet verliezen en schuiven de schuldenlast door naar de armen. De geest van de "Europese lente" plaagt de oude wereld en de tegenstanders van het kapitalisme leggen het volk uit hoe hun leven wordt vernietigd. Dit is het onderwerp van het artikel van de Portugese economist Guilherme Alves Coelho.  

Er bestaat een bekende uitdrukking die stelt dat elke natie de regering krijgt die deze verdient. Dit is niet per definitie waar. Het volk kan misleid worden door agressieve propaganda dat vorm krijgt in denkbeelden die gemakkelijk gemanipuleerd worden. Leugens en manipulatie zijn het hedendaagse massavernietigingswapen en onderdrukken het volk. Het is net zo effectief als traditionele manieren van oorlogsvoering. In veel gevallen vullen zij elkaar zelfs aan. Beide methoden worden gebruikt om verkiezingen te winnen en dissidente naties te vernietigen.

Er zijn veel manieren om de publieke opinie te beïnvloeden waarin de kapitalistische ideologie geworteld is en naar het niveau van mythes gebracht is. Het is een combinatie van allerlei valse waarheden die miljoenen keren herhaald worden, generatie na generatie, zodat deze voor de meeste mensen onbetwistbaar geworden zijn. Deze zijn ontworpen om het kapitalisme als betrouwbaar te representeren en daarmee de steun en het vertrouwen van de massa te winnen. Deze mythes worden gedistribueerd en gepromoot via media, educatieve kanalen, familie tradities, kerk lidmaatschappen, etc. Hieronder zullen we enkele van deze veelvoorkomende mythes behandelen.

Mythe 1: Onder het kapitalisme kan eenieder die hard werkt rijk worden 

Het kapitalistisch systeem zou automatisch welvaart genereren voor hard werkende individuen. Arbeiders vormden onbewust een illusoire hoop, als deze echter niet tot uitkomst kwam dan zouden ze enkel zichzelf de schuld kunnen geven. Feitelijk is onder het kapitalisme het behalen van succes ongeacht hoe hard je ook werkt hetzelfde als een loterij. Rijkdom, met zeldzame uitzonderingen, wordt niet door hard werk gecreëerd, maar is het resultaat van fraude en een gebrek aan wroeging voor diegene die een grotere invloed en macht hebben. Het is een mythe dat succes het resultaat van hard werk is gecombineerd met een gezonde dosis geluk, feitelijk hangt succes voornamelijk af van het vermogen om deel te nemen aan het ondernemerschap en het niveau van het concurrentievermogen. Deze mythe creëert volgelingen die dit systeem ondersteunen. Religie, in het bijzonder protestantisme, voedt eveneens deze mythe.

Mythe 2: Kapitalisme creëert welvaart en rijkdom voor allen

Rijkdom geaccumuleerd in de handen van een minderheid zou vroeg of laat herverdeeld worden onder allen. Het doel hiervan is om de werkgever in staat te stellen alle rijdom te accumuleren zonder dat er vragen gesteld worden. Tegelijkertijd wordt de hoop in stand gehouden dat de arbeiders uiteindelijk beloond zullen worden voor hun werk en toewijding. In feite concludeerde zelfs Marx dat het ultieme doel van kapitalisme niet de distributie van welvaart is maar de concentratie ervan. Het alsmaar groter wordende gat tussen arm en rijk de recente decennia, in het bijzonder na de invoering van het neoliberalisme is hier het bewijs van. Deze mythe kwam het meest voor tijdens de fase van de "sociale verzorgingsstaat" van de post oorlogsperiode en haar belangrijkste taak was dan ook de vernietiging van socialistische naties.

Mythe 3: We zitten allen in hetzelfde schuitje

De kapitalistische samenleving zou geen klassen kennen en dus zou de verantwoording voor fouten en crisissen bij allen liggen en moet iedereen hiervoor betalen. Het doel hiervan is om een schuldcomplex te creëren voor de arbeiders, zodat kapitalisten verhogingen van inkomsten en uitgaven kunnen verhalen op het volk. In feite ligt de verantwoordelijkheid geheel bij de elite van miljardairs die de regering steunen en dientengevolge altijd grote privileges kennen in taxatie, offertes, financiële speculatie, offshore, nepotisme, enz. Deze mythe is door de elites geïnstalleerd om zo de verantwoordelijkheid ten opzichte van het volk te omzeilen en hen te laten betalen voor de fouten die door de elite gemaakt zijn.

Mythe 4: Kapitalisme betekent vrijheid

Echte vrijheid zou enkel bereikt kunnen worden onder het kapitalisme door de zogenaamde "zelfregulatie van de markt". Het doel hiervan is om een soort kapitalistische religie te creëren waarin alles wordt genomen voor wat het is en waarmee het volk het recht wordt ontnomen om te participeren in macro-economische besluiten. Uiteraard is de vrijheid van besluitvorming een ultieme vrijheid, maar in de kapitalistische praktijk kent enkel een kleine cirkel van machtige individuen deze vrijheid en wordt dit recht het volk en zelfs de regering ontzegd. Tijdens bijeenkomsten en fora worden, achter gesloten deuren, beslissingen genomen omtrent alle grote financiële, economische en strategische vraagstukken door de hoofden van grote conglomeraten, banken en supranationale bedrijven. De markt is dus niet zelfregulerend, maar wordt voortdurend gemanipuleerd. Deze mythe wordt eveneens gebruikt om inmenging te rechtvaardigen in de binnenlandse aangelegenheden van niet-kapitalistische landen, gebaseerd op de aanname dat deze geen vrijheid zouden kennen.

Mythe 5: Kapitalisme betekent democratie

Democratie zou enkel onder het kapitalisme kunnen bestaan. Deze mythe, die eigenlijk voortvloeit uit de voorgaande, was gecreëerd om iedere discussie over andere modellen van sociale orde tegen te gaan. In de kapitalistische beleving zouden deze immers allen dictatoriaal zijn. Kapitalisme wordt het alleenrecht aangemeten op concepten zoals vrijheid en democratie, terwijl hun feitelijke betekenis wordt vervormd. In de praktijk is de kapitalistische samenleving ingedeeld in klassen waarin de minieme minderheid van rijken alle andere klassen domineert. De kapitalistische "democratie" is niets anders dan een vermomde dictatuur en "democratische hervormingen zijn processen die vooruitgang in de weg staan. Net als de vorige mythe is dit enkel een excuus om niet-kapitalistische landen te bekritiseren en aan te vallen.

Mythe 6: Verkiezingen zijn synoniem voor democratie 

Verkiezingen zouden hetzelfde zijn als democratie. Het doel hiervan is om andere systemen te demoniseren en discussie, over politieke en electorale systemen waarin leiders worden verkozen door niet-bourgeois verkiezingen, te voorkomen. Feitelijk is het, het kapitalistisch systeem dat manipuleert en omkoopt terwijl de stem is gereduceerd tot een conditionele term en verkiezingen tot een formele daad. Alleen al het feit dat de verkiezingen praktisch altijd gewonnen worden door vertegenwoordigers van de bourgeois minderheid maakt hen onrepresentatief. Dat bourgeois verkiezingen een vorm van democratie zouden garanderen is een van de meest diepgewortelde mythes die zelfs door enkele linkse en nationalistische krachten wordt geloofd.

Mythe 7: Afwisselende partijen in het parlement is hetzelfde als een alternatief hebben

Bourgeois partijen die elkaar periodiek afwisselen in de macht zouden alternatieve platformen bieden. Het doel is echter om het kapitalistische systeem te bestendigen binnen de heersende klasse om zo de mythe te voeden dat democratie gereduceerd is tot verkiezingen. Het is dan ook duidelijk dat een parlementair systeem met meerdere partijen in de praktijk niet veel verschilt van een een-partij systeem. Het gaat immers om meerdere fracties van dezelfde politieke kracht die elkaar van tijd tot tijd afwisselen en zich voordoen als een partij met een alternatief beleid. Het volk kiest altijd een agent van het systeem, terwijl zij de illusie houden dat ze een keus hebben. De mythe dat bourgeois partijen verschillende platforms hebben en zelfs in oppositie tegenover elkaar staan is van fundamenteel belang om het kapitalistisch systeem te laten werken.

Mythe 8: De verkozen politicus representeert het volk en kan daarom voor hen beslissen

De politicus heeft mandaat verkregen van het volk en kan dus regeren vanuit eigen inzicht. Het doel van deze mythe is om het volk lege beloften voor te houden om zo de echte maatregelen die in de praktijk doorgevoerd worden te verbergen. De verkozen leider vervult zijn verkiezingsbeloften niet maar implementeert stilgehouden maatregelen die vaak conflicteren met de originele constitutie. Vaak bereiken zulke politici die door een actieve minderheid verkozen zijn, in het midden van hun mandaat, hun minimale populariteit. In deze gevallen leidt het verlies van representatie niet tot een politieke verandering via constitutionele middelen, maar leidt het tot een degeneratie van de kapitalistische democratie in een echte of verhulde dictatuur. De systematische vervalsing van democratie onder het kapitalisme is een belangrijke reden waarom steeds meer mensen niet langer deelnemen aan de verkiezingen.

Mythe 9: Er bestaat geen alternatief voor het kapitalisme

Kapitalisme zou niet perfect zijn, maar zou het enige politieke en economische systeem zijn dat werkt. Het doel hiervan is om de studie en promotie van andere systemen te voorkomen en alle ideologische competitie met alle mogelijke middelen - inclusief geweld - te elimineren. Uiteraard zijn er andere politieke en economische systemen, waarvan het socialisme wellicht een van de meest bekende is. Deze mythe is bedoeld om het volk te intimideren en discussie over eventuele alternatieven voor het kapitalisme te elimineren en zo unanimiteit te garanderen.

Mythe 10: Bezuinigingen generen welvaart

De economische crisis zou zijn veroorzaakt door een overmaat aan sociale voorzieningen en arbeidsvoorwaarden. Als deze ingetrokken zouden worden dan zou de regering weer veilig zijn en het land weer rijk worden. Het doel hiervan is om aansprakelijkheid van de kapitalistische schuld af te wentelen op de publieke sector. Een ander doel is om het volk zo de armoede te laten accepteren met de leugen dat deze armoede tijdelijk zou zijn. Een andere belangrijke doelstelling is de facilitatie van de privatisering van de publieke sector. Het volk wordt ervan overtuigd dat besparingen en bezuinigingen "de verlossing" biedt zonder erbij te vermelden dat deze bereikt wordt door de privatisatie van de meest winstgevende sectors waarbij de toekomstige inkomsten verloren gaan. Dit beleid leidt tot een daling van staatsinkomsten en een afbraak van de publieke sector en alle sociale voorzieningen.

 

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dimanche, 28 octobre 2012

Japan: Im September größtes Handelsdefizit seit 1979

Japan: Im September größtes Handelsdefizit seit 1979

Redaktion

Vor dem Hintergrund der anhaltenden Krise in Europa und zunehmender Spannungen mit seinem wichtigsten Handelspartner China verzeichnete Japan im September dieses Jahres seinen schwersten Einbruch im Handel seit mehr als 30 Jahren.

Das japanische Handelsdefizit erhöhte sich im September auf 558,6 Milliarden Yen (etwa 5,34 Milliarden Euro), da die Exporte im Jahresvergleich um 10,3 Prozent eingebrochen waren, wie das Finanzministerium am vergangenen Montag bekannt gab. Die Handelsbilanz  im September markiert den Wendepunkt von einem Handelsüberschuss von 288 Milliarden Yen (2,7 Milliarden Euro) im vergangenen Jahr zum nunmehr größten Handelsdefizit seit 1979, berichtete der Londoner Telegraph.

Am schwersten betroffen war die japanische Automobilindustrie. Dort ging der Export im September im Vergleich zum Vorjahr um 15 Prozent zurück. Auch im Kernbereich, der Unterhaltungselektronik, brach der Export im zweistelligen Bereich ein.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/drucken.html?id=10474/

samedi, 20 octobre 2012

VRAAGGESPREK MET YVES PERNET

VRAAGGESPREK MET YVES PERNET OVER ZIJN VISIE OP EEN AANTAL ECONOMISCHE VRAAGSTUKKEN

http://vrijdietschland.blogspot.be/

Een tijdje geleden mocht ik enkele vragen stellen aan Yves Pernet (onafhankelijk politiek en economisch analist en overtuigd solidarist) over zijn visie op een aantal economische vraagstukken. Vragen én antwoorden vindt u hieronder.

- Madoc van Waas: Yves, hoe een autarkie (een 'gesloten' economisch systeem) tot stand brengen in een wereld waar de globalistische en kapitalistische logica alles domineert en de NAVO en andere supermachten (voornl. de VSA) (met kernwapens) klaar staan om ieder niet-kapitalistisch land te bedreigen en aan te vallen manu militari?

Yves Pernet: Wanneer men spreekt over een autarkie is het nodig om met bepaalde zaken rekening te houden. In de eerste plaats moet je bepalen over welk gebied je een autarkie wilt installeren. Bij mijn weten is er maar één land ter wereld dat ik in staat zie om een autarkie in te voeren en dat is Rusland. Zelfs wanneer men Europa als een geheel neemt, is de autarkie niet mogelijk vanwege de noodzaak aan fossiele brandstoffen. Discussiëren over de wenselijkheid en mogelijkheid van autarkie zijn mijn inziens leuke denkspelletjes, maar niet relevant in de wereld van vandaag de dag.

- MvW: En hoe zelfvoorziening tot stand brengen?

YP: Dat hangt er van af wat je onder zelfvoorziening verstaat. Bedoel je de autarkie, zoals hierboven reeds besproken, dan is het zo goed als onmogelijk. Wanneer je echter spreekt over de zelfvoorziening in basisbenodigdheden, dan is het een andere zaak. Door een herwaardering van de boerenarbeid in de eigen gemeenschap, door bijvoorbeeld het zoveel mogelijk afsluiten van voedselimport en de subsidiëring van de eigen landbouwproducten, kan men reeds in bepaalde mate zelfvoorzienend worden. Men mag echter ook de demografische realiteit niet vergeten en het historisch perspectief. Onze bevolkingsaantallen eisen nu eenmaal grote hoeveelheden voedselimport, een fenomeen dat reeds in onze streken gekend is sinds de late middeleeuwen. Reeds in de 15de eeuw was bijvoorbeeld het hertogdom Brabant voor meer dan 20% van zijn voedsel afhankelijk van import (toen vooral uit de Baltische staten).

- MvWHoe kunnen we de globalisering zo snel mogelijk een halt toeroepen?

YP: Twee woorden: koop lokaal. Zo simpel is het werkelijk. Negeer de grote multinationals zoveel je kan en ga inkopen doen in buurtwinkels. Dat is niet gemakkelijk, de kostprijs is vaak hoger en door de inflatie voel je dat veel sneller, maar dat is het snelste alternatief voor het globalisme. Voor de rest zal het globalisme zichzelf een halt toeroepen door gewoon in te storten. Het overleeft nu al door gigantische kapitaalinjecties in de economie.

- MvWHoe kunnen we de delokalisatie (wegtrekken van voornamelijk grote multinationale en industriële bedrijven) verhinderen en hoe kunnen we verankering tot stand brengen?

YP: Stoppen met het voortrekken van de grote multinationals en een ronduit vijandig beleid tegenover hen voeren. Daaraan een campagne koppelen om de eigen keuken te promoten en voor te trekken. Laat de vettaks maar komen en belast fastfood met een belastingsniveau van minstens 40%, terwijl je vitaminenrijk voedsel van eigen bodem een belastingsniveau van maximaal 5% toekent. De BTW-tarieven zijn een machtig wapen in het bepalen van consumptiegedrag. Dit zal in de eerste plaats zorgen voor banenverlies in de sectoren waar de multinationals aanwezig waren, maar men moet dit koppelen aan lagere kosten voor startende bedrijven (en lagere kosten voor kleine en middelgrote bedrijven tout court) om zo familiebedrijven en KMO's te ondersteunen om die gaten in de markt te vullen.

 
- Wat met ons monetair systeem (specifiek Europees maar ook globaal en internationaal)? Wat met de goudstandaard en hoe deze herinvoeren?

De  goudstandaard morgen hier invoeren heeft één gigantisch voordeel en één gigantisch nadeel. Het voordeel is dat we een gigantische toename aan rijkdom gaan kennen doordat miljarden en miljarden aan geld naar ons gaat vloeien. Het nadeel is dat andere staten met zoiets niet kunnen lachen, de kapitaalsvlucht zou hen fataal worden, en dat zij niet zullen aarzelen om manu militair dat beleid ongedaan te maken.

- Klassenstrijd of klassenverzoening?

Klassenverzoening, in de mate dat we binnenkort nog gaan kunnen spreken van de traditionele klassen.

- Leidt arbeid volgens jou tot zelfverwezenlijking? (En zo ja, maak je je dan niet schuldig aan dezelfde punten waar het liberalisme en het marxisme zich schuldig aan maken?)

Uiteraard leidt arbeid tot zelfverwezenlijking, dat is net wat de Derde Weg onderscheidt van de Verlichtingsideologieën. Marxisme ziet arbeid als een proces waarin de arbeider grondstoffen omvormt tot een product met meerwaarde, een liberaal ziet arbeid als een gegeven binnenin een groot productieproces dat moet leiden tot winst. Voor de Derde Weg is arbeid bijna een doel op zich, aangezien het net de mens aanzet tot zelfontplooiing. Uiteraard mag je arbeid niet verengen tot de dagelijkse beroepsbezigheden, maar moet je dit doortrekken naar alle vormen van menselijke activiteit waarbij men het ene goed omzet naar een ander, liefst met als doel een verrijking.

- Wat zijn je punten van kritiek op het marxisme?

Daar kan ik een halve bibliotheek over volschrijven. Mijn inziens is de kern van de marxistische filosofie, dan ben ik nog niet bezig over de praktische uitwerking, al ronduit ketters, wegens gebrek aan een ander woord. Het is een ketterij op het vlak van religieuze beleving, marxisme verkondigt immers een ronduit messianistisch beeld waarbij het Paradijs hier op Aarde gebouwd kan worden zolang we ons maar onderwerpen aan de marxistische dogmatische richtlijnen. Marxisten zullen verkondigen dat zij, in tegenstelling tot religie, zich niet onderwerpen aan dogma's, maar dat is niet waar. Zij zien het inderdaad niet als dogma's, maar als een onbediscussieerbare waarheid. Tenslotte komt het altijd op enkele dingen neer; de mens is alleen (geen God), de mens dient vrij te zijn van dogma's of religieuze axioma's, alle menselijke historische feiten zijn terug te brengen tot socio-economische factoren en de mens wordt momenteel onderdrukt doordat hij de vruchten van zijn arbeid niet krijgt. Ook is de mens een onbeschreven blad dat enkel slecht wordt door negatieve impulsen die hij krijgt door de conformering aan maatschappelijk gezag (normen, waarden en tradities). Een compleet fout mensbeeld, zo uit de waanbeelden van Rousseau geplukt. Niet dat ik dit metafysisch verwerp, aangezien de realiteit me gelijk geeft. Het voorste deel van onze hersenen bevatten onze remmingen. Zelfs extreme schade daaraan kunnen wij overleven, maar dan wordt de mens teruggebracht naar zijn primitieve gedragingsfase, namelijk zonder sociale conventies en normen en waarden. Resultaat? Een egoïstisch wezen dat enkel aan zijn eigen direct belang denkt. Biologie 1 – 0 marxisme dus. Het marxisme gelooft ook in de blinde Terreur in naam van de waarheid (cfr. Rousseau met de volonté générale, uitgevoerd door Robbespierre en de jacobijnen en vandaag de dag nog altijd verdedigd door mensen als Zizek).

Maar het marxisme trekt ook de mens los uit zijn historische, organische context en probeert de mens te ontdoen van zijn mythisch tijdsbesef en van de historische context. Mythisch tijdsbesef houdt in dat de mens zijn afkomst niet enkel historisch factueel ervaart (ik ben het kind van mijn ouders die kinderen waren van hun ouders die kinderen waren van hun ouders etc...), maar ook zich zal identificiëren met de mythische geschiedenis van zijn afkomst (ik ben deel van religieuze gemeenschap X, gesticht door religieus figuur X die mirakels Y en Z deed). Tevens rukt het de mens los uit z'n historische context doordat het de geschiedenis terugbrengt naar een optelsom van egoïstische daden of het smoren van vrijheid. Die twee dingen zijn uiteraard in grote mate aanwezig in de geschiedenis, maar zijn niet altijd de bepalende factor geweest.

Voor mijn kritiek op de praktische uitwerking van het marxisme moet ik enkel maar verwijzen naar succesverhalen van het marxisme. Voorbeelden zijn legio: Noord-Korea, Cambodja, de Sovjetunie, het Oostblok. Voor een regime als dat van Castro, en zelfs dat van Vietnam, kan ik nog wat sympathie opbrengen (veel meer voor eerstgenoemde dan voor laatstgenoemde), maar die regimes verschillen ook in de mate dat zij een nationalistische opstand waren waarbij de nationale en sociale breuklijnen gelijkvielen.

- Klopt de stelling van Marx dat er een wisselwerking is tussen economie en cultuur en is economie echt wel de onderbouw van de samenleving?

Kort gezegd: ja. Maar dat is niet enkel de visie van Marx, maar de visie van zowat elke serieuze persoon en organisatie die zich bezig houdt met politiek of economie. Ook de Kerk bijvoorbeeld erkent dat economie direct verbonden is aan maatschappelijke tendensen en heeft, onder andere, daarom een duidelijke sociaal-economische leer afgebakend. Het is echter niet allesbepalend.

- Ben jij een aanhanger van de vooruitgangsideologie?

Nee. Wanneer het aankomt op de strijd tussen “vooruitgang”, zoals geponeerd door de Verlichtingsdenkers, ben ik te plaatsen tussen de conservatieven en reactionairen.

- ...En moeten we niet naar een versobering (om gelukkiger te worden; dit is taboe en komt moeilijk aan de man, maar is het geen waardevolle gedachte)?

Dat klopt. Maar vertel tegen de gemiddelde man dat ons systeem er voor zorgt dat zijn brood en pint goedkoper wordt, dan zal die al snel bijdraaien.

- Distributisme is het verdelen van de productiemiddelen (arbeid, kapitaal, enz.) over de bevolking. Hoe werkt dit in de praktijk?

Dit boek http://www.amazon.co.uk/Toward-Truly-Free-Market-Distributist/dp/161017027X/ref=sr_1_1?ie=UTF8&qid=1327548333&sr=8-1 legt het veel beter uit dan dat ik ooit zou kunnen. Warm aanbevolen!

- Zijn investeringen van het grootkapitaal niet noodzakelijk om een economie draaiende te houden? 

Uiteraard. Maar men moet het grootkapitaal ook niet als een groot monoliet blok zien. Het grootkapitaal valt uiteen in grofweg twee sectoren. Enerzijds heb je de financiële sector die de grote geldstromen beheerst (niet zoals in een planeconomie, maar eerder zoals men met rivierdammen en sluizen een rivier probeert te beheersen) en zorgt voor het kapitaal van de tweede sector: de harde industriële sector die producten produceert en verspreidt. Investeringen zijn uiteraard nodig, maar de grote geldstromen en opbrengsten zijn heus niet gericht op de KMO's: die mogen de kruimels oprapen van de grote bedrijven. Het is fout om te spreken van de terreur  van vrije markt, aangezien we die niet hebben momenteel. Correcter is om te spreken van een globale oligarchie waarbij de kleintjes tevreden waren omdat de kruimels die groten lieten vallen groot genoeg waren. Helaas voor hen is de taart veel kleiner en valt er véél minder van tafel.

- KMO's zijn van enorm groot belang, maar kan je echt een hele economie draaiende houden met enkel KMO's? 

Het globalisme, zoals we dat vandaag de dag kennen, kan je daar niet mee draaiende houden. Je kan daar echter wel een mooi niveau van welvaart mee verzekeren en vooral inflatie mee onder controle houden (de geldcreatie en -stromen zullen afnemen). Vergeet trouwens niet dat het merendeel van de grote wereldrijken voor de opkomst van het kapitalisme gewone landbouwsamenlevingen waren.

- Hoe armoede het best bestrijden? 

Om te beginnen: activering van werklozen en achter de veren zitten. Een tijd ben ik meegestapt in het verhaal van “armen willen de werkloosheid heus niet”. Dat is een feit voor het merendeel van de armen, laat daar geen twijfel over bestaan. Maar ik weet ondertussen ook uit ervaring dat er effectief zijn die ronduit parasiteren op het systeem en niet de minste moeite doen. Liever de aandacht trekken met arm zijn dan er effectief iets aan te doen. Hoe cliché het mag klinken: de eerste stap uit de armoede is werk.

Maar vervolgens moet je die mensen ook opvolgen dat zij hun geld niet op gaan zuipen op café. Als er subsidies moeten zijn, laat die dan naar het middenveld gaan die, om het cru te zeggen, die mensen bezig houdt. Laat ze voor een goed doel werken, alles is beter dan niets doen en dan maar uit verveling zichzelf lam gaan zuipen.

- Wat met ontwikkelingshulp

In beperkte mate en doelsgericht kan dit van nut zijn. Nu dient het enkel om bestaande armoede te laten bestaan en in vele gevallen zelfs te vergroten. Het versmacht de lokale markten en verhindert elke opbouw van een eigen economie (door producten zoals voedsel in enorme massa's te dumpen en zo geen productiefactoren op te bouwen).

- Madoc van WaasWat vind je van de begroting 2012 van de regering-Di Rupo I ? En wat moet - conform het solidarisme - de verhouding belastingen/besparingen zijn in een begroting? 

Yves Pernet: Momenteel moet er voor 100% naar besparingen gekeken worden. Meer belastingen in tijden van crisis is verdedigbaar als je niet reeds onder zo'n gigantische belastingsdruk leeft als in België. Stroomlijn de administratie van de ambtenarij maar eens. Een voorbeeld: in de Knack van deze week staat een interview met iemand van Straten Generaal die vertelde hoe hij een e-post kreeg van een Vlaams minister met de vraag om een kopie van een document dat Straten Generaal een tijd daarvoor had opgevraagd. Waarom? Omdat Straten Generaal zo'n documenten sneller kon bovenhalen dan de Vlaamse administratie zelf. Veelzeggend. Maar ook in de cultuursector mag het grote mes. Cultuur is voor het overgrote merendeel altijd een private gelegenheid geweest m.b.t. financiëring. Openbare financiëring van kunst was in uitzonderlijke gevallen: bijvoorbeeld de financiëring van een standbeeld om iets te herdenken.

- Madoc van Waas: Bedankt voor dit vraaggesprek, Yves!

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mardi, 16 octobre 2012

Le testament de Maurice Allais (1911-2010)

2 ans déjà ! 

Le testament de Maurice Allais (1911-2010)

 
Le 9 octobre 2010, il y a deux ans, disparaissait Maurice Allais à l’âge respectable de 99 ans, qui avait tout annoncé…

Maurice AllaisC’était le seul prix Nobel d’économie français. Né le 31 mai 1911, il part aux États-Unis dès sa sortie (major X31) de Polytechnique en 1933 pour étudier in situ la Grande Dépression qui a suivi la Crise de 1929. Ironie de l’histoire, il a ainsi pu réaliser une sorte de “jonction” entre les deux Crises majeures du siècle. Son analyse, percutante et dérangeante, n’a malheureusement pas été entendue faute de relais.

Fervent libéral, économiquement comme politiquement, il s’est férocement élevé contre le néo-conservatisme des années 1980, arguant que le libéralisme ne se confondait pas avec une sortie de “toujours mois d’État, toujours plus d’inégalités” – qui est même finalement la définition de l’anarchisme. On se souviendra de sa dénonciation du “libre-échangiste mondialiste, idéologie aussi funeste qu’erronée” et de la “chienlit mondialiste laissez-fairiste”. Il aimait à se définir comme un “libéral socialiste” – définition que j’aime beaucoup à titre personnel.

Il a passé les dernières années de sa vie à promouvoir une autre Europe, bien loin de ce qu’il appelait “l’organisation de Bruxelles”, estimant que la construction européenne avait pervertie avec l’entrée de la Grande-Bretagne puis avec l’élargissement à l’Europe de l’Est.

RIP

Lettre aux français : “Contre les tabous indiscutés”

Le 5 décembre 2009, le journal Marianne a publié le testament politique de Maurice Allais, qu’il a souhaité rédiger sous forme d’une Lettre aux Français.

Je vous conseille de le lire, il est assez court et clair. Je le complète par divers autres textes surtout pour les personnes intéressées – même si cela alourdit le billet.

Maurice Allais

Le point de vue que j’exprime est celui d’un théoricien à la fois libéral et socialiste. Les deux notions sont indissociables dans mon esprit, car leur opposition m’apparaît fausse, artificielle. L’idéal socialiste consiste à s’intéresser à l’équité de la redistribution des richesses, tandis que les libéraux véritables se préoccupent de l’efficacité de la production de cette même richesse. Ils constituent à mes yeux deux aspects complémentaires d’une même doctrine. Et c’est précisément à ce titre de libéral que je m’autorise à critiquer les positions répétées des grandes instances internationales en faveur d’un libre-échangisme appliqué aveuglément.

Le fondement de la crise : l’organisation du commerce mondial

La récente réunion du G20 a de nouveau proclamé sa dénonciation du « protectionnisme » , dénonciation absurde à chaque fois qu’elle se voit exprimée sans nuance, comme cela vient d’être le cas. Nous sommes confrontés à ce que j’ai par le passé nommé « des tabous indiscutés dont les effets pervers se sont multipliés et renforcés au cours des années » (1). Car tout libéraliser, on vient de le vérifier, amène les pires désordres. Inversement, parmi les multiples vérités qui ne sont pas abordées se trouve le fondement réel de l’actuelle crise : l’organisation du commerce mondial, qu’il faut réformer profondément, et prioritairement à l’autre grande réforme également indispensable que sera celle du système bancaire.

Les grands dirigeants de la planète montrent une nouvelle fois leur ignorance de l’économie qui les conduit à confondre deux sortes de protectionnismes : il en existe certains de néfastes, tandis que d’autres sont entièrement justifiés. Dans la première catégorie se trouve le protectionnisme entre pays à salaires comparables, qui n’est pas souhaitable en général. Par contre, le protectionnisme entre pays de niveaux de vie très différents est non seulement justifié, mais absolument nécessaire. C’est en particulier le cas à propos de la Chine, avec laquelle il est fou d’avoir supprimé les protections douanières aux frontières. Mais c’est aussi vrai avec des pays plus proches, y compris au sein même de l’Europe. Il suffit au lecteur de s’interroger sur la manière éventuelle de lutter contre des coûts de fabrication cinq ou dix fois moindres – si ce n’est des écarts plus importants encore – pour constater que la concurrence n’est pas viable dans la grande majorité des cas. Particulièrement face à des concurrents indiens ou surtout chinois qui, outre leur très faible prix de main-d’œuvre, sont extrêmement compétents et entreprenants.

Il faut délocaliser Pascal Lamy !

Mon analyse étant que le chômage actuel est dû à cette libéralisation totale du commerce, la voie prise par le G20 m’apparaît par conséquent nuisible. Elle va se révéler un facteur d’aggravation de la situation sociale. À ce titre, elle constitue une sottise majeure, à partir d’un contresens incroyable. Tout comme le fait d’attribuer la crise de 1929 à des causes protectionnistes constitue un contresens historique. Sa véritable origine se trouvait déjà dans le développement inconsidéré du crédit durant les années qui l’ont précédée. Au contraire, les mesures protectionnistes qui ont été prises, mais après l’arrivée de la crise, ont certainement pu contribuer à mieux la contrôler. Comme je l’ai précédemment indiqué, nous faisons face à une ignorance criminelle. Que le directeur général de l’Organisation mondiale du commerce, Pascal Lamy, ait déclaré : « Aujourd’hui, les leaders du G20 ont clairement indiqué ce qu’ils attendent du cycle de Doha : une conclusion en 2010 » et qu’il ait demandé une accélération de ce processus de libéralisation m’apparaît une méprise monumentale, je la qualifierais même de monstrueuse. Les échanges, contrairement à ce que pense Pascal Lamy, ne doivent pas être considérés comme un objectif en soi, ils ne sont qu’un moyen. Cet homme, qui était en poste à Bruxelles auparavant, commissaire européen au Commerce, ne comprend rien, rien, hélas ! Face à de tels entêtements suicidaires, ma proposition est la suivante : il faut de toute urgence délocaliser Pascal Lamy, un des facteurs majeurs de chômage !

Plus concrètement, les règles à dégager sont d’une simplicité folle : du chômage résulte des délocalisations, elles-mêmes dues aux trop grandes différences de salaires… À partir de ce constat, ce qu’il faut entreprendre en devient tellement évident ! Il est indispensable de rétablir une légitime protection. Depuis plus de dix ans, j’ai proposé de recréer des ensembles régionaux plus homogènes, unissant plusieurs pays lorsque ceux-ci présentent de mêmes conditions de revenus, et de mêmes conditions sociales. Chacune de ces « organisations régionales » serait autorisée à se protéger de manière raisonnable contre les écarts de coûts de production assurant des avantages indus a certains pays concurrents, tout en maintenant simultanément en interne, au sein de sa zone, les conditions d’une saine et réelle concurrence entre ses membres associés.

Un protectionnisme raisonné et raisonnable

Ma position et le système que je préconise ne constitueraient pas une atteinte aux pays en développement. Actuellement, les grandes entreprises les utilisent pour leurs bas coûts, mais elles partiraient si les salaires y augmentaient trop. Ces pays ont intérêt à adopter mon principe et à s’unir à leurs voisins dotés de niveaux de vie semblables, pour développer à leur tour ensemble un marché interne suffisamment vaste pour soutenir leur production, mais suffisamment équilibré aussi pour que la concurrence interne ne repose pas uniquement sur le maintien de salaires bas. Cela pourrait concerner par exemple plusieurs pays de l’est de l’Union européenne, qui ont été intégrés sans réflexion ni délais préalables suffisants, mais aussi ceux d’Afrique ou d’Amérique latine.

L’absence d’une telle protection apportera la destruction de toute l’activité de chaque pays ayant des revenus plus élevés, c’est-à-dire de toutes les industries de l’Europe de l’Ouest et celles des pays développés. Car il est évident qu’avec le point de vue doctrinaire du G20, toute l’industrie française finira par partir à l’extérieur. Il m’apparaît scandaleux que des entreprises ferment des sites rentables en France ou licencient, tandis qu’elles en ouvrent dans les zones à moindres coûts, comme cela a été le cas dans le secteur des pneumatiques pour automobiles, avec les annonces faites depuis le printemps par Continental et par Michelin. Si aucune limite n’est posée, ce qui va arriver peut d’ores et déjà être annoncé aux Français : une augmentation de la destruction d’emplois, une croissance dramatique du chômage non seulement dans l’industrie, mais tout autant dans l’agriculture et les services.

De ce point de vue, il est vrai que je ne fais pas partie des économistes qui emploient le mot « bulle ». Qu’il y ait des mouvements qui se généralisent, j’en suis d’accord, mais ce terme de « bulle » me semble inapproprié pour décrire le chômage qui résulte des délocalisations. En effet, sa progression revêt un caractère permanent et régulier, depuis maintenant plus de trente ans. L’essentiel du chômage que nous subissons —tout au moins du chômage tel qu’il s’est présenté jusqu’en 2008 — résulte précisément de cette libération inconsidérée du commerce à l’échelle mondiale sans se préoccuper des niveaux de vie. Ce qui se produit est donc autre chose qu’une bulle, mais un phénomène de fond, tout comme l’est la libéralisation des échanges, et la position de Pascal Lamy constitue bien une position sur le fond.

Crise et mondialisation sont liées

Les grands dirigeants mondiaux préfèrent, quant à eux, tout ramener à la monnaie, or elle ne représente qu’une partie des causes du problème. Crise et mondialisation : les deux sont liées. Régler seulement le problème monétaire ne suffirait pas, ne réglerait pas le point essentiel qu’est la libéralisation nocive des échanges internationaux, Le gouvernement attribue les conséquences sociales des délocalisations à des causes monétaires, c’est une erreur folle.

Pour ma part, j’ai combattu les délocalisations dans mes dernières publications (2). On connaît donc un peu mon message. Alors que les fondateurs du marché commun européen à six avaient prévu des délais de plusieurs années avant de libéraliser les échanges avec les nouveaux membres accueillis en 1986, nous avons ensuite, ouvert l’Europe sans aucune précaution et sans laisser de protection extérieure face à la concurrence de pays dotés de coûts salariaux si faibles que s’en défendre devenait illusoire. Certains de nos dirigeants, après cela, viennent s’étonner des conséquences !

Si le lecteur voulait bien reprendre mes analyses du chômage, telles que je les ai publiées dans les deux dernières décennies, il constaterait que les événements que nous vivons y ont été non seulement annoncés mais décrits en détail. Pourtant, ils n’ont bénéficié que d’un écho de plus en plus limité dans la grande presse. Ce silence conduit à s’interroger.

Un prix Nobel… téléspectateur

Les commentateurs économiques que je vois s’exprimer régulièrement à la télévision pour analyser les causes de l’actuelle crise sont fréquemment les mêmes qui y venaient auparavant pour analyser la bonne conjoncture avec une parfaite sérénité. Ils n’avaient pas annoncé l’arrivée de la crise, et ils ne proposent pour la plupart d’entre eux rien de sérieux pour en sortir. Mais on les invite encore. Pour ma part, je n’étais pas convié sur les plateaux de télévision quand j’annonçais, et j’écrivais, il y a plus de dix ans, qu’une crise majeure accompagnée d’un chômage incontrôlé allait bientôt se produire, je fais partie de ceux qui n’ont pas été admis à expliquer aux Français ce que sont les origines réelles de la crise alors qu’ils ont été dépossédés de tout pouvoir réel sur leur propre monnaie, au profit des banquiers. Par le passé, j’ai fait transmettre à certaines émissions économiques auxquelles j’assistais en téléspectateur le message que j’étais disposé à venir parler de ce que sont progressivement devenues les banques actuelles, le rôle véritablement dangereux des traders, et pourquoi certaines vérités ne sont pas dites à leur sujet. Aucune réponse, même négative, n’est venue d’aucune chaîne de télévision et ce durant des années.

Cette attitude répétée soulève un problème concernant les grands médias en France : certains experts y sont autorisés et d’autres, interdits. Bien que je sois un expert internationalement reconnu sur les crises économiques, notamment celles de 1929 ou de 1987, ma situation présente peut donc se résumer de la manière suivante : je suis un téléspectateur. Un prix Nobel… téléspectateur, Je me retrouve face à ce qu’affirment les spécialistes régulièrement invités, quant à eux, sur les plateaux de télévision, tels que certains universitaires ou des analystes financiers qui garantissent bien comprendre ce qui se passe et savoir ce qu’il faut faire. Alors qu’en réalité ils ne comprennent rien. Leur situation rejoint celle que j’avais constatée lorsque je m’étais rendu en 1933 aux États-Unis, avec l’objectif d’étudier la crise qui y sévissait, son chômage et ses sans-abri : il y régnait une incompréhension intellectuelle totale. Aujourd’hui également, ces experts se trompent dans leurs explications. Certains se trompent doublement en ignorant leur ignorance, mais d’autres, qui la connaissent et pourtant la dissimulent, trompent ainsi les Français.

Cette ignorance et surtout la volonté de la cacher grâce à certains médias dénotent un pourrissement du débat et de l’intelligence, par le fait d’intérêts particuliers souvent liés à l’argent. Des intérêts qui souhaitent que l’ordre économique actuel, qui fonctionne à leur avantage, perdure tel qu’il est. Parmi eux se trouvent en particulier les multinationales qui sont les principales bénéficiaires, avec les milieux boursiers et bancaires, d’un mécanisme économique qui les enrichit, tandis qu’il appauvrit la majorité de la population française mais aussi mondiale.

Question clé : quelle est la liberté véritable des grands médias ? Je parle de leur liberté par rapport au monde de la finance tout autant qu’aux sphères de la politique.

Deuxième question : qui détient de la sorte le pouvoir de décider qu’un expert est ou non autorisé à exprimer un libre commentaire dans la presse ?

Dernière question : pourquoi les causes de la crise telles qu’elles sont présentées aux Français par ces personnalités invitées sont-elles souvent le signe d’une profonde incompréhension de la réalité économique ? S’agit-il seulement de leur part d’ignorance ? C’est possible pour un certain nombre d’entre eux, mais pas pour tous. Ceux qui détiennent ce pouvoir de décision nous laissent le choix entre écouter des ignorants ou des trompeurs.

Maurice Allais.

_________________
(1) L’Europe en crise. Que faire ?, éditions Clément Juglar. Paris, 2005.
(2) Notamment La crise mondiale aujourd’hui, éditions Clément Juglar, 1999, et la Mondialisation, la destruction des emplois et de la croissance : l’évidence empirique, éditions Clément Juglar, 1999.

NB : vous pouvez télécharger cet article ici.

Maurice Allais

Présentation par Marianne

Le Prix Nobel iconoclaste et bâillonné

La « Lettre aux Français » que le seul et unique prix Nobel d’économie français a rédigée pour Marianne aura-t-elle plus d’écho que ses précédentes interventions ? Il annonce que le chômage va continuer à croître en Europe, aux États-Unis et dans le monde développé. Il dénonce la myopie de la plupart des responsables économiques et politiques sur la crise financière et bancaire qui n’est, selon lui, que le symptôme spectaculaire d’une crise économique plus profonde : la déréglementation de la concurrence sur le marché mondial de la main-d’œuvre. Depuis deux décennies, cet économiste libéral n’a cessé d’alerter les décideurs, et la grande crise, il l’avait clairement annoncée il y a plus de dix ans.

Éternel casse-pieds

Mais qui connaît Maurice Allais, à part ceux qui ont tout fait pour le faire taire ? On savait que la pensée unique n’avait jamais été aussi hégémonique qu’en économie, la gauche elle-même ayant fini par céder à la vulgate néolibérale. On savait le sort qu’elle réserve à ceux qui ne pensent pas en troupeau. Mais, avec le cas Allais, on mesure la capacité d’étouffement d’une élite habitée par cette idéologie, au point d’ostraciser un prix Nobel devenu maudit parce qu’il a toujours été plus soucieux des faits que des cases où il faut savoir se blottir.

« La réalité que l’on peut constater a toujours primé pour moi. Mon existence a été dominée par le désir de comprendre ce qui se passe, en économie comme en physique ». Car Maurice Allais est un physicien venu à l’économie à la vue des effets inouïs de la crise de 1929. Dès sa sortie de Polytechnique, en 1933, il part aux États-Unis. « C’était la misère sociale, mais aussi intellectuelle : personne ne comprenait ce qui était arrivé. » Misère à laquelle est sensible le jeune Allais, qui avait réussi à en sortir grâce à une institutrice qui le poussa aux études : fils d’une vendeuse veuve de guerre, il a, toute sa jeunesse, installé chaque soir un lit pliant pour dormir dans un couloir. Ce voyage américain le décide à se consacrer à l’économie, sans jamais abandonner une carrière parallèle de physicien reconnu pour ses travaux sur la gravitation. Il devient le chef de file de la recherche française en économétrie, spécialiste de l’analyse des marchés, de la dynamique monétaire et du risque financier. Il rédige, pendant la guerre, une théorie de l’économie pure qu’il ne publiera que quarante ans plus lard et qui lui vaudra le prix Nobel d’économie en 1988. Mais les journalistes japonais sont plus nombreux que leurs homologues français à la remise du prix : il est déjà considéré comme un vieux libéral ringardisé par la mode néolibérale.

Car, s’il croit à l’efficacité du marché, c’est à condition de le « corriger par une redistribution sociale des revenus illégitimes ». Il a refusé de faire partie du club des libéraux fondé par Friedrich von Hayek et Milton Friedman : ils accordaient, selon lui, trop d’importance au droit de propriété… « Toute ma vie d’économiste, j’ai vérifié la justesse de Lacordaire : entre le fort et le faible, c’est la liberté qui opprime et la règle qui libère”, précise Maurice Allais, dont Raymond Aron avait bien résumé la position : « Convaincre des socialistes que le vrai libéral ne désire pas moins qu’eux la justice sociale, et des libéraux que l’efficacité de l’économie de marché ne suffit plus à garantir une répartition acceptable des revenus. » Il ne convaincra ni les uns ni les autres, se disant « libéral et socialiste ».

Éternel casse-pieds inclassable. Il aura démontré la faillite économique soviétique en décryptant le trucage de ses statistiques. Favorable à l’indépendance de l’Algérie, il se mobilise en faveur des harkis au point de risquer l’internement administratif. Privé de la chaire d’économie de Polytechnique car trop dirigiste, « je n’ai jamais été invité à l’ENA, j’ai affronté des haines incroyables ! » Après son Nobel, il continue en dénonçant « la chienlit laisser-fairiste » du néolibéralisme triomphant. Seul moyen d’expression : ses chroniques touffues publiées dans le Figaro, où le protège Alain Peyrefitte. À la mort de ce dernier, en 1999, il est congédié comme un malpropre.

Il vient de publier une tribune alarmiste dénonçant une finance de « casino» : « L’économie mondiale tout entière repose aujourd’hui sur de gigantesques pyramides de dettes, prenant appui les unes sur les autres dans un équilibre fragile, jamais dans le passé une pareille accumulation de promesses de payer ne s’était constatée. Jamais, sans doute, il est devenu plus difficile d’y faire face, jamais, sans doute, une telle instabilité potentielle n’était apparue avec une telle menace d’un effondrement général. » Propos développés l’année suivante dans un petit ouvrage très lisible* qui annonce l’effondrement financier dix ans à l’avance. Ses recommandations en faveur d’un protectionnisme européen, reprises par Chevènement et Le Pen, lui valurent d’être assimilé au diable par les gazettes bien-pensantes. En 2005, lors de la campagne sur le référendum européen, le prix Nobel veut publier une tribune expliquant comment Bruxelles, reniant le marché commun en abandonnant la préférence communautaire, a brisé sa croissance économique et détruit ses emplois, livrant l’Europe au dépeçage industriel : elle est refusée partout, seule l’Humanité accepte de la publier…

Aujourd’hui, à 98 ans, le vieux savant pensait que sa clairvoyance serait au moins reconnue. Non, silence total, à la notable exception du bel hommage que lui a rendu Pierre-Antoine Delhommais dans le Monde. Les autres continuent de tourner en rond, enfermés dans leur « cercle de la raison » •

Éric Conan

* La Crise mondiale aujourd’hui, éditions Clément Juglar, 1999.

Source : Marianne, n°659, décembre 2009.

Maurice Allais

Extraits choisis

J’ai repris certains de ces extraits dans mon livre STOP ! Tirons les leçons de la Crise.

« Depuis deux décennies une nouvelle doctrine s’est peu à peu imposée, la doctrine du libre-échange mondialiste impliquant la disparition de tout obstacle aux libres mouvements des marchandises, des services et des capitaux. Suivant cette doctrine, la disparition de tous les obstacles à ces mouvements serait une condition à la fois nécessaire et suffisante d’une allocation optimale des ressources à l’échelle mondiale. Tous les pays et, dans chaque pays, tous les groupes sociaux verraient leur situation améliorée. Le marché, et le marché seul, était considéré comme pouvant conduire à un équilibre stable, d’autant plus efficace qu’il pouvait fonctionner à l’échelle mondiale. En toutes circonstances, il convenait de se soumettre à sa discipline. […]

Les partisans de cette doctrine, de ce nouvel intégrisme, étaient devenus aussi dogmatiques que les partisans du communisme avant son effondrement définitif avec la chute du Mur de Berlin en 1989. […]

Suivant une opinion actuellement dominante, le chômage, dans les économies occidentales, résulterait essentiellement de salaires réels trop élevés et de leur insuffisante flexibilité, du progrès technologique accéléré qui se constate dans les secteurs de l’information et des transports, et d’une politique monétaire jugée indûment restrictive.

En fait, ces affirmations n’ont cessé d’être infirmées aussi bien par l’analyse économique que par les données de l’observation. La réalité, c’est que la mondialisation est la cause majeure du chômage massif et des inégalités qui ne cessent de se développer dans la plupart des pays. Jamais, des erreurs théoriques n’auront eu autant de conséquences aussi perverses. […]

La récente réunion du G20 a de nouveau proclamé sa dénonciation du « protectionnisme », dénonciation absurde à chaque fois qu’elle se voit exprimée sans nuance, comme cela vient d’être le cas. Nous sommes confrontés à ce que j’ai par le passé nommé « des tabous indiscutés dont les effets pervers se sont multipliés et renforcés au cours des années ». Car tout libéraliser, on vient de le vérifier, amène les pires désordres.

Les grands dirigeants de la planète montrent une nouvelle fois leur ignorancede l’économie qui les conduit à confondre deux sortes de protectionnismes : il en existe certains de néfastes, tandis que d’autres sont entièrement justifiés. Dans la première catégorie se trouve le protectionnisme entre pays à salaires comparables, qui n’est pas souhaitable en général. Par contre, le protectionnisme entre pays de niveaux de vie très différents est non seulement justifié, mais absolument nécessaire. C’est en particulier le cas à propos de la Chine, avec laquelle il est fou d’avoir supprimé les protections douanières aux frontières. Mais c’est aussi vrai avec des pays plus proches, y compris au sein même de l’Europe. Il suffit au lecteur de s’interroger sur la manière éventuelle de lutter contre des coûts de fabrication cinq ou dix fois moindres – si ce n’est des écarts plus importants encore – pour constater que la concurrence n’est pas viable dans la grande majorité des cas.

Toute cette analyse montre que la libéralisation totale des mouvements de biens, de services et de capitaux à l’échelle mondiale, objectif affirmé de l’Organisation Mondiale du Commerce (OMC) à la suite du GATT, doit être considérée à la fois comme irréalisable, comme nuisible, et comme non souhaitable. […]

Plus concrètement, les règles à dégager sont d’une simplicité folle : du chômage résulte des délocalisations, elles-mêmes dues aux trop grandes différences de salaires… À partir de ce constat, ce qu’il faut entreprendre en devient tellement évident ! Il est indispensable de rétablir une légitime protection. […]

En fait, on ne saurait trop le répéter, la libéralisation totale des échanges et des mouvements de capitaux n’est possible et n’est souhaitable que dans le cadre d’ensembles régionaux, groupant des pays économiquement et politiquement associés, de développement économique et social comparable, tout en assurant un marché suffisamment large pour que la concurrence puisse s’y développer de façon efficace et bénéfique. […]

Chaque organisation régionale doit pouvoir mettre en place dans un cadre institutionnel, politique et éthique approprié une protection raisonnable vis-à-vis de l’extérieur. Cette protection doit avoir un double objectif :

- éviter les distorsions indues de concurrence et les effets pervers des perturbations extérieures;

- rendre impossibles des spécialisations indésirables et inutilement génératrices de déséquilibres et de chômage, tout à fait contraires à la réalisation d’une situation d’efficacité maximale à l’échelle mondiale, associée à une répartition internationale des revenus communément acceptable dans un cadre libéral et humaniste.

Dès que l’on transgresse ces principes, une mondialisation forcenée et anarchique devient un fléau destructeur, partout où elle se propage. […]

L’absence d’une telle protection apportera la destruction de toute l’activité de chaque pays ayant des revenus plus élevés, c’est-à-dire de toutes les industries de l’Europe de l’Ouest et celles des pays développés. Car il est évident qu’avec le point de vue doctrinaire du G20, toute l’industrie française finira par partir à l’extérieur. Il m’apparaît scandaleux que des entreprises ferment des sites rentables en France ou licencient, tandis qu’elles en ouvrent dans les zones à moindres coûts […]. Si aucune limite n’est posée, ce qui va arriver peut d’ores et déjà être annoncé aux Français : une augmentation de la destruction d’emplois, une croissance dramatique du chômage non seulement dans l’industrie, mais tout autant dans l’agriculture et les services. »

« En réalité, ceux qui, à Bruxelles et ailleurs, au nom des prétendues nécessités d’un prétendu progrès, au nom d’un libéralisme mal compris, et au nom de l’Europe, veulent ouvrir l’Union Européenne à tous les vents d’une économie mondialiste dépourvue de tout cadre institutionnel réellement approprié et dominée par la loi de la jungle, et la laisser désarmée sans aucune protection raisonnable ; ceux qui, par là même, sont d’ores et déjà personnellement et directement responsables d’innombrables misères et de la perte de leur emploi par des millions de chômeurs, ne sont en réalité que les défenseurs d’une idéologie abusivement simplificatrice et destructrice, les hérauts d’une gigantesque mystification. […]

Au nom d’un pseudo-libéralisme, et par la multiplication des déréglementations, s’est installée peu à peu une espèce de chienlit mondialiste laissez-fairiste. Mais c’est là oublier que l’économie de marché n’est qu’un instrument et qu’elle ne saurait être dissociée de son contexte institutionnel et politique et éthique. Il ne saurait être d’économie de marché efficace si elle ne prend pas place dans un cadre institutionnel et politique approprié, et une société libérale n’est pas et ne saurait être une société anarchique.

Cette domination se traduit par un incessant matraquage de l’opinion par certains médias financés par de puissants lobbies plus ou moins occultes. Il est pratiquement interdit de mettre en question la mondialisation des échanges comme cause du chômage.

Personne ne veut, ou ne peut, reconnaître cette évidence : si toutes les politiques mises en œuvre depuis trente ans ont échoué, c’est que l’on a constamment refusé de s’attaquer à la racine du mal, la libéralisation mondiale excessive des échanges. Les causes de nos difficultés sont très nombreuses et très complexes, mais une d’elles domine toutes les autres : la suppression progressive de la Préférence Communautaire à partir de 1974 par “l’Organisation de Bruxelles” à la suite de l’entrée de la Grande Bretagne dans l’Union Européenne en 1973.

La mondialisation de l’économie est certainement très profitable pour quelques groupes de privilégiés. Mais les intérêts de ces groupes ne sauraient s’identifier avec ceux de l’humanité tout entière. Une mondialisation précipitée et anarchique ne peut qu’engendrer partout instabilité, chômage, injustices, désordres, et misères de toutes sortes, et elle ne peut que se révéler finalement désavantageuse pour tous les peuples.»

« En réalité, l’économie mondialiste qu’on nous présente comme une panacée ne connaît qu’un seul critère, “l’argent”. Elle n’a qu’un seul culte, “l’argent”. Dépourvue de toute considération éthique, elle ne peut que se détruire elle-même.

Partout se manifeste une régression des valeurs morales, dont une expérience séculaire a montré l’inestimable et l’irremplaçable valeur. Le travail, le courage, l’honnêteté ne sont plus honorés. La réussite économique, fondée trop souvent sur des revenus indus, ne tend que trop à devenir le seul critère de la considération publique.

En engendrant des inégalités croissantes et la suprématie partout du culte de l’argent avec toutes ses implications, le développement d’une politique de libéralisation mondialiste anarchique a puissamment contribué à accélérer la désagrégation morale des sociétés occidentales. »

[Maurice Allais, extraits rédigés entre 1990 et 2009]

Maurice Allais« Cette doctrine [la « chienlit mondialiste laissez-fairiste »] a été littéralement imposée aux gouvernements américains successifs, puis au monde entier, par les multinationales américaines, et à leur suite par les multinationales dans toutes les parties du monde, qui en fait détiennent partout en raison de leur considérable pouvoir financier et par personnes interposées la plus grande partie du pouvoir politique. La mondialisation, on ne saurait trop le souligner, ne profite qu’aux multinationales. Elles en tirent d’énormes profits.

Cette évolution s’est accompagnée d’une multiplication de sociétés multinationales ayant chacune des centaines de filiales, échappant à tout contrôle, et elle ne dégénère que trop souvent dans le développement d’un capitalisme sauvage et malsain. […]

Cette ignorance [des ressorts véritables de la crise actuelle par les « experts » officiels] et surtout la volonté de la cacher grâce à certains médias dénotent un pourrissement du débat et de l’intelligence, par le fait d’intérêts particuliers souvent liés à l’argent. Des intérêts qui souhaitent que l’ordre économique actuel, qui fonctionne à leur avantage, perdure tel qu’il est. Parmi eux se trouvent en particulier les multinationales qui sont les principales bénéficiaires, avec les milieux boursiers et bancaires, d’un mécanisme économique qui les enrichit, tandis qu’il appauvrit la majorité de la population française mais aussi mondiale. » [Maurice Allais, 1998 et 2009]

 

L’analyse de Maurice Allais sur la création monétaire

 « En fait, sans la création de monnaie et de pouvoir d’achat ex nihilo que permet le système du crédit, jamais les hausses extraordinaires des cours de bourse que l’on constate avant les grandes crises ne seraient possibles, car à toute dépense consacrée à l’achat d’actions, par exemple, correspondrait quelque part une diminution d’un montant équivalent de certaines dépenses, et tout aussitôt se développeraient des mécanismes régulateurs tendant à enrayer toute spéculation injustifiée.

Qu’il s’agisse de la spéculation sur les monnaies ou de la spéculation sur les actions, ou de la spéculation sur les produits dérivés, le monde est devenu un vaste casino où les tables de jeu sont réparties sur toutes les longitudes et toutes les latitudes. Le jeu et les enchères, auxquelles participent des millions de joueurs, ne s’arrêtent jamais. Aux cotations américaines se succèdent les cotations à Tokyo et à Hongkong, puis à Londres, Francfort et Paris.

Partout, la spéculation est favorisée par le crédit puisqu’on peut acheter sans payer et vendre sans détenir. On constate le plus souvent une dissociation entre les données de l’économie réelle et les cours nominaux déterminés par la spéculation.

Sur toutes les places, cette spéculation, frénétique et fébrile, est permise, alimentée et amplifiée par le crédit. Jamais dans le passé elle n’avait atteint une telle ampleur.

L’économie mondiale tout entière repose aujourd’hui sur de gigantesques pyramides de dettes, prenant appui les unes sur les autres dans un équilibre fragile. Jamais dans le passé une pareille accumulation de promesses de payer ne s’était constatée. Jamais sans doute il n’est devenu plus difficile d’y faire face. Jamais sans doute une telle instabilité potentielle n’était apparue avec une telle menace d’un effondrement général.

Toutes les difficultés rencontrées résultent de la méconnaissance d’un fait fondamental, c’est qu’aucun système décentralisé d’économie de marchés ne peut fonctionner correctement si la création incontrôlée ex-nihilo de nouveaux moyens de paiement permet d’échapper, au moins pour un temps, aux ajustements nécessaires. [...]

Au centre de toutes les difficultés rencontrées, on trouve toujours, sous une forme ou une autre, le rôle néfaste joué par le système actuel du crédit et la spéculation massive qu’il permet. Tant qu’on ne réformera pas fondamentalement le cadre institutionnel dans lequel il joue, on rencontrera toujours, avec des modalités différentes suivant les circonstances, les mêmes difficultés majeures. Toutes les grandes crises du XIXe et du XXe siècle ont résulté du développement excessif des promesses de payer et de leur monétisation.

Particulièrement significative est l’absence totale de toute remise en cause du fondement même du système de crédit tel qu’il fonctionne actuellement, savoir la création de monnaie ex-nihilo par le système bancaire et la pratique généralisée de financements longs avec des fonds empruntés à court terme.

En fait, sans aucune exagération, le mécanisme actuel de la création de monnaie par le crédit est certainement le “cancer” qui ronge irrémédiablement les économies de marchés de propriété privée. [...]

Que les bourses soient devenues de véritables casinos, où se jouent de gigantesques parties de poker, ne présenterait guère d’importance après tout, les uns gagnant ce que les autres perdent, si les fluctuations générales des cours n’engendraient pas, par leurs implications, de profondes vagues d’optimisme ou de pessimisme qui influent considérablement sur l’économie réelle. [...] Le système actuel est fondamentalement anti-économique et défavorable à un fonctionnement correct des économies. Il ne peut être avantageux que pour de très petites minorités. »

[Maurice Allais, La Crise mondiale d’aujourd’hui. Pour de profondes réformes des institutions financières et monétaires, 1998]

« Ce qui, pour l’essentiel, explique le développement de l’ère de prospérité générale, aux États-Unis et dans le monde, dans les années qui ont précédé le krach de 1929, c’est l’ignorance, une ignorance profonde de toutes les crises du XIXème siècle et de leur signification réelle. En fait, toutes les grandes crises des XIXème et XXème siècles ont résulté du développement excessif des promesses de payer et de leur monétisation. Partout et à toute époque, les mêmes causes génèrent les mêmes effets et ce qui doit arriver arrive. » [Maurice Allais]


« Ce livre est dédié aux innombrables victimes dans le monde entier de l’idéologie libre-échangiste mondialiste, idéologie aussi funeste qu’erronée, et à tous ceux que n’aveugle pas quelque passion partisane. » [Maurice Allais, prix Nobel d’économie en 1988, préface de La mondialisation : La destruction des emplois et de la croissance, l'évidence empirique, 1999]


Le libéralisme contre le laissez-fairisme

« Les premiers libéraux ont commis une erreur fondamentale en soutenant que le régime de laisser-faire constituait un état économique optimum. » [Maurice Allais, Traité d’économie pure, 1943]

« Le libéralisme ne saurait se réduire au laissez-faire économique ; c’est avant tout une doctrine politique, et le libéralisme économique n’est qu’un moyen permettant à cette politique de s’appliquer efficacement dans le domaine économique. Originellement, d’ailleurs, il n’y avait aucune contradiction entre les aspirations du socialisme et celles du libéralisme.

La confusion actuelle du libéralisme et du laissez-fairisme constitue un des plus grands dangers de notre temps. Une société libérale et humaniste ne saurait s’identifier à une société laxiste, laissez-fairiste, pervertie, manipulée, ou aveugle.

La confusion du socialisme et du collectivisme est tout aussi funeste.

En réalité, l’économie mondialiste qu’on nous présente comme une panacée ne connait qu’un critère, “l’argent”. Elle n’a qu’un seul culte, “l’argent”. Dépourvue de toute considération éthique, elle ne peut que se détruire elle-même.

Les perversions du socialisme ont entrainé l’effondrement des sociétés de l’Est. Mais les perversions laissez-fairistes d’un prétendu libéralisme mènent à l’effondrement des sociétés occidentales. » [Maurice Allais, Nouveaux combats pour l’Europe, 2002]

« Une proposition enseignée et admise sans discussion dans toutes les universités américaines et à leur suite dans toutes les universités du monde entier : “Le fonctionnement libre et spontané du marché conduit à une allocation optimale des ressources”.

C’est là le fondement de toute la doctrine libre-échangiste dont l’application aveugle et sans réserve à l’échelle mondiale n’a fait qu’engendrer partout désordres et misères de toutes sortes.

Or, cette proposition, admise sans discussion, est totalement erronée, et elle-ne fait que traduire une totale ignorance de la théorie économique chez tous ceux qui l’ont enseignée en la présentant comme une acquisition fondamentale et définitivement établie de la science économique.

Cette proposition repose essentiellement sur la confusion de deux concepts différents : le concept d’efficacité maximale de l’économie et le concept d’une répartition optimale des revenus.

En fait, il n’y a pas une situation d’efficacité maximale, mais une infinité de telles situations. La théorie économique permet de définir sans ambiguïté les conditions d’une efficacité maximale, c’est-à-dire d’une situation sur la frontière entre les situations possibles et les situations impossibles. Par contre et par elle-même, elle ne permet en aucune façon de définir parmi toutes les situations d’efficacité maximale celle qui doit être considérée comme préférable. Ce choix ne peut être effectué qu’en fonction de considérations éthiques et politiques relatives à la répartition des revenus et à l’organisation de la société.

De plus, il n’est même pas démontré qu’à partir d’une situation initiale donnée le fonctionnement libre des marchés puisse mener le monde à une situation d’efficacité maximale.
Jamais des erreurs théoriques n’auront eu autant de conséquences aussi perverses. » [Maurice Allais, Discours à l’UNESCO du 10 avril 1999]


La théorie contre les faits

« C’est toujours le phénomène concret qui décide si une théorie doit être acceptée ou repoussée. Il n’y a pas, et il ne peut y avoir d’autre critère de la vérité d’une théorie que son accord plus ou moins parfait avec les phénomènes observés. Trop d’experts n’ont que trop tendance à ne pas tenir compte des faits qui viennent contredire leurs convictions.

À chaque époque, les conceptions minoritaires n’ont cessées d’être combattues et rejetées par la puissance tyrannique des “vérités établies”. De tout temps, un fanatisme dogmatique et intolérant n’a cessé de s’opposer aux progrès de la science et à la révision des postulats correspondant aux théories admises et qui venaient les invalider. […] En fait, le consentement universel, et a fortiori celui de la majorité, ne peuvent jamais être considérés comme des critères de la vérité. En dernière analyse, la condition essentielle du progrès, c’est une soumission entière aux enseignements de l’expérience, seule source réelle de notre connaissance. […]

Tôt ou tard, les faits finissent par l’emporter sur les théories qui les nient. La science est en perpétuel devenir. Elle finit toujours par balayer les “vérités établies”.
Depuis les années 1970, un credo s’est peu à peu imposé : la mondialisation est inévitable et souhaitable ; elle seule peut nous apporter la prospérité et l’emploi.
Bien que très largement majoritaire, cette doctrine n’a cependant cessé d’être contredite par le développement d’un chômage persistant qu’aucune politique n’a pu réduire, faute d’un diagnostic correct.

N’en doutons pas, comme toutes les théories fausses du passé, cette doctrine finira par être balayée par les faits, car les faits sont têtus. » [Maurice Allais, Nouveaux combats pour l’Europe, 2002]

« Si utiles et si compétents que puissent être les experts, si élaborés que puissent être leurs modèles, tous ceux qui les consultent doivent rester extrêmement prudents. Tout organisme qui emploie une équipe pour l’établissement de modèles prévisionnels ou décisionnels serait sans doute avisé d’en employer une autre pour en faire la critique, et naturellement de recruter cette équipe parmi ceux qui ne partagent pas tout-à-fait les convictions de la première. » [Maurice Allais, Conférence du 23/10/1967, « L’Économique en tant que Science »]

« Si les taux de change ne correspondent pas à l’équilibre des balances commerciales, le libre-échange ne peut être que nuisible et fondamentalement désavantageux pour tous les pays participants. » [Maurice Allais, Combats pour l'Europe, 1994]


Une application erronée d’une théorie correcte : la théorie des coûts comparés.

« La justification de la politique de libre-échange mondialisé de l’OMC se fonde dans ses principes sur la théorie des coûts comparés présentée par Ricardo en 1817. [NDR : elle explique que, dans un contexte de libre-échange, chaque pays, s’il se spécialise dans la production pour laquelle il dispose de la productivité la plus forte ou la moins faible, comparativement à ses partenaires, accroîtra sa richesse nationale. Ricardo donne l’exemple de l’avantage comparatif du vin pour le Portugal, et des draps pour l’Angleterre]

Mais ce modèle repose sur une hypothèse essentielle, à savoir que la structure des coûts comparatifs reste invariable au cours du temps. En fait, il n’en est ainsi que dans le cas des ressources naturelles. [...] Par contre, dans le domaine industriel, aucun avantage comparatif ne saurait être considéré comme permanent. Chaque pays aspire légitimement à rendre ses industries plus efficaces, et il est souhaitable qu’il puisse y réussir. Il résulte de là que la diminution ou la disparition de certaines activités dans un pays développé en raison des avantages comparatifs d’aujourd’hui pourront se révéler demain fondamentalement désavantageuses dès lors que ces avantages comparatifs disparaitront et qu’il faudra rétablir ces activités. Tel est le cas, par exemple aujourd’hui en France de la sidérurgie, du textile, de la construction navale. [...]

Même lorsqu’il existe des avantages comparatifs de caractère permanent, il peut être tout à fait contre-indiqué de laisser s’établir les spécialisations qui seraient entrainées par une politique généralisée de libre-échange. Ainsi dans le cas de l’agriculture, le libre-échange n’aurait d’autre effet que de faire disparaitre presque totalement l’agriculture de l’Union européenne [ce qui serait] de nature à compromettre son indépendance en matière alimentaire. [...]

Bien plus encore, la théorie simpliste et naïve du commerce international sur laquelle s’appuient les grands gourous du libre-échange mondialiste néglige complètement les coûts externes et les coûts de transition, et elle ne tient aucun compte des coûts psychologiques, très supérieurs aux coûts monétaires, subis par tous ceux que la libéralisation des échanges condamne au chômage et à la détresse. [Maurice Allais, prix Nobel d’économie en 1988, préface de La mondialisation : La destruction des emplois et de la croissance, l'évidence empirique, 1999]


« La concurrence est naturellement malfaisante. Elle devient bienfaisante lorsqu’elle s’exerce dans le cadre juridique qui la plie aux exigences de l’optimum du rendement social. » [Maurice Allais, 1943]

« Je suis convaincu qu’aucune société ne peut longtemps survivre si trop d’injustices sont tolérées. » [Maurice Allais, La lutte contre les inégalités, le projet d’un impôt sur les grosses fortunes et la réforme de la fiscalité, 1979]


« Notre société parait évoluer lentement, mais sûrement, vers une organisation de plus en plus rigide, vers certaines formes de corporatisme, comme celles qui les ont enserrées dans leurs carcans pendant tant de siècles, et que Turgot dénonçait à la veille de la Révolution française. Elle parait se diriger presque inéluctablement vers des systèmes antidémocratiques, tout simplement parce que l’incompréhension de la nature véritable d’un ordre libéral et l’ignorance rendent son fonctionnement impossible, parce que la démocratie, telle qu’elle parait entendue aujourd’hui, mène au désordre, et que des millions d’hommes, pénétrés d’idéologies irréalisables, ne pourront survivre que dans le cadre de régimes centralisés et autoritaires.

Nous visons des temps à de nombreux points semblables à ceux qui ont précédé ou accompagné la décadence de l’empire romain. […] Aujourd’hui comme alors, des féodalités ploutocratiques, politicocratiques et technocratiques s’emparent de l’État. […] Aujourd’hui comme alors, nous assistons indifférents et sans la comprendre, à une transformation profonde de la société qui, si elle se poursuit, entrainera inévitablement la fin de notre civilisation.

Le pessimisme que peut suggérer cette analyse ne conduit pas nécessairement à l’inaction : l’avenir dépend encore, pour une large part, de ce que nous ferons. Mais ceux qui sont réellement attachés à une société libre seront-ils assez lucides, seront-ils capables d’apercevoir les sources réelles de nos maux et les moyens d’y remédier, consentiront-ils à l’effort nécessaire, d’une ampleur tout à fait exceptionnelle, qui pourrait, peut-être, sauvegarder les conditions d’une société libre ?

Le passé ne nous offre que trop d’exemples de sociétés qui se sont effondrées pour n’avoir su ni concevoir, ni réaliser les conditions de leur survie. » [Maurice Allais, conclusion de L’impôt sur le capital et la réforme monétaire, 1977]

Maurice Allais 1943

Sa dernière interview

Extraits de la dernière interview de Maurice Allais, réalisée l’été 2010 par Lise Bourdeau-Lepage et Leïla Kebir pour Géographie, économie, société, 2010/2

L’origine de mon engagement est sans conteste la crise de 1929. [...] Étant sorti major de ma promotion, j’ai pu faire en sorte qu’une bourse d’étude universitaire soit attribuée à plusieurs élèves pour que nous effectuions un voyage d’étude sur place, à l’été 1933. Le spectacle sur place était saisissant. On ne pourrait se l’imaginer aujourd’hui. La misère et la mendicité était présentes partout dans les rues, dans des proportions incroyables. Mais ce qui fut le plus étonnant était l’espèce de stupeur qui avait gagné les esprits, une sorte d’incompréhension face aux évènements qui touchait non seulement l’homme de la rue mais aussi les universitaires, car notre programme de voyage comprenait des rencontres dans de grandes universités : tous nos interlocuteurs semblaient incapables de formuler une réponse. Ma vocation est venue de ce besoin d’apporter une explication, pour éviter à l’avenir la répétition de tels évènements. [...] Pour moi, ce qui compte avant tout dans l’économie et la société, c’est l’homme. [...]

Beaucoup de gens se sont mépris sur mon compte. Je me revendique d’inspiration à la fois libérale et sociale. Mais de nombreux observateurs ne voient qu’un seul de ces aspects, selon ce qu’ils ont envie de regarder. Par ailleurs, j’ai constamment cherché à lutter contre les idéologies dominantes, et mes combats ont évolué en fonction de l’évolution parallèle de ces dogmes successifs. Ceci explique en grande partie les incompréhensions car on n’observe alors que des bribes incomplètes. [...]

{Question : Vous soutenez par exemple, à propos de l’impôt, qu’il faudrait ne pas imposer le revenu du travail mais par contre taxer complètement l’héritage. Pouvez-vous expliquer cette position qui peut paraître très iconoclaste pour bon nombre d’économistes ?}

J’ai qualifié l’impôt sur le revenu de système anti-économique et anti-social, car il est assis sur le travail physique ou intellectuel, sur l’effort, sur le courage. Il est l’expression d’une forme d’iniquité. Baser la fiscalité sur les activités créatrices de richesse est un non sens, tandis que ce que j’ai nommé les revenus « non gagnés » sont pour leur part trop protégés : à savoir par exemple l’appropriation privée des rentes foncières, lorsque la valeur ou le revenu des terrains augmente sans que cette hausse ne résulte d’un quelconque mérite de son propriétaire, mais de décisions de la collectivité ou d’un accroissement de la population. [...]

Je crains que l’économie et la société aient eu durant ces dernières décennies une tendance régulière à oublier le rôle central de la morale, qui est une forme de philosophie de la vie en collectivité. [...]

J’ai depuis toujours, et surtout depuis plus de vingt ans, suggéré des modifications en profondeur des systèmes financiers et bancaires, ainsi que des règles du commerce international. Il faut réformer les banques, réformer le crédit, réformer le mode de création de la monnaie, réformer la bourse et son fonctionnement aberrant, réformer l’OMC et le FMI, car tout se tient. Leur organisation actuelle est directement à l’origine non
seulement de la crise, mais des précédentes, et des suivantes si l’ont n’agit pas. Mes propositions existent et il aurait suffi de s’y référer. Mais ce qui manque est la volonté. Les gouvernements n’écoutent que les conseillers qui sont trop proches des milieux financiers ou économiques en place. On ne cherche pas à s’adresser à des experts plus indépendants. [...]

Les mathématiques ont pris au fil du temps une place excessive, particulièrement dans leurs applications financières. Il ne faut pas imaginer que ceci a toujours existé. [...] Mais par la suite, des économistes ont détourné ces apports, qui sont devenus des instruments pour imposer une analyse, mais sans chercher à la confronter à la réalité. De même, l’utilisation de certains modèles a causé des torts importants à Wall Street. Je rappelle d’ailleurs avoir de longue date demandé une révision de ces comportements, et par exemple l’interdiction des programmes informatiques automatiques qui sont utilisés par les financiers pour spéculer en Bourse.

Liens

Un lien vers des extraits de sa vision sur “la mondialisation, le chômage et les impératifs de l’humanisme

Vous trouverez ici une synthèse de son excellent livre de 1998 La crise mondiale d’aujourd’hui, que je vous recommande particulièrement, pour comprendre la crise actuelle (épuisé, donc à voir d’occasion).

Vous trouverez ici une synthèse de son livre L’Europe en crise

Ici une interview dans La Jaune et la Rouge

Ici un lien vers son article de 2005 : Les effets destructeurs de la Mondialisation

Épilogue

Je signale enfin que la fille de Maurice Allais travaille actuellement (avec difficultés) à la création d’une fondation afin de perpétuer le savoir du grand Maurice Allais. Elle se bat aussi pour préserver sa très riche bibliothèque de plus de 12 000 livres…

Plus d’informations sur sa page Wikipedia et sur l’Association AIRAMA qui lui est consacrée.

Maurice Allais

Replik auf “Die grüne Gefahr” von Michael Paulwitz

An die Redaktion der JUNGEN FREIHEIT

Replik auf “Die grüne Gefahr” von  Michael Paulwitz in JF Nr. 41/12  5. Oktober  2012


Selten hat mich  ein Artikel in der JF so aufgebracht wie dieser, obwohl ich Michael Paulwitz’ Beiträge ansonsten sehr schätze. Schießt Paulwitz nicht weit über das Ziel hinaus, wenn er hier von Ökodiktatur schreibt?  Denn Forsa-Chef Manfred Güllner, auf den sich Paulwitz bezieht, macht den Fehler, daß er in seiner plumpen Grünen-Kritik nicht differenziert und alle Begriffe, positive wie negative Ansätze der Öko-Bewegung, in einem Topf verrührt.

Schließlich sind die eigentlichen  Denkansätze  der ökologischen Bewegung und der ersten “Grünen Listen” Ende der 1970er Jahre u.a. aus der Natur- und Heimatschutzbewegung hervorgegangen. Deren systemkritische  Programmatik zum Naturraubbau wurde damals ideologisch untermauert von verschiedenen neurechten Gruppierungen der 60er und 70er Jahre (“Solidaristen”  und “Sache des Volkes”). Diese wurde jedoch erst durch die später eindringenden marxistischen Gruppierungen  durch das Draufsatteln alter gesellschaftspolitischer Forderungen der extremen Linken  völlig verfälscht.

Herbert Gruhl, eine der Galionsfiguren dieser noch(!) konservativen Bewegung, Bundesvorsitzender des Mitte der  70-er Jahre gegründeten “Bundes für Umwelt- und Naturschutz Deutschland” (BUND), wurde von Kohl das Amt des Umweltsprechers der CDU-Bundestagsfraktion entzogen. Gruhls CDU-Austritt und die Gründung erster “Grüner Listen” folgten.

Um es mal salopp wie Güllner und Paulwitz zu formulieren, verpennten die Konservativen damals eine einzigartige Chance, diese Thematik, die ja die ihre war, aufzugreifen, eine Thematik, die ihnen geradezu auf den Leib geschnitten war. Wie Silke Mende in ihrem Buch “Nicht links, nicht rechts, sondern vorn” über die Gründungsgrünen anmerkt, hatte Peter Glotz einmal gesagt, die Rechten und Konservativen hätten sich mit der ökologischen Thematik ihre Kronjuwelen stehlen lassen.

In der politischen Vorstellungswelt konservativer Kreise der CDU fuhr das Auto ja  schließlich auch ohne Wald. Wozu brauchte man dann noch störenden Umweltschutz?  Nach dem ”staatstragenden” Motto der Konservativen: "Bloß keine Unruhe, keine Kritik und keine Proteste" wurde in diesen Kreisen die politische Brisanz, die in der ökologischen und der Anti-Akw-Bewegung lag, nicht erkannt. In dieses Vakuum konnte ohne große Gegenwehr der Nachtrapp der 68-er hinein stoßen. Insbesondere durch die Politkader  des Kommunistischen Bundes (KB)/Z-Fraktion, der die ersten Grünen anfangs noch als faschistisch verteufelte, später aber, wie wir heute wissen mit Stasiunterstützung, erst als Trittbrettfahrer begleitete, dann als vermeintlich grüne Fundamentalisten unverfroren das Steuer der Ökologischen Bewegung an sich riss, wurde die Umweltthematik völlig verfälscht. Gesellschaftspolitische Forderungen der Linken gegen angeblichen Rassismus, Forderungen der  Lesben- und  Schwulenbewegung,  Gendermainstreaming und die Forderung nach verstärkter Einwanderung wurden aufgepfropft und übergestülpt, die ökologische Bewegung vereinnahmt und zur Farce gemacht.

Doch leider haben die Konservativen das bis heute nicht begriffen. Und heute gut 30 Jahre später sind diese Forderungen zur gesellschaftlichen Norm geworden.

Es ist geradezu ein Treppenwitz der Geschichte, daß ausgerechnet gesellschaftspolitisch links verortete Kräfte, die biologische Erkenntnisse wie der Teufel das Weihwasser fürchten, die ökologische Programmatik  übernahmen und in ihrem Sinne umdrehten, so daß der Begriff  Ökologie, der in den 70er Jahren noch als politisch unbelastet und neutral galt und eher mit Konrad Lorenz assoziert wurde, von der Linken besetzt und heute längst schon als links abgestempelt empfunden wird. Paulwitz setzt dem mit seiner “grünen Gefahr” nur noch eins drauf, worüber sich niemand mehr freuen dürfte als Claudia Roth und Trittin. Also ein sattes Eigentor!  

Das Elend der Konservativen ist es, daß ihnen das alles bis heute nicht einmal bewußt geworden zu sein scheint. Mit ihren Themen hauptsächlich im Gestern verortet, pflegen sie als elitäre “Traditionskompanien” ohne Ausstrahlung das verstaubte Erbe  der "konservativen Revolution" der 1920er Jahre. Es stellt sich doch vielmehr die Frage, wie im Hier und Jetzt eine allgemein verständliche positive Botschaft dem Volke vermittelt werden kann.  

Ulrich Behrenz, Hamburg

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vendredi, 05 octobre 2012

L’État providence dépend largement de la cohésion ethnique

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L’État providence dépend largement de la cohésion ethnique

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

 

Dans un ouvrage traduit en français sous le  titre « Combattre les inégalités et la pauvreté : Les États-Unis face à l’Europe » (Flammarion, 2006) (1), deux économistes de renom international, professeurs à Harvard,  Alberto Alesina et Edward L. Glaeser, ont  cherché à comprendre pour quelles raisons l’État providence est plus présent en Europe occidentale qu’aux États-Unis, alors que les pays concernés ont des racines culturelles et religieuses comparables. (…)

L’ambition du livre est d’aller aux sources des différences entre les deux modèles. Il n’a pas pour propos d’analyser les impacts des politiques de redistribution sur le dynamisme économique et sur la croissance. Il ne s’agit donc pas d’évaluer les coûts et les avantages de l’État providence.

Après des observations liminaires sur les faits et les chiffres, Alesina et Glaeser montrent que la théorie économique pure explique très peu les écarts entre les politiques de redistribution aux USA et en Europe. Par contre, et ceci constitue l’essentiel de leur apport, ils montrent que la faiblesse de l’État providence en Amérique a deux causes fondamentales et de poids égal : la spécificité des institutions américaines et l’hétérogénéité de la population Outre-Atlantique. Ce deuxième aspect est largement traité à travers la question raciale et ethnique aux États-Unis. (…)

1. Les faits et les chiffres

L’état providence se façonne à partir de quatre grands types de politiques publiques : les mécanismes de redistribution (santé, revenus, famille, chômage, invalidité…) ; la progressivité du système fiscal ; les réglementations du marché du travail ; la disponibilité des services publics.

Des écarts importants

Dans ces domaines, un ensemble de données, présentées dans le chapitre I (pp. 29-82), attestent des écarts importants entre les États-Unis et l’Europe. Nous traduisons l’essentiel en quelques lignes.

En Europe, les dépenses des administrations publiques sont en moyenne 50 % plus élevées et les dépenses sociales publiques (vieillesse, famille, chômage, santé) sont presque deux fois plus fortes.

Les réglementations du marché du travail favorisent les travailleurs européens (salaires minimum, horaires, congés, licenciements et retraites).

La présence de services publics, plus forts en Europe, a plutôt pour vocation d’améliorer la situation des moins bien dotés.

La charité privée, forme privée de la redistribution, est nettement plus importante aux USA.

Des explications traditionnelles

Face à ces différences, somme toute bien connues, on est habitué à des explications traditionnelles du faible rôle de l’État providence aux États-Unis. Nous pouvons retenir les principales :

Le rôle actif du protestantisme dans l’idéologie de la réussite, analysé par le sociologue allemand Max Weber au tout début du 20e siècle.

La culture du goût du risque individuel qui poussa les premiers immigrants à choisir le nouveau monde.

Le rôle de la forte mobilité géographique Outre-Atlantique qui réduit les demandes de redistribution.

La mobilité sociale, déjà soulignée par Tocqueville en 1835, qui favorise un processus naturel d’égalité des chances.

Pauvreté et redistribution

Mais il convient de noter que la réalité ne correspond pas nécessairement aux idées reçues. En particulier, la célèbre fluidité sociale américaine est désormais entamée.

Pour les auteurs, les chiffres et les faits attestent que les Américains les plus pauvres semblent plus susceptibles de rester pauvres que leurs homologues Européens.

Le World Value Survey effectué sur la période 1983-1997 permet à Alesina et Glaeser de compléter le tableau grâce à des analyses sur l’image de la pauvreté selon les pays (pp. 271-318). Nous retenons ici quelques appréciations saillantes qui sont, par nature, des généralisations à manier avec précaution.

Aux USA on admet plutôt que les pauvres sont paresseux et peu dynamiques. A contrario on pense, en Europe, qu’ils sont malchanceux et englués dans une situation défavorable au départ.

Aux USA existe une forme de darwinisme social où les millionnaires sont la fine fleur d’une civilisation concurrentielle. En Europe, les pauvres sont plutôt les laissés pour compte d’un système capitaliste qui se caractérise par des antagonismes de classe.

Le tableau suivant, établi par les auteurs (p. 278) à partir du World Value Survey, permet de contraster les visions américaines et européennes.

Si on explique assez largement la pauvreté par un refus de l’effort, il semble normal qu’on sympathise moins avec l’idée de redistribution. On constate d’ailleurs, en prenant plusieurs pays, des corrélations statistiques positives fortes entre, d’une part, l’opinion dominante « le revenu est déterminé par la chance » et, d’autre part, le niveau élevé de redistribution. De même, on retrouve une relation positive forte lorsque les auteurs corrèlent l’opinion dominante « la pauvreté est la faute de la société » et l’importance de la redistribution.

Au total, on observe des idéologies différentes sur la redistribution et la pauvreté de part et d’autre de l’Atlantique. Il s’agit maintenant de s’écarter des idées générales et d’identifier les sources profondes de ces différences.

2. La faible pertinence des explications économiques

Nous résumons ci-dessous les conclusions des deux auteurs documentées dans le chapitre II « les explications économiques » (pp. 83-116).

Deux hypothèses sont souvent avancées par les économistes pour justifier une demande forte de redistribution dans une société : une répartition avant impôt inégalitaire et des faibles perspectives d’ascension sociale. En se fondant sur des modèles économiques élaborés par Romer, Meltzer et Richards, Alesina et Glaeser considèrent que ces deux explications ne sont pas pertinentes.

Une autre approche s’appuie sur l’idée que la redistribution permet d’amortir l’instabilité des revenus lorsque des chocs externes frappent une économie. Mais cet argument de protection face aux chocs doit être écarté à l’épreuve des faits. On observe des volatilités de l’activité économique comparables aux États-Unis et en Europe, et pourtant la redistribution est plus forte en Europe.

La rationalité économique suggère également que des coûts élevés de mise en œuvre des programmes de redistribution devraient être un frein au développement de l’État providence. Or ces coûts sont plus bas aux États-Unis qu’en Europe, et néanmoins l’Europe redistribue plus.

Enfin, la mobilité géographique peut s’analyser comme une forme de substitution rationnelle à la demande de redistribution. Selon cette logique, puisque les Américains sont plus mobiles, ils ont moins besoin de redistribution que les Européens. Cet argument semble pertinent. Mais, pour Alesina et Glaeser, ce choix de la mobilité relève bien plus de la mentalité américaine que d’un arbitrage économique rationnel entre déplacement physique et redistribution. Là encore la logique purement économique ne fournirait pas l’explication de fond : on doit plutôt être renvoyé aux problèmes des mentalités.

3. Le rôle des institutions politiques

En 80 pages, et sur deux chapitres, sont abordées ce que les auteurs appellent les explications « politiques » des contenus de l‘État providence. Tous les thèmes mis en avant privilégient la spécificité américaine par rapport à l’Europe.

Le système électoral

La représentation proportionnelle tend à prendre en compte l’ensemble des opinions et les minorités trouvent plus aisément une place. Appliqué au niveau d’un pays, ce système facilite la mise en place des programmes politiques axés sur les transferts sociaux. Inversement, la représentation majoritaire par circonscription géographique favorise l’opinion dominante et actionne le clientélisme local qui se défie des politiques de redistribution. Au total, puisque la représentation proportionnelle n’est pas dans la culture américaine, les États-Unis sont moins distributifs.

Les auteurs approfondissent ce point en remarquant que le basculement vers un système proportionnel résulte de moments de rupture (guerres, grèves ou révolutions) que les États-Unis ont moins connus que les États européens. A la faveur de ces ruptures, les minorités et les mouvements socialistes peuvent exiger des changements profonds du système électoral.

Le système fédéral

Depuis leur constitution en 1787, les États-Unis veulent éviter le poids des impôts et la présence d’un Léviathan « surtaxeur ». Ils souhaitent un État central léger accompagné d’une vraie décentralisation vers les États fédérés. Ce type d’architecture ne favorise pas un État providence fort pour plusieurs raisons. D’abord, on considère que les préférences collectives d’une juridiction politico-administrative décentralisée sont assez homogènes et ne poussent pas à la redistribution. Ensuite, la concurrence fiscale entre les juridictions décentralisées induit un nivellement par le bas en matière de redistribution. Enfin, les marges de manœuvre, notamment dans le domaine social, des juridictions décentralisées sont limitées dès lors que le système fédéral leur impose des règles d’équilibre budgétaire.

En suivant ces analyses, on en déduit que le garant de l’État providence devrait être un État central puissant en matière sociale. Or, précisément, les États-Unis limitent traditionnellement l’aptitude de l’État central à taxer pour redistribuer.

La séparation des pouvoirs

Aux États-Unis, la Chambre des représentants et le Sénat sont souvent de couleur politique différente. On a ainsi un contrepoids qui favorise le juste milieu. De plus, le Sénat a historiquement le rôle de préserver les droits des riches propriétaires. Il fut d’ailleurs décrit comme un « club des millionnaires », surtout jusqu’au début du 20e siècle, quand il était élu au suffrage indirect. Ce type de séparation des pouvoirs à l’américaine ne favorise pas une forte volonté de redistribution.

Le rôle de la Cour suprême

Le système judiciaire américain, et particulièrement la Cour suprême, prennent en charge la défense de la propriété privée contre toutes les forces qui tendent à collectiviser les risques. Il s’agit de combattre les distorsions de la concurrence, y compris quand elles proviennent des mouvements ouvriers ou syndicaux.

La Cour suprême est ainsi devenue un frein aux politiques de redistribution. Elle examine la législation au regard des principes constitutionnels qui sanctuarisent la propriété et les principes de la libre concurrence. Elle traduit la défiance vis-à-vis des prélèvements obligatoires en vue de redistribuer une richesse légitimement fondée sur la propriété privée.

La place des partis socialistes

Il existe une relation dialectique puissante entre la présence des partis socialistes et le poids de l’État providence. De plus, la forte proximité entre les syndicats ouvriers et les partis de gauche alimente la pression en faveur des politiques de redistribution. L’Europe, où les partis de gauche ont été les moteurs des avancées sociales et où les syndicats sont souvent politisés, est exemplaire à cet égard. Les États-Unis sont dans une situation inverse. Les partis socialistes y sont peu présents et les syndicats ouvriers se sont développés à l’extérieur de la sphère politique. Alesina et Glaeser avancent trois raisons majeures au faible rôle de la gauche américaine.

1. L’immensité, la diversité et l’isolement du territoire n’ont pas favorisé l’unification du mouvement ouvrier. A contrario, en Europe les mouvements ouvriers sont nés de la révolution industrielle et de l’exode rural vers des villes très densifiées.

2. L’hétérogénéité ethnique n’a pas favorisé un mouvement de gauche unitaire. Les syndicats américains pratiquaient eux même la ségrégation et les entrepreneurs ont joué sur les rivalités ethniques pour briser les grèves.

3. L’absence de guerre sur le sol américain, depuis la Guerre de sécession en 1865, a conduit à empêcher la formation d’une solidarité entre les militaires et le mouvement ouvrier. L’armée a même pu, dans certaines circonstances, jouer le rôle de la police contre les ouvriers.

Pour compléter les explications sur la faiblesse des partis socialistes américains, les auteurs ajoutent, pour le 20e siècle, la rivalité et la défiance envers le système soviétique.

L’ancienneté des institutions du nouveau monde

Dans les années 1890, la plupart des pays européens avaient une monarchie héréditaire et un droit de suffrage restreint, tandis que le « nouveau monde » connaissait la  démocratie et la plus moderne des Constitutions. Les institutions américaines ont vieilli quand on les compare aux constitutions européennes de l’ancien monde. Les auteurs mettent en avant ce paradoxe pour souligner qu’il doit exister un lien entre des institutions américaines, âgées de plus de deux siècles, et la faible appétence des États-Unis pour l’État providence. Ce sont ces institutions anciennes, élaborées par des possédants bien décidés à limiter le rôle de l’État, qui ont combattu les mouvements des citoyens américains réclamant plus de redistribution.

4. Le poids de l’hétérogénéité raciale et ethnique

Le poids de l’hétérogénéité raciale et ethnique sur la redistribution aux États-Unis compte autant que le rôle des institutions. Ce thème est traité dans un long chapitre V « La question raciale et la redistribution » (pp. 199-270 ». Alesina et Glaeser prennent d’abord appui sur une vaste littérature attestant l’existence des antipathies raciales et ethniques. Ils se réfèrent ensuite à une littérature démontrant le lien entre ces sentiments et l’hostilité aux dépenses sociales (principales références p. 200).

Fragmentation ethnique et dépenses sociales

Les auteurs construisent des indicateurs de fragmentation ethnique ; ils calculent en particulier des indices de fragmentation raciale, ethnique, linguistique et religieuse. On observe alors une différence nette entre les États-Unis et l’Europe. Dans certains pays européens l’homogénéité ethnique et doublée d’une homogénéité religieuse. Ainsi, 92 % des Suédois et 95 % des Danois sont luthériens.

Une régression, appliquée à un grand nombre de pays dans le monde, montre une relation inverse entre la fragmentation ethnique et les dépenses sociales (p.210). On retrouve la même corrélation négative entre la fragmentation linguistique et les dépenses sociales (p. 212).

Données internes aux États-Unis

L’impact de l’hétérogénéité ethnique sur l’ampleur des dépenses sociales se retrouve également à l’intérieur des États-Unis. Les auteurs appréhendent cette question par trois voies d’entrée : les chiffres, les enquêtes d’opinion et l’histoire.

Les chiffres - Les États du Sud, ethniquement plus diversifiés, sont moins généreux dans la répartition que leurs homologues plus homogènes du Nord. L’indicateur chiffré choisi pour le démontrer (p. 219) est un critère d’aide sociale aux familles : l’AFDC (Aid to families with dependent children).

Les enquêtes d’opinion - Les données des enquêtes d’opinion montrent que les stéréotypes racistes jouent un rôle central dans l’opposition à l’État providence aux USA. Le General Social Survey (GSS) du National Opinion Research Center fait des enquêtes depuis 1972 qui vont toutes dans ce sens. On note une animosité particulière vis-à-vis des Afro-américains qui recevraient trop de l’État providence. Cela se traduit par une relation inverse entre le pourcentage de la population noire et le soutien aux dépenses sociales dans les États fédérés (p. 226).

Toujours sur le terrain des enquêtes d’opinion, les auteurs reprennent, pour justifier leurs analyses, les travaux de Gilsen et Luttner (2). On note en particulier que « vivre à proximité de récipiendaires de prestations sociales accroît le soutien à la redistribution quand ils appartiennent à la race de la personne interrogée, mais il le réduit quand ils appartiennent à une autre race » (p. 227). De plus, les Noirs pauvres sont plus favorables à la redistribution que les Blancs pauvres. « En résumé, les données des sondages d’opinion sont claires et fortes. Les relations interraciales constituent un élément crucial des préférences individuelles sur les dépenses sociales, la redistribution et la lutte contre la pauvreté. » (p. 228).

L’histoire - L’histoire des États-Unis apporte d’autres éléments à la démonstration. Deux exemples précis attestent le recours à une politique raciale pour détourner les américains d’un intérêt positif pour les questions de redistribution. Dans les années 1890, les élites du Sud ont instrumentalisé la haine des Noirs pour éviter toute avancée sociale. Dans le milieu des années 1960, après que le New Deal, lancé en 1932, ait diffusé ses impacts positifs sur l’État providence, on observe une montée de la contestation de l’État  providence. Ce mouvement a été incarné par l’ascension du républicain Barry Goldwater. L’élément déterminant de ce virement à droite était le poids des partisans de la ségrégation raciale dans les États du Sud. Cette évolution a d’ailleurs été accentuée par l’ampleur de la vague anticommuniste de l’époque.

Le cas des États providences européens

En Europe, contrairement aux États-Unis, les États ont œuvré pour construire une collectivité homogène, parfois de manière violente. De ce fait, les adversaires de l’État providence ont eu du mal à diaboliser les pauvres en tant que membres d’une minorité. Certes, les histoires nationales sont différentes, mais elles ont toutes contribué à faciliter l’adhésion aux mécanismes de redistribution. Plusieurs vecteurs ont été à l’œuvre pour appuyer la constitution des identités nationales : obéir au gouvernement, accomplir le service militaire et payer des impôts. Les auteurs soulignent également le rôle actif des systèmes scolaires centralisés des pays européens, alors qu’ils sont décentralisés aux États-Unis. Naturellement, les relations fortes, en Europe, entre les mouvements socialistes et la construction d’un État providence doivent être ici rappelées.

Mais toute cette dynamique n’a pas empêché les « politiciens à thème ethnique » (p. 247) de cultiver les méfiances et les haines. « Les démagogues européens, écrivent Alesina et Glaeser, se sont montrés aussi ardents à exploiter le racisme que leurs homologues américains. Mais, avec l’homogénéité européenne, ils ont généralement trouvé beaucoup moins de matière première. » (p. 246).

L’antisémitisme n’a pas été absent des freins à l’État providence. Il a particulièrement joué lorsque les intellectuels juifs aux tendances socialisantes ont servi de repoussoir pour la droite afin de contrer les volontés distributives de la gauche.

L’exploitation de l’hostilité envers les immigrés est un thème récurrent dans les attaques contre l’État providence. L’argument est connu : souvent très pauvres, ils bénéficieraient d’une redistribution trop généreuse.

La présence en Europe des partis d’extrême droite et des partis populistes « montre bien que le racisme n’est pas une spécificité aberrante des Américains mais le résultat naturel d’une situation où des minorités sont exagérément pauvres et où des politiciens peuvent répandre la haine contre elles pour se faire élire sur un programme antisocial » (p. 264).

Alésina et Glaeser concluent sur ce thème en mettant en garde les Européens. « L’Europe s’étant diversifiée davantage, les Européens se sont montrés de plus en plus réceptifs à la même forme de démagogie raciste et antisociale qui a si bien fonctionné aux États-Unis. Nous verrons si le généreux État providence européen pourra réellement survivre dans une société hétérogène. » (p. 270)

Conclusion

Les analyses des professeurs Alesina et Glaeser sur les visions différentes de l’Etat providence aux États-Unis et en Europe occidentale interpellent et, pourquoi le nier, dérangent un peu. La large palette des explications offertes par les auteurs est un enrichissement par rapport à certaines idées toutes faites. Mais la place donnée aux idéologies de la pauvreté des deux côtés de l’Atlantique et le poids accordé aux hétérogénéités raciales et ethniques nous font entrer sur des terrains inconfortables. En effet, la mesure des différences raciales et ethniques posent de très sérieux problèmes scientifiques et moraux.

De plus, si l’hétérogénéité ethnique explique la faiblesse de l’État providence, c’est la faiblesse de l’État providence qui produit de l’hétérogénéité sociale.

Enfin, la frontière peut devenir floue entre deux visions a priori antagonistes : la diversité comme richesse et l’hétérogénéité comme problème. Tout cela rappelé, les questions liées à l’hétérogénéité des populations sont incontournables quand on aborde les problèmes de répartition et de solidarité collective. (…)

———————

Notes :

(1) La version originale est “Fighting Poverty in the US and Europe – A world of difference” (Oxford University Press, 2004).

(2) M. Gilens « Why American Hate Welfare : Race, Media and Policitics of Antipoverty » (University of Chicago Press, 1999) et de E. Luttner « Group loyalty and the taste for redistribution » (Journal of Political Economy, 2001).

OPEE (Observatoire des Politiques Economiques en Europe), Bulletin n° 18, été 2008

CONTRA LOS PREJUICIOS DE LA GLOBALIZACIÓN

CONTRA LOS PREJUICIOS DE LA GLOBALIZACIÓN

 
 
La globalización es el proceso histórico que tiene como meta convertir al mundo en un único mercado,  regido por las leyes económicas, sin ningún control político y anulando identidades y diferencias, entendidas como estorbos. Un proyecto en el que el hombre es concebido como consumidor-productor universal, idéntico e intercambiable, sin pasado, herencia ni cultura; sólo un elemento más de la cadena de producción y consumo que alimenta ese mercado universal entendido como meta ideal del liberalismo capitalista globalizador.
Como todo proceso histórico la globalización es producto de una voluntad -la de los grandes poderes económicos y financieros- y de una ideología -el cosmopolitismo neoliberal internacionalista. Ideología que se basa en una serie de dogmas, hoy asumidos como intocables por lo “políticamente correcto” pero necesariamente revocables para que los que presentamos una alternativa sólida a la crisis actual.
 
Libre circulación de mercancías: entendido el mundo como una unidad comercial, el neoliberalismo globalizador ha hecho todo lo posible por terminar con el impedimento que frena este proceso de mercantilización universal: el arancel. Señalado como una barrera política a la tendencia globalista del mercado, el arancel ha ido disminuyendo y desapareciendo hasta convertir el mundo en una unidad de comercio sin prácticamente barreras internas. La consecuencia de esto es que Europa se ha llenado de productos del Tercer Mundo, producidos en situaciones sociales y económicas de semi-esclavitud y sin el menor respeto al medio ambiente que se exige a nuestros fabricantes. Sin ninguna medida de protección esos productos han inundado el mercado europeo a unos precios con los que la producción autóctona no puede competir. La consecuencia es clara: desindustrialización, paro y depauperación de las masas trabajadoras europeas.
 
Libre circulación de personas: no es sólo una de las premisas del cosmopolitismo liberal, sino también es un arma económica de los globalizadores para “bajar el coste de producción” en una Europa de tradición sindical y social. Nada mejor para hacer ceder en sus derechos sociales a los trabajadores europeos que importar mano de obra barata del Tercer Mundo dispuesta a hacer a precios de esclavos, los trabajos de los obreros autóctonos. Un chantaje del capitalismo internacional. Para que no provoque reacciones obvias, a la opinión pública se le inculca el dogma del “antirracismo”, si alguien denuncia esta maniobra explotadora es calificado de “racista” para intentar apartarlo de la escena pública. Maniobra que por los resultados electorales que estamos viendo en Europa, empieza a dejar de funcionar.
 
Sumisión del poder político a las leyes del mercado: Adam Smith y los teóricos del liberalismo ya señalaron que el poder político debería reducirse a la mínima expresión para que las “manos invisible del mercado” regulara las relaciones sociales y económicas. El mismo principio que aplica hoy la globalización neoliberal. Su objetivo es vaciar de poder a toda institución política –fundamentalmente los Estados- último obstáculo para imponer su dictadura global. Es el proceso al que estamos asistiendo estos años y que ha incluido golpes de estado “de libro” como el de Monti en Italia o Papademos en Gracia.
En algo los globalizadores tienen razón, los Estados y las instituciones políticas democráticas son el último freno para su hegemonía. Por eso hemos de proteger nuestras democracias hemos de apoyar la soberanía política de los Estados y hemos de crear una alternativa social e identitaria presente en esas instituciones políticas. Es la única manera de evitar el colapso económico, social y ecológico al que nos lleva la mundialización del capitalismo global.
 
Enric Ravello
Secretario de relaciones nacionales e internacionales de Plataforma per Catalunya

lundi, 01 octobre 2012

Europe : la nef des fous?

Europe : la nef des fous?

 
 

Les discours des dirigeants européens semblent de moins en moins cohérents avec la réalité. Aucune prise de conscience de la situation de la croissance européenne ne semble d’actualité.

“La nef des fous”, Jérôme Bosch (1450-1516)

Les dirigeants européens sont-ils embarqués dans une «nef des fous» digne de ce que Sebastien Brant décrivait au 15e siècle dans un des premiers romans européens? On ne serait pas loin de le croire si l’on prend la peine d’observer la situation. Ainsi, Mario Monti a bombé le torse lundi en affirmant que l’Italie a «contribué à mettre en place des politiques de croissance en Europe».

Mettre en place des politiques de croissance! Celui-là même qui, par sa politique, a cassé le peu de croissance qui restait à l’Italie. Et alors que l’on venait d’apprendre que son propre gouvernement avait révisé à la baisse sa prévision de contraction du PIB de la péninsule de 1,2 à 2,4%!

Mais sans doute n’y a-t-il là aucune contradiction puisque l’OCDE qui tenait la conférence où s’exprimait le président du conseil italien a appelé à «poursuivre les réformes du gouvernement italien» qui, précisément, ont plongé le pays dans la crise.

Croissance et austérité ensemble

Mais de ce côté-ci des Alpes, la schizophrénie n’est pas moindre. Ce mardi matin sur France Inter, le ministre français des Affaires européennes n’avait que la «réorientation de la politique européenne vers la croissance» à la bouche. Et pour entamer cette réorientation, Bernard Cazeneuve n’avait pas mieux à proposer que le vote du pacte budgétaire qui va peser sur l’activité de ces 5 prochaines années et va surtout, par son lien avec le MES, confirmer l’étranglement des pays en difficulté. Non, il avait également une autre proposition à formuler: le maintien de l’objectif d’un déficit public à 3% du PIB l’an prochain, manière la plus certaine de plonger la France dans le cercle vicieux de la dépression.

Plus d’efforts

Faut-il un ultime exemple de ce délire pathologique? La chancelière Angela Merkel a jugé que l’Europe va devoir «faire des efforts» pour «sortir plus forte» de la crise. Par «efforts», la chancelière entendait des «douloureuses réformes» et des «politiques budgétaires plus responsables».

Autrement dit, l’Europe doit encore aller plus loin dans l’austérité. C’est du reste ce que vise précisément le pacte budgétaire tant vanté par le gouvernement français. Or, cette politique «d’efforts» que mène la chancelière en Europe depuis 2010 a contribué à plonger l’Europe à nouveau dans la récession. Lundi, le très mauvais indice Ifo montrait que l’économie allemande est à son tour frappée par la vague issue de cette politique. Mais peu importe.

La dérive dépressive européenne

 

Le bateau Europe va à vau-l’eau. Il se dirige droit vers les récifs de la dépression. Mardi, Standard & Poor’s promettait un recul du PIB de la zone euro de 0,8 % cette année. Et les moteurs de croissance de la région sont désormais tous éteints. Tout se passe comme si la Grèce, loin d’être le cas isolé et «exotique» que l’on nous a présenté depuis deux ans, était en fait le précurseur de ce qui menaçait l’Europe.

La BCE, qui a pourtant déclenché avec ses annonces du début du mois de septembre cette euphorie des dirigeants européens, ne semble rien pouvoir faire. Baisser ses taux serait inutile, ils sont déjà vainement à un niveau historiquement bas. Quant à sa politique de rachat de titres souverains, elle est soumise à des conditions déflationnistes qui n’auront certes pas d’effets positifs sur la croissance.

Reste évidemment le «pacte de croissance» et ses fameux 120 milliards d’euros dont se vantent tant les dirigeants français. Son effet est évidemment nul. Passons même sur ses effets concrets, les révisions à la baisse de toutes les prévisions pour 2013 prouvent assez l’inefficacité de cet amas de mesures hétéroclites et recyclées. Le pire est encore ailleurs: nul n’a pris ce plan au sérieux, le choc de confiance si nécessaire pour les plans de relance n’a pas eu lieu. Et c’est pourtant au nom de ce plan que l’on entend imposer l’austérité généralisée.

Position morale

Mais si la position des dirigeants européens n’est pas cohérente, c’est qu’en réalité, elle est plus morale qu’économique. Elle est basée sur l’idée d’une pseudo faute budgétaire des Européens qui devra être réparée par la souffrance. Et elle se dissimule derrière le vieil argument europhile: quiconque se place en opposition aux dirigeants européens est «populiste» et, partant, discrédité. Ce qui est commode et permet d’avancer l’absence d’alternative à cette politique.

C’est pourquoi, ceux qui tentent de s’opposer au pacte budgétaire ou au MES sont immédiatement discrédités, comme l’ont été en 2005 ceux qui se plaçaient dans le camp du «non» à la constitution. Bernard Cazeneuve qui, ce matin, prétendait qu’il n’y a pas de «non fondateur» doit certainement s’en souvenir: il faisait alors partie des chefs de file des «nonistes».

On connaît la chanson

80 ans après les effets dramatiques de la politique de déflation salariale et budgétaire des gouvernements européens, leurs successeurs sont aujourd’hui en passe de faire les mêmes erreurs. Du reste, les années 1930 sont tellement à la mode que les chefs de gouvernement européens n’hésitent pas à remettre au goût du jour le fameux succès de Ray Ventura de 1935: «tout va très bien, madame la marquise»…

La Tribune

mardi, 25 septembre 2012

Daling rente op spaargeld: hold-up Europees leenkapitaal

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Daling rente op spaargeld: hold-up Europees leenkapitaal

door 

Ex; http://www.solidarisme.be/

De reële rente (nominaal min inflatie) die men op zijn spaargeld ontvangt, is nu al een hele tijd negatief. Een gemiddelde van 2% (premie inbegrepen) is nu courant en soms liggen de percentages al lager dan dat. De mogelijkheid dat we naar een nultarief gaan, is dan ook niet ondenkbaar, zeker als de ECB (Europese Centrale Bank) donderdag de termijnrente van 0,5%  nu naar een nog lager niveau  zal laten zakken.

De argumentatie van de ECB en van de kapitaalselite is officieel dat men door een verlaging van de rente het volume aan spaargeld wil verminderen bij de gezinnen, door die aan te zetten tot consumptie en investering. Met de hoop dat dit een economische relance zal aanwakkeren voor de kapitaalselite.

Maar de propaganda die het systeem hanteert om het sparen op die manier te ontmoedigen - en die in haar argumentatie een collectieve burgerplicht sugereert (het opdrijven van consumptie zal voor economische relance zorgen en zo werkgelegenheid scheppen) - is in feite bedoeld als rookgordijn waarachter zich grote kapitaalsbelangen verschuilen. En die kapitaalsbelangen worden gecoördineerd en georchestreerd vanuit de nieuwe hoofdkwartieren van de transnationale Europese instellingen, de "EU".

Met name de ECB die nieuwe tegoeden aan banken distribueert en dat aan historisch lage kosten (zie rentepeil). Op dit ogenblik kunnen banken tegen 0,5% rente geld ontlenen bij de ECB. Het is dus evident dat banken niet geneigd zijn om voor het geld van hun spaarders meer te betalen dan voor nieuw gedrukt geld. Het nieuwe geld ligt zo voor het rapen.

De elites van het leenkapitaal plegen op die manier en gigantische rooftocht op de burger. Want terwijl u de financiële kapitalisten spaargeld in onderpand geeft, waarvoor men u in feite niks geeft aangezien de inflatie de rente overtreft, storten de banken dat geld de facto op de rekeningen van de ECB. De ECB leent op haar beurt dat geld (en het bijgedrukte geld waarvoor de fractie aan reëel geld als onderpand dient) dan opnieuw aan de banken. Maar nu dus tegen een tarief van 0,5% en binnenkort tegen een nog lager tarief.

De banken lenen dat geld dan weer uit, maar deze keer helemaal niet aan het Sinterklaastarief waarvoor zij het geleend hebben. Zo vraagt een bank al vlug tot 5% op een hypotheek op 20 jaar. En voor consumentenkrediet wordt op een middellange termijn van 2 tot 5 jaar al vlug 6% en meer aangerekend. En dat terwijl juist het aanzwengelen van consumptie als argument dient om spaarders lage en negatieve rentes te geven.

Zo ziet u maar dat de "argumenten" van het leenkapitaal moeten gezien worden als wat ze zijn: propagandapraat.

De massa geld die banken op deze manier gratis ter beschikking krijgen, kan men dan verder nog lucratiever aanwenden. Bijvoorbeeld door extra geld van de ECB te lenen en dat geld daarna te beleggen in Europese probleemlanden. Daar kan men de winst maximaliseren, want 'de markten' krijgen er zoals geweten zeer hoge rentes. De Duitse (en andere) banken hebben voordien op deze manier een zeepbel in bepaalde lidstaten gevormd. Zij hebben geld aan landen geleend die daarmee een hypotheek op hun toekomst hebben genomen.

En nu krijgen diezelfde kapitalisten - naast miljarden aan staatsgeld waarmee ze hun verliezen kunnen dekken - ook nog eens gigantische bedragen toegestopt van de Europese Centrale Bank tegen een belachelijke rentevoet, zodat ze weer superwinsten op de kap van de spaarders kunnen maken! Twee keer bingo: de spaarders en burgers mogen collectief de verliezen (of beter gezegd: de verduisterde winsten) van de banken betalen en nu mogen ze ook hun spaargeld aan dumpingprijzen uitlenen aan diezelfde banken.

Waar het dus eigenlijk op neerkomt, is het volgende: de Europese transnationale elite heeft de belasting van burgers door de staat overgenomen in de vorm van leenkapitaal. Het zijn privébedrijven (banken) die de burgers nu belasten via een sluipweg. Dit door het laten betalen van bankenschulden door de burger. En vervolgens door het confisceren van geld door een lagere vergoeding van spaargeld te betalen dan het peil van de inflatie.

En dat allemaal georganiseerd vanuit en in naam van een niet bestaande superstaat: de Europese Unie. Het conglomeraat van het leenkapitaal en de transnationale elite uit de lidstaten.

vendredi, 14 septembre 2012

Krantenkoppen - Juli 2012 (1)

 

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Krantenkoppen
Juli 2012 (2)
 
PSA PEUGEOT CITROËN SUBIT LE CONTRECOUP DES SANCTIONS CONTRE L'IRAN.
"Le renforcement des sanctions américaines et européennes vis-à-vis de l'Iran et la toute nouvelle alliance signée avec General Motors sont en train de jouer un vilain tour à PSA Peugeot Citroën. Déjà confronté à un marché européen déprimé, le constructeur français voit se dérober le marché iranien, son premier débouché à l'export. Avec 458.000 véhicules écoulés - sur un total de 3,5 millions - en 2011, l'Iran est, en volume de véhicules vendus, le deuxième marché dans le monde pour la marque au lion, derrière le marché français. (…) PSA, via son partenaire local Iran Khodro, détient 30 % de ce marché. Mais tout pourrait s'arrêter cette année.
Mercredi 28 mars, United Against Nuclear Iran, un lobby américain hostile à Téhéran, a interpellé General Motors pour qu'il force PSA, dont il détient désormais 7% des actions, à cesser tout commerce avec l'Iran. (…) GM [et] Peugeot (…) 'avaient décidé de suspendre la production et l'expédition de matériel vers l'Iran il y a quelque temps, avant que nous signions notre alliance avec eux, et nous avons décidé de maintenir cette suspension’. (…)
Les premières victimes du gel des envois d'éléments, reconduit en avril, puis sans doute dans les mois à venir, sont les 350 salariés en charge de ces envois au sein du centre mondial des pièces détachées de Peugeot Citroën, à Vesoul (Haute-Saône). Depuis février, ils sont au chômage technique, envoyés en formation ou redéployés vers d'autres services sur ce site, qui compte plus de 3.000 salariés.
Egalement installé en Iran, Renault, lui, dit ne pas avoir ‘de souci. Même si travailler là-bas est toujours compliqué, l'an dernier nous avons produit et vendu 93.578 véhicules, contre 46.587 en 2010’, explique-t-on à la direction du constructeur, ce qui lui permet de détenir 6% de part de marché. Et sur les 2 premiers mois de 2012, la firme au losange a écoulé 19.500 véhicules, notamment ses Tondar90, la version locale de la Logan, contre 8.850 sur la même période en 2011.
S'il devait tirer un trait sur l'Iran, PSA perdrait 15% de ses ventes (en volumes), ce qui le ferait dégringoler au classement mondial des constructeurs. Mais Peugeot devrait en conserver certaines, puisque Iran Khodro poursuit la vente sous licence des 405 et 206 qu'il fabrique de plus en plus avec des pièces produites localement. Il devra trouver une solution pour les pièces qu'il importait."
 
 
GM RENTRE AU CAPITAL DE PSA.
‎"PSA a annoncé (...) 'le succès de son augmentation de capital'. (...) Le constructeur automobile américain General Motors 'devient le deuxième actionnaire de PSA Peugeot-Citroën, avec 7% du capital', à travers l'acquisition et l'exercice des droits préférentiels de souscription. (...) 
PSA et General Motors ont annoncé le 29 février une alliance stratégique. Dans ce cadre, les 2 constructeurs 'se concentreront sur les véhicules particuliers de petite et moyenne taille, les monospaces et les crossovers (4x4)'. Les premiers véhicules communs n'arriveront qu'en 2016. Par la suite, les 2 partenaires 'prévoient de développer conjointement une nouvelle plateforme pour les véhicules à faibles émissions de CO2'. L'accord doit permettre par ailleurs aux 2 groupes d' 'opérer sous la forme d'une seule et même structure d'achat à l'échelle mondiale pour leur approvisionnement en matières premières, composants et services auprès des fournisseurs', avec un 'volume d'achat combiné de (...) 95 milliards d'euros'."
http://www.latribune.fr/entreprises-finance/industrie/automobile/20120327trib000690579/gm-devient-le-deuxieme-actionnaire-de-psa-peugeot-citroen.html?google_editors_picks=true
 

mercredi, 06 juin 2012

Le revenu de citoyenneté, une fausse bonne idée

Le revenu de citoyenneté, une fausse bonne idée

par Pierre LE VIGAN

944825_5877469.jpgLe revenu de citoyenneté a été défendu par des hommes venus de la droite comme de la gauche. Il relève malheureusement d’idées floues et de beaucoup de confusion.

Attribuer un revenu de citoyenneté, c’est monétariser ce qui ne doit pas l’être : la citoyenneté. Pour les gens aisés, ce revenu sera un supplément inutile, pour les gens pauvres, il sera insuffisant. Il est prévu que ce revenu remplace les multiples aides existantes. Mais celles-ci ont chacune une fonction, et celle–ci est différente : l’allocation logement ne sert pas aux mêmes personnes que l’allocation perte d’autonomie, ou la pension d’invalidité pour les invalides, ou l’allocation adulte handicapé. Ces aides ont chacune une fonction et ne peuvent être ramenées à une seule : le revenu de citoyenneté. Comment une personne invalide ayant besoin d’être aidée dans ses gestes quotidiens peut-elle se passer d’une prise en compte spécifique de sa situation ?

Avec le revenu de citoyenneté, il s’agirait d’attribuer un revenu sans qu’il y ait un engagement réciproque. C’est renforcer la logique d’une société d’ayants droits, ce qui est le contraire d’une société de citoyens.

Le revenu de citoyenneté est aussi une façon de tourner la page d’une société du travail, alors que le travail reste le seul producteur de richesse (relisons Marx). Prôner le revenu de citoyenneté, c’est une façon d’abandonner toute ambition, autrement plus nécessaire, de changer le travail. Dans le travail salarié, il faut donner plus de contenu à l’épanouissement, et limiter au mieux l’aliénation, et il faut développer des alternatives au travail salarié lui-même. Il faut aussi créer une sécurité sociale professionnelle, un droit à la formation et à la reconversion. Des enjeux qui correspondent à des besoins réels des hommes au travail et non pas à une négation de la place du travail.

Plutôt que le revenu de citoyenneté, il faut développer des gratuités c’est-à-dire des prises en charge collectives de certains coûts. Ce peut être la gratuité des transports collectifs, des musées, etc.

Le revenu de citoyenneté accroît la monétarisation de la vie, les gratuités (rien n’est jamais gratuit, tout a un coût, mais par la gratuité la collectivité peut indiquer ses priorités), éventuellement avec des contreparties en termes de service civique permettent au contraire un dépassement de la marchandisation.

Quel en est son coût ?

Si 1000 euros par mois sont distribués à 26 millions de Français (soit la population active), le coût est de 26 000 millions donc 26 milliards par mois (ce qui équivaut au plan de relance Sarkozy – Devedjian de 2008-2009, mais qui, lui, est annuel) donc 312 milliards par an.

Si 500 euros sont distribués aux 60 millions de Français, le coût est de 30 milliards par mois, soit 360 milliards par an.

Pour information, le budget de l’État français en 2010 était d’environ 400 milliards dont 150 milliards de déficit.

Conclusion : le revenu de citoyenneté ne peut se faire qu’avec une suppression de toutes les autres politiques sociales, souvent utiles, hormis le fait qu’elles servent de pompes aspirante pour l’immigration, en les remplaçant par un revenu de citoyenneté… inutile et malsain.

Pierre Le Vigan


Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

URL to article: http://www.europemaxima.com/?p=2400

 

jeudi, 03 mai 2012

Pierre Jovanovic: les financiers qui mènent le monde

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Pour écouter l'émission:

http://meridienzero.hautetfort.com/archive/2012/03/28/emission-n-90-ces-financiers-qui-menent-le-monde.html

mercredi, 02 mai 2012

Nazionalizzazioni: Dall’Argentina arriva un vento di libertà

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Nazionalizzazioni: Dall’Argentina arriva un vento di libertà

di Federico Dal Cortivo

Ex: http://www.italiasociale.net/

Inaspettata è arrivata nell’Europa del “libero mercato” la notizia che il governo argentino ha deciso di nazionalizzare la compagnia petrolifera YPF e del gas YPf Gas, di proprietà della spagnola Repsol dal 1999 la prima e di Repsol Butano SA la seconda.

Per chi segue da qualche tempo le vicende politiche dell’America Latina invece, la cosa non è giunta inaspettata, ma fa parte oramai di un processo di decolonizzazione economica intrapreso dai principali Stati del continente e teso a porre sotto il controllo dello stato, le fonti energetiche che rivestono come ben sappiamo una grande importanza strategica e che danno la misura oggi della libertà di un popolo.

La mossa del governo di Buenos Aires ha così posto sotto il controllo dello Stato YPF e delle Provincie il 51% del capitale, nell’interesse della nazione Argentina , come ha sottolineato il Vice Ministro dell’Economia Kicillof nel suo intervento parlamentare: “Quando una società si discosta dagli interessi del popolo argentino, deve chiudere prima in modo amichevole e poi se necessario in modo meno amichevole”.

“L’Argentina" ha proseguito Kicillof "non può permettere che un elemento così importante come il prezzo del petrolio dipenda da fattori esterni a ciò che avviene in Argentina”.

Il riferimento alla speculazione internazionale è chiaro.

La Repsol è accusata di non avere investito nell’esplorazione e nel miglioramento della produzione, e inoltre erano in corso trattative segrete tra la Respsol e il gigante petrolifero cinese Sinopec per cedere la YPF per un valore di 15 milioni di dollari.

Ora si potrebbe invece aprire un nuovo scenario con una partnership tra Sinopec e Ypf nazionalizzata, come ha annunciato il Ministro per la Pianificazione Julio De Vido, che ha citato come possibili alleati il Brasile e il Messico.

I cinesi dal canto loro per bocca di Zhou Dadi della Cina Energy Research Society, in maniera molto pragmatica hanno dichiarato che “non importa il cambio di proprietà di YPF, ma solo la convenienza economica dell’operazione”.

La Cina si sta muovendo da tempo sulla scena mondiale alla ricerca di fonti energetiche per la sua affamata economia, caratterizzandosi per la non influenza negli affari interni degli Stati produttori e per questo i cinesi sono visti positivamente.

Non sono tardate le reazioni Occidentali, la Spagna attraverso il segretario di Stato al Commercio ha chiesto l’intervento dell’Unione Europea, mentre il presidente della Banca Mondiale, lo statunitense Robert Bruce Zoellick ha condannato il ”protezionismo e il populismo” di Buenos Aires, affermando che ”è stato un errore nazionalizzare YPF”, stessa musica dall’altro ente usurocratico mondiale il FMI, dove il Direttore del Research Departement Thomas Helbing a margine della presentazione del rapporto “Global Economic Prospects” ha dichiarato che “gli interventi del governo argentino peggiorano il clima per gli investimenti stranieri“.

Sulla stessa linea gli Stati Uniti, il portavoce del Dipartimento di Stato Mark Toner ha posto l’accento sulla preoccupazione del suo governo per queste azioni che rischiano di frenare gli investitori stranieri e danneggiare l’economia del Paese latino americano.

Le dichiarazioni, o meglio sarebbe dire, le intromissioni della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale erano prevedibili e sintomatici della paura che la finanza mondialista ha quando uno Stato sovrano, com’è l’Argentina, decide di gestire in proprio le fonti energetiche e la propria economia senza sottostare a diktat e ricatti da parte di organismi internazionali che rispondono a logiche neocolonialiste e di sfruttamento.

L’America Latina non è più quella di anni fa, il cosiddetto “cortile di casa degli Stati Uniti”, non è più disponibile a ogni saccheggio, in nome di un “libero mercato” a senso unico dove gli Usa usano ogni sorta di barriera doganale, ma invocano la libera circolazione delle merci in senso inverso, lo stesso sistema usato dalla Gran Bretagna quando un tempo dominava i mari.

La storia del continente Sud Americano è la storia di un saccheggio programmato e attuato nei minimi dettagli, fino ad arrivare in tempi più recenti agli inglesi e agli statunitensi, dove questi ultimi hanno favorito colpi di stato, omicidi mirati, operazioni sotto copertura per destabilizzare qualsiasi governo nazionale che osasse porre degli ostacoli alla presenza delle loro multinazionali.

Inglesi e americani sono stati maestri nel predicare l’apertura dei mercati ai loro manufatti e ai loro capitali, mentre nel frattempo imponevano un ferreo protezionismo per tutelare la propria manodopera e prodotti.

Scrive in modo inequivocabile l’uruguaiano Edoardo Galeano nel suo saggio “Le vene aperte dell’America Latina”: “Come l’Inghilterra, anche gli Stati Uniti esporteranno dopo al Seconda Guerra Mondiale, la dottrina del libero scambio, libero commercio e libera concorrenza, ma per uso e consumo altrui. Il FMI e la Banca Mondiale sorgeranno proprio per negare ai paesi sottosviluppati il diritto di proteggere le industrie nazionali e per fiaccare al loro interno l’azione dello Stato. Saranno attribuite proprietà terapeutiche infallibili all’iniziativa privata. Tuttavia gli Stati Uniti non abbandoneranno una politica economica che continua a essere ancora oggi protezionistica e che indubbiamente si ricollega all’esperienza e alle voci della propria storia, al Nord non hanno mai confuso la malattia con il rimedio.”

E le direttive del FMI e Banca Mondiale, fatte a colpi di privatizzazioni, svendita dei settori strategici, taglio dei salari, distruzione dello Stato Sociale non posso che peggiorare le condizioni degli Stati che cadono nei loro tentacoli.

L’Argentina in questi ultimi anni ha ripreso la strada già intrapresa da Juan Domingo Peron, ha cacciato gli ispettori del FMI con il presidente Nestor Carlos Kirchenr, nazionalizzato i fondi pensione e la compagnia aerea di bandiera Aerolineas Argentinas.

Ha varato vasti programmi economici e di tutela dei lavoratori e ha collaborato attivamente all’UNASUR, Union de Naciones Suramericanas e stretto buoni rapporti con i Paesi dell’ALBA, l’Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra America che ha nel Venezuela di Hugo Chavez l’ispiratore.

Nell’Europa asservita agli Stati Uniti e all’usura internazionale tutto questo è sprezzantemente definito “populismo”, come se essere con il popolo e per il popolo fosse un peccato capitale e in effetti lo è per coloro che hanno fatto del profitto, dell’usura, dello sfruttamento dei popoli la loro religione.

Le scomposte reazioni di questi giorni denotano solo il nervosismo dei “camerieri dell’alta finanza”, dove anche un Monti qualsiasi si permette di criticare l’azione del Governo argentino, del resto in Italia sta avvenendo l’esatto contrario, si è intenti da tempo a svendere al miglior offerente il patrimonio economico nazionale, dalle banche, all’industria, dal settore alimentare, a quello della grande distribuzione e con quest’ultimo governo tale prassi verrà accelerata e consolidata.

Tutto ciò condurrà l’Italia a breve a essere nient’altro che una colonia delle grandi multinazionali, in questo imitando in peggio l’Argentina di un tempo.

 

europeanphoenix

dimanche, 29 avril 2012

“Sortir du mondialisme, c’est possible : l’exemple de l’Argentine”

Aymeric Chauprade :
“Sortir du mondialisme, c’est possible : l’exemple de l’Argentine”
Libre reprise d’un article daté du 21 avril 2012 du géopolitologue Aymeric Chauprade, initialement publié sur blog.realpolitik.tv et realpolitik.tv

cristina-fernandez2.jpgLe Fonds monétaire international a déploré cette semaine que l’Argentine soit “imprévisible après l’expropriation partielle de la compagnie pétrolière argentine YPF, contrôlée à majorité, jusqu’au 16 avril, par le groupe espagnol Repsol”.

Imprévisible ? Non, simplement souveraine ! Le FMI, instrument politico-économique des États-Unis, tout comme Washington et Bruxelles ont de plus en plus de mal à se faire à la souveraineté des États. Lorsque quelque chose leur échappe, ils appellent cela de l’imprévisibilité.

J’étais en Argentine entre le 24 mars et le 2 avril, date anniversaire des 30 ans de la Guerre des Malouines. Cela m’a permis de me faire mon propre avis sur un pays tant décrié par le FMI et les donneurs de leçon occidentaux. Et j’ai compris pourquoi ce pays était la cible d’une désinformation si forte, qui veut ternir son image et ainsi dissuader les investisseurs de s’y intéresser.

Ce pays est pourtant la seule véritable Europe jamais réussie. L’Argentine c’est même la véritable Europe qui a survécu des ruines de la nôtre. Une nation faite d’Européens avec une culture d’Européens et dont le modèle identitaire n’a rien à voir avec le modèle brésilien que Bruxelles et Washington ont érigé en exemple. Buenos Aires, malgré son immigration andine, reste une ville européenne pour des Européens. L’Argentine est une grande nation, et l’a montré en mettant dehors, seule, le FMI et ses recettes qui n’ont toujours mené qu’à la faillite et à l’asservissement des peuples. Comme la Russie, l’Argentine est tout simplement en train de reconstruire son industrie, de reprendre le contrôle de ses ressources énergétiques et les résultats sont là pour prouver qu’elle suit une voie juste et raisonnable. La seule voie raisonnable même quand on voit où le mondialisme a mené les peuples occidentaux.

La croissance est évidente (le FMI lui concède quand même un taux de croissance de 4,2% pour 2012, mais du bout des lèvres) et il faut être aveugle ou d’une grande mauvaise foi pour ne pas reconnaître que depuis que l’Argentine suit une voie protectionniste et nationaliste (comme la Russie et la Chine), elle va mille fois mieux que lorsqu’elle suivait les recettes libérales et pro-américaines du libano-argentin Menem.

Mais revenons à cet événement capital qu’est la renationalisation d’une grande compagnie d’énergie argentine. Lundi 16 avril, la présidente Cristina Kirchner, une autre dame de fer, sans être le moins du monde impressionnée par les menaces de Madrid, a décidé d’exproprier l’espagnol Repsol de sa filiale argentine YPF qu’il contrôlait à hauteur de 57,4%. Désormais l’État argentin et les provinces (en Argentine, État fédéral, l’autonomie des provinces est très forte) détiendront 51%. Jeudi 19 avril, soit 3 jours plus tard, l’expropriation à hauteur de 51% était élargie à la compagnie YPF Gas également contrôlée par Repsol

La main mise de Repsol datait d’une époque où l’Argentine a été vendue par des dirigeants libéraux sans scrupules à l’étranger et a rompu, sous Menem, avec ses fondamentaux d’indépendance nationale en se tournant vers les États-Unis. Cette politique, suivie de concert avec le FMI, a abouti à la ruine du pays. Seul le retour aux fondamentaux du péronisme, une politique nationale et sociale, a permis d’entamer le redressement du pays, et c’est exactement cette ligne que suit Cristina Kirchner.

Cela faisait plusieurs années que les Kirchner ont demandé de manière insistante à Repsol de faire les investissements nécessaires pour préparer l’avenir énergétique de l’Argentine. Rien n’a été fait. Le groupe espagnol s’est vu donner de nombreuses chances de conserver sa part. Il n’est pas exproprié (il sera compensé de toutes façons) comme cela brutalement, mais au terme de mois de d’avertissements et de discussions. Ces grands groupes mondialistes ont malheureusement une vision de court-terme qui tranche avec la vision de long-terme d’un Poutine en Russie. Celui-ci a repris en main le secteur énergétique précisément pour rendre à la Russie ses ressources et son avenir énergétique.

L’Argentine (comme la Russie évidemment) apporte au monde une preuve supplémentaire que la voie du redressement et de la liberté des peuples passe par l’indépendance nationale et la rupture avec toute l’architecture du mondialisme (FMI, Banque mondiale, Union européenne, OTAN…).

Cette politique est non seulement possible mais elle montre ses fruits dans de nombreux pays du monde. Demain dimanche 22 avril, je voterai pour cet espoir français de sortie du mondialisme. Je voterai Argentine !

Lire la suite : http://blog.realpolitik.tv/2012/04/samedi-21-avril-2012-a-demain/

samedi, 28 avril 2012

Pour les jeunes des Brics, «le monde bipolaire est fini»

Pour les jeunes des Brics, «le monde bipolaire est fini»

 

Les cercles de réflexion (think-tanks) regroupant des jeunes entrepreneurs se multiplient. Le phénomène grandit au sein des pays émergents où les leaders «de demain» veulent désormais s’inviter au partage de la croissance mondiale.

Ils sont jeunes, fourmillent d’idées, promis à un bel avenir professionnel et – surtout – refusent de se voir léguer un monde en ruine. La crise qui balaie les économies occidentales depuis quatre ans et bouleverse les équilibres mondiaux entraîne une résurgence de l’activisme chez les jeunes entrepreneurs. Aux côtés des think-tanks institutionnels – Davos ou autres Cercles d’économistes – les forums regroupant les jeunes leaders «de demain» se multiplient sur la planète. Et, fait nouveau, ces jeunes veulent désormais se faire entendre de leurs aînés.L’un des plus anciens forums, le Symposium de St Gallen se réunira pour la 42e fois, en Suisse, les 3 et 4 mai prochain. 200 jeunes entrepreneurs, enseignants ou élèves confronteront leurs idées pour «faire face aux risques» menaçant la planète, sous le regard de 600 responsables d’entreprise ou hauts fonctionnaires, parmi lesquels quelques «guest stars» – Josef Ackermann (Deutsche Bank) ou Jean-Claude Trichet (ex président de la BCE).

Mais à l’Est aussi, surgissent de nouveaux think-tanks voulant prouver que leurs jeunes entrepreneurs sont tout autant capables de s’inviter au partage de la croissance. Créé à Rhodes en 2010, le Youth Forum, émanation du think-tank Youth Time basé en République tchèque, est l’un d’entre eux. Son objectif, volontiers idéaliste, est «de rapprocher les points de vue de nations émergentes» pour «poser les pierres d’un futur meilleur».

300 jeunes de 70 pays, activistes, écologistes, industriels mais aussi spécialistes des nouvelles technologies se réunissent une fois par an, pour apprendre à se connaître et «créer le monde de leur rêves», aidés en cela par des économistes ou des experts des phénomènes sociétaux. Le tout sous l’aile protectrice du «World Global forum of civilization».

Ce forum qui promeut les valeurs traditionalistes entend «renforcer les échanges culturels sur une base égale», explique celui qui le dirige, Vladimir Yakounine, le président des chemins de fer russes et proche de Vladimir Poutine. «Il est évident, aujourd’hui, que nous ne pouvons pas concevoir de monde unilatéral». Un exemple nourri sur celui de la Russie : «Nous comptons dans notre pays 190 nationalités et 80 confessions différentes cohabitant ensemble, et le seul moyen d’y parvenir consiste à laisser se côtoyer nos histoires et nos traditions sur un pied d’égalité, sans que l’une ne prenne le pas sur l’autre», assure le dirigeant russe.

Un discours qui recueille un fort écho auprès des jeunes activistes issus du monde en développement, qui veulent s’inviter à la table des pays développés. «Le monde bipolaire est fini», a expliqué l’homme d’affaires et responsable politique indien, Sam Pitroda, lors du dernier Youth Forum qui s’est tenu à New Delhi, fin mars. «Le modèle américain basé sur la consommation ne peut convenir aux trois milliards de pauvres qui n’ont accès à rien», a-t-il ajouté. Pour ce dernier, qui pourrait concourir au poste de président de l’Inde, en 2013, «il faut bâtir un nouveau monde, un nouveau modèle, basé sur la connectivité».

Anecdotique, voire idéaliste, vu de France, ces forums de jeunes traduisent, en réalité, un mouvement de fond, en parallèle à l’émergence des Brics, d’où ressort un désir de faire entendre sa voix à l’échelle planétaire, pour les économies en forte croissance. Et lorsque l’on s’étonne de voir pour le moment peu de jeunes européens y participer on répond, du côté du Youth Time, que «le but ultime est évidemment d’attirer davantage de jeunes entrepreneurs occidentaux, pour renforcer le dialogue et les échanges».

Le Figaro

vendredi, 27 avril 2012

L’empire du capitalisme criminel

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L'Empire du mal a étendu ses tentacules jusqu'aux Etats même. La maffia impériale domine l'Occident capitaliste et tient solidement sous sa coupe les institutions communautaires.

L’empire du capitalisme criminel

Sergueï Gouk

Ex: http://mbm.hautetfort.com/               

L’ONU s’intéresse enfin au problème des revenus de la criminalité. Rien qu’en 2009, le chiffre d’affaire du crime aurait atteint dans le monde 2,1 trillions de dollars, une somme comparable au PIB de la Grande-Bretagne. Le commentateur de la Voix de la Russie, Serguei Gouk, poursuit sur ce thème.


Les origines des revenus de la criminalité sont connues de tous : drogues, armes, trafic d’êtres humains, rackets, vols, etc. Selon les données de Youri Fédotov, qui est à la tête du bureau de l’ONU de lutte contre les délits économiques, le seul trafic d’esclaves rapporte annuellement 32 milliards de dollars aux barons du crime. La population subit aussi un vol d’un autre genre, plus secret. Selon l’ONU, la corruption coûte aux habitants des seuls pays riches le tribut annuel de 40 milliards de dollars. L’ONU se limite au rôle de chroniqueur des évènements. Le député Boris Reznik, membre de la commission pour la sécurité et la lutte contre la corruption donne son point de vue :


« Je pense qu’il n’y a presque pas de mécanismes de lobby au sein de l’ONU. Ce sont les Etats qui doivent lutter contre la corruption, ils possèdent les instruments pour lutter contre la corruption sous toutes ses formes. Malheureusement, dans notre patrie nous ne faisons souvent qu’imiter la lutte contre la corruption ».


« Souvent les schémas de corruption impliquent plusieurs pays. Ces états doivent coordonner leurs efforts pour lutter contre la corruption, mais ils le font très mal. Tout le monde sait qu’il existe des clans entiers corrompus. Ils sont en Italie, en Espagne, en Russie, aux Amériques. Mais je ne sais pas si ces mafieux seront traduits en justice », continue Boris Reznik. Les pourris représentent une menace toute particulière. Ce n’est pas un secret qu’il existe tout un tas de filous qui sont des mandataires des structures d’Etat. Certaines personnes craignent que les criminels commencent à parler devant le juge et dévoilent quelques affaires sensibles.


Les criminels essaient d’investir leurs butins le plus loin et le plus sûrement du lieu du crime. Les dictateurs qui spolient leur population agissent aussi ainsi. La différence entre les premiers et les seconds n’est pas très grande. La Suisse est la planque de toutes les personnes louches. Ses banquiers ont volontiers accepté l’argent et les bijoux des Nazis. Ils ne dédaignent pas aujourd’hui les milliards des criminels. Les bandits sont aussi acceptés par les banquiers luxembourgeois, américains, saoudiens et même allemands. L’argent sale se déplace d’un compte à l’autre, avant de s’évanouir définitivement dans la nature.

mardi, 24 avril 2012

Le règne du dollar en tant que monnaie internationale touche à sa fin

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Pourquoi le règne du dollar en tant que monnaie internationale touche à sa fin

Ex: http://www.latribune.fr/

 

latribune.fr (The Economic Collapse)

Le blog "The Economic Collapse" a recensé les dix principales raisons qui laissent présager la fin prochaine du dollar en tant que monnaie internationale de premier plan.

Depuis la fin de la Seconde Guerrre mondiale et les accords de Bretton Woods, les Etats-Unis ont bénéficié du rôle de réserve internationale du dollar sur le plan politique mais aussi et bien sûr économique. Cependant, le règne du dollar sur l'économie mondiale touchera bientôt à sa fin. C'est en tout cas l'avis du site "The Economic Collapse" qui évoque dans un article les dix principaux signaux annonciateurs d'un nouveau système, dans lequel le billet vert perdrait son statut. Les médias grand public américains sont, au passage, critiqués pour éluder complètement les accords bilatéraux entre des pays qui abandonnent le dollar pour leurs échanges.


1. La Chine et le Japon se passent du dollar pour leur commerce bilatéral

Il y a quelques mois, la deuxième économie du monde (la Chine) et la troisième (le Japon) ont conclu un accord qui va promouvoir l'utilisation des monnaies nationales (yuan et yen ndlr) dans le commerce bilatéral entre les deux pays.

2. Les BRICS (Brésil, Russie, Inde, Chine, Afrique du Sud) envisagent d'utiliser leurs propres monnaies pour leurs échanges bilatéraux

3. L'accord monétaire entre la Russie et la Chine

4. L'utilisation croissante de la monnaie chinoise en Afrique
En 2009, la Chine est devenue le premier partenaire commercial de l'Afrique àchercher et promouvoir l'utilisation du yuan par ce continent.

5. Vers la fin des pétrodollars ?
La Chine et les Emirats arabes unis ont convenu d'abandonner le dollar pour leurs transactions pétrolières. Bien que les montants sont pour le moment limités, si d'autres pays du Moyen-Orient venaient à prendre pareille initiative, cela marquerait le début de la fin pour les pétrodollars.

6. L'Iran
Compte tenu des tensions avec les Etats-Unis, la monnaie de l'Oncle Sam n'est pas la bienvenue en Iran. En exigeant de certains pays qu'ils règlent leurs achats de pétrole en or plutôt qu'en dollar, Téhéran contribue à l'affaiblissement du billet vert sur la scène internationale.

7. Les relations entre la Chine et l'Arabie Saoudite
Qui est aujourd'hui le plus gros importateur de pétrole saoudien ? La Chine bien sûr... Les deux pays se sont d'ailleurs regroupés pour financer la construction d'une raffinerie géante dans le port de Yanbu sur les côtes de la mer rouge. Combien de temps le dollar sera-t-il conservé comme monnaie d'échange avec Riyad alors que l'ex-empire du Milieu est devenu son principal client ?

8. Les Nations Unies poussent à l'adoption d'une nouvelle monnaie de réserve
Des rapports des Nations Unies appellent ouvertement à mettre fin à la domination du dollar en tant que monnaie de réserve internationale.

9. Le FMI redonne un coup de jeune au « Bancor »
Le Fonds monétaire internationale (FMI) a également abordé dans certains rapports la nécessité de réformer le système monétaire international. Est évoqué en particulier la mise en place d'une monnaie supranationale, le « Bancor », à laquelle les autres monnaies seraient rattachées. Ce système a été proposé par John Maynard Keynes lors du sommet de Bretton Woods en 1944 mais fut finalement abandonné au profit du dollar.

10. La plupart des autres pays que ceux précédemment évoqués... détestent les Etats-Unis
En quelques décennies, la cote de popularité des Etats-Unis a connu une chute vertigineuse. Même en Europe, les touristes américains sont contraints à se faire passer pour des Canadiens pour ne pas subir les critiques incessantes des populations locales. Ce ressentiment à l'encontre des Etats-Unis incite les pays à réfléchir à l'abandon du dollar en tant que monnaie internationale.

jeudi, 12 avril 2012

Le nouveau plan d’austérité de Rajoy, le coup de grâce pour l’Espagne

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Le nouveau plan d’austérité de Rajoy, le coup de grâce pour l’Espagne
 
L'Espagne est défunte, décapitée par la crise. Le nouveau premier ministre vient de lui trancher la tête, par les nouvelles mesures d'austérité qui tueront ce qui restait d'activité économique dans le pays. Vaya con Dios!
 
Ex: http://mbm.hautetfort.com/
                               
Le 6 avril 2012 (Nouvelle Solidarité) – Un journaliste d’investigation domicilié à Madrid nous a confié que les dernières mesures d’austérité annoncées par le Premier ministre Mariano Rajoy signifient que « l’Espagne est morte, et c’est ce que toute la presse affirme ici, ce qui veut dire que les choses vont tourner au vinaigre ».

Les coupes budgétaires totalisant 27,3 milliards d’euros pour l’année 2012 se concentreront principalement dans les dépenses publiques d’investissement, qui seront réduites de 36%, et ce dans un pays où le taux de chômage atteint près de 23%.

Les indemnités pour les chômeurs seront quand à elles coupées de 5,5%, même s’il est prévu que le nombre de sans-emploi s’accroîtra de 630 000 au cours de cette année, poussant le taux de chômage jusqu’à 26% de la population active.

Ces coupes sont imposées dans un contexte où les taux d’intérêt à moyen et à long terme sur la dette espagnole repartent à la hausse, atteignant hier la barre des 400 points de base de différence avec les taux allemands. Une grande partie des 27 milliards d’euros d’économies annoncées sont déjà alloués au remboursement de la dette, et il est clair que ces coupes vont tuer ce qui restait d’activité économique dans le pays.

Même l’oligarchie commence à reconnaître que la fin de la partie s’annonce. Un éditorial de Bloomberg avertissait hier que « l’Espagne, et non pas la Grèce, sera le véritable test pour l’Union européenne », et se plaint déjà que les décisions de Rajoy « ne sont simplement pas crédibles », et que l’approche de l’UE dans son ensemble commence à faillir.

La solution ? Dans un grand éclair de génie, Bloomberg suggère à la BCE d’imprimer plus d’argent pour renflouer l’Espagne et l’Europe. en réalité, il s’agit une fois de plus de renflouer les banques britanniques qui sont les plus impliquées en Espagne. Ce qui est nécessaire donc, c’est « une politique monétaire plus souple de la part de la BCE. Ceci signifie des transferts fiscaux nets mais temporaires vers l’Espagne. Par dessus tout, cela signifie que la BCE agira comme prêteur de dernier ressort vis-à-vis des gouvernements d’une zone euro en détresse. »

Soulignons que depuis 2008 la BCE n’a pas cessé d’accepter comme collatéral les obligations poubelles détenues par les banques européennes en Espagne, sans compter l’achat de bons grecs de toute sorte, ce qui n’a fait qu’aggraver la menace de faillite systémique de d’hyperinflation.

samedi, 07 avril 2012

Opleving Amerikaanse economie?

Opleving Amerikaanse economie?

Ex: http://voxop.org/

Nu de Dow Jones boven de 13.000 punten lijkt te komen, ondanks het feit dat ze meer dan de helft van hun echte waarde kwijt zijn geraakt, hoort men vaker wel dan niet dat de Amerikaanse economie er bovenop lijkt te komen. De realiteit is echter verre van waar.

In dit kort stuk wens ik even in te gaan op twee grafieken die een heel ander beeld laten zien.

Het eerste feit dat deze grafiek toont is de enorme olieverslaving die de VSA nog steeds vertoont. Iets dat in 2008 een zeer ernstig gevolg had, gecombineerd met de eerste zware schokken van de financiële crisis. Men ziet dat de olieprijs een direct gevolg heeft op de evolutie van de economie. Hoge olieprijs + hoge gezinsschulden, terwijl lonen stagneren of afnen beteken een directe val in de economische evolutie.

Deze olieverslaving, die men trouwens ook in de Europese economieën kan terugvinden, toont ook aan dat het overschakelen naar een diensteneconomie een markt niet veel minder gevoelig maakt voor olieprijzen. De redenering van bepaalde economen dat een postindustriële economie (“financialisatie” en “deindustrialisatie” van de economie) zou leiden tot een veel kleiner effect van olieprijsschommelingen op de economie krijgt hierdoor een grote klap.

Tevens toont deze grafiek aan dat wij helemaal geen economisch herstel meemaken. Onze economie zit nu terug op het niveau van 2008, wat algemeen als een recessie werd beschouwd. Koppel daar het feit aan dat tegenover 2008 onze economie de in Dow/Gold-ratio zelfs met 50%, ondertussen nog meer, gekrompen is, dan zijn dit ronduit akelige vooruitzichten. Wie dit economisch en maatschappelijk doemdenken vindt, dient enkel maar naar de volgende grafiek te kijken.

Ondertussen zijn 46,5 miljoen Amerikanen afhankelijk van voedselbonnen om te overleven.  En zelfs dat cijfer is ondertussen gestegen, de grafiek hiernaast dateert van december 2011. Tussen november 2011 en december 2011 was er een stijging van 384.000 mensen. 2011 zelf was goed voor een toename van 2,4 miljoen mensen. Sinds het aantreden van Obama in totaal 14,3 miljoen.

Niet dat men enorm zal profiteren hiervan, aangezien de stijging van het aantal afhankelijken omgekeerd evenredig is aan het bedrag en de hoeveelheid middelen dat zij krijgen als uitkering, momenteel zit het op 280$.

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vendredi, 06 avril 2012

Pétrole : Pourquoi une telle hausse des prix ? Pic pétrolier ou spéculation de Wall Street ?

W. Engdahl. Les variations de prix du baril brut à la hausse ne sont pas l'effet de la crainte qu'une guerre imminente entre l'Iran et Israël ou/et USA s'enclenche mais bien le fruit d'une spéculation criminelle à Wall Street, notamment de Goldman Sachs.

Pétrole : Pourquoi une telle hausse des prix ? Pic pétrolier ou spéculation de Wall Street ?

Mondialisation.ca, Le 2 avril 2012

Les actuelles fluctuations du prix du pétrole sont-elles d’ordre structurel ou bien sont-elles dues à la spéculation de quelques grands acteurs ? Quelle est la part de responsabilité des banques et des sociétés pétrolières et celle de ce que l’on appelle le "pic pétrolier" ? Et surtout, quels sont les garde-fous mis en place au niveau international et aux États-Unis par le Congrès US pour se prémunir contre d’éventuelles hausses "artificielles" des cours du brut ? Pour William Engdahl, auteur de l’article ci-dessous, la réponse est claire.

 

 

ICE Brent Crude [indice d'échange intercontinental du brut]
Clôture quotidienne des 12 mois précédents

Source: oilnergy.com

Depuis octobre l’an dernier, le prix du brut sur le marché mondial des contrats à terme a véritablement explosé. Chacun avance sa propre explication. La plus commune est la croyance, parmi les marchés financiers, qu’une guerre est imminente entre Israël et l’Iran, ou entre les USA et l’Iran, ou entre ces trois pays. Une autre explication veut que le prix augmente irrémédiablement du fait que l’on aurait dépassé ce qu’on appelle le « pic pétrolier » – le point sur une courbe de Gauss imaginaire (voir le graphique ci-dessous) où la moitié de toutes les réserves mondiales connues de pétrole ont été épuisées et où l’exploitation de ce qui reste va diminuer en quantité mais à un rythme et à des prix croissants.

 

 

Les justifications par le risque de guerre et par le pic pétrolier sont toutes les deux à côté de la plaque. Comme lors de l’escalade vertigineuse des prix au cours de l’été 2008 lorsque le pétrole avait brièvement atteint 147 $ le baril sur les marchés de contrats à terme, le prix actuel du pétrole augmente en raison d’actions spéculatives conduites sur les marchés par des Hedge Funds [fonds spéculatifs] et certains grandes banques comme Citigroup, JP Morgan Chase et surtout, Goldman Sachs, que l’on retrouve chaque fois qu’il y a des gros sous à se faire sans trop d’efforts, et en pariant sur quelque chose de sûr à 100%. Elles bénéficient en cela de l’aide généreuse de l’agence du gouvernement états-unien chargée de réguler les produits financiers dérivés, la Commodity Futures Trading Corporation (CFTC).

Depuis le début octobre 2011, il y a six mois, le prix des contrats à terme du Brent Crude lors des échanges de contrats à terme ICE est passé d’un peu moins de 100 $ le baril à plus de 126 $, une augmentation de plus de 25%. En 2009 le baril était à 30 $.

 

Source : LeMonde.fr

Pourtant la demande mondiale de brut n’augmente pas, au contraire, elle décroit pendant cette même période. L’Agence Internationale de l’Énergie (AIE) rapporte que l’offre mondiale de pétrole a augmenté de 1,3 million de barils quotidiens les trois derniers mois de 2011, alors que pour la m6eme période, la demande mondiale n’a augmenté que de la moitié de cette valeur. L’utilisation de l’essence a décru de 8% aux États-Unis, de 22% en Europe, et même chose en Chine. La récession dans une grande partie des pays de l’Union européenne, la récession/dépression croissante aux États-Unis, accompagné par le ralentissement [de l'économie] au Japon ont réduit la demande mondiale de pétrole, tandis que de nouvelles découvertes sont faites quotidiennement et que des pays comme l’Irak augmentent leur offre après plusieurs années de guerre. Le bref pic d’achats de pétrole par la Chine en janvier et février 2012 était lié à la décision prise en décembre dernier de constituer une réserve stratégique de pétrole, un retour à un niveau d’importation plus normal est attendu pour la fin de ce mois.

Alors pourquoi cet énorme pic dans les prix du pétrole ?

En jouant avec du « pétrole papier ».

Un rapide coup d’œil sur le fonctionnement actuel des marchés de « pétrole papier » aide à y voir plus clair. Depuis le rachat par Goldman Sachs dans les années 1980 de la société J. Aron & Co, un opportuniste négociant en matières premières, le commerce du brut est passé d’un domaine d’acheteurs et de revendeurs ponctuels de pétrole réel à un marché où ce ne sont pas l’offre et la demande courante de pétrole réel qui déterminent les prix journaliers, mais la spéculation non régulée dans les contrats pétroliers à terme, et les paris sur les prix d’un brut donné à une date donnée, ordinairement à 30, 60 ou 90 jours.

Depuis quelques années, un Congrès US accommodant pour Wall Street (et financé par lui) a voté plusieurs lois pour aider les banques intéressées par le négoce de contrats pétroliers à terme, dont un établissement en particulier qui a, en 2001, permis à Enron qui était alors en faillite de s’en tirer avec une combine "à la Ponzi" pour plusieurs milliards, et ce, avant qu’elle ne fasse faillite.

La loi de 2000 sur la modernisation des contrats à terme sur les matières premières (CFMA) a été ébauchée par l’actuel Secrétaire au Trésor du président Obama, Tim Geithner. La CFMA a en réalité donné carte blanche au commerce en vente libre (entre les institutions financières) de dérivés de contrats à terme sur l’énergie, sans aucune supervision du gouvernement des États-Unis, en raison de la pression financièrement influente du lobby des banques de Wall Street.

Le pétrole et d’autres matières énergétiques furent exemptés sous ce que l’on appela « l’échappatoire Enron ».

En 2008, alors que l’implication des banques de Wall Street dans la crise financière faisait scandale, le Congrès a dû voter une loi permettant d’outrepasser le veto du président George Bush, et de mettre fin à « l’échappatoire Enron ». À partir de janvier 2011, en vertu de la loi Dodd-Frank réformant Wall Street, la CFTC a reçu le pouvoir d’imposer immédiatement un plafonnement aux négociants de pétrole.

Étrangement, ces limitations n’ont pas encore été implémentées par la CFTC. Lors d’une récente interview, le sénateur Bernie Sanders du Vermont a déclaré que la CFTC n’avait pas « la volonté » d’appliquer ces plafonds mais qu’elle « devait se conformer à la loi ». Il a ajouté, « Ce que nous devons faire… c’est limiter la quantité de pétrole qu’une compagnie peut détenir sur le marché des contrats pétroliers à terme. En réalité, ces spéculateurs n’utilisent pas le pétrole, ils ne font que tirer profit de la spéculation, en faisant grimper les prix de vente. »[1] Alors qu’il affirmait haut et fort vouloir remédier à ces lacunes, le président de la CFTC Gary Gensler n’a toujours rien fait dans ce sens.

Notons au passage que Gensler est un ancien cadre de – vous l’aviez deviné – Goldman Sachs. Et la mise en application [de cette loi] par la CFTC n’est toujours pas faite.

Plusieurs sources ont relevé, l’automne dernier, le rôle central de certaines banques ou grandes sociétés pétrolières, comme BP, dans la constitution d’une nouvelle bulle des prix pétroliers qui se sont détachés de la réalité physique des calculs basés sur l’offre et la demande de barils.

Un « casino de jeux… »

Une estimation courante veut que les spéculateurs, c’est-à-dire les négociants de contrats à terme comme les banques ou les Hedge Funds, qui n’ont nullement l’intention de se faire livrer du pétrole, mais veulent seulement réaliser un profit sur le papier, contrôlent aujourd’hui près de 80% du marché des contrats pétroliers à terme, contre 30% il y a 10 ans.

L’an dernier, le président de la CFTC, Gary Gensler, peut-être pour conserver un semblant de crédibilité au moment où son agence ignorait encore le mandat légal du Congrès, a affirmé que « d’énormes apports d’argent spéculatif créent une prophétie auto-réalisatrice qui fait monter les prix des matières premières »[2], en référence aux marchés pétroliers. Début mars, le ministre koweïtien du pétrole, Hani Hussein, a déclaré lors d’une interview à la télévision d’État que « selon la théorie de l’offre et de la demande, les prix actuels du pétrole ne sont pas justifiés. »[3]

Michael Greenberger, professeur à l’Université de droit du Maryland, et ancien régulateur de la CFTC, qui avait essayé d’attirer l’attention du public sur les conséquences de la décision du Gouvernement états-unien de permettre une spéculation débridée et la manipulation des prix de l’énergie par les grandes banques et les fonds spéculatifs, a noté récemment qu’ « il y a 50 études montrant que la spéculation fait monter les prix du pétrole de façon incroyable, mais d’une manière ou d’une autre, cela n’a pas été intégré par les peuples. » Greenberger disait, « Une fois que le marché est dominé par les spéculateurs, ce que vous avez vraiment, c’est un immense casino de jeux. »[4]

Le résultat d’une régulation permissive des marchés pétroliers par le gouvernement états-unien a créé les conditions idéales par lesquelles une poignée de grandes banques et d’institutions financières – qui sont d’ailleurs, chose intéressante, les mêmes qui dominent le commerce mondial des contrats pétroliers à terme, et qui détiennent les actions du principal négociant pétrolier à Londres, ICE Futures – sont capables d’orchestrer d’énormes variations à court terme des prix que nous payons pour le gazole, l’essence et d’innombrables autres produits dérivés du pétrole.

Nous sommes maintenant au beau milieu d’une de ces variations, amplifiées par la rhétorique guerrière d’Israël sur le programme nucléaire iranien. Laissez-moi déclarer catégoriquement ma ferme conviction qu’Israël ne va pas s’engager directement dans une guerre avec l’Iran, et Washington non plus. Mais l’effet de la rhétorique guerrière est de créer la toile de fond idéale pour un pic spéculatif massif du pétrole. Certains spécialistes parlent du baril à 150 $ cet été.

Hillary Clinton s’est récemment assurée que le prix du pétrole continuerait de se maintenir à un niveau élevé pendant plusieurs mois grâce à la peur d’une guerre contre l’Iran, en lui lançant un nouvel ultimatum concernant son programme nucléaire lors de débats avec Sergeï Lavrov, le ministre russe des Affaires étrangères : « À la fin de l’année, ou sinon… »[5]

Curieusement, un des vrais moteurs de la bulle financière pétrolière provient des sanctions économiques imposées par l’Administration Obama sur les transactions pétrolières de la Banque Centrale d’Iran. En faisant pression ces dernières semaines à la fois sur le Japon, la Corée du Sud et l’Union Européenne pour qu’ils n’importent plus de pétrole iranien sous peine de sanctions, Washington a déclenché une énorme chute de l’offre de pétrole par l’Iran vers les marchés mondiaux, et a ainsi considérablement favorisé le jeu des contrats pétroliers à terme à Wall Street. Dans un récent article d’opinion paru dans le Financial Times de Londres, Ian Bremmer et David Gordon du groupe Eurasia écrivaient, « … même si cela cause effectivement quelques dégâts financiers à l’Iran, enlever trop de pétrole Iranien de l’offre mondiale d’énergie pourrait causer un pic du prix du pétrole et bloquerait la reprise. Pour la première fois peut-être, des sanctions ont le potentiel "de trop bien marcher", impactant autant ceux qui les subissent que ceux qui les appliquent. »

Selon Bloomberg, l’Iran exporte 300 000 à 400 000 barils de moins par jour que ses 2,5 millions habituels. La semaine dernière, l’Administration états-unienne de l’Information sur l’Énergie indiquait dans son rapport que la majeure partie de ce pétrole iranien n’était plus exporté parce que les assureurs refusent d’assurer les cargaisons.[6]

Pour les produits financiers dérivés du marché pétrolier, le problème de la spéculation illimitée et non réglementée, par une poignée de grandes banques n’est pas chose nouvelle. Un rapport datant de juin 2006 du sous-comité états-unien permanent d’Enquête sur « le rôle de la spéculation des marchés dans l’augmentation des prix du pétrole et du gaz » faisait remarquer : « …il existe des preuves solides permettant de conclure qu’une forte spéculation sur les marchés courants a considérablement augmenté les prix. »

Le rapport relevait que la CFTC avait été mandatée par le Congrès US pour garantir que les prix sur les marchés de contrats à terme reflétaient l’offre et la demande, et n’étaient pas victime des pratiques de manipulation ou des excès de la spéculation. La loi états-unienne sur l’Échange des Matières premières (Commodity Exchange Act, ou CEA) stipule que « toute spéculation excessive sur les matières premières sous contrat de vente faisant l’objet d’une livraison différée… qui cause des fluctuations soudaines ou déraisonnables, ou des changements infondés du prix de ces matières premières, est une charge indue et non nécessaire pour le commerce inter-États d’une de ces matières premières. » De plus la Commodity Exchange Act a ordonné à la CFTC d’établir des limites au commerce « que la Commission juge nécessaire pour diminuer, éliminer ou prévenir une telle charge. »[7]

Où en est la CFTC maintenant que nous avons besoin de ces plafonds ? Comme le sénateur Sanders l’a très justement fait remarquer, la CFTC semble ignorer la loi, et préférer les intérêts de Goldman Sachs et de ses amis de Wall Street qui dominent le commerce des contrats pétroliers à terme.

Au moment où il apparaîtra clairement que l’Administration Obama a agi pour prévenir une guerre avec l’Iran en utilisant différents moyens diplomatiques détournés, et que Netanyahu a simplement essayé de consolider sa position tactique pour marchander âprement avec une administration Obama qu’il méprise, le prix du pétrole est assuré dans les jours qui suivent de connaître une véritable chute libre. A ce jour, les principaux protagonistes de ces manipulations de produits financiers dérivés du marché pétrolier se frottent les mains et engraissent leurs comptes en banque, et l’effet de cette envolée des prix du pétrole sur la croissance de notre économie mondiale déjà fragilisée, surtout dans des pays comme la Chine, est également très préjudiciable.

William Engdahl

Article original en anglais :

 

Why The Huge Spike in Oil Prices? "Peak Oil" or Wall Street Speculation?
- by F. William Engdahl - 2012-03-16
 

 


Traduction Perry pour ReOpenNews

Notes :

  1. Oil Speculators Must Be Stopped and the CFTC “Needs to Obey the Law”: Sen. Bernie Sanders par Morgan Korn, pour le Daily Ticker, le 7 mars 2012
  2. Ibid.
  3. Kuwait’s oil minister believes current world oil prices are not justified, adding that the Gulf state’s current production rate will not affect its level of strategic reserves sur UpstreamOnline, le 12 mars 2012
  4. Behind Gas Price Increases, Obama’s Failure To Crack Down On Speculators par Peter S. Goodman, pour The Huffington Post, le 15 mars 2012
  5. US tells Russia to warn Iran of last chance par Tom Parfitt, sur The Telegraph, le 14 mars 2012
  6. Obama administration brushes off oil price impact of Iran sanctions, par Steve Levine, dans le Foreign Policy, le 8 mars 2012
  7. Perhaps 60% of today’s oil price is pure speculation’, par F. William Engdahl, pour Global Research, le 2 mai 2008

dimanche, 01 avril 2012

Les pays BRICS préparent un « coup d'Etat » financier

 

Le BRICS se rebiffe. Les cinq pays qui prennent de plus en plus de poids économique et financier de sorte à faire la balance avec les locomotives occidentales, veulent réaliser un putsch au sein du FMI et de la Banque Mondiale.

 

Les pays BRICS préparent un « coup d'Etat » financier

 

 

 

BRICS préparent un « coup d'Etat » financier

 

Photo: EPA
 
     

 

La Russie et les autres pays du groupe BRICS – Brésil, Inde, Chine et Afrique du Sud – veut que le FMI et la Banque mondiale modifient les règles du jeu. C'est ce qui ressort de la déclaration finale du sommet de New Delhi jeudi dernier.

 

Les leaders des cinq pays de BRICS sont mécontents : la répartition des quotas du FMI prend beaucoup trop de temps. Ils ont exigé d'avoir plus de voix dès l'année en cours. Selon l'expert russe Maxime Braterskiy, les pays de BRICS ne veulent plus accepter ce que l'Occident ne respecte pas des accords trouvés en ce qui concerne la répartition des voix a la faveur des pays émergents. La part de ces derniers dans l'économie mondiale est, d'ailleurs, en progression rapide, fait remarquer l'expert.

« Cette question ne date pas d'hier. Il y a deux ou trois ans, en marge d'un sommet du G20, les pays du groupe BRICS ont dit que leur poids au sein du FMI ne correspondait pas à l'importance de leurs économies. Ils ont pris une position commune en ce qui concerne la répartition des quotas, cela a produit de l’effet, les choses ont bougé et la Chine et l'Inde ont eu plusieurs voix supplémentaires. La Russie, elle n'a pratiquement rien gagné. Ce processus est vraiment très lent. Les pays de BRICS ont peut-être raison de vouloir donner un coup de fouet à la redistribution des quotas ».

De la même façon la réforme de la Banque mondiale qui peine à s'avancer, préoccupent les leaders des pays du groupe. On pourrait lancer les réformes visant à transformer la Banque mondiale en une institution polyvalente dès l'élection du nouveau président de l'organisation prévue pour avril prochain.

C'est la politique menée par les pays riches qui a eu des effets dévastateurs sur l'économie mondiale en engendrant la crise économique globale, ont affirmé les participants du sommet de New Delhi.

De façon plus générale, le sommet a démontré que les pays de BRICS était déterminés à lancer la réforme du système financier du monde ce qui témoigne de leur poids politique plus grand et du renforcement de leurs positions sur la scène internationale.

dimanche, 25 mars 2012

Pourquoi le protectionnisme progresse dans le monde

Pourquoi le protectionnisme progresse dans le monde

Alors que le protectionnisme revient au cœur des discours politiques en France depuis l’entrée en campagne des candidats à la présidentielle, l’Organisation mondiale du commerce (OMC) s’est inquiétée, lors de sa dernière conférence interministérielle à la mi-décembre, de la montée des barrières douanières depuis le début de la crise financière en 2008.

Nos élites font du ski... (caricature anglaise, 2009)

Selon l’OMC, le nombre de mesures protectionnistes initiées en 2011 s’élève à 340, contre 220 en 2010.

De son côté, l’organisme suisse Global trade alert (GTA) – qui recense l’ensemble des mesures commerciales dans le monde – avertissait, dans un rapport publié en novembre 2011, que trois mesures protectionnistes sont prises pour une mesure libéralisante depuis juillet 2011, et que les tensions commerciales ont atteint leur plus haut niveau depuis le « pic » de 2009.

UNE PERTE POTENTIELLE DE 800 MILLIARDS DE DOLLARS

Il n’en fallait pas plus pour que le directeur général de l’OMC, Pascal Lamy, appelle les membres de l’organisation à « restaurer un climat de confiance », qui est selon lui « une partie de la solution à la crise actuelle ». Reprenant l’inusable métaphore de la tempête protectionniste, il prévenait que si d’« importantes mesures protectionnistes » étaient mises en place, elles pourraient coûter 800 milliards de dollars à l’économie mondiale.

Il s’agit pour l’OMC d’éviter une redite de la Grande Dépression des années 1930, qui avait vu le commerce mondial se contracter dangereusement sous l’effet des barrières douanières, jusqu’à dissoudre les liens économiques entre des pays repliés sur eux-mêmes. Or cette dissolution n’est pas étrangère à l’entrée en guerre de 1939.

D’où l’idée, en 1947, de négocier un accord international sur les tarifs douaniers et le commerce (General agreement on tariffs and trade, GATT), qui a abouti en 1995 à la création de l’OMC, dont le rôle est d’arbitrer les relations commerciales tout en limitant le protectionnisme. Mais la libéralisation des échanges est loin d’être un processus linéaire, et quand un pays se trouve en difficulté économique, les acquis sont la plupart du temps remis en cause.  

L’ARGENTINE, GRANDE CHAMPIONNE

Les pays émergents sont, de loin, les plus friands de dispositifs protectionnistes. L’Argentine se taille la part du lion, avec 192 mesures, selon GTA. Si celles-ci ont fleuri après la crise qu’a traversé le pays en 2002, elles se font plus nombreuses encore depuis le début de la crise financière de 2008.

Dans le viseur de la présidente, Cristina Kirchner : le contrôle des importations. Sa dernière victime ? Le Royaume-Uni, qui a vu, à l’occasion du 30e anniversaire du conflit des Malouines, en février, ses exportations limitées.

Critiquées par les autres pays du Mercosur (Paraguay, Brésil et Uruguay) – qui représentent 25% des exportations et 31% des importations argentines -, ces mesures s’inscrivent pourtant dans un mouvement initié fin 2011 par l’alliance sud-américaine elle-même, qui a décidé en décembre d’augmenter temporairement ses taxes d’importation pour les produits provenant de l’extérieur du bloc. De son côté, le Brésil – qui compte 81 mesures protectionnistes – a augmenté sa taxation sur les véhicules importés, surtout ceux qui viennent de pays extérieurs au Mercosur.

Au nom de l’intérêt national, les autres pays émergents cherchent également à se protéger : la Russie (172 mesures recensées) se concentre elle aussi sur son industrie automobile, puisqu’un tiers des véhicules devront être équipés d’un moteur ou d’une transmission fabriqués localement jusqu’en 2020.

La Chine (95 mesures recensées) annonçait quant à elle en décembre la mise en place, pour deux ans, de nouvelles taxes douanières sur certains véhicules américains. D’ailleurs, l’OMC dénonçait en décembre la prolifération des aides « régionales » en faveur de l’automobile, qui atteignent désormais 48 milliards de dollars en cumulé, soit 37 milliards d’euros.

L’Inde (101 mesures recensées) n’est pas en reste puisque, sous la pression populaire, elle a pour le moment renoncé à ouvrir le secteur de la distribution. Début mars, elle a décrété un embargo sur ses exportations de coton, avant de revenir sur sa décision en raison de l’envolée des cours.

DE LA NÉGOCIATION AU CHANTAGE

Si le protectionnisme reprend de la vigueur avec la crise, les différends commerciaux ont de leur côté diminué… depuis 2008, et ce, contrairement aux précédentes périodes de ralentissement économique. Pascal Lamy indiquait fin février que le nombre d’enquêtes sur les cas de dumping s’est établi à 153 en 2011, contre 213 en 2008.

Tout un symbole, après plus de vingt ans, la « guerre des hormones » entre les Etats-Unis et l’Union européenne vient de prendre fin. Une autre s’apprête toutefois à prendre le relais autour des « terres rares », métaux précieux sur lesquels la Chine a le quasi-monopole, puisqu’elle possède un tiers des réserves accessibles, et plus de 95% du marché. Les États-Unis, l’Union européenne et le Japon ont d’ores et déjà porté plainte auprès de l’OMC.

Moins nombreux donc, les contentieux n’en sont pas moins durs, et ils frôlent parfois le chantage, comme quand la Chine décide de conditionner son aide à l’Union européenne à l’abandon de deux enquêtes anti-dumping et anti-subventions lancées par cette dernière. Ou prend d’importantes mesures de rétorsion en gelant la commande de 45 Airbus en riposte à la taxe carbone, mise en place par l’Union européenne – et ce, même si celle-ci est bien conforme aux règles édictées par l’OMC.

LES ÉMERGENTS EN LIGNE DE MIRE

Pour autant, malgré la pression nouvelle que les pays émergents mettent sur les pays développés, « le problème du protectionnisme n’est pas uniquement lié à ces pays. C’est particulièrement vrai dans le cas de l’Europe, puisque l’essentiel des échanges commerciaux des pays membres se font au sein de l’Union européenne », explique Mathieu Plane, économiste à l’OFCE.

« Avec la division internationale du travail, nous ne produisons pratiquement plus dans les secteurs à faible valeur ajoutée, comme le textile, qui demande beaucoup de main-d’œuvre à bas coûts. Nous n’avons donc pas intérêt à prendre des mesures protectionnistes contre la Chine dans le secteur textile, puisque tout ce qu’on y gagnerait, c’est l’augmentation des prix des produits importés que nous n’avons pas intérêt à produire », argumente-t-il.

Avant de relativiser la menace du géant asiatique. « La Chine ne représente que 8% des importations françaises. De fait, les principaux concurrents et partenaires de la France, ce sont les autres pays de l’UE, qui représentent environ 60% de nos échanges commerciaux – Allemagne en tête, avec 17%. »

C’est pourquoi, pour M. Plane, « plutôt que d’envisager des barrières douanières aux frontières de l’UE » – comme propose de le faire notamment Nicolas Sarkozy avec un « Buy European Act » calqué sur le modèle américain -, « il serait préférable d’éviter les comportements non-coopératifs existant au sein de l’UE, comme la mise en place de la TVA sociale en France ou la compression des coûts salariaux en Allemagne, mesures qui ont pour objectif de gagner des parts de marché au détriment de ses voisins européens ».

Le Monde

mardi, 20 mars 2012

La leçon de capitalisme de l’Islande

La leçon de capitalisme de l’Islande

Par deux fois, les Islandais ont refusé de rembourser la dette de leurs banques. Un bel exemple de résistance au capitalisme financier et un modèle pour la Grèce? Pas du tout. Les créanciers commencent à être remboursés et les règles du jeu libéral respectées jusqu’au bout.

Par deux fois, les Islandais ont refusé de rembourser la dette de leurs banques. Un bel exemple de résistance au capitalisme financier et un modèle pour la Grèce? Pas du tout. Les créanciers commencent à être remboursés et les règles du jeu libéral respectées jusqu’au bout.

Devenue célèbre pour avoir dit non par deux fois à un référendum sur le remboursement de sa dette vis à vis du Royaume-Uni et des Pays-Bas, l’Islande est devenu l’élève modèle des Indignés et de certains économistes: dire « non » au capitalisme financier, voilà la voie à suivre pour la Grèce, piégée par une dette faramineuse. Mais les deux pays sont dans des situations incomparables.

Différence majeure avec la Grèce, la dette de l’Islande n’est pas lié à une mauvaise gestions des comptes publiques, mais à ses banques. Avant 2008, les établissements islandais pratiquaient le ‘carry trade‘, une technique de spéculation qui consiste à emprunter de l’argent dans une devise peu chère (tel que le dollar ou le yen) pour effectuer des placements dans une devise offrant des taux d’intérêts plus élevés, en l’occurrence la couronne islandaise.

50 milliards partis en fumée

 

Par ailleurs, les banques islandaises proposaient à leurs clients étrangers des taux d’intérêts très avantageux, leur permettant de drainer des milliards d’euros et de livres de dépôts, diminuant ainsi leurs coûts de financement.

Mais patatras, la crise des subprimes passe par là, et rapidement, elles se retrouvent étouffées par la défiance généralisée des marchés interbancaires, ainsi que la chute des prix de leurs actifs financiers. Environ 50 milliards de dollars partiront ainsi en fumée, provoquant l’effondrement immédiat du système bancaire islandais. Début octobre 2008, les trois principales banques du pays sont nationalisées.

Parmi elles, la banque Landsbanki – via sa banque en ligne Icesave – laissa ses 340.000 clients britanniques et néerlandais sur le carreau, en leur bloquant l’accès à leurs comptes en ligne le 8 octobre 2008.

Reculer pour mieux faire sauter la banque

Mais en Europe comme en Islande (qui fait partie de l’Association Européenne de Libre Echange – AELE), les banques sont tenues de garantir les dépôts des clients jusqu’à un certain montant. Or, en tant que branche, et non filiale, la banque Icesave relevait du système de garantie islandais, quant bien même ses clients résidaient à Londres ou Amsterdam.

C’est donc à Rekjavik qu’il incombait de rembourser au moins 20.000 euros par client, soit près de 4 milliards d’euros au total, tandis que les créances totales reconnues par Landsbanki s’élèvent à plus de 7 milliards d’euros.

Au moment de l’effondrement bancaire, le gouvernement islandais, soucieux de préserver son économie nationale, est incapable de garantir le remboursement des clients étrangers de ses banques. Les autorités financières britanniques et néerlandaises décident alors de rembourser elles-mêmes les clients d’Icesave à hauteur de la garantie des dépôts de leur pays, avant, bien sûr, de demander à l’Islande de les rembourser.

Les Islandais disent deux fois « non » 

Quelques mois plus tard, à la faveur d’une accalmie des marchés, un long processus de négociations commença entre les trois gouvernements britanniques, néerlandais et islandais, afin de trouver un accord sur le remboursement des créances étrangères de Landsbanki.

Mais c’était sans compter la réaction du peuple islandais, qui demanda par pétition un référendum sur cet accord – reférendum que leur président de la République accorda. La suite de l’Histoire est désormais bien connue: les Islandais rejetèrent par deux fois ce texte.

Mais, si le « non » des islandais lors du second référendum a été très médiatisé, l’évolution de l’affaire a, depuis, été largement ignorée par la presse. Contrainte légalement de respecter la garantie des dépôts bancaires, l’Islande s’est fait réprimandée par l’autorité de surveillance de l’AELE.

Réponse de Rekjavik: le gouvernement n’a qu’une obligation de moyen vis à vis de du mécanisme de compensation des déposants et se devait protéger son économie nationale avant tout. De plus, quand bien même une obligation de résultat lui incomberait, l’Islande fait valoir que, pour faciliter le remboursement de leurs épargnants lésés, les gouvernements britanniques et néerlandais auraient fait « obstruction » à la réorganisation et au démantèlement de Landsbanki.

L’Islande paiera quand même

Rekjavik reproche notamment des pression subies, via le FMI, l’Union Européenne, ou encore l’usage de la loi anti-terroriste par Londres (!), afin de geler les actifs de la branche de Landsbanki en Angleterre.

Mais surtout, l’Islande fait valoir que la banque Landsbanki sera de toute façon en mesure de rembourser directement les autorités financières britanniques et néerlandaises, une fois que la liquidation de ses actifs aura été achevée. La banque aurait, en effet, près de 7 milliards d’euros d’actifs financiers. Largement de quoi payer ses créances les plus prioritaires.

Cette information semble échapper à certains responsables politiques, comme Phillip Davies. Ce député britannique trouve « inacceptable qu’un pays qui refuse de rembourser des milliards de livres touche un seul centime d’aide internationale ».

Il est bien mal informé. Landsbanki a effectué un premier paiement, le 7 décembre dernier, d’environ 2 milliards d’euros, soit environ un tiers des créances totales de la Grande-Bretagne et des Pays-Bas. Le reste suivra à mesure que Landsbanki liquide ses actifs, comme le montre le schéma suivant, tiré du dernier rapport trimestriel de la banque islandaise, aujourd’hui en processus de démantèlement.


Le déclenchement des premiers paiements n’a, en revanche, pas dissuadé l’autorité de surveillance de l’AELE de continuer sa procédure contre l’Islande. Le 14 décembre, elle décidé de l’assigner en justice pour son non respect de la directive européenne sur la garantie des dépôts qui exigeait que l’Islande rembourse les Pays-Bas et le Royaume Uni au plus tard un an après la faillite d’Icesave.

Mais cette procédure a bien peu de chance de changer la donne. Dans le pire des cas, l’Islande sera simplement obligée d’accélérer les remboursements, l’autorité de surveillance n’étant pas habilitée condamner les États membres à payer des pénalités.

« L’Islande n’avait pas le choix »

Finalement, le cas de l’Islande n’est pas un pied de nez au capitalisme, mais relève plutôt de la logique de base du capitalisme dans lequel les investisseurs qui ont pris des risques perdent parfois, tandis que les clients à qui l’on avait promis des garanties seront remboursés.

Pendant ce temps, l’Europe, elle, fait l’inverse. La BCE empêche, par exemple, que l’on inflige des pertes aux créanciers de la Banque irlandaise en faillite, Anglo, préférant prêter 1.000 milliards d’euros à trois ans aux banques pour les aider à se refinancer. En Grèce, le dernier plan de sauvetage prévoit 30 milliards d’euros d’aide en contrepartie des pertes subies « volontairement » sur la dette souveraine grecque. Bref, on fait tout pour éviter que les banques ne soient trop en difficultés.

L’Islande serait-elle un modèle à suivre pour l’Europe ? Le ministre des finances islandais, Steingrimur J. Sigfusson, interrogé en 2011 par Bloomberg, se gardait de donner des leçons: « Ce qui s’est passé en Islande, c’est une situation d’urgence qui ne pouvait être évitée. Ce que nous avons fait en 2008 n’était pas de notre libre choix. C’était ça où l’effondrement complet de l’économie islandaise ».

Faut-il que le pire arrive pour que les règles du capitalisme soient appliquées ? C’est semble-t-il la leçon que l’Islande nous livre aujourd’hui.

myeurop.info