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lundi, 15 juin 2009

Alla conquista del cuore della terra

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Archivio - 2003

Piero Pagliani(1) :

ALLA CONQUISTA DEL CUORE DELLA TERRA

  

Il testo completo su http://www.fedevangelica.it/glam/docglam/42/glam42.exe

 

Parte I. Potere, egemonia e guerra. La guerra e i cicli sistemici. Tipi di guerra - Violenza, potere politico e potere economico - Le fasi storiche ricorrenti di accumulazione del capitale e le “guerre sistemiche”. I cicli sistemici storici. Il ciclo britannico (Rule Britannia! Britannia rule the waves) - Non “imperialismo” ma “tipi di imperialismo” - L’Impero britannico e l’imperialismo britannico. Il ciclo americano - La crisi del ciclo americano - La fine del ciclo americano (L’Oriente è rosso?). Cala il sipario. La supremazia statunitense come accanimento terapeutico? Dallo scontro tra civiltà allo scontro nelle civiltà: Lo scontro nelle civiltà - La volontà e la rappresentazione - Autori e beneficiari: la pseudo-logica dominante - Perché l’Islam politico - L’impero autoreferenziale statunitense e il cosiddetto “spirito protestante” - I valori occidentali e la loro esportazione. Nota su maggioranza, minoranza e soggetti alternativi. Il sipario strappato: è possibile una resistenza? Appendice A: i primi cicli sistemici. Il ciclo genovese-iberico - Il ciclo olandese - La nascita dello stato-nazione capitalistico inglese.

 

Parte II. La conquista dell’Eurasia. L’Eurasia. Un posto che ne vale la pena. Le caratteristiche uniche dell’Eurasia - L’Heartland: Asia Centrale e Caucaso. Ovvero, la Torre di Babele. Breve profilo dei contendenti principali. La Russia - La Cina - La Turchia - L’Iran - L’Uzbekistan - La geopolitica degli Stati Uniti: dalla crisi egemonica alla conquista dell’Heartland. Impero o Imperialismo?. Il pendolo delle “opportunità”: i punti salienti della storia recente. Cambiamenti strategici nella storia recente dell’Heartland - L’eredità di Bush Jr. - I nuovi schieramenti - Excursus: perché è stato ucciso il Comandante Massud? - La conquista dell’Heartland e la guerra all’Iraq. L’Heartland e la geopolitica delle risorse energetiche. Premessa - Stime delle riserve energetiche in Asia Centrale - Pensieri geostrategici - Le pipeline: tra geopolitica e keynesismo di guerra - Gli sporchi giochi attorno alla BTC - La BTC: un’opera sovvenzionata dall’apparato militare-industriale? Geopolitica delle risorse naturali: ambiente e acqua. Generalità - Cenni sulla questione dell’acqua in Medio Oriente: l’asse “idro-militare” Turchia-Israele - Cenni sulla questione delle risorse idriche in Asia Centrale - Petrolio e acqua: il caso dello Xinjiang - Petrolio e ambiente: il caso del Bosforo. Epilogo. Excursus: di nuovo sull’autoreferenzialità. Appendice B: Il conflitto del Nagorno-Karabakh - Le contraddizioni degli USA nella politica eurasiatica: Sezione 907 contro Silk Road Strategy Act. Appendice C: L’Olocausto Armeno. Gli Armeni - Il genocidio - “Umanità” è un concetto geopolitico, come le direttrici delle pipeline.

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Come è tristemente noto, le guerre sono sempre rivestite da ideali. E’ un meccanismo che gli antichi Romani avevano codificato nel famoso "si vis pacem, para bellum", se vuoi la pace prepara la guerra. Il meccanismo dell’ossimoro, della contraddizione in termini. "Pace è guerra" come, riecheggiando Orwell, giustamente la scrittrice e militante indiana Arundhati Roy intitolava un suo articolo sull’Afganistan. "Guerra Umanitaria", "Guerra Etica" e via celando la verità, con il corredo di "effetti collaterali", "precisione chirurgica", "prezzi giusti da pagare" (da parte delle vittime, ovviamente), ecc. Nonostante l’assordante clamore di questo sistema di inganni, è ormai evidente a tutti che in ogni angolo del mondo milioni di persone in qualche modo hanno capito che i "conflitti locali" degli ultimi tre lustri, giustificati da questi o quei motivi, inventati o reali che siano, fanno in realtà parte di una produzione in serie progettata e realizzata, con gli inevitabili aggiustamenti in corso d’opera, dall’attuale potenza capitalistica dominante, gli USA, e dal suo entourage che incomincia ad assumere forme instabili e cangianti.

 

Il petrolio: una spiegazione necessaria ma non sufficiente

Moltissime persone hanno anche incominciato ad intuire che il petrolio deve c’entrare non poco in questi conflitti. La guerra del Golfo era paradigmatica, ma anche ai tempi di quella contro la Serbia qualche osservatore controcorrente e attento si era ricordato di un progetto per fare transitare attraverso il Kossovo in direzione dell’Europa occidentale gli idrocarburi fossili provenienti dai terminali sul Mar Nero(2). Probabilmente era un motivo secondario, però forse non così tanto, vista poi l’ampiezza della base di Camp Bondsteel, costruita in Kossovo vicino a oleodotti e corridoi energetici da una affiliata della compagnia petrolifera "Halliburton Oil" di cui Cheney era Direttore Generale(3). Poteva essere una coincidenza. Ma anche l’Afganistan è da anni considerato un territorio di transito preferenziale (rispetto all’invisa Repubblica Islamica dell’Iran) per gli idrocarburi fossili estratti dalla zona del Mar Caspio che saranno diretti verso l’Oceano Indiano. Infatti, un intervento in Afganistan contro i recalcitranti (e irriconoscenti) Talebani era già nell’agenda di Clinton, senza bisogno del destro poi "offerto" da Osama bin Laden. E, similmente, anche l’intervento nel Kossovo era già stato deciso molto prima del preteso "genocidio"(4). E ora di nuovo l’Iraq. A freddo. Anche qui, per pura coincidenza, troviamo il petrolio, esattamente la più grande riserva mondiale dopo l’Arabia Saudita. Petrolio di ottima qualità, economico da estrarre. E, ancora per puro caso, l’oro nero si trova anche in quasi tutti i Paesi elencati nell’agenda antiterrorismo degli Stati Uniti: Iran, Sudan, Indonesia. Il petrolio è quindi un collante evidente dei conflitti avvenuti e di quelli a venire. Ma esiste un’altra coincidenza ancora più interessante: tutti e tre gli "Stati canaglia" canonici sono in Asia. Inoltre, verosimilmente i prossimi obiettivi saranno decisi insieme ad Israele e quindi, riflettendo la strategia geopolitica di questo Paese, che insiste sul Medio Oriente e sull’Asia Centrale (via Turchia), saranno anch'essi concentrati in quest’area(5). Troppe coincidenze fanno, ovviamente, un piano lucido. Ma quale piano? Questo piano ha a che fare solo con il petrolio? O è un piano più vasto?

 

Il "cuore della terra" e il controllo delle "nuove vie della seta"

Ci sono molti motivi per ritenere che il controllo delle risorse energetiche costituisca un fattore importante di un calcolo più ampio. Secondo il mio modo di vedere i martoriati Iraq e Afganistan, i tristemente noti Kossovo e Bosnia, così come gli sconosciuti, ma anch'essi infelici, Azerbaijan e Georgia e il furbo Uzbekistan sono tutte tappe di quella che definisco "la conquista del cuore della Terra", cioè l’attuazione riveduta e aggiornata della classica "dottrina Brzezinski" di conquista del centro dell’Eurasia, o meglio ancora, prendendo a prestito il nome di una legge statunitense varata all’uopo nel 1999, il Silk Road Strategy Act, sono tappe verso il controllo delle nuove vie della seta, delle risorse energetiche che vi fanno capo e di quelle del Golfo. Ma per un fine strategico più complesso. Le tappe successive potrebbero essere l’Iran, la Siria o anche un’Arabia Saudita già adesso in pesantissima crisi economica e sociale e ulteriormente destabilizzata dal probabile dopo Saddam(6). Più facilmente, con i soldi e non con le armi, ovverosia alla moda dell’Uzbekistan (già da tempo infeudato a Stati Uniti e Israele), sono ormai a portata di mano il Kirghizistan e il Tagikistan(7). Interessante sarà vedere cosa gli Stati Uniti intenderanno fare con il Kazakistan, il cui petrolio è appetito da tutti e potrebbe essere essenziale per dare un senso economico ad un oggetto su cui vale la pena soffermarsi brevemente: la pipeline Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC) che unirà i pozzi petroliferi di un Azerbaijan ormai praticamente federato alla Turchia, a un grande terminale petrolifero proprio sulla costa mediterranea del (bellissimo) paese fondato da Atatürk, passando attraverso una Georgia che non vede l’ora di sbarazzarsi della presenza militare russa (che comunque tra qualche anno dovrà sgombrare il campo grazie ai Protocolli di Istanbul). Ma per sperare di fornire alla BTC la quota giornaliera di petrolio imposta dai calcoli economici bisognerà vincere le indecisioni del governo di Astana, alternativamente propenso verso la Cina, la Russia, l’Iran e l’Occidente. Per quanto riguarda il Turkmenistan, per ora apparentemente c’è poco da sperare dato che sembra soddisfatto degli accordi che legano i suoi ricchissimi giacimenti di gas naturale alla rete di gasdotti della russa Gazprom. E, come ben sanno gli Stati Uniti, le pipeline non sono solo corridoi energetici, ma anche diplomatici.

 

Il keynesismo di guerra delle pipelines.

La BTC, fortemente voluta dal dipartimento di Stato statunitense (e non, si noti bene, da quello dell’energia come sarebbe stato naturale) è un’opera quasi sconosciuta – e specialmente ai nostri più gettonati commentatori – ma per ora è il miglior esempio di attuazione nel nuovo impero formale degli USA di quel "keynesismo di guerra" di cui tanto si parla. Infatti benché non abbia attualmente una prospettiva molto profittevole questa pipeline ha, tuttavia, il nobile compito geostrategico di sottrarre il petrolio del Mar Caspio all’influenza russa, cinese e iraniana e di cementare la "nuova via della seta" Turchia-Georgia-Azerbaijan, che in realtà inizia in Israele e termina nel bel mezzo dell’Asia Centrale a ridosso della Cina. Un vero e proprio paradigma della strategia statunitense. Una strategia che ha l’obiettivo conclamato di contrastare, attraverso il controllo dei principali fattori strategici (posizione geografica e risorse energetiche), la possibilità che in Eurasia si formi un’aggregazione di forze che possa mettere in discussione la supremazia statunitense, la quale, per leggere a ritroso una spudorata ammissione del dottor Kissinger, è solo un altro modo per definire la cosiddetta "globalizzazione". Se questa strategia è evidente, se non altro perché dichiarata senza troppe remore dai responsabili statunitensi, ne sono però meno evidenti le motivazioni più profonde. Al di là delle apparenze, della propaganda e delle certezze anche di sinistra, ritengo che sia più che sensato porsi delle domande, se non altro a partire dalla constatazione che è alquanto strano che gli Stati Uniti sentano minacciata la propria supremazia proprio dopo che l’unica altra superpotenza, l’URSS, è collassata.

 

I diritti umani come transponder per bombardieri

La vulgata propagandistica narra di una lotta titanica contro un terrorismo internazionale senza obiettivi razionali ma motivato da istinti premoderni se non addirittura primordiali. Una lotta che si complementa con una missione storica: la difesa e l’ampliamento dei diritti umani, della sicurezza globale e della democrazia. Queste sono le motivazioni superficiali, ovvero quelle che si vuole far apparire in superficie, come la punta di un iceberg. Ma già un solo metro sotto il livello del mare spariscono, perché lì iniziano quelle più profonde. Come l’Afganistan insegna, diritti umani, sicurezza e democrazia non sono nemmeno "side effects" della guerra, che purtroppo sono di tipo ben differente. Al contrario, l’uso strumentale dei diritti umani equivale esattamente alla loro cerimonia funebre. Infatti il problema che pone questo scenario è che quando i diritti umani sono utilizzati come armi politiche o quando seguono compatibilità strategiche e non sono invece concepiti come diritti individuali e collettivi universali, indivisibili e inalienabili, diventano inservibili perché ogni richiamo ad essi rischia di diventare un transponder per bombardieri. La motivazione più recepita e variamente elaborata dalla sinistra è invece il petrolio. Come abbiamo visto è sicuramente più pertinente; tuttavia è parziale e questa parzialità rischia di metterne in ombra la pregnanza: perché infatti gli Stati Uniti avrebbero la necessità di acquisire militarmente questo controllo dato che, almeno apparentemente, hanno una forza politica ed economica tale da attrarre e condizionare qualsiasi paese produttore, dall’Arabia Saudita alla Russia? L’utile di breve e medio termine che ne ricaverebbero vale gli altissimi rischi economici, politici e militari che queste aggressioni comportano? La risposta non può consistere nel ribaltare gli assiomi statunitensi e vedere negli USA un "Regno del Male" con l’aggravante di essere guidato da un gruppo dirigente particolarmente ignorante, aggressivo e arrogante (cosa sicuramente vera) che ormai non riesce ad inventarsi nient’altro che la conquista imperialistica diretta delle risorse altrui. E’ chiaramente una spiegazione limitata, a volte frutto di legittima esasperazione, ma non accettabile, per il semplice motivo che in linea di principio anche le spiegazioni che prendono in considerazione fattori irrazionali o mitologici devono comunque inserirli in un quadro analitico razionale.

 

Il dominio statunitense: parabola di un ciclo sistemico di accumulazione del capitale

Un quadro analitico razionale che ritengo possa inquadrare con successo i fenomeni che stiamo osservando, da quelli più materiali a quelli più ideologici, ci è fornito dall’analisi dei cicli sistemici di accumulazione del capitale, così come è elaborata dalla scuola di pensiero detta del "sistema-mondo", raccolta attorno al "Fernand Braudel Center for the study of Economies, Historical Systems, and Civilizations", dell’Università di Binghamton, New York e guidato da Immanuel Wallerstein, Andre Günder Frank e Giovanni Arrighi e, in posizione più eccentrica e spesso critica, Samir Amin. In particolare, secondo Giovanni Arrighi ogni ciclo sistemico di accumulazione è egemonizzato da una singola potenza e presenta una fase iniziale di espansione materiale basata sulla produzione e sul commercio cui segue una fase di crisi e decadenza, caratterizzata da un disimpegno del capitale dalla produzione e dal commercio e da un suo impegno nella speculazione finanziaria internazionale (si veda G. Arrighi, "Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo". Il Saggiatore, 1996). Questa espansione finanziaria è alimentata dalla concorrenza tra gli Stati per succedere alla potenza egemone in crisi, concorrenza che richiama il capitale attraverso un’espansione del debito pubblico e le spese per il riarmo che si ampliano a dismisura durante le fasi di crisi sistemica. Seguendo questa analisi arriviamo allora ad uno scenario sorprendente: gli Stati Uniti fanno quel che fanno non perché sono senza rivali ma perché la loro supremazia è in crisi. O, per essere più precisi, perché sono in crisi – e da tempo – i meccanismi di base di riproduzione di questa supremazia. Infatti, secondo la valutazione di molti studiosi, anche appartenenti a scuole di pensiero differenti, gli Stati Uniti stanno vivendo la fase di declino della loro egemonia nata con la fine della II Guerra Mondiale. In termini più ampi, la Superpotenza sta percorrendo la fase discendente di una parabola iniziata alla fine del XIX secolo e che ha raggiunto il suo apice negli anni tra il 1945 e i primi anni settanta del novecento. Di questa crisi potrebbero approfittare (anche qui, non per intrinseca perfidia o per odio antioccidentale, ma per occidentalissimi meccanismi concorrenziali) alcune potenze di dimensione continentale come gli stessi Stati Uniti: in primo luogo la Cina, poi la Russia e, in prospettiva, anche l’India. Questa partita tutta eurasiatica è però estremamente aperta e lo strapotere bellico statunitense la sta spostando su un piano militare. Cosa che è storicamente avvenuta in tutte le precedenti fasi di crisi sistemica individuate da Giovanni Arrighi.

 

Decadenza e violenza

La fine di un ciclo egemonico è infatti sempre un periodo di violenza, così come il suo inizio. Per la precisione l’egemonia è l’evoluzione di un dominio ottenuto con la forza e, parimenti, l’esaurirsi di un’egemonia favorisce l’uso della forza per far emergere un nuovo dominio. La violenza è dunque un modo iniziale e finale di esercizio del potere. L’esercizio maturo è ottenuto tramite l’egemonia, ovverosia facendo condividere gli scopi del potere anche a chi è soggetto gerarchicamente al potere stesso. Un’egemonia può basarsi su meccanismi ideologici e/o materiali e, si può dire, è compiuta quando li comprende entrambi. Meccanismi ideologici classici sono la fedeltà ad un gruppo etnico, ad una religione o il riconoscimento di un nemico o di interessi comuni, e quindi essi stabiliscono i modi in cui il potere è legittimato e può essere esercitato, anche in termini coercitivi (termini che sono ereditati dai meccanismi violenti con cui inizia la parabola dominio-egemonia-dominio e, per dirla con Marx, ricompaiono quando le cose non vanno più per il loro "corso ordinario"). Sono dinamiche che tendono a raggruppare, a definire spazialmente l’area di egemonia. In generale diremo che sono dinamiche che tendono a territorializzare. Dinamiche che vengono esaltate da eventi come Pearl Harbour o l’11 settembre, o in periodi come la Guerra Fredda. Meccanismi materiali sono quelli di carattere economico, il riconoscersi in un circuito commerciale o produttivo o anche finanziario, come attori e/o beneficiari. Questi meccanismi non sono necessariamente territorializzanti. Anzi spesso tendono alla deterritorializzazione, a rompere le frontiere spaziali. E ciò accade patologicamente quando una giurisdizione territoriale diventa un limite per l’accumulazione del capitale. A partire dagli albori del capitalismo nelle città-stato dell’Italia settentrionale, i due tipi di meccanismi di potere possono considerarsi – in linea di principio – appannaggio di gruppi separati, risultato di un lungo processo di differenziazione tra centri di potere politico territoriale e centri di potere economico, tra Stati e imprese. E’ a questo punto dell’evoluzione storica che si può parlare di "Capitale" come distinto dal "Potere" (territorialista).

 

La logica del Capitale e la logica del Potere

La divaricazione dei comportamenti di potere e capitale è innanzitutto spiegata dal fatto che il primo segue una logica di spazi-di-luoghi mentre il secondo segue una logica di spazi-di-flussi. La logica degli spazi-di-luoghi è funzionale alla razionalità del potere che è dettata da fattori come la formazione dello Stato, coi suoi meccanismi di riproduzione del controllo del territorio dove il potere è installato, quelli di espansione in ampiezza e le motivazioni ideologiche e morali che si di solito si intrecciano a questi fattori. La logica degli spazi-di-flussi è invece dettata da criteri come il calcolo del rapporto costi-benefici di ogni intrapresa e il controllo della capacità di acquisto, intesi come strumenti organici all’unico scopo della logica puramente capitalistica: generare denaro tramite denaro. E’ la particolare fusione di queste due logiche che permise l’ascesa delle città-stato italiane, dando l’avvio ai grandi cicli di accumulazione del capitale. Una storia che inizia col tentativo da parte dei mercanti europei di recuperare i mezzi di pagamento che si erano concentrati in Oriente e specialmente in Cina, aree che fino a metà del 1700 forniranno la quasi totalità dei prodotti manifatturieri mondiali. Ma perché il capitale si allea col potere tramite il meccanismo del debito pubblico? In sintesi questo matrimonio d’interessi è dovuto in alcune situazioni alla ricerca di protezione territoriale da parte del capitale apolide e, più in generale, ai calcoli del capitale rispetto le capacità del potere con cui si sta alleando di permettergli una successiva espansione materiale. Infatti ad ogni alleanza del capitale con il potere, stipulata durante la fase di espansione finanziaria, che è caratterizzata dal disimpegno del capitale dalle attività di trasformazione della natura, è seguita una fase di espansione materiale, caratterizzata invece dall’impegno del capitale nella produzione e nel commercio di merci, a scala ben maggiore di quella precedente. A sua volta il potere si allea col capitale per consolidarsi ed espandersi, ovvero per coprire i "costi di formazione dello Stato" e i "costi di protezione". Storicamente questa alleanza fa emergere una e una sola potenza capitalistica mondiale la cui egemonia caratterizza un ciclo sistemico di accumulazione. Questa potenza capitalistica sarà quella capace di accentrare il monopolio dei mezzi di pagamento e di "presentare i propri interessi come interessi generali di tutti gli altri agenti (stati-nazione, cittadini) o di un importante gruppo di essi" (Arrighi, op. cit.). E avendo rilevato il potere a spese della potenza egemone declinante (e degli altri contendenti), questa posizione gli permette, per l’appunto, di avviare la nuova grande espansione materiale di cui ha bisogno il capitale. Quando l’espansione materiale incomincia a diventare un limite alla valorizzazione del capitale allora inizia anche il divorzio tra il capitale e la potenza egemone in carica. Questo momento di passaggio è quindi indotto da una crisi generale di accumulazione "che segna il punto più alto del periodo di espansione materiale (D -->M) e dà inizio al periodo di espansione finanziaria (M -->D’)" (ibidem(8)). Come commenta Arrighi, D è segno di libertà di azione da parte del capitale: varie scelte di valorizzazione sono possibili. D -->M è uno specifico impegno del capitale che però viene sottoposto alle rigidità incorporate da M. Infine M -->D’ è un disimpegno grazie al quale il capitale riacquista una libertà d’azione, D’, allargata. E’ con questa dinamica che il capitale affronta la dialettica limite-condizione delle composizioni di potere territoriali storicamente date e le trasforma. Il disimpegno del capitale dalla produzione e commercio di merci inizia quando l’espansione materiale genera capitali che non possono incrementare "se non a patto di non essere più reinvestiti nelle attività che li hanno generati". La ragione di questo fenomeno risiede nel successo stesso dell’espansione materiale che genera pressioni concorrenziali di vario tipo (pressione verso l’alto dei salari, concorrenza per l’approvvigionamento delle materie prime, concorrenza sugli sbocchi commerciali dei prodotti, eccetera). Queste pressioni abbattono il profitto sotto quelle soglie che gli agenti capitalistici ritengono "tollerabili". Si ha allora una crescente fuoriuscita di capitali dall’investimento nelle attività produttive e commerciali e si genera una massa crescente di denaro in cerca di occasioni di profitto(9). La fase di espansione finanziaria, come si è detto, è resa possibile dalla concorrenza tra gli Stati per il capitale mobile, concorrenza che è indotta a sua volta dalla loro rivalità nella successione alla potenza egemone, ancora in carica ma uscente. Questa successione avviene facendo leva su due punti: a) l’acquisizione diretta o indiretta delle reti commerciali-industriali del soggetto egemone uscente; b) la centralizzazione dei mezzi di pagamento internazionali. L’espansione finanziaria è quindi legata a una fase di caos sistemico che genererà una nuova egemonia al cui interno saranno riorganizzati i processi di accumulazione del capitale su scala mondiale. L’inizio della fase discendente di un ciclo egemonico è segnalato da una crisi detta "crisi spia" (s1, s2, …, nel diagramma successivo) perché in effetti è la "spia" di una più profonda e fondamentale crisi sistemica, che lo spostamento verso l’alta finanza (la finanziarizzazione) dissimula e ritarda fino all’avvento della "crisi terminale" (t1, t2, …, nel diagramma). In realtà, "lo spostamento può fare molto più di questo: esso può trasformare per chi lo promuove e lo organizza, la fine dell’espansione materiale in un "momento meraviglioso" di nuova ricchezza e di nuovo potere, come è avvenuto, in misura diversa e secondo modalità differenti, in tutti e quattro i cicli sistemici di accumulazione. Tuttavia, per quanto meraviglioso possa essere questo momento per coloro che traggono maggiormente vantaggio dalla fine dell’espansione materiale dell’economia-mondo, esso non è mai stato l’espressione di una soluzione durevole della crisi sottostante. l contrario è sempre stato il preludio a un aggravamento della crisi e alla definitiva sostituzione del regime di accumulazione ancora dominante con uno nuovo." (ibidem)

Il "momento meraviglioso" in piena crisi sistemica, di cui parla Arrighi, è stato rappresentato ai giorni nostri dalla nuova belle époque reaganiana-clintoniana che ha raddoppiato la classica belle époque a cavallo tra il XIX e il XX secolo.

 

L’egemonia USA, ultimo ciclo sistemico storico

Fatte queste premesse, si possono individuare i seguenti cicli sistemici (adattamento da Arrighi, op. cit.):

 

 

 

 

Ci sono molte interessanti osservazioni sono indotte da questo diagramma. Le condensiamo qui indicando solo la continua accelerazione del ritmo (tempo sempre minore per l’ascesa, lo sviluppo e la sostituzione di un regime sistemico) e l’aumento della complessità organizzativa richiesta ad una potenza per poter emergere come dominante (lo si nota tramite la scala sull’ordinata da me aggiunta allo schema di Arrighi). Queste dinamiche sembrano confermare l’osservazione fatta da Marx nel terzo libro del Capitale, secondo la quale "il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso", ragion per cui la produzione capitalistica supera questa contraddizione "unicamente con dei mezzi che la pongono di fronte agli stessi limiti su scala nuova e più alta". L’ultimo ciclo di espansione materiale inizia con la vittoria degli Stati Uniti nella Guerra dei Trent’anni per la successione all’egemonia britannica (1914-1945) e con la I Guerra Fredda che permette a Truman di vincere le resistenze di un Congresso isolazionista ed estendere su una zona artificialmente limitata del mondo le idee di New Deal mondiale elaborate da Roosevelt (bisogna infatti notare che nei piani di Roosevelt non era contemplata nessuna suddivisione del mondo e anche l’Unione Sovietica vi rientrava a pieno diritto). Per vincere quelle resistenze l’amministrazione Truman invocava un’emergenza internazionale che il sottosegretario di Stato, Acheson, aveva "previsto" in Corea, in Vietnam o a Taiwan. Chissà come Acheson "indovinò" veramente perché, come ebbe a dire, "la Corea arrivò e ci salvò". Era il 1950. La I Guerra Fredda era ormai ufficialmente dichiarata. Il mondo veniva diviso in due e il New Deal poteva propagarsi su un "mondo" in formato ridotto e quindi gestibile: il "Mondo Libero". Come ci ricorda Gore Vidal, le resistenze e le proteste contro la politica estera di Truman e la complementare politica interna di sicurezza nazionale, da parte degli uomini del defunto Roosevelt (come ad esempio l’ex vicepresidente Henry Wallace) furono emarginate o criminalizzate anche con l’accusa di"comunismo" (sic!) (si veda Gore Vidal, "Le menzogne dell’impero". Fazi Editore, 2002) Fu così che sull’onda del più grande riarmo che il mondo avesse mai visto in tempo di pace si costituì lo strumento per continuare a sostenere gli aiuti all’Europa anche dopo la conclusione del Piano Marshall e impedire che innanzitutto il Vecchio Continente (o almeno la sua parte "libera") e poi il Giappone si isolassero dagli Stati Uniti. Gli organismi sovranazionali di governo del mondo, che nella visione di Roosevelt avrebbero dovuto sancire il carattere politico del governo mondiale, furono tenuti sullo sfondo. Le organizzazioni nate con gli accordi di Bretton Woods – cioè Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale – e l’ONU ebbero solo una funzione ancillare nei confronti del governo statunitense (anche la Corea fu un’operazione di "polizia internazionale") oppure furono ostacolate. L’unico effetto rivoluzionario degli accordi di Bretton Woods fu che la produzione del denaro mondiale passò sotto l’esclusivo controllo di una ristretta rete di autorità governative (in linea con il primato della politica sulla finanza codificato dal New Deal rooseveltiano). Tra il 1950 e il 1968 assistiamo così alla più grande espansione materiale della storia del capitalismo (la cosiddetta "Età dell’Oro del capitalismo"), all’ombra di un dominio formale statunitense, speculare a quello sovietico, ovverosia di una struttura gerarchica di Stati con a capo gli USA, dominio a cui cercarono di sottrarsi la Francia gaullista e Cuba. Ma tra 1968 e il 1973 si consuma la "crisi spia" del ciclo americano. La crescente concorrenza internazionale, con conseguente disimpegno dei mezzi di pagamento dagli investimenti produttivi e il progressivo impegno nella speculazione finanziaria – ad esempio nell’Eurovaluta – e una serie di tracolli politico-militari del campo occidentale (guerra del Vietnam, guerra del Kippur) congiunti all’impossibilità da parte delle autorità statali di tenere sotto controllo i flussi monetari generati dalle multinazionali, che seguendo la logica degli spazi-di-flussi sfuggono costantemente alle singole giurisdizioni pur basandosi su di esse, portarono alla fine del gold-dollar-standard (la base aurea mediata dal dollaro che aveva sostenuto il periodo di sviluppo materiale) e all’inedito fenomeno della stagflazione: la stagnazione accompagnata dall’inflazione. Il ciclo americano era entrato in crisi globale a meno di trent’anni dal suo inizio.

 

Un accanimento terapeutico: cercar di succedere a se stessi

Dopo tentativi del governo statunitense di ridurre alla ragione l’alta finanza, contrastando le manovre speculative con una continua inflazione e un continuo deprezzamento del dollaro, con Reagan assistiamo ad un processo opposto: la ricerca di nuova alleanza tra potere e capitale suggellata dalla trasformazione degli Stati Uniti nel più grande mercato offshore del mondo (deregulation) e con un riarmo sfrenato che trasformò il debito pubblico statunitense in un immenso aspirapolvere di capitali, così potente da risucchiare tutte le eccedenze dei Paesi industrializzati e uccidere sul nascere le speranze di "recupero" dei Paesi che, all’epoca, si dicevano "in via di sviluppo". La politica di Reagan con la sua II Guerra Fredda rappresentò dunque una duplicazione della I Guerra Fredda di Truman, ma per scopi totalmente opposti: mentre Truman voleva risolvere il problema della ridistribuzione della capacità di acquisto concentrata negli Stati Uniti, Reagan aveva invece il problema di riconcentrarla. Un’altra differenza consisteva nel fatto che con la sconfitta del Vietnam gli Stati Uniti abbandonarono la politica di impero formale per entrare in una fase di impero informale dove l’egemonia era esercitata tramite il mercato, più o meno come era successo nel 1800 con il periodo di libero mercato nel Regno Unito durante il precedente ciclo di accumulazione. Nel caso degli USA erano però il crescente deficit commerciale e l’enorme indebitamento pubblico che, congiunti alla supremazia monetaria, politica e militare fungevano da forza centripeta del mercato mondiale. Questa situazione si è estesa all’era Clinton, grazie all’esasperata finanziarizzazione dell’economia trainata dalla forza del dollaro (crescita della bolla speculativa) e alla massiccia terziarizzazione(10). Ed è così che negli anni novanta del secolo scorso, gli Stati Uniti hanno vissuto il culmine del loro "momento meraviglioso". Ma altri meccanismi erano all’opera. L’egemonia statunitense reaganiana-clintoniana era strutturalmente debole. Al contrario dei precedenti storici, ultimo l'Impero Britannico, gli Stati Uniti non avevano, e non hanno, un surplus strutturale da reinvestire all’estero e favorire la crescita (subordinata) dei Paesi che ricadevano sotto il loro tramontante impero informale o che ricadranno sotto il loro futuro dominio. Ne segue che la crescita degli USA e del sistema capitalistico occidentale (Giappone ed Europa) lascia indifferenti, nei migliori dei casi, le sorti del restante i restanti 4/5 del mondo, dato che questo sistema, sia in termini economici, sia in termini culturali, sia in termini politici "non ha più nulla da proporre all’80% della popolazione del pianeta" mondiale (Amin).(S. Amin, "Oltre il capitalismo senile". Edizioni Punto Rosso). La supremazia, statunitense per utilizzare le categorie offerteci dall’approccio del sistema-mondo, si gioca allora esclusivamente sulle attività di formazione e di protezione dello Stato. E’ una supremazia che comunque permette agli Stati Uniti di convertire in forza gravitazionale che agisce sul mercato i loro disavanzi (quello dei conti con l’estero ha ormai superato il 430 miliardi dollari) e di porsi al primo posto nell’ambito degli armamenti e della ricerca scientifica, attività strettamente legata al riarmo, e che consentono loro di ipotecare almeno quattro dei cinque monopoli individuati da Samir Amin coi quali si esercita la supremazia mondiale: monopolio della tecnologia, controllo dell’accesso delle risorse naturali, monopolio dei mezzi di comunicazione e dei media, monopolio degli armamenti di distruzione di massa (cfr. Samir Amin, “Il capitalismo del nuovo millennio”. Edizioni Punto Rosso, 2001). Il quinto monopolio, il controllo mondiale dei flussi finanziari, è invece più problematico. Negli anni novanta si è assistito infatti ad una impressionante crescita asiatica nell’alta finanza. Fatti 100 i beni delle maggiori 50 banche mondiali, la percentuale giapponese è passata dal 18% del 1970 al 48% del 1990, mentre le riserve in valuta estera sono passate dal 10% del 1980 al 50% del 1994. Questa crescita è stata accompagnata da un’eccezionale espansione industriale. L’Unione delle Banche svizzere ha stabilito in un’analisi comparativa che a partire dal 1870 non c’è mai stata una crescita economica paragonabile a quella recente del Sud-Est e dell’Est asiatico iniziata poco dopo la crisi sistemica del 1968-1973 (+ 8% annuo di media). In più questa crescita è avvenuta in un periodo di stagnazione nel resto del mondo e si è propagata come un’onda dal Giappone alle Tigri asiatiche, Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Hong Kong, e da lì alla Malaysia, alla Tailandia e all’Indonesia, fino a coinvolgere anche il Vietnam. E ora la Cina. Come si sa, i carghi provenienti dall’Oriente in Europa sono zeppi di merci, mentre quelli in direzione contraria sono mezzi vuoti, riproducendo singolarmente la situazione che avveniva all’inizio del capitalismo seicento anni fa. Similmente, come nella seconda metà dell’800 la produzione industriale britannica era ormai surclassata da quella statunitense e tedesca, allo stesso modo oggi assistiamo al declino industriale dell’Occidente a favore dei nuovi Paesi emergenti(11). "La contraddizione dell’egemonia mondiale USA ha innanzitutto a che fare con un percorso di sviluppo caratterizzato da alti costi di protezione e riproduzione, ovvero sulla formazione di un apparato militare di ampiezza globale ad alta intensità di capitale e sulla diffusione di uno schema di consumo di massa insostenibile e devastante che hanno finito per destabilizzare la potenza degli USA. Al contrario, l’eredità storica dell’Asia dell’Est di minori costi di riproduzione e di protezione hanno dato alle agenzie governative e d’affari della regione un decisivo vantaggio competitivo nella economia globale fortemente integrata. Se questa eredità verrà preservata, è un fatto ancora non chiaro." (Arrighi, op. cit.) Come risultato evidente di questa contraddizione, la sconfitta del Vietnam forzò gli USA a riammettere la Cina nei normali circuiti commerciali e diplomatici mondiali, ampliando il raggio dell’espansione e dell’integrazione regionale, in cui la Cina stessa, con la sua base demografica, le potenzialità di crescita e la disponibilità di forza-lavoro è diventata un gigante assoluto, attraendo quote crescenti di mezzi di pagamento. La Cina ha ormai superato il Giappone nella fornitura di merci agli USA e le autorità cinesi "hanno in mano il destino dei cambi dell’intero continente asiatico." (M. De Cecco, "La Repubblica, Affari & Finanza", 13-1-03) (12). Non è quindi un caso che gli Stati Uniti abbiano previsto che tra il 2017-2020 la Cina diventerà un avversario strategico. L’arcano profondo dell’attacco a Oriente sta forse proprio qui. Evitare che il capitale si allei con l’emergente stato-nazione-continente cinese. E per raggiungere questo obiettivo deve cercare, finché è ancora in tempo e finché ne è ancora capace, di arginare il più possibile la propria decadenza e di occupare, come sanno i giocatori esperti, il "centro della scacchiera". Ed è possibile, anche se con difficoltà. Le difficoltà nascono dal fatto che, per dirla in termini un po’ naïve, gli Stati Uniti non hanno assolutamente tanti soldi da spendere in guerre. E su questo il Movimento deve far leva e fa leva (giustissima la campagna "Non un uomo, non un soldo per la guerra"). Già quella del Golfo fu pagata per oltre il 70% dagli alleati e in special modo da Arabia Saudita, Emirati e – nota oggi dolente – da Giappone e Germania(13).La possibilità deriva invece dal fatto che in parziale contrasto con le fasi di crisi sistemica precedenti, oggi non si assiste ad una fusione della potenza finanziaria e di quella militare in un ordine più alto, ma si assiste invece ad una loro fissione: la centralizzazione della potenza militare negli USA da una parte e dall’altra la dispersione del potere finanziario in un arcipelago asiatico formato da stati-nazione, città-stato, diaspore, che non hanno né singolarmente né collettivamente nessuna possibilità di eguagliare la potenza militare statunitense né, per adesso, la possibilità di sostituirsi agli USA come centro organizzativo della finanza internazionale (Arrighi, op. cit.). Ma non è detto che questa situazione possa perdurare in eterno. Anzi, storicamente ciò non è mai successo. Non ci vorrà moltissimo tempo per arrivare al punto culminante della concorrenza per lo scambio politico con il potere finanziario. Gli Stati Uniti lo sanno benissimo e le date 2017-2020 previste dai suoi strateghi lo stanno a testimoniare.

 

I diritti umani e le convenzioni internazionali sono pipelines: seguono linee geostrategiche.

In questa situazione gli Stati Uniti, se vorranno mantenere la posizione di potere, dovranno cercare di scambiare la propria capacità bellica e di formazione dello stato con il potere finanziario dell’Asia orientale, eventualmente "mediante una rinegoziazione dei termini dello scambio politico che ha legato il capitalismo dell’est asiatico al keynesismo militare globale degli Stati Uniti durante tutta l’epoca della guerra fredda." (Arrighi, op. cit.). Contemporaneamente dovrà cercare di bloccare sul nascere ogni ipotesi di aggregazione di nuovi complessi o alleanze territoriali capaci di competere con questo piano. I corollari comportamentali di politica internazionale a nostro avviso sono: 1 non permettere un’autonomia politica europea; cercare di indebolire la Russia e, soprattutto, tenerla il più possibile lontana dall’Unione Europea (e l’ammissione nella UE di alcuni Paesi dell’Est e della Turchia potrebbe favorire entrambe queste manovre); 2 indebolire la Cina e cercare di disgregarla (utilizzando a fondo, tanto per iniziare, la questione tibetana e poi, o contemporaneamente, quella degli Uiguri nello Xinjiang(14)); 3 separare l’India (il terzo gigante territoriale asiatico) dall’Asia orientale, centrale e dalla Cina (a questo fine il conflitto in Kashmir è una benedizione da coltivare, assieme alla politica dell’attuale governo, guidato dal Bharatiya Janata Party, che a dispetto del suo proclamato, e spesso facinoroso, nazionalismo indù sta consegnando l’India alle più aggressive multinazionali occidentali). E’ in questo quadro che inseriamo la lotta per il mantenimento e l’incremento dei cinque monopoli - e quindi anche la lotta per il controllo esclusivo delle risorse energetiche - e possiamo ipotizzare che l’attuale III Guerra Fredda, o III Guerra Mondiale, si svolgerà quindi, o meglio si stia già svolgendo, attorno a questi cinque monopoli e al loro intreccio, con la finalità sistemica di ricentralizzare negli USA l’accumulazione di capitali o, per lo meno, di ricentralizzare il comando sui suoi fattori. Io credo perciò che siamo rientrati in una fase di neo-imperialismo, simile all’imperialismo che caratterizzò l’ultimo atto del ciclo britannico, dove, però nessuna potenza neo-imperialista è ancora pronta a raccogliere le sfide della Superpotenza. Dopo la Prima e la Seconda Guerra Fredda, ne stiamo quindi vedendo una terza replica che però non è più solo fredda anche se, forse, non sarà globalmente catastrofica, almeno per questo giro. Una pseudo guerra mondiale o una pseudo guerra fredda che a quanto si riesce a intravedere approderà, se avrà successo, a un’altra stagione di imperialismo formale statunitense, ovvero a un nuovo ordine gerarchico tra Stati con a capo gli USA. In termini generali, gli Stati Uniti stanno rifluendo dall’egemonia al dominio, chiudendo, ad un più alto livello, il cerchio iniziato nel 1945-1947. Infatti, se con Bush padre e con Clinton c’era stata una fase in cui si era pensato di ristabilire un ordine mondiale di tipo rooseveltiano, rivitalizzando e ridefinendo, ad usum delphini, gli organismi di governo internazionali, ora con Bush figlio sembra invece di essere ritornati ad un ridimensionamento unilateralista alla Truman, con le stesse tinte nazionalistiche e con la stessa tendenza all’impero formale. E come già successe allora con De Gaulle, la Francia cerca anche oggi di sganciarsi, seguita però stavolta.da diversi Paesi, tra cui l’altro pilastro dell’Unione Europea, la Germania, aprendo così un conflitto tra le due sponde dell’Atlantico e all’interno della stessa Unione. Conflitto ampiamente "previsto" con stizza e minacce da Martin Feldstein, ora consigliere di Bush, alla vigilia dell’introduzione dell’Euro (cfr. "Il Sole 24 Ore", novembre 1997). Condoleeza Rice dice quindi molto di più di quanto intenda fare quando paragona questo periodo agli anni 1945-1947. Perché questa, suo malgrado corretta, affermazione ci riporta alla mente l’invocazione dell’amministrazione Truman per una "emergenza internazionale" che infatti, come ricorda il professor Chalmers Johnson, venne riproposta tale e quale da D. Cheney, D. Rumsfeld e dagli altri allegri compari del Project for a New American Century, in un loro rapporto del settembre 2000, dove si dichiararono in attesa di "un evento catastrofico e catalizzante come una nuova Pearl Harbour"(15). Come accadde al sottosegretario di Stato di Truman, anche Cheney e Rumsfeld si rivelarono a loro modo "preveggenti" e con l’11 di settembre 2001 ebbero la loro auspicata nuova Pearl Harbour che legittimò la reazione unilaterale e dilagante degli USA. Tuttavia la nuova situazione, cioè il collasso dell’unico possibile contendente degli Stati Uniti, rischia di trasformare questo unilateralismo in un limite fondamentale all’esercizio del potere. Se infatti la strategia da Truman a Reagan si basava sulla possibilità di ritagliarsi una fetta di mondo su cui poter esercitare prima il proprio dominio e, in seguito, la propria egemonia, ora l’espansione globale di questa fetta rischia di portare a ciò che è stato definito un "sovradimensionamento strategico", ovverosia ad avere "interessi così estesi che sarebbe difficile difenderli tutti nello stesso momento e quasi altrettanto difficile abbandonarne uno qualunque senza correre rischi anche maggiori." (P. Kennedy, "Ascesa e declino delle grandi potenze". Garzanti, 1993)

 

Il Movimento e la guerra, quintessenza della mercificazione della vita umana

Se si accetta questa interpretazione della realtà, allora il rifiuto etico della guerra è costretto a fare in conti con un obiettivo immane: trasformare radicalmente la logica di sviluppo economico, di formazione dello stato e di esercizio della forza che è stata seguita negli ultimi seicento anni. O almeno contrastarla. Un compito non facile, lungo e complesso. Ma non impossibile, perché l’avversario non è poi così invulnerabile come si vuole presentare. Ma è vulnerabile non perché un’organizzazione di fanatici è capace di bombardarlo con un’azione terroristica, frutto avvelenato proprio della logica da contrastare, o perché un satrapo asiatico, altro frutto di questa logica, può in teoria infliggere sensibili perdite agli eserciti che vogliono aggredirlo. Al contrario, lo è perché esso stesso nel corso del tempo ha prodotto il proprio principale anticorpo: la coscienza dell’indivisibilità e dell’universalità dei diritti umani. Una coscienza che nello stesso campo occidentale è cresciuta in modo esponenziale come reazione all’iperconsumismo, alla dilatatissima alienazione economicistica e all’esasperata polarizzazione delle ricchezze, ovverosia come reazione al radicale attacco a valori di base politici, etici, sociali e religiosi elaborati e conquistati nel corso di secoli. Tutto ciò è testimoniato proprio dal carattere composito del movimento contro la globalizzazione liberista e le sue guerre, la cui varietà non dovrebbe destare meraviglia se si pensa che "il capitalismo innovativo e globale non è affatto soltanto anti-proletario (come continuano ad opinare i veteromarxisti operaisti), ma è anche e soprattutto anti-borghese, perché l’ethos nobiliare-borghese si è sempre ostinato a mantenere sfere vitali non mercificabili, o per lo meno non interamente mercificate." (Costanzo Preve, "Il Bombardamento Etico", Editrice CRT, Pistoia, 2000, pag. 39)(16). E non è difficile allora capire perché un’opinione pubblica trasversale, avvilita dall’arroganza economica e politica del potere, già allarmata per i tentativi di privatizzazione della vita cresciuti sull’onda dei successi della bioingegneria e preoccupata per il cattivo stato di salute del pianeta avvertibile tutti i giorni, consideri istintivamente e implicitamente (e giustamente) lo scambio morti-per-petrolio – il più evidente tra gli scambi proposti dall’amministrazione Bush – come l’inaccettabile quintessenza della mercificazione della vita umana. Ed è infatti mia opinione che la guerra, e specialmente la guerra moderna, sia da rubricarsi proprio sotto questa voce. Allo stesso modo possiamo aggiungere che, con tutte le sue contraddizioni, lo stesso risveglio religioso di questi anni non è altro, e proprio da un punto di vista squisitamente laico, che una manifestazione del fatto che l’essere umano è un animale ideologico, ermeneutico e metafisico, e non lo schiavo di una "mano invisibile" che lo inchioda alla pura materialità. E’ questa "dimensione antropologica transtorica" - per usare un concetto di Samir Amin - a spingere l’uomo a fare la propria storia. Ed è la moderna pratica politica laica il terreno più favorevole per compierla, perché "la democrazia moderna si attribuisce subito il diritto d’invenzione, a fare qualcosa di nuovo. Sta tutto qui il senso del segno di uguaglianza che la Filosofia dei Lumi pone tra Ragione ed Emancipazione." (S. Amin, "Oltre la mondializzazione". Editori Riuniti, 1999). Fare la propria storia vuol dire emanciparsi dall’alienazione mercantilistica e capire che un nuovo ciclo di espansione materiale capitalistico presupporrebbe una fase di conflitti crescenti e senza esclusione di colpi e, inoltre, sia che esso venga incentrato di nuovo sugli Stati Uniti sia, a maggior ragione, che venga incentrato su un nuovo stato-continente come la Cina che deve recuperare velocemente le fasi "pesanti" di sviluppo perdute, equivarrebbe con ogni evidenza ad un collasso ecologico-sociale planetario. L’emancipazione dall’alienazione mercantilistica non può quindi limitarsi all’Occidente, ma deve estendersi in ogni parte del mondo, Asia in primo luogo. E sembra anche evidente che questa emancipazione non è più appannaggio esclusivo di un soggetto sociale specifico, come nella tradizione marxista, ma di una rete di soggetti in larga misura ancora da definire e, addirittura, da identificare e che possono variare da Paese a Paese, eppure già reali e operanti. L’alternativa a questa emancipazione potrebbe non esserci, né singolarmente né come specie: "[…] prima di soffocare (o respirare) nella prigione (o nel paradiso) di un impero mondiale postcapitalistico o di una società mondiale di mercato postcapitalistica, l’umanità potrebbe bruciare negli orrori (o nelle glorie) della crescente violenza che ha accompagnato la liquidazione dell’ordine mondiale della guerra fredda. Anche in questo caso la storia del capitalismo giungerebbe al termine, ma questa volta attraverso un ritorno stabile al caos sistemico dal quale ebbe origine seicento anni fa e che si è riprodotto su scala crescente a ogni transizione. Se questo significherà la conclusione della storia del capitalismo o la fine dell’intera storia umana, non è dato sapere." (G. Arrighi, op. cit.)

 

 

 

NOTE

 

 

(1) Consulente di una transnazionale statunitense specializzata in informatica e in servizi nel settore petrolifero-energetico. Collaboratore di istituti di ricerca in Europa e in Asia nel campo dell’algebra della logica, sistemi esperti e analisi logico-algebrica di informazioni incomplete, è autore di memorie scientifiche e ha tenuto seminari e conferenze in Canada, Francia, Germania, Giappone, India, Polonia, Romania e Stati Uniti. Per un incarico di consulenza, ha vissuto in Turchia dall’inverno 2000 all’estate 2001. Durante questo soggiorno ha approfondito la propria documentazione sulla politica interna e internazionale di quel paese e delle repubbliche centroasiatiche e transcaucasiche. E’ membro della Chiesa Evangelica Metodista, al cui interno ha promosso la discussione sulle politiche neo-liberiste. (http://www.surf.it/logic)

 

(2) E’ il caso di Sergio Cararo (si veda il sito http://digilander.libero.it/acta_imperii/balcani01.html).

 

(3) I termini più generali della questione iugoslava sono verosimilmente quelli discussi da Alberto Negri in http://www.sottovoce.it/conflitti/corridoi1.htm

 

(4) Così Gerard Segal, ex direttore dell’Istituto Internazionale di Studi Strategici di Londra, un anno prima dell’intervento contro la Serbia: "Dovremo intervenire unilateralmente in Kossovo? La risposta sarà in larga misura un calcolo politico, ma l’interrogativo solleva questioni fondamentali attinenti alle finalità della potenza militare" (La Repubblica, 10-7-1998).

 

(5) Con la probabile aggiunta eccezionale e precauzionale, appena il gioco si farà duro, della perenne spina nel fianco: Cuba.

 

(6) Il reddito medio dell’Arabia Saudita è diminuito di più del 50% dall’inizio della reaganomics ad oggi.

 

(7) "Non con le armi" non è però in ultima analisi una descrizione esatta. La guerra per sottrarre all’influenza Russa i Paesi centrasiatici e transcaucasici si sta combattendo in Cecenia. La Cecenia, infatti, prima della guerra alla Serbia è stata la riprova che la Russia era così debole da non riuscire a venire a capo di un conflitto locale in casa propria (figuriamoci all’estero); dopo l’11 settembre è stata la merce di scambio per ottenere il lasciapassare per l’Asia centrale ex-sovietica, mentre oggi costituisce la situazione di crisi che continua a mantenere la Russia sotto pressione militare e politica. Il conflitto in Cecenia è uno dei tanti il cui compito è quello di non finire, a totale dispetto e dispregio delle sofferenze che provoca.

 

(8) Nelle classiche formule di Marx, D sta per capitale (denaro), M sta per "merci" (ma possiamo anche intendere M come mezzi o strumenti dell’espansione materiale) mentre D’ è il capitale accresciuto grazie a quei "mezzi"(D'=D+x).

La formula con cui Marx descrive la logica generale di accumulazione del capitale è quindi D -->M -->D’, mentre quella con cui descrive l’accumulazione finanziaria tramite interessi è D -->D’ (il denaro che "procrea" direttamente denaro). Arrighi, su un diverso piano di astrazione, spezza la formula generale di Marx in due momenti storico-logici separati: l’impegno del capitale nella produzione e nel commercio di merci, D -->M, che dà luogo alla dinamica di accumulazione D -->M -->D’ (espansione materiale), e il disimpegno dalla produzione materiale e progressivo impegno nelle attività finanziarie, M -->D’, che innesca il meccanismo di accumulazione abbreviato D -->D’ (espansione finanziaria).

Marx definisce la finanziarizzazione come "una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria", associandola così all’inizio del modo di produzione capitalistico, che in quanto tale è caratterizzato invece dalla formula D -->M -->D’ (cfr. , "Il Capitale", Libro I, Vol 3, Sezione VII, cap. 24). Se quindi si concepisce il capitalismo come un unico ciclo sistemico, una nuova fase di finanziarizzazione sarà vista come un sintomo di putrefazione (Lenin) o di decadenza (Keynes) del sistema. E’ di fatto il grande schema a cui si attiene anche Samir Amin, sebbene in modo altamente creativo e per nulla meccanico (dato che al suo interno contempla possibili ‘sottocicli’). Schumpeter, al contrario considerava la finanziarizzazione sintomo della fine di un ciclo di accumulazione e, nella sua scia, Arrighi la considera caratteristica della fine di un ciclo sistemico di accumulazione e di inizio di un ciclo successivo. Va allora notato che lo stesso Marx non parla di un’unica fase iniziale di accumulazione, ma di diverse fasi di accumulazione originaria che si sono susseguite nella Storia, ognuna basandosi sui frutti di quella precedente (Venezia, Olanda, Inghilterra e, presagiva, Stati Uniti). Tuttavia lo schema dei cicli sistemici di accumulazione non è derivabile direttamente da Marx (e in ciò l’interpretazione di Amin sembra più ortodossa di quella di Arrighi).

 

(9) I famosi "capitali fluttuanti speculativi" oggetto della Tobin tax, cavallo di battaglia di ATTAC, hanno questa origine.

 

(10) Attualmente è calcolato che il rapporto tra transazioni commerciali e transazioni finanziarie sia 1:80, cifra che illustra bene cosa si intenda per “disimpegno dalla produzione e dal commercio”.

 

(11) La partecipazione dell'apparato produttivo di Giappone, Germania e USA all'economia internazionale è passata dal 54% nel 1961 al 40% nel 1996 (IFRI-Ramses).

 

(12) La diaspora capitalistica cinese nel mondo ha contribuito in modo fondamentale a questo processo, sia finanziando direttamente la crescita cinese, sia fungendo da intermediaria finanziaria e commerciale (modello "One Nation, Two Systems").

 

(13) Per gli USA e gli UK il presidente Chirac è "un verme" non perché senza la Francia non si possa fare la guerra materialmente, ma perché la Francia trascina le posizioni di molti Paesi, in primo luogo la Germania, senza i quali è difficile farla finanziariamente.

 

(14) "Una volta che il momento è maturo, non sarà impossibile che i nazionalisti separatisti dello Xinjiang, assistiti da forze ostili interne e internazionali, si mettano a contrastare il governo locale e quello centrale e chiedere supporto alla comunità internazionale, proprio come i separatisti albanesi nel Kossovo, Yugoslavia. In quel momento non possiamo escludere la possibilità che il blocco militare della NATO guidato dagli USA agisca contro la Cina in un modo o nell’altro, anche con mezzi militari, con il pretesto di salvaguardare i diritti umani dei gruppi etnici di minoranza." Al Yu, "Kossovo Crisis and Stability in Cina’s Tibet and Xinjiang", Ta Kung Pao, FBIS.CHI-97-223, August 11, 1997.

 

(15) Cfr. Chalmers Johnson, "I missili di oggi sull’Iraq sono partiti 50 anni fa". Supplemento al N. 5 di Carta, febbraio 2003.

 

(16) "A proposito infine della tradizione culturale borghese, l’attuale globalizzazione non ‘occidentalizza’ affatto il pianeta (come sostengono noti confusionari sempre pubblicati, recensiti e pubblicizzati), dal momento che essa globalizza un modello di vita rigorosamente post-occidentale, posteriore al declino comune delle occidentalissime classi borghese e proletaria, e nichilisticamente posteriore a tutte le forme di saggezza e di religione occidentali." (Costanzo Preve, op.cit. pag. 47)

 

 

 

dimanche, 14 juin 2009

Stratégie Brzezinski, Axe Paris/Berlin/Moscou et guerres indirectes

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2003

 

 

 

Stratégie Brzezinski, Axe Paris/Berlin/Moscou et guerres indirectes

 

Exposé de Robert Steuckers au colloque de “Terre & Peuple/Wallonie”, Château Coloma, 16 novembre 2003

 

Mon exposé d’aujourd’hui tient en quatre parties :

1.

Je vais brosser une fois de plus, comme lors de deux ou trois réunions précédentes, la situation dans laquelle nous nous trouvons, au risque de me répéter et d’ennuyer ceux qui étaient présents lors de nos mini-colloques sur la “stratégie Brzezinski” et sur la question afghane ou lors des réunions de l’école des cadres de “Synergies Européennes”, où nous avions analysé en détail l’ouvrage de Brzezinski. Effectivement, les opérations dans les Balkans en 1999, l’invasion de l’Afghanistan à partir d’octobre 2001 et l’invasion de l’Irak au cours de ce dernier printemps, constituent trois étapes de la stratégie Brzezinski ou de projets assimilables et parallèles, que l’on peut découvrir en lisant les innombrables publications anglo-saxonnes sur l’importance stratégique et l’histoire de l’Asie centrale, de l’Afghanistan, du Pakistan, de l’Iran et des Indes. Il convient de bien se mettre en tête que les événements qui se déroulent aujourd’hui dans le monde sont l’application, par les Etats-Unis, de la stratégie de Brzezinski, que nous n’avons cessé d’analyser et de dénoncer. On ne peut comprendre la géopolitique américaine d’aujourd’hui, et, partant, les thèses de Brzezinski, que si l’on comprend les grands enjeux stratégiques de l’histoire passée de l’Europe et de l’Eurasie. A la lumière de nombreux faits historiques, nous allons voir comment les victoires ou les défaites des siècles précédents revêtent toujours une actualité stratégique, ravivée par les stratèges américains, épaulés par des instituts d’études historiques bien rodées.

2.

Je vais ensuite esquisser les principaux éléments de la réponse européenne et russe à cette stratégie, qui est trop timide, quasi absente de la presse quotidienne écrite et télévisée (souvent indirectement à la solde des Etats-Unis). Jusqu’ici seul l’ouvrage d’Henri de Grossouvre sur l’Axe Paris/Berlin/Moscou constitue une réponse cohérente, recèle un projet concret, notamment au niveau d’une éventuelle politique satellitaire et énergétique, commune à l’UE et à la Fédération de Russie, éventuellement épaulée par l’Inde et la Chine.

3.

Je vais évoquer ensuite, de manière plus exhaustive, les embûches extérieures, déjà en place, qui se dresseront devant toute politique d’unification stratégique du Vieux Monde. Ces embûches sont de trois ordres :

A.

La présence déjà bien tangible des “deux anacondas”, déployés par les Etats-Unis; ces deux anacondas sont l’US Navy (avec sa stratégique du porte-avions) et le réseau d’espionnage satellitaire, dont “ECHELON”, qui a été dénoncé avec une certaine vigueur verbale dans quelques rapports de l’UE, mais avec peu d’échos dans la presse quotidienne. La faiblesse de l’Europe actuelle est donc une faiblesse sur mer et une faiblesse dans l’espace circumterrestre. Dans les deux cas, une coopération avec la Russie s’avère nécessaire sinon impérative, vu que la flotte ex-soviétique demeure potentiellement un atout stratégique et tactique efficace, et que la politique spatiale russe recèle, elle aussi, des atouts considérables. Henri de Grossouvre en a bien conscience.

 

Guerre culturelle ou guerre cognitive

 

B.

La deuxième catégorie d’embûches relève de ce que l’on appelle désormais la “guerre cognitive”. Le réseau de revues et de cercles qu’a constitué la ND, dans sa phase d’ascendance et de maturité, avant son déclin, son navrant enlisement dans l’impolitique et le solipsisme infécond de son principal animateur, avait parfaitement reconnu l’importance de ce type de conflictualité politique. Sur le plan de la politique intérieure, la ND, après avoir lu Gramsci, parlait de “métapolitique”, soit d’une stratégie culturelle visant à faire changer les mentalités et, par voie de conséquence, par provoquer un changement politique. Sur le plan de la politique extérieure, ce réseau avait également évoqué la “guerre culturelle” que menaient les Etats-Unis contre l’Europe et le reste du monde. Le théoricien de cette “guerre culturelle” était le linguiste et angliciste français contemporain, Henri Gobard. Celui-ci dénonçait avec justesse et précision les manœuvres de la guerre culturelle américaine contre l’Europe. Gobard démontrait ainsi que cette guerre était bien planifiée, qu’elle avait des buts stratégiques précis, qu’elle s’inscrivait dans un projet politique global, visant à assurer et à pérenniser l’hégémonie américaine sur tous les continents. Nous allons voir comment la “guerre culturelle” ou la “guerre cognitive” est théorisée aujourd’hui par une nouvelle génération de stratèges et militaires français, notamment Christian Harbulot et François-Bernard Huyghe.

 

C.

Troisième catégorie d’embûches : les guerres indirectes susceptibles d’être immédiatement déployées contre l’Europe. Ce sont bel et bien des guerres latentes, dont tous les dispositifs sont en place, prêts à être activés. Il y a d’abord le “terrorisme fabriqué” (ou susceptibles d’être monté en un temps record), dont le Prix Nobel de littérature, l’Anglo-Indien V. S. Naipaul, a décrit clairement les mécanismes psychologiques. Dans les grandes agglomérations de la planète, donc dans les banlieues de nos villes, des masses de jeunes désœuvrés, sans espoir d’avenir, basculent dans un religiosisme hystérique, très manipulable, rapidement virulent. Ces populations, détachées de leurs racines, se recréent un univers fanatique, à cause précisément de leur mal de vivre. C’est un terreau idéal pour recruter des suicidaires en vue d’actions terroristes. C’est comme cela que l’on a “fabriqué” les talibans sous d’autres cieux. L’opération pourrait parfaitement se répéter chez nous, la masse démographique des diverses immigrations, ou “ethnies de passage”, devenant de plus en plus manœuvrable à de telles fins. Toute révolte dans les banlieues, avec raids sur les quartiers plus fortunés, mobiliserait des troupes et des moyens considérables et paralyserait ipso facto nos pays. La France, sur ce chapitre, court les dangers les plus grands.

 

Les trois ennemis qu’il faut impitoyablement éliminer

 

Ensuite, comme nous l’a démontré récemment Xavier Raufer, les mafias à l’œuvre au sein de nos sociétés, notamment les mafias italiennes et turques, sont liées depuis longtemps à certains services américains : elles aussi peuvent être activées à tout moment contre les Etats européens. Enfin, l’idéologie et la pratique néo-libérales, constate Raufer, permettent à ces mafias de prospérer. La formule de la stratégie qui permettra de faire imploser l’Europe de l’intérieur est donc la suivante : actions conjuguées des masses déboussolées des banlieues, des groupes religieux extrémistes qui tentent de les structurer, des mafias et des réseaux néo-libéraux (politiques et bancaires). L’intégrisme religieux/terroriste de pure fabrication, le banditisme organisé et les cénacles manipulateurs et pervers d’économistes néo-libéraux sont les trois ennemis actuels de l’Europe : ceux qu’il convient d’éliminer impitoyablement pour assurer l’avenir de nos enfants. Traduit dans un programme politique clair, cela signifie : restaurer la justice en appliquant le principe de la tolérance zéro, épurer la magistrature de tous ses éléments laxistes (avec la création d’une nouvelle “drossarderie” de salut public qui procèderait à l’arrestation immédiate de juges ou de policiers laxistes sous le chef de complicité avec les mafias, à leur traduction devant des juridictions d’exception sans appel, à leur châtiment immédiat); revenir aux principes d’une économie régulée (basée sur les théories de la régulation), non plus néo-libérale mais ordo-libérale, avec possibilité de livrer sans délais les propagandistes néo-libéraux aux tribunaux de la drossarderie, afin de juger les banquiers et financiers qui ont imposé le néo-libéralisme à nos sociétés et se sont fait ainsi les complices des mafias et du banditisme, tout en fragilisant nos tissus industriels. L’application de ces deux politiques permettra rapidement d’éliminer, manu militari, les “petites mains” de ces mafias, recrutées parmi les petits délinquants et petites frappes de quartier. Cette politique de la “main de fer” se lit en filigrane dans le travail de Xavier Raufer, qu’on ne peut certainement pas qualifier d’extrémiste. Il met tout simplement en exergue certaines nécessités de notre temps.

 

La collusion entre néo-libéralisme, terrorisme et criminalité

 

Et qu’on ne vienne par nous dire qu’il s’agit de théories “d’extrême-droite” ou de discours “néo-fascistes” : la “Fondation du 2 mars”, peu suspecte de sympathie à l’égard de ces théories et discours, a produit des ouvrages très clairs sur la collusion néo-libéralisme/criminalité/terrorisme, sous les plumes de Jean de Maillard (Le marché fait sa loi. De l’usage du crime par la mondialisation) et de Michel Koutouzis (L’argent du djihad), ancien directeur des recherches de l’”Observatoire géopolitique des drogues” (OGD) et aujourd’hui consultant auprès des Nations Unies et de la Commission de Bruxelles (le lobby “anti-fasciste” pro-drogues aura, nous semble-t-il, quelque difficultés à traiter de “fascistes” ces institutions; tout antifascisme qui campe sur des positions en faveur de la drogue, et donc des mafias qui la commercialisent, se met d’ores et déjà hors la future loi européenne; précisons enfin que tous ceux qui, émanant des partis de l’ancienne majorité “arc-en-ciel”, qui ne partagent pas nos positions, ne partagent pas non plus celles des Nations Unies). De son côté, l’économiste René Passet, qui fait partie du conseil scientifique d’Attac, vient de publier Mondialisation financière et terrorisme, qui va dans le même sens. La lecture croisée de tous ces ouvrages s’impose au politiste, qui a pour mission d’avertir, de conscientiser et de mobiliser ses concitoyens, comme à l’homme politique, qui n’a qu’un devoir, celui d’agir rapidement et avec efficacité; ces livres sont les émanations d’une “gauche” qui se réveille enfin, péniblement et timidement, de ses sommeils dogmatiques et de ses trips oniriques, faits de laxisme, d’eudémonisme, de délires et d’irréalisme. Le législateur catéchonique peut y puiser l’arsenal futur de son action restauratrice, capable de satisfaire un peuple dont les sensibilités de droite ou de gauche, en tous cas populistes, sont plus ou moins partagées en proportions égales. Car le clivage fondamental qui se dessine, au-delà de la binarité gauche/droite usuelle, est le suivant : d’un côté, le laxisme, avec pour issue la déliquescence et le retour à la loi de la jungle; de l’autre, la rigueur, avec pour résultat le retour à la croissance dans l’ordre social (savant dosage d’ordo-libéralisme, de keynésisme et d’hétérodoxie économique).

 

4.

Dans la quatrième partie, je vais me pencher sur deux aspects de la philosophie de l’histoire chez Toynbee : les notions de “Challenge-and-Response” [défi-et-réponse] et de “Withdrawal-and-Return” [retrait-et-retour]. La première de ces notions recèle un volontarisme évident : il n’y a, dans la logique du défi et de la réponse, aucune forme de déterminisme géographique ou racial, ce qui ne signifie pas  que Toynbee rejette les facteurs raciaux ou géographiques. La seconde de ces notions implique la nécessité de se retirer du “présent mondain”, sans pour autant quitter le monde (“withdrawal”), sans vouloir se soustraire aux lois du temps et de l’espace, pour s’armer de savoir, opérer des rétrospectives fructueuses, pour retourner ensuite au réel (“return”), plus fort, mieux armé, plus  clairvoyant. Dans la logique du “withdrawal-and-return”, façonner le futur n’est possible de manière optimale que si l’on s’est préalablement plongé dans le passé. La démarche de Toynbee est en ce sens “archéofuturiste”. Toute la politique anglo-saxonne fonctionne sur base de travaux d’historiens méticuleux, comme on peut s’en apercevoir en compulsant les catalogues des éditeurs, qui fourmillent d’ouvrages sur l’histoire antique, médiévale et moderne des “points chauds” de la planète. Les Européens et les Russes gagneront la “guerre culturelle” ou la “guerre cognitive”, s’ils travaillent de la même façon, s’ils adoptent la logique du “withdrawal-and-return”, telle que Toynbee l’a décrite.

 

◊ 1ière PARTIE : La stratégie Brzezinski

 

Théorisée dès le milieu des années 90, la stratégie de Zbigniew Brzezinski s’est réalisée définitivement sur le terrain à partir de 1999, quand les armées américaines prennent réellement pied dans les Balkans européens, et y installent des bases militaires de grandes dimensions, les plus importantes depuis la guerre du Vietnam. La deuxième étape, précédée d’une installation américaine en Ouzbékistan, a été constituée par le bombardement et l’invasion de l’Afghanistan en octobre 2001. Cette deuxième étape conduit au contrôle des “Balkans eurasiens”, selon la terminologie de Brzezinski. La troisième étape, non explicitement préconisée par Brzezinski, vise le contrôle de la Mésopotamie (de l’Irak). Elle constitue une volonté de mettre un terme à la fameuse “Question d’Orient”, qui agite l’échiquier international depuis la dernière décennie du  19ième siècle. Les Etats-Unis reprennent ici à leur compte les projets stratégiques de l’Empire britannique défunt, c’est-à-dire a) empêcher toute puissance européenne (Russie comprise) de se donner une fenêtre sur l’Océan Indien et surtout sur le Golfe Persique; b) empêcher l’organisation économique et infrastructurelle de la région par une puissance européenne ou par une alliance de plusieurs puissances européennes (Russie comprise). Pour les observateurs de l’échiquier international entre 1890 et 1914, comme pour les stratèges américains d’aujourd’hui, la “Question d’Orient” concerne tout autant les Balkans européens que le Proche-Orient et la Mésopotamie.

 

La France évincée de Mossoul

 

Immédiatement avant 1914, l’objectif premier était d’empêcher toute organisation et toute modernisation du territoire arabe sous domination ottomane par le tandem germano-turc, dont le principal axe de communication moderne aurait été le chemin de fer “Berlin/Bagdad”. Est-ce faire du “germanisme naïf” de rappeler aujourd’hui cette aventure du chemin de fer Berlin/Bagdad, comme nous le reprochent parfois certains  “souverainistes” français? Non. Car, à l’époque, les autorités allemandes avaient fait appel à d’autres puissances européennes, pour exploiter de concert les atouts de cette région du monde, y compris la France. Dans le cadre de l’exploitation planifiée de la Mésopotamie, l’Allemagne de Guillaume II, malgré ses lacunes et ses insuffisances, a eu une politique positive de la main tendue. On ne peut le nier. L’obsession de la “revanche” avait empêché Paris de se joindre à cette dynamique potentielle. Ce refus a contribué à faire éclater les carnages de 1914. Mais dès la fin des hostilités en 1918, les Britanniques, qui avaient découvert des gisements pétroliers dans la région de Mossoul, proposent une modification du tracé prévu pour les zones de protectorat, en s’attribuant bien entendu cette région pétrolifère, auparavant attribuée à la France. Les Britanniques font ainsi coup double : ils arrachent à la Turquie toute possibilité d’indépendance énergétique et soustraient aux Français des gisements qui leur auraient permis de consolider leur présence au Proche-Orient. Après les saignées de 1914-18, il restait à la France deux protectorats proche-orientaux, le Liban et la Syrie, peu viables économiquement et, qui plus est, coûtaient cher à la métropole.

 

En 1922, le Traité de Washington, imposé par les puissances maritimes anglo-saxonnes, oblige la France, théoriquement victorieuse mais en réalité totalement vaincue, vidée de son sang, privée de ses réserves démographiques rurales, à réduire, de manière drastique, le tonnage de sa flotte de guerre; l’objectif poursuivi par Londres et Washington, c’est que la France ne puisse plus vraiment tenir les deux bassins de la Méditerranée ni s’aventurer dans l’Atlantique. Les “alliés” britanniques et américains coupent les “nageoires” de la puissance qui, par étourderie et par dogmatisme figé, a sacrifié ses enfants par centaines de milliers, en combattant l’ennemi principal de Londres, qui s’approchait trop du Golfe Persique. En passant devant chacun de ces émouvants monuments aux morts de France, il faut penser au sang versé par ces braves paysans pour que se consolide l’emprise britannique sur la région du Golfe, un sang qui n’a même pas été payé avec le pétrole de Mossoul... Le patriotisme tapageur d’après 1918 a servi de dérivatif pour masquer, derrière d’irréels flonflons, la double défaite réelle de la France : au Proche-Orient et sur les mers. La clique des bellicistes laïcards braillait ce patriotisme tapageur, pour ne pas avouer son échec, pour ne pas avouer avoir été roulée dans la farine par les financiers londoniens et new-yorkais. Le peuple de France, s’il n’avait pas été aveuglé, lui aurait, à coup sûr, demandé des comptes...

 

En 1941, les troupes françaises du Général Dentz, stationnées au Liban et en Syrie, sont délogées par les Britanniques. Depuis, la France garde certes une présence culturelle dans cette région, qui est de plus en plus ténue, mais elle n’a plus aucune présence militaire. Par honte, les médias dominants en France depuis 1918, se gardent bien de rappeler les clauses du Traité de Washington de 1922, la rétrocession de Mossoul et les événements de 1941 en Syrie et au Liban. Le bon peuple pourrait commencer à se poser certaines questions...

 

Balkaniser le Proche-Orient, couper les côtes méditerranéennes de leur hinterland

 

Aujourd’hui, Israël fait office, dans la région, de pion américain, d’avant-poste dans la stratégie des thalassocraties. Avec la présence britannique à Chypre et l’alliance avec la Turquie, cette situation permet un contrôle facile de la région, focalisant le ressentiment arabe contre le seul Israël, qui, finalement n’est jamais qu’un instrument, que l’on déifie pour flatter un certain orgueil juif et faire passer à l’arrière-plan le statut subalterne de l’Etat hébreu, pur et simple pion. Or, l’histoire passée n’avait pas retenu que cette seule hypothèse : avant 1914, le sionisme de Théodore Herzl passait pour une idée au service de l’Allemagne wilhelminienne, cherchant à s’ancrer dans l’espace est-méditerranéen. La stratégie anglaise et américaine était différente à l’époque : elle pariait sur l’indépendantisme arabe et finançait au Liban et en Syrie l’éclosion d’une “conscience arabe” anti-turque. Le pouvoir ottoman répondit par une répression féroce, envoyant à la potence une vingtaine d’intellectuels arabisants, s’aliénant par ricochet les populations arabes du Proche-Orient. L’objectif était de fragmenter l’espace sous domination ottomane, de balkaniser à terme le Proche-Orient, de couper les côtes méditerranéennes de l’hinterland syrien et irakien, de s’emparer des nappes pétrolifères, de plonger l’aire proche-orientale dans un chaos permanent, de façon à ce qu’elle ne retrouve jamais plus de cohérence géopolitique. Le résultat pratique des missions “culturelles” arabes, financées par des organisations missionnaires américaines, a débouché, plus tard, sur la révolte des tribus nomades et cavalières, téléguidée par Lawrence pendant la première guerre mondiale; Lawrence croyait sans doute sincèrement œuvrer à l’indépendance des peuplades bédouines dont il admirait le mode de vie. N’oublions toutefois pas que les sociétés archéologiques anglaises, actives en Mésopotamie, comptaient parmi leurs membres des prospecteurs et des géologues chargés de découvrir discrètement le pétrole du sous-sol. Lawrence en avait fait partie.

 

Après avoir manipulé adroitement les Arabes de Syrie et du Liban, puis ceux de la péninsule arabique et du désert jordanien, les Britanniques font toutes les concessions voulues aux sionistes, qui changent de camp, très habilement, dès l’effondrement du front russe et dès l’intervention américaine en 1917. La révolution bolchevique éloignait les masses armées russes des détroits turcs, d’une part, de l’Arménie, du Kurdistan et de la région de Mossoul, d’autre part. En affaiblissant la Russie par l’organisation et le financement d’une révolution délirante, les services britanniques et américains conjurent la menace d’une invasion russe du Proche-Orient, au départ du Caucase, qui pourrait se solder par une occupation des côtes méditerranéennes et menacer l’Egypte (en 1916 les armées russes avaient largement pénétré dans le territoire kurde à l’Est de la Turquie actuelle). Dans ce cas, le sionisme serait peut-être devenu une idée au service des visées russes...

 

Une Turquie sans aucune indépendance énergétique

 

En Turquie, l’idéologie de Mustafa Kemal, le futur “Ataturk”, sied également aux Britanniques: en développant son “mythe hittite”, en voulant “européaniser” la Turquie, elle renonce ipso facto à toute revendication sur des territoires arabes qui recèlent du pétrole. La Turquie kémaliste est une Turquie sans aucune indépendance énergétique, condamnée à n’être plus rien d’autre qu’un jouet aux mains de l’impérialisme anglo-saxon. Une observation attentive des événements de l’époque confirme cette vue : en effet, quand les positions d’Ataturk et d’Inönü n’étaient pas encore clairement définies, les Britanniques se méfient de tout éventuel réveil turc et arment la Grèce qui envahit l’Ionie et pousse ses régiments en direction du centre de l’Anatolie. Dès que les Turcs déclarent qu’ils suivront plutôt la “géopolitique hittite” de Mustafa Kemal, qu’ils renoncent à jamais à toute prétention sur les territoires arabes qu’ils avaient jadis dominés, Londres (et Washington) lâchent la Grèce, car une présence hellénique et orthodoxe à proximité des Détroits et sur les rives de la Mer Noire pourrait, en cas de changement de donne en Russie, créer un espace pan-orthodoxe, englobant la Mer Noire et le bassin oriental de la Méditerranée. Londres, fidèle à sa politique bien établie depuis Pitt, n’en veut à aucun prix. Cette idée pan-orthodoxe demeure sous-jacente, notamment avec le principe nationaliste grec de l’”Enosis” (le rattachement de Chypre à la mère patrie grecque), avec les investissements discrets de firmes privées russes à Chypre (notamment dans l’immobilier), avec la fourniture de missiles russes aux forces grecques de l’île, avec l’esquisse d’une solidarité greco-serbe, greco-arménienne, greco-syrienne, greco-iranienne, etc., lors de l’attaque de l’OTAN contre la Serbie, si bien que l’on a évoqué aux Etats-Unis, avec une certaine inquiétude, la possible émergence d’un “axe” Athènes/Erivan/Téhéran. Si l’on se rémémore tous ces faits, on peut en conclure que la nouvelle Turquie kémaliste a pour fonction, depuis les années 20 du 20ième siècle, de verrouiller les Détroits, de tenir la Russie éloignée du bassin oriental de la Méditerranée, de tenir les Grecs en respect, de ruiner l’idée d’Enosis à Chypre (avec la complicité évidente des Anglais), d’abandonner toute idée de solidarité entre Turcs et Arabes, de façon à ce qu’aucun espace stratégique ne puisse se reconstituer entre les Détroits et le Golfe Persique.

 

L’idée du “Grand Moyen-Orient”

 

Quand à l’idée pantouranienne, qui se développe pendant l’entre-deux-guerres dans bon nombre de cénacles nationalistes turcs, elle est tenue en réserve afin d’être instrumentalisée contre la Russie, si besoin s’en faut. Lors de l’effondrement de l’Union Soviétique, cette idéologie a servi à créer des chaînes de télévision en une langue turque unifiée pour les besoins de la cause, qui véhiculait la vision américaine, forgée dans les officines de Brzezinski, d’un “grand Moyen-Orient”, englobant toutes les républiques musulmanes et turcophones de l’ancienne URSS. Autre aspect concret et pratique de l’idéologie pantouranienne : tout ressortissant turcophone de l’ancienne URSS et du Sinkiang chinois reçoit automatiquement la nationalité turque. Si la Turquie devient membre de l’Union Européenne, ce ne sont pas seulement les 70 millions de citoyens turcs de la République de Turquie qui recevront un libre accès au territoire de nos pays, mais aussi les quelque cent millions de turcophones d’Asie centrale. Le pantouranisme vise à noyer l’Europe sous les flots démographiques de la Grande Turcophonie, et de venger ainsi les défaites d’Attila aux Champs Catalauniques, des Avars au 7ième siècle, des Hongrois à Lechfeld en 955, des Ottomans devant Vienne en 1529 et en 1683. La mémoire pantouranienne est une longue mémoire, pour laquelle les événements vieux de plusieurs siècles gardent leur pleine signification, sont toujours actuels. Face à des idéologies post-chrétiennes de la table rase, de l’amnésie revendiquée comme élection, qui handicapent l’Europe, c’est une force et un atout considérables. Par l’artifice d’un octroi de la nationalité turque aux Turcophones d’Asie, Ankara entend bien établir des colonies turques jusqu’en Bretagne et en Irlande, bien au-delà des plaines de Champagne, où Attila s’est heurté aux légions romaines et aux armées germaniques, pour refluer, battu, vers la Hongrie. Il faut y réfléchir, car la notion du temps, chez les Orientaux, n’est pas celle d’un temps segmenté, où chaque segment passé est considéré comme définitivement mort, mais un temps éternel, où chaque événement du passé est toujours considéré comme vivant, comme appelant une réponse adéquate, adaptée à la nouvelle donne. Cette vision vivante du temps écoulé, en Orient, nous montre bien dans quelle faiblesse structurelle permanente l’idéologie des Lumières, idéologie de l’amnésie volontaire et revendiquée, a plongé l’Europe. 

 

Récapitulons maintenant les événements de ces cinq dernières années, en tenant compte des leçons de l’histoire, que nous venons d’évoquer :

 

La conquête des Balkans européens :

 

La Bosnie, vous vous en souvenez tous, a été objet de beaucoup de sollicitude de la part des intellectuels branchés du Tout Paris, qui ne sont jamais que de vils propagandistes à la solde de Washington et qui prennent leurs ordres chez Brzezinski. Pourquoi avons-nous eu droit à ce délire permanent en faveur d’une Bosnie musulmane, reliquat de la présence ottomane dans les Balkans? Un simple coup d’oeil sur une carte physique de la région nous le fera comprendre. La Bosnie fait partie des Alpes dinariques. Elle est une région surélevée, facile à tenir dès qu’on s’y est ancré, et permet de menacer la côte adriatique et les vallées de la Save, dont de nombreux affluents descendent des hauteurs dinariques de la Bosnie, comme le Vrbas, la Bosna (qui a donné son nom à la région), la Drina et l’Una. Ces données géographiques et hydrographiques permettent de comprendre que la puissance qui tient la Bosnie, tient automatiquement l’ensemble de la péninsule balkanique, du moins sa façade occidentale, en lisière de l’Adriatique. Dès que la Bosnie tombe aux mains des Ottomans au 15ième siècle, ceux-ci s’ancrent solidement dans la région. Il faudra quatre cents ans pour les en déloger! Dès que les Ottomans abandonnent la Bosnie à l’Autriche-Hongrie en 1878 puis, plus formellement, en 1908, nous assistons à un véritable jeu de dominos, les pièces restantes de l’Empire ottoman dans les Balkans, tombent les unes après les autres, si bien qu’à la vieille de la première guerre mondiale, les Turcs ne sont plus présents qu’en Thrace, à quelques dizaines de kilomètres d’Istanbul, sous la menace des Bulgares.

 

Quand les intellos parisiens travaillent à l’émergence d’une “dorsale islamique”

 

Nos intellectuels médiatisés (et vaguement télégéniques) vont instrumentaliser un mixte 1) de philo-islamisme, délires multiculturels obligent, 2) d’idéologie des droits de l’homme (on est sous le règne de Clinton, démocrate, alors on utilise cette idéologie-là plutôt qu’une autre; avec Bush junior, on justifie les conquêtes et les expéditions punitives par un discours impérial, non enjolivé d’eudémonisme, comme on l’aperçoit chez des auteurs comme Kagan et Kaplan), 3) de néo-ottomanisme, afin de justifier anticipativement l’installation de formidables bases américaines dans la région, en plein centre de cette Bosnie, dont l’importance stratégique reste primordiale. Voilà bien à quoi ont servi les discours tout à la fois larmoyants et vindicatifs de la clique parisienne des Glucksmann, Lévy et autres Finkelkraut : à installer sur les hautes collines dinariques de la Bosnie, puis du Kossovo, des fantassins, des chars, des bombardiers et des missiles américains, pointés sur l’Italie, l’Autriche, l’Allemagne, la Hongrie, la Méditerranée orientale, etc. Pour les géopolitologues serbes, il s’agit de consolider une “dorsale islamique” alliée des Etats-Unis et territorialement proche de la Turquie, laquelle est également totalement inféodée à Washington et privée, depuis Ataturk, de toute indépendance énergétique. Le nationalisme et le militarisme kémalistes, tapageurs et à connotations machistes, ne sert qu’à camoufler un état d’impolitisme et d’impuissance navrant, pareil à celui d’une femme entretenue...

 

Dans le contexte de la maîtrise par les Américains de la péninsule que forment les Balkans européens, la Bosnie et le Kossovo constituent un territoire stratégique central, situé sur les points les plus élevés des Alpes dinariques, tandis que la Serbie constitue un point stratégique capital sur le Danube, principale artère fluviale en Europe, comme j’ai déjà eu maintes fois l’occasion de l’expliquer. La Serbie médiévale s’étiole après la mort du grand roi Douchan en 1355 et après la défaite de ses successeurs à Andrinople (Edirne) sur la rivière Maritza en Thrace en 1371, parce qu’elle a perdu ses territoires méridionaux de plus haute altitude. Mais Belgrade, dans la plaine du Danube, ne tombe qu’en 1439, donnant aux Ottomans une place forte importante sur le Danube. Deux ans plus tard, en 1441, ils peuvent vassaliser la Valachie et contrôler ainsi tout le Sud-Est européen au Sud du Danube. L’assaut contre Contantinople ne se fera qu’après toutes ces opérations. Nous y reviendrons. Il faudra attendre 1718, pour que des soldats de nos régions, des Hutois, reprennent Belgrade pour le compte du Saint-Empire et sous les ordres du Prince Eugène. La prise de Belgrade, après 277 ans d’occupation ottomane, marque le début de la fin pour la Sublime Porte en Europe du Sud-Est : plus jamais les Ottomans n’ont constitué une menace sérieuse pour l’Europe, même avec l’alliance française ou anglaise. Pour la petite histoire, la généralisation de la culture de la pomme de terre en Europe du Nord permet de lever des armées permanentes, sans avoir la nécessité de constituer des réserves de blé, ce que la France et l’Empire ottoman possédaient à satiété. Cette “puissance céréalière” a constitué l’assise de leur puissance militaire. Avec la généralisation de la culture de la pomme de terre, la Prusse, l’Autriche, la Pologne-Lithuanie et la Russie peuvent aligner dorénavant des troupes numériquement plus importantes que l’Empire ottoman et son hinterland islamique.

 

On ne prend pas Constantinople à partir de l’Anatolie

 

La leçon la plus importante qu’il convient de tirer de notre lecture de l’histoire balkanique et du front euro-ottoman, c’est que la péninsule balkanique a toujours constitué un tremplin indispensable pour la conquête de l’Asie Mineure, du Moyen-Orient, de la Perse, de l’Asie centrale et de l’Egypte. Philippe de Macédoine et Alexandre le Grand ont inauguré cette stratégie dans l’antiquité. Quand ils ont sécurisé à leur profit la périphérie balkanique de leur Macédoine d’origine, ils ont pu dominer la Grèce et ses ports, puis s’élancer en direction de l’Indus. Il faut donc maîtriser d’abord les Balkans pour pouvoir contrôler les territoires qui, à l’époque, ont été soumis à Alexandre le Grand. Le géopolitologue serbe Sacha Papovic nous rappelle que les Seldjoucides, les premiers Turcs à pénétrer en profondeur l’Asie Mineure, l’actuelle Anatolie, n’ont jamais réussi à prendre Constantinople. En effet, les Seldjoucides échoueront devant Byzance. Papovic en conclut que l’on ne prend Constantinople qu’au départ des Balkans, le “chemin anatolien” s’avérant trop difficile. Les Ottomans appliqueront cette stratégie que nous pouvons qualifier de “macédonienne”.

 

La stratégie “macédonienne” ou “alexandrine” des Ottomans consistera à prendre et à occuper les bases balkaniques avant d’enlever Byzance, qui tombera comme un fruit mûr dans leur panier. Après la défaite serbe à Edirne (Andrinople) en 1371, les Ottomans avancent en direction du cœur dinarique du massif montagneux balkanique et battent les Serbes lors de la fameuse bataille du “Champ des Merles” en 1389. La Serbie médiévale, foyer de culture inégalé, est rayée de la carte. Seule la maîtrise complète des Balkans a permis aux Ottomans de maîtriser entièrement le Moyen-Orient et l’Egypte (déjà les Hittites et les Hyksos avaient suivi la même voie dans la plus haute antiquité). Dans la même logique “alexandrine”, les Ottomans s’opposeront aux Perses dans des conditions géographiques et stratégiques similaires à celles qui ont présidé à la longue lutte entre Rome et les Parthes (une étude parallèle des batailles entre Romains et Parthes, puis entre Ottomans et Perses, pour la maîtrise du Caucase et de la Mésopotamie, pourrait se révéler très instructive).

 

Face à cette double défaite serbe au 14ième siècle, en 1371 et en 1389, seuls quelques Européens sont conscients de l’enjeu : Jean de Vienne, chevalier franc-comtois au service de la France, amiral de sa flotte dans la Manche —qui ne sera pas écouté quand il demandera de détruire les nids de pirates anglais dans la  Manche— prêche la croisade, mais n’est guère entendu. L’Ordre de la Toison d’Or, fondé par le Duc de Bourgogne, en 1430, puis le fameux “Vœu du Faisan” de Philippe le Bon en 1454, juste après la chute de Constantinople, constituent des réponses bourguignonnes (donc les nôtres) à cette menace. Enfin, deux croisades hongroises se lèveront pour conjurer le danger, mais en vain.

 

Des pans entiers de la mémoire européenne ont disparu définitivement

 

Revenons au contexte : le roi Lazare de Serbie tombe au combat en 1389, lors de la bataille du “Champ des Merles”. Inquiet de voir les Ottomans s’approcher du Danube, l’Empereur Sigismond appelle à la croisade. Des chevaliers français, bourguignons et allemands, dont l’Amiral Jean de Vienne, le Comte de Nevers, futur Duc de Bourgogne sous le nom de Jean sans Peur, répondent à son appel. Mais l’armée qui s’ébranle en 1396 en direction de l’actuelle Bulgarie est hétéroclite et mal commandée. Face à elle, un génie militaire turc, le Sultan Bayazid II Yildirim (la “foudre”), qui emporte la victoire. Le massacre est effroyable. Des milliers de prisonniers allemands et franco-bourguignons sont égorgés (leur mort crie vengeance!). Pour se venger du bon accueil des Bulgares à l’égard des croisés occidentaux, les Turcs rasent Nicopolis et ravagent le pays de fond en comble. Après la Serbie, la Bulgarie médiévale est à son tour éradiquée, toute sa culture monacale, dont le grand monastère de Tirnovo, est réduite en cendres. On ne s’en rend pas suffisamment compte aujourd’hui mais cette culture formidable des monastères de Bulgarie, du Kossovo orthodoxe et de la Serbie médiévale, et plus tard de la Croatie catholique et renaissanciste, a été totalement détruite. Des pans entiers de la mémoire européenne, et non des moindres, ont ainsi disparu définitivement. Beaucoup de Slaves des Balkans émigrent vers la Russie et l’Ukraine, pour échapper à la furie ottomane. Ces faits historiques doivent être pris en considération quand on évoque la candidature turque à l’UE.

 

Après l’échec retentissant de Nicopolis en 1396, les Européens connaissent un répit. Les Mongols de Tamerlan s’engagent sur la voie jadis empruntée par les Seldjoucides : ils pénètrent en Anatolie et écrasent les Ottomans à Ankara en 1402, mais, comme leurs prédécesseurs, ils ne parviennent pas à prendre Byzance, ni à atteindre les côtes ioniennes. Bloqués en Asie Mineure malgré leur victoire, les Mongols ravagent l’Est de l’Anatolie, l’actuel Kurdistan. Les traces de ces destructions sont encore visibles aujourd’hui. Les systèmes d’aqueduc qui alimentaient les villes disparaissent, sapant ainsi les bases hydrauliques de toute urbanisation et, partant, de toute impérialité, celle de Rome comme celle de la Chine, les deux modèles de Leibniz. Les Génois et les Vénitiens taisent cette défaite et n’évoquent pas la présence des hordes mongoles en Asie Mineure, de crainte d’alarmer leurs clients et bailleurs de fond en Occident. Nous devons une description de ces événements à un Bavarois, Hans Schiltberger, prisonnier des Ottomans depuis la désastreuse bataille de Nicopolis en 1396. Schiltberger, d’autres Allemands et Franco-Bourguignons ainsi que 10.000 cavaliers serbes avaient été contraints de se battre dans les rangs ottomans (pour défendre Byzance contre les Mongols!). Il nous a laissé un récit de cette défaite ottomane; elle laisse vingt ans de répit à l’Europe, qui ne mettra pourtant rien à profit pour affronter dans de bonnes conditions la menace mortelle qui la guettait au Sud-Est.

 

Après le départ des Mongols, l’arrière-pays anatolien, appauvri, ruiné, vivote misérablement. Le pouvoir ottoman, dans ses tentatives de redressement, se heurte à une opposition populaire, que l’on a appelé la “révolte des derviches”, dont les justifications religieuses sont mystiques, voire panthéistes et ascétiques. Cette révolte se place sous la direction du Cheikh Bedreddin et de Bürklüce Mustafa; elle a l’appui de bandes turkmènes, venues d’au-delà de la Caspienne, ainsi que de la secte de Torlak Kemal. Les masses paysannes se rebellent ainsi contre le pouvoir central et sunnite des Ottomans, exactement comme il y aura aussi des révoltes paysannes, des jacqueries, plus ou moins mystiques et ascétiques en Europe centrale et occidentale. En trois batailles, le Sultan Mehmed I bat les rebelles en 1420 et fait pendre ou empaler les chefs de l’insurrection. L’unité balkano-anatolienne de l’Empire ottoman est sauve, le bloc territorial ottoman correspond dorénavant à l’ancien bloc byzantin. L’expansion peut reprendre. La leçon actuelle à tirer de la “révolte des derviches” de 1420, qui a donné aussi du répit à l’Europe, c’est que la lourdeur du pouvoir ottoman, et du pouvoir militaire turc actuel, incitait et pourrait à l’avenir inciter tout pouvoir européen intelligent à fomenter des révoltes sociales en Anatolie ou au Kurdistan, afin d’obliger la Turquie à lâcher du lest dans les Balkans et à Chypre, afin de rendre inopérant l’instrument turc de l’hégémonisme américain.

 

L’ancien pouvoir ottoman plus cohérent que les Américains aujourd’hui !

 

Dès 1422, les Ottomans reviennent dans les Balkans, profitent des querelles entre Slaves et y consolident tranquillement leurs atouts géopolitiques et stratégiques. Les Serbes s’allient aux Hongrois, prouvant par là qu’une alliance entre les puissances danubiennes peut contenir l’avance ottomane, tandis que toute opposition entre Serbes et Hongrois conduit, au contraire, à favoriser l’expansion turque. Mais cette alliance ne suffit pas : les Turcs prennent Belgrade (plus exactement la place forte de Smederevo sur le Danube) en 1439. Ce qui confirme la thèse de notre collègue serbe Sacha Papovic : pour prendre Constantinople, il faut d’abord s’implanter solidement dans les Balkans, en contrôler tous les points stratégiques importants, tant dans les zones montagneuses que sur le cours du Danube. En 1441, les Ottomans envahissent la Transylvanie et protègent ainsi le cours du Danube à leur profit. Les Balkans forment, à partir de cette annexion de la Transylvanie, l’antique Dacie des Romains, une unité cohérente sous la férule turque. Le grand port de l’Egée, Salonique, prise en 1423, gagne un hinterland homogène, ce qui n’est plus le cas aujourd’hui, vu la destruction de toute cohérence dans les communications potentielles sur la ligne Belgrade/Salonique, la plus courte entre le Danube et la Méditerranée, comme on avait pu le constater pendant la première guerre mondiale, à la suite de l’offensive de von Mackensen à travers le territoire serbe en direction de l’Egée. En ce sens, le pouvoir ottoman était plus cohérent que le projet américain d’aujourd’hui, qui vise un morcellement territorial extrême, rendant impossible tout développement économique dans cette région, car il y découpe les voies de communications fluviales, ferroviaires et routières, qui restent de ce fait démantelées et inopérantes.

 

Le projet bourguignon a fusionné avec le projet impérial germanique, avec la volonté espagnole de contrôler toute la Méditerrannée et avec l’esprit corsaire et chevaleresque de l’Ordre de Malte

 

L’invasion de la Transylvanie provoque en Hongrie l’appel à une deuxième croisade anti-ottomane. Contrairement à celle de 1396, elle est bien organisée par un capitaine hors pair, Janos Hunyadi. Ses armées disposent d’artillerie. Elles entrent en Transylvanie et avancent vers Andrinople. A la tête de cette croisade, le Roi Vladislav I de Pologne-Hongrie, qui règnait sur un vaste hinterland, correspondant au territoire de la “Nouvelle Europe” selon Bush. Dans la stratégie américaine actuelle, mise au point par Luttwak, Brzezinski et Bagnall, l’Amérique doit contrôler et la Turquie et la “dorsale islamique” et les territoires qui ont servi d’aire de rassemblement à la deuxième croisade hongroise. Ainsi, les Américains entendent contrôler deux zones offensives situées entre l’Allemagne et la Russie, recréer le “Cordon sanitaire” de Lord Curzon, empêcher toute continuité territoriale et stratégique entre l’Allemagne et la Russie (comme l’avait très bien vu le géopolitologue russe contemporain, le Colonel Morozov), couper l’axe danubien en deux tronçons, empêcher toute projection de la puissance allemande vers la Mer Noire (le projet bourguignon, repris par Maximilien I, dès son mariage avec Marie de Bourgogne; le projet bourguignon fusionne, dès la fin du 15ième siècle, avec l’impérialité romaine-germanique; il y a donc continuité entre ce projet bourguignon et les actions du binôme austro-hongrois d’une part, et avec celles de l’Espagne et de l’Ordre de Malte en Méditerranée, d’autre part; pour nous, ici, en Brabant, dans ce Château Coloma, où a œuvré avant nous un Louis Gueuning, il n’y a pas d’autres légitimités en Europe; ceux qui partagent ce projet, et s’y inscrivent, sont nos alliés, ceux qui ne le partagent pas, ceux qui balbutient des bricolages hostiles à cette vision sublime, sont nos ennemis et les ennemis de notre civilisation; voilà une définition claire de l’ennemi —et du camarade—, qui, comme nous l’ont enseigné Carl Schmitt et Otto Koellreutter, permet le politique).

 

Toujours les divisions entre Européens !

 

L’appel à la croisade de Janos Hunyadi et de Vladislav I, auquel répondent des combattants allemands et tchèques, suscite beaucoup d’enthousiasme : l’Albanie se soulève derrière Skanderbeg, la Valachie de même, sous l’autorité de Vlad Dracul (Vlad l’Empaleur ou “Dracula”); le Basileus byzantin, isolé à Constantinople, accepte l’union de tous les chrétiens; Venise avance ses navires de guerre jusque dans la Mer de Marmara. Mais malgré les facultés de stratège de Janos Hunyadi, les armées hongroises sont écrasées en 1444 à Varna en Bulgarie. Le bouillant roi Vladislav I n’écoute par les conseils de pondération d’Hunyadi, il fonce sur le dispositif turc bien arcbouté sur ses positions et est taillé en pièces. Hunyadi échappe au désastre et devient le régent du royaume de Hongrie. En 1448, une deuxième offensive hongroise se solde également par un échec au Kossovo, parce que les Valaques de Vlad Dracul changent de camp en pleine bataille. Toujours les divisions entre Européens!

 

Le fils de Janos Hunyadi, Matthias Corvinus, devient Roi de Hongrie en 1458. En 1456, il avait repris Belgrade avec une armée moderne, constituée de paysans levés en masse et bien entraînés. Dans la bataille, le Sultan est blessé. Les cloches sonnent à toute volée dans l’Europe entière. Mais cette victoire éclatante, prouvant l’intérêt tactique d’une armée de lansquenets de souche paysanne, n’aura que des résultats éphémères : en 1459, le Prince serbe Georg Brankovic se soumet au Sultan. Les Bosniaques du roi Stepan appellent Rome et l’Occident à l’aide, mais la noblesse bogomile, victime d’inquisitions dans les siècles précédents, passe aux Turcs : 70% de la population bosniaque se convertit, par haine des catholiques et des orthodoxes. Ailleurs dans les Balkans, les conversions à l’Islam ne dépasseront jamais les 10% (comme en Grèce et en Bulgarie, où subsistent des populations autochtones islamisées). La conversion de la noblesse bogomile à l’islam constitue le cœur du problème bosniaque actuel.

 

Une volonté géopolitique danubienne et pontique

 

Après la prise de Salonique en 1423, et vu la poussée turque ininterrompue, les Ducs de Bourgogne, nos souverains, formulent des projets de reconquête, qu’ils ne pourront pas réaliser à cause des événements de la guerre de Cent Ans, à cause de la pression française potentielle sur nos frontières méridionales et sur le Duché de Bourgogne. Dès 1429, Philippe le Bon prend conscience du danger. Il fonde l’Ordre de la Toison d’Or, le 10 janvier 1430, dont l’inspiration spirituelle repose sur le mythe grec des Argonautes, c’est-à-dire les navigateurs et aventuriers qui exploraient la Mer Noire. L’objectif de l’Ordre, au départ, était de renouer avec les idéaux chevaleresques de la Perse antique et de l’Arménie traditionnelle. Cet idéal était toutefois doublé d’une perspective géopolitique bien concrète : reprendre pied en Mer Noire, en longeant le Danube, comme l’avait fait l’armée européenne de 1396. Jean sans Peur, père de Philippe le Bon, avait ramené de sa captivité chez Bayazid-la-Foudre (Yildirim), un savoir clair sur les données géopolitiques de la région balkanique et pontique. Epoux de Marguerite de Bavière depuis 1385, il avait des connaissances sur l’espace danubien, la Bavière étant riveraine du grand fleuve et, par conséquent, liée aux dynamiques géopolitiques de cette immense région qui s’étend des Alpes à la Mer Noire. De nombreux chevaliers et fantassins bavarois avaient d’ailleurs combattu aux côtés de Jean sans Peur à Nicopolis. Ce sont les villes flamandes qui paieront son énorme rançon, exigée par Bayazid. Assassiné par les Français en 1419, Jean sans Peur lègue à son fils Philippe le Bon, à moitié bavarois et au quart flamand, l’héritage bourguignon, qu’il arrondira, si bien qu’il deviendra le futur “Cercle de Bourgogne” dans le Saint-Empire de Charles-Quint. Dès 1442, Philippe le Bon prépare la Croisade qui s’annonce à l’appel du Pape Eugène IV. Il n’y participera pas, vu la défaite de Varna en 1444. Cependant, malgré ce désastre, une flottille bourguignone, sous le commandement de Walleran de Wavrin, part pour la Mer Noire. Un autre noble bourguignon, Geoffroi de Thoisy, se livre à la course dans les mêmes eaux. Ces opérations n’auront guère de lendemain. Mais elles demeurent néanmoins les indices d’une volonté géopolitique danubienne et pontique, c’est-à-dire d’une volonté de contester le pouvoir ottoman sur le Danube, dans la Mer Noire et en Crimée. Nous y voyons les prémisses de la “Sainte-Alliance” d’Eugène de Savoie et de Maximilien-Emmanuel de Bavière (le “Roi Bleu”) et à l’alliance entre l’Espagne, l’Autriche et la Russie, forgée à Vienne en 1725-26.

 

Notre mission “nationale et impériale”

 

Comme Philippe le Bon entendait reconstituer la dorsale lotharingienne pour mieux unir l’Europe et comme l’Ordre de la Toison d’Or était destiné à devenir l’instrument de cette politique, l’épine dorsale spirituelle et militaire d’une future Europe unifiée, la “matière bourguignonne”, dans sa rutilante diversité, recèle in toto les linéaments de notre “mission nationale et impériale”. Il n’y en a pas d’autre. Il faudrait un autre colloque pour en déterminer la nature et explorer les possibilités de sa réactualisation. Les événements des deux croisades hongroises de 1396 et de 1444 en constituent l’épopée fondatrice.

 

La leçon à tirer aujourd’hui de toute l’histoire de la conquête ottomane des Balkans, des plaines hongroises et de la Transylvanie est la suivante : comme nous l’a clairement enseigné Sacha Papovic, il faut commencer par contrôler les Balkans pour maîtriser le Moyen-Orient (Haute Mésopotamie en 1515, Syrie en 1516, Egypte en 1517), la région du Golfe (prise de Bagdad en 1534) et l’Asie centrale (Alexandre le Grand). L’objectif de la politique anglo-saxonne est d’imiter Alexandre le Grand et les Ottomans, de contrôler les territoires que l’un et les autres ont jadis contrôlés pour tenir les aires civilisationnelles voisines en échec (Saint-Empire/Europe, Russie, Inde, Chine). Les projets de “marché commun” grand-moyen-oriental, s’étendant de l’Egypte au Tadjikistan, que l’on formule aujourd’hui aux Etats-Unis, vont bel et bien dans ce sens. Ce vaste espace est confié à l’une des cinq structures de commandement militaire américain dans le monde, en l’occurrence l’USCENTCOM, qui englobe également la Corne de l’Afrique et le Soudan. On parle également de “Nouvel Orient énergétique”, qui comprend aussi la Libye (en voie de normalisation) et le Pakistan. Il s’agit de soustraire les potentialités énormes de ces régions à l’influence européenne et russe et, ipso facto, de soustraire les masses démographiques de ces régions au commerce futur de l’UE et de la Fédération de Russie. Les événements confirment cette démarche “alexandrine” : les préliminaires de la conquête du “Grand Moyen Orient” ont commencé en Bosnie dès 1993-94, pour se poursuivre au Kossovo en 1999 et ensuite en Macédoine. Pour déstabiliser la région de fond en comble, le levier de départ a été la population musulmane bosniaque ou albanaise, et les réseaux mafieux qu’elles abritent, que l’on a artificiellement et habilement excitée contre ses voisins slaves et orthodoxes, avec la complicité des Turcs, des Saoudiens (bailleurs de fonds) et des intellectuels parisiens de la rive gauche (Glucksmann, Lévy, Finkelkraut et quelques autres).

 

D’abord aligner des historiens et des philologues

 

Cette stratégie américaine a été épaulée par de bonnes connaissances historiques réelles, par un savoir précis sur les dynamiques géopolitiques et stratégiques qui ont animé l’histoire de ces régions, des connaissances et un savoir bien mieux étayés que les formulations bancales du prêt-à-penser que nous ont servi les intellos parisiens et les médias américains, jusqu’à l’écœurement. En Europe, les universités n’ont jamais reçu l’ordre de produire des ouvrages précis sur les régions clefs de l’histoire mondiale. Le mépris qu’affichent les histrions politiciens et les béotiens immondes de la classe marchande pour les historiens en particulier, pour les diplômés des facultés de philosophie et lettres en général, va se payer cher, très cher. Les politiciens perdront les maigres bribes de pouvoir qu’ils détiennent encore vaille que vaille sous l’hégémonisme américain et les mercantiles vénaux vont perdre de juteux marchés. Pour avoir le pouvoir et les marchés, il faut d’abord aligner des historiens et des philologues, bien payés et employés dans des bureaux et des instituts de recherches géopolitiques prospectifs, tournés vers l’avenir et soucieux du bien de la “Grande Cité” impériale. Sans historiens et sans philologues, sans bureaux et sans instituts géopolitiques, on bascule dans la fange et la médiocrité. Celle dans laquelle nous nous vautrons effectivement.

 

La conquête des Balkans eurasiens :

 

La notion de “Balkans eurasiens” nous vient directement du célèbre ouvrage de Zbigniew Brzezinski, Le grand échiquier, où l’auteur étale, dans un langage toutefois feutré, le projet de mainmise américaine sur les anciennes républiques soviétiques turcophones et musulmanes. L’Asie centrale ex-soviétique était composée, en effet, de plusieurs républiques telles le Kazakhstan (16 millions d’hab., dont de nombreux Slaves), le Turkménistan (3,5 millions d’hab.), l’Ouzbékistan (19 millions d’hab.), le Kirghizistan (4,2 millions d’hab.), le Tadjikistan (de langue indo-européenne/persane, 5 millions d’hab.). L’objectif des Etats-Unis, lors de la liquéfaction de l’URSS, a été de détacher ces nouveaux états de l’ancienne métropole russe et de les inféoder à Washington par le biais de relais turcs/pantouraniens ou intégristes-islamistes. Cet espace centre-asiatique se retrouve donc balkanisé de fait dès le début de l’ère post-soviétique. La région compte désormais deux grandes bases américaines, Karchi Khanabad en Ouzbékistan et Manas au Kirghizistan. Cette mainmise sur de vastes zones de l’Asie centrale ex-soviétique constitue la réalisation des projets géopolitiques d’Homer Lea, formé à West Point à la fin du 19ième. Au cours des dernières décennies du 19ième siècle, en effet, l’Empire russe et l’Empire britannique poursuivaient des objectifs contradictoires : les Russes voulaient déboucher sur les mers chaudes, notamment l’Océan Indien; les Anglais voulaient protéger les voies d’accès aux Indes, joyau de leurs possessions dans le monde, et entendaient faire de l’Océan Indien une mer intérieure entièrement contrôlée par leur flotte. Pour protéger les Indes, les Anglais devaient “contenir” les Russes loin des rives de l’Océan Indien : de là, l’origine de toutes les stratégies de “containment”, appliquées pendant la  Guerre Froide. La fin de la “Guerre Froide” n’y a rien changé. De cette lutte entre la Terre et la Mer naîtra la géopolitique proprement dite : si Lea ne retient pas le vocable, MacKinder et le Suédois Kjellén finissent par le généraliser et l’introduire dans le discours politique et journalistique.

 

La fin du “Grand Jeu” annonce-t-elle l’avènement du “Nouvel ordre mondial”?

 

L’Afghanistan avait été une pièce maîtresse dans le conflit anglo-russe larvé qui s’est déroulé depuis les années 20 du 19ième siècle. Le territoire afghan abrite en effet les tronçons centraux de la fameuse “Route de la Soie” (“Silk Road”). Pour éviter de s’affronter directement, Russes et Britanniques s’étaient finalement accordés sur une neutralisation du territoire afghan, qui, de ce fait, ne sera jamais colonisé. Londres estimait que le danger allemand en Mésopotamie était plus important que la présence russe dans le Caucase et aux frontières afghanes. La Russie est aujourd’hui considérablement affaiblie. Les Etats-Unis, qui ont pris le relais de l’Empire britannique, comme le leur avaient demandé leurs géopolitologues Mahan et Lea, ont profité des attentats du 11 septembre 2001 (fabriqués?), pour parfaire la tâche en installant des bases en Ouzbékistan et au Kirghizistan et en conquérant l’Afghanistan. Sur le terrioire de ce pays conquis, trois bases américaines se sont installées, exactement sur les nœuds routiers des routes de la soie (car il y en a plusieurs). Ces bases sont Bagram, Mazar-e-Sharif et Kandahar. Sans compter la base de Jacobvabad au Pakistan. Sur base des géostratégies élaborées par Mahan et Lea, il y a un siècle, et sur base des doctrines de Brzezinski, Washington entend mettre un point final à cette lutte entre la “Terre” et la “Mer”, que Kipling avait nommé le “Grand Jeu”. Sous-entendu, le messianisme américain entend parachever le “Grand Jeu” pour mettre un terme à l’histoire proprement dite et faire advenir de la sorte le “Nouvel Ordre Mondial” annoncé par Francis Fukuyama, qui a quelque peu révisé ses positions trop idéalistes.

 

La conquête des Balkans eurasiens est désormais une réalité. Les attentats du 11 septembre 2001 ont constitué le prétexte pour intervenir en Afghanistan et pour entretenir des troupes en Asie centrale.

 

La conquête de la Mésopotamie :

 

Nous avons vu que les Ottomans n’ont conquis la Mésopotamie sur les Perses qu’après avoir totalement sécurisé les Balkans, grâce, notamment, à la complicité de François I. J’ai déjà eu plusieurs l’occasion, à cette tribune, d’évoquer l’importance cruciale des opérations militaires en Irak (mai 1941), au Liban et en Syrie (juin-juillet 1941), enfin en Iran (août-septembre 1941). Il s’agissait de la réponse britannique à l’occupation par l’Axe de l’ensemble de la péninsule balkanique, ce qui prouve, une fois de plus, que les deux zones géostratégiques sont indissolublement liées l’une à l’autre.

 

Aujourd’hui, les Etats-Unis ont commencé par les Balkans, poursuivi par l’Afghanistan et terminé, jusqu’à nouvel ordre, par la Mésopotamie (l’Irak). Si les opérations dans les Balkans répondaient à l’impératif géopolitique de contenir l’Europe centrale germanique et la Russie au Nord du Danube (comme le firent les Ottomans dès la prise de Belgrade en 1439) et de couper l’artère danubienne (un autre vieux projet), si la conquête de l’Afghanistan répondait à un autre impératif géopolitique, celui d’occuper les espaces à l’extrêmité orientale de l’antique Empire d’Alexandre le Grand, la conquête de l’Irak obéit à plusieurs impératifs tout aussi importants. Elle consiste évidemment à occuper une des pièces centrales de cet antique Empire d’Alexandre, à parachever l’encerclement de l’Iran (nous y revenons), à prévenir définitivement toute tentative de coopération entre un pouvoir modernisateur en Irak, d’une part, et la Russie et l’Europe, d’autre part.

 

Saddam Hussein, en effet, avait signé des contrats avec Volkswagen et Renault, avec des constructeurs de camions russes, avec d’autres firmes européennes en matière de construction d’infrastructures. Avec la conquête américaine, tous ces contrats vont être annulés au profit de constructeurs automobiles d’Outre-Atlantique et, évidemment, comme la presse européenne l’a souligné  avec une réelle amertume, au profit d’Halliburton, le consortium où Dick Cheney a beaucoup d’intérêts. De plus, comme Gerhoch Reisegger l’a écrit dans son ouvrage, dont nous avons traduit des extraits significatifs pour Au fil de l’épée (recueils n°46 et 47, juin et juillet 2003), Saddam Hussein voulait facturer son pétrole en euros et amorcer de la sorte un passage généralisé du pétro-dollar au pétro-euro, passage qui aurait signifié, à moyen terme, la fin d’un hégémonisme américain, essentiellement financier.

 

Parachever l’encerclement de l’Iran

 

La conquête de l’Irak parachève également un autre objectif stratégique : l’encerclement de l’Iran. Celui-ci est désormais coincé dans un étau formé par de nombreuses bases américaines : à l’Est, les trois bases d’Afghanistan, les trois bases réparties en Ouzbékistan, au Kirghizistan et au Pakistan; à l’Ouest, les quatre nouvelles bases d’Irak (Bashur, H1, Talil et Bagdad); au Sud, toutes les bases du Koweit et du Golfe; au Nord, la nouvelle base américaine installée en Géorgie. En retrait, la base d’Inçirlik en Turquie, Israël, Djibouti et Diego Garcia. Visiblement, l’Iran est la prochaine victime. Il constitue le centre du “Grand Moyen Orient”. La périphérie est conquise, ce centre est encerclé : ou bien il tombera comme un fruit mûr, ou bien il sera secoué par une révolution à justifications idéologiques délirantes, ou bien il sera annihilé militairement.

 

◊ 2ième Partie : La réponse européenne : l’Axe Paris/Berlin/Moscou

 

Indubitablement, le théoricien le plus cohérent de l’Axe Paris/Berlin/Moscou est Henri de Grossouvre. Cet auteur dégage quatre raisons majeures pour forger cette alliance continentale: 1) Se donner du poids dans la guerre commerciale entre l’UE et les Etats-Unis; 2) Corriger les effets pervers de la mondialisation néo-libérale; 3) Répondre aux enjeux énergétiques des années 2010-2030; 4) Organiser une politique spatiale commune.

 

◊1. Henri de Grossouvre dresse le bilan chiffré de l’état économique du monde dans lequel l’Axe est appelé à se former : l’UE détient désormais 32% du PIB mondial, tandis que les Etats-Unis, 28%. L’UE vient donc de dépasser les Etats-Unis. Raison pour laquelle ceux-ci s’alarment et agissent, font donner leur puissante machine militaire. Ensuite, Washington se place en état d’alerte parce que l’Europe et l’Asie ont fait front commun contre les Etats-Unis lors du sommet de l’OMC à Seattle en décembre 1999. L’idée d’un bloc euro-asiatique se fait jour, contre lequel les Etats-Unis ne pourront rien faire. Par ailleurs, les points de friction entre les deux rives de l’Atlantique s’accumulent : sur les viandes, les bananes, sur l’industrie aéronautique (Boeing/Airbus). Les esprits amnésiques ne se souviennent pas que l’une des clauses implicites de l’intervention des Etats-Unis dans les affaires européennes pendant la seconde guerre mondiale avait pour objectif de ruiner les industries aéronautiques nationales, celles de l’Allemagne principalement, mais aussi celles des autres pays européens. La coopération franco-allemande pour Airbus est donc vue d’un très mauvais œil à Washington. L’UE et les Etats-Unis s’affrontent ensuite sur le problème des sanctions contre les firmes européennes qui commercent ou tentent de commercer avec l’Iran ou avec Cuba. La Wallonie a subi un ressac de son industrie métallurgique depuis la rupture des relations commerciales avec l’Iran. De notre point de vue, c’est inadmissible. La coopération accrue de l’UE avec la Russie vise donc à consolider nos positions réciproques face à l’agressivité économique américaine et à fusionner le savoir-faire en matières aéronautiques.

 

Corriger les effets pervers de la  mondialisation libérale

 

◊2. Quand Henri de Grossouvre parle de “corriger les effets pervers de la mondialisation libérale”, il incrimine, à juste titre, le phénomène généralisé du “bougisme”, c’est-à-dire de la fébrilité acquisitive, du consumérisme effréné, d’une mobilité permanente et sans repos, d’une dissolution du tissu social sous l’effet des incessantes sollicitations “novistes”. L’inventeur de ce nouveau vocable de “bougisme” n’est autre que Pierre-André Taguieff, actif dans la “Fondation du 2 mars”. En cernant, avec sa précision de philosophe, cette tare de notre monde contemporain, Taguieff jette les bases, sans doute à son corps défendant, d’une nouvelle “révolution conservatrice” à la française. Car, qu’il le veuille ou non, l’ancienne recherche des permanences, ou la volonté de les préserver dans toute leur “force tranquille”, volonté que l’on retrouve chez un père fondateur du conservatisme comme Chateaubriand, était un désir profond de ne pas sacrifier au culte moderne du changement perpétuel, donc à un progressisme dissolvant dont procède le “bougisme” d’aujourd’hui. Henri de Grossouvre, pour sa part, estime que la nécessaire résistance au “bougisme”, dont l’américanisme est une variante, a pour objectif politique concret de restaurer ce que ce bougisme élimine par sa frénésie, soit toutes les structures intermédiaires entre l’individu et le marché mondial: l’école, la famille, la communauté, l’appartenance nationale, l’Etat, bref, tout l’espace du politique, tout l’espace de la Bildung, tout ce qui relève du “long terme”. Sans ces structures intermédiaires, aucune instance politique n’est pourtant en mesure de planifier quoi que ce soit pour la durée, tout étant livré au hasard et à l’immédiateté du présent. L’Axe PBM, dont Henri de Grossouvre espère l’avènement, peut nous aider à sortir du “bougisme”, dont l’américanisme est depuis longtemps le principal paradigme, en soustrayant l’économie mondiale à la logique du manchesterisme sauvage et de la spéculation, pour revenir à une économie que Michel Albert, au début des années 90, qualifiait de “rhénane”, c’est-à-dire patrimoniale, axée principalement sur les investissements infrastructurels (outils, voies de communication, etc.), tout en cultivant le souci de préserver la qualité des établissements d’enseignement, tout en tablant sur le bon fonctionnement des écoles et des universités, lesquelles ne peuvent évidemment se développer ni même assurer leur fonction, si persiste la logique perverse du “bougisme”. L’Axe PBM, en procurant à l’Europe une assise territoriale et une masse de productivité considérable, permet de se dégager de l’économie spéculatrice de modèle américain et de mettre, de ce fait, un terme à ce “bougisme” qui disloque nos sociétés.

 

◊3. Henri de Grossouvre estime que la constitution de l’Axe PBM nous permettra d’affronter les enjeux énergétiques à venir, ceux des années 2010-2030. La conquête de l’Irak va entraîner, par la force des choses, l’installation pesante d’un monopole américain sur les immenses réserves de pétrole de cette région. Entre 2010 et 2020, le monde, prévoient les experts, va connaître l’apogée de la production de pétrole. Après, ce sera le déclin. Dans ce contexte, l’objectif des Américains est d’être présents avant les autres, de rafler le maximum de pétrole pour conserver leur hégémonie dans le monde. L’occupation des gigantesques gisements mésopotamiens et arabiques rend nécessaire le partenariat euro-russe en matières énergétiques. Pour de Grossouvre, comme pour nous, il n’y a pas d’autre solution. Henri de Grossouvre analyse ensuite les tenants et aboutissants du rapprochement Schroeder/Poutine. Il nous rappelle que les accords germano-russes portent justement sur l’énergie et sur la sécurité (i.e. une revalorisation du rôle de l’OSCE, que les Américains ont toujours cherché à minimaliser en faveur de l’OTAN, surtout de son volet civil). Henri de Grossouvre constate le bon fonctionnement de ce tandem germano-russe : autour de lui, les autres puissances européennes, dont la France, doivent faire chorus pour échapper à la dépendance énergétique, que va nous imposer l’hyper-puissance américaine.

 

◊4. Enfin, Henri de Grossouvre stigmatise la dépendance européenne en matières spatiales. Maîtres de l’espace circumterrestre, les Américains déploient des satellites espions et contrôlent les télécommunications. En ce domaine aussi, seule une coopération accrue, et même étroite, entre l’Europe et la Russie s’avère nécessaire. On voit les premiers résultats : le projet européen Galileo (GPS) intéresse la Russie, la Chine et l’Inde. La suprématie américaine a provoqué la volonté de toutes les grandes puissances d’Eurasie de se soustraire à la dépendance imposée par le monopole américain dans le domaine des satellites de télécommunication.

 

◊ 3ième Partie : Les embûches extérieures à l’avènement d’un Axe “Paris/Berlin/Moscou”

 

Trois faisceaux d’embûches semblent entraver actuellement le processus de construction européenne et l’avènement d’un véritable “Axe Paris-Berlin-Moscou”. Ce sont les suivants :

 

◊1. Les systèmes de renseignement américains, et les satellites de contrôle qu’ils alignent dans l’espace circumterrestre, permettent aux stratèges du Pentagone d’avoir la mainmise quasi complète sur l’information médiatique à l’échelle de la planète entière. François-Bernard Huyghe a rendu compte de cette situation dans un ouvrage très important : L’ennemi à l’ère numérique. Chaos, information, domination (PUF, Paris, 2001). Ce livre deviendra un classique de la pensée stratégique contemporaine. Il importe de le lire, de le relire, de le méditer et de le faire connaître pour apprendre à nos concitoyens à décrypter les pièges de la propagande médiatique universelle car elle vise à confisquer à tous les peuples de la Terre, et donc aussi aux peuples européens, le sens du réel, de la réalité historique et géopolitique, dans laquelle ils s’inscrivent depuis des millénaires. La perte de ce sens des réalités historiques conduit à la déchéance politique et au déclin total.

 

Les armes de la connaissance historique sont essentielles

 

◊2. Notre Europe est effectivement soumise à une “guerre cognitive” systématique, dont le premier impératif est de forger des “armes de la connaissance”. Les écoles anglo-saxonnes excellent en ce domaine : elles parviennent, sur base de travaux universitaires très sérieux et bien étayés, à développer des propagandes simplistes, gobées à grande vitesse par les opinions publiques de tous les pays du monde. L’Europe actuelle, démissionnaire, est à la traîne. Le personnel politique qui la gère, sans vraiment la gouverner, ne juge pas opportun de se doter d’instituts historiques de même valeur, capables de forger, pour l’Europe, une vision cohérente et pragmatique de l’histoire. Au contraire, les idéologies dominantes, qui s’agitent au sein des institutions européennes, estiment que l’histoire est un fardeau du passé, dont il convient de se débarrasser, notamment en ne l’enseignant plus correctement dans les écoles. Or, en politique, et plus encore en “grande politique”, les armes de la connaissance sont essentiellement les armes de la connaissance historique ; à terme, ce sont elles qui, bien maîtrisées, procurent la victoire. Eugène de Savoie a vaincu les Turcs et sauvé l’Europe grâce à ses excellentes connaissances historiques. Clausewitz et ses disciples insistent également sur la nécessité de bien connaître l’histoire pour forger des stratégies efficaces.

 

Etats-Unis : le tropisme mafieux

 

◊3. L’Europe de Bruxelles et de Strasbourg n’est pas suffisamment attentive aux phénomènes de guerre indirecte. Xavier Raufer, sur ce chapitre, insiste très fort sur le rôle des mafias et du terrorisme fabriqué, dans son dernier ouvrage, Le grand réveil des mafias (J. C. Lattès, Paris, 2003). Xavier Raufer nous apprend à  identifier l’ennemi mafieux, grâce à un vade-mecum clair et succinct ; il nous démontre que les dangers mafieux sont occultés, notamment par les Etats-Unis, qui ont subi, et accepté, un “véritable tropisme mafieux”, qui nous permet de parler sans hésitation et sans paranoïa inutile, d’une véritable fusion entre la politique américaine et les mafias d’origine sicilienne ; outre les drogues et la prostitution, l’industrie américaine du porno alimente les caisses des mafieux et, par voie de conséquence, les caisses noires de certains “services spéciaux”. Les pages que consacrent Raufer aux mafias turques sont très instructives et démontrent bien la collusion américano-turque en ce domaine. Et nous indiquent deux pistes pour contester la présence turque au sein de l’UE et son maintien dans l’OTAN.

 

Sur le premier faisceau d’embûches :

 

Les systèmes médiatiques américains utilisent ce que François Bernard Huyghe appelle les “quatre arts martiaux” que sont

1)       L’ART D’APPARAÎTRE, de dire la guerre, de la montrer,de la narrer (tout en excluant toute autre narration possible), de truquer le récit dans le sens voulu ; il s’agit d’organiser des “psyops” ou “psychological operations” destinées à répandre dans le monde la “bonne doctrine” en combinant adroitement récits, photographies et films, comme nous l’avons vu lors de l’affaire de Timisoara en Roumanie en 1989 ou lors du conflit kosovar en 1999 ;

 

2)       L’ART DE TROMPER, autrement dit l’art d’utiliser la désinformation, de répandre des médisances contre l’ennemi désigné comme tel dans l’ensemble du “village global” ; il s’agit essentiellement d’appliquer à la stratégie contemporaine l’”art des illusions” déjà préconisé par le stratège de l’antiquité chinoise, SunTzu ; l’objectif est d’altérer la perception de la réalité chez l’ennemi et de provoquer, chez lui, une décision erronée ; en ce sens, la “désinformation consiste à propager délibérément des informations fausses pour influencer une opinion et affaiblir un adversaire ;

 

3)       L’ART DE SAVOIR, c’est-à-dire d’exercer une surveillance ubiquitaire, notamment via le réseau ECHELON, selon le principe avéré : «Qui verra, vaincra» ; l’objectif est de collecter systématiquement des informations utiles, via des satellites ou des “logiciels renifleurs”, tout en poursuivant des finalités diverses : frapper à moindre risque un ennemi moins bien informé, garder les “bonnes” informations stratégiques pour soi, intoxiquer l’adversaire ;

 

4)       L’ART DE CACHER, ou de dissimuler ses intentions derrière un rideau opaque de contre-informations. En clair, il s’agit d’organiser la prolifération d’informations inutiles ou redondantes afin de conserver secrètes celles qui importent vraiment et de les utiliser, le cas échéant, contre un adversaire qui les ignore.

 

Exercer ces quatre arts martiaux, à l’heure actuelle, implique de disposer d’un réseau satellitaire performant : c’est le cas des Etats-Unis et non pas de l’Europe, d’où le nanisme politique et militaire de l’Union Européenne. Celle-ci n’a jamais appliqué les “quatre arts martiaux” que Huyghe a mis en exergue.

 

Sur le deuxième faisceau d’embûches :

 

Pour l’équipe de l’armée française dirigée par Christian Harbulot, la suprématie cognitive découle d’une doctrine de la domination douce. Ces officiers et stratèges français constatent que les Etats-Unis ne raisonnent pas, en ce domaine, en termes d’alliés, d’ennemis et de “neutres”, mais, plus prosaïquement, plus simplement, en termes d’«audiences étrangères», qu’il convient de manipuler, d’influencer et de pervertir. Les objectifs des “opérations cognitives” américaines sont donc

1)       de créer les conditions intellectuelles et psychologiques optimales, pour pouvoir prendre rationnellement les bonnes décisions au bon moment (puisqu’on a sélectionné et trié le bon savoir utile, selon les règles du “troisième art martial”, analysé par Huyghe ;

 

2)       d’empêcher les autres d’en faire autant, après les avoir abreuvé de fausses informations, de fausses valeurs, etc. ;

 

3)       d’obtenir des “cibles” qu’elles adoptent le comportement voulu. Cette méthode générale de la guerre cognitive, actuellement pratiquée par les Etats-Unis, ne peut réussir que s’il y a longue préparation (“Shaping the mind”). Il s’agit bel et bien d’une stratégie globale mûrement réfléchie, depuis des lustres, qui vise la colonisation totale de la sphère des idées, la conquête de la “noosphère”, dans le jargon des initiés. L’objectif final est de créer une superstructure normative mondiale, qui va définir la réalité humaine de manière uniforme, tout en abondant, bien entendu, dans le sens de la politique américaine. C’est l’application, à l’heure des médias électroniques, d’une stratégie culturelle commencée avec le cinéma de Hollywood, dès la fin de la seconde guerre mondiale en Europe et en Asie.

 

L’Europe, qui, comme le reste du monde, est la cible de cette stratégie, ne peut riposter qu’en méditant les mêmes principes. Cela signifie, avant toute chose,

1)       de se réapproprier sa propre histoire, d’en connaître les dynamiques fécondes, qui permettent de consolider ses positions, et les dynamiques perverses, qui mènent à l’implosion ; et cela implique aussi,

 

2)       d’explorer l’histoire de l’adversaire pour faire émerger, chez lui, sur son territoire, des conflits paralysants. En clair, il s’agirait, pour des stratèges européens cohérents, d’exploiter les colères des Noirs américains ou de soutenir habilement les mouvements de contestation intérieurs aux Etats-Unis.

 

La nouvelle gauche altermondialiste a été piégée

 

Autre exemple de manipulation particulièrement réussie, bien mise en exergue par Harbulot : le succès médiatique accordé au fameux livre de Toni Negri et Michael Hardt, intitulé Empire, et considérée par les journaux new-yorkais comme “la plus grande théorie alternative du 21ième siècle”. En effet, cet ouvrage préconise l’émergence d’un vaste réseau de micro-contestations émiettées, qui rejettent toute forme de nationalisme ou de continentalisme, c’est-à-dire qui ôtent d’avance toute assise territoriale à la contestation du globalisme américano-centré. Or sans assise territoriale, il est impossible de s’opposer à Washington. La guerre cognitive permet donc au système médiatique, au service de l’impérialisme et du globalisme américains, d’offrir aux altermondialistes une théorie toute faite qui va les induire en erreur et les condamner au sur-place. Le pouvoir mondial réel coupe ainsi l’herbe sous les pieds de la contestation contemporaine orchestrée par la nouvelle gauche altermondialiste et induit dans ses rangs un ferment idéologique de dissolution permanente, difficilement éradicable (cf. Christian Harbulot & Didier Lucas, La guerre cognitive. L’arme de la connaissance, Lavauzelle, Panazol, 2002).

 

Sur le troisième faisceau d’embûches :

 

Les guerres indirectes se mènent généralement selon les critères des “conflits de basse intensité” (ou, en anglais : low intensity warfare). L’exemple d’école le plus récent est la guerre dite des “Contras” menée dans les années 80 contre le gouvernement sandiniste au Nicaragua. Mais, pour Xavier Raufer, les “guerres de basse intensité” ne se bornent pas à la seule stratégie d’armer des groupes insurrectionnels dans les pays visés, mais aussi à y entretenir des réseaux mafieux, qui disloquent la cohérence politique, qui servent d’éventuels réseaux d’espionnage et de sabotage. Xavier Raufer nous rend attentifs à une longue histoire, édulcorée et occultée : celle de l’étroite imbrication entre le pouvoir américain et les réseaux mafieux italiens. En effet, la mafia sicilienne, constate-t-il, fait partie intégrante du pouvoir américain. Xavier Raufer nous en montre les mécanismes et explique que les structures mafieuses se déploient à merveille dans les systèmes néo-libéraux, institués justement pour permettre cette fluidité qui arrange bien des “services”. Dans la partie historique de sa démonstration, il rappelle que la mafia est un relais en Europe de la puissance américaine depuis 1943, quand les services spéciaux de Washington ont fait appel à Lucky Luciano, emprisonné en Amérique, pour oganiser le débarquement allié en Sicile.

 

Les mafias ont pour objectif de déstabiliser les sociétés européennes

 

En Belgique, nous avons affaire à trois autres réseaux mafieux, non italiens, particulièrement efficaces : les réseaux marocains, turcs et albanais. Tous trois sont stratégiquement liés aux Etats-Unis et à l’OTAN, notamment par la fusion mafias/armée qui règne en Turquie et par la quasi identité entre l’UCK albanaise et les mafias locales. Quant au Maroc, vieil allié des Etats-Unis, il constitue le pion principal du dispositif stratégique des Etats-Unis en Afrique du Nord : le financement de ce pays s’effectue par le trafic du cannabis en direction de l’Europe (70% de ce stupéfiant consommé en Europe provient effectivement de la région du Rif). Les mafias ont pour objectif de déstabiliser les sociétés européennes, leurs structures politiques (on le voit clairement au niveau de la justice), leurs économies. Elles permettent en outre de réaliser des opérations boursières déstabilisantes, de s’ancrer sur le marché de l’immobilier, d’amasser un argent incontrôlable, de constituer des réseaux d’espionnage, d’armer des structures terroristes, de commettre des assassinats si besoin s’en faut. La non élimination de tels réseaux nous condamne à n’être que les objets misérables d’une stratégie de guerre indirecte particulièrement pernicieuse. Mais dont on voit les résultats : déliquescence totale de la sphère publique, avec la bénédiction d’un personnel politique, manifestement lié à ces réseaux. La peur d’éventuels partis politiques challengeurs est motivée essentiellement par le risque de voir l’édifice en place remis complètement en question, surtout si les partis challengeurs en piste annoncent qu’ils feront la guerre à la drogue, cheval de bataille des mafias marocaines et turques. Les officines anti-racistes, qui font tant de tintamarre dans les médias, n’ont pas pour objectif réel de protéger des citoyens de souche étrangère qui seraient les victimes innocentes d’une vindicte gratuite de la part d’autochtones  xénophobes, mais, plus précisément, de décréter “raciste” toute position critique à l’égard du pouvoir occulte, illégal, mais réel, des diverses mafias ancrées dans la réalité belge. Les officines anti-racistes sont un bel exemple du “quatrième art martial” selon Huyghe : l’art qui consiste à dissimuler ses intentions réelles derrière un écran de fumée idéologico-médiatique.

 

◊ 4ième Partie : Les concepts de Toynbee

 

Dans l’immense œuvre du philosophe britannique de l’histoire, Arnold Joseph Toynbee, nous avons retenu deux idées fondamentales : celle de “défi-et-réponse” (“Challenge-and-Response”) et celle de “retrait-et-retour” (“Withdrawal-and-Return”). Tout défi (“challenge”) entraine une réponse, pour Toynbee, ce qui implique que sa vision de l’histoire est dynamique, libre de tout déterminisme : le champ est toujours ouvert pour de nouvelles réponses, portées par des acteurs divers, hétérogènes, individuels ou collectifs. Toynbee parie sur les capacités créatrices de l’homme; il estime qu’elles finissent toujours par avoir le dessus. Tout groupe humain, juste avant qu’il ne crée une civilisation, subit des défis, issus de l’environnement social ou de l’environnement géographique. Si le défi est trop fort ou trop faible, nous n’assisterons pas à l’émergence d’une civilisation. Exemple : les Eskimos ne développent pas une civilisation, mais plus simplement une culture faite de simples stratégies de survie. Les cultures tropicales, sous leurs climats paradisiaques, ne développent pas davantage de civilisation, l’intensité du défi y étant trop faible. Les défis sont aussi, dans le langage de Toynbee, des “stimuli”. Ils sont de cinq ordres, dans la classification qu’il nous propose : 1) une géographie très âpre; 2) des terres vierges qu’il s’agit de rentabiliser; 3) des coups portés au groupe par des ennemis ou par la nature; 4) une pression extérieure permanente incitant à la vigilance, donc à l’organisation; 5) des pressions intérieures, entraînant la pénalisation d’un ou de plusieurs groupe(s) particulier(s) au sein d’une civilisation dont les principes de base sont autres; cette “pénalisation” entraîne l’émergence d’un mode de vie différent, permettant l’éclosion d’une culture en marge, à laquelle le pouvoir peut ou non attribuer des fonctions sociales ou économiques particulières; ce fut le cas des phanariotes grecs dans l’Empire ottoman; des juifs au Maroc et dans l’Espagne arabisée, puis dans l’Europe centrale germanophone; des Parsis en Inde; des Nestoriens entre la Mésopotamie et le Turkestan chinois. La spécificité de ces cultures procède d’un défi, celui qui les ostracise et les minorise; la spécificité culturelle des populations “pénalisées” constitue donc la réponse à ce type de défi. Pour Toynbee, les civilisations —ou l’efficacité des cultures “pénalisées”— s’instituent quand les conditions multiples de leur émergence concourent à un optimum, c’est-à-dire quand le degré de pénalisation n’est ni trop rude ni trop bénin.

 

Retrait et retour, yin et yang

 

L’Europe et notre civilisation en général, la Russie, notre espace idéologique “pénalisé”, subissent des défis. Ces défis “pénalisants” ou ces pressions extérieures (américaines) ne sont nullement définitifs. En tant qu’espace idéologique “pénalisé”, nous devons acquérir une discipline plus grande, accumuler un savoir pratique, historique, stratégique, et finalement instrumentalisable, supérieur à celui des formations (im)politiques au pouvoir. Nous devons agir comme un “shadow cabinet” perpétuel qui suggère des alternatives politiques crédibles, clairement rédigées et bien charpentées dans leur argumentation. Pour Toynbee, la Cité idéale correspondait à l’idée augustinienne de “Civitas Dei”, soit une réalité transcendantale appelée à s’incarner, comme le Christ s’était incarné dans le monde pour le redresser après sa “chute”. Quand la Cité ne correspond plus à son modèle transcendantal (et ce modèle ne doit pas être nécessairement “augustinien” pour nous... il pourrait être tout simplement grec ou romain), elle sombre dans le “mondain” ou le “profane”, dans le “péché” ou plus simplement, pour Spengler comme pour nous, dans la décadence, voire dans la déchéance. Pour Toynbee, un mouvement ou un espace idéologique qui se contenterait de pleurnicher sur la disparition du temps d’avant la déchéance, qui cultiverait les archaïsmes, serait un mouvement “résigné”, passéiste et passif. L’homme d’action (celui de Blondel?), l’homme animé par l’esprit de service ou de chevalerie, l’homme qui entend œuvrer pour la Cité, se mettre au service de sa communauté charnelle, puise dans le passé les leçons pour l’avenir qu’il va forger par son action vigoureuse. Il n’est pas résigné mais volontaire et futuriste. Il transfigure le réel après un “retrait” (withdrawal), un détachement vis-à-vis de la mondanité déchue, amorphe, qui se complait dans sa déchéance. Ce recul est simultanément un plongeon dans la mémoire (la plus longue...), mais ce recul ne saurait être définitf : il postule un “retour” (return). Le visionnaire devient activiste, prospectif, il donne l’assaut pour remodeler la Cité selon le modèle transcendantal qui lui avait donné son lustre jadis. L’acteur de la “transfiguration” se met donc en retrait du monde, du présent (du présentisme), sans pour autant vouloir le quitter définitivement; son retrait est provisoire et ne peut s’assimiler au refus du  monde que cultivaient certains gnostiques du Bas-Empire; il reste lié au temps et à l’espace; il a un but positif.

 

Toynbee utilise aussi les concepts chinois de “yin” et de “yang”. Dès que la Cité trouve ou retrouve une harmonie, une plénitude qui risque de sombrer dans une quiétude délétère, matrice de toutes les déviances, de tous les vices. La phase de “yang” est alors une phase d’effervescence nécessaire et positive, une phase de tumulte fécond qui vise l’avènement d’un “yin” plus parfait encore. Toynbee évoque notamment le risque d’une rigidification des institutions, où celles-ci, vermoulues, sont idolâtrées par les tenants du pouvoir en place, incapables d’arrêter le flot du déclin. Une phase de “yang” est alors nécessaire, portée par des forces nouvelles, qui ont effectué un “retrait” pour mieux revenir aux affaires.

 

La tâche de la métapolitique, l’objet de la “guerre cognitive” en cours est justement de générer à terme ce que Toynbee entendait par “transfiguration” ou par “yang”. A nous d’être les acteurs de cette transfiguration, de nous joindre aux forces porteuses du “yang” à venir, des forces encore dispersées, disparates, mais qu’il faudra unir en une phalange invincible !

 

Robert STEUCKERS.

(Forest-Flotzenberg, novembre 2003).

 

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mardi, 09 juin 2009

L'Italia e il grande gioco asiatico

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Archives - 2003

 

 

Valerio Ricci :

L'Italia e il grande gioco asiatico

 

Il precedente della guerra del golfo

Obiettivi reali e obiettivi dichiarati nella guerra moderna

L'impero marittimo americano ed il controllo dell'Hearthland

La nuova via della droga. La battaglia degli oleodotti

L'importanza di una politica di potenza italiana ed europea.

 

Prima di ordinare ai propri generali l’invasione del Kuwait, Saddam Hussein ebbe un lungo colloquio con l’ambasciatrice americana a Bagdad. La guerra con l’Iran era finita da pochi anni e gli irakeni credevano di poter riscuotere i crediti internazionali maturati in precedenza. Gli USA in effetti, preferendo l’ideologia Baath del laico Irak alla dottrina Sharia della teocrazia di Teheran, in pochi anni avevano garantito a Saddam Hussein un potenziamento militare straordinario e l’impunità per l’enorme utilizzo di gas tossici contro gli iraniani. Nel 1991, forte di un appoggio occidentale pluridecennale, il dittatore di Bagdad era convinto di poter occupare il piccolo ed opulento emirato confinante rischiando al massino una condanna formale dell’ONU o, al limite, un conflitto di bassa intensità. L’ambasciatrice USA, avendo ricevuto istruzioni tanto generiche quanto sospette da Washington, sembrò confermare le impressioni di Saddam Hussein. L’invasione del Kuwait, invece, portò l’Irak al massacro. Gli USA, bandendo in fretta la crociata umanitaria, scatenarono l’inferno contro Bagdad. La guerra durò circa un un e mezzo ed il Kuwait venne “liberato” con estrema facilità. Bush senior tuttavia, invece di proseguire il conflitto sino alla capitale irakena, fatto che avrebbe comportato la destituzione di Saddam Hussein, preferì porre fine alle ostilità.

 

L’obiettivo dichiarato ovvero la realizzazione di un’operazione di polizia internazionale era stato centrato. Ma, soprattutto, venne raggiunto l’obiettivo reale dell’intervento militare americano nel golfo. La guerra aveva permesso a Washington, per la prima volta nella storia, di imporre un controllo militare diretto sui giacimenti petroliferi del golfo persico. Gli americani, escludendo clamorosamente il loro tradizionale partner mediorientale di Tel Aviv, avevano allestito a tale scopo una coalizioneinternazionale forte del sostegno di numerosi paesi arabi più o meno moderati: Arabia Saudita, Egitto, Marocco, Oman, Qatar etc. Gli USA, in questo modo, poterono stanziare per la prima volta le proprie truppe in Arabia Saudita. Oggi, a più di dieci anni dal conflitto, sono ancora lì. I nuovi equilibri determinatisi a loro favore spiegano perché gli americani abbiano imposto una relativa pacificazione dell’area del golfo, minacciata ‘potenzialmente’ dalla presenza del dittatore di Bagdad ancora solidamente al potere. E proprio la ‘minaccia” permanente irakena a giustificare oggi le basi militari americane in Arabia Saudita. La pacificazione del golfo ha trovato sin dall’inizio due grandi avversari i cui interessi attuali da una parte confliggono e dall’altra convergono. Se il fondamentalismo islamico, infatti, considera la liberazione della Mecca un obiettivo prioritario, il nazionalismo israeliano vede nella “pace” americana in medio oriente un ostacolo oggettivo alla sua politica di espansione nei territori palestinesi.

 

Il precedente significativo della guerra del golfo consente di evidenziare un aspetto peculiare della guerra moderna, a suo modo un segno eloquente dei tempi, per cui nei conflitti militari l’obiettivo reale non coincide mai con quello ufficialmente dichiarato. Quest’ultimo assume un’importanza del tutto relativa. Le stragi dell’11 settembre hanno motivato la reazione militare anglo-americana contro il regime talebano di Kabul, colpevole di aver protetto Bin Laden e la sua multinazionale del terrore. Se però la guerra del golfo costituì l’effetto evidente della strategia per il medio oriente concepita da Bush senior e dalle lobbies che lo sostenevano, la genesi dell’attuale crisi mondiale appare molto più complessa, chiamando in causa una pluralità di soggetti e di interessi contrapposti, anche all’interno dello stesso mondo occidentale, non facili da decifrare dall’esterno. L’abbattimento di un aereo siberiano da parte della contraerea ucraina e la tragedia del 12 novembre, in tal senso, hanno posto interrogativi inquietanti. Quello che rileva in tale sede, tuttavia, è l’individuazione delle ragioni reali dell’intervento militare anglo-americano nel cuore dell’Asia. Anche in tal caso la coalizione planetaria allestita in grande fretta è nata con l’obiettivo dichiarato di realizzare un’opera di polizia internazionale, consistente in concreto nella “liberazione” dell’Afghanistan e nella cattura del terrorista saudita. Ma l’obiettivo reale è di ben altra natura.

 

L’Afghanistan, stretto tra l’Asia centrale e le regioni che si affacciano sull’oceano indiano, è situato in una regione di estrema rilevanza geopolitica, soprattutto per gli USA che costituiscono per definizione un impero essenzialmente marittimo. La talassocrazia statunitense si estende da sempre lungo l’Oceano Atlantico trovando nella massa continentale centroasiatica, ad essa tradizionalmente estranea, un naturale bilanciamento del suo potere. Questa regione, denominata Hearthland dal geopolitico inglese sir Halford Mackinder, costituirebbe a livello strategico il “perno” del mondo. Mackinder sosteneva che in linea teorica il controllo dell’Hearthland consente il controllo dell’isola del mondo (l’insieme della massa continentale eurasiatica e dell’Africa) mentre il controllo di quest’ultima permette a sua volta il dominio sul mondo stesso. Se gli americani, già dominatori degli oceani, arrivassero in un futuro non immediato a controllare l’Hearthland, si determinerebbe a loro favore una situazione di egemonia mai raggiunta sin ora. La stampa iraniana vicina all’Ayatollah Khamenei, del resto, ha interpretato le manovre USA nel cuore dell’Asia come l’effetto di una nuova strategia americana finalizzata nel lungo periodo alla definizione di un “mondo unipolare”. Prima dei fatti dell’11 settembre le prospettive geopolitiche degli USA erano assai differenti e l’unipolarismo a stelle e strisce sembrava un’ipotesi impraticabile. La grave crisi economica del gigante economico americano, la graduale crescita dei partners occidentali, l’irrompere anche a livello economico di potenze extraeuropee dotate di risorse nucleari, si erano saldate ad una forte tendenza neoisolazionista affermatasi nello stesso impero americano, lasciando presupporre un futuro scandito da un inedito policentrismo geopolitico.

 

Questa tendenza neoisolazionista ha trovato però una forte opposizione sia all’interno degli stessi potentati USA sia negli alleati storici degli americani in medio oriente, gli israeliani, in rotta con la famiglia Bush e le sue lobbies di riferimento dai tempi della guerra del golfo. L’abbattimento delle torri gemelle e l’attacco al Pentagono hanno generato una crisi mondiale talmente forte da mischiare completamente tutte le carte in tavola. La linea Huntington, fondata sulla formula del conflitto tra civiltà e rigettata dall’amministrazione Bush, torna prepotentemente di attualità. Una presenza militare nel cuore dell’Asia, sino a ieri, sembrava impensabile. Oggi le divisioni di montagna dell’esercito USA, giustificate dalla necessità di intervenire rapidamente in Afghanistan, sono stanziate presso le basi militari uzbeke, a metà strada tra i giacimenti petroliferi del Caspio e le regioni occidentali della Cina. L'Uzbekistan, governato da un regime autoritario in lotta con il fondamentalismo islamico, è uno dei paesi dell'area centroasiatica più ricco di risorse energetiche al punto di meritare citazioni particolari, certo non casuali, nell'ultima fatica editoriale di George Soros.

 

Washington ha precisato da subito che si sarebbe trattato di una guerra molto lunga (di cui la liberazione di Kabul ha rappresentato solo la prima fase) lasciando intendere una presenza continuativa del proprio contingente militare nella repubblica postsovietica. Gli americani, in questo modo, hanno aperto la partita per il controllo dell'Hearthland che si giocherà in modo decisivo nei prossimi anni, muovendo innanzitutto dall'attuale e non agevole gestione del governo afgano postalebano  del presidente Rabbani. Questo governo, in ogni caso, non potrà prescindere dal sostegno determinante dell'etnia di maggioranza pashtun. L'unica attività commerciale svolta in Afghanistan negli ultimi decenni è stata quella della droga: Kabul è il principale produttore mondiale di oppio. Il 90% dell'eroina presente nel mercato europeo esce da laboratori afgani e pakistani. La lotta internazionale alla produzione e al traffico di droga, negli ultimi anni, ha assunto tratti molto spesso grotteschi tali da suscitare sospetti negli osservatori più maliziosi. Lo United Nations Drug Control Program, diretto da Pino Arlacchi, già nel 1997 iniziò un'opera di pressione verso il regime afgano per indurlo a rinunciare alla produzione di oppio, proponendo in alternativa la conversione dei campi in coltivazioni di mandorle e albicocche. A tale scopo Kabul percepì un finanziamento di 16 milioni di dollari. Gli effetti dell'indulgente politica dell'UNDCP furono disastrosi perché aumentò sino a garantire, nel 1999, un raccolto annuo più che duplicato rispetto al precedente.

 

Il solo Afghanistan in quell'anno immagazzinava 4691 tonnellate di oppio rispetto alle 6000 complessive mondiali. Lo United Nations Drug Control Program aveva fallito clamorosamente e qualcuno si interrogò sulla singolare fretta di Kabul nell'accumulare quantità di oppio che eccedevano, di gran lunga, la "domanda" del mercato europeo della droga. Nel 2000 la produzione continuava a marciare spedita quando il mullah Omar emise un decreto di divieto assoluto della coltivazione di oppio. Sul finire della primavera del 2001, quasi d'incanto, i satelliti russi ed americani attestavano che le coltivazioni dell'oppio erano state eliminate da tutto il territorio allora controllato dai talebani, pari al 90-95% dell'Afghanistan. Le coltivazioni permanevano solo nelle zone come Badakshan che già prima della guerra erano controllate dall'alleanza del nord. Malgrado i toni trionfalistici assunti da qualche media, tuttavia, il problema droga in Afghanistan non solo permaneva, ma assunse toni ancora più preoccupanti. L'oppio immagazzinato negli ultimi anni, secondo i dati forniti dalla Conferenza Interpool già nel 2000, consente all'Afghanistan di rifornire i tossicodipendenti europei per i prossimi tre anni.

 

 I bombardamenti anglo-americani avrebbero reso impossibile la coltivazione dell'oppio e gli osservatori più smaliziati riflettono sulla sorprendente lungimiranza dimostrata dai talebani nella programmazione della produzione che, tra l'altro, ha comportato un aumento vertiginoso dei prezzi della droga acquistata in territorio afgano. Questo rialzo dei prezzi è pari al mille per cento. Le ultime novità del mercato dell'eroina, inoltre, riguardano anche le rotte del traffico europeo. Un elemento di novità ha messo in crisi la tradizionale rotta balcanica che, muovendo dall'Afghanistan, supera l'Iran, passa la Turchia e attraverso il corridoio kosovaro raggiunge l'Europa. L'Iran infatti, preoccupato dall'aumento straordinario del consumo di oppio nel proprio territorio, ha intrapreso una lotta reale al traffico di eroina arrivando ad intercettare, da solo, circa la metà dell'eroina sequestrata in tutto il mondo. Questo ha indotto i narcotrafficanti ad impegnare una nuova rotta, quella baltica. Essa descrive una traiettoria che partendo dall'Afghanistan taglia le repubbliche postsovietiche, raggiunge Mosca e di lì, muovendo verso il Baltico, scende poi nel resto d'Europa. Nel 2000 l'Interpool annunciava il crescente ruolo acquisito dalla nuova rotta baltica che oggi si dimostra perfettamente alternativa a quella balcanica.

 

Il prezzo dell'eroina sale vertiginosamente durante il tragitto lungo questi paesi privi, sino a ieri, della presenza militare americana. Essa, al confine afgano costa dai 2 ai 4 mila dollari al chilo, in Kirghizistan 7 mila mentre a Mosca balza a 50 mila. Nel mercato europeo, da ultimo, può arrivare ad un prezzo pari a 100 mila dollari al chilo. Le necessità logistiche della guerra all’Afghanistan hanno consentito alle truppe americane di trovarsi di nuovo in un territorio che va ad intrecciarsi con le rotte dei trafficanti di eroina in viaggio verso l’Europa. Persino quotidiani come il “Corriere della Sera”, al di sopra di ogni sospetto di anti-americanismo preconcetto, hanno raccontato la “singolare” vicenda del Generale Dostum, militare dell’Alleanza del nord notoriamente legato alla CIA. Dostum, ricercato dai taliban, ma inviso anche all’alleato Massud (ucciso proprio pochi giorni prima delle stragi americane), per alcuni anni si nascose tra l’Iran e la Turchia. Dopo la tragedia dell’11 settembre è tornato in Afghanistan, puntando direttamente alla liberazione del suo vecchio “feudo” Mazar-i-Sharif. Raggiunto il suo obiettivo verso la metà dello scorso novembre, il Generale Dostum ha trovato pressoché intatti gli hangar della sua linea aerea privata, utilizzata in passato per esportare l’oppio a Samarcanda. Ad inizio degli anni novanta sia la CIA sia l’ISI, il servizio segreto pakistano, iniziarono a lavorare in Afghanistan nel contesto di un quadro operativo che consentì successivamente l’ascesa al potere dei talebani.

 

L'obiettivo era quello di porre le condizioni idonee alla realizzazione, in un futuro non immediato, di un oleodotto e di un gasdotto che, muovendo dalle repubbliche centroasiatiche postsovietiche, attraverso l’Afghanistan ed il Pakistan, raggiungessero il mare arabico. L’esecuzione di un questo progetto avrebbe determinato una situazione oggettivamente sfavorevole agli interessi russi ed iraniani. Le grandi compagnie anglo-americane, consapevoli delle enormi risorse di petrolio e di gas naturali offerte dalle regioni che si affacciano sul Caspio, da tempo studiano per questo motivo strategie di intervento nel cuore dell’Asia. Le ricerche americane del resto, effettuate in Alaska e nelle terre del nord, hanno fornito risultati deludenti, accentuando ulteriormente l’importanza strategica dell’area centroasiatica in termini di potenziale energetico. Nel frattempo è entrato in funzione l’oleodotto Tangiz-Novorossijk che, saldando il Kazakistan alle coste russe del Mar Nero, ha innescato un business internazionale di proporzioni gigantesche. Questo oleodotto esalta il ruolo geoeconomico della Russia e potrebbe determinare per l’Europa, da sempre sottoposta al “ricatto” del petrolio, una svolta di portata epocale. Nel maggio scorso l’ENI, giocando d’anticipo, ha acquisito i diritti di sfruttamento dei giacimenti della regione russa di Astrakhan che si affaccia proprio sui pozzi petroliferi di Tangiz.

 

Un altro progetto di oleodotto, altrettanto rilevante sotto il profilo economico, è quello di Kashagan-Kharg Island. Esso prevede il collegamento del Caspio con le coste iraniane. Il 23 luglio scorso del resto, proprio nel Caspio, Londra e Teheran avevano rischiato un serio incidente diplomatico: la marina militare iraniana respinse verso la costa azera una nave della British Petroleum che stava effettuando prospezioni ritenute sospette. Oggi la crociata “umanitaria” nel cuore dell’Asia consente alle multinazionali anglo-americane di tornare in gioco nella partita del pètrolio e del gas, determinando un nuovo rimescolamento delle carte. I progetti di oleodotti e gasdotti diretti sia verso le coste sia verso l’interno del Pakistan, tornano prepotentemente di attualità. E infatti evidente che chiunque voglia recitare un ruolo di primo piano nella nuova epoca, sorta con la tragedia dell’11 settembre, non può essere estromesso dal “grande gioco” asiatico. Si deve considerare, a tale proposito, che la situazione politica dei paesi adiacenti al Caspio è fortemente instabile. Questo lascia supporre che le grandi potenze mondiali, formalmente concordi nell’azione di liberazione di Kabul, hanno avviato dietro le quinte una contesa a livello d'intelligence che troverà nelle numerose conflittualità etniche presenti nella regione uno dei suoi punti chiave. Gli USA hanno fatto la prima mossa. La presenza militare anglo-americana in Uzbekistan infatti, giustificata dalle necessità logistiche della guerra contro il regime taliban, ha sancito il nuovo orientamento di politica internazionale del regime di Tashkent. Dopo una continua e a volte convulsa oscillazione tra Mosca e Washington., il presidente Karimov ha posto le basi per una relazione stretta e duratura con gli americani.

 

Il rischio di una reimpostazione complessiva della geopolitica dell’Asia centrale in chiave antirussa ed  antieuropea, pertanto, inizia a farsi evidente proprio nel momento in cui sembravano emergere, sulle rive del Mar Nero, le serie premesse di un’evoluzione improvvisa della prospettiva eurasiatica. Un errore commesso da taluni dopo l’11 settembre è stato quello di ritenere il fondamentalismo islamico sprovvisto di un disegno strategico di ampio respiro. Se al-Qa’ida non è il frutto di alcuna fiction televisiva, ipotesi per la verità piuttosto azzardata, allora risulta impossibile equipararla alle organizzazioni estremistiche occidentali. Le potenzialità finanziarie e le modalità operative dimostrate dalla nuova multinazionale del terrore, a prescindere dalle probabili e finanche ovvie connivenze, testimoniano l’esistenza di un progetto complesso che esclude categoricamente ogni forma di improvvisazione. Di là dai numerosi interessi che hanno generato la crisi mondiale dell’11 settembre, è arduo sostenere che il fondamentalismo islamico abbia agito per puro masochismo.

 

Concepire l’attacco a New York come un’azione fine a sé stessa che, anzi, avrebbe determinato in tempi brevissimi il solo risultato della perdita dell’Afghanistan, appare un paradosso insostenibile. Occorre ricordare che l’escalation del terrorismo islamico contro gli USA ebbe inizio con il primo attentato al Word Trade Center nel 1993 ovvero due anni dopo lo stanziamento militare americano in Arabia Saudita. La “riconquista” di questo paese, all’interno del quale è situata La Mecca, costituisce ovviamente l’obiettivo prioritario del fondamentalismo islamico. Se la stessa Palestina infatti, malgrado la recente crescita di Hamas e della Jihad, assume un’importanza secondaria nell’ambito di un’ipotetica strategia fondamentalista, l’Afghanistan è stata in questi anni, oltreché una redditizia fonte di finanziamento, una mera base logistica e di addestramento dei nuovi miliziani dell’Islam. La rapida caduta di Kabul, dopo l’apocalissi dell’11 settembre, era oggetto di previsioni addirittura scontate. E' probabile, pertanto, che la strategia islamica si snodi sul lungo periodo. La guerra in Afghanistan ha schiuso agli americani la strada del cuore asiatico, ad essi tradizionalmente proibita, garantendo in prospettiva la possibilità di accedere alle enormi risorse petrolifere del Caspio.

 

Un futuro certo non imminente potrebbe rendere l’Arabia Saudita e forse l’area intera del golfo persico non più indispensabili, in modo assoluto, per gli interessi americani. Se si verificasse tale ipotesi, il governo moderato di Riyad troverebbe serie difficoltà di tenuta, considerato il proliferare sempre più fitto del fondamentalismo nel proprio territorio. È altrettanto evidente che se l’interesse americano dovesse progressivamente spostarsi lungo la direttrice centroasiatica, anche il nazionalismo israeliano alla lunga ne trarrebbe diretto giovamento. In realtà l’orientamento conservato in medio oriente dagli USA, dopo l’11 settembre, non conforta assolutamente questa ipotesi. Le relazioni tra Washington e Tel Aviv hanno raggiunto momenti critici. Ma la progressiva evoluzione della partita che si sta giocando a ridosso del Caspio potrebbe riservare, in un futuro non imminente, novità clamorose anche nel golfo persico. A risultare sprovvista di una strategia geopolitica, piuttosto, è proprio l’Europa che ha gestito in modo inadeguato la crisi dell’11 settembre. La gravità oggettiva delle stragi di New York, d'altronde, non avrebbe permesso comunque una gestione differente della crisi: nessuno avrebbe potuto pretendere l’interdizione della strada verso il cuore dell’Asia agli americani colpiti da un attacco terroristico senza precedenti nella storia. Le grandi potenze mondiali, per questo motivo, hanno preferito intraprendere negoziati bilaterali con gli USA facendo di necessità virtù. La Cina, ad esempio, ha fornito il suo assenso all’intervento americano ottenendo probabilmente maggiore "comprensione” per l'azione repressiva verso la minoranza mussulmana nelle regioni dello Xinijang.

 

La Russia, come si è visto, nutre interessi diretti nella regione centroasiatica che verranno gestiti secondo un lavoro sottile di intelligence. Ma è logico supporre che un “alleggerimento” sulla Cecenia rappresenti il costo formale che gli americani si sono impegnati a “sopportare” per l’assenso di Mosca alla guerra contro l’Afghanistan. I grandi d’Europa, consapevoli dell’importanza della partita, hanno preferito escludere dal proprio tavolo i partners più deboli. L’Italia, trovatasi ancora una volta avulsa dal “grande gioco”, ha deciso di partecipare attivamente al conflitto asiatico, segnando una piccola significativa svolta rispetto ai primi cinquanta anni del suo dopoguerra. Il senso di questa scelta ha determinato nelle differenti aree di opposizione radicale atteggiamenti di dissenso ampiamente prevedibili. Ma la questione dell’intervento italiano, come dimostrano i paragrafi precedenti, è stata posta secondo termini errati. Gli USA infatti, forti di un consenso mondiale mai raggiunto negli ultimi cinquanta anni, non avevano alcun interesse alla partecipazione italiana alla guerra afgana. Washington, soddisfatta dell’assenso formale di Roma, non aveva ragione di pretendere un’ulteriore manifestazione di sudditanza da una nazione considerata molto poco utile sotto il profilo militare.

 

Il minor numero di soggetti presenti realmente nel conflitto asiatico avrebbe garantito la massima agilità americana nella partita più importante, quella postúbellica. E significativo che l’accettazione americana della proposta di Berlusconi sia stata formulata sprezzantemente per fax: qualche giornalista dotato di una buona dose di ironia ha proposto il paragone della contrattazione via Internet con un’agenzia di viaggi. In realtà l’intervento militare, consistente essenzialmente nelle attività postbelliche di peacekeeping, serve solo all’Italia. Quando le aree radicali, da tempo oscillanti tra pacifismo ed anti-americanismo verbale, riflettevano sulla linea da assumere la guerra afgana era quasi terminata. Antimoderni per taluni e mercanti della droga per altri, del resto, i taliban non potevano godere delle simpatie riservate ai loro numerosi predecessori dello scorso secolo. Constatata l’impossibilità oggettiva di evitare la presenza americana nel cuore dell’Asia, una partecipazione italiana ed europea al conflitto presentava solo aspetti positivi. La guerra afgana, peraltro, ha assunto tratti di evidente virtualità. Tonnellate di bombe ad alta tecnologia sono state scagliate contro i sassi di Kabul mentre il magazzino della Croce Rossa Internazionale veniva colpito tre volte nell’arco di dieci giorni.

 

L’intervento militare, deciso in extremis, consente ora all’Italia di partecipare, seppure con un ruolo decisamente modesto, al “grande gioco” iniziato a ridosso del Caspio. Una posizione nettamente defilata, al contrario, avrebbe determinato l’unico effetto di una nuova completa esclusione di Roma dalla grande politica mondiale. Il paragone con la guerra di Crimea avrà infastidito i lettori più esigenti, ma ha la sua efficacia. Il silenzio delle aree radicali, dissimulato da sterili manifestazioni di protesta contro la guerra americana, rivela l’assenza in Italia di un’avanguardia culturale e politica. Quest’ultima, denunciando pubblicamente i termini reali del conflitto in atto, avrebbe potuto esprimere una linea interventista capace di invocare non solo una legittima protezione degli interessi asiatici dell’ENI, ma soprattutto, una politica di potenza italiana ed europea nell’Hearthland, nel quadro di quella concezione eurasiatica che dovrebbe caratterizzarla fisiologicamente. Il fatto avrebbe generato in linea di principio un piccolo, significativo elettroshock delle coscienze che, invece, saranno presto consegnate all’immaginario cinematografico americano del soldato italiano suonatore di mandolino. A rendere impossibile in Italia una linea di avanguardia delle aree radicali contribuiscono essenzialmente due fattori: l’incapacità di un approccio politico ed il timore di essere assimilate alle forze moderate. Una lettura politica della crisi mondiale avrebbe consentito di ragionare non su schemi desueti ed astratti, ma in base all’ovvio criterio dell’interesse nazionale ed europeo. Il timore dell’identificazione con soggetti non graditi, del resto, costituisce una manifestazione di forte immaturità ideologica: la politica è l’arte del possibile e la storia non inventa mai nulla di nuovo. L’interventismo di Corridoni non sarà mai quello di Salandra.

 

 

Tratto da orion n° 206

 

jeudi, 26 février 2009

Le monde comme système

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Archives de Synergies européennes - 1990

 

Le Monde comme Système

«Mondes nouveaux» (Géographie universelle dirigée par Roger Brunet, T. I)

 

Livre II Le système Monde

Olivier Dollfuss

Hachette/Reclus, 1990.

 

Si le substantif de géopolitique n'est pas la simple contraction de géographie politique, cette méthode d'approche des phénomènes politiques s'enracine dans la géographie; elle ne peut donc se désintéresser de l'évolution. Réputée inutile et bonasse (1), la géographie est un savoir fondamentalement politique et un outil stratégique. Confrontée à la recomposition politique du monde, elle ne peut plus se limiter à la description et la mise en carte des lieux et se définit comme science des types d'organisation de l'espace terrestre. Le premier tome de la nouvelle géographie universelle, dirigée par R. Brunet, a l'ambition d'être une représentation de l'état du Monde et de l'état d'une science. La partie de l'ouvrage dirigée par O. Dollfuss y étudie le Monde comme étant un système, parcouru de flux et structuré par quelques grands pôles de puissance.

 

O. Dollfuss, universitaire (il participe à la formation doctorale de géopolitique de Paris 8) et collaborateur de la revue «Hérodote», prend le Monde comme objet propre d'analyses géographiques; le Monde conçu comme totalité ou système. Qu'est-ce qu'un système? «Un système est un ensemble d'éléments interdépendants, c'est-à-dire liés entre eux par des relations telles que si l'une est modifiée, les autres le sont aussi et par conséquent tout l'ensemble est transformé» (J. Rosnay).

 

Nombre de sciences emploient aujourd'hui une méthode systémique, les sciences physiques et biologiques créatrices du concept, l'économie, la sociologie, les sciences politiques… mais la démarche est innovante en géographie.

 

Le Monde fait donc système. Ses éléments en interaction, sont les Etats territoriaux dont le maillage couvre la totalité de la surface terrestre (plus de 240 Etats et Territoires), les firmes multinationales, les aires de marché (le marché mondial n'existe pas), les aires culturelles définies comme espaces caractérisés par des manières communes de penser, de sentir, de se comporter, de vivre. Les relations entre Etats nourrissent le champ de l'international (interétatique serait plus adéquat) et les relations entre acteurs privés le champ du transnational. Par exemple, les flux intra-firmes qui représentent le tiers du commerce mondial. Ces différents éléments du système Monde sont donc «unis» par des flux tels qu'aucune région du monde n'est aujourd'hui à l'abri de décisions prises ailleurs. On parle alors d'interdépendance, terme impropre puisque l'Asymétrie est la règle.

 

L'émergence et la construction du système Monde couvrent les trois derniers siècles. Longtemps, le Monde a été constitué de «grains» (sociétés humaines) et d'«agrégats» (sociétés humaines regroupées sous la direction d'une autorité unique, par exmple l'Empire romain) dont les relations, quand elles existaient, étaient trop ténues pour modifier en profondeur les comportements. A partir du XVI° siècle, le désenclavement des Européens, qui ont connaissance de la rotondité de la Terre, va mettre en relation toutes les parties du Monde. Naissent alors les premièrs «économies-mondes» décrites par Immanuel Wallerstein et Fernand Braudel et lorsque toutes les terres ont été connues, délimitées et appropriées (la Conférence de Berlin en 1885 achève la épartition des terres africaines entre Etats européens), le Monde fonctionne comme système (2). La «guerre de trente ans» (1914-1945) accélèrera le processus: toutes les humanités sont désormais en interaction spatiale.

 

L'espace mondial qui en résulte est profondément différencié et inégal. Il est le produit de la combinaison des données du milieu naturel et de l'action passée et présente des sociéts humaines; nature et culture. En effet, le potentiel écologique (ensemble des éléments physiques et biologiques à la disposiiton d'un groupe social) ne vaut que par les moyens techniques mis en œuvre par une société culturellement définie; il n'existe pas à proprement parler de «ressources naturelles», toute resource est «produite».

 

Et c'est parce que l'espace mondial est hétérogène, parce que le Monde est un assemblage de potentiels différents, qu'il y a des échanges à la surface de la Terre, que l'espace mondial est parcouru et organisé par d'innombrables flux. Flux d'hommes, de matières premières, de produits manufacturés, de virus… reliant les différents compartiments du Monde. Ils sont mis en mouvement, commandés par la circulation des capitaux et de l'information, flux moteurs invisibles que l'on nomme influx. Aussi le fonctionnement des interactions spatiales est conditionné par le quadrillage de réseaux (systèmes de routes, voies d'eau et voies ferrées, télécommunications et flux qu'ils supportent) drainant et irriguant les différents territoires du Monde. Inégalement réparti, cet ensemble hiérarchisé d'arcs, d'axes et de nœuds, qui contracte l'espace terrestre, forme un vaste et invisible anneau entre les 30° et 60° parallèles de l'hémisphère Nord. S'y localisent Etats-Unis, Europe occidentale et Japon reliés par leur conflit-coopération. Enjambés, les espaces intercalaires sont des angles-morts dont nul ne se préoccupe.

 

L'espace mondial n'est donc pas homogène et les sommaires divisions en points cardinaux (Est/Ouest et Nord/sud), surimposés à la trame des grandes régions mondiales ne sont plus opératoires (l'ont-elles été?). On sait la coupure Est-Ouest en cours de cicatrisation et il est tentant de se «rabattre» sur le modèle «Centre-Périphérie» de l'économiste égyptien Samir Amin: un centre dynamique et dominateur vivrait de l'exploitation d'une périphérie extra-déterminée. La vision est par trop sommaire et O. Dollfuss propose un modèle explicatif plus efficient, l'«oligopole géographique mondial». Cet oligopole est formé par les puissances territoriales dont les politiques et les stratégies exercent des effets dans le Monde entier. Partenaires rivaux (R. Aron aurait dit adversaires- partenaires), ces pôles de commandement et de convergence des flux, reliés par l'anneau invisible, sont les centres d'impulsion du système Monde. Ils organisent en auréoles leurs périphéries (voir les Etats-Unis avec dans le premier cercle le Canada et le Mexique, au delà les Caraïbes et l'Amérique Latine; ou encore le Japon en Asie), se combattent, négocient et s'allient. Leurs pouvoirs se concentrent dans quelques grandes métropoles (New-York, Tokyo, Londres, Paris, Francfort…), les «îles» de l'«archipel métropolitain mondial». Sont membres du club les superpuissances (Etats-Unis et URSS, pôle incomplet), les moyennes puissances mondiales (anciennes puissances impériales comme le Royaume-Uni et la France) et les puissances économiques comme le Japon et l'Allemagne (3); dans la mouvance, de petites puissances mondiales telles que la Suisse et la Suède. Viennent ensuite des «puissances par anticipation» (Chine, Inde) et des pôles régionaux (Arabie Saoudite, Afrique du Sud, Nigéria…). Enfin, le système monde a ses «arrières-cours», ses «chaos bornés» où règnent la violence et l'anomie (Ethiopie, Soudan…).

 

La puissance ds «oligopoleurs» vit de la combinatoire du capital naturel (étendue, position, ressources), du capital humain (nombre des hommes, niveau de formation, degré de cohésion culturelle) et de la force armée. Elle ne saurait être la résultante d'un seul de ces facteurs et ne peut faire l'économie d'un projet politique (donc d'une volonté). A juste titre, l'auteur insiste sur l'importance de la gouvernance ou aptitude des appareils gouvernants à assurer le contrôle, la conduite et l'orientation des populations qu'ils encadrent. Par ailleurs, l'objet de la puissance est moins le contrôle direct de vastes espaces que la maîtrise des flux (grâce à un système de surveillance satellitaire et de misiles circumterrestres) par le contrôle des espaces de communication ou synapses (détroits, isthmes…) et le traitemebn massif de l'information (4).

 

Ce premier tome de la géographie universelle atteste du renouvellement de la géographie, de ses méthodes et de son appareil conceptuel. On remarquera l'extension du champ de la géographicité (de ce que l'on estime relever de la discipline) aux rapports de puissance entre unités politiques et espaces. Fait notoire en France, où la géographie a longtemps prétendu fonder sa scientificité sur l'exclsuion des phénomènes politiques de son domaine d'étude. Michel Serres affirme préférer «la géographie, si sereine, à l'histoire, chaotique». R. Brunet lui répond: «Nou n'avons pas la géographie bucolique, et la paix des frondaisons n'est pas notre refuge». Pas de géographie sans drame!

 

Louis Sorel

 

1) Cf. Yves Lacoste, «La géographie, ça sert, d'abord à faire la guerre», petite collection Maspero,1976.

2) Cf. I. Wallerstein, «The Capitalist World Economy», Cambridge University Press, 1979 (traduction française chez Flammarion) et F. Braudel, «Civilisation matérielle, Economie et Capitalisme», Armand Colin, 1979. Du même auteur, «La dynamique du capitalisme» (Champs Flammarion, 1985) constitue une utile introduction (à un prix poche).

3) I. Ramonet, directeur du Monde diplomatique, qualifie le Japon et l'Allemagne de «puissances grises» (au sens d'éminence…). Cf. «Allemagne, Japon. Les deux titans», Manières de voir n°12, le Monde diplomatique. A la recherche des ressorts communs des deux pays du «modèle industrialiste», les auteurs se déplacent du champ économique au champ politique et du champ politique au champ culturel tant l'économique plonge ses racines dans le culturel. Ph. Lorino (Le Monde diplomatique, juin 1991, p.2) estime ce recueil révélateur des ambiguïtés françaises à l'égard de l'Allemagne, mise sur le même plan que le Japon, en dépit d'un processus d'intégration régionale déjà avancé.

4) Les «îles» de «l'archipel-monde» (le terme rend compte tout à la fois de la globalité croissante des flux et des interconnexions et de la fragmentation politico-stratégique de la planète) étant reliée par des mots et des images, Michel Foucher affirme que l'instance culturelle devient le champ majeur de la confrontation (Cf. «La nouvelle planète, n° hors série de Libération, déc. 1990). Dans le même recueil, Zbigniev Brzezinski, ancien «sherpa» de J. Carter, fait de la domination américaine du marché mondial des télécommunications la base de la puissance de son pays; 80% des mots et des images qui circulent dans le monde proviennent des Etats-Unis.

 

samedi, 14 février 2009

USA-Russie: la guerre des bases

USA-RUSSIE : La guerre des bases…

SOURCE : THEATRUM BELLI

 

U69CAGF92KOCANVTG9ICACMY83FCAEBG8FSCADQ466YCASFPNCVCA51890QCAD2BA9CCASF0W7RCA3N1YWTCAKJCH1CCAQOHBA5CADK6HHKCAQTR1P1CAVC1MKMCAO9ZUQCCAACWKKYCAH0I9OUCAFC9PFJ.jpgRusses et Américains se livrent en ce moment à un gigantesque Monopoly stratégique en Asie centrale. A la clé, le contrôle de bases militaires.

 

« En Asie centrale, j’achète Manas… ». L’acheteur est russe, le vendeur kirghize et le perdant américain. « Dans les ex-territoires géorgiens, j’achète Otchamtchira… ». L’acheteur est russe, le vendeur abkhaze et le perdant géorgien.

 

Une gigantesque partie de Monopoly est en cours en Asie centrale, avec les Russes dans le rôle de l’investisseur acharné et les Américains dans celui du propriétaire qui voit ses biens lui échapper.

 

Le dernier revers américain a eu lieu en Kirghizstan. Les autorités de Bichkek ont définitivement décidé de fermer la base américaine de Manas après avoir reçu de Moscou un chèque de 450 millions de dollars et une annulation de dette de 180 millions de dollars.

 

Manas, créée en 2001, sert de plate-forme logistique aux troupes de la coalition internationale déployée en Afghanistan. 1 200 soldats US y sont basés, ainsi que des avions de transport et de ravitaillement en vol. La décision kirghize est jugée « regrettable » à Washington où le Pentagone étudie, de toute urgence, une solution tadjike. Le Tadjikistan serait, en effet, prêt à autoriser le transit vers l’Afghanistan de marchandises destinées à la coalition internationale, à l’exception des fournitures militaires.

 

La « guerre des bases » affecte aussi les territoires géorgiens. Les Russes vont ouvrir une base navale en Abkhazie, à un jet de grenade de la Géorgie. Ils projettent aussi d’en créer d’autres en Syrie, en Libye ou au Vietnam.

lundi, 29 décembre 2008

Alfred Thayer Mahan (1840-1914)

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Alfred Thayer Mahan (1840-1914)


Amiral, historien et professeur à l'US Naval Academy, Alfred Thayer Mahan est né le 27 septembre 1840 à West Point, où son père enseignait à l'Académie militaire. Il fréquente l'US Naval Academy d'Annapolis, sert l'Union pendant la Guerre de Sécession et entame une carrière de professeur d'histoire et de stratégie navales. De 1886 à 1889, il préside le Naval War College. De 1893 à 1895, il commande le croiseur Chicago dans les eaux européennes. Il sert à l'état-major de la marine pendant la guerre hispano-américaine de 1898. En 1902, il est nommé Président de l'American Historical Association. Il meurt à Quogue, dans l'Etat de New York, le 1 décembre 1914. L'œuvre de Mahan démontre l'importance stratégique vitale des mers et des océans. Leur domination permet d'accèder à tous les pays de la planète, parce que la mer est res nullius, espace libre ouvert à tous, donc surtout à la flotte la plus puissante et la plus nombreuse. Le Sea Power, tel que le définit Mahan, n'est pas exclusivement le résultat d'une politique et d'une stratégie militaires mais aussi du commerce international qui s'insinue dans tous les pays du monde. Guerre et commerce constituent, aux yeux de Mahan, deux moyens d'obtenir ce que l'on désire: soit la puissance et toutes sortes d'autres avantages. Ses travaux ont eu un impact de premier ordre sur la politique navale de l'empereur allemand Guillaume II, qui affirmait «dévorer ses ouvrages».


The Influence of Sea Power upon History 1660-1783 (L'influence de la puissance maritime sur l'histoire 1660-1783), 1890


Examen général de l'histoire européenne et américaine, dans la perspective de la puissance maritime et de ses influences sur le cours de l'histoire. Pour Mahan, les historiens n'ont jamais approfondi cette perspective maritime car ils n'ont pas les connaissances navales pratiques nécessaires pour l'étayer assez solidement. La maîtrise de la mer décide du sort de la guerre: telle est la thèse principale de l'ouvrage. Les Romains contrôlaient la mer: ils ont battu Hannibal. L'Angleterre contrôlait la mer: elle a vaincu Napoléon. L'examen de Mahan porte sur la période qui va de 1660 à 1783, ère de la marine à voile. Outre son analyse historique extrêmement fouillée, Mahan nous énumère les éléments à garder à l'esprit quand on analyse le rapport entre la puissance politique et la puissance maritime. Ces éléments sont les suivants: 1) la mer est à la fois res nullius et territoire commun à toute l'humanité; 2) le transport par mer est plus rapide et moins onéreux que le transport par terre; 3) les marines protègent le commerce; 4) le commerce dépend de ports maritimes sûrs; 5) les colonies sont des postes avancés qui doivent être protégés par la flotte; 6) la puissance maritime implique une production suffisante pour financer des chantiers navals et pour organiser des colonies; 7) les conditions générales qui déterminent la puissance maritime sont la position géographique du territoire métropolitain, la géographie physique de ce territoire, l'étendue du territoire, le nombre de la population, le caractère national, le caractère du gouvernement et la politique qu'il suit (politiques qui, dans l'histoire, ont été fort différentes en Angleterre, en Hollande et en France). Après avoir passé en revue l'histoire maritimes des pays européens, Mahan constate la faiblesse des Etats-Unis sur mer. Une faiblesse qui est due à la priorité que les gouvernements américains successifs ont accordé au développement intérieur du pays. Les Etats-Unis, faibles sur les océans, risquent de subir un blocus. C'est la raison pour laquelle il faut développer une flotte. Telle a été l'ambition de Mahan quand il militait dans les cercles navals américains.


The Influence of Sea Power upon the French Revolution and Empire, 1793-1812 (L'influence de la puissance maritime sur la Révolution française et l'Empire français, 1793-1812), 2 vol., 1892


Ce livre d'histoire maritime est la succession du précédent. Il montre comment l'Angleterre, en armant sa marine, a fini par triompher de la France. En 1792, l'Angleterre n'est pas du tout prête à faire la guerre ni sur terre ni sur mer. En France, les révolutionnaires souhaitent s'allier à l'Angleterre qu'ils jugent démocratique et éclairée. Mais, explique Mahan, cet engouement des révolutionnaires français ne trouvait pas d'écho auprès des Anglais, car la conception que se faisaient ces derniers de la liberté était radicalement différente. Pour Mahan, conservateur de tradition anglo-saxonne, l'Angleterre respecte ses traditions et pratique la politique avec calme. Les révolutionnaires français, eux, détruisent toutes les traditions et se livrent à tous les excès. La rupture, explique le stratège Mahan, survient quand la République annexe les Pays-Bas autrichiens, s'emparent d'Anvers et réouvrent l'Escaut. La France révolutionnaire a touché aux intérêts de l'Angleterre aux Pays-Bas.

Le blocus continental, décrété plus tard par Napoléon, ne ruine pas le commerce anglais. Car en 1795, la France avait abandonné toute tentative de contrôler les océans. Dans son ouvrage, Mahan analyse minutieusement la politique de Pitt, premier impulseur génial des pratiques et stratégies de la thalassocratie britannique.

(Robert Steuckers).

- Bibliographie: The Gulf and Inland Waters, 1885; The Influence of Sea Power upon History, 1660-1783, 1890; The Influence of Sea Power upon French Revolution and Empire, 1783-1812, 1892; «Blockade in Relation to Naval Strategy», in U.S. Naval Inst. Proc., XXI, novembre 1895, pp. 851-866; The Life of Nelson. The Embodiment of the Sea Power of Great-Britain, 1897; The Life of Admiral Farragut, 1892; The Interest of America in Sea Power, present and future, 1897; «Current Fallacies upon Naval Subjects», in Harper's New Monthly Magazine, XCVII, juin 1898, pp. 44-45; Lessons of the War with Spain and Other Articles, 1899; The Problem of Asia and its Effect upon International Politics, 1900; The Story of War in South Africa, 1900; Types of Naval Officers, 1901; «The Growth of our National Feeling», in World's Work, février 1902, III, pp. 1763-1764; «Considerations Governing the Disposition of Navies», in The National Review, XXXIX, juillet 1902, pp. 701, 709-711; Sea Power and its Relations to the War of 1812, 1905; Some Neglected Aspects of War, 1907; From Sail to Steam: Recollections of Naval Life, 1907; The Harvest Within, 1907 (expression des sentiments religieux de Mahan); The Interest of America to International Conditions, 1910; Naval Strategy, compared and contrasted with the Principles of Military Operations on Land, 1911; The Major Operations of the Navies in the War of American Independance, 1913; «The Panama Canal and Distribution of the Fleet», in North American Review, CC, sept. 1914, pp. 407 suiv.

- Traductions françaises: L'influence de la puissance maritime dans l'histoire, 1660-1783, Paris, Société française d'Edition d'Art, 1900; La guerre hispano-américaine, 1898. La guerre sur mer et ses leçons, Paris, Berger-Levrault, 1900; Stratégie Navale, Paris, Fournier, 1923; Le salut de la race blanche et l'empire des mers, Paris, Flammarion, 1905 (traduction par J. Izoulet de The Interest of America in Sea Power).

- Correspondance: la plupart des lettres de Mahan sont restées propriété de sa famille; cf. «Letters of Alfred Thayer Mahan to Samuel A'Court Ashe (1858-59)» in Duke Univ. Lib. Bulletin, n°4, juillet 1931.

- Sur Mahan: U.S. Naval Institute Proc., Janvier-février 1915; Army and Navy Journal, 5 décembre 1914; New York Times, 2 décembre 1914; Allan Westcott, Mahan on Naval Warfare, 1918 (anthologie de textes avec introduction et notes); C.C. Taylor, The Life of Admiral Mahan, 1920 (avec liste complète des articles rédigés par Mahan); C.S. Alden & Ralph Earle, Makers of Naval Tradition, 1925, pp. 228-246; G.K. Kirkham, The Books and Articles of Rear Admiral A. T. Mahan, U.S.N., 1929; Allan Westcott, «Alfred Thayer Mahan», in Dictionary of American Biography, Dumas Malone (ed.), vol. XII, Humphrey Milford/OUP, London, 1933; Captain W.D. Puleston, The Life and Work of Captain Alfred Thayer Mahan, New Haven, 1939; H. Rosinski, «Mahan and the Present War», Brassey's Naval Annual, 1941, pp. 9-11; Margaret Tuttle Sprout, «Mahan: Evangelist of Sea Power», in Edward Mead Earle, Makers of Modern Strategy. Military Thought from Machiavelli to Hitler, Princeton, 1944 (éd. franç.: E. M. Earle, Les maîtres de la stratégie, Paris, Berger-Levrault, 1980, Flammarion, 1987); W. Livezey, Mahan on Sea Power, 1947; Pierre Naville, Mahan et la maîtrise des mers, Paris, Berger-Levrault, 1981 (avec textes choisis de Mahan).

- Autres références: H. Hallman, Der Weg zum deutschen Schlachtflottenbau, Stuttgart, 1933, p. 128; Martin Wight, Power Politics, Royal Institute of International Affairs, 1978; Hellmut Diwald, Der Kampf um die Weltmeere, Droemer/Knaur, Munich, 1980; Hervé Coutau-Bégarie, La puissance maritime. Castex et la stratégie navale, Paris, Fayard, 1985.

 

vendredi, 19 décembre 2008

Géopolitique de l'Océan Indien - Pour une Doctrine de Monroe eurasiatique

 

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1986

Géopolitique de l'Océan Indien et destin européen - Pour une doctrine de Monroe eurasienne

par Robert Steuckers


Aborder la géopolitique de l'Océan Indien, c'est, en apparence, aborder un sujet bien éloigné des préoccupations de la plupart de nos concitoyens. C'est, diront les esprits chagrins et critiques, sacrifier à l'exotisme... Pourtant, l'Océan Indien mérite, plus que toute autre région du globe, de mobiliser nos attentions. En effet, il est la clef de voûte des relations entre l'Europe et le Tiers-Monde; son territoire maritime et ses rives sont l'enjeu du non-alignement, option que l'Europe aurait intérêt à choisir et, sur le plan historique, cet océan du milieu (entre l'Atlantique et le Pacifique) a été l'objet de convoitises diverses, convoitises qui ont suscité, partiellement, la première guerre mondiale, dont l'issue pèse encore sur notre destin.


Le Cadre de cette étude

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En nous situant en dehors de la dichotomie gauche/droite, qui stérilise les analyses politiques et leur ôte bien souvent toute espèce de sérieux, nous suivons attentivement les travaux d'organismes, cénacles, sociétés de pensée, etc. qui posent comme objet de leurs investigations les relations entre notre Europe et les Pays du "Tiers-Monde". Au-delà de la dichotomie sus-mentionnée, nous avons, sans a priori, étudié les ouvrages publiés aux Editions La Découverte, ceux du CEDETIM, de La Revue Nouvelle (Bruxelles), du Monde Diplomatique, les travaux d'écrivains, sociologues, philosophes ou journalistes comme Yves LACOSTE, Alain de BENOIST, Guillaume FAYE, Rudolf WENDORFF, Paul-Marie de la GORCE, Claude JULIEN, etc. Dans un réel souci d'éclectisme, nous avons couplé ces investigations contemporaines aux travaux des géopoliticiens d'hier et d'aujourd'hui.


Etudier les rapports entre l'Europe et le Tiers-Monde, comporte un risque majeur: celui de la dispersion. En effet, derrière le vocable "Tiers-Monde", se cache une formidable diversité de cultures, de religions, d'univers politiques, de sensibilités. Le vocable "Tiers-Monde" recouvre des espaces civilisationnels aussi divers et hétérogènes que l'Afrique, l'Amérique Latine, l'Asie chinoise, indochinoise, indonésienne, le pourtour de l'Océan Indien, le monde arabo-musulman (les "Islams", dirait Yves LACOSTE). Le vocable "Tiers-Monde" recouvre donc une extrême diversité. Sur le plan strictement économique, cette diversité comprend déjà quatre catégories de pays: 1) les pays pauvres (notamment ceux du Sahel); 2) les pays ayant pour seules richesses les matières premières de leur sous-sol; 3) les pays pétroliers ayant atteint un certain niveau de vie; 4) les pays pauvres disposant d'une puissance militaire autonome, avec armement nucléaire (Inde, par exemple).


Pourquoi choisir l'Océan Indien?


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En effet, pourquoi ce choix? Nos raisons sont triples. Elles sont d'abord d'ordre historique; l'Océan Indien a excité les convoitises des impérialismes européens et la dynamique du 19ème siècle "anglo-centré", avec prédominance de la Livre Sterling, s'explique par la maîtrise de ses eaux par la Grande-Bretagne. Cette dynamique a été contestée par toutes les puissances du globe, ce qui, ipso facto, a engendré des conflits qui ont culminé aux cours des deux guerres mondiales du 20ème siècle. Notre situation actuelle d'Européens colonisés, découle donc partiellement de déséquilibres qui affectaient jadis les pays baignés par l'Océan Indien.


Deuxième raison de notre choix: l'Océan Indien est un microcosme de la planète du fait de l'extrème diversité des populations qui vivent sur son pourtour. Il est l'espace où se sont rencontrées et affrontées les civilisations hindoue, arabo-musulmane, africaine et extrême-orientale. Si l'on souhaite échapper aux universalismes stérélisants qui veulent réduire le monde au commun dénominateur du consumérisme et du monothéisme des valeurs, l'étude des confrontations et des syncrétismes qui forment la mosaïque de l'Océan Indien est des plus instructives.


Troisième raison de notre choix: éviter une lecture trop européo-centrée des dynamiques politiques internationales. Le sort de l'Europe se joue actuellement sur tous les points du globe et, vu la médiocrité du personnel politique européen, les indépendantistes de notre continent, les esprits libres, trouveront tout naturellement une source d'inspiration dans le non-alignement préconisé jadis par le Pandit Nehru, Soekarno, Mossadegh, Nasser, etc. Le style diplomatique indien s'inspire encore et toujours des principes posés dans les années cinquante par Nehru. Une Europe non-alignée aura comme partenaire inévitable cette Inde si soucieuse de son indépendance. La diplomatie indienne s'avère ainsi pionnière et exemplaire pour les indépendantistes européens qui, un jour, sous la pression des nécessités, secoueront le joug américain et le joug soviétique.


Une histoire mouvementée


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Pour les Européens, l'Océan Indien devient objet d'intérêt à l'âge des grandes découvertes, quand Christophe Colomb aborde le Nouveau Monde en croyant aborder aux Indes, territoire où croissent les épices, pactole de l'époque. La perspective des Européens s'élargit brusquement. Le monde leur apparaît plus grand. En 1494, le Pape partage les nouvelles terres entre Portugais et Espagnols. Les géographes au service du pontife catholique tracent une ligne qui traverse l'Atlantique du Nord au Sud. Ce qui est à l'Ouest de cette ligne revient à l'Espagne; ce qui est à l'Est échoit au Portugal. C'est ainsi que le Brésil devient portugais et le reste des Amériques, espagnol. L'Océan Indien et l'Afrique reviennent, en vertu de ce partage, aux rois du Portugal. Les marins lusitaniens exploreront donc les premiers les eaux de l'Océan Indien.


La décision du Pape n'avait pas plu aux autres Européens, exclus du partage. Anglais et Néerlandais entreront en conflit avec les deux monarchies catholiques. L'objet de ce conflit inter-européen, ce sont bien entendu les nouvelles terres à conquérir. Rapidement, les Hollandais prennent la place des Portugais, incapables de se maintenir aux Indes et dans les Iles. Après les Hollandais, viendront les Anglais qui affermiront progressivement, en deux siècles, leur mainmise sur l'Océan.


La compétition engagée entre Catholiques et Protestants ouvre une ère nouvelle: celle de la course aux espaces vierges et aux comptoirs commerciaux. L'ère coloniale de l'expansion européenne s'ouvre et ne se terminera qu'en 1885, au Congrès de Berlin qui attribuera le Congo à Léopold II. A partir de 1885, les Congrès internationaux ne réuniront plus seulement des Européens, comme à Vienne en 1815. Désormais, tous les territoires du monde sont occupés et la course aux espaces est arrêtée. Le Japon, le Siam, la Perse, le Mexique et les Etats-Unis participent à diverses conférences internationales, notamment celle qui institue le système postal. Le monde cesse d'être européo-centré dans l'optique des Européens eux-mêmes. Ceux-ci ne déterminent plus seuls la marche du monde. Déjà un géant s'était affirmé: les Etats-Unis qui s'étaient posés comme un deuxième centre en proclamant dès 1823, la célèbre "Doctrine de Monroe". Les centres se juxtaposent et le "droit international", créé au XVIIème siècle pour règler les conflits inter-européens avec le maximum d'humanité, perd sa cohésion civilisationnelle. Dans ce "jus publicum europaeum" (Carl SCHMITT), les guerres étaient perçues comme des règlements de différends, rendus inévitables par les vicissitudes historiques. L'ennemi n'était plus absolu mais provisoire. On entrait en conflit avec lui, non pour l'exterminer, pour éradiquer sa présence de la surface de la Terre, mais pour règler un problème de mitoyenneté, avant d'éventuellement envisager une alliance en vue de règler un différend avec une tierce puissance. La civilisation européenne acquérait ainsi une homogénéité et les conflits ne pouvaient dégénérer en guerres d'extermination.


La révolution française, avec son idéologie conquérante, avait porté un coup à ces conventions destinées à humaniser la guerre. A Vienne, les puissances restaurent le statu quo ante. Mais les Etats-Unis, avec leur idéologie puritaine, actualisant une haine vétéro-testamentaire en guise de praxis diplomatique (les récents événements du Golfe de Syrte le prouvent), n'envisagent pas leurs ennemis avec la même sérénité. Les ennemis de l'Amérique sont les ennemis de Yahvé et méritent le sort infligé à Sodome et Gomorrhe. Les autres puissances extra-européennes n'ont pas connu le cadre historique où le "jus publicum europaeum" a émergé. Avec l'entrée des Etats-Unis sur la scène internationale, la guerre perd ses limites, ses garde-fous et redevient "exterminatrice".


Pendant que ces mutations s'opèrent sur le globe, l'Océan Indien vit à l'heure de la Pax Britannica. Les Européens y règlent leurs conflits selon les principes de courtoisie diplomatique du "jus publicum europaeum".


La Pax Britannica


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Arrivés dans l'Océan Indien dès le milieu du XVIIème, les Anglais consolideront très progressivement leurs positions et finiront par faire des Indes la clef de voûte de leur système colonial, le plus perfectionné que l'histoire ait connu. Avec la capitulation de la France, qui abandonne ses positions indiennes à l'Angleterre en 1763 ( mis à part quelques comptoirs comme Pondichéry), la Couronne britannique peut prendre pied successivement à Singapour, à Malacca, à Aden, en Afrique du Sud. En 1857, les Indes passent sous contrôle colonial direct et en 1877, Victoria est proclamée Impératrice des Indes. L'Angleterre poursuit alors sa progression en Afrique Orientale (Kenya, Zanzibar).


La France, en 1763, a commis une erreur fatale: elle a sacrifié ses potentialités mondiales au profit d'une volonté d'hégémonie en Allemagne. Elle a négligé deux atouts: celui qu'offraient les peuples de marins de ses côtes atlantiques, Bretons, Normands et Rochellois. Et celui qu'offraient son hinterland boisé (matières premières pour construire des flottes) et ses masses paysannes (réserves humaines), alors les plus nombreuses d'Europe.


Ce seront donc les Anglais qui occuperont le pourtour de l'Océan Indien. Cette occupation impliquera la protection du statu quo contre de nouveaux ennemis: les Russes, les Allemands, les Italiens et les Japonais.


Albion contre l'Empire des Tsars


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Au XIXème siècle, la Russie, qui connaît une explosion démographique spectaculaire, entreprend la conquête de l'Asie Centrale, peuplée par les ethnies turques (Tadjiks, Turkmènes, Ouzbekhs, etc.). Cette avance slave vers le centre de la masse continentale asiatique répond à un désir d'empêcher définitivement les invasions turco-mongoles dont la Russie a eu à souffrir tout au long de notre Moyen Age. Mais en progressant ainsi selon l'axe Aral-Pamir, la poussée russe butera contre les possessions britanniques qui lui barrent la route vers l'Océan Indien. La Russie, en effet, caresse depuis des siècles le désir de posséder des installations portuaires donnant sur une "mer chaude". Les deux impérialismes se rencontreront et s'affronteront (souvent par ethnies locales interposées) en Afghanistan. Le scénario s'est partiellement répété en 1978, quand la thalassocratie américaine, appuyant le Pakistan et les rebelles anti-soviétiques d'Afghanistan, s'opposait à l'URSS, appuyant, elle, sa stratégie sur certaines ethnies afghanes et sur le gouvernement pro-soviétique officiel.


Avec ces événements qui s'étendent sur quelques décennies (de 1830 à 1880), la Russie et l'Angleterre acquièrent une claire conscience des enjeux géopolitique de la région. Le géopoliticien britannique Homer LEA se rend compte que les Indes forment réellement la clef de voûte du système colonial britannique. Il écrivit à ce propos: "Mis à part une attaque directe et une conquête militaire des Iles Britanniques elles-mêmes, la perte des Indes serait le coup le plus mortel pour l'Empire Britannique". Plus tard, il confirmera ce jugement et lui donnera même plus d'emphase, en déclarant que l'Empire constituant un tout indivisible, les Iles Britanniques ne sont plus que quelques îles parmi d'autres et que la masse territoriale la plus importante, le centre du système colonial, ce sont les Indes. Par conséquence, la perte des Indes serait plus grave que la perte des Iles Britanniques.


Les Indes permettaient à l'Empire Britannique de surveiller la Russie qui dominait (et domine toujours) le Heartland -la Terre du Milieu sibérienne- et de contrôler la Heartsea, c'est-à-dire l'Océan du Milieu qui est l'Océan Indien situé entre l'Atlantique et le Pacifique. Le contrôle de "l'Océan du Milieu" permet de contenir la puissance continentale russe dans les limites sibériennes que lui a données l'histoire. La Russie, de son côté, se rend compte que si l'Inde lui échoit par conquête, par alliance ou par hasard, elle contrôlera et la Terre du Milieu et l'Océan du Milieu et qu'elle deviendra ainsi, ipso facto, la première puissance de la planète.


La configuration géographique de l'Afghanistan a permis à ce pays d'échapper à l'annexion pure et simple à l'un des deux Empires. De surcroît, Russes et Anglais avaient intérêt à ce qu'un Etat-tampon subsiste entre leurs possessions. En Perse, le nationalisme local émergera en déployant une double désignation d'ennemis: le Russe qui menace la frontière septentrionale et l'Anglais qui menace le Sud avec sa flotte et le Sud-Est avec son armée des Indes. Ce n'est pas un hasard si le nationalisme perse s'est toujours montré germanophile et si, aujourd'hui, l'intégrisme musulman de Khomeiny se montre également hostile aux Soviétiques et aux Américains qui, eux, ont pris le relais des Anglais.


L'avance allemande vers le Golfe Persique


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Les Anglais percevaient la politique "orientale" de Guillaume II comme une menace envers leur hégémonie dans l'Océan Indien. Cette menace prend corps par la politique de coopération amorcée entre le Reich, qui s'industrialise et concurrence sévèrement l'Angleterre, et l'Empire Ottoman. Les accords militaires et économiques entre l'Empire allemand, né à Versailles en 1871, et le vieil Empire Ottoman, usé par les guerres balkaniques et par les corruptions internes, permettent à l'industrie germanique en pleine expansion d'acquérir des débouchés, en passant outre les protectionnismes français, anglais et américains. La coopération se concrétisera par le projet de construction d'une ligne de chemin de fer reliant Berlin à Constantinople, Constantinople à Bagdad et Bagdad au Golfe Persique. Ce projet, strictement économique, inquiète les Anglais. En effet, l'émergence d'un port dans le Golfe Persique, qui tomberait partiellement sous contrôle allemand, impliquerait la maîtrise par l'axe germano-turc de la péninsule arabique, alors entièrement sous domination ottomane. Les Allemands et les Ottomans perceraient ainsi une "trouée" dans l'arc en plein cintre anglais, reliant l'Afrique australe à Perth en Australie. De plus, un autre point faible de "l'arc", la Perse, hostile aux Russes et aux Anglais, risque de basculer dans le camp germano-turc. Et ce, d'autant plus que la germanophilie faisait des progrès considérables dans ce pays à l'époque. Lord CURZON sera l'homme politique anglais qui mettra tout en œuvre pour torpiller la consolidation d'un système de coopération germano-turco-perse.


Pour les Anglais germanophiles, cette collaboration germano-turque était positive, car, ainsi, l'Allemagne s'intercalait entre l'Empire britannique et la Russie, empêchant du même coup tout choc frontal entre les deux impérialismes. La Turquie, affaiblie, surnommée depuis quelques décennies "l'homme malade de l'Europe", ne risquait plus, une fois sous la protection germanique, de tomber comme un fruit mûr dans le panier de la Russie.


Le contentieux anglo-allemand s'est également porté en Afrique. L'Angleterre échangera ainsi Heligoland en Mer du Nord contre Zanzibar, prouvant par là que l'Océan Indien était plus important à ses yeux que l'Europe. Ce qui corrobore les thèses d'Homer LEA. Lorsqu'éclate la Guerre des Boers en Afrique Australe, l'Angleterre craint que ne se forge une alliance entre les Boers et les Allemands, alliance qui ferait basculer l'ensemble centre-africain et sud-africain hors de sa sphère d'influence. L'hostilité à l'indépendance sud-africaine et à l'indépendance rhodésienne (à partir de 1961 et 1965) dérive de la crainte de voir s'instaurer un ensemble autonome en Afrique australe, qui romperait tous ses liens avec la Couronne et s'instaurerait comme un pôle germano-hollando-anglo-saxon aussi riche et aussi attirant que les Etats-Unis. En 1961 et en 1965, les craintes de l'Angleterre étaient déjà bien inutiles (l'Empire glissait petit à petit dans l'oubli); en revanche, les Etats-Unis ont tout intérêt à ce qu'un tel pôle ne se constitue pas car, pacifié, il attirerait une immigration européenne qui n'irait plus enrichir le Nouveau Monde.


Mais revenons à l'aube du siècle. Offensive, la diplomatie anglaise obligera l'Allemagne à renoncer à construire le chemin de fer irakien au-delà de Basra, localité située à une centaine de kilomètres des rives du Golfe Persique. De surcroît, l'Angleterre impose ses compagnies privées pour l'exploitation des lignes fluviales sur le Tigre et l'Euphrate. L'Allemagne est autorisée à jouer un rôle entre le Bosphore et Basra, mais ce rôle est limité; il est celui d'un "junior partner" à la remorque de la locomotive impériale britannique. L'analogie entre cette politique anglaise d'avant 1914 et celle, actuelle, des Etats-Unis vis-à-vis de l'Europe est similaire.


La règle d'or de la stratégie britannique concernant la rive nord de l'Océan Indien se résume à ceci: l'Allemagne ne doit pas franchir la ligne Port-Saïd/ Téhéran et la Russie ne doit pas s'étendre au-delà de la ligne Téhéran/Kaboul. Cette politique anglaise est une politique de "containment" avant la lettre.


Dominer le sous-continent indien implique de dominer un "triangle" maritime dont les trois sommets sont les Seychelles, l'Ile Maurice et Diego Garcia. Homer LEA a dressé une carte remarquable, nous montrant les lignes de force "géostratégiques" de l'Océan Indien et l'importance de ce "triangle" central. Rien n'a changé depuis et les Américains le savent pertinement bien. La puissance qui deviendra maîtresse des trois sommets de ce triangle dominera toute la "Mer du Milieu", autrement dit l'Océan Indien. Et si, par hasard, c'était l'URSS qui venait à dominer ce "triangle" et à coupler cette domination maritime à la domination continentale qu'elle exerce déjà en Asie Centrale et en Afghanistan, on imagine immédiatement le profit qu'elle pourra en tirer.


"Le danger italien"


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L'Italie devient "dangereuse", aux yeux de l'Angleterre, à partir du moment où elle tente d'entreprendre ou entreprend la conquête de l'Ethiopie. Par cette conquête, elle confère un "hinterland" à sa colonie somalienne et consolide, dans la foulée, sa position sur l'Océan Indien, opérant une percée dans "l'arc" Port Elisabeth/Perth, équivalente à la percée allemande dans le Golfe Persique et dans la Péninsule Arabique. Par ailleurs, la politique italienne de domination de la Méditerrannée menace, en cas de conflit, de couper la "route des Indes", c'est-à-dire la ligne Gibraltar/Suez. Cette éventualité, c'était le cauchemar de l'Angleterre.


La menace japonaise


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Quant au danger japonais, il résultait de l'acquisition, par le Japon, après la première guerre mondiale, de la Micronésie auparavant allemande. Au milieu de cette immense Micronésie, se situait la base de Guam, américaine depuis le conflit de 1898 entre les Etats-Unis et l'Espagne. Entre Guam et les Philippines, également américaines, les Japonais avaient construit la base aéronavale de Palau, proche des avant-postes britanniques de Nouvelle-Guinée et au centre du triangle Guam-Darwin (en Australie)-Singapour. Comme le Japon souhaitait la création d'une vaste zone de co-prospérité asiatique, risquant d'englober l'Indonésie et ses champs pétrolifères susceptibles d'alimenter l'industrie japonaise naissante, les Anglais craignaient à juste titre une "menace jaune" sur l'Australie et la conquête de la façade orientale de l'Océan Indien, moins solidement gardée que la façade afro-arabe.


Mais la menace qui pesait sur l'équilibre impérial britannique ne provenait pas seulement des agissements japonais ou italiens, mais aussi et surtout des mouvements de libération nationale qui s'organisaient dans les pays arabe (et notamment en Egypte) et dans les pays de l'Asie du Sud-Est. Les Anglais savaient très bien que les Allemands (très populaires auprès des Arabes et des Indiens), les Italiens et les Japonais n'auraient pas hésité à soutenir activement les révoltes "anti-impérialistes" voire à s'en servir comme "chevaux de Troie". Et effectivement, pendant la seconde guerre mondiale, Japonais et Allemands ont recruté des légions indiennes ou soutenu des révoltes comme celle des officiers irakiens en 1941.


La géopolitique de Haushofer


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Indépendamment des idées fixes d'Hitler, la géopolitique allemande, impulsée par Karl Ernst HAUSHOFER, esquisse, entre 1920 et 1941, un projet continental eurasien, c'est-à-dire un élargissement du "jus publicum europaeum" à toute le masse continentale eurasienne et africaine. Ce "jus publicum europaeum", défini par le juriste Carl SCHMITT, implique la création d'un espace sur lequel les différends politiques entre les Etats sont atténués selon des règles de courtoisie, éliminant les volontés exterminatrices et posant l'adversaire comme un adversaire temporaire et non un adversaire absolu. La géopolitique de HAUSHOFER comprenait notamment les trois projets suivants:

1) Gestion du Pacifique par le Japon, suivant le principe qu'une zone de co-prospérité économique ne doit jamais être unifiée sous l'égide d'une puissance étrangère à cet espace.

2) Alliance des Européens avec les indépendantistes turcs, iraniens, afghans et indiens, de façon à élargir la zone de sécurité européenne. Avec ce projet naît l'idée d'un axe "alexandrin", partant des Balkans pour s'élancer vers l'Indus et même au-delà. Nous l'appeleront "diagonale", car cette ligne part de l'Islande et traverse en diagonale la masse continentale eurasienne, telle qu'elle se perçoit sur une planisphère à la Mercator.

3) Formation d'un bloc eurasien porté sur trois piliers: l'Allemagne avec son armée de terre et sa flotte, constituée selon les règles de Tirpitz; l'URSS comme gardienne du cœur de la masse continentale; le Japon comme organisateur du Pacifique. Cette triple alliance doit créer une "Doctrine de Monroe" eurasienne, dirigée contre les immixtions américaines en Europe et en Asie.


Pour HAUSHOFER comme pour SCHMITT, ce projet vise la constitution d'un "nomos" eurasien où l'Europe (Russie comprise) pratiquerait une économie de semi-autarcie et d'auto-centrage, selon les critères en vigueur dans l'Empire Britannique. Fédéraliste à l'échelle de la grande masse continentale, ce projet prévoit l'autonomie culturelle des peuples qui y vivent, selon les principes en vigueur en Suisse et en URSS (qui est, ne l'oublions pas, une confédération d'Etats). Même si en URSS, le principe fédéral inscrit dans la constitution et hérité de la pensée de LENINE a connu des entorses déplorables, dont souffre d'ailleurs l'ensemble, surtout sur le plan du développement économique. HAUSHOFER agit ici en conformité avec les désirs de la "Ligue des Peuples Opprimés", constituée en Allemagne et à Bruxelles au début des années 20. HAUSHOFER pratiquait, à son époque, un "tiers-mondisme" réaliste et non misérabiliste, c'est-à-dire réellement anti-colonialiste. Le "tiers-mondisme" des Occidentaux, chrétiens ou laïcs, d'après 1945 cache, derrière un moralisme insipide, la volonté d'imposer aux peuples d'Afrique et d'Asie un statut de néo-colonialisme.


HAUSHOFER se heurtera à HITLER qui souhaite l'alliance anglaise ("Les Anglais sont des Nordiques") et la colonisation de la Biélorussie et de l'Ukraine ("Espace vital pour l'Allemagne"). Ce double choix de HITLER ruine le projet d'alliance avec les indépendantistes arabes et indiens et saborde la "Triplice" eurasienne, avec l'Allemagne, l'URSS et le Japon. Alors que STALINE était un chaleureux partisan de cette solution. C'est dans ces erreurs hitlériennes qu'il faut percevoir les raisons de la défaite allemande de 1945. ROOSEVELT, grand vainqueur de 1945, avait parfaitement saisi la dynamique et cherché à l'enrayer. Il a poursuivi deux buts: abattre l'Allemagne et le Japon, puissances gardiennes des façades océaniques (Atlantique et Pacifique) et éliminer l'autonomie économique du "Commonwealth". Face aux Etats-Unis, il ne resterait alors, espérait Roosevelt, qu'une URSS affaiblie par sa guerre contre l'Allemagne et les divisions de chars de von MANSTEIN.


Le rôle des Etats-Unis dans l'histoire de ce siècle est d'empêcher que ne se constituent des zones de co-prospérité économique. La guerre contre Hitler et la nazisme, la guerre contre le Japon le confirment. Immédiatement après la deuxième guerre mondiale, la guerre froide cherchait à mettre l'URSS à genoux car elle refusait le Plan Marshall, conjointement avec les pays est-européens. Ipso facto, une sphère de co-prospérité est-européenne voyait le jour, ce qui portait ombrage aux Etats-Unis. Face à la CEE, autre sphère économique plus ou moins auto-centrée, l'attitude des Etats-Unis sera ambigüe: elle favorise sa création de façon à rationaliser l'application du Plan Marshall mais s'inquiète régulièrement des tendances "gaullistes" ou "bonaparto-socialistes" (l'expression est de l'économiste britannique Mary KALDOR). Actuellement, la guerre économique bat son plein entre les Etats-Unis et la CEE dans les domaines de l'acier et des denrées agricoles. La nouvelle guerre froide inaugurée par REAGAN vise à empêcher un rapprochement entre Européens de l'Est et Européens de l'Ouest, donc à renouer avec la tradition haushoferienne ou avec une interprétation plus radicale de la Doctrine HARMEL.


Cette synthèse entre l'analyse géopolitique haushoférienne, le gaullisme de gauche et la Doctrine Harmel, nous espérons ardemment qu'elle se réalise pour le salut de nos peuples. Nous voulons une politique d'alliance systématique avec les peuples de la Diagonale, que nous évoquions plus haut. L'Océan Indien doit être libéré de la présence américaine au même titre que l'Europe de l'Ouest, ce qui réduira à néant la psychose de l'encerclement qui sévit en URSS et fera donc renoncer ce pays aux implications désastreuses de l'aventure afghane; ainsi, Moscou pourra s'occuper de son objectif n°1: la rentabilisation de la Sibérie.


Après 1945: le non-alignement


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Après 1945, l'Europe a perdu ce réalisme géopolitique. Le réalisme, dans sa traduction "nationaliste", est en revanche réapparu dans le "Tiers-Monde". Il était l'héritier direct des mouvements qui, aux Indes ou dans le monde arabo-musulman, s'étaient dressés entre 1919 et 1945 contre la tutelle britannique. En 1947, l'Inde acquiert l'indépendance. La clef de voûte du système impérial britannique s'effondre, entraînant le reste à sa suite. En 1949, la victoire de MAO en Chine empêche les Etats-Unis d'organiser la Chine comme un marché/débouché de 700 millions de consommateurs, au profit de l'industrie américaine. L'Indonésie proclame elle aussi son indépendance. En 1952, MOSSADEGH cherche à nationaliser les pétroles anglo-américains d'Iran. En 1954, les populations rurales d'Algérie se révoltent contre l'Etat Français qui s'était servi de leurs meilleurs hommes pour lutter contre l'Allemagne (par ailleurs alliée des Arabes) et n'accordait pas l'égalité des droits entre Musulmans d'une part et Juifs et Chrétiens d'autre part. La même année, NASSER renverse la monarchie corrompue du roitelet FAROUK et annonce son intention de nationaliser le Canal de Suez. En 1955, les non-alignés se réunissent à Bandoeng pour proclamer leur "équi-distance" à l'égard des blocs. A partir de 1960, l'Afrique se dégage des tutelles européennes, pour retomber rapidement sous la férule des multinationales néo-colonialistes. En Amérique Latine, les nationalismes de libération s'affirment, surtout à l'ère péroniste en Argentine. Tous ces mouvements contribuent à venger la défaite de l'Europe et continuent la lutte contre l'idéologie du "One-World" de ROOSEVELT. Même sous l'étiquette communiste comme au Vietnam.


Dans cette lutte globale, que se passera-t-il plus particulièrement dans l'Océan Indien? Le retrait des Britanniques laisse un "vide". Cette crainte du "vide" est le propre des impérialismes. En effet, pourquoi n'y aurait-il pas un "vide" dans l'Océan Indien? Dans l'optique des "super-gros", les vides génèreraient des guerres et la "sécurité internationale" risquerait de s'effondrer s'il n'y a pas arbitrage d'un super-gros. Les Etats riverains de l'Océan Indien ont certes connu des conflits dans la foulée de la décolonisation mais ces conflits n'ont pas l'ampleur d'une guerre mondiale et sont restés limités à leurs cadres finalement restreints. Le risque de voir dégénérer un conflit en cataclysme mondial est bien plus grand quand une super-puissance s'en mêle directement. La meilleure preuve en sont les deux guerres mondiales où l'Empire Britannique exerçait trop de responsabilités politiques et militaires dans l'Océan Indien et ailleurs, sans avoir toutes les ressources humaines et matérielles nécessaires pour une tâche d'une telle ampleur. Toute concurrence, même légitime, toute velléité d'indépendance de la part des peuples colonisés étaient perçues comme "dangereuses". Derrière le mythe éminement "moral" de la sécurité internationale arbitré obligatoirement par Washington ou par Moscou (et finalement plus souvent par Washington que par Moscou) se cache une volonté hégémonique, une volonté de geler toute évolution au profit du duopole issu de Yalta et de Potsdam. Il n'y a "danger" que si l'on considère "sacré" l'ordre économique mondialiste, intolérant à l'égard de toute espèce de zone semi-autarcique auto-centrée, à l'égard de toute zone civilisationnelle imperméable aux discours et aux modes d'Amérique. HAUSHOFER croyait, à l'instar de SCHMITT ou de Julien FREUND, que la conflictualité était une donnée incontournable et que les volontés de biffer cette conflictualité constituaient un refus du devenir du monde, de la mobilité et de l'évolution. Ainsi, sur la base de cette philosophie de la conflictualité, la diversité issue des indépendances nationales acquises par les pays riverains de l'Océan Indien est la seule légitime, même si elle engendre des conflits localisés.


C'est parce qu'ils ne voulaient pas qu'une autre grande puissance prenne le relais des Britanniques que GANDHI et NEHRU proclamaient que la souveraineté était leur but principal. Mais, cette souveraineté indienne, optimalement viable que si les eaux de l'Océan Indien ne sont pas sillonnées par les flottes des super-puissances, s'est revue menacée par l'arrivée, d'abord discrète, des Américains et des Soviétiques. Les Américains s'empareront de Diego Garcia, îlot dont nous avons déjà évoqué l'importance stratégique. Or qui tient Diego Garcia, tient un des sommet du triangle océanique qui assure la maîtrise de la Mer du Milieu. Les USA reprennent ici pleinement le rôle de la thalassocratie britannique. A cette usurpation, les riverains ne pourront opposer qu'une philosophie du désengagement, du non-alignement. Ainsi, l'Ile Maurice, soutenue par l'Inde, revendiquera la pleine possession de Diego Garcia. Le Président malgache Didier RATSIRAKA réduira à 2,5% la part du commerce extérieur de son pays avec les super-gros. Le Président des Seychelles, France-Albert RENE, a pris pour devise: "Commercer beaucoup avec les petits, très peu avec les gros". Les Maldives accorderont une base navale à l'Inde. L'Inde s'est donné l'armement nucléaire pour protéger son non-alignement.


Quelles attitudes prendre en Europe?


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Face à ce courageux indépendantisme des Malgaches, Seychellois et Maldiviens, quelle attitude doit prendre l'Europe? Les choix positifs possibles sont divers.

1. Il y a l'option dite "gaulliste de gauche" qui reste exemplaire même si, en France, l'indépendantisme gaulliste est bel et bien mort. L'écrivain politique qui exprime le mieux cette option est Paul-Marie de la GORCE. Il se réfère au discours prononcé par DE GAULLE à Pnom-Penh en 1966 et estime que la France doit se positionner contre les Empires, aux côtés des peuples opprimés. P.M. de la GORCE rejoint ici l'option de HAUSHOFER et de la Ligue des peuples opprimés. Pour Edmond JOUVE, avocat du dialogue euro-arabe, il faut opposer une philosophie du droit des peuples à la philosophie individualiste et occidentale des droits de l'homme. Ces deux auteurs, situés dans la mouvance du "gaullisme de gauche", doivent nous servir de référence dans l'élaboration de notre géostratégie.


2. Il y a l'option suédoise, portée par Olof PALME, récemment assassiné. La Suède a ainsi préconisé le non-alignement, s'est donné une industrie militaire autonome et s'est faite l'avocate de la création, en Europe, de "zones de Paix". Malheureusement, cette option suédoise, contrairement à l'option gaulliste, a avancé ses pions sous le déguisement de l'idéologie iréniste soixante-huitarde, décriée et démonétisée aujourd'hui. Cette politique poursuivie par PALME doit désormais être analysée au-delà des manifestations de cette idéologie dépassée et finalement fort niaise. Derrière le visage d'un PALME arborant la petite main des One-Worldistes de SOS-Racisme ("Touche pas à mon pote"), il faut reconnaître et analyser sa politique d'indépendance. PALME cherchait des débouchés pour ses industries dans le Tiers-Monde, de manière à assurer leur viabilité parce que d'autres pays européens refusaient de collaborer avec les Suédois. On l'a vu chez nous avec le "marché du siècle" où trois avions étaient en lice pour figurer aux effectifs des aviations néerlandaise, belge, danoise et norvégienne. Un SAAB suédois, un Mirage français et le F-16 américain. C'est bien entendu ce dernier qui a été choisi. Si les Etats scandinaves et bénéluxiens avaient choisi l'appareil suédois, il se serait créé en Europe une industrie autonome d'aéronautique militaire. Aujourd'hui, SAAB ne peut plus concurrencer les firmes américaines qui, grâce à ce contrat, ont pu financer une étape supplémentaire dans l'électronique militaire. Pour sauver les meubles, la Suède a dû pratiquer une fiscalité hyper-lourde qui donne l'occasion aux écœurants adeptes du libéralisme égoïste et anti-politique de dénigrer systématiquement Stockholm. Quand PALME et les Suédois parlaient de "zones de Paix", ils voulaient des zones dégagées de l'emprise soviétique et américaine où les industries intérieures à ces zones collaboreraient entre elles. Pour les Suédois, la Scandinavie ou les Balkans pouvaient constituer pareilles zones. Vu la politique militaire suédoise, ces zones auraient dû logiquement se donner une puissance militaire dissuasive et non végéter dans l'irréalisme pacifiste.


Pour l'Europe: un programme de libération continentale


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Favoriser un changement en Europe, c'est déployer un programme de libération continentale. Il n'y a pas de changement possible sans grand dessein de ce type. La libération de notre continent implique comme premier étape la constitution de zones confédératives comme la Scandinavie (Islande, Norvège, Suède, Danemark, Finlande), les Balkans (Grèce, Yougoslavie, Bulgarie, Roumanie), la Mitteleuropa (Bénélux, RDA, RFA, Pologne, Tchécoslovaquie, Hongrie, Autriche). L'Italie, l'Espagne (avec le Portugal) et la France constituant des espaces suffisamment grands dans l'optique de cette première étape. L'idée d'une confédération scandinave a été l'axe central de la politique suédoise depuis 1944. La découverte d'archives datant de cette année vient de prouver que la Suède comptait mobiliser 550.000 soldats pour libérer le Danemark et la Norvège et pour éviter, par la même occasion, qu'Américains, Britanniques et Soviétiques ne s'emparent de territoires scandinaves. Dans cette optique, la Scandinavie devait rester aux Scandinaves.


Depuis l'économiste NAUMANN, qui rédigea un projet de "Mitteleuropa" en 1916, l'idée d'une confédération de type helvétique s'appliquant aux pays du Bénélux, aux Allemagnes et aux restes de la monarchie austro-hongroise s'était évanouie dans le sillage du Traité de Versailles, des crises économiques (1929) et de la parenthèse hitlérienne. Les Etats du Bénélux avaient préféré se retirer du guêpier centre-européen et opté pour le rapprochement avec les monarchies scandinaves. Albert Ier soutenait le Pacte d'Oslo (1931) et le futur Léopold III épouse une princesse suédoise, Astrid, pour sceller ce projet. Aujourd'hui, en Allemagne, l'idée d'une confédération centre-européenne revient dans les débats. Ce sont le Général e.r. Jochen LöSER et Ulrike SCHILLING qui ont rédigé un premier manifeste, visant en fait à élargir le statut de neutralité de l'Autriche aux deux Allemagnes, à la Hongrie, à la Tchécoslovaquie, à la Pologne et aux Etats du Bénélux. Cette zone assurerait par elle-même sa défense selon le modèle suisse et les théories militaires élaborées par le Général français BROSSOLET, par l'ancien chef d'Etat-Major autrichien Emil SPANOCCHI, par LöSER lui-même et par le polémologue Horst AFHELDT. L'armée serait levée sur place, les communes seraient responsables de la logistique et d'un matériel entreposé aux commissariats de police ou de gendarmerie. Les missiles anti-chars, type MILAN, constitueraient l'armement des fantassins, de même que des missiles anti-aériens, types SAM 7 ou Stinger. Ces troupes, en symbiose avec la population, disposeraient également de chars légers, types Scorpion ou Wiesel (aéroportables). La réorganisation des armées centre-européennes aurait ainsi pour objectif de transformer le cœur géopolitique de notre continent en une forteresse inexpugnable, à lui impulser la stratégie du "hérisson", contre lequel tout adversaire buterait. Cette logique strictement défensive se heurte surtout au refus de Washington et à la mauvaise volonté américaine car la hantise de la Maison Blanche, c'est de voir se reconstituer une Europe semi-autarcique, capable de se passer des importations américaines, agricoles ou industrielles.


Dans les Balkans, les projets de rapprochement ont été sabotés par Moscou dès 1948, lors du schisme "titiste". TITO accepte le Plan Marshall et prône les voies nationales vers le socialisme. Il vise le regroupement des Etats balkaniques en une confédération autonome, calquée sur le modèle du fédéralisme yougoslave. L'URSS craignait surtout l'intervention britannique dans cette zone: c'est ce qui explique son hostilité au titisme. Aujourd'hui, après les incessantes velléités roumaines d'indépendance, Moscou semble prête à assouplir sa position. Washington, en revanche, voit d'un très mauvais oeil la bienveillance de PAPANDREOU à l'endroit du projet de confédération balkanique. D'où la propagande anti-grecque, orchestrée dans les médias occidentaux.


La France a connu la "troisième voie" gaullienne, a mis l'accent sur sa souveraineté. Cette option gaullienne bat de l'aile aujourd'hui. Pour la concrétiser, la France devrait adopter le projet de "parlement des régions et des professions" de certains cercles gaullistes, mode de gestion qui rapprocherait les gouvernés des gouvernants de manière plus directe que l'actuelle partitocratie ("La Bande des Cinq", LE PEN inclu). Ce rapprochement permettrait également d'adopter le système militaire par "maillage du territoire national", préconisé par BROSSOLET ou COPEL. Ce système transformerait le territoire français en une forteresse pareille au "Burg" helvétique. De plus, les jeunes conscrits français effectueraient leur service militaire près de leur domicile et l'ensemble du territoire serait également défendu, en évitant la concentration de troupes en Alsace et en Lorraine. Car pour la France comme pour l'Europe, le danger ne vient plus de l'Est mais de l'Ouest. En prenant acte de cette évidence, la France hérite d'une mission nouvelle: celle d'être la gardienne de la façade atlantique de l'Europe. Sa Marine a un rôle européen capital à jouer. Ses sous-marins nucléaires seront les fers de lance de la civilisation européenne, les épées du nouveau "jus publicum europaeum" contre les menaces culturelles, économiques et militaires venues de Disneyland, de la Silicon Valley, du Corn Belt et du Pentagone. Parallèlement, la France doit reprendre ses projets d'aéroglisseurs et de navires à effet de surface ("NES" et "Jet-foils"). Ces projets ont été honteusement abandonnés, alors que les Américaines et les Soviétiques misent à fond sur ces armes du XXIème siècle. La France déployerait ainsi ses sous-marins et sa flotte et rendrait l'approche de ses côtes impossible grâce à une "cavalerie marine" de NES et d'aéroglisseurs. La figure symbolique du combattant français de demain doit absolument devenir le soldat de la "Royale", le sous-marinier, le cadet de la mer, le fusilier-marin, le "missiliste" des NES. Le théoricien militaire de cette revalorisation du rôle de la marine française est l'Amiral Antoine SANGUINETTI.


Telles sont les prémisses de notre "nouvelle doctrine HARMEL". Une doctrine qui, comme celle qu'avait élaborée le conservateur liégeois dans les années 60, se base sur un concept d'Europe Totale et cherche à détacher les Européens (de l'Est comme de l'Ouest) de leurs tuteurs américains et soviétiques. Cette doctrine préconise le dialogue inter-européen et rejette la logique de la guerre froide. Elle implique, parallèlement, une diplomatie de la main ouverte aux peuples qui veulent, partout sur la planète, conserver leur autonomie et leurs spécificités. En conclusion: la collaboration harmonieuse entre l'Europe et le "Tiers-Monde" passe par l'effondrement du statu quo en Europe. Par la mort de Yalta.


Que faire?

Notre projet de "paix universelle"


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Les hommes et les femmes lucides d'Europe doivent dès aujourd'hui se poser la question de LENINE: que faire? Eh bien, il faut lutter contre le statu quo, puis reprendre la perspective de HAUSHOFER. Il faut viser la libération de la "diagonale", depuis l'Islande jusqu'à la Nouvelle Zélande. Sur cette ligne, devront se créer des zones semi-autarciques auto-centrées, indépendantes de Washington et de Moscou avec, en Afrique: une confédération saharienne (Maroc, Algérie, Tunisie, Libye), avec, en Europe, neuf confédérations se juxtaposant (Iles Britanniques, Scandinavie, Mitteleuropa, France, Ibérie, Italie, Suisse, Balkans, URSS), avec une Turquie libérée de sa sanglante dictature otanesque, un Moyent-Orient soudé selon les principes nasseriens, un Iran stabilisé dans la "troisième voie" qu'il s'est choisie en expulsant son Bokassa de "Shah", un Afghanistan libre de toute tutelle (c'est là notre principal litige avec l'URSS), un Pakistan débarrassé de l'influence américaine (ce qui ne sera possible que si les Soviétiques évacuent l'Afghanistan), une Fédération Indienne dotée de son armement nucléaire, de son arsenal autonome en croissance progressive et son armée magnifiquement disciplinée de plus d'un million de soldats, avec une zone de coprospérité dans l'Océan Indien (Seychelles, Maldives, Maurice, Réunion, Madagascar, Somalie, Yémen), avec, enfin, une zone de co-prospérité australo-néo-zélandaise. Cette dernière zone constitue un souhait de plus en plus répandu en Australie et en Nouvelle-Zélande, où la population n'a nulle envie de troquer la tutelle britannique défunte contre une nouvelle tutelle américaine. Tel est le vœu de David Lang, Premier Ministre néo-zélandais et de la gauche neutraliste australienne. L'éclatement de l'ANZUS (pacte unissant l'Australie, la Nouvelle-Zélande et les Etats-Unis) est souhaitable dans la mesure où il permettrait un développement semi-autarcique des Etats océaniens et la création de nouveaux flux d'échanges, non directement déterminés par les USA. Ces flux d'échanges pourraient éventuellement s'effectuer avec un Pacifique Nord dominé par le Japon et détacher partiellement ainsi l'Empire du Soleil Levant du système économique que lui imposent les Etats-Unis, avec la complicité de NAKASONE.


C'est par le désengagement de la "diagonale" Islande-Nouvelle-Zélande que s'affirmera l'indépendance de l'Eurasie et de l'Afrique, espoir de HAUSHOFER, le seul géopoliticien qui ait, jusqu'ici, pensé le destin de l'Europe avec une clairvoyance aussi audacieuse.


Certes, la réalisation d'un tel programme exigera une longue marche, une très longue marche. Mais l'avenir exige que nous mettions tout en œuvre pour y aboutir. Et si ce n'est pas la clairvoyance haushoferienne qui dictera notre agir, ce sera la cruelle nécessité, née de la misère économique que nous infligera cette guerre économique acharnée que nous livrent les Etats-Unis, épaulés par leurs séides.


Il y a bien sûr des obstacles: les Etats-Unis, l'Etat d'Israël qui, au lieu du dialogue avec ses voisins arabes et avec les Palestiniens, a choisi d'être un pantin aux mains des Américains, la dictature d'EVREN en Turquie (depuis lors remplacée par le "démocratisme musclé" de Turgut ÖZAL, politicien super-obéissant à l'égard des diktats du FMI qui, lui, vise à briser l'autarcie turque et à orienter l'économie du pays vers l'exportation), le verrou indonésien, oublieux du non-alignement de SOEKARNO.


La création d'un "jus publicum eurasium ", notre projet de paix universelle, n'éliminera pas les conflits locaux. Nous ne tomberons pas dans le piège des messianismes pacifistes. Il n'y aura pas de fin de l'histoire, pas de règne de l'utopie. Les conflits locaux subsisteront, mais en risquant moins de dégénérer dans une conflagration universelle. La nouvelle "Doctrine REAGAN", qui prône un soutien aux peuples en révolte contre les amis de l'URSS ("Contras" au Nicaragua, rebelles afghans, Khmers hostiles aux Nord-Vietnamiens), est basée, elle aussi, sur l'idée qu'un monde irénique est une chimère. Pour l'Eurasie, un principe cardinal doit gérer le "jus publicum" que nous envisageons: la non-intervention des USA. A la "Doctrine de Monroe" américaine, il faut rétorquer par une "Doctrine de Monroe" eurasienne et africaine.


Robert STEUCKERS,

mai 1986.



 

mercredi, 17 décembre 2008

100 anos de imperialismo norteamericano

100 anos de imperialismo norteamericano

El accionar del imperialismo en Venezuela, América y el tercer mundo comienza desde el siglo XV cuando fuimos colonizados por los europeos y pasamos a formar parte de la periferia del capitalismo mundial como suministradores de materia prima. A pesar de los procesos de independencia no hay la menor duda de que continuamos en la órbita de dependencia y de neocoloniales con respecto a los principales centros hegemónicos del capitalismo en el siglo XIX, en lo económico con respecto a Inglaterra y en segundo plano con Alemania y en lo político y cultural con respecto a España y en mayor grado con respecto a Francia. Desde los primeros bancos e industrias, pasando por líneas férreas y navieras, empresas de servicio y de comercio eran capitales fundamentalmente ingleses y alemanes. Igualmente los políticos e intelectuales que hicieron posible las nuevas repúblicas lo hicieron trasladando las principales constituciones, formas de gobiernos y universidades provenientes de la Europa Occidental. Pero desde finales del siglo XIX surge el Imperio Norteamericano con su expansión sobre el territorio cubano y puertorriqueño a partir de la guerra con España de 1898. Ya antes, desde apenas la cuarta década del siglo pasado Estado Unidos se había apropiado de buena parte del territorio mexicano.

El término que mejor define la política exterior norteamericana es la agresión, desde su nacimiento como país soberano (1776) ha demostrado una profunda vocación expansionista, evidenciada durante los gobiernos de Tomás Jefferson, pero que tendría una mayor definición en la presidencia de James Monroe con su famosa doctrina “América para los Americanos”, o lo que es mejor decir “América para los norteamericanos”. Si bien el siglo XIX es tiempo de consolidación de la economía norteamericana y de su política interna (guerra de secesión, 1861 - 65), esto no los aisló de su ideal expansionista, que ya se había manifestado sobre Luisiana y la Florida, pero que se profundiza con la anexión de los hasta entonces estados mexicanos de Texas y California (ricos en minerales como el petróleo).

Fue nuestro Simón Bolívar quien con mayor visión se percató de esta agresiva política exterior norteamericana, puesta de manifiesto fundamentalmente en los preparativos del Congreso de Panamá en 1826, con la idea de consolidar la integración de los países recién liberados del dominio español sin involucrar a los EEUU en dicho Congreso. El boicot norteamericano estuvo claramente presente en la derrota de este plan integracionista latinoamericano. En 1829 es aún más clara la percepción de Bolívar sobre el país del norte cuando señalo: “Los Estados Unidos parecen destinados por la providencia a plagar a la América de hambre y miseria en nombre de la libertad” Precisamente la mayor desviación de este proyecto fue la constitución del Panamericanismo en 1890.

Las mayores muestras de agresiones continuas y de carácter brutal por parte del gobierno norteamericano se producen desde 1898 con la guerra contra España, cuando los Estados Unidos se posesionan de los codiciados territorio Cuba, Puerto Rico, Filipinas y Wuam comenzando así su expansión extracontinental, sobre todo su interés en la “apertura” comercial Asiática. Luego vendría la política del “Gran Garrote” de Teodoro Roosvelt (1901 - 1909) y la historia de las invasiones en Cuba, Panamá, Honduras, Haití, Nicaragua, Santo Domingo, separación de Panamá de Colombia, agresiones que solo fueron disminuidas con el crac económico de los años 30. Al tiempo que se producían intervenciones militares, los Estados Unidos habían consolidado su poder económico sobre la zona: el poder del dólar. En aquellos países donde no intervino militarmente (como Venezuela); brindó “apoyo” a los gobiernos que representaban seguridad para sus inversiones.

Tanto la crisis económica de los años 30 como el enfrentamiento al nazifacismo (1933 - 45) hicieron replegar la política intervencionista norteamericana, pero el comienzo de la Guerra Fría permitió a los Estados Unidos consolidar su presencia en regiones hasta entonces inaccesibles, como las zonas petroleras del Medio Oriente. El dominio económico de los Estados Unidos se expande por todo el mundo, sus capitales y compañías levantan a Europa y Asia destruidas por la guerra y penetran en los países subdesarrollados, ya no sólo en los de América Latina. Pero la expansión económica y política norteamericana se vio frenada por el auge del socialismo que dominaba ya no solo en Europa del Este, sino también en la China, Yugoslavia y fue expandiendo su órbita sobre pequeñas naciones que habían sido víctimas de los grandes imperios occidentales.

Al tiempo que los Estados Unidos expandían sus políticas a través de la utilización de organismos internacionales aparentemente neutrales (FMI, BM, OEA, TIAR, OTAN, ONU) que han representado históricamente sus intereses, se inició una política internacional de favorecer a los “gobiernos fuertes” de marcada tendencia anticomunista, manifiesta en el auge de los gobiernos dictatoriales no sólo en América Latina (1948 - 57) sino en el resto del tercer mundo: Invade Guatemala en 1954 y 1965, presiona contra la revolución Boliviana de 1952, así como se involucra en la caída de Perón en Argentina y Vargas en Brasil, de Medina y luego Rómulo Gallegos en Venezuela, interviene en los conflictos de Corea y de Vietnam donde es, por primera vez en su historia, aplastantemente derrotado.

En el Medio Oriente, hasta 1951, en el único país donde los EEUU no tenían participación era Irán, controlado cien por ciento por los ingleses. Después de la Segunda Guerra Mundial, además del debilitamiento inglés, existen otros factores por lo cual el Medio Oriente se convierte en determinante en la política exterior norteamericana; primero, en su política de defensa ante la amenaza de expansión del comunismo, para lo cual se lanza la “Doctrina Truman”, segundo, por la situación de dependencia en la que se coloca EEUU a partir del año en que se convierte en principal importador de petróleo, situación que aumenta el peso de los EEUU, la población de origen judío fue lo que justificó su decidido apoyo a la creación y mantenimiento del Estado de Israel. En pro de estos intereses los EEUU llegaron hasta intervenir militarmente cuando consideraron algún peligro: Así dieron su aprobación al desplazamiento violento de los palestinos de sus territorios, en 1949 intervienen directamente en un golpe de Estado contra Siria y junto a Inglaterra contra el Líbano y Jordania, en 1958, motivados por el miedo a las repercusiones en esos países de la revolución iraquí. Pero su acción militar más importante fue el derrumbamiento de Mossadeh en Irán en 1954, donde la participación de la CIA fue decisiva. En 1955, en el contexto de la guerra fría, Inglaterra y EEUU establecen el acuerdo de Bagdad, acuerdo militar de la región para la “mutua defensa” ante posibles agresiones, era una extensión más de la OTAN, como lo fue el TIAR en América Latina para enfrentar el comunismo y a los movimientos nacionalistas.

Regresando a Latinoamérica, desde 1959 con la revolución cubana surge lo que desde entonces ha sido el obstáculo más grande en la política exterior norteamericana en sus relaciones con la región. El comunismo en su propio continente, en un territorio que al igual que Puerto Rico habían considerado de su dominio natural. Además, junto a la revolución cubana se había producido el auge de los movimientos insubordinados en muchos países de América Latina. Todo esto se producía, además, en el comienzo de una profunda recesión de las economías hegemónicas capitalistas aunado a la crisis energética de los 70, que a su vez generó una profundización de los movimientos nacionalistas y tercermundistas a escala mundial a los que tuvo que enfrentar la “diplomacia” norteamericana. Esta política norteamericana contribuyó, en buena parte, al retorno de las dictaduras cuya agresividad más palpable ocurrió en Chile con la caída del gobierno socialista de Allende. 1979 es un año realmente terrible para la política exterior norteamericana, cuando se producen revoluciones socialistas en Granada y Nicaragua, así como la revolución islámica y la caída del Sha en Irán, país que había sido uno de los principales aliados norteamericano en el Medio Oriente.

Al contrario de lo que muchos ingenuamente pensaban, las guerras y cualquier manifestación de violencia no han sido socavadas después del fin de la guerra fría. Por el contrario hay quienes opinan que existía mayor grado de “estabilidad política” cuando prevalecían los dos grandes bloques del occidente capitalista Vs. el oriente comunista. Hoy hasta quienes celebraron la caída de la Unión Soviética y el auge del proceso globalizador están reflexionando sobre las consecuencias de estos sucesos y sus repercusiones en el mundo actual. Los cambios ocurridos con el derrumbamiento soviético; el fin de la Guerra Fría posibilitó el surgimiento de los Estados Unidos como máxima potencia mundial. Ante el debilitamiento soviético los Estados Unidos intervienen militarmente y derrumban el gobierno socialista de Granada (1987) y luego el derrocamiento del presidente de Panamá Manuel Noriega en 1989, que estaba claramente influido por la resistencia - aun latente- de entregar el canal en 1999 y luego su participación fue evidente en el desplazamiento de los Sandinistas de Nicaragua. Como habíamos señalado en la primera parte, la última intervención militar en América se había producido contra Guatemala en 1965, luego vendría el fracaso aplastante de Vietnam. En estos años la política exterior norteamericana se hiso muy pragmática, salvo en el caso cubano, los intereses políticos pasaron a un segundo plano, a pesar de la permanencia del comunismo en China se silenciaron los ataques contra este país y por el contrario se profundizó las relaciones económicas. En el caso de Rusia no hay la menor duda que la reelección de Yelsin, frente a la amenaza que representaban los comunistas y los ultra nacionalistas, tuvo en el apoyo norteamericano un importante aval. Los Estados Unidos ahora jerarquizan sus intervenciones en aquellas regiones o naciones que representan un significativo interés.

La primera invasión sobre Iraq (1991) se encierra en el contexto que hemos señalado, las agresiones norteamericanas hacia esa nación hubieran sido imposibles con la existencia de la URSS, también sería ingenuo pensar que las mismas tuvieron como causa la defensa de la democracia y la soberanía de Kuwait - que nunca las ha tenido- o la defensa de las minorías étnicas, como los kurdos, cuyo problema, por cierto, fue creado por los propios países occidentales y que hoy no solamente atañen a Irak. Tan ingenuo es convertir a Hussein en un Satán como hacerlo un héroe, eso no es lo que nos debe interesar, pero lo cierto es que es una lucha en extremo desigual que solo pretendía garantizar el control norteamericano sobre el 70% de las reservas petroleras del mundo ubicadas en el Medio Oriente. Los gobiernos de Kuwait y Arabia Saudita e Israel le son ya incondicionales a EEUU pero no así el resto de la región.

La Paz Americana que se quiso imponer en la región, ha sido debilitada fundamentalmente por el antiarabismo de Israel, pero más aún por la profundización de los movimientos nacionalistas y concretamente del fundamentalismo islámico, que amenazan con convertirse en el obstáculo mayor de tan añorada globalización. Las agresiones a Irak, el intento de bloquear a Irán y Libia (Ley de Amato), no son solo medidas coyunturales con intereses electorales, esto va mucho más allá, los Estados Unidos se han percatado del inminente peligro que representa la inestabilidad de esta zona para su futuro. La adversidad de esta región hacia occidente está siendo alimentada tanto por la intolerancia de Israel como la de los EEUU.

En el contexto de una supuesta globalización es la imposición y la intolerancia lo que predomina, para ello los EEUU utilizan a los organismos internacionales, aparentemente “neutrales”, para enmascarar sus propios intereses, como si hubieran sido hechos bajo el consenso de todas las naciones del mundo y para el bienestar general. Se imponen modelos de economías abiertas cuando ellos aplican el proteccionismo, hablan de un mundo entre iguales y de democracias liberales cuando rechazan al inmigrante del sur, intervienen directamente en los problemas internos de otras naciones y apoyan gobiernos dictatoriales pero con economías de mercado.

Así tenemos que frente al tratado de libre comercio con México, su población es cada vez más rechazada en territorio norteamericano. En Colombia, ante una aparente lucha contra las drogas, ha intervenido directamente en la política interna de ese país, cuando todos sabemos que la principal causa del crecimiento del comercio de la droga está en el creciente consumo de los países desarrollados, especialmente el norteamericano. Los EEUU no intervinieron directamente en la desintegración y matanza de los pobladores de la exyugoslavia, cuya desintegración le es más bien favorable, no lo hicieron frente al apartheid sudafricano, en las matanzas en Ruanda, Somalia, tampoco ante las cruentas dictaduras de Pinochet en Chile o la de Corea del Sur, las cuales por el contrario se convirtieron en importantes socios económicos para EEUU.

En relación a Cuba, los EEUU vienen cometiendo - a nuestro modo de ver- sus más grave error (junto a los del Medio Oriente) no solo por la injusta profundización del bloqueo con la Ley Helms - Burton, sino que es tanto la intolerancia demostrada y la prepotencia al tratar de imponer una legislación a todo el mundo, que le ha producido un bumerang político, al ser rechazado a nivel internacional y producir por efectos indirectos un sentimiento de solidaridad hacia la nación cubana, al tiempo que ha despertado sentimientos de aversión hacia el gobierno norteamericano. Igualmente esta ocurriendo con las continuas agresiones hacia Irak, que han producido todo tipo de reacción adversa.

En 1997, luego de una profunda indiferencia en su primer periodo gubernamental el presidente Clinton realizó una visita a Latinoamérica para tratar de reconquistar espacios perdidos, no solamente en nuestro continente sino en todo el mundo la política exterior norteamericana manifiesta preocupación por el avance geopolítico de Europa (especialmente Francia) y la expansión económica de Asia. Concretamente en Venezuela llego a bendecir la política económica de Caldera y Teodoro Petkoff de “La Agenda Venezuela “y sobretodo la plena apertura (mejor decir entrega) petrolera.

El gobierno de George Bush ha sido de los más violentos y agresivos en su política exterior y mayor expresión de frustración al tratar de imponer su política hegemónica al resto del mundo. A partir de los ataques del 11 de septiembre del 2001, esta lamentable y condenable acción sirvió como pretexto para arremeter una política armamentista contra todos los posibles enemigos, rivales o elementos que causen molestias al gobierno norteamericano y sus principales aliados. En efecto, días después de la tragedia George Bush, sin haber demostrado las pruebas de responsabilidad de Bin Laden y al-qaeda en dichos actos, publicó una lista de supuestos cómplices y de los países “propulsores del mal”, donde lógicamente no podían dejar de aparecer los tradicionales enemigos: Kadafy en Libia, los fundamentalistas de Irán, los palestinos, Hussein en Irak, Fidel en Cuba y las FARC de Colombia, entre otros. Así mismo, inmediatamente salieron otros países como el caso de Inglaterra, España e Israel a apoyar esta iniciativa, dando su respaldo a que en la misma lista estuvieran los irlandeses de IRA, la ETA española y los palestinos de Hamas. Como se puede percibir ya el enemigo no tiene cara comunista, ya no es la Unión Soviética ni la Europa del Este, el enemigo cada vez se parece más a los países pobres del Tercer Mundo. Como bien lo dijo el exsecretario general de las Naciones Unidas, Boutros Ghali (cuya posición le costó la reelección) después de la caída del Muro de Berlín; se desdibujaba la frontera entre el este y el oeste pero surgía otra mas profunda entre el norte y el sur.

En lo inmediato pudimos presenciar la declaración de una guerra hacia un país, Afganistán, a cuyo gobierno -talibanes- se acuso de ser protectores de la organización al-qaeda liderizada por Osama Bin Laden, al cual se atañe la responsabilidad de los sucesos del once de septiembre, luego vino la invasión a Irak. En el 2003 la invasión a Irak, bajo el pretexto del incumplimiento de la disminución armamentista y el impedir la vigilancia permanente de la ONU, es la continuación de la guerra iniciada en 1991 por George Bush padre, quien por temor a causar una guerra civil en Irak no logró el objetivo final de liquidar al incomodo mandatario Iraquí. Tampoco tenemos la menor duda en señalar que si no fuera ese país uno de los principales productores de petróleo del mundo y la región del Medio Oriente poseedora del 80 % de las reservas mundiales, el interés no sería el mismo, nadie hablaría de democracia ni de fundamentalismo, lo mismo que ocurrió con países como Somalia y Ruanda cuya espantosa guerra para nada interesó a las grandes potencias del mundo. También estamos conscientes de que el problema no es solo petrolero, que ya es bastante, sino que se le teme al liderazgo que este país junto a Irán ejerce en la región, tanto en el mundo árabe como en la religión islámica, que se han convertido en el mas fuerte rival cultural y político; obstáculo para la expansión económica en esta importante región.

Pero la guerra contra Irak y todos los supuestos terroristas mundiales no solo sirven para sacar del camino los viejos enemigos, a los estorbos del mundo, sino que además representa un excelente negocio para quienes viven de la guerra, fundamentalmente los países desarrollados que son los principales productores armamentista del mundo, quienes venden unos 750 mil millones de dólares en este sector, y que son a su vez los mayores violadores de los acuerdos de disminución de armamentos. También la guerra sirve para obviar la preocupación de los ciudadanos norteamericanos (quienes en su mayoría rechazan esta contienda) de los graves problemas económicos del país y la poca popularidad de Bush. Así mismo, Bush hijo, salvo heredar la agresividad republicana de su padre, ha demostrado desde la campaña electoral (que por votos perdió ante Al Gore, pero que sin embargo la naturaleza de la democracia norteamericana le dio el triunfo.) es un desconocedor de la realidad mundial. El intelectual mexicano Carlos Fuentes, uno de los más brillantes de América Latina, lo ha acusado en varias oportunidades de “Ignorante y estúpido”.

Contrariamente al discurso de campaña Bush , quien dijo en el 2000 que América Latina sería “un compromiso fundamental de su presidencia”, y de su proclamación junto con otros líderes hemisféricos en abril del 2001 de que éste era “el siglo de las Américas”, su gobierno no hizo nada o muy poco por enmendar errores del pasado y mucho menos cumplir con las promesas de anteriores mandatarios, como lo de condonar parte de la deuda externa, dar trato preferencial a nuestros productos. Por el contrario después de los sucesos de septiembre del 2001 centró sus intereses en el Medio Oriente y hacia Latinoamérica apuntalo solo hacia profundizar sus ataques a Cuba, incentivar el Plan Colombia contra los movimientos insurgentes y crear mayores obstáculos a la migración latina, caso dantesco con el nuevo muro entre ese país y México.

Es ahora cuando percibe como-a diferencia de lo que se pensaba hace apenas pocos años- la población latinoamericana rechaza cada vez más la política unipolar y hegemónica de los EE.UU., y ha castigado en rebeldía y en las urnas electorales los gobiernos lacayos del imperialismo. Al contrario de lo que se pensaba, después del derrumbe soviético, América latina se ha convertido en escenario fundamental de nuevos proyectos políticos y económicos, frente al neoliberalismo impulsado principalmente por la potencia del Norte.

En América latina se debate libre y plenamente sobre la posibilidad de un nuevo orden social para la región y el mundo. Cuba ya no es la excepción, Nicaragua, Ecuador, Bolivia, Venezuela, apuestan francamente contra el capitalismo y en pro del socialismo. Pero en Brasil, Argentina, Chile, Uruguay, Perú, México, Guatemala y en casi toda la región pueblos enteros han demostrado que no son simples minorías, y que a pesar de lo moderado de sus gobiernos, los pueblos rechazan el imperialismo y buscan otros caminos en su proceso de liberación. Bush en un intento desesperado de obstaculizar los avances de Venezuela y de la revolución latinoamericana realizó en el 2007 una visita a cinco naciones (Brasil, Uruguay, Colombia, Guatemala y México) entre el 8 y el 14 de marzo, pero nada consiguió, aunque ofreció acuerdos económicos que satisfagan a las oligarquías y a los lacayos políticos este proceso es irreversible no solo en América sino en el mundo entero, guste o no el capitalismo y su manifestación imperialista tiene el tiempo contado, ya no será posible con bayonetas acallar a los pueblos, ni invadiendo a todo el mundo podrán detener el camino que los pueblos se han trazado: un mundo mas humano, un mundo sin dueños, un mundo de todos.

Pedro Rodríguez Rojas

Extraído de Rebelión a través de la LBN

samedi, 13 décembre 2008

Déchiffrer les intentions d'Obama dans le sous-continent indien

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Déchiffrer les intentions d’Obama dans le sous-continent indien

Réflexions après l’entretien accordé au « Spiegel » par Bruce Riedel

Bruce Riedel, 55 ans, est un ancien de la CIA, expert ès-questions islamistes. Il vient d’être nommé conseiller de Barack Obama. Dans un ouvrage récent, intitulé « The Search for Al Qaeda », paru chez un éditeur prestigieux, Brookings Institution Press à Washington, il avait prévu un attentat islamiste de grande ampleur en Inde, suivi d’un risque très élevé de confrontation entre les deux puissances atomiques du sous-continent indien, avec, bien entendu, le risque d’un usage militaire du nucléaire pour la première fois depuis Hiroshima et Nagasaki.

Après les attentats de Bombay/Mumbai, qui ressemblent curieusement au scénario évoqué par Riedel dans son ouvrage, les soupçons de la police indienne se portent sur un mouvement islamiste indo-pakistanais, le Lashkar-i-Toiba (LiT), dont l’objectif a toujours été de susciter la crise entre l’Inde et le Pakistan, afin de récupérer pour l’Oumma musulmane le Cachemire et, à terme, la vallée du Gange où vivent la plupart des 120 millions de musulmans d’Inde. Aujourd’hui, le LiT rejette la politique d’apaisement du nouveau président pakistanais Asif Ali Zardari, veuf de Benazir Bhutto. Cette politique de Zardari, couplée à celle du Parti du Congrès au pouvoir en Inde, semblait marquer des points et aider à conjurer l’éventualité d’un conflit. C’est, explique Bruce Riedel dans l’entretien qu’il vient d’accorder au « Spiegel », sans compter sur ceux qui, au Pakistan, vivent de la confrontation entre les deux pays. Les attentats de Bombay/Mumbai ont tenté de torpiller le rapprochement et de viser le cœur de la vie économique indienne. Pour Bruce Riedel, l’offensive anti-indienne du LiT repose, en coulisses, sur une alliance ancienne, datant de la dernière décennie de la Guerre Froide, entre Ben Laden et l’ISI, le service secret pakistanais. Cette alliance avait reçu l’aval des Américains afin de bloquer toute avancée soviétique en direction du sous-continent, selon les recettes héritées de la politique britannique dans la région au cours du 19ème siècle. Les Américains avaient délibérément tablé sur l’islamisme, à l’époque, pour clouer les Soviétiques en Afghanistan, leur infliger une guerre d’usure selon les tactiques dites « lawrenciennes » de harcèlement par partisans tribaux. Une fois le danger soviétique éliminé, le tandem Ben Laden/ISI n’a pas décidé de déposer les armes mais de se retourner contre l’Inde, fort de ses expériences afghanes. L’offensive talibano-pakistanaise visait essentiellement la reconquête totale du Cachemire au bénéfice de l’Oumma. Les islamistes considèrent, en effet, que le Cachemire est une deuxième Palestine occupée non pas par les tenants de l’idéologie sioniste mais par l’ennemi hindou.

Dans ce contexte explosif, qui brouille les repères établis en Afghanistan au temps de la Guerre Froide, les Américains ne parviennent pas à savoir clairement si l’ISI pakistanais coopère encore avec des éléments du LiT ou d’Al Qaeda. Officiellement, Musharraf, le prédécesseur de Zardari, avait rompu les liens entre ses services secrets et les talibans.  Riedel avoue que les Etats-Unis ont fabriqué un « monstre », dont ils ne sont plus les maîtres. Un monstre qui se réfugie aujourd’hui dans la « zone tribale », en lisière d’une frontière afghane finalement fort mal définie et tout à fait poreuse. Personne n’a jamais vraiment pu contrôler cette « zone tribale » ou « Waziristan » : ni les Britanniques jadis (on se souviendra du film « L’Homme qui voulait être Roi » avec Sean Connery et d’après une nouvelle de Kipling) ni les Pakistanais depuis 1947. Cette zone échappe à toutes les autorités.

Pire, constate Riedel, et son aveu est de taille, les 800.000 citoyens britanniques d’origine pakistanaise constituent un vivier très intéressant pour le LiT et Al Qaeda, car le passeport britannique ouvre toutes les portes. Et quid des centaines de milliers d’autres ressortissants de pays susceptibles de tomber dans les séductions de l’islamisme radical ? On se souviendra que l’un des assassins du Commandant Ahmed Shah Massoud avait, lui, un passeport belge.

Bruce Riedel est donc l’un des hommes qui va faire la politique que l’histoire attribuera à Obama.  Celui-ci a annoncé qu’il préférera mettre le « paquet » sur l’Afghanistan plutôt que sur l’Irak. Il doit donc créer une situation d’urgence et de terreur en marge du territoire afghan et tenter d’éliminer le facteur trouble et ambigu qu’est l’ISI, un acteur sur la scène de l’Hindu Kush qui a toujours joué sur deux tableaux, rendant ainsi la situation ingérable pour les Etats-Unis et plongeant l’Afghanistan dans un cortège de misères que ce pays splendide n’a certes pas mérité.

Dans son entretien accordé au « Spiegel », Riedel noircit le tableau à l’extrême et sans nul doute à dessein : il annonce le risque d’un nouveau 11 septembre, des attentats à l’arme biologique ou nucléaire, etc. Les Américains craignent qu’une partie du savoir technologique nucléaire du Pakistan ne tombe aux mains d’organisations terroristes. Riedel marque dès lors son accord avec la politique de Bush, prouvant par cette affirmation que la politique d’Obama ne sera pas une rupture mais une continuité dans le déploiement du bellicisme américain, les démocrates ayant été plus souvent, au cours de l’histoire, fauteurs de guerres et de carnages que les Républicains. La politique suggérée par Bush, dans la région et plus particulièrement dans la « zone tribale », était d’attaquer avec l’appui des drones « Predator » de l’US Air Force et des « troupes spéciales ». La seule différence, c’est que l’Administration Obama se montrera plus  diplomatique puisque le monde entier, et surtout les Européens de l’Axe Paris/Berlin/Moscou, avait reproché à l’équipe sortante de fouler aux pieds les principes traditionnels de la diplomatie. En l’occurrence, les Démocrates feront mine de respecter davantage la souveraineté pakistanaise dans la zone car, en fin de compte, seul l’Etat pakistanais sera en mesure d’y restaurer l’ordre.

Quand la journaliste du « Spiegel » Cordula Meyer lui demande si la paix au Cachemire comme en Palestine ne serait pas la meilleure garantie d’une disparition à terme d’Al Qaeda, Bruce Riedel répond qu’effectivement, dans ce cas, les masses musulmanes ne montreraient plus guère d’intérêt pour l’islamisme radical qui bascule parfois dans le terrorisme. Le vivier de celui-ci serait définitivement asséché. Mais nous n’en sommes pas encore là… Riedel annonce, dans cette perspective, que le Proche Orient bénéficiera d’une priorité dans la diplomatie américaine. Reste à attendre ce que cette nouvelle diplomatie donnera comme résultats… Riedel annonce également le projet d’un « Plan Marshall » pour l’Afghanistan et le Pakistan car la misère qui règne dans ces deux pays entraine les masses dans le radicalisme comme elle aurait pu entrainer en Europe la renaissance d’un européisme national-socialiste ou fasciste voire une alliance de ce socialisme et de cet anti-impérialisme des « havenots » avec le communisme stalinien qu’il avait pourtant combattu (voir les derniers articles de Drieu la Rochelle et de son jeune disciple wallon, speaker à la radio des émigrés du Hanovre, Valère Doppagne).

Et à quoi devrait servir ce « Plan Marshall » en priorité ? A construire des routes, affirme Riedel. Car sans un réseau routier, il n’y a pas d’agriculture possible à grande échelle, autre que la seule richesse de l’Afghanistan actuel, l’héroïne. La boucle routière afghane n’est même plus accessible partout et l’Administration Obama retient les griefs des commandants de l’OTAN en Afghanistan : les aires contrôlées par les talibans commencent justement là où il n’y a plus de routes.

L’entretien accordé par Riedel au « Spiegel » montre bien quelle est la différence d’intention entre Bush et Obama : le plan visant à créer des infrastructures routières en Afghanistan ne date pas d’hier ; l’administration néo-conservatrice ne l’avait pas retenu, préférant mettre toute la gomme sur l’Irak et ses pétroles. L’analyse des militaires et de la nouvelle administration est juste : les routes afghanes n’ont été refaites ni après le départ de l’Armée Rouge ni après l’entrée des troupes de l’OTAN à Kaboul, négligence qui précipite le pays dans un chaos structurel et dans le désordre total. La volonté de doter le pays d’une infrastructure routière participe d’une logique plus impériale que celle, volontairement génératrice de chaos, des néo-conservateurs, qui entendaient naguère se poser uniquement comme policiers du monde, en ne se préoccupant pas de structurer les régions conquises, contrôlées et neutralisées. Mais on ne contrôle pas sur le long terme sans structurer : la leçon de Rome, empire des routes, est là pour nous le rappeler. Pourtant, Brzezinski, cet ancien conseiller de Carter et de Clinton qui revient en coulisses, avait préconisé la stratégie « mongole » : détruire et ne pas reconstruire de crainte qu’un empire concurrent et surtout durable ne s’installe en Asie centrale, en cas de retrait ou de ressac américain. En effet, que se passerait-il si une puissance tierce, perse, indienne ou russe arrivait ou revenait dans un Afghanistan structuré avec l’argent du contribuable américain ?

Enfin, pour pacifier définitivement l’Afghanistan et gagner la guerre entamée là-bas il y a sept ans, il faut disloquer l’alliance implicite et tacite entre l’Etat pakistanais et les djihadistes du Pakistan. Quelle solution préconise Riedel ? Parier sur la « démocratie pakistanaise »,  soit sur Zardari et épauler ce pari par le nouveau « Plan Marshall » (mais y aura-t-il encore assez d’argent ?). Le pays a déjà reçu 11 milliards de dollars d’aide américaine. Les Démocrates, dont le futur vice-président Joe Biden, suggèrent au moins de tripler le budget et de l’amener, dans un premier temps, à 1,5 milliard chaque année, pour que le Pakistan ne devienne pas un « Etat failli » (voir la définition qu’en donne Noam Chomsky) comme la Somalie ou le Liban. Notre question : est-ce possible ? Riedel ajoute que la préoccupation de la nouvelle administration démocrate est le Pakistan parce que celui-ci dispose d’au moins soixante têtes nucléaires et que celles-ci ne peuvent pas tomber entre n’importe quelles mains.

Enfin, à la question de la journaliste qui lui demandait pourquoi les Américains n’avaient pas encore attrapé Ben Laden, Riedel répond cette fable à laquelle seuls les naïfs croiront : les Américains n’ont pas encore trouvé Ben Laden parce que les ressources pour la chasse à l’homme ne sont plus disponibles depuis 2002 et qu’il s’avère dès lors difficile de reprendre l’enquête… Avec « Google Earth » vous pouvez déjà inspecter votre propre maison et la plupart des polices urbaines disposent de micros ultra-sensibles pour épier n’importe quelle conversation à travers les murs d’un immeuble, mais les services secrets de la plus grande puissance de tous les temps seraient incapables de trouver un fugitif, fût-ce au fin fond des montagnes et des vallées du Waziristan… A moins qu’on ne veuille pas l’entendre témoigner sur la collusion entre son réseau, la pétro-monarchie saoudienne, les pétroliers texans, l’ISI et les services américains…

Pour les européistes lucides :

-        considérer que l’Afghanistan appartient en fait aux zones d’influence russe et persane et non pas à des « raumfremde Mächte »;

-        que l’Inde doit être liée à la Russie et à l’Europe par une bande territoriale sécurisée, incluant l’ensemble du Cachemire/Jammu, de façon à souder un ensemble eurasien non lié à l’islam et/ou à un quelconque impérialisme thalassocratique ;

-        que l’Afghanistan mérite certes une bonne infrastructure routière mais que celle-ci ne doit pas seulement venir de fonds américains ;

-        que les démocrates ne sont pas des pacifistes et que cette volonté de structurer l’Afghanistan participe du grand plan impérialiste du « Greater Middle East », correspondant peu ou prou au territoire de l’USCENTCOM ; structurer l’Afghanistan sert surtout à dominer un territoire surplombant les régions voisines que sont l’Iran, l’Asie centrale, le Pakistan et, de là, la vallée du Gange, selon la direction géopolitique qu’avaient jadis empruntée les conquérants afghans et islamisés de l’Inde ; le fait de vouloir doter l’Afghanistan de bonnes routes ne dérive donc pas d’un humanisme qui prendrait les Afghans sous sa douce aile protectrice ni du désir ardent de leur apporter une belle démocratie eudémoniste, elle vient d’une volonté de dominer la région pour longtemps, d’y ancrer les bases nécessaires à une installation de très longue durée ;

-        que l’alliance entre l’islam sunnite et les Etats-Unis existe toujours, mais qu’il a pris d’autres formes depuis le 11 septembre 2001 ;

-        que les services américains, sous la nouvelle égide des démocrates, ne trouveront pas davantage Ben Laden que leurs homologues républicains et néo-conservateurs (et pour cause…), car l’alliance islamistes/USA date précisément du temps de l’administration démocrate de Carter, dont l’un des conseillers était Brzezinski, pour qui tous les moyens étaient bons pour chasser la Russie de l’Asie centrale ;

-        que les attentats de Bombay/Mumbai devront être interprétés plus tard comme des machinations ourdies probablement par des forces tierces, dans un but de déstabilisation de la région et/ou de manipulation médiatique en vue d’avancer des pions sur l’échiquier afghan, dans l’Océan Indien ou dans la périphérie birmane ou thaï du sous-continent indien, voire dans l’Himalaya ;

-        que l’Inde a intérêt, comme le souhaitent le BJP et le RSS, à ne pas demeurer une « société composite », c’est-à-dire une société à diverses composantes généralement antagonistes, car toutes les sociétés de ce type sont vouées au « dissensus » civil permanent, au déclin, à l’inefficacité et à la misère ;

-        que les attentats de Bombay/Mumbai visaient peut-être à écarter le BJP du pouvoir et à préconiser une politique d’apaisement reposant sur Zardari au Pakistan et sur le parti du Congrès en Inde et que l’éventualité d’un retour aux affaires du BJP contrarierait l’éclosion lente et graduelle du « Greater Middle East » dont l’Inde n’est pas appelée à faire partie ; que tout retour du BJP aux affaires entrainerait le déplacement vers la frontière indienne de 120.000 soldats pakistanais actuellement en poste face à la « zone tribale », où les Américains ou l’OTAN devraient aller les remplacer, sans connaître le terrain ; que le projet de créer un « Greater Middle East » se verrait retardé en cas de nouveau conflit indo-pakistanais ;

-        que les Etats-Unis d’Obama éprouveront bien des difficultés à calmer le vieux et lourd contentieux indo-pakistanais et que ces difficultés doivent nous inciter à proposer une solution euro-russe pour le sous-continent indien.

 

(Source : « Das Auge des Sturms », Entretien avec Bruce Riedel, propos recueillis par Cordula Meyer, « Der Spiegel », n°50/2008 ; résumé et commentaires de Robert Steuckers).  

 

 

mardi, 09 décembre 2008

Nouveaux textes sur "Theatrum Belli"

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Bonjour,

Veuillez trouver ci-dessous les dernières publications du blog THEATRUM BELLI (http://www.theatrum-belli.com/).


Armée française : professionalisation et autorité

Les armées ont changé, et c'est un paradoxe, pour une institution dont la pérennité est garantie par des logiques d'action prévisibles et continues. La professionnalisation des armées françaises, intervenue en 1996, offre une occasion de s'interroger sur les processus de transformation des institutions publiques et d'étudier les rapports à l'autorité dans une institution où la hiérarchie...

Cette note a été publiée le 07 décembre 2008

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L'armée libanaise sera équipée d'armes russes

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Cette note a été publiée le 07 décembre 2008

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Les armes de la puissance (1/3)

La guerre apparaît comme le moyen le plus simple d'imposer sa volonté, d'étendre son pouvoir et d'augmenter sa richesse. Dès lors elle entretient avec l'économie des relations anciennes. Chez certains peuples elle faisait même figure d'activité majeure, nomades du désert razziant les agriculteurs sédentaires ou « barbares » à la recherche de butin et de terres. Dans nos siècles...

Cette note a été publiée le 07 décembre 2008

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Les armes de la puissance (2/3)

II. LA GUERRE POUR ET PAR L'ÉCONOMIE Les évolutions de la guerre expliquent qu'elle réclame une mobilisation économique massive. Elles expliquent aussi que l'économie devient en même temps un but et une arme de guerre.   1. L'économie constitue un but de guerre de plus en plus important Déjà présents lors des conflits entre Athènes et Sparte, Napoléon et le...

Cette note a été publiée le 07 décembre 2008

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Les armes de la puissance (3/3)

III. LA FIN DE LA GUERRE ? Pour de multiples raisons, le XXe siècle a pu espérer en une fin de la guerre. Cet espoir a pourtant été déçu.   1. La puissance de destruction des armes modernes interdiraient de s'en servir Les gaz de combat n'ont pas été utilisés par les principaux belligérants pendant la Seconde Guerre mondiale, chacun craignant les représailles...

Cette note a été publiée le 07 décembre 2008

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Ceci est mon bouclier

 

Cette note a été publiée le 06 décembre 2008

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Décès du colonel Jean Deuve, résistant et spécialiste du renseignement

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Cette note a été publiée le 06 décembre 2008

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Un navire de guerre russe dans le Canal de Panama

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Cette note a été publiée le 06 décembre 2008

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Renforts en Afghanistan

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Cette note a été publiée le 06 décembre 2008

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Arthur, Roi des Bretons (1/5)

 

Cette note a été publiée le 05 décembre 2008

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Le crash pétrolier (1/5)

 

Cette note a été publiée le 05 décembre 2008

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L'Allemagne met en place son propre système de satellites espions

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Cette note a été publiée le 05 décembre 2008

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Le Pentagone officialise l'importance donnée à la "guerre irrégulière"

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Cette note a été publiée le 05 décembre 2008

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Lawrence d'Arabie - 1962 - (1/11)

 

Cette note a été publiée le 04 décembre 2008

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La réforme de l'armée russe exaspère les militaires

Réduction des effectifs, refonte de la chaîne de commandement, ventes de terrains et d'immeubles, fermetures des instituts et des académies : la réforme de l'armée dévoilée le 14 octobre par le ministre russe de la défense, Anatoli Serdioukov, est à l'origine d'une vague de mécontentement chez les gradés. "Je le vois bien autour de moi, les officiers ont une dent contre le pouvoir en...

Cette note a été publiée le 04 décembre 2008

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EADS remporte un contrat de 208 millions de dollars de l'armée américaine

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Cette note a été publiée le 03 décembre 2008

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Les bombes à sous-munitions mises hors la loi à Oslo

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Cette note a été publiée le 03 décembre 2008

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Royaume-Uni : Les mouvements terroristes recrutent

Selon plusieurs sources, des citoyens britanniques d'origine pakistanaise auraient participé aux attentats de Bombay. Une information qui confirme l'implication de jeunes Anglais dans des attaques menées de l'Afghanistan à la Somalie. Selon certaines agences du renseignement, plus de 4.000 citoyens britanniques seraient passés par des camps d'entraînement terroristes en...

Cette note a été publiée le 03 décembre 2008

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Armes, trafic et raison d'État (1/6)

 

Cette note a été publiée le 02 décembre 2008

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La France va renforcer sa présence en Afghanistan

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Cette note a été publiée le 02 décembre 2008

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Bien cordialement,

L'équipe Hautetfort
http://www.hautetfort.com/

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mercredi, 19 novembre 2008

Après Bush: pourquoi l'Amérique ne changera pas

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Présentation de l'éditeur

George W. Bush s'en va. L'ère " W. " s'achève sur un sentiment d'échec. Sur le plan intérieur, le malaise économique est croissant : défaillance du système de sécurité sociale, décrochage des salaires et angoisse face à la mondialisation... Sur la scène internationale, empêtrés dans le bourbier irakien et rejetés par l'opinion mondiale, les Américains doivent restaurer la légitimité de leur leadership. Pourtant, qui peut nier que George W. Bush aura incarné un esprit américain ? On ne peut comprendre l'Amérique sans plonger dans l'âme du Sud, terre à la fois meurtrie, têtue et changeante. La présidence Bush fut le reflet fidèle d'une Amérique profonde, conservatrice, et sincèrement religieuse, d'une Amérique qui ne doute pas. Forever America. " W. " s'en va mais la guerre contre la terreur continue. En 2009, les candidats à la succession, Barack Obama le fils prodigue et John McCain le républicain rebelle, marqueront-ils le début d'une refondation ? Rien n'est moins sûr...

Biographie de l'auteur
Spécialiste des Etats-Unis et rédacteur en chef de la revue Politique américaine, Yannick Mireur est docteur en relations internationales de la Fletcher School of Law and Diplomacy de Boston.

  • Broché: 256 pages
  • Editeur : Choiseul (30 août 2008)
  • Collection : CHOISEUL EDITIO
  • Langue : Français
  • ISBN-10: 2916722300
  • ISBN-13: 978-2916722306

lundi, 27 octobre 2008

Les Etats-Unis, puissance du chaos

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ARCHIVES DE "SYNERGIES EUROPEENNES" - 1993

LES ETATS-UNIS, PUISSANCE DU CHAOS

 

Les analystes ont abondamment commenté le nouvel épisode de la vendetta menée par la Présidence des Etats-Unis à l'encontre de Saddam Hussein. Les troupes irakiennes ont en effet appuyé l'offensive du PDK (Parti Démocratique du Kurdistan) de Massoud Barzani sur Erbil, jusqu'alors aux mains de l'UPK (Union Patriotique du Kurdistan) de Jalal Talabani. Bagdad entendait ainsi, via son allié kurde, assurer la sécurité de l'oléoduc débouchant en Turquie —l'hypothétique mise en oeuvre de la résolution 986 de l'ONU, dite "pétrole contre nourriture", permettrait à l'Irak de redevenir un exportateur d'hydrocarbures— , et réaffirmer sa souveraineté sur la partie irakienne du Kurdistan.

 

Cet épisode est une des conséquences de la guerre du Golfe (1990-1991). L'opération “Tempête du Désert” conduite par les Etats-Unis ayant pris fin une fois l'Irak ramené à 40% de ses capacités, Bagdad s'était alors retourné contre les minorités chiites du Sud et kurdes du Nord, dont les tendances centrifuges avaient été soigneusement attisées par Washington. Aussi les zones de peuplement kurde et chiite, au nord du 36° parallèle et au sud du 32° parallèle avaient-elles été interdites à l'aviation irakienne, une force américano-franco-britannique assurant l'effectivit de cette mesure (résolution de l'ONU d'avril 1991 et août 1992). C'est pour faire respecter ces résolutions, qui ne concernent pas les actions militaires terrestres, que les Etats-Unis ont unilatéralement riposté à l'offensive sur Erbil, au nord du 36° parallèle: vingt-sept missiles de croisière le 3 septembre, dix-sept autres le lendemain, ont frappé le Sud de l'Irak. Ce qui n'a en rien modifié l'équation militaire au Kurdistan, le PDK mettant à profit son alliance avec le pouvoir central pour refouler l'UPK. Son dernier bastion, la ville de Souleimaniyé, est tombé le 9 septembre et Jalal Talabani s'est réfugié en Iran. Saddam Hussein peut maintenant rafler la mise.

 

Restent à interpréter ces évènements. A juste titre, les analystes ont stigmatisé l'incohérence et les contradictions de la politique des Etats-Unis dans la région. D'une part, le Département d'Etat affirme que les EtatsUnis ne souhaitent pas le démembrement de l'Irak au profit d'un Etat kurde indépendant. D'autre part, la création d'une enclave kurde autonome par la diplomatie américaine revenait bel et bien à créer un embryon d'Etat doté d'un parlement élu en 1992, d'une administration, de services publics et d'une milice (1). Ce Kurdistan autonome assurait à l'opposition irakienne, regroupée tant bien que mal par les Etats-Unis au sein du Conseil national irakien, une base géographique pour la conquête du pouvoir central. Aujourd'hui, cette illusion a vécu c'est en vain que l'administration Clinton et la CIA auront investi 130 millions de dollars -, et les derniers rebondissements d'une longue lutte entre le PDK et l'UPK ont démontré l'inexistence d'une conscience nationale kurde. Indubitablement, l'opération est un fiasco.

 

Mais il faut aller plus loin. Contrairement à ce qu'affirme Robert Dole, le candidat républicain à la Maison Blanche, ce fiasco ne saurait s'expliquer par les seuls cafouillages de l'administration Clinton. De même, la prise en considération par Washington des intérêts de l'allié turc  —on sait Ankara profondément hostile à l'autonomisme kurde—  ne suffit à expliquer 1'attentisme de Clinton. Si les Etats-Unis n'ont pas véritablement voulu s'investir dans la création d'un Etat kurde pleinement souverain, c'est en raison de la nature même de leur puissance.

 

Le stratégiste François Géré l'a bien vu, les Etats-Unis sont la “Puissance du Flux”: flux de populations migrantes, flux de marchandises et de capitaux, flux d'informations, d'images et de sons (2). Les Américains perçoivent leur territoire non pas comme un espace d'enracinement, mais comme une surface de déplacement, et leur position dans la hiérarchie internationale du pouvoir repose sur la manipulation de flux de toute nature. Dès lors ont-ils pour objectif de faire respecter leur libre-circulation à la surface de la Terre. Gare à l'Etat souverain qui, à l'instar de l'Irak, entendrait définir une zone d'influence et fixer des règles pour tenter de gouverner ces flux. Au moyen d'un navalisme futuriste combinant Sea Power, Air Power et Space Power, ils arasent l'obstacle! Précisons les choses. Ils ne "débarquent" pas pour fonder un nouvel ordre politique régional, mais alternent frappes rapides et retour aux bases ("Hit and run").

 

Les Etats-Unis refusent donc les responsabilités globales qui sont celles d'un empire  —faire prévaloir la Civilisation sur le Chaos—  pour se contenter de garantir par un interventionnisme musclé le “bon” fonctionnement des mécanismes du marché. En d'autres termes, les Etats-Unis ne sont plus une puissance hégémonique; faute d'assurer sécurité et prospérité à leurs alliés, leur domination a cessé d'être légitime. Depuis le naufrage du monde communiste, l'Amérique est devenue un système exclusivement prédateur à la recherche d'avantages unilatéraux, et le contrat quasi-féodal qui liait les nations du monde dit libre à leur suzerain, obéissance contre protection, est aujourd'hui caduc, Washington ne daignant plus remplir ses obligations impèriales. Les Kurdes en font aujourd'hui la triste expérience.

 

Mieux. Loin de nous préserver du chaos, ce système prédateur le généralise. Son libre-échangisme tous azimuts implique le démantèlement des souverainetés à même de territorialiser les flux multiples et désordonnés qui agitent le monde. Faute d'“obstacles” pour cloisonner l'espace mondial, ces flux sont à tout moment susceptibles de se muer en ouragans planétaires, et de disloquer les communautés humaines les plus enracinées. Les sautes d'humeur du méga-marché financier mondial en témoignent.

 

L'échec du Kurdistan autonome est donc plein d'enseignements. Au delà des erreurs politiques commises par l'Administration Clinton et des calculs à courte vue, il doit être clair que les Etats-Unis ne font jamais que ce qu'ils sont. Par là-même, la Puissance du Flux est aussi la Puissance du Chaos. Et le Nouvel Ordre Mondial américano-centré prophétisé par Georges Bush en 1990 est une fiction. Faute d'“hegemon” couplant sens et puissance, capable d'inscrire un nouveau Telos (une finalité) à l'horizon, le Monde n'est pas unipolaire mais a-polaire.

 

Louis SOREL.

 

(1) De manière à assurer la parité entre l'UPK et le PDK, les élections de1992 ont été truquées. De facto, cet accord a débouché sur le partage géographique du Kurdistan irakien, l'UPK contrôlant les villes et le PDK la frontière avec la Turquie.

(2) Cf. Dr. François Géré (Dr), Les lauriers incertains. Stratégie et politique militaire des Etats-Unis 1980/2000, Fondation des études de défense nationale, 1991.

jeudi, 16 octobre 2008

Manuel de géopolitique et de géo-économie

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SYNERGIES EUROPEENNES - Ecole des cadres - Wallonie / Lectures - Octobre 2008
Le livre de références pour nos travaux de géopolitique !!
A acquérir d'urgence !!
A lire le plus attentivement: le chapitre "Pourquoi nous combattons?"
Le monde. Manuel de géopolitique et de géoéconomie (sous la direction de Pascal Gauchon)
Pascal Gauchon (avec Elizabeth Crémieu, Olivier David, André de Séguin, Sylvia Delannoy, Eric Duquesnoy, Yves Gervaise, Dominique Hamon, Anne-Sophie Letac, Maxime Lefebvre, Frédéric Munier, Jean-Luc Suissa, Cédric Tellenne, Patrice Touchard), Le monde. Manuel de géopolitique et de géoéconomie, PUF « Major », 2008.
Le monde change. Le monde tourne. Peut-on suivre la marche du monde sans s’y noyer ? Et comment attraper notre sujet ? Par le global change, la démographie, l’urbanisation, le fossé riches/pauvres, le développement durable, la mondialisation ? A vrai dire, nul ne le sait vraiment, comme tant de paris éditoriaux le montrent. Il faut une commande, un angle de vue. Celui qu’impose une année pleine à des bacheliers de prépa commerciales ou sciences-po offre à treize auteurs réunis par P. Gauchon le défi de tout écrire en écrivant l’essentiel, en 914 pages - tout de même - décoffrées en vingt-trois chapitres pour vingt-trois semaines de labeur. Il suffit aussi d’une focale, ici géopolitique et géoéconomique qui fait s’affronter les Etats sur un champ de bataille plus financier et industriel que militaire ou politique, comme le montre le KO soviétique à la fin de la guerre froide. Faut-il voir le monde avec les géoéconomistes comme une terre de rareté et de valeur ou un regard géopolitique qui préfère le pouvoir, la puissance, l’influence ? De cette vaste analyse émergent quatre questions : les grandes entreprises ont-elles remplacé les Etats-nations ? Les réseaux sont-ils plus actifs que les territoires ? Le quantitatif (les ressources énergétiques, agricoles...) a-t-il cédé la place au qualitatif (main d’œuvre bien formée, technologie) ? Enfin, les conflits seront-ils réglés par l’économie ou la guerre ? P. Gauchon conclut une lumineuse introduction : la géoéconomie décrit le monde nouveau-né de la mondialisation tandis que la géopolitique rappelle les héritages dont nous ne sommes pas débarrassés.

Dans ce livre dense - parce qu’entièrement rédigé, on ne lui reprochera donc aucune facilité -, les auteurs travaillent beaucoup sur des chronologies : celles des phénomènes de globalisation ou de repli ; la montée en puissance d’acteurs géopolitiques et géoéconomiques nouveaux avec leurs leviers d’action : forces armées, monnaies et influence. Les enjeux des conflits sont exposés soigneusement comme des lieux d’affrontement : contrôle des hommes, des terres et des territoires, des ressources et, même, de l’environnement. Un tableau du monde unitaire et divisé rassemble, enfin, certaines données éparses par grandes régions. Il est toujours difficile de bâtir une culture générale du monde à des jeunes bacheliers sans rassembler des données en les coupant et les formatant pour les besoins des exercices. Ce haché menu qui aurait pu être préjudiciable à la réflexion n’a pas d’effets secondaires ici : un réel talent éditorial tire les fils de cette vaste toile qui prend une belle forme à la fois encyclopédique et narrative.

De ce livre, on pourrait reprendre des centaines d’argumentations sans jamais les prendre à défaut d’arguments. Ici, on les éprouve uniquement pour le plaisir de confronter ses lectures à celles des auteurs. Ainsi, la première guerre mondiale n’avait jamais été jusqu’ici envisagée comme un accident reformatant une mondialisation. Chez Grataloup, elle était présentée comme une « guerre civile européenne », alors qu’ici elle « réorganise le système monde ». Il faudrait sans doute rediscuter ce que David et Suissa appellent internationalisation, puis mondialisation et, sans doute, rappeler que ces concepts ne seront peut-être plus opératoires dans quelques décennies.

Passionnante est la seconde partie sur les « maîtres du monde ». On y voit cette sourde lutte d’influence entre deux approches conquérantes des lieux et des hommes : l’Etat et l’entreprise transnationale. Des Etats et des entreprises enchâssées dans des idées auxquelles Anne-Sophie Letac consacre un brillant chapitre, rappelant combien fascisme et communisme seraient liés à « l’âge des foules » (G. Le Bon). Les pages sur les religions sont bienvenues dans ce livre de culture générale. L’Islam y déploie ses accointances avec le capitalisme protestant, une idée qu’on ne croise pas tous les jours... Comme on aurait tout aussi bien pu gloser sur l’inexistence territoriale du Tibet et du Vatican et leur magistère moral universaliste à la hauteur des personnalités du lama Tenzin Gyatso et du pape Ratzinger. On aurait pu voir établies de véritables « religions » que sont devenues la science, l’environnement, les jeux et les loisirs dont le tourisme est l’un des moteurs les plus puissants. La progression du droit - notamment international - constitue un autre épisode de la construction de notre monde actuel, en symbiose - ou en contradiction - avec de multiples réseaux alternatifs diasporiques, « ong »-éiques et mafieux.

Ainsi, toute puissance dispose d’armes que les auteurs ont présentées en parlant de « contraintes » (la guerre), d’« achats » (la monnaie) et d’« influence » (le soft power sur lequel la réflexion de F. Munier est très pertinente). Sur le sens des choses qui mènent le monde, on sera d’accord avec l’idée du « contrôle des hommes », permettant de traiter des migrations. Egalement avec l’idée du « contrôle des terres » et la perle qu’est l’aménagement du territoire. Il est curieux que M. Yunus, prix Nobel de la paix, n’ait pas eu sa place dans un chapitre sur tout ce qui échappe à cette soif à tout prix du contrôle. Et, au contraire, qui prend l’humanité telle qu’elle est, pauvre et désireuse de s’extraire de la fatalité. Que seraient nos pays, nos villes, nos organisations internationales sans la sphère associative et non lucrative ? On relèvera une lacune non pas sur le contrôle des mers et océans qui ont progressé - encore que la surveillance des océans, l’évitement des pollutions soit difficile - mais sur le contrôle de l’espace. Les chercheurs de la Fondation pour la recherche stratégique sont moins en phase avec le grand public qu’avec les armées, mais l’économie mondiale ne serait sans doute pas ce qu’elle est sans les satellites. Enfin, quant aux frontières et au contrôle des lieux stratégiques, la réflexion est très géopolitique et le fait qu’on n’y mentionne pas les émeutes de la faim du printemps 2008 signale un caractère mouvant qui a bien été mis en valeur. De belles pages sur la maîtrise des risques posent les balises d’une « écocitoyenneté » pour le moins discutable.

Un dernier bloc affine les analyses précédentes en les confrontant aux situations régionales : la « résistance des lieux » dans le village planétaire, les héritages du monde de la guerre froide, la « grande fracture » entre riches et pauvres. Peut-être là, aurait-on pu glisser une carte des grandes fortunes du monde pour voir émerger des tycoons en Inde, Chine, Egypte, Indonésie, Mexique et Brésil ? Astucieuse conclusion est une « mondialisation en débats » avec « Pro », « Anti » et « Alter » qui appellent sans doute la construction plus intégrée d’un paysage politique mondial et, donc, d’une gouvernance à cette échelle.

Un livre stimulant, très complet, bourré d’idées et de points de vue, jamais bavard. Un exploit dans notre médiasphère envahie par l’incertain, l’à-peu-près, l’éphémère. Parions - sans prendre de grands risques - que cet opus restera longtemps au-dessus du bruit et de la fureur éditoriale ambiante.

Compte rendu : Gilles Fumey

 

URL pour citer cet article: http://www.cafe-geo.net/article.php3?id_article=1348

mercredi, 08 octobre 2008

La Chine soutient l'action géopolitique de la Russie

LA CHINE SOUTIENT L’ACTION GÉOPOLITIQUE DE LA RUSSIE

Quotidien du Peuple, février 2008 :



« Il est impératif pour la Russie d’affirmer clairement son opposition à un monde unipolaire et de se positionner en tant qu’Etat cherchant à promouvoir la démocratisation des relations internationales. Tirant les leçons de l’Histoire, la Russie fait preuve d’une extrême fermeté, non pour s’engager dans une guerre froide, mais pour amener l’Occident à la respecter et à construire avec elle des relations de partenariat sur un pied d’égalité. »


Shen Jiru, professeur au Centre de recherches sur la politique et l’économie de l’Académie des sciences sociales de Chine

 

 


« Le développement des relations amicales [de la Russie] avec la Chine revêt une importance considérable. La Russie a besoin de l’aide de la Chine pour retrouver son statut de grande puissance et contrer les Etats-Unis dans leur stratégie d’hégémonie planétaire. Ces dernières années, la Russie a approfondi sa relation avec de nombreux pays d’Orient, dont la Chine. Elle cherche à surfer sur la vague de leur boom économique et à se servir de leur appui pour se poser en concurrente des nations occidentales et procéder à des "attaques mesurées" afin de percer la muraille dressée autour d’elle par les Etats-Unis et les pays européens. »


Wang Zhengquan, professeur à l’Institut des relations internationales de l’Université du Peuple de Pékin

 

08:18 Publié dans Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : chine, russie, géostratégie, stratégie, eurasisme, eurasie | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

dimanche, 28 septembre 2008

Le temps des continents et la déstabilisation de la planète

Le temps des continents et la déstabilisation de la planète


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Mondialisation.ca, Le 17 septembre 2008
Eurasia Rivista di Studi Geopolitici no. 2

La réaffirmation de la Russie comme acteur mondial, avec la puissante croissance économique des deux colosses asiatiques, Chine et Inde, semble avoir définitivement marqué, dans le cadre des relations internationales, la fin de la saison unipolaire sous conduite étasunienne, et posé les conditions, minimales et suffisantes, pour la construction d’un ordre planétaire articulé sur d’avantage de pôles. Les entités géopolitiques qui caractérisent ce nouveau cycle ne seront pas, vraisemblablement, les nations ou les puissances régionales mais bien les grands espaces continentaux.

 

Un nouveau cycle géopolitique

 

Le nouvel ordre international qui s’est réalisé après le 11 septembre 2001 est dû surtout à  trois facteurs concomitants : le premier concerne la politique eurasiatique lancée à Moscou, immédiatement après la fin de la présidence Eltsine, à partir de 2000-2001 ; le second concerne le développement économique particulier de l’antique Empire du Milieu qui, intelligemment intégré par la direction chinoise dans le cadre d’une stratégie géopolitique de longue période, fera de Pékin non seulement un géant économique mais un des principaux protagonistes de la politique mondiale du 21ème siècle. Le troisième, enfin, est strictement connecté à l’action de pénétration militaire des Usa dans l’espace proche et moyen-oriental, que Washington accompagne, de façon synergique, d’une intense activité de pression  politique et économique dans certaines zones critiques  comme celle de l’Asie centrale.

 

Les facteurs rappelés ci-dessus ont mis en évidence certains éléments importants utiles pour l’analyse géopolitique des futurs scénarios mondiaux : la centralité de la Russie comme région pivot de l’Eurasie, l’importance de la Chine comme élément de stabilité dans la masse continentale eurasiatique et d’équilibre pour la planète entière ; les mêmes facteurs, en outre, ont  reproposé à l’échelle mondiale, les tensions permanentes entre d’une part les puissances thalassocratiques, représentées aujourd’hui par les USA, et d’autre part les puissances continentales, constituées principalement par la Russie et la Chine.

 

Pour la première fois depuis la dissolution de l’URSS, nous assistons au renforcement et à la mise au point d’importants dispositifs géopolitiques, comme par exemple l’Organisation de la Conférence de Shanghai et l’Organisation du Traité de Sécurité Collective des Pays de la Confédération des Etats Indépendants, qui rassemblent la Russie et les principaux pays du continent asiatique. De tels dispositifs sont significativement ouverts aussi au Pakistan, à la Turquie et à l’Iran mais excluent les puissances occidentales et les USA. Il faut y ajouter aussi  les tentatives et les aspirations sud-américaines relatives à la constitution d’un système de défense du sous-continent indio-latin, délivré de Washington.

 

L’œuvre patiente et continue de tissage de relations spéciales entre Russie, Inde, Chine, Iran et les pays d’Asie centrale, mise en oeuvre par Poutine, et diligemment poursuivie maintenant par Medvedev, a certainement ralenti l’expansionnisme étasunien au cœur de l’Asie ; elle a aussi irrité fortement ces lobbies européens et d’outre-atlantique qui espéraient, au début des années 90 du siècle dernier, à force de « vagues démocratiques », ou plutôt de « bourrades démocratique » (2) - comme on le verra plus tard avec les agressions et les « guerres humanitaires » de l’Occident américano-centrique contre la Fédération yougoslave, l’Afghanistan, l’Irak - l’unification de la planète sous l’égide de Washington, champion de l’Humanité et, avant tout, la réalisation d’un gouvernement mondial fondé sur des critères libéraux de l’économie de marché.

 

Sur l’échiquier mondial, la formation d’une sorte de bloc eurasiatique, qui en est pour le moment encore à un stade embryonnaire et, du reste, déséquilibré  vers la partie orientale de la masse continentale, à cause principalement de l’absence de l’Europe comme entité politique cohérente et de son insertion artificielle dans le camp « occidentaliste » ; cette formation a, en outre, et par effet de polarisation, indéniablement favorisé les tendances continentalistes de certains gouvernements d’Amérique du Sud (Argentine, Brésil, Venezuela et Bolivie), en mettant ainsi en valeur l’hypothèse, réaliste, d’un scénario multipolaire en cours de constitution, articulé sur des entités géopolitiques continentales (3).

 

Nouvelles et vieilles tensions

 

La crainte d’une jonction des intérêts  géopolitiques entre les grandes puissances eurasiatiques (Russie, Chine et Inde) et les tendances continentalistes de certains gouvernements sud-américains (4) ont éveillé, ces derniers temps, une attention ravivée du Département d’Etat des USA et de certains think tank atlantiques, chargés d’identifier  les zones  de crise et de définir des scénarios géopolitiques qui soient en syntonie avec les desiderata et les intérêts globaux de Washington et du Pentagone ; une attention vers ces régions de la masse continentale eurasiatique – et du sous-continent indio-latin – qui seraient plus exposées aux déchirures causées par des tensions endogènes historiques et encore irrésolues.

 

C’est donc dans la perspective d’opérations de malaise et de pression envers la Chine, la Russie et l’Inde et certains gouvernements latino-américains que, pensons-nous, l’on peut  interpréter avec efficience certaines situations critiques qui sont proposées, avec une particulière emphase, à l’attention de l’opinion publique occidentale, par les principaux organes d’information.

 

Nous faisons ici référence à ce qu’on désigne comme la question de la minorité du peuple Karen et de la « révolte » couleur safran (5) du Myanmar, aux questions du Tibet et de la minorité uigur  en République Populaire de Chine, à la déstabilisation du Pakistan (6), et au maintien d’une crise endémique dans la région afghane.

 

En instrumentalisant les tensions locales de certaines aires géostratégiques, les USA, avec leurs alliés occidentaux, ont lancé un processus de déstabilisation – de longue période -  de tout l’arc himalayen, véritable charnière continentale, qui va impliquer huit pays de l’espace eurasiatique (Népal, Pakistan, Afghanistan, Myanmar, Bangladesh, Tibet, Bhoutan et Inde).

 

Ce processus de déstabilisation se coordonne avec celui déjà ébauché par les USA dans la zone caucasienne, sur la base des indications exposées, il y a plus de dix ans, par Bzezinski dans son ouvrage « Le grand échiquier » (7) ;  ce processus semble en outre se conjuguer  au Projet du Nouveau Grand Moyen-Orient de Bush-Rice-Olmert, destiné à redéfinir les équilibres de toute la zone en faveur des Etats-Unis et de son principal allié régional, Israël, ainsi qu’à reconsidérer les frontières des principaux pays de la zone (Iran, Syrie, Irak et Turquie) le long de lignes confessionnelles et ethniques.

 

Parallèlement à ce processus de déstabilisation, déjà en cours dans l’arc himalayen, il semble, selon l’avis autorisé du professeur Luiz Alberto Moniz Bandeira (8), que les USA en aient lancé  un autre, analogue, dans leur ex-arrière cour, en Bolivie : précisément dans la « région  de la demi-lune » sur la base des tensions ethniques, sociales et politiques qui affectent toute la zone.

 

Dans le cadre des stratégies destinées à fragmenter les espaces continentaux en voie d’intégration, il vaut la peine de souligner le grand rôle qu’ont joué et jouent les Organisations Non Gouvernementales dites humanitaires. Selon Michel Chossudovsky, directeur du Centre pour la recherche sur la mondialisation (CRM-CRG), certaines d’entre elles seraient directement et indirectement reliées à la CIA, par l’intermédiaire de la National Endowment for Democracy, puissante organisation étasunienne créée en 1983, dans le but de renforcer les institutions démocratiques dans le monde au moyen d’actions non gouvernementales (9).

 

L’histoire du 21ème siècle sera donc, selon toutes probabilités, l’histoire de l’affrontement entre deux tendances opposées : celle de la fragmentation (10) de la planète, pour le moment voulue par les USA, et celle des intégrations continentales, souhaitée par les plus grandes puissances eurasiatiques et par certains gouvernements du sous-continent indio-latin.

 

 

EURASIA. RIVISTA DI STUDI GEOPOLITICI.  n. 2 – 2008

Editorial du numéro 2 Mai-août 2008


Traduit de l’italien par Marie-Ange Patrizio

 

 

1. Marco Bagozzi, Accordi Brasile-Venezuela: verso una alleanza militare sudamericana svincolata da Washington,

www.eurasia-rivista.org, 25 aprile 2008.

2. Samuel Huntington, La terza ondata. I processi di democratizzazione alla fine del XX secolo, Il Mulino, Bologna, 1995.

3. Richard Hass, président du Council on Foreign Office, l’influent think tank étasunien, est d’un autre avis : selon lui le 21ème siècle se dirigerait vers un système de non polarité, caractérisé par une ample diffusion de pouvoir étalé sur plusieurs objets (Etats, Puissances régionales, ONG, Corporations, Organisations internationales, etc.) plutôt que par une concentration sur quelques (rares) pôles. Richard Hass, The Age on Nonpolarity. What Will Follow U.S. Dominance, Foreign Affairs, vol. 87, n. 3, May/June 2008, pp. 44-56.

4. Raúl Zibechi, Il ritorno della Quarta Flotta: un messaggio di guerra, Cuba debate, 9 maggio 2008, in italiano:

www.eurasia-rivista.org, 17 maggio 2008.

5. Voir dans ce même numéro de Eurasia, 2/2008, F. William Engdahl, La posta geopolitica della “rivoluzione color zafferano.

6. Michel Chossudovsky, La destabilizzazione del Pakistan, www.eurasia-rivista.org, 7 gennaio 2008; Alessandro Lattanzio, Il grande gioco riparte da Islamabad, www.eurasia-rivista.org, 29 dicembre 2007; Giovanna Canzano, La morte cruenta della Bhutto, intervista a Tiberio Graziani, www.eurasia-rivista.org, 28 dicembre 2007.

7. Zbigniew Brzezinski, La Grande Scacchiera, Longanesi, Milano, 1998.

8. Luiz Alberto Moniz Bandeira, A Balcanização da Bolívia, Folha de S.Paulo, 15/07/2007. Traduction italienne sur www.eurasia-rivista.org, 25 ottobre 2007. Sur le même thème voir aussi l’interview de Luiz Alberto Moniz Bandeira, Bolivia, Cuba, la seguridad de Brasil, el petróleo y la realidad del dólar, sur :  www.laondadigital.com et en italien sur www.eurasia-rivista.org, 9 maggio 2008.

9. Michel Chossudovsky, Cina e America: l'Operazione psicologica dei diritti umani in Tibet, www.eurasia-rivista.org, 22 aprile 2008.

10. François Thual, Il mondo fatto a pezzi, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 2008.


 Articles de Tiberio Graziani publiés par Mondialisation.ca

samedi, 27 septembre 2008

Pressions américaines contre l'installation du gazoduc de la Baltique

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Pressions américaines contre l’installation du gazoduc de la Baltique

 

Dans son édition n°39/2008, l’hebdomadaire de Hambourg, “Der Spiegel”, dénonce les pressions indirectes qu’exerce Washington pour saboter l’installation définitive du gazoduc germano-russe de la Baltique. Après l’échec de la tentative téméraire du président géorgien Saakachvili dans le Caucase, dont l’enjeu est la ligne de gazoducs et d’oléoducs Bakou-Tiflis-Ceyhan, les Etats-Unis passent à l’offensive en Mer Baltique, pour torpiller le bon fonctionnement de “North Stream”, sur lequel  ils n’exercent aucun contrôle. Ils procèdent de manière indirecte. Soi-disant non officielle. Michael Wood, ambassadeur américain en poste à Stockholm, nommé à ce titre par George Bush junior parce qu’il jouait jadis au golf avec lui et l’accompagnait dans ses randonnées en mountain-bike, vient de publier sous son nom propre un article qui enfreint toutes les règles de la bienséance diplomatique, selon la bonne vieille méthode des néocons, qui revendiquent haut et clair ce style de dérapages. Cet article est paru dans le quotidien suédois “Svenska Dagbladet” et constitue un appel au gouvernement suédois: celui-ci devra vérifier, avec la plus extrême rigueur, si le gazoduc est bien “écologique”, comme prévu, mais ne devra pas se borner à ce seul aspect écologique. Il devra, selon Wood, prendre d’autres facteurs en considération: notamment que ce gazoduc est le fruit d’accords spéciaux entre Allemands et Russes, qu’il est une mise en oeuvre par Moscou de “l’arme de l’énergie” face à laquelle l’Europe doit faire front commun, en refusant bien entendu toutes les séductions qu’elle offre.

 

Pour une fois, le gouvernement fédéral allemand a réagi clairement: Rüdiger von Fritsch, directeur du département économique du ministère allemand des affaires étrangères, a appelé l’ambassadeur américain en ses bureaux pour lui demander des explications. Le gouvernement fédéral allemand se dit “irrité” devant cette démarche “inhabituelle”. La réponse du diplomate américain à Berlin reflète, elle, une hypocrisie bien habituelle: les Etats-Unis sont “surpris”, paraît-il, des propos de Wood et prétendent que Washington n’a aucune objection à formuler “quant à l’installation de ce gazoduc privé”. Rüdiger von Fritsch, qui n’est évidemment pas dupe, a conservé sa fermeté: un incident comme l’article de Wood ne devra pas se répéter, a-t-il demandé.

 

Le diplomate von Fritsch n’a pas été le seul à marquer son mécontentement en Allemagne. Eggert Voscherau, représentant de BASF dans le Conseil de supervision du gazoduc “North Stream” incriminé, a déclaré: “Les Américains manifestent désormais ouvertement leur opposition au gazoduc”. Martin Schulz, chef de la fraction sociale-démocrate au Parlement Européen a, lui, déclaré pour sa part que l’article de Wood est une preuve utile et intéressante “pour montrer quelles sont les intentions réelles des Américains: déstabiliser l’Europe”. Notre commentaire: les sociaux-démocrates, jadis, surtout en Belgique, champions de l’alliance atlantiste, vont-ils enfin comprendre, après plus d’un demi siècle, voire un siècle entier, que cette intention américaine a toujours été telle: affaiblir, déstabiliser et détruire l’Europe?

 

Le ministre allemand des affaires étrangères Frank-Walter Steinmeier ne minimise pas davantage l’affaire: il part du principe que la teneur menaçante de l’article de Wood révèle bel et bien les intentions réelles de Washington. Les observateurs attentifs ont déjà pu constater que la diplomatie américaine ne cesse plus d’intriguer contre ce gazoduc long de 1200 km entre Wyborg et Greifswald, qui, pensent les Américains, accentuera la dépendance énergétique de l’Europe au profit de la Russie. Argument classique, banal mais fallacieux: en effet, ce n’est pas cette dépendance que craignent finalement les Américains mais, au contraire, la fusion des potentialités européennes et russes, qui détacherait les uns et les autres de toute dépendance à l’endroit des Etats-Unis et des sociétés pétrolières moyen-orientales qu’ils contrôlent.

 

Cette crainte n’est pas seulement exprimée par Condoleezza  Rice mais, plus nettement encore, par le Sénateur de l’Utah, Bob Bennett, qui s’inquiète de voir la Russie se transformer “en un Etat gazier et pétrolier”. Ensuite, le tandem énergétique germano-russe, prétendent les Américains, permet à Poutine et Medvedev  d’agir énergiquement dans le Caucase et d’y mettre les manigances américaines, voire turques, en échec et mat. Raison pour laquelle, la diplomatie américaine tente une politique de la zizanie en Europe du Nord en excitant Polonais, Baltes et Suédois contre l’alliance énergétique forgée par Berlin et Moscou. Réactivation du clivage polémique entre “Vieux Européens” et “Nouveaux Européens”, à la différence près que, cette fois, Français, Néerlandais et Britanniques sont ou seront aussi les bénéficiaires du gazoduc contre lequel Washington excite les esprits.

 

La démarche de déstabilisation de l’Europe est si évidente, cette fois, que même les chrétiens-démocrates allemands, souvent très critiques à l’endroit de la politique russe, protestent. Eckart von Klaeden, porte-paroles de la CDU en matière de politique étrangère: “Il faut bien que les énormes investissements [que nous avons faits en Russie] soient amortis”.  Déclaration qui montre bien que la dépendance ne va pas en sens unique, que ce n’est pas seulement l’Europe qui dépend de l’énergie russe mais que, simultanément, la Russie dépend du savoir-faire européen, pour combler le “technological gap” que constataient, triomphants,  les auteurs anglo-saxons entre 1917 et 1989, dont Arnold J. Toynbee. La Chancelière Merkel, qui semblait pourtant avoir cédé aux ukases américains après la Guerre du Caucase en août dernier et déplorait une trop grande dépendance européenne face au gaz et au pétrole russes, soutient le projet “North Stream” sans la moindre réticence.

 

Steinmeier et Merkel se sont rendus en Suède pour plaider la cause du gazoduc, qu’ils définissent comme un “projet stratégique européen”. Les Suédois ont le droit de vérifier la fiabilité écologique de ce gazoduc, mais rien de plus, disent les Allemands. La vérification sera sans doute la plus méticuleuse qu’un gazoduc aura jamais subie. Nous ajouterions que les Américains jouent là sur une vieille inimitié russo-suédoise, qui remonte à Charles XII de Suède, au temps où la Suéde désirait maîtriser “l’axe gothique”, de la Baltique à la Mer Noire, entre Memel et Odessa. La défaite de Charles XII l’a évincée, comme fut aussi évincé le tandem polono-lithuanien. L’axe gothique ne peut plus être maitrisé que par un tandem germano-russe, dans le cadre d’un concert européen cohérent qui rappelle et la Sainte-Alliance de 1815 et l’Alliance des Trois Empereurs au temps de Bismarck.

 

(résumé de l’article et commentaires de Robert Steuckers; titre de l’article: “Aussenpolitik. Amerikanischer Ausrutscher”, par Ralf Beste & Cordula Meyer, in: “Der Spiegel”,  n°39/2008).

vendredi, 26 septembre 2008

Africom, le mani di Bush sul petrolio

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AFRICOM, le mani di Bush sul petrolio
Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

di Djamaledine Benchenouf
Le Quotidien d’Algérie

A conferma “dell'importanza dell'urgenza strategica in Africa„, nel febbraio 2007 il presidente Bush ha deciso di creare Africom, l'organizzazione che controlla le forze militari USA in Africa.
Africom sul modello di Centcom (controllo militare centrale) ed Eucom (controllo militare europeo), concentra il comando delle forze militari che operano sul territorio africano sotto un'unica struttura.
Africom affida molte azioni di natura non militare - come la costruzione di scuole e lo scavo di pozzo - che erano della competenza di ONG americane, alla giurisdizione del dipartimento di Stato alla difesa.
La creazione dello Africom è giustificata dalla lotta al terrorismo, benché il petrolio sembri essere l'obiettivo principale: “Una missione chiave affidata alle forze militari USA in Africa che mira a garantire che le zone petrolifere della Nigeria (che in futuro potrebbero costituire 25 per cento dell'insieme del volume di petrolio importato dagli USA) siano sotto il suo controllo„, spiega il generale Charles Wadd, che comanda forze militari americane in Europa in un'intervista al giornalista Greg Jaffe del Wall Street Journal.
Per rassicurare e controllare le vie d'accesso al petrolio - non soltanto per la nazione, ma anche per le compagnie petrolifere - l'amministrazione Bush ha interamente fatto affidamento sulle forze militari.
L'autore Kevin Philips ha forgiato una nuova parola “l’imperialismo petrolifero„ per descrivere le politiche dell'amministrazione Bush in tale ambito, e “l'aspetto determinante e la trasformazione della forza militare USA verso una realtà che mira ad esercitare una forma di protezionismo sull'economia mondiale del petrolio„. Mettendo queste operazioni sotto l'etichetta ‘della guerra al terrorismo ‘, Bush ha realizzato il più grande rafforzamento delle forze militari che sia mai esistito dalla fine della guerra fredda. Se si fa riferimento alla carta delle operazioni del Big Oil oltreatlantico in relazione alle riserve petrolifere restanti nel mondo e delle rotte di trasporto del petrolio, ci si può fare un'idea di questo rafforzamento, e prevedere il futuro dispiegamento di forze militari americane.
L'Africa, che possiede circa 10 per cento delle riserve di petrolio è ormai una zona dove questo rafforzamento del BIG Oil e delle forze militari americane aumenta sempre di più.
Secondo il dipartimento di Stato dell'Energia degli Stati Uniti, tra il 2000 e il 2007, le importazioni USA di petrolio provenienti dall'Africa sono aumentate del 65%, (da 1.6 a 2.7 milioni di barili al giorno). Quest'importazioni hanno messo in evidenza la progressione in percentuale dell'insieme del volume di petrolio importato dagli USA: un aumento che aumenta dal 14.5 per cento nel 2000, al 20 per cento nel 2007. È da prevedere un aumento ulteriore in futuro. Un incremento accoppiato: più gli USA importano petrolio africano, più le loro compagnie aumentano le loro riserve africane e più rafforzano la loro presenza in questo continente. Secondo i dati 2008 di Sec, Chevron, ConocoPhillips e Marathon, tra le altre società americane, rafforzano la loro presenza con nei paesi seguenti: Algeria, Angola, Camerun, Ciad, repubblica del Congo, repubblica democratica del Congo, Guinea equatoriale, Gabon, Libia, Nigeria.
Il segretario del dipartimento di Stato dell'Energia degli Stati Uniti, Samuel Bodman, ha recentemente dichiarato che le società petrolifere americane sperano ulteriormente di allargare le loro operazioni includendo Madagascar, il Benin, Sao Tomé e la Guinea Bissau Si nota che Shell e BP stanno estendendo le loro operazioni - d'altra parte già importanti - in Africa. L'amministrazione Bush ha sempre più implicato il Dipartimento della Difesa per rendere più stabili i governi africani che sostengono la sua amministrazione e le compagnie petrolifere (americane o affiliate) garantendo loro la `docilità ' dei loro popoli. Ha anche ha aumentato le forniture di armi e gli addestramenti militari destinati al continente africano. I destinatari diretti attuali sono i seguenti paesi: Angola, Algeria, Botswana, Ciad, Costa d'Avorio, repubblica del Congo, Guinea equatoriale, Eritrea, Etiopia, Gabon, Kenia, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria, Sudan e Uganda.
Il generale James Jones, che comanda l’ Eucom, ha annunciato che i bastiemneti di guerra della marina americana potrebbero diminuire le loro visite in Mediterraneo e “passare più tempi a solcare le coste occidentali dell'Africa„. Nella base della legione straniera francese di Campo Lemonier, a Gibuti, i soldati americani, che sono collegati alla task force del corno dell'Africa, “si sentono come a casa propria”. Il Comando di Africom ha, attualmente, il suo quartiere generale in Germania, ma prevede “di stabilizzare la sua presenza„ nel continente africano. Esistono molte opzioni per l'impianto di basi militari americane, di cui una che consisterebbero nell’installare una base navale ed un porto nella piccola isola di Sao Tome sulla costa del Gabon in Africa occidentale. Il Pentagono prevede la possibilità di installare nuove basi in Senegal, Ghana e Mali. Le compagnie petrolifere americane hanno utilizzato il contributo delle forze militari e di sicurezza africane per salvaguardare i loro interessi. Sarebbe più onesti da parte loro che il controllo di tali operazioni sia più trasparente.
Gli USA sono impegnati in una guerra per il petrolio in Iraq e le loro forze armate ne sono consapevoli. John Abizaid, generale in pensione del Comando centrale e delle operazioni militari in Iraq, ha dichiarato che lo scopo della guerra “è senza ombra di un dubbio il controllo del petrolio (giacimenti d' idrocarburi)„. Il problema che si profila, sul modello del caso iracheno, deriva della massiccia presenza militare americana che contribuirà a peggiorare l’attuale drammatica situazione, e che causerà un'ostilità interna, un'instabilità nazionale ed una rabbia verso gli Stati Uniti.

mardi, 23 septembre 2008

Paroles d'Edouard Kokoïty

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Parole d’Edouard Kokoïty, Président d’Ossétie du Sud:

 

“Vous, les Européens, vous parlez tous de la petite Géorgie mais mon  pays est encore plus  petit et vous l’oubliez. C’est ça, défendre les droits de l’homme?”

 

Cité dans “Paris-Match”, 4-10 sept. 2008.

 

A signaler également, dans cette édition de “Paris-Match”, les propos d’Hubert Védrine sur les relations euro-russes et euro-américaines: la position de Bush n’est pas tenable et Saakachvili est un “excité”. La diplomatie de la “Vieille Europe” se rébiffe.

dimanche, 07 septembre 2008

Twee assen tegen het atlantisme

Twee assen tegen het atlantisme

“Vandaag de dag hebben de westerse ’stichtingen’ en drukkingsgroepen (Rockefeller, Agnelli, Trilaterale, Davos en andere) gezworen alle nationale staten en alle systemen van sociale bescherming te vernietigen die die laatste tot stand hebben gebracht. Ze spiegelen de lusten voor van een ‘federalisme’ bestaande uit vormen van regionale autonomie, terwijl hun echte doel volledig wordt samengevat in het oude Latijnse spreekwoord ‘Divide et impera’ (’verdelen om te heersen’) om het ditmaal toe te passen over heel de wereld door degenen die de maximale macht op het politieke en economische vlak hebben”.

Ugo Gaudenzi, in: Rinascita, Consolidons deux axes contre l’atlantisme! [13 augustus 2008]

Bron: Euro-Synergies

lundi, 25 août 2008

Consolidons deux axes contre l'atlantisme!

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Ugo GAUDENZI:

Consolidons deux axes contre l’atlantisme !

 

Depuis des années déjà, mon quotidien romain, “Rinascita”, milite, prêche et exhorte ses  lecteurs pour aboutir à ce qui semble la seule et unique solution possible pour assurer la survie de notre Europe: l’union stratégique de l’Ouest et de l’Est du continent.

 

Cette unité de la “plus grande Europe” est une question de vie ou de mort: elle ne se réalisera que par la réactivation et la consolidation d’un nouvel “axe carolingien”, l’Axe Paris-Berlin-Moscou (ndt: remarquablement mis en exergue par Henri de Grossouvre en France), et par l’invention révolutionnaire d’une “alliance continentale-méditerranéenne”, d’un Axe Madrid-Rome-Belgrade-Moscou, capable de fermer les côtes méridionales de l’Europe à toute influence hostile émanant de l’atlantisme.

 

Telle est notre “utopie réalisable”  (et, en partie, elle est déjà en voie de réalisation): construire un double axe géopolitique assurant la défense et la sécurité en Europe.

 

L’objectif, de fait, est de rendre la souveraineté aux Etats nationaux européens, qui ont été transformés, par les Anglo-Américains, en un chapelet de petites colonies satellisées. L’objectif, pour tous les peuples d’Europe, c’est de faire converger leurs forces, de les additionner et de les joindre à celles de la Russie, l’unique Etat national européen encore capable de donner à notre “plus grande patrie” un avenir dans l’unité sur tous les plans: culturel, social, économique et politique.

 

En dépit de toutes les vicissitudes, et même des vicissitudes négatives, jour après jour, année après année, notre vision commune s’est renforcée et n’a cessé de se renforcer en Europe. Notre voix, celle de “Rinascita”, n’est plus une voix qui crie dans le désert, mais une voix qui a suscité, en dehors de son vivier d’origine, un écho tangible et des analyses similaires, désormais partagées par de nombreux cercles et personnalités.

 

De l’effondrement du Mur de Berlin à nos jours, l’histoire européenne a enregistré et subi des offensives répétées contre son territoire. Par le miroir aux alouettes du bien-être occidental ou par les armes de l’OTAN, les fédérations des Etats d’Europe orientale, soit l’URSS et l’ex-Yougoslavie, ont été brisées, émiettées et fragmentées par l’offensive anglo-américaine et néo-libérale, agissant souvent par le biais de “révolutions oranges”, financées par des fonds issus de l’usure et de la finance.

 

Actuellement, les “fondations” et les groupes de pression occidentaux (Rockefeller, Agnelli, Trilatérale, Davos et autres) ont juré de détruire tous les Etats nationaux et tous les systèmes de protection sociale qu’ils ont mis sur pied, en faisant miroiter les délices d’un “fédéralisme” composé d’autonomies régionales, alors que leur objectif réel est tout entier contenu dans le vieil adage latin “Divide et impera” (“Diviser pour régner”), à appliquer, cette fois, à tout le globe, par ceux qui détiennent le maximum de pouvoir sur les plans politique et économique.

 

Mais voilà que l’attaque en direction du coeur de la Russie, attaque qui était censée constituer la manoeuvre principale dans la conquête définitive de l’Europe, vient d’échouer.

 

Le Kremlin a repris les rênes du pouvoir en ses terres propres. Il a utilisé les mêmes armes que les puissances atlantiques, le pétrole et l’énergie, mais sans avoir eu besoin, pour ce faire, d’envahir d’autres pays et de les occuper. Ainsi, le Kremlin est revenu à un “status quo ante” qui hisse à nouveau la Russie au rang de puissance planétaire et non plus régionale.

 

Pour le bien commun de toutes nos terres européennes, pour le bien de l’humanité toute entière, il faut qu’échoue la stratégie mondialiste qui, sous les oripeaux de la “globalisation économique” et sous la bannière du “libre marché”, cherche en réalité à imposer à toutes les nations la domination unipolaire des Anglo-Américains, orchestrée par la haute finance.

 

L’enjeu est énorme, extrême. Tellement extrême que, depuis 2001, Washington, prévoyant, pour sa puissance, l’émergence imminente de vents prochains très défavorables, a fait battre ses tambours de guerre, partout dans le monde.

 

Ces tambours, il faut les faire taire. Notre tâche, à nous Italiens, est de travailler à l’alliance méditerranéenne/continentale, à l’Axe qui nous unira à Moscou.

 

Ugo GAUDENZI.

(éditorial de “Rinascita”, Rome, 13 août 2008; trad. franç.: Robert Steuckers).

 

mardi, 22 juillet 2008

Hérodote n°129: Stratégies américaines aux marges de la Russie!

A lire impérativement !

Le nouveau numéro d'HERODOTE, la revue fondée par le géopolitologue français Yves Lacoste.

N°129: Stratégies américaines aux marges de la Russie

Pour comprendre les mécanismes des "révolutions de couleur", téléguidées par la Fondation Soros, nouvelle technique d'encerclement et d'affaiblissement de la puissance qui tient la "Terre du Milieu" !

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