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mardi, 27 décembre 2011

La critica di Spengler a Marx è di non aver capito il capitalismo moderno

La critica di Spengler a Marx è di non aver capito il capitalismo moderno

di Francesco Lamendola

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]




È quasi incredibile il fatto che neppure la crisi gravissima che le nostre società stanno attraversando abbia sollecitato negli ambienti culturali, oltre che in quelli economici, un serio dibattito sulle origini di essa e sui meccanismi della finanza che consentono di eludere il fisco e di spostare continuamente ingenti capitali al di fuori di qualsiasi controllo; meccanismi così capillari e pervasivi che perfino il più modesto cittadino, attraverso la trasformazione del risparmio in titoli azionari, diventa possessore teorico di proprietà delle quali non conosce assolutamente nulla se non il controvalore, sempre mutevole, in quotazioni borsistiche.
Questa arretratezza culturale quasi inconcepibile o, per dir meglio, questa assordante assenza di riflessione e di dibattito è, in larga misura, uno dei tanti effetti negativi che l’egemonia del marxismo ha avuto nella mentalità occidentale, anche fra coloro che lo hanno avversato e che lo hanno combattuto.
Una volta stabilito, in via definitiva, che Marx indiscutibilmente era un genio dell’economia politica, non restava che prendere per buona la sua analisi e attrezzarsi di conseguenza, sia che si auspicasse la rivoluzione comunista da lui propugnata, sia che la si paventasse; per cui non solo milioni di cittadini comuni, ma anche quasi tutta la schiera degli economisti e moltissimi filosofi dell’economia, sono rimasti letteralmente ipnotizzati dalle sue formule, dai suoi slogan e dai suoi mantra, ripetuti all’infinito con monotona ed esasperante insistenza.
Senonchè, Marx non era, forse, quel genio dell’economia che tutti affermano: la sua analisi dell’economia politica parte dalla realtà storica del 1848, ma vista - come osserva acutamente Oswald Spengler - con gli occhi di un liberale del 1789; in altre parole, le sue basi culturali erano quelle del diciottesimo secolo, e del capitalismo moderno egli aveva compreso poco o nulla, benché la rapida evoluzione di esso fosse proprio sotto i suoi occhi.
In particolare, Marx non si rese conto della crescente, inarrestabile trasformazione del capitale industriale in capitale finanziario e basò la sua riflessione su una figura quasi mitologica, quella del capitano d’industria che sfrutta gli operai della fabbrica, secondo il modello di Charles Dickens, mentre ben altri erano i meccanismi in movimento e ben altre le modalità di accumulazione capitalistica, assai più complesse e meno spettacolari.
E tuttavia, per quasi un secolo e mezzo, le masse occidentali sono rimaste affascinate e incantate da quella mitologia, da quello schema in bianco e nero, che presentava tutto come semplice e chiaro: di qua gli sfruttatori, alcuni loschi individui in cilindro e redingote, di là le masse sfruttate e sofferenti, gli onesti operai dalle mani callose, costretti a farsi schiavi delle macchine per impinguare i forzieri dei loro insaziabili padroni.
Lo stereotipo ingenuamente manicheo ha retto almeno fino al 1968, aiutato dal fatto, invero paradossale, che la cultura egemone in Italia, e in buona parte del mondo, fino a quella data e ancora oltre, è stata quella di matrice marxista, ma senza che praticamente nessuno di quanti la professavano si fosse dato in realtà la pena di leggere i ponderosi, noiosissimi volumi de «Il Capitale», e tanto meno di leggerli con un minimo di spirito critico. Non si legge un testo religioso con spirito critico, specialmente se si è degli apostoli zelanti: e tali si sentivano milioni di giovani e di meno giovai rivoluzionari” di sinistra, che facevano il tifo - oltre che per Marx - per Lenin, Stalin, Mao, Ho-chi-min e “Che” Guevara. I testi religiosi si citano come verità rivelata e si brandiscono come spade, magari per chiudere la bocca a qualche arrogante infedele.
L’immagine marxiana di una semplicistica contrapposizione fra “capitalista” e “proletario” è rimasta inalterata anche quando Engels, e soprattutto Lenin, hanno ripreso il discorso, riprendendolo là dove Marx di fatto lo aveva lasciato e sviluppando l’analisi del capitalismo finanziario, dei trust, dei cartelli e delle forme impersonali del capitale; ed è rimasta inalterata per la buona ragione che è molto più semplice creare un immaginario collettivo a sfondo mitologico, come ben sanno gli ideatori delle varie forme di pubblicità, specialmente televisiva, che non modificarlo o riequilibrarlo, una volta ch’esso si sia imposto.
Scriveva, dunque, Spengler ne «La rigenerazione del Reich» (titolo originale: «Neubau des Deutschen  Reiches», Munchen, 1924; traduzione italiana di Carlo Sandrelli, Edizioni di Ar, Padova, 1992, pp. 92-95):

«L’ideale delle imposte dirette, calcolate in base ad una corretta valutazione fiscale dei propri redditi e pagate personalmente da ogni concittadino, oggi domina così incondizionatamente che la sua equità ed efficacia sembrano evidenti. La critica si rivolge ad aspetti particolari, non al principio in quanto tale. Eppure esso deriva non da considerazioni ed esperienze pratiche, ed ancor meno dalla preoccupazione di sostenere la vita economica, bensì DALLA FILOSOFIA DI ROUSSEAU. Ai crudi metodi degli appaltatori e degli esattori del 18° secolo, volti esclusivamente alla realizzazione di un profitto, esso contrappone il concetto dei diritti umani nati, fondato sulla rappresentazione dello Stato come frutto di un libero contratto sociale - figura, questa, che a sua volta viene contrapposta alle forme statali storicamente sviluppatesi. Secondo questa concezione, è dovere del singolo cittadino e rientra nella sua dignità umana stimare personalmente e pagare personalmente la propria partecipazione al pagamento dei carichi che gravano sull’intera società. Da questo momento la moderna politica fiscale si fonda, dapprima inconsapevolmente poi in modo sempre più chiaro, in corrispondenza con la crescente democratizzazione dell’opinione pubblica, su una Weltanschauung che cede ai sentimenti e agli stati d’animo politici, alla fine escludendo completamente un riflessione spregiudicata sull’adeguatezza dei procedimenti correnti. Quel concetto tuttavia era allora sostenibile. A quell’epoca, la struttura dell’economia era tale che i singoli redditi erano tutti palesi e facilmente accertabili. Essi derivavano dall’agricoltura, da un ufficio oppure dal commercio e dall’industria., dove, in virtù di un’organizzazione corporativa, ognuno poteva conoscere la situazione dell’altro. Non esistevano entrate maggiori da tener nascoste. Inoltre, allora i patrimoni erano un possesso immobile e visibile: terra e campi, case, aziende ed imprese che ognuno sapeva a chi appartenevano. Ma proprio con la fine de secolo è intervenuto nell’ambito economico un sovvertimento che ne ha interamente modificatola struttura interna, il ciclo ed il significato, e che risulta molto più importante di ciò che Marx intende per capitalismo”, ossia l’egemonia dei capitani d’industria. Proprio la dottrina di Marx, poiché parte da una segreta invidia e perciò può scorgere soltanto la superficie delle cose, per un secolo intero ha disegnato con linee false l’immagine riconosciuta dell’economia. L’influenza delle sue formule speciose è stata tanto maggiore in quanto essa ha rimosso i giudizi riferiti all’esperienza, soppiantandoli con i giudizi dettati dal sentimento. È stata così grande che nemmeno i suoi avversari vi si sono sottratti e che la normativa moderna sul lavoro poggia totalmente sui concetti fondamentali interamente marxisti di “prestatore di lavoro”e “datori di lavoro” (come se questi ultimi non lavorassero). Poiché queste formule si riferiscono agli operai delle grandi città, la dottrina rifletteva la svolta decisiva intervenuta verso la metà del XIX secolo con la rapida crescita della grande industria. Ma proprio nell’ambito della grande tecnica lo sviluppo era stato assai regolare. Un’industria meccanica esisteva già dal 18° secolo. Agisce piuttosto da fattore decisivo il progressivo svanire della proprietà intesa come qualità naturale delle cose possedute, con l’introduzione di certificati di valore, quali i crediti, le partecipazioni o le azioni. I patrimoni individuali diventano mobili, invisibili e inafferrabili Essi non CONSTANO più di cose visibili, giacché in queste ultime sono INVESTITI ed in ogni momento possono mutare il luogo e le modalità di investimento. Il PROPRIETARIO delle aziende si è contemporaneamente trasformato in POSSESSORE di azioni. Gli azionisti hanno perduto qualsiasi rapporto naturale, organico con le aziende. Essi nulla capiscono delle loro funzioni e capacità produttive, né se ne interessano: badano solo al profitto. Possono cambiare rapidamente, essere molti o pochi, e trovarsi in qualsiasi luogo; le quote di partecipazione possono essere riunite in poche mani, oppure disperse o addirittura finire all’stero. Nessuno sa a chi realmente appartenga un’azienda. Nessun proprietario conosce le cose che possiede. Conosce soltanto il valore monetario di questa proprietà secondo le quote di Borsa. Non si sa mai quante delle cose che si trovano entro i confini di un Paese appartengono ai suoi abitanti. Infatti, da quando esiste un servizio elettrico di trasmissione delle notizie - che con una semplice disposizione orale consente di cambiare anche la titolarità delle azioni oppure di trasferirle all’estero -, la partecipazioni di azionisti azionali in aziende del nostro Paese può aumentare o ridursi di quantità impressionanti in un’ora di Borsa, a seconda che gli stranieri cedano o acquistino pacchetti azionari, magari in un solo giorno. Oggi in tutte le Nazioni ad economia avanzata oltre la metà delle proprietà è diventata mobile ed i suoi mutevoli proprietari sono disseminati per tutta la terra, avendo perduto ogni interesse che non sia finanziario al lavoro effettivamente compiuto. Anche l’imprenditore è diventato sempre più un impiegato ed un oggetto di questi ambienti. Tutto questo non è riconoscibile nelle aziende medesime e non è accettabile con alcun metodo fiscale. Così però svanisce la possibilità di verificare l’assolvimento del dovere fiscale della singola persona, se il possessore di valori variabili non lo vuole. Lo stesso vale in misura crescente per i redditi. La mobilità, la libertà professionale, la soppressione delle corporazioni sottrae il singolo al controllo dei suoi compagni di lavoro. Da quando esistono ferrovie, piroscafi, giornali e telegrammi, la circolazione delle notizie ha assunto forme che liberano L’acquisto e la vendita dal limite del tempo e dello spazio. La vendita a distanza domina l’economia. Le transazioni a termine superano il semplice scambio tra produttori e consumatori. Il fabbisogno locale per il quale lavorava la corporazione viene ora soddisfatto dalla Borsa merci, che approfitta dei nessi tra la produzione, la distribuzione e il consumo di cose per realizzare guadagni speculativi. Per le banche, al posto delle operazioni di cambio del 18° secolo,la fonte principale di guadagno diventa l’erogazione di crediti, mentre la speculazione con i valori diventati mobili decide da un giorno all’altro nella Borsa valori sull’ammontare del patrimonio nazionale. Così anche i profitti commerciali e speculativi risultano sottratti a qualsiasi controllo ufficiale,  alla fine rimangono soltanto i redditi medio-bassi che, come i salari e gli stipendi, sono così modesti che non è proprio possibile sbagliarsi sulla loro entità.»

Può essere una scoperta, per quanti hanno sempre considerato Spengler semplicemente come un filosofo della storia, scoprire in lui una tale acutezza nell’analisi dell’economia politica e una tale indipendenza di giudizio rispetto a un “mostro sacro” come Marx, del quale coglie tutta l’insufficienza speculativa, nonché i sotterranei meccanismi psicologici (la «segreta invidia» del piccolo borghese declassato rispetto ai ricchi imprenditori; salvo poi vivere senza alcun imbarazzo, si potrebbe aggiungere, sul portafoglio di quegli aborriti signori, tramite l’amico Engels che era, appunto, figlio di un capitano d’industria).
In effetti, la fama - positiva o negativa, questo non importa - de «Il tramonto dell’Occidente» ha messo alquanto in ombra le altre opere di questo filosofo e gli svariati e molteplici aspetti del suo itinerario speculativo.
Ma forse, vi è un’altra ragione per cui il cliché mitologico marxiano del capitalismo ha avuto tanto successo, nonostante la sua palese rozzezza e inverosimiglianza: il fatto che ampliare l’analisi dei meccanismi finanziari speculativi avrebbe recato un colpo decisivo all’immagine del proletario moralmente sano e antropologicamente differente dal bieco capitalista.
La verità è che, nella speculazione finanziaria, il cittadino comune è contemporaneamente vittima e carnefice: vittima, perché i suoi risparmi sono risucchiati in un mostruoso, anonimo meccanismo che li utilizza in modi a lui sconosciuti e, comunque, incomprensibili; carnefice, perché egli stesso si avvantaggia della legge della giungla che domina nelle Borse, e realizza margini di profitto ogni qualvolta si indeboliscono titoli e azioni detenuti da altri piccoli risparmiatori, simili a lui.
Tutto questo, naturalmente, non si accorda con il mito dell’operaio e del “lavoratore” senza macchia e senza paura, versione marxista del roussoiano “buon selvaggio”, perciò andava rimosso: le bandiere della rivoluzione andavano sventolate in omaggio a dei fantasmi ideologici, non alla realtà.


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lundi, 26 décembre 2011

Gare au clergé de l'idolâtrie financière !

Gare au clergé de l'idolâtrie financière !

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com/

Nous reproduisons ci-dessous un article du criminologue Xavier Raufer , cueilli sur le site du Nouvel Economiste et qui entend casser le discours uniforme et convenu produit par la caste des journalistes économiques et autres suppôts du libéralisme sur ces fameux marchés qui veulent imposer leur loi aux états...

 

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Gare au clergé de l'idolâtrie financière!

“Les marchés par-ci… les marchés par-là…” : lisons, scrutons les médias – ou, devrait-on plutôt dire, suivons la grand-messe médiatique. “Les marchés” : la révérence prosternée de tant de journalistes, de droite ou de gauche d’ailleurs, tout pareil. Une foi d’autant plus brûlante que leur feuille de paye dépend quand même un peu de la ferveur des génuflexions, en un temps où, désormais, maints médias nationaux d’information appartiennent à des milliardaires.

Identique révérence, notons-le, chez nombre de politiciens. “Les marchés” en Dieu jaloux, en Sauveur suprême ! Leur gloire, leur terrible majesté… leur implacable justice. Tels sont, au quotidien, les élans d’une néo-bigoterie médiatique à faire rougir un curé intégriste. Mais au fait, ces fameux “marchés” sont-ils une force, au sens de la physique d’Aristote ? Rappel : on ne perçoit jamais une force, on ne voit que ses effets : le vent et les branches qui bougent, les courants marins et les épaves dérivant même par calme plat, etc.

Non, les marchés ne sont en rien une force : celle-ci est naturelle, indifférente à l’homme – on ne manipule pas un séisme, on ne spécule pas sur un ouragan. Les marchés sont bien plutôt – on rougit de devoir le rappeler – une pure quantité métaphysique, d’essence ni plus ni moins religieuse que “le bon Dieu” ou “la Révolution”. Un de ces phénomènes para-religieux qu’au XVIIIe siècle les libres-penseurs, marquis de Sade en tête, qualifiaient crûment de “dégoûtant fantôme” ou de “superstition gothique”. Or comme tout culte, secte ou religion, une abstraction de type “les marchés”, “le bon Dieu” ou “la Révolution” ne fonctionne que quand on y croit. En son temps, l’Inquisition parlait d’“acte de foi” (autodafé).

Croire, ici au sens d’une crédulité toujours attisée ici-bas par des intercesseurs, par un clergé qui parle aux dieux, interprète leurs décrets ou colporte leurs messages – mais surtout, qui sait les apaiser.

Et là, avertit le criminologue, attention aux brebis galeuses. Dans le champ du religieux, cela va du gourou escroc à l’imam fraudeur, en passant par le rabbin receleur ou le curé pédophile. Certes, des minorités parmi bien de braves gens – des saints, parfois. Mais assez nombreux ces temps-ci pour que cela fasse désordre.

Dans le champ de l’idolâtrie financière, gare au Veau d’or ! Gare à Wall Street, temple dans le genre coupe-gorge. Nous avons récemment abordé ce sujet ici et donc, n’y revenons pas. Au-delà, gare au culte de la DGSI (Davos-Goldman-Sachs-Idéologie) mais surtout, gare à son clergé. Attention, aussi bien à ses grands prêtres à la Madoff qu’à sa prêtraille financière ou médiatique, préposée aux conversions boursières ou à l’agit-prop-encensoir.

Dès 2007, ce clergé-DGSI a montré combien il savait commettre, ou couvrir, les pires fraudes. Depuis lors, la fiévreuse avidité qui ronge ces dangereux zombies n’a pas diminué, au contraire. Ni leur addiction au dollar, d’autant plus maniaque qu’elle est sans doute l’unique antidote à leur vacuité intérieure.

Avidité ? Incontrôlable déferlement ? Qu’on en juge, au vu des récents exploits des prédateurs de Wall Street :

- Encore et de plus belle (International Herald Tribune, novembre 2011) : suite à maintes acrobaties, la société de Bourse MF Global s’effondre ce mois-ci. Les syndics de faillite découvrent alors la “disparition” de 600 millions de dollars de dépôts de ses clients, du fait d’une comptabilité interne “bâclée”. Mais à quoi bon faire soigneux, quand la justice est aux abonnés absents ?

- Impunité (New York Review of Books, novembre 2011) : “Jusqu’à ce jour, les agences fédérales [de répression] n’ont sérieusement inquiété aucun des principaux acteurs de l’effondrement et nul dirigeant de grande banque n’a été inculpé pour fraude criminelle.”

- Incorrigibles (New York Times, novembre 2011) : ces 15 dernières années, 19 grands établissements de Wall Street (Citibank, Goldman Sachs, JP Morgan Chase, Morgan Stanley, plus une quinzaine d’autres) ont été condamnés pour malversations financières. Et ont dû jurer devant la justice qu’ils ne violeraient désormais plus les lois financières fédérales de leur pays. Ils ont juré avec effusion – pour copieusement récidiver dans la foulée, 51 serments suivis d’autant de fraudes, de 1995 à 2010.

- Nouveaux territoires de prédation. En novembre 2011 toujours, Paul Volcker, ancien ministre des Finances des Etats-Unis et ex-président de la Réserve fédérale, s’inquiète fort de l’existence d’un “soi-disant ‘système bancaire fantôme’, banques d’affaires, hedge funds, assureurs, marchés monétaires et autres entités peu ou pas réglementées, qui explose vers l’an 2000 et égale en taille, dès juin 2008, le système bancaire traditionnel”.

Cependant, en matière d’aveuglement financier, le pire survient en Europe. Où, alors que perdure la prédation de Wall Street, les dirigeants de Bruxelles décident de confier au loup-DGSI les clés de la bergerie.

Plutôt prudent en matière financière, Le Monde en vient à dénoncer une “franc-maçonnerie de relations” : “Le nouveau président de la Banque centrale européenne, le président du Conseil italien et le nouveau Premier ministre grec”, sont tous des “anciens de chez Goldman Sachs”. On apprend ainsi l’existence d’un “maillage serré, souterrain comme public” d’hommes-liges de la DGSI, qui “cachent cette affiliation quand ils doivent donner une interview ou mènent une mission officielle”. Entre deux entourloupes financières, les mêmes trouvent le temps de se coopter aux postes dirigeants de la “Trilatérale, un des plus prestigieux cénacles de l’élite internationale”.

Minables maniaques de la conspiration ! Pauvres collectionneurs de complots ! Aujourd’hui, en matière de finance pousse-au-crime, les paranoïaques les plus échevelés sont quand même largement au-dessous de la vérité, telle qu’elle s’étale chaque jour dans la presse.

Xavier Raufer (Le nouvel Economiste, 25 novembre 2011)

lundi, 12 décembre 2011

L'entreprise autogérée

 

L'entreprise autogérée

Ex: http://physis.lautre.net/

Préambule : ce texte est la suite d’un précédent intitulé : « Démocratie politique, démocratie économique, démocratie globale » [1]; il se veut une approche de l’entreprise autogérée en tant qu’application des pratiques démocratiques à l’entreprise et plus généralement à l’économie. Malgré ses défauts structurels, l’entreprise capitaliste moderne est l’outil de production le plus évolué ayant jamais existé, il ne s’agit pas ici de voir l’entreprise autogérée en tant que « contraire » à son homologue capitaliste, mais comme un dépassement de celle-ci. Le point de départ permettant l’appréhension de l’entreprise autogérée ne peut donc ici être que l’entreprise capitaliste moderne, et non pas les différentes tentatives plus ou moins autogestionnaires ayant eu lieu dans d’autres contextes.

 

L’objectif de cet essai n’est pas de présenter un impossible modèle d’entreprise autogérée parfait et fini, mais d’apporter quelques éléments de réponse simples et concrets aux citoyens, de plus en plus nombreux, qui s’interrogent sur une alternative crédible à l’entreprise capitaliste.

 

L’idée d’autogestion

 

Si l’idée d’autogestion connut une certaine vogue en France dans les années 1970 son origine est plus ancienne ; même si le mot apparaît beaucoup plus tard, l’idée elle-même existe déjà dès le dix-neuvième siècle dans le courant de pensée socialiste, elle est inséparable des idées de « démocratie économique », de « socialisme libéral », et de « crédit social » que développe P.J. Proudhon, d’ailleurs souvent nommé « le père de l’autogestion ».

 

L’autogestion dans son application à l’entreprise correspond à une forme de gestion démocratique de celle-ci par ses travailleurs, mais l’idée peut être élargie au fonctionnement global du système socio-économique : l’autogestion généralisée (socialisme autogéré) permettant alors d’aboutir vers la démocratie globale. On ne détaillera pas ici le pourquoi de l’entreprise autogérée qui a déjà été argumenté : d’un point de vue socio-économique global [2], et du point de vue de la démocratie[3]. L’autogestion est le mode d’organisation de l’entreprise qui peut à la fois permettre de s’affranchir des incohérences sociales, économiques, et écologiques, qu’entraînent les mécanismes d’accumulation du capital et la loi du profit privé, et permettre l’instauration de véritables pratiques démocratiques dans l’entreprise.

 

Qu’est-ce qu’une entreprise autogérée ?

 

Une entreprise autogérée est avant tout une entreprise gérée par ses travailleurs, cette forme de gestion d’entreprise existe déjà dans le cadre des « coopératives ouvrières ». L’exemple le plus connu est celui de Mondragon (Mondragon Corporation Cooperativa), cette entreprise créée en 1943 par un prêtre du pays basque est aujourd’hui une société internationale qui emploie plus de 30 000 personnes. En France les 1500 « scops » existantes sont beaucoup plus petites puisqu’elles réunissent environ 30 000 salariés, soit ensemble un nombre équivalent à celui de Mondragon. Tout salarié-associé participe à la gestion démocratique de l’entreprise, mais l’entreprise peut employer de simples salariés qui ne bénéficient pas forcément des mêmes droits que les salariés-associés. Si l’entreprise coopérative présente une avancée certaine par rapport à l’entreprise capitaliste, elle ne règle pas pour autant le problème de l’inégalité du droit de propriété, car pour devenir associé il faut apporter sa part de capital qui dans le cas de Mondragon s’élève à un an de salaire. La scop peut elle-même faire appel à des actionnaires extérieurs, ce qui ne règle nullement le problème de l’inégalité économique créée par le privilège des revenus de l’argent. Il apparaît donc que les avancées permises par les coopératives sont très relatives, et que leur statut n’est pas encore suffisant pour correspondre aux critères essentiels de la démocratie économique.

 

Comme on l’a déjà vu [4], les deux obstacles essentiels à la démocratie économique sont le droit de propriété privée de l’entreprise, et les revenus privés de l’argent qui sert à son financement. La remise en question de ces deux éléments implique de définir un nouveau statut pour l’entreprise, ainsi qu’un nouveau mode de financement.

 

Le statut de l’entreprise autogéré

 

Le premier point concerne bien évidemment celui de la propriété de l’entreprise, si elle se libère de ses actionnaires, à qui sa propriété peut-elle bien revenir ?

 

- Aux travailleurs associés comme dans le cas des scops ? Il y aurait alors juste transfert du droit de propriété, le privilège du droit de propriété de l’entreprise passerait de l’actionnaire-rentier à l’actionnaire-travailleur, celui-ci devrait acheter son droit à participer à l’entreprise et l’inégalité économique inhérente à ce droit ne disparaîtrait pas.

 

- A l’État, comme dans le système socialiste soviétique ? L’histoire a montré, à ceux qui en doutaient, que concentrer entre les mains de l’État le pouvoir politique et le pouvoir économique était très néfaste pour la démocratie en général [5], et peu efficace d’un point de vue économique.

 

Si on veut vraiment que l’entreprise appartienne à quelqu’un, on risque d’avoir des difficultés à trouver d’autres possibilités, posons alors le problème différemment. Si on veut limiter le droit de propriété de l’entreprise de telle sorte qu’elle ne puisse être ni vendue ni achetée, ni que quiconque puisse tirer des bénéfices de ce seul droit, il ne reste guère que le droit d’y travailler, peut-on alors encore parler de droit de propriété ? Ne peut-on pas alors donner à l’entreprise un statut juridique la reconnaissant en dehors de tout droit de propriété, comme le sont de nombreuses associations ? D’ailleurs si la nature de l’entreprise autogérée n’est plus d’être l’objet de profit de ses actionnaires/propriétaires, ne devient-elle pas justement une association de travailleurs qui peuvent maintenant gérer eux-mêmes l’entreprise à laquelle ils participent ? Il existe en France de nombreuses « associations loi 1901″ qui emploient du personnel, produisent des biens et des services, et qui pourtant n’appartiennent à personne et ne peuvent être vendues. Il en est de même pour des administrations, pour des collectivités locales : une commune fonctionne comme une grosse entreprise, gère un budget important, assure une production de services et mêmes de certains biens, et pourtant ne peut être vendue ni achetée. Pourquoi n’en serait-il pas de même pour l’entreprise ?

 

Puisque c’est justement ce droit de propriété de l’entreprise qui est ici le premier point de blocage de la démocratie économique, l’adoption d’un nouveau statut juridique de l’entreprise doit permettre de la soustraire à cette contrainte. Comme toute association, elle pourra alors être démocratiquement gérée par ses membres, sans que ceux-ci en tirent un quelconque privilège inégalitaire. Seul leur travail dans l’entreprise sera la source de leur revenu, et aucun propriétaire ne pourra les en spolier d’une partie, ni décider à leur place la manière de gérer leur « association de travailleurs », ce qui correspond tout à fait aux valeurs de liberté et d’égalité associées aux pratiques démocratiques.

 

Le financement de l’entreprise autogérée

 

Dans l’entreprise capitaliste ou étatique, c’est d’une part le ou les propriétaires qui apportent à l’entreprise les fonds nécessaires à ses investissements, mais d’autre part elle se finance aussi soit à partir de ses profits, soit surtout à partir du crédit. L’entreprise autogérée n’ayant pas de propriétaire, et son objectif n’étant pas de dégager du profit et d’accumuler du capital mais de redistribuer à ses membres le fruit de leur travail, ne pourra logiquement être financée que par du crédit.

 

Dans l’entreprise capitaliste actuelle, le crédit provient de l’épargne et est fourni directement par des « ménages capitalistes » ou par l’intermédiaire d’établissements financiers privés, on peut facilement imaginer qu’ils ne vont pas être partants pour favoriser ce nouveau genre d’entreprise. En effet, ces agents financiers fonctionnent généralement suivant la logique du profit maximum et leurs intérêts vont dans le sens de l’entreprise capitaliste, l’entreprise autogérée entrera en concurrence avec celle-ci et risquera donc d’avoir du mal à trouver de cette manière les moyens de son nécessaire financement. De toute façon, ce type de financement fait appel au capital financier privé dont les revenus sont sources d’inégalités économiques [6], et ne peut guère s’accorder avec l’entreprise autogérée dont l’objectif est justement de pouvoir accéder à la démocratie économique la plus large possible.

 

Toutefois, l’entreprise autogérée a besoin d’accéder au crédit, et ceci dans des conditions égales pour chacun. Pour pouvoir le financer il y a au moins deux solutions techniques possibles :

 

- Un fond d’investissement financé par l’impôt, c’est à dire par une « épargne forcée ».

 

- Une libre sollicitation à l’épargne des ménages comme dans le système capitaliste. Bien sûr il ne s’agit pas ici de solliciter « l’épargne capitaliste » qui permet aux plus riches de s’enrichir sans limite, mais heureusement les ménages n’épargnent pas que pour s’enrichir. Malgré sa faible rémunération, une énorme majorité de français possèdent un livret de Caisse d’Épargne, beaucoup d’entre eux pourraient placer cet argent sous forme de placements de type capitaliste beaucoup plus avantageux, et pourtant ils ne le font pas. Les Caisses d’Épargne collectent ainsi une épargne populaire qui est normalement destinée à être prêtée pour des investissement à caractère social, cette épargne est à l’origine d’un « crédit social » que l’on peut nettement différencier du « crédit capitaliste ». Non seulement les intérêts versés aux déposants sont faibles, mais le montant des dépôts est plafonné ; même si le revenu de l’argent existe toujours, son aspect inégalitaire est ici considérablement diminué, il devient alors impossible aux plus riches d’assurer leurs revenus grâce à leur seule fortune. Vu le succès que rencontrent les livrets de Caisse d’épargne, on pourrait aisément collecter de la même manière de l’épargne destinée à assurer le financement des entreprises autogérées.

 

Dans le cadre de l’entreprise capitaliste, l’argent est attribué aux entreprises par des investisseurs privés qui agissent essentiellement suivant la seule règle de leur profit maximum. Cette règle fait dépendre l’investissement, et l’économie en général, de considérations et d’intérêts personnels qui le soumettent au bon vouloir des plus riches et n’ont absolument rien de démocratiques. Dans ce système l’accès au l’argent n’est pas égalitaire, une petite entreprise locale aura plus de mal à trouver l’argent nécessaire pour financer son développement qu’une société multinationale délocalisant sa production.

 

Dans le cadre de l’entreprise autogérée financée par du crédit social, les contraintes ne sont plus les mêmes, l’entreprise doit seulement rembourser des intérêts à taux fixes. Le financement de l’entreprise n’est plus soumis à la loi du profit maximum, mais à la seule contrainte de rembourser normalement ses emprunts. La « Caisse » chargée d’attribuer les crédits peut enfin examiner les dossiers de demande en fonctions de critères démocratiquement déterminés, la décision d’accorder ou non le prêt ne relèvera plus du seul privilège du plus riche, mais des conclusions d’une commission qui pourra être démocratiquement nommée.

 

La gestion de l’entreprise autogérée

 

Si les problèmes du statut et du financement de l’entreprise autogérée relèvent de questions d’ordre technique et peuvent trouver des réponses simples, il en est tout autrement de la gestion de l’entreprise. On touche ici un domaine qui est celui du comportement humain, l’autogestion n’est pas conçue comme un système où l’humain doit s’adapter aux besoins de l’entreprise (ce qui est le cas de l’entreprise capitaliste), mais au contraire où l’entreprise doit être le fruit de pratiques humaines librement choisies, et inévitablement différenciées et évolutives. On peut évidemment concevoir que cette gestion se fera en accord avec les valeurs et les pratiques démocratiques déjà connues, que l’entreprise sera sans doute gérée par un conseil d’administration élu par les travailleurs de l’entreprise, mais il ne faut pas oublier que la démocratie c’est aussi la diversité et le choix, c’est aux travailleurs eux-mêmes de décider comment organiser le fonctionnement de leur association. Ceci est vrai aussi bien pour l’organisation du travail que pour celui de la gestion de l’entreprise. D’un point de vue plus général, vouloir imposer aux membres de l’entreprise, « par le haut », un système prédéterminé, n’est pas conforme au principe de liberté de choix attaché à la démocratie, et est donc contradictoire avec l’idée même d’autogestion. On peut parfaitement imaginer que des entreprises autogérées fonctionnent suivant des pratiques productives différentes (postes fixes, rotation des tâches), suivant des hiérarchies de revenus différentes, suivant des modes de gestion différents ; ces méthodes de fonctionnement interne variant suivant des facteurs tels que la taille de l’entreprise, son type de production, ou les particularités culturelles locales.

 

Avantages de l’entreprise autogérée

 

Nul doute que ceux qui s’enrichissent en tirant profit de l’absence de démocratie dans l’entreprise trouveront des désavantages à l’entreprise autogérée, en attendant on voit mal quels pourraient être les effets négatifs d’une telle avancée sociale alors que ses avantages sont évidents :

 

- Dans l’entreprise capitaliste, l’intérêt des propriétaires, donc de l’entreprise, était contradictoire avec celui des salariés [7] ; dans l’entreprise autogérée, les intérêts de l’entreprise et des salariés deviennent communs. Les travailleurs sont directement responsables du bon fonctionnement de l’entreprise autogérée qui reste soumise à la concurrence et au risque de faillite ; c’est à eux de la gérer soit directement, soit en confiant cette charge à des gestionnaires compétents, qui ne leur seront pas imposés, mais qu’ils auront démocratiquement choisis pour défendre les intérêts de l’entreprise commune.

 

- L’investisseur capitaliste, qui peut facilement déplacer ses capitaux et qui vise le profit maximum, privilégie souvent la recherche du profit à court terme ; les membres de l’entreprise autogérée qui veulent sauvegarder leur outil de travail ont au contraire tout intérêt à gérer rationnellement leur outil de travail sur le long terme, il ne peut plus être ici question de négliger l’investissement ni de délocaliser la production.

 

- Contrairement à l’entreprise capitaliste, soit-disant libre mais en fait soumise au seul intérêt de ses propriétaires et à la seule loi du profit, l’entreprise autogérée est réellement libre. Elle est débarrassée du diktat de ses actionnaires qui la soumettaient au seul intérêt de leurs profits particuliers, elle n’est plus soumise à la contrainte de la rentabilité maximum, mais seulement à celle de son équilibre financier.

 

- La recherche des gains de productivité, qui ne profiteront plus aux profits du capital mais aux seuls travailleurs, jouera toujours le même rôle de stimulant à l’innovation technique. Les travailleurs devront eux-mêmes décider comment affecter ces gains : choisir entre plus de revenu ou plus de loisir ; bien sûr le rôle du législateur sera d’éviter les abus et de prendre les mesures utiles pour tendre vers un partage optimum du travail et des revenus.

 

- L’attribution du crédit selon des critères démocratiquement déterminés, et non plus selon celui du profit maximum, rendra son accès plus facile aux petites et moyennes entreprises souvent peu rentables.

 

- Le créateur d’entreprise, qui bien souvent aujourd’hui se trouve à la merci d’investisseurs capitalistes n’hésitant pas à lui « confisquer » sa création si elle s’avère rentable, pourra non seulement bénéficier plus facilement de fonds, mais ne pourra pas se faire exproprier d’un bien non négociable. Le créateur d’entreprise est un acteur économique très utile à la communauté, qui ne pourra qu’être encouragé et bénéficier d’un statut particulier dans la gestion de l’entreprise dont il est à l’origine.

 

Faisabilité de l’entreprise autogérée

 

Les paragraphes précédents montrent qu’aucun problème technique rédhibitoire ne se pose, aussi bien du point de vue du statut que de celui du financement ou de la gestion. L’entreprise autogérée n’a rien d’utopique et est parfaitement viable, elle présente même de nombreux et importants avantages par rapport à l’entreprise capitaliste. Elle est en elle-même révolutionnaire car fondée sur une approche socio-économique radicalement différente de l’approche capitaliste, mais son instauration n’implique pas nécessairement pour autant des changements profonds dans le système capitaliste lui-même. Elle peut parfaitement se greffer sur le système socio-économique capitaliste actuel sans pour autant nier totalement le droit de propriété d’entreprise qui peut toujours s’exercer au niveau des entreprises capitalistes. L’entreprise autogérée n’appartient à personne, donc à fortiori pas à l’État, elle n’est pas financée par des fonds gouvernementaux mais par une libre épargne ; il serait mal venu pour les idéologues capitalistes libéraux de la critiquer au nom de la libre concurrence et de la libre entreprise car, contrairement à l’entreprise capitaliste soumise à la loi du profit, elle est réellement libre et démocratique.

 

Contrairement à d’autres projets socialistes impliquant un changement radical et immédiat de la base économique capitaliste, l’entreprise autogérée peut parfaitement coexister avec l’entreprise capitaliste y compris sur une base concurrentielle ; elle offre donc l’avantage de se présenter en tant qu’alternative immédiate, dépendant d’une seule volonté politique. C’est un projet parfaitement adapté à un mouvement social avide de démocratie, et on ne voit pas bien quels arguments convaincants un gouvernement pourrait-il trouver pour rejeter une telle avancée économique ; il serait au contraire très intéressant pour tout le monde de tester ce genre d’entreprise, de pouvoir comparer en situation de concurrence l’entreprise capitaliste soumise à la loi du profit, et l’entreprise autogérée fonctionnant selon des pratiques démocratiques.

 

Le problème de la faisabilité de l’entreprise autogérée n’est pas d’ordre technique mais apparaît d’ordre politique et conjoncturel. On vit dans un système socio-économique capitaliste soumis à la nécessité d’accumulation et de croissance du capital privé, ce type d’entreprise est étranger à ce système, il lui serait même concurrent. Dans nos pays « développés », cette revendication est politiquement difficilement compatible avec une phase de croissance du capitalisme comme par exemple celle des trente glorieuses, car la conjoncture positive pour les salaires et l’emploi y rend difficilement acceptable l’idée d’un changement dont la masse des travailleurs ne peut que difficilement voir l’intérêt profond. En situation de « crise molle » telle que nous la connaissons depuis la fin des trente glorieuses, pour tenter d’éviter l’aggravation de la détérioration économique et sociale une des priorités essentielles des gouvernements est d’assurer les profits et la croissance du capital privé ; il apparaît alors difficilement imaginable que les dirigeants acceptent le principe d’une nouvelle forme d’entreprise qui pourrait prendre des parts de marchés si importantes pour la croissance du système capitaliste [8], d’autant plus que dans ce type de période les organisations ouvrières semblent se limiter essentiellement à des revendications défensives et ne s’intéresser guère à la recherche de solutions réellement alternatives. En fait cette revendication pourrait surtout vraiment montrer sa pertinence dans une phase d’aggravation de la crise, elle pourrait dans ce cas parfaitement devenir un mot d’ordre syndical, citoyen, et même politicien, porteur de réelle alternative. Si la crise s’aggravait fortement et se doublait de grosses difficultés du système financier, voire même de son effondrement, on pourrait alors concevoir que face à l’avalanche des faillites d’entreprises, et bien sûr sous la pression sociale habituelle à ce genre de situation, un gouvernement soucieux de relancer l’économie pourrait trouver tout avantage à accepter leur transformation en entreprises autogérées, tout comme il pourrait aussi avoir tout avantage à remplacer le crédit capitaliste, alors défaillant, par le crédit social.

 

L’entreprise autogérée, premier pas vers l’autogestion généralisée

 

Si l’entreprise autogérée est une avancée démocratique importante, et si on peut parfaitement concevoir son existence dans le cadre du système socio-économique capitaliste, elle peut aussi être conçue comme élément majeur d’un système socio-économique nouveau. Sa généralisation permettrait de libérer l’économie de la contrainte de la loi du profit et des conséquences négatives qu’elle induit dans le système socio-économique, elle aboutirait à l’abandon de l’entreprise capitaliste et à l’abolition du privilège des revenus de l’argent. On pourrait alors enfin connaître un système socio-économique :

 

- où la spéculation financière serait devenu impossible
- où le privilège de la richesse, permettant l’enrichissement grâce aux revenus de son argent, serait aboli,
- où l’exploitation systématique de l’homme, par l’argent et celui qui le possède, ne deviendrait plus qu’un souvenir,
- où l’économie ne serait plus au service du capital, mais à celui de l’humain,
- où le développement économique ne serait plus soumis à une absurde logique de croissance absolue, mais pourrait enfin devenir durable,
- où les gouvernants ne seraient plus soumis aux pressions et contraintes des lobbies de l’argent et du marché capitaliste, et pourraient enfin gérer le pays dans le sens de plus d’égalité économique et de respect de l’écosystème, dans le sens de plus de bien-être équitablement partagé.

 

Michel Lasserre (01/2002)

 

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[1] http://m-lasserre.com/textes/democratie.htm
[2] Cf « Vers le socialisme autogéré … » : http://www.m-lasserre.com/vlsa/vlsa.htm
[3] Id. (1) .
[4] Id. (1) .
[5] Le programme du Parti Social-Démocrate allemand de 1891, corrigé par Engels, soulevait déjà ce point. « Le parti social-démocrate n’a rien de commun avec ce qu’on appelle le socialisme d’état, avec le système des exploitations par l’état dans un but fiscal, système qui substitue l’état à l’entrepreneur particulier et qui, par là, réunit en une seule main la puissance de l’exploitation économique et de l’oppression politique ». (Critique des programmes de Gotha et d’Erfurt, Marx Engels, éd.sociales).
[6] Id. (1) .
[7] Id. (1) .
[8] Ce qui ne serait d’ailleurs pas si évident à démontrer : d’une part l’entreprise autogérée drainerait une partie de l’épargne qui ne s’investirait plus dans la finance capitaliste, ce qui diminuerait d’autant la croissance de la masse globale du capital financier donc ses exigences de croissance du marché capitaliste; d’autre part, pour sa production, l’entreprise autogérée pourrait utiliser les services d’entreprises capitalistes, et créer ainsi une extension de leur marché.

samedi, 03 décembre 2011

Turquie : un faux miracle économique ?

Ex: Le Courrier des Balkans (balkans.courriers.info/ )

Turquie : un faux miracle économique ?

 
En quasi banqueroute il y a dix ans, la Turquie est aujourd’hui une puissance régionale incontournable, tant sur le plan économique que politique. Croissance qui flirte avec les 10% en 2011, dette publique de moins de 40% et inflation contenue, la santé d’Ankara contraste avec les déboires de la zone euro. Pourtant, ce « miracle économique » cache une réalité bien moins reluisante. Analyse.
 
Par Vincent Doumayrou et Simon Rico
 
La Turquie connaît depuis quelques années un succès économique spectaculaire. Le PIB a augmenté de plus de 5% par an ces dix dernières années, et atteignait près de 9% au premier semestre 2011. La dette publique est passée de plus de 75 % du produit intérieur brut (PIB) en 2001 à 40 % aujourd’hui, bénéficiant des retombées de la politique d’austérité drastique menée par l’AKP. Le taux officiel d’inflation est également passé de plus de 100 % au milieu des années 1990 à moins de 5 % aujourd’hui, notamment parce que la Banque centrale s’est émancipée du Trésor.
 
Cette bonne santé économique, qui contraste avec la crise financière du début des années 2000, explique en bonne partie les succès électoraux de l’AKP, le parti islamo-conservateur au pouvoir depuis 2002. Il donne également à la Turquie les moyens de sa politique extérieure de rayonnement régional dans le Caucase, dans les Balkans, dans le monde arabe. Le Premier Ministre Recep Tayyip Erdoğan a même fixé comme objectif à la Turquie de faire partie des dix premières puissances économiques mondiales en 2023 - l’année où le pays fêtera le centenaire de la République fondée par Mustafa Kemal sur les décombres de l’Empire ottoman.
 
Une puissance fragile ?

17e puissance économique mondiale avec un PIB de 1.105 milliards de dollars (2010) selon le FMI et membre du G20, la Turquie est devenue en moins de dix ans un poids lourds émergent, aux côtés de la Chine, l’Inde ou du Brésil. La croissance de l’économie turque offre un contraste singulier avec la stagnation de l’Union européenne, et tout particulièrement avec la grande dépression que subit son voisin et rival grec. Mais alors que la crise de l’euro est observée avec une certaine joie rentrée par les dirigeants turcs, la santé économique du pays pourrait s’avérer fragile. D’abord parce que la moitié des exportations de la Turquie se fait, précisément, vers l’Union européenne. Une chute de la demande serait donc particulièrement préjudiciable pour les entreprises qui travaillent avec les 27.

De manière plus générale, la Turquie a une balance des paiements qui fait plus penser à celle de la France qu’à celle de la Chine. Son déficit courant, qui a atteint le chiffre record de 72,5 milliards de dollars en juin pourrait atteindre les 10 % du PIB d’ici la fin de l’année de l’aveu même du ministre de l’Économie. Ce rythme, intenable sur le long terme, signifie que la consommation des ménages et des entreprises dépend des financements extérieurs, et donc de la confiance que les investisseurs internationaux mettent dans le pays. On estime que le pays aura besoin de 200 milliards de dollars de financements extérieurs en 2012.
« Nous n’allons pas laisser la crise nous affecter psychologiquement, notre économie est loin d’être fragile » a expliqué, confiant, Recep Tayyip Erdoğan au cours de l’été. Dix ans après l’intervention du FMI pour éviter la banqueroute, Ankara peut s’enorgueillir de son succès. Système bancaire assaini - les banques ont un taux de solvabilité bien supérieur à leurs homologues européennes -, inflation en (forte) baisse, une dette publique contenue, la santé économique turque fait pâlir de jalousie la zone euro.

« Le message de M. Erdoğan est d’autant plus fort qu’après la chute du PIB en 2009 (-4,8%) le rebond de l’économie turque a été immédiat », constate Güldem Atabay, analyste chez UniCredit avant de préciser que « la Turquie n’est pas pas immunisée contre la crise. L’économie va ralentir et il y a encore un énorme problème de déficit courant ». Rétrospectivement, la profonde crise de 2001 a été une chance pour Ankara, lui permettant d’assainir son secteur bancaire à temps, avant que n’explose la bulle des subprimes en 2008.
 
De nombreux problèmes structurels

Aujourd’hui, un nouveau spectre guette le pays : celui de la hausse des crédits à la consommation au moment où la demande intérieure explose, comme en témoignent la joie des vendeurs de téléphones mobiles ou de voitures. Or ce boom - réel - est basé avant tout sur une hausse du crédit et non sur l’augmentation des revenus. Et tout le monde sait la bombe à retardement que peut représenter un endettement privé excessif pour la santé économique et sociale d’un État. Plus inquiétant, depuis un peu plus d’un an, les capitaux spéculatifs envahissent le marché turc, faisant craindre une bulle financière. En outre, la facture énergétique pourrait s’avérer lourde dans ce pays qui dépend largement des importations russes, que ce soit pour le pétrole ou pour le gaz.

La Turquie fait aussi face à divers problèmes d’ordre structurel. Elle pâtit d’un manque de compétitivité qui pourrait entraver sa croissance dans les années à venir. Le salaire moyen, qui atteint les 450 dollars mensuels, est plus élevé que dans la plupart des nouveaux États membres de l’UE alors que le pays dispose d’une main d’œuvre faiblement qualifiée. Le coût du travail est donc excessif au regard de la productivité. De plus, le pays n’a pas été capable de faire monter en gamme ses principales industries (textile, électronique de base, chimie, automobile), largement concurrencées à l’échelle mondiale. Aujourd’hui, plus de la moitié des 15-19 ans ne sont pas scolarisés, ce qui freine la mise en place de filières locale de recherche et développement.
 
Deux Turquies : industrielle à l’Ouest, rurale à l’Est

De même, le boom économique ne doit pas cacher le creusement des inégalités entre une Turquie urbaine à l’Ouest, qui bénéficie des avancées liées à la croissance, et une Turquie rurale à l’Est, marginalisée. Le salaire moyen dépasse désormais les 8.000 dollars à Istanbul, quatre fois plus que dans la zone jouxtant l’Iran. De même, « les femmes sont totalement exclues de la création de richesse nationale », rappelle Deniz Ünal, économiste au Centre d’Etudes Prospectives et d’Informations Internationales (CEPII). À peine 30% sont actives, et les deux tiers ne sont plus scolarisées après 15 ans.

Officiellement, le taux de chômage atteint 11,5% de la population, mais on estime qu’à peine 50% de la population active participe à l’économie, le reste étant constitué d’un secteur informel hypertrophié. « Il existe aujourd’hui une vraie dualité entre les grandes entreprises internationales, qui déclarent leurs salariés, et les PME qui emploient au noir », explique Sinan Ülgen, chercheur à l’ONG Carnegie Europe et président du think tank turc EDAM. La rigidité du marché du travail - procédure de licenciement très encadrée, quasiment pas d’intérim - favorise le travail au noir, de même que les charges élevées (impôts, cotisations sociales) qui atteignent 45% du salaire brut contre une moyenne de 38% en Europe.
Si la Turquie veut atteindre son objectif d’intégrer d’ici douze ans le cercle des dix nations les plus riches du monde, Ankara va devoir procéder à de nombreux ajustements, notamment pour accroître sa compétitivité et monter en gamme. Sinon, le pays risque de voir sa croissance stagner à moyen terme, quand des concurrents à bas coûts capteront ses parts de marché. Pour le moment, le futur géant dont rêvent les dirigeants de l’AKP a encore des pieds d’argile.

(Avec l’Expansion, la Tribune et The Financial Times)

vendredi, 02 décembre 2011

« La Finance pousse-au-crime » de Xavier Raufer

« La Finance pousse-au-crime » de Xavier Raufer ou Quand le crime et la fraude nourrissent la crise

Ex: http://www.polemia.com/

Du blanchiment de l’argent de la drogue à la machine infernale des « subprimes », voici comment la fraude a profité de l’aveuglement des États et de la naïveté des citoyens.

Le grand laxisme de l’Administration Obama

En mai 2010, James K.Galbraith, éminent professeur d’économie, dépose devant la sous-commission des affaires criminelles de la commission de justice du Sénat américain. Le fils du Prix Nobel éponyme fustige Tim Geithner (ministre des Finances des États-Unis) pour avoir refusé de commanditer un rapport approfondi sur l’étendue de la fraude dans la documentation des prêts hypothécaires, demandé en 2009 par le représentant Lloyd Doggett. « L’étude de la fraude financière a été négligée, s’indigne Galbraith, les économistes ont minimisé le rôle de la fraude dans toutes les crises analysées […] et ils continuent à le faire. »

En juin 2010, la Cour suprême des États-Unis restreint la notion de honest services, (services honnêtes) désormais uniquement invocable s’il y a eu, preuves à l’appui, rétrocommissions ou pots-de-vin.

Comme d’usage, un point mineur, un sujet abscons, perdu dans l’infinité des lignes d’un texte immense, une retouche d’allure anodine et technique, et une conséquence claire : épingler les délinquants en col blanc va devenir encore plus ardu pour les procureurs américains. On a bien lu : aux États-Unis, deux ans après Madoff, son futur successeur sera plus difficile encore à attraper et à condamner.

Le scandale des bureaux de change mexicains

En avril 2006, un DC-9 est saisi sur le tarmac de l’aéroport de Ciudad del Carmen (Mexique) ; il contient près de 6 tonnes de cocaïne. L’enquête révèle que l’avion a été acheté à Oklahoma City (États-Unis) avec des fonds transférés par Wachovia Corp. et Bank of America.

Wachovia n’est pas novice, dit le procureur fédéral américain chargé du dossier : quatre « narco-avions » ont été achetés par son truchement, ayant au total transporté 22 tonnes de cocaïne d’Amérique latine à la frontière des États-Unis. De 2004 à 2007, Wachovia a traité environ 380 milliards de dollars pour le compte de « bureaux de change » mexicains implantés aux États-Unis, bureaux dont chacun sait qu’ils sont la commode « pompe à fric » des narcos. Ce flagrant manque de compliance [soumission aux règles, NDLR], ajoute le procureur, a donné à ces derniers « carte blanche pour financer leurs opérations ». […]

Fin 2009, Antonio Maria Costa, qui dirige l’Onu Drogue and Crime (OnuDC), avertit qu’au plus fort de la crise (dix-huit mois entre 2007 et 2009, pendant lesquels le système bancaire mondial est quasi paralysé), des banques sevrées de liquidités ont absorbé d’importants flux d’argent criminel, certaines étant sauvées par cet afflux d’argent « noir ». A.M. Costa estime les profits annuels de la criminalité organisée internationale à environ 350 milliards de dollars…

Pire que les « subprimes », le scandale des saisies

L’enchaînement des fraudes ayant servi de détonateur à la crise des subprimes est désormais bien établi : des masses de prêts prédateurs- menteurs distribués à des ménages modestes et insolvables ; la titrisation de ces prêts en produits financiers innovants très risqués et abusivement bien notés par des agences spécialisées complices ; enfin leur vente par les grandes banques d’investissement de Wall Street à des clients mal conseillés. Cependant, après le déclenchement de la crise en 2008, on pouvait imaginer que les fraudes avaient cessé. Il n’en fut rien. Depuis, un nouveau scandale en partie criminel a émergé : le foreclosure gate ou le scandale des saisies.

Pourquoi ? Avec l’éclatement de la bulle immobilière (la chute des prix), les ménages américains piégés par les prêts prédateurs se sont révélés rapidement incapables d’assumer leurs échéances. Or les procédures de saisies immobilières menées par les mortgage lenders (les organismes de prêts) et les banques apparaissent piégées par une multitude d’éléments défectueux (pièces manquantes, erronées ou incomplètes) ou frauduleux (pièces maquillées, signatures falsifiées, documents antidatés, etc.).

Pour comprendre une situation aussi étrange, il faut remonter le temps. Pendant les années d’euphorie, des institutions financières ont fait fortune en revendant les prêts hypothécaires sous forme de produits financiers (titrisation) et ont créé à cette fin leur propre système informatisé (appelé MERS) enregistrant ces milliers de transactions de ventes et d’achats. Ce système MERS fait gagner du temps et surtout facilite la revente aux investisseurs de ces tonnes d’hypothèques frauduleuses car il produit des documents peu détaillés sur l’hypothèque et l’emprunteur.

Sans documentation suffisante, les acheteurs des produits financiers ne peuvent donc en évaluer la qualité réelle. La crise survenue, les banques et les lenders ont tenté de récupérer les maisons des propriétaires incapables d’honorer leurs échéances de prêts mais ont eu des difficultés à reconstituer la chaîne de la propriété des hypothèques et à retrouver les documents originaux.

Certaines banques ont alors contourné l’obstacle en fabriquant de faux documents. La confusion est si grande désormais que parfois plusieurs banques se retrouvent à réclamer la même maison ou à saisir des maisons sans incident de paiement !

Comme l’écrit le Prix Nobel d’économie Paul Krugman à propos de ces saisies immobilières douteuses : « Les histoires horribles prolifèrent. »

Le chaos de la documentation juridico-financière ainsi dévoilé n’est pas accessoire dans cette crise des subprimes mais un de ses éléments centraux de puis le début.

On comprend pourquoi en octobre 2010, les procureurs généraux des cinquante États ont annoncé leur décision d’ouvrir une enquête commune sur les suspicions de fraudes dans ces procédures de saisies immobilières déjà mises en œuvre ou non encore appliquées. L’enjeu est de taille : près de 11 millions de ces procédures ont été lancées entre 2008 et 2010, 20 millions de personnes sont concernées dont 2,8 millions ont déjà perdu leur logement.

Si ces fraudes sont avérées, les banques feront face à des montagnes de procès et perdront leurs droits sur des milliers de maisons. Les pertes pourraient s’avérer abyssales (des centaines de milliards de dollars) et condamner à la faillite certaines banques. Seront-elles à nouveau sauvées ? Le chaos en partie frauduleux des saisies immobilières pourrait compromettre le rétablissement du marché de l’immobilier aux États-Unis. Les enjeux sont donc considérables.

Cassandre à Wall Street

On l’ignore souvent, mais une partie importante de l’opposition entre régulateurs et dérégulateurs s’est précisément cristallisée sur la question des fraudes. Loin des débats théoriques et abstraits, la « question criminelle » a été en coulisses au centre du débat. Les dérégulateurs ont toujours considéré que les fraudes seraient absorbées, blanchies et évacuées par des marchés autorégulateurs ; leur réalité et leur influence ne pouvant s’avérer que marginales. Les régulateurs, en revanche, doutant de l’infaillibilité quasi divine des marchés, considéraient indispensable l’action d’un arbitre neutre afin de faire respecter les règles des marchés ; faute de quoi les comportements les plus louches prendraient le dessus et les dérégleraient.

Lors des années d’euphorie, la majorité des républicains et des démocrates se trouvait du côté des dérégulateurs, avec à leur tête Alan Greenspan. Les voix discordantes étaient isolées. Parmi celles-ci, il y eut Brooksley E. Born qui incarna le rôle d’une Cassandre moderne. À la tête d’une agence aussi stratégique que méconnue, la Commodity Futures Trading Commission (CFTC), en charge des marchés à terme, elle n’aura eu de cesse de mettre en garde contre les dérives d’un marché sensible et insuffisamment contrôlé.

Une anecdote significative mettant en présence ces deux personnalités montre bien la réalité de ce débat cachée aux yeux du plus grand nombre.

Peu après sa nomination en 1996 à la tête de la CFTC, B. E. Born est invitée par Alan Greenspan, alors président de la Réserve fédérale, à un déjeuner privé au siège de l’institution à Washington. Que se disent-ils ? B. E. Born rapporte ce surprenant dialogue :

A. Greenspan – « Eh bien, Brooksley, je parie que vous et moi ne serons jamais d’accord au sujet des fraudes.
B. E. Born – Sur quoi ne sommes-nous pas en accord ?
A. Greenspan – Eh bien, vous croirez probablement toujours qu’il faudrait qu’il y ait des lois contre les fraudes, et je ne pense pas quant à moi qu’il y ait un besoin quelconque d’une loi contre les fraudes. »

Ce déjeuner résonne pour B. E. Born comme une sonnette d’alarme.

Elle réalise l’absolutisme d’Alan Greenspan dans son opposition à toute forme de régulation. Pour un dogmatique comme A. Greenspan, la fraude est simplement un non-sujet. À la tête de la CFTC, B. E. Born constate combien le marché des produits dérivés est dangereux : « Il n’y avait aucune transparence sur ces marchés. Aucune supervision.

Aucun régulateur ne savait ce qui s’y passait. Il n’y avait aucun compte à rendre à personne. » En résumé, c’était le Far West. Elle comprend qu’en fait personne ne veut savoir […].

B. E. Born aurait été écoutée à l’époque, la crise des subprimes aurait pu être évitée…

La « tromperie » de Goldman Sachs

L’affaire Goldman Sachs éclate mi-avril 2010 après une plainte de la Securities and Exchange Commission (SEC). Le gendarme de la Bourse reproche à cette banque un double jeu de grande ampleur au préjudice de ses clients. D’un côté, leur avoir vendu des titres subprimes à hauts risques mais très bien notés par les agences et, d’un autre côté, d’avoir créé dans le même temps un produit financier (un CDO) pour et avec un fonds spéculatif (Paulson & Co) en pariant sur son effondrement. Ce type de pari financier à la baisse porte un nom à Wall Street : selling short ou short selling position. Goldman Sachs s’est comporté en « agent double » : comme banquier, il a semblé représenter les intérêts des investisseurs acheteurs de CDO, mais comme trader il a plutôt privilégié ceux de la salle de marché en pariant à la baisse contre ses clients investisseurs. Le cynisme du procédé est patent : est-il illégal ? Cette forme de déloyauté est-elle une fraude ?

La banque se défend alors de tout « conflit d’intérêts », arguant d’une étanchéité totale (Chinese wall) entre ses activités de trading et de conseil. Mais personne à Wall Street n’envisageait sérieusement que la SEC et Goldman Sachs poursuivent trop longtemps leur querelle. Dès juillet 2010, la SEC annonce qu’elle a conclu un accord avec la banque d’affaires.

Goldman Sachs s’engage à payer la somme de 550 millions de dollars pour avoir « trompé » ses investisseurs, soit un des settlements les plus importants de l’histoire financière américaine.

Cependant, même avec une sanction si rude, la SEC peut-elle réellement triompher ? Pas vraiment puisque ces 550 millions de dollars ne représentent que l’équivalent de 15 jours de profits de la banque en 2009, ou 3 % de l’enveloppe de primes de 16,2 milliards de dollars distribuée en 2009, ou encore 16 % de ses bénéfices du premier trimestre 2010. Surtout, cette pénalité semble bien modeste au regard des bénéfices que les tromperies en cause auraient rapporté à la banque : 15 milliards de dollars.

C’est pourquoi nombre d’experts prévoyaient ou espéraient que la SEC imposerait une somme au moins double. Dans cet accord, la banque ne reconnaît pas formellement la « tromperie » mais admet que les documents marketing présentant le CDO douteux (Aba cus) « contenaient des informations incomplètes »(incomplete informations) et que cela avait été « une erreur »(mistake) de ne pas révéler le rôle joué par le fonds Paulson. Finalement, la banque s’en sort bien : le PDG Lloyd C. Blankfein sauve sa tête et la banque réalise en plus un profit substantiel. En effet, dès l’annonce de l’accord avec la SEC, la valeur du titre de la banque augmentait de 2 % à la Bourse de New York dans un marché moribond. Un gain bien supérieur à l’amende fédérale. La réaction du « marché » signifie que, pour les investisseurs, cet accord est favorable à la banque. […] Goldman Sachs se voit désormais attribuer des surnoms probablement caricaturaux mais révélateurs de la perception d’une partie de l’opinion américaine : « Government Sachs » pour pointer son entrisme à Washington ou « Goldman Sacks » (to sack : piller) de manière plus infamante.

Encore faut-il ne pas se tromper dans l’analyse. Ainsi que le note Paul Krugman : « Goldman Sachs fait très bien son métier. Malheureusement, ce qu’elle fait est mauvais pour l’Amérique.» Et même pour le reste du monde.

On ne peut en effet reprocher à un renard d’être un renard, ni à une poule d’être une poule : on peut en revanche s’interroger sur les responsabilités et les raisons de ceux ayant consciemment ouvert les portes du poulailler.

Valeurs actuelles
24/11/2011
Valeurs actuelles.com

Xavier Raufer (Sous la direction de), La Finance pousse-au-crime, Choiseul Editions, octobre 2011, 144 pages, 17 €.

Correspondance Polémia – 28/11/2011

Machtübernahme: Goldman Sachs an der Spitze weltweiter Finanzpolitik

Machtübernahme: Goldman Sachs an der Spitze weltweiter Finanzpolitik

Paul Craig Roberts

Nur zwei Tage nach der mehr oder weniger gescheiterten Auktion deutscher Staatsanleihen, bei der Deutschland nur 65 Prozent der Anleihen loswerden konnte, erklärte der deutsche Finanzminister Wolfgang Schäuble, Deutschland werde möglicherweise von seiner Forderung Abstand nehmen, dass die Privatbanken, die Staatsanleihen der in Schieflage geratenen Staaten Griechenland Italien und Spanien halten, einen Teil der Kosten für ihre Rettung selbst übernehmen müssten, indem sie ein Teil der Schulden abschrieben.

 

 

 

Diese Banken wollen jegliche Verluste vermeiden, indem sie die griechische, italienische und spanische Regierung drängen, entweder für die Anleihen direkt aufzukommen, was notwendigerweise mit einer extremen Sparpolitik gegenüber ihren Bürgern einhergehen müsste, oder aber der Europäischen Zentralbank einzuräumen, praktisch unbegrenzte Liquidität bereitzustellen, mit der dann die von den Banken gehaltenen Staatsschulden aufgekauft werden könnten. Die Charta der EZB verbietet es, Liquidität für die Bezahlung von Staatsschulden zur Verfügung zu stellen. Und vor allem Deutschland hatte diese Möglichkeit aufgrund der Weimarer Erfahrungen mit Hyperinflation bisher abgelehnt.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/deutschland/paul-craig-roberts/die-banker-uebernehmen-die-macht-in-europa-goldman-sachs-steht-dabei-mit-an-der-spitze.html

 

mercredi, 30 novembre 2011

L’Europe : Premier pôle économique mondial sans tête !

L’Europe : Premier pôle économique mondial sans tête !

« Le problème de la dette dans la zone euro représente la pire crise depuis la Seconde Guerre mondiale  », a estimé lundi dernier la chancelière allemande. Pour l’historien Pierre Grosser, ce n’est pas l’économie qui fait défaut à l’Europe, mais l’absence de leadership politique.

Nos dirigeants, qui connaissent de moins en moins l’Histoire, martèlent que nous vivons la pire crise depuis les années 1930, voire du XXe siècle. Il suffit de connaître un peu l’état de l’Europe dans les années 1930 et surtout aux lendemains de la Seconde Guerre mondiale pour mettre en doute ces affirmations ! Les économies européennes ont absorbé les deux Guerres Mondiales, et en ont fait surgir de réels progrès sociaux : cela doit limiter les pessimismes… A moins qu’il faille considérer que les Européens ne réagissent que si la situation est vraiment catastrophique !

Thérapies de choc…

Il n’y a pas d’effondrement de la production, et nous sommes, fort heureusement, très loin des chiffres du chômage du début des années 1930. La fin complète du rationnement est intervenue seulement au début des années 1950 dans nombre de pays. La crise des années 1970 fut sévère, notamment parce qu’elle signifiait la fin du système productif issu de la révolution industrielle, et notamment de ses secteurs porteurs (charbon, acier).

 

Elle a été marquée dans les pays communistes, aux industries plus traditionnelles, et qui se sont endettés. La chute du communisme fut aussi le produit de cette vulnérabilité économique et de cette dépendance, notamment au Deutsche Mark. Bref, l’Est, comme le Sud, a connu crise de la dette, ajustements structurels, et donc des purges sévères imposées par les institutions financières internationales. C’est à l’Europe du Sud qu’on inflige désormais ces thérapies de choc…

Le tournant des années 1970-80 est essentiel

C’est le début d’une sorte de contre-révolution globale qui dure encore. Sous couvert de sauver le capitalisme de la crise et de le rénover, il fallait délégitimer les modèles socialistes et « étatistes ».

L’héritage du New Deal et du Welfare State (État providence) doivent être grignotés ; la droite nous dit que ces modèles sont périmés, et fait miroiter une modernité qui ressemble fort au XIXe siècle ! L’inflation, la hantise des rentiers, est depuis trente ans l’ennemi public n°1. Les impôts sur les entreprises et sur les riches ont massivement diminué. On a tout voulu faire passer par le marché, et on s’aperçoit qu’il est n’est pas seulement une ressource inépuisable de capitaux. Rappelons-nous Nicolas Sarkozy vantant l’Angleterre qui a sacrifié son industrie – comme l’Espagne avec sa bulle immobilière.

La crise est-elle si forte ?

Les entreprises se portent souvent bien, même si un système de comptabilité absurde fait chuter leur valeur en bourse alors que le volume d’échange d’actions a rarement été aussi faible. L’Europe reste attractive pour les investisseurs. La valeur de l’euro ne s’est pas effondrée. On est loin du sauve-qui-peut ! Le chiffre de la dette rapporté au PIB d’une seule année montre bien les absurdités du courtermisme. Il en est de même de la logique d’étouffement de la consommation par l’austérité – surtout si on n’a pas les capacités de se projeter sur les immenses marchés émergents.

La nouvelle configuration de la puissance montre qu’il faut du politique. La construction européenne est née du politique, avant de se figer dans des règles… qui n’ont même pas été respectées. Mais on a vendu aux peuples l’Europe libérale en promettant monts et merveilles, lors de l’Acte Unique en 1986, lors de Maastricht, ou lors de la création de l’Euro.

Faut-il vendre désormais plus d’Europe en faisant au contraire craindre la catastrophe et en demandant des sacrifices, la plupart du temps aux moins aisés ? Les fondations ne seront guère solides. Le problème est que la génération actuelle des hommes politiques n’a pas de vision à long terme, et que la dramatisation de la crise provoque des crispations nationales et électorales. Surtout, cette génération a une vision technocratique des enjeux, alors que la plupart des règles sont fixées par les lobbies bancaires… auxquels elle est toujours plus liée.

Est-ce une vision politique que de se précipiter vers une solution chinoise ? L’Europe reste le premier pôle économique mondial. Américains et Chinois pensent intérêt américain et intérêt chinois. Mais qui pense en termes d’intérêt européen ?

Atlantico

Une monnaie locale pour contrôler notre économie…

Une monnaie locale pour contrôler notre économie…

par Bob LENISSART

 

Pour que le peuple du Comté de Nice puisse agir, ici et maintenant, sur son destin, il faut bien sûr qu’il retrouve l’usage de sa langue, qu’il vive sa culture au quotidien et, aussi,  qu’il se donne les moyens de générer de la croissance chez lui, sans attendre des autres. Pour cela il existe un moyen : créer sa propre monnaie complémentaire.


Crise mondiale… Hypertrophie de l’économie

 

Nous arrivons, à présent, dans le cycle des grandes crises mondiales qui n’ont fait que commencer. Nous avons eu les effondrements spectaculaires de certaines banques aux États-Unis, suivi de l’effondrement d’autres banques dans le monde. Les gouvernements soutenant le système mondialiste marchand ont volé au secours d’une grande partie de celles-ci. Il ne fallait pas que les fondations du trône sur lequel ils étaient assis viennent à s’écrouler, les emportant du même coup. Ensuite, nous avons eu les répercutions de cette crise au niveau des entreprises transnationales qui ont réglé le problème sans se préoccuper des conséquences dans les différents pays touchés par leurs décisions. Enfin, nous avons vu, après l’Amérique du Sud, plusieurs pays européens touchés par cette crise (le tout augmenté par les tares de la Zone euro), pays qui ont fini par se retrouver dans une situation de faillite. Chez nous, en Europe, le phénomène a été accentué par la forme même de la structure communautaire mise en place.

 

Il n’a échappé à personne que la Communauté européenne est une construction totalement artificielle, car purement économique, et qui, à l’origine, a été construite fondamentalement à l’envers. En un mot, on a mis la charrue avant les bœufs. Nos grands penseurs qui ont rêvé de cette Europe, ont naïvement pensé qu’il suffirait de créer des structures économiques communes pour que l’Europe ne fasse plus qu’une. Ils ont naïvement pensé qu’une monnaie commune réunirait les peuples de cette Europe. Ils ont fondé ce monstre informel sur une philosophie capitaliste libérale qui ne fait pas partie de la culture économique des peuples d’Europe (que cela plaise ou non, les peuples européens ont, au niveau économique, une philosophie corporatiste… cette philosophie corporatiste qui échappe totalement à la mentalité américaine).

 

De cette façon, on a laissé un marché ouvert en Europe là où il aurait fallu protéger nos économies (et, donc, nos travailleurs) contre les prédateurs du mondialisme. Dans le même temps, on a créé une structure indépendante pour gérer la monnaie européenne qui échappe à tout pouvoir politique. L’aboutissement du système est arrivé à son terme : l’économie a envahi toutes les structures de nos sociétés. Elle est devenue, en Europe,  la première fonction là où elle n’était que la troisième. De là viennent tous nos malheurs.

 

Les tares de l’euro

 

L’erreur fondamentale des concepteurs de l’euro a été de  vouloir unifier l’Europe sous une monnaie unique sans laisser la possibilité aux États membres de pouvoir agir en cas de déficit de leur balance commerciale (dévaluer par exemple). Si un pays voit sa balance commerciale passer dans le rouge, il ne lui est pas possible de dévaluer la monnaie et comme la valeur de l’euro varie, en grande partie, en fonction de la balance commerciale de la Zone euro dans son ensemble cela met certains États dans une position pour le moins inconfortable. Comme actuellement, la balance commerciale de la Zone euro a un léger excédent, la valeur de l’euro monte, alors que plusieurs pays membres ont d’énormes déficits commerciaux. Ils n’ont plus d’autre recours que de se mettre en faillite (Grèce, Portugal, Espagne…, et qui sera le suivant ?). Le deuxième problème de conception de cette monnaie unique est l’absence totale de régulation commerciale à l’intérieur de la Zone : les pays aux balances négatives ne peuvent absolument pas rééquilibrer leurs comptes avec les pays aux balances positives. La seule possibilité qui leur est offerte est de diminuer les prestations de l’État, ce qui a pour effet de pénaliser leurs citoyens. On nous avait présenté l’euro comme un moyen de protection face à la mondialisation, c’est en fait tout le contraire que nous constatons : la Zone euro pousse à la concurrence sociale. Pour en terminer avec les tares de cette monnaie  unique, nous nous trouvons face à une banque centrale (n’ayant pas de comptes à rendre aux politiques) qui a tout pouvoir pour gérer cet euro, banque qui n’a qu’un seul but : lutter contre l’inflation.

 

Un peu d’histoire sur les monnaies

 

La monnaie a, de tout temps été, un instrument politique en même temps qu’un outil économique. Le fait de « battre monnaie » était un acte fort, marqueur de souveraineté. De plus, c’était un moyen de générer la confiance avec un outil d’échange qui était garanti par le souverain. Ainsi, cela permettait de développer le commerce et la richesse des populations d’un territoire délimité. Mais, cela n’interdisait nullement, au niveau local, le troc ou d’autres systèmes d’échanges. Cela a perduré longtemps dans les États souverains en Europe. Le changement initial, qui a induit tous les suivants, a été l’introduction de la monnaie – papier et cela a été accentué par les structures hyper-centralisées de certains États. La pseudo-Révolution française instituant le jacobinisme, forme de pouvoir centralisateur et, donc, forcément réducteur, suivi au XIXe siècle par la Révolution industrielle ont accéléré le mouvement. Il restait cependant, au pouvoir politique, la possibilité de faire varier le taux des monnaies pour réguler l’économie et l’emploi. Mais du jour, où les structures européennes ont été mises en place, sans qu’un pouvoir politique européen n’ait vu le jour (c’est-à-dire un État européen souverain et indépendant, émanation des toutes les composantes des peuples d’Europe), la machine a déraillé. C’est une constante de l’histoire : sans un pouvoir politique qui puisse la contrôler, l’économie devient folle. Il eut fallu qu’un pouvoir européen, fort, fruit de la volonté de tous, soit mis en place, pouvoir politique capable de « battre monnaie » et d’agir sur celle-ci, pour que le rêve européen devienne une réalité durable. Au lieu de cela, on a mis en place un seul pouvoir économique, qui échappe totalement aux politiques puisque le Parlement de Strasbourg n’est qu’une chambre d’enregistrement, voire de propositions de lois destinées à contraindre les populations dans le sens voulu par le marché. Et dans ce cas, sans contrôle,  l’économie capitaliste se développe suivant sa propre logique qui est une logique de profit, sans se préoccuper des dégâts collatéraux qu’elle peut occasionner. Les défauts de ce système sont accentués par le fait que l’on a développé une économie virtuelle, axée sur la spéculation, qui s’éloigne de plus en plus du réel.

 

Le réel finit toujours par rattraper le virtuel. Le naturel arrive, in fine, à éliminer l’artificiel. Que voulons-nous dire par là ?

 

Cela veut dire que ce qui est bâti sur du virtuel s’écroulera, à un moment ou à un autre,  à partir de l’instant où il viendra, tôt ou tard, se confronter au réel. Cela veut dire que toutes les constructions artificielles, qu’elles soient politiques, ethniques ou économiques, qui inévitablement conduisent dans le mur, seront abandonnées au profit de solutions naturelles qui se situent au niveau local, c’est-à-dire, bien souvent, au niveau d’un peuple et de son territoire.

 

Quelles solutions pourraient être inventées au niveau local pour échapper au règne de l’euro et de son emprise ? Une solution, la « Solution » serait de mettre en place une monnaie locale.

 

Qu’est-ce qu’une monnaie locale ?

 

Une monnaie locale, appelée aussi monnaie complémentaire, est, en sciences économiques, une monnaie non soutenue par un gouvernement national. Cette monnaie n’a pas nécessairement cours légal. Elle est destinée à être échangée dans une zone restreinte (nous verrons plus loin que la zone restreinte n’a pas un caractère fortement limitatif). En fait, de parler de monnaie locale veut dire que l’on se place dans un discours philosophique, politique et économique hors du commun. L’avantage des monnaies locales est qu’elles circulent beaucoup plus rapidement que les monnaies nationales, qu’elles permettent  à une communauté  d’utiliser complètement ses ressources productives et d’éviter que la richesse d’une communauté aillent vers d’autres régions ou pays, favorisant, ainsi, l’économie locale.

 

Pour nous résumer, une monnaie locale est une monnaie « interne », créée par une association, une municipalité ou une structure territoriale. Elle va servir dans les échanges locaux de biens et services, sur le modèle des S.E.L. (systèmes d’échanges locaux). Le rôle de cette monnaie locale est de permettre une  relocalisation de l’économie en favorisant les échanges locaux sans dresser de nouvelles barrières  douanières. Non seulement, elle fournit des ressources nouvelles pour valoriser la production locale, mais elle permet, aussi,  d’échapper à certaines taxes comme la T.V.A. par exemple. À l’inverse, elle crée, pour les produits soumis à la T.V.A., une protection  douanière (la T.V.A. devenant un droit de douane local).

 

Il faut savoir que nous employons déjà des monnaies complémentaires telles que les tickets restaurant ou les « Smiles » récoltés chez  certains commerçants. Il faut savoir, également, que des monnaies locales (ou complémentaires) existent dans l’Hexagone et qu’elles sont répandues dans le monde entier.

 

Une des premières expériences de monnaie locale a vu le jour en juillet 1932,  à Wörgl en Autriche (avec les bons-travail). Il y a, en Suisse, le W.I.R., qui est né en 1934 et fonctionne encore aujourd’hui (60 000 P.M.E. adhèrent à ce système). Plus près de nous, a été créé, en 2006, dans l’État du Massachusetts, dans la région du Berkshire, une monnaie locale, les « brekshares », qui fonctionne à merveille (trois cent cinquante commerces locaux acceptent les « brekshares », deux millions de billets émis et cinq banques participantes), en Allemagne, il existe une soixantaine de monnaies locales (par exemple, il y a le « regio » qui fédère une trentaine de monnaies locales) qui, même si elles n’apportent pas d’avantages particuliers, sont régulièrement utilisées par les Allemands à cause de leur réticence vis-à-vis de l’euro. Enfin, en France, il existe, déjà, des monnaies locales comme l’« abeille » à Villeneuve-sur-Lot et la « mesure » sur Romans-en-Isère. Nous citerons, également, le « sol » qui vient d’être adopté par la ville de Toulouse qui est plutôt une monnaie solidaire, utilisable par carte à puce et Internet, et qui devrait, dans le projet toulousain, voir apparaître des billets.

 

Pourquoi créer, dans un territoire donné, une monnaie locale ?

 

— D’abord parce qu’elle permet de privilégier la fonction d’échange de la monnaie par opposition à sa capitalisation.

 

— Parce qu’en convertissant des euros en monnaie locale, je contribue à soutenir l’économie régionale et les associations locales (grâce au principe de taux d’intérêt négatif) : je fais donc, ainsi, un véritable acte militant.

 

— Parce qu’elle aurait un effet d’entraînement sur le tissu de P.M.E. locales (qui représentent quand même l’essentiel des possibilités de créations d’emploi).

 

— Parce que la T.V.A. sera le différentiel qui pratiquement deviendra une taxe d’importation de produits non élaborés au pays. Cela favorisera la production locale.

 

— De plus, nous savons bien que, si les monnaies complémentaires représentent une chance locale, elles sont aussi une voie de sécurisation de l’économie mondiale, ne serait que par l’effet d’amortissement progressif des variations. Bernard Lietaer, à cet égard, nous dit que « la résilience d’un système – quel qu’il soit – est d’autant plus grande  que ce système est pluriel et à forte inter-connectivité ». Un organisme pluricellulaire est plus résilient que le monocellulaire. La forêt alpine l’est d’avantage que la forêt landaise, et un système monétaire articulant monnaies officielles et monnaies complémentaires davantage qu’un système à monnaie unique.

 

C’est pourquoi il nous paraît important de nous pencher sur ce problème de la monnaie dans notre Comté de Nice. Même nos hommes politiques seraient bien inspirés d’examiner avec attention l’intérêt qu’il y aurait à créer cette monnaie complémentaire : ils pourraient régler des problèmes d’emploi de leurs électeurs potentiels par la redynamisation des entreprises locales. Ils pourraient aussi voir l’argent dépensé dans notre région rester dans cette région : « La monnaie est comme le sang d’un être vivant : il ne faut pas qu’elle sorte du corps qu’elle est censée irriguer, sinon ce dernier dépérit ». Nous avons vu que définir le monde entier comme limites de ce corps ne fonctionne pas puisque l’argent peut partir migrer dans des parties éloignées de certaines régions vitales de l’organisme (système de condensation ou de migration de la monnaie dans certaines parties du système) : cela entraîne un gonflement de certaines parties du corps au détriment du reste. Il faut donc définir une zone d’un écosystème viable économiquement parlant et y créer une banque centrale locale qui générera et contrôlera la monnaie en cours dans ce territoire.

 

C’est pourquoi il nous semble qu’un territoire comme le Comté de Nice pourrait créer sa propre monnaie (dans le cadre d’une nouvelle Métropole – Comté de Nice par exemple), une monnaie qui nous permettrait de créer une solidarité active entre tous les gens vivant sur ce territoire.

 

 

Demain, nous pourrions faire nos échanges avec la monnaie complémentaire locale : « Aloura, Madama, voules ben de lou miéu pei ben fres. Es mancou car : 9 céba e 50 cébéta dou kilò. (Alors, Madame, vous voulez bien de mon poisson bien frais. Il n’est pas cher : 9 céba et 50 cébéta du kilo) ». Le jour où nous entendrons ce dialogue au marché, nous aurons déjà accompli un grand pas vers la réappropriation de notre environnement économique et culturel.


Bob Lenissart

 

• D’abord mis en ligne sur le site Racines du pays niçois / Raïs dou Païs nissart, le 29 juin 2011.

 


 

Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

 

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lundi, 28 novembre 2011

Royaume-Uni : La tension monte entre Britanniques au chômage et immigrés au travail

Royaume-Uni : La tension monte entre Britanniques au chômage et immigrés au travail

Par Michèle Tribalat

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

La crise n’a pas réduit l’afflux de travailleurs étrangers outre-Manche, notamment non Européens. Ni leur capacité à trouver du travail : plus flexibles sur les horaires et les salaires, ils sont toujours plus nombreux à exercer une activité, alors que de plus en plus de Britanniques se retrouvent eux au chômage.

L’immigration au Royaume-Uni n’a guère faibli pendant les années de crise avec, cependant, moins d’entrées au motif du travail mais un accroissement très important des entrées d’étudiants.

David Cameron avait promis de traiter la question migratoire dans son ensemble pour qu’il n’y ait pas de report et éviter l’abus du statut d’étudiant. Il n’a manifestement pas réussi. Entre juin 2009 et juin 2010, le nombre d’étudiants ayant reçu un visa est passé de 268.000 à 362.000, soit une augmentation de 35 %.

Si la migration en provenance des nouveaux entrants dans l’Union européenne s’est ajustée à la crise – le solde des entrées et des sorties est désormais très faible -, il n’en va pas de même pour le reste de l’immigration étrangère. Le solde migratoire annuel des étrangers, en moyenne mobile, était encore supérieur à 200.000 en mars 2010, soit un niveau comparable à celui observé en mars 2006. Le repli de l’immigration en provenance des nouveaux entrants de l’UE a donc eu peu d’effet sur le niveau d’ensemble des flux.

L’Office national de la statistique vient de publier une statistique qui fait scandale. En un an, l’emploi des personnes nées à l’étranger s’est accru de 181.000 alors que celui des Britanniques nés au Royaume-Uni s’est effondré (- 311.000). La motivation et l’acceptation d’horaires et de conditions de travail pénibles seraient plus grandes chez ceux qui viennent de l’étranger. Les employeurs trouvent les jeunes Britanniques trop feignants et démotivés.

 

Ces arguments ne sont pas nouveaux. Les employeurs préfèrent recruter des immigrés plus qualifiés que les natifs, ou alors plus disposés à accepter les conditions de travail et les salaires que ces derniers refusent. En 2008, le rapport de la Chambre des Lords sur l’impact de l’immigration faisait déjà part de ses craintes que ne « se développe une demande spécifique des employeurs pour des immigrants aux exigences faibles en matière de salaire et de conditions de travail ». Nous y sommes. En période de crise, la situation semble sans doute encore plus choquante.

Par ailleurs, une pétition lancée par Migration Watch UK demandant à ce que l’immigration soit progressivement réduite afin de revenir à un solde migratoire ne dépassant pas 40.000 a été signée, en une semaine, par 100.000 personnes. Avec les statistiques publiées sur les créations d’emploi par l’ONS, nul doute que la pression va s’accroître sur le gouvernement britannique pour faire baisser l’immigration étrangère.

Atlantico

samedi, 26 novembre 2011

LA CLAVE REAL DEL 20-N

LA CLAVE REAL DEL 20-N.

Por Ernesto Milá

Ex: http://areaidentitaria.blogspot.com/

 
 
 
¿Por qué los ataques AHORA a la deuda española?.- El día 13, el rey encargará a Mariano Rajoy la formación de nuevo gobierno y una semana después los nuevos ministros jurarán su cargo. Salvo que el día de las elecciones ocurriera un imprevisto como el del 11-M, o similar, la victoria de Rajoy está tan cantada que resulta ocioso convocar elecciones y hubiera valido más realizar el cambio de gobierno de espaldas a los electores. Total, desde hace treinta años los diputados votan lo que su jefe de grupo parlamentario quiere, así que el embrollo electoral sirve para muy poco. Y últimamente para menos aún. Nos explicamos.

El poder financiero internacional

El 20-N la inmensa mayoría de electores irá a votar olvidándose de lo que ha ocurrido en Italia hace menos de una semana e incluso olvidando lo que ha ocurrido en Grecia, países mediterráneos ambos, como por lo demás el nuestro. En ambos países han gobernado hasta ahora mandatarios elegidos democráticamente en elección directa. Insistimos: hasta ahora. Ha bastado un ataque de “los mercados” para que fueran elegidos nuevos gobernantes… ¡a los que nadie ha elegido! Perdón, sí, han sido elegidos por “los mercados”.

¿Y qué son “los mercados”? Con este eufemismo se conoce a los rectores de los grandes fondos de inversión, a las “300 familias” que “gobiernan el mundo” desde hace tres siglos y medio, al “poder del dinero”, a la alta finanza internacional que, en el fondo, tiene como denominador común y ariete a las llamadas “agencias de ratting” que quitan y ponen “aes” de manera más o menos arbitraria y, a despecho de las situaciones reales.

Estas agencias, por ejemplo, atribuían a la deuda española y a nuestra economía la mejor de las calificaciones cuando se estaba gestando la burbuja inmobiliaria que, cualquier observador provisto de buenas dosis de sentido común podía advertir que iba a estallar antes o después, pero que fue creciendo sin que institución bancaria alguna, ni agencia de “ratting”, dijeran ni mú. Las agencias ratting tienen buena parte de responsabilidad en la actual crisis y son, desde luego, los primeros responsables, la punta de lanza, de eso que se conoce como “ataques de los mercados”.

Las agencias de ratting representan el poder del dinero. Son, de hecho, el poder del dinero. Las agencias de ratting no trabajan para advertir del valor de tal o cual deuda nacional o del valor de las acciones de la banca. Simplemente actúan para ¡poner de rodillas a países enteros al margen de su situación real y de la capacidad de un país! De hecho, la primera condición para reconstruir la normalidad económica es PROHIBIR EN EL SENO DEL TERRITORIO EUROPEO LA ACTIVIDAD DE LAS AGENCIAS DE RATTING, JUZGAR A SUS PROPIETARIOS Y FUNCIONARIOS COMO CRIMINALES DE GUERRA –DE GUERRA ECONÓMICA, QUE SUELE DESEMBOCAR EN GUERRAS CALIENTES- Y ENCERRAR A SUS RESPONSABLES COMO SE ENCIERRA A LOS PERROS RABIOSOS JUSTO ANTES DE SACRIFICARLOS.

Mientras las agencias de ratting actúen libremente en el territorio de la Unión Europea, no habrá paz en los mercados, ni tranquilidad en los hogares. ¡Hay que acabar con ellos como se termina con las ratas: erradicándolas de una vez y para siempre de la sagrada tierra de Europa! ¿Creéis que los “mercados” recuperarán la normalidad mientras los “señores del dinero” no adquieran lo que los gobiernos privatizan? ¿Creéis que habrá alguna libertad que quede libre cuando los “señores del dinero” no tengan ningún contrapeso a su ambición sin límites.

Dicho esto, vale la pena situar nuestro momento histórico.

La ofensiva contra la Europa Mediterránea

Estamos registrando un proceso de ofensiva final de los “señores del dinero” contra Europa. Están atacando a los eslabones más débiles de la cadena capitalista, allí en donde existen los gobiernos más débiles y corruptos: los países mediterráneos. Ahora toca a España.

Es la ofensiva final la que se está desarrollando ante nuestros ojos y ante nuestros cerebros desinformados por empresas periodísticas agónicas, tertulianos profesionales de pocas entendederas que no quieren problemas y economistas liberales que creen que cualquier cosa es buena si viene de “los mercados” (Rodríguez Braun, vamos a ver ¿Por qué se obstina en presentar al neoliberalismo como la única solución y al mercado como el gran mito de nuestro tiempo, cuando en realidad no habrá paz y seguridad entre la mayoría de la población cuando los mercados sean disciplinados y sometidos al poder político –a un poder político “de verdad” y no a la miserable clase política actual, timorata y hueca, incapaz de algo más que no sea una campaña electoral mediocre- y cuando el poder de “los señores del dinero” no sea quebrado.

En las últimas dos semanas, se han producido cambios de gobierno en Gracia y en Italia y estamos en puertas de que se produzca otro más en España. En Grecia, Lukas Papademos es el nuevo primer ministro y en Italia, Mario Monti ha sustituido a Berlusconi. Para colmo, Mario Draghi, estos mismos días ha sido nombrado nuevo director del Banco Central Europeo. Algunos medios han destacado que los tres individuos responden a las mismas características hasta el punto de que resulta increíble que los tres hayan ascendido con una diferencia de menos de un mes.

¿Qué tienen en común? Primero: que han formado sus criterios profesionales en los EEUU al servicio de “los señores del dinero” apalancados tras organismo internacionales (FMI y Banco Mundial). Segundo: los tres han sido funcionarios de una banca de inversión, Goldman&Sachs. Draghi es economista por el MIT y entre 2002 y 2006 fue vicepresidente para Europa de Goldman&Sachs, que como banco ha difundido productos tóxicos derivados de las subprimes (por ahí empezó la actual crisis) norteamericanas: y resulta imposible pensar que esa negligencia fue involuntaria. Goldman&Sachs, para colmo estuvo en el origen de la crisis griega: ocultó los desfases contables que disminuían el importe de la deuda soberana griega… recibiendo por ello, en pago al falseamiento de datos ¡300 millones de dólares! Del gobierno griego conservador. Esta es la solvencia moral de los tres nuevos “validos” de Goldman&Sachs que están al frente de dos países y del BCE… Por lo demás, el nuevo primer ministro griego colaboró en el enmascaramiento del valor real de la deuda griega realizado por Goldman&Schas. Por su parte, el sustituto de Berlusconi fue consejero internacional del banco-agencia en 2005.

El significado de un cambio histórico de gobernantes

¿Qué representa el ascenso de estos técnicos a puestos de relevancia política? Muy sencillo: representa que en Grecia e Italia, el “poder económico de la alta finanza internacional” ha tomado el control de los organismos de poder político, sustituyendo definitivamente a la clase política convencional en los resortes clave del poder.

Por mucho que Berlusconi haya podido parecernos a muchos lo que en Italia se llama “un coglione”, lo cierto es que a ese “coglione” lo votó el electorado. Y, por mucho que Papandreu fuera un socialista que hizo muy poco por disciplinar a la sociedad griega y desterrar la corrupción que está anidada en todo el país como en lugar alguno de Europa, lo cierto es que también subió al poder a través de unas elecciones más o menos democráticas. Los que hoy gobiernan, en cambio, nunca han pasado por las urnas. Si Berlusconi y Papandreu temían a los “señores del dinero” y actuaban a remolque de sus exigencias, Draghi, Papademos y Monti han trabajado siempre para esos mismos “señores del dinero”.

Se ha producido, casi sin darnos cuenta, una USURPACIÓN DEL PODER POLÍTICO POR PARTE DEL PODER ECONÓMICO INTERNACIONAL. Es fácil suponer lo que va a ocurrir a partir de ahora: todas aquellas propiedades de los Estados afectados serán privatizados y en la privatización se harán grandes negocios que beneficiarán a los “señores del dinero”. Pagar la deuda hará que las clases medias, acogotadas a impuestos, se encierren en sí mismas y, ante la posibilidad de perderlo todo, o de sobrevivir en la precariedad, optarán por esto último. Los “señores del dinero”, la “alta finanza internacional”, habrán tomado definitivamente el control de la Europa Mediterránea.

Ahora España…

A partir de todos estos datos, se entiende mejor lo que está ocurriendo ahora mismo con la deuda española y por qué ha superado los 500 puntos de diferencial con Alemania. Se trata de un aviso para Rajoy: “o pasas por el aro y privatizas todo lo privatizable, exprimiendo a la sociedad para pagar la deuda a la voz de ya y con los intereses más altos, o bien tienes por delante el caos”, que es lo mismo como decir: “Aunque tu seas un político de cartoné y te falten redaños para enfrentarte a los “señores del dinero”, te vamos a exigir que pongas a un ministro de economía que “de los nuestros” y del que estemos seguros que nos va a servir como un perro fiel. Queremos un ministro de economía que no sea uno de tus hombres de confianza… sino que sea de nuestro gusto”.

¿Quién será ese individuo que se le impondrá a Rajoy como ministro de economía, perdón, como “ministro plenipotenciario de los señores del dinero”?

Su perfil es simple: será un economista con experiencia en el FMI y en el Banco Mundial, habrá trabajado como funcionario de algunos de los grandes bancos de inversión o de alguna agencia de ratting y su carrera no estará ligado tanto a un país como a una institución financiera. Pongan nombres, porque de lo que no cabe la menor duda es que el próximo ministro de economía va a ser el verdadero poder en España, va a mandar mucho más que Rajoy aunque éste sea el Tancredo de los próximos años. Y eso no es bueno para España, no es bueno para nuestro pueblo, ni siquiera es bueno para nuestra economía. Así que estar atentos porque nos jugamos que la política sea vencida por la economía y que esto suponga también una merma a nuestras libertades. Para salir del entuerto, desde luego, la actual clase política, corrupta y corruptora, timorata y compuesta por vientres agradecidos, no tiene nada que decir: hay que renovarla, superarla y sustituirla.

© Ernesto Milá – infokrisis – http://infokrisis.blogia.com –

samedi, 19 novembre 2011

Una lettura geopolitica della Crisi

Una lettura geopolitica della Crisi

di Pierluigi Fagan


Fonte: megachip [scheda fonte]

Un possibile percorso interpretativo della crisi, normalmente trascurato dalla principale corrente dei media, potrebbe passare anche attraverso una lettura delle dinamiche che intercorrono tra blocchi geopolitici.

Osservando una sorta di foto panoramica coglieremo meglio quegli elementi che  nelle immagini troppo di dettaglio della crisi tendono a sfuggire. 

Seguiamo questa ipotesi:

  1. Con il peggiorare della situazione spagnola e francese (ma è di oggi l’attacco al Belgio, all’Olanda e all’Austria) è ormai chiaro che la crisi di sfiducia dei mercati è sistemica: è nei confronti dell’Euro – Europa e non nei confronti di uno o due paesi.
  2. Chi sono i “mercati”? Di essi si possono dare due descrizioni. La prima è quella tecnica, ovvero la sommatoria di singole azioni di investimento prese in base alle informazioni disponibili. I mercati sono storicamente affetti da sindrome gregaria, per cui se una massa critica (quantità) o qualificata (qualità) si muove in una direzione, tutto il mercato la segue. Ciò adombra una seconda descrizione possibile ovvero quella dell’interesse strategico che una parte dotata di impatto quantitativo e qualitativo potrebbe avere, trascinando con sé il resto del mercato. I mercati, di per loro, non hanno interesse strategico: si muovono nel breve termine. Alcuni operatori di mercato però (banche e fondi anglosassoni) potrebbero avere interessi strategici e soprattutto essere in grado di perseguirli sistematicamente (rating, vendite alla scoperto, calo degli indici, rialzo dello spread, punizioni selettive, operazioni sui CDS, manovrare non solo i mercati ma - data l’importanza che questi hanno - l’intera vicenda sociale e politica di una o più nazioni. Tali comportamenti non solo perseguono un vantaggio a lungo periodo di tipo geostrategico ma garantiscono anche di far molti soldi nel mentre lo si persegue, una prospettiva decisamente invitante ).
  3. Quale potrebbe essere l’interesse strategico che muove alcuni operatori di mercato ? Decisamente lo smembramento e il depotenziamento europeo. Colpire l’Europa significa: 1) eliminare il concorrente forse più temibile per la diarchia USA – UK, tenuto conto che con la Cina c’è poco da fare; 2) riaprirsi la via del dominio incondizionato del territorio europeo secondo l’intramontabile principio del “divide et impera”; 3) eliminare una terza forza (USA – ( EU ) – Cina) riducendo la multipolarità a bipolarità, una riduzione di complessità. Male che vada si sono comunque fatti un mucchio di soldi e il dettato pragmatista è salvo.
  4. Su cosa contano i mercati ? Sulla oggettiva precarietà della costruzione europea al bivio tra il disfacimento e un improbabile rilancio strategico verso progetti federali. Sulla distanza tra opinioni pubbliche e poteri politici che rende appunto “improbabile” un rilancio dell’iniziativa strategica europeista proprio nel momento di maggior crisi, dove si innalzano non solo gli spread ma anche la paura, l’ottica a breve, la difesa del difendibile ad ogni costo, la rinascenza dell’egoismo nazionale. Sulla oggettiva asimmetria tra Germania e resto d’Europa, una asimmetria strutturale che fa divergere gli interessi, ma più che altro la scelta del come far fronte ad un attacco del genere. È pensabile che tutta Europa pur di mettere a sedere in breve tempo la c.d. “speculazione” , concorderebbe facilmente e velocemente sulla possibilità di far stampare euro in BCE per riacquistare debito, magari a tassi politici (un 2% ad esempio ) ma per la Germania questo è semplicemente inaccettabile. Infine sia la Germania, sia la Francia, sia a breve la Spagna e un po’ dopo la Grecia avranno appuntamenti elettorali (nonché ovviamente l’Italia ) e questi condizioneranno in chiave “breve termine” e “nazionale” le ottiche politiche. Ciò potrebbe spiegare anche il: perché adesso ?

 

A ben vedere e se volessimo seguire l’ipotesi “complotto anglosassone” si presenta anche un obiettivo intermedio: poter premere per disaggregare l’Europa in due, tutti da una parte e l’area tedesca dall’altra (area tedesca = da un minimo della sola Germania, ad un massimo di Olanda, Austria, Slovacchia ? Finlandia ? Estonia ? con particolare attrazione nei confronti dell’ex Europa dell’Est).

L’euro rimarrebbe all’interno di una zona che avrebbe la Francia e l’Italia come poli principali, si svaluterebbe, perderebbe il suo potenziale di moneta internazionale concorrente del dollaro (diventerebbe, per quanto rilevante, una moneta “regionale”).

Il deprezzamento dell’euro, secondo alcuni analisti, era forse l’obiettivo primario di questa ipotizzata strategia. Il fine minimo sarebbe quello di riequilibrare la pericolante bilancia dei pagamenti statunitense, oltre agli obiettivi di geo monetarismo.

Altresì il “nuovo marco” si apprezzerebbe, chiudendo un certo angolo di mercato dell’esportazione tedesca cosa che faciliterebbe l’espansione dell’export americano che gli è, per molti versi, simmetrico.

Ciò che gli USA perderebbero per l’apprezzamento dollaro – nuovo euro (perderebbero in export ma guadagnerebbero in import, le bilance dei pagamento USA e UK sono le più negative nei G7) lo recupererebbero nel deprezzamento dollaro – marco, ma a ciò si aggiungerebbero tutti gli ulteriori benefici del dissolvimento del progetto di Grande Europa.

Il progetto Grande Europa guardava oltre che ad est anche al Nord Africa, al Medio Oriente ed alla Turchia, al suo dissolvimento questi, tornerebbero mercati contendibili.

Da non sottovalutare il significato “esemplare” di questo case history per quanti (Sud America, Sud Est Asiatico) stanno pensando di fare le loro unioni monetarie.

Una volta sancito il divorzio euro – tedesco, l’Europa quanto a sistema unico, svanirebbe in un precario ed instabile sistema binario ed avrebbe il suo bel da fare almeno per i prossimi 15 - 20 anni.

Una strategia geo politica oggi, non può sperare in un orizzonte temporale più ampio. Forse questa ipotesi ha il pregio di funzionare sulla carta ma molto meno nella realtà.

Il giorno che s’annunciasse questo cambio di prospettiva (anticipato da un lungo, lento e spossante succedersi di scosse telluriche) spostare la BCE a Bruxelles e riformulare tutti i trattati sarebbe una impresa a dir poco disperata. Con i governi in campagna elettorale poi sarebbe un massacro. Ma non è altresì detto che ciò che ci sembra improbabile in tempi normali, sia invece possibile o necessario in tempi rivoluzionari.

Il silenzio compunto degli americani sulla crisi dell’eurozona potrebbe testimoniare del loro attivo interesse in questa operazione. Se ci astraiamo dalla realtà e guardiamo il tutto con l’occhio terzo di un marziano, non un atto, non un incontro, non un pronunciamento se non quelli di prammatica (digitate Geithner su Google e troverete una pagina che riporta una sola frase:” l’euro deve sopravvivere[1]” dichiarato il 9.11.2011, un gran bel pronunciamento) , accompagnano la crisi del primo alleato strategico degli USA. La crisi è degli europei e gli europei debbono risolverla, questo il refrain che accompagna gli eventi. Quale terzietà ! Quale bon ton non interventista ! Quale inedito rispetto delle altrui prerogative sovrane !

Al silenzio americano, fa da contraltare il chiacchiericcio britannico dove Cameron non passa giorno (e con lui il FT, l’Economist e molti economisti a stipendio delle università britanniche ed americane ) senza sottolineare come l’impresa dell’euro non aveva speranze e ciò a cui assistiamo non è che la logica conseguenza di questo sogno infantile. Sulla tragica situazione dell’economia britannica avete mai sentito pronunciar verbo ?

Qualche giorno fa c’è stata una frase del tutto ignorata anche perché pronunciata dal Ministro degli Esteri francese Alain Juppé (le connessioni neuronali dei giornalisti sono sempre a corto raggio e soprattutto mancano sistematicamente di coraggio). Cos’ha detto Juppé? Relativamente alle notizie sull’Iran, ha pronunciato un pesante giudizio: “gli Stati Uniti sono una forza oggettivamente destabilizzante”.

Da ricordare il disprezzo americano che ha accompagnato l’ipotesi “Tobin tax” sostenuta virilmente da Sarkozy all’ultimo G20 e le impotenti lagnanze dell’Europa per lo strapotere non del tutto trasparente dei giudizi di rating, nonché le lamentale off record di Angela Merkel sull’indisponibilità anglosassone a dar seguito ai buoni propositi regolatori della banco finanza internazionale che si sprecarono all’indomani del botto Lehman e che sono poi diventati remote tracce nelle rassegne stampa.

Il punto è quindi tutto in Germania. O la Germania sceglierà il destino che le è stato confezionato da questa presunta strategia o avrà (un improbabile) scatto di resistenza.

Da una parte, il consiglio dei saggi dell’economia tedesca (la consulta economica del governo tedesco è una istituzione che è eletta direttamente dal Presidente della Repubblica) che ha nei giorni scorsi emesso il suo verdetto: tutti i debiti sovrani dell’eurozona che eccedono il 60% di rapporto debito/Pil vanno ammucchiati in un fondo indifferenziato e sostenuti dall’emissione di eurobond garantiti in solido dai singoli stati ognuno in ragione ovviamente della sua percentuale di debito in eccedenza.

Gli eurobond sicuri e garantiti spalmerebbero l’eccesso di debito in 25 – 30 anni, (quello della dilazione temporale è poi ciò che sta facendo la Fed che compra bond del Tesoro Usa a breve per farne riemettere a lungo).

Dall’altra parte la cancelliera tedesca agita lo spettro di una quanto mai improbabile rinegoziazione del Trattato di Maastricht in senso ulteriormente restrittivo e con diritto di invasione di campo nelle economie politiche nazionali da parte degli eurocrati di Francoforte. La Germania però non sembra potersi porre all’altezza dei suoi compiti strategici e probabilmente lascerà fare agli eventi.

Laddove una volontà forte, intenzionata ed organizzata incontra una volontà debole, dubbiosa e con competizione delle sue parti decisionali, l’esito è scontato. Vedremo come finirà.



[1] “sopravvivere” è il termine esatto che fa capire quale sarebbe il desiderio americano, un tramortimento, un depo tenziamento che non faccia tracollare la già più che certa recessione che ci aspetta nel prossimo decennio. Comunque al di là delle parole, nei fatti, l’empatia americana per la crisi europea è tutta in questa magra frase.


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jeudi, 17 novembre 2011

Italie et Grèce : Laboratoires de l’Europe de demain

Italie et Grèce : Laboratoires de l’Europe de demain

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

La crise européenne nuit non seulement aux finances publiques, mais à la réflexion car à lire les commentateurs français ou même italiens, il est surprenant de voir comment les marches financiers sont érigés désormais en juge de paix.

« Le Monde » présente comme une bonne nouvelle l’éviction de Silvio Berlusconi, se réjouissant de l’austérité à venir comme si l’époque précédente avait été marquée par une générosité sans nom pour les citoyens de l’Europe. Alessandro Penati dans « La Repubblica » explique que le paquet de mesures du bon docteur Monti doit être appliqué sans plus tarder pour retrouver la confiance des investisseurs internationaux. Soudain les marchés sont érigés en acteurs rationnels, désireux d’une seule chose : la croissance et le plein emploi pour tous. Nous croyons rêver, ou plutôt cauchemarder.

Nous savons tous que les marchés obéissent à une logique d’opinion, et que les fondamentaux des entreprises ou des économies n’entrent rien dans leurs considérations. Comme croire que la 8ème puissance mondiale est une puissance au bord de la faillite et qui aurait perdu toute capacité industrielle. Les performances de l’Italie restent nombreuses. Nous ne pouvons qu’être stupéfaits par des affirmations qui se lamentent de la faible croissance des pays sans tenir compte d’un environnement dans lequel cette croissance se déroule.

Demain, tant que le chômage de masse, les inégalités, n’auront pas trouvé de réponse satisfaisante, tant que la concurrence fiscale et sociale se poursuivra , tant que l’Europe sera incapable d’apporter des réponses sérieuses à la désindustrialisation, tant que la politique de change sera aux abonnés absents, tant que les dépenses de recherche et développement resteront si faibles, tant que les stratégies non coopératives comme la désinflation à l’allemande seront à la mode, aucune cure d’austérité ne répondra aux défis précédemment cités. Alors la panique aujourd’hui l’emporte, des mea culpa s’empilent, des pénitences se préparent.

 

Les recettes de l’échec vont continuer avec son cocktail made in FMI : privatisations, réductions des dépenses sociales, et j’en passe. Quand nous pensons aux coupes dans l’éducation orchestrées par la ministre italienne sortante, madame Gelmini, demain après les plans d’austérité encore plus massifs qu’en restera t- il ? Alors Mario Monti dit vouloir combattre les privilèges, mais de quoi parle- t-il au juste ? Faut-il y voir de l’ironie, du cynisme ? Certes, il existe des anomalies, des abus, des corporatismes, mais les vrais problèmes sont ailleurs.

Alors nous disons que la Grèce et l’Italie dont les gouvernements sont les avant gardes du futur démocratique européen, c’est à dire des aéropages de techniciens adoubés par les marchés financiers, le FMI, et les puissances fragiles du moment comme l’Allemagne et la France qui tremble pour son triple AAA. Les marchés ont relâché la pression sur l’Italie car M. Monti est tout prêt à servir leur intérêt.

En Grèce, le gage de sérieux est la présence d’un ancien commissaire européen et d’un premier ministre prêt à administrer sans ciller une rigueur plus violente encore ; il fait entrer des ministres de l’extrême droite, cela n’offusque en rien la troïka Allemagne France, FMI et qu’il faudrait élargir aux agences de notation. Le remboursement de la dette n’a pas de couleurs politiques et puis le respect de principes démocratiques c’est pour les célébrations convenues du 9 mai, lorsque nous affirmons notre attachement au bel idéal européen de paix et de démocratie.

Semprun, grand européen, dans son dernier ouvrage nous disait bien que la paix est la fille de la démocratisation et rien d’autre. Il est à regretter qu’en Italie, une certaine gauche si heureuse de voir le berlusconisme disparaître ne mesure pas pleinement les risques économiques de ces plans d’austérité, mais aussi les risques politiques. En somme nous assistons à des formes de putschs tout à fait légaux – et nous mesurons nos mots.

Voilà deux chefs de gouvernements qui sont débarqués par la pression des marchés autorité non élue avec l’aval d’États étrangers. Leurs gouvernements sont modifiés en dehors de tout appel aux citoyens par la voie d’élection. Élections qui sont remises à plus tard. Je ne parle pas ici du référendum qui est un gros mot en Europe. Puisque ces derniers sont soit interdits, soit contournés.

Les Danois et les Irlandais ont voté à plusieurs reprises pour dire oui à l’Europe, et la France a découvert le traité qu’elle a refusé sous la forme du traité de Lisbonne. Des gouvernements techniques ou d’union nationale sont rapidement constitués ou en voie de l’être. Mais si demain, si les fameux marchés qu’il faut rassurer, puisqu’ils sont les seuls interlocuteurs valables, ne retrouvent pas leurs comptes, qu’eux même ignorent parfois, alors ces mêmes gouvernements improvisés seront destitués. L’Histoire à des moments sombres nous avait pourtant appris que Munich ne pouvait être une référence souhaitable.

Mais que veut dire profondément l’austérité ? Elle ne signifie rien d’autre que deux choses : l’appauvrissement d’une nation contrainte de se séparer de sa richesse, une partie du capital des géants italiens Enel ENI va passer entre les mains des Chinois par exemple, le Pirée a connu le même sort pour les Grecs ; et aussi l’aggravation des inégalités de revenus, de patrimoine, pour ne citer que celles-ci.

Les marchés financiers ne se sont pas trompés, le sauvetage des banques avant toute chose, la mise au pain sec des citoyens sont autant de modifications du partage de la richesse. Tremblez gouvernements européens devant les autorités invisibles que sont les marchés, célébrez les technocrates et autres experts attitrés, licenciez vos peuples encombrants, promettez les larmes et le sang et vous serez dits courageux et dotés d’un sens de l’État. Les pays du Sud ont été moqués, leurs nouveaux gouvernements sont les modèles de l’Europe post démocratique. Et ne croyons pas que demain nous serons mieux lotis, l’élection présidentielle que nous allons vivre nous donnera peut-être la dernière occasion de mettre en scène la pièce démocratique.

Notre isoloir ne contient plus notre avenir mais bientôt les souvenirs défraîchis de ce que nous avons appelé la démocratie et que nous avons un peu stupidement cru à jamais acquise. Alors amusons nous une dernier fois en avril prochain, fêtons à la concorde au Fouquet’s , ou rue Solférino l’un des vainqueurs et attendons avec lui notre destitution prochaine.

Les Échos

mardi, 15 novembre 2011

Le choix économique est un choix existentiel

Le choix économique est un choix existentiel

par Claude BOURRINET

Entre effet de manche et coup de menton, une remarque en apparence anodine, destinée à justifier certaines palinodies, comme l’« aide » massive accordée aux États endettés, ou l’accroissement substantiel du Fonds de soutien financier, voire l’idée de plus en plus concrète de gouvernement économique de l’Union, jette une lumière crue sur la capacité réelle de ceux qui ont entrepris de diriger le destin de l’Europe. Le traité de Maastricht, nous dit-on, ne prévoyait pas que dût se produire une crise. Aucune autre absurdité, parmi d’autres, ne saurait mieux singulariser cette entreprise aussi utopique et  sournoise que fut l’instauration d’un grand marché montrant maintenant sa faillite. Car elle dénote un trait psychologique saillant chez la technocratie politique libérale. Elle ne doute jamais. Ou, plutôt, adoptant les présupposés anthropologique de Fukuyama, elle considère que la libre concurrence, le flux illimité et sans frein des hommes et des marchandises, doit à terme aplanir les obstacles immémoriaux entre les peuples, faciliter l’entente universelle et procurer à tous le confort de vie qui rend impensable le ressentiment, la haine et le conflit. Qui se souvient qu’en 1992 on nous promettait des emplois à gogo, et que, un peu plus tard, la création de la monnaie unique allait les démultiplier ?

Or, paradoxalement, les crises s’enchaînèrent, tirant à hu et à dia les gouvernements qui, en pompiers dépassés par les foyers d’incendies multiples, s’empressaient, en tenant toujours les mêmes discours lénifiants, d’éteindre ici et là ce feu qu’on avait allumé.

Les peuples, du moins ce qu’il en reste, n’y comprenaient goutte. Des voix s’élevaient, de-ci, de-là, chez tel intellectuel, tel prix Nobel, mais très minoritaires, et de toute façon inaudibles parce qu’on les occultait, ou qu’elles étaient noyées dans le tsunami des commentaires avisés de spécialistes rémunérés au mensonge. Qui pouvait comprendre, s’il n’était spécialiste ? Le langage de la technique, aussi crédible soit-il à l’intérieur de chaque domaine spécifique, n’est jamais si utile que quand il brouille les pistes. Dans le périmètre des sciences économiques, l’usage de termes anglo-saxons, d’abréviations et de schémas mathématiques, ne sont  pas en mesure de clarifier une situation qui se précipite en cahotant, comme un véhicule qui a perdu son chemin. On invoque alors les dérives, laissant entendre qu’il existerait un ordre normal à une organisation qui ne l’est pas, on désigne un Kerviel, un voyou, pour suggérer que le système, dont on affiche pourtant l’amoralisme avec quelque jubilation, puisse devenir moral.

Si bien que l’on est plus près d’une certaine vérité quand on réagit de façon épidermique quand, dans le même temps où la bourse joue du yo-yo en engraissant les spéculateurs, on assiste, impuissant, à la destruction des emplois, à la désindustrialisation du pays, et à l’arrogance sans retenue des bénéficiaires d’une mondialisation dont on peut considérer qu’elle est une agression sans mesure des riches contre les pauvres, et du désert culturel contre l’ethnodiversité du monde.

Si l’on se fiait aux déclarations officielles, chaque action entreprise serait un triomphe historique, et la solution enfin trouvée. Si la misère, tant sociale que culturelle, se répand comme un désert humain, pendant que dans le même temps l’immobilier s’envole, et le parc portuaire des bateaux de loisir prolifère, c’est que quelque chose est en route, un phénomène relativement simple, même si la sarabande des chiffres et la valse des réunions au sommet embrouillent la surface d’une eau pourtant aussi limpide que la vérité. Au fond, si l’on suivait son instinct, il y aurait longtemps qu’on aurait imité Jésus, qui, un fouet à la main, renversait les étals des marchands du Temple.

Mais le temps des révolutions semble révolu. L’insurrection populaire est un soubresaut historique qui, sous couvert de changer de société, accélère un processus de « modernisation ». Il est bien évident que les peuples ont toujours été floués. Finalement, seule la révolution de Cromwell réussit à lier, dans un commun projet de pillage marchand, entreprise poursuivie par les États-Unis d’Amérique, toutes les classes nationales, les mêlant dans une sorte de fraternité de brigandage. Orwell, certes, a souligné combien cette mise en place de cette société de l’Argent-Roi s’est faite avec quelque difficulté, mais enfin, elle parvint à ses fins, et ce n’est pas sans surprise que nous, vieille civilisation où la notion de Res publica a toujours été vivante, voyons que, par-delà le Channel, la chose publique n’ait été perçue que comme un problème de gestion économique, et les convictions comme autant de choix de la vie privée.

L’absence de réactions sérieuses face à la destruction de plusieurs siècles de culture sociale et politique, sur le Vieux Continent, dont  l’exemple de « primaires », données comme « expérience  démocratique » ou comme « modernisation de la vie publique », n’est qu’une déclinaison, parce qu’elle avalise l’existence de deux niveaux d’engagement, montre bien la profondeur de l’« anglo-saxonnisation » des mœurs. Il n’existe plus, en fait, de frontière étanche entre l’appréhension du politique, et, par exemple, la variété des choix de consommation, ou bien la superficialité du monde du spectacle.

Lorsqu’on parcourt l’ouvrage qu’Alain Peyrefitte consacra à De Gaulle (C’était De Gaulle, trois tomes), on est frappé non seulement par la capacité qu’avait le Général de se projeter dans l’avenir, mais aussi par une culture historique profonde, autant dire une distance, que n’ont plus nos hommes politiques. Car, contrairement à ce qu’on laisse entendre, il n’était pas contre l’Europe. Si celle-ci, à ses yeux, devait devenir une confédération, une « Europe des Nations », il soulignait, en critiquant le Traité de Rome, combien c’était s’enfermer que de commencer par l’économie. Non qu’il eût fallu le faire par la culture, comme l’aurait regretté, dans une phrase apocryphe, Jean Monnet,  ce qui ne signifie pas grand-chose, mais, comme les structures mentales de sa génération, nourrie de Maurras, de Nietzsche et de Napoléon, l’y poussaient, par le politique. La grande politique, devrions-nous ajouter. C’est pourquoi De Gaulle sacrifia l’Algérie française pour risquer l’aventure nucléaire et asseoir la réputation mondiale de la France, c’est ainsi qu’en 1966 il expulsa l’O.T.A.N., c’est enfin pour cette raison qu’il se méfia tout le temps d’une Europe qu’il croyait à bon escient infestée de libéraux et de complices des Anglais et des Américains.

Il est donc juste de répéter, encore et toujours, que l’économie, le paramètre économique, pour expliquer le monde et le sauver, est un leurre, un piège, une fausse équation : la résolution d’une de ses composantes ne peut aboutir au bonheur, à l’épanouissement, à la réalisation des individus et des peuple. Car le choix de l’ardente obligation économique est une option existentielle. On aboutit par là toujours à un problème moral, voire à une problématique de moraliste. Pourquoi d’ailleurs exempter de la faute des peuples qui ont cru toucher des dividendes à l’abandon de leur honneur et de leurs traditions ? Il est bien évident que l’absence de combativité, jusqu’à la catastrophe personnelle, qui touche son foyer, son emploi, son quartier, n’est jamais si visible que par l’avidité souvent frustrée de profiter des miettes du système. C’est l’hybris qui est cause du dysfonctionnement, ou, pour mieux dire, du fonctionnement naturel d’une logique qui s’est éloignée radicalement de la nature, du bien commun, de la décence. C’est en voulant accumuler, en désirant s’enrichir, en croyant que la jouissance matérielle n’a pas de fin, et que, pire, elle peut remplacer la joie humaine, le sens de la vie, que nous avons été conduits au désastre.

On nous dit que la gouvernance économique, dont l’Allemagne va prendre la tête, se met en place. On nous fait miroiter une Fédération européenne. Tout cela est vain, trompeur. On ne cherche qu’à améliorer l’intégration d’un espace à un autre, mortifère, empoisonné. Rien ne change radicalement rien, et d’autres crises adviendront, de plus en plus sévères. Il s’agit donc d’inverser la vision, les priorités. Ce n’est pas les pieds qu’il faut privilégier dans la marche, mais l’intelligence, l’esprit, le sens moral. Ce n’est pas l’addiction matérialiste qu’il faut encourager, mais la fierté d’être libre, indépendant, pourvu d’une direction qui travaille vraiment pour la civilisation européenne, qui soit vraiment patriotique. Ce n’est pas le « Comment ? » qu’il faut poser, mais le « Pourquoi ? ».

Claude Bourrinet


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mercredi, 09 novembre 2011

« La zone euro vient de porter un coup terrible à Wall Street »

« La zone euro vient de porter un coup terrible à Wall Street »

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Grâce aux mesures prises mercredi [26 octobre 2011], la zone euro peut se replacer en acteur crédible d’une nouvelle donne économique mondiale. Selon Franck Biancheri, du Laboratoire européen d’anticipation politique, les partenariats vont se multiplier avec les pays du BRICS. Une redistribution qui effraie l’Amérique.

Le sommet de la zone euro de mercredi a-t-il accouché d’une Europe plus forte ?

A tous points de vue. L’Union européenne a démontré qu’elle entendait gérer la Grèce sur le long terme, car il est clair qu’un pays qui n’a pas de cadastre digne de ce nom ne peut se mettre à jour en moins de cinq ou dix ans.

Amener les créanciers, les banques qui avaient acheté de la dette grecque, à payer 50% de la note était une prouesse encore impensable il y a huit mois. Depuis un demi-siècle, ce type de créances était payé rubis sur l’ongle. C’est une rupture majeure. C’est un rafraîchissement gigantesque pour l’Europe, et une bonne chose pour la perception qu’elle a d’elle-même.

 

L’augmentation de 440 à 1000 milliards d’euros du Fonds européen de stabilité financière (FESF) serait donc la traduction d’une bonne gouvernance ?

L’Allemagne a eu une vision saine du fonctionnement du Fonds en évitant la vision « sarko-bancaire » qui voulait le lier à la Banque centrale européenne, comme les Etats-Unis l’ont fait en 2008, en donnant mission à la Fed de renflouer leurs banques. Ce piège aurait été dangereux pour la zone euro.

Malgré la décision de recapitaliser les banques, vous prédisez la disparition de 20% d’entre elles pour 2012 ?

C’est ce que j’appelle la décimation annoncée des banques au premier semestre 2012. Il faut l’entendre au sens romain du terme, c’est-à-dire une sur dix, mais je table sur la mort de 10% à 20% des banques occidentales. Elles sont trop nombreuses, et beaucoup plus faibles qu’elles veulent bien l’avouer. Les estimations faites par les experts financiers et les gouvernements sous-estiment l’impact de la crise sur ces établissements.

UBS figure parmi les établissements menacés…

Oui, de même que la Société Générale en France, ou Bank of America, énorme, poussive, qui peut s’effondrer d’un jour à l’autre. La plupart d’entre elles s’empêtrent dans des bilans mitigés, des procès à rallonges, et n’arrivent pas à abandonner des secteurs dangereux tels que la banque d’investissement. Le démantèlement de Dexia illustre bien ce processus, avec la création d’une banque spéciale pour solder les actifs pourris et un morcellement de ses activités.

On a beaucoup parlé du sauvetage de l’euro, comme s’il pouvait disparaître. Fantaisiste?

Evidemment. L’euro ne peut pas disparaître, ni demain ni dans quelques années. Même si la Grèce avait dû revenir à la drachme, cela aurait pris deux à trois ans pour remettre en place toute l’infrastructure monétaire. Alors imaginez à l’échelle de la zone euro. Par ailleurs, je rappelle que l’euro flotte toujours à environ 1,40 par rapport au dollar, ce qui n’est pas mal pour une monnaie déclarée moribonde depuis plusieurs années. Cette mort de l’euro est un pur fantasme.

D’où vient-il ?

Des grands médias et des grands acteurs économiques anglo-saxons. Le succès de l’euro va accélérer la perte d’influence de Wall Street et de la City de Londres sur les devises. La position dominante qu’ils occupent depuis deux cents ans arrive à son terme, et c’est pourquoi ils ont déclenché une guerre de communication inouïe contre la zone euro, en s’appuyant sur la crise grecque. Une crise, rappelons-le, avivée à son commencement par la banque Goldman Sachs. Le sommet de mercredi marque un coup d’arrêt pour cette propagande qui a frôlé l’hystérie collective.

La Chine propose une aide de 100 milliards d’euros, notamment pour le Fonds de stabilité. Dangereux ?

Au contraire. Elle n’est pas la seule d’ailleurs. La Russie, le Brésil sont aussi sur les rangs pour investir en Europe. Pourquoi faudrait-il avoir peur de la Chine ? Certaines voix crient au loup, alors que personne ne s’est inquiété de l’identité européenne lorsque, durant des décennies, ce rôle était joué par les Etats-Unis. Depuis le mois d’août, la Chine a mis un frein à l’achat de bons du Trésor américain. Comme d’autres pays, elle veut sortir du piège du monopole du dollar. Une Europe crédible et un euro qui sort renforcé de cette crise lui offrent cette solution.

Assiste-t-on à un basculement des alliances économiques ?

L’axe se déplace en effet, car le monde devient multipolaire. La zone euro, qui progresse vers cet « Euroland » dont nous avons besoin, est appelée à créer de nouvelles alliances avec la Chine, et d’une manière générale avec les pays émergents du BRICS. C’est ce qui effraie Wall Street et la City : que la Chine, désireuse de se diversifier, investisse davantage dans les « eurobonds », même si ce mot est tabou, que dans les bons du Trésor américain. Dans une optique écostratégique à moyen terme, l’accord trouvé à Bruxelles mercredi est un coup terrible porté à Wall Street.

Mais la Bourse de Wall Street est montée en flèche suite au sommet ?

C’est normal : depuis quelques jours, le dollar baisse face à l’euro, et quand il baisse, Wall Street monte. Ensuite, les opérateurs financiers croyaient dur comme fer au naufrage de l’euro, ils manifestent donc leur soulagement. On le sait, les Bourses ont une capacité d’anticipation égale à zéro.

Vous parlez d’« Euroland », mais n’est-ce pas une pure vue de l’esprit ?

Plus pour longtemps. C’est inéluctable. C’est l’image de la seringue : le liquide, c’est l’Europe, et le piston, la crise, qui la pousse vers la seule issue possible. Malheureusement, elle a pris du retard car les dirigeants aux commandes se sont révélés assez médiocres, sans aucune vision politique à long terme, spécialement Nicolas Sarkozy. De fait, les rôles historiques dévolus à la France, chargée de l’impulsion, et à l’Allemagne, responsable de la mise en œuvre, se sont évanouis. L’Allemagne s’est trouvée seule pour assumer les deux tâches, alors qu’elle n’a pas l’habitude d’être le leader politique de l’Europe.

Comment cette nouvelle Europe peut-elle se construire ?

2012 sera une année de crête, un point de bascule entre deux mondes, celui d’avant et celui de demain. Il faut recourir à de nouveaux outils pour décrypter, anticiper, agir et non plus réagir dans cette dislocation géopolitique mondiale. L’an prochain, il y aura des changements de leadership dans plusieurs pays, et on vient de voir que Silvio Berlusconi a quasi signé son arrêt de mort en appelant des élections anticipées pour ce printemps. Dorénavant, deux sommets de la zone euro seront organisés chaque année, et elle va se doter d’une nouvelle Constitution en 2013 ou 2014.

Celle de 2005 avait pourtant échoué…

Ce sera un texte plus simple et plus fondamental pour quelques grands axes de la zone euro. Le précédent, trop lourd, indigeste, parlait d’une Europe passée. La prochaine Constitution sera soumise à référendum, non plus pays par pays, mais lors d’un seul vote pour l’ensemble des pays de l’UE.

Comment les Etats-Unis vont-ils sortir de leur endettement ?

Pour l’heure, ils ne peuvent pas. Dès novembre, les calculs montreront que la dette a encore augmenté. Le déficit va s’accroître, ils sont dans une spirale descendante. C’est l’effondrement d’un système transatlantique, basé sur l’alliance et le leadership de Wall Street et de la City. Nous sommes à la fin d’un cycle historique, de ceux qui se déploient sur deux, trois ou quatre siècles. Les Etats-Unis ont perdu de leur puissance et de leur crédibilité sur le plan international. Et pour leurs affaires intérieures, ils ne sont plus seuls maîtres de leur destin. Les indignés de Wall Street, comme les gens du Tea Party, sont deux symptômes de la défiance des Américains envers le système en place, où démocrates et républicains sont déconnectés des citoyens. Je pronostique l’émergence d’une troisième force politique lors des élections au Congrès en 2012.

Le Matin (Suisse), 30 octobre 2011

mardi, 08 novembre 2011

Le recyclage des terres rares, un enjeu stratégique

Le recyclage des terres rares, un enjeu stratégique

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Elles font aujourd’hui partie des métaux les plus précieux. Les terres rares, ce groupe de 17 minerais qui se nomment terbium, néodyme ou yttrium, s’avèrent très convoitées car indispensables à la production de la plupart des produits de haute technologie – ordinateurs, téléphones portables, écrans plats, éoliennes ou batteries des voitures électrique.

Mine chinoise

Contrairement à ce que laisse entendre leur nom, elles ne sont pas si rares, puisqu’il existe de nombreux gisements de par le monde, mais leurs stocks sont finis et leur extraction est difficile, coûteuse et extrêmement polluante. Surtout, elles sont le monopole de la Chine, qui détient 37 % des réserves mondiales mais contrôle 97 % de leur exploitation et réduit chaque année les quotas d’exportation. Or, la demande mondiale augmente chaque année de 6 %, mettant le marché sous pression.

L’enjeu, aujourd’hui, est donc pour les pays de sécuriser leur approvisionnement à des prix raisonnables et limiter l’impact de la raréfaction des terres rares au niveau mondial. Trois moyens existent : réduire leur utilisation, diversifier les sources en exploitant des mines en dehors de la Chine et recycler ces minerais.

C’est la troisième piste que cherche à développer la France, qui ne possède aucune mine de terres rares. Début 2012, le groupe chimique Rhodia rendra ainsi opérationnel, dans son usine de La Rochelle, un nouveau procédé, sur lequel il travaille depuis dix ans, permettant de recycler ces métaux.

 

L’objectif sera, dans un premier temps, de réutiliser les poudres luminophores qui recouvrent l’intérieur des lampes basse consommation (LBC) et qui contiennent plusieurs terres rares : terbium, yttrium, europium, gadolinium, lanthane et cérium. Pour l’instant, cette poudre est isolée et mise en décharge, lorsque les ampoules arrivent en fin de vie, alors que le reste des composants – verre, plastique, cuivre et aluminium – sont valorisés. Or, le terbium et l’yttrium font partie des terres rares les plus difficiles à trouver, les plus demandées et donc les plus chères (le terbium a ainsi vu son prix passer de 600 à 4 000 dollars le kilo en seulement deux ans). Au rythme actuel de consommation, leur approvisionnement sera critique d’ici 2014, estime, dans un rapport, l’Agence de l’environnement et de la maîtrise de l’énergie.

« Grâce à ce nouveau procédé de récupération et de séparation des terres rares, il sera possible d’extraire 17 tonnes de ces minerais, dont 15 tonnes d’yttrium, 1 tonne de terbium et 1 tonne d’europium, sur les 4 000 tonnes de lampes fluocompactes que nous recyclons », détaille Hervé Grimaud, directeur général de Récylum, l’éco-organisme en charge de l’élimination des lampes usagées. Et cette quantité pourrait considérablement augmenter si les LBC étaient davantage triées. Car aujourd’hui, seulement un tiers de ces lampes sont ramenées dans les 19 000 points de collecte que compte le territoire.

Pour augmenter ce taux de recyclage, Récylum a réalisé une opération de communication, le 17 octobre dernier, en érigeant un faux chantier d’exploitation minière en plein cœur du quartier d’affaires de La Défense. Une mine urbaine qui s’est avérée être, une fois les barrières tombées, une boîte géante pour recycler les lampes basse consommation. Le message est clair : le plus grand gisement de métaux rares qui existe en France se trouve aujourd’hui dans nos bureaux. Une fois récupérés, les débouchés de ces minerais seront les mêmes qu’actuellement : la catalyse automobile, l’industrie verrière, les alliages métalliques, lampes ou aimants permanents.

Après la mise en place de cette filière pour les lampes, ce sera au tour des terres rares contenues dans les batteries rechargeables et les aimants des voitures électriques et des disques durs de pouvoir être recyclées, sans doute au cours de l’année 2012.

Une question se pose toutefois : le recyclage, s’il est nécessaire, sera-t-il suffisant pour faire face à la demande galopante des pays développés ? « Non, le recyclage ne pourra remplir qu’une petite partie de la demande en terres rares dans les années à venir », assure John Seaman, chercheur à l’Institut français des relations internationales, spécialiste de la politique énergétique en Chine et des terres rares. Car si les lampes fluocompactes utilisent des quantités infimes de terres rares, il n’en est pas de même pour d’autres produits technologiques. Un moteur de Prius nécessite par exemple 1 kilo de néodyme pour ses aimants. Les éoliennes offshore, elles, consomment 600 kilos par turbine pour améliorer leur fonctionnement tout en diminuant les coûts de maintenance.

« Il faut donc, dans le même temps, trouver des approvisionnements en dehors de la Chine, utiliser ces minerais de façon plus efficace et leur trouver des substituts », précise le chercheur. C’est pourquoi des entreprises commencent à développer des alternatives à l’utilisation de terres rares. Dans le secteur automobile, Toyota cherche ainsi à développer pour ses voitures hybrides, un moteur à induction sans aimant. Dans l’énergie, General Electrics a annoncé en août la mise en place d’une turbine pour éolienne moins gourmande en terres rares. Mais ces produits sont encore loin de voir le jour.

Le Monde

lundi, 31 octobre 2011

Pire que la Grèce, la Californie !

Pire que la Grèce, la Californie !

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Le déficit californien atteint désormais 88 milliards de dollars (65 milliards d’euros) et la Californie, malgré les efforts de son nouveau gouverneur Jerry Brown, est désormais le seul Etat américain dont la notation financière est inférieure à celle de la Grèce…

L’État californien est terriblement endetté, mais il n’est pas seul. Beaucoup de ses municipalités, y compris celle de certaines de ses plus grandes villes sont très mal en point. Quelques exemples précis permettent de constater les dégâts, et certaines aberrations, qui rapprochent la Californie de… la Grèce.

En janvier 2009, l’Express posait la question : « La Californie est-elle au bord de la faillite ? » en rappelant les chiffres si souvent entendus « La Californie est l’Etat américain le plus riche et le plus peuplé. Indépendant, ce territoire de la taille de l’Italie et habité par 36,5 millions de personnes, serait la huitième économie mondiale » … Mais en ajoutant que son déficit atteignait alors 40 milliards de dollars.

En février 2009, « L’agence de notation Standard and Poor’s (S&P) a abaissé la note de la dette de l’État de Californie en raison de la crise budgétaire que traverse le territoire. Du coup, la Californie est désormais considérée comme le débiteur le moins fiable des États-Unis. » notait le quotidien la Tribune.

En février 2010, The Trumpet s’interrogeait « La Californie sera-t-elle la prochaine Grèce ? » et citait une réflexion du patron de la Banque centrale européenne, Jean-Claude Trichet (qui va quitter la direction de la BCE dans quelques jours). The Trumpet estimait la dette californienne à 200 000 dollars par habitant… et ajoutait que si l’Europe peut survivre sans la Grèce, l’économie américaine ne survivrait pas à une faillite de la Californie qui abrite un Américain sur huit.

Aujourd’hui, ce n’est plus de 40 milliards de dollars dont il faut parler, mais de 88 milliards de dollars (65 milliards d’euros) et la Californie, malgré les efforts de son nouveau gouverneur Jerry Brown, est désormais le seul État américain dont la notation financière est inférieure à celle de la Grèce

 

Le mensuel Vanity Fair s’intéresse à son tour à la Californie, et plus particulièrement à deux villes qui illustrent sa situation derrière l’apparence d’un des États les plus prospères des États-Unis, et bien sûr, à son ancien gouverneur, le très médiatique Schwarzenegger.

Mais Vanity Fair évoque aussi une inconnue, Meredith Whitney, analyste indépendante qui dirige sa propre société à Wall Street : le 14 décembre 2010, dans la célèbre émission d’information « 60 Minutes », elle se fait remarquer en soulignant que c’est au niveau local, au niveau des municipalités que l’Amérique est en train de couler.

Elle déclenche une salve de critiques mettant en cause son expérience, et l’accusant de parler sans savoir. En juillet 2011, l’agence Bloomberg écrit que la catastrophe qu’elle annonçait ne s’est pas produite, que sa crédibilité est remise en cause, et y consacre une longue dépêche pour réfuter sa thèse.

Pourtant, en cette fin d’année 2011, Vanity Fair estime qu’elle n’a peut être pas tort, et prend l’exemple de la Californie, la quintessence de l’Amérique et de son rêve avec Hollywood et la Silicon Valley. Elle s’étend le long de la côte du Pacifique de San Diego (frontière mexicaine) au sud, jusqu’à San Francisco au nord, sur plus de 800 Km mais elle ne couvre que 400 000 Km2, soit deux fois moins que la France.

Le journal considère que l’ancien gouverneur de l’Etat, Schwarzenegger y a réalisé quelques réformes importantes, mais que sur les recettes et les dépenses de la Californie, il a connu un échec total. A son arrivée au pouvoir en 2003, il atteignait 70% d’opinions favorables et l’on croyait que son mandat servirait à résoudre les problèmes financiers de la Californie. mais quand il est parti en 2011, sa cote de popularité était en dessous de 25%, et il n’a presque rien résolu.

Schwarzenegger répond qu’il n’a jamais eu les outils pour agir. David Crane, ancien conseiller économique démocrate, souligne que les pensions des fonctionnaires de l’État faisaient un trou deux fois plus grand dans le budget au départ de Schwarzenegger qu’à son arrivée.

Et il donne des détails précis et choquants : la Californie dépense 6 milliards de dollars pour moins de 30 000 gardiens de prison. Celui qui commence sa carrière dans une prison à 45 ans, peut prendre sa retraite 5 ans après avec une pension égale à la moitié de son ancien salaire… Le psychiatre en chef des prisons californiennes est le fonctionnaire le mieux payé de Californie : 838 706 dollars par an.

Si la Californie dépense 6 milliards pour ses prisons, elle ne consacre que 4,7 milliards à ses universités qui abritent 33 campus et 670 000 élèves, à comparer aux 30 000 gardiens. En 1980, un étudiant californien payait 776 $ par an en frais de scolarité ; en 2011, il paie 13 218 $. Partout, l’avenir à long terme de l’État est sacrifié.

Schwarzenegger reconnaît s’être rendu compte que quelque chose n’allait pas, lorsque mi-2007, les impôts ont rapporté 300 millions de moins en un mois, puis le mois suivant c’était 600 millions. En fin d’année, il manquait un milliard de dollars. Vanity Fair cite deux exemples. D’abord celui d’une grande ville que ceux qui ont parcouru la Californie connaissent, mais que les Français ne voient pas, aveuglés par San Francisco, qui n’est pas loin.

Déjà San Jose est une ville de près d’un million d’habitants. Elle se trouve à l’autre bout de la Silicon Valley qui commence aux portes de San Francisco. San Jose abrite le siège d’Adobe (éditeur du logiciel Photoshop etc.) et d’autres entreprises célèbres… Mais elle est au bord de la faillite. Ses malheurs ont, en fait, commencé dans les années 1990 avec le boom Internet, tout le monde s’est cru riche et les fonctionnaires municipaux ont voulu aussi leur part de gâteau, comme les policiers et les pompiers. En 2002, les policiers avaient été augmentés de 18%, puis les pompiers ont obtenu 23%. Les policiers ont réclamé une compensation pour être au même niveau.

Le maire de la ville, Chuck Reed, va jusqu’à dire qu’ils gagneront encore plus en retraite que lorsqu’ils travaillaient mais il espère ne pas en être au niveau de la Grèce en matière d’endettement. Pourtant les retraites et les mutuelles représentent plus de la moitié du budget, et ces dépenses continuent d’exploser.

Du coup, bien que la ville ait 250 000 habitants de plus, elle a dû réduire de près d’un tiers son nombre d’employés qui est passé de 7 450 à 5 400, soit le niveau de 1988. Les bibliothèques sont fermées trois jours par semaine, elle a licencié des pompiers et des policiers. Heureusement via un fonds fédéral de 15 millions de dollars, la ville a pu réembaucher, le 25 août dernier, 15 pompiers comme le montrent ces photos.

Si la situation ne s’arrange pas, en 2014, San Jose, 10e ville des USA ne pourra plus employer que 1 600 fonctionnaires. Les négociations avec les pompiers et les policiers n’avancent pas car ces deux corporations se considèrent comme indispensables, toutes les économies doivent donc se faire sur d’autres services à leurs yeux.

L’exemple de Vallejo, une autre ville californienne, qui se trouve près du bord nord-est de la baie de San Pablo, qui s’enfonce dans les terres au-delà de la baie de San Francisco illustre-t-il ce qui attend la Californie ? Le hall d’entrée de la mairie est vide, il y a un bureau d’accueil, mais personne derrière. Beaucoup de bureaux dans les étages sont vides. Cette ville de 117 000 habitants a fait faillite en 2008, les charges salariales des employés municipaux dévoraient 80% du budget municipal. Le taux de chômage en ville atteint 15,8%.

En août 2011, un juge a validé la banqueroute de Vallejo : ses créditeurs ont récupéré 5 centimes pour chaque dollar que la ville leur devait, rien de plus.

Atlantico

dimanche, 30 octobre 2011

« La finance grise doit être mise à contribution pour solder la dette des Etats »

« La finance grise doit être mise à contribution pour solder la dette des Etats »

Entretien avec Jean-Philippe Robé, avocat aux barreaux de Paris et New York.

Carte des paradis fiscaux, 2009 - Cliquez sur l'image pour l'agrandir

Vous établissez un lien entre la crise de la dette et les paradis fiscaux. Pourquoi ?

On estime qu’actuellement plus de 10.000 milliard de dollars sont détenus dans ces «pays à fiscalité privilégiée» via 400 banques, les deux tiers des 2.000 fonds spéculatifs (hedge funds) et deux millions de sociétés écrans installés – de façon très virtuelle – dans ces Etats. Et ce stock augmenterait à un rythme actuel de 1.200 milliards de dollars par an. Ce sont autant de capitaux qui, pour l’essentiel, échappent à la fiscalité des Etats classiques qui ont des besoins budgétaires réels à satisfaire.

La crise de la dette n’est pas qu’une crise de la dépense publique ; c’est aussi une crise de la recette et les stratégies prédatrices des paradis fiscaux, en érodant la base fiscale des Etats classiques, créent un problème fondamental.

Mais comment le traiter, sachant qu’on se heurte au principe fondateur du droit international, la souveraineté des Etats ?

 

En effet, si un Etat ne veut pas taxer les capitaux détenus chez lui, s’il veut assurer le secret absolu des transactions et des investisseurs, tel est son droit. On ne peut imposer à un paradis fiscal… de ne pas l’être, si ce n’est en modifiant les conventions fiscales internationales, ce qui est un exercice très difficile par les désavantages comparatifs que cela peut entrainer. Mais la crise de la dette nous donne l’opportunité de contourner ce problème.

Par quel moyen ?

Le traitement d’un problème de solvabilité tel qu’il se pose aujourd’hui est d’une simplicité brutale : tous les créanciers ne seront pas remboursés de la totalité de leurs créances. La question qui se pose est de déterminer qui va supporter la charge du non-remboursement, et dans quelle proportion. Les discussions portent aujourd’hui sur l’identification de la nationalité des contribuables à qui on va imposer un transfert de ressources au profit des créanciers.

Il y a pourtant une alternative simple dans son principe : décider par traité que ne seront payées dans leur intégralité que les créances dont les bénéficiaires finaux, personnes physiques, seront identifiés. Dans le cas où le créancier est une personne morale, une société, un trust, une fondation, etc., il lui reviendrait d’identifier les personnes physiques bénéficiaires ultimes du remboursement de la créance ; ou de donner les informations permettant de remonter la chaine des détentions des titres de créances ou de capital jusqu’à arriver aux personnes physiques. Seuls certains types de personnes morales strictement définis selon des critères de transparence, celles qui obéissent aux règles du KYC («know your customer» [connaissez votre client]) par exemple, pourraient échapper à cette obligation de déclaration.

Et c’est là que l’on retrouve nos fameux paradis fiscaux. Sur les 10.000 milliards de dollars détenus via les écrans juridiques qu’ils offrent, une partie au moins l’est en titres de créances émis par les Etats ou les banques. En mettant une condition de déclaration du bénéficiaire final du paiement, on ne touche pas à leur souveraineté ; on ne touche pas aux droits de créance. Seulement, les individus bénéficiaires indirects de droits de créance auront le choix : soit ne pas se faire connaître, et ils ne toucheront rien ; soit se faire connaître et, éventuellement, devoir rendre des comptes…

Nul doute qu’un certain nombre d’entre eux préféreront le premier choix ; mais qui viendra les plaindre ? Ce faisant, on aura réglé au moins en partie le problème d’un stock de dettes excessif ; on aura en partie purgé l’économie mondiale des circuits de recyclage des fonds accumulés grâce à la fraude, aux trafics ou aux crimes. On aura commencé à nettoyer les écuries d’Augias de la finance grise.

Mais les techniques juridiques utilisées sont tellement opaques que certaines structures n’ont elles-mêmes pas de moyen de connaître leurs bénéficiaires.

Rien ne les empêche d’inviter, par exemple par voie de presse, leurs bénéficiaires à se faire connaître. A défaut de quoi, la structure détenant des créances ne pourra pas les recouvrer. Et ainsi de suite le long de la chaîne de détention des créances qui va des émetteurs de titres aux personnes physiques bénéficiaires. Si on décide d’un transfert de ressources des contribuables aux créanciers, qu’au moins ce transfert ne bénéficie pas à ceux des créanciers qui ont un titre de créance obtenu grâce à la fraude ou au crime !

Le Monde

Dittatura dell'economia e società mercantilistica

Stefano Vaj

Dittatura dell'economia e società mercantilistica

 

Predominio della sotto funzione mercantile – Determinismo economico - Lo spirito di calcolo - La priorità del benessere economico individuale - La decadenza dello Stato

 

3-hanson.jpgLa società in cui viviamo la nostra esistenza conosce oggi come carattere qualificante quella situazione di unidimensionalità che si è convenuto chiamare “dittatura dell'economia” e che può essere ricondotta all'ipertrofia patologica di una funzione sociale nel quadro di un predominio culturale degli ideali bor­ghesi. Caratteristica a sua volta distintiva di questa ipertrofia nell'insieme dei suoi effetti secondari, è la tendenza a fagocitare successivamente le varie espressioni della realtà umana. Nietzsche scriveva già, in una pagina di Aurora: “La nostra epoca che parla molto di economia è ben soffocante; essa soffoca lo spirito”.

Non è nuovo del resto come le classi politiche di tutte le nazioni europee pongano oggi al centro del proprio interessamento il problema dei consumi, in vista della creazione di un'immensa classe media ipergarantita comprendente tutta la popolazione ed unificata dal livello di vita. La cultura, in questo mo­dello sociale, deve necessariamente spogliarsi di quei caratteri che possono ostacolarne la distribuzione consumistica generalizzata, mentre la politica viene ridotta alla gestione. È superfluo sottolineare il carattere estraneo all'autentica civiltà europea di questa centralità del fatto economico nella sfera sociale.

Le tre funzioni sociali millenarie delle culture indoeuropee, funzione politi­co-sacrale, funzione guerriera, funzione produttiva, presupponevano infatti un ordinamento gerarchico tra le stesse; ordinamento che in particolare compor­tava un predominio dei valori inerenti alle prime due funzioni. Ora, non sol­tanto la funzione produttiva si trova oggi dominata da una delle sue sottofun­zioni, l'economia, ma quest'ultima è ancora a sua volta dominata dalla sua sot­tofunzione mercantile. Così che tutto l'organismo sociale è patologicamente sottomesso ai valori espressi dalla funzione mercantile.

Il liberalismo, storicamente, non ha altro significato che l'aver gettato le basi teoriche per questa usurpazione della sovranità da parte del dato economi­co. Ideologicamente esso si configura, similmente al marxismo stesso, come uno degli svariati riduzionismi contemporanei. Gli uomini all'interno della specula­zione neoliberale moderna non possono essere compresi, se non ridotti a fattori astratti che intervengono su un mercato: clienti, consumatori, unità di mano d'opera, ecc...

Le specificità culturali, etniche, politiche, umane, tutto ciò che si oppone all'intercambiabilità, costituiscono altrettante “anomalie provvisorie” in vista del progetto da realizzare: il mercato mondiale, senza frontiere, senza razze, senza singolarità. Quello che Julius Evola chiamava americanismo, la fine della storia in una visione commerciale planetaria, costituisce probabilmente oggi la principale minaccia, in quanto questa utopia è ancora più estremista di quella dell'egualitarismo “comunista”, e più realizzabile perché più pragmatica. Si può dire sotto questo aspetto che la società americana è più democratica di quanto l'Unione Sovietica non sia comunista, e che questo democratismo mon­dialista, nella sua versione europea, costituisce per noi veramente l'ultimo fla­gello.

La nostra quindi è la “società dei mercanti”, ma non bisogna pensare che sia particolarmente basata sullo scambio ed il commercio. Quando noi parliamo oggi di “società dei mercanti” ci riferiamo non solo e non tanto a strutture socio-economiche, ma a una mentalità collettiva , un insieme di valori che carat­terizza oltre all'economica tutte le altre istituzioni. I valori del “mercante”, utili ed indispensabili al suo solo livello, determinano il comportamento di tutte le sfere sociali e dello Stato stesso.

Non intendiamo con questo lanciare anatemi contro il denaro ed il profitto e non siamo certo moralizzatori in preda all'odio per l'economia, o fautori di un nuovo riduzionismo opposto pregiudizialmente alla funzione mercantile in quanto tale.

Noi sosteniamo semplicemente che i valori e la funzione economica sono da accettarsi, ma in quanto subordinati ad altri valori; e significativo è anche come il privilegiare sistematicamente l'economia ed il benessere individuale porti a breve termine, oltre che all'instaurazione di un sistema inumano ed alla deculturalizzazione dei popoli, persino ad una cattiva gestione economica.

“società dei mercanti” significa quindi società dove i valori non sono che mercantilistici. A scopo di chiarezza possiamo, con Guillaume Faye, Segretario del Dipartimento Studi e Ricerche del G.R.E.C.E., classificare schematica­mente in tre grandi partizioni i principi che di questi valori si fanno ispiratori: la mentalità determinista, lo spirito di calcolo, la sistematica priorità del benessere economico individuale.

La mentalità determinista è utile solo in campo economico, in quanto serve a massimizzare gli utili con l'agganciare la propria attività, come variabile di­pendente, ad alcune regole e funzioni: curve dei prezzi, leggi di mercato, con­giunture, andamento monetario, ecc... Ma, adottata dall'insieme complesso di una società tende inevitabilmente a diventare un alibi per non agire, per non rischiare. Quando l'insieme dell'economia nazionale e, ancora peggio il potere politico, si sottomettono e si lasciano condurre da sistemi teorici deterministici costruiti all'uopo, rinunciando ad osare e a ricercare soluzioni creativamente, la società si “gestisce” solo a breve termine, e resta irrimediabilmente sotto l'e­gemonia di previsioni economiche pseudoscientifiche ritenute ineluttabili (la mondializzazione della concorrenza internazionale, l'industrializzazione pro­gressiva del terzo mondo, la necessaria evoluzione verso la “crescita zero”, ecc). Tutto ciò mentre paradossalmente non si tiene conto delle più elementari tra le evoluzioni politiche a medio termine: per esempio l'oligopolio dei deten­tori del petrolio.

Le nazioni mercantilistiche rinunciano così alla loro libertà politica e le gestioni liberali degli stati non sanno andare che nel senso di ciò che esse cre­dono essere meccanicamente determinato, in quanto razionalmente formulato, dimenticando che alla fine è l'uomo a stabilire le regole del gioco. Nel secolo della prospettiva, della previsione statistica e informatica, ci si lascia andare all'immediato e si è più ciechi dei monarchi dei secoli passati. Si procede come se le evoluzioni sociali, demografiche, geopolitiche non avessero alcun effetto. Così la società mercantilistica, sottomessa alle evoluzioni ed alle volontà esterne, per il fatto di credere al determinismo storico, rende i popoli europei oggetti della storia .

 

Un'altra chiave interpretativa della mentalità mercantilistica è lo spirito di calcolo, anch'esso adatto alla funzione mercantile ma inapplicabile alla totalità dei comportamenti collettivi. Lo spirito di calcolo non afferma, come potrebbe sembrare, che il denaro è diventato la norma generale, ma più semplicemente che ciò che non si può misurare non “conta”più, ha solo una “realtà” par­ziale. Egemonia quindi del quantificabile sul qualificabile, sostituzione sistema­tica del meccanico all'organico che applicano a tutto l'unica griglia del costo economico teorico. Si pretende di “calcolare”tutto: si programmano le ore di lavoro, il tempo libero, i salari, la frequenza dei rapporti sessuali, i consumi, la produzione artistica. In infortunistica si calcola persino un preciso “costo della vita umana”, legato alla produttività ipotetica unitaria media lungo l'arco della esistenza personale.

Ma tutto ciò che sfugge al calcolo dei costi, ovvero a nostro avviso le cose più importanti, è trascurato. Gli aspetti non quantificabili economicamente della vita umana e dei fatti socioculturali, come le conseguenze sociali dello sradicamento dovuto ai movimenti migratori, diventano indecifrabili e vengono quindi ritenuti insignificanti. L'individuo “calcola” la propria esistenza ma, perdendo di vista le sue radici, non ha più il senso della propria identità. Gli stati non prendono in considerazione che gli aspetti “calcolabili” della loro azione. Una regione muore di anemia culturale? Che importa, se per il turismo di massa il suo tasso di crescita è positivo.

Questa superficialità appartiene principalmente a quella “gestione tecno­cratica”, che costituisce la grottesca caricatura mercantilistica della funzione sovrana, e che tende ad assimilare le nazioni a grandi società anonime (vera definizione delle società per azioni) di cui i governi costituiscono il consiglio di amministrazione. In questa ottica, ogni politica estera che non ha lo scopo di procurare sbocchi commerciali immediati, ad esempio la difesa, non ha senso. Persino l'economia vi si trova danneggiata in quanto questo mercantilismo a breve termine non è certo in grado di sostituire una vera politica economica.

Terzo aspetto infine della società mercantilistica è, come dicevamo, la prio­rità sistematica del benessere economico individuale che ingenera direttamente un “ deperimento politico dello stato” attraverso la sua trasformazione in stato-­provvidenza, stato dolcemente tirranico. Arnold Gehlen, definisce la “dittatura del benessere individuale” come la situazione in cui l'individuo, costretto a entrare nel sistema provvidenzialista dello stato, vede la sua personalità disinte­grarsi nell'accerchiamento consumistico, in cui perde ogni padronanza del pro­prio destino. Il neoliberalismo opera così un doppio riduzionismo: da una parte lo stato e la società non sono ritenuti dover rispondere ad altro che ai bisogni economici della gente; d'altro lato questi sono ricondotti esclusivamente al “tenore di vita” individuale - cosa peraltro già molto diversa dal concetto di “qualità della vita”. E da qui discende anche la preminenza, in seno alla fun­zione economica stessa del “sociale” e del “consumistico” sulla produzione e sull'innovazione creatrice.

In questo quadro emerge chiaramente quindi come, per un liberale, la sola ineguaglianza tra i popoli e tra gli uomini è la differenza circa il potere di ac­quisto: per cui sarà sufficiente, per raggiungere l'“égalité”, diffondere nel mondo l'idea mercantilistica. Ed ecco riconciliarsi l'umanitarismo universalista e gli “affari”, la giustizia e gli interessi, “Bible and business”, secondo una frequente espressione di Jimmy Carter. Il fatto che i particolarismi culturali, etnici, linguistici siano degli ostacoli per questo tipo di società spiega il motivo per cui l'ideologia moralizzatrice dei liberalismi politici spinga all'internaziona­lismo, alla mescolanza dei popoli e delle culture, all'integrazione razziale ed alle diverse forme di centralismo antiregionalista.

La società mercantilistica ed il modello americano minacciano dunque tutte le culture della terra. In Europa ed in Giappone la cultura è stata ridotta ap­punto a un way of life , che è l'esatto opposto di uno stile di vita. La personalità dell'uomo è “cosificata”, ovvero assorbita dai beni economici posseduti, che soli strutturano la sua individualità; si cambia di “personaggio” quando cam­bia la moda e non si è più caratterizzati né dalle origini (commercializzate nel folklore ) né dalle opere, ma solo dal consumo. Nel sistema contemporaneo i tipi dominanti sono il consumatore, l'assicurato, l'assistito, neppure il produttore o l'imprenditore, giacché il mercantilismo diffonde un tipo di valori per cui ven­dere e consumare appare più importante che produrre. E non vi è niente di più livellatore che la funzione del consumo: il produttore, o l'imprenditore, si dif­ferenzia per le sue azioni, mette in gioco delle capacità personali; il consumo invece è l'attività passiva , la non attività per eccellenza, a cui tutti possono in­differentemente accedere.

Ma un'economia di consumo non può alla fine che risultare inumana per­ché l'uomo è un essere attivo, un costruttore. Fanno in questo senso sorridere amaramente le accuse di sapore biblico di certa sinistra culturale sull'essere e l'avere, sulla “maledizione del danaro” e sulla “volontà di potenza” della civiltà europea. La società contemporanea, pur conservando a tratti una vitali cancerogena e decadente, per noi solo preoccupante, non afferma assoluta­mente nessuna volontà, né a livello di destino globale, come neppure sul mero piano di una vera strategia economica.

Stefano Vaj

 

samedi, 29 octobre 2011

Six mois après le 11 mars, le Japon en perdition ?

Six mois après le 11 mars, le Japon en perdition ?

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Au lendemain du tsunami du 11 mars dernier, la dignité et le courage des Japonais ont fait l’admiration de l’Occident. Puis est venu l’étonnement, devant l’accumulation de fautes qui a causé la catastrophe nucléaire de Fukushima (mépris des règles de sécurité, faillite des organismes de contrôle vassalisés par le lobby nucléaire, panique à la centrale le jour du cataclysme). Aujourd’hui, sur fond de rancunes personnelles qui déchirent le parti démocrate japonais (PDJ) au pouvoir depuis 2009 et alors que le premier ministre vient de changer pour la sixième fois en six ans, l’incompréhension domine devant ces divisions, dans un pays où l’union nationale semblerait de rigueur.

Le Japon n’est plus conforme à l’image que l’Occident s’en était forgée. Où sont les vertus, la cohésion et le dynamisme qui en ont fait une si grande nation ? Comment est il possible, au pays d’Hiroshima, que le débat sur le nucléaire – dont 70 % des Japonais veulent sortir – soit en train d’être étouffé, alors que la situation reste critique à Fukushima ; que 110 000 personnes qui vivent dans un rayon de 20 kilomètres autour de la centrale ont été chassées de chez elles, où elles ne reviendront certainement pas ; que 76 000 de plus pourraient l’être, et qu’à moins de 250 kilomètres de Tokyo, une région vaste comme six fois Paris intra muros est désormais inhabitable ? Ce qui n’a pas empêché le très puissant groupe de pression des entreprises du nucléaire d’obtenir des autorités, pour la première fois depuis le 11 mars, le redémarrage d’un réacteur qui avait été arrêté pour maintenance.

Depuis 20 ans, l’économie japonaise est en crise. Les dégâts sociaux sont énormes : chômage, précarisation massive du travail, explosion des inégalités et du taux de pauvreté.

 

Cette crise est, aujourd’hui, aggravée par les conséquences des événements du 11 mars, mais aussi par la malédiction d’une monnaie contracyclique, qui s’apprécie quand la conjoncture mondiale se détériore, au détriment des exportateurs nippons. Alors que le PIB s’est contracté de 1,4 % au premier semestre, le yen a atteint son plus haut historique face au dollar le 19 août. Nul besoin d’être grand clerc pour penser que nombre d’entreprises japonaises pourraient délocaliser une partie au moins de leurs activités de production dans des pays où la nature est moins menaçante et les fluctuations monétaires moins défavorables.

Le Japon est accablé par une dette publique qui dépasse 220 % du PIB. L’agence de notation Moody’s l’a récemment dégradé à Aa3 – sans aucun effet pratique, puisque l’État japonais emprunte presque exclusivement auprès des investisseurs institutionnels nippons, à des taux aussi bas que ceux dont l’Allemagne bénéficie sur les marchés. Depuis 20 ans, cette facilité permet aux gouvernements de gérer la crise à coups de plans de relance, dont le dernier en date représente l’équivalent de 44 milliards d’euros. Mais l’épargne accumulée dans l’Archipel (habituellement évaluée à 12 000 milliards de dollars) n’y suffira pas éternellement.

L’augmentation de la TVA, aujourd’hui à 5 %, procurerait des recettes considérables. Le gouvernement veut partager avec l’opposition la responsabilité d’une décision si impopulaire.

Or celle-ci, sans rien promettre, en a déjà profité pour imposer au PDJ d’abandonner l’essentiel de son programme social. Ce recul signe l’échec d’une alternance que les Japonais avaient attendue pendant 64 ans. La crédibilité de la classe politique est anéantie.

Les démocrates y ont contribué par leur amateurisme et leurs querelles suicidaires. Mais la responsabilité incombe, plus encore, aux médias dont la chasse aux hommes politiques est le sport favori : la donation minime d’un résident étranger à un homme politique 5 ou une expression maladroite aussitôt reprise en boucle suffisent aujourd’hui à mettre en difficulté un chef de gouvernement ou à détruire un ministre. Ce faisant, les médias – toutes tendances confondues – flattent une opinion revenue de tout et imposent leur puissance à une classe politique qu’ils terrifient.

Les déficiences de cette dernière ont longtemps semblé être compensées par l’efficacité de l’État. L’Administration a souvent été créditée du « miracle » qui a rétabli le Japon dans son rôle de grande puissance après 1945. Mais, six mois après le tsunami, près de la moitié des ruines n’a pas été déblayée, des dizaines de milliers de sinistrés vivent encore dans des refuges provisoires et plus d’un millier de corps attendent toujours d’être identifiés. Un maquis de règlements entrave la reconstruction. Impossible de détruire l’épave d’un véhicule sans l’autorisation de son propriétaire, fût-il mort ou disparu, impossible également de déplacer les bâtiments publics détruits hors des zones ravagées par le tsunami, car les textes prévoient des subventions uniquement pour reconstruire sur le lieu de la catastrophe.

Autour de Fukushima, le flou et l’arbitraire prévalent dans la délimitation des zones dangereuses et la fixation, par les autorités, du niveau « acceptable » de radiations.

Le moral du pays est ébranlé, comme en témoigne l’effondrement de la natalité (1,3 enfant par femme), ou les résultats du très inquiétant sondage 2011. La jeunesse du monde, qui montre que les jeunes Japonais ont peur de la mondialisation, sont mécontents, voire pessimistes, n’ont pas plus confiance en eux qu’en les autorités et sont dépourvus de tout désir de s’engager. Le choc du 11 mars aurait pu ressouder et redynamiser la nation. Mais les médias ont beau multiplier les reportages sur les volontaires qui s’activent dans les zones sinistrées, on semble loin de l’élan qui avait porté un demi-million de citoyens vers Kobé au lendemain du séisme de 1995. Et, au lieu de la solidarité espérée, les déplacés de la catastrophe nucléaire semblent exposés au même ostracisme que celui qui a fait des hibakusha des parias dans leur propre pays. Ainsi, des plaquettes votives fabriquées dans le bois des pins déracinés par le tsunami et qui portaient des messages destinés aux 2 140 victimes de la commune de Rikuzen Takata ont été envoyées à la ville de Kyoto pour alimenter symboliquement le bûcher de O-Bon le plus célèbre du Japon. Elles ont été froidement retournées à l’envoyeur, par peur des radiations…

Les maux dont souffre le Japon – économie en berne, société en souffrance, endettement, État en perte d’efficacité, classe politique décrédibilisée, doute et cynisme de l’opinion – se retrouvent, peu ou prou, dans tous les « vieux » pays développés. Mais l’Archipel doit faire face à une menace qui ne pèse que sur lui : déplacé de plus de cinq mètres par le gigantesque séisme du 11 mars, il repose sur un assemblage de plaques tectoniques en plein réajustement. La probabilité qu’il soit frappé par un nouveau cataclysme majeur au cours des prochaines décennies ne saurait être écartée et la région de Tokyo est particulièrement menacée. Le pays a les moyens techniques et même financiers, de s’y préparer. Tout comme il a ceux de faire des zones ravagées par le tsunami le laboratoire d’un nouveau modèle d’urbanisme et de (re)mise en valeur du territoire, prenant en compte toutes les exigences du développement durable. Mais il faut pour cela des ressources qui semblent aujourd’hui en voie de disparition, et pas seulement au Japon : une vision à long terme, une forte cohésion nationale et la foi dans l’avenir.

LeMonde

samedi, 22 octobre 2011

Eustace Mullins - The Global Financial Situation

Eustace Mullins - The Global Financial Situation

vendredi, 21 octobre 2011

Crise systémique globale

Le GEAB n°58 est disponible!
Crise systémique globale
Premier semestre 2012 : Décimation des banques occidentales

Communiqué public GEAB N°58 (15 octobre 2011) -

 
 
Comme anticipé par LEAP/E2020, le second semestre 2011 voit le monde continuer sa descente infernale dans la dislocation géopolitique globale caractérisée par la convergence des crises monétaire, financière, économique, sociale, politique et stratégique. Après une année 2010 et un début 2011 qui aura vu le mythe d'une reprise et d'une sortie de crise voler en éclat, c'est désormais l'incertitude qui domine les processus de décision des Etats comme des entreprises et des individus, générant inévitablement une inquiétude croissante pour les années à venir. Le contexte s'y prête particulièrement : explosions sociales, paralysie et/ou instabilité politique, retour de la récession mondiale, peur sur les banques, guerre monétaire, disparition de plus d'une dizaine de milliers de milliards USD d'actifs-fantômes en trois mois, chômage durable et en hausse généralisé, …

C'est d'ailleurs cet environnement financièrement très insalubre qui va générer la « décimation (1) des banques occidentales » au cours du premier semestre 2012 : avec leur rentabilité en chute libre, leurs bilans en pleine déconfiture, avec la disparition de milliers de milliards USD d'actifs, avec des Etats poussant de manière croissante à la réglementation stricte de leurs activités (2), voire à leur mise sous tutelle publique et avec des opinions publiques de plus en plus hostiles, l'échafaud est désormais dressé et au moins 10% des banques occidentales (3) vont devoir y passer dans les prochains trimestres.

Pourtant, dans cet environnement de plus en plus chaotique en apparence, des tendances se dégagent, des perspectives parfois positives apparaissent, … et surtout, l'incertitude est beaucoup moins forte qu'on pourrait le croire, pour peu qu'on analyse l'évolution du monde avec une grille de lecture du monde-d'après-la-crise plutôt qu'avec les critères du monde-d'avant-la-crise.

Dans ce numéro 58 du GEAB, notre équipe présente également ses anticipations 2012-2016 des « risques-pays » pour 40 Etats, démontrant qu'on peut décrire les situations et identifier les tendances lourdes à travers le « brouillard de guerre » actuel (4). Dans un tel contexte, cet outil d'aide à la décision s'avère très utile pour l'investisseur individuel comme pour le décideur économique ou politique. Notre équipe présente également l'évolution du GEAB $ Index et ses recommandations (or-devises-immobilier), y compris bien entendu les moyens pour se protéger des conséquences de la prochaine « décimation des banques occidentales ».

Pour ce communiqué public du GEAB N°58, notre équipe a choisi de présenter un extrait du chapitre sur la décimation des banques occidentales au premier semestre 2012.
 

Premier semestre 2012 : Décimation des banques occidentales

En fait, il va s'agir d'une triple décimation (5) qui culminera avec la disparition de 10% à 20% des banques occidentales au cours de l'année à venir :
. une décimation de leurs effectifs
. une décimation de leurs profits
. et enfin, une décimation du nombre des banques.

Elle s'accompagnera bien entendu d'une réduction drastique de leur rôle et de leur importance dans l'économie mondiale et affectera directement les établissements bancaires des autres régions du monde ainsi que les autres opérateurs financiers (assurances, fonds de pension, …).
 
 
Un exemple de communication bancaire en temps de crise systémique globale Intesa SanPaolo se place par rapport à ses concurrents européens en matière de stress tests (et par rapport à la première victime : Dexia) (6)
Un exemple de communication bancaire en temps de crise systémique globale Intesa SanPaolo se place par rapport à ses concurrents européens en matière de stress tests (et par rapport à la première victime : Dexia) (6)
Notre équipe pourrait aborder ce sujet comme les médias anglo-saxons, le président des Etats-Unis et ses ministres (7), les experts de Washington et de Wall Street, et plus généralement les grands médias (8) le font ces derniers temps à propos de tous les aspects de la crise systémique globale, c’est-à-dire en disant : « C'est la faute de la Grèce et de l'Euro ! ». Cela aurait évidemment comme vertu de réduire à quelques lignes cette partie du GEAB N°58 et de supprimer toute velléité d'analyse d'éventuelles causes aux Etats-Unis, au Royaume-Uni ou au Japon. Mais, sans surprise pour nos lecteurs, ce ne sera pas le choix retenu par LEAP/E2020 (9). Etant le seul think-tank à avoir anticipé la crise et prévu plutôt fidèlement ses différentes phases, nous n'allons pas en effet abandonner aujourd'hui un modèle d'anticipation qui fonctionne bien au profit de préjugés dépourvus de toute capacité prédictive (n'oublions pas que l'Euro se porte toujours bien (10) et que l'Euroland vient de réaliser son petit exploit d'enchaîner en six semaines les 17 votes parlementaires nécessaires pour renforcer son fonds de stabilisation financière (11)). Alors, plutôt que de répercuter de la propagande ou du « prêt-à-penser », restons fidèle à la méthode d'anticipation et collons à une réalité qu'il nous faut dévoiler pour pouvoir la comprendre (12).

En l'occurrence, depuis des lustres, quand on pense « banques », on pense avant tout à la City de Londres et à Wall Street (13). Et pour cause, depuis plus de deux siècles pour Londres, et près d'un siècle pour New York, ces deux villes sont les deux cœurs du système financier international et les tanières par excellence des grands banquiers de la planète. Toute crise bancaire mondiale (comme tout phénomène bancaire d'envergure) prend donc sa source dans ces deux villes et y termine sa course aussi, puisque le système financier mondial moderne est un vaste processus d'incessants recyclages de la richesse (virtuelle ou réelle) développée par et pour ces deux villes (14).

La décimation des banques occidentales qui débute et va se poursuivre dans les prochains trimestres, phénomène d'ampleur historique, ne peut donc se comprendre et se mesurer sans analyser avant tout le rôle de Wall Street et Londres dans cette débâcle financière. La Grèce et l'Euro y jouent indéniablement un rôle comme nous l'avons analysé dans des GEAB précédents, mais ce sont ceux de facteurs déclencheurs : la dette de la Grèce, ce sont les turpitudes bancaires d'hier qui explosent sur la place publique aujourd'hui ; l'Euro c'est l'aiguillon de l'avenir qui perce la baudruche financière actuelle. Ce sont les deux doigts qui pointent le problème ; mais ils ne sont pas le problème. C'est ce que sait le sage et ce qu'ignore l'idiot d'après le proverbe chinois (15).

Pour anticiper l'avenir des banques occidentales, c'est en effet à Londres et Wall Street qu'il faut regarder, car c'est tout simplement là que le troupeau bancaire se rassemble et vient boire sa dose de Dollars chaque soir. Et l'état du système bancaire occidental peut se mesurer à travers l'évolution des effectifs des banques, de leur profitabilité et de leurs actionnaires. De ces trois facteurs on peut déduire assez directement leur aptitude à survivre ou disparaître.
 

La décimation des effectifs des banques

Commençons donc par les effectifs ! En la matière le tableau est bien sombre pour les employés du secteur bancaire (et même désormais pour les « stars du système bancaire ») : Wall Street et Londres annoncent sans interruption depuis la mi-2011 des licenciements massifs, relayés par les centres financiers secondaires comme la Suisse et les banques eurolandaises ou japonaises. Ce sont au total plusieurs centaines de milliers d'emplois bancaires qui ont disparu en deux vagues : 2008-2009 d'abord, puis depuis la fin du printemps de cette année. Et cette seconde vague monte en puissance au fur et à mesure des mois qui passent. Avec la récession globale désormais en cours, l'assèchement des flux de capitaux vers les USA et le Royaume-Uni consécutifs aux changements géopolitiques et économiques en cours (16), les immenses pertes financières de ces derniers mois, et les réglementations en tout genre qui progressivement « cassent » le modèle banco-financier ultra-profitable des années 2000, les dirigeants des grandes banques occidentales n'ont plus le choix : il leur faut à tout prix limiter leurs coûts au plus vite et dans des proportions importantes. La solution la plus simple (après celle consistant à surfacturer les clients) est donc de licencier des dizaines de milliers d'employés. Et c'est ce qui se passe. Mais loin d'être un processus maîtrisé, on constate que tous les six mois ou presque, les dirigeants des banques occidentales découvrent qu'ils avaient sous-estimé l'ampleur des problèmes et qu'ils sont donc obligés d'annoncer de nouveaux licenciements massifs. Avec le perfect storm politico-financier qui s'annonce aux Etats-Unis pour Novembre et Décembre prochains (17), LEAP/E2020 anticipe ainsi une nouvelle série d'annonces de ce type dès le début 2012. Les cost-killers du secteur bancaire ont de beaux trimestres devant eux quand on voit que Goldman Sachs, qui est également directement concerné par cette situation, en est réduit à limiter le nombre de plantes vertes dans ses bureaux par souci d'économies (18). Or, après les plantes vertes qu'on éradique, ce sont généralement les pink slips (19) qui fleurissent.
 

La décimation du nombre des banques

D'une certaine manière, le système bancaire occidental ressemble de plus en plus à la sidérurgie occidentale des années 1970. Ainsi les « maîtres des forges » s'étaient crus les maîtres du monde (contribuant d'ailleurs activement au déclenchement des guerres mondiales), tout comme nos « grands banquiers d'affaires » se sont pris pour Dieu (à l'instar du PDG de Goldman Sachs ou au moins pour les maîtres de la planète. Et l'industrie sidérurgique fut le « fer de lance», la « référence économique absolue », de la puissance pendant plusieurs décennies. On comptait la puissance en dizaines de millions de tonnes d'acier comme on a compté ces dernières décennies la puissance en milliards USD de bonus pour dirigeants et traders des banques d'affaires. Et puis, en deux décennies pour la sidérurgie, en deux/trois ans pour la banque (20), l'environnement a changé : concurrence accrue, profits qui s'effondrent, licenciements massifs, perte d'influence politique, fin des subventions massives et in fine nationalisations et/ou restructurations accouchant d'un secteur minuscule par rapport à ce qu'il était à son heure de gloire (21). D'une certaine manière donc, l'analogie vaut pour ce qui attend en 2012/2013 le secteur bancaire occidental.
 
 
Evolution du cours (et donc des pertes) du contribuable britannique suite aux rachats partiels par l'Etat de RBS et Lloyds - Source : Guardian, 10/2011
Evolution du cours (et donc des pertes) du contribuable britannique suite aux rachats partiels par l'Etat de RBS et Lloyds - Source : Guardian, 10/2011
A Wall Street, déjà Goldman Sachs, Morgan Stanley, JPMorgan avaient dû se transformer soudainement en « banques normales » pour être sauvées en 2008. A la City, l'état britannique a dû nationaliser toute une partie du système bancaire du pays et à ce jour le contribuable britannique continue à en supporter le coût puisque les cours des actions des banques se sont effondrés à nouveau en 2011 (22). C'est d'ailleurs l'une des caractéristiques du système bancaire occidental dans son ensemble : ces opérateurs financiers privés (ou cotés sur les marchés) ne valent pratiquement plus rien. Leur capitalisation boursière s'est envolée en fumée. Cela crée bien entendu une opportunité de nationalisation à faible coût pour le contribuable dès 2012 car c'est le choix qui va s'imposer aux Etats, aux Etats-Unis comme en Europe ou au Japon. Que ce soit par exemple Bank of America (23), CitiGroup ou Morgan Stanley (24) aux Etats-Unis, RBS (25) ou Lloyds au Royaume-Uni (26), la Société Générale en France, Deutsche Bank (27) en Allemagne ou UBS (28) en Suisse (29), certains très grands établissements, « too big to fail » (trop gros pour tomber) vont tomber. Ils seront accompagnés par toute une série de banques moyennes ou petites comme par exemple Max Bank qui vient de faire faillite au Danemark (30). Face à cette « décimation » les moyens des Etats seront rapidement dépassés, surtout en cette période d'austérité, de faible rentrée fiscale et d'impopularité politique du sauvetage bancaire (31). Les dirigeants politiques vont donc devoir se concentrer sur la préservation des intérêts des épargnants (32) et des employés (deux aspects à fort potentiel électoral positif) au lieu de sauvegarder l'intérêt des dirigeants et des actionnaires des banques (deux aspects à fort potentiel électoral négatif et dont le précédent de 2008 a démontré l'inutilité économique (33)). Cette situation entraînera un nouvel effondrement des cours des valeurs financières (y compris les assurances jugées très « proches » du contexte bancaire) et accroîtra le désarroi des hedge funds, fonds de pension (34) et autres opérateurs traditionnellement très imbriqués avec le secteur bancaire occidental. Nul doute que cela ne fera que renforcer le contexte récessionniste général en limitant d'autant les prêts à l'économie (35).

 
 
Evolution de la dette publique globale (1990-2010) (en % du PNB, à taux de change constant 2010) - Sources : BRI / McKinsey, 08/2011
Evolution de la dette publique globale (1990-2010) (en % du PNB, à taux de change constant 2010) - Sources : BRI / McKinsey, 08/2011
Pour simplifier la vision de cette évolution, on peut dire que le marché bancaire occidental réduisant considérablement son périmètre, le nombre d'acteurs sur ce marché est obligé de diminuer en proportion. Dans certains pays, en particulier ceux où les très grandes banques accaparent 70% ou plus du marché bancaire, cela va se traduire inévitablement par la disparition de l'un ou l'autre de ces très gros acteurs … quoiqu'en disent leurs dirigeants, les stress tests ou les agences de notation (36). Si l'on est actionnaire (37) ou client des banques qui risquent de s'effondrer au premier semestre 2012, il y a bien entendu des précautions à prendre. Nous en présentons plusieurs au sein des recommandations de ce GEAB N°58. Si l'on est dirigeant ou employé de ces établissements, les choses sont plus compliquées car il est désormais trop tard selon LEAP/E2020 pour éviter ces banqueroutes en série ; et le marché de l'emploi bancaire est saturé du fait des licenciements massifs. Cependant, voici un conseil de notre équipe si vous êtes employé de ces établissements : si on vous fait une offre de départ volontaire intéressante, saisissez-la car d'ici quelques mois, les départs ne seront plus volontaires et se feront dans des conditions peu favorables.
 
 
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Notes:

(1) La décimation était un châtiment militaire romain consistant à punir de mort un légionnaire sur dix quand l'armée avait fait preuve de lâcheté au combat, de désobéissance ou de comportement inacceptable. Le système romain de décimation fonctionnait par tirage au sort.

(2) Des réglementations qui amputent fortement les activités les plus lucratives des banques. Source : The Independent, 12/10/2011

(3) Notre équipe estime la proportion plutôt entre 10% et 20%.

(4) Brouillard de guerre auquel les médias dominants contribuent d'ailleurs fortement au lieu d'essayer de clarifier la situation.

(5) En prenant le sens de décimation au sens large, c'est-à-dire, une diminution brutale pouvant être largement supérieure aux 10% de l'époque romaine.

(6) Pour LEAP/E2020, ce type de classement ne présage en rien des événements puisque le choc en cours est très largement supérieur en intensité et en durée aux hypothèses des stress tests. Et cela vaut également pour les banques américaines bien entendu.

(7) Tout est bon désormais pour Barack Obama, en difficile position pour la future élection présidentielle du fait de son bilan économique catastrophique et de la déception profonde d'une grande partie de son électorat de 2007 du fait de ses multiples promesses non tenues. Il doit à tout prix essayer de rejeter sur n'importe qui ou n'importe quoi l'état désastreux de l'économie et de la société américaine. Alors pourquoi pas la Grèce et l'Euro ? Quand cela ne marchera plus (d'ici un ou deux mois), il faudra trouver autre chose mais la gestion à courte vue étant une spécialité de l'administration Obama, nul doute que le fidèle relais de Wall Street qu'est Timothy Geithner, son ministre des finances, trouvera une autre explication. En tout cas, cela ne sera pas la faute de Wall Street, avec lui on peut au moins être certain de cela. Sinon, l'administration Obama pourra toujours ressortir le « spectre iranien » pour tenter de détourner l'attention des problèmes internes aux Etats-Unis. C'est d'ailleurs ce qui semble être d'actualité avec l'histoire abracadabrante de la tentative d'assassinat de l'ambassadeur saoudien à Washington par les narcotrafiquants mexicains payés par des services iraniens. Même Hollywood hésiterait devant l'improbabilité d'un tel scénario ; mais pour sauver le soldat « Wall Street » et tenter une réélection, que ne ferait-on pas ? Sources : Huffington Post, 26/07/2011 ; NBC, 13/10/2011

(8) Ces grands médias (financiers ou généralistes) ont en effet un passé brillant en matière d'anticipation de la crise. Vous vous souvenez sûrement de leurs titres en 2006 vous mettant en garde contre la crise des subprimes, en 2007 vous annonçant l' « implosion » de Wall Street pour 2008, et bien entendu, début 2011, vous prévenant d'un grand retour de la crise dès l'été 2011 ! Non, vous ne vous en souvenez pas ? Pas de panique, votre mémoire est bonne … car jamais ils n'ont fait ces titres, jamais ils ne vous ont prévenu de ces événements majeurs et de leurs causes. Alors, si vous persistez à considérer que comme ils le répètent tous les jours, les problèmes actuels ont pour cause « la Grèce et l'Euro », c'est que vous croyez qu'ils sont subitement tous devenus honnêtes, intelligents et perspicaces… et vous devez donc aussi croire au Père Noël dans la même logique. C'est charmant, mais pas très efficace pour affronter le monde réel.

(9) Notre équipe a depuis longtemps souligné les problèmes européens et a anticipé plutôt correctement l'évolution de la crise sur le « Vieux continent ». En revanche, nous essayons d'éviter d'être victime du syndrome de l'arbre européen cachant la forêt de problèmes majeurs américains et britanniques.

(10) Petit rappel pédagogique : ceux qui ont parié pour un effondrement de l'Euro il y a un mois ont à nouveau perdu de l'argent. Au rythme de « crise de fin de l'Euro » tous les 4 mois environ, il ne va pas leur en rester beaucoup d'ici 2012.

(11) Alors que les Etats-Unis par exemple n'ont toujours pas été capables de démontrer leur capacité à surmonter les oppositions entre Républicains et Démocrates concernant la maîtrise de leurs déficits.

(12) A ce sujet, il est consternant de voir le G20 se préoccuper de l'Euro alors que la question centrale de l'avenir reste le Dollar. Visiblement, l'immense opération de manipulation médiatique lancée par Washington et Londres aura réussi à repousser pour un temps encore l'inévitable remise en cause du statut central de la devise US. Comme anticipé par notre équipe, il n'y a donc rien à attendre du G20 jusqu'à la fin 2012. Il va continuer à discourir, à prétendre agir et en fait à ignorer les questions clés, celles qui sont les plus difficiles à mettre sur la table. Les récentes annonces d'un accroissement des moyens du FMI font partie de ces discours vides qui ne seront pas suivi d'effets car les BRICS (les seuls à pouvoir accroître les fonds du FMI) ne mettront pas leurs moyens financiers dans une institution où ils continuent à être marginaux en termes d'influence. En attendant, ces annonces font croire qu'il existe toujours une volonté commune d'action au niveau international. Le réveil en sera d'autant plus douloureux dans les mois à venir.

(13) Si vous pensez à la Grèce, c'est que vous êtes Grec ou bien que vous êtes dirigeant ou actionnaire d'une banque ayant trop prêté à ce pays au cours des dix dernières années.

(14) Et d'une certaine manière aussi pour les deux Etats concernés. Mais c'est un aspect déjà plus discutable, et d'ailleurs largement discuté, de savoir si de telles places financières sont une bénédiction ou une malédiction pour les Etats et les peuples qui les accueillent.

(15) Source : L'Internaute

(16) Entre l'intégration accrue de l'Euroland qui prive la City de juteux marchés et le rapprochement économique, financier et monétaire des BRICS, court-circuitant Wall Street et la City, ce sont des parts croissantes du marché financier global qui échappent aux banques de Londres et New York.

(17) Voir GEAB N°57

(18) Source : Telegraph, 19/08/2011

(19) Aux Etats-Unis, le « pink slip » est le formulaire de couleur rose qui signifie un licenciement. Source : Wikipedia

(20) Il faut plus de temps pour délocaliser de l'industrie lourde que pour déplacer un bureau de trader.

(21) C'est à peu près le processus suivi aux Etats-Unis et en Europe.

(22) Voir graphique ci-dessus.

(23) Bank of America est décidément à la confluence de problèmes majeurs et croissants : un procès lui réclamant 50 milliards USD pour dissimulation de pertes lors de l'acquisition de Merrill Lynch fin 2008 ; un rejet populaire massif de la part de ses clients suite à sa décision d'imposer un coût de 5$ par mois pour les cartes de retrait ; un crash durable et inexpliqué de son site web ; des procès en série concernant les subprimes impliquant propriétaires individuels et collectivités locales ; et une menace de mettre en faillite Countrywide, un autre de ses rachats de 2008, pour limiter ses pertes. Selon LEAP/E2020, elle incarne la banque US idéale pour un scénario de crash entre Novembre 2011 et Juin 2012. Sources : New York Times, 27/09/2011 ; ABC, 30/09/2011 ; Figaro, 29/06/2011 ; CNBC, 30/09/2011 ; Bloomberg, 16/09/2011

(24) La banque US qui en 2008 avait déjà reçu le plus gros soutien financier public et qui affole à nouveau les marchés. Sources : Bloomberg, 30/09/2011 ; Zerohedge, 04/10/2011

(25) Une des banques les plus vulnérables en Europe. Source : Telegraph, 14/10/2011

(26) Qui voit approcher lui aussi l'heure de la dégradation de sa notation de crédit. Source : Telegraph, 12/10/2011

(27) La première banque allemande est déjà exposée à un abaissement de sa notation de crédit. Source : Spiegel, 14/10/2011

(28) UBS est aussi sur le chemin d'une baisse de sa notation de crédit. Source : Tribune de Genève, 15/10/2011

(29) Société Générale, Deutsche Bank et UBS ont un point commun particulièrement inquiétant : toutes les trois se sont ruées sur l' « El Dorado » US au cours de la dernière décennie, investissant sans compter dans la bulle financière US (subprimes comme Deutsche Bank, CDS comme société Générale et évasion fiscale comme UBS). Aujourd'hui, elles ne savent pas comment se sortir de ce maelström qui les entraîne chaque jour un peu plus vers le fond. Au passage, nous rappelons, que dès 2006, nous recommandions aux établissements financiers européens de se dégager au plus vite des marchés américains qui nous apparaissaient comme très dangereux.

(30) Source : Copenhagen Post, 10/10/2011

(31) Même la BBC, certainement marquée par les émeutes britanniques de l'été 2011, se pose une question « impensable » il y a seulement un an pour ce type de médias : les Etats-Unis peuvent-ils connaître des troubles sociaux ? Se poser la question, c'est déjà y répondre. Et en Europe, un pays comme la Hongrie, au gouvernement social-nationaliste, accuse directement les banques, notamment étrangères, d'être responsables de la crise que connaît le pays. Source : BBC, 20/09/2011 ; New York Times, 29/10/2011

(32) Dont un nombre croissant commence à se rebeller contre les pratiques du système bancaire notamment aux Etats-Unis où le rejet de Wall Street est en croissance exponentielle, fragilisant chaque jour un peu plus les grandes banques US. Sources : CNNMoney, 11/10/2011 ; MSNBC, 10/11/2011

(33) Et c'est même pire que de l'inutilité économique puisqu'une étude récente montre que les banques qui ont bénéficié des soutiens publics se sont ensuite montrées les plus sujettes à réaliser des investissements risqués. Source : Huffington Post, 16/09/2011

(34) Les fonds de pension publique aux Etats-Unis sont désormais face à un gouffre financier évalué entre 1.000 et 3.000 milliards USD. Les autorités publiques US préfèreront-elles sauver les banques ou les retraites des fonctionnaires ? Car il va falloir choisir bientôt. Source : MSNBC, 23/09/2011

(35) Source : Telegraph, 02/10/2011

(36) Aucune de ces grandes banques n'est en mesure de résister aux conditions de récession mondiale et de fusion implosive des actifs financiers qui vont prévaloir dans les mois à venir.

(37) Nous aurions aussi pu développer le fait qu'on assiste à un processus de « décimation des actionnaires des banques ».
 
Samedi 15 Octobre 2011
 
 
NOTA BENE:
 
Je sais que je reviens une énième fois avec ça, mais ce qui arrive et ce qui est prédit ici rejoint exactement ce qui est décrit dans LA LORGNETTE DE LA 3ème GUERRE MONDIALE.pdf

mercredi, 19 octobre 2011

La destruction des classes moyennes en France, en Europe et aux États-Unis

La destruction des classes moyennes en France, en Europe et aux États-Unis

par Marc ROUSSET

En Europe, la destruction, mais dans les pays émergents, la montée des classes moyennes, voilà où nous conduisent le libre échange mondialiste, les sociétés multinationales qui, à l’exemple de Renault, délocalisent, ainsi que les stock options des dirigeants embarqués dans un capitalisme au service exclusif des actionnaires, n’en déplaise à Mme Laurence Parisot, présidente du Medef. Seul le retour au capitalisme rhénan et à la préférence communautaire, avec des droits de douane sonnants et trébuchants, peut endiguer la catastrophe économique et sociale en cours !

 

Un symbole éloquent est fourni par l’entreprise américaine Apple. Ses produits sont conçus en Californie et assemblés en Chine par FoxconnApple, la deuxième plus grosse capitalisation mondiale après Exxon, que tous les bien pensants portent aux nues, fait travailler à peine une cinquantaine de milliers de salariés, chercheurs et cadres. Foxconn que  personne connaît fait travailler un million de salariés en Chine dans des emplois industriels ! Le Prix Nobel d’Économie Michael Spence constate que de 1990 à 2008, 98 % des vingt-sept millions d’emplois créés aux États-Unis l’ont été pour des secteurs travaillant exclusivement pour le marché intérieur américain, dont dix millions pour les agences gouvernementales et la santé. En revanche, les industries dont les produits sont exportables n’ont pas accru leurs emplois, sauf dans les métiers très hautement qualifiés. Le grand perdant est donc la classe moyenne employée dans l’industrie. Quant au professeur Alan Blinder,  ancien numéro deux de la Fed, il estime que 25 % de tous les emplois aux États-Unis sont potentiellement « délocalisables (1) ».

 

Il est cocasse de constater pendant le même temps et dans le même quotidien, l’émerveillement du brillantissime footballeur Edson  Arantes do Nascimento Pelé. L’ambassadeur du Brésil pour la Coupe du Monde de 2014 s’émerveille au contraire de l’apparition et de la montée des classes moyennes dans son pays : « Notre économie actuellement la septième du monde est diversifiée, innovante et elle allie croissance, stabilité, durabilité et inclusion sociale. Ces dix dernières  années, plus de quarante millions de personnes ont rejoint la classe moyenne, enfin majoritaire dans le pays (2). »

 

Avec l’expansion des échanges et la diffusion rapide des technologies vers les pays en développement, les employés européens sont confrontés à une concurrence croissante par delà les frontières. La Chine, l’Inde et les pays émergents dans une économie mondiale libéralisée et déréglementée provoquent plus qu’un doublement de l’offre de travail globale et un excès structurel de main d’œuvre permettant de faire porter sur les  salariés  l’ajustement aux nouvelles conditions de concurrence. Le fossé se creuse entre ceux qui sont à l’aise dans la mondialisation et le reste de la population, qui craint la précarité, la vulnérabilité, le déclassement social et se recroqueville sur ses avantages acquis.

 

Les classes moyennes tremblent en France pour leurs enfants, dont beaucoup obtiennent au mieux, des fonctions inférieures à des  diplômes, il est vrai, de plus en plus dévalorisés et inadaptés, et n’auront d’autre ressource que de brûler le patrimoine reçu en héritage (3). 80 % des emplois nouveaux créés en France relèvent de l’intérim, de C.D.D. (sept embauches sur dix), de stage, de travail à temps partiel et il arrive sur certains sites de l’industrie automobile que les effectifs soient à plus de 50 % intérimaires. La moitié des salariés – dont 52 % des cadres et 73 % des plus de cinquante ans – estiment qu’il leur serait « difficile de retrouver un emploi au moins équivalent » en cas de perte de celui qu’ils occupent actuellement (4). La fameuse « France d’en bas » est la conséquence directe de l’absence de véritables frontières douanières européennes.

 

Ce qui est vrai pour la France et les États-Unis se vérifie aussi en Allemagne où selon une étude de Joachim Frick et Markus Grabka, chercheurs à l’Institut pour la recherche en économie (D.I.W.) de Berlin, la classe moyenne, le « milieu », voit son importance décroître. En 2000, elle représentait encore plus de 62 % de la population allemande; en 2006, cette catégorie, autrement dit les Allemands qui gagnent entre 70 % et 150 % du revenu médian, était tombée à 54 %. Aujourd’hui en haut de l’échelle en Allemagne, les richesses issues du capital ne cessent d’augmenter. Selon Joachim Frick, « la répartition des revenus est plus inégale et plus polarisée qu’avant »; la confiance et l’optimisme des classes moyennes s’érodent en raison de la précarisation du travail; il est de plus en plus rare de disposer d’un emploi à temps plein et les salaires ne suffisent plus. Selon un quotidien économique en 2008, « l’Allemagne se découvre, 22 % de travailleurs pauvres ». Albrecht von Kalnein, directeur de la fondation Herbert-Quandt, explique ces changements par l’ouverture de la Chine, la mondialisation et la délocalisation des services et des emplois industriels. L’offre mondialisée exerce « une pression sur les salaires en Allemagne » explique Albrecht von Kalnein.

 

Les emplois délocalisés sont en général des emplois ouvriers stables, porteurs de technologie, d’investissements, favorisant d’autres emplois  et services grâce au pouvoir d’achat initialement créé par les  salaires de l’industrie, ce qui est la base même d’une économie saine. La qualité des emplois se dégrade et les Européens s’abrutissent de plus en plus à des tâches instables, peu gratifiantes et routinières; au-delà du problème du chômage stricto sensu se pose le problème de la dégradation continuelle et structurelle de la qualité de l’emploi. Les emplois créés pour pousser les vieillards dans leurs petites chaises roulantes, pour faire les courses des personnes malades, pour faire le ménage ou pour jardiner sont un exemple  d’emploi de services bas de gamme d’intérêt limité, sans avenir ni contenu technologique, des quasi-transferts de revenu qui portent en fait le nom d’emplois pour des pays décadents en voie de désindustrialisation rapide. Dans les statistiques officielles, ces emplois strictement alimentaires contribuent à la croissance d’un P.I.B. qui est en fait de plus en plus désindustrialisé ainsi qu’à la poudre aux yeux médiatique de la lutte victorieuse des gouvernements contre le chômage. Ce qui caractérisait les pays sous-développés et les économies de l’Ancien Régime, c’est le nombre incalculable de domestiques que faisaient vivre les nobles dans leurs châteaux et les classes  privilégiés dans leurs belles demeures !

 

Bien que sa politique ait conduit les États-Unis et le monde à une situation économique catastrophique, Alan Greenspan prétend que : « L’industrie manufacturière, c’est la technologie du XIXe siècle ! […] L’industrie manufacturière, ce n’est pas un secteur d’avenir. L’avenir est dans les idées qui servent à concevoir les produits. […] Il n’y a rien de sacro-saint qui justifie la préservation de l’industrie manufacturière au sens traditionnel du terme. Un pays qui défend son industrie manufacturière d’antan se condamne à voir son niveau de vie stagner ». Nous aimerions savoir comment l’ancien gouverneur de la Réserve fédérale américaine entend trouver du travail à trois cents millions d’Américains passant leur temps à concevoir des produits ! Dans les années 1950, l’industrie manufacturière représentait 27 % de l’économie et 30 % des emplois aux États-Unis; aujourd’hui, elle ne représente plus que 12 % du P.I.B. et un emploi sur dix. Le développement foudroyant de la Chine (70 % de son P.I.B. dans l’industrie) est là pour montrer que ce qu’affirme Alan Greenspan est complètement inexact !

 

Il est vital pour l’Europe de ne pas rester à l’écart du monde industriel moderne, de concevoir un développement industriel fort, créateur d’emplois pour la prochaine génération, d’assurer un renouvellement de son tissu manufacturier. Il importe de reconquérir avec des droits de douane et la préférence communautaire les trois millions d’emplois industriels perdus en France  pendant trente ans par la classe moyenne, au profit de celle de la Chine et des pays émergents.

 

Marc Rousset
Notes
1 : Jean-Pierre Robin, « Libres échanges », dans Le Figaro, 26 septembre 2011, p. 29.

 

2 : « Coupe du Monde. Une chance pour le Brésil », dans Le Figaro,  26 septembre 2011.

 

3 : Louis Chauvel, Les classes moyennes à la dérive, Le Seuil, 2006, 112 p.

 

4 : cf. l’Observatoire du travail – B.V.A. – L’Express, 14 – 29 septembre 2007.

 

5 : « Les conseils d’Alan Greenspan à la France », Le Figaro, 24 septembre 2007.

Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

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Globalisierungchaos

G. Reisegger: Globalisierungchaos

mardi, 18 octobre 2011

Occupy Wall Street: Die künstliche Opposition der Neuen Weltordnung

Occupy Wall Street: Die künstliche Opposition der Neuen Weltordnung

Oliver Janich

 

»Zwei Dinge sind unendlich, das Universum und die menschliche Dummheit, aber bei dem Universum bin ich mir nicht ganz sicher«. Mein Lieblingszitat von Albert Einstein könnte über vielen Artikel stehen, aber wenn es um die Occupy-Bewegung geht, trifft es den Nagel wirklich auf den Kopf.

 

Eines vorab: Ich meine nicht, dass jeder, der dort mitmacht, ein Idiot ist. Viele haben berechtigte Zweifel am System und wollen einfach etwas tun. Man kann auch nicht von jedem, der auf die Straße geht, verlangen, dass er erstmal unzählige Bücher über das Geldsystem liest. Aber von den Rädelsführern und denen, die sich ins Fernsehen einladen lassen, darf man das schon verlangen.

Es ist immer schwer zu unterscheiden, ob etwas aus böser Absicht oder aus Dummheit geschieht. War Angela Merkel im Mai 2010 bei der ersten Griechenlandhilfe, als das Desaster begann, aus Zufall in Moskau oder hat sie sich die Befehle ihres Führungsoffiziers abgeholt? Stimmen die Abgeordneten der Ausplünderung Deutschlands zu, weil sie irgendjemand in der Hand hat oder sind sie so doof? Wer weiß das schon?

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/oliver-janich/occupy-wall-street-die-kuenstliche-opposition-der-neuen-weltordnung.html

Richard Melisch - Globalisierung - Der letzte Akt

Richard Melisch - Globalisierung - Der letzte Akt